Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come Vittorio Feltri.
Le oche starnazzanti.
La Questione Settentrionale.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
Il Sud Sbancato.
La Televisione che attacca il Sud.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti.
Un mondo di confini spinati.
Quei razzisti come i Sammarinesi.
Quei razzisti come gli Svedesi.
Quei razzisti come i Norvegesi.
Quei razzisti come i Danesi.
Quei razzisti come i Tedeschi.
Quei razzisti come gli Spagnoli.
Quei razzisti come gli Svizzeri.
Quei razzisti come i Francesi.
Quei razzisti dei Paesi Bassi.
Quei razzisti come i Belgi.
Quei razzisti come gli Ungheresi.
Quei razzisti come i Rumeni.
Quei razzisti come i Kosovari.
Quei razzisti come i Greci.
Quei razzisti come i Giapponesi.
Quei razzisti come i Cinesi.
Quei razzisti come i Vietnamiti.
Quei razzisti come i Nord Coreani.
Quei razzisti come i Russi.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come gli Argentini.
Quei razzisti come i Cubani.
Quei razzisti come gli Austriaci.
Quei razzisti come i Turchi.
Quei razzisti come gli Israeliani.
Quei razzisti come i Libanesi.
Quei razzisti come gli Iraniani.
Quei razzisti come gli Arabi.
Quei razzisti come i Dubaiani.
Quei razzisti come i Qatarioti.
Quei razzisti come i Brasiliani.
Quei razzisti come gli Inglesi.
Quei razzisti come gli Statunitensi.
Quei razzisti come gli Australiani.
Quei razzisti come i Sudafricani.
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Genocidi dimenticati: Gli zingari.
Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.
Il genocidio silenzioso dei Dogon.
Shoah ed Antisemitismo.
Paragonare le foibe alla Shoah?
Il Giorno del Ricordo.
Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.
Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Immigrazione ed emigrazione.
Espatriati. In Fuga dall’Italia.
Il trattato di Dublino, spiegato.
La Sanatoria dell’Invasione.
Quelli che…lo Ius Soli.
La Cittadinanza col Trucco.
Il Soggiorno col trucco.
L’Africa pignorata.
La Tratta dei Profughi.
Porti Aperti.
Gli affari dell’accoglienza.
Morire di Accoglienza.
I famelici…
Lo Scuolabus dell’integrazione.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli…che Porti Chiusi.
Le “altre Lampedusa”.
Le Colpe in Libia.
Le colpe in Tunisia.
Le colpe in Algeria.
Le colpe in Siria.
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti.
Vittorio Feltri su Indro Montanelli: "I teppisti che lo attaccano tacciono sulla bimba di Maometto". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. Non mi sorprende che la polemica su Indro Montanelli non finisca più sui giornali e in televisione. Semmai stupisce che sia iniziata ad opera di alcuni teppisti che hanno deturpato la statua dedicata al grande giornalista. Cui si rimproverano fatti avvenuti circa 75 anni orsono. Vogliamo almeno dire che per dare il via alle accuse rivolte allo scrittore principe i suoi nemici non sono stati molto tempestivi? Si sa da sempre, per sua stessa ammissione, che Montanelli, ufficiale spedito in Africa, ebbe laggiù un matrimonio con una ragazzina acquistata sul mercato delle spose, secondo i costumi locali, dalla quale ebbe addirittura un figlio, il che dimostra che lei, nonostante l'età, non era proprio una bambina, essendo già pronta a concepire e a partorire. Intendiamoci, io, che nel Continente nero sono stato una volta per lavoro e non ebbi tempo per distrazioni sessuali, non mi sarei mai accoppiato con una fanciulla poiché ciò mi fa orrore. Ma non afferro per quale motivo vari cretinetti si siano accorti soltanto ora che Indro ebbe l'orrenda esperienza, benché egli ne avesse dato spontaneamente notizia allorché era in vita. Il fatto è che processare i morti non è una operazione apprezzabile, anche perché le salme non hanno facoltà di difendersi pertanto chiunque le può impunemente insultare. Mi pare che su questo punto non ci sia da discutere, i defunti vanno lasciati in pace, non sono in grado di reagire. E invece assistiamo a una aggressione a Indro, violenta come gli attacchi che egli ricevette allorché fondò e diresse per un ventennio il Giornale, il foglio più anticonformista del secolo scorso, ostile alle mode ideologiche dell'epoca, odiato dalla sinistra al punto che essa si accanì su Montanelli dipingendolo come un orco. La musica cambiò quando questi lasciò la sua creatura cartacea in contrasto con Silvio Berlusconi. All'improvviso i progressisti adottarono Indro e lo trasformarono in una propria icona. Un brusco quanto ridicolo cambiamento di rotta. Questa è storia. Adesso che il Cavaliere è tramontato e Indro è stato sotterrato è ricominciato il bombardamento contro l'illustre penna e il suo monumento. I bombardieri hanno rivangato il passato remoto, attribuendo all'immenso cronista addirittura uno stupro che tale non fu. Si trattò di un pessimo esercizio in voga (tuttora) in Africa, detestabile fin che volete ma avvenuto in un contesto che non lo condannava. Tra l'altro nessuno ricorda che Maometto a sua volta si unì a una bimba non ancora adolescente, imitato poi dai suoi eredi islamici che nessuno deplora. Non è giusto prendersela con uno e assolvere tutti gli altri.
Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti. Marco Gervasoni, 20 giugno 2020 su Nicolaporro.it. Difficile dire guardandoli in volto, ma i primati che abbattono le statue in Usa e in Uk, e quelli che le imbrattano in Italia, una cultura l’hanno. Certo, nel senso in cui gli antropologi ne parlano quando studiano gli aborigeni o le popolazioni della foresta amazzonica. Anche se, più che una cultura, la definirei una ideologia. Essendo movimenti a pulsione nichilistica, l’ideologia vi assume un carattere fondamentale – come ha insegnato Dostojevski, meno credi e più diventi fanatico di una religione terrena e secolarizzata, appunto l’ideologia. E allora andiamo a cercare da dove essa provenga Diversamente da quella comunista, nata dalle lotte operaie e contadine, questa dei vari movimenti ispirati a Black lives matter è un puro prodotto delle università e non ha alcun nesso con il mondo reale – neppure quello delle comunità afroamericane. In Europa è una semplice imitazione degli Usa – uno dei tanti fenomeni di americanizzazione – ma l’ideologia dei campus americani a sua volta proviene dall’Europa, e precisamente dalla Francia. È quella che viene chiamata French Theory e che entrò nelle Università americane a partire dagli anni Settanta. I suoi autori erano in larga parte francesi – Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Jacques Lacan – e vennero a rinnovare un marxismo universitario esangue. L’estrema sinistra se ne cibò subito anche se per somma ironia i maestri filosofici della French Theory erano Nietzsche e Heidegger, due pensatori solidamente di «destra». I campus americani hanno trasformato questa French theory in una ideologia anti-occidentale: secondo loro tutta o quasi la cultura europea e nord americane è da condannare in quanto figlia della dominazione patriarcale, sessista, colonialista e razzista. La teoria francese è poi ritornata in Europa, e anche nella stessa Francia, dove ha preso il nome di «indigenismo» e «razzialismo», e gli atenei sono diventati luoghi di diffusione di questo nuovo terrorismo «intellettuale». Anche se a ben vedere questi movimenti non perseguono una politica ma solo moralismo ed è per questo che sfrogolano nella vita privata dei personaggi storici di cui vogliono cancellare la memoria: nella loro visione primitiva (da primate) il privato è politica. Ebbene, adottiamo per un momento lo stesso schema e scorriamo in una serie di flash gli eroi dell’indigenismo e del razzialismo «anti razzista» per vedere se essi rispettano i rigidi canoni anti-patriarcali, anti-sessisti, anti-colonialisti, anti occidentali. Cominciando da Marx. Anche se i BLM non sono marxisti perché Marx è troppo difficile da leggere per loro, resta comunque una figurina del loro album. E qui cominciamo male. Marx trattava più o meno da schiava la moglie, che pur adorava, esercitava un controllo ferreo sulle figlie, possedeva insomma una mentalità vittoriana, tranne che nei confronti della cameriera, ingravidata senza riconoscere i figli. Mmmm, proviamo allora sul versante anti razzista e anti colonialista. Anche qui non va bene. Marx era un grande sostenitore del colonialismo e, come quasi tutti i marxisti dei decenni successivi, pensava che il compito dei paesi europei fosse di civilizzare gli africani e gli asiatici. Nelle sue cronache sulla guerra civile americana usò parole di fuoco contro l’ipocrisia dei Nordisti. Teoria, si dirà. Ma quando la figlia portò a casa il fidanzato, Paul Lafargue, poi uno dei più importanti marxisti francesi di quel periodo, nato da famiglia creola a Cuba, quindi non certamente «nero», lo trattò freddamente e la sera scrisse una lettera al suo amico e sodale e finanziatore Engels in cui fece capire di non apprezzare l’etnia del giovane; anche se poi vi si affezionò – e comunque anche la coppia di sposini fu mantenuta, come Marx, dal solito generoso Engels. Insomma, ci sarebbe materia per una bella sverniciatura, di rosso ovvio, sulla tomba di Marx a Hyde Park. Ma si dirà, l’Ottocento. Va bene e allora veniamo in tempi già recenti. Il teorico della negritudine, Jean Paul Sartre, era stato vagamente neutrale nella Parigi occupata dai nazisti, dove si rappresentavano regolarmente le sue opere teatrali, tradiva ripetutamente la compagna, Simone De Beauvoir, anche con la sorella di lei. Non risparmiava di raccontare a Simone le sue diverse conquiste, che lei riportava sarcasticamente nel lettere agli amici: «siate fiero di Sartre. Ha deciso che una Algerina neretta , una vera bionda e due false non gli bastano, Cosa gli mancava? Una rossa. L’ha trovata» Un Don Giovanni però un po’ freddo come amante ma soprattutto ossessionato dalla paura di essere omosessuale, anzi un «pederasta» come scriveva lui stesso. Certo, dal nostro punto di vista il dolo più grande di Sartre consiste nell’aver cercato di spacciare i gulag per una menzogna borghese, ma certo per gli «anti razzisti» non sarà un peccato, anche se nei gulag comunisti ci finirono anche gli omosessuali e gli ebrei, cosi per dire. Invece un sodale di Sartre, lo psicologo Frantz Fanon, francese martinico, diventò collaboratore del Fronte di Liberazione dell’Algeria e dei suoi sanguinari attentati terroristici; ma soprattutto, fu un grande sostenitore dell’Islam, non esattamente una religione che predica la lotta al patriarcato. Così come islamico era Malcolm X, uno degli eroi dei Blm: non era islamico invece Martin Luther King, in compenso, secondo i rapporti della Cia, era ossessionato dal sesso, partecipava ad orge e il suo tipo di approccio alle donne oggi non supererebbe la prova del Me too o, se vogliamo stare in Italia, di Non una di meno – ma neanche quella del codice penale per i reati di violenza sessuale. La stessa fascinazione per l’islam, nelle sue forme radicali, colse il massimo pensatore della French Theory, Michel Foucault, affascinato dalla rivoluzione islamica iraniana e dalla conseguente rimessa in riga delle donne, che invece nell’Iran dello Scia potevano circolare in mini gonna. Ma il vizietto del filosofo era ancora più grave, immaginiamo dal punto di vista dei nostri indigenti all’amatriciana, e questa volta anche nostro: teorizzava la pedofilia. Montanelli si è sposato con una ragazza etiope di 14 anni, secondo le leggi e gli usi locali. Foucault, invece, nel 1977, firmò una petizione rivolta al Parlamento francese in cui chiedeva di togliere il limite d’età per i rapporti sessuali, e anche il sesso con una bambina (anzi, dal suo punto di vista, con un bambino) di sei anni avrebbe dovuto essere consentito: andava riconosciuto, come scriveva la petizione «il diritto del bambino e dell’adolescente a intrattenere relazioni sessuali con persone a sua scelta». Anche perché, come disse nel 1982 il leader del sessantotto francese, a lungo eurodeputato verde, Daniel Cohn-Bendit in una trasmissione della tv francese di grande successo (il video agghiacciante si può vedere ancora in rete) «la sessualità di un bambino è fantastica». Dani il Rosso, che certo oggi starà dalle parte degli indigenisdi, non firmò quella petizione, ma lo fecero, tra gli altri, Roland Barthes, il grande teorico e critico letterario, un altro dei maestri della French theory, Gilles Deleuze e il suo amico e co-autore Felix Guattari, Jack Lang poi ministro della cultura di Mitterrand, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, (rieccoli) il nouveau philosophe André Glucksmann. Sempre nel 1977, i medesimi pubblicarono su Le Monde una appello in difesa di tre francesi condannati per aver avuto rapporti omosessuali con una ragazza di 13 anni. A 13 anni, scrivevano Foucault, Deleuze, Barthes, Guattari e gli altri,«si è già di fatto una donna». Un anno in meno della sposa etiope di Montanelli. Ma se sei Foucault, o magari Pasolini, cacciato dal Partito comunista friulano per aver intrattenuto rapporti con i minori, almeno secondo l’accusa, te lo puoi permettere, e anzi lo puoi teorizzare. Invece se to chiami Montanelli, devi finire nella polvere. Marco Gervasoni, 20 giugno 2020
· Un mondo di confini spinati.
Italiani Razzisti? Antonio Angelini il 6 maggio 2020 su Il Giornale. Ospito per la seconda volta nel mio blog, un fisico che lavora per lo Stato. In un settore particolare e che vuole mantenere l’ anonimato. Si è occupato anche di immigrazione. Nel precedente incontro abbiamo imparato una cosa importante: la Scienza, ovvero il metodo scientifico, come ogni disciplina umana, non può darci risposte assolute ed univoche in ogni campo, ma è in grado, in ogni settore delle attività umane, di dare importanti indicazioni sulle scelte da fare e, aggiungiamo qui, è anche l’unico modo corretto per poter fare delle scelte. Logica e deduzione. Ora cerchiamo di rendere più chiaro in che modo la logica e la deduzione possono consentire al cittadino comune di muoversi nel mare di notizie, contro notizie, informazioni e tutto ed il contrario di tutto e cercare di astrarre da questo magma “l’essenziale” in modo da farsi una idea più corretta di ciò che può esser “vero” e ciò che non lo è certamente. Evitiamo di fare riferimento alle indicazioni su come minimizzare l’impatto delle “fake news” sui social network ovvero, ad esempio, utilizzare solo siti o fonti di informazione certificati; diciamo che questo è dato per scontato. Tuttavia, come noto, anche da fonti ufficiali noi siamo bombardati quotidianamente da pareri autorevoli che dicono tutto ed il contrario di tutto, ad iniziare dalla politica, passando per l’economia e persino in ambito scientifico. Pertanto qui ci troviamo in un passaggio successivo in cui certamente le informazioni che vogliamo analizzare non ci vengono da siti del tipo “complottisti.org” etc. ma da fonti ufficiali (agenzie di stampa e telegiornali). Il processo logico deduttivo deve partire da un presupposto non derogabile, ovvero chiarire il fatto, cioè stabilire con certezza cosa sia avvenuto senza condizionamenti da parte di chi ha già effettuato una sua analisi ed espresso una sua valutazione. Quando accertare i fatti non è possibile, per qualsiasi ragione, occorre considerare in ogni caso quel che viene rappresentato come un fatto e sulla base di esso iniziare il processo logico deduttivo. Se il processo analitico sarà corretto, emergerà in ogni caso che il “fatto” di riferimento fosse effettivamente quello oppure no, perché non vi sarà alla fine un collegamento logico continuo, ovvero una “coerenza” tra l’ipotesi e la tesi. Non è un caso che venga usato il termine “processo” analitico avendo noi fatto riferimento ad argomenti forensi nel precedente incontro; questo perché comprendere la dinamica di un evento di qualunque genere è un passaggio logico di conseguenze, da un fatto ad un altro fatto, che è esattamente quello che viene messo in pratica dai giudici e dalla giuria (comuni cittadini) quando si deve decidere la responsabilità in un processo penale. Ultima considerazione prima di entrare nel merito: è corretto che il comune cittadino possa e debba farsi una propria idea su ciò che accade intorno a noi senza condizionamenti esterni, ma è implicito che devono esistere dei punti fermi dai quali non si può derogare, ovvero dei punti dove secoli di storia, di conoscenza e di evidenze hanno ormai stabilito come “veri”. Elencare tutti i punti fermi non è possibile ne in questa ne in altre sedi, ma per evitare pericolose derive stabiliamo qui una volta per tutte che: la terra non è piatta, è tonda e che le scie chimiche non esistono!
Quante volte negli ultimi anni abbiamo sentito dire “gli italiani sono razzisti”? Si intende per razzismo la arbitraria persecuzione di intere popolazioni sulla base di concetti astratti e senza ovviamente alcuna giustificazione scientifica (a prescindere dal fatto che, come in tutte le specie animali, la razza non discrimina in alcun modo un essere umano da un altro). Nel nostro paese oramai si associa il termine razzismo alle leggi razziali, vergognose, del 1938, come se nel mondo non esistesse altro che questo e che la storia delle terribili persecuzioni nel mondo fosse tutta concentrata in quella data.
Allora il quesito a cui vorremmo rispondere è: l’Italiano, o una parte del popolo italiano, è razzista? Il dibattito politico degli ultimi tre anni si è praticamente fossilizzato su questo tema per via dell’immigrazione clandestina e per l’appartenenza o meno alla Unione Europea. Si tende addirittura ad identificare i termini “sovranista” e “razzista” utilizzando sillogismi e dati di varia natura. Il cittadino comune che ascolta il dibattito, che sente elencare dati, numeri in un senso ed in un altro a chi deve credere? Che idea si può fare sulla base di quanto viene quotidianamente detto da esponenti politici ed organi istituzionali nazionali ed internazionali?
Proviamo in questo incontro a dar seguito a quanto detto nell’incontro precedente, ovvero l’utilizzo del metodo scientifico, logica e deduzione, per farci una idea su come effettivamente stanno le cose. Non elencheremo dati su “indici” stimati da organizzazioni non governative o da organizzazioni internazionali, perché tali dati vengono elaborati a monte e forniti al pubblico successivamente, ed inoltre non tutti sono in grado di accedere ad essi. Restiamo su un livello di informazione più basico, ovvero dati storici. Intanto va ricordato che lo “schiavismo”, dopo l’impero Romano (ed in quell’epoca schiavizzare i popoli vinti era prassi comune), nell’era moderna è stato introdotto dapprima dal mondo arabo e successivamente dall’impero ottomano. I primi a commerciare gli schiavi furono proprio questi due popoli, o etnie, che per secoli schiavizzarono intere popolazioni di colore dell’africa centrale. Ma qui siamo ad un livello di storia di molto antecedente a quello che di fatto influenza ancora oggi il comune pensiero. Si è assunto che una parte del popolo italiano è razzista per via delle vergognose leggi razziali stabilite dal Fascismo nel 1938 e per via dell’Impero coloniale. E’ opinione comune che il popolo italiano sia stato liberato da un giogo tirannico razzista, grazie all’intervento di popoli liberi e democratici.
Ma questi popoli erano così liberi e democratici?
Tutti sanno chi è Rosa Park, e tutti sanno chi è Martin Luther King. Senza entrare troppo nei dettagli è un fatto che in alcuni stati degli U.S.A. leggi di segregazione razziale fossero ancora in vigore fino al 1970 (!!!).
L’India si rese indipendente dall’Inghilterra nel 1947. E in India, ufficialmente fino al 1950, esisteva una segregazione in caste nella popolazione.
L’Algeria si rese indipendente dalla Francia, dopo una sanguinosa rivolta, inizialmente ferocemente repressa dall’esercito francese, nel 1962.
31 paesi membri dell’ONU non riconoscono, oggi, Israele come stato sovrano per una ragione etnico religiosa, tra di essi paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, L’Algeria, il Marocco, l’Iran, la Tunisia etc.
Nel 1994 in Ruanda fu compiuto un massacro etnico che causò la morte di quasi un milione di persone.
Tra il 1991 ed il 2001 nei paesi balcanici vi fu una feroce guerra che causò genocidi etnici riconosciuti dall’ONU.
La Turchia perseguitò nel 1916, ed ancora oggi, anche se solo politicamente, sia popolazioni armene che curde.
Se volessimo risalire più indietro nel tempo, indietro rispetto ai giorni nostri, ma non tanto più indietro rispetto a quando nel 1938 furono emanate le famigerate e vergognose leggi razziali in Italia, scopriremmo che solo 50 anni prima del fascismo negli USA erano in vigore leggi che relegavano in schiavitù (schiavitù…..altro che razzismo) popolazioni di origini africane. Notoriamente ancora negli anni 50 (1950/1960) chi non ricorda quei bellissimi film western in cui i “pellerossa” venivano descritti come dei selvaggi da sconfiggere, mentre nel frattempo l’intera popolazione nativa americana viveva in riserve, segregata, dopo essere stata massacrata dall’esercito degli USA, una repubblica democratica, alla fine dell’800 (1876 l’uccisione del Generale Custer nella “guerra” contro i Sioux…. Solo 46 anni prima del fascismo).
In Unione Sovietica negli anni 30 furono perseguitati non solo opponenti politici, ma come noto cittadini di origine ebraica (non è un caso che una importante quota di popolazione di Israele sia di origine Russa e, per restare a citazioni accessibili a chiunque, persino nel favoloso film “Schindler’s list” icona dell’olocausto, il soldato dell’Armata Rossa sconsiglia il gruppo di sopravvissuti appena liberati dal lager, di andare ad est, dove non sarebbero stati benvoluti…citazione tutt’altro che irrilevante).
Ovviamente non facciamo riferimento alla Germania Nazista o alle persecuzioni nei confronti del popolo cinese da parte delle forze Imperiali Giapponesi alla fine degli anni 30, perché sono fatti arcinoti.
L’elenco potrebbe essere ancora più lungo, eppure…eppure nel nostro paese l’aver aderito a leggi razziali, di fatto dal 1938 al 1943, l’aver avuto tre stati sovrani ridotti a colonia (due in effetti, la Libia fu “presa” alla Turchia nella guerra Italo-Turca del 1911) per poco più di un ventennio, ha spostato completamente l’attenzione da fatti clamorosi e altrettanto terribili compiuti ad opera di praticamente tutta la popolazione mondiale di matrice razzista, etnica o religiosa.
Solo basandosi su questo piccolo elenco di fatti storici accertati ed indiscutibili, il cittadino comune alla domanda se il popolo italiano abbia una indole razzista come dovrebbe rispondere?
I fatti dicono che praticamente tutta la popolazione mondiale ha perseguitato, ucciso o discriminato altri esseri umani, per ragioni di etnia, di religione o politiche negli ultimi 150 anni (grosso modo gli anni di vita della Nazione “Italia”). Molti dei paesi che hanno combattuto il nazifascismo, in quegli stessi anni avevano in vigore leggi razziali, o prevaricavano popolazioni colonizzate ed hanno successivamente operato in senso razzista contro altre popolazioni umane. Non è pertanto corretto come “logica” conseguenza affermare che parte della popolazione italiana abbia una indole razzista superiore alla media di tutti gli altri popoli. In effetti è tutt’altro che cosi.
Si potrebbe concludere che è stato il fascismo ad aver portato il razzismo in Italia?
Il fascismo è stato in vigore dal 1922 al 1943, le leggi razziali promulgate nel 1938, sono pertanto restate in vigore per 7 anni (considerando i due anni di guerra civile successive all’armistizio). Se osserviamo la nascita della Democrazia Statunitense, essa risale al 1776 con leggi razziali ancora in vigore, seppur infinitamente più miti rispetto al passato, fino al 1970, ovvero quasi 200 anni di leggi razziali, passate prima per leggi schiaviste. Dobbiamo concludere da questo che la democrazia è portatrice di razzismo?
Le risposte sono NO ad entrambi i quesiti. Il razzismo, cosi come è stato definito all’inizio, è qualcosa che ha fatto parte del sistema sociale di tutto il mondo per moltissimi anni, per secoli, e con l’evoluzione del pensiero, anche grazie al risultato del secondo conflitto mondiale, è sparito. Restano ovviamente mentalità razziste in alcuni singoli individui e in molti stati che ancora devono fare i conti con l’evoluzione sociale e del pensiero. Queste non sono considerazioni filosofiche, ma di logica conseguenza dei fatti storici ineluttabili elencati, che ciascun comune cittadino può semplicemente valutare.
Perché allora nel nostro paese si da tanto risalto ad un pericolo razzista e fascista ed alla liberazione avvenuta ad opera di paesi, che in ogni caso avevano leggi o atteggiamenti razzisti o mentalità colonialiste? E perché tale tema emerge in ogni situazione in cui si parla di immigrazione incontrollata o libera e Unione Europea, addirittura associando il termine “sovranismo” al “razzismo”? Discuteremo di questo nei prossimi incontri.
L’uomo che conta i chiodi dei fili spinati nei confini tra Paesi. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Roberta Scorranese.
Berta, quante sono «le spine» che ha contato finora?
«Sa che ho perso il conto? Sono in viaggio dal giugno dell’anno scorso, ho incontrato migliaia di persone, ne ho coinvolte a centinaia in questo progetto e alla fine, più che il conteggio delle spine, quello che resta è lo sgomento. Lo sgomento nel vedere quanto siamo ancora divisi, quanto vivi siano ancora i sentimenti nazionalisti». Questa storia comincia nel 2015, quando Berta — artista bergamasco — comincia a pensare ad un progetto che illustri le divisioni internazionali. Da tempo riflette sulle tensioni nate dai confini, ma un’idea come quella che sta portando avanti da giugno è un’idea complessa, anche costosa. La svolta è arrivata con il premio ricevuto alla V Edizione dell’Italian Council, quindi con il sostegno di Nomas Foundation di Roma come ente promotore e della GAMeC di Bergamo. È nato così «One by One», un viaggio attraverso Slovenia, Croazia, Macedonia, Turchia e molti altri Paesi del Mediterraneo e dell’Europa dell’Est. Un work in progress che si tradurrà prima in un video (la presentazione è prevista nell’aprile del 2020) e poi in una mostra che debutterà alla Nomas Foundation e alla Prometeo Gallery di Milano.
Un «viaggio collettivo», potremmo definirlo così?
«Sì, perché io e la mia troupe arriviamo in un posto dove esiste un confine segnato da un filo spinato, prendiamo contatti con la gente del posto, con le associazioni e con le istituzioni. E poi chiamiamo tutti a contare le spine dei fili di divisione. Grandi e piccoli, uomini e donne, ciascuno con la propria storia, perché il vero cuore del progetto sono le vicende umane».
Ha coinvolto anche i bambini?
«Certamente. Anzi, nel video si vedrà la scena commovente di una bambina che al momento sa contare solo fino a cinquanta e forse non si rende conto del fatto che davanti a lei ci sono centinaia di spine. Ma ho incrociato le vite di tante persone».
Per esempio?
Per esempio, in Slovenia, ho conosciuto un contadino che dall’oggi al domani si è visto il terreno di proprietà diviso in due dal confine con il filo spinato. Ma lui non è mai ricorso a toni da tragedia, anzi: mi ha raccontato che gli hanno permesso di praticare un foro nella rete e così lui passa da una porzione all’altra del terreno per poterlo coltivare».
Un viaggio, il suo, che sta toccando numerose zone «calde» per la situazione geopolitica attuale.
«Sì, penso per esempio alla Turchia: lì è quasi impossibile avvicinarsi ai confini e portare avanti un progetto del genere. Gli stessi poliziotti di frontiera avrebbero rischiato se ci avessero aiutato. In Macedonia le stesse forze dell’ordine ci hanno confidato che a loro fa male dover respingere i migranti. Ma ci sono barriere invisibili che affiorano solo attraverso le persone: per esempio in un piccolo villaggio bulgaro al confine con la Turchia ho incontrato un cantante lirico che mi ha mostrato l’elenco delle canzoni “permesse” dal Governo».
Tra le comunità che lei ha incontrato (e coinvolto nel progetto) ha riscontrato sentimenti di condiscendenza a queste politiche divisive o piuttosto una ribellione?
«Molti si ribellano ai fili spinati, tante associazioni organizzano presidi o manifestazioni pacifiche. Per esempio tra Croazia e Slovenia è stato segnato un confine con il filo e c’è un simbolo importante come il ponte di Slavski Laz che sta cambiando volto: un tempo era detto “il ponte degli innamorati” perché era qui che uomini e donne appartenenti ad entrambi i territori si incontravano e spesso nascevano matrimoni “misti”. Oggi quel ponte è circondato da filo spinato».
La prossima tappa sarà il Messico?
«Sì, una delle zone simbolo dei cosiddetti “muri moderni”. Ma vorrei andare anche nella Corea del Sud e a Cipro».
· Quei razzisti come i Sammarinesi.
San Marino, in una notte fatti fuori i vertici della magistratura. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Agosto 2020. San Marino va presa sempre molto sul serio. È la lezione che lascia Piero Calamandrei, che, insieme ad altri autorevolissimi giuristi italiani, nell’ultimo secolo e mezzo offrì la propria scienza svolgendo incarichi presso la Repubblica del Titano. Giovanni Guzzetta è tra questi giuristi, e dopo aver rivestito il ruolo di componente e presidente della Corte Costituzionale di quel paese è stato chiamato a dirigere il Tribunale. Quando, improvvisamente, sul Monte Titano il maglietto della giustizia si è abbattuto come una furia sulla giurisdizione che doveva rappresentare. E in una notte, il 24 luglio scorso, il Consiglio giudiziario si è riunito – con una composizione parziale e contestata, dovuta a una legge retroattive approvata in febbraio – per destituire una serie di figure. Il Consiglio giudiziario è convocato alla presenza di soli 12 esponenti su 23. Diverse modifiche recentissime hanno variato la sua composizione – forse non a caso – e le nuove norme sono retroattive. Sono membri dell’organismo, oltre ai giudici, anche deputati di maggioranza e opposizione. E la notte del 24 luglio avviene un po’ di tutto. Tra le decisioni esiziali, quella sera, una che non era nemmeno all’ordine del giorno: l’annullamento della revoca dell’incarico di presidente del Tribunale per Valeria Pierfelici, risalente a due anni e mezzo fa: e Pierfelici si ritrova così, di punto in bianco, a riprendere lo scranno che era di Guzzetta. Una manovra voluta e attuata dai tre partiti che compongono la maggioranza di governo sanmarinese: Dc, Rete e Motus Liberi. Votano in dieci (7 politici e 3 giudici), si astengono in 2: passano le modifiche. In altre parole: l’organo di autogoverno della magistratura sanmarinese assume una decisione senza che di fatto i giudici votino. Strano? Sì, ma non è tutto. Sentite questa: la neo presidente Pierfelici rimane in carica solo qualche minuto. Giusto il tempo di approvare alcune modifiche organizzative di peso per poi dimettersi lasciando vacante il posto. Un intervento ruvido della politica nell’amministrazione della giustizia che secondo alcune fonti non avviene per caso. E in effetti non sono pochi gli interventi operati in fretta e furia: è stato azzerato il pool di magistrati che ha indagato sul “Conto Mazzini”, uno degli scandali più clamorosi sul Titano che ha portato alla luce milioni di euro di tangenti e coinvolto ex ministri e Capi di Stato. Via il capo, Buriani, via Di Bona. Quelli che in questi anni si sono occupati delle indagini sui vertici storici della Democrazia Cristiana e del partito socialista di San Marino. «La politica entra molto pesantemente con questa commistione nella vita giudiziaria e il presidio di legalità della magistratura ne esce minacciato, con le conseguenze di una lesione allo Stato di diritto», dichiara il costituzionalista Giovanni Guzzetta, esautorato di peso dalla Presidenza del Tribunale di San Marino. «È stato un colpo di mano del sovranismo giudiziario, un sorta di tentazione autarchica, che tradisce la grandissima tradizione di rapporti con giuristi stranieri. C’è una prossimità comunitaria che mette insieme politica e giustizia senza far capire più dove finisce la prima e dove inizia la seconda». Ma neanche Guzzetta ha il quadro chiaro di quel che è avvenuto. «A dieci giorni da quella nottata, non sappiamo ancora quasi niente. Non sappiamo chi era presente, non ci sono riscontri sui nomi dei componenti dell’organo. E non ci sono i resoconti. Facciamo illazioni, in assenza di verbali. Quel che so è che mi è arrivata la comunicazione della cessazione dall’incarico, con l’annullamento della mia nomina senza che vi fosse alcuna motivazione in diritto dell’annullamento dell’incarico. E senza che l’argomento dell’annullamento della mia nomina fosse all’ordine del giorno di quella riunione”. Nominato un anno fa, il suo mandato era quinquennale, doveva durare fino al 2024. Un ambizioso programma di rinnovamento della macchina, con l’introduzione della telematica in tutti i procedimenti e la promozione di San Marino, che sta negoziando l’associazione alla Ue, come sede di un tribunale di giustizia europeo. E invece un colpo di mano giudiziario cancella tutto, in una notte avvolta nel mistero. «Avevo chiesto, essendo stato oggetto di tanti attacchi, che venisse messo in discussione il mio operato nel merito», aggiunge Guzzetta. «E invece niente». A Guzzetta non mancheranno comunque gli impegni, con le sue battaglie per le riforme, a Roma. Ad altri è andata peggio. Alberto Buriani, fino a poco fa a capo del pool che ha scoperchiato la tangentopoli nel Titano oggi si ritrova a occuparsi di incidenti stradali. La sua collega Laura Di Bona è passata al civile: tra i fascicoli che non seguirà più, un filone dell’indagine sul senatore leghista Armando Siri.
· Quei razzisti come gli Svedesi.
La Svezia aumenta le spese militari ed è sempre più vicina alla Nato. Paolo Mauri su Inside Over il 2 novembre 2020. La Svezia aumenterà le proprie spese militari del 40% e raddoppierà il numero annuale dei coscritti entro i prossimi cinque anni, ed il motivo è che Stoccolma teme l’aggressività di Mosca. Il governo svedese è stato proprio estremamente chiaro in merito il mese scorso, quando il ministro della Difesa, Peter Hultqvist, ha affermato che “abbiamo una situazione in cui la Russia è disposta a utilizzare mezzi militari per raggiungere obiettivi politici”, ha detto ai giornalisti “sulla base di ciò, abbiamo una nuova situazione di sicurezza geopolitica da affrontare”. Hultqvist avvisa che il nuovo piano di spesa prevede un aumento del budget militare di 27,5 miliardi di corone svedesi (3,1 miliardi di dollari) entro il 2025 che si accompagnerà ad un innalzamento del numero del personale militare sino a 90mila uomini (dagli attuali 60mila) attraverso il raddoppio della coscrizione. La Svezia, infatti, nel 2018 ha ristabilito il servizio militare anche se non a carattere universale: le nuove leve vengono infatti selezionate tra 19 mila unità dopo vari test psicologici e attitudinali sino a raggiungere il numero di 4mila effettivi. Il ritorno della leva obbligatoria, abolita nel 2010, nasce dal “cambiamento nel nostro vicinato…l’attività militare russa è una delle ragioni” come aveva riferito l’allora portavoce del Ministero della Difesa, Marinette Radebo, in occasione della decisione presa dal Governo di Stoccolma avvenuto a marzo del 2017. Il servizio dura 12 mesi con l’obiettivo di formare nuovi professionisti e di ingrossare le fila della riserva, struttura militare di importanza vitale per la Svezia. La riforma è stata specificata meglio dallo stesso Ministro Hultqvist che in quell’occasione disse “se vogliamo unità militari ben addestrate ed efficaci, il sistema di volontari necessita di essere accompagnato dal servizio di leva obbligatorio”. L’aumentata assertività russa ha quindi spinto la Svezia verso il riarmo: Stoccolma ha infatti già siglato un contratto con gli Stati Uniti per l’acquisizione dei missili da difesa aerea con capacità Abm (Anti Ballistic Missile) Mim-104 Patriot del valore di 1,3 miliardi di dollari nel 2018, proprio dopo averli visti “in azione” l’anno precedente durante un’esercitazione congiunta, Aurora 2017, a cui parteciparono Finlandia, Francia, Danimarca, Norvegia, Lituania, Estonia ed un nutrito contingente di militari statunitensi. In generale la Svezia prevede di rinnovare tutte le sue Forze Armate: la marina avrà un nuovo sottomarino e le sue corvette saranno aggiornate, mentre è già noto l’impegno svedese nel programma per il caccia di sesta generazione Tempest, a cui partecipa anche l’Italia. Stoccolma ha quindi cambiato dottrina militare provvedendo ad aggiornare i suoi piani di “neutralità armata” rispetto al recente passato. Già a partire dal settembre del 2016 ha pensato a ristabilire una presenza militare stabile nell’isola di Gotland, posizionata quasi al centro del Mar Baltico davanti alla Lettonia. L’isola era stata completamente “smilitarizzata” nel 2005 con il ritiro delle forze navali, di terra ed aeree che sino ad allora vi stazionavano in quanto considerata strategica dalla Svezia ma non solo: la sua particolare posizione geografica ne fa un obiettivo particolarmente ambito per chi volesse controllare la navigazione nel Mar Baltico e quindi gli accessi al Golfo di Finlandia ed al Golfo di Botnia, quest’ultimo “sorvegliato” anche dall’isola finlandese di Åland. Ma Gotland diventa anche un trampolino di lancio (o fornisce copertura) per un possibile attacco anfibio “alle spalle” verso i Paesi Baltici: l’ex Ministro della Difesa estone, Hain Rebas, ha infatti le idee molto chiare in merito, sottolineando come l’isola sia ritornata prepotentemente al centro degli interessi strategici dei Paesi che si affacciano sul Baltico. La Svezia quindi sta spostando sempre più il suo asse dalla neutralità armata verso gli Stati Uniti e la Nato proprio a causa dell’incremento dell’attività militare della Russia lungo i suoi confini e per via di alcuni sconfinamenti di sue unità navali: lo scorso 23 settembre due corvette sono penetrate nelle acque territoriali svedesi provocando la dura reazione di Stoccolma. Anche la crescente attività aerea russa ha contribuito a preoccupare il Paese scandinavo tanto da averlo portato verso l’implementazione di Nordefco, un trattato di cooperazione militare sottoscritto coi suoi vicini di casa Norvegia e Finlandia, che prevede tavoli di pianificazione strategica comuni e miglioramento delle capacità di interoperabilità. Già da qualche anno, infatti, la Svezia ha stretto legami con la Nato: nel 2014 abbandonò lo status di “Paese non allineato” per firmare un accordo di cooperazione militare con l’Alleanza; accordo che prevede la possibilità per la Nato di poter schierare le proprie truppe sul territorio svedese anche in tempo di pace oltre che in caso di crisi internazionale, che rappresenta il vero fattore destabilizzante in ottica russa. Mosca infatti ha reiterato più volte la propria ferma condanna in caso che Stoccolma entri nell’Alleanza Atlantica: il presidente russo Vladimir Putin ebbe a dire, nel 2017, che “se la Svezia aderirà alla Nato, influenzerà negativamente le nostre relazioni perché significherà che strutture della Nato saranno installate in Svezia, quindi dovremo pensare ai modi migliori per rispondere a questa ulteriore minaccia”. In particolare l’atteggiamento russo verso la Svezia passerebbe da una “fredda amicizia” ad uno “status di nemico”. A complicare i rapporti tra i due Paesi che condividono il Mar Baltico c’è anche il contesto storico: la Svezia e la Russia hanno un passato caratterizzato da guerre per l’egemonia su quel mare interno che portò Stoccolma a schierarsi, sciaguratamente, con Napoleone durante la sua campagna di conquista europea rivolta verso est. Pertanto, il ruolo della memoria storica svedese gioca un ruolo negli attuali dibattiti sulla Nato, in particolare il trauma della perdita dell’impero del Mar Baltico attraverso le varie guerre con la Russia che hanno visto i confini imperiali gradualmente ridotti verso quelli attuali. La Svezia, a differenza di altri Paesi dell’Est Europa, è forse l’unica su cui non ha influito granché l’annessione della Crimea e la questione in Donbass per quanto riguarda la percezione della minaccia russa: la preoccupazione di Stoccolma, infatti, è precedente e riguarda proprio l’attività militare russa, soprattutto navale (vedere “incidente” del sottomarino nel 2014), che ha dimostrato la sua maggiore aggressività rispetto a un decennio fa. In questa situazione di tensione anche i media svedesi stanno avendo la loro parte. La “stampa” tende ad essere filo-Nato ed è in atto una “info war” non tanto per demonizzare la Russia, quanto per guardare all’Alleanza come ad una polizza di assicurazione contro una possibile aggressione. L’adesione alla Nato quindi ricadrebbe in una strategia di sicurezza realistica, basata sul presupposto che la Svezia sia strategica per la Russia, che mirerebbe a prenderne il controllo. Esistono però voci critiche interne che si sollevano verso questa visione: alcuni analisti svedesi ritengono che proprio l’adesione alla Nato farà annoverare la Svezia tra i possibili obiettivi della Russia, stante il fatto che, attualmente, Mosca non avrebbe alcun interesse verso il Paese e avrebbe tutto l’interesse a che si mantenesse neutrale. L’opinione pubblica svedese sembra essere molto attenta alle dinamiche di questa questione: mentre nel 2001 il 49% degli intervistati pensava che fosse una cattiva idea entrare nell’Alleanza, nel 2012, la percentuale era scesa al 45%. Nello stesso tempo, il sostegno all’adesione alla Nato è aumentato dal 19% nel 2011 al 29% nel 2013. Dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014, circa il 50% degli intervistati svedesi pensava ancora che gli interessi della Svezia sarebbero stati meglio garantiti restando fuori dalla Nato (un aumento di 10 punti dal 2013), ma circa 1/3 era favorevole all’adesione. Come detto le questioni più “vicine” hanno influito molto più rispetto a teatri distanti come quelli ucraini: con la presunta incursione di un sottomarino russo nelle acque dell’arcipelago di Stoccolma nell’ottobre 2014, circa il 40% degli intervistati era diventato favorevole all’adesione all’alleanza facendo segnare il più alto livello di sostegno sino ad allora. Si sta quindi giocando una Information Warfare in Svezia, forse guidata dallo stesso governo di Stoccolma, ma sicuramente sostenuta anche dagli Stati Uniti e dall’Alleanza Atlantica, per arrivare ad una futura adesione alla Nato. Del resto l’attività russa, come quella occidentale, è aumentata nel Baltico e lungo le altre frontiere dal Grande Nord sino al Mar Nero, e il governo svedese non può far altro che cercare di rafforzarsi militarmente. Se possiamo considerare come vera l’affermazione che solo una eventuale adesione della Svezia alla Nato la catapulterebbe tra i “nemici” di Mosca, è altrettanto vero che il linguaggio diplomatico russo non è stato, e non è, affatto tranquillizzante: sconfinamenti, voli di pattugliamento, esercitazioni hanno messo in allarme Stoccolma proprio perché si vede chiamata in causa nonostante non faccia parte dell’Alleanza. Esiste forse un problema di “linguaggio”, ma è ipotizzabile che al Cremlino siano portati a pensare che la Svezia sia già una minaccia per la propria sfera di influenza, potendo, potenzialmente, chiudere gli accessi al Baltico, e pertanto, che entri nella Nato o meno, qualche anno fa si sia deciso di cambiare il proprio atteggiamento nei confronti del Paese scandinavo: una decisione che ha innescato una spirale di eventi che può essere fermata, ormai, solo se Mosca tornerà a non farsi percepire come una minaccia da Stoccolma.
Svezia, le associazioni islamiche chiedono di cambiare la costituzione. Roberto Vivaldelli il 14 settembre 2020 su Inside Over. Lo scorso 29 agosto, a Malmö, in Svezia, manifestanti islamici e antirazzisti hanno messo a ferro e fuoco la città dopo che alcuni sostenitori dell’estrema destra hanno bruciato un corano. Secondo quanto riportato dalla stampa svedese, il leader dell’estrema destra danese e di Stram Kurs, Rasmus Paludan, a cui è stato impedito entrare in Svezia per due anni, ha promosso nelle ultime settimane manifestazioni anti-islamiche a Stoccolma e in altre città svedesi dove vengono bruciate copie del Corano. Il 28 agosto, Paludan ha attraversato il confine per recarsi proprio a Malmö, ma alla stazione di Lernacken è stato accolto da un gran numero di agenti di polizia, che lo hanno obbligato a lasciare immediatamente il Paese. L’obiettivo di Paludan è chiaro: fermare l’islamizzazione del Paese. “L’obiettivo è fermare l’islamizzazione della Svezia. Tornare ai livelli di islamizzazione ai livelli degli anni Sessanta circa. Un milione di persone dovrebbe tornare nei Paesi musulmani di provenienza o convertirsi a qualcosa di diverso dall’islam. È chiaro che questo è l’obiettivo”, ha detto Paludan, promettendo di andare avanti fino a quando” ogni islamico “avrà lasciato la Svezia”. Dalla fine di agosto, il partito etno-nazionalista anti-islamico Hard Line ha bruciato diversi Corani in quelli che descrive come i “ghetti svedesi”, in particolare a Malmö, nel quartiere di Rosengård.
“Cambiamo la costituzione”. L’avvocato anti-islam danese non demorde. Sabato scorso, la polizia ha respinto la richiesta di indire una manifestazione presentata dal suo partito. Le autorità ritengono che esista il rischio che si verifichi una situazione che comporti “gravi minacce all’ordine e alla sicurezza pubblica”. Paludan scrive nella domanda che lo scopo è dimostrare per la libertà di espressione e “deridere e umiliare” l’islam. Ora le organizzazioni islamiche di Stoccolma, riporta il Dagens Nyhether, vogliono cambiare la costituzione svedese e vietare il fatto che si possa prendere di mira l’Islam e le altre religioni. “Non vogliamo che sia legale in Svezia bruciare sacre scritture come il Corano o la Bibbia e allo stesso tempo dovrebbe essere vietato deridere le varie religioni”, dice Hussein Farah Warsame. “Vogliamo un cambiamento nella politica,” sottolinea Abdulla Ali Abdi, della moschea di Tensta. Le manifestazioni anti-islam sono state condannate dall’arcivescovo Antje Jackelén. Come riportato dal quotidiano Expressen, in qualità di membro del Consiglio cristiano svedese, ha fortemente disapprovato le “violazioni consapevoli della fede delle persone”. “Bruciare libri è barbaro. Non ultimi libri che molti considerano sacri”, ha scritto il Consiglio in una dichiarazione, avvertendo che queste azioni “alimentano la polarizzazione tra le persone e contrastano gli sforzi di integrazione”. “Esprimiamo la nostra forte solidarietà ai credenti musulmani nel nostro Paese”, ha concluso.
Lo scontro di civiltà in Svezia. Estremismo etnico e razzismo da una parte, islamismo dall’altra: la Svezia fa i conti con una guerra culturale e di religione che sta minando le basi della normale convivenza, soprattutto nei quartieri più difficili. È (l’inevitabile) fallimento del modello multiculturale. Gli esempi di questa convivenza impossibile sono molti. Secondo una ricerca pubblicata dal giornale svedese Aftonbladet, le donne si sentirebbero particolarmente insicure e preoccupate per la loro incolumità in determinate zone del Paese. Si tratta dei quartieri dominati da immigrati, in special modo islamici. Sono le tristemente celebri “no-go area”, dove nemmeno la polizia può mettere piede. Come ha ammesso nel gennaio 2018 Dan Eliasson, capo della polizia nazionale svedese, “il numero delle no-go-area ha raggiunto un livello molto critico, sono salite da 55 a 61 in soli 12 mesi e rappresentano un attacco alla nostra società”. E la situazione è drasticamente peggiorata. Basti pensare al quartiere di Rinkeby, a Stoccolma, dove la percentuale di immigrati arriva al 90% della popolazione, e dove le donne – come ha ben documentato un’inchiesta di Katie Hopkins – hanno paura a uscire di casa per timore di essere stuprate o aggredite. Lo scorso 4 settembre, un ragazzo di 11 anni a Malmö è stato aggredito da una banda da alcuni sconosciuti che lo hanno definito un “maiale bastardo”. Motivo? Indossava un crocifisso. Nel mese di agosto, dei vandali hanno profanato la chiesa evangelica luterana sempre a Malmö per sette giorni consecutivi questo mese, rompendo finestre e demolendo una statua di Gesù. Il sogno del multiculturalismo è diventato un vero e proprio incubo.
Scontri a Malmo: ecco cosa è successo (davvero) in Svezia. Roberto Vivaldelli il 30 agosto 2020 su Inside Over. Nella serata di sabato, a Malmö, in Svezia, manifestanti islamici e antirazzisti hanno messo a ferro e fuoco la città dopo che alcuni sostenitori dell’estrema destra hanno bruciato un corano. Diversamente da quanto riportato da alcuni giornali di orientamento progressista (come La Repubblica), infatti, non sono stati gli “islamofobi” a scatenare il caos nella città del sud della Svezia ma i loro “antagonisti”. Certo, gli estremisti di destra si sono resi protagonisti di una provocazione molto grave e di un atto deprecabile, offensivo, ma non sono stati loro i protagonisti dei vandalismi, come erroneamente descritto da alcuni media liberal. Come riportato anche dal Daily Mail, infatti, i manifestanti islamici, circa 300, secondo quanto riferito dalla polizia, hanno lanciato pietre contro le forze dell’ordine mentre queste ultime cercavano di allentare le tensioni. Immagini drammatiche mostrano pneumatici bruciati, vetrine spaccate e una fitta coltre di fumo che si alza dalla città.
Corano bruciato: scontri con la polizia. Secondo quanto reso noto la polizia e riportato dall’agenzia Agi, tra i dieci e i venti manifestanti sono stati fermati prima di essere “tutti rilasciati”, come ha dichiarato il portavoce della polizia, Patric Fors. Diversi agenti sono rimasti feriti. Secondo la polizia citata dalla stampa locale, il Corano è stato bruciato da un gruppo legato al partito danese di estrema destra Stram Kurs (Linea dura). Il leader della di Stram Kurs, Rasmus Paludan, noto per le sue provocazioni anti-musulmane, venerdì doveva recarsi a Malmo per organizzare una manifestazione anti-islam in cui ha chiesto il rogo di un Corano ma le autorità gli hanno impedito di entrare in Svezia, spiegando che c’è il “rischio che il suo comportamento costituisca una minaccia per gli interessi fondamentali della società”. Il provvedimento, tuttavia, non ha fatto altro che peggiorare le cose quando molti dei suoi sostenitori hanno deciso di bruciare il corano. Da lì l’escalation di violenza. La rivolta è iniziata intorno alle 19:00 ed è continuata fino alle 3 del mattino. La polizia ha riferito a The Local che circa 13 persone saranno probabilmente accusate e che si stanno cercando alcune persone sospettate di aver incoraggiato i giovani manifestanti a condurre atti violenti. “Fa male”, ha spiegato sabato alla tv svedese Svt Salim Mohammed Ali, un musulmano residente a Malmö da oltre 20 anni. “Le persone si arrabbiano e lo capisco, ma ci sono altri modi per fare queste cose”, ha aggiunto. Samir Muric, un imam di Malmö, ha condannato i rivoltosi sulla sua pagina Facebook. “Coloro che agiscono in questo modo non hanno nulla a che fare con l’Islam”, ha scritto.
Malmo, città culla del radicalismo islamico. È da tempo che a Malmö si sono raggiunti negli anni livelli altissimi di criminalità tanto che, come ha ammesso lo stesso capo della polizia locale Jonas Karlberg, “abbiamo avuto un numero straordinario di sparatorie nel 2016, nel 2017 e anche per parte del 2018”. Anche l’estremismo islamico è un serio problema per il Paese nordico. Secondo un articolo del Il Fatto Quotidiano del 2017, la “tranquilla” Svezia (a quota 300) è al quinto posto di una classifica che vede drammaticamente in vetta la martoriata Francia (che svetta con 2183, seguita dalla Gran Bretagna a 1700): è la triste graduatoria che suddivide su base territoriale i cittadini europei e i residenti nel Vecchio Continente coinvolti in network jihadisti. Svezia che sta facendo i conti con i foreign fighters di ritorno. Come ha acclarato la scorsa primavera la tv svedese SVT, 13 dei 41 foreign fighters di ritorno avrebbe commesso reati di vario genere, alcuni dei quali molto gravi: un uomo di 31 anni, ex combattente dell’Isis, è stato filmato mentre aggrediva un vicino di casa con un paio di forbici. Ora è agli arresti con l’accusa di tentato omicidio. In questa situazione c’è davvero da stupirsi di opposti estremismi che si fronteggiano violentemente e di tensioni sociali sempre più incontrollabili? L’esperimento multiculturale della città svedese è fallito. E produce estremismi, da una parte e dall’altra.
Cosa sta accadendo a Malmo. Emanuel Pietrobon il 31 agosto 2020 su Inside Over. Per le strade di Rosengard, quartiere periferico di Malmo (Svezia), la sera del 28 agosto si è combattuta una guerriglia urbana fra centinaia di residenti di religione islamica e le forze dell’ordine. Gli scontri, che sono terminati con l’arresto di quindici persone, il ferimento di diversi agenti di polizia, il rogo di decine di veicoli e la devastazione dell’arredo urbano, sono stati innescati dal deprecabile rogo di un Corano da parte di alcuni attivisti di estrema destra, avvenuto in giornata nel corso di una manifestazione non autorizzata. Le immagini delle violenze stanno contribuendo a riportare l’attenzione sulla condizione drammatica in cui versano alcune periferie multietniche delle grandi città svedesi, luoghi in cui l’integrazione di determinate categorie di immigrati continua a restare un miraggio, ragion per cui l’islam radicale e il crimine organizzato hanno trovato terreno fertile su cui attecchire e proliferare, ponendo dei gravi problemi in termini di pace sociale e sicurezza nazionale.
Il contesto degli scontri. Sebbene una parte della stampa italiana sostenga che la guerriglia urbana sia stata combattuta da estremisti di destra e forze dell’ordine, il materiale foto e videografico prodotto dalle fonti svedesi e le opere di fact-checking ad opera di portali d’informazione indipendenti e di media noti, come Open di Enrico Mentana, smentiscono completamente questa ricostruzione, delineando un quadro radicalmente differente. L’origine dell’intera vicenda è da far risalire ad alcuni eventi di agosto. Due sono gli eventi sanguinosi che, in particolare, hanno spinto i partiti di opposizione, sia moderati che di estrema destra, ad aumentare la loro esposizione pubblica e mediatica per denunciare quanto sta accadendo nel Paese. Il primo fatto è la tragica morte di una 12enne svedese, uccisa da un proiettile vagante a Stoccolma, ennesima vittima della guerra tra bande che sta dilaniando il Paese da diversi anni. La seconda vicenda, più recente, riguarda il rapimento di due preadolescenti nella municipalità di Solna ad opera di due spacciatori, dai quali sono stati torturati e violentati per diverse ore, la sera del 22, per essersi rifiutati di acquistare degli stupefacenti. Il vortice di microcriminalità e crimine organizzato che sta avvolgendo la Svezia sta venendo cavalcato da ogni partito d’opposizione nell’aspettativa di guadagnare consensi, dai Moderati di Ulf Kristersson ai Democratici di Jimmie Akesson. La situazione è così grave che durante il tradizionale discorso alla nazione di fine estate pronunciato dai capi dei due principali partiti, quest’anno incentrato sulla pandemia, Kristersson ha voluto rompere il protocollo e parlare di un altro argomento: l’emergenza violenza. Kristersson ha confutato la tesi dell’esecutivo secondo cui la guerra tra bande sarebbe sotto controllo, illustrando come da gennaio a metà agosto abbiano avuto luogo 210 sparatorie e 24 omicidi e accusando i criminali di essere “i terroristi domestici della Svezia”. Dopo aver definito il fenomeno criminoso una “seconda pandemia”, Kristersson ha aggiunto: “Lofven non sta agendo contro le bande. Prima non le ha viste arrivare e adesso manca del potere e di politiche concrete [per affrontarle]”. L’insieme di questi eventi, che ha mobilitato le stesse forze politiche centriste e moderate, non ha potuto che fare il gioco degli elementi più radicali, che il pomeriggio del 28 si sono dati appuntamento a Malmo per protestare contro l’immigrazione di massa dai Paesi islamici su iniziativa di Dan Park, un attivista noto nel panorama nazionale per le sue idee neonaziste e islamofobe.
La notte di violenze. La manifestazione non autorizzata durante la quale è stato bruciato il Corano avviene, quindi, sullo sfondo di un contesto particolarmente sensibile e incendiario di cui i media non svedesi sembrano ignorare l’esistenza, volutamente o meno. Nonostante la folla di dimostranti sia stata composta soprattutto da svedesi, alcuni dei presenti sono giunti dalla Danimarca e sono stati identificati come membri del gruppo neofascista “Linea dura” (Stram Kurs) fondato dall’avvocato Rasmus Paludan. Quest’ultimo, monitorato dalle forze dell’ordine di Copenaghen e Stoccolma, era stato bloccato al valico dei due Paesi la mattina del 28 e trovato in possesso di un Corano presumibilmente da bruciare. Dopo un rapido controllo, all’attivista era stato impedito l’ingresso in Svezia, ma ciò non ha impedito che qualcun altro compiesse quel gesto provocatorio al posto suo. Il video del rogo è diventato virale nell’arco di poche ore, condiviso dai circuiti virtuali dell’estrema destra all’intera rete, spingendo diverse centinaia di residenti di Rosengard, il quartiere-ghetto più celebre della città, a scendere in strada e a dar vita ad una guerriglia urbana durata l’intera sera. I manifestanti di estrema destra avevano già rincasato, perciò la rabbia per il vilipendio commesso è stata sfogata sull’arredo urbano, sui veicoli in sosta e sulle forze dell’ordine. I tafferugli sono terminati con quindici arresti, decine di poliziotti feriti e decine di autovetture distrutte dalle fiamme.
Rosengard, il quartiere ad accesso vietato. Il primo elemento che traspare dai video in circolazione che documentano l’accaduto – confutando la versione sostenuta da una certa stampa – è la ricorrenza del Takbir, ovvero l’espressione “Allah akbar”, utilizzata come un vero e proprio grido di battaglia dai rivoltosi di Rosengard in ogni fase dei tafferugli: dai primi contatti con la polizia all’appiccamento degli incendi. Si tratta di un fatto che non è possibile sottovalutare né trascurare perché è indicativo della presenza di personaggi appartenenti all’islam radicale all’interno della rivolta che, non a caso, è stata duramente condannata anche dai capi della comunità musulmana cittadina, come l’imam Samir Muric. Rosengard ha una popolazione di quasi 25mila abitanti e, per via dei numerosi record negativi che può vantare, è considerato il ghetto per antonomasia di Malmo, la città più musulmana di Svezia (il 20% della popolazione è di fede islamica). Non sono disponibili dati recenti e aggiornati riguardanti la composizione etnica della popolazione; le ultime cifre sono del 2012 e all’epoca era risultato essere di origine straniera l’86% dei residenti, in prevalenza provenienti dal Medio Oriente, dall’ex Iugoslavia e dall’Africa orientale. Il quartiere è noto per aver dato i natali al calciatore di fama mondiale Zlatan Ibrahimovic, ma è anche la culla di Osama Krayem, fedelissimo di Abu Bakr al-Baghdadi, il cui nome compare nei fascicoli sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 e di Bruxelles del 22 marzo 2016. Prima di giurare fedeltà allo Stato Islamico, Krayem aveva prestato il volto ad un documentario realizzato a Rosengard, figurando tra gli esempi di integrazione riuscita nel difficile quartiere. Krayem, come tanti altri residenti di questo ghetto, è stato radicalizzato in una delle numerose moschee clandestine che da oltre un ventennio operano nel quartiere e che sono gestite da imam radicali collegati al jihadismo internazionale, la cui esistenza è stata denunciata a più riprese, ma invano, dall’Università di Difesa della Svezia. Rosengard, in breve, è uno di quei quartieri popolarmente ribattezzati “no-go zone” (zona ad accesso vietato) che in Svezia vengono classificati come “aree particolarmente vulnerabili”, “aree vulnerabili” e “aree a rischio”. In tutto il Paese, stando all’ultimo rapporto delle forze dell’ordine, datato 2019, esisterebbero ventidue aree appartenenti alla prima categoria, e Rosengard ne fa parte. Capire il motivo di tale classificazione è semplice: il malcontento non è nato il 28 agosto, ma risale agli anni ’90, quando la quota degli stranieri sul totale della popolazione ha raggiunto la soglia critica, superando il 50%, venendo accompagnata simultaneamente da un decremento della qualità della vita e della mobilità sociale, sullo sfondo della proliferazione di moschee fai da te e microcriminalità che, negli anni, hanno portato rispettivamente alla diffusione di radicalizzazione religiosa e guerre tra bande per il controllo dei traffici illeciti. Rosengard è anche il luogo in cui è avvenuta la prima rivolta urbana di stampo etno-religioso nella storia della Svezia. Fra il 18 e il 20 dicembre 2008, centinaia di residenti musulmani, soprattutto giovani, si scontrarono con le forze dell’ordine per protestare contro il mancato rinnovo del contratto d’affitto ai proprietari del centro culturale “Islamiska Kulturföreningen”. Gli scontri, ancora oggi ritenuti i “più violenti mai affrontati” dalle forze dell’ordine svedesi, furono caratterizzati dall’utilizzo di esplosivi artigianali, come i tubi bomba, e furono esacerbati dal coinvolgimento di decine di appartenenti alla galassia Antifa, giunti sul posto per dare manforte ai rivoltosi nonostante la consapevolezza che si trattasse di islamisti. Dalle notti di quel lontano dicembre ad oggi nulla è cambiato: schermaglie tra bande rivali, violenze contro le forze dell’ordine, inclusi attentati e atti intimidatori contro il commissariato locale, focolai di islam radicale nascosti all’ombra dei palazzi, e la periodica esplosione della polveriera.
· Quei razzisti come i Norvegesi.
Paolo Valentino per il ''Corriere della Sera'' il 10 ottobre 2020. Un processo spacca la Norvegia. Nell'aula 250 del Tribunale distrettuale di Oslo va in scena il dramma di una nazione, che si voleva aperta e tollerante e invece scopre il nocciolo duro di un razzismo profondamente incistato nella sua società. Rischia 16 anni di carcere Laila Anita Bertheussen, 55 anni, compagna di Tor Mikkel Wara, ex ministro della Giustizia ed esponente del Partito del Progresso, la forza populista e anti-migranti che è parte della maggioranza di governo. Insieme a una ex viceministra, la donna è accusata di attacco ai più alti vertici dello Stato e di aver inscenato attentati terroristici e false minacce tentando poi di far ricadere la colpa su una piccola compagnia teatrale. Dettaglio surreale e decisivo: i messaggi minatori, le scritte razziste sui muri di casa e le azioni violente erano dirette contro il suo compagno di vita e contro sé stessa. Possibile? L'accusa ne è più che convinta, anche se la donna si dichiara innocente. All'origine di tutto c'è una pièce di teatro politico sperimentale, messa in scena su un piccolo palcoscenico indipendente di Oslo alla fine del 2018, dove si cercava di raccontare come e perché le idee dell'estrema destra razzista si siano radicate nel cuore della società norvegese. Con uno stile da documentario «Punti di vista», questo il titolo, non le mandava a dire. Faceva nomi e cognomi della galassia estremista norvegese e delle sue connessioni: bloggers, miliardari finanziatori e aziende di lobby come First House, dove Tor Mikkel Wara ebbe un ruolo dirigenziale prima di trasferirsi direttamente al ministero della Giustizia. A lui e Bertheussen lo spettacolo dedicava molto spazio, mentre sullo sfondo correvano immagini esterne della loro casa, senza indirizzo o persone riconoscibili, riprese di nascosto con un cellulare. La prima reazione di Laila Anita Bertheussen, presente alla prima, fu del tutto comprensibile: «La chiamano arte, io la chiamo invasione della mia sfera privata», aveva scritto in una lettera pubblicata a doppia pagina dal quotidiano popolare Verdens Gang . Ma il 6 dicembre 2018 ebbe inizio qualcos' altro. Prima le croci uncinate e la parola razzista sui muri della casa della coppia e sulla portiera dell'auto di famiglia. Poi le bombe artigianali scoperte dalla polizia sul sedile posteriore dell'automobile dei Wara-Bertheussen. Il 2 marzo una lettera di minacce indirizzata a lei, definita «puttana del FRP», la sigla del Partito del Progresso nel quale anche lei milita. Infine,il 10 marzo del 2019, l'incendio doloso della macchina, parcheggiata all'ingresso del garage della loro villa. La Norvegia era in stato di choc. Tor Mikkel Wara denunciò «l'attacco alla democrazia» in corso, ricevendo solidarietà popolare e simpatia in quanto vittima di una campagna violenta. Anche la premier, la conservatrice Erna Solberg, solidarizzò col suo ministro e accusò la compagnia teatrale di rendere la vita difficile ai politici norvegesi. La tesi che «Punti di Vista» avesse creato un clima incendiario di odio incoraggiando degli estremisti ad agire, fu subito sposata dagli opinionisti. Ma nella terra dell'immenso Ibsen, come in Casa di Bambola nulla è come appare. Pochi giorni dopo il rogo dell'auto, Bertheussen venne interrogata e subito dopo accusata di aver fatto tutto lei, per dare la colpa al gruppo teatrale. Tor Mikkel Wara si dimise da ministro. Ora va in scena un'altra pièce , dove dalle perizie calligrafiche, alla carta da lettera usata, ai messaggi sul cellulare della donna, l'accusa ha un impianto solidissimo. «Le brave ragazze vanno in paradiso, il resto di noi va dove vuole», aveva scritto Bertheussen in una chat privata con la co-imputata, Ingwil Smines Tybring Gjedde, ex sottosegretaria agli Interni. Probabilmente andranno entrambe in galera.
Il governo norvegese rischia di cadere per il rientro della donna dell’Isis. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Michele Farina. Ci sono tre donne (e due bambini cresciuti sotto l’Isis) al centro dell’incredibile (quasi) crisi di governo in Norvegia. Ce ne vuole, per incrinare una coalizione di centro-destra come quella che dal lontano 2013 guida (più o meno al completo) la nazione degli «sceicchi nordici» con i loro salmoni e i loro giacimenti di petrolio. La premier Erna Solberg, 58 anni, partito Conservatore, è abbandonata dai Progressisti nazionalisti capitanati dalla cinquantenne ministra degli Esteri Siv Jensen. La ragione apparente è la terza donna della storia, una ventinovenne (di cui non si dice il nome) cresciuta con la passione del calcio in una famiglia norvegese-pachistana alla periferia di Oslo. Sette anni fa, mentre Solberg sale al potere, la ragazza che amava il pallone parte per la Siria attratta dalle sirene del Califfato. Si sposa due volte, con miliziani Isis: il primo, il norvegese-cileno Bastian Vasquez, scompare nel 2015. Del secondo si perdono le tracce. Dai campetti di calcio di Oslo la donna finisce nel campo profughi di Al-Hol, dove vivono prigionieri migliaia di foreign fighter e loro familiari. Sabato «Emira» (così la chiama Asne Seierstad, autore del libro «Two Sisters» sulle straniere finite in Siria) è rientrata in Norvegia con i figli, un bambino di 5 anni e una bambina di 3. «Motivi umanitari»: il primogenito era «gravemente malato». Al-Hol è un inferno dove nel 2019 sono morti 517 profughi, di cui 317 minori. L’operazione rientro è stata pianificata nell’ottobre scorso. «Avremmo voluto rimpatriare solo il piccolo — ha detto la premier in conferenza stampa — ma separarlo dalla madre si è rivelato impossibile. Dovevamo lasciarlo morire? L’importante è che il presunto malato sia curato». Presunto? La premier Solberg mette le mani avanti. La questione del rimpatrio di «gente dell’Isis» è materia incandescente in mezza Europa. Roba da far cadere governi. Oslo ha una legislazione rigorosa. In base al codice penale, crescere figli nel Califfato equivale a far parte di un gruppo terroristico (6 anni di reclusione). Dei 140 partiti dalla Norvegia per unirsi al Califfato, 10 al ritorno hanno subito pene severe. In Svezia, su 300 partenti e 150 «tornanti», solo due processati. Il governo di centrosinistra finlandese dopo una lunga impasse ha scelto di considerare i rimpatri «caso per caso». L’alleanza norvegese di centro-destra si è dimostrata meno morbida dei vicini. Almeno finora (sostiene il partito Progressista, l’ala più intransigente della coalizione): Emira e il suo bambino «presunto malato» sono diventati il casus belli che ha portato Siv Jensen e gli altri cinque ministri di estrema destra (compreso quello del petrolio) a sfilarsi dal governo. La famiglia è sorvegliata in un ospedale di Oslo. L’avvocato di Emira sostiene che vuole collaborare. «Non ha combattuto. Le accuse ruotano sul fatto che era in Siria e ha avuto rapporti con persone legate a gruppi terroristici». Ha sposato due combattenti, i suoi figli sono cresciuti con il latte del Califfato. Elementi che la rendono perseguibile. Le basterà sostenere, come fa dire all’avvocato, che «la sua vita in Siria è stata un incubo?». Le basti pensare per ora che suo figlio viene curato. La premier ha preso atto dello strappo degli alleati e va avanti con un governo di minoranza. La legge non prevede elezioni anticipate. Le prossime saranno nel 2021. L’estrema destra si smarca dalla coalizione. E per questo ringrazia Emira.
· Quei razzisti come i Danesi.
Andrea Tarquini per "repubblica.it" il 20 ottobre 2020. Uno scandalo di ripetute molestie sessuali fa tremare l'establishment politico danese, causa un terremoto nella socialdemocrazia - il partito di governo della giovane premier Mette Frederiksen - e riaccende il movimento #metoo con tutta la sua energia. Uno degli esponenti politici più influenti e popolari del Paese, il 59enne sindaco di Copenaghen Frank Jensen, si è dimesso oggi perché accusato di molestie sessuali e palpeggiamenti impropri ai danni di almeno nove sue giovani collaboratrici. Le accuse e le denunce contro Jensen, finora popolarissimo perché ha guidato i grandi passi avanti di Copenaghen come capitale e metropoli più verde e sostenibile d'Europa, sono state rilanciate dal quotidiano Jyllands-Posten, segnando la fine della carriera di Jensen. "Mi hanno chiesto di restare, ma ci ho dormito sopra e alla fine a mente fredda ho deciso di gettare la spugna", ha detto Jensen. "Una scelta di ignorare le accuse e restare in carica avrebbe inficiato il mio lavoro e sarebbe pesata come un'ombra su tutti i grandi progetti di cui la nostra capitale ha bisogno e continua a realizzare. Mi dimetto, e chiedo scusa alle donne che ho offeso". Ha così lasciato dopo 11 anni di successi e buon governo l'incarico di primo cittadino, e anche quello di numero due del partito socialdemocratico, che ricopriva dal 2015. La giovane prima ministra socialdemocratica Mette Frederiksen ha reagito prontamente su Twitter, dichiarando che "ogni episodio del genere è intollerabile e tutti noi della classe politica dobbiamo fare di tutto per la chiarezza, il rispetto delle donne, la verità. Dobbiamo rimettere in ordine la situazione e creare una nuova cultura nelle parole e nei fatti. E' ovvio che ci sia qualcosa che non va sul tema nel mio partito, e ciò è inaccettabile, tra noi socialdemocratici come ovunque". Desta sorpresa che la battaglia di #metoo si riaccenda proprio in Danimarca, uno dei Paesi più avanzati al mondo anche in tema di gender equality. Mette Frederiksen ha subito messo le mani avanti, secondo i media piú critici, anche perché è incalzata sul tema da una crescente mobilitazione dei movimenti femminili, e affronta scandali su ogni fronte. La prima scintilla era venuta quando Sofie Linde, una delle principali e più amata conduttrici televisive danesi, aveva rivelato in diretta che, dodici anni prima, da debuttante, aveva ricevuto promesse di veloce carriera in cambio di prestazioni sessuali da un alto dirigente della radiotelevisione pubblica, di cui non ha voluto fare il nome. Poi si è venuto a sapere che nel mondo dei media oltre il 20 per cento delle donne sono vittime di avances, promesse in cambio di piacere, palpeggiamenti. Il leader del partito social-liberale Morten Ostergaard, da anni paladino dei diritti, si è dovuto dimettere quando si è scoperto che dieci anni fa aveva palpeggiato le cosce di una collega.
Guido Barbujani per ''Il Sole 24 Ore'' il 19 gennaio 2020. Sono sempre più gli europei con la pelle scura. Non si allarmino i sovranisti, però: non stiamo parlando di cose che possono riguardarli, ma della preistoria. In un magnifico articolo uscito su «Nature Communications», i genetisti dell' Università di Copenaghen descrivono il Dna di un danese del Mesolitico, di cui si può dire con sicurezza che aveva la pelle scurissima, come quella degli africani odierni. Era una donna (anche questo lo dice il Dna) vissuta 5700 anni fa dalle parti dell' attuale Syltholm. Tutti gli europei del Mesolitico studiati finora - in Spagna, Lussemburgo, Svizzera e Inghilterra, e adesso anche in Danimarca - avevano pelle e capelli scuri, e quasi tutti, compresa la donna di Syltholm, gli occhi azzurri. Una combinazione che oggi è rara, ma all' epoca, a quanto pare, no. Piccolo passo indietro. Le nostre cellule producono due pigmenti: l' eumelanina, più scura, e la feomelanina, più chiara. I colori della pelle, dei capelli e degli occhi dipendono da quanti grani di pigmento ci sono nelle cellule, e dalle percentuali di eumelanina e feomelanina nei grani. A produrre le melanine ci pensa una settantina di geni, senza dimenticare che conta anche quanto sole si prende: insomma, il meccanismo biologico è complicato. Per fortuna, oggi ci sono algoritmi di intelligenza artificiale (tecnicamente: machine learning) che permettono di ricostruire la pigmentazione di uno sconosciuto, se si conoscono i suoi geni. E abbiamo messo a punto tecniche di laboratorio sofisticate, che permettono di studiare il Dna anche in individui di cui ci restano solo ossa fossili. Ciò che rende eccezionale la scoperta dei genetisti danesi è il fatto che del corpo di questa donna o ragazza non ci resta niente, neanche un osso. Quello che sappiamo di lei ci viene da un pezzo di mastice di betulla masticata: un chewing-gum dell' età della pietra, in cui attraverso i millenni si sono conservati minuscoli frammenti del suo Dna. E non solo del suo, ma anche di quello proveniente da un suo pasto (nocciole e germano reale: il chewing-gum doveva essere il dessert), e da molti batteri. Questi ultimi ci dicono che quella donna aveva i denti in pessima salute e soffriva di infezioni di streptococchi, una causa comune di polmonite. La stupefacente capacità del Dna di resistere al tempo ci permette di dare un' occhiata a fenomeni remoti su cui, fino a ieri, avevamo idee vaghissime, o nessuna idea: come sono cambiati l' alimentazione, le condizioni di salute; e il colore della pelle. Gli antenati degli europei hanno lasciato l' Africa 70mila anni fa, e sembrava logico che la loro pelle si fosse schiarita piuttosto in fretta. E invece no, è successo molto più tardi di quanto si pensasse. Ma andiamo con ordine. La pelle non lascia fossili, e quindi, fino a che non si è scoperto come studiare il Dna di gente morta da millenni, potevamo solo fare delle congetture. Una grande esperta di questi temi, Nina Jablonski, ha proposto che i nostri antenati africani, sei milioni di anni fa, avessero la pelle bianca: come quella di scimpanzé e gorilla se si va a guardare sotto il pelo. Ma noi siamo, come si sa, scimmie nude: e per chi non ha pelo, la melanina è preziosa perché protegge dai raggi ultravioletti. Così, in Africa, attraverso milioni di anni, le pelli sono diventate via via più scure. Poi certe popolazioni si sono spostate verso Nord, arrivando in terre in cui, invece, pelli più chiare permettono un migliore utilizzo della vitamina D, fondamentale nelle gravidanze e nell' allattamento. Lì il fenomeno si è invertito, e sono comparse pigmentazioni chiare in Asia e Europa. È la selezione naturale: un fenomeno compreso e descritto da Charles Darwin un secolo e mezzo fa. Darwin però non conosceva il Dna, e non poteva sapere che la selezione può cominciare solo dopo che in un gene è avvenuta una mutazione. Finché tutti hanno la pelle dello stesso colore non succede niente; ma se una mutazione ha conferito a qualche africano una tonalità di pelle un po' più scura, lui e i suoi figli avranno un piccolo vantaggio sugli altri, una maggior probabilità di sopravvivere, che col tempo renderà più comune quel colore della pelle; e il contrario sarà successo a quelli che dall' Africa sono passati nel Vicino Oriente, e da lì in Europa e in Asia. Ma mentre la selezione fa diffondere caratteristiche vantaggiose, le mutazioni capitano per caso: sono piccoli errori nel Dna, che non arrivano necessariamente nel posto e nel momento in cui potrebbero servire. Le conseguenze non sono banali. Latte e formaggio sono buoni e fanno bene, ma non a chi è intollerante al lattosio. Le mutazioni che permettono di digerire il lattosio anche da adulti sono arrivate in Europa, ma in Asia no, ed è per questo che lì devono accontentarsi del tofu. Quanto alla pelle, le mutazioni che l' hanno resa scura negli africani, e poi chiara in Europa e Asia, le conosciamo da tempo, ma per dare loro un' età bisognava ritrovarle in qualche fossile preistorico: e quando ci siamo riusciti sono cominciate le sorprese. Le prime mutazioni per le pelli chiare (al plurale, perché, come abbiamo visto, c' entrano decine di geni) sono documentate nella regione del Caucaso, 15mila anni fa, e da noi arrivano solo parecchio più tardi. Ci arrivano per migrazione; anzi, mi dice Gloria González Fortes, che ci sta lavorando nel nostro laboratorio di Ferrara, in più ondate migratorie: portate da gente migrata in Europa prima dal Sudest e poi dal Nordest. La selezione le ha diffuse, e oggi gli europei sono quelli con la pelle bianca: ma, a quanto pare, non lo erano fino a 5700 anni fa, neanche in Danimarca. E quindi la combinazione di caratteri oggi tipica del Nord Europa, pelle e capelli chiari, occhi azzurri, è in realtà un cocktail di ingredienti antichi (gli occhi azzurri del Mesolitico) e recenti (pelle e capelli chiari venuti dall' Est). Non c' è niente da fare: più lo si conosce, e più ci si rende conto che il Dna di ognuno di noi è un mosaico di pezzi diversi per età e provenienza. Questo mosaico è l' eredità lasciataci da tanti antenati, che venivano da tanti posti diversi. Oggi si parla molto delle nostre radici, a proposito e più spesso a sproposito, ma la genetica dimostra che la metafora funziona solo in parte. Se pensiamo a radici come quelle delle carote, piantate in un solo punto, non le ha nessuno di noi. Tutti invece abbiamo radici ramificate come quelle degli alberi, protese in tante direzioni, che spesso arrivano a grandi distanze.
· Quei razzisti come i Tedeschi.
Giorgio Dell'Arti per "la Repubblica" 21 dicembre 2020. Questi frammenti sono tratti dal volume "La più breve storia della Germania che sia mai stata scritta" di James Hawes, edito da Garzanti. Gloria della Prussia per il fatto che a Waterloo, con Wellington, aveva vinto il generale prussiano Gebhard Leberecht von Blücher. Blücher, accolto a Londra da trionfatore, che si guarda intorno ed esclama: «Che splendida città da saccheggiare». La Germania al di qua dell' Elba suddivisa in decine di staterelli. Concorrenza tra Austria e Prussia, su chi debba orientare la vita di questi staterelli. Finisce con la guerra dei prussiani contro gli austriaci, quella in cui i prussiani, a sud, hanno come alleati gli italiani (1866). Gli italiani perdono, ma perdono anche gli austriaci e gli italiani si pigliano il Veneto. I prussiani vincono e si cominciano a prendere gli staterelli. «La sola cosa che univa le corone austriaca e prussiana, ed entrambe agli altri re e principi d' Europa, era l' odio per il nazionalismo. In quest' epoca il nazionalismo era considerato progressista e politicamente liberale perché pretendeva che i popoli (definiti su basi etniche) si autogovernassero». Il Piano Coburgo, perseguito dal principe Alberto, consorte della regina Vittoria: «Con l'appoggio, tra gli altri, di Leopoldo del Belgio, Alberto e i suoi consiglieri tedeschi proponevano che la Prussia dovesse prima riformarsi seguendo il modello costituzionale inglese, e poi unificare l'intera Germania, che sarebbe così diventata (per dirla con la regina Vittoria) un utilissimo alleato per l' Inghilterra». «La razza germanica è predestinata a dominare il mondo. È fisicamente e intellettualmente privilegiata rispetto a tutte le altre, e metà della Terra le si è di fatto assoggettata. Inghilterra, America e Germania: ecco i tre rami del possente albero germanico» (dal settimanale Wochen-Blatt des NationalVereins, 7 settembre 1865)». «La Prussia, battuta l'Austria, conquista Schleswig-Holstein, Assia-Kassel, Francoforte e il ducato di Nassau. S' annette anche l' Hannover, lo riduce a provincia prussiana, e ruba le sue imponenti riserve auree, con cui finanzierà il riarmo che precederà la I guerra mondiale». Ma «il dado non era ancora tratto». Per completare il suo grande piano, lo junker Bismarck, divenuto capo del governo, aveva bisogno di un attacco francese. Solo questo gli avrebbe permesso di proporsi come difensore della Germania occidentale, invece che come suo conquistatore. Napoleone III, andando dietro a un telegramma falsificato, attacca i prussiani, senza sospettare che i prussiani non aspettavano altro. Travolto, imprigionato, esiliato a Londra, mentre a Berlino si proclama la nascita della Germania e dell' Impero tedesco. «Bismarck dichiarò quasi subito guerra all' influenza sociale e politica della chiesa cattolica con quel che fu chiamato Kulturkampf. Era necessario sottrarre le scuole al controllo ecclesiastico, consentire i matrimoni civili e proibire ai preti di impegnarsi in attività in qualche modo assimilabili a un' opposizione politica. Gli osservatori stranieri erano perplessi: avviare senza motivo uno scontro con la Germania meridionale appena annessa era un modo singolare per unificare il nuovo impero. Ma Bismarck non voleva l' unificazione. Voleva l' assimilazione prussiana, e i suoi cruciali alleati, i nazional-liberali, volevano il progresso. Combattere la Chiesa cattolica era l' unica via sicura per collegare queste aspirazioni politiche». «Lo straordinario boom economico era stato costruito sull' oro rubato ai francesi. Finito quello, arrivò una crisi altrettanto straordinaria». Ein Wort über unser Judenthum, saggio del 1880 in cui Henrich von Treitschke getta le fondamenta dell' antisemitismo. Slogan: «Ohne Juda, ohne Rom, bauen wir Germanias Dom» («Senza Giudei, senza Romani, costruiamo la Chiesa di Germania»).
Roberto Giardina per “Italia Oggi” il 24 novembre 2020. Leggo notizie catastrofiche sulla scuola italiana, il 30% non saprebbe capire quel che legge, neppure Topolino. E non si sa più scrivere. Nulla di nuovo. Trent' anni fa, mi chiamarono per tenere otto lezioni a un corso di giornalismo medico scientifico. Non ho mai capito bene a che servisse, ritengo che gli ospedali allora volessero aprire degli uffici stampa. Era riservato a venti laureati in medicina. Quando proposi come compito di riassumere in venti righe la mia lezione, mi guardarono interdetti. Non si aspettavano che un futuro medico giornalista dovesse anche scrivere. Ci riuscirono in due. Sarò stato troppo esigente. In Germania va meglio, il che non significa che vada bene. Non c' è sera che sui due canali tv pubblici, Ard e Zdf, o sulle reti regionali che trasmettono su tutto il territorio nazionale, o su un' emittente privata, non venga trasmesso un krimi, un telefilm giallo o noir che sia. I poliziotti, i commissari, la metà rigorosamente donne, sono quasi tutti dei casi clinici, completamente fuori di testa, alcolizzati e depressi, afflitti da capi sempre preoccupati di non molestare il potente di turno, odiati dalla moglie e disprezzati dai figli. Riescono a scovare il colpevole, che non sempre viene punito. I Polizisten non sono eroi da imitare. Forse per questo in Germania non riescono a reclutare poliziotti quando i vecchi vanno in pensione. Ne servirebbero diverse migliaia ma è difficile trovare candidati all' altezza. Gli aspiranti, uomini e donne, sono fuori forma, o non riescono a superare i test più facili. E, leggo sulla Welt, non sanno scrivere. Basterebbe compiere un errore ogni sette parole per essere idonei, ma non ce la fanno. L' anno scorso, il 20% degli aspiranti poliziotti nei diversi Länder (la polizia, in Germania, è di competenza regionale), non ha superato la prova del dettato. La colpa sarebbe anche della Rechtschreibreform, la riforma del tedesco, decisa nel 2006, ma è l' anno in cui i candidati sono entrati in prima elementare, quindi non hanno dovuto imparare nuove regole di scrittura, decise a tavolino dai burocrati, alcune per la verità astruse. In sintesi, in alcune parole composte si arriverebbe a scrivere tre «s» di fila. Gli scrittori si sono ribellati, ma era troppo tardi. Fino all' ultimo non avevano voluto credere che si facesse sul serio. La Bundespolizei, la polizia federale, ha deciso di rendere più elementari le regole di reclutamento. Ha portato gli errori «perdonabili» da 20 a 24 su un testo di 180 parole, cioè una mezza paginetta al computer, in media un errore a riga. E si è deciso anche di rinunciare alle classiche prove atletiche, al salto in lungo e alle flessioni. Basterà dimostrare di avere un sufficiente equilibrio fisico. Già adesso nei telefilm, quando un Kommissar deve inseguire un ladro o un killer di solito si arrende con il fiatone. Così rassicurano i telespettatori in sovrappeso. A volte ci riescono le colleghe, che ci tengono alla linea, non bevono, e sono in forma. Ma è tollerabile che un Herr Kommissar non sia in grado di superare l' esame di licenza elementare? È una domanda ipotetica, perché questa prova in Germania è stata abolita da tempo.
DAGONEWS il 15 novembre 2020. Vi siete mai chiesti come mai in Germania la nudità non è un tabù? Imbattersi in persone nude che prendono il sole in un parco a Berlino è praticamente un rito di passaggio. Ma come mai? Non c’entra molto il lato edonistico, ma è un esempio di Freikörperkultur, o "cultura del corpo libero". L'FKK, come viene solitamente abbreviato, è strettamente associata alla vita nella Repubblica Democratica Tedesca (Germania dell'Est), ma il nudismo in Germania come pratica pubblica risale alla fine del XIX secolo. E a differenza di togliersi la maglietta su una spiaggia in Spagna, la FKK è un movimento tedesco più ampio con uno spirito distinto, il cui significato è spogliarsi della propria essenza ed immergersi nel mondo naturale come atto di resistenza e sollievo. «Il nudismo ha una lunga tradizione in Germania - ha detto Arnd Bauerkämper, professore associato di storia moderna alla Freie University di Berlino - All'inizio del XX secolo, la Lebensreform ("riforma della vita") era nell'aria. Si trattava di una filosofia che sosteneva il cibo biologico, la liberazione sessuale, la medicina alternativa e una vita più semplice e più vicina alla natura. Il nudismo fa parte di questo movimento più ampio, che era contro la modernità industriale, contro la nuova società emersa alla fine del XIX secolo». Secondo Hanno Hochmuth, uno storico del Leibniz Center for Contemporary History Potsdam, questo movimento di riforma prese particolarmente piede nelle città più grandi, inclusa Berlino. Durante la Repubblica di Weimar (1918-1933), si crearono delle spiagge dell'FKK popolate da "una minoranza molto, molto piccola" di membri della borghesia che prendevano il sole. Secondo Bauerkämper, dava un «senso di nuova libertà dopo aver vissuto in una società autoritaria e con valori conservatori soffocanti nella Germania imperiale (1871-1918)». Nel 1926, Alfred Koch fondò la Scuola di nudismo di Berlino per promuovere la nudità all'aperto capace di porci in armonia con la natura. E se l'ideologia nazista inizialmente proibì l'FKK, considerandola immorale, nel 1942 il Terzo Reich aveva ammorbidito le sue restrizioni sulla nudità pubblica. Ma fu solo nei decenni successivi alla divisione del dopoguerra della Germania Est e Ovest che l'FKK sbocciò davvero, in particolare nell'Est, e non solo tra la classe borghese. Per i tedeschi che vivevano nella DDR comunista, dove i viaggi, le libertà personali e le vendite di beni di consumo erano limitati, l'FKK era una valvola di sfogo, un modo per scaricare la tensione in un mondo pieno di restrizioni. Nel 1971 l'FKK venne ufficialmente autorizzato di nuovo. Secondo Bauerkämper, sotto Honecker per la DDR sostenere i nudisti era “un modo di far vedere che permettevano qualcosa”. Dalla caduta del muro di Berlino, la cultura FKK è diminuita. Negli anni '70 e '80, centinaia di migliaia di nudisti riempivano campeggi, spiagge e parchi. Nel 2019, l'Associazione tedesca per la cultura del corpo libero contava solo 30.000 membri registrati, molti dei quali avevano tra i 50 e i 60 anni. Ma l'FKK ha comunque lasciato una diffusa tolleranza in tutto il paese per gli spazi dedicati alla nudità in pubblico vista come forma di benessere.
L'ultima follia tedesca: scrivere le leggi con i nomi al femminile. La proposta della ministra Lambrecht divide però il governo: una scelta incostituzionale. Daniel Mosseri, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. È possibile stendere un disegno di legge usando solo termini al femminile? In Germania lo ha fatto l'ufficio legislativo di Christine Lambrecht, ministra federale della Giustizia in quota al partito socialdemocratico. Il testo di riforma del diritto fallimentare presentato da Lambrecht ai colleghi del quarto governo di Angela Merkel contiene solo ed esclusivamente termini come «imprenditrice», «impiegata», «consumatrice», «debitrice», «creditrice» e via discorrendo. Tutte le locuzioni che di solito vengono usate in tedesco al maschile sono stati declinate al femminile. Alcuni compagni di partito della ministra hanno trovato la novità interessante. «Trovo positivo che finalmente si discuta di eguaglianza di genere nel linguaggio anche nei testi legali», ha dichiarato la compagna di partito Katja Mast, numero due della Spd per la Famiglia e gli affari sociali. Meno entusiasta si è invece dimostrato il ministro federale degli Interni, Horst Seefoher. La stampa tedesca ha ripreso la dichiarazione di un portavoce del dicastero in cui si apprende che gli Interni chiederanno l'immediata revisione della bozza e la sua stesura nelle forme classiche. La questione non è solamente di chiarezza o di tradizione: il Viminale tedesco teme che la legge potrà trovare applicazione solo per le persone del genere indicato nel testo. Una confusione che offrirebbe il fianco a una sonora bocciatura del testo da parte della Corte costituzionale tedesca. Gli esperti degli Interni hanno ricordato ai colleghi della Giustizia che in tedesco la forma maschile si applica sia al genere maschile sia Femminile e che l'uso del femminile non è ancora linguisticamente riconosciuto come una forma da applicare a persone dei due generi. Se Seehofer si è affidato al linguaggio burocratico per chiedere alla collega di tornare sui propri passi, il Consiglio economico della Cdu non le ha mandate a dire. Parlando alla Augsburger Allgemeine, il segretario generale dell'organizzazione che rappresenta gli interessi di 12 mila pmi tedesche vicine alla Cdu ha accusato la ministra Lambrecht di non prendere il proprio lavoro sul serio. «Il tempo per una riforma del diritto fallimentare che crei trasparenza sta per scadere», ha affermato Wolfgang Steiger. Il compito della ministra, ha ricordato Steiger «è evitare a tutti i costi che un'ondata di fallimenti spazzi via le aziende sane. Il ministero deve subito erigere delle dighe contro questa eventualità». Nominata a giugno 2019 in sostituzione della precedente Guardasigilli Katarina Barley eletta al Parlamento europeo, la ministra Christine Lambrecht è stata bacchetata anche dalla Verein Deutsche Sprache (VDS), l'associazione per la tutela e la promozione della lingua di Goethe. «Il fatto che fra tutti quelli che esistono, sia proprio il ministero della Giustizia a non essere in grado di formulare un testo giuridicamente vincolante è notevole», ha osservato impietoso il presidente della VDS, Walter Krämer. Matematico e statistico di formazione, ed economista di professione, Krämer ha poi ricordato che soprattuto i testi legali devono essere a priva di fuoco laddove «questa formulazione ambigua sembra un invito a contestare la legge». Il fatto che i testi legali dovrebbero riflettere l'uguaglianza tra uomini e donne è una questione diversa, ha concluso Krämer «ma il solo uso della forma femminile è privo di qualsiasi ragione e di ogni regola linguistico-grammaticale».
Dagonews il 28 ottobre 2020. Quanti cuori vengono strapazzati dalla politica e dal potere! Quel farfallone senza limitismo di Beppe Grillo e la moglie iraniana, la bella Parvin Tadjk, dopo 24 anni di matrimonio e due figli, si sarebbero allontanati, forse per sempre (pur condividendo ancora la stessa villa di Genova). La goccia che ha fatto traboccare la loro relazione è stata la vicenda giudiziaria in cui è coinvolto il figlio Ciro, accusato di stupro. Ma se la vita da rubacuori di BeppeMao è stata sempre oggetto di pettegolezzi, quella di Angela Merkel è sempre stata al di sopra di ogni sospetto. Eppure, alcune malelingue esperte di questioni tedesche, hanno riferito a Dagospia una storia che ha dell’incredibile. Ricordate quando, a giugno 2019, la Cancelliera - durante una cerimonia con il presidente ucraino Zelenskyj - ebbe una strana tremarella? Si parlò di disidratazione, poi di un danno neurologico, addirittura di morbo di Parkinson. L’Europa impallidì all’idea che la sua regina fosse “depotenziata” da un problema di salute. Nulla di tutto questo. Dopo più di un anno, scopriamo che quei disturbi erano i patimenti di un cuore spezzato: il marito, Joachim Sauer, l’aveva lasciata! Il 71enne professore di chimica all’Università “Humboldt” di Berlino aveva una tresca con una sua ex allieva. La scoperta delle corna fu uno shock tremendo per la 66enne Cancelliera. Lei, figlia di un pastore luterano, forgiata nell’austera Germania dell’Est comunista, così fortemente legata al senso del dovere, si ritrovò al di là di una crisi di nervi. Fu ostaggio di una tale depressione che quasi “rinunciò” a governare la Germania per tre-quattro mesi. Alcuni medici, forse centrando il bersaglio, sostennero che i tremori fossero dovuti all’uso (o abuso?) di psicofarmaci, probabilmente usati in modo massiccio per contrastare l’avvilimento e lo sconforto di quel periodo. Anche la donna più potente d’Europa, si ritrovò con un fazzoletto intriso di lacrime a causa di un marito infedele. Fu la passione per la politica a tirarla fuori dalla palude (e infatti quei tremori non si sono più rivisti). Quella stessa politica che, prima di allora, sembrava fosse sul punto di mollare a beneficio di Ursula von der Leyen o di qualche altra “delfina” equivalente. Rituffarsi nell’agone è stato un tonico salva-vita per l’umore della Cancelliera che da leader vicina alla pensione oggi si ritrova presidente di turno del Consiglio dell'Unione europea alle prese con problemi enormi per la crisi pandemica. E il marito birichino? Il professor Sauer, beccato con le mutande in flagrante, non ha smesso di dare “ripetizioni” alla sua ex allieva. Porta avanti la sua liason extraconiugale, all’interno di un accordo definito: finché Angela Merkel è sotto i riflettori, ognuno fa la sua vita con discrezione e riservatezza.
"Angela Merkel non ci lasciare": i tedeschi non vogliono fare a meno della Cancelliera. Inquietudine, ansia, paura. In Germania si vive l’annunciata uscita di scena della "ragazza dell'Est" come un salto nel buio. E tanti vogliono che cambi idea. Roberto Brunelli il 13 ottobre 2020 su L'Espresso. Angela Merkel è molto brava con i numeri, questo si sa. «Ho semplicemente elaborato un modello di calcolo. A luglio avevamo 300 nuovi contagi, ora ne abbiamo 2400. Questo significa che in tre mesi le infezioni sono raddoppiate tre volte: da 300 a 600, da 600 a 1200, da 1200 a 2400. E se continuasse così, nei prossimi tre mesi si passerebbe da 2400 a 4800, da 4800 a 9600, a 19.200. Con questo volevo semplicemente sottolineare l’urgenza dell’azione». Et voilà. Ecco di nuovo la cancelliera-scienziata, la mamma di tutti i tedeschi, che spiega senz’ombra di pathos la chiave ineluttabile della guerra contro il coronavirus. Parole scandite con sovrana tranquillità, la giacchetta del tailleur questa volta è bianca, il video come sempre virale come quello di un’influencer. E poi, dopo il suo discorso al Bundestag in cui parla di “società aperta e libera”, subito è la Cdu - certo, il suo partito - a twittare con entusiasmo: «È un bene che in tempi come questi Merkel sia la nostra cancelliera». Il riferimento è alla pandemia, ma non solo: ci sono di mezzo la svolta europea del Recovery Fund, praticamente una sua creatura, l’antagonismo certo non dissimulato verso l’uragano Trump, la complicatissima partita con la Cina di Xi Jinping, la difesa delle manifestanti in bianco e rosso di Minsk e la sfida a Putin, resa incandescente dall’avvelenamento del sommo dissidente Aleksei Navalny (non a caso - è lui ad esprimersi così - salvato a Berlino).
Roberto Brunelli per espresso.repubblica.it il 13 Ottobre 2020. Angela Merkel è molto brava con i numeri, questo si sa. «Ho semplicemente elaborato un modello di calcolo. A luglio avevamo 300 nuovi contagi, ora ne abbiamo 2400. Questo significa che in tre mesi le infezioni sono raddoppiate tre volte: da 300 a 600, da 600 a 1200, da 1200 a 2400. E se continuasse così, nei prossimi tre mesi si passerebbe da 2400 a 4800, da 4800 a 9600, a 19.200. Con questo volevo semplicemente sottolineare l’urgenza dell’azione». Et voilà. Ecco di nuovo la cancelliera-scienziata, la mamma di tutti i tedeschi, che spiega senz’ombra di pathos la chiave ineluttabile della guerra contro il coronavirus. Parole scandite con sovrana tranquillità, la giacchetta del tailleur questa volta è bianca, il video come sempre virale come quello di un’influencer. E poi, dopo il suo discorso al Bundestag in cui parla di “società aperta e libera”, subito è la Cdu - certo, il suo partito - a twittare con entusiasmo: «È un bene che in tempi come questi Merkel sia la nostra cancelliera». Il riferimento è alla pandemia, ma non solo: ci sono di mezzo la svolta europea del Recovery Fund, praticamente una sua creatura, l’antagonismo certo non dissimulato verso l’uragano Trump, la complicatissima partita con la Cina di Xi Jinping, la difesa delle manifestanti in bianco e rosso di Minsk e la sfida a Putin, resa incandescente dall’avvelenamento del sommo dissidente Aleksei Navalny (non a caso - è lui ad esprimersi così - salvato a Berlino). Il fatto è che la Germania Anno Domini 2020 segue la sua cancelliera. È da mesi che, sull’onda della pandemia, la sua popolarità veleggia intorno a un abnorme 80% dei consensi, mentre il blocco Cdu/Csu di cui è espressione arriva a sfiorare il 40%, più o meno sette punti più del 32,9% del 2017. Nella classifica “Deutschlandtrend” dei politici più apprezzati Merkel stacca di dieci punti il secondo arrivato, ossia il ministro alla Sanità Jens Spahn, e di venti punti il candidato socialdemocratico alla cancelleria Olaf Scholz. Raramente una nazione si è identificata con tanto trasporto in chi lo guida: lo dicono i sondaggi, lo dicono le chiacchiere da bar, lo dice la politica. Numeri fantascientifici ad altre latitudini, con la Germania del “Merkel IV” che sembra aver trovato una centralità globale impensabile solo pochi anni fa, quando il Paese rimaneva inchiodato all’aggettivo “riluttante” immancabilmente associato all’espressione “egemone” utilizzata per definire il colosso al centro dell’Europa. L’ultimo paradosso tedesco è tutto lì: la cancelliera più amata e più riverita nel mondo tra un anno se ne va, lascia alla fine della legislatura. E immaginarsi la Germania senza Merkel è un salto nell’ignoto. La cancelliera appare insostituibile, e la sua mano ferma nella gestione della pandemia ha rafforzato questa immagine una volta di più. Thomas Schmid, editorialista ed ex direttore della Welt, quotidiano di riferimento del mondo conservatore, ricorre ad un paragone storico: «Quando Adenauer si dimise dopo 14 anni da cancelliere, nel 1963, su un giornale tedesco apparve una caricatura che mostrava un uomo anziano, con un berretto da notte in testa, il quale, aprendo le tende della sua camera da letto, esclama: “Incredibile, siamo già da otto giorni senza Adenauer, eppure il sole continua ancora a sorgere”. Ebbene, molti tedeschi si sentiranno nello stesso modo quando Merkel non sarà più cancelliera». Così, da tempo corre sottotraccia l’ipotesi di un inusitato quinto mandato targato Merkel, nonostante lei abbia ripetuto fino allo sfinimento che non si ricandiderà. La domanda che si ripete in tutta la Germania, anche in ambiti culturalmente lontanissimi dalla cancelleria, è sintetizzata in maniera piuttosto efficace da un tweet dell’autrice tedesca di origini turche Sibel Schick: «Non sono una fan di Merkel. Ho semplicemente paura di quello che viene dopo. Perché certamente non sarà meglio, ma molto peggio». Poi ci si sono i numeri. Numeri che passano di mano in mano a Berlino, dove si è incerti se prenderli con gioia o con terrore, e che dicono che l’addio della cancelliera aprirà una voragine: fino al 48% degli elettori della Cdu potrebbe votare un altro partito se Merkel dovesse davvero andarsene. Dice, inoltre, il rilevamento dell’istituto Forsa, che il 30% di chi vota cristiano-democratico potrebbe rivolgersi ai Verdi, il 19% all’Spd, il 18% ai liberali dell’Fpd e solo il 3% all’ultradestra dell’Afd. «Potenzialmente un terremoto», si va sussurrando in casa Cdu. Dove si sa benissimo che Merkel è il convitato di pietra delle prossime elezioni: perché se non si candiderà si tratterà di riempire una voragine, mentre se rimanesse in pista, lei che è al governo ininterrottamente dal 2005, si creerà un precedente mai visto in una democrazia occidentale avanzata. «Però è evidente è con la sua statura globale e la sua popolarità rappresenterebbe un asso formidabile alle elezioni dell’autunno 2021», ci dice a microfoni spenti un deputato. Tutti a Berlino ti ripetono che il terremoto di cui sopra si presta a scenari del tutto impensabili neanche un anno fa, quando la cancelliera era ancora un’“anatra zoppa”. Costretta alle dimissioni da leader di una Cdu alla frenetica ricerca dell’identità perduta sotto i colpi della post-ideologia merkeliana che tanto piace agli elettori di ambito progressista: la “politica delle porte aperte” nella crisi dei migranti del 2015, prima ancora l’uscita dal nucleare, poi il matrimonio tra persone dello stesso sesso e infine l’inaudito Recovery Fund da 750 miliardi di euro per i Paesi più colpiti dalla pandemia, giunto a ristabilire nuovi standard nell’Ue dopo anni passati a stragiurare che mai e poi mai Berlino avrebbe accondisceso alla condivisione del debito. La prima a lanciare il sasso nello stagno è stata la Bild, poi è stato il ministro all’Interno Horst Seehofer a evocare la possibilità che Merkel decida di restare al suo posto. Lo Handelsblatt è stato più esplicito: «Si sta avvicinando il quinto mandato», scriveva tempo fa il principale quotidiano economico tedesco, puntando il dito soprattutto sulla debolezza dei possibili successori. In effetti, si guarda con malcelata ansia al congresso della Cdu di inizio dicembre. Non solo perché il partito che fu di Adenauer e di Kohl sotto la coperta del merkelismo oggi appare lacerato, ma anche e soprattutto perché i tre candidati “ufficiali” alla leadership - il capo della corrente di destra Friedrich Merz, il governatore del Nord-Reno Vestfalia Armin Laschet e il presidente della Commissione Esteri Norbert Roettgen - scontano la somma delle loro debolezze, tanto che c’è persino chi arriva a temere una scissione. È che nessuno dei tre sembra in grado di risolvere il rompicapo delle alleanze dopo il voto federale dell’autunno 2021: la Spd - attualmente al governo con la Cdu nella Grosse Koalition - non riesce a riemergere dagli abissi dei sondaggi, che la inchiodano al 15%, mentre i Verdi di Robert Habeck e Annalena Baerbock, stando agli istituti demoscopici, sono ormai la seconda forza politica della Germania. Tanto che i più danno per scontata la loro alleanza con i cristiano-democratici, che sarebbe una primizia assoluta nella storia politica tedesca. Una Germania solidamente “nero-verde” al centro dell’Unione europea. Una prospettiva, tuttavia, impossibile se a vincere dovesse essere l’iper-liberista Merz, già presidente del consiglio di vigilanza di BlackRock Germany, comunque abbastanza stridula sia con Laschet che con Roettgen. Paradossalmente, quello con le maggiori chances sarebbe il ministro alla Sanità Spahn, che tuttavia ha il piccolo difetto di non essere candidato. A bordo campo si muove poi il governatore della Baviera, Markus Söder, leader dell’Unione cristiano-sociale, il partito “fratello” della Cdu: astuto e con lo sguardo lungo, Söder da tempo ha mostrato sensibilità per le tematiche ambientali, ma la caratura storicamente più conservatrice della Csu rende più complicato un abbraccio con i Verdi 2.0 di Habeck & Baerbock. «Infatti io credo che Söder resterà in Baviera», commenta il socialdemocratico Matthias Machnig, considerato lo stratega dell’ultima grande vittoria elettorale dell’Spd, quella delle elezioni europee del 2014. Secondo Machnig, è proprio l’alleanza “nero-verde” l’esito più plausibile dell’autunno 2021: «Tutt’e due i partiti vogliono questa coalizione. La disposizione d’animo a realizzarla va ben oltre le persone, anche se deve essere chiaro che si dovranno fare dei compromessi», mentre una riedizione della Grosse Koalition «non è più considerata un’opzione realistica». Impensabili accordi con l’Afd, dilaniata e schiacciata ai margini finanche dalla pandemia, o con la sinistra della Linke, esili le prospettive dei liberali, che con il loro 5% potrebbero persino rimanere esclusi dal Bundestag. In effetti, la garante perfetta per un’alleanza nero-verde porta il nome di Angela Merkel, la “Klimakanzlerin” che decise l’uscita dal nucleare, colei che non ci pensa due volte a ricevere Greta Thunberg quando l’icona svedese si trova a Berlino. «Io escludo che si ricandiderà», ribatte invece Ralph Bollmann, giornalista del domenicale della Frankfurter Allgemeine nonché acclamato biografo dell’ex “ragazza dell’est” con il suo “La tedesca: Angela Merkel e noi”. «Già all’altro giro voleva smettere, poi è rimasta a causa dell’elezione di Trump, scelta di cui si è pentita mille volte prima del virus». A meno che, ammette lo stesso Bollmann, «una maggioranza chiara non ci sia e si riveli molto difficile la formazione di un nuovo governo: allora Merkel si troverebbe nelle condizioni di restare in Cancelleria, almeno fino a elezioni anticipate». Il punto è che la figlia del pastore Kasner non solo ha abituato la Germania e il mondo a improvvise svolte inattese, ma anche mostrato spesso di avere la stoffa dell’araba fenice. Jeremy Cliffe, reporter del New Statesman e uno dei più acuti osservatori di cose tedesche, si è divertito a mettere insieme un po’ di vecchi titoli della stampa internazionale: “È in vista la fine dell’era Merkel”, sostiene il Financial Times nel 2015. “Arriva la fine dell’era Merkel”, echeggia il New York Times nel 2016. “La lunga e dolorosa fine di Angela”, è il verdetto di Politico nel 2018. Oggi la storia è tutta un’altra. «La tormentata Germania del 2005 sarebbe diventata la Germania più aperta e consapevole del 2020 senza di lei? Sospetto di no», sibila su Twitter Cliffe, secondo il quale la possibilità che Merkel si ricandidi «è del 10% se Trump dovesse vincere il voto americano». Ancora ipotesi da Sudoku globale, ancora una battaglia di numeri. Pane per i denti della scienziata di nome Angela.
Gloria Remenyi per “la Stampa” il 4 ottobre 2020. C'è una parola che è risuonata chiaramente nella giornata del 30° anniversario della Riunificazione tedesca. È «coraggio» il termine su cui hanno puntato il Presidente della repubblica Frank-Walter Steinmeier e la cancelliera Angela Merkel nei discorsi per le celebrazioni ufficiali che quest' anno si sono svolte a Potsdam. «Anche oggi abbiamo bisogno di coraggio e possiamo averlo, proprio come 30 anni fa» così Steinmeier ha voluto creare un ponte tra la Riunificazione e le sfide del presente, dalla pandemia alla crisi delle alleanze internazionali. Sulla stessa linea anche Merkel: «Dobbiamo avere il coraggio di superare le differenze ancora esistenti tra Est e Ovest, ma anche di lavorare per una vera coesione della società». Ma non sono stati soltanto gli appelli della politica a dominare la scena di questo anniversario. Il 3 ottobre è stato anche una giornata di manifestazioni in tutto il Paese, di cui circa 60 soltanto tra Potsdam e Berlino. Il gruppo di sinistra Re:Kapitulation si è riunito per contestare la narrazione dell'Unità tedesca propagata dalla politica e infarcita di retorica e patriottismo. «Il 3 ottobre non c'è nulla da festeggiare» scrive il collettivo sul proprio sito. Per Re:Kapitulation la Riunificazione non è una storia di successo, bensì di ingiustizia e discriminazione. Lo dimostrerebbe - secondo il gruppo - una serie di eventi che hanno segnato gli ultimi tre decenni: dall'affermazione del mito escludente della nazione agli attentati razzisti del dopo Riunificazione. Ad Alexanderplatz si è radunata l'associazione socialista Unentdecktes Land (Terra inesplorata) che considera la Riunificazione nient' altro che un'annessione della Ddr alla Brd: «Pace anziché esercito, druzhba (in russo «amicizia») anziché nazisti, vita anziché sopravvivenza: la Ddr era diversa» recitava uno degli striscioni esposti sabato. A scendere in piazza sono stati però anche gruppi le cui istanze hanno poco a che vedere con l'anniversario, ma che cercavano visibilità. Su tutti, gli estremisti di destra che già da tempo hanno fatto del 3 ottobre un appuntamento fisso per occupare lo spazio pubblico: contestati da centinaia di contromanifestanti e gruppi antifascisti, a Berlino hanno sfilato neonazisti affiliati al partito Der III. Weg e alla scena dei «Reichsbürger», estremisti di destra nostalgici dell'Impero tedesco. Pure i negazionisti del Covid ne hanno approfittato: non sempre con successo A Costanza il movimento Querdenken (Pensiero alternativo) aveva indetto diversi cortei: ma stando alle prime stime, pare che su 15.000 persone attese se ne siano presentate circa 1.000.
30 anni fa l'unificazione tedesca. Cosa resta della Germania dell’Est, l’ex DDR "uccisa" 30 anni fa dall’unificazione tedesca. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Sono passati trent’anni da quando la DDR, Repubblica democratica tedesca, è stata cancellata dalle carte geografiche assorbita dalla Germania Federale, di cui ha rappresentato per almeno un decennio il maggior problema sociale e finanziario, quando le fu di fatto imposta la riunificazione secondo le regole di mercato. Se un tempo ti rendevi conto, in aereo, di quando passavi dalla Germania occidentale piena di luci a quella comunista con poche luci giallastre, oggi sappiamo che l’effetto ottico è finito, ma che una parte della vecchia anima e del vecchio malumore ancora esiste. Chi aveva trent’anni allora oggi ha i capelli bianchi ma ricorda talvolta con nostalgia. Nostalgia di che cosa? Probabilmente di una Germania paradossalmente un po’ anarchica e libertaria malgrado il regime di polizia, affamata di libertà ma per nulla convinta di voler far parte del sistema capitalista. Diciamo che la DDR era l’unico Stato comunista, voluto dall’Unione Sovietica, che abbia avuto successo. Inevitabile la battuta sul fatto che i tedeschi, basta che tu gli dia un ordine e quelli eseguono, ma non è così. La nostra memoria collettiva ha molti buchi e una riguarda la fine della DDR. Che cosa ricordiamo, in fondo? Il Muro, le folle che liberate dalla prigionia sciamano in occidente sulle piccole Trabant come canarini che hanno trovato la gabbia aperta, ricordiamo il cancelliere della Germania occidentale Helmut Khol gigantesco e immobile (“Sembra a un funerale” disse in diretta un cronista della DDR), e poi la riunificazione, la fine di quel piccolo Stato che durò 41 anni, essendo nato formalmente nel 1949 e che aveva celebrato prima della caduta del muro i quarant’anni di esistenza con una gigantesca “Parade” in cui i soldati marciavano al passo dell’oca come ai tempi di Hitler, ma anche come ai tempi dell’imperatore Guglielmo, figlio della regina Vittoria e che si sentiva tanto inglese quanto Hohenzollern. Trombe e tromboni e colori sgargianti, bambini biondi e generaloni con cappelli troppo alti e soldati dalle uniformi verdi per far dimenticare il grigio-azzurrino del Terzo Reich. Ma – ecco un punto interessante – quando l’Unione Sovietica mise al mondo questa Germania satellite, pari a circa la metà di quella occidentale che riuniva le ex zone d’occupazione americana, inglese e francese, volle che fosse una Germania molto tedesca. Non russificata. La Germania pre-nazista aveva avuto un partito comunista prestigioso come quello di Rosa Luxemburg (uccisa prima che Hitler fosse in campo) e poi un partito comunista che era stato una succursale del Pcus. Fu disegnata così, questa nuova Germania comunista: conservatrice in fatto di tradizione. L’elmetto tradizionale dei soldati fu un po’ allargato, ma la nuova Armee era più imperiale della Bundeswehr tedesco-occidentale. Negli anni Settanta e Ottanta i tedeschi orientali discutevano con gli occidentali sulla purezza della lingua, perché il tedesco si stava culturalmente sdoppiando: quello dell’Est era ossessivamente purista, degno di Kant e di Rilke; e quello occidentale deformato dagli americanismi. Nella RDT i giovani comunisti che frequentavano i bar, i rari ristoranti e gli auditorium erano autentici. Ricordo che per andare la sera al Teatro dell’Opera a Berlino Est gli operai si aggiustavano la tuta con camicia bianca e qualcosa che desse l’idea di un abito da sera. C’erano sempre molti giovani comunisti, cosa totalmente diversa da quel che accadeva in Cecoslovacchia dove vissi il mese drammatico della caduta del regime: o in Polonia dove i giovani erano sotto una ferrea guida cattolica, a sua volta ferreamente sorvegliata dai servizi segreti. In un recente documentario una vecchia militante della Raf (organizzazione terroristica della Germania occidentale) passata ad Est diceva: «Era chiaro che quando arrivarono quelli dell’Ovest, l’unico loro scopo era distruggere la nostra DDR. Stavamo benissimo con due soli tipi di yogurt, uno con le fragole e uno senza fragole, e adesso di yogurt ce sono sessanta». E chi è stato l’ultimo rappresentante formale di quel piccolo Stato? Una donna: una certa Angela Dorothea Kasner, una ragazza di Amburgo figlia di un pastore protestante. Diventerà Merkel col matrimonio ma allora era una studentessa di fisica molto brillante iscritta alla gioventù del partito che si chiamava Movimento Giovanile socialista: parla bene, idee chiare e diventa una delle migliori Aghitrop, il perfetto equivalente dell’italiano Agit-Prop (attivista della sezione Agitazione e Propaganda) del vecchio Pci. E diventò la portavoce del governo della RDT. L’ultima. Quella donna quadrata, testarda, non indifferente alle emozioni ma convinta di quel che pensa, è una laureata in fisica quantistica, che non è roba per tutti. Durante la competizione spaziale negli anni della guerra fredda, girava una vecchia battuta: «I fisici tedeschi dei russi sono migliori dei fisici tedeschi degli americani». Quel fisico tedesco lì, Angela, passò nelle file occidentali della CDU del cancelliere Helmut Kohl che la nominò ministro per le donne. A quel punto era accaduto qualcosa che tendiamo a dimenticare. In Europa non erano molti i fan alla riunificazione tedesca perché avevano tutti paura di una grande Germania unita. Andreotti disse: «Adoro talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei avere sempre almeno due». Fu allora che Kohl andò a Parigi per fare ai francesi e gli altri europei la proposta che non si può rifiutare: se ci autorizzate all’unificazione, noi in cambio daremo all’Europa il nostro Deutsche Mark e lo chiameremo Euro. La fine è nota. La Germania Est formalmente funzionava. Ma secondo quasi tutti gli storici ed economisti aveva i giorni contati. Funzionava socialmente nel senso che tutti avevano una casa, un lavoro, scuola e assistenza medica gratuita. Ma secondo la visione occidentale non funzionava perché non produceva risorse, ma si limitava a consumarle. Producevano nubi di nero fumo e spargevano gas. Tutto l’Oriente socialista era inquinante cinque o sei volte l’Occidente. Resistenze ai cambiamenti, burocrazia, diffidenza verso il nuovo. Ma nel quadro generale, la DDR era un Paese di sogno rispetto agli altri “buffer States”, Stati cuscinetto con cui la Russia di Stalin aveva deciso di proteggersi da eventuali invasioni, ripetendo lo schema zarista. C’era la Stasi, ma è ridicolo che in Italia e in Europa la Stasi sia diventata popolare soltanto per il film “Le vite degli altri” che rivelava una realtà piatta, normale e comune a tutto l’Est: la Stasi – come il KGB – non era soltanto una polizia segreta ma un’istituzione totalizzante. La Stasi promuoveva carriere e concorsi, ingressi nelle scuole, un nuovo appartamento e per questo, sempre come il KGB, aveva bisogno di sapere sempre tutto su tutti, specialmente ciò che è insignificante. Lo scrittore praghese Ivan Klima, che conobbi nella sua casa che somigliava a una discarica, scrisse un bellissimo e premiato romanzo, “Amore e spazzatura”, ricostruendo dagli scarti nei bidoni la vita erotica di persone depresse in una società che non smaltiva rifiuti. A Berlino o a Lipsia era lo stesso. A Lipsia era la grande sede tedesca del KGB sovietico di cui uno degli ultimi ufficiali è stato il colonnello Vladimir Putin, che infatti parla un decoroso tedesco. Lì, Stasi e KGB fondevano le loro strategie e conoscenze come ho già raccontato a proposito delle imprese della banda di Carlos “lo Sciacallo” che aveva base a Budapest. Ma la Stasi era una eccellente agenzia di intelligence che reclutava facilmente nella Germania capitalista dove fece il colpo del secolo arruolando il brillantissimo agente Gunter Guillaume che diventò il segretario personale di Willy Brandt, prima sindaco di Berlino Ovest e poi cancelliere della Repubblica federale tedesca. Lo storico russo naturalizzato inglese Boris Volodarsky – ex colonnello del servizio segreto sovietico e oggi accademico occidentale – mi mostrò le foto di sé stesso e dei suoi uomini travestiti da soldati americani su un finto carro armato americano mentre se ne andavano a zonzo nella Germania occidentale sotto la direzione della Stasi, beffando la Nato. Quando arrivarono gli occidentali nella DDR dopo la caduta del muro nel novembre del 1989 i dirigenti di quel Paese ormai orfano tentarono di ottenere una autonomia formale insieme a un grande prestito con cui promettevano in quattro anni di riciclare e rendere competitive tutte le industrie della repubblica socialista per renderle competitive. Ma a Bonn non ne vollero sapere: dovete buttare via tutto, prenderemo noi il controllo – risposero – e non concederemo un solo marco. Ne seguì una crisi esistenziale catastrofica di cui noi non sappiamo o ricordiamo nulla: manifestazioni di piazza, scontri con la polizia, suicidi, disperazione. Per distruggere le vecchie imprese di Stato fu mandato da Berlino un esperto liquidatore di aziende: un uomo massiccio e benevolo dall’espressione comprensiva e triste di nome Detlev Rohwedder. Era il presidente della Treuhand, società specializzata nello smembrare fabbriche inutili e crearne di nuove. Intanto, tutti – o quasi – licenziati e in cassa integrazione. Un rapporto integrale sullo stato dell’industria diceva che il personale era assenteista e indisciplinato e i prodotti non competitivi con quelli occidentali e senza mercato. Il cancelliere Kohl disse in televisione: «Molti staranno meglio ma nessuno starà peggio». Ma gli uffici di collocamento non smaltivano la lista d’attesa. Le donne furono le prime ad essere sbattute fuori. E fu allora – eravamo nel 1990 – che tornò a farsi sentire la RAF, l’organizzazione terrorista simile alle nostre brigate rosse. E Rohwedder fu assassinato all’imbrunire con una operazione talmente perfetta da essere considerata dagli esperti “di tipo militare”. L’omicidio fu rivendicato dalla RAF che però non esisteva più da anni. Oggi, a trenta anni di distanza, tutti gli analisti sostengono che l’eliminazione di Rohwedder fu l’ultima operazione della Stasi, formalmente disciolta. Era il 2 aprile 1991 a Düsseldorf quando Detlev Rohwedder in piedi nel suo studio ebbe la schiena spezzata da un colpo di fucile di precisione che attraversò i vetri della finestra. Il liquidatore era stato liquidato dagli ultimi agenti della Stasi. Oggi, a trent’anni di distanza tutti sono d’accordo nel dire che la Germania ha vissuto il periodo di maggior crescita, influenza e potenza commerciale, senza per questo diventare un pericolo per l’Europa e per il mondo. Angela, la piccola giovane comunista diventata cancelliere, su questo argomento è stata e resta perentoria: la sua Germania non intende mai usare le armi, neppure nelle missioni di pace. Ciò manda in bestia gli americani che la accusano di sbafare la costosa protezione militare americana e di spendere quanto risparmiato con una produzione eccessiva che espelle dal lavoro gli operai americani. Questa è la principale ragione dell’“America First” di Donald Trump che non ama la Merkel e il sentimento è reciproco. Ma ancora oggi la grande Germania unita è sotto il comando di una rodata agit-prop della gioventù comunista della Repubblica democratica tedesca, a tempo perso laureata in fisica quantistica.
Germania, sono 319 gli estremisti di destra nelle forze di sicurezza. Pubblicato martedì, 06 ottobre 2020 da Tonia Mastrobuoni su La Repubblica.it. "I numeri sono piccoli": per il ministro dell'Interno Horst Seehofer che ha presentato il primo rapporto nazionale sull'estremismo di destra negli apparati di sicurezza in Germania "non c'è un problema strutturale" di filonazismo nei servizi segreti o nella polizia. "La stragrande maggioranza, ossia oltre 99% dei dipendenti, sono fedeli alla costituzione" ha scandito in conferenza stampa. Il rapporto, riferito al periodo che va dal 1 gennaio 2017 al 31 marzo del 2020, cita però 319 casi di sospetti simpatizzanti dell'ultradestra rilevati negli uffici regionali, cui si aggiungono 58 scovati negli apparati federali. Di questi ultimi, ben 44 estremisti erano nascosti nella polizia federale, sei nella polizia criminale e altri nella dogana, ma anche nei servizi segreti interni ed esteri (Verfassungsschutz e Bundesnachrichtendienst). Un capitolo a parte riguarda la Bundeswehr: tra i soldati i servizi segreti militari avrebbero rintracciato ben 1064 sospetti estremisti. La stragrande maggioranza dei 319 casi rilevati negli apparati di sicurezza riguarda lo scambio di messaggi razzisti o svastiche e simboli antidemocratici nelle chat; solo una minoranza partecipa a riunioni o gruppi o manifestazione estremiste. Resta il mistero sul perché il ministro della Csu non ritenga necessario approfondire in particolare il tema del razzismo nella polizia, dopo i clamorosi casi di neonazisti e nostalgici del Reich riemersi nelle ultime settimane. "È un tema universale", si è schernito. Aggiungendo soltanto che ogni caso di estremismo "è una vergogna". Il capo dei servizi segreti interni, Thomas Haldenwang, gli ha fatto eco, definendo ogni caso di radicalizzazione "un caso di troppo" e ha promesso una stretta sorveglianza sull'estremismo bruno negli uffici di chi "ha giurato fedeltà alla costituzione". Il capo della polizia federale, Dieter Romann, ha ricordato che 31 dei 44 neonazisti o nostalgici del Reich scovati tra gli agenti "sono emersi grazie alla segnalazione dei colleghi: vuol dire che non vengono tollerati". Ma Romann, dopo settimane di polemiche per l'emersione di casi gravi nella polizia del Nordreno-Westfalia e dell'Assia, insiste che "non vediamo reti di estrema destra" nella polizia. Il numero uno della Bundespolizei respinge "ogni accusa di razzismo latente, anche l'argomento che avremmo un problema strutturale non è fondato".
Neonazismo, rimosso il capo dell'intelligence tedesca. La ministra della Difesa di Berlino manda via il numero uno dei Servizi segreti: “Serve una svolta nella lotta all’infiltrazione estremista nelle forze armate”. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 24 settembre 2020. È una marea nera, che sta contagiando le istituzioni tedesche: un’ondata neonazista sempre più diffusa tra le polizie e le forze armate della Germania. Per questo la ministra della Difesa ha deciso una misura drastica: la rimozione del capo dei servizi segreti. Annegret Kramp-Karrenbauer, esponente di spicco della Cdu e fino allo scorso febbraio candidata a succedere ad Angela Merkel, lo ha decretato con una mossa improvvisa: Christof Gram sarà sostituito il prossimo mese dalla guida dell’intelligence. La ministra gli ha riconosciuto l’impegno nell’avere avviato riforme e migliorato il lavoro dei Servizi ma ha dichiarato che la prossima fase della riorganizzazione richiede una svolta «che deve essere visibile anche in termini di persone». Il governo federale infatti è sempre più preoccupato per il dilagare delle adesioni a formazioni di ultradestra tra i militari. Una situazione così grave da avere spinto nello scorso luglio a sciogliere una compagnia delle forze speciali: le leggendarie Ksk create all’indomani dell’attacco palestinese alle Olimpiadi di Monaco, diventate il modello di tutte le teste di cuoio europee. «Si è permesso a una cultura di estremismo di diffondersi dietro un muro di segretezza», aveva dichiarato allora Annegret Kramp-Karrenbauer. I commandos incriminati non si erano limitati agli slogan sul Reich e alle feste con saluti hitleriani: avevano fatto sparire dalla caserma chili di esplosivo e 48 mila proiettili. Nessuno di loro ha collaborato con le autorità, dimostrando l’esistenza «di una cultura tossica del comando». E così la ministra ha ordinato la ristrutturazione dell’intero corpo speciale, l’élite combattente della Germania moderna, impegnato in patria e all’estero nella lotta contro il terrorismo. È dal 2017 che gli episodi di infiltrazione neonazista vengono segnalati, spesso legati alla xenofobia contro gli immigrati. Un soldato venne arrestato proprio mentre pianificava attentati che dovevano essere falsamente attribuiti a sigle islamiche. Da allora ben 600 membri delle forze armate sono finiti sotto inchiesta per i legami con gruppi della destra radicale. Un fenomeno così esteso da spingere il governo a varare una legge per semplificare il congedo dei militari sospettati di estremismo. Il compito di bonificare le istituzioni è stato affidato ai servizi segreti. E Christof Gram venne scelto da Angela Merkel nel 2015 dopo che erano emerse ombre anche sul comportamento di agenti dell’intelligence: Gram era un esperto di diritto, che ispirava fiducia perché esterno ai ranghi militari e delle polizie. Adesso Annegret Kramp-Karrenbauer vuole qualcuno che conduca l’operazione di pulizia con più determinazione: «Ora serve una scopa di ferro».
L’incubo della Germania: così la peste suina danneggia l’economia tedesca. Federico Giuliani il 20 settembre 2020 su Inside Over. La peste suina africana (PSA) ha colpito in pieno la Germania, provocando apprensione tra tutti gli allevatori dell’Europa. Era il 10 settembre quando il ministro tedesco dell’Agricoltura, Julia Kloeckner, comunicava in conferenza stampa il primo caso dell’infezione mortale per i suini. I test effettuati su un cinghiale trovato morto nel Land orientale di Brandeburgo, nei pressi del confine con la Polonia, aveva subito fatto scattare l’allarme. Anche perché la PSA, pur non colpendo gli esseri umani, è quasi sempre letale per gli animali che la contraggono, ovvero maiali e cinghiali. Nel recente passato la sua presenza è stata confermata in vari Stati europei, provocando l’abbattimento su larga scala di interi allevamenti. La trasmissione avviene in due modi: quando gli animali entrano in contatto con superfici, altri animali o cibi infetti oppure attraverso le zecche. Gli effetti della malattia, per lo più emorragie, sono letali e uccidono nel 90% dei casi. Al momento non esistono vaccini. Tornando in Germania, nonostante le rassicurazioni del ministro Kloeckner, Berlino deve fare i conti con il sensibile calo delle esportazioni di carne di maiale, dovuto a blocchi e diffidenze varie. Come se non bastasse, pochi giorni fa sono stati scoperti cinque nuovi casi di PSA, sempre nel Land di Brandeburgo. Quattro cinghiali sono stati trovati morti nel distretto Oder-Spree, mentre un altro animale, ancora vivo, presentava sintomi della malattia ed è stato addormentato.
Il contraccolpo economico. L’annuncio di una eventuale epidemia di PSA può creare allarme nel settore agricolo, come già avvenuto più volte in più parti del mondo. Dopo la scoperta del primo caso tedesco, la Cina, principale acquirente di maiale tedesco, ha vietato le importazioni di carne dalla Germania. A ruota, anche Corea del Sud, Giappone e Brasile hanno preso decisioni analoghe. Il governo brasiliano ha inviato a Berlino un comunicato nel quale richiede alle autorità sanitarie teutoniche informazioni dettagliate sulle misure di sicurezza biologica e alimentare adottate negli impianti industriali tedeschi. Ricordiamo che nei primi mesi del 2020 Brasilia aveva importato 1.800 tonnellate di carne suina tedesca. Ma l’apocalisse perfetta – da alcuni ridefinita Aporkalipse now – potrebbe consumarsi nel vero senso della parola se Pechino dovesse continuare a sospendere le importazioni. Già, perché secondo quanto riportato dal South China Morning Post, nella prima metà del 2020, la Germania ha venduto al Dragone la bellezza di 233.000 tonnellate di carne di maiale. Ovvero: più di un quarto delle sue esportazioni totali. Va da sé che i danni economici rischiano di essere enormi.
Previsioni nefaste. Le previsioni degli analisti non sono affatto positive. Gli esperti ritengono che il ritorno di fiamma della PSA in Germania potrebbe non solo danneggiare gli allevatori tedeschi ma anche influenzare i prezzi della carne di maiale in tutto il resto d’Europa. Peggio ancora, le aziende di Berlino rischiano adesso di perdere notevoli quote di mercato in favore di fornitori americani. La Cina, da questo punto di vista, gioca un ruolo chiave. Il motivo è semplice: il gigante asiatico è il più grande consumatore mondiale di carne di maiale. Per quanto riguarda i prezzi, venerdì scorso in Germania abbiamo assistito a una riduzione da monitorare con estrema attenzione. Calcolatrice alla mano, il costo di un chilogrammo di carne di maiale è sceso di circa il 13%, passando a 1,27 euro. Una cifra troppo bassa, sottolineano in coro gli allevatori.
Quel fiume di soldi alla Chiesa tedesca che Ratzinger voleva eliminare. La Chiesa tedesca gode di uno status particolare: è la tassa ecclesiastica versata dai cattolici a garantire ricchezza. Ma i cattolici non ci stanno più. Francesco Boezi, Sabato 19/09/2020 su Il Giornale. La "tassa ecclesiastica" della Chiesa tedesca distingue il contesto cattolico teutonico da tutti gli altri. È anche per questo che l'episcopato tedesco ha più potere degli altri, ammettono i conservatori. Quelli che sono da sempre favorevoli ad una revisione della regola. In qualche modo, Joseph Ratzinger ci aveva provato. Ma l'abolizione della "decima" prevista per i cattolici che risiedono in Germania è rimasta un tabù. Dopo il pontificato del tedesco, a parte le affermazioni del "fronte tradizionale", non se n'è più parlato. Il procedimento per questa tassazione è praticamente automatico. Per essere sottoposti al regime di prelievo della Chiesa cattolica tedesca basta il solo battesimo. Poi scatta un obbligo di versamento, che corrisponde all'8-9% del proprio reddito lordo. Ne sa qualcosa il campione del mondo Luca Toni cui, ad un certo punto, venne chiesta di punto in bianco una cifra pari a circa un milione e settecentomila euro in quanto cattolico. Joseph Ratzinger non è mai stato convinto della bontà di quella imposizione. Il Papa emerito è stato piuttosto chiaro quando, da regnante, ha scritto proprio in riferimento alla Chiesa tedesca che "gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo". Non c'è scritto "abolizione della tassa ecclesiastica", ma si può dedurre. Il contesto ed i dettagli sono stati ripercorsi tempo fa dal vaticanista Sandro Magister sul suo blog. E gli ambienti ratzingeriani sono pronti a testimoniare: Benedetto XVI avrebbe voluto rivedere quella regola. Se non altro perché le possibilità della Chiesa cattolica non dovrebbero essere legata alla rendicontazione dei battezzati: "Non muovono da una dinamica di fede. Credo che questo rappresenti il grande pericolo della Chiesa in Germania: ci sono talmente tanti collaboratori sotto contratto che l'istituzione si sta trasformando in una burocrazia mondana.... . Mi rattrista questa situazione, questa eccedenza di denaro che poi però è di nuovo troppo poco, e l'amarezza che genera, il sarcasmo delle cerchie di intellettuali". Queste sempre le parole di Ratzinger, che in quel discorso ha ammesso tuttavia di non essere contrario in sé e per sé alla "decima". Certo è che diviene difficile immaginare una profonda riforma del sistema tedesco senza uno stravolgimento della sua norma principale, la "tassa" appunto. E se qualcuno avesse ancora dubbi, basterebbe guardare cosa hanno proposto i ratzingeriani in questi sette anni. Un esempio su tutti, l'opera di monsignor Gregor Maria Hanke, il quale si è schierato apertamente per l'abolizione. Il dibattito si è riaperto un minimo in funzione del "Sinodo biennale" dell'episcopato tedesco, l'appuntamento mediante cui il fronte progressista vorrebbe modificare alcuni temi dottrinali, che tuttavia sono di stretta competenza della Chiesa universale (almeno alcuni). Il "fronte tradizionale" è sceso in strada, in segno di contenuta protesta. E tra i punti sollevati c'era appunto la scomparsa di una tassa considerata inopportuna. A capitanare quel gruppo di fedeli, c'era mons. Carlo Maria Viganò. L'ex nunzio apostolico che ha domandato le dimissioni di papa Francesco in funzione del caso McCarrick. Ma la necessità dell'abolizione è condivisa anche da altre personalità legate agli insegnamenti ratzingeriani. Gli effetti della persistenza della tassa non sono neutri. Sono i numeri a fotografare la situazione: ha scritto Emanuel Pietrobon su InsideOver che "272.771 persone hanno deciso di abbandonare deliberatamente la Chiesa cattolica, in aumento significativo rispetto alle 216.078 del 2018". E il dato vale solo per il 2019, mentre la progressione del fenomeno rischia la mancata soluzione di continuità. Non si tratta più tanto di evitare la "protestantizzazione", quanto di prendere atto di un fenomeno che appare più urgente da analizzare: il sistema, così com'è, non trova il placet di tanti cattolici, tedeschi o meno che siano ma comunque residenti in Germania. Ratzinger aveva avvertito.
L'ultima dalla Germania: i gradi dei militari saranno anche femminili. Esponenti di maggioranza e di opposizione hanno reagito esortando il governo Merkel a pensare piuttosto ai problemi veri e urgenti dell’esercito. Gerry Freda, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Il governo tedesco, nella persona del ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, ha messo a punto una riforma intesa a rafforzare il "lessico femminile" tra i ranghi delle forze armate nazionali. Il piano è appunto inteso a istituire dei gradi militari di genere femminile, così da assicurare la parità dei sessi all’interno della Bundeswehr e scongiurare qualsiasi discriminazione ai danni delle donne in divisa. La svolta promossa dal ministero della Difesa di Berlino al fine di cancellare il “maschilismo verbale” dal mondo delle forze armate non sembra però al momento riscuotere ampi consensi. Nel dettaglio, il progetto della Kramp-Karrenbauer è diretto a introdurre, accanto ai tradizionali gradi militari di genere maschile, i loro equivalenti al femminile. Ad esempio, affianco al tradizionale vocabolo “Bootsmann” (marinaio) verrà introdotto l’equivalente femminile “Bootsfrau” (“marinaia”) e, inoltre, accanto all’abituale grado di “Maggiore” spiccherà quello di “Maggioressa”. Finora, il vocabolario degli ambienti militari ha costantemente utilizzato termini di genere maschile indifferentemente per donne e uomini. Negli ultimi anni, le donne in servizio nella Bundeswehr hanno iniziato a venire qualificate premettendo i termini “Frau” (signora) o “Madame” al rispettivo rango militare, declinato tradizionalmente al maschile (Ad esempio, “Frau Major” e “Madame Major”, ossia “Signora Maggiore” e “Madama Maggiore”). La riforma del governo Merkel per assicurare la parità di genere lessicale nella sfera militare riprende un progetto messo a punto anni fa dalla Commissione federale per le pari opportunità nell’esercito, mai tradotto però in provvedimenti concreti a causa della forte opposizione da parte delle stesse donne in servizio nella Difesa. Proprio queste hanno nuovamente alzato la voce contro il recente tentativo della Kramp-Karrenbauer di imporre dei vocaboli femminili nel contesto dei gradi militari. Le donne tedesche arruolate nell'esercito si sono appunto ultimamente coalizzate contro l’apparente riforma femminista dell’esecutivo Merkel lanciando sui social lo slogan “Gradi militari differenti in base al genere non c’entrano niente con l’emancipazione”. Sul web, molte delle promotrici della protesta hanno indicato numerose ragioni della loro contrarietà all’iniziativa del ministero. Tra queste, il tenente Wiedke Hönicke ha scritto: “L’uniforme non conosce colori della pelle o caratteri sessuali, ci rende tutti uguali, tutti camerati. Ci unisce, così come il grado militare, che è lo stesso per tutti”. La stessa ha poi concluso: “Per me, l’uguaglianza non significa gradi militari distinti in base al genere delle persone, ma vuol dire solamente uguaglianza di diritti e di doveri”. La proposta della Kramp-Karrenbauer ha suscitato le critiche anche di molti esponenti politici, sia di maggioranza sia di opposizione, che hanno reagito al piano di “femminilizzazione lessicale” accusando l’attuale ministro della Difesa di trascurare, come il suo predecessore Ursula von der Leyen, i reali bisogni dell’esercito tedesco per concentrarsi su problemi futili. La von der Leyen era stata infatti criticata in passato per non avere mosso un dito riguardo alla carenza di risorse e di armamenti efficienti patita dalla Bundeswehr, preferendo al contrario provvedimenti effimeri e meramente propagandistici come l’istituzione di asili-nido nelle caserme e l’introduzione di orari di lavoro flessibili per il personale militare. Tra i politici di maggioranza, contro la recente proposta del ministero della Difesa si è inizialmente scagliato l’esponente socialdemocratico Siemtje Möller, che ha tuonato: “Quando parlo con delle donne in divisa, loro non si lamentano per i ranghi non declinati al femminile, ma per la carenza di dispositivi di protezione adeguati, di stivali, di uniformi, e di tute della loro misura. Dei gradi con desinenze al femminile potrebbero anche sembrare carini, ma non risolvono il problema della carenza di equipaggiamenti, che danneggia soprattutto le soldatesse”. Esortazioni affinché il ministro della Difesa del governo Merkel si occupi di questioni militari più gravi e urgenti, come appunto la scarsità di risorse adeguate per la Bundeswehr, piuttosto che di rivoluzioni lessicali sono state avanzate anche da Agnes Strack-Zimmermann, rappresentante della forza di opposizione Partito Liberale Democratico (Fdp). Per il momento, la Kramp-Karrenbauer non ha reagito pubblicamente al coro di critiche, ma dovrà prendere una decisione definitiva sul piano di riforma lessicale delll'esercito non oltre la fine della prossima settimana.
Corruzione e tangenti: la Germania peggio dell'Italia. La Germania passa per essere un Paese onesto, corretto, inflessibile. Ma i numeri dicono il contrario: l'economia sommersa vale 351 miliardi di euro e le tangenti 250, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Essere tedeschi ha un vantaggio: si è sempre dalla parte della ragione. È una certezza che Manfred Weber, capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, aveva stampata in volto quando, replicando al discorso di inaugurazione del semestre di presidenza italiana dell’Europa di Matteo Renzi, gli ha rinfacciato di “chiedere soldi in cambi di riforme. E poi come facciamo ad essere sicuri che le facciate?” Dubbio legittimo, ma non sempre la Germania è quel monolite di etica che si vuol far credere. Ha un’immagine impeccabile e un volto sempre ben rasato, ma la Germania è molto più simile all’Italia di quanto Weber non creda. E lo è in un campo nel quale noi passiamo per specialisti, con un know-how consolidato: la corruzione. Forse Weber non ricorda un episodio interessante capitato il 15 aprile di quest’anno proprio al Parlamento europeo. Nikolaos Chountis, europarlamentare greco di Syriza (lista Tsipras), riceve dal tedesco Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo e candidato del Pse alla presidenza della Commissione, una risposta che non s’aspettava. Un anno prima la Commissione europea aveva messo nero su bianco che tra i Paesi europei solo la Germania e l’Austria non avevano ancora recepito nel proprio ordinamento né la convenzione anti-corruzione europea né quella dell’Onu. Chountis prende carta e penna per chiedere a Schulz di sapere se l’Europa avesse fatto, o avesse intenzione di fare, pressioni su Berlino perché le adottasse. Voleva anche sapere quali fossero le giustificazioni della Germania per non averlo ancora fatto e se era vero quanto scritto dal settimanale tedesco Der Spiegel e, cioè, che il presidente della Confindustria tedesca, Ulrich Grillo, era coinvolto in una serie di pagamenti di tangenti in Grecia quando era a capo delle società Rheinmetall e Stn Atlas. Dopo un anno la risposta di Schulz è stata lapidaria: l’interrogazione “eccede le competenze della Commissione” quindi è “inaccettabile”. Se avesse voluto rispondere, Schulz avrebbe dovuto mettere sul banco degli imputati il suo Paese e approfondire verità imbarazzanti. Molto imbarazzanti. Gli scandali Mose e Expo sembrano confermare la teoria “italiani popolo di mazzettari”. Una teoria che porta dritto dritto verso una specie di autorazzismo che vuole gli italiani “antropologicamente inferiori dal punto di vista etico” rispetto, ad esempio, alla Germania che passa per essere il Paradiso dell’etica pubblica. È così? Partiamo dai numeri. Uno dei più importanti studi che comparano l’economia sommersa dei Paesi europei viene pubblicato periodicamente a cura della Visa Europe, realizzato dalla società di consulenza internazionale At Kearney, con la supervisione scientifica di Friedrich Schneider, professore all’Università austriaca di Linz e massimo esperto continentale della cosiddetta “shadow economy”. I suoi studi e i suoi saggi sono alla base dei documenti dell’Eurostat e dell’Ocse che si occupano della materia. I risultati dello studio sono qui e il dato più importante è che, in valori assoluti l’economia sommersa tedesca è la più consistente di tutti i Paesi europei: 351 miliardi di euro pari al “nero” di Gran Bretagna, Belgio, Svezia, Irlanda e Austria messe insieme e superiore di circa 20 miliardi al “nero” italiano che è stimato in 333 miliardi. Strano che la Germania passi per essere come l’Eden degli onesti, perché i dati non dicono questo: dicono che l'economia “non osservata” tedesca è la più grande d'Europa. Per “economia non osservata”, familiarmente chiamata in italiano “nero”, si intende sia l'economia criminale vera e propria sia, soprattutto, l'economia non criminale che sfugge ai controlli (in particolare del fisco) come, ad esempio, il lavoro non regolare, la mancata fatturazione o la sottofatturazione. Ma prendere i valori assoluti non basta: vanno messi anche in relazione al Prodotto Interno Lordo di un Paese perché è evidente che il 13% di economia sommersa della Finlandia non equivale allo stesso 13% di economia sommersa della Germania: infatti nel primo caso si tratta di appena 26 miliardi di euro e nel secondo di 351. L’Italia, avendo un’economia più piccola di quella tedesca, ha un rapporto sommerso/Pil più alto, cioè il 21% rispetto, appunto, al 13% tedesco. Il rapporto tra economia sommersa e Pil dell'Italia è uno dei più alti e, d’altra parte, gli scandali grandi e piccoli che emergono quotidianamente sono lì a dimostrare che siamo il Paese più corrotto d'Europa mentre la Germania passa per essere popolata da manager e dipendenti pubblici puri come gigli di campo. Friedrich Schneider (unica fonte presa come riferimento in modo da non fare confusione con altre metodologie di indagine su un tema così difficile da maneggiare) ha valutato anche il peso della corruzione nei vari Paesi europei e il risultato è che, nel 2012, le mazzette tedesche hanno pesato 250 miliardi di euro rispetto ai 280 miliardi dell’Italia. La Corte dei Conti, però, valuta il valore della corruzione italiana in 60 miliardi, non in 280. Peccato, però che il dato dei 60 miliardi sia praticamente inventato perché sono il risultato di una proporzione tra il valore stimato della corruzione mondiale con il Pil italiano. Un esercizio di pura matematica senza nessuna base scientifica, ma che continua ad avere libera circolazione nel dibattito pubblico. Ma oltre alle statistiche economiche anche quelle giudiziarie, sono interessanti. Secondo un recente rapporto della Commissione europea le denunce per corruzione in Germania nel 2011 sono state 46.795: il triplo rispetto alle 15.746 dell'anno precedente. In Nord-Westafalia i casi sono passati da 6089 del 2010 a 40.894 del 2011. Ovviamente c'è una spiegazione. Se si va a vedere il testo originale del rapporto si scopre che decine di migliaia di denunce riguardano un caso di tangenti che ha coinvolto tutti i dipendenti, civili e militari, di una base militare britannica e che vede coinvolti i dipendenti di una concessionaria automobilistica in due distinti processi. Anche il dato del 2010 (15.746 casi) è influenzato da singoli casi specifici. Bisogna andare al 2009 (quando non ci sono stati casi anomali di corruzione che falsano il dato) per avere un numero affidabile ed è 6.354 denunce e va confrontato con quello del 2012: 8.175. Un bel numero, tantopiù se si considera che mentre le denunce di crimini aumentano, le indagini diminuiscono: dalle 1.813 del 2010 si è passati alle 1.528 del 2011 fino alle 1.373 del 2012. Passiamo alle condanne: secondo l'Ocse tra marzo 2011 e il marzo 2013 di tutti i procedimenti anti corruzione, 33 sono stati archiviati per mancanza di prove mentre in 21 processi si è arrivati alla condanna nei confronti, complessivamente, di 141 persone. Di queste 141 persone, 43 sono state ritenute colpevoli di corruzione verso funzionari pubblici stranieri e questo significa che, secondo la giustizia tedesca, appena 138 persone in due anni sono state ritenute colpevoli di aver pagato tangenti all'interno della Germania. Un numero ridicolo se si pensa alla stima di Schneider secondo la quale le tangenti in Germania pesano per 250 miliardi ed è ancora più ridicolo se si pensa che in un solo anno, il 2012, le denunce per corruzione sono state, come detto, più di 8mila. Il confronto con i dati italiani è, a questo punto, d’obbligo. Nel 2011 le denunce per corruzione e concussione e abuso d’ufficio sono state 1820 (1.587 nel 2012, ultimi dati disponibili) mentre le persone condannate per peculato, malversazione, concussione, e corruzione sono state 800. In Italia si denuncia meno, ma si condanna molto di più. Come mai? Il rapporto della Commissione Europea sulla corruzione sembra mettere in relazione abbastanza diretta questa differenza tra denunce (molte) e indagini (poche) in Germania con il fatto che la magistratura tedesca, a differenza di quella italiana, è soggetta al potere politico. In alcuni specifici casi, infatti, il ministero della Giustizia di Berlino ha il diritto di “istruire” il magistrato titolare di un’inchiesta su come condurre le indagini e su quale particolare concentrare le sue attenzioni. E’, quindi, possibile che i magistrati tedeschi siano indirizzati dal governo a trascurare i casi di corruzione per concentrarsi su altri reati. E non sembra che questo stato di cose scandalizzi più di tanto i magistrati stessi: solo il 50% di essi, infatti, vorrebbe l’abolizione del potere di indirizzo delle indagini da parte del governo. Certo, quasi tutti gli indici di corruzione, stando al rapporto della Ue, sono migliori rispetto alla media europea, ma il rapporto fa notare che l'Ocse ha più volte chiesto alla Germania di rendere esecutive le sentenze (poche) che ricadono sotto il reato di corruzione visto che “la maggior parte delle sentenze vengono sospese”. Strano, è la stessa accusa che si rivolge all'Italia. Per di più il Greco, Group of States Against Corruption, nel suo rapporto sulla Germania del novembre del 2012, ha criticato il paese di Frau Merkel per le sue regole di finanziamento ai partiti poco rigorose (rafforzate nel 2013), per la corruzione dei parlamentari e per gli scarsi progressi nell'adozione delle raccomandazioni dell'organizzazione.
Corruzione e tangenti: il caso Germania. La seconda parte dell'inchiesta sul sommerso e le mazzette in salsa tedesca, scritta da Marco Cobianchi Su “Panorama”. Quello tedesco non sembra un popolo “antropologicamente” onesto. Se l’Italia ha avuto Calciopoli, i tedeschi hanno avuto il “caso Bochum”, dal nome della piccola procura tedesca che, nel 2007, iniziò a indagare sulla Bundesliga. Ben presto l’inchiesta si allargò a tutta Europa portando alla luce tre partite della Champion’s League truccate e 323 incontri manipolati in diversi campionati europei 69 dei quali in Germania per un giro di mazzette di 12 milioni di euro a arbitri e dirigenti sportivi, oltre a 175 milioni di “premio partita”. Sono state arrestate complessivamente 347 persone quasi la metà delle quali residenti in Germania. Il processo tenutosi in Germania nel 2009 ha portato alla condanna di 3 sole persone (due a 5 anni e 6 mesi e una a 1 anno e 6 mesi), a 17 sanzioni disciplinari comminate dalle autorità sportive mentre 12 persone, a 5 anni dall’inizio delle indagini, erano ancora in attesa di una sentenza definitiva. Sempre a proposito della “società civile”: nel 2013 l’associazione dei medici tedeschi ha accusato mille propri iscritti di aver ricevuto regali (soldi, viaggi, beni di consumo) da case farmaceutiche per prescrivere ai loro pazienti farmaci dei quali, spesso, non avevano bisogno. Secondo il presidente dell’associazione Frank Ulrich Montgomery, intervistato dal settimanale tedesco Der Spiegel più della metà dei casi riguarda regali fatti dalla società israeliana Ratiopharm. Nel frattempo a Leipzig due primari sono stati sospesi perché scoperti a manipolare i file dei pazienti in attesa di trapianto in cambio di favori e casi simili sono stati scoperti anche a Gottingen, Monaco e Regensburg. Ma l’anno nel quale i tedeschi sono scesi con i piedi per terra e si sono resi conto di non essere affatto immuni dal virus della tangente è stato il 2007 quando ben 6 grandi società sono state accusate di corruzione. Il caso più clamoroso riguarda la Siemens, multata per 600 milioni di euro per essere stata scoperta a pagare sistematicamente mazzette in tutto il mondo per accaparrarsi contratti pubblici usando un fondo nero alimentato da centinaia di milioni di euro ogni anno. Oltre ai 600 milioni alle autorità tedesche, la Siemens ha pagato altri 800 milioni alle autorità americane e ha versato altri 100 milioni a organizzazioni internazionali noprofit che combattono la corruzione negli affari. Nel 2009 scoppia anche il caso del colosso Man che paga 150 milioni di euro per risolvere un processo nel quale veniva accusata di aver pagato tangenti per vincere contratti, anche all'estero. Altri 500mila euro (andati in beneficenza) sono stati versati anche dall'allora amministratore delegato, lo svedese Hakan Samuelsson, che si è sempre dichiarato innocente. In seguito Samuelsson è diventato capo della Volvo, carica dalla quale si è poi dimesso. Ma, per dare un'idea di come si alimenta un luogo comune, il profilo di Samuelsson su Wikipedia non fa cenno né allo scandalo tangenti, né alla multa né ai veri motivi delle sue dimissioni da capo della Man, società che, sotto la sua guida, ha realizzato profitti record assicurandogli una remunerazione di 7,2 milioni di euro nel solo 2009. Poi ci sono le tangenti greche, quelle sulle quali Nikolaos Chountis ha chiesto, inutilmente, lumi a Martin Schulz. A guardare gli archivi dei giornali sembra che nessun affare concluso da aziende tedesche in Grecia sia esente dalla mazzetta. Il caso più importante riguarda l'affare dei sottomarini, una storia da 1,14 miliardi di euro che inizia una decina d'anni fa le cui indagini vennero subito interrotte a causa, secondo i giornali tedeschi, “della scarsa collaborazione da parte delle autorità greche”. All'inizio del 2014 lo scandalo è riemerso in seguito all'arresto di due dipendenti pubblici greci accusati di avere intascato mazzette per 23,5 milioni di euro. A pagare sarebbero state la Hdv e la Ferrostaal. Non solo: per un altro affare di armi, a dicembre del 2013 è finito in carcere un ex alto dirigente del ministero della Difesa, Antonis Kantas, con l'accusa di aver ricevuto 1,7 milioni di tangenti dal rappresentante greco della società tedesca Krauss-Maffei Wegmann per la vendita di 170 carri armati Leopard. Una volta in carcere ha ammesso non solo questa tangente, ma anche altri 500-600mila euro provenienti sempre dall'affare dei sottomarini. Ma nel passato accusate di aver pagato tangenti a dipendenti pubblici greci sono state anche, oltre alla solita Siemens, anche la Deutsche Bahn e la Daimler. Quella stessa Daimler che, citata in un rapporto del 2010 del dipartimento della Giustizia Usa, viene definita come società con una “lunga tradizione in quanto al pagamento di tangenti” a dirigenti pubblici stranieri. I dirigenti della Daimler sono stati accusati di aver versato tangenti per decine di milioni di euro a dipendenti pubblici di 22 Paesi del mondo compresi quelli di tutto il Medio Oriente oltre a Cina e Russia. In Iraq avrebbe addirittura violato i vincoli del programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E nonostante le indagini avessero fatto emergere violazioni anche di leggi tedesche, Daimler non è mai stata messa sotto inchiesta in Germania e se l’è cavata pagando 185 milioni di euro alle autorità americane. E si potrebbe continuare per ore: il presidente del Bayern Monaco finito in carcere per essere stato scoperto a pagare mazzette; la società Bilfinger accusata dagli Usa di aver pagato tangenti in Nigeria (multa di 32 milioni di euro); i dipendenti della Basf accusati di avere accettato soldi in nero da dei fornitori per beni e servizi poi non forniti, ma la differenza tra Italia e Germania è ormai chiara. Mentre da noi il problema è vissuto come un difetto “morale” che attiene al “carattere” nazionale, in Germania la corruzione è vista come un problema “amministrativo” per le aziende (che pagano per chiudere ogni pendenza) e penale per i suoi manager che (raramente) finiscono in carcere. Sui giornale tedeschi nessuno si sogna di accusare uno scadimento morale ma, piuttosto, si preoccupano che le mazzette, una volta scoperte, non interrompano la “normale” attività economica di una società. La stampa tedesca, nel dare il giusto risalto a questi episodi, ha comunque un atteggiamento assolutorio verso i manager tedeschi. La tesi, in genere, è: non siamo noi corruttori che paghiamo le tangenti, sono i politici stranieri che sono corrotti perché le accettano, o le pretendono. Può essere. Ma secondo Markus Funk, copresidente della Aba's Global Anti Corruption Task Force, “negli anni recenti la Germania è stata seconda solo agli Stati Uniti in quanto a numero di casi di corruzione all'estero”. E, d’altra parte, anche i politici tedeschi, in quanto a scarsa trasparenza, non scherzano. A gennaio l’amministratore delegato delle ferrovie tedesche, Rudiger Grube, ha offerto al braccio destro di Angela Merkel, Ronald Pofalla, un posto in consiglio d’amministrazione (pagato 1 milione di euro l’anno) con il compito di occuparsi di relazioni istituzionali. Nulla di illegale, per carità, tranne che passare da capo di gabinetto del primo ministro a lobbista di una società pubblica non è quello che ci si aspetterebbe da un popolo “antropologicamente” etico. Anche le dimissioni del presidente federale Christian Wulff sono state raccontate come la decisione di un uomo integerrimo che, sopraffatto dal senso dell’etica, decide di abbandonare la poltrona per una piccole, umana, debolezza: essersi fatto offrire un soggiorno di pochi giorni all’Oktoberfest. In realtà Wulff è stato costretto a dimettersi nel 2012 perché ha tentato di depistare le inchieste giornalistiche che indagavano su una donazione di 500mila euro proveniente da un ricco amico della moglie quando era governatore della Bassa Sassonia. Wulff fu costretto a dimettersi non per un peccato veniale, ma perché in una corrispondenza, diventata pubblica, da presidente della Repubblica, ha praticamente minacciato l'editore della Bild che stava per pubblicare la notizia. Riguardo al caso Oktoberfest: quel soggiorno è stato pagato dal produttore cinematografico David Groenewold a favore del quale, successivamente, Wulff scrisse una lettera al Ceo della Siemens chiedendogli di finanziare un lungometraggio che l'amico stava producendo. Due anni dopo la sentenza del processo originato dall’ospitata fu di assoluzione: non è stata ravvisata alcuna relazione tra l'invito all'Oktoberfest e la lettera di raccomandazione e Wulff, assolto da tutte le accuse, ha scritto perfino un libro per raccontare la sua versione dei fatti. Un risultato, quello dell’assoluzione, non dissimile dai molti processi che hanno coinvolto politici italiani. Che, però in troppi hanno interesse a dipingere, loro e tutti gli italiani, come persone corrotte “dentro”.
Francesco Tortora per "corriere.it" il 21 agosto 2020. «I cani non sono peluche. Hanno i loro bisogni, che devono essere presi in considerazione». Con queste parole Julia Klöckner, la ministra dell’agricoltura in Germania ha presentato la «Hundeverordnung» (norma sui cani), legge che renderà obbligatorio portare a spasso gli animali almeno due volte al giorno.
In vigore dal 2021. Il nuovo regolamento, che sarà presto presentato al Bundestag e dovrebbe entrare in vigore nel 2021, prevede che i padroni siano tenuti a portare fuori i cani per almeno un’ora ogni volta. Inoltre gli animali non dovranno essere lasciati soli a casa tutto il giorno e dovrà esserci una persona incaricata di prendersene cura. Secondo la ministra Klöckner la legge s’ispira a nuove scoperte scientifiche che dimostrano come i cani abbiano bisogno ogni giorno di «un numero sufficiente di attività e di stare a contatto con la natura». Inoltre anche legare i cani a una catena o al guinzaglio per lunghi periodi è soggetto a un divieto assoluto.
Le critiche. Secondo la ministra la legge è necessaria perché ci sono prove che dimostrano come almeno 9,4 milioni di cani di proprietà in Germania non ricevano gli stimoli di cui hanno bisogno. Ma non tutti all’interno della CDU, il partito di Klöckner, giudicano opportuno il provvedimento e anzi c’è chi lo considera addirittura ridicolo: «Non porterò il mio Rhodesian Ridgeback (cane di grande taglia spesso chiamato “cane africano cacciatore di leoni” ndr) per ore in giro con temperature di 32 gradi, piuttosto faremo un salto nel fiume per rinfrescarci» ha dichiarato il deputato Saskia Ludwig. Dello stesso avviso il collega Walther Schweiz che ironizza: «Presto diranno ai proprietari di gatti quanto spesso dovranno cambiare la lettiera».
Cani a spasso per legge. Ma così non è liberale. La Germania sta per emanare una norma di legge che renderà obbligatorio portare a spasso i cani due volte al giorno per un totale di almeno un'ora. Oscar Grazioli, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. La Germania sta per emanare una norma di legge che renderà obbligatorio portare a spasso i cani due volte al giorno per un totale di almeno un'ora, come minimo. «I cani non sono peluche e hanno i loro bisogni e le loro esigenze» ha affermato Julia Klöckner, la ministra dell'agricoltura teutonica. Il progetto di questo nuovo regolamento, che sarà presto presentato al parlamento federale, prevede anche altre norme, tra le quali il divieto assoluto di legare i cani a catena o guinzaglio per lunghi periodi e il divieto di lasciare un cane da solo in casa tutto il giorno. Occorrerà la presenza di una persona che se ne prenda cura. Secondo la ministra Klöckner la legge si rende necessaria a seguito delle nuove scoperte etologiche, secondo cui i cani hanno necessità, ogni giorno, di attività fisica e di stare a contatto con la natura. Che ci siano molti cani sacrificati all'artrosi e all'obesità a causa delle abitudini pantofolaie di padroni che passano il tempo libero su un divano mangiando pop corn e guardando partite di calcio e telenovelas, è un dato di fatto. Se poi questi cani appartengono a determinate razze (penso ai poveri Beagle) che hanno bisogno di correre per chilometri ogni giorno e spegnere la loro inesauribile vitalità, viene da pensare che le riflessioni della ministra siano più che opportune. Ma c'è anche il rovescio della medaglia, che ha provocato non pochi mal di pancia nella stessa ala politica della Klöckner. Uscire una o due ore al giorno a passeggiare quando la giornata è torrida e l'umidità blocca il respiro è estremamente pericoloso per i cani brachicefali (quelli «tamponati» come Bulldog e Carlini) e può essere doloroso per quelli anziani pieni di artrosi. La deputata dell'Unione Cristiana Democratica Saskia Ludwig ha scritto su Twitter: «Non porterò il mio Rhodesian Ridgeback per due giri di passeggiate con una temperatura di 32 gradi, piuttosto faremo un salto nel fiume per rinfrescarci». Se penso poi al nostro paese fatto di casette antiche senza ascensore e con le scale di pietra e agli anziani del secondo piano che si godono il loro piccolo affetto abituato a farla nella lettiera, come i gatti, con tutto il rispetto per gli etologi sono certo che non stiano male né i cagnolini né le loro amate «mamme». Anche nel lockdown della casa, fresca e in ombra.
Luciana Grosso per it.businessinsider.com il 3 agosto 2020. Salo Muller, 84enne sopravvissuto ad Auschwitz ed ex fisioterapista della squadra di calcio dell’Ajax, ha citato in giudizio le ferrovie tedesche che, a suo dire, si sono rese complici delle deportazioni di migliaia di ebrei nei campi di concentramento nazisti. In base ai fatti storici, infatti, la Deutsche Reichsbahn, l’autorità ferroviaria tedesca in tempo di guerra, era responsabile del trasporto fino alla morte di circa 107.000 ebrei olandesi con un viaggio che le vittime erano costrette a pagare di tasca propria. Il profitto che la DR avrebbe ottenuto da quei viaggi terribili, secondo alcune stime, sarebbe l’equivalente di circa 16 milioni di euro di oggi. In una lettera al cancelliere tedesco Angela Merkel, l’avvocato di Muller scrive che gli eredi delle ferrovie tedesche in guerra hanno l’obbligo morale e giuridico di riconoscere il loro ruolo nella sofferenza degli ebrei, dei sinti e dei rom: “Incolpo la compagnia ferroviaria per il trasporto consapevole degli ebrei nei campi di concentramento e per l’uccisione di quegli ebrei lì in un modo terribile”, ha detto Muller al programma televisivo olandese Nieuwsuur. “Non posso arrendermi perché mi fa male ogni giorno. Ogni giorno devo pensarci e mi fa male. E voglio che quel dolore finalmente passi. ” L’anno scorso, Muller ha intentato una causa simile contro le ferrovie olandesi, ottenendo un risarcimento fino a € 50 milioni per i sopravvissuti ai trasporti, le loro vedove, vedovi e bambini.
Da ilmessaggero.it il 25 luglio 2020. Richiesta danni poco meno di anni dopo i fatti. La giunta comunale di Nemi ha votato una delibera per chiedere i danni alla Germania per la distruzione delle due navi romane dell'Imperatore Caligola che, ritrovate nel secolo scorso tra il 1928 e il 1932, vennero «dolosamente e intenzionalmente bruciate» la notte del 31 maggio 1944 dal 163° Gruppo Antiaereo Motorizzato tedesco che occupava la zona ed era in ritirata. E chiama in causa Angela Merkel.
La delibera. «E adesso, per Nemi, la Germania deve pagare. Si ritiene - dice il sindaco Alberto Bertucci - di sottoporre a giudizio risarcitorio nei confronti della Repubblica Federale di Germania per i danni morali e materiali subiti dalla collettività di Nemi a causa dell'irreparabile danno causato a un bene archeologico di inestimabile valore». Dunque quel danno irreparabile non fu il risultato di una imprevedibile azione bellica ma, spiega il sindaco Bertucci, «un consapevole gesto di sfregio. Per questo chiediamo il risarcimento - incalza il primo cittadino - Abbiamo ritrovato relazioni, ampie documentazioni, testimonianze: i nazisti allontanarono tutti i residenti e il custode. Decisero di dare alle fiamme quei tesori. Non c'è dubbio». Il sindaco (che guida una lista civica di centro) però va oltre: «Noi non chiediamo semplicemente i danni. Vorremmo che, con un gesto significativo di spirito europeo, le autorità tedesche collaborassero con noi per ricostruire ciò che emerse delle due navi ricorrendo alle nuove tecnologie di riproduzione. Grazie a un libro dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato del tempo, abbiamo una grande mole di dati, misure, immagini per procedere a un'opera di riproduzione, in concorso col governo tedesco e magari con la mediazione del nostro ministero per i Beni e le attività culturali».
E i ministri della Merkel litigano sulla "schedatura razziale". La polizia perseguita i neri? Per l'Interno "sono solo calunnie", per la Giustizia "vedremo". Partiti divisi. Daniel Mosseri, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. Si chiama «racial profiling», si traduce come «schedatura razziale» e sta facendo litigare i ministri del governo di Angela Merkel. La schedatura razziale è il fenomeno per cui nei paesi occidentali la polizia si accanisce nei controlli su alcuni gruppi etnici, fermando soprattutto persone con la pelle scura. La quantità di melanina e non il comportamento del fermato è insomma la discriminante del controllo. Anche nella Germania multietnica, la Polizei sarebbe caduta nel vizio del racial profiling. Il condizionale è d'obbligo ma il sospetto c'è visto che lo scorso 12 giugno i portavoce di ben due ministeri avevano sollecitato uno studio in materia. Per prima era stato il dicastero della Giustizia a sostenere che «una ricerca del genere dovrebbe essere condotta». Era seguita la replica del Viminale tedesco secondo cui «Interni e Giustizia stanno lavorando allo sviluppo di un concetto per uno studio sulla profilazione razziale nella polizia». L'unico ostacolo era il tempo: «Poiché l'esatto progetto di studio non è stato ancora determinato, non è ancora possibile fornire dettagli specifici su ulteriori dettagli». A cambiare le carte in tavole ha provveduto invece l'energico ministro degli Interni, il cristiano-sociale bavarese Horst Seehofer. Un suo portavoce ha fatto sapere che uno studio del genere «non è necessario» per una ragione molto semplice: la schedatura razziale delle persone è illegale e vietata dalle pratiche della polizia. E se in passato si è registrata qualche evenienza di profiling razziale, si è trattato di «casi assolutamente eccezionali». Insomma, la polizia ha la coscienza a posto, ha concluso il portavoce del ministro. Un'uscita a gamba tesa che ha lasciato interdetta la ministra socialdemocratica della Giustizia, Christine Lambrecht. Apparsa sul primo canale della tv pubblica (Ard), la guardasigilli ha promesso che «parlerà di nuovo con il collega» sull'utilità di uno studio del genere per i poliziotti, «che sono pilastri del nostro ordinamento». La questione spacca anche i partiti: la ricerca era stata sollecitata dalla co-presidente del partito socialdemocratico Saskia Esken, scesa in campo «contro il razzismo latente delle nostre forze di polizia». Esken ha anche chiesto l'istituzione di un ufficio a livello federale per raccogliere le lamentele contro la polizia. Qua Lambrecht ha fatto quadrato con Seefoher nel respingere tanto le accuse quanto la richiesta della leader Spd. Alla quale ha risposto indirettamente il portavoce del ministro degli Interni. «I singoli casi di discriminazione vengono già chiariti e sanzionati tempestivamente». Critiche contro la decisione di Seehofer di bloccare lo studio sul nascere sono piovute da Verdi e socialcomunisti. In sua difesa si è espresso invece Friedrich Merz, il candidato della destra interna del partito di Angela Merkel, in corsa per diventare il nuovo leader della Cdu al prossimo congresso del partito a dicembre.
(ANSA il 29 giugno 2020) - Nell'inchiesta sulla rete di pedofili partita dalla città di Bergisch Gladbach, in Germania, ci sono oltre 30 mila sospettati. Lo ha affermato il ministro della giustizia del Land del Nordreno-Vestfalia Peter Bisenbach a Duesseldorf, secondo quanto riportano alcuni media tedeschi fra cui la Dpa. Gli inquirenti hanno rivelato come molti di questi soggetti si scambino informazioni in alcuni forum sul web, dandosi anche consigli su come rendere accomodanti i bambini. Si tratta di una rete criminale internazionale che ha il suo epicentro nelle regioni di lingua tedesca. Nelle chat, stando agli inquirenti, i pedofili, che dopo gli abusi mettono su internet i video delle loro violenze, si incoraggiano a vicenda. Fino ad ora, nel caso della rete scoperta a partire da Bergisch Gladbach erano stati identificati 72 sospettati. Le indagini erano iniziate lo scorso ottobre con un arresto a Bergisch Gladbach, vicino Colonia. A maggio era stato arrestato un soldato di 27 anni. "Non avevo mai sospettato neppure lontanamente questa dimensione del fenomeno degli abusi in rete. Dobbiamo ammettere che questi crimini sono molto più diffusi di quanto immaginassimo", ha affermato il ministro della giustizia del Land.
Monica Ricci Sargentini per il ''Corriere della Sera'' il 30 giugno 2020. Una rete di pedofili formata da decine di migliaia di persone che si scambiano consigli su come sedare i piccoli e renderli docili. È incredulo e sconcertato il ministro della Giustizia del Nordreno-Vestfalia Peter Biesenbach (Cdu) mentre racconta alla stampa i risultati dell'inchiesta partita nell'ottobre del 2019 quando la polizia ha arrestato un uomo di 43 anni a Bargish Gladbach, nelle vicinanze di Colonia, con l'accusa di aver abusato della figlia da bambina. Durante la perquisizione dell'abitazione gli investigatori avevano sospettato l'esistenza di un network di condivisione delle violenze. Da quella traccia è cominciato tutto. Gli inquirenti, però, non sapevano che stavano per scoperchiare un vaso di Pandora. Un mondo popolato da orchi di lingua tedesca che si estende fino alla Svizzera e all'Austria. Gente che non solo parla di pedofilia ma ne rivendica l'assoluta normalità. «Non mi aspettavo minimamente che gli abusi fossero così diffusi, parliamo di più di 30mila sospettati - ha spiegato il ministro - e speriamo non siano di più». Gli utenti, ha precisato Biesenbach, non si connettono attraverso il dark web ma usano una normale messaggistica «in cui si scambiano istruzioni su come abusare dei piccoli, come se fosse una cosa naturale». Alcuni sono alle prime armi, dicono che avrebbero sempre voluto farlo ma non hanno mai avuto il coraggio, così vengono incoraggiati da quelli con più esperienza. «Un'atmosfera di questo tipo - ha sottolineato il ministro - può stimolare ad agire anche persone che in mancanza di un contesto del genere sarebbero intimorite». Chi indaga deve essere veloce a salvare le chat prima che siano cancellate. Ma il problema più grosso è l'anonimato degli internauti. In Germania le norme ancora non permettono di registrare i dati di collegamento di persone che spesso agiscono sotto pseudonimo. Su questo punto, nelle scorse settimane, c'è stato uno scontro politico e alla fine la ministra della Giustizia (Spd), inizialmente più garantista, ha annunciato un irrigidimento delle pene anche sulla pedopornografia. «Il maltrattamento dei bambini non può essere punito come il furto in una bancarella» ha commentato il ministro dell'Interno del Nordreno-Vestfalia Herbert Reul. Il primo luglio il ministero della Giustizia lancerà una task force speciale contro la pedopornografia. Si chiama Zac (Zentrale Anlaufstelle Cybercrime) ed è guidata da Markus Hartmann. Fino ad oggi sono 72 le persone identificate, uno di loro, un soldato di 27 anni, è stato condannato a 10 anni di prigione per aver violentato 4 minori tra cui i suoi figli, altre 11 sono state arrestate. Sono, invece, 44 i bambini individuati come vittime. Fra questi c'è un neonato di tre mesi. Gli investigatori sono alle prese con una grande quantità di materiale che li sommerge di lavoro e rischia di rendere l'indagine molto lenta. È una lotta contro il tempo per evitare che gli abusi proseguano e catturare tutti i pedofili. Una sfida che gli agenti del cyber-crime vogliono vincere nonostante le difficoltà psicologiche. Molti di loro, infatti, vengono affiancati da psicoterapeuti per riuscire a sopportare gli orrori che vedono. Per le indagini, nel solo mese di giugno, sono stati coinvolti fra i 120 e i 140 investigatori al giorno. Di pedofilia in Germania si era parlato all'inizio di giugno quando Christian Brückner è diventato il principale sospetto per la scomparsa di Maddie McCann, la bambina inglese di 3 anni svanita nel nulla nel maggio del 2007 durante una vacanza in Portogallo con i genitori. L'uomo, che ha 43 anni, sconta 17 condanne per pedofilia, pedopornografia, furto, violenza e altri reati. A turbare l'opinione pubblica c'era stato, poche settimane fa, l'arresto di undici persone a Münster, nel Nordreno Vestfalia, dopo che in una cantina era stato rinvenuto materiale pedopornografico. Ma lo scandalo che più ha agitato la Germania è stato quello avvenuto in un campeggio a Lügde, in Nordreno-Vestfalia, tra il 1998 e il 2018 dove furono abusati 40 bambini tra i tre e i 13 anni. (Ha collaborato Christina Ciszek)
I tedeschi fanno i furbetti (con più di mille euro sotto il cuscino). Andrea Massardo il 28 luglio 2020 su Inside Over. I Paesi del Nord Europa si sono contraddistinti nelle ultime settimane per la dura battaglia nei confronti dei Paesi del Sud maggiormente colpiti dalla pandemia di coronavirus e per la volontà di controllare le loro politiche economiche qualora decidessero di accedere ai finanziamenti europei. Questo, soprattutto in virtù della possibilità che i fondi europei venissero utilizzati in modo inappropriato e non in linea con l’indirizzo di Bruxelles. Paesi come la Grecia, la Spagna e l’Italia sono però già molto avanti per quanto riguarda le misure volte alla lotta al malcostume nell’utilizzo dei finanziamenti pubblici, possedendo un limite all’utilizzo del contante – che, per l’Italia, dallo scorso 1° luglio è sceso a duemila euro. Al contrario, invece, sono proprio Paesi come la Germania, la Danimarca, la Svezia e l’Austria a non avere nella propria normativa un tetto all’utilizzo dei contanti, favorendo in questo modo l’evasione fiscale e il mercato – anche transfrontaliero – del nero.
Ogni tedesco possiede 1364 euro in contanti. Secondo quando riportato dal quotidiano tedesco DerSpiegel, ogni tedesco possiederebbe mediamente 1364 euro all’interno delle proprie mura domestiche. Questa tendenza – molto più elevata nella popolazione anziana e più ridotta nella popolazione giovanile – evidenzia un grosso rischio per la possibilità che vengano commessi reati legati all’evasione fiscale nelle trattative di compravendita. A renderlo noto è stata la stessa Bundesbank, che con una nota diffusa negli scorsi giorni si è soffermata particolarmente sul problema, auspicando a degli ammodernamenti normativi volti a prevenire questo rischio. Anche nella rigorosa Germania, dunque, la popolazione non vede di buon grado l’utilizzo di strumenti tracciati di pagamento, preferendo il caro vecchio contante alle più tecnologiche soluzioni digitali odierne. E soprattutto, denota una cultura ancora fortemente legata al commercio brevi manu e che si caratterizza per un accresciuta propensione all’evasione fiscale – particolarità, questa che è invece sempre stata criticata all’Italia, molto più avanti comunque di Berlino sulla questione.
Contante o carta, questo è il dilemma. Benché siano molteplici gli economisti che nel corso degli anni si sono schierati a favore dell’incentivo dell’utilizzo del contante – tra gli altri, anche la rivista Forbes – è fuori discussione che il loro utilizzo implichi necessariamente un aumentato rischio di evasione fiscale. Il contante, infatti, è difficilmente tracciabile e soprattutto può essere occultato, questione di fatto – quasi – impossibile con i saldi dei conti correnti e quando i pagamenti vengono veicolati da intermediari di pagamento e dall’utilizzo delle carte di credito. E il fatto stesso che a “macchiarsi” del loro utilizzo più elevato siano proprio quelle economie che si considerano all’avanguardia nella lotta all’evasione apre a molti scenari di dubbi che adesso persino le istituzioni nazionali hanno “scoperto” essere necessarie di approfondimento. In conclusione, dunque, benché la questione sia stata e continui ad essere lungamente dibattuta, è impossibile non sottolineare come proprio coloro che predicano bene – i Paesi “frugali” e il blocco del Nord Europa – siano in realtà quelli che peggio mettono in atto le direttive. In uno scenario che, ancora una volta, evidenzia come esista una profonda spaccatura anche di fiducia all’interno dell’Europa, dove determinati atteggiamenti sono considerati accettabili se svolti nelle economie più forti e deplorevoli se messi in atto in quelli più in difficoltà. Con l’utilizzo del contante che, comunque, è soltanto una delle sfaccettature dei problemi storici ed irrisolti all’interno dell’Unione europea.
L. Ram. per ''Il Messaggero'' il 4 agosto 2020. Il ministero dell'Economia tedesco, guidato da Peter Altmaier e deputato alla supervisione delle attività di revisione dei bilanci, ha aperto un'indagine sulla società Ernst & Young nell'ambito dello scandalo Wirecard. Lo rivela il quotidiano economico Handelsblatt, citando un documento «classificato», quindi non accessibile al pubblico di cui però ha potuto leggere il contenuto. Da quanto emerge dal documento il collegio dei revisori (Apas) già nell'ottobre 2019 aveva avviato indagini preliminari sui revisori di bilancio inviati dalla Ernst & Young. Gli ispettori dell'Apas avevano il compito di sorvegliare grandi aziende di interesse pubblico, tra cui le aziende quotate ufficialmente e comprese nel Dax (l'indice principale della Borsa tedesca) come Wirecard. La critica di cui è oggetto ora l'Apas è che per anni (secondo la Procura di Monaco fin dal 2015) ha lasciato approvare i bilanci di Wirecard non conformi al reale stato di salute dell'azienda. La società di servizi finanziari online ha dichiarato fallimento a fine giugno scorso dopo che è venuta alla luce la sparizione di 1.900 miliardi di euro, contabilizzati ma di cui non c'erano riscontri in cassa. Che l'indagine sul caso Wirecard si stesse allargando ad altri soggetti era parso chiaro già prima della fine di luglio. «Adesso dobbiamo tutti dare un contributo per chiarire tutto e trarne le necessarie riforme», aveva dichiarato il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, in occasione dell'audizione davanti alla Commissione Finanze del Bundestag sul caso Wirecard. «Quando l'emozione del momento si sarà calmata, quando l'attenzione non sarà più così tanta su questo tema, allora non si avrà più la forza e il coraggio necessari per queste riforme», ha aggiunto Scholz, perorando la causa di sfruttare l'occasione per modificare le regole sul controllo della vigilanza sulle banche. Durante l'audizione, protrattasi per alcune ore, il ministro aveva più volte spostato l'attenzione sulla pars costruens della vicenda Wirecard. «È stata una discussione buona e necessaria in molti dettagli» aveva concluso il ministro, rispondendo ad una domanda dei giornalisti mentre usciva. «Ora proseguo le vacanze, ma la vicenda non finisce qui», aveva poi aggiunto il ministro lasciando i giornalisti. Wirecard, considerata per anni un gioiello del fintech tedesco, tanto da aver provocato la nascita in Europa più di una società gemella, a causa del fallimento ha subito l'onta peggiore: il suo titolo in pochi mesi è crollato del 98%. Il fondatore ed ex-ceo Markus Braun è stato arrestato, così come altri dirigenti della società. Resta irreperibile, invece, l'ex-coo Jan Marsalek, sospettato di legami con alcuni servizi di intelligence, si troverebbe in Russia ed è considerato dai media tedeschi una figura centrale nella truffa.
Matteo Civillini e Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 5 agosto 2020. Bet Uniq era una società di scommesse che si era inventata un modo ingegnoso per aggirare la normativa italiana sul gioco d'azzardo. Il sistema si reggeva su due elementi: la 'ndrangheta e i servizi di Wirecard, l'ex colosso tedesco del fintech, franato nel giugno scorso con un buco di due miliardi e una storia opaca ancora in gran parte da scrivere. BetUniq funzionava così: una fitta rete di agenzie camuffate da internet point dove, in teoria, i clienti avrebbero dovuto creare un proprio profilo online e scommettere senza l'intermediazione del centro. In realtà, le agenzie accettavano scommesse in contanti che venivano poi caricate su un unico conto gioco alimentato da un fido concesso da Uniq Group. Società maltese a capo di BetUniq, Uniq Group disponeva di un conto corrente aperto presso Wirecard che veniva utilizzato per il trasferimento di soldi dai centri scommesse in Italia alla casa madre. Nel 2014 erano transitati su questo conto circa 3,9 milioni di euro, che secondo gli investigatori della Dda di Reggio Calabria rappresentavano una parte degli incassi illeciti derivanti dalla raccolta fisica delle scommesse. Betuniq non esiste più dal luglio 2015, spazzata via dall'operazione Gambling della Dda reggina. Il processo d'Appello per 22 imputati si è chiuso un anno fa con sedici condanne e sei assoluzioni. Tra i reati contestati l'intestazione fittizia di beni, l'associazione per delinquere e l'associazione mafiosa. A controllare il gruppo era Mario Gennaro, ai tempi espressione delle più importanti cosche reggine della 'ndrangheta e oggi pentito. Proprio a una serie di famiglie di Ndrangheta facevano riferimento le agenzie di BetUniq messa in piedi da Gennaro. Tra le tante ombre del caso, oltre alla incapacità di regolatori e controllori di intervenire malgrado i numerosi allarmi, anche la disinvoltura con la quale Wirecard si è prestata a regolare transazioni di clienti ai limiti del legale - dal porno estremo al trading di prodotti finanziari ad alto rischio. Fino alle organizzazioni criminali vere e proprie. Perché quello di BetUniq non è un caso isolato e le cosche reggine non sono le sole, tra le organizzazioni criminali, ad aver testato l'efficienza di Wirecard per raccogliere e trasferire denaro derivante da attività illecite. Tra i suoi clienti c'era anche Centurionbet, società di gambling controllata dalla famiglia Martiradonna, vicina alla criminalità organizzata barese. Wirecard processava i pagamenti degli scommettitori sul sito Bet1128. Marchio che all'apice della propria espansione commerciale vantava diverse decine di centri scommesse in tutt' Italia e un fatturato stimato in oltre 100 milioni di euro. Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet è proseguito fino al maggio 2017, quando l'azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un'inchiesta della Dda di Catanzaro. Schermata dietro una serie di scatole vuote a Panama e alle Isole Vergini Britanniche, la proprietà di Centurionbet era nelle mani di Francesco Martiradonna. Condannato l'anno scorso a 11 anni e 4 mesi per concorso esterno per aver fatto affari nel gioco d'azzardo con il clan Arena di Crotone. Del legame tra Wirecard e Centurionbet ha scritto nei giorni scorsi il Financial Times. Un ex dipendente dell'azienda tedesca ha riferito al quotidiano britannico che Wirecard avrebbe svolto una revisione interna su Centurionbet dopo che erano emerse infiltrazioni mafiose in un altro operatore maltese. L'analisi di compliance avrebbe avuto esito positivo sulla base di garanzie fornite dall'azienda. Ad affidare i propri soldi a Wirecard è stata in passato anche Sks365, un'altra azienda nota alle cronache giudiziarie. Nel novembre 2018 le procure di Reggio Calabria, Bari e Catania hanno accusato l'azienda di aver stretto alleanze, almeno fino al 2017, con clan di Cosa Nostra, Sacra Corona Unita e 'ndrangheta. Ponendo così le basi per costruirsi una solida posizione nel mercato. Oggi la gestione di Sks365 è passata a un nuovo management estraneo ai fatti incriminati. Ma all'epoca la proprietà era nelle mani di manager poi arrestati per associazione mafiosa, riciclaggio e truffa aggravata. Dalle carte dell'indagine emerge che tra numerosi conti correnti in mezza Europa, Sks365 ne aveva anche due con Wirecard, nei quali alle fine del 2015 erano custoditi oltre un milione e mezzo di euro.
Wirecard, trema il governo tedesco. Andrea Massardo il 18 luglio 2020 su Inside Over. Era chiaro sin dal principio che lo scandalo che ha coinvolto la società finanziaria Wirecard non si sarebbe limitato ad avere ripercussioni solamente sull’asset societario. Dopo aver reso evidenti delle gravissime carenze all’interno dell’organo di vigilanza finanziario tedesco – la Bafin – e gettato nella sfiducia l’intero comparto finanziario della Germania, adesso lo scandalo potrebbe coinvolgere anche gli alti vertici del governo. Come riportato da Agenzia Nova, infatti, l’opposizione tedesca – nella persona del politico liberaldemocratico Florian Toncar – avrebbe richiesto un’indagine nei confronti del sottosegretario alle Finanze Joerg Kukies. L’accusa sarebbe quella di aver incontrato in segreto l’ex amministratore delegato di Wirecard, Markus Braun, per ben due volte lo scorso autunno. E a preoccupare il parlamento tedesco ci sarebbe l’eccessivo silenzio a riguardo di Olaf Scholz, ministro delle Finanze e considerato troppo distaccato dall’accaduto, considerando le implicazioni dello scandalo.
I documenti dei due incontri sono riservati. Secondo quanto riferito dal quotidiano tedesco Der Spiegel, i documenti relativi agli incontri tenutisi tra Kukies e Braun sarebbero stati etichettati come riservati e, dunque, visibili soltanto dai parlamentari ma non disponibili per l’esibizione pubblica. Tuttavia, il fatto che tali incontri siano avvenuti nello scorso autunno hanno aperto a molti scenari interpretativi, compreso quello che porta ad ulteriori ombre sul sistema di vigilanza finanziario della Germania. Stando infatti alla fonte, in quel periodo la società incaricata di revisionare i bilanci societari per il Dax – l’indice azionario di Francoforte – ossia la Kpmg, sarebbe stata al lavoro proprio sui bilanci della società con sede ad Asscheim. Secondo la ricostruzione, di conseguenza, sarebbe possibile che lo scopo della discussione potesse essere quello di dissuadere il ministero delle finanze tedesco e la Bafin dall’approfondire le criticità che sarebbero state messe in evidenza, come successo già a seguito delle denunce passate di un fondo americano. E se le cose fossero davvero andate in questo modo, il fatto stesso che la società non abbia avuto problemi sino alla scorsa primavera potrebbe significare che il piano di Braun sia andato in porto. Ma per quale motivo il ministero delle finanze tedesco avrebbe dovuto supportare l’emittente di carte prepagate Wirecard, considerando tutte le complicazioni e lo scandalo che avrebbero avuto luogo dallo scoppio della bolla? Ancora una volta, la risposta sarebbe da ricercarsi – secondo quanto riferito sempre dal Der Spiegel – all’interno del ceto politico tedesco, nella figura dell’ex ministro per l’Economia e la Tecnologia Karl-Theodor zu Guttenberg.
Una società strategica per le mire di Berlino. In quanto registrata in più Paesi come istituto di moneta elettronica autorizzato all’emissione di valuta digitale e di carte prepagate, Wirecard possedeva la strumentazione e la tecnologia per poter entrare, all’occorrenza, in qualsiasi mercato internazionale. E uno in particolare, secondo la ricostruzione, sarebbe stato particolarmente vantaggioso sia per la società gestita da Braun, sia per il governo tedesco e sia per il tramite dell’operazione, l’ex-ministro Guttenberg: la Cina. All’avanguardia per quanto riguarda le forme innovative di pagamento, la Cina rappresenta un mercato molto redditizio per le società che operano tramite i pagamenti digitali. Non a caso, infatti, nel novembre 2019 presso i palazzi di Asscheim venne festeggiato l’ingresso della società nel mercato cinese, ottenuto grazie al tramite dell’ex ministro tedesco e della sua società registrata regolarmente negli Stati Uniti.
Il governo sapeva ed ha taciuto? A seguito dell’acquisizione, la stessa Germania possedeva così una società operativa sul mercato dei pagamenti della Cina, potendo vantare di essere l’unico Paese europeo in possesso di questa prerogativa. E in questo scenario, l’intermediazione dell’ex-ministro – nome molto noto all’interno del mondo finanziario cinese – sarebbe stata fondamentale per la chiusura dell’accordo, anche con lo scopo di migliorare i rapporti bilaterali tra i due Paesi. Tuttavia, la breve distanza temporale che separa gli incontri segreti con il sottosegretario Kukies e l’acquisizione della società cinese getta molte ombre sulla vicenda, considerando come Berlino potrebbe aver scambiato il “silenzio” sui bilanci di Wirecard con l’ingresso sul mercato dei pagamenti digitali di Pechino. In questa situazione, dunque, appare chiaro come lo stesso governo federale, per via di alcuni suoi componenti, potrebbe essere stata al corrente della bomba ad orologeria che rappresentava il colosso finanziario anche per i piccoli risparmiatori. E con la decisione di tacere, infine, si sarebbe reso complice del più grande scandalo finanziario della Germania dalla sua riunificazione, compromettendo al tempo stesso l’intera credibilità del sistema tedesco.
Wirecard Papers. Andrea Massardo il 26 luglio 2020 su Inside Over. Era considerata una delle società finanziarie più promettenti dell’Unione europea la Wirecard Ag, l’emittente di carte prepagate con la sede nella città di Asscheim, in Baviera, che nell’arco di meno di 20 anni era riuscita a gestire un portafoglio di gran lunga superiore a quello di molte banche europee. Considerata uno dei primi e riusciti “unicorni” della Germania, la società guidata dal 2010 dall’amministratore delegato Markus Braun aveva creato un impero operativo non soltanto nel vecchio continente ma anche in Asia (Cina compresa, dal 2019). Tuttavia, la situazione si è bruscamente invertita in questo 2020 e non a causa della pandemia di coronavirus come si potrebbe pensare. Bensì, a causa di un ammanco di 1,9 miliardi di euro dichiarati in conti fiduciari inesistenti nelle Filippine. Da quel momento in avanti, per Wirecard AG, la Dax di Francoforte, l’istituto di vigilanza finanziaria tedesco (la Bafin) e per lo stesso governo di Berlino è iniziato un inferno destinato a cambiare per sempre il volto della finanza della Germania. E con loro, forse, anche lo stesso modo in cui viene gestita l’operatività degli attori finanziari a livello comunitario.
"Quei soldi, probabilmente, non esisteranno". “Il Consiglio di amministrazione della Wirecard AG, in base ai dati in possesso, ha valutato che che gli 1,9 miliardi di euro precedentemente dichiarati come saldi in conti fiduciari molto probabilmente non esisteranno”. Era il 22 giugno 2020 quando, con questa frase, il nuovo consiglio di amministrazione della società e il nuovo amministratore delegato nominato in sostituzione di Braun si sono arresi all’evidenza di uno scandalo troppo grande per essere coperto. D’altro canto, non c’erano le possibilità economiche e neppure il tempo per poter coprire un ammanco da oltre due miliardi di dollari, dopo la smentita da parte delle stesse banche filippine dell’esistenza dei conti fiduciari dichiarati presso i loro istituti. Ma com’è stato possibile che in dei bilanci per anni revisionati dalla stessa società di revisione – la Ernest&Young – di punto in bianco siano stati considerati così falsi da non poter essere approvati? E soprattutto, come hanno fatto per anni la stessa E&Y, la società di revisione incaricata dal Dax – la Kpmg – e soprattutto l’istituto di vigilanza tedesco della Bafin a non accorgersi che le cose non stessero andando nel verso giusto? Erano passati infatti appena quattro giorni dal 18 giugno, quando il bilancio approvato dal consiglio di amministrazione guidato ancora da Braun e comprendendo un altro importante attore della vicenda, Jan Marsalek, era stato respinto dalla E&Y. Quattro giorni che, però, sono bastati ai due personaggi per dimettersi dai rispettivi incarichi e, nel caso di Marsalek, per far perdere le proprie tracce (disperso, secondo le fonti, tra le Filippine, la Cina, la Corea del Sud e la Bielorussia). E soprattutto, quattro giorni che hanno tenuto il mondo politico e finanziario tedesco col fiato sospeso, conscio che a seguito dello scandalo nulla sarebbe mai più stato come prima.
L'arresto di Braun e la fuga di Marsalek. Era la notte tra il 22 e il 23 giugno quando l’ex amministratore delegato della società Markus Braun si era costituito alla procura di Monaco di Baviera, a seguito del mandato d’arresto per lo scandalo del colosso finanziario Wirecard AG. Interrogato per tutta la notte, è stato liberato nella giornata successiva, a seguito del pagamento di una cauzione di 5 milioni di euro. Tuttavia, dal suo interrogatorio non sono emerse quelle certezze che la procura stava cercando ed era chiaro che l’uomo che si stavano trovando di fronte non poteva essere la mente dietro alla peggiore frode finanziaria che la Germania abbia mai affrontato. Il vero autore – identificato in quel momento nella persona di Jan Marsalek – era ancora in libertà ed aveva fatto perdere le sue tracce. E a differenza di Braun , non è stato sufficiente emettere un mandato d’arresto per farlo uscire allo scoperto. Nonostante ciò, il suo interrogatorio e l’analisi degli ultimi andamenti del titolo azionario (che nell’arco di pochi giorni aveva perso oltre il 90% del proprio valore) erano bastati per capire come l’operatività di Wirecard, in realtà, fosse semplicemente una copertura per il vero business di Braun e Marsalek: la speculazione finanziaria. Una pratica fraudolenta, soprattutto perché attuata sulla loro stessa società e con l’unico obiettivo di pomparne gli utili per aumentare il suo valore di borsa, anche a costo di dichiarare attività di bilancio inesistenti, come nel caso dei conti fiduciari delle Filippine. E soprattutto, protrattasi per anni, in grado di innescare una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro: esattamente come accaduto lo scorso 18 giugno, a seguito della bocciatura del bilancio da parte di E&Y.
Com'è possibile che la Bafin non si sia mai accorta di nulla? A sconvolgere l’intero panorama politico e finanziario sono state le grandissime omissioni dei controlli sulla Wirecard AG, imputabili esclusivamente all’istituzione che dovrebbe teoricamente garantire la qualità delle aziende attive sul territorio tedesco: la Bafin. Nonostante le accuse siano state inizialmente respinte da parte dello stesso capo dell’istituto di vigilanza, è chiaro ed evidente come uno sguardo più attento ai bilanci societari avrebbe potuto evitare alla situazione di gonfiarsi sino al punto in cui è arrivata a cavallo tra il 2019 e il 2020. Soprattutto, poiché nel corso degli anni erano state molteplici le segnalazioni di operazioni fraudolente e di supporto all’evasione fiscale messe in atto dalla società e soprattutto effettuate da più voci indipendenti tra di loro. Tra queste, un noto fondo d’investimenti americano che aveva avanzato perplessità riguardo agli utili della compagnia e in modo analogo anche una denuncia da parte degli economisti del Financial Times. Tutte segnalazioni che, però, sono cadute nel dimenticatoio: in parte per gli interessi – possibili – delle parti in causa e in parte per l’estrema fiducia che anche l’istituto di vigilanza tedesco riponeva in Braun, conosciuto da tutti con il nome di “Mr. Wirecard“. Tuttavia, a seguito di queste gravi mancanze non è stato soltanto il governo federale a chiedere spiegazioni alla Bafin: la stessa Unione europea è scesa in prima linea per avere maggiori dettagli riguardo all’accaduto. Dopo aver seguito l’evoluzione dei fatti, infatti, Esma (European Securities and Markets Authority) per la prima volta nella sua storia è arrivata a mettere sotto inquisizione un organo di vigilanza nazionale, assestando un duro colpo d’immagine a Francoforte.
Vendite allo scoperto e supporto all'evasione: il vero business di Braun e Mrsalek. Come messo in luce dal proseguimento delle indagini, è diventato evidente come, in realtà, l’emissione e la gestione delle carte prepagate fosse in realtà soltanto una parte (e nemmeno la più redditizia) del business portato avanti dalla società finanziaria con sede ad Asscheim. Secondo quanto già evidenziato negli anni passati dalla stampa, infatti, gli interessi della società spaziavano dal mercato del porno, al supporto all’evasione fiscale per le agenzie clandestine del gioco d’azzardo alla “semplice” messa a punto di strumentazioni volte a favorire l’elusione fiscale. Una macchina da soldi, in sostanza, che per buona parte fondava però il proprio piano d’azione su operazioni al limite – se non al di fuori – della legalità. Ma se questa prima parte rientrava all’interno dell’operatività dell’azienda, un altro aspetto è quello che ha invece reso guadagni da capogiro a Marsalek e Braun: la contrattazione delle azioni della Wirecard AG. Secondo infatti quanto messo in luce dal DerSpiegel, la coppia avrebbe per anni perpetrato la compravendita nel breve delle azioni dell’azienda tramite società di comodo per guadagnare dall’incremento del valore delle azioni. Spesso tramite lo stesso indebitamento degli attori (come nel caso del mutuo di Deutsche Bank, che non diventerà una sofferenza soltanto grazie alla sua cartolarizzazione già negli scorsi mesi, prima dello scoppio della bolla) e spesso tramite la vendita allo scoperto del titolo azionario. Ultimo dei quali, secondo gli inquirenti, proprio poco prima della dichiarazione circa l’ammanco di oltre 2 miliardi di dollari dai bilancio societari: una vendita allo scoperto parsa come una sorta di spettacolo pirotecnico finale, prima che il circo chiudesse i battenti.
Il governo tedesco, la Bafin e la Dax probabilmente sapevano. Sempre secondo quanto riportato dal DerSpiegel, c’è un alta possibilità che la politica e la vigilanza finanziaria della Germania sapesse esattamente quello che stava succedendo all’interno dei palazzi di Asscheim. In modo particolare, a causa del filo rosso che legava Markus Braun all’ex-ministro dell’Economia e della Tecnologia della Germania Karl-Theodor zu Guttenberg e e il segretario odierno del ministero della finanza Joerg Kukies. In modo particolare, la presenta di documentazione resa segreta sub incontri avvenuti tra Braun e Kukies all’interno del ministero avrebbero scandalizzato il parlamento tedesco, che ha richiesto chiarimenti e indagini sull’accaduto; generando un terremoto potenzialmente in grado di arrivare sino alla cancelliera Angela Merkel. La cancelliera, infatti, nel 2019 si sarebbe recata in Cina assieme a importanti imprenditori tedeschi e con lo stesso Guttenbergs col fine di promuovere la collaborazione tra i due Paesi. Quest’ultimo, su mandato della Wirecard AG, avrebbe concluso delle trattative volte a fare entrare la finanziaria tedesca in operatività anche dentro al mercato della valuta digitale cinese: quasi esclusivamente di competenza di Pechino fino a quel momento.E in questa situazione, la sensazione che la stessa cancelliera Merkel fosse all’oscuro delle operatività del gruppo è alquanto improbabile, soprattutto se si considera l’importanza strategica di Wirecard all’interno del piano di espansione commerciale di Berlino in Cina. Scenario che, a ragion veduta, avrebbe potuto garantire lo sguardo rivolto da un’altra parte su delicate questioni che avrebbero potuto incriminare la società.
Marsalek, il vero cartaio di Wirecard. Come già sottolineato, il proseguire delle indagini ha sempre messo più in evidenza la figura di Jan Marsalek, azionista ed ex-Cfo di Wirecard AG, all’interno delle logiche criminali della società. In modo particolare, come riportato per la prima volta dalla testata giornalistica britannica Financial Times, egli avrebbe perpetrato per anni tentativi – spesso andati a buon fine – di manipolazione del mercato per convincere potenziali acquirenti ad investire sulla sua società. E per fare questo, egli avrebbe sempre cercato di mostrare la sua figura come quella di un uomo potente con agganci presso le più alte élite mondiali; in possesso – come riscontrato – della documentazione sul velenosissimo novichok e di file importanti appartenenti al ministero degli interni austriaco. In questo modo, egli per anni avrebbe ostentato una solidità della propria società basata anche sull’appoggio del ceto politico asiatico ed europeo, fornendo così garanzie – mendaci – aggiuntive riguardo alla stabilità del titolo azionario. Tuttavia, anche in questo caso si è trattato principalmente di frodi finanziarie nei confronti di fondi d’investimento e di privati, messi in atto da una mente che appare sempre di più il vero cartaio dietro alle mosse della società di Asscheim.
Sandra Riccio per ''la Stampa'' il 10 luglio 2020. I guai per le banche tedesche non finiscono mai. Nel mirino ci sono soprattutto Deutsche Bank, primo istituto del Paese, e Commerzbank, numero due. Le recenti vicende hanno visto la prima multata dalle autorità americane (150 milioni) per aver chiuso più occhi sulle transazioni «sospette» del finanziere Jeffrey Epstein. Commerzbank, invece, è alle prese con l'ennesima ristrutturazione in arrivo. In questi giorni, il grande fondo americano Cerberus, che è scontento dei flop dell'istituto, è riuscito a disarcionare i vertici della banca. Secondo i media tedeschi, il nuovo management dovrà mettere mano a un profondo riordino e l'ipotesi è di una chiusura delle metà delle filiali. A impensierire il mercato è anche la vasta galassia delle Landesbanken tedesche, le «piccole» banche locali che messe insieme fanno numeri da giganti: le prime sei totalizzano un attivo patrimoniale di circa 90 miliardi (il 60% circa degli asset di DB). In primo piano c'è la stabilità del sistema finanziario tedesco, in un periodo in cui la Germania ha la presidenza di turno dell'Ue. Due sono le debolezze del sistema. «Da un lato i grandi colossi sono alle prese con una redditività bassa che sarà ulteriormente appesantita dalla crisi Covid - spiega Roberto Russo, ad di Assiteca Sim -. Dall'altra parte, le Landesbanken combattono con le conseguenze dei crediti concessi con generosità a partire da inizio anni 2000». Nonostante i maxi-aiuti da 238 miliardi arrivati dallo Stato tedesco per sostenere il sistema tedesco, le banche del Paese continuano a essere in difficoltà. A tenere con il fiato sospeso è però la bomba a orologeria dei derivati in pancia alle big. Si tratta di strumenti di investimento ad altissimo rischio che scommettono con la leva. Numeri ufficiali non ce ne sono. Secondo alcune analisi, Deutsche Bank da sola ne avrebbe in pancia per 43 mila miliardi di dollari (16 volte il pil tedesco). Un vero elefante nella stanza dei cristalli che si muove pericolosamente soprattutto nelle fasi di crisi economica e di volatilità sui mercati finanziari. Il rischio è che travolga l'intero sistema europeo. Su questo punto si è soffermata Fitch che a marzo ha declassato il rating di Deutsche e di Commerz. In più ha abbassato tutte le previsioni relative agli altri istituti tedeschi, considerandoli a rischio. Certo, il momento non è favorevole per il settore bancario di nessun Paese. Dalla Germania però potrebbero potenzialmente partire shock molto più pericolosi. Lo sa anche la cancelliera tedesca Angela Merkel che sta spingendo sul via libera al Recovery Fund che servirà a far ripartire l'Europa. A sperare sono anche gli istituti tedeschi: in vista della data decisiva di metà luglio quando si riunirà il Consiglio, i titoli di DB e di Commerzbank hanno preso a salire. Restano però ancora lontani i recuperi: i due titoli, nei 10 anni sono ancora giù tra l'80 e il 90%.
"Così Epstein pagava le modelle russe". E Deutsche Bank finisce sotto accusa. Deutsche Bank ha reagito all’offensiva delle autorità newyorchesi annunciando investimenti per rafforzare i propri apparati di vigilanza interna. Gerry Freda, Mercoledì 08/07/2020 su Il Giornale. Le autorità di New York hanno di recente inflitto a Deutsche Bank una sanzione milionaria a causa dei legami intercorsi tra l’istituto di credito e il magnate Jeffrey Epstein. Il dipartimento per i Servizi finanziari dello Stato di New York ha infatti comminato tale multa al gigante tedesco accusando quest’ultimo di non avere adeguatamente monitorato le operazioni finanziarie opache condotte dall’uomo d’affari incriminato dal 2013 al 2018. La sanzione citata è il primo provvedimento adottato nel mondo da un ente di vigilanza finanziaria contro un istituto di credito responsabile di complicità con Epstein, morto in carcere lo scorso 10 agosto mentre attendeva di essere processato per traffico di minori. Il dipartimento statale ha, nel dettaglio, comminato ultimamente a Deutsche Bank una multa di 150 milioni di dollari. Alla base della condanna della banca tedesca vi è stata, da parte delle autorità locali, la constatazione del fatto che il colosso finanziario avrebbe chiuso un occhio su molteplici movimenti di denaro effettuati in vita da Epstein per scopi poco leciti. In particolare, il gigante teutonico avrebbe accordato al chiacchierato magnate di effettuare centinaia di transazioni milionarie opache, principalmente dirette a chiudere le vertenze legali di Epstein e a “pagare donne”. L’uomo d’affari newyorchese, secondo l’agenzia statale, avrebbe infatti ottenuto da Deutsche Bank, dal 2013 al 2018, finanziamenti di oltre 7 milioni di dollari diretti a tacitare le controversie giudiziarie in cui egli era implicato, nonché trasferimenti di denaro superiori ai 2,6 milioni per fare piaceri e regali a delle donne. Tra le operazioni finanziarie opache del presunto pedofilo accordategli in passato dalla banca tedesca vi erano, per la precisione, alcune intese a “pagare modelle russe”. La principale colpa della banca, ad avviso del dipartimento dello Stato di New York, sarebbe stata quella di commettere gravi mancanze nelle istruttorie propedeutiche alle frequenti erogazioni di denaro a beneficio di Epstein. Un comunicato della medesima autorità chiarisce con le seguenti parole le responsabilità dell’istituto di credito: “Se quei finanziamenti e quei movimenti di denaro siano o meno serviti a Epstein per coprire vecchi suoi crimini, per perpetrarne di nuovi o per qualche altro scopo lo dovranno stabilire le autorità penali. Tuttavia, il fatto che quei movimenti di liquidità fossero in sé sospetti e rischiosi doveva apparire evidente al personale della banca, in qualsiasi livello fosse inquadrato. L’incapacità dell’istituto di credito di riconoscere quei rischi costituisce una grave mancanza alle proprie regole di condotta e di trasparenza”. Deutsche Bank ha reagito alle contestazioni avanzate nei propri confronti dal dipartimento citato ammettendo di avere commesso “un errore” nell’avere intrattenuto rapporti con Epstein a partire dal 2013. La medesima azienda ha contestualmente comunicato di essere profondamente “dispiaciuta” per avere avuto a che fare con il presunto pedofilo e per avere condotto delle istruttorie “carenti” riguardo ai movimenti di denaro effettuati da quest’ultimo. Il colosso finanziario ha infine evidenziato di avere deciso, al fine di non ripetere gli sbagli commessi nel caso del magnate incriminato, investimenti di circa un miliardo di dollari nel rafforzamento dei propri apparati di vigilanza sulle operazioni rischiose o sospette. Obiettivo della banca sarà appunto evitare che si verifichino in futuro altri scandali suscettibili di danneggiare l’immagine aziendale, attualmente sotto attacco, oltre che per la vicenda-Epstein, anche per il presunto scambio di favori con al centro lo stesso istituto di credito e il Cremlino.
Riccardo Barlaam per ilsole24ore.com l'8 luglio 2020. Pagamenti ai presunti complici. Bonifici a modelle russe. Prelievo in contanti da 100mila dollari per «mance e spese di casa». Quando Jeffrey Epstein chiedeva di effettuare operazioni finanziarie, la filiale americana di Deutsche Bank, il più grande istituto bancario tedesco, non faceva molte domande né effettuava i controlli necessari su transazioni giudicate «sospette» e «ad alto rischio» per un cliente di cui erano noti i trascorsi legati a crimini sessuali. In un accordo giudiziale appena annunciato, la banca tedesca ha accettato di pagare una multa di 150 milioni di dollari al New York Department of Financial Services (Dfs) per chiudere l’inchiesta aperta nel 2019 sui rapporti bancari con il finanziere. Il New York State Department of Financial Services ha spiegato che la banca tedesca è stata multata perché «non ha controllato in modo appropriato le attività bancarie condotte in nome» di Epstein dal 2013 al 2018. A causa della mancata supervisione, «la banca ha approvato centinaia di transazioni per milioni di dollari che avrebbero dovuto portare a un controllo aggiuntivo, alla luce della storia di Epstein». Tra le transazioni, alcune riguardano pagamenti a persone accusate di coinvolgimento negli illeciti di Epstein. Sotto la lente sono finiti anche i rapporti di Epstein in cui ha fatto da tramite Deutsche Bank con le banche corrispondenti Danske Bank Estonia e Fbme Bank. Epstein, arrestato nel maggio 2019 con l’accusa di sfruttamento di minorenni e abusi sessuali, si è suicidato impiccandosi nell’agosto scorso nella cella dove era recluso a New York. Il finanziere era amico dei presidenti Donald Trump e Bill Clinton così come del principe Andrea d’Inghilterra, finito anch’egli nel turbine dell’inchiesta per gli abusi sessuali sulle minorenni. La sua ex compagna Ghislaine Maxwell, accusata di aver gestito per anni l’agenda degli appuntamenti con le minorenni, è stata arrestata pochi giorni fa in New Hampshire. Rischia fino a 30 anni di prigione: molti temono che possa raccontare le sue verità, verità che potrebbero essere imbarazzanti per molti “potenti”. Epstein nel 2008 era stato condannato in Florida per sfruttamento della prostituzione su ragazze minorenni. «Il comportamento criminale e gli abusi sessuali del signor Epstein erano noti da anni, ma le grandi istituzioni bancarie hanno continuato a ignorare la sua storia e hanno prestato la loro credibilità e i loro servizi in cambio dei guadagni finanziari», ha scritto il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo in una nota. Gli inquirenti hanno stabilito che Deutsche Bank non è riuscita a monitorare correttamente le transazioni di Epstein nonostante le «ampie» informazioni pubblicamente disponibili sulla sua condotta sessuale. Ciò ha portato la banca a effettuare senza controlli centinaia di transazioni per Epstein che avrebbero dovuto spingere maggiore cautela, compresi i pagamenti alle vittime, i presunti complici e gli studi legali che rappresentano Epstein e i suoi complici. Nei rapporti con Danske Estonia, coinvolta nel 2018 in uno scandalo legato al riciclaggio di denaro dalla Russia da 150 miliardi, e Fbme Bank, gli inquirenti hanno affermato che Deutsche Bank non è riuscita a monitorare adeguatamente le banche corrispondenti e le società di compensazione del cambio con il dollaro. L'amministratore delegato di DB Christian Sewing in una nota interna ha scritto che è stato un errore accettare Epstein come cliente nel 2013. La banca ha anche riconosciuto carenze nei controlli su Danske Estonia e Fbme. «Dobbiamo tutti contribuire a garantire che questo genere di cose non si verifichi più». In tarda serata Deutsche Bank ha diffuso il seguente comunicato: «Riconosciamo il nostro errore nell’accettare Epstein come cliente nel 2013 e le debolezze dei nostri processi, abbiamo imparato dai nostri errori e dalle nostre carenze. Immediatamente dopo l'arresto di Epstein, abbiamo contattato le forze dell'ordine e offerto la nostra completa assistenza nelle indagini. Siamo stati completamente trasparenti e abbiamo affrontato queste questioni con il nostro regolatore, adeguato la nostra tolleranza al rischio e affrontato sistematicamente i problemi. Abbiamo investito circa 1 miliardo di dollari in formazione, controlli e processi operativi e abbiamo allargato il nostro team contro i crimini finanziari a oltre 1.500 persone. La nostra reputazione è la nostra risorsa più preziosa e ci rammarichiamo profondamente per i nostri rapporti con Epstein».
(ANSA il 24 giugno 2020) - Bayer ha raggiunto un patteggiamento da 10,5 miliardi di dollari per risolvere decine di migliaia di azioni legali negli Stati Uniti sul Roundup, il diserbante di Monsanto accusato di causare il cancro. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, Bayer ha ereditato il Roundup quando ha acquistato Monsanto nel 2018.
Paolo Balduzzi per ''Il Messaggero'' il 7 luglio 2020. Una volta fiore all'occhiello di ogni paese, fulcro dello sviluppo industriale e snodo cruciale per la trasmissione della politica monetaria, nonché prospettiva per una carriera lunga e ricca, il sistema bancario negli ultimi quindici anni è entrato fortemente in crisi. Come spesso accade, sostegno pubblico (più o meno esplicito), potere di mercato e ingenti disponibilità di risorse non sono segno di grande efficienza bensì a volte proprio il contrario, e mascherano enormi problemi che possono emergere solo nel lungo periodo o a seguito di fatti straordinari. E i primi vent' anni del nuovo secolo, in tutto il mondo, sono stati certamente testimoni di eventi eccezionali, specialmente in campo economico e bancario. Basti pensare al terremoto innescato dalla crisi statunitense dei mutui subrime, poi trasferitasi in Europa contagiando bilanci pubblici e stato dell'economia, fino all'entrata in recessione. Recessione cui ne ha fatto seguito un'altra, a dieci anni di distanza, questa volta per le note cause sanitarie. Vale quindi la pena di capire come si sono evoluti il sistema bancario italiano ed europeo in questo periodo, come hanno reagito a queste tensioni e in che stato di forma si trovano ad affrontare le conseguenze dell'attuale pandemia. La debolezza italiana è a tratti comune con quella di altri paesi europei: in generale, i problemi nascono da una eccessiva diffusione del credito, resa possibile anche grazie alla diminuzione dei tassi d'interesse a seguito alla creazione dell'Unione monetaria europea. In tutto il mondo, la concessione di prestiti senza la verifica di adeguate garanzie (la solvibilità dei debitori, il valore di immobili gonfiato da bolle speculative) ha dato luogo a insolvenze e perdite. Esemplare da questo punto di vista il caso di Lehman Brothers nel 2008. Nel nostro paese, il problema è di fatto esploso più tardi, intorno al 2013 e legato soprattutto al deterioramento dei conti aziendali per effetto della recessione. Banca Etruria, Banca Marche, Carige sono alcuni tra i soggetti coinvolti dalla crisi. Ma in realtà, secondo i dati della Banca d'Italia, gran parte del sistema risultava deteriorato: il 22% dei prestiti risultava infatti a rischio di mancato rimborso. Nel caso del Monte dei Paschi aveva inciso anche un'errata politica delle acquisizioni. Lo Stato è intervenuta innanzitutto direttamente, attraverso l'assorbimento di debiti privati all'interno del bilancio pubblico: le risorse messe a disposizione nel periodo 2013-2018 sono state ingenti, anche se poi parzialmente recuperate: fino a 20 miliardi, secondo i conti fatti dall'Osservatorio sui conti pubblici italiani dell'Università Cattolica di Milano. Inoltre, diversi sono stati gli interventi legislativi: per esempio, la riforma della normativa sulle banche popolari e delle banche di credito cooperativo; oppure, l'introduzione a livello europeo della procedura di bail-in in caso di un aiuto di Stato (applicato in Italia per la prima volta con banca Etruria, Banca Marche, Cari Ferrara e Cari Chieti): una scelta molto costosa soprattutto per gli azionisti, di fatto imposta da Bruxelles e che oggi nessuno ripeterebbe più. Oltre agli interventi pubblici diretti, gli istituti bancari hanno operato in maniera più o meno autonoma diverse strategie di reazione, che hanno comportato fusioni e maggiore concentrazione. In particolare, secondo Bankitalia il numero di banche e istituti finanziari è passato da 760 a 485 (che però diventano 343 se si considerano le 142 banche di credito cooperativo riunite in Iccrea) tra il 2010 e il 2019 e l'indice che misura la concentrazione degli istituti di credito è cresciuto tra il 2015 e il 2019 del 48%, da 435 a 643 (dati Bce). Anche se parlare di concentrazione spesso fa torcere il naso agli amanti della concorrenza, non bisogna dimenticare che in economia l'efficienza richiede anche il raggiungimento di dimensioni di scala opportune. In questo caso, la scala degli istituti, italiani ma non solo, è sempre stata troppo piccola, e le fusioni hanno permesso - o dovrebbero permettere - di avere le risorse necessarie per gli indispensabili investimenti in infrastrutture digitali e in analisi dei dati. L'aumento della concentrazione, in un settore che comunque conta ancora numerosi soggetti, ha avuto poco effetto sulla competitività. I margini di ricavo, anche alla luce di una prospettiva di tassi estremamente bassi, lascia poche alternative per aumentare la redditività, vale a dire il taglio dei costi. È così che, sempre tra il 2010 e il 2019, in Italia si è passati da quasi 34.000 filiali aperte sul territorio a poco più di 24.000 e da circa 330.000 addetti a circa 280.000 (fonte Bankitalia). Certo, le debolezze permangono e il sentiero è ancora lungo, ma la direzione sembra essere quella giusta e il colpo l'acceleratore dato dal Tesoro agli ultimi casi in sospeso (la Popolare di Bari e il Monte dei Paschi) rendono ancora più visibili i progressi compiuti. Tanto è vero che l'Italia, in questo campo, non può essere certo definita maglia nera d'Europa. Basta uno sguardo ai dati per capire che il sistema bancario è parcellizzato un po' ovunque: 36.000 filiali aperte e 400.000 addetti in Francia e 24.000 filiali e 173.000 addetti in Spagna, nonostante indici di concentrazioni più elevati che in Italia (rispettivamente pari a 654 e 1.110). Va segnalato che tra i paesi con minore concentrazione di istituti bancari, spiccano il Lussemburgo (indice pari a 277), il Regno Unito (ora fuori dall'Unione, indice pari a 349) e l'Austria (369). Ma il caso probabilmente più eclatante è quello tedesco, dove le banche operanti sono ancora circa 1.800, le filiali quasi 27.000, gli addetti circa 580.000, più del doppio dell'Italia; e l'indice di concentrazione è il più basso in Europa, pari a quello del Lussemburgo. Di queste banche, la quota più piccola è costituita da banche private, mentre il restante è composto da banche popolari, casse di risparmio locali e banche pubbliche regionali, le cosiddette Landesbank. Inoltre, le due principali banche private, Deutsche Bank e Commerzbank, sarebbero sull'orlo del fallimento, se contassero solo i fondamentali economici e non la politica, con un rapporto tra costi e ricavi tra i peggiori in Europa (Svizzera e Regno Unito compresi). La quarta banca regionale, la NordLB, è stata salvata con un aiuto di Stato che ha sostanzialmente ignorato le vigenti regole di bail-in (applicate invece ovunque altrove in Europa). E lo scorso novembre, l'agenzia di rating Moody' s ha rivisto al ribasso (da stabile a negativo) l'outlook sul sistema bancario tedesco. Una brutta gatta da pelare per Angela Merkel e per il paese, che per anni ha vantato un surplus commerciale con l'estero che però ha di fatto obbligato le banche tedesche a cercare allocazioni di capitale fuori dai confini nazionali, anche ricorrendo a investimenti piuttosto rischiosi. Tanto è vero che proprio molte banche tedesche risultavano imbottite di titoli tossici americani, quelli della famosa crisi del 2007. Secondo la Bce, tra il 2008 e il 2014 la Germania aveva già sostenuto il proprio sistema bancario con oltre 250 miliardi di euro di aiuti lordi, a fronte per esempio dei soli 4 miliardi messi in campo dall'Italia nello stesso periodo. Forse non saranno i soldi degli italiani che salveranno le banche tedesche ma è evidente che la tenuta della stabilità finanziaria dell'Unione, soprattutto nei prossimi anni, si dovrà basare su dinamiche e flussi redistributivi diversi e meno scontati. Probabilmente anche per queste ragioni la rigorosissima Germania ha abbandonato quasi subito le proprie posizioni di chiusura nei confronti del Recovery Fund, addirittura diventando uno dei fan più accesi: la creazione di sentimento continentale di solidarietà diffusa, in fin dei conti, potrebbe tornarle molto utile, nei prossimi anni.
La Germania prova a salvare la faccia. Andrea Massardo il 6 luglio 2020 su Inside Over. Dopo quanto successo all’istituto di moneta elettronica Wirecard AG – in uno dei fallimenti più sonori della storia della Germania – adesso Berlino starebbe lavorando ad un progetto volto a migliorare gli strumenti in mano alla vigilanza finanziaria tedesca, la Bafin. A renderlo noto è il quotidiano Der Spiegel, il quale ha sottolineato come le lacune messe in evidenza all’interno dell’operatività e dell’operato di Francoforte sul Meno abbiano contribuito in modo predominante alla crisi che ha cancellato dal giorno alla notte il colosso finanziario operativo in tutta Europa. Nello specifico – ed essendo state messe in evidenza le difficoltà che ha dovuto affrontare la Bafin – il Ministero dell’economia starebbe studiando delle migliorie volte a velocizzare i controlli. Tuttavia, come sottolineato dallo stesso ministro tedesco Olaf Scholz, tale situazione è stata generato anche dall’enorme complessità nell’analisi dei bilanci societari di quelle aziende operanti in più mercati e tramite le proprie controllate. Ed è in questo scenario, appare chiaro come l’unica via d’uscita sia quella che conduce ad una semplificazione delle procedure operative, necessarie a velocizzare i lavori e permettere che tali criticità vengano alla luce in tempo utile per agire.
Germania, buon viso a cattivo gioco? Quanto accaduto a Wirecard AG ha messo in luce tutti i limiti degli organi di vigilanza della Germania, oltre alla poca affidabilità anche delle agenzie che si occupano della revisione dei conti per le società quotate in borsa. E soprattutto, l’accaduto ha messo anche in cattiva luce l’intero comparto finanziario tedesco, evidenziando infatti il rischio che ben più di una società abbia potuto mettere in pratica gli stessi “trucchi” di Markus Braun e dell’azionista Jan Marsalek. In fin dei conti, però, Francoforte era consapevole già da tempo di avere un sistema di vigilanza che faceva letteralmente acqua da tutte le parti e cui riscontro si può osservare anche nell’operatività del colosso bancario Deutsche Bank, spesso al limite del lecito. Tuttavia, nessuna mossa davvero efficace è stata mai preso dal ministero dell’economia, continuando con lo stesso canone di controlli che più di una volta si sono rivelati insufficienti. La domanda dunque sorge spontanea: ma la Germania è davvero così intenzionata a migliorare il proprio sistema di vigilanza? In fin dei conti dalle sue lacune nei controlli e in un sistema normativo decisamente più semplificato rispetto a quello degli altri Paesi europei, le società tedesche sono sempre riuscite a trarne dei vantaggi – i quali si sono riflessi anche sul Pil della Germania. Andare a smuovere le fondamenta di questo sistema significherebbe mischiare nuovamente le carte in tavola, con la possibilità che molte aziende scelgano di migrare verso altre realtà oppure vedano ridotte le proprie positività di bilancio. E questa situazione, in fondo, non sarebbe auspicabile neppure per la stessa Berlino, che mai come in questo periodo ha bisogno di dimostrare la propria solidità economica.
L’obiettivo è salvare la faccia. Stando alle premesse e considerando le ripercussioni dell’accaduto, appare chiaro come per la Germania la preoccupazione maggiore in questo momento sia quello di salvare la faccia e la propria credibilità internazionale. Il fango gettato dalla vicenda che ha coinvolto Wirecard AG e la Bafin rischiano infatti di diventare un terremoto per i comparti tecnologici e finanziari di Francoforte che sarebbero difficilmente gestibili da parte di Berlino. La decisione di intervenire sul sistema di vigilanza, in fondo, è fine a se stessa se ad essa non fanno seguito una serie di norme attuative volte a trasformare in “reali” le semplici direttive governative. Ma la loro discussione e soprattutto la loro introduzione sarebbero fondamentali per permettere alla Germania di “prendere tempo” e sperare che il tempo ripari da solo alla crisi che si è creata. Il tutto, ovviamente, avendo dimostrato – almeno a parole – di essersi mossi sull’accaduto. Ancora una volta, infatti, il rischio e quello che la Germania – dall’alto della sua immagine rigorista – faccia buon viso a cattivo gioco, cercando di vendere al mondo un ideale di “perfezione” che non è però stato raggiunto. E soprattutto, facendo leva sulla sua potenza commerciale per convincere gli investitori circa la propria stabilità, sebbene gli ultimi accadimenti abbiano dimostrato che gli scheletri nell’armadio esistono anche in Germania.
Cipro multa Commerzbank: un altro scheletro nell’armadio tedesco. Andrea Massardo il 5 luglio 2020 su Inside Over. Sembra non avere fine l’elenco di scandali e tentativi di manipolazione dei mercati portati avanti dai colosso bancari e finanziari della Germania. Dopo la pluri-indagata Deutsche bank e i recenti avvenimento che hanno coinvolto l’istituto di moneta elettronica Wirecard AG, anche Commerzbank è finita sotto la lente degli investigatori, questa volta ciprioti. Secondo quanto riportato infatti dall’agenzia di stampa Reuters, la seconda banca di Germania con la sede a Francoforte sul Meno è stata raggiunta da una multa di 650mila euro per aver manipolato i titoli di una defunta banca cipriota, la Laiki, con la quale aveva portato avanti in simbiosi movimenti finanziari altamente speculativi.
Commerzbank è alla base della crisi cipriota del 2013? Secondo quanto dichiarato dalla sentenza, Commerzbank e Laiki avrebbero portato avanti investimenti strutturati dal 2008 in avanti, spostandosi quindi su una serie di azioni speculative sulle stesse azioni della seconda banca cipriota nel 2011. L’operatività finanziaria è però risultata discriminante nel fallimento dell’istituto di credito di Cipro, entrato in amministrazione controllata nel 2013 e ancora soggetto a diretto controllo delle autorità. Anche per questo motivo, infatti a subire la multa da parte dell’autorità di vigilanza azionaria di Nicosia è stata la banca tedesca, col fine di non danneggiare ulteriormente i già vessati azionisti e correntisti della Laiki. A seguito del fallimento dell’istituto di credito nel 2013, la parte grecofona dell’isola del mediterraneo era stata colpita da una profonda crisi economica generata dalla sfiducia dei mercati nel suo indice azionario e a causa delle ripercussioni sulla clientela del default bancario. Stando alle normative europee, infatti, soltanto i depositi sino a 100mila euro sono stati tutelati, generando in questo modo una crisi cui effetti non sono ancora completamente spariti. E in questo scenario, come emerso dalle indagini, parte della colpa è detenuta dalla tedesca Commerzbank e dalle sue operazioni volte a drogare – in accordo con i dirigenti ciprioti – il valore azionario della Laiki.
La Germania è al centro degli scandali finanziari. È impossibile dimenticarsi la durezza con la quale in quegli anni la cancelliera tedesca Angela Merkel si era rivolta a Paesi come l’Italia, la Grecia e Cipro. In particolar modo, con le volontà di rallentare gli aiuti nei confronti di quei Paesi che stavano attraversando gravi crisi economiche e che avrebbero avuto bisogno di meno rigore e di più sostegno. Tuttavia – e come evidenziato anche dagli ultimi accadimenti – buona parte della crisi soprattutto greca e cipriota è da additarsi proprio alla stessa Germania ed alle attività illecite portate avanti dai propri istituti di credito in campo finanziario. Insomma, un po’ come dire “la colpa è nostra, ma adesso a rimediare tocca a voi”. Soprattutto, però non si può negare nemmeno quanto il modus operandi portato avanti dalle società tedesche – e garantito dal basso livello di sorveglianza attuato dalla Bafin – stia mettendo in pericolo la totalità dell’Europa. Con gli ultimi scandali – come quello di Wirecard – e i comportamenti fraudolenti – come quelli di Deutsche Bank e Commerzbank – l’intero comparto finanziario europeo sembra improntato esclusivamente alle pratiche illecite. E in un momento di crisi economica come quello che il mondo sta attraversando e con la sostanziale sfiducia ancora dei mercati, gli ultimi accadimenti non sono sicuramente un impeccabile biglietto da visita.
Gianluca Paolucci per ''la Stampa'' il 29 giugno 2020. Con 45 bonifici tra la fine di gennaio e novembre del 2015, Wirecard ha inviato oltre 150 milioni di dollari nel conto personale di un avvocato francese basato in Lussemburgo, presso la Cayman National Bank dell'Isola di Man. La società tedesca, che nei giorni scorsi ha chiesto la dichiarazione d'insolvenza dopo essere stata travolta da uno scandalo contabile multimiliardario, è al centro di un caso internazionale che mostra ancora una volta la debolezza dei controlli sulle operazioni finanziarie. Ma se dal lato della frode contabile è già emerso molto, i documenti consultati da La Stampa mostrano come la piattaforma di Wirecard sia stata anche uno strumento per attività ai limiti del legale, consentendo la movimentazione di enormi masse di denaro con scarse possibilità di controllo. Tutto parte il 26 gennaio del 2015, quando Sebastien Limat, avvocato francese che esercita in Lussemburgo, apre quello che sembra a tutti gli effetti un conto personale - l'indirizzo di registrazione è quello di un piccolo paese nei pressi di Thionville, ai confini con il Granducato - presso la Cayman National Bank and Trust dell'Isola di Man. Quattro giorni dopo, il 30 gennaio, Wirecard Bank Ag invia su quel conto 5,548 milioni di dollari. Al 27 novembre del 2015, il totale dei bonifici ricevuti è di 152,19 milioni di dollari. L'attività dell'avvocato non passa però inosservata. La piccola banca dell'Isola di Man utilizza come "banca corrispondente" per tutta una serie di attività National Westminster Bank, nota come Natwest, una delle principali banche del Regno Unito e parte del gruppo Royal Bank of Scotland (Rbs), controllata dal Tesoro britannico. A sua volta, Natwest si appoggia a Jp Morgan per regolare sul mercato bancario le operazioni in dollari. Ed è proprio Jp Morgan a trovare l'attività sul conto dell'avvocato quantomeno sospetta e a chiedere alla sua corrispondente Natwest una serie di chiarimenti. Le lettere, che fanno parte di un leak di dati della Cayman National Bank ottenuto dagli attivisti di Ddos e rese disponibili da Occrp (Organised Crime and Corruption Reporting Project), chiedono di rendere note le finalità e i destinati reali dei fondi recapitati sul conto dell'avvocato che, secondo replica la Cayman National, agisce non in proprio ma come trustee (fiduciario) di una serie di società, che a loro volta si appoggiano a Wirecard per ricevere i pagamenti. Un elenco delle società viene allegato alla risposta fornita a Jp Morgan e consente di far luce su una parte assai redditizia del business di Wirecard: i pagamenti per i servizi online dalla scarsa reputazione. Porno, scommesse, trading di titoli ad alto rischio, appuntamenti e altro. Tra i clienti di Limat - e di Wirecard - figurano un sito di incontri chiuso nel 2018 e una società di trading di opzioni binarie (Banc de Binary), travolta da sospetti di frode, la cui licenza è stata revocata dalle autorità cipriote. Cinque su 35 società dell'elenco hanno sede allo stesso indirizzo dell'isola di Guernsey, paradiso fiscale nella Manica. Secondo quanto ricostruito, l'interposizione di un soggetto terzo consentirebbe di "schermare" le reali attività per consentire l'operatività anche verso clienti di quei paesi dove queste attività sono proibite, come il porno in molti paesi islamici o le scommesse in alcuni stati americani. Cnb risponde a Jp Morgan che le attività condotte sono legali e che il cliente (Limat) è un soggetto affidabile. Nel database c'è però anche una lettera della funzione di controllo di Rbs dell'aprile del 2016, indirizzata a Cnb, nella quale la banca britannica spiega di aver compiuto un esame sui conti di Limat, in seguito al quale l'istituto, senza fornire altri dettagli, ha deciso di non consentire più l'utilizzo del conto di corrispondenza di Cnb presso la sua controllata Natwest per le operazioni dell'avvocato francese.
Quel filo rosso che lega Markus Braun a Deutsche Bank. Andrea Massardo il 26 giugno 2020 su Inside Over. Sono giorni difficili quelli che stanno attraversando l’istituto di moneta elettronica tedesco Wirecard e il suo ex amministratore delegato Markus Braun, nell’occhio del ciclone da quando è stato reso noto un ammanco di bilancio di quasi due miliardi di euro. Tuttavia – da quando il vaso di Pandora è stato scoperchiato – sono sempre più oscure le notizie e gli avvenimenti che stanno circondando la vicenda e che vedono come attore principale proprio l’uscente Ceo della società finanziaria. E in questa vicenda, adesso, sembra avvicinarsi anche lo spettro di un altro volto noto agli organi di vigilanza della Germania per le sue operazioni molto spesso al limite del legale, ossia il colosso bancario tedesco Deutsche Bank.
Braun e DB: un legame da 150 milioni di euro. Stando alle indiscrezioni riportate da Il Sole 24 Ore, nel corso del 2017 Braun avrebbe ottenuto un finanziamento di 150 milioni di euro da Deutsche Bank, mettendo a garanzia buona parte dei titoli in suo possesso (il 7%, fino a pochi giorni fa) della società da lui amministrata. In questo modo, egli si è potuto garantire la liquidità necessaria in un’operazione di margin call, coprendo il finanziamento con il doppio della cifra in azioni. Il gioco, in fondo, è molto semplice: più cresceva il valore azionario di Wirecard, minori erano le azioni impegnate a copertura del finanziamento e soprattutto maggiori erano in margini di guadagno tramite la compravendita delle azioni. Un gioco relativamente semplice da effettuare se si possiedono sia la liquidità che la conoscenza idonea delle operazioni finanziarie (ed è con questa chiave di lettura che, forse, va interpretato parte dello scandalo che ha avvolto la società). Tuttavia, col tracollo delle azioni dal finire della scorsa settimana anche il prestito contratto con Deutsche Bank sembrerebbe risultare scoperto. Esatto, sembrerebbe, perché in realtà quell’indebitamento non è più nelle mani nella banca di Francoforte.
Deutsche Bank ha cartolarizzato il debito. Tramite un’operazione di cartolarizzazione nota con l’acronimo di Clo (Collateralised loan obligations) Deutsche Bank si era liberata già da mesi del proprio credito nei confronti di Braun. Sentore che qualcosa non stesse funzionando o semplice operazione volta a “liberarsi” del peso di un grosso indebitamento per impegnare al meglio il capitale? Difficile a dirsi e soprattutto sull’argomento sono necessarie ulteriori indagini da parte degli inquirenti (e degli organi di vigilanza tedeschi, che per l’ennesima volta hanno dimostrato di fare acqua da tutte le parti); tuttavia, il debito contratto dall’ex amministratore di Wirecard sono adesso nella pancia dei fondi d’investimento. Tramite l’utilizzo del Clo (notoriamente composto in buona parte da prodotti “junk“), infatti, Francoforte sul Meno ha ripartito in piccole quote l’indebitamento di Braun, distribuendo a tappeto le perdite che proverranno dall’operazione finanziaria, “salvando” in questo modo il proprio attivo. Tuttavia, per l’ennesima volta la mossa di Deutsche bank ha fatto circolare titoli potenzialmente tossici sul mercato, che si tradurranno in una perdita da parte degli investitori che possiedono azioni dei fondi d’investimento.
La vigilanza tedesca barcolla, ma Moody’s rimane all’occhio. Già negli scorsi mesi – a seguito della pandemia di Covid-19 – la società di rating Moody’s aveva minacciato di tagliare buona parte delle stime di rating riguardo al prodotto, in quanto particolarmente volatile in situazioni di crisi come quelle che sta attraversando il mondo finanziario in questo momento. Soprattutto, il messaggio era stato infatti lanciato chiaramente nei confronti della Deutsche Bank e in generale del mercato tedesco, particolarmente avvezzo all’utilizzo della pratica. In questo scenario, con lo scoppio della bolla Wirecard e tenendo presente la posizione presa nei confronti della stessa Wirecard, difficilmente Moody’s ritirerà la promessa fatta soltanto poche settimane fa. E con essa, rischiano di arrivare anche pesanti stime negative nei confronti dell’intero comparto finanziario della Germania, considerando le enormi mancanze e le grandi lacune dimostrate nelle settimane appena trascorse.
Tonia Mastrobuoni per ''la Repubblica'' il 24 giugno 2020. Con il suo perenne maglioncino nero a collo alto, Markus Braun sperava di somigliare al re del nuovo mondo, al guru di Apple Steve Jobs. Ma è stato arrestato a Monaco per lo scandalo Wirecard, per crimini da archeologia della finanza: falso in bilancio e manipolazione dei mercati, cui potrebbe aggiungersi nei prossimi giorni il reato di truffa. Dopo una notte in carcere e dopo aver pagato una cauzione da 5 milioni di euro, l'ormai ex amministratore delegato dell'azienda bavarese è tornato ieri in libertà, ma la Procura di Monaco sta anche cercando uno dei consiglieri, Jan Marsalek. Il top manager sarebbe a Manila. Non in fuga, sostiene, ma per raccogliere importanti documenti che possano scagionare la società dalle accuse pesanti formulate dai magistrati, che riguardano due conti filippini inesistenti. I grandi millantatori dell'ex start up bavarese sembrano essere finiti in guai seri. Saranno torchiati da una procuratrice d'acciaio come Hildegard Bäumler- Hösl, famosa per aver scoperto il mega scandalo di corruzione della Siemens e per aver costretto il re della Formula Uno Bernie Ecclestone a pagare 100 milioni di dollari alle casse della Baviera. Braun, il "visionario" austriaco che era stato festeggiato per anni persino dall'autorità di vigilanza Bafin come il Faust dell'high tech in salsa teutonica, come il deus ex machina in grado di riscattare la Germania dai suoi ritardi sull'economia digitale, si è rivelato un ladro e un truffatore. Peraltro, la testarda cecità della Bafin dinanzi alle palesi incongruenze nei conti di Wirecard sta sollevando anche una bufera politica. Alcuni parlamentari chiedono la testa dei vertici dell'autorità. E persino il ministro delle Finanze Olaf Scholz, che aveva difeso l'azienda monacense fino a lunedì, si è prodotto in una spettacolare inversione a U. «Sia i revisori dei conti sia le autorità di vigilanza non sembrano essere stati efficienti», ha ammesso. Il capo della Bafin, Felix Hufeld, ha tuonato che il caso Wirecard «è una vergogna per la Germania». Ma la prossima settimana dovrà spiegare in Parlamento perché non se n'è mai accorto. Undici anni fa Braun aveva fondato Wirecard in periferia di Monaco. Una start up fintech che aveva esordito in un angolo oscuro del web, quello dei giochi online e del porno, offrendosi come intermediaria per i pagamenti. E in poco tempo il gioiellino fintech era diventato la risposta tedesca a Paypal, utilizzato anche da catene di ipermercati e venditori mainstream. All'ultima assemblea degli azionisti un investitore ha raccontato entusiasta di aver investito tutti i soldi della figlia in azioni Wirecard: «Me ne sarà dannatamente grata, mi creda», aveva esclamato. Un anno fa quelle azioni valevano 150 euro. Ieri hanno chiuso a 17. Il Financial Times , cui va il merito di una testarda serie di inchieste sulla creatura di Braun - che aveva risposto con pesanti querele - ha rivelato ieri che anche un altro mito dell'azienda, quello dell'uso spasmodico dell'intelligenza artificiale per analizzare i dati dei clienti, era, appunto, un mito. I dipendenti scartabellavano primitivi fogli elettronici per dedurre dettagli sugli acquirenti. Tutto doveva servire ad alimentare l'immagine di un'azienda all'avanguardia. E il merito del quotidiano finanziario è stato quello di aver acceso per primo un faro sulle incongruenze nei conti e nelle operazioni finanziarie di Wirecard. Lo showdown c'è stato giovedì scorso, quando il revisore dei conti, Ernst&Young, si è rifiutato di certificare il bilancio di Wirecard. L'appuntamento per la presentazione dei conti è slittato così per la terza volta, scatenando una pioggia di vendite che ha affossato il titolo dell'80% in due sedute. In particolare, E&Y ha sollevato il velo su 1,9 miliardi di euro che sarebbero dovuti essere su due conti correnti nelle Filippine. Ma quando i guardiani della contabilità hanno chiesto dettagli direttamente alle banche, hanno scoperto che i conti erano inesistenti. «Quando ci hanno mostrato il cosiddetto certificato è stato subito chiaro che si trattava di un falso», ha dichiarato alla Reuters Cezar Consing, presidente della Bank of the Philippine Islands (BPI), una delle due dove Wirecard sosteneva di avere una montagna di denaro.
Arrestato ex Ceo della tedesca Wirecard dopo la colossale frode contabile. Da "huffingtonpost.it" il 23 giugno 2020. È stato arrestato Markus Braun, l’ex amministratore delegato di Wirecard al centro di uno scandalo che sta scuotendo gli ambienti finanziari tedeschi. Il 19 giugno Braun, conosciuto anche come lo “Steve Jobs” tedesco, si era dimesso dopo che la società fintech ha rivelato nei suoi conti un ammanco di 1,9 miliardi di euro. Questa cifra, che si pensava fosse custodita in due istituti bancari delle Filippine, in realtà non esiste. Si tratta di una colossale frode contabile in quanto la società avrebbe esibito nei bilanci una presunta montagna di liquidità. Le indagini in corso mostrano che “la condotta dell’accusato giustifica il sospetto di una presentazione imprecisa e di una manipolazione del mercato”, ha dichiarato il pubblico ministero di Monaco di Baviera.
Il tracollo della star Wirecard «Una vergogna per la Germania». Lo scandalo dei conti fantasma, spariti 1,9 miliardi. Nuovo tonfo in Borsa (-44%). Giuliana Ferraino per il "Corriere Della Sera" il 23 giugno 2020. Nuove tecnologie, vecchi vizi. E la Germania, alle prese con uno scandalo finanziario miliardario, è costretta a fare i conti con la Parmalat di casa sua. Wirecard, la fintech di Monaco di Baviera specializzata nei pagamenti elettronici, ieri ha ammesso dopo aver quasi azzerato la sua capitalizzazione di mercato nelle ultime 3 sedute di contrattazione in Borsa a Francoforte, che «molto probabilmente» i fondi che si supponeva fossero in conti fiduciari in due banche nelle Filippine «non esistono», lasciando intuire un buco in bilancio da 1,9 miliardi. Lo scandalo ha spinto a scendere in campo perfino il governatore della banca centrale filippina, che ha dichiarato che «i soldi mancanti non sono mai entrato nel sistema finanziario delle Filippine». Alla fine Wirecard ha ceduto davanti all'ipotesi sempre più concreta di frode e ha ritirato il bilancio 2019, che il revisore Ey non aveva voluto firmare, scatenando il crollo in Borsa la settimana scorsa, con un crollo di oltre l'80% tra giovedì e venerdì, quando il ceo Markus Brown, primo azionista con il 7%, ha annunciato le dimissioni. La società bavarese ha ritirato anche i conti preliminari del primo trimestre di quest' anno, la stima dell'Ebitda per l'intero esercizio e la guidance al 2025 su volume delle transazioni, ricavi ed ebitda. Felix Hutfeld, presidente di BaFin, la Consob tedesca, ha definito il caso «un disastro completo e una vergogna per la Germania». Ma lo scandalo si allunga alla stessa BaFin, accusata di aver sempre respinto come speculazioni le voci crescenti su presunte pratiche illecite della fintech, sulle quali aveva acceso un faro un'inchiesta del Financial Times, cominciata fin dal febbraio 2019 sulle sue operazioni in Asia. Come spesso accade, il tempismo dei controllori non coincide sempre è sempre perfetto, così Moody' s solo ieri ha ritirato il rating di Wirecard, mentre la polizia di Monaco ha lanciato un'investigazione criminale. Il problema è «serio e riguarderà tutti noi», ha ammesso Christian Sewing, ceo di Deutsche Bank, la prima banca tedesca, intervenendo al Financial Summit di Francoforte. Lo scandalo mette a dura prova la fiducia dei risparmiatori. E la difesa del ministro dell'Economia, Olaf Scholz, che si è affrettato ad assolvere le autorità di controllo, affermando che hanno «fatto il loro lavoro», non basta a tranquillizzare gli investitori. Ieri il titolo è precipitato di nuovo in Borsa, perdendo un altro 44%, a 14,35%. E' un tonfo senza precedenti rispetto al record di 158,85 euro toccato nell'ultimo anno dalle azioni, dopo il volo messo a segno tra l'inizio del 2017 e l'estate 2018, quando il titolo Wirecard è quasi quintuplicato e gli analisti all'unanimità scommettevano su ulteriori aumenti di prezzo. Nel frattempo la capitalizzazione si è ridotta a 1,78 miliardi, dai 17 miliardi di inizio 2019, che l'avevano portata agli stessi valori di Deutsche Bank, il primo gruppo bancario costretto a una drastica ristrutturazione dopo essere finito al centro di innumerevoli scandali. Il bond da 500 milioni invece scambia al 27% del valore nominale. Fondata nel 1999 per gestire le transazioni per l'industria del porno e dei giochi online, Wirecard è diventata uno dei principali operatori non solo in Germania, ma anche in Asia e in Nord America, dove è entrata nel 2016 rilevando il servizio di carte prepagate di Citigroup. Il suo mestiere: garantire i pagamenti per le transazioni effettuate online da società, incassando un premio per il rischio. All'apice del successo, nel settembre 2018 aveva scalzato dall'indice Dax la Commerzbank, seconda banca in Germania con 150 anni di storia.
Vito Punzi per “Libero quotidiano” il 19 maggio 2020. Ach Italien, il titolo del book on demand (su Amazon al costo di 14,99) scritto da Inge Adams, fresca pensionata tedesca della Renania, ma per 43 anni a servizio dello Stato italiano, nella fattispecie della sua diplomazia in terra di Germania, è un modo per richiamare le tante perplessità con le quali tanti in Germania guardano all' Italia. Assunta come traduttrice, Inge ha lavorato, facendo in realtà di tutto, prima presso l' Ambasciata di Bonn, poi nel Consolato di Colonia, quando Berlino tornò ad essere la capitale tedesca. In quasi mezzo secolo ha visto passare ben dodici ambasciatori: una lunga storia di diplomazia italiana in un Paese il cui popolo vive da sempre con quello italiano un rapporto che è fin troppo facile definire di amore e odio. Il libro, ricco di episodi curiosi, divertenti, addirittura incredibili, è scritto in tedesco per il semplice motivo che Inge, «metà italiana e metà tedesca», traduttrice e interprete diplomata, non se la sentiva di scrivere il libro in italiano. Episodi incredibili come quello avvenuto nel 2005 ad Aquisgrana: c' era da preparare la visita del Presidente della Repubblica, Azeglio Ciampi, per la consegna del Premio Carlo Magno. Come d' uso, qualche giorno prima ci fu il sopralluogo di una folta delegazione italiana (una trentina di persone) e fu nella cattedrale della città che a Inge arrivò l' imbarazzante richiesta del capo di protocollo della Presidenza della Repubblica: «Chieda al vescovo di Aquisgrana di spostare quella "cassa", perché impedisce la visuale al Presidente». «Ma com' era possibile», scrive Inge, «si trattava nientedimeno che del sarcofago dell' imperatore Carlo Magno!». In realtà, e lo si capisce molto bene ascoltando un' intervista rilasciata qualche mese fa dalla Adams a Radio Colonia, questo libro-memoriale è un attestato di riconoscenza e d' amore all' Italia. Tanto più che non le sono mancati gli apprezzamenti da parte degli ambasciatori ancora in vita, compreso Luigi Vittorio Ferraris, che ricoprì l' incarico dal 1980 al 1987, il quale, morto nel 2018, è riuscito comunque a leggere in bozze il capitolo che lo riguardava. L' idea di un libro-memoriale come questo non è derivata tanto dal desiderio di togliersi qualche sassolino dalle scarpe (come qualcuno ha scritto). Fu il padre di Inge, dall' inizio, ascoltando i suoi racconti a cena, a suggerirle di scrivere quanto aveva vissuto a servizio della diplomazia italiana. Covata per 40 anni, la scrittura è iniziata solo tre anni prima del pensionamento. Nell' ufficio stampa dell' Ambasciata capitò per esempio che la sua traduzione di un testo su Giulio Andreotti venne "cambiata": «Ha a che fare con la mafia» fu sostituito con: «Andreotti eccellente rappresentante della politica italiana». Adams ricorda anche quando il cancelliere Helmut Schmidt, usando un tedesco del nord della Germania, raccontò una barzelletta su di un carro armato italiano con una marcia in avanti e tre retromarce.]Uno dei due ambasciatori che non hanno potuto leggere il libro della Adams è Silvio Fagiolo (l' altro è stato Corrado Orlandi Contucci), in servizio a Berlino dal 2001 al 2005, gli anni del II governo Berlusconi: un uomo non sempre allineato con gli indirizzi governativi. E Inge ricorda nel libro la reazione seccata di Fagiolo alla richiesta del Cavaliere di inoltrare all' allora cancelliere Schröder l' invito a fare vacanza nella sua villa in Sardegna: «Questo proprio non posso farlo», si sentì rispondere la Adams. Non mancano certo gli appunti alla macchina burocratica italiana, ma nella citata intervista Inge ha dimostrato di non avere dubbi: «Nonostante i tanti ostacoli e le tante insufficienze, soltanto l' Italia è in grado di funzionare così come funziona. Negli anni in cui le crisi di governo si susseguivano a distanza di poche settimane, i giornalisti tedeschi mi chiedevano continuamente: come fa a funzionare l' Italia senza un governo? Ma io ho sempre risposto: l' Italia non ha bisogno di un governo, funziona da sola». Alla domanda poi se non abbia mai pensato di lasciare quel posto a contratto a servizio della diplomazia italiana, la Adams ha risposto senza tentennamenti: «Mai. Non l' ho mai pensato. Fin dall' inizio, quando venni posta davanti all' alternativa: amministrazione olandese o tedesca, oppure amministrazione italiana, non ho avuto dubbi. Lavorare per olandesi o tedeschi sarebbe stato noiosissimo, triste, "pallido". Un' amministrazione italiana ha un aspetto spettacolare, di commedia, in senso positivo. Un altro elemento che mi ha fatto rimanere così a lungo a servizio dell' Italia», ha aggiunto Inge, «è stata la flessibilità. In Germania, una volta entrati in un contesto di lavoro con una qualifica precisa si è rinchiusi per 40 anni lì, dentro quella funzione. Nelle strutture italiane, invece, sono stata chiamata non solo a fare la traduttrice, ma a sbrigare pratiche private per il capo, a preparargli il caffè, a predisporre la rassegna stampa, ad organizzare grandi eventi, addirittura a scrivere messaggi politici».
Roberto Brunelli per agi.it il 25 aprile 2020. La Germania ha “un’immagine distorta e fatale dell’Italia”, un’immagine che finirà per “fare a pezzi l’Unione europea”. Lo scrive oggi in un lungo editoriale lo Spiegel, che lo pubblica addirittura in apertura del proprio sito. Un articolo molto duro nei confronti della classe politica tedesca: Thomas Fricke, che firma il pezzo, non esita a parlare di “tutta questa arroganza tedesca che - non solo adesso, ma soprattutto adesso – è particolarmente tragica”. E non solo perché “la solita lagna tedesca ha a che fare con la realtà della vita degli italiani quanto i crauti hanno a che vedere con le abitudini alimentari dei tedeschi”. A detta dello Spiegel, la lite sull’eventuale partecipazione dei tedeschi agli eurobond “è imbarazzante”, perché si preferisce “fantasticare sul fatto che gli italiani avrebbero dovuto risparmiare prima”, fantasie che “spiegano la mancanza di zelo da parte della Germania nel far partire al vertice Ue di questa settimana una storica azione di salvataggio”. Ed ecco l’affondo: “L’Europa rischia di sprofondare nel dramma, non perché gli italiani sono fuori strada, ma a causa di una parte predominante della percezione tedesca”. E ancora: “Forse è per colpa dei tanti film sulla mafia”, scrive il settimanale tedesco ironizzando sui rispettivi stereotipi tra i due Paesi, “forse è solo l’invidia per il fatto che l’Italia ha il clima migliore, il cibo migliore, più sole e il mare”. Secondo Fricke, “se lo Stato italiano in una crisi come questa finisce sotto pressione dal punto di vista finanziario, dipende – se proprio deve dipendere dagli italiani – dal fatto che il Paese ha una quota di vecchi debiti pubblici, ossia dai tempi passati. Solo che questo ha poco a che vedere con la realtà della vita di oggi, ma con una fase di deragliamento degli anni ’80, il che ha a sua volta a che vedere con gli interessi improvvisamente schizzati in alto”. Lo Spiegel fa anche un paragone storico sempre molto scottante per la Germania: “Se noi tedeschi non avessimo avuto all’estero amici tanto cari che nel 1953 ci abbuonarono una parte dei nostri debiti, staremmo ancora oggi con un pesante fardello in mano. E come va a finire quando le persone devono continuare a pagare debiti nati storicamente, la Germania lo ha dimostrato alla fine della Prima guerra mondiale, quando alla fine il sistema si rovesciò, come da anni rischia di succedere anche in Italia”. Inoltre, l'editoriale del settimanale ricorda che “da 30 anni lo Stato italiano spende meno per i suoi cittadini di quello che prende loro, con l’unica eccezione dell’anno della crisi finanziaria mondiale 2009. Questo vuol dire risparmi record, non sperperare”. Il giornale cita anche gli investimenti pubblici “tagliati di un terzo dal 2010 al 2015”, così come “si sono rimpicciolite le spese per l’istruzione e la pubblica amministrazione”. Insomma: “Dolce vita? Stupidaggini. Gli investimenti pubblici dal 2010 in Italia sono calati del 40%. Un vero e proprio collasso”. Questo mentre in Germania, la spesa pubblica “è cresciuta quasi del 20%”, ossia “lo Stato spende a testa un quarto di più di quello che spende in Italia. Il che in queste settimane si percepisce dolorosamente”. Una situazione che con l’attuale crisi da pandemia del coronavirus si tramuta “in un dramma incredibile”: “In Italia sono mancati i posti letto e sono morte tante persone che oggi forse potrebbero essere ancora in vita. Non è direttamente colpa dei politici tedeschi, ovvio. Ma sarebbe ben giunto il tempo di smettere con folli lezioncine, e di contribuire a far piazza pulita delle cause del disastro, caro signor Schaeuble (già ministro alle Finanze negli anni più caldi dell’eurocrisi, ndr). O di dire “scusateci” almeno una volta”. E invece “con assoluta serietà” si continua ancora a parlare della “dipendenza da credito” degli italiani, continua lo Spiegel. “Ma anche qui, un piccolo suggerimento fattuale: i debiti privati, commisurati al Pil, in quasi nessun Paese dell’Ue sono così bassi come in Italia”. Infine: “È giunta finalmente l’ora di mettere fine a questo dramma, e magari proprio con gli eurobond, quali simbolo della comunità del destino della quale comunque facciamo parte sin da quando abbiamo una moneta comune”, conclude Fricke. “Ancora i tedeschi hanno tempo di raddrizzare la curva dopo le contorte settimane scorse: altrimenti l’Unione europea nel giro di qualche anno non sarà più un’unione. In Italia come in Francia arriveranno al potere delle persone che, come adesso già fanno Donald Trump o Boris Johnson, non hanno nessuna voglia di stare al gioco: quel gioco sul quale la Germania da decenni costruisce il proprio benessere”.
“In Italia la mafia aspetta i soldi dell’Europa”, l’affondo durissimo dalla Germania sugli aiuti. Redazione de Il Riformista il 9 Aprile 2020. “In Italia la mafia aspetta soltanto una nuova pioggia di soldi da Bruxelles”. Lo dice senza mezzi termini il quotidiano tedesco ‘Die Welt’, confermando la sua netta contrarietà all’ipotesi di introdurre i cosiddetti Coronabond per fare fronte all’emergenza economica causata, in particolare in Spagna e Italia, dal contagio di Coronavirus. Una posizione da falchi, contro le colombe dei Paesi del Sud Europa che non vogliono invece sentir parlare di Mes come aiuto economico per risollevarsi dalla crisi. L’autorevole quotidiano tedesco, nell’articolo riportato da Agenzia Nova, non nega la necessità di aiuti agli Stati membri dell’Unione Europea, ma mette in guardia su controlli e limiti. Gli italiani infatti “devono essere controllati” dalla Commissione europea e “devono dimostrare” di spendere i soldi degli aiuti esclusivamente per l’emergenza sanitaria. ‘Die Welt’ quindi sottolinea come la solidarietà europea e tedesca debba essere generosi, ma con limiti e controlli perché le obbligazioni europee, con responsabilità congiunta del debito degli Stati membri dell’Ue, sarebbe “una gigantesca perdita di miliardi di euro per i contribuenti tedeschi”. Da qui l’appello alla cancelliera Angela Merkel a non cedere sulla proposta di Italia e Spagna, dato che le conseguenze di un allentamento delle regole di bilancio sarebbero “incontrollabili”, mentre il quotidiano tedesco spinge nell’altro senso a continuare ad applicare le misure di rigore economico anche durante la crisi economica provocato dall’emergenza Covid-19.
DI MAIO: “GOVERNO TEDESCO SI DISSOCI” – Non è mancata una presa di posizione italiana alle parole del quotidiano tedesco. Intervenendo in diretta a ‘Uno Mattina’ su Rai1, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha chiesto al governo tedesco di di dissociarsi dalla “vergognosa” posizione espressa da ‘Die Welt’. “Si tratta di una “affermazione vergognosa e inaccettabile, mi auguro che Berlino prenda le distanze. L’Italia piange oggi le vittime del Coronavirus, ma ha pianto e piange ancora le vittime di mafia. Non è per fare polemica ma non accetto che in questo momento si facciano considerazioni del genere”, ha detto Di Maio.
L’INTERVISTA DI CONTE ALLA BILD – “E’ nell’interesse reciproco che l’Europa batta un colpo”, altrimenti “dobbiamo assolutamente abbandonare il sogno europeo e dire che ognuno fa per sé“. Sono state queste le parole del premier Giuseppe Conte in un’intervista al quotidiano tedesco Bild. “Vanno allentate le regole di politica fiscale” è il messaggio che l’Italia ribadisce da settimane senza però ottenere risposte concrete, sorpattutto da Germania e Olanda. “Per non perdere competitività abbiamo bisogno di Eurobond – sottolinea ancora una volta il presidente del Consiglio -. Noi competiamo con Cina e Stati Uniti: vedete le manovre che hanno messo in campo. Negli Stati Uniti parliamo di una manovra del 13% circa rispetto al Pil. Se l’Europa non agisce, le nostre industrie perderanno competitività a livello globale”.
Der Spiegel contro Angela Merkel: "No all'Italia sugli eurobond gretto e vigliacco". Libero Quotidiano l'8 aprile 2020. C'è un tedesco che ragiona. E a sorprendere ancor di più è il fatto che si tratta di Steffen Klusmann, direttore del Der Spiegel che tante volte ha sfregiato e cosparso di fango l'Italia. Il punto è che il direttore ha preso posizione in un editoriale pubblicato online, dal titolo: "Il rifiuto tedesco degli eurobond è non solidale, gretto e vigliacco". Piuttosto clamoroso. Il contesto ovviamente è quello degli aiuti negati per la gestione dell'emergenza coronavirus. Un editoriale pubblicato anche nella versione online in italiano. "Invece di dire onestamente ai tedeschi che non esistono alternative agli eurobond in una crisi come questa - prosegue Klusmann -, il governo Merkel insinua che ci sia qualcosa di marcio". Ossia "che in fin dei conti sarebbero i laboriosi contribuenti tedeschi a dover pagare, in quanto gli italiani non sarebbero mai stati capaci di gestire il denaro". Per una volta, giù il cappello davanti a quelli di Der Spiegel.
Steffen Klusmann per “Der Spiegel” il 9 aprile 2020. Gli Eurobond- affermò la cancelliera Angela Merkel otto anni fa all’apice della crisi dell’Euro- "non ci saranno finché sarò in vita". E così anche la scorsa settimana al vertice dei capi di Stato e di governo dell'UE tenutosi in videoconferenza, i paesi dell'Europa meridionale sono stati messi a tacere bruscamente, quando hanno avanzato nuovamente la richiesta degli Eurobond per proteggere le loro economie dall'impatto della pandemia. Il ministro dell'Economia Peter Altmaier l'ha definita, in modo sprezzante, un "dibattito fantasma". O il governo tedesco davvero non si rende conto di quello che sta rifiutando con tanta noncuranza, oppure si ostina a non capire, spinta dalla paura che il partito populista Alternative für Deutschland (AfD) possa strumentalizzare gli aiuti ai vicini europei per la propria propaganda. Dopo tutto è stato l’esasperante dibattito sul sostegno alla Grecia che ha portato alla fondazione dell'AfD nel 2013. Invece di dire onestamente ai tedeschi che non esistono alternative agli Eurobond in una crisi come questa, il governo Merkel insinua che ci sia qualcosa di marcio in questi bond. Ovvero, che in fin dei conti sarebbero i laboriosi contribuenti tedeschi a dover pagare, in quanto gli italiani non sarebbero mai stati capaci di gestire il denaro. Questa narrazione è stata usata talmente spesso dalla Cancelliera, che adesso ogni concessione a spagnoli e italiani potrebbe soltanto sembrare una sconfitta. Non avrebbe mai dovuto permettere che si arrivasse a questo, non fosse che per un sentimento di vicinanza e solidarietà. L’enorme violenza della pandemia ha comportato una vera e propria tragedia umana e medica in Italia e in Spagna- anche perché ultimamente ambedue gli Stati avevano attuato una forte politica di austerity, come voluto da Bruxelles- e sicuramente non perché vivessero al di là delle loro possibilità. Non esistono alternative agli Eurobond in una crisi come questa. L'Europa sta affrontando una crisi esistenziale. Apparire come il guardiano della virtù finanziaria in una situazione del genere è gretto e meschino. Forse conviene ricordare per un momento chi è stato a cofinanziare la ricostruzione della Germania nel Dopoguerra. Gli eurobond sono obbligazioni comuni emesse da tutti i paesi dell'Euro e non un’elargizione. Hanno il vantaggio di essere considerati un investimento sicuro, in quanto gli stati con una buona reputazione come la Germania risultano responsabili anche per i debitori meno solidi, come l'Italia. Questo rende i prestiti un po' più costosi per la Germania, ma notevolmente più economici per l'Italia. Berlino se lo può permettere, mentre Roma, se fosse lasciata sola, presto non sarebbe più in grado di prendere in prestito denaro sul mercato finanziario, dato che i tassi di interesse sarebbero troppo alti. Se l'Italia, la Spagna e la Francia dovessero applicare programmi di aiuto e garanzie cospicui come quelli tedeschi, per le loro economie stagnanti e per evitare il fallimento di massa delle imprese, non ci vorrebbero miliardi, bensì trilioni di Euro. E se gli europei non danno immediatamente il segnale che stanno lavorando insieme per contrastare questa crisi, sarà una vera festa per i populisti, i nemici dell'UE e gli hedge fund di Londra o New York. Come già nel caso della Grecia, punteranno sul fallimento di uno Stato europeo e questa volta vinceranno la scommessa. Gli stati come Italia o Spagna sono troppo grandi da poter essere salvati con gli strumenti esistenti come il Fondo europeo di salvataggio MES, i cui 410 miliardi di Euro non basteranno a lungo neanche alla sola Italia. Inoltre, gli aiuti del MES sono legati a condizioni, che non avrebbero senso nel caso di uno shock esogeno, come quello del Corona. L’enorme violenza della pandemia ha comportato una vera e propria tragedia umana e medica in Italia e in Spagna. I tedeschi vorrebbero piuttosto ammorbidire queste condizioni e rivolgersi alla Banca centrale europea, che potrebbe acquistare quello che nessun altro vuole. Già otto anni fa, la banca centrale era già stata usata dai politici come ultimo baluardo, perché i governi erano troppo vigliacchi per risolvere i problemi da soli. De facto però, tutte queste proposte avrebbero lo stesso effetto: una gigantesca collettivizzazione dei rischi - solo che non si chiamano Eurobond. Sarebbe quindi più onesto ed efficace accogliere l’ultima proposta francese, che oramai sembra trovare anche il consenso degli scettici degli Eurobond: i corona bond. Si tratta di titoli di Stato europei limitati nel tempo e legati a uno scopo ben preciso: far fronte alla pandemia. Darebbero un chiaro segnale ai mercati finanziari, ma anche ai cittadini europei. Sarebbe la prova che non ci abbandoniamo l'un l'altro in tempi di maggiore bisogno, e che l'Europa è più di una mera alleanza di egocentrici, più di un mercato unico ben lubrificato ma dal cuore freddo con una moneta (ancora) comune. E infine le corona bond sarebbero anche un investimento a prova di bomba che finalmente tornerebbe a fruttare interessi. Ma non per gli hedge fund.
Gianluca Mercuri per corriere.it l'1 maggio 2020. È uscito sei giorni fa, ci era sfuggito, ma è importante e ve lo proponiamo ora: un altro articolo dello Spiegel a favore dell’Italia. Dopo quello firmato dal direttore Steffen Klusmann (ne avevamo parlato nella rassegna del 9 aprile), che arrivava a definire «gretto e vigliacco» il rifiuto tedesco degli eurobond, ora è l’editorialista Thomas Fricke a intervenire con un’analisi ancora più efficace, perché addenta tutti gli stereotipi ed entra nel merito della grande questione del debito pubblico italiano, spiegando perfettamente la nostra trentennale virtuosità. Il titolo dice già molto — «La fatale distorsione tedesca dell’Italia» — ma poi non c’è una virgola da perdere. «Forse è una conseguenza di tanti film sulla mafia. Forse è semplicemente l’invidia per il fatto che l’Italia abbia un tempo migliore, un cibo migliore, più sole e più mare. Qualcosa comunque deve spiegare questo assillo nel puntare sul fatto che i tedeschi sarebbero più oculati, più seri e più affidabili. E a questo proposito mostrare l’inadeguatezza dell’Italia». Basterebbero queste poche righe per disintegrare una montagna di pregiudizi, ma Fricke fa esplodere un’altra carica: «Tutta questa spocchia tedesca non è di adesso, ma adesso è particolarmente tragica. Perché? Perché questa giaculatoria tedesca ha così poco a che fare con la realtà, più o meno come i crauti con le abitudini alimentari di Wanneeickel (una cittadina della Ruhr, ndr 1), o come la lodata puntualità tedesca ha a che fare con la velocità di costruzione del nostro delizioso aeroporto nella capitale (un clamoroso caso di ritardi e costi gonfiati, ndr 2)». Ma il giornalista è ancora più deciso quando affronta la questione sostanziale: «Il vero dramma dell’euro risiede nel cliché erroneo dell’Italia spendacciona. Questo non ha nulla a che fare con la realtà e sta per disintegrare l’Europa», scrive Fricke. Che citando l’economista Antonella Sturati dell’Università Roma Tre, spiega che «se non si calcolano i pagamenti degli interessi, dal 1992 i governi italiani hanno avuto eccedenze di bilancio anno dopo anno». Altro che attitudine allo spreco, insomma, il cancro del debito ci ha fatto smettere di spendere: «Dolce vita? Sciocchezze. Dal 2000 gli investimenti pubblici italiani sono calati del 40%, un collasso regolato per legge. Nell’istruzione si è investito quasi un decimo. Una follia. Le spese pubbliche ristagnano dal 2006. In Germania sono aumentate quasi del 20%». E questa tendenza «è diventata poi una catastrofe a partire dall’eurocrisi, quando Mario Monti sotto la pressione internazionale e in particolare tedesca ha iniziato una riforma dopo l’altra. Una volta sul mercato del lavoro. Un’altra volta sulla pensioni». E poi i tagli alla sanità dal 2010, che tanta parte hanno nella tragedia della pandemia. Segue l’affondo ben mirato su cosa può (deve?) fare la Germania: «Non è una colpa diretta della politica tedesca. Chiaro. Ma è giunto il tempo di smetterla con insegnamenti errati, e di contribuire alla riparazione del disastro, caro Herr Schäuble». Il riferimento al ventennale custode delle finanze tedesche (e del rigore europeo) serve a invocare un sano revisionismo: «Forse per salvare l’Europa innanzitutto ci sarebbe bisogno in Germania di nuovi esperti». Perché «non siamo al circo ma a una crisi che leva il fiato, per quanto è seria». Quindi «è tempo di fermare questo dramma e gli eurobond sono il simbolo di un destino comune. Destino che noi condividiamo comunque, avendo una valuta comune. Altrimenti in un paio di anni l’Unione europea non sarà più tale. E Francia e Italia avranno al potere persone come Trump e Johnson, che non hanno voglia di giocare assieme: il gioco sul quale la Germania costruisce da decenni il suo benessere». Parole di una nettezza che impressiona. A questo punto si può affermare che il più grande settimanale tedesco sta conducendo una campagna pro Italia. Ed è qualcosa di sensazionale perché è lo stesso giornale che nel tempo si è distinto per iniziative di segno opposto. Lasciamo perdere la famosa copertina del 1977 con la pistola nel piatto di spaghetti. Gli spaghetti campeggiavano — a forma di cappio — su una copertina molto più recente, 2 giugno 2018, dal titolo in italiano «Ciao amore!» e dal sottotitolo «Come l’Italia si autodistrugge e trascina l’Europa con sé». Gli articoli ci dipingevano come schnorrer, scrocconi, e prendevano di mira il migliore di noi, Mario Draghi. Per non parlare dei riferimenti a Schettino e al disastro del Giglio nel 2012: «Mano sul cuore: qualcuno si è forse meravigliato del fatto che il capitano della Costa Concordia fosse italiano?». Riflettiamoci su. Che un giornale così importante in due anni abbia ribaltato la sua linea è bello e utile. Conferma che la Germania non è un monolite ma un grande Paese che sa discutere di sé. Che la grande leader che lo guida sa modulare i passi avanti con sapienza, e nelle ultime settimane l’ha letteralmente spostato, il presunto monolite, accettando l’idea di «una mobilitazione di risorse senza precedenti da parte dell’Europa» per fronteggiare il virus, e pazienza se non si chiamerà «eurobond»: sarà comunque — e finalmente — condivisione del rischio. Ma per venirci incontro Angela Merkel ha bisogno di rassicurare i suoi elettori e i suoi contribuenti e di tenere a bada la sua destra sovranista, che si muove con le stesse logiche della nostra. Deve poter dire che non solo noi paghiamo eccome i debiti, ma siamo decisi a rivedere il nostro sistema fiscale maxievasivo e disposti a usare un po’ dei nostri oltre 4 mila miliardi di risparmi privati per la ricostruzione. Sapremo farlo?
Roberto Brunelli per agi.it il 25 aprile 2020. La Germania ha “un’immagine distorta e fatale dell’Italia”, un’immagine che finirà per “fare a pezzi l’Unione europea”. Lo scrive oggi in un lungo editoriale lo Spiegel, che lo pubblica addirittura in apertura del proprio sito. Un articolo molto duro nei confronti della classe politica tedesca: Thomas Fricke, che firma il pezzo, non esita a parlare di “tutta questa arroganza tedesca che - non solo adesso, ma soprattutto adesso – è particolarmente tragica”. E non solo perché “la solita lagna tedesca ha a che fare con la realtà della vita degli italiani quanto i crauti hanno a che vedere con le abitudini alimentari dei tedeschi”. A detta dello Spiegel, la lite sull’eventuale partecipazione dei tedeschi agli eurobond “è imbarazzante”, perché si preferisce “fantasticare sul fatto che gli italiani avrebbero dovuto risparmiare prima”, fantasie che “spiegano la mancanza di zelo da parte della Germania nel far partire al vertice Ue di questa settimana una storica azione di salvataggio”. Ed ecco l’affondo: “L’Europa rischia di sprofondare nel dramma, non perché gli italiani sono fuori strada, ma a causa di una parte predominante della percezione tedesca”. E ancora: “Forse è per colpa dei tanti film sulla mafia”, scrive il settimanale tedesco ironizzando sui rispettivi stereotipi tra i due Paesi, “forse è solo l’invidia per il fatto che l’Italia ha il clima migliore, il cibo migliore, più sole e il mare”. Secondo Fricke, “se lo Stato italiano in una crisi come questa finisce sotto pressione dal punto di vista finanziario, dipende – se proprio deve dipendere dagli italiani – dal fatto che il Paese ha una quota di vecchi debiti pubblici, ossia dai tempi passati. Solo che questo ha poco a che vedere con la realtà della vita di oggi, ma con una fase di deragliamento degli anni ’80, il che ha a sua volta a che vedere con gli interessi improvvisamente schizzati in alto”. Lo Spiegel fa anche un paragone storico sempre molto scottante per la Germania: “Se noi tedeschi non avessimo avuto all’estero amici tanto cari che nel 1953 ci abbuonarono una parte dei nostri debiti, staremmo ancora oggi con un pesante fardello in mano. E come va a finire quando le persone devono continuare a pagare debiti nati storicamente, la Germania lo ha dimostrato alla fine della Prima guerra mondiale, quando alla fine il sistema si rovesciò, come da anni rischia di succedere anche in Italia”. Inoltre, l'editoriale del settimanale ricorda che “da 30 anni lo Stato italiano spende meno per i suoi cittadini di quello che prende loro, con l’unica eccezione dell’anno della crisi finanziaria mondiale 2009. Questo vuol dire risparmi record, non sperperare”. Il giornale cita anche gli investimenti pubblici “tagliati di un terzo dal 2010 al 2015”, così come “si sono rimpicciolite le spese per l’istruzione e la pubblica amministrazione”. Insomma: “Dolce vita? Stupidaggini. Gli investimenti pubblici dal 2010 in Italia sono calati del 40%. Un vero e proprio collasso”. Questo mentre in Germania, la spesa pubblica “è cresciuta quasi del 20%”, ossia “lo Stato spende a testa un quarto di più di quello che spende in Italia. Il che in queste settimane si percepisce dolorosamente”. Una situazione che con l’attuale crisi da pandemia del coronavirus si tramuta “in un dramma incredibile”: “In Italia sono mancati i posti letto e sono morte tante persone che oggi forse potrebbero essere ancora in vita. Non è direttamente colpa dei politici tedeschi, ovvio. Ma sarebbe ben giunto il tempo di smettere con folli lezioncine, e di contribuire a far piazza pulita delle cause del disastro, caro signor Schaeuble (già ministro alle Finanze negli anni più caldi dell’eurocrisi, ndr). O di dire “scusateci” almeno una volta”. E invece “con assoluta serietà” si continua ancora a parlare della “dipendenza da credito” degli italiani, continua lo Spiegel. “Ma anche qui, un piccolo suggerimento fattuale: i debiti privati, commisurati al Pil, in quasi nessun Paese dell’Ue sono così bassi come in Italia”. Infine: “È giunta finalmente l’ora di mettere fine a questo dramma, e magari proprio con gli eurobond, quali simbolo della comunità del destino della quale comunque facciamo parte sin da quando abbiamo una moneta comune”, conclude Fricke. “Ancora i tedeschi hanno tempo di raddrizzare la curva dopo le contorte settimane scorse: altrimenti l’Unione europea nel giro di qualche anno non sarà più un’unione. In Italia come in Francia arriveranno al potere delle persone che, come adesso già fanno Donald Trump o Boris Johnson, non hanno nessuna voglia di stare al gioco: quel gioco sul quale la Germania da decenni costruisce il proprio benessere”.
Paolo Valentino per corriere.it il 2 aprile 2020. Questa mattina ci siamo svegliati con la sorpresa di una intera pagina della «Bild Zeitung» dedicata all’Italia, il «Paese più colpito dal Coronavirus». Una pagina affettuosa, sin dal titolo e dall’incipit: «Siamo con voi», «Piangiamo insieme a voi i vostri morti». Una manifestazione di empatia forte e fraterna. «Vi siamo vicini in questo momento di dolore perché siamo come fratelli». E poi un’affermazione sorprendente: «Ci avete aiutato a far ripartire la nostra economia». La parte centrale è un po’ più banale. Il solito elenco di luoghi comuni: il tiramisù, Rimini, Capri, la Toscana, Umberto Tozzi e, per quelli più raffinati, Paolo Conte. La voglia di emulazione, inseguendo la «vostra rilassatezza, bellezza, passione». La bravura nel cucinare, la pasta, il Campari, la dolce vita, manca solo il mandolino. «Per questo vi abbiamo sempre invidiato». Come se in Italia nessuno lavorasse. Mai. «Ora vi vediamo lottare, vi vediamo soffrire», prosegue la Bild ricordando che anche in Germania «la situazione è difficile». Il finale è in crescendo: «Siete sempre nei nostri pensieri. Ce la farete. Perché siete forti. La forza dell’Italia è donare l’amore agli altri». L’arrivederci conclusivo è il trionfo dello stereotipo: «Ciao Italia, ci rivedremo presto, a bere un caffè, o un bicchiere di vino rosso. In vacanza oppure in pizzeria». L’ho riletta ancora una volta. C’è qualcosa che non funziona: «Ce la farete. Perché siete forti». Cioè da soli. Nessun accenno alla solidarietà che si deve ai fratelli, cui pure la «Bild» riconosce di aver aiutato la Germania a far ripartire la sua economia. Nessun accenno alla minaccia contro la nostra casa comune, l’Europa. Nessun accenno alla necessità che siano i fratelli più ricchi a dover aiutare quelli più poveri. Possiamo dirlo? Con tutto il rispetto, è una pagina ipocrita e pelosa, una vergognosa manifestazione di egoismo, l’ennesima dimostrazione che la «Bild» e l’europeismo stanno ai poli opposti. Non ci stupiamo. Era già successo nella crisi economica, quando secondo la «Bild» i greci volevano pagarsi i loro vizi con i risparmi dei pensionati tedeschi e invece i soldi di tutta l’Europa servirono soprattutto rimborsare i crediti spericolati delle banche tedesche. Ed era già successo durante la crisi degli immigrati, quando la «Bild» accusava i Paesi del Sud di aprire le porte ai nuovi barbari. Di queste manifestazioni di affetto facciamo volentieri a meno. Per fortuna, la «Bild Zeitung» non è (tutta) la Germania, da cui in questi giorni riceviamo dimostrazioni concrete di solidarietà e di aiuto. Ma da cui presto ci aspettiamo chiarezza sulla madre di tutte le questioni: la garanzia finanziaria a tutela del mercato unico e dell’economia Europa. Il resto sono chiacchiere banali. Come dice Juergen Habermas, «se il Nord non aiutasse il Sud, perderebbe non solo sé stesso, ma anche l’Europa». Ma di questo la «Bild Zeitung» non sembra avere alcuna contezza.
Usa e Germania hanno spiato gli alleati (Italia compresa) per 50 anni. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca di Berlino La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. La prova, così Reagan, dimostrava che l’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E che, il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro, dalle parole del capo della Casa Bianca, che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione berlinese. Era proprio così. Ma quella di Reagan fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano. Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento Paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche. La Crypto AG, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire «macchine cifranti» per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica, alle chip di silicio, ai programmi di software. Tra i suoi clienti, nazioni democratiche e dittature, l’Iran prima e dopo la rivoluzione khomeinista, Paesi del Terzo Mondo o Stati rivali fra di loro come India e Pakistan, perfino il Vaticano. Quello che nessuno ha mai saputo fino ad oggi è che la Crypto AG era segretamente di proprietà della Cia in società con la Bnd, i servizi segreti tedesco-occidentali. I quali manipolavano sistematicamente le apparecchiature, in modo da poter poi facilmente rompere i codici usati dai vari Paesi per mandare i loro messaggi segreti e leggerli. Negli Anni ‘80, gli strumenti di Crypto consentivano di decodificare il 40% di tutti i cablo diplomatici e le altre comunicazioni intercettate dai servizi Usa. A rivelarlo è uno straordinario pezzo di giornalismo investigativo, realizzato insieme dal Washington Post e dalla ZDF, la seconda rete pubblica tedesca, basato su documenti interni sia della Cia che del Bnd, che raccontano sin dalle origini tutti i dettagli dell’operazione, all’inizio denominata Thesaurus e poi ribattezzata Rubicon. «E’ stato il colpo d’intelligence del secolo – si legge negli atti americani – i governi stranieri pagavano senza saperlo milioni di dollari agli Stati Uniti e alla Germania Ovest per il privilegio di avere le loro più segrete comunicazioni lette dai nostri servizi». Non tutti abboccavano alle lusinghe di Crypto AG: nel clima di sospetto della Guerra Fredda, i Paesi leader del campo rivale, l’URSS e la Cina, non furono mai clienti della premiata compagnia, svizzera solo di nome. Ma la lista di chi usava le apparecchiature truccate, pagandole milioni di dollari e facendo fare grassi profitti alle due intelligence, comprendeva anche i più stretti alleati occidentali e membri della Nato: Spagna, Grecia Turchia e ovviamente l’Italia. A partire dal 1970, racconta il Washington Post, fu la National Security Agency, l’intelligence militare americana, a prendere il controllo di tutte le operazioni di Crypto insieme ai partner tedeschi, comprese le assunzioni, la scelta delle tecnologie, il sabotaggio degli algoritmi, la promozione delle campagne di vendita a clienti precisi. Tra il 1970 e il 1975, le vendite annuali di Crypto AG esplosero da 15 milioni a 51 milioni di franchi svizzeri. Ascoltarono e decrittarono di tutto: i mullah iraniani durante al crisi degli ostaggi del 1979, le comunicazioni dei militari argentini durante la guerra delle Falkland nel 1982 debitamente girate agli inglesi, gli ordini per le campagne omicide delle dittature latino-americane come l’assassinio del leader socialista cileno Orlando Letelier, ucciso nel 1976 in piena Washington dagli agenti di Pinochet. Non ultimo, le comunicazioni del presidente egiziano Anwar Sadat col Cairo durante i negoziati di Camp David tra Egitto e Israele nel 1972. Per inciso la gaffe di Reagan sulla Libia insospettì gli iraniani, a conoscenza del fatto che anche i libici usavano la tecnologia svizzera per le comunicazioni segrete. E’ un fatto che qualche anno dopo gli ayatollah arrestarono a Teheran uno dei rappresentanti di Crypto AG, un cittadino tedesco, e lo rilasciarono solo nove mesi dopo, dietro il pagamento di un riscatto di un milione di dollari, forniti in segreto dal Bnd. La Cia si rifiutò di pagare, invocando la linea americana di non pagare mai riscatti per ostaggi. Le due documentazioni, messe a confronto dai reporter del Post e della ZDF, rivelano incomprensioni e polemiche tra tedeschi e americani, i primi attenti soprattutto all’aspetto economico della joint venture, che portava milioni di dollari in cassa, gli altri mai stanchi di «ricordare che si trattava di un’operazione di spionaggio». Inoltre i tedeschi erano basiti di fronte alla determinazione e all’entusiasmo dei colleghi Usa nello «spiare su tutti gli alleati». «Gli americani si comportano con i Paesi alleati esattamente come con quelli del Terzo Mondo», è la frase di Wolbert Smidt, già direttore del Bnd, citata nei documenti tedeschi. In effetti la collaborazione si concluse nel 1990, quindi con la fine della Guerra Fredda, quando il governo tedesco ordinò al Bnd di uscire da Crypto Ag: la Cia semplicemente acquistò le quote tedesche e continuò il vecchio andazzo. Crypto AG non esiste più ma i suoi prodotti sono venduti ancora oggi a una dozzina di Paesi. La vecchia compagnia è stata smembrata nel 2018, liquidata da azionisti la cui identità rimane ben nascosta dalle leggi del Lichtenstein. Al suo posto ci sono due società: CyOne Security e Crypto International. Entrambi affermano di non avere alcuna connessione con il mondo dell’intelligence. Ma questa è un’altra storia.
I sovranisti eleggono il leader: la Merkel vuole cancellare il voto. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 6 febbraio 2020. Nono sono affatto piaciuti, ad Angela Merkel, i contatti “segreti” fra la Cdu della Turingia e Alternative für Deutschland che hanno portato all’elezione, a sorpresa, di Thomas Kemmerich, presidente del Partito liberaldemocratico (Fdp) nel Land. Merkel ha sconfessato il suo partito in Turingia e ha sottolineato che “l’elezione del governatore Thomas Kemmerich in Turingia deve essere annullata”. Lo ha dichiarato la Cancelliera dal Sudafrica, dove è in visita di Stato, dopo il voto che ha scatenato un vero e proprio terremoto politico in Germania. Angela Merkel ha poi aggiunto che la Cdu non deve assolutamente partecipare a un governo di un primo ministro eletto con i voti della formazione di destra. “È stata una brutta giornata per la democrazia, che ha tradito i valori e gli ideali della Cdu”.
Anche la leader della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer ha scomunicato, nelle scorse ore, il nuovo governo della Turingia e descrive il comportamento del suo partito a livello locale come “sbagliato”. La Cdu della Turingia, ha sottolineato, “ha agito espressamente contro le raccomandazioni e le richieste del Partito federale”. Il voto favorevole per Thomas Kemmerich, infatti, è arrivato nonostante il veto di Annegret Kramp-Karrenbauer su qualsiasi tipo di alleanza con l’Afd. Gli alleati di governo di Angela Merkel erano stati molto duri nei confronti della Cdu in Turingia. Il segretario generale della Spd, Lars Klingbeil, ha dichiarato che quello dell’altro giorno è il “punto bassissimo della storia del dopoguerra tedesco, non solo della Turingia” mentre Kevin Keuhnert, è convinto che “il 5 febbraio 2020 è una data che sarà ricordata dagli storici”. Di fatto, con questo voto, si è rotto un vero e proprio tabù nei confronti di Afd.
Kemmerich si dimette. L’avventura di Kemmerich, tuttavia, è finita ancora prima di cominciare. Come riporta Der Taggespiegel, l’Fdp della Turingia aveva presentato la richiesta dello scioglimento del parlamento statale, al fine di chiedere nuove elezioni. Il nuovo primo ministro Thomas Kemmerich aveva già fatto intendere di volere rinunciare alla sua posizione dopo la “bufera” nella quale è finito: ipotesi che aveva scartato fino a poche ore fa. E adesso è arrivata la certezza. Il neopresidente ha annunciato di dimettersi definendo il passo “inevitabile”.
Cosa è successo in Turingia. Il primo ministro Thomas Kemmerich, presidente del Partito liberaldemocratico (Fdp) nel Land, era stato eletto grazie ai voti di Afd, battendo il governatore uscente, Bodo Ramelow della Linke. Kemmerich ha vinto per un solo voto, 45 a 44. Come riporta il settimanale Der Spiegel, Kemmerich avrebbe dovuto presiedere un governo di minoranza formato da Fdp e Unione cristiano-democratica (Cdu). Ma la situazione ora potrebbe cambiare dopo le parole di Angela Merkel, che ha scomunicato il suo stesso partito. Come ricorda l’agenzia Nova, a seguito delle elezioni tenute nel Land il 27 ottobre scorso, Ramelow aveva concluso un accordo tra Linke, Spd e i Verdi per formare un esecutivo di minoranza. Il piano è fallito quando l’altro giorno, al terzo scrutinio, quando l’Afd non ha più votato per il proprio candidato a primo ministro della Turingia, bensì per Kemmerich, che già aveva ottenuto l’appoggio della Cdu e naturalmente della Fdp. Ora l’ipotesi più probabile è quella di nuove elezioni.
Vola il surplus commerciale tedesco (alla faccia delle regole Ue). Andrea Muratore su Inside Over il 5 febbraio 2020. the world. Il doppio standard è figlio dei rapporti di forza. Rimane una costante storica nei rapporti tra nazioni l’applicazione selettiva delle regole e dei trattati da parte dei Paesi in posizione di vantaggio politico o economico. Per la Germania nell’Unione europea vale proprio questo principio. Da oltre un decennio Berlino si trova nella condizione di essere lo “sceriffo” che intende far rispettare, selettivamente, le regole di Maastricht sul bilancio riservandosi di violare i parametri europei sulle questioni commerciali. Stando alle Macroeconomic imbalance procedure (Mip) introdotte nel 2011 dall’Unione un Paese non dovrebbe avere un saldo positivo della bilancia commerciale superiore al 6% del Pil nella media a tre anni. La Germania viola sistematicamente questo dato e, anzi, nel 2019 ha visto il saldo delle partite correnti crescere dal 7,3% al 7,6% del Pil, un valore simile all’8% registrato tra il 2015 e il 2017. Il 7,6% del Pil implica un saldo commerciale positivo delle partite correnti (flusso di beni, servizi e investimenti) pari a 293 miliardi di dollari (circa 262 miliardi di euro). Nonostante un trimestre di recessione, la stagnazione dell’economia e il ridimensionamento finale della produzione industriale la Germania rimane la prima economia al mondo per rapporto tra surplus e Pil. Le regole rimangono sullo sfondo. Orpello riservato a chi non ha la forza di costruire un’influenza nel Vecchio Continente. In un contesto di crisi dell’export europeo, la Germania non può, col senno di poi, lamentarsi del risultato. Deve, piuttosto, preoccuparsi del mercato interno, stagnante e bloccato dall’assenza di riforme e di politiche di investimento anti-crisi. Annunciate e non applicate in maniera profonda. La Germania di Angela Merkel,nel frattempo, prosegue in Europa con la sua ipocrisia. Con il modello fondato sulla svalutazione interna del fattore lavoro Berlino riesce a spiazzare il mercato europeo con l’export e a coagulare sul suo sistema economico i dividendi di un surplus commerciale eccessivo. Il tutto mentre i lavoratori si dibattono tra lavori precari e stagnazione salariale legati alla mancanza di spesa interna. Un’ipocrisia denunciata sempre più fortemente, anche da chi in Germania ne teme le conseguenze. Nel luglio 2018, parlando alla Cnbc, Gabriel Felbermayr, direttore del Centro per l’ economia internazionale presso l’Ifo, principale think tank economico tedesco ha criticato il lassismo del governo: “Il surplus commerciale della Germania si sta rivelando un problema crescente, non solo con gli Stati Uniti ma anche con altri partner commerciali, e anche all’interno dell’ Unione europea. Il surplus sta diventando tossico e anche in Germania molti ormai sostengono che dobbiamo fare qualcosa al riguardo, allo scopo di abbassarlo. Risulta essere una passività piuttosto che una risorsa”. Questo perché Berlino riesce a sfruttare con la svalutazione interna e il declinante costo del lavoro la possibilità di esportare beni ad alto valore aggiunto (auto, macchinari, farmaci, prodotti chimici) senza equilibrare il tutto con un aumento dei consumi interni.
CARLO NICOLATO per Libero Quotidiano il 25 gennaio 2020. «La Germania è intollerante, bigotta e autoritaria» ha detto qualcuno che di certe cose se ne intende. Ricordate Ai Weiwei, l' artista cinese, dissidente e attivista, finito in carcere e poi rilasciato dalle autorità del suo Paese dopo 80 giorni? Lo avevamo lasciato là in Cina e là è rimasto fino a quando nel 2015 non gli hanno restituito il passaporto e quindi la possibilità di andarsene verso lidi più democratici. Ai Weiwei scelse la Germania dove finalmente si stabilì con la famiglia da esule e artista osannato. Cinque anni dopo però lo ritroviamo a Cambridge, nel cuore dell' Inghilterra, senza barba, solo un accenno, e qualche disillusione in tasca. Avrebbe potuto scegliere gli Usa, il Canada o l' Australia, ma lui scelse l' Europa e dell' Europa il cuore pulsante economico e, forse, culturale. Scelse Berlino, ma sono bastati quattro anni perché l' illusione si rivelasse pia. «L' Europa era una società moderna e civile che avrebbe dovuto sostenere l' umanesimo, la democrazia, la libertà e i diritti umani» disse lo scorso anno sbattendo la porta di Brandeburgo, «l' Europa potrebbe non essere più Europa, se non un' entità geografica». Si disse che ce l' aveva con i populisti, con «l' ingiustizia sociale derivante dalla storia coloniale o dallo sfruttamento ingiusto dovuto alla globalizzazione e al capitalismo dilagante» affermava disgustato. Ma lasciando la Germania se ne è andato proprio nel Paese dalla storia più coloniale, che ha fatto dello sfruttamento delle colonie la sua ricchezza, l' Inghilterra. Il problema dunque non erano i populisti, ma proprio i crucchi. «Sì è vero, la Gran Bretagna ha avuto le colonie» ha detto un paio di giorni fa al Guardian, «ma almeno gli inglesi sono educati, mentre i tedeschi non hanno un filo di gentilezza».
«Sono stati molto scortesi nelle situazioni quotidiane» rincara la dose l' artista cinese, «a loro non piacciono gli stranieri».
E la Brexit?
Non vedo il problema, dice, «ma se avrò dei problemi vi farò sapere».
Per il momento si gode il suo angolo felice nel gotha della cultura british lontano da spettri nazicomunisti: «La Germania è una società molto precisa. La sua gente ama il conforto di essere oppressa. In Cina è lo stesso. Una volta che ci sei abituato può anche essere divertente. Vedere l' efficienza, lo spettacolo, il senso del loro potere che si estende attraverso il condizionamento della mente».
Perché in fondo in Germania «rispetto agli anni '30 hanno cambiato d' abito, ma si identificano ancora nel culto di quella mentalità autoritaria». E se lo dice un cinese...
Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2020. Che la Germania abbia sfiorato la recessione o meno, i numeri tedeschi tra Pil, disoccupazione ai minimi (3,1%) e il famoso surplus da record del mondo di 250 miliardi di euro, sono sempre di gran lunga i migliori d'Europa. Eppure ci sono altri numeri che Berlino preferisce non rendere troppo pubblici e che rappresentano l' altra faccia della medaglia di un Paese ufficialmente gonfio di benessere: tipo quel 240mila che rappresenta il numero record di pensionati fuggiti all' estero registrato lo scorso anno. Qualcuno potrebbe pensare che buona parte di loro sia costituita da benestanti che vanno a svernare in paradisi tropicali dopo anni di duro lavoro e dopo aver ricevuto la meritata compensa, ma non è esattamente così. Di quei 240mila meno di 50 vivono nelle cosiddette "isole da sogno" come le Figi, Tonga e Samoa, altri 5mila in Thailandia ma è ancora tutto da dimostrare che la Thailandia sia un paradiso. Certo qualcuno dei fuggitivi non è che abbia fatto molta strada visto che si è trasferito in Austria dove la vita costa un po' meno, ma la maggioranza dei nuovi pensionati in fuga si è trasferito in Paesi europei del sud est dove la vita costa molto meno che in Germania. E non è nemmeno una questione di tasse come da noi, cioè non è il caso del pensionato da noi etichettato come "furbetto" che se ne va ad esempio alle Canarie o in Portogallo dove la tassazione è inferiore, percependo di conseguenza di più e spendendo anche meno. No, è che molti di quei pensionati crucchi proprio non ce la farebbero se restassero a vivere in Germania. Le mete preferite non sono paradisi, tutt' altro, a meno che non si voglia pensare che lo siano Paesi come la Romania, l' Ungheria, la Croazia o la Bulgaria. Il numero di pensionati tedeschi che si sono trasferiti in questi Paesi è raddoppiato negli ultimi dieci anni arrivando a quota diecimila. In particolare negli ultimi tempi va per la maggiore la Bulgaria che è quello con il costo per vivere più basso d' Europa. Si parla di circa la metà di quanto si spende mediamente in Germania e capite che per qualcuno che magari non arriva nemmeno a mille euro al mese non è poco. Sembra strano, ma per un pensionato tedesco che ha lavorato tutta la vita non è poi così scontato prendere mille euro al mese di pensione. Anzi, secondo i dati ufficiali del ministero del Lavoro federale tedesco quelli che percepiscono mille o meno di mille euro al mese sono la maggioranza, il 62%, cioè 11 milioni e mezzo di giubilati. Ma c' è ben poco da giubilare visto che sempre secondo le stesse statistiche riferite al 2016, il 48% dei pensionati, cioè oltre otto milioni di persone, prendeva meno di 800 euro al mese con una preoccupante maggioranza (60%) di donne. Tanto per essere chiari in Germania quelli che percepiscono meno di 892 euro al mese (meno del 50% del reddito medio) vengono ufficialmente considerati poveri, mentre quelli che prendono 969 euro (il 60% del reddito medio) vengono considerati a rischio povertà. Certo, qualcuno di loro arrotonderà con i soldi investiti privatamente nel corso degli anni, altri si faranno aiutare dai figli. Me le alternative sono poche. Secondo le statistiche sciorinate dal Tafel, ovvero l' associazione di volontariato tedesca che distribuisce ai bisognosi i generi alimentari ricevuti in dono dai supermercati o dalle aziende, nel 2019 il numero di persone che è ricorso agli spacci è aumentato del 10% rispetto l' anno precedente, toccando quota 1,650 milioni. Tra loro gli anziani sono saliti del 20%, mentre i rifugiati sono scesi della stessa percentuale. Il numero uno dell' associazione Jochen Brühl durante il recente bilancio annuale ha paragonato il fenomeno al cambiamento climatico: «Ci travolgerà con forza» ha detto e si è augurato che il governo affronti la situazione con riforme «drastiche» e «di vasta portata». E i numeri di Tafel sarebbero anche maggiori se molti pensionati in difficoltà non avessero deciso di lasciare il Paese per lidi più economici.
Da startmag.it il 17 dicembre 2019. Gli aiuti approvati dal governo per salvare la Banca Popolare di Bari non aiutano l’Italia a recuperare “la necessaria credibilità”. Lo scrive l’Handelsblatt di oggi, in un commento dal titolo “non ha imparato nulla in proposito”, riferito ovviamente al nostro Paese. “Le notizie dei fallimenti bancari in Italia arrivano con la regolarità delle previsioni del tempo – si legge sul quotidiano economico-finanziario tedesco -. Almeno una volta all’anno la sorveglianza bancaria accerta che un istituto è finito in una cattiva situazione. Il personale dirigenziale viene spodestato, commissari vengono nominati dallo Stato a assumono il management della crisi, e la politica si sforza di rassicurare risparmiatori ed elettori”. Le ragioni dei fallimenti, procede l’analisi del giornale di economia e finanza, si assomigliano: “Cattiva economia, clientelismo, e autoritari signorotti della finanza locale. A questo si aggiungono problemi strutturali, come la soppressione dei crediti deteriorati. Inoltre si trascina il consolidamento: ci sono troppe filiali, troppi dipendenti, e troppa poca digitalizzazione. L’Italia arranca”. Questa volta si tratta di una piccola banca del Sud come la Popolare di Bari, viene sottolineato e non certo di un istituto del calibro di Monte Paschi di Siena, vicenda che “fu ben più drammatica”. “I casi sono tutti però collegati dalla permissiva conferma degli aiuti di Stato”, è il commento di Handelsblatt. “Naturalmente Roma sa che la commissione europea vigila sugli aiuti di Stato e che da tre anni vale il principio del partecipazione dei creditori nel fallimento delle banche. Ma finora l’Italia ha sempre negoziato un accordo speciale”, la conclusione del quotidiano economico-finanziario sul caso della Popolare di Bari. Peccato che il giornale tedesco non faccia menzione del salvataggio pubblico in Germania della banca pubblica NordLb che ha avuto un controverso via libera da parte della Commissione europea, come peraltro ha fatto notare negli scorsi giorni anche il Financial Times. Oggi via Twitter un esperto di Germania, economia e banche come il saggista Vladimiro Giacché, che è tra l’altro presidente dell’istituto Cer (Centro Europa Ricerche), ha rintuzzato le critiche di Handelsblatt con questo tweet che evoca appunto il dibattuto caso del salvataggio pubblico di NordLb: “Non puoi festeggiare ogni giorno: dopo il grandioso salvataggio conforme al mercato della Norddeutsche Landesbank con fondi pubblici, che magicamente NON costituiscono affatto aiuti di Stato, arriviamo a una banca italiana e ora TUTTO è diverso”, ha scritto Giacché, noto come esperto di Germania ed Europa con posizioni critiche sull’attuale struttura dell’Unione monetaria.
Rodolfo Parietti per “la Stampa” il 31 gennaio 2020. Più che appuntargli al bavero della giacca la Croce al merito, molti tedeschi avrebbero preferito metterlo in croce. Vedere Mario Draghi insignito oggi della più alta onorificenza tedesca, sarà per molti in Germania un boccone amaro da ingoiare. Soprattutto perché la motivazione - per «meriti inestimabili in favore del bene comune» - risulta perfino più urticante del riconoscimento stesso. Come ammettere che l' ex capo della Bce, salvando l' euro, ha finito per strappare dall' abisso anche la Germania. Se ne è accorto perfino, seppur con un tardivo mea culpa, l' ad di Deutsche Bank, Christian Sewing, colui che assieme ad altri era salito sulle barricate all' inizio dello scorso ottobre. Quando cioè serviva una polifonia di voci per dar corpo alla rivolta capeggiata dal leader della Bundesbank, Jens Weidmann, contro la decisione di Super Mario di riavviare le macchine del quantitative leasing, attraverso acquisti mensili da 20 miliardi di euro, e di sforbiciare un altro po' i tassi sui depositi presso l' Eurotower. Sewing è alle prese con conti che continuano a non quadrare. Rivoltare come un calzino una banca abituata ad anni di spericolate alchimie finanziarie e canalizzare altrove obiettivi e strategie non è una passeggiata di salute. Anzi. Il bilancio 2019 lampeggia infatti di rosso porpora: perdite per 5,7 miliardi (-1,5 miliardi nel quarto trimestre), imputabili sostanzialmente proprio ai costi di ristrutturazione sostenuti ma comunque superiori alle attese, hanno allargato a 14 miliardi il buco dell' ultimo quinquennio. I ricavi sono inoltre in calo dell' 8% a 23,1 miliardi. Insomma, i numeri sono da pianto greco, la strada per rimettere in bolla DB è ancora lunga (la ristrutturazione dovrebbe terminare nel 2022 con costi per 7,4 miliardi), eppure Sewing confessa ciò che finora nessun banchiere ha avuto il coraggio di ammettere: «Bisogna dimenticare ciò che i tassi negativi significano per le banche. Dobbiamo cambiare il nostro modello di business. Noi lo abbiamo fatto». Onore all' onestà intellettuale, e ulteriore nota di merito per avere anche aggiunto una verità banale, ma finora sempre tenuta coperta da un velo spesso: «Il salvataggio dell' euro - riconosce Sewing - rispecchia anche gli interessi della Germania, in quanto economia basata sull' export». Non solo, visto che gli scantonamenti dall' ortodossia monetaria dell' ex governatore di Bankitalia hanno consentito a Berlino di risparmiare, grazie alla discesa dei rendimenti sui Bund, qualcosa come circa 440 miliardi. Peccato solo che questo tesoro sia per lo più andato a gonfiare il già ipertrofico surplus, piuttosto che trovare impiego in misure per alimentare l' asfittica crescita teutonica. Eppure, c' è ancora chi ha il dente avvelenato con Draghi. Oltre alla grancassa nazionalista suonata da gente provvista di pedigree da banchiere centrale come Alternative für Deutschland («Il più alto riconoscimento della Repubblica federale andrà all' uomo che con i tassi a zero ha espropriato i risparmiatori come nessun altro aveva fatto prima»), ringhiano perfino esponenti della coalizione Cdu-Csu governata da Angela Merkel nel mentre reiterano la solita storia: la politica di allentamento monetario è stato il grimaldello per soccorrere i Paese mediterranei. Al primo passo sbagliato, sono gli stessi che getteranno addosso anche a Christine Lagarde la croce dell' infamia.
Fiorina Capozzi per “il Fatto quotidiano” il 31 gennaio 2020. La Germania avrà anche i conti in ordine. Ma quanto a banche sta messa maluccio. Per il quinto anno consecutivo Deutsche bank, chiude il bilancio in profondo rosso. Il primo istituto di credito del Paese archivia il 2019 con 5,7 miliardi di perdite, il secondo peggior risultato nella storia del gruppo. Il dato supera le previsioni più nefaste (5 miliardi), ma include buona parte (il 70%) dei costi di ristrutturazione previsti nel piano 2019-2022, presentato a giugno scorso. "La nostra strategia funziona", ha spiegato l' amministratore delegato, Christian Sewing, evidenziando come il risanamento non abbia richiesto sacrifici agli azionisti. Tuttavia negli ultimi cinque anni Deutsche bank ha perso 15 miliardi, cassando oltre 9 miliardi di utili realizzati nel quinquennio precedente. A pagare il conto degli errori di gestione sono soprattutto i dipendenti: nel 2019 l' istituto tedesco, che dà lavoro a 87.600 persone, ha tagliato altri 4.100 posti di lavoro e, a giugno, ha annunciato 18mila esuberi, di cui buona parte in Germania. Il giro d' affari non è più quello di una volta (-8% a 23,2 miliardi). E l' impressione è che la banca non riuscirà facilmente a buttarsi alle spalle un decennio in cui il titolo in Borsa ha perso l' 82% del suo valore. "Per noi resta un titolo sotto osservazione - ha spiegato in una nota JP Morgan - abbiamo bisogno di risultati nei prossimi trimestri che diano credito alla svolta sul giro d' affari". Anche perché intanto i rivali americani, con cui Deutsche bank avrebbe voluto competere, hanno ormai ampiamente recuperato dopo la crisi del 2008. Tutta colpa di derivati e crediti inesigibili che il colosso tedesco sta smaltendo a fatica. Titoli tossici che sono arrivati ad esporre la banca per l' incredibile cifra di 43 mila miliardi di dollari. Ma Deutsche bank, forte di 1500 miliardi di attivi, non è un istituto qualsiasi. È una di quelle banche che, secondo il Fondo Monetario Internazionale, potrebbero far vacillare l' intero sistema finanziario. Di qui la corsa a rimettere ogni cosa al suo posto ipotizzando le nozze, poi sfumate, con la connazionale Commerzbank, e creando una bad bank con 74 miliardi di crediti a rischio, tagliando pesantemente i costi e cedendo 50 miliardi di crediti inesigibili alla statunitense Goldman Sachs. Nonostante la pulizia di bilancio, l' istituto fatica a ritornare alla redditività. E la credibilità resta ai minimi storici dopo una serie di imbarazzanti scandali. Nel 2015 Db è coinvolta nelle indagini sulla manipolazione del tasso di riferimento sui mutui (il Libor) con tanto di multe e risarcimenti per due miliardi e mezzo. Nel 2018, la Federal reserve americana le contesta "ampie carenze" sui sistemi di controllo nelle filiali d' Oltreoceano. E, infine, più recentemente l' istituto deve affrontare anche i guai giudiziari con i Panama Papers da cui emergono gli "aiutini" ai clienti per riciclare denaro attraverso società create nei paradisi fiscali. Per non parlare dell' inchiesta sui rapporti "sospetti" (230 miliardo di dollari di transazioni) con la Danske Bank, accusata di aver riciclato, attraverso la filiale estone, miliardi di dollari provenienti da attività illecite di operatori russi.
Le banche tedesche sono in sofferenza? Andrea Muratore su Inside Over il 10 gennaio 2020. L’Eba, l’autorità bancaria dell’Unione Europea, ha recentemente pubblicato un rapporto sul tema della stabilità degli istituti del Vecchio Continente, provvedendo ad analizzare la stabilità degli asset, la redditività delle società e le prospettive future del settore. L’analisi, compiuta su un campione decisamente significativo di 147 banche capaci di coprire l’80% della capitalizzazione europea del settore (tra cui 11 italiane), ha prodotto risultati interessanti e, sotto certi punti di vista, fatto scattare campanelli d’allarme. Le banche europee sono in generale ritirata sul fronte degli utili e della redditività. “Il ritorno sul capitale (roe) medio degli istituti europei è calato nel trimestre dal 7 al 6,6%”, sottolinea Milano Finanza. Quelli italiani sono sopra la media all’ 8,5%, in calo dello 0,1% rispetto al mese precedente, ma al di sopra dei livelli registrati in Spagna (7,3%) e Francia (6,5%). Le banche più redditizie sono quelle ungheresi e dell’ Est Europa. Le peggiori sono invece le tedesche (0,3% nel terzo trimestre, dal -0,1% del secondo e dal 2,3% del primo), che hanno dati inferiori a quelle greche (3,2%).” Il rapporto fa seguito a un’analisi di Moody’s pubblicata nello scorso dicembre, in cui le banche tedesche, assieme a quelle britanniche in via di preparazione per la Brexit, erano indicate come i principali fattori di indebolimento dell’outlook complessivo del sistema europeo. Nonostante una sostanziale solidità patrimoniale complessiva a livello dell’Eurozona (patrimonio pari al 14,4% degli asset), le banche tedesche fanno peggio col 13,8%. A tirare verso il basso lo scenario germanico è il noto caso di Deutsche Bank e Commerzbank, istituti che destano preoccupazione dopo che nell’estate scorsa è fallito il tentativo di fonderli in un conglomerato unico. In una Germania che ha perso il sentiero della crescita Deutsche Bank rappresenta il fattore di maggiore instabilità sistemica; Berlino deve convivere con un sistema finanziario che si è arricchito notevolmente con i crediti facili al di fuori del Paese finalizzati a finanziare l’export tedesco e ora, complice il rallentamento economico della Germania, è sbilanciato nel rapporto tra costi e ricavi, pari all’84%, come rileva il rapporto Eba. Agli istituti tedeschi resta dunque poco più del 15% di margine per ottenere margini sempre più incerti di utile. Deutsche Bank ha recentemente reagito in maniera netta, puntando tutte le sue fiches sulla transizione all’intelligenza artificiale e al fintech per alleggerire i suoi organici, con le prevedibili consguenze per decine di migliaia di dipendenti. Le banche tedesche, dunque, non sono affatto il fiore all’occhiello della finanza Ue. Se uno dei loro problemi maggiori, la difficile liquidabilità del Bund, potrà essere risolto nel contesto del safe asset europeo, le debolezze sistemiche risulteranno più problematiche. In questo contesto l’Italia si posiziona in maniera sostanzialmente stabile. L’Eba rivela che il principale problema continuano ad essere i crediti deteriorati (7,2% di Npl ratio rispetto al 2,9% europeo), anche se essi hanno tassi di copertura superiori (53% contro 45%). Il rapporto costi/ricavi è al 64%, in linea con quello medio Ue (63%), mentre la principale garanzia di stabilità è data dalla presenza nel portafoglio di una quota di asset mediamente molto liquida (64% contro una media Ue del 30%), certificazione di appetibilità per i prodotti commerciati dal sistema italiano. Per Roma, come insegnano i casi Carige e Popolare di Bari, il problema resta semmai la vigilanza prudenziale e il suo rapporto con quella, eccessivamente severa, impartita in passato da Francoforte: ma il rapporto Eba ci ricorda che, se dovessimo indicare un sistema finanziario rischioso per l’Europa, guarderemmo con più attenzione a Berlino piuttosto che al nostro Paese.
La Germania è in difficoltà. E in Europa Berlino ha abbassato la cresta. Federico Giuliani su Inside Over il 2 gennaio 2020. Quando la Germania poteva ancora permettersi di fare la voce grossa, Berlino era solita guardare gli altri Paesi europei dall’alto al basso. Con una certa spocchia, inoltre, il governo tedesco distribuiva prediche non richieste ai vari membri dell’Ue, convinto com’era di essere il miglior allievo di Bruxelles, l’unico esempio da seguire, il più bravo a mantenere i conti in ordine. Quei tempi adesso appartengono al passato, perché nell’ultimo anno la Germania ha smesso di essere la locomotiva del continente. Le ragioni principali sono due. Da una parte la crescita dell’economia tedesca si è fermata, e questo è accaduto sia perché il modello tanto caro ad Angela Merkel, cioè l’austerity, ha smesso di funzionare, sia a causa di turbolenze internazionali (su tutte la guerra dei dazi); dall’altra il sistema politico teutonico basato sulla Gross Koalition è arrivato al capolinea. In altre parole, le condizioni che avevano fin qui consentito alla Germania di navigare in un mare dorato hanno cessato o stanno gradualmente cessando di esistere. Il risultato è che Berlino ha dovuto abbassare la cresta e ridimensionare le proprie aspettative.
Il momento magico è finito. Come fa notare il quotidiano Italia Oggi, la rivista settimanale tedesca Der Spiegel ha dedicato la copertina del primo numero dell’anno alle previsioni economiche, politiche e finanziarie del 2020. Il risultato è che il giornale si aspetta un futuro nerissimo per la Germania, soprattutto dal punto di vista dell’economia. Già, perché il passaggio al green e le crisi internazionali hanno colpito il made in Germany, e questo potrebbe a sua volta ricadere sul resto dell’Europa proprio come nel più classico degli effetti domino. Ma al di là della sfida che dovrà affrontare Berlino e delle ipotetiche catastrofi in arrivo è interessante notare come sia cambiato il modus operandi della Germania in campo internazionale. L’aria è cambiata e, sapendo di non potersi più permettere di impartire lezioncine di buona morale a destra e sinistra, il governo tedesco ha smesso di attaccare gli altri Paesi. Il motivo è semplice: adesso Merkel guida (anche se non sappiamo ancora per quanto) una nazione normale, alle prese con problemi simili a quelli dell’Italia. E criticare gli altri quando sei uguale a loro ha poco senso.
Equilibrio politico in bilico. Prendiamo la politica interna della Germania. La cancelliera Merkel era solita crogiolarsi tra le morbide coperte della stabilità garantita dalla Grosse Koalition, cioè il governo di larghe intese composto dalla Cdu-Csu e dai socialdemocratici dell’Spd. Improvvisamente la magia si è interrotta. I partiti populisti hanno iniziato ad avanzare con decisione e l’anima più a sinistra dell’intesa ha reagito voltando pagina e rinnegando il credo politico degli alleati cristiano-democratici. L’implosione potrebbe avvenire da un momento all’altro, tanto che oggi è difficile dire con certezza se la coalizione in carica arriverà indenne a primavera. Certo, un sondaggio pubblicato dalla Welt sottolinea come i tedeschi confidino ancora nella Cancelliera. Ma Angela Merkel è sempre più sola. Mentre il governo tedesco, anziché farsi beffe dell’Italia, ha altri problemi per la testa.
Anche i mercati perdono la fiducia nella Germania. Andrea Massardo su Inside Over il 2 gennaio 2020. Nonostante l’anno passato abbia segnato un generalizzato aumento dei titoli azionari, i migliori risultati sono stati segnati principalmente dai giganti della tecnologia, col primo posto conquistato dalla adesso pubblica Saudi Aramco. I risultati dei titoli azionari europei evidenziano invece una perdita di fiducia degli investitori rispetto ai competitors internazionali, soprattutto per quanto riguarda il settore manifatturiero, fiore all’occhiello delle produzioni continentali. Come sottolineato da Hubert Barth, amministratore delegato della società di consulenza EY allo Spiegel, dall’inizio della crisi finanziaria del 2007 la tendenza dei mercati a perdere fiducia nelle società europee è aumentato, colpendo anche la più solida economia della Germania.
Solo due società tedesche nella top 100. Sono soltanto due le società tedesche che sono rientrate nelle prime 100 posizioni per la valutazione del proprio titolo azionario: SAP col suo solido 51° posto e Siemens, fanalino di coda all’ultima posizione. Questo è quanto emerge dalla ricerca della società EY, che ha potuto in questo modo tirare le somme delle evoluzioni del valore dei titoli di borsa degli ultimi anni. L’unica società dell’Europa continentale nella top 20 mondiale è la svizzera Nestlè, fuori però dall’Unione europea. Prima della crisi del 2007, la Germania possedeva sette società rientranti nella top100 mondiale, mentre ad oggi il loro numero è sceso a soltanto due. Ciò non è dovuto solamente alla migrazione verso Paesi dalla pressione fiscale inferiore, bensì anche alla perdita di competitività delle produzioni storiche della Germania, che hanno pesato sulla fiducia degli investitori. Trend destinato però ancora a durare nei prossimi anni: il settore manifatturiero, nonostante la possibilità del ritiro di molti dazi doganali nel 2020, non sembra ancora far sperare in una forte ripresa. Il grosso dei balzi in territorio positivo verrà compiuto infatti dalle grandi aziende tecnologiche, principalmente registrate negli Stati Uniti e nel continente asiatico, di cui l’Europa è priva. I soli Usa, infatti, possiedono oltre la metà delle società della lista, nonostante il primo posto assoluto sia detenuto dalla società petrolifera dell’Arabia Saudita Aramco, soltanto recentemente quotata sul mercato pubblico.
L’Europa non riesce a ripartire. Nonostante l’incremento degli indici azionari nel 2019, la crescita non è stata al passo con il resto del mondo. Alla base del problema, scarsa fiducia degli investitori soprattutto nei Paesi dall’alto debito pubblico e soprattutto carenza di società di innovazione, principalmente registrate nei mercati americani e non limitate ai quattro colossi Gafa. La mancanza di fiducia nel mercato europeo, nel quale la Germania si erge a titolo di simbolo per quanto riguarda l’immobilità innovativa, è dettata dalla perdita di interesse per i mercati tradizionali. Dopo l’inizio della rivoluzione digitale, sempre più investitori si sono convinti che le società tecnologiche saranno in grado di plasmare il futuro mondiale, mentre le aziende che non riescono a stare al passo dei tempi lentamente scompariranno dal mercato. Motivo, questo, che troverebbe riscontro nell’ex colosso di telefonia svedese Nokia, che dall’introduzione dello smartphone ha perso sempre più terreno, finendo con lo scomparire. E dopo gli ultimi dati relativi alla produzione tedesca che hanno lasciato presagire una sostanziale staticità anche per il biennio 2020-2021, la possibilità che in campo finanziario ciò si traduca con una ulteriore perdita di terreno è una quasi certezza, che pone Berlino in una scomoda posizione; con l’Europa che, priva della propria locomotiva, rischia di essere destinata alla non rilevanza economica mondiale.
Alessandro Ricci per ilfattoquotidiano.it il 30 dicembre 2019. Sembra l’Italia ma è la virtuosa Germania. Dove i commercianti sono in rivolta contro il piano del governo di Große Koalition per contrastare un’evasione fiscale monstre. Dall’1 gennaio 2020 scatterà l’obbligo di scontrino fiscale e il controllo elettronico dei registratori di cassa e chi non si adegua rischia una multa da 25mila euro. La misura punta a combattere le frodi legate alla manomissione dei registratori di cassa, con cui vengono sottratte decine di miliardi di euro al fisco. Ma gli esercenti non ci stanno e – proprio come in Italia – lamentano che per adeguarsi dovranno sostenere costi eccessivi. Così – come in Italia – a Berlino si sono rassegnati a rinviare le sanzioni: fino a settembre 2020 liberi tutti. E liberi tutti, per ora, anche sull’installazione dei pos nei negozi. Si parla di una legge che li renda obbligatori, ma per ora in tutto il Paese sono un quarto di quelli presenti in Italia. Il quadro di partenza, secondo Tax Justice Network, vede la Germania al secondo posto in Ue dopo la Penisola per evasione fiscale e sommerso: in valori assoluti vengono sottratti all’erario oltre 200 miliardi di euro l’anno. Questo nonostante per i reati fiscali si finisca davvero in carcere: i detenuti per crimini di questo tipo sono 55 volte di più che in Italia. Oggi in Germania non è insolito non ricevere uno scontrino dal macellaio, parrucchiere o al bar sotto casa, che non sono obbligati ad emetterlo. Secondo Lothar Binding di Spd, sostenitore della nuova legge – che venne approvata inizialmente nel 2016 per poi essere continuamente rinviata – “molti commercianti non registravano correttamente le entrate o manomettevano i registratori di cassa, quindi si è reso necessario un sistema di controllo a distanza, il TSE, per ristabilire concorrenza nel mercato”. Tramite questo meccanismo ogni entrata arriverà in tempo reale al sito del ministero tedesco – un meccanismo molto simile allo scontrino elettronico italiano, che da luglio sarà obbligatorio per tutti – e rimarrà nei registri per 10 anni. Simili a quelle italiane anche le reazioni degli esercenti, che secondo la Handelsverband Deutschland, l’associazione dei commercianti, dovranno spendere tra i 300 e i 500 euro per aggiornare o comprare le attrezzature previste dalla nuova legge. In alcuni settori, tuttavia, i costi potrebbero salire alle stelle, ad esempio i macellai, perché ”i registratori di cassa e le bilance sono collegati tra loro”, afferma Gero Jentzsch dell’Associazione tedesca dei macellai. La conversione tecnologica, infatti, sarebbe più complicata, fino ad un costo di circa 4.000 euro per negozio. A questo si aggiunge il problema della certificazione del sistema, che al momento non sembrerebbe univoco e di conseguenza avrebbe creato confusione tra gli esercenti. Per ovviare al problema il Ministero delle finanze ha esteso il periodo di non punibilità fino a settembre 2020. Un altro parallelo con l’Italia. Finora, dei circa 1,85 milioni di registratori di cassa in uso in Germania solo 400-500 sono stati riconvertiti. Gli altri dovranno essere prodotti o sostituiti da zero e il governo non ha ancora introdotto sgravi fiscali. Se da un lato la Große Koalition spinge per questa legge, dall’altra parte Fdp e Verdi si dicono profondamente contrari. I primi con Christian Dürr che sostiene questa misura sia una criminalizzazione a priori degli esercenti, i secondi perché sostengono che l’obbligo di scontrino introdurrebbe una quantità di carta termica che prima non c’era, da smaltire separatamente rispetto alla carta comune. Ma nonostante la piccola rivolta dei commercianti, da gennaio i clienti dovranno abituarsi a ricevere lo scontrino insieme al resto, che poi se lo portino dietro o meno non è importante per il fisco tedesco. Chissà se il Kassengesetz sarà anche un incentivo all’introduzione dei Pos negli esercizi commerciali, che secondo una ricerca del Think Tank The European House – Ambrosetti sono un quarto di quelli italiani. Ma anche su questo fronte sono in arrivo novità: “Stiamo lavorando ad un legge anche in tal senso”, sostiene Binding.
Scandalo Dieselgate, condannata Volkswagen: deve rimborsare chi ha comprato un’auto con le emissioni truccate. Redazione su Il Riformista il 25 Maggio 2020. La Corte di Giustizia federale tedesca ha dato ragione a un cliente Volkswagen, esprimendosi contro la casa automobilistica nel primo caso presentato al tribunale dal proprietario di una vettura, in relazione allo scandalo delle emissioni truccate (Dieselgate). La Corte ha stabilito che chi ha acquistato un’auto Volkswagen con il software che ha manipolato i risultati dei test sulle emissioni avrà diritto a un risarcimento. I proprietari delle vetture potranno restituire l’auto e ricevere un risarcimento parziale dal gruppo tedesco: parziale, in quanto si deve considerare l’usura del veicolo. L’importo del risarcimento dipenderà da quanto segna il contachilometri, ma è necessario che i chilometri percorsi siano accreditati sul prezzo di acquisto. “Il comportamento degli imputati deve essere reputato non etico”, ha detto il giudice Stephan Seiters nell’annunciare il verdetto della Corte. La sentenza apre la strada alla possibilità che migliaia di proprietari tedeschi di automobili VW chiedano un risarcimento. Volkswagen ha promesso “offerte appropriate” a chi si è ritrovato, suo malgrado, con il software responsabile della manipolazione dei dati sulle emissioni inquinanti. “La società ora ha intenzione di raggiungere un accordo in riferimento alle cause collettive” ancora in corso. La decisione dell’Alta Corte di Karlsruhe ha confermato una precedente sentenza della Corte di Appello di Coblenza sul caso di un pensionato che aveva chiesto un risarcimento per la sua VW Sharan pagata 31.500 euro nel 2014, con i giudici che avevano disposto nei confronti della casa automobilistica il pagamento di 25mila euro più tassi.
Dieselgate, Vw rimborserà i clienti con l'auto truccata. Una causa vinta dà il via ai risarcimenti. Class action: per Altroconsumo resa dei conti vicina. Pierluigi Bonora, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. L'incubo Dieselgate continua. Dopo quasi 5 anni, Volkswagen è ancora alle prese con sentenze, cause e risarcimenti. L'ultima tegola causata dalle emissioni truccate per far apparire meno inquinanti vari modelli del gruppo, arriva dalla Corte di giustizia federale tedesca. Un cliente, ha visto i giudici dargli ragione e otterrà così un congruo risarcimento. A questo punto, secondo la Corte, chi ha acquistato un'auto con il software taroccato potrà restituire il mezzo e farsi ridare i soldi spesi per l'acquisto, considerando però l'usura del veicolo e i chilometri percorsi. Il cliente che ha vinto la causa si chiama Herbert Gilbert. Per la sua auto, una Sharan costata 31.500 euro nel 2014, riavrà da Volkswagen oltre 25mila euro. Il verdetto spiana ora la strada alla possibilità che migliaia di proprietari di modelli del gruppo tedesco chiedano un rimborso, mentre Wolfsburg reagisce promettendo «offerte appropriate». La decisione potrebbe, infatti, coinvolgere circa 60mila richieste individuali; altri 262mila casi sono già stati coperti da un accordo di class-action per 830 milioni. «L'obiettivo è di chiudere l'onere giudiziario il più rapidamente possibile», rispondono dal gruppo. Finora, il Dieselgate è costato a Volkswagen oltre 30 miliardi in multe a livello mondiale, la galera negli Usa per due dirigenti, procedimenti penali e indagini ancora in corso, per non parlare delle teste illustri saltate. Euroconsumers, in una nota, ricorda al gruppo automobilistico che il Dieselgate è uno scandalo internazionale e che tutte le vittime, indipendentemente dalla nazionalità, devono essere risarcite. Class action sono attive in Italia, Spagna, Portogallo e Belgio. In Italia, intanto, la Procura di Verona ha chiesto l'archiviazione del procedimento penale nei confronti dei legali rappresentanti del gruppo che si sono succeduti dal 2009 al 2015. Resta invece aperta la class action, alla quale hanno aderito circa 76mila proprietari di vetture coinvolte nello scandalo, presentata da Altroconsumo al Tribunale di Venezia. «La richiesta del pm di Verona - commenta Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo - era prevedibile in quanto non è stata trovata alcuna prova di frode in commercio. L'indagine del pm, comunque, non ha solo riguardato l'ipotesi di dolo, ma anche il fatto, attraverso un'approfondita consulenza tecnica che noi abbiamo già prodotto al Tribunale di Venezia. Volkswagen Italia sta facendo le pulci ai 76mila aderenti, cercando di abbassare questa quota. Noi chiediamo che prima si arrivi alla sentenza che stabilisca a chi spetta il risarcimento e a quanto ammonta. Quindi, si vedrà chi tra i 76mila non ne ha diritto, al massimo qualche migliaio, non 70mila come asserisce invece Volkswagen». La tegola italiana, per Volkswagen, stando così le cose, ammonterebbe a circa 350 milioni.
Il settore auto della Germania è a pezzi. Federico Giuliani su Inside Over il 24 dicembre 2019. Quando parliamo di auto, in ambito europeo è quasi scontato fare qualche riferimento alla Germania, un Paese da tutti considerato campione per eccellenza per la produzione delle quattro ruote. Mercedes, Bmw, Audi, Porsche: i brand tedeschi sono da sempre sinonimo di qualità e, fatto salvo qualche recente scivolone, continuano a scaldare i cuori di una nutrita clientela sparsa un po’ in tutto il mondo. Oltre che per la qualità delle auto tradizionali, Berlino è stata elogiata per aver puntato sui veicoli elettrici. Quest’anno la Germania ha infatti superato la Norvegia per numero di Ev, cioè electric vehicles, immatricolati nell’ultimo anno: dal gennaio al novembre scorsi il mercato tedesco ha registrato 57.533 Ev mentre la Oslo, nello stesso lasso di tempo, si è fermata a 56.893 esemplari venduti. Come se non bastasse, Berlino è pronta a giocare di sponda con Parigi per piazzarsi in prima fila per la creazione di un consorzio europeo incaricato di produrre batterie elettriche. Insomma, ci sono ingredienti in quantità per ottenere un piatto delizioso. Ma è davvero tutto rose e fiori?
Situazione critica. Assolutamente no. Iniziamo a sfatare i tanti miti sulla Germania riguardo il settore auto. Intanto dobbiamo subito sottolineare che l’industria automobilistica tedesca sta vivendo un momento complicatissimo, e il futuro non si preannuncia certo migliore. La conferma arriva da Daimler e Volkswagen, due gruppi tedeschi che per la loro storia non meritano presentazioni. I rispettivi proprietari hanno annunciato che da qui a quando Berlino completerà la transizione dai motori a combustione ai veicoli elettrici, il Paese dovrà fare i conti con la perdita di oltre 20.000 posti di lavoro all’interno del settore delle quattro ruote. Le previsioni tedesche preannunciano tempesta. C’è chi parla di “sconvolgimento di vasta portata”, come il direttore generale della citata Volkswagen, Herbert Diess – la cui azienda sta cercando in tutti i modi di reinventarsi come leader mondiale delle auto a batteria – e chi, come varie società di consulenza, tra cui Bain & Co, sostiene che nessun gruppo “sopravviverà nella forma in cui esiste oggi”. In ogni caso Berlino ha già messo le mani avanti: pochi mesi fa, la cancelliera Angela Merkel è volata in Cina per elemosinare migliori condizioni di mercato oltre la muraglia per le auto tedesche.
La trappola dell’elettrico. L’analisi del Financial Times mette a nudo il settore auto, ovvero il punto cardine attorno al quale si è sviluppato il miracolo economico della Germania. Secondo alcune stime l’industria automobilistica tedesca, che impiega 830 mila persone, sarà costretta a investire 40 miliardi di euro in tecnologie alimentate a batteria nell’arco dei prossimi tre anni. Non è finita qui, perché veri e propri giganti tedeschi delle quattro ruote, tra cui Daimler e Audi, ma anche fornitori come Continental e Bosch, hanno annunciato che quest’anno andranno in fumo la bellezza di 50 mila posti di lavoro (compresi quelli a rischio). Le cause di una simile debacle sono molteplici: alcune sono esterne (dalla guerra dei dazi Usa-Cina alla Brexit) altre interne (le misure di austerity e una politica economica stantia). Il risultato è che il rallentamento dell’economia, sia tedesca che globale, ha spinto i produttori a rivedere le proiezioni di vendita al ribasso. Per uscire dall’impasse e per strizzare l’occhio con la moda del momento, molte case automobilistiche tedesche si sono tuffate sulla tecnologia elettrica, abbandonando, o meglio alienando, i tanti clienti esistenti ancora “affezionati” al motore tradizionale. Incorrendo, probabilmente, nell’ennesimo errore che contribuirà a sgonfiarle ulteriormente.
La crisi delle auto tedesche. Dieselgate, calo delle esportazioni, , l'elettrico, tagli dei posti di lavoro. L'auto tedesca, come la conoscevamo, non esiste più. Daniel Mosseri il 19 dicembre 2019 su Panorama. In un numero di metà ottobre della Welt am Sonntag, edizionale domenicale del quotidiano di area moderata Die Welt, è apparso un editoriale controverso. Titolo: «L’industria automobilistica tedesca ha ancora due anni di tempo». Nell’articolo Martín Varsavsky, imprenditore seriale di origine argentina e guru del mondo delle telecomunicazioni, dava l’ultimatum alle case automobilistiche tedesche che «se non si muoveranno abbastanza in fretta, faranno la stessa fine di quei giornali che non hanno digitalizzato i loro modelli di business per tempo». Estinti. Una provocazione? Forse. Ma è vero che oggi sui cieli tedeschi si sono addensate molte nuvole nere sopra la filiera dell’auto, architrave dell’intero comparto manifatturiero in Germania. Alcuni guai i tedeschi se li sono creati in casa, fra Stoccarda (sede del gruppo Daimler) e Wolfsburg (quartier generale di VW). Per esempio il Dieselgate, lo scandalo delle emissioni taroccate esploso nel 2014, continua a produrre i suoi effetti: ancora lo scorso ottobre Daimler ha richiamato oltre 250 mila veicoli commerciali equipaggiati con software illegali. La macchia sulla credibilità dei produttori di autoveicoli appare indelebile. Recuperare la fiducia della clientela nazionale e globale è diventato oggi un imperativo assoluto del sistema-Germania. Perché, come si legge nel lungo rapporto su Il futuro dell’industria automotive tedesca pubblicato a fine 2018 dalla Fondazione Friedrich-Ebert (Fes), la gestione del Dieselgate (un misto di falso ideologico e comportamenti omissivi) «non ha danneggiato solo il comparto auto ma potrebbe contaminare anche il marchio principale made in Germany». L’obiettivo non è più solo salvaguardare gli alti livelli di occupazione, obiettivo caro all’economia sociale di mercato di scuola renana, ma tutelare la reputazione di un intero sistema-Paese. Uno studio dell’Istituto dell’economia tedesca (Iw) con sede a Colonia dimostra poi che il 47 per cento delle richieste di brevetto depositate presso le autorità federali in Germania fra il 2005 e il 2016 nei comparti elettronica e digitalizzazione ha avuto origine proprio dal settore automotive. Nel periodo in esame, le richieste di brevetti da parte delle case automobilistiche sono aumentate del 70 per cento mentre nello stesso decennio l’attività brevettuale delle altre aziende tedesche è calata del 16 per cento. L’industria dell’auto è sempre il principale (se non unico) volano dell’innovazione in Germania. Altre difficoltà arrivano da lontano. La Cina, per esempio, è stata per oltre dieci anni il miglior alleato dei tedeschi, grazie alla sua corsa che sembrava non finire mai. Le immatricolazioni di auto nel gigante asiatico sono passate dagli 11 milioni del 2000 ai 24,7 milioni nel 2018; e un veicolo su cinque era tedesco. Da alcuni mesi, invece, il dragone cinese ha rallentato e non sembra più garantire uno sbocco sicuro per le esportazioni made in Germany, ovvero l’acquisto di auto tedesche prodotte sul suolo cinese. Forse il 2019 si chiuderà ancora in attivo per le case automobilistiche in Germania, ma il trend è al ribasso: a settembre 2019, quattordicesimo mese consecutivo in cui il mercato cinese delle quattro ruote si è contratto, «la vendita di auto tedesche è calata del 30 per cento rispetto a settembre 2018». Lo conferma a Panorama Thomas Puls, economista senior dell’Iw di Colonia, esperto di infrastrutture e mobilità. Ai problemi specifici dell’industria tedesca si aggiungono tendenze a carattere globale: fra queste, la corsa ai veicoli a trazione elettrica da una parte e quella alla guida assistita, l’auto che si guida da sola, dall’altra. Cambiamenti di natura strutturale che nel medio periodo rivoluzioneranno la mobilità come la concepiamo oggi. Così a metà novembre Daimler, il gruppo con il marchio Mercedes-Benz, ha annunciato un taglio netto di circa 1.100 dipendenti fra quadri e dirigenti per superare la crisi più difficile degli ultimi decenni. Meno manager, minore produzione, più investimenti in ricerca e innovazione: il futuro dell’auto passa da qui. La sfida non è solo per Daimler: Con 400 miliardi di euro l’anno, oggi il fatturato dell’automotive tedesco è il più grande di tutto il settore industriale e allo stesso tempo il più importante per ii commercio con l’estero: nel 2016, si legge ancor nel rapporto della Fes, il comparto ha generato vendite per 256 miliardi. Questo colosso non ha però fondamenta solide: «A differenza di quello italiano o francese» riprende Puls «negli ultimi dieci anni l’automotive tedesco ha avuto un successo strepitoso in Asia, soprattutto in Cina, ma anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Avere successo grazie all’export significa però esporsi a grossi rischi. Nel Regno Unito il mercato dell’auto è in rapido declino e con gli Stati Uniti è in atto una guerra commerciale». Per adesso, osserva ancora l’economista, le difficoltà in arrivo dall’Oriente non si stanno ripercuotendo direttamente sui produttori tedeschi. «Porsche, Audi, Mercedes e Bmw stanno ancora andando bene in un mercato in declino». L’indotto, invece, è messo male. «Quelli più in difficoltà in Germania sono i fornitori del settore». Puls nomina a titolo di esempio giganti come Bosch, Schaeffler e Continental «che forniscono componenti per veicoli a propulsione convenzionale anche per le case non tedesche già in calo». Se la componentistica per le auto a benzina è destinata al declino, quella specializzata per motori diesel è ormai in crisi nera. Già a ottobre Bosch ha annunciato un taglio di 2 mila posti, seguita a fine novembre da Continental che manderà a casa 5.500 dipendenti: fra quelli a rischio ce ne sarebbero 750 nei due stabilimenti in provincia di Pisa. Ad azzoppare il comparto auto a gasolio è arrivato prima il Dieselgate, poi le multe milionarie comminate dai giudici statunitensi ed europei ai produttori di auto taroccate, infine si sono registrate le sentenze dei giudici amministrativi e le ordinanze dei sindaci tedeschi uniti nel vietare la circolazione dei mezzi a gasolio nelle aree urbane più densamente abitate e inquinate. Ironia della sorte, «oggi i modelli diesel 6B sono in teoria compatibili con le più stringenti norme europee in materia di emissioni» osserva Puls. Questa volta però i mercati esteri non daranno una mano alla Germania perché «in Cina, in India o negli Stati Uniti la macchina diesel non la vuole nessuno». Non bisogna credere però che si tratti di una presa di coscienza ecologista: «Per effetto del Dieselgate sono tornate a crescere le vendite dei Suv a benzina che consumano di più, con il risultato che le emissioni medie di CO2 delle nuove auto immatricolate in Europa stanno risalendo. E questi Suv continueranno a inquinare l’aria per i prossimi 15 anni». Il futuro dovrà invece essere elettrico. Puls ricorda che dalla Cina all’Europa nuove leggi «impongono il progressivo abbandono dei veicoli a carburante fossile sul medio termine, e la transizione inizia adesso». Una serie di comunicazioni da parte di alcune grandi case automobilistiche lo conferma. Il 12 novembre il patron della californiana Tesla, Elon Musk, ha annunciato l’imminente sbarco in Europa con l’apertura di una linea di produzione di mezzi elettrici nei pressi di Schönefeld, appena fuori Berlino. La Gigafactory 4, ha promesso Musk, sarà attiva dal 2021. L’annuncio è stato accolto con favore dal sindaco della capitale tedesca e dal primo ministro della regione Brandeburgo. Meno entusiasti saranno stati i produttori tedeschi dell’auto, insidiati in casa dal leader mondiale dell’auto elettrica. Il giorno dopo la sfida di Musk, Daimler ha fatto cadere la sua scure sugli impiegati nel settore dell’auto a carburante, mentre il 15 novembre è stato il turno di Volkswagen: il colosso di Wolfsburg investirà 60 miliardi di euro mettendo l’accento sulla guida autonoma e sull’elettrificazione. La cifra è di 16 miliardi più alta di quella dichiarata nel 2018 sugli stessi obiettivi, un segnale di come anche i prudenti tedeschi abbiano capito che il vento è girato e soffia forte. Ecco perché nel giro dei prossimi dieci anni, VW metterà sul mercato 75 nuovi modelli elettrici e 60 a trazione ibrida. Novembre si è chiuso con Audi (gruppo VW) che ha annunciato il taglio di 7.500 posti di lavoro per diventare «più agile ed efficiente» e risparmiare 6 miliardi di euro, seguita da Daimler che, oltre a 1.000 dirigenti, ha confermato il licenziamento di altri 9 mila lavoratori ed economie per 1,4 miliardi. «L’industria automobilistica è nel mezzo della più grande trasformazione nella sua storia» ha detto la casa di Stoccarda. Il solo annuncio di Tesla vale però 10 mila nuovi posti di lavoro: possiamo dedurne che la crisi dell’auto in Germania è risolta in partenza? «No» risponde Puls «perché la produzione di un veicolo elettrico richiede molta meno manodopera di uno con il motore a scoppio. Un po’ perché la componentistica è più semplice, un po’ perché il suo assemblaggio è largamente automatizzato, il che, di nuovo, è una rovina per i fornitori specializzati». Puls ritiene dunque che «soprattutto nel breve periodo c’è da aspettarsi un calo occupazionale causato dalla trasformazione tecnologica appena avviata, con meno addetti necessari in futuro». L’economista osserva ancora che il mercato dell’auto in Europa è destinato alla stagnazione, se non a un calo, nei prossimi due lustri: «Al tempo stesso, nel settore automotive, ci aspettiamo un aumento della produttività del 2 per cento l’anno: se combiniamo i due fattori otteniamo già meno posti di lavoro. Non dimentichiamo poi le altre conseguenze sull’indotto: un’auto elettrica richiede meno manutenzione di una vettura tradizionale». Gli analisti del Center automotive research dell’Università di Duisburg-Essen hanno provato a quantificare il calo immaginando il taglio di 234 mila posti di lavoro nello sviluppo e produzione di motori a combustione solo parzialmente compensato dall’assunzione di 109 mila nuovi addetti per sviluppo e produzione dei veicoli elettrici. Con una perdita secca di 125 mila posti di lavoro: da quota 834 mila oggi a quota 709 mila nel 2030. Anche Volkswagen ammette che la strada è in salita. Due giorni dopo aver annunciato il mega-investimento sui veicoli elettrici e a guida assistita, il direttore finanziario del gruppo, Frank Witter, ha ammesso che «la festa è finita» notificando un taglio di 5 punti percentuali all’utile previsto a causa delle «mutate condizioni del mercato»: a causa cioè di Brexit, Cina e della guerra dei dazi. Qualche ragione di ottimismo? Per Puls la Germania non è messa male nella corsa verso il domani. «I tedeschi non sono i pionieri dell’elettrico, al primo posto c’è Tesla; però Bmw è fra i primi cinque produttori mondiali di auto elettriche». La Cina, dal canto suo, è invece il primo produttore di batterie elettriche per autoveicoli, «ma anche là il mercato è in declino dopo che il governo ha tagliato i sussidi a favore dell’auto elettrica, con il risultato che oggi il mercato globale di questi veicoli è fermo». Il prezzo medio di un’auto elettrica oggi è ancora alto, e l’economista dell’Iw non crede che la loro maggiore diffusione porterà modifiche ai modelli di proprietà: cinesi, europei e americani continueranno a comprare auto per il proprio uso esclusivo. Sarà piuttosto l’avvento, un domani, dell’auto a guida assistita a cambiare le regole. «Se alla fine sarà un robot a guidare al nostro posto, non sarà necessario essere proprietari del veicolo: sarà come chiamare un taxi». Mentre produttori e analisti si scervellano nell’immaginare l’auto tedesca del futuro, continuano a fare notizia gli scandali a ripetizione di quella del presente. A fine novembre l’Antitrust tedesco ha comminato una multa complessiva da 100 milioni di euro a VW, Bmw e Daimler per aver fatto cartello beneficiando di prezzi dell’acciaio inferiori a quelli di mercato. Il trio di costruttori tedeschi è lo stesso accusato la scorsa primavera dalla Commissione Ue di accordi illegali per impedire l’immissione sul mercato di nuove tecnologie anti-inquinamento. Se Bruxelles proverà l’accusa, le tre case rischiano multe salatissime. Date le premesse e un Dieselgate senza fine, il futuro dell’auto elettrica in Germania avrà certo bisogno dell’apporto di molti capitali per la ricerca e l’innovazione, ma anche di una robusta iniezione di trasparenza.
Fabio Dragoni per “la Verità” il 2 marzo 2020. «Un' Italia fuori dall' euro, visto il nostro apparato industriale, poteva fare paura a molti, incluse Francia e Germania che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui compra l' energia. Era un disegno razionale, serviva l' Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo vantaggio sull' export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene della zona euro nel suo complesso». Ma non lo ha fatto. Queste ultime cinque parole sono nostre. Le ottantotto che le precedono no. Ma dell' ex ministro Vincenzo Visco, in un' intervista del 2012. Ancora più che attuali. Tutti oggi, Germania compresa, si preoccupano delle conseguenze economiche dovute alla diffusione del coronavirus, visto che in Italia le stime sulla decrescita del Pil sono già quantificate all' interno di una forbice che va dal -1% al -3% a trimestre da oggi fino a giugno. Ma alla base di tutto vi è un grosso punto interrogativo.
La Germania è un problema per l' intera eurozona. E quindi per il mondo intero. E questo non tanto perché il suo sistema bancario non goda di buona salute. Cento euro investiti nelle grosse banche quotate nel 1989 dopo 30 anni valgono grosso modo 80. O per la caduta degli ordinativi industriali, che a febbraio 2020 sono arrivati a quasi un -9% annuo. Mai così male dal settembre 2009. O per le pesanti ricadute sull' export che Berlino sarà costretta a sopportare con l' esplosione del Covid-19. Le principali corporation teutoniche (da Bayer a Volkswagen; da Adidas a Bmw) esportano infatti in Cina fette rilevanti del loro fatturato (dal 15% al 35%). Mentre Pechino registra un crollo delle immatricolazioni superiori al 90% rispetto a un anno fa. No, non sono queste nubi all' orizzonte a preoccupare la Germania quanto i suoi successi. Tanto reali quanto insostenibili. Con i suoi quasi 270 miliardi di dollari di avanzo nelle partite correnti stimati dal Fmi per il 2019, Berlino supererà di quasi due volte quello della Cina previsto a poco meno di 150 miliardi. Con la non trascurabile differenza che in Germania vi sono poco più di 80 milioni di anime rispetto ai quasi 1,4 miliardi della Cina. Magia dell' euro. Un marco sottovalutato condividendo la Germania la stessa moneta con Paesi intrinsecamente più deboli (Grecia, Portogallo, Spagna ecc) che ne abbassano il valore. Quello che l' economista Marcello Minenna definisce «un formidabile sussidio implicito alla manifattura tedesca». Dal momento che «senza l' euro il marco sarebbe più forte di un buon 10%-20% e il suo export meno conveniente». E i numeri non riescono certo a dargli torto visto che dal 1991 al 1999 Berlino ha totalizzato un avanzo commerciale di 66 miliardi (contro i nostri 235), mentre dal 2000 al 2019 questa cifra cumulata è esplosa all' astronomico importo di 3.300 miliardi contro i nostri 420. E la Germania continua a essere un grosso problema pure per Frau Angela Merkel, reduce da continue batoste elettorali nelle varie elezioni regionali nei singoli Länder. La domanda che vale la pena porsi è perché la cancelliera continui a essere punita dal proprio elettorato nonostante gli indubbi vantaggi assicurati alla Germania dall' appartenenza all' eurozona. Una sconfitta elettorale dietro l' altra, comunque tali da aver da tempo costretto la Merkel ad annunciare il proprio addio alla guida del suo partito, la Cdu. I numeri nella loro crudeltà una risposta la danno sempre. E osservando le fredde statistiche della Commissione Ue si scopre che i consumi delle famiglie nel 2001 ammontavano al 57% del Pil, contro l' attuale 53%. Uno sviluppo economico, quello di Berlino, costruito su una patologica centralità dell' export a dispetto della più importante componente dei consumi interni. Il confronto con gli Stati Uniti è esemplare. Un Paese dove infatti i consumi delle famiglie arrivano a sfiorare il 70% del Pil. Un Paese, gli Usa, che di fatto è il cliente del mondo. Il disavanzo delle partite correnti arriva a quasi 540 miliardi. Una cifra che gli americani possono ma non vogliono più permettersi. Pur essendo la bilancia dei pagamenti così abnormemente e stabilmente in rosso, gli Usa hanno l' unico indubbio privilegio che nessun altro Stato al mondo ha. Creano i dollari con cui onorare gli acquisti senza timore di morire per l' incapacità di rimborsare il debito contratto con l' import, visto che è denominato nella loro valuta. E comunque Donald Trump non vuol più permettersi questo lusso perché il sistematico acquisto delle merci all' estero, che spesso si nasconde dietro la delocalizzazione, alla fine sfocia in deindustrializzazione. Anche qui il coronavirus non fa che dargli una mano. Tutt' altra strada quella della Germania, fornitore del mondo anziché cliente. La deflazione salariale ottenuta con le varie riforme Hartz ha reso le imprese tedesche più competitive all' estero, scaricandone però il prezzo sul tenore di vita delle famiglie, che quindi non stanno sicuramente meglio rispetto al 2001. A condire il tutto, le solite bugie profuse dai media tedeschi che continuano a dipingere l' Europa in generale - e l' Italia in particolare - come realtà sussidiate e sostenute dal contribuente tedesco, quando invece l' Italia dalla Germania non ha mai ricevuto un euro. Anzi, avendo noi versato un contributo capestro di oltre 60 miliardi ai vari fondi salva Stati, serviti a finanziare soprattutto la Grecia affinché rimborsasse le incaute banche francesi e tedesche che le avevano fatto fin troppo credito. Alimentare il risentimento anti italiano sembra comunque essere una strategia perdente, dal momento che a guadagnare voti è sempre stata la destra di Afd, mentre la Merkel si trova di fatto intrappolata e costretta a dire no di fronte a qualsiasi progetto di riforma dell' eurozona, pur di non apparire troppo accondiscendente nei confronti di un elettorato sempre più in fuga. Con ciò, condannando l' eurozona alla sua inesorabile implosione, con sommo dispiacere della Confindustria tedesca, che sul marco svalutato travestito da euro ha di fatto costruito il suo successo, senza però condividerlo con i consumatori. Che sono un po' di più, e prima e poi, votando, lo fanno sapere.
Vanni Zagnoli per “il Messaggero” l'1 marzo 2020. Hoffenheim-Bayern Monaco diventa un caos. La partita, sul risultato di 0-6, viene interrotta più volte per gli insulti che i tifosi ospiti rivolgono al patron di casa, Dietmar Hopp. Gara poi ripresa, ma portata atermine dai giocatori pro-forma, con passaggetti a metà campo: il Bayern rischia la sconfitta tavolino. A Sinsheim, dove asi giocava il match, la gara è fermata per due volte dall'arbitro per i cori e gli striscioni offensivi rivolti dagli spalti a Hopp. Situazione di profondo disagio, che fa infuriare l'allenatore del Bayern, Hansi Flick, e, tribuna, l'ex attaccante dell'Inter Rummenigge, che abbraccia il presidente Hopp per scusarsi. Brutta immagine, per la Bundesliga, espressione di appassionati in genere caldi ma rispettosi, tedeschi in tutto. Lo striscione viene esposto dal gruppo Schickeria: Sei e resti un figlio di p.... I giocatori provano a convincere gli ultrà a togliere la scritta, finché l'arbitro Digert manda le squadre negli spogliatoi. Si cerca di spaventarli, l'odio non è ammesso. Dieci minuti di stop e ripresa, addirittura con sostenitori dell'Hoffenheim ad applaudire la protesta dei bavaresi. I giocatori, in campo, riprendono a giocare, ma per protestare contro gli insulti, si mettono a palleggiare tra loro (passandosi ripetutamente la palla) per portare pro-forma a termine la partita. Da capire, ora, se il Bayern, che domina da anni la Bundesliga, si vedrà punire con la perdita dell'incontro o meno. Intanto, l'ex interista Rummenigge va giù duro con i tifosi bavaresi, per i quali chiede punizioni esemplari. «Mi vergogno profondamente. In realtà, non ci sono scuse per questo episodio da condannare. È necessario un provvedimento da parte dei vertici federali visto che gli occhi sono stati chiusi da troppo tempo». La stessa mano dura che userà il Bayern. «Il club agirà contro chi ha screditato la nostra società. Questa è la brutta faccia del Bayern Monaco», ha concluso Rummenigge. Non è la prima volta che il presidente dell'Hoffenheim Hopp viene preso di mira dalle tifoserie avversarie, secondo cui le sue politiche di investimento sarebbero l'emblema della crisi del calcio tedesco. È successo nel dicembre 2019 con i tifosi del Borussia Dortmund, che per questo non potranno più seguire la squadra a Hoffenheim per i prossimi tre anni. E soltanto una settimana fa il sostenitori del Borussia Moenchengladbach hanno esposto uno striscione con la faccia del proprietario di maggioranza dell' Hoffenheim all'interno di un mirino.
Chi è il patron dell’Hoffenheim Dietmar Hopp e perché tutti i tifosi tedeschi ce l’hanno con lui. Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. In Bundesliga continuano le offese nei confronti di Dietmar Hopp, il proprietario dell’Hoffenheim, magnate dell’informatica. Dopo il caos nella partita tra il suo Hoffenheim e il Bayern di Monaco, è stato interrotto un altro match. Il nuovo caso è accaduto nella sfida tra Union Berlin e Wolfsburg, con una parte dei tifosi berlinesi che hanno esposto striscioni di insulti nei confronti dello stesso Hopp. Ancora una volta, i giocatori hanno abbandonato il campo rientrando negli spogliatoi. L’interruzione è durata sei minuti, poi le squadre sono tornate sul terreno di gioco. Per la cronaca, la sfida si è poi chiusa sul 2-2, alimentando altre polemiche. Ma perché Dietmar Hopp - l’uomo che ha portato una squadra dall’ottava serie del calcio nazionale a giocare la Champions lo scorso anno - è tanto odiato dai tifosi? Questo perché in Bundesliga esiste la regola che stabilisce come il 51% di un club non possa appartenere a una persona o azienda. Ci deve essere sempre l’azionariato popolare, ma Hopp, che non risponde a questa regola dopo una deroga ricevuta, è diventato il simbolo di un calcio dove sono i soldi a fare da padrone. Le proteste nascono da qui. Inoltre, secondo i dati di Forbes, Hopp è al 96esimo posto al mondo tra i miliardari più ricchi del 2019 e al 23esimo dei più ricchi nel mondo tech nel 2017. Il suo patrimonio stimato è di 14,7 miliardi di dollari. Sposato con due figli, il 79enne è entrato nel mondo del calcio nel 1989 rilevando l’Hoffenheim e guidandolo dall’ottava serie alla Bundesliga nel 2008 con tanto di qualificazioni in Europa League e in Champions. Non solo. Perché Hopp ha investito molto sulle infrastrutture come lo stadio e il campo delle giovanili. Tutto questo, però, non lo mette a riparo di offese e insulti.
Irene Soave per il ''Corriere della Sera'' il 21 febbraio 2020. «Che la strage sia stata in Assia, un Land dell'Ovest, è indice che la xenofobia cresce. Questo tipo di crimini era concentrato all' Est, ma le ultime elezioni ci mostrano che sale ovunque». Il suo personaggio più noto è la libraia Kati Hirschel, tedesca a Istanbul protagonista di una serie di polizieschi editi da Sellerio, come Tango a Istanbul (2012); tra Berlino e Istanbul la scrittrice Esmahan Aykol, nata in Turchia e di cittadinanza tedesca, ha trascorso «14 anni, quasi tutta la vita adulta, finché sei anni fa ho detto basta. Ero stufa di questo clima. Accendi la tv e parlano di cosa fare dei migranti. Apri un giornale e parlano di cosa fare dei migranti. In Assia ho vissuto: a Wiesbaden. Zona conservatrice, tutta Cdu. Quando mi ci ero trasferita, era nei primi duemila, imperversava la campagna Kinder statt Inder : bambini anziché indiani, contro un'azienda che reclutava ingegneri dall'Asia».
Il clima le pare peggiorato ancora?
«Non è mai stato aperto. In quegli stessi anni, per i polizieschi avevo studiato i cosiddetti Döner-Morde , i delitti del kebab: omicidi di turchi in Germania. Li faceva un gruppo terroristico non organizzato, ma è probabile che avessero ganci nei servizi segreti. E del resto in Germania lo Stato è una struttura così capillare che anche oggi mi stupisce che questi terroristi possano comprare armi e organizzarsi senza che nessuno li fermi».
Com'era la sua vita da turca a Berlino?
«Trasparente. Nel senso che non facevo parte della comunità turca, ma nemmeno avevo amici tedeschi. Vivevo a Prenzlauer Berg, una delle prime zone gentrificate della capitale, e ricordo concerti bellissimi, passeggiate, e anche una città accogliente».
Percepiva razzismo nei suoi confronti?
«Io sono bionda, alta, non porto il velo e parlo bene tedesco, anche se preferirei di no per non sentire tutto quel che sento. Con me l' approccio era normale. Ma quando parlavo e si sentiva l' accento, o dicevo il mio nome, Esmahan, scattavano gli eufemismi. "Bizzarro".... Verso gli altri turchi c' è molto fastidio».
Sono integrati?
«Ci sono politici, avvocati, professori turchi. Ma la gran parte vive in famiglie conservatrici, non studia la lingua tedesca, si istruisce il minimo, non diventa mai parte della società. Le istituzioni si sforzano, io non sono pessimista: in quarant' anni la Germania non avrà più un problema turco. Ma non siamo ancora a questo punto».
Germania, strage ad Hanau: 11 morti e 4 feriti nei bar della comunità turca. Lettera e video d'addio: "Sterminare gli stranieri". Morto anche lo sparatore: "Alcuni popoli che non si riescono a espellere dalla Germania vanno sterminati". Fra le vittime anche cittadini curdi. Nella casa dell'assassino trovato il cadavere della madre. Merkel: "Razzismo veleno della società". Tonia Mastrobuoni il 20 febbraio 2020 su la Repubblica. Notte di sangue alle porte di Francoforte. Secondo la polizia, sarebbe di undici morti e quattro feriti gravi il bilancio provvisorio di una strage avvenuta a Hanau, venti chilometri a est dalla capitale finanziaria. E dopo il ritrovamento di un video e di una lettera a casa del killer, alcuni media parlano del gesto di un estremista di destra. Anche la Procura generale avrebbe aperto un'indagine, indizio di un gesto dal movente "razzista". Stando alle prime ricostruzioni, l'attentatore sarebbe arrivato intorno alle dieci di mercoledì sera in centro città su una macchina scura e avrebbe sparato all'impazzata in due diversi shisha-bar (locali dove si fuma il narghilè). Le vittime della sparatoria sono almeno nove, ma tra i morti ci sono anche il cecchino e una persona trovati entrambi senza vita nel suo appartamento, ha fatto sapere la polizia. L'altro cadavere sarebbe quello della madre 72enne. È stato il ministro dell’Interno dell’Assia, Peter Beuth, a confermare alcuni dettagli. Tra cui il movente “razzista”. E “un attentato alla nostra società libera e pacifica”. In un video e una lettera Tobias Rathien, 43 anni, questo forse il nome dell'attentatore, avrebbe spiegato le ragioni della sua furia omicida: alcuni popoli che non si riescono a espellere dalla Germania vanno sterminati, sosterrebbe. L'uomo ha aperto il fuoco al "Midnight" in centro città, poi si è spostato in auto all'"Arena Bar & Café", in un altro quartiere. Nel primo locale avrebbe suonato il campanello, poi sarebbe entrato nell'area fumatori e avrebbe ricominciato a sparare alla cieca. Tra le cinque vittime del secondo attacco ci sarebbe una donna.
Klaus Caminsky (SPD), sindaco della città di 96mila abitanti, ha detto di "non riuscire a immaginare una serata peggiore di questa". Il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, parla in un tweet di "orrendo crimine" ed esprime il suo cordoglio alle famiglie delle vittime. "Al momento non ci sono indizi su complici" fa sapere un tweet ufficiale. Secondo Bild il padre dell'attentatore sarebbe stato portato via dalle forze speciali dallo stesso edificio. Tra le vittime della mega sparatoria ci sarebbero dei cittadini di origine curda. Lo stragista sarebbe tedesco, secondo Bild, e avrebbe una licenza da cacciatore. La polizia sta perquisendo il suo appartamento e la sua auto, dove avrebbe trovato armi e munizioni. Nella notte c'era stato anche un arresto, ma il sospettato è stato rilasciato dopo poco.
Le reazioni politiche. Il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier, si è detto "sconvolto" per la strage xenofoba. "Sto dalla parte di tutte le persone che vengono minacciate dall'odio razzista. Non sono sole", ha dichiarato il capo dello Stato tedesco. "La grande maggioranza delle persone in Germania condanna questo atto e ogni forma di razzismo, di odio e di violenza" ha aggiunto Steinmeier, "non smetteremo mai di impegnarci per una convivenza pacifica nel nostro Paese". "Il razzismo è un veleno, l'odio è un veleno che esiste nella nostra società" ha detto Angela Merkel. "È un giorno quanto mai triste per la Germania", ha aggiunto la cancelliera che ha definito la strage di Hanau un crimine "agghiacciante". "Questo crimine abominevole ci sconvolge e ci lascia senza parole", hanno detto i due leader dell'ultradestra di Afd, Alexander Gauland e Alice Weidel. "I nostri pensieri vanno alle vittime di questo crimine spietato e ai loro parenti", ha aggiunto, augurando una veloce guarigione ai feriti. "Il nostro dibattito politico non deve eludere la questione che, 75 anni dopo la fine della dittatura nazionalsocialista in Germania ci sia di nuovo il terrorismo di destra", ha dichiarato il vicecancelliere socialdemocratico Olaf Scholz. Il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, su Twitter ha riferito di "connazionali morti nell'attacco razzista". "Ci aspettiamo che le autorità tedesche facciano il massimo per chiarire l'incidente", ha aggiunto. "Sono profondamente sconvolta per la tragedia di ieri sera ad Hanau. Questa mattina, è con profonda tristezza che penso ai famigliari ed agli amici delle vittime, ai quali trasmetto le mie più sentite condoglianze. Oggi, condividiamo il vostro dolore", ha scritto su Twitter la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, parlando della strage in Germania. Tweet anche dal presidente francese, Emmanuel Macron che ha espresso "immensa tristezza" e "pieno sostegno" alla Germania: "I nostri pensieri alle vittime e alle famiglie in lutto. Sono al fianco della cancelliera Merkel nella lotta per i nostri valori e la protezione delle nostre democrazie".
C’è un’«internazionale» del terrorismo neonazista? I sette punti rivelatori. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 da Corriere.it. Oslo, Auckland, El Paso e adesso la sparatoria di Hanau in Germania contro la comunità turca. Luoghi geografici ai quattro angoli della Terra, punti dove il terrore xenofobo, in epoche diverse, ha colpito rivaleggiando con lo Stato Islamico. Anzi possiamo dire che in Occidente gli assassini neonazisti sono spesso più letali dei jihadisti, con i quali condividono molti punti. Senza cadere nel gioco delle categorie – complicate quando il protagonista è un singolo individuo – gli attentatori hanno comunque degli indicatori che ritornano.
1) Si considerano le ultime sentinelle e passano all’azione contro l’invasione in quanto ritengono che non ci sia più tempo da perdere.
2) Sono bene armati e non di rado preparati. Lo dicono i bilanci dei massacri. E sono pronti a morire, sotto il fuoco della polizia oppure togliendosi la vita.
3) Il fenomeno dell’estrema destra eversiva è stato trascurato per molto tempo e questo ha permesso agli assassini di muoversi sotto traccia.
4) Anche quando agiscono in modo solitario fanno comunque parte di una realtà più ampia, grazie alla rete e ai contatti. Spesso non esiste un network operativo, però è forte ed esteso quello ideologico in quanto sfrutta il tema dell’immigrazione.
5) Intensa l’attività di propaganda: rapporti negli Usa e l’FBI hanno indicato la pericolosità della minaccia.
6) Alcuni militanti si sono recati in Ucraina per unirsi alle formazioni combattenti: viaggio che ricorda quello dei mujaheddin in Siria e Iraq.
7) I target variano: sinagoghe, moschee e anche chiese (negli Stati Uniti) sono prese di mira in quanto simboli, tuttavia chi spara si è lanciato in assalti contro negozi gestiti/frequentati da stranieri e ebrei. Bersagli indifesi e facili. In Germania (ma anche in altri paesi) sono stati registrati molti episodi, a volte minori, ma che hanno rappresentato un segnale d’allarme. Appena pochi giorni fa la polizia tedesca ha arrestato una cellula che stava progettando attentati, la conferma di un fenomeno pericoloso. E non a caso i servizi di sicurezza hanno annunciato il reclutamento di agenti da impiegare contro i neonazisti.
Salvini e gli attentati di serie A e serie B: per Hanau nessuna parola su razzismo e matrice di estrema destra. Redazione de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Attentati di Serie A e attentati di Serie B. La differenza per Matteo Salvini? La matrice terroristica del killer. È la reazione social del leader del Carroccio dopo la strage di Hanau, provocata dalla follia xenofoba di un estremista di destra, il 43enne Tobias Rathien, a scatenare le polemiche contro l’ex ministro dell’Interno. La sua Bestia su Twitter pubblica infatti un messaggio di cordoglio parlando genericamente di “strage ad Hanau” e di rivolgere un pensiero ai feriti e alle famiglie delle vittime “della follia omicida”, esprimendo solidarietà “al popolo tedesco”. Un messaggio in cui non vi sono riferimenti all’origine neonazista dell’eccidio nella città tedesca, dell’obiettivo chiaro dell’attentatore di colpire le minoranze curde e turche, di una strage apertamente razzista. E sui social c’è chi fa notare i toni utilizzati dal ‘Capitano’ nel 2015 per la strage di Parigi del 13 novembre, quando gli attentatori dell’Isis uccisero 130 persone, la maggior parte all’interno del Bataclan, dove era in corso un concerto. In quel caso Salvini non esitò a parlare di “tagliagole” e di “terroristi islamici” che andavano “eliminati con la forza”, oltre a chiedere misure come “chiusura delle frontiere, controllo a tappeto di tutte le realtà islamiche presenti in Italia, bloccare partenze e sbarchi, attaccare in Siria e in Libia”.
Il delirio di Lerner su Hanau: "Come il leghista di Macerata". Il giornalista paragona Rathjen, killer della strage in Germania, a Traini: "Ammiratore di Hitler e iscritto alla Lega". Alberto Giorgi, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. "Impressiona l'analogia fra la strage nei shisha bar di Hanau e il raid di Macerata che due anni fa cambiò il corso della politica italiana (per come fu dai più giustificato dalle condizioni ambientali in cui era maturato). Il killer era un ammiratore di Hitler iscritto alla Lega", scrive Gad Lerner su Twitter. Il giornalista, commentando la strage in Germania – in cui undici sono le vittime –, vuole fare un paragone con l’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018, quando Luca Traini sparò a sei immigrati: lì ferì tutti, senza ucciderne nessuno. E nel farlo vuole trovare un fil rouge che leghi per forza di cose i due avvenimenti, tirando in mezzo il Carroccio, dicendo che Traini era un ammiratore di Adolf Hitler e, appunto, ex iscritto alla compagine leghista. Alle elezioni del 2017, Traini era stato infatti candidato con la Lega Nord al consiglio comunale di Corridonia, un comune di 15mila abitanti nel Maceratese, prendendo zero preferenze. Insomma, parlando del killer Tobias Rathjen – l’estremista di destra è trovato morto in casa dalle forze dell’ordine teutoniche, in seguito al raid commesso – il saggista deve comunque affiancarci la parola "Lega" e un riferimento (seppur indiretto) a Matteo Salvini. Come se la Lega e il suo segretario – oltre che Traini e Macerata – oggi centrassero qualcosa con il folle attentato nella città d Hanau. Rathjen ha lasciato una lettera e un folle video-testamento xenofobo in cui sostiene la necessità di "annientare i popoli che non si possono espellere". Impressiona l'analogia fra la strage nei shisha bar di #Hanau e il raid di Macerata che due anni fa cambiò il corso della politica italiana (per come fu dai più giustificato dalle condizioni ambientali in cui era maturato). Il killer era un ammiratore di Hitler iscritto alla Lega. Tornando a Traini, la Procura della Repubblica di Macerata formulò nei suoi confronti l'accusa di strage aggravata dalla finalità di razzismo, oltre a contestargli altri reati, tra cui il porto abusivo d'arma da fuoco. Il 3 ottobre 2018 fu condannato a 12 anni di carcere con rito abbreviato, confermata il 2 ottobre 2019 dalla corte d’assise di appello di Ancona.
Chi è l’autore della strage di Hanau. Giovanni Giacalone su Inside Over il 20 febbraio 2020. L’attentatore di Hanau ha lasciato una lettera e una video-confessione con le quali rivendica i due attacchi della scorsa notte agli “shisha bar” sostenendo, tra le altre cose, “la necessità di annientare certi popoli la cui espulsione dalla Germania non è più possibile”, come riferito dalla Bild che ha citato fonti della sicurezza. L’attentatore è stato identificato come Tobias Rathjen, cittadino tedesco, forse estremista di destra. Sui social network sta inoltre circolando un filmato, caricato cinque giorni fà sul canale YouTube denominato “Tobias Rathjen”, nel quale il soggetto in questione manda un messaggio agli americani dove afferma che gli Usa sono controllati da società segrete, citando non meglio precisate “basi militari segrete sotterranee dove si tortura, dove viene venerato il diavolo e dove si abusano e si uccidono bambini” e invitando gli americani a reagire. L’uomo critica poi i “mainstream media” e invita tutti a cercare le informazioni per conto proprio e a “combattere”. Una miscela di follia e xenofobia? Più che plausibile, ma è ancora presto per le certezze.
Il testo del video-messaggio. L’inquietante video con cui Tobias si rivolge al suo pubblico ha innanzitutto un particolarità: parla di “americani”. Un elemento che fa propendere gli investigatori per un mix letale di follia e razzismo. “Questo è il mio personale messaggio a tutti gli americani. Il vostro paese è sotto il controllo di società segrete invisibili. Utilizzano metodi sconosciuti e malevoli come il controllo delle menti e un moderno sistema di schiavitù. Se non credete a ciò che vi dico, fareste bene a svegliarvi in fretta”. “Nel vostro Paese – continua il killer – esistono delle cosiddette basi segrete militari. In alcune celebrano il diavolo in persona. Abusano, torturano e uccidono i bambini. Una quantità incredibile di queste cose accadono ormai da molti anni. Svegliatevi. Questa è la realtà di quanto accade nel vostro Paese”. Il messaggio continua rivolgendosi anche contro i media. “Spegnete i media mainstream, loro non sanno nulla. Il primo passo è informarsi. Per credermi forse dovrete leggere o ascoltare queste cose di nuovo anche da altre fonti. Ma ora lo sapete. Il secondo passo è agire. Localizzate queste basi, raccogliete una massa di persone e assaltatele. È il vostro dovere come cittadini americani mettere fine a questo incubo. Combattete ora”. Così si conclude il messaggio delirante del killer.
La dinamica. I fatti sono avvenuti ad Hanau, città a una ventina di chilometri da Francoforte sul Meno. Intorno alle ore 22 di mercoledì sera, un uomo a bordo di un’auto scura ha aperto il fuoco contro i clienti di due “sisha bar” frequentati in prevalenza da curdi e situati nei distretti di Lamboy e Kesselstadt, uccidendo nove persone e ferendone gravemente altre cinque. Intorno alle tre di notte, dopo ore di caccia all’uomo, la polizia è riuscita a individuare la residenza dell’assalitore (forse grazie ad alcuni testimoni), non lontano dal secondo bar attaccato. Gli agenti hanno fatto allontanare il padre dell’attentatore e una volta all’interno dell’appartamento, hanno trovato il suo corpo senza vita assieme a quello di un altra persona (la madre). All’interno dell’auto dell’assalitore, che aveva regolare porto d’armi da caccia, sono poi stati trovati proiettili, caricatori, una fondina e diversi cataloghi di armi. Se inizialmente tutte le ipotesi erano state date per plausibili, incluso un regolamento di conti della criminalità organizzata, col passare delle ore la pista xenofoba si rivelava la più plausibile, fino alle rivendicazioni trovate dagli agenti all’interno dell’appartamento dell’attentatore. Gli “shisha bar” colpiti erano frequentati in prevalenza da immigrati curdi e il fatto che i due siti colpiti si trovassero rispettivamente in periferia est e ovest, faceva pensare da subito a un attacco mirato, di stampo xenofobo, verso quel tipo di target. Ci sono poi una serie di elementi che fanno capire come, nonostante la premeditazione del gesto, l’assalitore non fosse certo un terrorista “professionista”, a partire dal fatto che ha utilizzato la propria auto lasciando anche prove al suo interno; auto probabilmente nota nel distretto. È però altrettanto vero che probabilmente l’attentatore aveva già messo in conto di venire ucciso e non a caso aveva già la rivendicazione pronta. Resta tra l’altro ipotesi più che plausibile il suicidio post-strage. Per avere maggiori dettagli bisognerà però attendere ulteriori sviluppi delle indagini, attualmente in corso.
Hanau, la confessione del killer: "Annientare gli immigrati". L'assassino, Tobias R., ha pubblicato un video dove dice di "annientare" i "popoli che non si possono più espellere". Renato Zuccheri, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Ci sarebbe l'estremismo di destra dietro la strage di Hanau, in Germania. Secondo le prime informazioni avute dalla testata tedesca Bild, l'uomo che ha ucciso dieci persone nella città vicino a Francoforte - Tobias R. ha lasciato una lettera in cui confessa la strage e il movente. Nel documento avuto dalla Bild, il killer parla della "necessità di distruggere certe persone la cui espulsione dalla Germania non è più possibile". La polizia non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali su quanto avvenuto né sull'identità del sicario. Ma inizia ormai a essere confermata la pista del terrorismo di matrice razziale: uno dei problemi principali della sicurezza tedesca a detta dei servizi segreti federali. Proprio per questo motivo, il ministro dell'Interno dell'Assia, Peter Beuth, ha annunciato che la procura federale tedesca ha aperto un'indagine per terrorismo. Da tempo i servizi segreti hanno lanciato l'allarme sulla possibile esplosione del terrorismo di matrice neonazista o di stampo elusivamente razzista. E il fatto che la strage sia avvenuta in un bar frequentato tendenzialmente da turchi, arabi e curdi, lasciava pensare che anche questa volta il movente dell'atto terroristico fosse quello politico. In questi istanti, le forze speciali, che hanno fatto irruzione nella casa dell'assassino e che hanno fermato il padre per un interrogatorio, stanno valutando la lettera. Nella casa dell'assassino è stato trovato anche un secondo cadavere, quello della madre. Intanto il bilancio dei morti della strage continua a crescere. Attualmente sono almeno dieci le vittime delle due sparatorie nel cuore di Hanau, ma c'è chi parla di 11 morti. Alcuni feriti versano in condizioni critiche negli ospedali della città dell'Assia, portati in codice rosso dopo che il killer ha colpito nei due bar in cui si fuma narghilè e frequentati proprio dalle comunità curda, turca e araba che risiedono nella città. "Stamattina i pensieri vanno agli abitanti di Hanau, nel cuore della quale è stato commesso questo terribile crimine". Questo il messaggio rilasciato dal portavoce di Angela Merkel su Twitter commentando la strage avvenuta nella città di Hanau, in Assia, a venti chilometri da Francoforte.
Il messaggio di Steinmeier Il presidente Frank-Walter Steinmeier, in una nota, ha descritto tutto il suo sgomento per quanto avvenuto nella città dell'Assia. Il presidente della Repubblica federale ha detto di essere "inorridito" dall'"atto terroristico" esprimendo tutto il suo cordoglio per le famiglie delle vittime e la vicinanza nei confronti di "tutte le persone minacciate dall'odio razzista". Il capo di Stato ha poi concluso il messaggio rivolgendo un appello ai cittadini tedeschi affinché non rinuncino "a difendere la coesistenza pacifica nel nostro paese".
Paolo Valentino per il ''Corriere della Sera'' il 21 febbraio 2020. (ha collaborato Christina Ciszek). Un terrorista di estrema destra assalta due bar di Hanau frequentati da immigrati e uccide nove persone. Un terrorista di estrema destra attacca la Sinagoga di Halle, piena di ebrei in preghiera, fa alcuni feriti e solo per miracolo manca la strage. Un terrorista di estrema destra uccide il prefetto di Kassel, Walter Lübcke, paladino della politica dell' accoglienza, con un colpo testa sul terrazzo di casa sua. Tre episodi nell' arco di nove mesi. Diversi. Tutti legati a lupi solitari, o quasi (come sembra nel caso Lübcke). Ma tutti generati dallo stesso delirio ideologico: l' odio per lo straniero, il disprezzo per chi non è bianco, l' antisemitismo, il falso mito della «morte di una nazione», la leggenda nefasta del Bevoelkerungsaustausch lo scambio di popolazione, presunta minaccia esistenziale all' identità tedesca. C'è del marcio in Germania, se la trama dell'eversione razzista esce dalle fogne della narrazione nascosta, tracimando dal fiume carsico e mefitico del dark web e delle teorie complottistiche, per diventare azione violenta e mortifera. C'è del marcio anche perché i «cani sciolti» non sono più soli, ma agiscono in un quadro sempre più inquietante. L'ombra del terrorismo di estrema destra si stende sull' intero Paese. Appena pochi giorni prima del massacro di Hanau, la polizia federale ha arrestato 12 uomini di età compresa tra i 20 e i 60 anni in sei Laender tedeschi. Sono accusati di aver dato vita a una cellula del terrore, il Gruppo S, che progettava attacchi a moschee e centri di accoglienza per migranti, attentati a uomini politici e rifugiati. Disponevano di armi, munizioni, granate, lingotti d' oro per finanziarsi. Il loro scopo: provocare una guerra civile, mettere in discussione l' ordine costituzionale. «Abbiamo sottovalutato il pericolo dell' estrema destra radicale», avverte l'ex cancelliere federale Gerhard Schroeder. Parole piene di riscontri. Secondo il Bundeskriminalamt, ci sono oggi in Germania 53 estremisti di destra considerati un pericolo per la sicurezza statale e tenuti sotto osservazione (15 nel Nord Reno-Vestfalia, 7 in Sassonia, 4 in Assia dove all' evidenza Tobias Rathjen, il killer di Hanau, non era considerato tale). Ma qualcosa in queste cifre non funziona. L'Ufficio Federale per la tutela della Costituzione, i servizi civili, segnala infatti l' esistenza di 25 mila estremisti di destra sul territorio federale, dei quali poco più della metà sono considerati «pronti alla violenza». Ma qual è la differenza tra quelli che sono «un pericolo per la sicurezza dello Stato» e quelli «pronti alla violenza»? Un problema c'è, se pochi mesi fa lo stesso capo del Bundeskriminalamt, Holger Muench, aveva criticato i ministri degli Interni dei Land, sollecitandoli a rendere più omogenei i loro sistemi di valutazione della minaccia estremista. Uno dei nodi è che classificare uno come minaccia per lo Stato comporta costi aggiuntivi per il bilancio di un Land, che in quel caso ha l' obbligo di impegnare forze di polizia nell' osservazione del sospettato. Eppure è stato proprio grazie alla sorveglianza che il Gruppo S è stato sgominato prima che colpisse. Ma perché ora? Perché all' improvviso la feccia nazista, lupi solitari o gruppi, si sente in grado di passare all' azione? Forse la risposta ce la offre Sciascia: è cambiato il contesto. Forse non si sentono più così isolati, marginali, devianti. C'è una nuova Stimmung , un nuovo umore perfino nel Parlamento federale, il presidio della democrazia, dove i leader di AfD possono impunemente definire il nazismo una «cacca d'uccello su mille anni di storia tedesca». C'è in Turingia l'astro nascente dello stesso partito, Bjoern Hoecke, che per i suoi discorsi attinge senza ritegno al vocabolario nazional-socialista: racconta un'ex dirigente di AfD, ora andata via, che Hoecke e il suo stretto collaboratore Kubitschek analizzino quelli di Joseph Goebbels, il capo della propaganda hitleriana, usando poi versioni appena modificate delle sue parole chiave. Detto altrimenti, i lupi solitari hanno la percezione di una legittimazione ad agire. La democrazia in Germania non è in pericolo. Le reazioni del governo federale si muovono nella giusta direzione. Ma se è vero che il sonno della ragione genera mostri, allora è tempo di svegliarsi.
Germania, auto sulla folla alla parata di Carnevale: feriti anche alcuni bambini. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. Un’auto è finita sulla folla a un corteo di Carnevale a Volkmarsen nell’Assia tedesca e ha provocato almeno 30 feriti, una decina quelli gravi. Lo riporta la Dpa. Il conducente del mezzo è stato fermato. Dopo la strage di Hanau, che si trova sempre in Assia, il ministero dell’Interno aveva aumentato i dispositivi di sicurezza in tutto il Paese. A quanto riferisce l'emittente Hessischer Rundfunk, alcuni testimoni affermano che l'automobile piombata sulla folla avrebbe dato gas partendo da circa 30 metri di distanza. Da parte loro gli inquirenti finora non sono stati in grado di dire se l'autista abbia preso intenzionalmente di mira la folla che assisteva al corteo oppure se si tratti di un incidente. «È ancora troppo presto» per fare questo tipo di valutazioni, ha detto una portavoce della polizia. Le forze dell'ordine hanno anche pregato la popolazione e i media «di non diffondere segnalazioni non accertate». Tutte le sfilate di carnevale in Assia sono state interrotte e annullate per precauzione.
Germania, auto su folla a parata di Carnevale: numerosi feriti. Il grave episodio è avvenuto a Volkmarsen, nel land dell'Assia, durante la festa di Carnevale. Il conducente dell’auto è stato arrestato. Gabriele Laganà, Lunedì 24/02/2020 su Il Giornale. Terrore a Volkmarsen, città situata nel land tedesco dell'Assia. Un'auto si è lanciata contro la folla che partecipava a una parata di Carnevale. Secondo la Bild vi sono oltre 30 feriti: almeno 10 sarebbero in gravi condizioni. L'autista del veicolo è stato subito arrestato dalla polizia presente sul posto con numerosi mezzi: al momento, però, non si conosce la sua identità. Le autorità finora non hanno neanche fornito ulteriori precisazioni sulla dinamica dei fatti. Non è stato chiarito se si sia trattato di un attacco terroristico o di un incidente. Tra le persone travolte dalla vettura mentre partecipavano alla festa di Carnevale ci sarebbero anche dei bambini. Numerose ambulanze e un elicottero sono giunte sul luogo per soccorrere i feriti.Tantissime le persone presenti tra Steinweg e Rewe-Markt per il corteo. Dal racconto di alcuni testimoni oculari, riportato da hessenschau.de, l’auto Mercedes color argento ha superato le barriere e si è lanciata sulla folla intorno alle 14:30. L’autista avrebbe proseguito per circa 30 metri tra la folla prima di fermarsi. I testimoni hanno avuto l’impressione che il conducente stesse prendendo di mira principalmente i bambini. Ma questa notizia non è stata confermata dalle forze di sicurezza. Un altro testimone, secondo la Bild, afferma che molte persone sono corse inferocite verso il guidatore: a quel punto è dovuta intervenire la polizia per evitare che la situazione precipitasse. L'uomo, Maurice P. Hij, è un cittadino tedesco 29enne che fino ad oggi non si era fatto notare come ipotetico estremista politico. Lo scrive lo Spiegel, secondo cui fonti di inquirenti ritengono che l'uomo abbia fosse sotto l'effetto "un'elevata quantità di alcol". L'uomo è stato trasferito dalle autorità in una clinica psichiatrica. "Quando sono arrivato c’erano per terra almeno 15 persone, tra questi molti bambini piccoli. Dappertutto volti in lacrime. Tra questi i padri i cui figli erano lì per terra". È quanto riporta un testimone, citato dalla Bild, in merito alla tragedia di Volkmarsen, Tutte le ipotesi sono al vaglio della polizia. "Non possiamo dire se si tratti di un malore, un guasto tecnico o se il fatto sia intenzionale", ha affermato un portavoce della polizia, secondo quanto riferito dal quotidiano "Sueddeutsche Zeitung". Le forze dell'ordine hanno anche pregato la popolazione e i media "di non diffondere segnalazioni non accertate". La polizia ha confermato che "l’autista è stato arrestato e che molti feriti vengono ancora soccorsi sul luogo. Non sappiamo ancora se l’autista abbia mirato intenzionalmente sulla folla". Una seconda persona è stata arrestata per i fatti di Volkmarsen. Lo ha riferito il capo della polizia di Francoforte, Gerhard Bereswill. Tutte le parate di Carnevale organizzate nell'Assia sono state cancellate. Lo ha comunicato la polizia del Land tedesco parlando di una "misura precauzionale". Dopo la strage di Hanau, altra località dell’Assia, il ministero dell'Interno aveva aumentato i dispositivi di sicurezza in tutto il Paese. I due attacchi a mano armata erano avvenuti lo scorso mercoledì sera in locali frequentati dalla comunità turca. Il killer, Tobias Rathjen, un tedesco di 43 anni, ha fatto fuoco intorno alle 22 uccidendo 9 persone. A perdere la vita anche una donna di 35 anni incinta. Sei i feriti di cui uno in gravi condizioni. Il suo corpo senza vita, e quello della madre, sono stati poi trovati nel suo appartamento. L’assassino ha lasciato una video-confessione in cui rivendica la volontà di "annientare alcuni popoli".
Germania, auto tra la folla al Carnevale: oltre 30 i feriti, anche bambini. Due arresti. È accaduto nella città di Volkmarsen. L'autista, tedesco ventinovenne che fino ad oggi non si era fatto notare come ipotetico estremista politico, ha sterzato sulla folla, accelerando e oltrepassando la barriera che bloccava il traffico dalla parata mirando sui bambini. Procura Francoforte indaga per tentato omicidio. La Repubblica il 24 febbraio 2020. Oltre 30 persone, tra queste anche bambini piccoli, sono rimaste ferite da un'auto che verso le 14,30 ha fatto irruzione a tutta velocità nel corteo della parata di Carnevale che si stava svolgendo nella città di Volkmarsen, nello stato dell'Assia, a circa un'ora a sud della città di Bielefeld, in Germania. Sette sono in gravi condizioni. Il conducente è stato arrestato dalla polizia: un cittadino tedesco ventinovenne che fino ad oggi non si era fatto notare come ipotetico estremista politico. Una seconda persona è stata arrestata in serata. Lo ha riferito il capo della polizia di Francoforte, Gerhard Bereswill. l video sui social mostrano una station wagon Mercedes argentata con le luci di emergenza che lampeggiano sul marciapiede, mentre passano le auto delle forze dell'ordine. La Procura generale di Francoforte ha aperto un'inchiesta per tentato omicidio. Secondo quanto riferisce il portavoce della Procura, Alexander Badle: "Stiamo indagando in tutte le direzioni". La Procura ha confermato che il conducente dell'auto al momento non è in condizione di essere interrogato: anche lui nello scontro ha riportato delle ferite.
Auto finita deliberatamente sulla folla. I media tedeschi citando testimoni affermano che l'autista ha deliberatamente sterzato sulla folla, accelerando e oltrepassando la barriera che bloccava il traffico dalla parata mirando sui bambini. L'auto ha poi continuato a guidare tra la folla per circa 30 metri prima di fermarsi nell'incidente. Secondo la Frankfurter Rundschau, alcuni presenti hanno affermato che "sembrava che in conducente mirasse sui bambini". Un altro testimone, di nuovo secondo la Bild, afferma che molte persone sono corse inferocite verso il guidatore: è dovuta intervenire la polizia per evitare che la situazione precipitasse.
Ministero, non escludiamo attentato. Le autorità del Land tedesco "non escludono un attentato. A quanto afferma il ministero dell'Interno dell'Assia, citato dall'Afp, "data la situazione sul posto non possiamo escludere un attentato". Un portavoce della polizia presente nella cittadina a circa 30 chilometri da Kassel si è espresso diversamente: "Non pensiamo si sia trattato di un attacco, ma riteniamo si sia trattato di un'azione intenzionale".
Cancellate le manifestazioni del Carnevale. Tutte le parate di Carnevale organizzate nell'Assia sono state cancellate. Lo ha comunicato la polizia del Land tedesco parlando di una "misura precauzionale".
Precedenti. L'incidente arriva meno di una settimana la strage di Hanau dove un uomo armato ha ucciso 11 persone, incluso se stesso. Uno dei peggiori attacchi razzisti in Germania. Il 19 dicembre 2016.
Il killer di Hanau: «Sempre pedinato Non posso fidanzarmi». Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Elisabetta Rosaspina. Hanau Paranoico, razzista, suprematista, certo, ma non clandestino, né trasparente: Tobias Rathjen gestiva dall’agosto scorso addirittura un sito, oscurato poche ore dopo la strage, dove postava le sue farneticazioni e assicurava che, se fosse esistito un pulsante per annientare «certi africani, asiatici e mediorientali», lo avrebbe premuto volentieri, senza esitazioni. Nel suo «manifesto» di 24 pagine non annunciava esplicitamente intenzioni omicide, ma sciorinava tutta la sua insofferenza per la massiccia presenza di stranieri che «mettevano in pericolo la Germania» e la cui espulsione non sarebbe stata sufficiente. Occorrevano «una pulizia di massima» e «una pulizia finale». E gli immigrati non erano i soli invasori che agitavano i suoi incubi. Avvertiva attorno a sé spie e fantasmi che lo seguivano, lo controllavano e tentavano di penetrare nel suo cervello e di impadronirsi dei suoi pensieri.
Aveva scritto al procuratore di Hanau, la cittadina di novantamila abitanti a 20 chilometri da Francoforte, dove abitava, e al procuratore federale di Karlsruhe, denunciando di essere sorvegliato da misteriose organizzazioni segrete. Si era rivolto a investigatori privati, tra i quali un austriaco di Neukirchen, con il quale ha mantenuto i contatti fino al 6 gennaio scorso, per essere aiutato a smascherare i suoi invisibili pedinatori. Non ha ovviamente seguito il consiglio del detective di rivolgersi piuttosto a un buon psichiatra e ha continuato ad alimentare le sue manie di persecuzione, il suo odio per le minoranze etniche, la mitomania che lo spingeva ad accusare Donald Trump di avergli scientemente scippato lo slogan «America first». Una settimana fa si era rivolto in inglese, attraverso YouTube, proprio al popolo americano, esortandolo ad aprire gli occhi, organizzarsi e lanciare l’assalto a basi militari segrete che, negli Stati Uniti, «celebrano il diavolo in persona, abusano, torturano e uccidono i bambini». La presenza di forze oscure in grado di leggere addirittura nella mente sembra fosse una delle fissazioni che l’uomo diffondeva via web, assieme all’allarme per l’esistenza di una vasta rete di complotti gestita dai servizi di intelligence e alle sue idee xenofobe. Eppure Tobias Rathjen, iscritto a un’associazione di cacciatori, possedeva legalmente tre pistole: la Glock 17 calibro 9 Luger che ha scaricato mercoledì sera contro i clienti dei due shisha bar curdi, una Sig Sauer e una Walther, tutte acquistate via Internet. Era membro di una società di tiro a segno a Bergen-Enkheim da otto anni, e il suo porto d’armi è stato rinnovato appena l’anno scorso. L’amministrazione del distretto Main-Kinzig di Gelnhausen aveva stabilito la sua idoneità, nonostante i controlli, tra i più severi in Europa, che regolano in Germania il possesso di armi da fuoco. E nonostante il monitoraggio da parte delle autorità sia aumentato dopo il massacro di Winnenden nel 2009 (16 vittime compreso il giovanissimo assassino) e l’assalto a un centro commerciale di Monaco del luglio 2016, quando un diciottenne tedesco di origini iraniane in preda a deliri sulla purezza ariana, sparò e uccise 9 persone, ferendone altre 36. Tobias è arrivato a 43 anni covando inosservato le sue ossessioni e le sue fobie. Abitava con i genitori in una villetta a schiera di Helmholtzstrasse, in un quartiere piuttosto anonimo e modesto alla periferia di Hanau. Tra decine di casette identiche bianche o grigie, a un piano e con un pezzetto di giardino, una tettoia di mattoni rossi identifica l’ingresso dell’abitazione dei Rathjen, transennato dalla polizia per proteggere l’andirivieni degli agenti della Scientifica. I vicini sapevano che era in casa quando vedevano parcheggiata la sua Bmw nera, ma avevano rare occasioni di incrociarlo o di scambiare con lui qualche parola. E mai nessuno lo ha visto in compagnia di una ragazza: «Non posso avere una moglie né una fidanzata», si lamentava online, riferendosi sempre alla sua certezza di essere circondato da ostili segugi. Ancora non è chiaro il momento in cui la sua vita è deragliata dai binari della normalità. Nato ad Hanau nel 1977, Tobias Rathjen aveva frequentato una scuola locale lasciando sbiaditi ricordi nella maggioranza dei suoi compagni di classe. Il suo destino sembrava quello di un tranquillo lavoro in banca, dopo aver conseguito il suo titolo in business management all’università di Bayreuth nella primavera del 2007. Come un bravo studente qualsiasi.
La strage di Hanau, «Mercedes aspettava un bimbo, era lì solo per portare la cena». Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 su Corriere.it da Elisabetta Rosaspina. Se mercoledì sera non si fosse assentato un paio d’ore dall’Arena Cafè per andare a festeggiare il compleanno di un’amica, Jack ora non sarebbe qui a descrivere la scena apocalittica che si è presentata ai suoi occhi quando è ritornato, ignaro di tutto, al shisha bar del padre. Non credeva ai suoi occhi: «C’era un cadavere nell’auto parcheggiata di fronte. E altri corpi insanguinati per terra, nel locale. Li conoscevo tutti. È morto mio zio, Gökhan. Non è davvero mio zio, ma è come se lo fosse. Lavorava con noi da tanto tempo. Mercedes era venuta soltanto per portarci la cena. Non doveva essere qui». Lei non doveva esserci, lui sì. E la madre di Jack, una colombiana divorziata da un turco e vissuta a Roma (dov’è nato suo figlio) non può che ringraziare l’imperscrutabile volontà del fato: «Ma capisco e soffro per i genitori di quelli che non hanno avuto la mia stessa fortuna — si affretta ad aggiungere Abaned che, per altri complicati intrecci famigliari, ha un nome di origini arabe e un fratello domiciliato ad Alghero —. Gökhan faceva parte della famiglia, viveva qui da vent’anni». L’età di Jack, che ha lasciato l’Italia a 8 anni e ormai si sente più tedesco che turco o sudamericano. E comunque, fino a mercoledì sera, non pensava potesse diventare una questione di vita o di morte. Kesselstadt è un quartiere così, un miscuglio di etnie, nazionalità, idiomi che fino a tre giorni fa pareva pacifico. Ci si conosce e capisce in quell’affollata torre di Babele. Una città nella città, popolata da rom (ma qui si preferisce definirli «sinti»), polacchi, bosniaci, curdi, afghani. L’Arena Cafè non era soltanto il ritrovo serale dei fumatori di narghilè: «Di giorno entrava anche qualche tedesco a bersi una birra o a comprare le sigarette» testimonia Iñaki che da Vitoria Gasteiz, nei Paesi Baschi, si è trasferito anni fa ad Hanau per trovare lavoro alla Dunlop. Una serie di etichette adesive in varie lingue e alfabeti segnala che da qui partivano anche le rimesse verso i Paesi d’origine. Una mano ha tracciato sulla vetrina un messaggio di pace in tedesco: «Il nostro amore è più forte del vostro odio». L’aria è lacerata da un urlo spaventoso: è la madre di Mercedes Kierpacz, la ragazza sinti-polacca falciata assieme al bimbo che portava in grembo. La donna è venuta a vedere il luogo in cui ha perso la figlia e un nipotino mai nato. La trascinano via quando sta per crollare sul piccolo altare di fiori e lumini cui Johann, un pensionato tedesco, ha cercato invano di contribuire. Niente da fare: il vento spegne immancabilmente la fiammella. «Io me lo ricordo bene Tobias — rivela Abaned, prima di dileguarsi all’improvviso, come se la disperazione dell’altra madre le rinfacciasse la tortura cui lei è miracolosamente scampata —. Abito a qualche casa di distanza, in Helmholtzstrasse, a cinque minuti da qui. Lo incontravo spesso al supermercato, sempre solo. Non sorrideva mai, non salutava nessuno. Adesso ho capito che odiava a morte questo quartiere». Simbolo della promiscuità che aborriva tra «ariani» e «razze impure». Secondo il giornale Bild, che ha rintracciato uno dei suoi rari amici d’un tempo, Tobias si era isolato dopo un infortunio al ginocchio che aveva stroncato le sue ambizioni calcistiche e aveva lasciato il posto in banca perché scontento dello stipendio. Viveva con i genitori, nella cameretta in cui era cresciuto, rimuginando ossessioni e ansia di vendetta. Un malato mentale, per gli investigatori. Ma a pochi chilometri di distanza, nella sede del centro culturale turco-curdo, la storia del pazzo solitario non convince. Quasi metà delle vittime appartenevano alla comunità, che da tempo si sente in pericolo: «Esistono gruppi clandestini di estrema destra, già responsabili di altri attacchi razzisti, la polizia lo sa», ricorda Nazim Turan.
Strage di Hanau, a forza di agitare il terrore si generano solo nuovi terrorismi. Giulio Cavalli de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. È successo ancora. Questa volta in Germania, ad Hanau, una città dell’Assia a circa 20 chilometri da Francoforte. Alle 22 di mercoledì sera c’è stata la prima sparatoria nel centro della città, la seconda a due chilometri di distanza, in una piazza nel quartiere periferico di Kesselstadt, dove si trova anche l’abitazione di Thomas Rathien, un estremista di destra di 43 anni, trovato in casa senza vita insieme al cadavere della madre mentre il padre è stato portato via da casa dalle forze speciali tedesche. Il bilancio parla di 11 persone morte tra cui una 35enne incinta e già madre di due figli. I primi otto o nove colpi sono stati sparati al Midnight, un bar scisma molto conosciuto nel centro della città. L’omicida poi si sarebbe spostato nella periferia occidentale all’Arena Bar & Cafe, un altro locale dove si fuma il narghilè. Le forze dell’ordine hanno mobilitato centinaia di uomini e decine di ambulanze sono accorse sui luoghi delle sparatorie. In un primo momento la polizia tedesca aveva ipotizzato che potesse essere un regolamento di conti tra bande criminali. Già lo scorso venerdì, in pieno centro a Berlino, durante uno spettacolo di un comico turco c’era stata una sparatoria al Tempodrom con uno spettatore ucciso e almeno sette feriti. I locali colpiti a Hanau sono bar amati dalla comunità turca e curda. Questa volta sui moventi ci sono pochi dubbi: l’omicida ha lasciato una video-confessione in cui rivendica la volontà di “annientare alcuni popoli”. Peter R. Neumann, direttore dell’ICSR (Centro di ricerca sul terrorismo) ha scritto su Twitter che nelle 24 pagine del manifesto “politico” lasciato dal killer si rivela tutto “il suo odio per gli stranieri e i non bianchi. Sebbene enfatizzi l’Islam, chiede la distruzione di vari Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Asia centrale (che sono tutti a maggioranza musulmana). Sempre Neumann scrive che il killer avrebbe giustificato la sua richiesta di cancellare intere popolazioni di alcuni Paesi «in termini esplicitamente eugenetici» dicendo che «la scienza dimostra che alcune razze sono superiori». Tra i suoi scritti c’è anche la rivelazione che l’uomo non ha «mai avuto una relazione con una donna negli ultimi 18 anni, per scelta» e che sarebbe «stato sorvegliato da un servizio di intelligence per tutta la vita». Thomas Rathien aveva un regolare porto d’armi e una licenza da cacciatore e secondo la polizia non aveva complici. Sulla matrice razzista della strage sembra non avere dubbi anche Angela Merkel che ha parlato di «giorno orribile per il Paese»: «Molto lascia pensare che il massacro sia stato mosso dall’odio xenofobo, un odio verso chi ha origini, religioni o aspetto diverso. Il razzismo è un veleno, l’odio è un veleno che esiste nella nostra società». Ha poi continuato: «Il governo tedesco e le istituzioni statali sostengono i diritti e la dignità di ogni persona in questo paese. Non facciamo alcuna distinzione per la provenienza o il credo delle persone». Dopo Oslo, dopo Auckland, dopo El Paso ora anche Hanau si aggiunge ai luoghi delle stragi xenofobe dove il terrorismo bianco risulta essere addirittura più feroce di quello che vorrebbe combattere. Non si tratta di episodi collegati, certo, e non c’è nessun elemento per immaginare un’internazionale del razzismo ma è evidente che il fenomeno della destra eversiva abbia raggiunto livelli di allarme che pongono alcune rilevanti questioni: siamo sicuri che stiamo dando il giusto peso al ritorno di talune intolleranze? Siamo certi che sia il caso di continuare a derubricare alcuni importanti segnali come sciocchezze, ragazzate o singoli episodi (tenendo conto che poi spesso sono singoli anche gli attentatori che procurano ingenti danni)? Esiste un’intelligence europea, come per il terrorismo islamico, in grado di monitorare e scambiarsi velocemente informazioni sui gruppi di estrema destra? La scorsa settimana la politi federale tedesca ha arrestato 12 persone (di età tra i 20 e i 60 anni) in sei diversi Länder federali, sospettati di fare parte di un’organizzazione terroristica di estrema destra che stava progettando attacchi a moschee, scuole di quartieri musulmani e centri di accoglienza. Sono state ritrovate armi, munizioni, granate e addirittura bombe artigianali. La cellula terroristica puntava anche a alcuni politici particolarmente impegnati sui temi dell’accoglienza e l’idea era quella di provocare, in Germania, un clima «da guerra civile», scrivono gli investigatori. Sempre secondo l’intelligence tedesca oggi in Germania ci sarebbero almeno una cinquantina di persone di destra pronti a compiere atti terroristici. Cinquanta altri Thomas Rathien: sicuri che vada tutto bene? Poi un giorno, magari, si rifletterà sul fatto che a forza di agitare il terrore non si fa che partorire terrorismi e terroristi di ogni risma, terroristi che combattono con il terrorismo il terrorismo degli altri. E nelle strade scorre il sangue.
· Quei razzisti come gli Spagnoli.
Domenico Zurlo per leggo.it il 13 giugno 2020. Anche la Spagna ha il suo George Floyd. In questi giorni di proteste in tutto il mondo dopo la morte dell'uomo di colore a Minneapolis, soffocato dal ginocchio di un agente di polizia - la scena ha fatto il giro del pianeta - sui media spagnoli si parla negli ultimi giorni di un caso con forti analogie con Floyd. Quello di Iliass Tahiri, un 18enne marocchino morto il 1° luglio dell'anno scorso in un centro di detenzione minorile spagnolo. Iliass, nativo di Tetouan e che viveva ad Algeciras, morì nel Centro Giovanile Tierras de Oria ad Almeria, in Andalusia. Secondo il giudice, il ragazzo fece resistenza alle guardie: la sua fu giudicata nel gennaio di quest'anno una «morte violenta accidentale». Ma la sua famiglia si è appellata alla sentenza, dopo che sono emerse nuove prove che hanno rivelato particolari terribili. Tahiri entrò in quel centro il 2 maggio 2019, e ne uscì morto due mesi dopo. Il centro lo descriveva come «ragazzo problematico» a cui era stato diagnosticato un «grave disturbo antisociale della personalità», scrive El Pais, che spiega come il 18enne era già stato in altri due centri giovanili ed era in attesa di processo per aver minacciato uno psicologo con un coltello. Inoltre faceva uso di droghe da quando aveva 10 anni e aveva subìto atti di bullismo, scriveva El Pais che citava i rapporti degi psicologi e degli psichiatri che lo avevano avuto in cura.
LA MORTE DI ILIASS. Lo scorso 9 giugno El Pais ha pubblicato video inediti dalle telecamere di sicurezza, in cui si vede com'è morto il giovane marocchino. Nessuna resistenza da parte sua, ma sei uomini, 4 guardie e due uomini in borghese, che lo tengono ammanettato a faccia in giù su un letto: un incubo lungo 13 minuti che finisce con la morte del ragazzo, con un medico che arriva a verificare che non respira più. In quei 13 minuti, una guardia gli controllava il polso e verificava il suo respiro, più di una volta.
A PANCIA IN GIU'. A gestire i centri di detenzione minorile è la GINSO (Associazione spagnola per la gestione dell'integrazione sociale): secondo i suoi protocolli, l'immobilizzazione non deve mai avvenure a faccia in giù, a meno che non siano dei medici a raccomandarlo. Nel caso di Tahiri, nessun medico lo aveva fatto. Secondo il rapporto ufficiale del centro alla Guardia Civil, le guardie avrebbero tentato di immobilizzarlo a faccia in su, ma la sua resistenza li aveva costretti a metterlo invece a faccia in giù. Inoltre le guardie avrebbero parlato di «calci e violenza estrema» descrivendo la reazione del giovane, particolari di cui non c'è traccia nei video. E in quest'ultimo si vedrebbe anche una guardia mettergli un ginocchio vicino alla testa (particolare molto simile alla morte di George Floyd e che potrebbe aver avuto un ruolo nella sua morte). Il rapporto dell'autopsia escluse il soffocamento come causa della morte, parlando invece di aritmia cardiaca. Ma lo stesso rapporto descriveva chiari segni di soffocamento sul corpo del giovane marocchino: il giudice giudicò perciò accidentale la sua morte, ritenendo necessaria la procedura seguita dalle guardie per «prevenire atti di violenza o di autolesionismo da parte del detenuto», scrive sempre El Pais, il cui video ha riaperto il dibattito sul caso provocando furiose polemiche.
IL FRATELLO. Mounaim, fratello del 18enne morto, ha subito paragonato la sua morte a quella di George Floyd, parlando con il giornale spagnolo Publico. «Lo hanno ucciso», ha detto dopo aver visto il video. «Controllano il suo polso, sembrano nervosi tra loro. La sua faccia è sul cuscino, un ragazzo è sopra di lui, continuano a legarlo». Anche le Ong spagnole per i diritti umani hanno condannato l'accaduto chiedendo chiarezza: «Cinque adulti per immobilizzare un ragazzino», ha detto a Publico Jose Miguel Morales, segretario generale della Ong Andalucia Acoge. «Questa situazione rivela che le cose non vanno fatte come dovrebbero in ciò che riguarda i diritti umani».
Juan Carlos lascia la Spagna per l’inchiesta su una presunta frode fiscale. Il figlio Felipe VI lo ringrazia. Il 4 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Juan Carlos lascia la Spagna. Il re emerito ha comunicato la decisione in una lettera inviata al figlio. Juan Carlos lascia la Spagna. A sorpresa il re emerito ha annunciato la sua decisione di auto esiliarsi per le indagini su una frode fiscale in Spagna e in Svizzera. La comunicazione, come scritto dal Corriere della Sera che cita El Pais, è arrivata attraverso una missiva inviata al figlio Felipe VI che ha ringraziato il padre per la decisione presa. Resta mistero sulla nuova destinazione che potrebbe essere comunicata nelle prossime settimane. Juan Carlos lascia la Spagna. La decisione del re emerito è stata comunicata con una lettera inviata al figlio re Felipe IV. “Con lo stesso desiderio di servire la Spagna – si legge nella missiva citata dal Corriere della Sera – che ha ispirato il mio regno, e in vista delle ripercussioni pubbliche che certi eventi del passato nella mia vita privata stanno degenerando, desidero esprimere la mia assoluta disponibilità a contribuire a facilitare l’esercito delle vostre funzioni, dalla tranquillità e dalla pace che la vostra alta responsabilità richiede“. Un auto-esilio che è stato deciso per le inchieste su una presunta frode fiscale che vedono coinvolto Juan Carlos in Spagna e in Svizzera. La missiva è stata ricevuta dal figlio Felipe VI che ha ringraziato il padre per la decisione di lasciare la Spagna. Resta top secret, al momento, la nuova destinazione del re emerito anche se non è escluso nelle prossime settimane la comunicazione della città dove risiederà Juan Carlos in questo periodo di esilio. Possibile un ritorno in patria alla chiusura dei fascicoli anche se non si hanno delle certezze su questa ipotesi. Una decisione storica visto che per la prima volta il re emerito ha deciso di lasciare il proprio Paese.
Travolto dagli scandali, re Juan Carlos abbandona la Spagna. La decisione comunicata dall'ex sovrano al figlio, re Felipe VI, è conseguenza delle inchieste della magistratura svizzera e del Tribunale supremo spagnolo sui presunti fondi trasferiti in paradisi fiscali. Alessandro Oppes il 03 agosto 2020 su La Repubblica. Prima di essere cacciato per indegnità dalla Zarzuela, il palazzo reale che occupò come sovrano di Spagna per 39 anni, il re emerito Juan Carlos di Borbone ha deciso di abbandonare la Spagna. Lo ha comunicato al figlio, re Felipe VI, che ha subito annunciato la notizia al Paese attraverso un comunicato ufficiale della Casa Reale. Da settimane il governo progressista guidato da Pedro Sánchez chiedeva all'attuale monarca di prendere duri provvedimenti nei confronti del padre (si ipotizzava appunto l'allontanamento dal palazzo alla periferia di Madrid sede della monarchia borbonica) in seguito alle inchieste sempre più imbarazzanti della magistratura elvetica e del Tribunale supremo spagnolo sui conti in Svizzera e le società offshore nelle quali Juan Carlos avrebbe depositato presunte tangenti: in particolare, la più clamorosa, quella da 100 milioni di dollari ottenuta dall'ex re Abdallah dell'Arabia Saudita per la sua opera di mediazione nella trattativa per l'assegnazione a un consorzio di 12 imprese spagnole dell'appalto per la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità tra La Mecca e Medina. Già nel marzo scorso, dopo le rivelazioni della stampa spagnola e internazionale sullo scandalo, re Felipe VI decise di rinunciare all'eredità del padre e a privarlo dell'assegnazione annuale di circa 180mila euro a carico dello Stato: una mossa con lo scopo di tenere la fragile istituzione monarchica al riparo da possibili accuse di coinvolgimento negli affari opachi di Juan Carlos. "Sono stato re di Spagna per quasi quarant'anni e ho sempre voluto il meglio per la Spagna e per la Corona", scrive Juan Carlos nella lettera al figlio Felipe VI. Il suo avvocato assicura in un comunicato che, nonostante la decisione di lasciare il Paese, il suo assistito resterà a disposizione della procura del Tribunale supremo spagnolo che sta indagando su di lui.
"Ha lasciato la Spagna". Travolto dagli scandali la fuga di re Juan Carlos. Potrebbe essere indagato sui presunti fondi trasferiti in paradisi fiscali. "È già all'estero". Manila Alfano, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Essere un imbarazzo anche dopo aver rinunciato al Regno. Non si ricorda fine più ingloriosa di quella che è toccata a Juan Carlos, 82 anni, ex monarca di Spagna, parabola discendente di un re eroe della democrazia a corrotto e odiato. Da mito a nemico del popolo, pesa tutto in questi 39 anni di regno. E così ieri, prima di essere cacciato per indegnità dalla Zarzuela, il palazzo reale, il re emerito Juan Carlos di Borbone ha deciso di abbandonare la Spagna. A comunicarlo è stato il figlio, re Felipe VI, diverso e opposto, così legato alla mamma Sofia e già ai ferri cortissimi che salito al trono come primo atto, gli ha negato un ufficio a Palazzo. Sono cambiati i tempi, è cambiata la Spagna, e troppe inchieste giudiziarie soffiano sul collo di questo vecchio monarca che ha perso il suo tocco e soprattutto ha perso l'amore incondizionato della sua gente. Eppure ci sapeva fare Juan Carlos, anche se non si faceva problemi ad ammettere che non era mai riuscito a finire un libro in vita sua, più intelligenza che cultura la sua. «Qui sono scarso», confessò una volta a un politico toccandosi la testa; «ma qui», e si toccò il naso, «sono imbattibile». E lo aveva dimostrato fin dall'inizio della sua carriera, quando alla fine della dittatura, barattò il potere con la discrezione sulle proprie spese e sulla tolleranza sulla propria vita privata. A lui si perdonava tutto perchè era orgoglio nazionale, l'esuberanza del suo sangue blu piaceva, le corse notturne nel centro di Madrid su una delle sue 72 auto sportive, i maschi lo invidiavano per le sue millecinquecento amanti a certificare il macho latino. Fino all'ultima, l'austriaca, quella di troppo. Corinna zu Sayn-Wittgenstein, amante nobildonna elevata quasi al rango di seconda moglie. C'era anche lei nel 2012 in Botswana quando si fratturò l'anca durante una caccia all'elefante. Un bel guaio per uno che è anche presidente onorario del Wwf spagnolo. I giornali infransero lo storico patto del silenzio e la notizia uscì. Erano i mesi più duri della crisi spagnola, migliaia di famiglie avevano perso la casa. Juan Carlos capì e chiese scusa ma non bastò. Era l'inizio della discesa. Un re travolto, nonostante il suo infallibile fiuto di togliersi di mezzo al momento giusto. Nel 2014. Nel mirino della magistratura era già finita sua figlia Cristina, e lui comprese che era il momento di sparire. Credeva potesse bastare ma non ha funzionato. Da settimane il governo progressista di Pedro Sánchez chiedeva all'attuale monarca di prendere duri provvedimenti nei confronti del padre in seguito alle inchieste sempre più imbarazzanti della magistratura elvetica e del Tribunale supremo spagnolo sui conti in Svizzera e le società offshore nelle quali Juan Carlos avrebbe depositato presunte tangenti: in particolare, la più clamorosa, quella da 100 milioni di dollari ottenuta dall'ex re Abdallah dell'Arabia Saudita per la sua opera di mediazione nella trattativa per l'assegnazione a un consorzio di 12 imprese spagnole dell'appalto per la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità tra La Mecca e Medina. Il 15 marzo l'ultimo affronto, l'ultima presa di distanza da quel padre diventato una vergogna da nascondere. Il re Felipe dichiarava di rinunciare all'eredità di suo padre Juan Carlos e gli tagliava l'assegno annuale di 200mila euro di fondi pubblici che percepiva. «Il re è nudo», titolavano i giornali. Juan Carlos non è ancora ufficialmente indagato, anche se fonti giudiziarie svizzere non escludono che lo sarà in futuro. Fine ingloriosa di un monarca che oggi può solo sperare nell'oblio.
Elisabetta Rosaspina per “il Corriere della Sera” il 5 agosto 2020. Caccia al re. A Santo Domingo oppure in Europa, in Portogallo, in Francia, in Italia, dove ha ancora parenti, in Grecia, il paese natale della regina Sofia. Se la Casa reale ha sperato, con la partenza dalla Spagna di re Juan Carlos I, di calmare le acque agitate dagli scandali finanziari e sentimentali del vecchio sovrano, ha ottenuto almeno per ora l'effetto opposto. Caos tra i due partiti di governo, il Psoe del premier Pedro Sánchez, che era al corrente dei preparativi per l'allontanamento dell'ex capo di Stato, e Unidas Podemos, la sinistra radicale dei coniugi Pablo Iglesias e Irene Montero, vice presidente e ministra dell'Uguaglianza, che invece ne erano all'oscuro. E se l'ex monarca ha cercato di rafforzare il figlio e successore, Felipe VI, togliendo il disturbo, la Corona è invece sotto l'attacco dei repubblicani e degli indipendentisti catalani indignati da quella che considerano un'ignominiosa fuga di Juan Carlos dalle proprie responsabilità e dalla giustizia. La Corte suprema spagnola ha infatti aperto un'inchiesta in giugno per stabilire se dal 2014, ha abdicato e non è più protetto dall'immunità reale, l'anziano sovrano si sia macchiato di frode fiscale, riciclaggio o altri delitti nei confronti dell'Agenzia delle entrate. Sulla sua immunità per quanto commesso prima dell'abdicazione (l'eventuale tangente saudita da cento milioni di dollari per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità tra la Medina e la Mecca da parte di un consorzio di ditte spagnole) i giuristi discutono. In Svizzera la procura di Ginevra che indaga da due anni sul conto intestato alla Fondazione Lucum (creata ad hoc per ricevere il denaro e sciolta nel 2012, quando un bonifico da 65 milioni di euro è partito da una banca svizzera al conto alle Bahamas dell'ex amante Corinna Larsen) potrebbe dunque approfondire anche le azioni «non ufficiali» dell'anziano re. La stampa nazionale ha mobilitato tutti i propri segugi e i propri confidenti a palazzo per scoprire dove sia il suo rifugio, mentre il re in carica e la sua famiglia cercano di condurre una vita normale, pur senza impegni ufficiali in agenda. Venerdì Felipe e Letizia partiranno con le figlie, la principessa Leonor e l'infanta Sofia, per una decina di giorni a Palma di Maiorca, dove li ha preceduti la regina Sofia con la figlia Elena a Marivent, la residenza estiva. Saranno vacanze lavorative, ha informato la Zarzuela: la coppia reale visiterà le Baleari per verificare la difficile situazione sanitaria provocata dal coronavirus. Felipe VI si riunirà con il premier e riceverà le autorità locali. La famiglia comparirà forse per le foto ufficiali e si scruteranno i loro sorrisi tirati. Letizia è furente con il suocero, le cui opache manovre finanziarie e quelle palesemente extraconiugali hanno messo a repentaglio il futuro di Leonor, erede di un trono pericolante. Quanto all'attuale sovrano, gli osservatori concordano che non avrebbe potuto fare di più per salvare l'onore dei Borbone: ha tolto titolo di duchessa di Palma di Maiorca alla sorella Cristina, processata con il marito per corruzione; ha rinunciato al non limpido patrimonio del padre, gli ha revocato il vitalizio e ha infine benedetto il suo esilio.
Da tgcom24.mediaset.it il 7 agosto 2020. La Casa Reale non ha voluto confermare dove si trovi Juan Carlos, che ha abdicato nel 2014, ma per Abc egli ha lasciato la Spagna da Vigo in Galizia su un jet privato, accompagnato da quattro guardie del corpo e da un collaboratore. Giunto all'aeroporto Al Bateen di Abu Dhabi, usato solo per i voli privati, il re e il suo entourage sono stati trasferiti con un elicottero all'Emirates Palace Hotel, "uno dei più costosi al mondo", di proprietà del governo degli Emirati. Da allora, Juan Carlos non ha mai lasciato l'albergo a causa del caldo. Secondo l'emittente Abc, Abu Dhabi non sarà l'ultima tappa del re che attende la fine della stagione degli uragani per raggiungere la Repubblica Dominicana, ospite a Casa de Campo, il complesso alberghiero del magnate dello zucchero Pepe Fanjul.
Juan Carlos va in esilio: ascesa e caduta dell’ultimo re Borbone. L’ex monarca travolto dagli scandali lascia il Paese. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 5 agosto 2020. Quando nel 1975 Juan Carlos prestò giuramento davanti l’Assemblea spagnola il leader comunista Santiago Carrillo gli aveva affibiato un soprannome di rara perfidia: Juan el breve, convinto che quel monarca senza personalità sarebbe durato molto poco, spazzato via assieme agli altri cascami del franchismo. Sei anni dopo, nel febbraio del 1981, lo stesso Carrillo non esita a esclamare: «Che Dio protegga il re!». Pochi giorni prima il colonnello Antonio Tejero era entrato con un manipolo di militari in Parlamento, esplodendo diversi colpi d’arma da fuoco; una scena terribile, trasmessa in diretta tv e rimasta negli occhi di tutti gli spagnoli. L’intervento di Juan Carlos è decisivo, in un discorso alla nazione il re intima ai vertici delle forze armate di difendere la democrazia e di isolare i golpisti. I partiti di sinistra e repubblicani salutano quel discorso come una pietra miliare della storia moderna del Paese. Al punto da stringersi tutti attorno alla monarchia, o meglio attorno al sovrano; secondo una definizione all’epoca molto in voga gli spagnoli non si definiscono monarchici, ma semplicemente “juancarlisti”. Non ci aveva visto lungo il buon Castillo; il regno di Juan Carlos è durato infatti quasi quarant’anni, fino al 2014, quando ha abdicato a favore del figlio Felipe VI. Altro che Juan el breve. È stato il garante della transizione tra la dittatura del caudillo Francisco Franco e la democrazia, lo ha fatto con lungimiranza e abilità politica, comprendendo che il franchismo era ormai una vestigia del passato e riuscendo a includere nel processo tutte le forze politiche fino alla Costituzione del 1978. Alla morte di Franco si è autoproclamato re di Spagna e in moltivedevano in lui , se non proprio una sovrano autoritario, un palese intralcio alla modernizzazione di una Spagna rimasta isolata dall’Europa per oltre mezzo secolo. Una reggenza, quella di Juan Carlos, accompagnata da molte luci e da alcune ombre che sul finire del sua parabola si sono allungate sempre di più, specie i piccoli grandi scandali che negli ultimi anni lo hanno costretto a farsi da parte. Da ieri è ufficialmente in esilio, ha lasciato la Spagna con disonore verso una meta sconosciuta, forse Santo Domingo come sussurrano i media. A rendere ancora più malinconica la sua parabola, la moglie Sofia, che non lo ha seguito nel suo mesto tramonto. «È un comportamento vergognoso e una frode dei confronti della nostra giustizia», ha tuonato il leader di Podemos Pablo Iglesias, un pensiero condiviso un po’da tutto il panorama politico iberico. Solamente il figlio Felipe ha salutato la decisione «con profondo rispetto e gratitudine». Frasi di circostanza però, visto che Felipe ha rinunciato alla cospicua eredità paterna per non venire più associato alla sua gestione disinvolta della ricchezza. Da alcuni mesi Juan Carlos era infatti oggetto di inchieste giudiziarie per evasione fiscale e per corruzione, il Tribunale supremo spagnolo e la magistratura svizzera indagano infatti su dei sospetti conti segreti del vecchio re, sulle società off shore su cui avrebbe depositato presunte tangenti. Come racconta la Tribune de Genève, in un articolo dello scorso marzo l’occhio degli inquirente si è posato in particolare su una tangente “monstre”, oltre 100 milioni di dollari ottenuti dall’ex re saudita Abdallah per ricompensare lo zelo con cui avrebbe favorito la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità tra La Mecca e Medina ad opera di un consorzio di imprese spagnole. Una parte di questo faraonico compenso sarebbe andato addirittura nelle tasche della sua vecchia amante, Corinna Larsen, una nobile tedesca di origine unghereseche tra le altre cose è stata l’ex consigliera della principessa Charlene di Monaco.
È stata proprio la relazione con la Larsen uno degli elementi che hanno contribuito a sgretolare la popolarità di Juan Carlos, ad assestargli il colpo fatale, non tanto per moralismo, al limite per empatia verso la povera consorte Sofia, senz’altro l lusso sfrenato del loro ménage vissuto dagli spagnoli come un autentico insulto alle loro difficoltà quotidianer. Nel 2012, quando il Paese affrontava una feroce recessione economica e subiva la pressione costante dei mercati finanziari, il sovrano e la sua amante sono infatti volati in Africa, nel Botswana, dove hanno partecipato a una battuta di caccia all’elefante costata decine e decine di miglia di euro. Alcuni fotografi passarono ai giornali le immagini di quel safari reale e in un batter d’occhio si aprì il vaso di Pandora. Un’esperienza peraltro molto sfortunata considerando che il sovrano rimediò una brutta frattura all’anca e fu rimpatriato d’urgenza a Madrid per essere operato. L’opinione pubblica venne colpita a fondo da quel monarca che aveva un’agenda privata ( e segreta) di stampo coloniale e che finanziava i suoi divertimenti in modo opaco. In quell’occasione Juan Carlos provò a respingere i colpi e fece una cosa che nessun re aveva mai fatto prima: si scusò pubblicamente con gli spagnoli: «Ho commesso un grave errore, una leggerezza sono davvero mortificato, ma prometto che questo non succederà più». Un gesto storico che però non basta più a placare i malumori che ormai serpeggiano anche tra i suoi più fedeli sostenitori. La parabola del re Borbone sembra dunque terminata. Due anni dopo il viaggio in Botswana arriva l’abdicazione al cospetto del premier popolare Mariano Rajoy in cui rinuncia alla corona lasciando il trono al figlio Felipe. Nel 2019 in una lettera indirizzata proprio a Felipe annuncia il suo ritiro definitivo dalla vita pubblica: «Credo che si venuto il momento di aprire una nuova pagina della mia vita», Peccato che si tratti della pagina più buia.
Alessia Grossi per "Il Fatto Quotidiano" – articolo del 10/03/2020. "Nella genealogia di Juan Carlos di Borbone ci sono re che furono santi e altri che furono crudeli, magnanimi, cerimoniosi, sciocchi, terribili, grandi, pazzi, belli, magnifici, giustizieri, malinconici e poco duraturi. I piselli di Mendel hanno una grande varietà tra cui scegliere. Nella monarchia si mischiano lo Stato e gli ormoni, le vicissitudini della storia e l 'avventura ovarico-seminale, non meno convulsa ". Mai descrizione fu più azzeccata di questa contenuta nel romanzo El azar de la mujer rubia di Manuel Vicente per descrivere il monarca spagnolo emerito, ritiratosi nel 2014 e giù dal trono dal 2018, tante volte già assurto alle cronache per le sue disavventure non tanto reali quanto amorose. Ultima, quella che in questi giorni lo vede accusato da un ' altra donna bionda, più famosa quasi della protagonista del libro di Vicente, la sua ex amante, anche detta "amica intima", tal Corinna Larsen, imprenditrice tedesca già divorziata da Casimir zu Sayn-Wittgenstein, della nota casata dei Sayn-Wittgenstein-Sayn. La donna ha denunciato al tribunale di Londra il re emerito per lo stalking da lei subito dal 2012 - anno della fine della storia extraconiugale del monarca - perché non rivelasse " i segreti di Stato " di cui è a conoscenza. "Dopo 8 anni di soprusi, che hanno coinvolto anche i miei figli e visto che non se ne vede la fine, non mi resta altra opzione che intraprendere le vie legali " , ha dichiarato al tabloid britannico Daily Mail la tedesca additata nel 2012 come l 'organizzatrice dei " famosi " safari del re Juan Carlos in Botswana a estinguere gli elefanti. Nella denuncia la bionda rivale della regina Sofia tira in ballo anche i servizi segreti spagnoli, che a detta sua, non appena svelata dalla stampa scandalistica la relazione particolare con il monarca, avrebbero occupato il suo appartamento di Monaco con la scusa di darle protezione. "Insistettero affinché non parlassi. Mi inviavano e-mail, utilizzando uno pseudonimo nelle quali mi spiegavano che parlare con i media sarebbe stato devastante per la mia immagine. Mi sembrò una minaccia: avrebbero distrutto la mia immagine se non avessi collaborato. E infatti così è stato". Ma non si tratta di screzi d'amore, né tutto è cronaca rosa. È di due giorni fa la notizia ricostruita dal quotidiano iberico online eldiario.es che l 'Anticorruzione spagnola ha inviato formale richiesta al Tribunale di Ginevra per conoscere le ragioni che hanno portato la Svizzera ad aprire un 'inchiesta sui 100 milioni di dollari provenienti dall 'Arabia Saudita e arrivati a una fondazione svizzera che il giudice identifica con l 'ex re Juan Carlos. Di questi, 65 milioni di euro sarebbero stati trasferiti a loro volta su un conto bancario di Corinna Larsen. Motivo? Stando all 'avvocato dell'imprenditrice si tratterebbe di "un regalo non richiesto ricevuto dal re emerito" . Secondo il procuratore Bertossa, invece, potrebbe trattarsi di parte della " commissione " che l ' ex sovrano le doveva per aver seguito con lui l ' assegnazione dell'appalto del treno Ave (alta velocità) alla città della Mecca a favore di aziende spagnole, tra cui Ohl, impresa dell 'amico di Juan Carlos, Juan Miguel Villar. Non si tratta di un tema nuovo: "i due intimi amici " erano stati già messi sotto inchiesta dopo che erano trapelate le intercettazioni illegali con il commissario Villarejo (ora in prigione) nelle quali Corinna parlava di "commissioni milionarie " per l 'Ave della Mecca richieste dal ex re "non in grado di distinguere ciò che legale, da ciò che non lo è". Tuttavia questa inchiesta era stata archiviata " perché non suscettibile di condanna penale " e perché il re all'epoca non aveva ancora abdicato e quindi era inviolabile. Peccato che ora il monarca emerito non goda di immunità a Londra. Motivo per cui la denuncia di Corinna potrebbe avere seguito oltreché per il fatto che il legale della donna è James Lewis, uno degli avvocati che rappresenta gli Stati Uniti nel processo di estradizione di Julian Assange. All' ex " regina " non mancano neppure legami con personalità di spicco di tutta Europa. Nel palmares delle amicizie, secondo Vanity Fair Spagna, compare anche la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, con la quale Corinna ha assistito al concerto del figlio Alvise a New York e alla festa all 'ambasciata italiana a Mosca in onore del direttore d ' orchestra russo, Valeri Guérguiev. Per non parlare del legame con Alekséi Leonídovich Kudrin, ex ministro delle Finanze russo preposto da Putin a titolare della Commissione anticorruzione in quanto suo uomo di fiducia. O delle sue amicizie artistiche, tra cui spunta la top model Natalia Vodianova, sua socia in una app di beneficenza nonché moglie di Antoine Arnault, erede dell'impero del lusso Lvmh.
Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2020. In stile Lady D, Corinna Larsen ha scelto la Bbc di Londra, dove vive, e i peggiori giorni della Casa reale spagnola, per vuotare il sacco. A poche ore dalla conferma ufficiale del temporaneo trasferimento del re emerito Juan Carlos I di Borbone ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, l'«ex amante», o «ex amica» a seconda delle definizioni più o meno indulgenti della stampa spagnola, parla ai microfoni della tivù pubblica britannica, perché la magistratura (svizzera e/o spagnola) intenda. Ne risulta il ben calibrato resoconto sentimental-finanziario di una relazione poco segreta durata cinque anni e culminata con il disgraziato safari all'elefante in Botswana, preludio dell'abdicazione due anni dopo in favore del morigerato principe Felipe. Avveduta donna d'affari tedesca, di origini danesi, Corinna Larsen, 55 anni, 27 meno dell'ex sovrano, si presenta come una vulnerabile madre single, sedotta dalle attenzioni del re casanova che prometteva improbabili nozze. E infine le ha elargito, a fiamma già spenta, un presente per il figlio da 65 milioni di euro con un bonifico alle Bahamas da un deposito svizzero di cento milioni di dollari provenienti dall'Arabia Saudita. Che, di tutta la romantica vicenda, è il passaggio più interessante per la Procura di Ginevra, la Corte suprema spagnola e l'Agenzia delle Entrate a Madrid. Il feuilleton inizia a una battuta di caccia, nel febbraio 2004, quando Juan Carlos resta affascinato dall'abilità balistica della neo divorziata principessa zu Sayn-Wittgenstein-Sayn, che gli aggiusta in un batter d'occhi il fucile inceppato. Inizia così un flirt nutrito per mesi di lunghe telefonate fino al primo fatale appuntamento estivo a Madrid: «Ridevamo sempre tanto insieme - ricorda l'intesa immediata Corinna Larsen -. Avevamo tanti interessi in comune: la politica, la storia, il cibo eccellente, i vini...». Lei sta a Londra, lui a Madrid o in giro per rappresentanza e la chiama «fino a 10 volte al giorno», precisa la nobildonna con tenerezza retrospettiva. Certo, lei si preoccupava della consorte ufficiale, la regina Sofia, ma lui la tranquillizzava: «Mi disse che avevano un accordo per rappresentare la corona, ma che conducevano vite completamente diverse e separate. Il re era appena uscito da una relazione quasi ventennale con un'altra donna che aveva occupato un posto importante nel suo cuore e nella sua vita». Comunque sia, la nuova coppia non era poi così clandestina: Juan Carlos incontrava i figli di Corinna, che vedeva quelli del monarca e compariva in foto al suo seguito nei viaggi ufficiali. Finché all'inizio del 2009 il re si è presentato a Finn Bönning Larsen, per manifestargli la serietà delle sue intenzioni verso la figlia: «Gli disse che era molto innamorato di me e che intendeva sposarmi» svela via Bbc ai sudditi spagnoli l'ex fidanzata del re. Assicurando di averlo ricambiato con uguale trasporto, e maggiore lucidità sull'ipotesi di un divorzio reale: «Prevedevo, da stratega politica, che ciò sarebbe stato difficile. E che avrebbe destabilizzato la monarchia». Preoccupazione che non ha più, adesso, quando dettaglia di aver interrotto la love story perché al funerale del padre, pochi mesi dopo aver richiesto al caro estinto la sua mano, il re le confessò intempestivamente di avere da 3 anni anche un'altra amante. Molto più riservata sugli aspetti patrimoniali del loro legame, che si è trasformato in amicizia e poi in ostilità, Frau Larsen non chiarisce l'origine del monumentale dono pecuniario offertole da Juan Carlos nel 2012. Una tangente saudita? «Questo lo dirò al procuratore svizzero». E s' irrigidisce all'idea di doverlo restituire se risultasse frutto di malversazioni: perché proprio quei soldi, pegno d'amore, con tutti i fondi neri della famiglia reale forse sparsi nel mondo?
Parla l'ex amante di Juan Carlos: "Il re mi regalò 65 milioni di euro". Corinna Larsen, ex amante di Juan Carlos di Spagna, ha raccontato in esclusiva alla Bbc della sua relazione con l'ex sovrano e di un "generoso" dono da 65 milioni di euro. Mariangela Garofano, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. A pochi giorni dalla “fuga” di Juan Carlos ad Abu Dhabi, ecco che l’ex amante del re emerito racconta particolari che potrebbero inguaiare ulteriormente la situazione dell’ex sovrano spagnolo. La bionda Corinne Larsen ha affidato le sue rivelazioni alla Bbc, a cui ha raccontato che Juan Carlos voleva sposarla e che le fece un “generoso” regalo da 65 milioni di euro provenienti da un misterioso conto corrente saudita, versati su un conto delle Bahamas. L’intervista della Larsen contribuisce ad agitare le acque della monarchia spagnola, che ultimamente sta vivendo un difficile momento, a causa delle indagini che la procura svizzera e quella spagnola hanno avviato sugli strani movimenti finanziari dell’ex sovrano. “Ridevamo così tanto insieme. Avevamo tanti interessi in comune: la politica, la storia, il cibo eccellente, i vini”, racconta l’elegante Larsen, parlando dei tempi felici della relazione con il più anziano, ma affascinante sovrano di Spagna. La scintilla tra i due scoccò ad una battuta di caccia nel 2004, quando il re, famoso per essere un don Giovanni, rimase stregato dagli occhi blu della donna. Seppur sposato con la regina Sofia, Juan Carlos disse alla Larsen di non preoccuparsi e che “avevano un accordo matrimoniale per rappresentare la corona, ma conducevano due vite separate”. “Juan Carlos era appena uscito da una relazione durata vent’anni”, prosegue la Larsen. La coppia inizia una relazione sotto gli occhi di Sofia, moglie devota di un uomo, che non le nascose mai le sue scappatelle. Corinna diventa così intima a corte, che conosce anche i tre figli del re, il quale a sua volta frequenta i figli della sua amante. Il rapporto prende una piega sempre più seria, quando nel 2009, racconta Corinna, Juan Carlos si presenta dal signor Finn Bönning Larsen, per chiedergli la mano della figlia. “Disse a mio padre che era innamorato di me e che intendeva sposarmi”, rivela la donna alla Bbc, aggiungendo però che “da stratega politica, sapevo che sarebbe stato difficile e che ciò sarebbe stato uno scandalo per la monarchia”. La relazione si interromperà poco dopo, quando al funerale del padre, il sovrano donnaiolo le confesserà di avere un’altra amante da tre anni. Di quella relazione a Corinne Larsen rimane quel “dono” da 65 milioni di euro, che oggi interessa alla Procura di Ginevra a quella di Madrid e all’Agenzia della Entrate spagnola. “Di questo ne parlerò alla procura”, taglia corto la Larsen, a proposito dell’ingente somma ricevuta dall’ex sovrano, a cui potrebbe essere costretta a rinunciare.
DAGOREPORT il 21 agosto 2020. Sposato con la regina Sofia dal 1962, era l'archetipo di Casanova: bello, titolato, abbronzato e ricco. Cinque anni fa uno scrittore spagnolo affermò che Juan Carlos aveva messo a letto 1.500 donne (tra le quali Gabriella di Savoia e Olghina di Robilant). All'inizio di quest'anno un libro di Amadeo Martinez Ingles, un ufficiale dell'esercito spagnolo in pensione, svela "la vera storia di un re amorale, senza scrupoli, spudorato, ambizioso, autoritario" che "ha avuto migliaia di avventure sessuali". Fino a 5.000, proprio come il suo omonimo, il seduttore Don Juan. Ingles ha affermato che le storie d'amore di alto profilo dell'ex re "rappresentano solo la punta di un monumentale iceberg sessuale" e che durante il "periodo senile" tra i 67 e i 76 anni, dal 2005 al 2014, quando si credeva che il testosterone avesse "rallentato" la corsa, Juan Carlos aveva ancora 191 amanti. Il libro lo etichetta "un autentico stallone reale", un "monarca che potrebbe aver lasciato più di 20 figli". Juan Carlos, tanto per non farsi mancare nulla, ci avrebbe provato anche con Lady Diana, ma senza successo. I due si sono incontrati nel 1986, quando Carlo e l'allora consorte si recarono in vacanza in Spagna. Date le avance di Juan Carlos, Lady D disse al suo bodyguard che lui la desiderava. La Spencer, anni più tardi, confessò di trovare il re iberico molto affascinante, ma troppo pressante. Nell'elenco delle 5mila amanti, allora, non c'era posto per Diana. Il giovedì santo del 1956, durante le vacanze di Pasqua a Estoril, Juan Carlos e il fratello Alfonso stavano giocando con una pistola nella sala giochi della villa dei loro genitori. Quello che è successo dopo non è chiaro, ma ha provocato la morte di Alfonso. Il giorno successivo l'Ambasciata di Spagna a Lisbona, sotto la direzione di Franco, ha rilasciato una dichiarazione ambigua: "Mentre Sua Altezza l'Infante Alfonso stava pulendo una rivoltella con suo fratello, un colpo è stato sparato colpendolo sulla fronte e uccidendolo in pochi minuti". I commenti successivi, tuttavia, dalla madre dei ragazzi, Doña María, la sua sarta e un amico di famiglia, hanno suggerito che Juan Carlos aveva in mano la pistola, che pensava non fosse carica. Il Re non ha mai negato la sua responsabilità o offerto una spiegazione, ma come un suo conoscente di lunga data, ha detto: "Lo ha segnato per tutta la vita". Suo padre, il danese Finn Bonning Larsen, era il direttore europeo della Varig, la compagnia aerea nazionale brasiliana; sua madre, Ingrid Sauer, era di Francoforte, dove Corinna è nata il 28 gennaio 1964. Cresciuta tra Francoforte e Rio de Janeiro e ha frequentato scuole femminili in Germania e Svizzera. Dopo la laurea presso l'Università di Ginevra, nel 1987, è andata a lavorare per L'Oréal a Parigi dove gestiva i rapporti istituzionali delle grandi aziende. Ha incontrato il suo primo marito, Philip Adkins, laureato alla Columbia e ad Harvard, a Parigi nel 1989; si sposarono l'anno successivo e si stabilirono a Londra. Nel 1992, la coppia ebbe una figlia, Anastasia. I due divorziarono tre anni più tardi, nel 1995, ma sono rimasti amici e soci in affari. Adkins era al safari in Botswana con Juan Carlos, così come il figlio Kyril di 10 anni di Corinna dal suo matrimonio con Sayn-Wittgenstein. La vispa Corinna ebbe quindi una relazione con Gert-Rudolf Flick, milionario residente in Svizzera, nipote del fondatore di uno dei più grandi conglomerati industriali della Repubblica Federale Tedesca (che include ad esempio la Mercedes-Benz) e che già aveva divorziato e si era risposato tre volte. Quando ha incontrato il re di Spagna con il duca di Westminster nel 2004, aveva recentemente rotto con il suo secondo marito, il principe Casimir zu Sayn-Wittgenstein-Sayn, che aveva sposato quattro anni prima. ("La sua famiglia era sbalordita", ha detto il jet-set.) Malgrado il divorzio nel 2005, Corinna ha continuato a usare il suo blasonato nome da sposata senza il consenso della famiglia, fatto che è stato motivo di scontri legali. La relazione di Corinna con il re è iniziata apparentemente su base professionale, quando lui la chiamò e le chiese di organizzare il viaggio di nozze del principe Felipe e della principessa Letizia nel maggio 2004 in Giordania, Thailandia e Fiji. "Abbiamo finito per parlare al telefono per alcuni mesi", ha rivelato in un’intervista. "Il primo appuntamento era all'inizio dell'estate. Abbiamo sempre riso molto. Avevamo molti interessi comuni: politica, storia, cibo fantastico, vini..."All'epoca vivevo a Londra, avevo appena avviato la mia attività di consulenza. Ed ero una madre single di due figli. Quindi ci saremmo incontrati a Madrid in un piccolo cottage nella tenuta più grande, e abbiamo viaggiato insieme. "Nel primo anno è stato più difficile perché ero molto impegnato e lui aveva un fitto programma, ma mi telefonava fino a 10 volte al giorno. Voglio dire, è stato subito un rapporto molto forte, profondo e significativo". Ad un certo punto, la tedesca in calore chiede ‘’notizie’’ della moglie, che fine ha fatto la regina Sofia. "Mi ha detto che avevano un accordo per rappresentare la corona, ma hanno condotto vite totalmente diverse e separate. E il re era appena uscito da una relazione di quasi 20 anni con un'altra donna che aveva anche un posto molto importante nel suo cuore e in la sua vita". (La storia del re con Marta Gaya era un segreto di Pulcinella a Madrid negli anni '90). Grazie al suo lavoro presso Boss & Co., produttori di armi ‘’su misura’’ per i ricchi di Londra, organizzò due safari in Mozambico per il re, nel 2004 e nel 2005, "sempre al suo fianco". Da allora, ha detto un insider reale, è stata un'ospite regolare nei fine settimana di caccia alle pernici che Juan Carlos ospitava ogni primavera nella sua tenuta di campagna, a sud di Madrid. Boris Izaguirre, un popolare giovane personaggio televisivo di Madrid, ha ricordato che le voci sulla fidanzata del re sono iniziate quattro o cinque anni fa: "A quanto pare, Corinna ha preso la manicure che tutte le grandi signore di Madrid usano nei viaggi con il re, e la gente ha iniziato a chiedere, "Chi è questa donna tedesca che viaggia con il re?" Poi sono arrivate le storie sulla casa nel complesso del palazzo El Pardo. Il re l'ha ristrutturata e la gente diceva che era la casa di Corinna e che lui era sempre lì con lei ei suoi figli. Dispone di due piscine, una interna, e di un parcheggio sotterraneo. El Mundo ha pubblicato tutte queste cose e in parlamento sono state poste domande su chi ha pagato per la ristrutturazione. La famiglia reale ha risposto che ‘’la casa è stata utilizzata per gli ospiti stranieri". Più seriamente, la stampa ha iniziato a chiedere perché Sayn-Wittgenstein, che ha lasciato Boss & Co. nel 2006 per avviare la sua società di consulenza, Apollonia Associates, abbia accompagnato il re in viaggi all'estero, tra cui Germania, Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti. Corinna racconta anche come è finita la sua storia d'amore con il re: "Subito dopo il funerale di mio padre, il re mi ha detto che aveva una relazione con un'altra donna da tre anni. Ero letteralmente devastata, era l'ultima cosa che mi aspettavo, dopo che mi aveva chiesto sposarlo". Quando il re avrebbe dovuto subire un'operazione nel 2010, zu Sayn-Wittgenstein dice di averle chiesto di essere in ospedale con lui. "Ho dormito su un divano accanto al suo letto prima dell'intervento perché era molto nervoso", dice. "Ma la biopsia ha mostrato che il tumore era benigno". Poi arrivò la famiglia del re. "Mi è stato chiesto senza tante cerimonie di andarmene da un membro non così gentile del suo staff", ricorda. "Quando la regina Sofia e alcuni cortigiani si resero conto di quanto fosse serio il re nei miei confronti, si era sviluppato un livello piuttosto elevato di ostilità." Dopo questa traumatica rottura, però Corinna ha continuato la sua amicizia con il monarca e nel 2012 dice che fu incaricata di organizzare il rimpatrio di Don Juan Carlos dal Botswana dopo aver subito la famosa caduta a caccia di elefanti che avrebbe significato l'inizio del caduta in disgrazia del re e la pubblicazione della natura della loro relazione dal 2004. I sospetti sono stati sollevati dopo che la storia del Botswana è scoppiata, quando El Mundo ha riferito che Mohamed Eyad Kayali, il re e ospite del safari di Corinna, era il "braccio destro" del principe Salman bin Abdulaziz Al Saud, il ministro della difesa saudita, che aveva "risolto l'accordo da 9 miliardi di dollari per un consorzio di aziende spagnole per la costruzione della ferrovia ad alta velocità tra La Mecca e Medina’’. L'amante tedesca ha affermato che il versamento di 65 milioni di euro da parte del re Juan Carlos era "un regalo generoso e un riconoscimento di quanto ho significato per lui". In una rara intervista, Corinna Zu Sayn-Wittgenstein ha raccontato alla BBC come il monarca ha cercato di riconquistarla due anni dopo averle dato i soldi ed è "impazzito" quando lei lo ha respinto e ha chiesto indietro i suoi 65 milioni. Attualmente Corinna Sayn-Wittgenstein è residente a Monaco. Nell'estate del 2013 è stata prescelta dalla principessa Charlene di Monaco quale consigliera personale e consulente per la sua immagine. Mentre il principe Alberto ha pensato bene di arruolarla come ‘’consulente d’affari’ (ma anche qui le malignità si sprecano).
Juan Carlos, il Re pasticcione che salvò la Spagna. Angela Nocioni su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Maldestro è sempre stato. Non riesce a chiunque di andare in luna di miele segreta in Botswana, cadere in piena notte dal lettone della capannetta di lusso e finire su tutti i giornali del mondo con l’anca rotta e la faccia da vecchio europeo gnoccolone in Africa. Col fucile da guerra imbracciato accanto a una signora bionda dalla pelle candida, posa ancién regime in piena caccia all’elefante. Molto Alberto Sordi. Da tener riservata, quella volta, buio 2012 – crisi economica a Madrid, spagnoli imbufaliti attaccati ai rotocalchi da salone del parrucchiere a scolarsi i dettagli della figuraccia reale – non era tanto l’amica tedesca, stranota, alla quale la Regina Sofia ha delegato volentieri per anni il lavorone di accompagnare il marito in ogni dove, eventi compresi. Quanto la compagnia di certi amici sauditi. Da lì, poi, i guai di queste ore. Valigie varie con milioni di petrodollari inguattati dall’ex sovrano in Svizzera. Il fatto è che Juan Carlos I dei Borboni – l’elemento più scandaloso della scalcagnata corona spagnola – non voleva fare il re. Avrebbe di gran lunga preferito nascere Julio Iglesias. Avere gli applausi, l’appeal e il codazzo di fans d’una pop star anni Ottanta. E invece, ostaggio per lungo tempo dei tira e molla tra suo padre e Francisco Franco, alla fine gli è toccato il trono. A dedazo, dicono gli spagnoli, cioè su indicazione esplicita del dittatore, nemmeno per successione diretta. Ed è stata la fortuna degli spagnoli perché lui, fanfarone e gaffeur, ha garantito nel 1978 alla cattolicisisima Spagna, piena zeppa di fascistoni ora, figuriamoci allora, la transizione alla democrazia, con i comunisti tirati dentro. L’ha fatto da erede al trono designato. Mica da anarchico izquierdista. E s’è inventato giorno per giorno, all’impronta, un passaggio incruento di regime, smontando il franchismo attraverso le leggi franchiste, quelle stesse leggi che garantivano la legittimità del suo potere, senza regalare mezza chance ai militari scalpitanti, quando la struttura e gli uomini della dittatura – il Bunker si chiama, il deep state nero – erano pronti a prendersi il governo. Tanto convinti di farcela che nel 1981 hanno tentato il golpe. Era il 23 febbraio, se sembrò un colpo di Stato da operetta è perché non riuscì. Juan Carlos annusò l’aria, con la rivoluzione dei garofani in Portogallo ormai andata e i colonnelli greci finiti, seppe convincere i golpisti a lasciar perdere. Ma la democrazia non era inevitabile in Spagna allora, era solo una delle possibilità. Poi, là come qua d’altra parte, i fascisti son diventati in un battibaleno tutti riformisti, nello specifico là si sono riciclati alla svelta nelle braccia spalancate del partito popolare di cui hanno costituito e costituiscono ancora la non trascurabile nerissima maggioranza. Quindi buoni un attimo prima di liquidare come avanzo della storia l’ottantaduenne Juan Carlos. Il vecchio che con sguardo acquoso sorride comprensivo ai figli che lo detestano. Se a Madrid dopo la morte di Franco non ci sono stati spari casa per casa parecchio del merito è suo. Del patetico e un po’ buzzurro re di Spagna. Vuoi mettere lui, un pasticcione capace di uscite fulminanti (memorabile quel “perché non ti stai zitto?” urlato a Hugo Chavez in piena logorrea durante un incontro di capi di stato spocchiosi ma muti) vuoi mettere lui con quel lungaccione mesto mesto di suo figlio Felipe, Felipe VI? Quello che come somma rivolta non è riuscito a far altro che sposare una giornalista borghese, la reportera Leticia, la quale dopo sei anni da regina ancora cammina sempre tre passi davanti al marito calpestando il protocollo? Quel Felipe che, dopo aver accettato sempre a muso lungo la corona grazie all’abdicazione paterna nel 2014, ha tolto al padre scavezzacollo anche i 194.232 euro l’anno che gli spetterebbero come ex sovrano cercando così di ingraziarsi i repubblicani spagnoli che lo odiano lo stesso? Grosse miserie umane alla corte di Spagna. Pedro Sanchez, il premier socialista, lo sa, e ieri era tutto un inchinarsi del capo del governo più di sinistra (sulla carta) della Spagna democratica al ruolo fondamentale avuto dalla monarchia nei passaggi delicati della storia recente. Mentre il re Felipe VI, con quell’aria da ragioniere affranto anche quand’è coperto di mostrine come un cavallo da parata, ringraziava via etere il padre per essersene finalmente andato definitivamente all’estero. Juan Carlos era già lontano. In un resort nella repubblica dominicana pare. Scappato nottetempo per fare l’ennesimo regalo al figlio ingrato. Per non complicare la vita al re senza talento con l’eco del suo ultimo scandalo. Niente di nuovo nello scandalo. La faccenda saudita si conosce da mesi. Sono solo stati rivelati quattro pompatissimi dettagli su una sostanziosa fortuna arrivata a rate in valigia a Juan Carlos dal Medio Oriente, una fortuna mai dichiarata. L’ex re è accusato da tempo di aver convinto l’impresa spagnola che ha realizzato il treno veloce per la Mecca a fare un sostanzioso sconto ai committenti sauditi. Che l’hanno ricompensato per il favore. Ha facilitato un affare, lo fanno gli ex governanti di mezzo mondo. Solo che lui i soldi s’è, diciamo, scordato di dichiararli . L’ha fatti sparire prima in Svizzera, in un fondo che alla sua morte doveva andare al figlio. Poi in parte l’ha affidati alla signora tedesca. Felipe VI, inorridito quando il dettaglio sul suo ruolo passivo è stato svelato, ha rinunciato all’eredità. Sapendo benissimo che la mossa non ha alcun effetto se non d’immagine perché il codice civile non consente di rinunciare a un’eredità quando ancora non è morto nessuno. Tristissimo il comunicato della Casa Reale: “Rifiuto fin d’ora di ricevere in eredità qualsiasi cifra, investimento o struttura finanziaria le cui origini, caratteristiche e finalità possano non essere consone alla legalità e ai criteri di rettitudine e integrità che reggono e devono caratterizzare l’attività istituzionale e privata della Corona”. A dare il via ai fuochi d’artificio attorno al vecchio re emerito fuorilegge sono state, ormai quattro anni fa, le voci sulla confessione a puntate data da Corinna Larsen, l’apparentemente esausta ex amante tedesca dell’ex sovrano, al commissario Josè Manuel Villarejo, poi arrestato per spionaggio. “Ogni volta che viaggia in Medio Oriente torna con moltissimo denaro”, fu la prima frase della Larsen finita sui giornali. I realtà a viaggiare era il suo avvocato. La seconda: “E al Palacio de la Zarzuela c’è una macchina conta soldi”. Come a casa di un truffatore di serie B, gridarono tutti, e quello è il Palazzo reale. Ritardando appena un po’ l’uscita di scena, Juan Carlos alla fine s’è levato di torno. Sempre inseguito dal coro che dal 20 novembre 1975, morte di Franco, lo descrive come “intellettualmente non all’altezza del ruolo”. Santiago Carrillo, segretario del partito comunista spagnolo dal 1960 al 1982, uno di quelli che lo pensava non in grado e poi ammise d’aver cambiato idea, tempo fa raccontò che Juan Carlos, già re, gli confidò: “Per vent’anni ho dovuto far finta d’essere scemo, guarda amico mio che non è mica facile”.
DAGONEWS il 5 agosto 2020. La fuga di quel mandrillone di Juan Carlos dalla Spagna è solo l’ultimo atto di una vita sopra le righe, a tratti epica, soprattutto sotto le lenzuola. Secondo lo storico Amadeo Martinez Ingles il re emerito ha avuto nella sua “carriera” da scopone qualcosa come 5mila partner sessuali, lasciando in giro per il mondo almeno 20 figli non riconosciuti. Una storia che si perde nella leggenda: a partire dal suo breve periodo in accademia militare, quando aveva 20 anni e avrebbe sedotto 332 donne diverse. Durante un breve periodo all'accademia militare, poco più che ventenne, Juan Carlos ha sedotto 332 donne diverse, secondo Ingles, la cui ricerca si è basata su rapporti riservati compilati dalle spie dell'ex dittatore del paese, il generale Franco. La sua media dei bei tempi farebbe impallidire Rocco Siffredi: quattro a settimana. Un'altra biografa non autorizzata, la socialite spagnola Pilar Eyre, in un libro del 2012 aveva ridimensionato la conta a 1500. Una cifra che, secondo Ingles, sottostimerebbe (addirittura) l’attività pelvica del toro di Spagna che sarebbe riuscito a giacere con 2.154 donne soltanto dal 1976 al 1994. Anche nel suo cosiddetto 'periodo invernale', dal 2005 al 2014, cioè alla veneranda età di 67-76 anni, la libido del Re non ha accennato a spegnersi: in quei 9 anni ha allettato altre 191 donne. Nel libro di Pilar Eyre c’è anche un dettaglio piccante su Lady D: secondo la biografa del re, il trombador Borbone ci avrebbe provato anche con la Principessa Diana. Era il 1986 e durante un viaggio in barca a vela avrebbe fatto delle avance “tattili”. Insomma, ha allungato le mani, ma avrebbe anche in quel caso portato a casa il risultato.
(Agenzia Nova il 5 agosto 2020) - Nelle indagini che vedono coinvolto l'ex monarca spagnolo Juan Carlos, c'è un nome ricorrente e centrale che ha giocato un ruolo fondamentale in tutta la vicenda: Corinna Larsen, 56 anni, ex amante del re emerito. Di lei si sa poco, ma secondo le cronache rosa spagnole, i due si sarebbero conosciuti nel 2004, durante una caccia a La Garganta, una tenuta a Ciudad Real di proprietà del Duca di Westminster, nel 2005, durante una gara di tiro a segno, o probabilmente nel 2006, in occasione di una cena a Ditzingen, in Germania. Se, dunque, non è possibile stabilire una data certa del loro primo incontro, la stampa specializzata concorda nel ritenere che entrambi, nonostante i 26 anni di differenza, avrebbero avviato una relazione amorosa clandestina. Entrambi, infatti, erano impegnati sentimentalmente. Juan Carlos con la regina emerita Sofia, figlia del re Paolo di Grecia e della regina Frederica, Corinna Larsen con il principe tedesco Casimir zu Sayn-Wittgenstein, suo secondo marito. Corinna Larsen, figlia del danese Finn Bönnig Larsen, che era stato il direttore europeo della compagnia aerea brasiliana Varig, e della tedesca Ingrid Sauerland. Ingrid sarà proprio il nome in codice che gli accompagnatori di La Zarzuela (la residenza della famiglia reale) avrebbero dato a Corinna quando si stabilì a El Pardo, a soli 20 chilometri dal palazzo reale. A 25 anni aveva sposato l'uomo d'affari britannico Philip Adkins, conosciuto quando lavorava per una multinazionale a Parigi e con il quale ebbe una figlia, Anastassia. Secondo le cronache rosa spagnole, Corinna, sin da giovanissima avrebbe cercato di frequentare i più importanti circuiti dell'aristocrazia europea, riuscendo ad accedere a quel mondo esclusivo. La storia d'amore tra Corinna e Juan Carlos, rimasta segreta per diversi anni, venne alla luce in seguito alla pubblicazione ne 2012 di una foto che li ritraeva insieme in Botswana durante una battuta di caccia immortalati accanto ad un elefante appena abbattuto. Un'immagine che fece il giro del mondo e che fece venire alla luce un relazione della quale si "mormorava" fino a qual momento solamente negli ambienti più vicini alla nobiltà internazionale. Durante quella cruciale giornata, Juan Carlos si ruppe un'anca in tre punti e, una volta rientrato in Spagna per essere operato, fu costretto ad ammettere davanti alla stampa di "aver commesso un errore" e che "non si sarebbe ripetuto". Quella vicenda, tuttavia, segnò l'inizio della fine del regno di Juan Carlos che nel 2014 decise di abdicare, dopo 38 anni, in favore del figlio Felipe per tentare di rilanciare l'immagine della Corona. Nel 2006 Corinna era stata era stata ricevuta con gli onori militari all'aeroporto di Stoccarda, camminando dietro al re e nello stesso anno, pochi mesi prima dell'apertura della gara d'appalto per il contratto di costruzione del treno ad alta velocità per la Mecca, (poi vinto da un consorzio di società spagnole), si era recata in Arabia Saudita in compagnia del monarca e di Shahpari Zanganeh, commissario ed ex moglie del trafficante d'armi saudita Adnan Khashoggi. Proprio i lavori di costruzione della linea ad alta velocità sono al centro della principale inchiesta che vede coinvolto il re emerito. Il 9 giugno scorso il quotidiano "El Pais" aveva pubblicato un'esclusiva secondo la quale il giudice svizzero, Yves Bertossa, aveva avviato un'indagine nei confronti di Juan Carlos in seguito al ritrovamento studio dell'avvocato ginevrino Arturo Fisana di documenti che proverebbero l'esistenza della fondazione panamense Lucum con un conto, il cui primo beneficiario era Juan Carlos, aperto presso la banca svizzera Mirabaud, sul quale era stato effettuato un versamento, l'8 agosto del 2008, di 64,8 milioni di euro frutto di una donazione della casa reale saudita. Prima della chiusura del conto nel giugno 2012, tutto il denaro era stato trasferito ad un altro deposito alle Bahamas a nome di Corinna Larsen, all'epoca amante del sovrano. Il giudice starebbe indagando anche su altri due pagamenti milionari sempre sul conto della banca Mirabaud. Il primo da 1,9 milioni di dollari che Juan Carlos avrebbe portato in una valigia a casa dell'avvocato Fasana nel 2010, al ritorno da un viaggio ad Abu Dhabi, il secondo da 4,6 milioni di euro versati dallo Stato del Kuwait. Nel 2019, Corinna avrebbe inviato una lettera alla Casa reale, rivelando che, due anni dopo la donazione da 64 milioni di euro, il re Juan Carlos le avrebbe chiesto di restituire il denaro, sostenendo di aver rifiutato per paura di essere accusata di reati finanziari. Un rifiuto che, secondo l'ex amante, provocò una dura reazione da parte del re emerito che l'avrebbe accusata di averlo derubato. Tuttavia, la lettera inviata alla Casa reale non ottenne gli effetti sperati. Dal Palazzo reale, infatti, le avrebbero risposto di essere pronti ad avviare un'azione legale se avesse coinvolto Felipe VI nelle operazioni del padre e di "non essere a conoscenza" delle vicende a cui alludeva.
Valeria Braghieri per “il Giornale” il 5 agosto 2020. «La volontaria partenza di Juan Carlos non ha tanti precedenti. Forse l'allontanamento più simile, nel passato, è stato quello di Carol di Romania, negli anni Venti. Lasciò il trono al figlio Michele, che allora aveva pochi anni, sotto la tutela della madre, la regina Elena, zia di Amedeo d'Aosta, per fuggire con Magda Lupescu. Un giorno ci ripensò, tornò e si riprese il trono. Ma su di lui non pendevano accuse». Distingue bene le grandi fughe dei reali di oggi e di ieri, il professor Domenico Savini, storico delle famiglie Reali. Perché hanno avute tutte ragioni o travagli differenti.
Per esempio? Che ragioni e che travagli?
«Penso alla fuga di Elisabetta d'Austria, Sissi. Un'eterna fuga da se stessa. Fu quella che fece più scalpore, sia per l'epoca, sia per il personaggio (erano gli anni '50 dell'800 ed era una donna che anticipava i tempi). Dopo soli quattro anni di matrimonio, adducendo ad una salute «fragile», si imbarcò sullo yacht imperiale e salpò per Madeira, dove restò sei mesi. Da allora, presenziò ai suoi doveri imperiali e matrimoniali il minimo indispensabile. Comprò una casa a Corfù e da lì viaggiò, meglio, fuggì tutta la vita».
In che senso fuggì da se stessa?
«Credo che fosse troppo giovane per il ruolo e avesse poca attitudine per i doveri di corte. Cercò la libertà, e se stessa, tutta la vita. E pagò un prezzo altissimo: fu uccisa da un anarchico in Svizzera».
Altre fughe simili?
«Beh, in un certo senso Lady D. Forse la sua stessa morte fu una fuga dal ruolo che non reggeva, dalla famiglia reale, dalle restrizioni, da un matrimonio fallito... e in un certo senso aprì la strada al figlio».
Al figlio?
«Anche quella dei duchi di Sussex, questa primavera, è stata una fuga. Più per Harry che per Meghan. Lei in realtà è tornata alla sua vita, per lui si è trattato di fuga».
Altri tipi?
«Quella clamorosa del Duca di Windsor, Edoardo VIII, per sposare Wallis Simpson. Anche se forse, non c'erano solo ragioni sentimentali, la sua malcelata simpatia per il nazismo fece il resto. Infatti come prima cosa, una volta sposato, andò a salutare Hitler con la neo moglie».
E quella dei Savoia?
«Quella dei Savoia non fu una fuga, fu un obbligo. Ma io sono indulgente, sia per l'amicizia che mi lega alla famiglia, sia per il profondo rispetto nei confronti di Umberto. Sarebbe stato il miglior Re d'Italia e non si sarebbe mai allontanato. Lo fece per obbedire al padre: i Savoia regnano uno alla volta».
Lo scià di Persia?
«Quella fu una necessità, come ogni volta che si assiste a un cambio di regime. Tra l'altro, quando iniziò la fuga, lui era malato terminale di cancro e non c'era un Paese disposto ad accoglierlo perché era un personaggio scomodo. Subito iniziavano proteste contro di lui, una volta, negli Usa, anche sotto all'ospedale dov' era ricoverato. Ranieri di Monaco fu ospitale con lui. E ovviamente l'Egitto, infatti morì al Cairo un anno e mezzo dopo».
I fuggitivi finiscono sempre in disgrazia?
«No. Penso a tanti membri delle famiglie imperiali russe che riuscirono ad anticipare la Rivoluzione, e poi al principe Jusupov che partecipò all'uccisione di Rasputin, lui riuscì ad andarsene portando via la sua inestimabile collezione di quadri».
L'aneddoto più divertente?
«È legato alla fuga di Maharani di Baroda. Alla caduta del marito, il Maraja di Baroda, fuggì dall'India sul suo jet privato con una cassa piena di rubini e incredibili gioielli. A bordo c'erano lei, il pilota e l'aiuto pilota che, la minacciarono con una pistola ordinandole di consegnare tutto: diversamente l'avrebbero uccisa. In tutta risposta, lei estrasse dalla borsetta un'altra pistola: Allora moriremo tutti e tre, fu la risposta. Visse tutta la sua vita all'Hotel de Paris di Montecarlo».
La “fuga” di Juan Carlos I e l’indignazione della Spagna. Iglesias: “Frode contro la giustizia”. Redazione su Il Riformista il 4 Agosto 2020. L’ex re spagnolo Juan Carlos I ha annunciato che lascerà la Spagna per vivere in un altro Paese, a seguito dello scandalo finanziario che l’ha coinvolto. Il sito web della famiglia reale ha diffuso una lettera in cui l’ex monarca si rivolge al figlio, re Felipe VI: “Guidato dal convincimento di prestare il miglior servizio agli spagnoli, alle loro istituzioni e a te come re, ti informo della mia meditata decisione di trasferirmi, in questo periodo, fuori dalla Spagna. Una decisione che prendo con molto dolore, ma con grande serenità”. Il re, aggiunge la nota, ha ringraziato il padre per la decisione e gli ha espresso il proprio rispetto. L’ex re emerito, in realtà, avrebbe però già lasciato il Paese. A renderlo noto è ‘El Mundo’. Secondo le fonti consultate dal giornale di Madrid, la lettera in cui l’ex monarca comunicava l’intenzione di farlo, sulla scia dello scandalo finanziario che l’ha coinvolto, è stata inviata al figlio, re Felipe VI nelle ultime ore. “La fuga all’estero” di Juan Carlos I di certo non è passata in osservata. A commentare prontamente questa notizia ci ha pensato il vicepresidente spagnolo e segretario generale di Podemos Pablo Iglesias, il quale sul suo account ufficiale Twitter ha scritto: “E’ un atteggiamento indegno di un ex Capo di Stato e lascia la monarchia in una posizione molto compromessa. Per rispetto dei cittadini e della democrazia spagnola, Juan Carlos I dovrebbe rispondere delle sue azioni in Spagna e davanti al suo popolo”. “È dovere di quelli come noi in posizioni governative garantire istituzioni esemplari e pulite”, aggiunge. E ancora: “Un governo democratico non può voltarsi dall’altra parte, tanto meno giustificare comportamenti che minano la dignità di un’istituzione chiave come il Capo dello Stato e che sono una frode contro la giustizia”.
Roberto Pellegrino per “il Giornale” il 9 marzo 2020. L' occhio vigile della Giustizia spagnola torna a radiografare la Casa reale dei Borboni, a distanza di tre anni dall' assoluzione dell' Infanta Cristina, giudicata non colpevole nello scandalo Noos. All' epoca la stampa s' interrogò su una eventuale complicità del re emerito Juan Carlos I, nessun magistrato lo convocò per fornire spiegazioni, dopo che, davanti al rischio di essere indagato, lui tuonò: «Qui si sta superando il limite!». Non si pone un limite, invece, la magistratura svizzera che lo indaga per un conto corrente di 100 milioni di dollari, aperto a Ginevra e riconducibile all' ex sovrano. Dalle indagini si è scoperto che la somma è una donazione versata nel 2007 alla Banca Mirabaud dal ministero delle Finanze dell' Arabia Saudita su ordine della Casa reale di re Abdullah, scomparso nel 2015. Beneficiario del conto corrente è la Lucum Foundation di Panama, ma il titolare della fondazione sarebbe proprio Juan Carlos, padre dell' attuale re di Spagna Felipe VI. La Giustizia elvetica, esaminando i movimenti del conto, ha poi, scoperto un bonifico di 65 milioni di dollari autorizzato dal conto e destinato alla nobildonna tedesca, Corinna Larsen, coniugata Sayn-Wittgenstein, 55 anni, conosciuta dai media spagnoli come l' ex amante di Juan Carlos. La donazione, secondo l' avvocato della Larsen, incassata su un conto delle Bahamas, era un regalo del re emerito. Il procuratore svizzero Yves Bertossa, però, sta indagando se questo denaro sia, invece, una commissione pagata a Corinna per il suo ruolo di mediatrice nel contratto, vinto da un consorzio spagnolo, per la costruzione del treno ad alta velocità Mecca-Medina in Arabia Saudita. Secondo il quotidiano El País, la considerevole transazione è stata rilevata durante un' indagine giudiziaria negli uffici ginevrini degli avvocati Arturo Fasana, gestore di fondi, e Dante Canonica, sospettati di avere agito come front per il monarca spagnolo in pensione. Lo scorso dicembre, Corinna Larsen, i due avvocati Fasana e Canonica, assieme a due rappresentanti della Banca Mirabaud, sono stati convocati e ascoltati dal gip del Tribunale di Ginevra. L' avvocato della nobildonna tedesca dichiarò che quel bonifico del 2012 non era altro che «un dono indesiderato» che Juan Carlos destinò a Corinna e al di lei figlio, a cui l' ex sovrano si era molto affezionato negli anni della lunga storia con la madre. Inoltre, il legale dell' ex amante, negando ogni possibile relazione con il caso delle commissioni dell' affare saudita, dichiarò al giudice che «la donazione era chiaramente documentata come dono, e le società di servizi e le banche avevano eseguito le formalità necessarie, applicando la dovuta diligenza sui fondi». Tuttavia, a insospettire i magistrati svizzeri, sono state le dichiarazioni di Alvaro de Orleans, cugino di Juan Carlos, che ha ammesso che la nobildonna tedesca e l' allora re di Spagna, erano soliti recarsi in Arabia Saudita o altrove, su comuni voli non di Stato al fine di evitare controlli ufficiali e commerciali. E per non avere gli uomini dell' intelligence spagnola alle costole, mandando in tilt il protocollo di sicurezza ufficiale. Nella Spagna che inizia a prestare preoccupazione sull' aumento dei contagi del Covid-19, lo scandalo, esploso in sordina, ora ha preso forza e sta distraendo gli spagnoli dal virus, e riportando alla ribalta il conflitto tra monarchici e antimonarchici. Dal 1975 al 2013, al re, hanno perdonato innumerevoli amanti, ma sui soldi, Juan Carlos potrebbe rovinarsi gli ultimi anni.
Elisabetta Rosaspina per corriere.it l'11 marzo 2020. Juan Carlos di Borbone e il tesoro nascosto: una nuova puntata della densa storia pubblica e personale dell’ex sovrano, e ora re emerito di Spagna, agita le acque della politica e del parlamento a Madrid e affila le armi degli indipendentisti repubblicani. L’ultimo capitolo parte dai cento milioni di dollari che avrebbe depositato sul conto di una banca privata svizzera, la Mirabaud, intestato alla Fondazione Lucum, di cui risultava l’unico beneficiario. Secondo le rivelazioni della stampa svizzera, La Tribune de Genève e Tages-Anzeiger, la somma proviene dal Ministero delle Finanze dell’Arabia Saudita ed è stata giustificata come «un dono senza contropartita». La Fundación Lucum, creata a Panama nel 2008, risulta disciolta nel 2012, quando il generoso regalo di re Abdullah fu in buona parte trasferito, sempre a titolo di donazione, su un altro conto, domiciliato alle Bahamas e intestato a Corinna zu Sayn-Wittgenstein, 55 anni appena compiuti, una non qualunque nobildonna tedesca, divorziata dal principe Johann Casimir e chiacchierata per la sua «amicizia intima» con l’ottantaduenne Juan Carlos I. Di più, considerata addirittura la causa della sua abdicazione nel 2014, in favore del figlio, Felipe. E, ad aggiungere sorpresa alla sorpresa, un dettaglio non irrilevante: il destinatario finale del denaro è Alexander, il figlio 18enne della principessa. Come prevedibile, il mix di bonifici bancari esotici e amicizie pericolose ha generato non pochi interrogativi tra gli spagnoli, dai banchi del congresso ai giornali di gossip, fino ai meno indulgenti uffici giudiziari. L’affaire sentimentale, ormai esaurito, era già stato arato nell’ultimo decennio, in particolare dall’aprile del 2012 quando l’allora sovrano in carica (e allora guida del Wwf spagnolo) si ruppe l’anca durante un safari in Botswana. Il che fece emergere una foto di Juan Carlos in posa davanti a un pachiderma fucilato e la presenza di Corinna nel seguito. Fin qui, erano più che altro problemi di immagine e di armonia coniugale con la regina Sofia. L’intreccio bancario, di interesse più generale, data però dello stesso anno. Innanzitutto: perché l’8 agosto del 2008 le casse saudite hanno riversato nelle tasche di Juan Carlos tutti quei petrodollari? Un’ipotesi (già esplorata e archiviata a suo tempo dagli inquirenti) è che si sia trattato della favoleggiata commissione illegale a margine di un contratto vinto da un consorzio di imprese spagnole per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità tra la Medina e La Mecca. Ma il contratto è stato concluso nel 2011 e, nel 2008, non era stata aperta nemmeno la gara d’appalto. E poi, nel caso, non sarebbero state le imprese spagnole a essere favorite dal re per quell’accordo da 6,7 miliardi di euro? L’immunità garantita al titolare del trono impedì comunque di procedere, dopo che, segretamente intercettata, Corinna aveva alluso a una tangente regale per l’alta velocità nel deserto. Così nel 2018 è stata Corinna a finire sotto inchiesta per riciclaggio. Quindi, quali altri legami tra le case reali saudita e borbonica potrebbero spiegare il ricco omaggio personale? Uno scambio di cortesie dopo la concessione, nel 2007, della più alta onorificenza spagnola, il titolo di cavaliere dell’Ordine del Toson d’oro, al re saudita (scomparso nel 2015)? Il gesto dell’allora re di Spagna contribuì a lustrare l’immagine del regime di Riyad, ma appare cronologicamente più logico un nesso con la visita a Madrid di re Abdullah, nel 2008, sfociata in un accordo di cooperazione economica e culturale tra i due Paesi. Una settimana dopo arrivò il bonifico. Infine, perché 65 milioni sono stati intestati all’ultimogenito, appena maggiorenne, di Corinna? È una dimostrazione «d’affetto per lei e per il ragazzo» ha spiegato l’avvocato della principessa, Robin Rathmell alla stampa elvetica. Il procuratore svizzero Yves Bertossa intende andare a fondo, mentre a Madrid la sinistra di Unidas Podemos e il Psoe, insieme al governo, litigano sull’apertura di una commissione investigativa sul tesoro nascosto del vecchio re. Minacciato anche da Corinna che da Londra lo accusa di pressioni in complicità con l’ex capo dell’intelligence, dopo la rottura, perché lei non riveli segreti di Stato.
Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2020. «In nome della trasparenza e della dignità», il re di Spagna, Felipe VI, rompe i vincoli finanziari con il padre, Juan Carlos di Borbone, divenuto re emerito dopo l'abdicazione del 2014. E cerca di scongiurare, con un atto tragicamente simile a un ripudio, il coinvolgimento della Casa reale nello scandalo economico-sentimentale che sta travolgendo l' anziano monarca. Felipe ha deciso di rinunciare all'intera eredità personale del padre ottantaduenne e di tagliargli la pensione annua di 194 mila euro di denaro pubblico. La dura risoluzione arriva con un comunicato della Zarzuela, dopo che la magistratura svizzera ha aperto un' inchiesta su una eventuale tangente di cento milioni di dollari, bonificati nel 2008 dal ministero delle Finanze dell' Arabia Saudita su un conto elvetico intestato fino al 2012 alla Fondazione Lucum, di base a Panama. E di cui risultava primo beneficiario Juan Carlos e, secondo, l' inconsapevole Felipe. La causale parlava di «donazione», senza alcuna contropartita, ma i giudici sospettano che possa esserci un nesso con la costruzione della ferrovia ad alta velocità fra la Medina e La Mecca, un affare da 6,7 miliardi concluso da un gruppo di imprese spagnole (però soltanto un anno dopo), oppure con una onorificenza concessa da Juan Carlos a re Abdullah, allora sul trono saudita, dopo la firma di un accordo di cooperazione economica e culturale tra Madrid e Riad. Otto anni fa, sempre sotto forma di donazione, la somma era passata alla principessa (divorziata) tedesca Corinna zu Sayn-Wittgenstein, «amica intima» dell' allora sovrano in carica. La Casa reale ha informato che re Felipe VI ha scoperto di essere il secondo intestatario della fondazione dalla lettera di uno studio di avvocati britannici di Corinna, Kobre&Kim, nel marzo 2019, e che ha risposto rigettando qualunque trattativa. Nella nota si sottolinea pure che «Don Juan Carlos ha chiesto alla Casa reale di rendere pubblico di non aver mai informato il re dell' esistenza delle due fondazioni». Già, perché secondo il quotidiano El Pais il re emerito figura come terzo beneficiario anche della Fondazione Zagatka, di proprietà di Álvaro de Orleans-Borbón, creata in Liechtenstein addirittura prima, nel 2003. In questo caso il re padre avrebbe beneficiato di voli privati. Sullo sfondo, ma non tanto, ci sono le vicende sentimentali dell' inquieto Juan Carlos con la cinquantenne nobildonna che lo accompagnava nell' aprile del 2012 nel disgraziato safari in Botswana durante il quale si ruppe l' anca e si fece fotografare accanto a un elefante ucciso. La storia finì (male) e ora Felipe VI prende le distanze dal padre e dai suoi affari off-shore.
Spagna, re Felipe rompe con il padre Juan Carlos e rinuncia all'eredità. Con un comunicato ufficiale la casa reale annuncia che il re emerito cessa di percepire il fondo stanziato per lui nel bilancio della casa reale "che potrebbe non essere conforme alla legalità o ai criteri di rettitudine e integrità che regolano la sua attività istituzionale e privata". La Repubblica il 15 marzo 2020. Il re di Spagna Felipe VI ha deciso di rinunciare all'eredità di suo padre Juan Carlos. Ne dà notizia El País online citando un comunicato della casa reale in cui si annuncia che il re emerito cessa di percepire il fondo stanziato per lui nel bilancio della casa reale. Felipe rinuncia a qualsiasi "attività, investimento o struttura finanziaria la cui origine, caratteristiche o finalità potrebbe non essere conforme alla legalità o ai criteri di rettitudine e integrità che regolano la sua attività istituzionale e privata". Felipe VI "vuole che sia noto pubblicamente che Sua Maestà il re Juan Carlos è consapevole della sua decisione". La casa reale informa inoltre che il re emerito non riceverà più la dotazione di bilancio che concede annualmente e che negli ultimi anni ha raggiunto 194.232 euro all'anno. Questa decisione arriva dopo l'avvio da parte della Procura dell'Anticorruzione di un'indagine su presunti 100 milioni di euro che Juan Carlos I avrebbe ricevuto su un conto svizzero per conto di una fondazione panamense dalla monarchia saudita. Ora Felipe VI prende le distanze. Nel comunicato si puntualizza infatti che Juan Carlos è a conoscenza che "le summenzionate Fondazioni non hanno mai fornito informazioni" a suo figlio.
· Quei razzisti come gli Svizzeri.
Svolta in Svizzera: «L’omofobia sanzionata come il razzismo». Il Dubbio il 9 febbraio 2020. Exit poll: 62% a favore della norma contro le discriminazioni per l’orientamento sessuale. L’omofobia sarà sanzionata come il razzismo. Secondo la prima proiezione dell’istituto gfs.bern, gli elettori svizzeri dovrebbero accogliere il divieto della discriminazione basata sull’orientamento sessuale con una quota del 62%. I primi risultati confermano il trend: Glarona e Nidvaldo hanno accettato il testo entrambi con il 51,3%, così come Argovia (56,4%), Lucerna (59,6%) e il canton Grigioni (58,6%). Stando ai primi risultati parziali, oltre tre ginevrini su quattro hanno votato a favore, mentre a Zurigo e in Vallese la quota dovrebbe essere superiore al 60%. Nel canton Vaud la percentuale – dopo lo spoglio di tre quarti delle schede – si attesta oltre l’80%. Nel dicembre 2018 il Parlamento ha votato per estendere la norma antirazzismo contenuta nel Codice penale (articolo 261) che mira a vietare espressamente le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale per proteggere la comunità omosessuale, bisessuale, transgender o intersessuale.
DANIELE MASTROGIACOMO per repubblica.it il 5 marzo 2020. L'ha scoperto per caso. In mezzo alle cartacce ammassate alla rinfusa in un sotterraneo di una vecchia banca ormai in disuso. Rovistando si è soffermato su documento dal titolo anomalo, almeno arcaico: "Congresso della Nazione Argentina". Si è incuriosito e ha iniziato a sfogliarlo. Pedro Filippuzzi, investigatore privato, ha capito subito che era qualcosa di grosso: si era imbattuto sulla rete di 12mila nazisti che tra il 1941 e il 1943, prima della caduta del Terzo Reich, avevano preso il largo e si erano rifugiati in Argentina. La lunga lista di nomi indicava anche le somme che si erano portati dietro e che erano il bottino sottratto ai milioni di ebrei saccheggiati dei loro averi. La lista era nota. Ma nel 1944 il governo del dittatore filo tedesco Edelmiro Farrel aveva disciolto la Commissione incaricata di analizzarla e ordinato la distruzione del documento. Tutti pensavano che la questione si fosse chiusa e con il macero anche questa importante prova fosse sparita dalla circolazione. Non sapevano che qualcuno ne aveva fatto una copia rimasta poi per 80 anni seppellita nei sotterranei del vecchio istituto. Filippuzzi ha contattato il Centro Simon Wiesenthal, famoso per la sua caccia ai nazisti sopravvissuti al dissesto del regime di Hitler, che a sua volta si è rivolto al Credit Suisse reclamando la restituzione dei beni trafugati. Il Centro ha potuto anche ricostruire la rotta seguita da questo tesoro che secondo diverse ipotesi è servito a finanziare le attività legali messe in piedi in Argentina dai nazisti fuggiaschi. Parte di questi soldi sarebbero poi rientrati in Europa tramite la banca svizzera Schweizerische Kreditanstalt, oggi diventato appunto Credit Suisse. "Questi conti", osserva Shimon Samuels, direttore delle Relazioni internazionali del Centro Simon Wiesenthal, "includevano diverse imprese tedesche come la IG Farben, fornitore del gas Zyklon-B, utilizzato nelle camere di sterminio, e organismi finanziari come il Banco Tedesco Transatlantico e il Banco Tedesco dell'America del Sud. Banche che, apparentemente, servirono per realizzare delle transazioni naziste in Svizzera". La presenza di una folta comunità nazista a Buenos Aires era cosa nota negli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si calcolava che fosse formata da 1.400 persone, sostenute da 12mila simpatizzanti e da altri 8mila militanti di diverse organizzazioni locali. I governi dell'epoca facevano finta di niente e lasciavano agire i nuovi arrivati come parte della massa di immigrati già giunti, per sfuggire al conflitto e al terrore hitleriano, anni prima. Ma una retata della polizia nella sede dell'Unione tedesca delle corporazioni, una facciata per le migliaia di immigrati nazisti del Terzo Reich, portò al sequestro della lista che fu consegnata al Parlamento argentino. "Non tutti i 12mila indicati nel documento", precisa Ariel Gelblung, direttore per l'America Latina del Wiesenthal, "erano persone che usarono la triangolazione per portare via il denaro rubato dai nazisti. Ma all'interno della lista c'è sicuramente chi la utilizzò". Far sparire quel denaro era vitale per Hitler. Non c'era la possibilità di cambiare la moneta tedesca con i dollari. Trasferirla in Argentina consentiva di farlo. Veniva scambiata con il foglio verde e da qui rientrava in Europa. Secondo Gelblung è impossibile stabilire l'ammontare del tesoro depositato nei conti sospetti. Ma è certo che quella ingente somma fu usata come capitale iniziale dal Credit Suisse sorto sulle ceneri del Schweizerische Kreditanstalt.
Il magnate svizzero ultimo padrone dell’Eternit: «Provo odio per gli italiani, vivete in uno Stato fallito». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Floriana Rullo. Il processo a Schmidheiny si aprirà il 27 novembre: dovrà rispondere di omicidio volontario per la morte di 392 persone. È attesa per oggi, venerdì, la pronuncia sul processo Eternit bis con cui il tribunale di Vercelli dovrà stabilire se Stephan Schmidheiny debba o meno essere rinviato a giudizio. Va deciso anche il capo d’accusa per l’imprenditore svizzero, ultimo proprietario dell’Eternit di Casale Monferrato: omicidio colposo o doloso per la morte di 392 persone. Nel frattempo fanno rumore le parole pronunciate dallo stesso Schmidheiny a dicembre al giornale elvetico Nzz am Sonntag, riprese dal quindicinale «Area Unia» di Lugano: «Quando oggi penso all’Italia provo solo compassione per tutte le persone buone e oneste che sono costrette a vivere in questo Stato fallito. Non ho intenzione di vedere una prigione italiana dall’interno. Alla fine il mio comportamento sarà giudicato correttamente e un giorno verrò assolto». Ha poi aggiunto: «Ho capito che mi sarei dovuto occupare della mia igiene mentale per non lasciarmi abbattere da tutti questi incredibili attacchi. Mi sono reso conto di provare dentro di me un odio per gli italiani e che io sono il solo a soffrire per questo». Tornando al giudizio: il gup Fabrizio Filice dovrà dunque decidere se mandare a processo Schmidheiny per omicidio doloso, così come chiesto dai pm, cambiare il capo d’imputazione in colposo, oppure se proscioglierlo, come invocato dai difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva. Una decisione fondamentale per il futuro dell’inchiesta Eternit, e i suoi 392 morti. Se il capo d’accusa contestato a Schmidheiny dovesse essere quello per omicidio volontario, come richiesto dalla Procura, il processo si svolgerà in Corte d’Assise, a Novara, e i familiari delle vittime di amianto avranno ancora qualche speranza di vedere condannato l’imprenditore. Se invece l’ex patron del gruppo industriale sarà accusato di omicidio colposo, il processo si svolgerà davanti al giudice monocratico di Vercelli, e a quel punto le possibilità che i reati vadano in prescrizione sono estremamente elevate.
Silvana Mossano per “la Stampa” il 24 gennaio 2020. «Dentro di me provo odio per gli italiani e io sono il solo a soffrire per questo. Non ho intenzione di vedere una prigione italiana dall' interno». Sono dichiarazioni di Stephan Schmidheiny, ultimo responsabile in vita della gestione degli stabilimenti Eternit, rilasciate di recente alla testata «Nzz am Sonntag» in Svizzera, dove risiede. Ampi virgolettati dell' intervista sono stati ripresi dal quindicinale «Area Unia» di Lugano e rimbalzate sui social, alla vigilia della decisione del gup di Vercelli, prevista per oggi, in merito alla richiesta di rinvio a giudizio dell' imprenditore per l' omicidio volontario di 392 casalesi morti a causa dell' amianto. Schmidheiny è l' unico imputato del cosiddetto «Eternit Bis». Non è il primo procedimento penale a suo carico; era già stato incriminato dal pool della procura torinese (Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli) nel maxiprocesso Eternit Uno: a Torino in primo e in secondo grado (con la condanna a 18 anni per disastro doloso ambientale) e poi in Cassazione (con la prescrizione del 2014). Successivamente, la stessa procura di Torino lo aveva richiamato sul banco degli imputati, ma con una contestazione diversa: l' omicidio doloso di oltre 400 persone. Il gup Federica Bompieri, però, aveva poi riqualificato il reato da omicidio doloso a colposo; questo ha comportato uno spacchettamento del fascicolo originario in quattro filoni, destinati a procure diverse per competenza territoriale: a Torino è rimasto lo spezzone per due morti di Cavagnolo (Schmidheiny è già stato condannato a 4 anni), a Napoli è andato quello per otto morti di Bagnoli, a Reggio Emilia per alcuni morti di Rubiera e a Vercelli per 392 vittime casalesi. Ha ricordato il pm Colace, applicato a Vercelli e che affianca il collega Fabrizio Alvino: «Sessantadue sono ex lavoratori dello stabilimento, ma trecento sono cittadini semplicemente residenti». Con la fabbrica non hanno mai avuto a che fare, ma si sono ammalati e sono morti. «A Casale ci dovrebbe essere una terza lapide - ha detto il pm Alvino -: oltre a quelle della Prima e della Seconda Guerra mondiale, anche per i morti di amianto». I circa 400 elencati nel capo d' accusa sono un campione in difetto; dagli anni Cinquanta a oggi se ne contano non meno di 2500 e «la strage non è finita - ha sottolineato Colace -: continua con una cinquantina di nuovi casi di mesotelioma all' anno». Il mesotelioma è il cancro causato dall' amianto: gli scienziati come Cesare Maltoni e Irvin Selikoff lo dicevano già negli anni Sessanta. Oggi, dunque, è attesa la decisione del gup Fabrizio Filice sull' Eternit Bis: rinvio a giudizio di Schmidheiny per omicidio doloso (come chiesto dai pm) o riqualificato in colposo, oppure proscioglimento, come invocato dai difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva che hanno definito una «inammissibile tortura di Stato ripetere un processo nei confronti di una persona per gli stessi fatti». I difensori parlano di tortura e Schmidheiny in persona, nell' intervista alla testata svizzera, dichiara: «Ritengo che alla fine il mio comportamento sarà giudicato correttamente e un giorno verrò assolto». Ma, intanto, definisce il suo coinvolgimento processuale «pazzesco: 40 anni dopo si viene accusati di omicidi di massa e perseguitati per decenni». Un carico emotivo che reputa insopportabile, tanto più che si definisce «una persona piuttosto sensibile»; pertanto «ho dovuto occuparmi della mia igiene mentale - spiega - per non lasciarmi abbattere da tutti questi incredibili attacchi». Riferisce di essersi dedicato «a esercizi di meditazione quotidiani» e di aver appunto «provato odio per gli italiani». E, ancora: «Quando oggi penso all' Italia, provo solo compassione per tutte le persone buone e oneste che sono costrette a vivere in questo Stato fallito». «La tortura - replica indignata Assunta Prato, una delle molte casalesi vedove dell' amianto - è quella di migliaia di persone che vivono nella paura di una tosse che non passa e della diagnosi di una malattia che ancora non si può curare, oltre che nel dolore per il lutto di tante persone care». Difficile alleggerire le angosce con «quotidiani esercizi di meditazione». Potrebbe essere lenitivo e in parte riparatore il sincero pentimento dell' imputato, il risarcimento per le bonifiche, per i cittadini e per la ricerca di una cura. «Anche Schmidheiny è un essere umano e può cambiare. Purché cambi. Per davvero», conclude Assunta Prato.
Mario Giordano per la Verità il 25 gennaio 2020. Dice che prova per noi «compassione». Si definisce «perseguitato» e «torturato». E, con grande rispetto per la nostra giustizia, annuncia, in caso di condanna, la propria latitanza dicendo che lui comunque non ha «intenzione di vedere una prigione italiana dall' interno». E di fronte a tutto ciò che cosa è successo? Nulla. Ecco, per l' appunto: il problema è proprio quello. Di fronte a parole così offensive per il nostro Paese non è successo nulla. Nulla di nulla. Dentro i palazzi dell' italico potere non si è sollevato nient' altro che non sia un lungo, incredibile, totale e assoluto silenzio. Lui si chiama Stephan Schmidheiny. Il giornale cui ha rilasciato l' intervista è Nzz am Sonntag. Cognome e testate che sembrano un codice fiscale, roba da scioglilingua e attentato alle corde vocali. Ma per quanto possa sembrare strano la realtà è ancor peggio dei nomi. Schmivattelapesca, infatti, è un manager importante, ultimo responsabile in vita della gestione degli impianti Eternit, quelli che con l' amianto hanno provocato una strage a Casale Monferrato, dolore, lutti, 2500 morti, e vittime anche nel resto d' Italia. Il magnate svizzero è accusato della morte di 392 di loro. Ha già subito un processo (condannato in primo e secondo grado a 18 anni, è stato salvato dalla prescrizione) ed è alla sbarra in vari tribunali d' Italia, da Napoli a Vercelli, da Torino a Reggio Emilia per rispondere di un massacro che, come ricordava La Stampa ieri, non è affatto finito. Ogni anno, infatti, circa 50 persone vengono ancora colpite dal mesotelioma, il cancro dell' amianto. Ora, scusate, ma a me pare evidente una cosa: al di là delle responsabilità giuridiche che vanno accertate nei tribunali, chi ha avuto ruoli di primo piano in un' azienda che ha provocato tragedie simili, avrebbe il dovere di tacere. Semplicemente tacere. Dovrebbe avere rispetto per le vittime. Per i familiari, che sono, loro sì davvero perseguitati e torturati. Lo dovrebbe avere in ogni caso, ma tanto più se, come in questa occasione, è uno straniero, ospite nel nostro Paese. Uno che è stato accolto e beneficato con incarichi importanti e che ha ricambiato, secondo le accuse, con un devasto. Ecco: uno così dovrebbe tacere. O, al massimo, parlare per chiedere scusa. Invece Schmid eccetera non tace. Non chiede affatto perdono. Fa di peggio: insulta. Deride. Denigra. Offende. E già tutto ciò è piuttosto grave, non vi pare? Ma non è solo questo. Se fosse solo questo, come dicevamo, lo spiacevole episodio avrebbe potuto essere liquidato rapidamente, archiviato nella categoria «minchiate», sottocategoria: cafonata al sapor di emmenthal o dichiarazione scema da miliardario senza cuore. E invece, come dicevamo, c' è di più. C' è che tutte queste parole sono cadute nel vuoto. Sono state accolte da un silenzio assoluto. Come mai? Possiamo avanzare due ipotesi: o gli interi uffici stampa degli uomini di governo sono piombati in catalessi contemporaneamente, mentre i collaboratori dei ministri giocavano a tresette all' osteria e le segreterie organizzavano la prossima gita alle Seychelles; oppure la notizia è regolarmente arrivata sui tavoli che contano ma nessuno (né presidenza del Consiglio, né Farnesina, né alcuna altra autorità esistente e vagamente competenze di difesa degli italiani) ha pensato che fosse il caso di dare una risposta. E questo ci sembra, per assurdo, ancora più grave del fatto in sé. Possibile, infatti, che tra una polemica sul citofono e una sulle sardine, fra un dibattito sul futuro dei 5 stelle e sul nuovo nome del Pd, non si sia trovato il tempo per chiedere un po' di rispetto per l' Italia? Possibile che il nostro governo, nel tentativo di ridurre le tasse, in via elettorale e sperimentale, abbia a tal punto perso la lucidità da non capire quanto è offensiva l' arroganza di un signore (signore: si fa per dire) che sta insultando i nostri morti? Possibile che nessuno abbia sollevato istintivamente un sopracciglio? O, meglio ancora, un telefono? Possibile che nessuno abbia sentito il dovere di difendere le vittime dell' Eternit? E i loro familiari? E il nostro Paese? Possibile che nessuno sia sentito in dovere di dettare almeno una replica alle agenzie? Possibile che nessuno abbia sentito l' urgenza di dire al quel figlio della cioccolata al latte che noi italiani lo possiamo anche dire che il nostro Stato è fallito, ma lui no? Che lui, svizzero accusato di strage di italiani, non deve permettersi? Altrimenti, come minimo, dichiariamo guerra ad Heidi? Negli altri Paesi non succede così. La Francia ha richiamato l' ambasciatore italiano per un incontro fra due nostri leader politici e i gilet gialli. La Tunisia ha protestato formalmente perché un ex ministro italiano ha scampanellato a un suo concittadino (pregiudicato) in quel di Bologna. La Turchia un giorno ha aperto un caso diplomatico perché un suo giocatore di calcio, sbarcato in Irlanda, era stato intervistato per scherzo con uno spazzolone al posto del microfono. Noi invece permettiamo che uno svizzero insulti i giudici italiani, i morti italiani e i cittadini italiani, senza levare, non dico una protesta formale tramite ambasciata, ma nemmeno un gemito di disappunto. Niente di niente. Soltanto silenzio. Poi non ci stupiamo se, come è successo a Berlino, nelle foto ufficiali finiamo in seconda fila, nell' angolo. Tra un po' ci metteranno direttamente sotto i loro piedi. E noi zitti, come ora, a farci calpestare.
· Quei razzisti come i Francesi.
Charles De Gaulle, 50 anni dopo: le sue sfide per l’Europa delle Patrie e il presidenzialismo. Mario Bozzi Sentieri venerdì 6 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. «Il gollismo era la verticalità», ha dichiarato Alain de Benoist, intervistato in occasione degli anniversari che invitano al ricordo di Charles de Gaulle (nato il 22 novembre 1890 e scomparso il 9 novembre 1970). La “verticalità” di de Gaulle sta certamente nel suo carisma, nella sua “visione lunga”, nell’idea di una “monarchia repubblicana” che ne ha caratterizzato l’azione politica: pragmatica e innovativa, “sistema di pensiero, di volontà e di azione” – come egli sintetizzò nel 1968, fino ad arrivare alla paradossale definizione di Michel Onfray, intellettuale libertario e anticapitalista, che, nel suo recente libro (Vies Parallèles), definisce de Gaulle come «un uomo di sinistra sostenuto dalla destra».
De Gaulle e l’orgoglio nazionale. La verticalità e la trasversalità gollista, il cui valore rimane incorrotto e potrebbe ispirare quanti, oggi, volessero iniziare ad andare – da destra – oltre le sterili contingenze, può essere sinteticamente fissato in tre idee-forza: l’orgoglio nazionale, il presidenzialismo, l’idea partecipativa. «De Gaulle – scrisse André Malraux (Les chênes qu’on abat, 1971) – è ossessionato dalla Francia come Lenin lo è stato dal proletariato, come Mao lo è della Cina e come Nehru, forse, lo fu dell’India. La Francia è sempre stata per lui come la Chiesa per quelli che la difendono o la attaccano». Questa “ossessione” lo portò a seguire, nel lungo dopoguerra europeo, un’idea integrale di indipendenza nazionale, realizzata con il graduale sganciamento del suo Paese dalla Nato, pienamente realizzato nel 1966; con l’entrata nel “club atomico” (il primo test nucleare francese è del febbraio 1960) e la creazione della cosiddetta “force de frappe” , forza d’urto militare e nucleare; con la spregiudicata politica estera che portò la Francia al riconoscimento della Cina di Mao (1964), al dialogo con l’Urss (1966) e alla lotta al dollaro, con la richiesta di sostituirlo con l’oro, come base di pagamento internazionale. Fino all’idea dell’Europa delle patrie, un’Europa unita su base confederale, rispettosa della sovranità degli Stati aderenti, coordinata da un Consiglio dei capi di governo, che – scriveva de Gaulle – dovrà «unificare la politica estera, economica, culturale e di difesa» , elevando il Vecchio Continente a terza forza tra Stati Uniti ed Unione Sovietica.
La riforma costituzionale in chiave presidenzialista. Sul piano interno, con la riforma costituzionale, in chiave presidenzialista, del 1958 (approvata, attraverso referendum dal 79,50 per cento dei votanti) e l’ elezione di de Gaulle, nel gennaio 1959, a Presidente della Repubblica, si inaugura per la Francia la Quinta Repubblica ed un lungo periodo di stabilità politica e di crescita economica e sociale. Così lo stesso de Gaulle (in Memorie della speranza, 1970) sintetizzerà la sua idea presidenzialista: «Da molto tempo sono convinto che il presidente della Repubblica debba essere eletto mediante il voto popolare. Designato – unico fra tutti – dalla massa dei francesi, potrebbe essere davvero, in virtù di questa nomina, l’uomo del Paese, investito agli occhi del popolo e ai propri dell’immensa responsabilità che i testi stessi gli attribuiscono. Inoltre, è chiaro, dovrebbe avere la volontà e la capacità di assumersi l’onere della carica. E questo evidentemente, la legge non lo può garantire …».
De Gaulle e il nuovo modello sociale. E poi c’è l’idea partecipativa , coltivata da tempo ed immaginata come risposta alla “malattia morale”, che segna il capitalismo, relegando il lavoratore al ruolo di strumento o di ingranaggio del sistema produttivo. Nel condannare gli eccessi del laissez fare, laissez passer da una parte e della tirannia comunista dall’altra, de Gaulle è spinto a guardare a un nuovo modello sociale, nel quale il lavoratore partecipi direttamente ai risultati dell’impresa, con ciò fruendo «della dignità di essere, per la parte che gli compete, responsabile del progresso dell’opera collettiva da cui dipende il suo destino».
La compartecipazione dei lavoratori ai profitti. L’auspicio di de Gaulle trova una prima concreta realizzazione nel gennaio 1959, con un’ordinanza che apre la compartecipazione dei lavoratori ai profitti delle industrie, incentivati dalle esenzioni fiscali assicurate dallo Stato, sia nel caso che i contratti tra datori di lavoro e dipendenti comportino un prelievo sui profitti generali, sia che sia stabilita una partecipazione al capitale e all’autofinanziamento, sia che venga costituita una società in cui ogni dipendente, a qualsiasi livello, sia azionista. In questa sua azione riformatrice de Gaulle deve però fare i conti con l’opposizione del mondo imprenditoriale e dei sindacati, che frenano l’attuazione del progetto. L’auspicato progetto partecipativo, a cui egli dedica gli ultimi anni della sua presidenza, tramonta con il suo ritiro definitivo a vita privata dopo il referendum popolare del 27 aprile 1969, che lo vede sconfitto.
Le tre idee forza di De Gaulle. Europa delle patrie, Presidenzialismo, Partecipazione sociale: tre idee forza che ci riconsegnano, a cinquant’anni dalla scomparsa di de Gaulle, una visione di Politica ambiziosa e sfidante, ancora oggi, in tempi di debolezza degli usuali sistemi di rappresentanza, di “liquidità” sociale e di crisi delle vecchie appartenenze ideologiche. A mancare sono gli uomini “alla de Gaulle”, in grado di dare forma alle idee, trasformandole in azioni.
De Gaulle e la grande destra che non c'è. Nel suo nuovo saggio Michel Onfray tesse le lodi del generale rispetto a Mitterand. Mauro Zanon, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale. Pochi giorni prima che morisse, Michel Onfray promise al suo professore di filosofia greca e romana, Lucien Jerphagnon, di scrivere un libro su Charles de Gaulle. Memore dei corsi e della corrispondenza avuta negli anni Ottanta con l'amato insegnante, il filosofo francese ha mantenuto quella promessa con Vies Parallèles (Robert Laffont), le biografie incrociate delle due figure più importanti della Quinta Repubblica: Charles de Gaulle, appunto, e François Mitterrand. Il centododicesimo libro di questo philosophe enraciné, come lo definisce il Figaro Magazine, è una controstoria del gollismo e del mitterrandismo e insieme un confronto tra il Generale e il suo eterno rivale, da cui il primo esce sublimato e il secondo estremamente rimpicciolito. «Dopo la morte del generale de Gaulle è finita la grandeur. Il Generale aveva detto che il popolo aveva scelto di essere un piccolo popolo, ed ebbe dunque dei piccoli governanti. Il più piccolo di questi piccoli governanti si impegnò a distruggere tutto ciò che aveva fatto il generale de Gaulle; fu la sua unica costante: rendere piccolo ciò che era stato grande, piccolo come lui. Si chiamava François Mitterrand», scrive Onfray negli estratti pubblicati sabato dal Figaro Magazine. E ancora: «L'opposizione tra Charles de Gaulle e François Mitterrand mette schiena contro schiena un uomo che lotta contro il crollo di una civiltà e un individuo a cui non importa che la civiltà scompaia, gli basta poter vivere tra le rovine alla maniera di un satrapo. Il primo sacrifica la propria vita per salvare la Francia; il secondo sacrifica la Francia per salvare la propria vita. Uno vuole una Francia forte, grande e potente, capace di ispirare l'Europa degli Stati; l'altro la vuole debole, piccola e impotente, fagocitata dall'Europa del capitalismo. De Gaulle è un senatore romano; Mitterrand un cittadino di Capua». Lo scorso 18 giugno, in occasione degli ottant'anni del primo appello del Generale sulle onde radio della BBC, Onfray ha pubblicato un video che ha fatto molto rumore negli ambienti goscisti. Per questa affermazione: «De Gaulle era un uomo di sinistra sostenuto dalla destra, Mitterrand era un uomo di destra sostenuto dalla sinistra». Ma la gauche non aveva ancora letto le pagine del suo futuro libro. «De Gaulle sa di essere e vuole essere al servizio della Francia fin dagli anni della sua giovinezza, immaginandosi già in veste di generale che caccia gli invasori tedeschi fuori dalla Francia; Mitterrand vuole una Francia al suo servizio e, per raggiungere il potere supremo, farà intrighi politici con tutti, con i comunisti, con l'estrema destra e poi con i socialisti, con i bigotti e in seguito con i laicisti, con i sostenitori dell'Algeria francese e subito dopo con i fautori della decolonizzazione, ma mai con i gollisti, che, ad ogni modo, non lo avrebbero mai voluto al loro fianco», afferma Onfray. La grandezza di De Gaulle, secondo il filosofo originario di Argentan, in Normandia, stava nel fatto che sapeva di essere più piccolo della Francia, perché la Francia è al di sopra di tutto: «Nasce nella notte dei tempi e la vuole eterna, non è senza passato e nemmeno senza futuro, ma la vuole senza nascita e senza morte, è lì da sempre e lo sarà per sempre». Mitterrand, invece, «si credeva più grande di ogni cosa»: compresa la Francia. Il Generale era l'homme du destin, Mitterrand, tuona Onfray, un piccolo uomo interessato alla «carriera». Il primo «ha fatto la Francia», il secondo «ha ampiamente contribuito a distruggerla». Secondo una certa narrazione, quella di Mitterrand fu la sola vera «présidence littéraire». Ma Onfray, in Vies Parallèles, abbatte anche questa certezza della sinistra francese. In poche righe: «De Gaulle leggeva Peguy, Bergson, Nietzsche; Mitterrand leggeva Paul Guimard e Erik Orsenna. De Gaulle è nella Pléiade di Gallimard; i libri di Mitterrand si acquistano in sconto dai bouqinistes per uno o due euro». E soprattutto: «De Gaulle ha avuto Malraux; Mitterrand ha avuto Jack Lang». È spietato Onfray contro l'idolo della gauche, perché se c'è uno che ha condannato a morte il socialismo francese, sottolinea il filosofo, questo è proprio Mitterrand. Nel 1983, con la «svolta del rigore», ha aperto la strada al trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, considerata da Onfray la data di morte della Francia: la fine della sua sovranità. «Cosa avrebbe fatto De Gaulle?», è la domanda che oggi tormenta Onfray, pur nella certezza che l'Europa gollista è un'Europa al servizio delle nazioni e non un gruppo di nazioni a servizio dell'Europa. Mitterrand avrebbe potuto essere l'ultimo grande presidente, secondo Onfray, ma è stato il primo dei piccoli. Come quando attaccò Freud ne Le Crépuscule d'une idole. L'Affabulation freudienne, il filosofo normanno si farà molti nuovi nemici nell'intellighenzia. A gauche dicono che è troppo a destra, a droite che è troppo a sinistra. Lui, Michel Onfray, dice di non essere né l'uno né l'altro, ma soltanto «fedele alla Francia».
Due virus letali scuotono la Francia: il Covid e il terrorismo. Dopo la decapitazione nella scuola, la strage di Nizza. Mentre la pandemia sembra fuori controllo. Ora il Paese dovrà dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze. Anna Bonalume su L'Espresso il 29 ottobre 2020. Di nuovo confinata, di nuovo sotto attacco. Due settimane dopo lo shock della decapitazione di Samuel Paty, un altro attentato è avvenuto a Nizza. All’interno della Cattedrale Notre Dame de l’Assomption una donna è stata decapitata, un uomo pugnalato, mentre la terza vittima sarebbe stata uccisa in un locale davanti alla basilica, dove si era rifugiata. Il colpevole, che avrebbe ripetutamente gridato “Allah Akbar”, è stato colpito e ferito. La Procura nazionale antiterrorismo (PNAT) ha annunciato di aver aperto un’indagine per "omicidio e tentato omicidio in relazione a un'impresa terroristica" e "associazione di malfattori terroristica criminale". Nel 2016 Nizza è già stata colpita da un attacco terrorista realizzato con un camion che provocò 86 vittime e 458 feriti. Il sindaco di Nizza Christian Estrosi, membro del partito di destra I Repubblicani, ha scritto su& Twitter: “#Nizza06 è ancora una volta toccata nel suo cuore dall'islamofascismo, che non smetto mai di denunciare”. Il Consiglio del culto francese musulmano ha invitato i musulmani di Francia “ad annullare i festeggiamenti di Mawlid (commemorazione della nascita del profeta Maometto ndr) in solidarietà con le vittime” dell'attentato. Due virus letali scuotono la Francia in questo inizio d’autunno incerto : il terrorismo e il covid. Nuovi stati d’allerta e dispositivi sono stati applicati a tutto il paese per far fronte alle emergenze: prima “allerta massima” e poi “vulnerabilità elevata” per i contagi da covid in quasi tutti i dipartimenti, mentre il piano “vigipirata”, strumento di sicurezza e difesa contro il terrorismo, è stato portato al livello “urgenza attentato”. Come l’Italia, anche i vicini d’oltralpe sono soggetti alle imprevedibili evoluzioni della pandemia, ma devono confrontarsi con la difficile sfida di attacchi islamisti perpetrati da alcuni individui su tutto il territorio. Domenica 25 ottobre la Francia ha registrato un picco di contagi: più di 52.000 in 24 ore, mentre il 28 ottobre si contano 244 decessi per covid solo negli ospedali. Mercoledì sera il presidente Macron ha annunciato un nuovo confinamento di un mese che consentirà però a lavoratori e studenti di continuare le loro attività (università escluse), permettendo anche le visite negli ospizi. A proposito dell’epidemia ha affermato che tutti in Europa “siamo travolti da una seconda ondata che sarà senza dubbio più dura e mortale”. Il ministro della salute Olivier Veran ha già parlato di una possibile “ terza ondata ”. Mentre la gestione della crisi sanitaria e la comunicazione delle decisioni strategiche del governo vengono criticate, crescono le tensioni intorno a Macron e a Charlie Hebdo. Duri attacchi provengono dal Medio Oriente dopo che il presidente francese ha difeso la libertà di caricatura del Profeta nel corso dell’omaggio nazionale al professore decapitato vittima di un attacco islamista. Dall’Università Sorbona di Parigi « il nostro luogo del sapere universale », « il luogo dell’umanesimo », come lui stesso l’ha definito, Macron ha evocato la difesa della libertà e dello spirito critico, affermando che « non rinunceremo alle caricature, ai disegni, anche se altri arretrano». Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha reagito prima mettendo in discussione la "salute mentale" di Emmanuel Macron, poi invitando i cittadini a boicottare i prodotti a marchio francese. La Turchia e la Francia sono entrambe membri dell'alleanza militare della NATO, ma sono state in disaccordo su questioni quali la Siria e la Libia, la giurisdizione marittima nel Mediterraneo orientale e il conflitto nel Nagorno Karabakh. Il 12 ottobre, dopo l’Olanda e la Germania, la Francia ha annunciato di “sospendere qualsiasi progetto di esportazione in Turchia di materiale bellico che potrebbe essere usato nell'offensiva in Siria”. Di fronte alla reazione di Erdogan, Macron ha richiamato l’ambasciatore francese ad Ankara e diversi leader europei hanno espresso il loro sostegno al presidente francese, come il primo ministro olandese Mark Rutte e il portavoce della cancelliera Angela Merkel Steffan Seibert, il quale ha definito “diffamatorie” le dichiarazioni del presidente turco. Il presidente italiano Giuseppe Conte ha affermato su Twitter “le dichiarazioni del presidente Erdogan sul presidente Macron sono inaccettabili. Le invettive personali non aiutano l'agenda positiva che l'UE vuole perseguire con la Turchia, ma al contrario allontanano le soluzioni. Piena solidarietà con il Presidente @EmmanuelMacron”. I prodotti francesi sono stati tolti dagli scaffali dei supermercati di Doha, la capitale del Qatar. Sui social network sono stati diffusi video che mostravano gli scaffali dei supermercati in Giordania svuotati dei prodotti francesi o sostituiti da quelli di altri paesi. I video sono stati accompagnati dall’hashtag #FranceBoycott o #OurProphetIsARedLine ("Il nostro profeta è una linea rossa"). Lunedì il ministro iraniano degli affari esteri, Mohammad Javad Zarif, ha accusato la Francia « di alimentare l’estremismo» e di “insultare 1,9 miliardi di musulmani e i loro elementi sacri”. Il fuoco si è riacceso quando, martedì sera, la rivista satirica francese Charlie Hebdo ha pubblicato online la nuova copertina che raffigura Erdogan in mutande mentre solleva il velo di una donna. Su Twitter Fahrettin Altun, il portavoce di Erdogan, ha accusato il giornale di " razzismo culturale " affermando che "l'agenda anti-musulmana del presidente francese Macron sta dando i suoi frutti". Dopo aver condannato l’attentato di Nizza il portavoce ha scritto “il nostro Presidente ha sempre fatto appello alla cooperazione contro il terrorismo e l'estremismo. Rinnoviamo ancora una volta questo appello mentre rifiutiamo la retorica e le azioni dannose contro la nostra religione e la nostra cultura senza badare alla sua fonte ideologica”. La Francia dovrà dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze, stretta nella doppia morsa del terrorismo e di un’epidemia che sembra fuori controllo.
Ecco come è la Nizza del terrore. In un capitolo nel nuovo volume di Gigi Riva si racconta perché la Costa Azzurra è diventata una terra di jihadisti. L'Espresso il 29 ottobre 2020. C'è un ragazzo congolese immigrato che si chiama Gino il cattolico perché quella è la sua religione e si trova costretto a scappare dall' Ariane, la più disperata delle banlieue di Nizza, edificata tra il fiume Paillon e la centrale nucleare. Non c'è posto per lui nel quartiere dove sono comparsi imam fondamentalisti che fomentano l'odio e dove molti suoi coetanei hanno abbracciato il Jihad. I pochi francesi che ci abitano sono barricati in casa, spaventati dal rumore sordo di una violenza in arrivo, dalle strade dove si odora la paura. La presenza del genere femminile è rarefatta, le donne camminano tre passi indietro ai loro uomini e sono velate. I rifiuti debordano dai cassonetti, i cani randagi vagano alla ricerca di avanzi di cibo. La bella Nizza della Costa Azzurra, dei locali alla moda, dei viali ordinati e orlati dalle case liberty, della Promenade des Anglais, sta oltre il largo boulevard Pasteur che segna una cesura netta. Pochi metri e si passa da un mondo all'altro, opposto. All'Ariane, in quel clima teso e angosciante viene ucciso Salomon, senegalese d'origine, il proprietario del bar-ristorante “Dakar”. E' un immigrato di prima generazione, ha assimilato gli ideali della République, si oppone con forza agli estremisti arrivati come un cancro a imporre la legge del terrore. E' il riassunto, molto succinto, di un capitolo del mio ultimo libro “Non dire addio ai sogni” (Mondadori). Fiction. Ma fiction basata sulla realtà. Sono stato a Nizza, all'Ariane, per essere più esatto nell'ambientare questa parte della mia storia. Ho scoperto la fama sinistra di una periferia che ha il triste primato del maggior numero di foreign fighters reclutati per lo Stato islamico. A causa dell'incessante opera di Omar Diaby, meglio conosciuto come Omar Omsen (il cognome è la crasi del nome e dell'origine, Omar e Senegal). Omar era arrivato all'Ariane nel 1983 quando aveva 7 anni. La sua carriera da piccolo delinquente aveva toccato il diapason con le rapine nelle gioielleria di Montecarlo. In carcere si era radicalizzato e, scontata la pena, era tornato a domicilio diventando un pioniere della propaganda via Internet con alcuni video di incitamento alla Guerra Santa capaci di stabilire record di visualizzazioni. La sua base era un chiosco halal trasformato in un covo di aspiranti terroristi. Nel 2013 aveva trascinato in Medioriente armati di fucile decine di adepti. A fine agosto scorso è stato arrestato ad Harim (in Siria) in circostanze poco chiare, ma sembra da parte di un gruppo jihadista concorrente che spadroneggia nella regione. I semi hanno generato odio in abbondanza, all'Ariane e non solo. Non mi sono stupito nell'ascoltare confessioni per le quali anche diversi agenti dei servizi italiani monitorano l'area: il nostro confine è molto vicino. Così come non mi sono stupito, purtroppo, nell'apprendere la notizia di questa nuova carneficina nella cattedrale di Notre Dame a Nizza. Il mio libro si snoda tra il 2014 e il 2016. E' la storia di ragazzo africano, Amadou che viene portato in Europa da falsi procuratori del calcio che gli promettono un futuro da campione. Ma poi lo abbandonano per la strada. Tra Italia e Francia deve cercare di sopravvivere e resistere. Avrà un piccolo riscatto finale. Ma prima conosce il degrado della stazione Termini, è costretto a entrare in una gang di spacciatori a Marsiglia, all'Ariane perde il suo compagno di avventura, Gino appunto. Assiste all'incrudelirsi dei rapporti in banlieue. Vive seppur da lontano gli attentati di Charlie-Hebdo, Bataclan, fugge poco prima del massacro di Nizza. Il Covid 19 fagocitante ci aveva fatto dimenticare altri mali della nostra contemporaneità. Non essendo stati mai sradicati, ecco che tornano.
AGI il 12/10/2020. Una quarantina di persone ha attaccato e assediato un commissariato di polizia fuori Parigi nella notte di ieri. Hanno utilizzato spranghe di ferro e fuochi d'artificio, lanciati come mortai contro l'edificio. Un'azione grave che spinto a nuove richieste per un'azione piu' dura del governo dopo una serie di attacchi alle forze di sicurezza francesi. Due agenti poco prima di mezzanotte erano in pausa sigaretta all'esterno del commissariato di Champigny sur Marne, a circa 12 chilometri a est della capitale, quando gli aggressori si sono improvvisamente riuniti e sono entrati in azione. Gli agenti sono riusciti a malapena a barricarsi all'interno quando la folla ha iniziato ad attaccare l'ingresso e diversi mezzi della polizia, mentre altri hanno lanciato una raffica di potenti fuochi d'artificio contro lo stabile. Nessuno è rimasto ferito. Nelle ore successive nel centro della città era stata fermata una persona, ritenuta tra i responsabili, ma poi scagionata dalla procura che sta esaminando i filmati della sorveglianza. Il sindaco della città, Laurent Jeanne, ha spiegato che la polizia potrebbe essere stata presa di mira per rappresaglia dopo un recente incidente con uno scooter, presumibilmente causato dalla polizia che però "non è stato dimostrato". Il ministro dell'Interno, Gerald Darmanin, ha twittato che "questi piccoli spacciatori non spaventano nessuno e non scoraggeranno il nostro lavoro contro la droga", sebbene i funzionari di polizia non abbiano ancora identificato gli aggressori. Anche se il sindaco ha riconosciuto il problema del traffico di droga nel quartiere di Bois L'Abbe, dove si trova il commissariato. L'ufficio di Darmanin ha annunciato che martedì incontrerà i sindacati di polizia, che da mesi premono per misure concrete per migliorare le condizioni di lavoro. Proprio loro hanno raccontato che l'attacco vicino a Parigi ha evidenziato una crescente minaccia contro le forze dell'ordine nei sobborghi depressi della capitale e in altre grandi città. Le tensioni sono alte da molto tempo in queste aree densamente popolate e spesso povere, dove grandi comunità di immigrati si sono lamentate a lungo della brutalita' della polizia e del razzismo. Mercoledì scorso due agenti di polizia erano stati aggrediti e colpiti con le loro armi in un sobborgo di Parigi. Nella notte tra venerdi' e sabato si era verificato un attacco molto simile in un commissariato a Le Mans. "Non c'è più rispetto per le forze dell'ordine, e purtroppo il governo non e' riuscito a cambiare questa tendenza", ha denunciato Frederic Lagache, del sindacato di polizia dell'Alleanza. "Sono letteralmente scene di guerra", ha detto alla televisione Bfm, Valerie Pecresse, leader di destra della regione dell'Ile de France che comprende Parigi, mentre visitava la stazione di Champigny. "Il ministro dell'Interno deve aumentare il numero di agenti nei quartieri più duramente colpiti dalla criminalità organizzata", ha aggiunto. Diverse altre stazioni di polizia in tutta la Francia sono state prese di mira in simili attacchi di fuochi d'artificio quest'anno e la stazione di Champigny sur Marne era già stata colpita, lo scorso aprile, da giovani che brandivano fuochi d'artificio. "Ma erano solo ragazzi che protestavano durante il lockdown" imposto per frenare il coronavirus, ha spiegato il sindaco Jeanne. "Oggi siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso, questi volevano ferire due agenti", ha aggiunto.
Estratto dall'articolo di Anais Ginori per “la Repubblica” il 12/10/2020. «Ci sono due clan, la polizia e loro. Inconciliabili». «Loro» sono quelli che nel suo libro Valentin Gendrot chiama i «bastardi ». Giovani arabi, migranti, ragazzi di colore. «Quando eravamo in pattugliamento e passavamo davanti a un gruppo di giovani, il commento dei poliziotti era: Ecco i bastardi». Gendrot è un giornalista di 32 anni ma parla ancora come se fosse un poliziotto. Per sei mesi ha lavorato come assistente alla sicurezza in un commissariato del diciannovesimo arrondissement , uno dei quartieri più popolari della capitale. «All'inizio sono stato io a infiltrarmi nella polizia» racconta bevendo un caffé nel quartiere multietnico della Goutte d'Or. «Dopo tre o quattro mesi, è stata la polizia a infiltrare me. Ho adottato le parole, i codici e gli atteggiamenti dei miei colleghi». Il libro di Gendrot, Flic , sbirro, ha provocato un nuovo shock in Francia dove non passa giorno senza che ci sia una polemica sulle forze dell'ordine. Uomini in divisa accusati di violenze e abusi, come nel caso di Adama Traoré o Cédric Chouviat, morti durante dei controlli di polizia. Ma anche agenti che si fanno massacrare o attaccare da bande di giovani com' è successo questa settimana nella regione di Parigi. «La polizia francese ha due problemi - spiega Gendrot - la mancanza di riconoscimento nella popolazione e l'assenza di risposte dallo Stato al suo profondo malessere ». Il suo esordio in divisa è cominciato con l'assistere al pestaggio di un ragazzo in custodia e l'arrivo di una donna venuta per raccontare del marito violento. «Torni se lo farà di nuovo» hanno risposto gli agenti rifiutandosi di prendere la denuncia. Gendrot narra una perquisizione per un banale problema di musica ad alto volume che finisce con un giovane caricato sul furgone, riempito di botte e scaricato qualche chilometro dopo. Quando l'adolescente presenta denuncia, il giornalista fornisce una falsa testimonianza per coprire i suoi colleghi aggressori. Gendrot ammette un «caso di coscienza». La bugia, sostiene, è stata «un danno collaterale » per poter continuare la sua inchiesta. Ora che l'Igpn, l'organo di vigilanza interna della polizia, ha riaperto l'inchiesta sarà di nuovo convocato. «Non vedo l'ora di poter dire la verità. A volte mi domando: cosa penserà quel ragazzo della polizia?». (…) Il suo viaggio nella polizia, già in corso di traduzione in vari Paesi europei, cambierà qualcosa? Il giornalista francese è pessimista. «Dubito che il governo avrà davvero la forza di eliminare le mele marce».
Nicola Sarkozy in tv: "Scimmie e negri, si può dire ancora?". Sconcerto in diretta: "Questo è razzismo". Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 12 settembre 2020. Per pubblicizzare il suo ultimo libro, Le temps des tempêtes, l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy ha accettato giovedì sera anche l'invito di Quotidien, trasmissione molto seguita dalla Parigi radical-chic, in onda sul canale Tmc. Alle domande dell'intervistatore, il giornalista Yann Barthès, Sarkozy ha risposto inizialmente con il suo solito atteggiamento da piacione, suscitando anche alcuni sorrisi tra gli opinionisti progressisti presenti in studio. Ma ad un tratto, la situazione è precipitata: Sarkò, tra una battuta l'altra, ha associato infatti il termine «singes», scimmie, e «nègres», negri, come se niente fosse. Prima ha criticato «le élite, che si turano il naso, che sono come le scimmie e non ascoltano nessuno», poi si è interrotto e, convinto di risultare simpatico, ha pronunciato queste parole: «Non lo so più: abbiamo ancora il diritto di dire "scimmie"? Perché non abbiamo più il diritto di dire... Come si dice? 'I dieci piccoli soldati' ora? Si dice così. Già la società progredisce!». A nessuno è sfuggito il riferimento al celebre romanzo di Agatha Christie Dix petits nègres, che è appena stato ripubblicato e ribattezzato in francese "Ils étaient dix", con la parola "nègre" sostituita nel libro dalla parola "soldat" per volere del nipote della giallista britannica, James Prichard. E a nessuno è andata giù l'associazione maldestra avanzata dall'ex inquilino dell'Eliseo. «E così un ex presidente della Repubblica francese associa spontaneamente le scimmie ai "negri"il razzismo senza mascherina», ha denunciato il segretario nazionale del Partito socialista, Olivier Faure. Anche Ségolène Royal, ex candidata alle presidenziali del 2007, che perse proprio contro Sarkozy, ha manifestato la sua indignazione: «Ahimè, è sulla falsariga del suo deplorevole discorso di Dakar del 2007, durante il quale aveva affermato che "l'uomo africano non è entrato abbastanza nella Storia"». Audrey Pulvar, assessora di origini martinichesi del comune di Parigi, ha twittato: «Oggi non si può più dire niente ma si può mettere il segno uguale tra "negro" e scimmia, in un abissale silenzio, senza essere contraddetti. È un razzismo puro e profondo, disinvolto, naturale. In tranquillità». Accuse pesanti sono arrivate anche dal leader degli ecologisti Yannick Jadot, che ha parlato di "naufragio razzista" dell'ex capo dello Stato francese. L'unica persona che ha provato a difenderlo è stata Rachida Dati, la sua fedelissima ministra della Giustizia. Ma è stata l'unica, appunto.
Michela Marzano per la Stampa il 17 settembre 2020. In Francia, esistono ancora dei certificati di verginità. In che senso? si chiederà senz' altro qualcuno. Tanto più che anch' io me lo sono chiesta. Scioccata di fronte alla querelle che si è scatenata oltralpe, dopo che il governo ha annunciato una legge per vietare questo tipo di certificati. Ieri, su Libération, un gruppo di medici e ginecologi ha infatti pubblicato un appello chiedendo all' esecutivo di ripensarci. E la Francia si è spaccata. I firmatari del testo - va precisato - non sono affatto favorevoli alla pratica, che giudicano anzi barbara, retrograda e sessista: il certificato viene in genere richiesto dai genitori o dai futuri sposi di giovani donne cui viene allora controllata l'integrità dell'imene. Ma questi medici e ginecologi sostengono anche che, quando sono loro a fornire i certificati, salvano la vita a ragazze fragili, sole, impaurite e oppresse. E che una legge che impedisca loro di continuare a farlo implicherebbe solo un peggioramento della situazione per tutte coloro che, non potendo proteggersi da sole, sarebbero probabilmente costrette a recarsi all' estero o a sottomettersi a visite clandestine. E quindi? Continueranno senz' altro a chiedersi in tanti. Quindi la proposta dei firmatari della petizione contro la proposta di legge è quella di non vietare, ma educare, al fine di dare strumenti a tutti e tutte per modificare stereotipi e comportamenti. Una sorte di male minore. Come se sul piatto della bilancia ci fosse, da un lato, il diritto all' intimità e alla privacy e, dall' altro, il diritto alla salute. Io, però, ho qualche dubbio che le cose stiano esattamente così. Nonostante sia sempre in prima linea per difendere la necessità di superare attraverso l' educazione i problemi legati al sessismo, al non rispetto dell' uguaglianza e ai fondamentalismi piuttosto che obbligare per legge a modificare certi comportamenti, questa volta non ce la faccio proprio a essere contraria a questa proposta di legge sui certificati di verginità. Sono estremamente sensibile al rischio che possono correre tante giovani donne, e penso che si debba escogitare tutti insieme il modo migliore per proteggerle. Ma sono anche convinta che la legge abbia sempre un valore simbolico, e che vietare qualcosa significa quindi dare un messaggio, indicare una strada e, nel caso specifico, significare che nel 2020 questa pratica è un' inaccettabile barbarie. Non intervenire e sperare che un giorno, forse, le cose cambieranno, significherebbe avallare l' idea che una giovane donna debba sottomettersi al volere dei genitori o del futuro marito, e quindi legittimare la dominazione e la violenza e l' intrusione nella sfera intima e il non rispetto non solo del corpo ma anche della persona. Come insegno ai miei studenti universitari, non c' è un modo giusto o sbagliato di essere o di amare, anche semplicemente perché ognuno di noi è diverso e la diversità è indice di ricchezza. Ma questo non significa che non ci sia un modo giusto o sbagliato di agire o fare o comportarsi. Nulla legittima l' oppressione e la dominazione né tantomeno il non rispetto della dignità e della libertà della donna. E anche se esiste una differenza fondamentale tra norme giuridiche e norme morali, è bene che la legge vieti queste pratiche immorali, incarnando i valori della libertà, dell' uguaglianza e della fraternità che sono alla base della République.
La Francia si spacca sui certificati di verginità per le ragazze. I medici: "Sbagliato vietarli". Pubblicato mercoledì, 16 settembre 2020 da Anais Ginori su La Repubblica.it Gli attestati sono richiesti da genitori o futuri mariti: il governo vorrebbe abolirli nell'ambito di un progetto contro il "separatismo", in particolare islamico. Ma secondo molti operatori la legge rischia di mettere in pericolo le giovani più fragili. "No alla legge che vieta i certificati di verginità". Il sorprendente appello viene da un gruppo di ginecologi e medici francesi schierati contro la decisione del governo di approvare una legge per vietare questa pratica sessista, umiliante, rendendo penalmente responsabili i dottori che si prestano a rilasciare i certificati. Secondo i firmatari del testo pubblicato su Libération la proposta dell'esecutivo, che fa parte del progetto più ampio contro il "separatismo" in particolare islamico, rischia di mettere in pericolo le ragazze che vivono in famiglie integraliste. I certificati di verginità vengono rilasciati dopo un controllo dell'integrità dell'imene e vengono di solito richiesti da giovani, o piuttosto da genitori e futuri mariti. I medici firmatari sottolineano che si tratta di un fenomeno minoritario. "Siamo decisamente contrari ai test di verginità" precisano. "È una pratica barbara, retrograda e totalmente sessista. In un mondo ideale, tali certificati dovrebbero naturalmente essere rifiutati". Poi però aggiungono: "Ci capita di dover fornire questo certificato a una giovane donna per salvarle la vita, per proteggerla perché è indebolita, vulnerabile o minacciata". Secondo i firmatari approvare un bando con reato penale significa abbandonare le ragazze a pratiche clandestine, o a viaggi all'estero per ottenere comunque gli attestati, mentre oggi la consultazione è l'occasione di aiutare le ragazze "a prendere coscienza e a liberarsi dal dominio maschile o familiare". L'appello è sottoscritto tra gli altri dal direttore del reparto ostetricia-ginecologia dell'ospedale parigino Bicêtre, dalla presidente del collettivo femminista Cfcv Emmanuelle Piet e dal presidente di Gynécologie Sans Frontières (Gsf) Claude Rosenthal. Il ministro dell'Interno Gérard Darmanin, accompagnato dalla sottosegretaria alla cittadinanza Marlène Schiappa, aveva annunciato la settimana scorsa la misura appoggiandosi su una decisione dell'Ordine dei Medici. "Tale esame - ha scritto il consiglio nazionale dell'Ordine nel 2017 - non ha alcuna giustificazione medica e costituisce una violazione del rispetto della privacy di una giovane donna, in particolare quando minorenne". L'idea che nella Francia del 2020 ci siano ancora donne (e medici) che si occupano certificati di verginità, con nessun valore legale, sembra incredibile. Ma la soluzione, dicono i medici promotori dell'appello al governo, non è una legge. "Significa attaccare gli effetti trascurando la causa che affonda le sue radici nell'ignoranza e nella paura. Solo l'educazione - concludono i firmatari - permetterà l'emancipazione di queste giovani donne".
Il caso del certificato di verginità. Intervista a Marcelle Padovani: “Povera Francia, come sei caduta in basso”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 19 Settembre 2020. «Povera Francia mia, come siamo caduti in basso! Fare di una vicenda che coinvolge un numero ridottissimo di ragazze un caso nazionale che investe il Parlamento, è il segno di una regressione culturale davvero preoccupante». A sostenerlo a Il Riformista è una delle più autorevoli giornaliste e saggiste francesi: Marcelle Padovani, storica corrispondente in Italia del Nouvel Observateur. La Francia si spacca sui certificati di verginità. Un gruppo di ginecologi e medici francesi hanno sostenuto, in una lettera pubblicata da Libération, che è «sbagliato vietarli», schierandosi contro la decisione del governo di approvare una legge per vietare questa pratica sessista, umiliante, rendendo penalmente responsabili i dottori che si prestano a rilasciare i certificati.
Cosa c’è dietro questa storia?
«Prima di tutto devi raccontarla la storia. Perché il numero dei casi è assolutamente ridicolo. C’era una infermiera su Le Monde ieri (giovedì per chi legge, ndr) che raccontava che nell’ospedale in cui lavora, uno dei più grandi di Parigi, lei ha avuto due casi nel corso di un anno. Per dire che si tratta di fenomeni totalmente marginali. Il fatto interessante è che la politica se ne occupi, questo sì, che il Parlamento voglia vietare i cosiddetti certificati di verginità che sono richiesti in certi settori del mondo musulmano, quelli più arretrati: in Francia ci sono cinque milioni di musulmani e non sono tutti per il certificato di verginità. Questo certificato servirebbe a garantire che la donna che tu devi sposare non ha avuto relazioni sessuali. Ma, in concreto, come si fa questo esame di verginità? C’è una infermiera che ti mette un apparecchietto nella vagina e poi nell’utero, che vede se il tuo imene è intatto o meno. Però può essere intatto pure se tu hai già fatto parecchi esercizi erotici e può essere rotto anche se tu non hai fatto niente. Dunque non è da nessun punto di vista, né scientifico, né morale, una cosa decisiva. E allora c’è da chiedersi perché il Parlamento francese ha messo in programma una discussione sulla soppressione di questo certificato…»
Giusta annotazione. Perché lo ha fatto?
«Perché dietro c’è una grande regressione delle nostre civiltà, una regressione che si traduce anche in altri fenomeni…»
A cosa si riferisce?
«Ad esempio, parecchi aspetti del Me Too, un movimento che in Francia è molto forte. Come fai a denunciare uno che ti ha molestato tanti anni fa: perché non lo hai fatto prima? Oggi cerchi una rivincita, cerchi di affermarti. Il tuo “femminismo” ha trovato un’unica via di uscita: questa regressione, perché tale è, un ritorno indietro. In tutto questo si parla di certificati di verginità. I giorni scorsi in Parlamento è arrivata una ragazza diciottenne fra il pubblico che portava il chador. Si è scatenato un dibattito se quella ragazza avesse il diritto o meno di indossare il velo. Normalmente ha il diritto, perché è una persona del pubblico, ci sono altri però che dicono che in una istituzione pubblica, che deve essere rappresentativa, non ci devono essere simboli religiosi. Tutto è occasione per creare polemica. C’è una regressione generale, una società incattivita, e questo si coglie soprattutto nell’atteggiamento verso colui che dovrebbe rappresentare la Francia e i francesi: il Presidente».
Come si manifesta e perché questo incattivimento?
«Oggi la stragrande maggioranza dei francesi vorrebbe “ghigliottinare” Macron. Non vogliono sconfiggerlo, cosa del tutto lecita, ma lo vogliono appendere per i piedi, lo vogliono eliminare. E questo perché lui ha deluso, perché lui non è catalogabile. Non va dimenticato che al primo turno delle presidenziali che lo hanno visto poi vincitore al ballottaggio, Macron ha avuto il 24% dei suffragi. Al secondo turno, poiché aveva come avversaria la Le Pen, tutti i democratici, anche di destra, come di centro e di sinistra, hanno votato per lui e questo gli ha permesso di raggiungere il 60%. Ma è sempre stato vissuto come un minoritario. Poi ha fatto delle politiche che dal punto di vista tecnico e della competenza erano assolutamente intelligenti, difendibili, ma dal punto di vista politico, lui ha accumulato errori su errori per ignoranza, perché non è un politico. E adesso sono gli antipolitici che vogliono vendicarsi su di lui».
Per tornare al tema di questa nostra conversazione. I medici e ginecologici, che hanno firmato il testo pubblicato da Libération, sostengono che abolire i certificati di verginità significa mettere in pericolo le ragazze che vivono in famiglie integraliste. Ma che idea di Islam c’è dietro questo assunto?
«C’è una generalizzazione assolutamente infondata, perché stiamo parlando di pochissimi casi. Il problema è assolutamente marginale e trasformarlo in un problema generale è una forzatura che non regge. Lasciami aggiungere una cosa su Libération: il nuovo direttore, che è stato nominato nei giorni scorsi, viene da Haaretz (uno dei più importanti giornali israeliani, ndr), e non credo che sia un illuminato del mondo islamico».
Lei ha parlato del degrado del dibattito politico-culturale in Francia. In tutto questo, gli intellettuali che ruolo hanno (se ne hanno ancora uno)?
«Non c’è più un mondo intellettuale unico, unitario, uniforme, che pure ha fatto la fortuna della Francia o comunque ne ha fortemente segnato per decenni il mondo culturale. Oggi hai gli intellettuali di sinistra, gli intellettuali di destra e pure gli intellettuali di estrema destra, una cosa che prima non esisteva. Adesso questi parlano, straparlano, hanno un seguito. Assistiamo a un problema più vasto che investe la mentalità francese, dove alcune forme di ignoranza e di incompetenza si traducono e alimentano gli estremismi, con la ghigliottina e con l’estrema destra. E oggi con il certificato di verginità».
Quanto interessa questo mondo intellettuale al movimento femminista francese?
«Direi poco o niente. Rivendicano invece una presenza, un riconoscimento oserei dire “mediatico”. Quello che conta davvero per loro è la rivincita mediatica. E questa rivincita ce l’hai di più nella musica, nella canzone, nel cinema, nella produzione, nei social. Il resto è marginale. È archeologia».
Stefano Montefiori per corriere.it il 16 settembre 2020. «Basta vestirsi normalmente e andrà tutto bene», dice il ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer, sperando così di spegnere la polemica. Ma una frase che voleva essere distensiva ha rilanciato la protesta delle ragazze francesi, che lunedì hanno cominciato ad andare a scuola in crop-top (con l’ombelico in vista), minigonna, o braccia scoperte. Che cosa significa «vestirsi normalmente?», in un Paese dove il senso del pudore sembra stia cambiando e il canone finora abituale viene messo in discussione? Per decenni le donne francesi hanno potuto — se volevano — prendere il sole in spiaggia a seno scoperto, ma il 26 agosto due di loro sono state invitate a rivestirsi dai poliziotti a Sainte-Marie-la-Mer, poco lontano dalla Spagna, in seguito alle proteste di una famiglia preoccupata per il «turbamento» dei bambini. Venerdì scorso una 22enne è stata respinta all’ingresso del Museo d’Orsay a Parigi perché gli inservienti hanno giudicato il suo abito troppo scollato, e qualche settimana prima era toccato a un’altra ragazza essere bloccata all’entrata di un supermercato «Casino» di Six-Fours-les-Plages, nel Sud, perché l’agente di sicurezza la riteneva poco vestita. Accanto a questi casi straordinari, finiti sui giornali, c’è l’infinita serie di piccoli soprusi che le donne francesi denunciano con forza ormai da mesi, sull’onda del movimento #MeToo: ogni giorno, soprattutto in certe periferie ma anche nel centro della capitale e delle altre metropoli, una gonna corta viene interpretata come un invito a manifestare avances, un vestito leggero scambiato per un’allusione sessuale, una maglietta sbracciata considerata un ammiccamento che rende lecito qualsiasi commento. Che cosa sta succedendo alla Francia, il Paese che il topless lo ha inventato e che un immaginario forse un po’ sorpassato associava a una libertà femminile serena, al riparo da oscurantismi, nervosismi e frustrazioni machiste? Le liceali protestano contro regole che in un contesto normale e pacificato sarebbero di «buon senso», come dice il ministro Blanquer: non si va a scuola vestiti come in spiaggia, questo dovrebbe essere banale e valere per maschi e femmine. Il problema è che poi il richiamo alla «tenuta corretta», in tanti istituti, viene applicato solo alle ragazze, ritenute colpevoli altrimenti di distrarre i compagni, e di indurli in tentazione per colpa di abiti non sufficientemente castigati. Siamo all’eterna questione dell’uomo che molesta, o magari violenta, ma è la donna che deve dimostrare di non averlo incoraggiato. Così i social media francesi da lunedì sono pieni di foto di studentesse più o meno scollate, con cartelli che dicono «invece di coprire le ragazze educate i vostri figli», e messaggi che spiegano: «I ragazzi possono vestirsi come vogliono, mentre noi veniamo costantemente riportate alla questione della sessualità. In questi giorni ci sono 30 gradi, andiamo in giro scoperte solo perché fa molto caldo. O dovremmo metterci un maglione per fare stare tutti tranquilli?». La protesta delle studentesse delle scuole medie e dei licei francesi imbarazza anche il governo, perché se il ministro Blanquer alza gli occhi al cielo provando a minimizzare, la collega alla Cittadinanza ed ex ministra alla Parità donne-uomini, Marlène Schiappa, si schiera con la protesta: «In tutta la Francia ci sono ragazze che hanno deciso di mettersi in gonna, décolleté, crop-top o di truccarsi, per affermare la loro libertà rispetto a giudizi o atti sessisti. Da madre, le sostengo con vicinanza e ammirazione».
Stefano Montefiori per corriere.it il 10 settembre 2020. «O si copre, o lei non entra», hanno intimato i funzionari del Museo d’Orsay a una giovane donna con abito scollato. Dopo un breve litigio all’ingresso la visitatrice ha ottemperato mettendosi la giacca, e con l’amica che l’accompagnava ha contemplato, umiliata e intabarrata, nudi celebri come «L’origine del mondo» di Courbet o la «Colazione sull’erba» di Manet. Poi, il giorno dopo, Jeanne ha scritto una feroce lettera aperta, raccontando nei dettagli l’accaduto su Twitter, con lo pseudonimo Tô’. «È martedì 8 settembre, il caldo aumenta nel pomeriggio e le braccia si scoprono. Ho voglia di andare al museo d’Orsay, e non sospetto che il mio décolleté sarà un oggetto di discordia. Arrivata all’ingresso non ho il tempo di mostrare il biglietto che la vista dei miei seni turba la funzionaria incaricata del controllo delle prenotazioni, che parte salmodiando: ”Ah no, non è possibile, non si può lasciare passare una cosa simile”, mentre la collega cerca di convincerla a lasciare perdere. Chiedo che cosa stia succedendo, nessuno mi risponde ma fissano i miei seni, mi sento a disagio, l’amica che mi accompagna è sconvolta. Un altro agente, di sicurezza stavolta — i seni, quest’arma di distruzione di massa — si avvicina e mi intima ad alta voce: ”Signora le chiedo di calmarsi”. Sono calmissima, vorrei solo capire perché non posso entrare nel museo. ”Le regole sono le regole”. Arriva un altro responsabile, nessuno ha il coraggio di dire che il problema è il décolleté, ma tutti fissano apertamente i miei seni, designati alla fine con un ”questo”». «Le regole sono le regole», ripetono i funzionari. Non lo dicono, ma la famosa regola potrebbe essere l’articolo 7 del regolamento interno: «Gli utenti devono conservare una tenuta decente e un comportamento conforme all’ordine pubblico e devono rispettare la tranquillità degli altri utenti». Giudicare della decenza di un abito può essere operazione delicata, affidata alla sensibilità di chi è chiamato a farlo. La donna diffonde quindi una sua foto con lo stesso vestito, scattata qualche ora prima al ristorante dell’Hotel Meurice. Davvero quella è una tenuta indecente? Ci si aspetterebbe questa obiezione all’ingresso del Museo della rivoluzione islamica di Teheran, non all’Orsay di Parigi, città che anzi un tempo aveva fama di essere gioiosa e liberale. Ma se nella spiaggia di Pérpignan vengono multate (senza alcuna base giuridica) due bagnanti in topless, può capitare che pochi giorni dopo una donna in vestito scollato sia bloccata all’ingresso di uno dei musei più visitati al mondo. Dopo la sua denuncia, anche un’altra ragazza su Twitter ha raccontato di essere stata respinta di recente per motivi analoghi, colpevole di avere lasciato braccia e ombelico scoperti «per il caldo, non certo per esibizionismo». Jeanne protesta soprattutto contro il sessismo. «Io non sono solo i miei seni, non sono solo il mio corpo. Mi domando se gli agenti che volevano proibirmi di entrare sanno a che punto hanno obbedito a dinamiche sessiste. Non può essere il giudizio arbitrario su che cosa è decente e cosa non lo è a determinare l’accesso o meno alla cultura». Ma la questione è anche se la nozione di decenza in Francia stia cambiando, e se quei funzionari abbiano ubbidito a un nuovo canone — più severo, più castigato — ispirato al neo-puritanesimo americano o magari al concetto di «modestia» propagandato nelle periferie (e non solo) dagli islamisti radicali. In serata la direzione del museo ha preso posizione — «Siamo profondamente dispiaciuti per questo incidente e presentiamo tutte le nostre scuse alla persona coinvolta» — imputando l’accaduto a un «eccesso di zelo» dei funzionari, dipendenti di una società esterna.
Benedetta Perrilli per "d.repubblica.it" il 14 settembre 2020. Indossava un abito troppo scollato per poter visitare le sale del museo d'Orsay, a Parigi, e così una visitatrice è stata costretta a indossare una giacca per poter ammirare l'esposizione. Un gesto che ha fatto molto discutere e che non poteva non essere vendicato dalle attiviste di Femen. Le femministe, note per le loro azioni di protesta a seno nudo, si sono introdotte nel museo e hanno posato in topless, con le mascherine e mantenendo le distanze di sicurezza, mostrando sul corpo le scritte "Non è osceno" e "L'oscenità è nei vostri occhi". In un comunicato hanno spiegato la ragione della dimostrazione citando anche l'episodio delle due donne in topless a Sainte-Marie-la-Mer alle quali gli agenti di polizia hanno chiesto di indossare il costume: "Il museo d'Orsay ospita numerose opere, molte delle quali nudi femminili e maschili, così come il celebre dipinto L'origine du monde di Gustave Courbet. Per quegli agenti un abito scollato è un problema, ma non crea loro alcun problema fissare i seni di una donna e giudicare com'è vestita". Le attiviste hanno spiegato di voler combattere il pregiudizio sul corpo della donna che "ogni volta è come se venisse etichettato osceno o sconveniente" e che "solamente ricordando che il corpo non è osceno e sostenendo Jeanne (la turista allontanata dal museo) e tutte le donne vittime di discriminazioni sessiste si ferma la sessualizzazione del corpo delle donne". Jeanne, la studentessa protagonista dell'incidente avvenuto l'8 settembre al museo francese, aveva raccontato su Twitter di essere stata discriminata all'ingresso a causa del suo abbigliamento. La lettera aperta, nella quale raccontava come due agenti le avessero imposto di indossare una giacca per poter entrare nel museo, era diventata subito virale e costretto il museo a pubblicare delle scuse. Intanto la rentrée scolastica è stata segnata in Francia, oltre che dall'emergenza Covid, anche da una polemica sul dress code sessista imposto dalle scuole. Vari gruppi femministi e molti studenti hanno indetto per il 14 settembre una protesta contro la decisione di alcuni istituti scolastici (in particolare il liceo Pierres Vives di Carrières-sur-Seine) di vietare indumenti giudicati "indecenti" come shorts, minigonne e crop top. Gli stessi indumenti che chi partecipa alla protesta #Lundi14septembre ha deciso di indossare in forma ancora più audace. La protesta, nata spontaneamente sui social, ha ottenuto il sostegno della ministra Marlène Schiappa, delegata responsabile della cittadinanza, che in un tweet ha commentato: "Come madre le sostengo con sorellanza e ammirazione". A favore del movimento anche le attiviste de Les Glorieuse che spiegano: "Osate top, gonne e trucco per reagire alle loro proposte sessiste. Vi invito a farlo tutti, senza preoccuparvi del vostro genere, uomini, donne, non binari. L'abbigliamento non ha un genere e possiamo indossare quello che vogliamo. Dimostriamoglielo".
Le entrate di seno e le uscite di senno. Roberto Marino il 13 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. CHI HA visto le foto è rimasto sconcertato: tutto ha la scollatura di Jeanne, una studentessa di 22 anni, la prima persona al mondo a essere respinta all’ingresso di un museo, tranne un aspetto conturbante, malizioso, ammiccante. Il seno è abbondante, ma casto, composto, ordinato, somiglia a quello delle balie da latte ciociare, per secoli supplenti di tette per i rampolli dell’aristocrazia romana. Un seno da ciaciona, non da bonazza, senza pensieri tinti, neanche paragonabile a quelli che si vedono su certi tappeti rossi del cinema, con capezzoli al vento in cerca dello scattino portafortuna. La povera Jeanne è stata bloccata da una donna davanti al Museo d’Orsay di Parigi, la vecchia stazione adattata che ospita opere d’arte e capolavori dell’Impressionismo. Non è stato un uomo a fermarla, ma un’altra donna. Una mortificazione incredibile, un imbarazzo da trauma psicologico. Una follia. L’episodio ha fatto il giro del mondo e qualche altro museo si è subito affrettato a rilanciare, offrendo pacchetti di visite a occhi chiusi, senza stare con il centimetro in mano a contare la larghezza del décolleté. Cosa sia passato per la testa dell’addetta al controllo resta un mistero. Il Museo d’Orsay ospita un’infinità di quadri con nudi, a partire dal celebre “L’origine del mondo”, di Gustave Courbet. Secoli e secoli di arte hanno esaltato la bellezza femminile. Corpi e forme lontane dalla mercificazione della donna di oggi, risalgono a prima di Cristo: hanno attraversato i tempi portando sensualità, turbamenti, attrazione senza che mai venissero considerati sconci, volgari. L’incredibile episodio di Parigi ci riporta in epoche buie. E il fatto che sia stata proprio una donna a spalancare la porta della fobia per la nudità femminile crea molte perplessità. Persino l’Italietta appena uscita dal boom economico, con i vigili urbani a misurare sulle spiagge i bikini e i pretori bacchettoni e ipocriti, con le forbici pronti a sequestrare film e riviste scollacciate, non ha mai avuto esitazioni nell’esibire la bellezza nuda arrivata dalla genialità degli artisti. E nessuna nei musei è mai entrata dopo il famigerato invito: «Rosalia, componiti».
Luca Beatrice per mowmag.com il 10 settembre 2020. E pensare che proprio in quelle sale dalla metà degli anni ’80 è esposto L’origine du monde, il piccolo capolavoro di Gustave Courbet e mai prima di allora (il quadro era stato dipinto nel 1885) un pittore aveva osato rappresentare in maniera così realistica il sesso femminile, ai tempi tutt’altro che glabro, nonostante la storia dell’arte sia ricca di nudi, alcuni dei quali erotici, ammiccanti, provocatori. Quando L’origine arrivò finalmente al Musée d’Orsay, lascito degli eredi dello psicanalista Jacques Lacan, sembrarono davvero piegate le ultime resistenze della censura. D’altra parte, Parigi è sempre stata la capitale della sessualità più libera già dagli anni ‘60, il cinema faceva passare modelli di donne emancipate e dominatrici come Brigitte Bardot e Jane Birkin, il laicismo e la libertà d’espressione, i bigotti erano invitati a trasferirsi altrove. Negli anni ’70 si impose la Body Art e tante artiste donne lavoravano con il proprio corpo nudo, un corpo contro, politico, aggressivo nei confronti del modello femminile proposto dai media e adottato dai maschi. Un secolo dopo il quadro di Courbet, le pornostar andavano in tv, in parlamento, alla Biennale di Venezia. Per non parlare della moda che scopriva centimetri di pelle, lavorava con le trasparenze fino al nude look e nelle spiagge era assolutamente normale il topless. Oggi, anno di (s)grazia 2020, viviamo in un’epoca bacchettona, moralista, pretesca, talebana e sessuofobica che, in nome del più stucchevole politicamente corretto, censura, impone le mani sugli occhi, tarpa le ali, tranne poi massacrarsi di seghe sui siti porno, gratuiti e di libero accesso anche per i minori (provate a digitare sul motore di ricerca “giochi per bambine”, compariranno sex toys mica le Barbie).
Tinder mi ha bloccato per sempre per colpa di una segnalazione falsa. Un paio di giorni fa una giovane donna orientale di bell’aspetto, in visita al Musée d’Orsay, è stata fermata all’ingresso da solerti guardiane (donne pure loro): non aveva la mascherina? Aveva la febbre? Non si voleva detergere le mani? Niente di tutto ciò, semplicemente la ragazza si era presentata con un abito scollato, come se ne usano tanti nella calda estate, che lasciava intravedere un seno piuttosto generoso. Al museo ci si veste più decorosamente, le hanno detto, o ti copri o non entri. La giovane ha obbedito, ma dopo aver concluso la visita ha pubblicato un post sui social raccontando l’accaduto, di cui non risultano precedenti almeno in Occidente. Notizia ripresa dalle maggiori testate, il dibattito divide le opinioni tra chi evidentemente equipara il museo a una chiesa (nonostante le numerose opere a soggetto sacro il museo non è un luogo di culto) e chi sostiene che di questo passo arriveremo presto ai diktat della Santa Inquisizione. Mi prendo la responsabilità di ciò che sto per scrivere e se da qua in poi qualcuno mi odierà, pazienza. Evviva chi mostra il proprio bel corpo, soprattutto il seno che è un inno alla vita, alla maternità, alla sessualità. Lo avevano capito i pittori, Botticelli e Velazquez, Tiziano e Goya: oggi lasciamo decidere al personale di sorveglianza? Altre sarebbero le cose da vietare per decenza:
le canotte su braccia mollicce con relativo alone di sudore.
I bermuda e i pinocchietti su gambe pelose, prevalentemente maschili.
Sandali tipo Birkenstock su piedi nudi, prevalentemente maschili, con unghie mal curate. Agli uomini andrebbe fatto obbligo, tranne che in spiaggia, l’uso della scarpa chiusa.
Tshirt con marchi troppo vistosi, a meno che uno non sia pagato dall’azienda a scopo pubblicitario.
Fantasmino o calzino corto che fuoriesce dal mocassino. Un’aberrazione.
Mutandone bianco o nero reso troppo visibile da stoffe trasparenti.
Capelli sporchi, mal curati, con evidente ricrescita o tintura dozzinale.
La regola da osservare è che da una certa età in poi è meglio coprirsi. In quanto alla giovane e bella orientale, obbligarla a chiudere il decolleté è un sopruso politico indecente, specchio di una società malata che sta tornando al Medioevo.
Le guerre oscure del Sahel. Davide Bartoccini il 28 agosto 2020 su Inside Over. Si sta combattendo una brutta guerra in Sahel. Una guerra complessa, asimmetrica, nella quale si mischiano e si scontrano reclute di eserciti locali, poco preparate e mal armate, terroristi sanguinosi e risoluti, e soldati europei, che nonostante l’impiego delle armi e dei mezzi più sofisticati, non riescono ad arginare in nessun modo la minaccia. Uno scenario che ha tutte le carte per diventare il vero nuovo fronte caldo della “guerra santa”, combattuta ciecamente dalle ultime bandiere nere dell’integralismo islamico. Sono state definite come ” due guerre parallele”, quelle che si stanno consumando in Niger, Mali e Burkina Faso: i fronti più caldi della fascia Sahel, dove soldati con armi sorpassate, uniformi spaiate, e un addestramento basilare, talvolta lacunoso, vengono coadiuvati da specialisti delle truppe d’élite francesi – ora anche italiane – e si scontrano in una guerriglia sanguinosa che, dalle operazioni per l’eliminazione di bersagli “hunting-killer” condotte con i droni, finiscono per sfociare in “massacri e esecuzioni sommarie”. Mettendo sotto accusa il governo di Parigi, che tace su quelle che parrebbero essere delle ritorsioni mosse dalla frustrazione. Una frustrazione condivisa con i vertici militari francesi, che non riescono a venir fuori da quella che più volte abbiamo definito “l’Afghanistan francese“. Due guerre perché mentre le forze speciali francesi conducono raid chirurgici – emulando i Navy Seal in Medio Oriente, ed eliminando “bersagli di alto valore” come il leader di Al Qaeda nel Maghreb islamico, Abdelmalek Droukdel -, gli eserciti che fanno capo ai governi africani che Parigi supporta fornendogli armi e addestramento si stanno macchiando di veri e propri massacri inter-etnici nel corso di quelle che dovrebbero essere delle “operazioni anti-terrorismo“. A denunciarlo è stata per prima Amnesty International. Sarebbero almeno 200- secondo l’organizzazione non governativa – le vittime civili poi seppellite in fosse comuni localizzate in zone desertiche e isolate. Morti che andrebbero a sommarsi – sempre secondo le medesime fonti – alle “vittime collaterali” dei raid e delle operazioni condotte dai droni e dai commando francesi – che reclamano l’eliminazione di oltre mille terroristi affiliati alle cellule dei gruppi jihadisti attivi negli Stati che formano il noto G5. Eliminazioni che non risultano essere sufficienti ad arginare la minaccia, anzi, al contrario starebbero “gonfiando” le fila dei gruppi islamisti, riproducendo lo stesso circolo vizioso cui si è assistito per trent’anni in Afghanistan. Violazioni dei diritti umani, arresti, esecuzioni sommarie e vittime collaterali porterebbero molti giovani ad unirsi ai militanti del jihad che terrorizzano le reclute degli eserciti regolari – già vittime di numerosi devastanti attentati – e spesso le inducono a gettare le armi per unirsi a loro. Ibrahim Traoré, ricercatore dell’Institut d’études de sécurité di Bamako citato nel reportage di Pietro Del Re su Repubblica, spiega come “la strategia anti-jihadista dell’ex potenza coloniale” si sia rivelata “controproducente”, dato l’incremento di violenza cui si è assistito negli ultimi otto anni. “Dall’inizio dell’intervento di Parigi, nel 2013, i gruppi armati si sono moltiplicati e l’anno scorso nel Sahel gli attentati sono aumentati del 70%”, spiega il ricercatore. Gruppi che nell’ultimo decennio si sono ben organizzati ed espansi fino a mettere i generali di Parigi di fronte a una scelta estremamente delicata: abbandonare il campo e concedere la vittoria ai terroristi; oppure inviare rinforzi, uomini e mezzi, alzando la posta in gioco. Rinforzi che il ministro della Difesa francese ha chiesto apertamente anche all’Europa. Nell’intenzione di formare un nuovo comando interforze analogo a quello che venne allestito contro l’Isis nel Siraq. Secondo quanto sostenuto dalle fonti locali, le esecuzioni sommarie commesse dalle milizie locali che cooperano con l’esercito francese, hanno trovato una sorta di assoluzione da parte di Parigi, che estranea ai fatti sembra non essere al corrente di tali accadimenti. Anche se è difficile credere che l’intelligence francese fosse completamente all’oscuro di ciò che viene denunciato da Amnesty International. Dato che si sarebbe consumato in zone dove si muovono e operano continuamene soldati francesi e dove l’occhio vigile dei servizi segreti è sempre allerta. Ciò lascia quasi pensare, con il beneficio del dubbio, che di fronte a questi metodi barbari, ci si sia limitato a chiudere gli occhi per non aggiungere un’ulteriore problematica di difficile risoluzione, all’interno di un conflitto che sembrerebbe essere già lungi dall’essere vinto. Ma sono solo supposizioni fino a quando non ci saranno prove più schiaccianti sulla guerra sporca del Sahel.
Lite Algeri-Parigi sui resti dell'era coloniale. "La Francia ci deve ancora chiedere scusa". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Ettore Livini. L'Algeria ha seppellito ieri, nel giorno della festa dell'indipendenza, i resti di 24 combattenti caduti all'inizio dell'occupazione transalpina nel XIX secolo e ha ribadito di attendersi ancora le scuse della Francia per quel periodo storico. I teschi sono stati conservati per anni da un museo parigino e dopo la restituzione ad Algeri sono stati inumati nel cimitero dei martiri della rivoluzione algerina di El Alia, accanto ai resti dei capi di Stato. Alla cerimonia ha partecipato il presidente della Repubblica Abdelmadjid Tebboune. Algeri ha chiesto per la prima volta ufficialmente nel 2018 i resti dello sceicco Bouziane, capo della rivoluzione dei Buzian, e dei suoi compagni d'armi, catturati e passati per le armi all'inizio del periodo colonale durato dal 1830 al 1962, conservati al Museo nazionale di storia di Parigi. E lo stesso Macron si era impegnato a onorare l'impegno. "E' un segno d'amicizia per riparare le ferite della storia", ha spiegato. Nello stesso periodo, prima della sua elezione, aveva etichettato il periodo coloniale come "un crimine contro l'umanità" attirandosi molte critiche da destra. Al presidente algerino però non basta. Intervistato sabato dalla tv France 24, ha detto che è necessario "affrontare il problema della memoria che ipoteca molte cose nelle relazioni tra i due Paesi". E sulle possibili scuse di Parigi, è stato chiarissimo: "Abbiamo già ricevuto mezze scuse. Occorre fare un altro passo. Lo vogliamo. Contribuirà a calmare il clima e renderlo più sereno per le relazioni economiche, le relazioni culturali, le relazioni di vicinato".
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2020. Nascosti per ore dietro le mascherine anti-virus pur non obbligatorie, seduti nel nuovo tribunale di Parigi, quello pieno di luce disegnato da Renzo Piano, l'ex premier francese François Fillon e sua moglie Penelope ascoltano cupi la giudice Nathalie Gavarino pronunciare la sentenza di condanna - cinque anni di carcere per lui, tre per lei - assortita di frasi tremende: «Il contributo della signora Fillon si limitava alla presenza a qualche manifestazione locale, al racconto di qualche aneddoto»; l'ex premier «ha mancato al suo dovere di probità» e al suo «dovere di esemplarità»; ha fatto prevalere «il suo interesse a fini di arricchimento personale», ha contribuito a «erodere la fiducia dei cittadini», ha «rovinato la vita della democrazia». La ramanzina della giudice Gavarino è così dura e le accuse talmente vaste - pure la crisi planetaria della rappresentanza politica sembra colpa di Fillon - che a un certo punto è difficile reprimere un moto di simpatia per l'uomo che fino al 25 gennaio 2017 - giorno di uscita dell'articolo sul Canard enchaîné - era pressoché certo di diventare a maggio il nuovo presidente della Repubblica francese. Ma al di là dei toni moraleggianti della giudice, il tribunale ha stabilito che François Fillon si è impossessato illegalmente di oltre un milione di euro. Insomma sembra vero quel che era apparso subito anche ai meno inclini al giustizialismo, ovvero che i Fillon l'hanno combinata grossa. Penelope Fillon, nata Clarke nel Galles 64 anni fa, non è mai stata l'assistente parlamentare dell'ex potente uomo politico francese, come lei stessa spiegava in una candida intervista televisiva del 2007. Però il suo impiego fittizio a spese dei contribuenti ha fruttato ai Fillon centinaia di migliaia di euro. Poi ci sono i 46 mila euro per i finti lavori parlamentari dei figli Marie e Charles Fillon, e 78 mila euro per il ruolo di Penelope - fasullo anche quello - come consulente editoriale alla «Revue des deux mondes» edita dall'uomo d'affari amico di famiglia Marc Ladreit de Lacharrière. Un totale di 1 milione 155 mila 701 euro «totalmente ingiustificabili» ma comunque entrati nelle casse di un uomo di Stato sempre in bilico tra proclami sulla virtù borghese dell'oculatezza, e le foto della coppia con i cinque figli davanti al castello di proprietà nella Sarthe, sotto titoli di grande umorismo postumo come «per governare bene bisogna essere equilibrati». Fino a quel giorno di gennaio 2017, tutto o quasi era andato liscio nella vita non solo politica di Fillon. Una famiglia numerosa e unita, una carriera parlamentare nella destra gollista iniziata presto, a 27 anni (nel 1981 era il più giovane deputato francese), fino all'incarico di premier dal 2007 al 2012, sotto la presidenza Sarkozy. Dopo avere battuto Alain Juppé e lo stesso Sarkozy nelle primarie della destra, nel gennaio 2017 i sondaggi davano Fillon sicuro vincitore nella corsa all'Eliseo. Lo scoop del Canard enchaîné lo ha frenato, ai comizi la gente gli urlava «ridai indietro i soldi», cosa che da ieri pretende anche il tribunale. Fillon ha presentato immediatamente appello e resta un uomo libero fino al nuovo processo. Gli avvocati denunciano l'accanimento nei suoi confronti, e l'appello - dall'esito non scontato - si giocherà sulle frasi della ex procuratrice nazionale finanziaria Éliane Houlette, che ha denunciato «pressioni» della gerarchia sul caso Fillon. Il presidente Macron ha chiesto l'intervento del Consiglio superiore della magistratura.
L’islamismo politico si infiltra alle amministrative francesi. Giovanni Giacalone il 29 giugno 2020 su Inside Over. Domenica 28 giugno la Francia è chiamata al voto per le amministrative con 4820 seggi aperti, tra cui in grandi città come Lione, Marsiglia, Montpellier, Le Havre e Tolosa ed è proprio in quest’ultima, quarta città francese, che la coalizione di sinistra “Archipel Citoyen”, guidata dall’ecologista Antoine Maurice, si è alleata con un partito islamista, l’Union des démocrates musulmans français–Udmf, indicato come legato ai Fratelli Musulmani, con l’obiettivo di sconfiggere il sindaco uscente repubblicano Jean-Luc Moudenc, in carica dal 2014, cattolico praticante e noto per aver votato contro i matrimoni omosessuali. Cosa può portare un partito islamista a schierarsi assieme alla laica sinistra? Plausibilmente il tentativo di raccogliere più voti possibile, visto che a destra non ne racimolerebbero molti. Esaminando idee e proposte dell’Udmf, la prospettiva sembra chiara e ben poco laica: divulgazione dell’Islam, insegnamento della lingua araba, sviluppo della finanza islamica e dell’alimentazione halal, lotta alla cosiddetta “islamofobia” (che rischia però di diventare lotta contro chiunque osi criticare l’Islam) con tanto di richiesta di formazione di un direttivo europeo con l’obiettivo di monitorare ed eventualmente far chiudere di tutti i gruppi e media “islamofobi”. L’Udmf è ovviamente contraria alla legge anti-velo del 2004 e a favore dell’uscita della Francia dalla Nato. Oltre ad aver proposto di conferire il diritto di voto anche agli stranieri, l’Udmf porta avanti pure un discorso che la giornalista Judith Waintraub ha definito “vittimistico, con l’intento di sedurre l’elettorato musulmano”; una retorica anti-imperialista che enfatizza il vittimismo ricollegato alla colonizzazione francese. Un aspetto che sinistra e Udmf possono chiaramente condividere è l’anti-sionismo e non a caso il collettivo “Palestine Vaincra” (legata alla Bds- Boycott, disinvestment and sanctions) si era mobilitata già ad inizio anno a Tolosa per accusare il candidato repubblicano Moudenc di essere “fedelissimo di Israele” e contestando il gemellaggio tra la città francese e Tel Aviv.
Il “cavallo di Troia” islamista verso la politica francese. Il partito Udmf veniva fondato nel novembre del 2012 dal franco-marocchino Nagib Azergui, con l’obiettivo di “permettere ai musulmani di creare alternative all’interno della società francese”, un’affermazione che dice tutto. Eloquente anche la dichiarazione del rappresentante dell’Udmf a Tolosa, Mhamdi Taoufik, che ha invitato i musulmani “che hanno a cuore la Repubblica e la religione” di recarsi a votare (per Antoine Maurice) in modo da sbarrare la strada a Moudenc. Un chiaro utilizzo della religione per fini politici. La pagina Facebook di Taoufik non lascia dubbi sul suo sostegno all’islamismo politico, ai Fratelli Musulmani e al sentimento anti-israeliano, sentimento che sembra condiviso anche dal candidato di sinistra Antoine Maurice, visto che l’immagine del profilo di Taoufik mostra la sua foto con tanto di scritta “no all’annessione della Cisgiordania! Palestina libera! Antoine Maurice, Archipel Citoyen”. Nel giugno del 2019 Taoufik pubblicava invece la foto dell’ex presidente islamista egiziano Mohamed Morsy, legato ai Fratelli Musulmani, definendolo “coraggioso e determinato” ed invitando gli altri utenti a condividerne la foto. Vale la pena ricordare che la Arabic Network for Human Rights Information denunciò il triste record dell’”epoca Morsi” per quanto riguardava i provvedimenti legali nei confronti di giornalisti e personaggi legati ai media. Secondo tale rapporto il numero di denunce sarebbe di quattro volte maggiore rispetto all’era Mubarak e ventiquattro volte più grande rispetto a quella di Sadat (Mubarak rimase al potere per trent’anni, Sadat per undici anni e Morsi soltanto per un anno). Nel febbraio del 2018 Taoufik prendeva invece le difese di Tariq Ramadan, intellettuale islamista nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, arrestato con l’accusa di aver stuprato diverse donne tra cui una disabile e con nuove accuse nei suoi confronti emerse a inizio 2020. Nel novembre del 2015 invece Taoufik pubblicava un post dal titolo “urgente urgente urgente” dove lamentava una “visita” a casa sua di una cinquantina di uomini del Raid, le forze d’intervento speciale della polizia francese e chiedeva consigli per un buon avvocato. Interessante anche la bandiera nera con la shahada (testimonianza di fede islamica), frequentemente utilizzata anche dai jihadisti. L’imprenditore franco-tunisino Jean-Pierre Marongiu conosce molto bene l’islamismo ed anche uno dei suoi Paesi sponsor, il Qatar ed ha definito l’Udmf come “cavallo di Troia per la propagazione dell’islamismo in territorio francese”; una strategia messa in atto anche in altri Paesi come Gran Bretagna, Stati Uniti ed anche in Italia. L’islamismo radicale punta così ad infiltrarsi nel sistema politico-istituzionale sfruttando i meccanismi democratici dei Paesi occidentali per poi apportare cambiamenti che vanno contro i principi di libertà e democrazia, come ad esempio la censura mediatica con la scusa dell’islamofobia. Del resto due esempi chiari di islamismo politico (in salsa Fratelli Musulmani) sono l’anno di governo Morsy in Egitto e la Turchia di Erdogan, che non ha certo bisogno di presentazioni. Entrambi sono andati al potere con meccanismi vagamente democratici ed entrambi hanno mostrato ben poco di democratico. E’ bene tener presente i punti di riferimento di questi esponenti islamisti che si insediano all’interno dei meccanismi europei, perchè una volta all’opera, seguiranno le stesse orme.
ANAIS GINORI per la Repubblica il 24 giugno 2020. «Sto soffocando», urla Cedric Chouviat, il fattorino di 42 anni morto dopo un controllo stradale avvenuto nel gennaio scorso a Parigi. Le ultime disperate parole di Cedric emergono adesso in un filmato al vaglio degli investigatori. Che ricorda quello che è successo a Minneapolis qualche settimana fa. Chouviat come George Floyd? È quello che denuncia la famiglia che da mesi chiede verità su quello che è successo la mattina del 3 gennaio vicino alla Tour Eiffel. Nelle immagini Chouviat appare bloccato terra, con tre agenti poggiati sopra di lui. «Sto soffocando », ripete ben sette volte il fattorino. Quando arriva in ospedale è troppo tardi: i referti parlano di una frattura della laringe e danni cerebrali per inizio di asfissia. Sposato, cinque figli, morirà due giorni dopo. Alle 9.54 quattro agenti, tra cui una donna, fermano lo scooter di Cedric perché - scrive il rapporto di polizia - l'uomo sta guidando con il cellulare in mano e ha la targa della moto parzialmente illeggibile. Le cose si mettono subito male. Cédric mostra insofferenza per il controllo e la multa che stanno verbalizzando gli agenti. Comincia a filmarli con il cellulare. Loro si ribellano, vogliono fermarlo. «È un mio diritto», dice il fattorino. «Vuole fare spettacolo?», chiede un poliziotto. «Senza la divisa non siete nulla», risponde Cedric. È un'escalation. «Non penserai mica che mi debba mettere a quattro zampe e te lo succhio?», dice un poliziotto quando l'uomo gli chiede di essere più corretto nei modi. Sono passati già dieci minuti da quando Cedric è stato fermato. E per tre volte gli agenti fanno per andarsene, poi ci ripensano. Uno dei poliziotti già risalito in macchina, esce convinto di aver sentito un insulto. Cedric tratta gli agenti da "pagliacci", "pupazzi". Alle 10.07 scatta la procedura di arresto con la cosiddetta "tecnica di soffocamento" e "placcaggio". L'uomo viene immobilizzato a terra, tenuto per il collo, con il peso di tre agenti sulla schiena. «Sto soffocando». È l'ultimo grido di aiuto che si sente nella registrazione. Alle 10.13 Cedric ha perso i sensi, gli agenti tentano un massaggio cardiaco, lanciano l'allerta. «Aspettiamo delle risposte da Emmanuel Macron», dice ora Sofia Chouviat, figlia dell'uomo. Dopo le rivelazioni, la famiglia chiede giustizia. I quattro agenti coinvolti nell'arresto non sono finora stati sospesi. La settimana scorsa sono stati fermati e interrogati nell'inchiesta che al momento procede per omicidio colposo. Impossibile non vedere un'accelerazione delle indagini alla luce con il caso Floyd e della mobilitazione che cresce anche in Francia. Un altro simbolo della protesta Oltralpe è il caso di Adama Traoré, morto anche lui per asfissia nel 2016, dopo un arresto di gendarmi nella periferia di Parigi. Nel caso di Traoré non esistono però video né testimonianze di prima mano. La morte di Chouviat avviene in diretta. Il fattorino ha filmato la scena fino a un certo punto e il microfono nel suo casco ha registrato fino alla fine. Altri passanti hanno ripreso alcuni spezzoni dell'arresto in centro i n pieno giorno. Qualche settimana fa, il governo aveva accolto le proteste degli attivisti, annunciando di voler bandire la "tecnica di soffocamento". La rivolta delle forze dell'ordine, che hanno manifestato contro il ministro dell'Interno perché sostengono di averne bisogno davanti a sospetti violenti, ha convinto l'esecutivo a rimandare questo bando.
Da "lastampa.it" il 18 giugno 2020. E' polemica in Francia per il violento arresto di un'infermiera in camice bianco durante la manifestazione dei sanitari ieri a Parigi. Un video, visto già oltre due milioni di volte sui social, mostra poliziotti in assetto antisommossa che tengono la donna bloccata a terra e poi la trascinano con violenza. Una scena che fa discutere, dopo che, sull'onda del caso George Floyd negli Stati Uniti, la polizia francese è recentemente tornata sotto accusa per comportamenti violenti. "Questa donna è mia madre - ha poi twittato la figlia - ha 50 anni, è infermiera, per tre mesi ha lavorato fra le 12 e le 14 ore al giorno. Ha avuto il covid. Manifestava perché rivalutino il suo salario, perché riconoscano il suo lavoro. E' asmatica. Aveva il camice. E' alta 1,55 metri". Ieri sera c'è stato un assembramento davanti al commissariato dove era rinchiusa per chiedere la liberazione "dell'infermiera Farida", poi chiesta su Twitter dal leader della sinistra radicale Jean Luc Melenchon.
Da eroi a “criminali”: polemiche in Francia per il violento arresto dell’infermiera. su Il Dubbio il 17 giugno 2020. I poliziotti in assetto antisommossa hanno bloccato la donna a terra per poi trascinarla per i capelli durante le proteste dei sanitari. Si potrebbe definire un nuovo caso Floyd, se non fosse che la vittima è ancora in vita. Ma la violenza non è da meno. Vittima, questa volta, è un’infermiera in camice bianco, arrestata ieri a Parigi durante la manifestazione dei sanitari. Il momento, anche in questo caso, è immortalato da un video, già visto oltre due milioni di volte sui social, nel quale si vedono i poliziotti in assetto antisommossa che tengono la donna bloccata a terra e poi la trascinano per i capelli, con le mani trattenute dietro la schiena. Una scena che fa discutere, dopo che, sull’onda del caso George Floyd negli Stati Uniti, la polizia francese è recentemente tornata sotto accusa per comportamenti violenti. «Questa donna è mia madre – ha poi twittato la figlia – ha 50 anni, è infermiera, per tre mesi ha lavorato fra le 12 e le 14 ore al giorno. Ha avuto il covid. Manifestava perché rivalutino il suo salario, perché riconoscano il suo lavoro. È asmatica. Aveva il camice. È alta 1,55 metri». Nel video si vedono decine di poliziotti tenere bloccata la donna a terra, senza che la stessa possa opporre resistenza. Davanti al commissariato dove è rinchiusa, ieri sera un gruppo di persone si è riunito per chiedere la liberazione «dell’infermiera Farida», poi invocata su Twitter dal leader della sinistra radicale Jean Luc Melenchon. Fonti della polizia hanno intanto detto a Le Figaro che l’infermiera è stata arrestata per «lancio di proiettili contro le forze dell’ordine», come dimostrerebbero altri video, alcuni dei quali vengono ora condivisi sui social. Salutati come eroi della lotta al coronavirus, gli operatori sanitari hanno manifestato per ottenere aumenti di salario. Circa 1800 persone hanno manifestato sulla spianata degli Invalides. Ma la protesta, nella quale si erano infiltrati dei “blackblock”, è poi degenerata in scontri con la polizia, terminati con 32 arresti.
ANAIS GINORI per repubblica.it il 12 giugno 2020. Clamoroso scontro tra Marine Le Pen e la nipote Marion Maréchal a proposito del movimento Black Lives Matter, seguito anche in Francia con vari raduni. La giovane delfina di casa Le Pen, in teoria ritirata dalla politica, ma sempre in rampa di lancio per prendersi la leadership, ha pubblicato un video per dissociarsi dalle manifestazioni contro il razzismo. L'ex deputata commenta: "Non devo scusarmi come bianca e come francese per la morte di un afroamericano negli Stati Uniti". Poi accusa "gruppi militanti, di sinistra, cosiddetti antirazzisti, che pretendono non solo di metterci in ginocchio, ma anche di macchiare la memoria dei nostri antenati, di sputare sulla nostra storia, di purgare il nostro patrimonio, di demolire le nostre statue". Maréchal cita anche il paragone tra Floyd e Adama Traoré, l'uomo francese morto nel 2016 durante un fermo di polizia diventato un simbolo della mobilitazione di questi giorni in Francia. Un "incidente", sostiene Maréchal, "avvenuto durante un fermo che non era legato al colore della sua pelle, ma ai crimini che avrebbe commesso". È la presidente del Rassemblement National a rispondere poche ore dopo la diffusione del video, smarcandosi nettamente dalla nipote accusata di "cadere in una doppia trappola". "Significa entrare in uno scontro razziale mentre dobbiamo rimanere a livello repubblicano" dice Le Pen. "L'altra trappola - prosegue - è quella dell'americanizzazione. Io preferisco prendere posizione in difesa della nostra Costituzione, che rifiuta qualsiasi comunitarismo". La leader dell'estrema destra ha ricordato che la nipote "non fa più politica". "Ma ha il diritto di esprimere un'opinione" ha aggiunto facendo calare il gelo con quella che fino a qualche anno fa era l'astro nascente della dinastia Le Pen. Maréchal, 30 anni, ha deciso tre anni fa di aprire una scuola di studi politici a Lione che dovrebbe aprire una succursale in Spagna grazie all'aiuto di alcuni dirigenti di Vox. Maréchal ha anche allacciato relazioni negli Stati Uniti con l'alt right, nel 2018 era stata invitata al Conservative Political Action Conference (Cpac), ed è compagna dell'eurodeputato della Lega, Vincenzo Sofo. Intanto sale la tensione tra governo e polizia dopo che il ministro dell'Interno ha annunciato di voler sospendere l'uso della "tecnica per soffocamento" nel fermo di sospetti. La decisione è stata presa sull'onda delle proteste importate dagli Stati Uniti e che fanno temere alle autorità francesi una situazione esplosiva in particolare nelle banlieue. Il governo ha anche promesso tolleranza zero verso atti razzisti e la possibilità di sospendere agenti in caso di fatti sospetti di discriminazione, senza aspettare le indagini interne. I sindacati di polizia hanno reagito accusando il governo di non tenere conto delle difficoltà del loro lavoro e hanno messo in scena un'inedita protesta: piccoli raduni di agenti hanno manifestato davanti a Prefetture e commissariati buttando a terra le manette. "Non viviamo nel mondo dei sogni" hanno detto alcuni rappresentanti sindacali. Il divieto della "tecnica per soffocamento" nelle procedure di arresto equivale, secondo i sindacati, a lasciarli senza mezzi per fermare le persone più violente. La rabbia nelle forze dell'ordine è tale che il Direttore Generale della Polizia Nazionale, Frédéric Veaux, e il Prefetto di Polizia di Parigi, Didier Lallement, hanno scritto agli agenti per assicurare loro il loro sostegno e la loro fiducia.
LA POLIZIA UCCIDE I NERI PURE NELLA FRANCIA SOCIALISTA. Giovanni Longoni per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2020. In Francia c' è un caso che assomiglia a quello di George Floyd, l' afroamericano di 46 anni soffocato dall' agente della polizia di Minneapolis Derek Chauvin, 44 anni, lo scorso 25 maggio. Si tratta della morte - avvenuta il 19 luglio 2016 - di Adama Traorè, nero di 24 anni, mentre era in stato di arresto in una caserma della Gendarmeria. Martedì scorso migliaia di persone hanno manifestato in numerose città transalpine (Parigi, Lille, Lione e Marsiglia) contro la violenza delle forze dell' ordine. Nella capitale la sfilata è degenerata in scontri con la polizia e circa 18 persone sono finite in arresto. Fin qui, le somiglianze fra le due vicende. La differenza macroscopica è che di Floyd e dei disordini scoppiati un po' ovunque negli Stati Uniti leggiamo sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo, mentre sulla morte e sugli scontri per Traorè c' è poca attenzione, soprattutto in Italia. Non basta dire che è una questione di proporzioni: cioè che i "riots" che stanno facendo vacillare la stabilità del gigante americano (già provato dall' emergenza Covid-19) sono un evento più importante dei 20mila "casseurs", di cui molti adolescenti, che hanno dato l' assalto al palazzo di giustizia parigino. In realtà, la morte di Adama è ancora più inquietante di quella di George: perché sotto accusa non sono "sceriffi" assoldati da amministrazioni locali Usa che non vanno tanto per il sottile nel reprimere i crimini e che fanno del pregiudizio contro neri e latini (racial profiling) la base del loro mestiere. Sul banco degli imputati qui c' è la Gendarmerie francese, forza di polizia di uno Stato europeo, ben addestrata e i cui vertici hanno chiaro che il loro compito è anche politico. Altro fattore che rende le violenze transalpine importanti è la facilità con cui le banlieue esplodono in rivolte a sfondo razziale. Come negli Usa, se non peggio. Quindi ci si può chiedere se la disparità di trattamento mediatico non dipenda dal fatto che le violenze americane si possono usare per screditare il presidente Trump, mentre quelle francesi no (si rammenti che il caso Traorè inizia quattro anni fa, cioè quando all' Eliseo non c' era Macron bensì il socialista Hollande). Adama Traorè venne arrestato dai gendarmi dopo un inseguimento e la fuga al primo tentativo di arresto. Passarono due ore e venne trovato morto nella caserma di Persan (Val d' Oise, hinterland parigino). A oggi è ancora in corso l' inchiesta su cause e responsabilità: al centro delle polemiche, l' esito delle varie perizie fatte eseguire a medici ed esperti sia dalle autorità che dalla famiglia. L'ultimo rapporto commissionato dai Traorè, pubblicato questa settimana, ha capovolto le conclusioni della perizia ufficiale che respingeva la responsabilità di tre gendarmi. Gli agenti hanno al momento lo statuto di testimoni per omesso soccorso a persona in pericolo. La nuova perizia attribuisce invece il decesso di Traorè a una «sindrome da asfissia a seguito di un edema cardiogenico provocato da una asfissia da posizionamento indotta dal placcaggio ventrale». Per il legale della famiglia, Yassine Bouzrou, «questa nuova perizia smonta punto dopo punto quella ufficiale della scorsa settimana, comprovando che sia stato il placcaggio ventrale a causare la morte del giovane». Le parti civili hanno 10 giorni a disposizione per chiedere ai giudici di far procedere ad una nuova controperizia. Ma gli scontri di piazza repressi dalla polizia con lancio di gas lacrimogeni hanno ridato vigore alle polemiche. In Parlamento il ministro degli Interni Christophe Castaner ha difeso l' operato delle forze dell' ordine nella recente vicenda di Gabriel Jovanovioc, un adolescente di 14 anni gravemente ferito a un occhio durante il suo fermo per tentato furto di motorino a Bondy (Senna-Saint-Denis). «C'è una polizia repubblicana che, in questo Paese», ha dichiarato il ministro, «protegge uomini e donne da tutto, anche dal razzismo. Anche il governo combatte con forza il razzismo su ogni fronte e ogni qualvolta necessario». In bocca al lupo.
Francesco De Remigis per “il Giornale” il 4 giugno 2020. C' è un filo di rabbia che lega New York a Parigi: il caso di Adama Traoré, deceduto il 19 luglio 2016 nel giorno del 24esimo compleanno dopo un fermo di polizia nella banlieue. Le autorità hanno sempre escluso responsabilità. Martedì sera è arrivata la versione della sorella: asfissiato per «placcaggio ventrale» dal gendarme che lo immobilizzava. A dirlo, la controperizia della famiglia in un timing perfetto per innescare una miccia già imbevuta Oltralpe. Quella delle rivolte sociali. Basta un pretesto per ripartire. L' ennesima autopsia, la terza, ha infatti scatenato una nuova protesta dei «neri di Francia». Chiedono giustizia al grido di «Traoré come Floyd»: slogan in inglese, rabbia connessa agli eventi sull' altra sponda dell' Atlantico e 20mila persone disperse a colpi di gas lacrimogeni martedì. Un milione di euro di danni e 18 arresti in una manifestazione davanti al tribunale parigino. Dopo la pubblicazione del nuovo rapporto che coinvolge i gendarmi nella morte del ragazzo, la sorella soffia sul fuoco: «Non è più la battaglia della famiglia Traoré, ma di tutti voi». Detto, fatto. Ville Lumière illuminata dai fumogeni e dose rincarata sui media, ieri: «La morte di Floyd ricorda quella del mio fratellino», dice Assa in tv. Non chiede solo «giustizia» per il 24enne, accende gli animi (e la banlieue). Sulla carta, i «neri di Francia» hanno risposto alla chiamata del comitato di supporto alla famiglia del 24enne. Un «omaggio al Floyd di Parigi» contro ogni violenza della polizia però trasformato in un campo di battaglia, facendo piombare Parigi in un' atmosfera simile a quella newyorkese. Arredo urbano distrutto, negozi alle fiamme. Scontri a Porte de Clichy. È tornato l' incubo della banlieue? L'avvocato di due dei tre gendarmi che arrestarono Traoré, Rodolphe Bosselut, ha l' impressione «che ci sia uno sfruttamento delle notizie americane, stanno cercando di importarle in Francia, nulla a che fare con Traoré». La portavoce del governo chiede «pacificazione», rifiutando il parallelismo: prudenza, dice Sibeth Ndiaye, «situazione non comparabile né sul piano storico, né sociale». Inevitabile, però, riportare l' orologio al 2005, alla rivolta della banlieue che colpì duramente Parigi. «Smettete di chiamarli giovani - disse l' allora ministro dell' Interno Sarkozy in tv - sono feccia, canaglie, ribadisco e firmo». Allora si infuriò il campione del mondo Lilian Thuram. Oggi c' è Kylian Mbappé in prima fila a stigmatizzare certe derive. «La violenza di Stato non è insita nel nostro Paese», insiste l' esecutivo. Ma tutto si svolge in un clima che vede da tempo le forze dell' ordine accusate di sproporzionato uso della forza: nel 2014, nel 2016 e contro i gilet gialli. A inizio anno Macron parlò di «migliorare la deontologia» dei gendarmi. Il precedente di Sarkozy che definì «feccia» i casseur, termine usato anche da Trump, è vivo. Pronto a infuocare le piazze e non più solo le periferie. Insiste la sorella di Traoré. «L'unico responsabile degli scontri è il prefetto Lallement». Che ribatte: «Polizia né violenta, né razzista». In serata è dovuto intervenire in Parlamento il ministro dell' Interno Castaner: «Ogni responsabilità, comprese espressioni razziste, sarà oggetto d' indagine e punita». Memore, forse, dell'assoluzione del 2015 per gli agenti che scatenarono la rivolta di dieci anni prima.
L’odio anti italiano ha passaporto francese. Andrea Indini il 3 marzo 2020 su Il Giornale. Non fa affatto ridere la caricatura del pizzaiolo italiano malato di coronavirus che starnutisce e sputa sulla quattro stagioni che ha appena finito di cucinare. Come non erano per nulla divertenti le vignette di Charlie Hebdo sul terremoto, che nel 2016 aveva fatto 300 morti in Centro Italia, e sulla tragedia dell’Hotel Rigopiano di Farindoli travolto l’anno dopo da una valanga di neve. A questo giro, a fare della volgare ironia sul nostro Paese, non è stato il giornale parigino ma l’emittente Canal+ con un video irrispettoso. Ora, in attesa di trovare qualcuno che con pazienza spieghi ai francesi che non si fa satira in questo modo e tanto meno su temi così delicati, noi italiani continueremo a combattere a denti stretti l’emergenza sanitaria come abbiamo fatto in passato. Che i rapporti di vicinato siano tutt’altro che distesi, è assodato da tempo. Lo cantava pure Paolo Conte nel 1979 musicando le gesta di Gino Bartali, il campione in maglia gialla che lascia indietro qualunque avversario. “E i francesi che s’incazzano…”. Zazzarazaz, zazzarazaz. Oggi a incazzarci siamo, giustamente, noi italiani dopo che la trasmissione Groland Le Zapoi ci ha pubblicamente derisi con uno sketch sulla “pizza corona”. Ironia disgustosa non solo per la resa televisiva ma anche perché arriva in un momento in cui la diffusione del contagio non solo sta mettendo a dura prova il nostro sistema sanitario ma sta anche colpendo violentemente la nostra economia. A sollevare la polemica è stata prontamente Giorgia Meloni che, oltre a prendersela con i cugini d’Oltralpe, ha sferzato il governo e la maggioranza giallorossa invitandoli a “far sentire il proprio sdegno”. Dopo diverse ore è, quindi, anche arrivata la presa di posizione di Luigi Di Maio che, in quanto ministro degli Esteri, ha attivato la nostra ambasciata a Parigi. La maleducazione dei francesi è ancora stampata nei sorrisini tra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel alle spalle di Silvio Berlusconi e col tempo ha proliferato anche grazie al mancato sdegno di una certa sinistra nostrana che godeva nel vedere l’Eliseo attaccare il Cavaliere. Tanto che qualche anno più tardi, con Matteo Salvini al Viminale, il portavoce di Emmanuel Macron si era permesso di dire che le politiche portate avanti dal governo italiano sono “vomitevoli”, salvo poi riversarci (nottetempo) i clandestini nei boschi di Bardonecchia o accanirsi su una donna incinta pizzicata su un treno a Mentone. Con i francesi i confini si alzano e si abbassano a seconda della convenienza: quando devono fare la lezioncina agli italiani si scoprono tutti democratici, mentre quando devono difendere i propri interessi nazionali diventano tutti più sovranisti di Marine Le Pen. Ne hanno dato prova anche in piena emergenza per coronavirus chiedendo l’attuazione di un cordone sanitario alla barriera con Ventimiglia. Le schermaglie politiche, lo capiamo anche noi, fanno parte del gioco (sporco) e rientrano in un estenuante braccio di ferro che l’Unione europea permette da tempo a suo stesso danno. Però, come non sopportiamo certe ingerenze indebite da parte dell’Eliseo, ancor meno tolleriamo la becera ironia di Canal+. A questo punto le scuse dell’emittente, che ha definito la “breve sequenza di pessimo gusto”, giovano a poco. Perché quel video disgustoso va ad alimentare lo stereotipo dell'”italiano untore”, già cavalcato da Le Figaro che nei giorni scorsi ha pubblicato un sondaggio secondo cui il 56% dei francesi scanserebbe les italiens per evitare il contagio. Il risultato di questa bieca campagna? La fuga dei turisti stranieri dal Belpaese, il taglio netto delle rotte sui nostri aeroporti e la messa in quarantena di tutto il made in Italy. Un attacco al nostro sistema economico che pagheremo caro nei prossimi mesi e che, forse, non è dettato soltanto dalla paura del contagio.
Fabio Franchini per ilgiornale.it il 3 marzo 2020. Mentre in Italia il coronavirus ha contagiato 2036 persone, provocando 52 decessi, in Francia pensano bene di prenderci in giro. Spieghiamo. Canal+, noto canale televisivo transalpino di proprietà di Vivendi, ha mandato in onda uno spot che pensando di fare satira e ironia dice: "Questo spettacolo è offerto dalla pizza Corona. La nuova pizza italiana che farà il giro nel mondo". Ma le parole sono forse niente rispetto alle immagini. Nel video fa capolino un attore travestito da pizzaiolo che sforna pizze e tossisce. Ne tira fuori una con la pala e dopo un colpo di tosse ci sputa (finto) catarro verde, inquadrato in primo piano: stomachevole. Dunque, compare in sovraimpressione la scritta "Corona pizza" con la parola "Corona" (in riferimento ovviamente al coronavirus) scritta con i colori del nostro tricolore. A denunciare la trovata Giorgia Meloni, che sui propri canali social ha condiviso la clip incriminata, condannandola duramente. Queste le parole del leader di Fratelli d'Italia: "Video 'satirico' disgustoso mandato in onda dalla famosa tv francese Canal+ per insinuare che i prodotti Made in Italy sono contaminati da coronavirus". Dunque, il capo politico di FdI affonda il colpo, tirando anche le orecchie alla maggioranza giallorossa, alla quale chiede di provvedimenti: "Disprezzo per gli autori di questa immondizia anti-italiana. Il Governo Partito Democratico-Movimento 5 Stelle avrà la decenza di far sentire il proprio sdegno?". Non è la prima volta che di fronte a certe situazioni delicate italiane, i cugini francesi facciano cattiva satira. Come dimenticare, a tal proposito, le scioccanti copertine di Charlie Hebdo dopo il crollo del ponte Morandi – il viadotto distrutto, un'automobile schiantata al suolo e un migrante in primo piano con una scopa in mano e il titolo "costruito dagli italiani…pulito dai migranti" – e la tragedia di Rigopiano: nel disegno la rappresentazione della "Morte" intenta a sciare in montana con due falci al posto delle racchette e la scritta "è arrivata la neve".
(ANSA il 3 marzo 2020) - "Il video francese che irride l'Italia è irricevibile. Pretendiamo scuse ministro Di Maio". Lo scrive su Facebook il responsabile Esteri del Pd, Emanuele Fiano, riferendosi al video di Canal+.
Canal Plus ritira il video anti italiano. «Di cattivo gusto, chiediamo scusa». Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. Canal Plus ritira da tutte le sue piattaforme e sopprime il video sulla Pizza Coronavirus, e invia una lettera di scuse all’Ambasciatrice italiana a Parigi Teresa Castaldo. «E’ una breve sequenza all’interno di una trasmissione umoristica ma in un periodo come questo si tratta di immagini di cattivo gusto, inopportune, che non avrebbero mai dovuto andare in onda. Presentiamo le nostre scuse», dice la direttrice della comunicazione Emilie Pietrini. Il video è andato in onda lo scorso sabato sera all’interno della trasmissione «Groland Le Zapoï», l’ultima versione di una fortunata serie parodistica inaugurata nel 1992 che assieme ai «Guignols de l’info» ha fatto la fortuna di Canal Plus, la prima pay tv francese. «Groland» è un Principato immaginario che confina con 19 Stati e due città francesi e ha per motto «Gioia, ospitalità e viltà». Nelle sue varie declinazioni in quasi trent’anni di vita «Groland» ha di solito preso la forma di parodie – le più irriverenti e demenziali possibile - dell’attualità francese e internazionale, prendendosi gioco soprattutto dei protagonisti della politica della Francia, compreso ovviamente il capo dello Stato Emmanuel Macron. Il presidente di Groland, interpretato da Christophe Salengro scomparso a Parigi due anni fa, era una parodia del generale Charles De Gaulle. In Francia capita di vedere su qualche auto l’adesivo ovale del «GRD – présipauté de Groland» al posto della «F», accanto alla targa. Due settimane fa la parodia ispirata al coronavirus riguardava misure di sicurezza e controlli a distanza con droni e termometri.
Coronavirus, bufera sul deputato leghista: risponde ai francesi con una “pizza bruciata Notre Dame”. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2020. “Pizza Notre Dame. Tiè!”, come didascalia di una pizza completamente bruciata. È la foto postata su Facebook da Leonardo Tarantino, deputato leghista ed ex sindaco di Samarate (Varese) come forma di ‘risposta’ al video satirico mandato in onda dalla tv privata francese Canal+ sulla “pizza coronavirus”, un caso che ha provocato un polverone politico fino alle scuse dell’emittente e al ritiro dello spot. Un gesto che rischia di far ritornare tesi i rapporti con i cugini d’oltralpe, con i quali il ministro degli Esteri Luigi Di Maio aveva ricucito simbolicamente mangiando proprio una pizza nel centro di Roma con l’ambasciatore francese in Italia Christian Masset. Nei commenti alla foto il popolo di Facebook si è spaccato. C’è chi ha commentato con amarezza e delusione la foto del deputato leghista: “Non ci credo che questo è un deputato,cioè siamo messi così male?”, scrive un utente, mentre uno dei coordinatori delle Sardine varesine, Silvano Monticelli, scrive “non mi sento rappresentato da un parlamentare che si presta a una bassezza di questo genere”. Ma c’è anche chi apprezza l’uscita di Tarantino: “Il massimo sarebbe stato farlo con la baguette.. Ma comunque ben fatto”, mentre un secondo utente rivendica e accusa i francesi: “Chi la fa l’aspetti”.
Coronavirus, Pietro Senaldi contro i francesi: "Spuntano sulla pizza? Loro mangiano formaggi puzzolenti e lumache". Libero Quotidiano Pietro Senaldi 06 marzo 2020. E se i francesi non ci rispettano, non facciamoci girare le balle. Parafrasando Paolo Conte. Ha fatto scalpore lo sfottò trasmesso da un' emittente televisiva transalpina, con un pizzaiolo febbricitante che sfornava una gustosa Margherita, salvo poi starnutirci sopra e trasformarla in una pizza al coronavirus. Non è il primo colpo basso che ci arriva da Oltralpe e non sarà l' ultimo. Il video per una volta ha messo d' accordo tutti i nostri politici, che si sono scandalizzati in blocco, e ci è valso le scuse dell' ambasciatore francese e di Canal Plus, la televisione che lo aveva trasmesso. Non ci vuole un genio per ravvisare nel filmato un attacco al cibo made in Italy, da sempre ossessione dei galletti, che non riescono più a tenere il passo contro l' agroalimentare italiano. Anche noi di Libero non lo abbiamo gradito, ma riteniamo che la strategia migliore di questi tempi non sia la polemica. Meglio tirar su il bavero del cappotto, alzare la spalla, continuare per la propria strada e fottersene, come direbbero proprio i francesi. Non sono stati i nostri cugini a dare al mondo l' immagine che il nostro Paese è un lazzaretto, tanto che adesso perfino dalla Cina ci esprimono solidarietà e ci chiedono se abbiamo bisogno di aiuto. È stato il comportamento prima ambiguo, poi allarmistico, contraddittorio e disorganizzato del governo Conte a dare agli altri argomenti per ridere di noi. Comunque sia, ora i nostri problemi sono altri. L' emergenza è contrastare il virus, non rifarci il look all' estero; anche perché è molto probabile che chi ci tratta da appestati presto finirà infetto. Per un politico è facile partire lancia in resta alla difesa dell' orgoglio nazionale. Buttarla sulla retorica e sulle parole è un buon modo per celare di non essere in grado di affrontare i problemi che la realtà pone. I francesi sono spesso odiosi con noi, ma i nostri politici non dovrebbero inseguirli adesso. Meglio annotarsi tutto per presentare il conto quando la buriana sarà passata e nel frattempo darsi da fare sul campo contro l' influenza cinese.
È TUTTA INVIDIA. Badare alla forma e non alla sostanza è il difetto del nostro sistema politico e mediatico. I governatori Fontana e Zaia stanno facendo un grande lavoro per arginare l' epidemia e limitarne i danni economici, ma la sinistra li sta crocifiggendo perché uno si è messo la mascherina anti-contagio e l' altro, seppure con una battuta infelice, ha rimproverato ai cinesi di avere abitudini igieniche e alimentari che agevolano la diffusione di virus. I medesimi avevano proposto saggiamente di mettere in quarantena chi tornava dalla Cina, ma siccome alle orecchie degli stolti suonava razzista anziché saggio, Conte e i progressisti si opposero e favorirono il dilagare dell' epidemia. Non è il momento dei parolai, e se i francesi hanno voglia di scherzare è perché sono meno furbi di quanto si credono. Ma ancora meno furbi sono gli italiani che si aspettano benevolenza da un popolo che dai tempi dell' Unità del Regno ci fa concorrenza in ogni modo e si stupiscono quando ricevono da esso l' immancabile pedata in faccia. I francesi hanno ospitato come vittime della giustizia italiana chi sparava nelle nostre strade alla borghesia che mandava avanti il Paese, ci portano clandestini varcando il confine e rifiutano di farsi carico delle loro quote di profughi, approfittano del loro potere in Europa per fare concorrenza sleale ai nostri prodotti agroalimentari, con l' aiuto della sinistra si sono divorati una buona parte di banche e imprese nostrane. Adesso sputano pure sulla pizza. Il mondo li chiama «mangia rane», si nutrono di formaggi puzzolenti e lumache e ormai i loro bistrot servono più cous-cous e kebap che ostriche e champagne. Lasciamoli al loro invidia-virus e pensiamo a curarci.
Così il giornale dei radical chic sfrutta il lavoro degli immigrati. Le Monde, il giornale dei radical chic parigini, dovrebbe trasferirsi a breve in una nuova sede di zecca. Peccato che al lavoro ci siano operai africani sfruttati. Roberto Vivaldelli, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Le Monde è il punto di riferimento della gauche parigina, il quotidiano dell'intellighenzia francese e di tutta la sinistra al caviale. Nelle prossime settimane il gruppo Le Monde si trasferirà nell'edificio futuristico progettato dallo studio norvegese di architettura Snohetta nei pressi della stazione d'Austerlitz, nel 13°arrondissement. La forma dell'immobile che ospiterà il gruppo editoriale progettato da Snohetta "riflette la relazione tra la presenza numerica e la presenza analogica dei media", ha spiegato a Le Monde, Kjetil Thorsen cofondatore dello studio di architettura, e "avrà una forma curva sposando quella delle sfere virtuali, invitando alla riflessione e alla discussione fra la trasparenza e l'opacità sull'appartenenza e l'esclusione". Questo imponente edificio.ponte, ricorda Italia Oggi, sarà il segnale d'ingresso nel quartiere Parigi Rive Gauche, che sta subendo il più grande intervento di ristrutturazione della capitale francese mai effettuato da dieci anni a questa parte, con la costruzione anche della biblioteca François Mitterrand e l'istallazione della stazione F nella hall Freyssinet. Uno spettacolare e maestoso edificio all'avanguardia, dunque, che sarà sicuramente realizzato da operai altamente specializzati e ben pagati. O forse no. Come rivela Libero, infatti, le condizioni di lavoro della cinquantina di lavoratori africani che sta ultimando la costruzione della nuova sede di Le Monde sono ai limiti dello schiavismo. Gli operati, quasi tutti provenienti da Mali, Senegal, Guinea e Costa d'Avorio, vengono pagati solamente 40 euro al giorno, spesso lavorando ben oltre le sette ore di lavoro previste. La cosa più grave è che anche la sicurezza lascia parecchio a desiderare. "Non abbiamo mascherine, non abbiamo guanti e non abbiamo gilet di sicurezza. A volte lavoriamo di notte per 40 euro e gli straordinari ci vengono pagati 5 euro all' ora. Tutto questo 7 giorni su 7 senza riposo domenica e lunedì. E se un giorno non veniamo, il capo minaccia di cacciarci. Siamo nel Ventunesimo secolo, lo schiavismo è finito", racconta a Libero Lamine Mohamed Touré, 26enne nato in Guinea e arrivano in Francia quattro anni fa. Per i sindacati non c'è storia: la responsabilità è di Le Monde, che si vanta tanto del nuovo edificio progettato da uno dei migliori studi di architettura del mondo ma se ne infischia altamente dei diritti dei lavoratori. "La responsabilità sociale è del Monde", ha sottolineato in una nota il sindacato Cnt-So. "Quest'impresa, Eiffage, non fornisce né la busta paga né l'equipaggiamento per lavorare in sicurezza. Si permette di fare questo perché sono dei sans-papiers. Sembra di vivere come tre, quattro secoli fa!". Giovedì scorso i lavoratori inferociti per le loro condizioni precarie e irregolari hanno deciso di occupare la futura sede del giornale radical chic parigino. Ne è nato un incontro con Louis Dreyfus, presidente del direttorio di Le Monde, e i rappresentanti di Eiffage, Golden Clean, Cicad, dell'Ispettorato del lavoro e dei lavoratori, che hanno siglato un "protocollo di uscita dalla crisi". I lavoratori ora attendono risposte. Rimane però l'ipocrisia di fondo di un quotidiano che accusava i tempi non sospetti l'Italia di aver stipulato accordi con i trafficanti libici sulla pelle dei migranti; lo stesso giornale che raffigurava in una vignetta l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini in costume da carnevale e "trafitto" da una barca di immigrati.
Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2020. «Sono stufo, lavoriamo come animali. Essere pagati così poco, in contanti, è una roba da pazzi». Sono le parole di Siku, originario del Mali, sans-papiers, che assieme a una cinquantina di lavoratori africani sta ultimando la costruzione della nuova sede di Le Monde, il grande quotidiano della gauche parigina, che entro poco traslocherà tutti i suoi giornalisti in un edificio futurista vicino alla stazione ferroviaria Gare d' Austerlitz, nel sud-est di Parigi. Il problema, appunto, è che le condizioni di lavoro di Siku e degli altri lavoratori, principalmente originari del Mali, del Senegal, della Guinea e della Costa d' Avorio, sono ai limiti dello schiavismo, dato che vengono pagati 40 euro al giorno (o a notte), spesso lavorano oltre le sette ore previste dalla legge, e le condizioni in cui sono stati "assunti" sono tutt' altro che regolari. «Non abbiamo mascherine, non abbiamo guanti e non abbiamo gilet di sicurezza. A volte lavoriamo di notte per 40 euro e gli straordinari ci vengono pagati 5 euro all' ora. Tutto questo 7 giorni su 7 senza riposo domenica e lunedì. E se un giorno non veniamo, il capo minaccia di cacciarci. Siamo nel Ventunesimo secolo, lo schiavismo è finito», ha attaccato Lamine Mohamed Touré, 26enne, nato in Guinea, sbarcato in Francia quattro anni fa e sballottato da un cantiere all' altro senza un contratto regolare. Lui e gli altri ragazzi sans-papiers sono "dipendenti" di Golden Clean (che si occupa delle pulizie) e di Cicad (che gestisce il cantiere), a cui Eiffage, colosso delle costruzioni francese, ha subappaltato i lavori per conto di Le Monde. «La responsabilità sociale è del Monde», ha attaccato il sindacato Cnt-So. «Questa impresa, Eiffage, non fornisce né la busta paga né l' equipaggiamento per lavorare in sicurezza. Si permette di fare questo perché sono dei sans-papiers. Sembra di vivere come tre, quattro secoli fa!», ha tuonato Étienne Deschamps, giurista presso la Cnt-so. «Vogliamo la regolarizzazione e un aumento dei loro salari. Pagare 40 euro la giornata o la notte di lavoro, andando spesso oltre le sette ore effettuate, non è normale», ha aggiunto. La scintilla che ha fatto perdere la pazienza alla cinquantina di lavoratori africani letteralmente sfruttati da Eiffage è scattata dieci giorni fa, quando la società ha chiesto loro di fare altri straordinari e loro si sono rifiutati. «Il patron ha minacciato di cacciarci. Ci siamo detti che dovevamo rivendicare i nostri diritti», hanno raccontato. Così, giovedì, all' alba, hanno deciso di occupare la futura sede del giornale della sinistra benpensante francese, gridando il loro malcontento per il trattamento subito. «Il fatto di inaugurare questa sede con dei lavoratori senza documenti regolari, è qualcosa di altamente simbolico», ha commentato Deschamps della Cnt-So. Dopo un incontro di più di cinque ore tra Louis Dreyfus, presidente del direttorio di Le Monde, e i rappresentanti di Eiffage, Golden Clean, Cicad, dell' Ispettorato del lavoro e dei lavoratori coinvolti nella vicenda, è stato firmato un «protocollo di uscita dalla crisi», con l' impegno a regolarizzare la loro situazione e a fornire le buste paga. «Ma restiamo vigilanti», hanno commentato i lavoratori.
Fabrizio Cannone per “la Verità” il 20 febbraio 2020. Le Figaro, il classico giornale della destra moderata e liberale, ha aperto la sua edizione di martedì 18 febbraio con un titolo abbastanza sorprendente: «Macron cerca la risposta al separatismo islamico». Il sottotitolo, spiega che il presidente ha lanciato una vigorosa «riconquista repubblicana» e perfino un «piano di lotta contro le ideologie che appestano una parte del territorio». Il termine di ideologia, specie se usato al plurale, tende a coprire ciò che nel titolo stesso è affermato senza ambagi: esiste oggi una ideologia, l' islamismo radicale, che si sta sviluppando in Francia e in tutta Europa, Turchia inclusa. Le denunce che da decenni i sovranisti alla Marine Le Pen hanno prodotto, circa la possibile islamizzazione del paese, non erano una paura isterica e irrazionale. Ma una verità fattuale. L' editorialista Laurence de Charette, in un pezzo intitolato «Osare la riconquista», scrive che «finalmente, un concetto è nato: e si chiama separatismo». Il termine scelto da Macron stavolta non è affatto equivoco, poiché si parla di separatismo, almeno in Europa, quando una minoranza etnica o regionale pretende di separarsi dal resto della nazione. Ma qui, la minoranza che vuole arrivare ad una sorta di indipendenza rispetto allo Stato nazionale, non è un gruppo tradizionale e linguistico. Ma una popolazione recente la quale, a causa dell' immigrazione di massa (con oltre 300.000 ingressi regolari in Francia) e di una radicalizzazione forte nelle nuove generazioni di magrebini, pretende ora di essere una sorta di stato nello stato. Secondo Laurence de Charette, l' espressione forte di «separatismo» è apparsa per la prima volta in un comunicato presidenziale di domenica, a proposito della visita di Macron a Mulhouse. Macron del resto, già nel novembre scorso, parlando davanti ai sindaci di Francia, aveva detto che «In certi comuni, in certi quartieri, si sviluppa da alcuni anni un progetto di separazione dalla Repubblica». Separazione a base di continue rivendicazioni sociali, di marce contro l' islamofobia, di rispetto delle proprie tradizioni, e parallelo rifiuto della cultura, dell' identità e della storia francese. Uno dei migliori specialisti dell' Islam, del fondamentalismo islamico e dei pericoli dell' islamizzazione è il politologo francese, ma di origini italiane, Alexandre Del Valle. L' islamologo ha appena pubblicato un testo scottante: Il progetto. La strategia di conquista e di infiltrazione dei Fratelli musulmani in Francia e nel mondo (Artilleur). Secondo Del Valle, l' ideologia che oggi presiede alla conquista islamica dell' Occidente è una sorta di «islamo-gauchisme», ovvero una alleanza ibrida tra islamismo militante e sinistra, più o meno estrema. Il collante ideologico sta nel cambio di paradigma vissuto dalla sinistra dopo il Sessantotto e nei recenti approdi liberal. Tradizionalmente, la politica di accoglienza sostenuta dalle sinistre e dai progressisti, implicava l' assimilazione, ovvero l' accettazione da parte dello straniero della cultura dominante del paese destinato ad ospitarlo. Ma in anni più recenti questa logica è completamente saltata. E secondo Del Valle si deve parlare ora di «de-assimilazionismo» per indicare la volontà sia delle sinistre, sia di buona parte del mondo arabo-mussulmano di non cercare affatto l' integrazione con il corpo sociale. Anzi di rigettarla. A sinistra in nome dell' antirazzismo, negli islamici più radicali per separare l' Islam dall' Occidente e mantenerlo puro e a parte. Ora Macron ha capito il problema, e non è mai troppo tardi per fare bene. Così, in questa nuova logica più restrittiva, il presidente Macron, in un discorso lungo e molto critico sul separatismo islamico, ha dichiarato a Mulhouse che saranno riviste le regole di ingaggio dei docenti stranieri che insegnano nelle scuole francesi. A partire dai docenti di lingue, tra cui l' arabo, nominati spesso da paesi extraeuropei senza alcun controllo. Molti di questi insegnanti infatti, secondo il presidente, «non parlano francese» e hanno dei programmi su cui il ministero della Pubblica istruzione non ha alcuna contezza. Con insolita fermezza ha aggiunto che dal prossimo settembre, per l' anno scolastico 2020-21 ci sarà una stretta, perché «Non si possono insegnare cose che siano incompatibili con leggi della Repubblica o con la Storia, così come noi la vediamo». La frecciatina ai fondamentalisti è visibile. Il presidente, inoltre, ha annunciato (anche senza specificare quando entrerà in vigore) una stretta agli imam «distaccati», ovvero quelli che solitamente (da Turchia, Algeria e Marocco) arrivano in Francia in base a degli accordi bilaterali con gli Stati d' origine per sostenere la domanda interna di guide religiose in crescita (visto il boom immigratorio). Salteranno anche i 300 salmodianti strabieri accolti ogni anno durante il ramadan. Forse i sondaggi che danno Marine Le Pen quasi alla pari con Macron e le amministrative alle porte (dopo il sexy-scandalo che ha fatto ritirare il candidato sindaco di En Marche a Parigi) hanno avuto un ruolo in queste dichiarazioni di sapore sovranista. Resta il fatto che l' immigrazione araba-africana è uno dei fatti epocali di questi decenni su cui riflettere maggiormente per evitare degli errori fatali, come quelli riconosciuti da Macron.
Da ansa.it il 14 febbraio 2020. Il candidato della République En Marche alla poltrona di sindaco di Parigi nonché fedelissimo del presidente Emmanuel Macron si ritira dalla corsa alle elezioni municipali del prossimo marzo dopo la diffusione di immagini intime di carattere sessuale. In una breve dichiarazione, l'ex portavoce del governo ha denunciato "attacchi ignobili". "Ho deciso di ritirare la mia candidatura all'elezione municipale parigina", ha dichiarato Griveaux, in un video diffuso questa mattina da BFM-Paris, in cui denuncia "attacchi ignobili". La decisione segue la diffusione sul web e sui social network di un video intimo, di carattere sessuale, a lui attribuito. "Non intendo esporre ulteriormente, me e la mia famiglia, quando tutti i colpi sono ormai permessi, qui ci si spinge oltre. E' una decisione che mi costa, ma le mie priorità sono chiare, prima la mia famiglia". Nella breve dichiarazione, Griveaux spiega che da oltre "un anno, con la mia famiglia, abbiamo subito parole diffamanti, bugie, pettegolezzi, attacchi anonimi, rivelazioni di conversazioni anonime e minacce di morte. Questo torrente di fango - ha proseguito - mi danneggia ma soprattutto fa male a chi amo. Come se non bastasse, ieri, si è superato un ulteriore livello. Un sito web e dei social network hanno rilanciato degli attacchi ignobili in cui viene messa in discussione la mia vita privata". L'ex socialista di 42 anni, tra i primi sostenitori del movimento che nel 2017 portò Macron all'Eliseo, Griveaux ha visto le sue chance di farcela a Parigi fortemente ridimensionate dopo la mossa di Cédric Villani, l'altro candidato 'dissidente' della République en Marche che ha spaccato in due l'elettorato macronista. in Francia, le elezioni municipali si terranno in due turni, il 15 e il 22 marzo. Secondo un ultimo sondaggio Odoxa-Cgi per Le Figaro, Griveaux si sarebbe piazzato in terza posizione, con il 16% delle preferenze, dietro alla sindaca uscente socialista Anne Hidalgo (23%) e la candidata dei Républicains, Rachida Dati (20%). La sua uscita dalla corsa elettorale è anche un colpo per Macron, che sostenne fortemente la sua candidatura.
Video hot sui social: Griveaux, fedelissimo di Macron, si ritira dalla corsa a sindaco di Parigi. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Il candidato sindaco di Parigi nonché fedelissimo del presidente Emmanuel Macron si ritira dalla corsa alle elezioni municipali del prossimo marzo dopo la diffusione di immagini intime di carattere sessuale: è circolato un video che riprende Benjamin Griveaux, de La République en Marche (Lrm), il partito del presidente, mentre si masturba. In una breve dichiarazione, l’ex portavoce del governo ha denunciato «attacchi ignobili».
Fermato a Parigi l’artista russo che ha diffuso il video hot su Griveaux. Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 da Corriere.it. L’artista russo Piotr Pavlenski, che ha rivendicato la pubblicazione del video intimo attribuiti a Benjamin Griveaux, è stato fermato dalla polizia a Parigi. Lo ha reso noto la tv francese BfmTv citando una propria fonte. Il filmato del 42enne ex portavoce del governo ha iniziato a circolare sui social mercoledì sera. Lui si è ritirato dalla corsa alle elezioni municipali di marzo dichiarando: «Un sito e i social network hanno lanciato vili attacchi riguardanti la mia vita privata. La mia famiglia non lo merita. Nessuno dovrebbe mai essere sottoposto a tali abusi».
Griveaux e i video hot per Alexandra: chi è la francese esperta di Russia che ha «tradito» l’uomo di Pavlenski. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiore. Secondo i suoi genitori, «Alexandra non è certo un’anarchica», «si trova in una vicenda più grande di lei», «è come paralizzata», «è stata manipolata da quell’uomo, di cui è molto innamorata». Ma dopo l’arresto e la custodia cautelare ieri Alexandra de Taddeo è stata deferita al procuratore assieme al compagno Piotr Pavlenski. La 29enne studentessa francese poliglotta e l’artista anarchico russo rifugiato a Parigi sono indagati per avere violato la vita privata di Benjamin Griveaux, amico di Emmanuel Macron, co-fondatore con lui del movimento En Marche, ex portavoce del governo e ormai ex candidato a sindaco di Parigi nelle elezioni del prossimo 15 marzo. È a Alexandra de Taddeo che nel maggio 2018 Griveaux inviava i due video intimi e le frasi poi diffuse su Internet, venerdì scorso, da Pavlenski nel sito «Pornopolitique.com» creato per l’occasione. «Denuncio l’ipocrisia di un candidato che fa campagna elettorale difendendo i valori della famiglia ma in realtà manda video di masturbazione a un’altra donna». La mattina successiva la diffusione dei video Griveaux si è ritirato dalla campagna elettorale, nonostante Macron gli avesse chiesto di resistere offrendogli solidarietà e protezione. Pavlenski ha altro materiale a disposizione e Griveaux, sposato con tre figli di 7 anni, 5 anni, e otto mesi, ha preferito non sottoporsi a una lunga agonia. Capire il ruolo di Alexandra de Taddeo sarà importante per comprendere se si è trattata di un’azione «politico-artistica» autonoma congegnata da Piotr Pavlenski, suo compagno dal gennaio 2019, con l’aiuto del suo avvocato Juan Branco consigliere di Julian Assange e dei gilet gialli, oppure se si è trattato di un complotto più ampio al quale potrebbero avere partecipato forze vicine al presidente russo Putin. Nata in una famiglia agiata di Metz, Alexandra de Taddeo parla cinque lingue tra le quali il russo (perfettamente) e si è laureata in diritto internazionale a Parigi con una tesi sulla «politica estera della Federazione russa nell’Artico». Secondo il padre «Alexandra vive da 10 anni a Parigi ed è in buoni rapporti con noi». Ha studiato poi a Oxford ed è stata stagista all’Unesco e più di recente all’Alleanza degli avvocati per i diritti umani. Dal 2018 fa parte del «Consiglio parigino della gioventù», un organismo del comune di Parigi, cosa che ha fatto ipotizzare un possibile coinvolgimento della sindaca Anne Hidalgo. In realtà il Consiglio, che si occupa di democrazia partecipativa, non è legato ad alcun partito o esponente politico, e se ne fa parte se tirati a sorte dopo avere presentato domanda. Durante la custodia cautelare Alexandra de Taddeo avrebbe spiegato di avere fornito i video a Pavlenski per motivi personali, «una vendetta» per il comportamento di Griveaux nei suoi confronti. Nella prima metà del 2018 è stata lei a contattare Griveaux, all’epoca portavoce del governo, su Facebook e Instagram. I due hanno cominciato a parlare di politica, poi la relazione è diventata personale e da virtuale sarebbe diventata reale, prima di interrompersi. I famigliari della de Taddeo la descrivono come una studentessa brillante, interessata alla Russia, molto innamorata di un uomo «che non è certo il nostro tipo» e che l’avrebbe trascinata in un ambiente estremista servendosi di lei. Alexandra ha partecipato all’operazione non solo registrando i messaggi di Griveaux (che avrebbero dovuto cancellarsi un minuto dopo la ricezione) e consegnandoli a Pavlenski, ma anche co-firmando con lui un’intervista a un’attrice pornografica, apparsa nello stesso sito «Pornopolitique. com», dal titolo «Il puritanismo in politica è il sintomo di un’ideologia da politici frustrati».
Caso Griveaux, «complotto anti-Macron?». L’amante, l’artista e l’avvocato. Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. Violazione dell’intimità della vita privata» e «diffusione senza accordo di immagini a carattere sessuale» sono le motivazioni dell’arresto dell’artista russo Piotr Pavlenski, 35 anni, e della sua compagna l’avvocata Alexandra de Taddeo, 29, bloccati dalla polizia sabato pomeriggio all’uscita di un albergo dell’elegante XVI arrondissement di Parigi. Pavlenski è l’autore del sito «Pornopolitique», dove venerdì ha diffuso due video intimi e alcune frasi di Benjamin Griveaux, 42enne ex portavoce del governo e ormai ex candidato al municipio di Parigi nelle elezioni del 15 marzo. De Taddeo è la donna alla quale Griveaux, sposato con tre figli, nel maggio 2018 ha inviato i filmati di masturbazioni e le frasi sulla famiglia e figli «come una prigione». L’«azione militante» di Pavlenski, che annunciava la diffusione di altri video, ha indotto Griveaux a ritirarsi dalla corsa a sindaco e suscitato un’ondata di indignazione unanime nella politica francese. Al di là delle considerazioni morali sul tradimento, che riguardano solo Griveaux e sua moglie, molti sottolineano l’imperdonabile imprudenza dell’ex candidato macronista. Ma Griveaux Comunque non ha commesso alcun reato, a differenza di Pavlenski e forse di Alexandra de Taddeo, che a quanto pare quando intratteneva la relazione con Griveaux non era ancora la compagna dell’artista russo (lo sarebbe diventata solo nel gennaio 2020). L’inchiesta cerca di chiarire il ruolo della donna: se sia stata complice di una trappola, se ha fornito lei video e chat a Pavlenski o se quest’ultimo gliele ha sottratte. La scorsa settimana Griveaux si trovava in grave difficoltà politica, benché avesse l’appoggio incondizionato del presidente Emmanuel Macron. A Parigi, dove il movimento di Macron ha ottenuto il 90% dei voti al secondo turno della presidenziale e un ottimo 32% alle europee, Griveaux restava solo terzo nei sondaggi dietro la sindaca uscente Anne Hidalgo (sinistra) e l’ex ministra sarkozysta Rachida Dati (destra), e tallonato dal macronista dissidente Cédric Villani che gli toglieva molte intenzioni di voto. Proprio mentre Griveaux era impegnato in un ultimo tentativo di rilancio della sua campagna, è arrivato l’attacco su Internet e sui social media di Piotr Pavlenski, controverso personaggio autore di clamorose performance politico-artistiche (si è cucito le labbra in sostegno alle Pussy Riot, si è avvolto nel filo spinato davanti all’assemblea legislativa di San Pietroburgo, si è inchiodato lo scroto davanti al mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa a Mosca, ha appiccato il fuoco al portone dei servizi segreti russi e poi a Parigi all’entrata della Banca di Francia). Pavlenski si fa anche fotografare a braccio teso davanti alla bandiera nazista, ma dal 4 maggio 2017 gode dell’asilo politico a Parigi in qualità di oppositore perseguitato da Putin. Un altro aspetto molto interessante è la parte giocata in tutta la vicenda da Juan Branco, trentenne avvocato consulente di Julian Assange e di alcune figure dei gilet gialli come Maxime Nicolle. Branco, estremista di sinistra con ottimi studi alla Sorbona e a Sciences Po, ha pubblicato nel 2019 «Crépuscule», un violento pamphlet contro Macron. Il 31 dicembre 2019 Branco ha organizzato in un grande appartamento di Saint-Germain-des-Près una festa alla quale ha invitato anche De Taddeo e Pavlenski, il quale intorno alle 3 del mattino ha accoltellato due persone ed era da allora ricercato (senza grande convinzione evidentemente) dalla polizia. «Ho dato consigli a Pavlenski prima della pubblicazione dei video», ha dichiarato nei giorni scorsi Branco, al quale l’artista russo voleva affidare la sua difesa. La procura di Parigi però ieri si è opposta, un gesto straordinario motivato dal sospetto che Branco abbia avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione dell’attacco a Griveaux. Accanto all’inchiesta, c’è l’aspetto politico: ieri il partito di Macron ha designato la sua nuova candidata al posto di Griveaux. Si tratta di Agnès Buzyn, ministra della Sanità, che lascia la lotta al Coronavirus per tentare di porre rimedio al disastro di Parigi.
Filippo Facci per ''Libero Quotidiano'' il 15 febbraio 2020. Silvio Berlusconi, almeno, si è portato a letto tremila ragazzette prima che il guardonismo giudiziario gli squadernasse l' esistenza per undici anni e lo costringesse a divorziare. Dominique Strauss-Khan, almeno, si portò a letto qualche sottoposta, molestò innocuamente qualche cameriera e partecipò a dei festini con ragazze pagate da altri. I due - Berlusconi e Strauss-Khan - hanno comunque fatto delle notevoli carriere benché l' uso degli scandali sessuali avesse già preso cittadinanza nello scemenzaio globale. Ma che cosa dire di Benjamin Griveaux, candidato sindaco per Parigi? Si è fatto una sega: e allora carriera distrutta e candidatura ritirata. Tecnicamente è andata così. La cronaca è ancor più penosa, termine appropriato. Un artista russo che si chiama Pjotr Pavlenskij, uno che che aveva ottenuto asilo politico in Francia nel 2017, ha pubblicato dei filmati ovviamente privati (nelle intenzioni) con Benjamin Griveaux che si masturba col suo grosso affare in primo piano. L' artista ha raccontato di aver ricevuto le immagini da una ragazza che ebbe una relazione con Griveaux, e la pietra dello scandalo consisterebbe nella morale adultera di un candidato, sposato e con figli, che peraltro della politica in favore delle famiglie aveva fatto una priorità di campagna elettorale. Quindi l' ex portavoce del governo, e ormai ex candidato di En Marche (partito di Emmanuel Macron) ha deciso di rinunciare in quanto sbertucciato sui giornali e sul web, questo per colpa di un artistoide con la propensione al fanatismo provocatorio. In passato Pavlenskij si era cucito la bocca in solidarietà con le Pussy Riot, si era tagliato un pezzo di orecchio per denunciare le violenze psichiatriche in Russia, aveva dato fuoco alla facciata della Banque de France beccandosi peraltro un anno di carcere: ma è niente, in confronto all' aver mostrato il pene di un politico intento a tornirselo. Poi naturalmente, ora che si è ritirato, fioccano le solidarietà. Persino l' attuale sindaca di Parigi, la socialista sessantenne Anne Hidalgo, ha invocato «rispetto per la vita privata». E il nemico politico Cedric Villani (candidato rimasto in lizza che era stato fatto fuori da Le Marche proprio per essere sostituito con Griveaux) ha rivolto all' avversario e alla sua famiglia il suo «pieno e sincero sostegno in questo calvario». Ma perché, in sostanza, Griveaux si è ritirato? Se il vero problema fosse un' incoerenza «politica», probabilmente avrebbe sollevato eguale scandalo la carriera di un politico che cominciò con lo Sfio (sezione francese dell' Internazionale dei lavoratori) per poi passare col partito socialista, e poi, ancora, con doppio carpiato, si unì al neoliberista Macron giusto in tempo per diventare Segretario di Stato e successivamente portavoce del governo. Ma si sa, nella politica moderna non è questo genere di ipocrisia a menare scandalo. Allora potrebbe esser colpa, come detto, e come si legge in Francia, dell' incompatibilità tra una presunta scappatella e l' esibita fiducia di Griveaux nei valori della famiglia: e qui sono fioccate vecchie e recenti interviste in cui il politico esaltava mielosi quadretti familiari laddove «sono stati i miei figli a dare un nuovo significato al mio impegno politico», al punto da definirsi il possibile «sindaco dei bambini e della vita quotidiana dei genitori». L' incoerenza, dunque, sarebbe che in un messaggio privato con una ragazza, poi, ha invece scritto che «famiglia e figli sono una prigione». O, ancora, l' incoerenza sarebbe che delle due l' una: o Griveaux mentiva ai suoi elettori, oppure mentiva alla ragazza. Pare tutto un po' troppo semplicistico, tuttavia. Siamo in Francia, nazione della «laicité» dove ogni dimensione religiosa, pur presente, resta lontana anni luce da certo puritanesimo anglosassone: dunque il sapere o il presumere che un bell' uomo di 42 anni possa concedersi delle distrazioni - anche continuando a santificare la centralità della famiglia - no, non dovrebbe essere motivo di grande turbamento: non in Francia, nazione dove l' amatissimo ex presidente Francois Mitterrand convisse per 32 anni con l' amante Anne Pingeot anche se non divorziò mai dalla moglie, che intanto aveva una relazione con un professore di ginnastica. La Francia sapeva. E, mediamente, se ne fregava. Quindi, forse, il problema di Benjamin Griveaux è un po' più crudo e modernizzato. Il problema, ossia, non è il messaggio, ma il medium: internet, i social, il solito. C' è mezza Francia che associa l' immagine Benjamin Griveaux a quella del suo cazzo, fine. È così, e lo resterà chissà per chissà quanto. La servitù parla delle persone e la nobiltà parla dei fatti: ma è la servitù a votare. Griveaux lo sa, e confida nell' oblio. Ma sarà duro, pardon dura.
Rosalba Castelletti per ''la Repubblica'' il 15 febbraio 2020. L' autore del sito che ha affossato l' esponente di "En Marche!" di Rosalba Castelletti Definisce la sua arte "politica". Per denunciare il regime russo, aveva incendiato la sede moscovita dell' ex Kgb, si era cucito le labbra e si era inchiodato lo scroto sul pavé della Piazza Rossa. Nella sorpresa generale, è stato il provocatorio artista russo Pjotr Pavlenskij, rifugiato politico in Francia dal 2017, a rivendicare la diffusione di video e messaggi a sfondo sessuale che hanno portato Benjamin Griveaux a rinunciare alla candidatura di sindaco di Parigi. «Griveaux si affida costantemente ai valori familiari, afferma di voler essere il sindaco delle famiglie e cita sempre sua moglie e i suoi figli come esempio. Ma fa esattamente il contrario», si è giustificato con Libération . «Che cosa accadrebbe se una persona che odia e disprezza i suoi elettori diventasse il capo della città? Avrebbe un grande potere e potrebbe essere molto pericoloso», ha ribadito a Afp . «È una questione di principio», ha ribattuto alle critiche quasi unanimi, senza mai rivelare la sua fonte. «Ora vivo in Francia, sono parigino, è importante per me», ha insistito. A difenderlo c' è Juan Branco, già legale di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks. Figlio di un padre morto per alcolismo e di una madre ex infermiera psichiatrica, testa rasata, guance infossate, questo trentacinquenne russo sa come far parlare di sé. In passato non ha esitato a usare il suo corpo per denunciare lo Stato di polizia in Russia. Come quando si è mostrato nudo riverso come un cadavere in un bozzolo di filo spinato o si è tagliato il lobo dell' orecchio destro seduto sul muro di un ospedale psichiatrico. «Il mio è un genere d' arte che opera all' interno della meccanica del potere e costringe gli strumenti del potere a smascherarsi», aveva detto a Repubblica dopo l' uscita del libro Nudo con filo spinato. Le sue azioni avevano raccolto consensi in Occidente tanto che nel 2016, mentre era in detenzione preventiva, gli era stato assegnato il premio Vaclav-Havel di 42mila dollari: subito ritirato quando Pjotr aveva detto di volerli devolvere alla difesa di sei giovani russi accusati dell' omicidio di poliziotti. Aveva lasciato Mosca nel dicembre 2016 dopo essere stato accusato, insieme alla compagna Oksana Shalygina, di aggressione sessuale da un' attrice 23enne. Un caso montato ad arte per ragioni politiche, ha sempre affermato. Ottenuto l' asilo politico in Francia nel maggio 2017, Pavlenskij ha reindirizzato le sue proteste «contro il ludibrio del potere». Solo pochi mesi dopo il suo arrivo, ha incendiato una filiale della Banca di Francia. Dopo 11 mesi in detenzione preventiva, processato nel 2019, è stato condannato a tre anni di carcere, due dei quali sospesi. Secondo Mediapart , sarebbe tuttora ricercato per aver accoltellato due persone alla vigilia di Capodanno. Oggi il suo obiettivo, dice Pavlenskij, è «denunciare l' ipocrisia diventata norma». E promette: «Griveaux è solo il primo. Ho appena iniziato».
Anais Ginori per ''la Repubblica'' il 16 febbraio 2020. Da qualche ora, il sito che ha postato i contenuti osé di Benjamin Griveaux non è più visibile. È stato lo stesso artista russo Pjotr Pavlenskij - arrestato ieri dalla polizia per fatti di violenza che risalgono al capodanno scorso - ad annunciare che Pornopolitique.com è stato chiuso dalle autorità francesi, promettendo però di tornare presto con nuove rivelazioni. E già questo fa capire che lo scandalo che ha travolto Griveaux, candidato sindaco di Parigi per il movimento di Emmanuel Macron, non è finito. Se Pavlenskij ha spiegato di voler denunciare «l' ipocrisia» di Griveaux, molti cominciano a pensare che sia stato aiutato. La stessa Marine Le Pen parla di un possibile «complotto». A destare sospetti sono personaggi come il giovane avvocato Juan Branco, già legale di Julian Assange, che l' anno scorso ha firmato un violento pamphlet contro Macron. Branco conosce bene Pavlenskij con il quale ha trascorso l' ultimo capodanno finito con una denuncia contro l' artista per avere ferito all' arma bianca due ospiti che ieri ha portato al suo arresto. Branco ha ammesso di essere stato consultato da Pavlenskij prima di pubblicare i contenuti hard. Il sito Pornopolitique.com è stato creato nel novembre scorso e Pavlenskij ha messo in linea i contenuti già mercoledì, insieme a un' intervista a Cicciolina, passando per qualche ora inosservato. Sono stati alcuni profili legati ai gilet gialli a rilanciare i contenuti giovedì. Anche il deputato Joachim Son-Forget, eletto con En Marche prima di entrare in dissidenza, ha rilanciato i contenuti di Pavlenskij. Oggi il deputato - che ha cercato di assumere come assistente parlamentare l' ex responsabile sicurezza dell' Eliseo Alexandre Benalla - si difende sostenendo che era un modo di allertare Griveaux. Resta anche il mistero sulla fonte di Pavlenskij. Il filmato in cui Griveaux si masturba è stato inviato attraverso Facebook Messenger nel maggio 2018 (quando era portavoce del governo), con la funzione che cancella i contenuti dopo un minuto. Ma la persona che li ha ricevuti ha registrato il video con il cellulare. Le Figaro parla di «agghiacciante incoscienza politica» di Griveaux. Nel suo editoriale dal titolo "L' abbassamento della democrazia", Le Monde auspica un «sussulto» dell' opinione pubblica contro la «barbarie» della delazione online. Il direttore di Libération , Laurent Joffrin, condanna la «la ghigliottina digitale» e «una regressione della civiltà».
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 17 febbraio 2020. «Violazione dell' intimità della vita privata» e «diffusione senza accordo di immagini a carattere sessuale» sono le motivazioni dell' arresto dell' artista russo Piotr Pavlenski, 35 anni, e della sua compagna l' avvocata Alexandra de Taddeo, 29, bloccati dalla polizia sabato pomeriggio all' uscita di un albergo dell' elegante XVI arrondissement di Parigi. Pavlenski è l' autore del sito «Pornopolitique», dove venerdì ha diffuso due video intimi e alcune frasi di Benjamin Griveaux, 42enne ex portavoce del governo e ormai ex candidato al municipio di Parigi nelle elezioni del 15 marzo. De Taddeo è la donna alla quale Griveaux, sposato con tre figli, nel maggio 2018 ha inviato i filmati di masturbazioni e le frasi sulla famiglia e figli «come una prigione». L'«azione militante» di Pavlenski, che annunciava la diffusione di altri video, ha indotto Griveaux a ritirarsi dalla corsa a sindaco e suscitato un' ondata di indignazione unanime nella politica francese. Al di là delle considerazioni morali sul tradimento, che riguardano solo Griveaux e sua moglie, molti sottolineano l' imperdonabile imprudenza dell' ex candidato macronista. Ma Griveaux Comunque non ha commesso alcun reato, a differenza di Pavlenski e forse di Alexandra de Taddeo, che a quanto pare quando intratteneva la relazione con Griveaux non era ancora la compagna dell' artista russo (lo sarebbe diventata solo nel gennaio 2020). L' inchiesta cerca di chiarire il ruolo della donna: se sia stata complice di una trappola, se ha fornito lei video e chat a Pavlenski o se quest' ultimo gliele ha sottratte. La scorsa settimana Griveaux si trovava in grave difficoltà politica, benché avesse l' appoggio incondizionato del presidente Emmanuel Macron. A Parigi, dove il movimento di Macron ha ottenuto il 90% dei voti al secondo turno della presidenziale e un ottimo 32% alle europee, Griveaux restava solo terzo nei sondaggi dietro la sindaca uscente Anne Hidalgo (sinistra) e l' ex ministra sarkozysta Rachida Dati (destra), e tallonato dal macronista dissidente Cédric Villani che gli toglieva molte intenzioni di voto. Proprio mentre Griveaux era impegnato in un ultimo tentativo di rilancio della sua campagna, è arrivato l' attacco su Internet e sui social media di Piotr Pavlenski, controverso personaggio autore di clamorose performance politico-artistiche (si è cucito le labbra in sostegno alle Pussy Riot, si è avvolto nel filo spinato davanti all' assemblea legislativa di San Pietroburgo, si è inchiodato lo scroto davanti al mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa a Mosca, ha appiccato il fuoco al portone dei servizi segreti russi e poi a Parigi all' entrata della Banca di Francia). Pavlenski si fa anche fotografare a braccio teso davanti alla bandiera nazista, ma dal 4 maggio 2017 gode dell' asilo politico a Parigi in qualità di oppositore perseguitato da Putin. Un altro aspetto molto interessante è la parte giocata in tutta la vicenda da Juan Branco, trentenne avvocato consulente di Julian Assange e di alcune figure dei gilet gialli come Maxime Nicolle. Branco, estremista di sinistra con ottimi studi alla Sorbona e a Sciences Po, ha pubblicato nel 2019 «Crépuscule», un violento pamphlet contro Macron. Il 31 dicembre 2019 Branco ha organizzato in un grande appartamento di Saint-Germain-des-Près una festa alla quale ha invitato anche De Taddeo e Pavlenski, il quale intorno alle 3 del mattino ha accoltellato due persone ed era da allora ricercato (senza grande convinzione evidentemente) dalla polizia. «Ho dato consigli a Pavlenski prima della pubblicazione dei video», ha dichiarato nei giorni scorsi Branco, al quale l' artista russo voleva affidare la sua difesa. La procura di Parigi però ieri si è opposta, un gesto straordinario motivato dal sospetto che Branco abbia avuto un ruolo di primo piano nell' organizzazione dell' attacco a Griveaux. Accanto all' inchiesta, c' è l' aspetto politico: ieri il partito di Macron ha designato la sua nuova candidata al posto di Griveaux. Si tratta di Agnès Buzyn, ministra della Sanità, che lascia la lotta al Coronavirus per tentare di porre rimedio al disastro di Parigi.
Gaia Cesare per “il Giornale” il 19 febbraio 2020. Parigi? Più che la capitale di Francia sembra ormai la capitale dei tradimenti, sentimentali e politici. L' Eliseo? Più che il palazzo del presidente sembra il palazzo dei veleni. In attesa di capire se e quale regia ci sia dietro lo scandalo sessuale che ha portato il candidato de La République en Marche, Benjamin Griveaux, a ritirarsi dalla corsa a sindaco della capitale, dopo la diffusione di un video compromettente divenuto di dominio pubblico, la Francia scopre in questi giorni nuovi e inquietanti dettagli su un altro circolo passionale-amoroso. Lo scandalo pareva dimenticato ma riemerge proprio in questi giorni turbolenti, dopo le dichiarazioni di due giornalisti del quotidiano Le Monde. Il caso è il celebre triangolo Hollande-Gayet-Trierweiler, cioè il tradimento sentimentale dell' ex presidente socialista Hollande nei confronti dell' allora compagna, la giornalista Valérie Trierweiler, che fece il giro del mondo e contribuì alla fine politica di Hollande nel 2017. La storia clandestina del leader francese con l' attrice Julie Gayet, vent' anni più giovane di lui, diventò di dominio pubblico nel gennaio 2014 con uno scoop del settimanale Closer, che pubblicò le foto del presidente in scooter mentre si recava a casa dell' amante, per passarci la notte, con tanto di croissant freschi consegnati dal capo scorta il mattino dopo. Ma ecco la novità. Tre mesi prima che la notizia diventasse di dominio pubblico, i giornalisti del Monde, Fabrice Lhomme e Gérard Davet, erano stati avvisati dall' ex presidente Nicolas Sarkozy, sul quale stavano svolgendo un' inchiesta, delle fughe d' amore di Hollande. «Incontriamo Sarkozy nei suoi uffici - ha raccontato Davet alla radio francese Europe 1 - Ci urla contro per mezz' ora, è sempre molto violento. Poi ci dice: Dovreste interessarvi a Hollande. Pare che esca dall' Eliseo per incontrare la sua amichetta in scooter...molto spesso». I due giornalisti in quel momento sono sulle tracce di Sarko per le presunte irregolarità nei finanziamenti della campagna presidenziale del 2012, vicenda per la quale l' ex presidente è stato rinviato a giudizio. Non si curano più di tanto delle parole di Sarko. Salvo poi scoprire, tre mesi dopo, dello scandalo Hollande-Gayet. Da qui le domande: come avrebbe saputo della liaison, in anticipo di tre mesi, l' ex presidente Sarko? Si trattava di un gossip che circolava già negli ambienti politici? Oppure la rivelazione è frutto di una soffiata, magari di qualche membro dei servizi segreti? Ed è forse Sarko la fonte che ha fatto arrivare la notizia ai giornali? Tutto da appurare, come in queste ore serve capire il ruolo dell' artista russo Piotr Pavlenski e della compagna Alexandra de Taddeo, ieri sentiti dalla procura, nello scandalo Griveaux, che ha sepolto la carriera del candidato di Emmanuel Macron. Quel che non stupisce sono le recenti rivelazioni di Paris Match, secondo cui, all' Eliseo, la guerra tra première dame tiene banco. Julie Gayet, ormai compagna fissa di Hollande, pare sia andata su tutte le furie per il mancato invito di Brigitte Macron a un pranzo a palazzo tra ex first lady, un anno fa, e lo abbia fatto sapere con un sms velenoso a Lady Macron. Anche perché, oltre a Carla Bruni, verso la quale Brigitte ha dichiarato la sua stima, all' appuntamento è stata invitata l' ex di Hollande, Trierweiler. Un affronto per la Gayet, che dopo lo scandalo andò a vivere all' Eliseo e sogna di tornarci con Hollande. In privato, l' attrice pare definisca Macron come «il traditore» per aver pugnalato Hollande, candidandosi nel 2017 dopo essere stato consulente del leader socialista e suo ministro dell' Economia.
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 18 febbraio 2020. Secondo i suoi genitori, «Alexandra non è certo un' anarchica», «si trova in una vicenda più grande di lei», «è come paralizzata», «è stata manipolata da quell' uomo, di cui è molto innamorata». Ma dopo l' arresto e la custodia cautelare ieri Alexandra de Taddeo è stata deferita al procuratore assieme al compagno Piotr Pavlenski. La 29enne studentessa francese poliglotta e l' artista anarchico russo rifugiato a Parigi sono indagati per avere violato la vita privata di Benjamin Griveaux, amico di Emmanuel Macron, co-fondatore con lui del movimento En Marche , ex portavoce del governo e ormai ex candidato a sindaco di Parigi nelle elezioni del prossimo 15 marzo. È a Alexandra de Taddeo che nel maggio 2018 Griveaux inviava i due video intimi e le frasi poi diffuse su Internet, venerdì scorso, da Pavlenski nel sito «Pornopolitique.com» creato per l' occasione. «Denuncio l' ipocrisia di un candidato che fa campagna elettorale difendendo i valori della famiglia ma in realtà manda video di masturbazione a un' altra donna». La mattina successiva la diffusione dei video Griveaux si è ritirato dalla campagna elettorale, nonostante Macron gli avesse chiesto di resistere offrendogli solidarietà e protezione. Pavlenski ha altro materiale a disposizione e Griveaux, sposato con tre figli di 7 anni, 5 anni, e otto mesi, ha preferito non sottoporsi a una lunga agonia. Capire il ruolo di Alexandra de Taddeo sarà importante per comprendere se si è trattata di un' azione «politico-artistica» autonoma congegnata da Piotr Pavlenski, suo compagno dal gennaio 2019, con l' aiuto del suo avvocato Juan Branco consigliere di Julian Assange e dei gilet gialli, oppure se si è trattato di un complotto più ampio al quale potrebbero avere partecipato forze vicine al presidente russo Putin. Nata in una famiglia agiata di Metz, Alexandra de Taddeo parla cinque lingue tra le quali il russo (perfettamente) e si è laureata in diritto internazionale a Parigi con una tesi sulla «politica estera della Federazione russa nell' Artico». Secondo il padre «Alexandra vive da 10 anni a Parigi ed è in buoni rapporti con noi». Ha studiato poi a Oxford ed è stata stagista all' Unesco e più di recente all' Alleanza degli avvocati per i diritti umani. Dal 2018 fa parte del «Consiglio parigino della gioventù», un organismo del comune di Parigi, cosa che ha fatto ipotizzare un possibile coinvolgimento della sindaca Anne Hidalgo. In realtà il Consiglio, che si occupa di democrazia partecipativa, non è legato ad alcun partito o esponente politico, e se ne fa parte se tirati a sorte dopo avere presentato domanda. Durante la custodia cautelare Alexandra de Taddeo avrebbe spiegato di avere fornito i video a Pavlenski per motivi personali, «una vendetta» per il comportamento di Griveaux nei suoi confronti. Nella prima metà del 2018 è stata lei a contattare Griveaux, all' epoca portavoce del governo, su Facebook e Instagram. I due hanno cominciato a parlare di politica, poi la relazione è diventata personale e da virtuale sarebbe diventata reale, prima di interrompersi. I famigliari della de Taddeo la descrivono come una studentessa brillante, interessata alla Russia, molto innamorata di un uomo «che non è certo il nostro tipo» e che l' avrebbe trascinata in un ambiente estremista servendosi di lei. Alexandra ha partecipato all' operazione non solo registrando i messaggi di Griveaux (che avrebbero dovuto cancellarsi un minuto dopo la ricezione) e consegnandoli a Pavlenski, ma anche co-firmando con lui un' intervista a un' attrice pornografica, apparsa nello stesso sito «Pornopolitique. com», dal titolo «Il puritanismo in politica è il sintomo di un' ideologia da politici frustrati».
Scandalo Griveaux, la Francia si riscopre più bacchettona dell’Italia. Fulvio Abbate de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. L’Affaire Griveaux getta una pessima luce moralistica sull’Esagono. Da Parigi alla Francia tutta, forse. Sulle macerie del Parti socialiste un tempo egemone nella sua rue de Solfèrino, abbiamo visto sorgere la piccola sagoma di Emmanuel Macron, ircocervo politico post-post-gollista. Ora l’affare si ingrossa con lo spettro di un video privato, assai privato, intimo, impudico, girato online, “dono” d’amore che il candidato sindaco, creatura proprio del vivaio macroniano, aspirante alla guida della capitale, sfidante della socialista Anne Hidalgo, Benjamin Griveaux, sposato con tre figli di 7 anni, 5 anni, e otto mesi, ha nottetempo inviato da certo spasimante, “missive”, come dire, post-pneumatiche, sì, che François Truffaut avrebbe ben saputo rendere anche questo racconto epistolare virtuale sullo schermo, come già aveva fatto in “Baisiers volés”, “Baci rubati”. In presenza dello “scandalo” dei video divenuti pubblici, Griveaux si è visto condannato da se stesso a biffare ogni possibile aspirazione elettorale, il filmato d’annuncio del suo stop mostra altro genere di contrizione. Nelle immagini inviate alla sua corrispondente erotica su WhatsApp, il candidato di République En Marche, sia detto con parole semplici, era invece lì a masturbarsi con estatico vigore sentimentale. «Ho deciso di ritirare la mia candidatura all’elezione municipale parigina», annuncia l’uomo, sconfitto dalla sua imprudenza, in un incontro pubblico convocato dopo che il video è stato diffuso dalla BFM-Paris. «Ho ricevuto attacchi ignobili. Non intendo esporre ulteriormente, me e la mia famiglia, quando tutti i colpi sono ormai permessi, qui ci si spinge oltre. È una decisione che mi costa, ma le mie priorità sono chiare, prima la mia famiglia». Anche per Macron, sia detto, assodato che il Presidente aveva puntato molto su Griveaux, indicato al terzo posto nei sondaggi (su di lui pesavano già infatti gli attacchi recenti ricevuti dai “gilets jaunes” contro un candidato ex socialista ed ex collaboratore di Strauss-Khan, maestro di altrettanta rapace nonchalance sessuale; Dominique “rattuso” globale, direbbero prosaicamente a Napoli) ora con il suo ritiro la conquista di Parigi si mostra ripida. Compreso l’approdo all’Hotel De Ville, imperiale sede del Municipio di Parigi, dinanzi al quale Robert Doisneau ebbe modo di scattare il più celebre bacio della storia fotografica, in un dopoguerra eroticamente infine felice esistenzialisticamente di se stesso, quasi un manifesto di liberazione, ciò che i surrealisti chiamano “istinti desideranti”, compreso, estremizzando, la scelta di inviare in dono tutto di se stessi, i fiotti del proprio piacere. Riaffiora in mente una vignetta di Wolinski dedicata a trascorse disfide elettorali, dove il candidato, piazzandosi davanti a una fanciulla in fiore nuda, così da coprirne il “delta di Venere”, come direbbe Anaïs Nin, promette di scansarsi qualora dovesse essere eletto; così per chiarire che la Francia mai ha mostrato ossequio al moralismo sessuofobico, ne ha sempre riso, non ha mai criminalizzato il sesso. Si chiama Alexandra de Taddeo, studentessa ventinovenne francese, la destinataria della nostra storia erotico-epistolare, è a lei che, nel maggio 2018, Griveaux invia i video personali poi diffusi su internet da Piotr Pavlenskij, l’artista anarchico russo rifugiato a Parigi, sempre da questi riversati nel sito “pornopolitique.com” con scarne parole d’accompagnamento: «Denuncio l’ipocrisia di un candidato che fa campagna elettorale difendendo i valori della famiglia ma in realtà manda video di masturbazione a un’altra donna». Si tratterà ora di comprendere, assodato il crucifige toccato all’ingenuo Griveaux, quanto si tratti di azione politico-artistica di segno situazionista concepita dal singolo Pavlenskij, compagno dal gennaio 2019 di Alexandra, all’insaputa di quest’ultima o semmai di un “affaire” calibrato dai servizi del presidente russo Putin. Di Pavlenskij va ricordato, fra poco altro, la volta in cui inchiodò il proprio pene sulle basole della Piazza Rossa. Pupilla alto-borghese di Metz, Alexandra de Taddeo conosce cinque lingue, compreso il russo, si è laureata in diritto internazionale a Parigi, ha frequentato Oxford, è stata stagista all’Unesco. In stato di fermo, racconta di avere offerto i video a Pavlenskij per ragioni “vendetta personale” nei confronti di Griveaux. Per la cronaca, all’inizio del 2018 sarebbe stata lei a contattare l’uomo, allora portavoce del governo, sui social. La relazione è presto divenuta personale, da virtuale a reale, prima di interrompersi. I familiari affermano intanto che l’artista russo l’avrebbe trascinata in un ambiente estremista servendosi di lei per i suoi scopi diciamo spettacolari, «Alexandra non è anarchica!». Ora, chiunque abbia esperienza del mondo così com’è adesso nel tempo digitale, può immaginare che nottetempo lungo le strade celesti della rete immagini simili a zampilli si rincorrono da un capo all’altro dei borghi, delle città, delle metropoli; se improvvisamente, come nel romanzo La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec, potessimo scostare le facciate per mettere lo sguardo dentro i vani segreti degli appartamenti subito ne avremmo contezza. In tutt’altro contesto letterario, così recita un greve canto goliardico narra “l’agile mano” che “snuda il banano”. Ci viene in mente il caso di Dominique Strauss-Khan, pensiamo al Paese dove Toulouse-Lautrec faceva mostra fotografica di sé mentre, interamente nudo, defecava sulla spiaggia, il paese che con il can-can ha mostrato per primo l’intimo femminile; insomma, può lasciarsi andare a un simile moralismo la grande nazione che, insieme all’Illuminismo, ha avuto tra i suoi presidenti della Repubblica, ben altro che Mitterrand o Hollande o Pompidou la cui “Madame” era oggetto di implacabile satira sessuale, ovvero un Félix Faure deceduto nel 1899 a causa di un ictus nella Sala Blu dell’Eliseo, mentre si intratteneva con l’amante che gli stava praticando “une pipe”? Insomma, pietà, se non indulgenza laica, per l’incauto Griveaux.
Scandalo Griveaux, il rampante Benjamin nella morsa tra la bella Alexandra e la spia Piotr. Angela Nocioni de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Brume parigine, tecnica sovietica. È l’avvocato del performer russo, molto più del performer russo, il personaggio interessante dello scandalo francese che ha mandato all’aria la candidatura del macronianissimo Benjamin Griveaux a sindaco di Parigi. Si chiama Juan Branco. Ha 30 anni. È stato avvocato di Julian Assange. Ha lavorato in vari gabinetti ministeriali. È stato candidato senza successo di Francia Insumisa, sinistra populista. Ora sta con i Jilet jeaunes. Viene dalle stesse ottime scuole, vivaio dell’aristocrazia repubblicana francese, da cui viene il presidente francese Emmanuel Macron ed odia profondamente Emmanuel Macron. È autore di un pamphlet di successo (150 mila copie vendute) sulle malefatte del macronismo. Un capitolo del libro è dedicato a Griveaux. La storia dello scandaletto che ha cambiato a trenta giorni dal voto la campagna per governare Parigi è nota. Il sito Porno Politique ha pubblicato un video privato di Benjamin Griveaux, stretto collaboratore di Macron e candidato sindaco, da lui inviato due anni fa a Alexandra de Taddeo, studentessa ventinovenne che con Griveaux ebbe una relazione lampo nel maggio del 2018 quando Griveaux – sposato, tre figli, con tutto il packaging perfettino del trentenne conservatore e di potere a Parigi – era portavoce del governo Macron. L’immediata rinuncia di Griveaux ha tolto ogni dubbio sulla autenticità del video. La questione della non escludibile manomissione delle immagini è più complicata, ma interessa meno perché intanto la candidatura è saltata. Alexandra de Taddeo è attualmente la fidanzata di Piotr Pavlensky, autore dell’invio del video a Porno Politique. Pavlensky sembra essere personaggio più spostato che controverso. Ha 35 anni, si muove a scatti. Sgrana sempre gli occhi quando parla, in ogni dichiarazione pubblica fa la parte del nichilista allucinato votato a scandalizzare con performance ad effetto. S’è crocifisso lo scroto a Mosca sulla Piazza Rossa, s’è mutilato un orecchio, s’è avvolto nudo nel filo spinato, ha incendiato la porta della Banca di Francia in piazza della Bastiglia (ed è stato condannato a 11 mesi di prigione per questo). In Francia risiede da rifugiato. Ha ottenuto rapidamente l’asilo politico nel 2017 dopo esser fuggito dalla Russia con accuse di violenza. Il 15 febbraio, subito dopo la pubblicazione del video, è stato in arresto due giorni insieme alla fidanzata. Rilasciati entrambi il 17 in libertà condizionata con divieto di comunicare tra loro e imputati per attentato alla vita privata e diffusione di immagini a carattere sessuale senza il consenso delle persone coinvolte. Pavlensky si dice «sorpreso» di essere in libertà vigilata. Dice di non aver nessuna intenzione di andarsene, di sentirsi parigino e di voler partecipare alla politica francese. Incontra i giornalisti nello studio privato di Juan Branco, il suo avvocato fino al giorno del suo arresto, che l’altro giorno gli ha messo a disposizione gli eleganti saloni della “Branco & Associati”, il suo appoggio e anche i suoi due bellissimi gatti per fare coreografia. È stato Branco, secondo quanto racconta Branco e Pavlensky conferma, a consigliarlo prima della pubblicazione del video. E, secondo il racconto di entrambi, è stato sempre lui a introdurlo a Parigi. Dice di averlo fatto perché il performer russo gli sembrava in difficoltà con la socializzazione. Di averlo incontrato insieme alla fidanzata nel novembre scorso a Lisbona durante i preparativi di una conferenza internazionale sulle tecnologie. E di esserlo andato ad ascoltare a dicembre alla Sorbona dove teneva un discorso. «L’ho invitato a una festa di Capodanno perché mi sembrava un po’ isolato» dice Branco. Festa finita male. Pavlensky avrebbe accoltellato vari invitati. È stato denunciato per aggressione. Il suo ospite non l’ha presa male. Informato da Pavlensky e Taddeo su «una grande azione quasi pronta» i primi di febbraio ha incontrato i due per vedere il video. Dice di aver spiegato loro le possibili ricadute e anche di averli avvisati che in Francia in genere la vita privata dei politici in genere non appassiona molto. Poi i racconti si confondono. Pavlensky assicura che la sua fidanzata non c’entra nulla, che anzi il video gliel’ha rubato lui dal computer di nascosto. Poi però dice anche di aver preparato la «grand’azione» insieme a lei. Che il video se l’è tenuto in memoria per due anni. Insieme forse a qualcos’altro, vista la fuga fulminea di Griveaux dalla vita pubblica.
Anais Ginori per repubblica.it il 2 marzo 2020. “Rimpianti? No, non ne ho”. Parla Alexandra de Taddeo, la donna dello scandalo che ha portato al ritiro del candidato a sindaco di Parigi, Benjamin Griveaux. Studentessa in legge, nata a Metz 29 anni fa, con interessi legati alla Russia, Taddeo ha rilasciato la sua prima intervista all'emittente M6. Spiega di aver conservato i video osé che Griveaux le aveva mandato nel 2018 per proteggersi in caso si fosse scoperta la loro relazione con l'allora ministro, sposato con figli. “Volevo poter dimostrare che era lui che mi aveva sollecitato”. Con l'ex ministro, fedelissimo di Macron, è cominciato nell’aprile 2018 un rapporto virtuale, via Instagram e Facebook Messenger, poi concretizzato in un incontro fisico, nella casa parigina della giovane. Taddeo precisa che c'è stato un unico rapporto sessuale con Griveaux. “Un po' deludente, come spesso capita quando ci si conosce prima virtualmente” aggiunge. Gli scambi di messaggi e video tra i due però sono continuati per qualche mese, con la giovane che ha ricambiato con immagini “meno pornografiche e più erotiche”, precisa. Alla fine Taddeo sostiene di aver chiuso le comunicazioni con Griveaux all’inizio del 2019, annunciandogli di essersi fidanzata con l'artista russo Piotr Pavlenskij. “L'uomo della mia vita” dice a un certo punto dell'intervista, commuovendosi quando l'intervistatore le chiede se è difficile non avere più contatti con lui, come hanno stabilito i magistrati per i due indagati nell'affaire. “E' molto dura perché lo amo. Ma sono convinta che questa vicenda ci unirà ancora di più”. Taddeo è indagata insieme a Pavlenskij per "violazione della privacy" e "diffusione senza il consenso della persona di immagini di natura sessuale", reati puniti in Francia con due anni di carcere e 60mila euro di sanzione. Eppure non sembra preoccupata, anche se ripete di essere stata all'oscuro del progetto del suo fidanzato. I video, prosegue, sono stati messi in linea da Pavlenskij a sua insaputa sul sito PornoPolitique. “L'ho scoperto solo dopo” racconta. “Sul momento, a caldo, mi sono arrabbiata con Piotr. Poi ho capito il suo gesto che è nel solco delle mie convinzioni politiche”. La giovane, che alcuni hanno immaginato addirittura come una Mata Hari al servizio della Russia, si mostra sorridente e tranquilla. “Non ho rimpianti perché amo Piotr”. Dice di essere rimasta stupita dal clamore suscitato dalla pubblicazione del video. “In fondo siamo circondati da immagini pornografiche” commenta. Pensa che Griveaux sia stato costretto a farsi da parte “prendendo atto della sua ipocrisia”, ovvero della contraddizione tra il suo flirt e il programma di sostegno alle famiglie che portava avanti in campagna elettorale. “Forse questa storia costringerà i politici ad essere un po’ onesti tra quello dicono in pubblico e fanno in privato”. Pavlenskij ha promesso di diffondere altri video. Taddeo sorride. “Non lo so ma - conclude - non è un affabulatore, e quindi penso sia vero”.
Macron come Chirac: si infuria contro gli agenti a Gerusalemme. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi. La rabbia contro le forze di sicurezza locali che volevano scortarlo nella basilica di Saint-Anne. Come fece «ChiChi» nel 1996. In visita in Israele per i 75 anni della liberazione di Auschwitz, il presidente francese Emmanuel Macron ha perso per qualche istante l’aplomb diplomatico mentre faceva una passeggiata nella città vecchia di Gerusalemme. Intorno alle 15, al momento di entrare nella basilica di Saint-Anne, che è francese e gode di una sorta di extra-territorialità simile a quella di un’ambasciata, gli agenti di sicurezza francesi hanno avuto un diverbio con quelli israeliani, che volevano a loro volta entrare nella chiesa per proteggere Macron e il suo seguito. Il presidente francese si è irritato e ha alzato la voce gesticolando con le guardie israeliane. «Tutti conoscono le regole - ha detto Macron in inglese -. Non mi piace quello che avete fatto di fronte a me. Andate fuori. Mi spiace. Conoscete le regole. Nessuno deve provocare nessuno». Anche l’inglese di Macron, di solito perfetto o quasi, è andato un po’ fuori controllo e ha preso un forte e inusuale accento francese. L’Eliseo. Questa la spiegazione di quanto accaduto secondo le fonti della presidenza francese: «Sainte Anne è un dominio nazionale francese a Gerusalemme. Spetta alla Francia proteggere questi luoghi. Le forze di sicurezza israeliane sono volute entrare nonostante la sicurezza fosse assicurata dagli agenti francesi. Il presidente ha reagito a una lite tra le forze di sicurezza israeliane e francesi al momento di entrare nella chiesa, con lo scopo di mettervi fine e di ricordare le regole che si applicano in questa situazione. Ha sottolineato che tutto era andato per il meglio fino a quel momento nella visita e che non era necessario creare un incidente. Tutto è rientrato in ordine, niente di grave». L’uscita di Macron sembra una citazione dell’altro presidente francese, Jacques Chirac, che in una circostanza identica nel 1996 si lasciò andare a uno sfogo rimasto celebre in Francia e rivisto molte volte nelle commemorazioni televisive seguite alla sua morte, il 26 settembre 2019. «Vuole che torni suo mio aereo?», disse Chirac a un agente israeliano davanti alla basilica di Sainte-Anne. «Questa non è sicurezza, questa è una provocazione». La visita in Israele e nei territori dell’Autorità palestinese fu complicata, per altri motivi, anche per l’allora premier Lionel Jospin nel 2000, quando venne preso a sassate all’uscita dell’università Bir Zeit in Cisgiordania da decine di militanti islamisti furiosi perché aveva qualificato di «terrorista» il movimento Hezbollah. Il presidente francese ha già incontrato il premier israeliano Benjamin Netanyahu e nel pomeriggio era atteso a Ramallah, in Cisgiordania, per incontrare Mahmoud Abbas, il capo dell’Autorità palestinese. Ma il programma della visita è scombussolato, Macron in serata non era ancora andato a Ramallah dove è tuttora atteso nonostante a cena debba vedere il presidente israeliano Reuven Rivlin. In una conferenza stampa Macron ha preso posizione contro chi nega il diritto all’esistenza di Israele. «L’antisionismo, quando è la negazione dell’esistenza di Israele come Stato, è una forma di antisemitismo. Questo non significa che non sia lecito avere disaccordi, o criticare questa o quell’azione del governo di Israele, ma la negazione della sua esistenza è oggi una forma contemporanea di antisemitismo».
Anais Ginori per “la Repubblica” il 9 gennaio 2020. Il 2020 sarà un anno ad alta tensione giudiziaria per Nicolas Sarkozy. L' ex presidente francese verrà infatti processato in autunno (dal 5 al 22 ottobre). Sarà la prima volta, nella storia della Quinta repubblica, che un ex capo di Stato andrà sul banco degli imputati con l' accusa di corruzione. Jacques Chirac, ormai vecchio e malato, era stato chiamato nel 2011 alla sbarra per accuse di impieghi fittizi risalenti al suo mandato come sindaco di Parigi, poi condannato a due anni con la condizionale per appropriazione indebita di fondi pubblici. Questa volta l'accusa per l'ex inquilino dell'Eliseo è ancora più grave visto che il rinvio a giudizio è motivato dalla corruzione di un alto magistrato. I fatti risalgono al 2014, quando Sarkozy era indagato per presunte somme ricevute in campagna elettorale da Liliane Bettencourt, esponente della famiglia che ha fondato L'Oréal. Sarkozy è stato prosciolto dall' accusa ma è stato rinviato a giudizio per il tentativo di corruzione del magistrato Gilbert Azibert, documentato da intercettazioni telefoniche in cui l' ex presidente aveva preso un'utenza con un nome falso. Dalle conversazioni emerge che Sarkozy e il suo avvocato, Thierry Herzog, avrebbero offerto a Azibert un incarico nel principato di Monaco in cambio di notizie riservate nel procedimento. Presidente francese fra il 2007 e il 2012, Sarkozy ha sempre negato le accuse, ma è stato sconfitto nei suoi diversi ricorsi per tentare di archiviare la faccenda. Non è il solo processo che dovrà affrontare Sarkozy, rinviato a giudizio anche nell' inchiesta sul finanziamento illegale della sua campagna presidenziale nel 2012. In questo caso è coinvolta la società Bygmalion che avrebbe gonfiato i costi della campagna attraverso false fatture. La data del processo sarà fissata nei prossimi mesi. L'ultimo fronte aperto è quello dell'inchiesta della magistratura su presunte somme ricevute da Sarkozy da parte del regime libico di Gheddafi per la campagna presidenziale del 2007. La denuncia del faccendiere Ziad Takkiedine, che sarebbe stato testimone e intermediatore dei versamenti da Tripoli a Parigi, ha portato nel 2018 all' iscrizione nel registro degli indagati. Sarkozy è indagato per "corruzione passiva, finanziamento illegale della campagna elettorale e occultamento di fondi pubblici libici". La Corte d' appello di Parigi esaminerà a marzo un ricorso degli avvocati dell' ex presidente contro questo procedimento.
Migranti, il rapporto che inchioda la polizia francese «brutale e razzista». Alessandro Fioroni il 6 Settembre 2019 su Il Dubbio. Human Rights watch accusa Parigi di violare I diritti dei minori immigrati. Tra gli abusi riscontrati la falsificazione dell’età, la detenzione, senza cibo e coperte, l’assenza di tutori legali. La ong: «queste violazioni sono un’abitudine». Respingimenti illegali, mancanza di alloggi adeguati, procedure illegali per il riconoscimento della minore età, scarsa possibilità di accedere a istruzione e strutture sanitarie. L’ultimo rapporto dell’organizzazione umanitaria Human Right Watch si è concentrato sulla situazione dei migranti minori non accompagnati al confine tra Italia e Francia. Le violazioni dei diritti dei giovani immigrati, che spesso tentano il passaggio del confine su sentieri ghiacciati e senza equipaggiamento adeguato, sono numerose. Non a caso il rapporto prende in esame ciò che succede nelle regione delle Alte Alpi e si basa su diverse testimonianze ( almeno una sessantina) di ragazzi tra i 15 e i 18 anni. Sotto accusa le autorità francesi, colpevoli di compiere procedure contrarie al diritto internazionale sulla protezione dell’infanzia. Bènèdicte Jeannerod di HRW spiega come «durante il colloquio di valutazione i ragazzi vengono spesso accusati di mentire e ogni loro racconto viene strumentalizzato per non riconoscere arbitrariamente la loro minore età». Un’ «abitudine» già denunciata da ong come Oxfam. In un altro rapporto infatti si raccontava della polizia che «ferma i bambini stranieri soli e li obbliga a salire su treni diretti in Italia dopo averne alterato i documenti per farli apparire più grandi o facendo sembrare che vogliano tornare». Oxfam parlava chiaramente della registrazione dei minori come maggiorenni, di detenzione senza cibo o coperte e senza un tutore legale. Fecero scalpore anche le testimonianze sui furti delle Sim telefoniche e il taglio delle scarpe per impedire la prosecuzione del viaggio verso la Francia. Ma le accuse riguardano anche il comportamento degli agenti nei confronti dei volontari che aiutano i migranti a passare il confine o che soccorrono chi è in difficoltà. Nonostante il riconoscimento del “principio di fratellanza” da parte della Corte costituzionale francese dopo il caso di Cedric Herrou ( il contadino della Val Roya più volte sanzionato penalmente per la sua opera di solidarietà), nulla sembra essere cambiato. Il rapporto di Human Rights Watch attribuisce alla polizia francese atti «intimidatori» per «impedire le attività umanitarie». La ong ha spiegato cosa succede: «i loro veicoli vengono perquisiti, subiscono controlli di identità non giustificati oppure finiscono in tribunale». Le conseguenze per i “solidali” possono essere pesanti. Chi aiuta i migranti a entrare in Francia rischia fino a 5 anni di prigione e 30mila euro di multa.
La rivolta cattolica che fa tremare Macron. Andrea Massardo su Inside Over the world il 20 gennaio 2020. Nell’ultimo mese e mezzo, la Francia ha vissuto la mobilitazione di massa dei movimenti contro la riforma delle pensioni che ha letteralmente bloccato il trasporto pubblico del Paese. Il 2018 invece era stato l’anno dei gilet gialli, che avevano iniziato le proteste contro l’Eliseo a causa degli aumenti previsti che avrebbero colpito principalmente la fascia medio-bassa del Paese. Adesso, un nuovo fronte di protesta a guida cattolica sta scendendo in strada, con una manifestazione che, ai dati della prefettura e come riportato da Le Monde, avrebbe raccolto oltre 41 mila partecipanti. Le proteste, che nascono a seguito della proposta di modifica della legislazione francese riguardante la fecondità assistita che si aprirebbe anche in parte alle coppie omosessuali, gettano nuove ombre sull’esecutivo guidato da Edouard Philippe, sempre più nell’occhio del ciclone per un piano di riforme troppo invasivo nella società della Francia.
Le opposizioni dei cattolici. Come ribadito dai portavoce della protesta, la gravità della riforma risiede nella distruzione della famiglia tradizionale, in quanto rendendo superflua la presenza della figura del padre all’interno del nucleo familiare. Infatti, aprendo la legge alla possibilità per le donne single e omosessuali di aver accesso all’inseminazione artificiale, la presenza o meno della figura maschile appare irrilevante ai fini riproduttivi e di costruzione della struttura familiare: particolare che i fedeli francesi aderenti alla manifestazione di protesta non possono tollerare. La possibilità di aprire alla fecondazione assistita nelle situazioni in cui la struttura della famiglia tradizionale è snaturata apre inoltre a due importanti problemi, che il fronte cattolico ritiene di primaria importanza. Innanzitutto, i bambini diverrebbero di fatto oggetto di scambio, divenendo merce, entrando prima ancora di nascere all’interno delle logiche di mercato. In secondo luogo, una volta cresciuti i bambini sarebbero privati dei giusti punti di riferimento in assenza della figura paterna, particolare che si ripercuoterebbe sul regolare svolgimento della loro vita e creerebbe lacune difficilmente colmabili.
Il fronte delle proteste. All’interno dei partecipanti alla manifestazione indetta per la giornata di domenica non erano presenti però soltanto i fedeli cattolici. Il gruppo sceso in piazza era assai variegato, con i partecipanti provenienti da differenti culture e da diversi ambienti; particolare che sottolinea quanto sia compatto il fronte di opposizione alla riforma voluta da Emmanuel Macron. Durante la manifestazione di domenica, i partecipanti hanno invitato la popolazione a presentarsi nella giornata di martedì davanti alle porte del Senato, all’interno del quale verrà effettuata la seconda lettura della proposta di legge. Nonostante gli stessi manifestanti riconoscono come facilmente la legge verrà convalidata, la volontà degli organizzatori risiede nel portare nelle piazze il disagio della popolazione verso una riforma che può compromettere le generazione future, che rischiano di essere private della presenza della figura paterna. Inoltre, la mossa del governo di Philippe rischia di aprire ad un vero e proprio mercato attorno alla fecondazione assistita, con le grandi case mediche e farmaceutiche che trasformerebbero ovuli e feti in merci: situazione questa che la comunità cattolica del Paese non può assolutamente tollerare.
Macron è sotto attacco su più fronti. L’ondata di manifestazioni che ha caratterizzato il governo di En Marche! ha messo a dura prova la tenuta dell’esecutivo, che per mantenere la stabilità ha già dovuto ruotare oltre 10 ministri dal suo insediamento. I punti di attrito sulla popolazione sono sempre arrivati nei momenti in cui il piano di riforme voluto da Macron ha toccato i temi chiave del Paese: imposte indirette, sistema previdenziale e questioni legate alla famiglia tradizionale ed ai nuovi nuclei familiari. Una parte del contrasto è dovuto alla forse eccessiva immobilità che ha avuto il sistema sociale francese negli anni scorsi e che non ha seguito le aperture che hanno caratterizzato invece gli altri Paesi dell’Unione europea. Dall’altra, è dovuto ad un’eccessiva fretta e dirompenza con la quale il governo ha voluto sviluppare il piano di riforme, mentre una implementazione più graduale avrebbe molto spesso limitato i contrasti. Tuttavia, la volontà dell’esecutivo di raggiungere il risultato nel più breve tempo possibile è stato sin da subito il tratto caratterizzante di En Marche!, in accordo anche con le promesse della campagna elettorale. Tuttavia, il governo francese si ritrova ancora una volta sotto assedio, barricato all’interno delle mura dell’Eliseo ad osservare la folla che manifesta la propria opposizione alle volontà dell’esecutivo. La scena, che si ripete quasi senza sosta da oltre un anno a questa parte, evidenzia il forte distacco tra governo e popolo della Francia, in una situazione che sempre peggiorare sempre di più col passare delle settimane. Nonostante questa condizione, il governo francese continua il suo piano di riforme, sfidando la pazienza del popolo francese. La possibilità però che un giorno la popolazione della Francia giunga allo stremo sono elevate: e quel punto, per Macron diventerà difficile persino portare avanti l’ordinaria amministrazione.
Parigi perde 10.000 abitanti l’anno: troppo cara per giovani e famiglie. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 da Corriere.it. Parigi è il sogno dei turisti di tutto il mondo; la meta di tanti francesi di provincia che ambiscono a vivere finalmente nella capitale del Paese più centralista d’Europa; e la casa di molti cittadini agiati che vivono benissimo in una metropoli straordinaria. Ma la ville lumière continua a perdere abitanti. Secondo le ultime cifre diffuse dell’Insee (Istituto nazionale di statistica) tra il 2012 e il 2017 la capitale francese è stata abbandonata da 53.095 residenti. Ogni anno se ne vanno 11 mila persone in più di quante ne arrivano, mentre fino al 2012 accadeva il contrario. Oggi Parigi ha due milioni 187 mila 526 abitanti (nel 2012 erano due milioni 240 mila 621). «Parigi ha il più forte deficit migratorio di tutti i dipartimenti francesi», si legge nello studio dell’Insee. Non è una questione legata al dinamismo economico, anzi: la capitale è sempre di più una calamita per i lavoratori qualificati, i servizi e le start-up legate alle nuove tecnologie sono riusciti a compensare il declino degli stabilimenti industriali del secolo scorso. Ma chi trova lavoro a Parigi spesso va ad abitare nei comuni vicini, e infatti la popolazione aumenta in tutti gli altri dipartimenti della regione, grazie anche alla natalità. La capitale soffre del suo successo, molti non possono più permettersela. Soprattutto i giovani e le famiglie non riescono ad affrontare un mercato immobiliare dove il prezzo medio l’estate scorsa ha superato i 10 mila euro a metro quadro. I candidati alle municipali del marzo 2020 — dalla sindaca uscente Anne Hidalgo agli sfidanti Benjamin Griveaux e Cédric Villani — promettono una Parigi di nuovo accessibile alle persone comuni, e incolpano il turismo e il fenomeno Airbnb. «A Parigi solo l’82% degli appartamenti sono case di chi ci abita — dice l’assessore socialista Emmanuel Grégoire —. Una quota diminuita del 3% negli ultimi anni perché aumentano le seconde case e gli appartamenti affittati per pochi giorni». Il sindaco ecologista del secondo arrondissement Jacques Boutault stima che il rendimento di una casa destinata ai turisti superi di due volte e mezzo quello di un appartamento affittato tutto l’anno. Quindi le case da abitare scarseggiano e i prezzi continuano ad aumentare. «La sfida del prossimo mandato sarà ridare ai quartieri centrali la loro vocazione residenziale», ha detto Boutault al Parisien. Nel centro di Parigi chiudono alcune scuole, le classi vengono raggruppate per mancanza di bambini, diminuiscono i negozi di alimentari — nell’île Saint-Louis sono praticamente scomparsi — a vantaggio di caffè e ristoranti di lusso. Una tendenza all’opera anche a New York, dove nel 2018 gli abitanti sono diminuiti di 39 mila 500 persone. Londra invece cresce, sostenuta dalla forte demografia dei nuovi arrivati. A Parigi molti abbandonano perché la città è diventata troppo cara, ma aumentano anche quelli che pur potendo rimanere sono attratti da una vita più tranquilla in provincia. Il sito «Paris, je te quitte» (Parigi, ti lascio) ha fatto fortuna organizzando a parigini stanchi una seconda vita a Montpellier, Limoges, Strasburgo o Rennes.
Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 23 dicembre 2019. Nata nel 1945, come moneta comune delle colonie francesi in Africa, il franco Cfa era rimasto in funzione anche dopo l' indipendenza raggiunta dai Paesi dell' area, una sessantina d' anni fa. Sempre più criticato come il retaggio del colonialismo di Parigi, a sorpresa Emmanuel Macron, in visita ad Abidjan, ha annunciato al fianco del presidente della Costa d' Avorio, Alassane Ouattara, il tramonto della valuta. La nuova valuta, che entrerà in circolazione nel 2020 (forse a luglio, ma non è stata fissata una scadenza precisa), sarà ribattezzata Eco. Resterà ancorata all' euro, ma gli otto Paesi che l' adotteranno non avranno più l' obbligo di depositare il 50% delle proprie riserve presso il Tesoro francese. E nessun rappresentante di Parigi siederà più nel consiglio d' amministrazione della Bceao, la banca centrale dei Paesi dell' Africa dell' Ovest interessati dal cambiamento. Come sottolineato da Ouattara «la fine del franco Cfa porrà fine a tutte le illazioni su questa moneta». Della questione, nel gennaio scorso, era impicciato addirittura il vicepremier Luigi Di Maio. Aveva dichiarato che, «se la Francia non avesse le colonie francesi che sta impoverendo, sarebbe la 15ª forza economica internazionale e invece è fra le prime per quello che sta combinando in Africa». Giovedì sera, Macron, rivolgendosi a Ouattara, ha affermato: «Il franco Cfa cristallizza troppe critiche: i giovani africani ci rimproverano di continuare una relazione che giudicano postcoloniale». Da lì il via libera all' addio al Cfa. Il presidente ha aggiunto che «troppo spesso si percepisce la Francia come se avesse ancora sull' Africa uno sguardo egemonico e con gli orpelli di un colonialismo che è stato un errore profondo della nostra Repubblica». I limiti di questa svolta? Si applica agli 8 Paesi francofoni dell' Africa occidentale (Uemoa), tra cui Costa d' Avorio e Senegal, economicamente quelli trainanti del gruppo, ma non alle ex colonie di Parigi nell' Africa centrale (Cemac), sei Stati in tutto, tra cui Camerun e Gabon, che continueranno a utilizzare il Cfa. Poi, almeno per il momento, la Banca centrale francese resta garante finanziaria per gli otto Paesi dell' Uemoa. E soprattutto l' Eco rimarrà ancorato alla moneta europea, come il Cfa (l' attuale parità è di un euro per 655,96 franchi Cfa). Questa caratteristica ha permesso ai Paesi che utilizzano la valuta di conservare una certa stabilità monetaria e un' inflazione sotto controllo. Ma il legame con l' euro ha rappresentato pure una zavorra per l' export rispetto al resto dell' Africa ed è un problema che si manterrà intatto con l' Eco. Non solo: Ouattara ha parlato in qualità di presidente in carica dell' Uemoa, ma non esiste un mandato specifico da parte dei capi di Stato degli altri Paesi, né si è svolto un dibattito parlamentare in Costa d' Avorio al riguardo. Eco, poi, è lo stesso nome della moneta comune che tutta la Cedeao, la Comunità economica dell' Africa dell' Ovest (quindici Paesi compresi gli otto dell' Uemoa, più altri, come la potentissima Nigeria, ex colonia britannica), voleva da tempo adottare. Nella speranza di Macron e Ouattara anche il resto della Cedeao potrebbe accodarsi. Ma non sarebbe stato meglio aspettare una decisione di tutta quella Comunità? E quei Paesi accetteranno il ruolo della Francia di garante finanziario dell' Eco?
Lucie Delaporte e Marine Turchi per “Mediapart”, pubblicato da “il Fatto Quotidiano”, traduzione Luana De Micco il 16 dicembre 2019. Stanno sollevando polemiche le foto di Emmanuel Macron e di sua moglie Brigitte insieme a Elie Hatem, monarchico, amico del "patriarca" del Front National Jean-Marie Le Pen e fervente ammiratore di Charles Maurras, uomo politico antisemita. Gli scatti sono stati realizzati l' 8 novembre scorso, all' Eliseo, durante una cerimonia per la consegna della Legione d' onore agli attori Jean- Paul Belmondo e Robert Hossein e allo stilista Ralph Lauren. L'Eliseo ha parlato di "incidente" e di "manipolazione". Ma intanto le foto, pubblicate sul profilo Facebook di Hatem e poi ritirate, in cui si vedono Emmanuel e Brigitte Macron posare insieme al controverso avvocato franco-libanese, hanno fatto il giro dei social network giovedì scorso. Molte personalità hanno gridato la loro indignizione, tra cui l' intellettuale socialista Raphaël Glucksmann e Alexis Corbière della France Insoumise, partito della sinistra radicale, ma anche l' Unione degli studenti ebrei di Francia (Uejf). "Come è possibile che Elie Hatem, ex membro di Action Française e cospirazionista di estrema destra, sia stato ricevuto in pompa magna all' Eliseo?" ha scritto l' Uejf su Twitter. Mediapart ha ricostruito la storia di questi scatti. L' 8 novembre, dunque, all' Eliseo, Jean-Paul Belmondo, Robert Hossein e Ralph Lauren hanno ricevuto la prestigiosa medaglia da Emmanuel Macron. Elie Hatem era tra gli ospiti della cerimonia. Sentito da Mediapart, Hatem ha spiegato di essere stato invitato "dai suoi amici Belmondo e Robert Hossein, a titolo personale e per amicizia". Ci ha spiegato: "Una volta alla cerimonia, come fanno tutti, ho scambiato qualche parola con il capo dello Stato e ho fatto delle foto insieme a lui. Mi sono anche congratulato con lui per la sua politica estera fedele alla tradizione diplomatica della Francia". Cosa le ha risposto il presidente? "Che è amico del Libano e dei libanesi. Sono stato molto impressionato dalla sua visione delle relazioni internazionali! Emmanuel Macron - ha aggiunto Hatem - conosce il mio percorso: sa che sono stato stretto consigliere di Boutros Boutros-Ghali, dell' ex presidente del Libano Amine Gemayel e dell' attuale Michel Aoun. Sa anche quali sono i miei legami con il Medio Oriente e con la Siria". Ieri - ha continuato Hatem - si è tenuta a Parigi una riunione, voluta da Emmanuel Macron, per tentare di risolvere la crisi in Libano. Ho colto l' occasione per ringraziarlo per i suoi sforzi ed ho pubblicato quelle foto. Non pensavo che avrebbero sollevato polemiche", ha aggiunto, divertito da tanto "scalpore". Contattato da Mediapart, l'Eliseo ha dovuto ammettere: "È stato un incidente". E ha riconosciuto che, in tutta questa vicenda, è stato vittima di "manipolazione". L'entourage del presidente ha confermato la presenza di Elie Hatem alla cerimonia di consegna delle medaglie, ma ha anche precisato: "Non è stato invitato da noi. Quel giorno c'erano più di duecento persone nella Salle des fêtes". L'Eliseo nega che si sia tenuta tra Hetem e Macron una conversazione su temi di geopolitica. "Ovviamente, il presidente non ha mai parlato di Libano con Elie Hatem. In questo genere di ricevimenti, capita spesso che le persone avvicinino il presidente per consegnargli dei fascicoli o per illustrare la loro situazione personale", è stato spiegato. Come è possibile che un personaggio così dubbio sia riuscito a trovarsi al fianco del presidente e di sua moglie senza alcuna allerta da parte degli uffici dell' Eliseo? "Verifichiamo eventuali precedenti di polizia degli ospiti che figurano sulla lista, per ovvi motivi di sicurezza, ma è impossibile ricostruire la carriera politica di ognuno di loro", hanno risposto. Di fronte alle reazioni scatenate dagli scatti, la stessa fonte ha spiegato che "sarà portata avanti una riflessione sulla questione delle liste degli invitati nelle cerimonie di quel tipo all' Eliseo", in modo tale che la situazione non si ripeta. La presidente della Uejf, Noémie Madar, intervenuta sul quotidiano Le Parisien, ritiene che "bisogna essere prudenti: stiamo parlando di un fedele seguace di Maurras che mostra di avere una certa vicinanza con il presidente della Repubblica". Per Macron, in effetti, la presenza di Elie Hatem all' Eliseo è più che imbarazzante. Il franco-libanese, 54 anni, avvocato di professione (ha in particolare difeso in passato il mercenario francese Bob Denard), è stato per molti anni membro del comitato direttivo di Action française, un movimento politico filomonarchico e nazionalista. È sempre stato un fermo difensore delle idee di Charles Maurras (1868-1952), il maître à penser di Action française, teorico dell'"antisemitismo di Stato". Lo scorso aprile, ha tenuto una riunione ad Avignone in omaggio a Maurras. Ha partecipato a alcuni raduni organizzati dal movimento cattolico fondamentalista Civitas. Il 19 gennaio 2019, Hatem è stato anche invitato a un convegno in presenza di diverse figure vicine a Alain Soral, il saggista più volte condannato per antisemitismo e istigazione all' odio razziale. Erano presenti: Hervé Ryssen, condannato a sua volta a più riprese per dichiarazioni antisemite, Jérôme Bourbon, direttore del giornale negazionista Rivarol, e Yvan Benedetti, ex membro del movimento di estrema destra l' Oeuvre française e sostenitore del maresciallo collaborazionista Pétain. "Il mio nome è stato fatto, ma non sono andato a quell' incontro. La riunione mi era stata annunciata come patriottica. Avrei dovuto illustrare la mia visione della protezione delle identità nazionali. In Francia, non si riesce a capire che si può partecipare a una riunione politica anche senza condividere le idee degli organizzatori - ha detto Elie Hatem a Mediapart -. Quali frasi antisemite mi possono essere rimproverate? È l'Uejf a tacciarmi di antisemitismo. Io sono "anti-niente" - ha commentato infastidito -. Non ho pregiudizi. Ho cugini di confessione ebraica e drusi, quindi non posso essere contro una comunità o una nazione. Posso essere in disaccordo con delle idee o con delle figure politiche, o anche con dei progetti politici". Eppure, al quotidiano Libération, il franco-libanese aveva spiegato di non essere andato all' incontro di gennaio solo per "motivi di agenda", ma di aver "acconsentito a tenere un discorso a nome di Action française su invito di Yvan Benedetti". Dopo l' episodio della riunione intorno a Alain Soral, persino la stessa Action française aveva finito col prendere le distanze da Hatem. L' organizzazione, tramite il suo portavoce Antoine Berth, aveva spiegato all' epoca a Mediapart che Elie Hatem, "rinchiuso nella sua follia razzista", non faceva più parte di Action Française e del suo comitato di direzione. L' università Paris XIII aveva a sua volta annullato il corso di diritto che l' avvocato franco-libanese teneva nell' ateneo, in particolare dopo la protesta degli studenti ebrei dell' Uejf. Elie Hatem aveva risposto su Facebook, denunciando una "cabala mediatica" contro di lui. Ma c'è di più. Intervenendo più volte sui media di estrema destra, il franco-libanese ha anche difeso delle teorie cospirazioniste. Lo aveva fatto notare il Journal du Dimanche: Hatem ritiene che l' Isis e il Fronte Al-Nusra siano degli "esecutori", si "interroga" sulle responsabilità degli Stati Uniti e di Israele, ed è apparso in un video in cui "rende omaggio alla memoria" del maresciallo Pétain. Nel febbraio 2016, in un' intervista alla tv saudita Al Arabiya, aveva dichiarato che i "movimenti sionisti e la massoneria controllano la stampa e il governo in Francia". Hatem non ha mai neanche nascosto la sua vicinanza a Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front National (oggi Rassemblement national, la cui leader, Marine Le Pen, è la figlia di Jean-Marie, ndt), il quale, nel corso degli anni, ha moltiplicato le dichiarazioni a sfondo antisemita. Nel 2016, Elie Hatem aveva raccontato a Mediapart come è nata la sua amicizia con la famiglia Le Pen: "Ho incontrato Marine quando aveva 18 anni, in una serata tra amici. Avevamo probabilmente delle conoscenze in comune. Ho solo due o tre anni più di lei. Siamo diventati amici. Un giorno mi ha chiesto: "Ti interessa conoscere un po' di gente?". Abbiamo cominciare a fare delle interviste, delle altre cose, ed è così che sono diventato amico di Jean-Marie Le Pen", ci aveva raccontato. Ci aveva anche spiegato perché non ha mai aderito al Front National: "È contrario alle mie idee e al mio concetto di democrazia diretta, in altre parole alle idee di Maurras. Ritengo che i partiti politici deformino il gioco democratico, perché gli elettori votano per le idee e non per le persone". L'avvocato invece è stato candidato per il Front National alle municipali di Parigi nel 2014. Alle elezioni legislative del 2017, si è presentato nel dipartimento del Var (sud) con l' etichetta comune dei comitati "Jeanne au secours" di Jean-Marie Le Pen, di Civitas e del Parti de la France, altro partito di estrema destra. Nel febbraio 2017, Elie Hatem era intervenuto inoltre per agevolare il viaggio di Marine Le Pen in Libano e il suo incontro con il presidente Michel Aoun. Ben inserito a Cipro e a Mosca, si è anche mostrato al fianco dell' oligarca russo Konstantin Malofeev, che dice di frequentare regolarmente. Il mecenate e uomo d' affari, accusato in particolare di aver finanziato i separatisti russi in Crimea, ha incontrato almeno due volte Jean-Marie Le Pen: a Montretout, la dimora dei Le Pen, a fine 2013, e nella sede del suo fondo di investimenti, a Mosca, nell' ottobre 2014. Malofeev è sospettato di aver svolto un ruolo attivo nel prestito russo ottenuto quell' anno dal fondatore del Front National: nel 2014, infatti, a cavallo dei due incontri citati sopra, 2 milioni di euro erano comparsi nelle casse di Cotelec, il micro partito di Jean-Marie Le Pen. Il bonifico era stato effettuato via una società con sede a Cipro.
Ritratto di Charles De Gaulle, l’uomo che terrorizzò l’Italia. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Probabilmente la battuta su come si possa governare un Paese con più di 250 qualità di formaggi fu inventata da News Week, mentre l’altra è certa: «Signor generale, lei non può accettare la proposta di governare la Francia senza prima fucilare tutti gli imbecilli». Si narra che Charles de Gaulle riflettesse a lungo prima di scartarla come eccessiva: «Vaste programme», disse. E passò a progetti più solidi. Ma la sua idea non era esattamente quella di essere il “Sindaco di Francia”, come oggi propone Matteo Renzi per se stesso e per l’Italia. Ma l’argomento, proprio a causa della crisi della IV Repubblica francese che portò al presidenzialismo di Charles de Gaulle, cominciò a serpeggiare da allora, ogni volta che si parla di una possibile Costituzione presidenzialista in cui o il Presidente o il capo del governo siano eletti direttamente dal popolo, senza passare attraverso il metabolismo misterioso del Parlamento. La crisi francese del 1958 si abbatté di riflesso anche sull’Italia come una bomba atomica. I giovani di sinistra come me si affrettarono a gridare al colpo di Stato fascista, ignorando un bel po’ quello che era accaduto prima. L’ultimo primo ministro della Quarta Repubblica (del tutto identica alla Terza) si chiamava Pflimlin e il suono di quel nome, un po’ ridicolo, spingeva mio padre a provocarmi sfidando la mia avversione a De Gaulle, che invece piaceva a tutta quell’Italia conservatrice che in un modo o nell’altro avrebbe gradito di nuovo il ritorno della figura dell’hombre fuerte, qualcuno come Francesco Crispi, se non proprio un duce democristiano, da votare per plebiscito. Il democristiano Amintore Fanfani (definito con Aldo Moro un “cavallo di razza”) aretino di sinistra ma anche ex fascista “sociale” nutriva aperte ambizioni golliste e allo stesso tempo detestava de Gaulle.
L’ANOMALIA ITALIANA. Nell’Italia della decade 1955- 1965 era vigile e forte la religione del parlamentarismo. Guai, allora, ad offendere le istituzioni parlamentari e i loro abitanti. Sul Parlamento era stato realizzato il grande compromesso che aveva posto fine alle minacce di una impossibile guerra civile e il Pci aveva rinunciato da tempo al controllo delle armi della Resistenza. Il patto parlamentare era rigido e solidale fra centro e sinistra e la sola idea di avere a che fare con un potere concentrato su una sola persona scatenava le ire non soltanto di comunisti e socialisti, ma degli stessi democristiani. Il mondo democristiano era del resto una confederazione di correnti e poteri di destra e di sinistra che si misuravano con il bilancino dei codici che stabilivano il turn over dei governi con tutte le loro clientele, erroneamente percepito come una fragilità. L’errore era dovuto al fatto che la Dc, con i suoi primi alleati Psdi e Pri cui si aggiunse negli anni Sessanta il Psi di Pietro Nenni, doveva accontentare a turno i suoi capicorrente e dunque provocava improvvisi cambi di governo. Ciò costituiva la perfetta normalità e non l’anomalia. Ma esternamente era percepito come un’anomalia: «Gli italiani cambiano governo continuamente, le loro istituzioni sono inconsistenti». Era vero il contrario: poiché il potere democristiano era coeso e condiviso, la continua redistribuzione delle carte e delle cariche garantiva un felice raccolto a tutte le componenti e poi anche a quelle dei loro alleati. Gli accordi con il Partito comunista erano estremamente solidi, l’arco costituzionale provvedeva a mantenere in quarantena perenne soltanto i neofascisti del Msi che costituivano la casta inferiore degli intoccabili. Quando nel 1960 Fernando Tambroni, esponente della sinistra democristiana, fu imposto a Palazzo Chigi dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, anche lui della sinistra, l’organismo multiplo e sovrano del partito democristiano si ribellò al tentativo “gollista” del Capo dello Stato di mantenere al potere un suo presidente del Consiglio, rifiutò di votare la fiducia al governo del Presidente. E Tambroni compì la spregiudicata follia di accettare i voti determinanti dei neofascisti provocando a Genova la rivolta dei portuali che si este a macchia d’olio nel terribile luglio del 1960 con moltissimi morti e feriti con la situazione politica totalmente sfuggita di mano. Tambroni fu costretto a dimettersi e l’episodio gollista italiano finì in un bagno di sangue, trovando impreparato persino il Pci di Palmiro Togliatti che si trovò di fronte agli automatismi reattivi della forza organizzativa del partito. Ciò ebbe delle gravi conseguenze sulla latente voglia italiana di importare una forma di gollismo senza de Gaulle. Gli Stati Uniti e gli altri alleati della Nato sostennero che l’Italia non era in grado di reggere un eventuale colpo di mano di sinistra e imposero la formazione di una brigata corazzata dell’Arma dei Carabinieri affidata al generale De Lorenzo che si alternava al comando sia dell’Arma che del servizio segreto, con la conseguenza di un altro, temuto o immaginario o ipotetico, colpo di Stato nel 1964 quando sarebbe stato testato il famoso “Piano Solo” con cui arrestare tutti i leader della sinistra e del sindacato, cosa mai dimostrata e che secondo la leggenda provocò uno scontro violentissimo fra il Presidente della Repubblica Antonio Segni e il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, con un finale drammatico: Segni fu colpito da ictus e dopo una lunga degenza morì. I fatti di quell’estate furono poi ricostruiti, ma anche contestati, da Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari sull’Espresso nel 1967, sicché quando i due giornalisti furono condannati in primo grado, il segretario del partito socialista Giacomo Mancini li mise in salvo facendo eleggere Scalfari a Milano per la Camera e Jannuzzi al Senato a Sapri. Su quella vicenda pesò poi la questione degli “omissis” sui documenti citati dall’inchiesta giornalistica, imposti da Aldo Moro, che poi si rivelarono del tutto innocui.
REFERENDUM IN ALGERIA. Ma intanto, si può dire che la crisi francese del 1958 aveva prodotto in Italia una forte voglia di presidenzialismo, chiesto a viva voce da persone come Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza e poi incriminato per tentativo di colpo di Stato. Non tutto quel che accadde in Italia dalla presa del potere di De Gaulle in poi fu addebitabile all’influenza della vicina Francia, ma la tentazione era palpabile. Da noi seguitavano a succedersi le crisi di governo, mentre la Francia appariva stabile e coesa. Inoltre, De Gaulle non esitò a tradire il suo stesso elettorato colonialista concedendo il referendum sull’indipendenza dell’Algeria, vinto dai patrioti algerini sul suolo francese. E quando l’Oas, l’organizzazione terroristica militare degli oltranzisti di destra, cominciò a colpire sul territorio tripolitano, il generale de Gaulle, seguendo una tradizione francese nata con Robespierre, proseguita con Napoleone e mai abolita (chi ricorda il film Nikita sa di che cosa si parla) istituì gruppi di assassini di Stato, i barbouzes, che procedettero all’eliminazione fisica di tutti coloro che non erano stati arrestati e messi in galera. La Francia era un paese incomparabilmente diverso dall’Italia, malgrado il persistente mito della cuginanza. E il suo comportamento ambiguo e diviso durante la seconda guerra mondiale era stato a malapena riscattato dalla resistenza di De Gaulle e dei gollisti ai tedeschi, quando i comunisti ancora non sapevano decidersi, ma in realtà americani e inglesi non avevano alcuna simpatia per Charles De Gaulle neppure durante il suo periodo d’esilio a Londra quando pretendeva di avere pari dignità e al quale sia Roosevelt che Churchill avevano inflitto, d’accordo con Josef Stalin, l’offensiva esclusione dagli accordi di Yalta. Eisenhower detestava il generale francese e così lo detestava John Kennedy. Inoltre il generale non voleva un’Europa che includesse gli inglesi, ma aperta fino agli Urali, cioè con una relazione speciale con i sovietici. Mise in crisi la Cia quando si recò a Mosca e pronunciò un impeccabile discorso in russo, sorprendendo tutti perché non si sapeva che lo sapesse parlare. Infatti non parlava russo, ma aveva imparato a memoria un discorso in russo. La Francia aveva, e ancora ha, un impero. La Francia aveva e ancora ha colonie (la Nuova Caledonia) e Territori d’oltre mare in America, oltre a un’armata che risiede e combatte le sue silenziose guerre nell’Africa Occidentale francofona dove protegge o depone despoti.
L’ENI DI ENRICO MATTEI. L’Italia del dopoguerra era un Paese totalmente piegato al filoamericanismo di facciata, con una fortissima componente filoaraba necessaria specialmente all’Eni per la sua politica estera in conflitto con quella francese. Secondo molte ricostruzioni il creatore e presidente dell’Eni, Enrico Mattei, fu assassinato dai servizi francesi che sabotarono il suo aereo. L’Eni del resto sosteneva apertamente l’indipendenza delle colonie francesi ed era considerato a Parigi un’entità nemica. Charles de Gaulle era un uomo altissimo, ufficiale studioso della guerra meccanizzata ed era l’uomo che aveva mantenuto la Francia unita dal suo rifugio a Londra (accolto e odiato da Winston Churchill, mentre la patria battuta ignominiosamente dai tedeschi, inferiori per numero e armamenti, marciavano sotto l’Arco di Trionfo a Parigi. Il brutto era che i comunisti francesi, mentre era in corso l’alleanza fra Hitler e Stalin fino al giugno del 1941, riempivano la capitale di manifesti in cui scrivevano “Bravo, camarade allemand” che combatti insieme a noi contro l’imperialismo inglese e il capitalismo borghese. Jacques Duclos, segretario, andava in ufficio nell’ambasciata sovietica scortato dalle SS e la flotta francese, passata ai tedeschi, era stata attaccata e affondata dagli inglesi. Il generale era l’unico vice della Resistenza ed era una voce militare e di destra. Poi Hitler rovesciò il fronte invadendo l’Urss e le cose cambiarono, ma la memoria francese registrò che il giovane genarle era l’unico degno di rappresentare la nazione. L’Italia nel dopoguerra non ha dovuto combattere guerre di decolonizzazione e questa è una fortuna che non valutiamo mai abbastanza. Ma la Francia non aveva smesso di essere in guerra in tutte le sue colonie, aveva concesso l’indipendenza a Marocco e Tunisia, mentre l’Algeri dei pieds noir (i bianchi francesi) erano pronti alla secessione e avevano tentato un colpo di Stato. In più, la Francia aveva perso l’Indocina a Dien Bien Phu nel 1954 contro l’esercito nordvietnamita che non era affatto composto da guerriglieri, ma era uno dei più forti eserciti, dotato di artiglieria mobile pesante, sostenuto da Urss e Cina. Poi, aveva subito il tracollo insieme agli inglesi nella crisi di Suez del 1956, quando Nikita Krusciov, con il tacito consenso americano, minacciò; di bombardare Londra e Parigi se l’Egitto non fosse stato sgombrato dalle truppe d’invasione anglofrancesi, cui si erano aggiunti anche gli israeliani. Insomma, era un altro mondo, duro e armato, e la Quarta Repubblica era stata una barzelletta democratica, con continui cambi di governo fra centristi, Sfio e comunisti che erano sempre di pari forza. De Gaulle fu chiamato dai generali ribelli di Algeri, alteri e magri nelle loro uniformi coloniali, sprezzanti. Io ero allora un liceale molto radicale e molto vicino al Fln algerino, quello splendidamente ricordato nella Battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo. De Gaulle si suicidò un po’ come il primo Renzi con un referendum su stesso, quando sfidò l’onda lunga del “joli mai” francese, la rivoluzione delle barricate di maggio, e chiamò il popolo a decider se volevano un paese governato dalle nuove forze della rivoluzione estetizzante o se preferissero lui, “mon general”. E i francesi lo rimandarono a casa, la sua di Colombey les Deux Églises, dove erano venuti a supplicarlo di prendere il potere e dove aveva rinunciato alla fucilazione di massa di tutti gli imbecilli, perché sarebbe stato davvero un programma troppo vasto. E scrisse le proprie memorie finché una decorosa morte lo colse, già imbalsamato nel mito e nel nome dell’aeroporto più bello di Parigi.
· Quei razzisti dei Paesi Bassi.
Paesi Bassi, scoperta una "camera della tortura" nel covo di una banda criminale. Fonte: Ministero olandese della Giustizia. All'interno di un capannone nel Nord-Brabant la polizia ha trovato seghe, cesoie, pinze e altri strumenti del martirio. Sei persone sono state arrestate con l'accusa di pianificare sequestri di persona. Pietro Del Re l'08 luglio 2020 su la Repubblica. I poliziotti che hanno fatto irruzione in un capannone nel Wouwse Plantage, località olandese nella regione del Nord Brabant, vicino alla frontiera con il Belgio, devono aver immediatamente pensato a una scena di una serie tv sui narcos o comunque a un film dell'orrore. Infatti, all'interno del capannone hanno trovato una "camera della tortura" con tanto di seghe, cesoie, pinze, scalpelli, martelli e altri spaventosi strumenti per arrecare dolore. Oltre ai ferri del martirio, i poliziotti hanno anche scoperto una sedia da dentista, con delle stringhe ai braccioli per immobilizzare i malcapitati attirati in quel luogo. Il capannone, composto da sette container da nave, si trova nei pressi di una splendida villa del Settecento, di solito visitata da parecchi turisti, e non lontano da un club di golf. Perciò, per evitare che le urla delle vittime valicassero le pareti, queste erano state insonorizzate con dei pannelli in vetroresina. Sei uomini sono stati arrestati, tra i quali un quarantenne che gli inquirenti sospettano essere il capo dell'organizzazione criminale. L'uomo, originario dell'Aia, ha precedenti con il traffico di droga ed era sotto pedinamento da mesi. Lo scorso aprile, i poliziotti sono riusciti a intercettare alcuni suoi messaggi inviati in una chat in cui parlava di sequestri e torture. Il pregiudicato specificava anche i piani dei rapimenti che gli uomini della sua banda travestiti da poliziotti si apprestavano a compiere. Tanto che nei container sono anche state ritrovate finte uniformi, giubbetti anti-proiettile, pistole e manette d'ordinanza. Il 22 giugno scorso, dopo aver seguito da lontano l'allestimento del capannone, la polizia è finalmente intervenuta effettuando perquisizioni in tredici località e arrestando i membri della in diverse città olandesi con l'accusa di pianificare dei rapimenti. Gli agenti hanno anche sequestrato tre furgoni rubati e due Bmw, e in un covo di Rotterdam 24 chili di pasticche di Ecstasy, una ventina di pistole e una variante cinese del Kalashnikov AK-47. Da un comunicato della Questura si apprende che nei container erano state predisposte anche diverse celle dove tener prigionieri gli ostaggi, e che in ognuna erano fissate delle manette sia sul soffitto sia sul pavimento per incatenare qualcuno in piedi con le braccia alzate. In un container vicino era stata allestita una zona notte, destinata a chi avrebbe dovuto occuparsi degli ostaggi. Nel settimo container era stata invece organizzata la "stanza della tortura", che nei loro messaggi intercettati i criminali chiamavano "stanza dei trattamenti speciali".
Luciana Grosso per "it.businessinsider.com" l'8 maggio 2020. Chi è stato ad Amsterdam e dintorni avrà fatto caso alla facilità con cui, dalla strada, è possibile sbirciare nelle case degli olandesi: finestre ad altezza d’occhi, nessuna tenda, nessuna persiana, nessun balcone. Perché? La questione ha colpito anche i giornalisti americani di CNN Travel che hanno indagato un po’ sulla questione. A quel che hanno potuto ricostruire, la buona disposizione d’animo con cui gli olandesi lasciano che si guardi nei loro soggiorni ha a che fare con la religione calvinista, che insiste sul fatto che i cittadini onesti non hanno nulla da nascondere, mentre chiudere le tende potrebbe indicare il contrario. Questa convinzione religiosa si è anche ben innestata, dagli anni ’60 in poi con un altro fenomeno, ossia la diffusione del benessere e del consumismo (secondo i dettami del calvinismo, il successo economico e lavorativo è un segnale del fatto che si è benvoluti da Dio). Per questo, il fatto di non avere niente da nascondere, da un certo punto in poi, si è sommato al fatto di voler esibire quel che si aveva (un frigorifero o un televisore, cinquant’anni fa erano beni di lusso). L’abitudine però si sta lentamente perdendo. Secondo CNN, dal momento che c’è stato un aumento di expat e che i giovani tendono a voler avere più privacy (gli stessi giovani che poi però spiattellano tutto sui social) sempre più, in Olanda, stanno facendo capolino tende e persiane.
Mai più Olanda, solo Paesi Bassi. Il governo cambia: “Più corretto”. Una rivoluzione linguistica e di marketing per evitare di essere identificati solo con la regione di Amsterdam e le sue “luci rosse”. Pietro Del Re su La Repubblica il 27 dicembre 2019. Per sostenere i loro idoli, i tifosi della nazionale di calcio olandese saranno costretti a scrivere un nuovo inno che non contenga la parola Holland. Il governo dell’Aia ha infatti deciso di abolire la doppia toponomastica per definire il regno d’Olanda, che d’ora in poi si chiamerà soltanto Paesi Bassi. E poco importa se non si potrà più dire “squadra olandese”, ma solo “squadra dei Paesi Bassi”, espressione decisamente meno felice. Entro il prossimo gennaio, verrà anche cambiato lo storico logo usato negli ultimi venticinque anni per promuovere l’Olanda, quello del tulipano accanto al sostantivo Holland. Sarà sostituito da NL, sigla fin troppo amministrativa (la stessa usata sulle targhe automobilistiche) di Nederland, che in olandese significa appunto Paesi Bassi. Lo scorso novembre, la ministra al commercio estero, Sigrid Kaag, ha così spiegato questa riforma, di cui è promotrice: «Vogliamo costruire un’immagine più semplice del Paese, che sarà positiva per il nostro export e che servirà ad attirare investimenti e talenti nell’high-tech, lo sport e la cultura». In realtà, dietro questa decisione ci sono altri motivi. A sentire le autorità olandesi, che da ora, a rigore di logica andrebbero chiamate nederlandesi o neerlandesi, il brand “Olanda” è ormai inflazionato, perché troppo legato al quartiere a luci rosse di Amsterdam, il “red light district” della prostituzione e dei coffee shop dove si fuma liberamente la marijuana. C’è poi un’altra ragione, più geografica. Olanda sono in realtà solo due delle dodici province del Paese, entrambe sulla costa occidentale: l’Olanda settentrionale, che comprende Amsterdam e Harlem, e l’Olanda meridionale, con città quali l’Aia, Rotterdam e Leida. Nel Medioevo, l’antica contea d’Olanda fu un’entità politica autonoma, ma già nel Seicento, con la nascita della Repubblica delle Sette Province Unite, si trasformò in suddivisione amministrativa. Nel 1840, dopo l’effimero regno d’Olanda creato da Napoleone, il territorio fu diviso in due province. Questa rivoluzione linguistica è tuttavia una scelta controversa perché sebbene la confusione tra provincia e Paese infastidisca gli olandesi, è anche vero che per gran parte del pianeta Nederland, o peggio NL, evocherà difficilmente la terra delle grandi dighe, delle innovazioni e dei tulipani. Fatto sta che il nuovo logo sarà adottato dai ministeri, le ambasciate, le università, i municipi e le organizzazioni che collaborano con il governo. E ciò costerà 200 mila euro. La dicitura sarà usata nelle grandi manifestazioni culturali e sportive, sin dal festival musicale di Eurovision che si terrà a Rotterdam a maggio o dai Giochi Olimpici di Tokyo della prossima estate. «In quelle occasioni sarebbe curioso promuovere all’estero soltanto una parte della nazione», dice un portavoce del ministero degli Esteri, secondo cui il cambio di nome servirà anche a promuovere una nuova strategia turistica per arginare l’arrivo di chi sbarca con voli low cost e la cui unica meta sono poche strade nel centro di Amsterdam. Secondo le stime dell’ente del turismo locale, il numero dei visitatori raggiungerà i 30 milioni entro il 2030, quasi il doppio dei turisti attuali. Ma basterà chiamarsi diversamente per fermare il turismo di massa?
· Quei razzisti come i Belgi.
“L’inquisitore di Giava”, viaggio nelle ex colonie: Olanda e Indonesia ricordano il nostro presente. Eraldo Affinati su Il Riformista il 19 Settembre 2020. Spesso la letteratura aiuta a capire la storia più di quanto i manuali possono fare. In occasione del sessantesimo anniversario dell’indipendenza congolese, il sovrano belga, re Filippo, ha chiesto pubbliche scuse per le ferite coloniali inferte dal suo Paese alla repubblica democratica centroafricana. Vecchi scheletri lasciati per lungo tempo nascosti negli armadi sono tornati ad affacciarsi gettando lunghe ombre sul tormentato passato europeo. Quali, fra le antiche nazioni del Vecchio Continente, le stesse che oggi si fanno belle fra Bruxelles e Strasburgo, potrebbero dire di avere la coscienza pulita? Forse nessuna. Noi italiani abbiamo fatto la nostra brutale parte in Africa in un periodo storico tutto sommato abbastanza ristretto. Per quanto riguarda l’Olanda, i suoi misfatti asiatici risalgono al diciassettesimo secolo quando le isole di Sumatra, Giava, il Borneo e le Molucche caddero sotto il dominio della Compagnia delle Indie Orientali capitanata dai mercanti di Amsterdam e Rotterdam. I Paesi Bassi governarono l’Indonesia fino alla Seconda guerra mondiale. L’indipendenza giunse solo nel 1949 dopo che i movimenti nazionalistici, guidati dal presidente Sukarno, misero fine anche all’effimera egemonia dei giapponesi che, sfruttando il vuoto di potere causato dall’invasione nazista, nel frattempo s’erano insediati in Oceania dove spadroneggiarono fino al momento in cui vennero sganciate le bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki. Tutto questo è lo specchio interno di un romanzo in molti sensi straordinario: L’inquisitore di Giava di Alfred Birney (Mondadori, pp. 463, 15 euro). La stessa estrazione indo-olandese dell’autore, nato a L’Aia nel 1951, introduce al tema profondo del libro: da cosa deriva la nostra identità? Dalla lingua? Dal luogo in cui siamo nati? Dai genitori che abbiamo avuto? Dalle idee che ci sono state inculcate? Dagli incontri che ci è capitato di fare? Si può scegliere ciò che si diventa, oppure siamo destinati ad essere quello che siamo? È sempre difficile per chiunque rispondere a queste domande, intime e politiche al tempo stesso, ma nel caso di Alan Noland, il protagonista narrante del testo, l’impresa pare addirittura azzardata. Egli infatti, scrutinando le memorie del padre Arto, figlio peraltro non riconosciuto di un europeo e di una indigena, scopre il suo oscuro passato, caratterizzato da crudeltà quasi indicibili. Arto le aveva perpetrate, quale agente coloniale al servizio della dinastia degli Orange, ai danni della popolazione locale a cui lui stesso tuttavia, seppure parzialmente, apparteneva: interrogatori brutali, omicidi, soperchierie, nefandezze,con passaggi improvvisi da uno schieramento all’altro. Un po’ eroe, un po’ spia, un po’ traditore, quest’uomo torvo e rude dalla giovinezza incendiaria, cresciuto a Giava come un indish, meticcio spesso inviso a entrambi i popoli il cui sangue scorre nelle sue vene, sarà costretto ad abbandonare la terra d’origine dove molti lo ritengono un traditore e altri un salvatore. Dopo essere approdato ad Amsterdam, quale marinaio fedele alla regina Giuliana d’Orange, avrà subito voglia di tornare indietro, fra i suoi amati indigeni, ma non potrà farlo. Così trascorrerà gli ultimi anni a Malaga, da vero espatriato, pensionato di lusso, esule inconsolabile, mercenario privo di radici. «Era impazzito durante la guerra o era nato proprio così?» si chiede il figlio, chiamato a sanare in se stesso i dissidi del padre. E scrive: «Doveva avercelo avuto dentro. Aveva solo bisogno di uno scenario per manifestarsi. Karma. Sfortuna. Maledizione. Whatever». Fino alla frase più importante: «Non importa, non abbiamo il controllo sul tipo di persona che siamo quando veniamo al mondo e sulla strada che seguiremo nella vita». Alfred Birney, nel suo resoconto impietoso, travolgente, spesso informe e traumatico, comunque doloroso, ci consegna lo spartito delle cosiddette “seconde generazioni”, nelle quali egli si riconosce: una musica cupa e solenne che, a ben pensare, riguarda tutti noi, perché nessuno può illudersi di appartenere soltanto a se stesso. È la canzone a volte triste ma sempre affascinante del sangue misto: imparare ad ascoltarla diventa imprescindibile, se non vogliamo che le società multiculturali si riducano agli articoli di legge presenti nei codici. Questo significa anche progettare una scuola capace di far maturare tale consapevolezza nei più giovani. Possiamo dire che oggi l’Olanda e l’Indonesia siamo noi. Mentre gli emigranti avanzano verso l’ignoto e piantano le loro bandiere sulle nuove terre in cui sbarcano, i loro discendenti, avuti magari, con la dolcezza o con l’arroganza, dalle donne o dagli uomini del posto, dovranno affrontare e risolvere il compito di fondere le diverse culture di cui sono il frutto. Se i padri non lo fanno, saranno i figli a dover tappare i buchi. Non sarà semplice, si tratterà di mettere insieme violenza e amore, ma da questa promiscuità, ricordiamolo anche a chi ottusamente s’illude di poterla evitare, nascerà la civiltà del futuro.
Belgio, re Filippo chiede scusa "per le ferite coloniali in Congo". Pubblicato martedì, 30 giugno 2020 da La Repubblica.it. "Tengo a esprimere il mio più profondo rammarico per queste ferite del passato, il cui dolore è oggi alimentato dalle discriminazioni ancora presenti nelle nostre società". Parole storiche di re Filippo del Belgio contenute in una lettera inviata al presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, oggi, giornata che celebra 60 anni dall'indipendenza. È la prima volta nella storia del Paese che un regnante rivisiti la propria storia coloniale facendo un mea culpa. Al tempo dello Stato indipendente del Congo, quando il territorio era di proprietà non belga ma esclusiva di re Leopolo II, che non mise neanche mai piede in terra africana, furono commessi atti di inaudita violenza e crudeltà "che continuano a pesare sulla nostra memoria collettiva", ha detto re Filippo, che regna dal 2013. "Il periodo coloniale che seguì (quello del Congo belga dal 1908 al 1960 quando il Congo passò dalle mani di Leopoldo a quelle dello Stato belga, ndr) causò sofferenza e umiliazione", ha aggiunto sottolineando che intende impegnarsi a "combattere tutte le forme di razzismo". rep Approfondimento Il Belgio pronto a processare il suo passato colonialista e i crimini di Leopoldo II in Congo dal nostro corrispondente ALBERTO D'ARGENIO George Floyd è arrivato anche in Belgio. La sua morte per soffocamento causata dalla stretta di un agente di polizia bianco a Minneapolis, ha rilanciato il dibattito sulla violenza del periodo coloniale in Congo e il controverso ruolo del defunto re Leopoldo II, accusato di aver ucciso milioni di congolesi. Dal 1879, giorno in cui l'esploratore britannico Stanley partì alla volta del Congo assoldato da Leopoldo, che aveva intuito l'immensa ricchezza che si nascondeva in quella fitta foresta pluviale, al 1885, il re belga consolidò il suo potere esclusivo sul Paese africano. Se ne impossessò con il beneplacito di tutta la comunità internazionale, meno visionaria del monarca. Da allora la storia della Rdc plasmata del regnante ha conosciuto solo sfruttamento, violenze e torture. I reati venivano saldati con l'amputazione di piedi o mani, per dirne una. "Porcheria immonda", titola David van Reybrouck nel suo libro "Congo", la parentesi leopoldiana. Depredata di tutte le sue materie prime e trasformata in un Paese schiavo nella mani di un potente capriccioso, la Rdc è stata governata da Leopoldo fino al 1908. Non è andata meglio dopo, quando è passata nelle mani di Bruxelles, e neanche dopo, raggiunta l'indipendenza nel 1960. Il Paese è uno dei più ricchi del continente africano tra miniere di diamanti, rame, uranio e altri minerali, tutte risorse concentrate maggiormente nella regione del Katanga e sfruttate però da compagnie straniere. Per questo paga da sempre il prezzo più alto.
In Belgio il colonialismo e il razzismo non sono storia passata: sono nella vita di tutti i giorni. Le statue di re Leopoldo II sono solo il simbolo più evidente di un Paese che non ha fatto i conti con il suo passato di schiavismo e sfruttamento. E dove la società ancora oggi è frammentata e divisa in base al colore della pelle. Federica Bianchi il 12 giugno 2020 su L'Espresso. La torta è scartata davanti a 5 o 6 bambini italiani, in un tripudio di grida gioiose alla vista di tutti quei colori. È una domenica di febbraio del 2019 a Bruxelles, il carnevale impazza e la migliore pasticceria del quartiere di Woluwe Saint-Lambert, De Baere, ha in bella esposizione irresistibili dolci di cioccolato a forma di pagliaccio. O almeno quelli che io credevo fossero pagliacci, con tanto di cappellino a tuba con fiore e naso grosso. «Ma da quando compriamo torte razziste?». Mio marito mi gela, sussurrando in un orecchio. Solo allora mi accorgo: la torta non è a forma di pagliaccio ma di testa di moro, ovvero di “negretto”, con tanto di labbroni in evidenza. Una presa in giro di chi ha la pelle nera e che per decenni in Belgio e in Olanda è stato oggetto prima di sfruttamento e poi di divertimento dei colonizzatori bianchi. L'idea che esistesse oggi una possibilità simile non mi aveva nemmeno sfiorato. E nessuno degli amici italiani in quella stanza se n'era accorto. Solo l'unico americano presente, a dimostrazione della distanza abissale di sensibilità e consapevolezza che in Occidente ancora resta sul tema. «È questioni di tradizioni e le tradizioni si rispettano», aveva detto solo l'anno scorso il premier olandese Mark Rutte, il campione dell'austerità europea, quando gli hanno fatto presente che aspetti della festa di Saint Nicholas sono anti storici e offensivi. Il 6 dicembre uomini bianchi travestiti da Saint Nicholas, il vescovo di Bari del 300 (da cui è nata la figura di Babbo Natale) offrono regali ai bambini negli uffici e nelle palestre di Olanda e Belgio. Saint Nicholas non si muove da solo ma dal 1850, quando la figura fu introdotta, in coppia con il suo schiavo Pete il Nero, oggi impersonato da un bambino bianco dal volto tinto di nero, che, due passi indietro, gli regge il cesto dei doni. «Alcuni ragazzi di colore mi hanno spiegato quanto questa tradizione li ferisca», ha spiegato solo pochi giorni fa, al culmine delle proteste razziali scoppiate negli Stati Uniti: «Solo adesso capisco». In Belgio, come è forse più dell'Olanda, i postumi del colonialismo, con tutta la loro portata di sentimenti e visioni razziste, sono attualità, non storia. Presente, non passato da museo. Sensibilità contemporanea. Milioni di persone di colore, discendenti dagli schiavi congolesi, sono ancora considerati di serie B in una società elitaria e classista. E la loro sofferenza si unisce a quella più recente dei discendenti dei marocchini arrivati in Belgio negli anni 80 e 90 per rimpiazzare gli italiani nella manodopera di basso livello. Quasi mezzo secolo dopo vivono in quartieri ghetto quasi monocolore. Il più bel parco nel cuore di Bruxelles, con tanto di lago dei cigni e liceo d'élite sulle sue sponde, così come innumerevoli strade in tante città., è ancora intestato a Leopoldo II, re del Belgio e del Congo tra il 1865 e il 1909, durante il cui regno morirono tra i 10 e i 15 milioni di africani. Quello di Leopoldo II fu il primo massacro per cui venne utilizzato il termine “crimine contro l'umanità”. Quel passato in Belgio vive ancora. Il parco di Tervuren, l'ex immensa distesa di caccia reale a poco più di mezz'ora di bicicletta dal centro di Bruxelles, ospita il Museo reale dell'Africa centrale voluto da re Leopoldo nel 1904 per celebrare le sue conquiste in Congo. Fino a sei anni fa, nulla era stato toccato o cambiato: era ancora il luogo dove apprendere come il Belgio avesse portato la civiltà in Africa, con tanto di statue di neri nudi e missionari bianchi. Poi il museo ha chiuso per 70 milioni di euro di lavori mirati alla sua modernizzazione, e ha riaperto l'anno scorso in pompa magna. Poche settimane dopo la riapertura, ecco la dimostrazione che nulla fosse davvero cambiato. Le sue sale hanno ospitato una festa Afrohouse il cui dresscode erano abiti leopardati, facce dipinte di nero e costumi di epoca coloniale che la borghesia belga tiene ancora nell'armadio. «Come è possibile che un evento simile abbia ancora luogo nel 2019?» si è chiesto su Facebook il gruppo di attivisti Cafe Congo. In Belgio è possibile. Così come solo sessanta anni fa, nel 1958, era ancora possibile per gli organizzatori dell'Expo, la stessa per cui fu costruito l'Atomium, il monumento che rappresenta l'atomo e che è diventato il simbolo della capitale, trasportare 267 congolesi nel parco di Tervuren e costringerli a vivere seminudi nella riproduzione di un villaggio africano. Obiettivo: esporli al mondo al pari degli animali. La maggior parte di loro morì di freddo durante l'inverno. Ma perfino questi ultimi 60 anni sembrano essere passati invano. A un'ora di macchina da Bruxelles si trova Pari Daiza, forse lo zoo più bello d'Europa, in cui le gabbie degli animali sono in realtà la ricostruzione di interi ecosistemi e palazzi: la tigre bianca vive in un immenso tempio indiano, per i panda è stato ricostruito un palazzo nobile cinese con tanto di gigantesca vasca di pesci al centro del cortile principale e gong lungo le mura. Lì dove vivono leoni e giraffe sono stati ricostruiti villaggi africani e una serie di caverne. All'interno, la sorpresa: tanti oggetti coloniali, da valige a vestiti di pelle di leopardo. Ma non solo. Appese alle mura ci sono decine di fotografie in bianco e nero di africani seminudi accanto a uomini bianchi che li espongono come trofei. A quanto pare molti di loro erano fieri di farsi fotografare a fianco di una donna nera nuda, il braccio intorno al collo e le dita della mano sul seno, a stringere un capezzolo. I bambini di oggi a guardare, a testa in su e cuore in giù. Intanto, all'indomani dell'omicidio di George Floyd negli Stati Uniti, che ha causato un'epocale rivolta civile contro il razzismo negli Stati Uniti e nel Nord Europa, e mentre si moltiplicano in Belgio le petizioni cittadine per la rimozione delle statue di Leopoldo II dal suolo pubblico, l'attuale principe Laurent ha tranquillamente dato un'intervista a Sudpresse, in cui ha detto di non capire come Leopoldo II «avesse potuto far soffrire delle persone» visto che in Congo - che festeggerà questo 30 giugno i 60 anni dell'indipendenza - non si era mai recato. E difatti da parte della casa reale belga, è dai tempi di re Baduino, l'ultimo re del Congo, morto nel 1993, che il nome di Leopoldo II non è più fatto. L'ultima volta fu il 30 giugno 1960 in occasione dell'indipendenza del Paese. Dunque, nessuna critica. Nessun mea culpa. Il principale quotidiano belga, Le Soir, ha riportato la frase di una fonte reale che sintetizza la posizione ufficiale: «Se dispiace che ancora non sia stata fatta luce su quel periodo storico, dal punto di vista del sentimento familiare, nessuno nella famiglia reale ha piacere di vedere questa campagna contro Leopoldo II». E ovviamente nessuno di loro è in favore della rimozione delle statue. Ma le statue al di fuori di un museo non sono solo statue. Non solo arte. Non storia. Sono la rappresentazione della coscienza sociale del momento. E se ci sono ancora persone che da quelle statue si sentono personalmente offese, allora vuol dire che la società non ha ancora fatto i conti con se stessa. E rimane drammaticamente divisa. Tanto più in Belgio, dove le divisioni di ieri si sommano a quelle di oggi, gli schiavi di cento anni fa a quelli di sessanta anni fa e perfino a quelli attuali, in una società dove il lavoro manuale è riservato per lo più ai non belgi. E il risultato è una città divisa per colore della pelle e una rabbia sociale costante che esplode quando le circostanze permettono. Come due mesi fa nel quartiere povero e islamico di Anderlecht, al sud della città, dove un ragazzo marocchino di 19 anni è morto, inseguito dalla polizia mentre era su un monopattino elettrico durante il divieto imposto dal lockdown. O come quando una mamma marocchina spiega di non sentirsela a iscrivere i suoi gemelli nella stessa scuola elementare pubblica e gesuita in cui vanno i figli della borghesia, perché «con i ragazzi di colore si comportano in modo diverso, e se poi non sono bravi, usano proprio parole diverse e li ignorano completamente, incoraggiandoli a lasciare». Il fantasma di Leopoldo, per dirla con Adam Hochschild, è sempre tra noi.
Da liberoquotidiano.it il 14 febbraio 2020. Per quale motivo un liberale belga dovrebbe mai commentare pubblicamente le vicende di Matteo Salvini e dell'Italia senza avere il polso della situazione? Magari Guy Verhofstadt svelerà in tribunale il motivo per il quale ha sparato a zero, all'indomani dell'autorizzazione a procedere contro il leader della Lega per il caso della nave Gregoretti. L'ex premier del Belgio ha esultato su Twitter: "Via libera a processare Salvini per sequestro di persona. Brava Italia! Giustizia deve essere fatta. Speriamo che lo stesso avvenga anche per la sua massiccia corruzione con tangenti petrolifere russe". Una frase, quest'ultima, di una gravità inaudita dato che non c'è alcuna sentenza che sorregge quanto sostiene Verhofstadt. Una diffamazione in piena regola che infatti non è sfuggita a Salvini: "Questo fenomeno eurosinistro ha vinto una bella querela. Affronterà il tribunale, come ho deciso di fare io, o userà l'immunità?".
Belgio da un anno senza governo (ma nel 2011 andò molto peggio). Pubblicato martedì, 24 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudio Del Fante. Felici, contenti e senza governo: da un anno (precisamente dal 18 dicembre del 2018) il Belgio è privo di un esecutivo nei suoi pieni poteri e rischia di superare il record già stabilito a cavallo del 2010 e 2011 quando il vuoto durò per ben 540 giorni. Filippo, re dei belgi, nel suo discorso annuale alla nazione ha esortato i partiti a trovare una soluzione e formare una coalizione in grado di dare stabilità politica a un esecutivo «condannato» da un anno solo all’ordinaria amministrazione. Nonostante ciò, l’opinione pubblica non sembra mostrare preoccupazione in cui il Belgio rischia (di nuovo) di barcamenarsi. «Un esecutivo deve essere formato il più rapidamente possibile» per «prendere decisioni equilibrate», ha detto il re, indossando un abito blu e una cravatta arancione, seduto di fronte a un albero di Natale nel suo palazzo di Bruxelles, in un discorso registrato e trasmesso in televisione. Il sovrano ha invitato tutti a lasciare da parte «la violenza esplicita nel linguaggio e nei gesti che distruggono» e si è rivolto al suo popolo parlando in francese. Ma proprio la lingua è una dei fattori di divisione che tengono il paese nordeuropeo in continua fibrillazione politica. Lo stallo che si trascina da un anno è frutto infatti delle divisioni sempre più profonde tra la comunità francofona concentrata nel sud del Paese (e in maggioranza socialista) e quella fiamminga che abita la metà settentrionale (e che da anni vota in massa il partito nazionalista N-Va). Il governo di coalizione, guidato da Charles Michels è caduto il 18 dicembre del 2018 dopo che proprio i nazionalisti fiamminghi gli hanno tolto l’appoggio: motivo della rottura l’intenzione dell’esecutivo di sottoscrivere il Migration Act. Dopo le elezioni del maggio 2019 le redini del paese sono passate in mano a Sophie Wilmes, prima donna premier in 189 anni di storia del Belgio, alla guida di una formazione di centrodestra priva però della maggioranza in Parlamento. Lo stallo è destinato a proseguire, punti di incontro tra le due anime del Paese per ora non se ne vedono. Il Belgio rivive così la paradossale situazione protrattasi dal 13 giugno del 2010 e il 5 dicembre del 2011, quando non risultò possibile formare un governo sorretto da una maggioranza. Anche allora fu la rigidità delle posizioni tra fiamminghi e valloni a prolungare lo stallo. Dopo molti tentativi andati a vuoto il socialista Elio Di Rupo riuscì a ricucire una fragile coalizione. Nonostante l’anno e mezzo di vuoto, l’economia del paese non sembrò risentirne. La situazione, stavolta, non sembra altrettanto rosea. Secondo le previsioni il Belgio è tra gli stati dell’area euro quello dove il debito pubblico aumenterà maggiormente (+0,9%, l’Italia è a +0,2%) ed è tra i Paesi sotto osservazione da parte della commissione europea proprio per uno «squilibrio macroeconomico» nei suoi conti pubblici. Secondo Eurostat a luglio del 2019 il pil segnava una crescita annuale dello 0,4%.
Giampiero Gramaglia per il “Fatto quotidiano” il 16 gennaio 2020. Qualche tempo fa, quando ancora si spedivano le lettere e in Italia affidarne una alla posta metteva l' ansia - arriverà?, e quando? -, in Belgio, se una cosa filava liscia, senza un intoppo, si diceva "Comme une lettre à la poste", come una lettera in posta: le lettere partivano e arrivavano, esattamente come in Belgio continuano a fare i treni e gli aerei, che un governo ci sia o - spesso - non ci sia. Il giorno che si va a votare, la domenica, in mezza giornata si raggiungono percentuali d' affluenza altissime - il voto è obbligatorio -, senza perdere un giorno di scuola: a sera gli scrutini sono fatti e le aule sgomberate. Eppure il Belgio non ha un popolo e neppure una lingua: i fiamminghi, che sono circa i due terzi della popolazione, al nord, sono conservatori e cattolicissimi e parlano, appunto, il fiammingo, simile all' olandese; i valloni, al Sud, socialisti e mangiapreti, parlano francese; lo Stato è la somma di tre entità fortemente autonome, le Fiandre, la Vallonia e Bruxelles, capitale bilingue. I simboli dell' unità nazionale sono la monarchia - i Sassonia Coburgo Gotha vengono, però, dalla Germania -; la Brabanconne, l' inno che celebra l' indipendenza acquisita nel 1831; e la nazionale di calcio, specie quando, come in questo momento, è forte, anzi fortissima, in testa al ranking Fifa, davanti - che goduria, per i belgi abituati a essere oggetto di sfottò - alla Francia. Che ci sia o meno un governo, le cose funzionano (quasi) sempre come ci si aspetta che funzionino. Ciascuno fa il suo lavoro, magari senza fantasia, ma con applicazione e concretezza. E il Paese se la cava: nel 2010, gestì senza governo un semestre di presidenza di turno del Consiglio dell' Unione; e, questa volta, senza governo, è riuscito a promuovere il suo premier in carica per gli affari correnti, Charles Michel, alla Presidenza del Consiglio europeo e a insediare al suo posto la prima donna premier nella storia belga, Sophie Wilmès - è la "custode" del potere, in attesa che qualcuno politicamente legittimato lo reclami -. E l' economia non ne soffre troppo: il debito pubblico continua a scendere - era al 101% del Pil nel 2018, calerà al 98% quest' anno -, il disavanzo s' attesta all' 1,6%, le tasse scendono, la disoccupazione è intorno al 6,5%, il turismo è uscito dal tunnel nero degli attentati terroristici del 2016 e 2017. Ci stiamo avvicinando ai 400 giorni senza un governo nella pienezza dei poteri. È dal 18 dicembre 2018, giorno in cui il partito nazionalista fiammingo N-Va pose fine alla coalizione di centrodestra del premier Michel, d' ispirazione liberale, che il governo è ridotto agli affari correnti. Siamo ancora lontani dal record mondiale - ovviamente belga - di 541 giorni, stabilito tra 2010 e 2011; e un altro lungo periodo simile si ebbe fra il 2007 e il 2008, oltre sei mesi. Oggi, le distanze fra i partiti di diversi schieramenti nelle Fiandre e in Vallonia non fanno ancora intravedere un accordo di coalizione all' orizzonte. Né se ne avverte l' urgenza, visto che le cose funzionano lo stesso: i treni, come gli aerei, partono e arrivano in orario. Nonostante la crisi fosse stata dichiarata a fine 2018, per le elezioni si attese il 26 maggio, sfruttando l' Election Day europeo. Poi, due giorni prima che Michel dovesse assumere la presidenza del Consiglio europeo, il 28 ottobre, la Wilmès, 44 anni, anch' essa d' ispirazione liberale, ne ha preso il posto. Quasi 250 giorni sono passati dalle elezioni politiche, che hanno visto una netta affermazione delle diverse sigle del nazionalismo fiammingo: da allora, diversi "formatori" - così in Belgio si chiamano coloro incaricati di formare il governo, di cui non devono necessariamente divenire premier - si sono succeduti, senza trovare la formula giusta per un accordo. Ma, sbarcando all'aeroporto di Zaventem o arrivando alla Gare du Midi, non avrete l' impressione di un Paese sull' orlo di una crisi di nervi. Con 11,4 milioni di abitanti, una superficie pari a quella di Lombardia e Liguria insieme, il Belgio ha un' economia diversificata, forte soprattutto nei servizi. E gli indici di qualità della vita sono eccellenti su scala mondiale: libertà civili, diritti politici, persino il funzionamento dello Stato. È stata la politica a ostinarsi sull' opzione del federalismo, allentando i vincoli dell' unità nazionale; e, adesso, la gente antepone alla politica l' ordinaria amministrazione. Vivendo ugualmente bene.
· Quei razzisti come gli Ungheresi.
La censura dei media di stato ungheresi: bavaglio di Orban a Greta Thunberg, diritti umani e Unione Europea. Redazione de Il Riformista il 3 Marzo 2020. I giornalisti della tv di Stato ungherese per poter parlare pubblicamente delle politiche dell’Unione Europea o di Greta Thunberg, l’attivista 17enne svedese per il clima, hanno bisogno di un permesso speciale, mentre è severamente vietato parlare di organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch, note in tutto il mondo per l’impegno nella difesa dei diritti umani.
IL PUGNO DURO DI ORBAN – La censura di Stato è al centro di un’inchiesta pubblicata da Politico, noto quotidiano americano di approfondimento. I giornalisti che hanno firmato l’indagine hanno ottenuto infatti le mail interne dello staff della tv pubblica del Paese, governato col pugno duro da Viktor Orban, tra i leader politici di riferimento in Italia per la destra populista di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, nelle quali ai redattori viene richiesto di inviare bozze dei contenuti dei loro articoli su argomenti delicati.
LA CENSURA – Secondo un’email visionato da Politico, per poter realizzare un servizio sull’attivista svedese Greta Thunberg i giornalisti ungheresi devono avere un permesso ancora prima di iniziare a scrivere. Ai dipendenti dei media statali, fermamente controllati da Orban, è invece esplicitamente vietato di menzionare nei loro servizi e articoli i report diffusi da organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch. In una email firmata da Tamás Pintér, senior editor della tv pubblica, indirizzata ai colleghi, il giornalista rivela di essere stato informato da Balázs Bende, capo del personale della televisione di Stato, “che non pubblichiamo i materiali di Human Rights Watch e di Amnesty International”. Una seconda email ottenuta da Politico evidenzia ancor di più il clima che si vive nella tv pubblica. Sándor Végh, altro senior editor, scrive infatti che tra i temi che hanno bisogno di un’autorizzazione speciale prima della pubblicazione ci sono “migrazione, terrorismo europeo, Bruxelles, questioni ecclesiali”, oltre alle elezioni negli altri paesi dell’Unione.
LE REAZIONI – La diffusione dell’inchiesta di Politico ha provocato subito forti reazioni nel mondo dell’informazione. Julie Majerczak, di Reporter senza frontiere, ha definito la censura “inaccettabile e molto preoccupante. I media pubblici non sono i portavoce del governo, dovrebbero essere neutrali e indipendenti”. Sulla stessa linea Lydia Gall, di Human Rights Watch: “Questo è un altro esempio di come il governo ungherese mina la libertà dei media e tenta di mettere a tacere e interferire con il lavoro vitale delle organizzazioni della società civile”.
Andrea Tarquini per repubblica.it il 4 marzo 2020. Il premier ungherese Viktor Orbán ha trovato un nuovo nemico necessario, o meglio nemico immaginario della Nazione europea cristiana che dice di voler difendere. Questa volta non si tratta di migranti, né dell'Unione europea, né di Soros. No: l'uomo forte magiaro, massimo stratega dei sovranisti europei, ha i Rom e soprattutto i bimbi rom nel mirino. Egli in persona e il suo governo, come ha scritto Politico sono decisi a bloccare le sentenze della magistratura ungherese che impongono all'esecutivo di versare risarcimenti a bimbi rom vittime di discriminazioni gravi e di segregazione a scuola. Segregazione, come in Sudafrica ai tempi dell'apartheid quando Nelson Mandela era rinchiuso nel famigerato carcere di Robben Island.
Il fatto iniziale. La pietra dello scandalo è quanto accade nel povero villaggio di Gyöngyöspata. Le autorità locali hanno chiesto e ottenuto finanziamenti pubblici per la scuola, poi hanno deciso su ordine da Budapest di istituire classi separate e malissimo organizzate per i bimbi rom. Le famiglie rom del posto hanno sporto denuncia alle autorità giudiziarie, e i giudici in uno tra i loro difficili tentativi di difendere l'indipendenza della magistratura hanno dato loro ragione: occorre che il governo paghi un risarcimento danni e modifichi la situazione a vantaggio dei bimbi rom, a Gyöngyöspata e altrove. Per consentire loro di imparare lingua cultura matematica e tutto a scuola come gli altri bimbi ungheresi e sperare in un futuro di lavoro, non di emarginazione.
La dichiarazione di Orbán. Orbán non ne vuol sapere, e lo ha detto in pubblico. "Mi chiedo perché dobbiamo spendere soldi per chi non lavora; i veri discriminati sarebbero i bambini ungheresi, non i rom, se io cambiassi la situazione". E ancora: "Se io fossi un cittadino ungherese di Gyöngyöspata mi chiederei perché si devono spendere soldi pubblici per gente che poi non va a lavorare". Ed è imminente in tutta l'Ungheria - per volere di Orbán che si sente minacciato nel suo potere decennale dalla crescita delle opposizioni vittoriose alle recenti municipali a Budapest e in una decina di altre importanti città - tenere una "consultazione nazionale", cioè un referendum le cui domande sono formulate in tal modo dal regime sovranista che una sua vittoria sarebbe scontata in caso di sufficiente partecipazione al voto.
La "consultazione nazionale". La "consultazione nazionale", nell'approssimarsi del decennale del ritorno di Orbán al potere (aprile 2010) chiederà ai cittadini se ritengono giusto spendere soldi pubblici per i rom che non lavorano e non si integrano e anche per i detenuti (di carceri sovraffollate, I) "aiutati dai loro avvocati comunisti".
La reazione della comunità Rom. Le organizzazioni della comunità Rom reagiscono, con pacifiche proteste nella capitale Budapest e in altre città. I Rom in Ungheria sono da secoli abitanti stanziali, e non nomadi. L'ottanta per cento di loro vive sotto la soglia di povertà definita dalle autorità nazionali, discriminata o emarginata da istruzione e mercato del lavoro, spesso in villaggi cui non vengono fornite acqua potabile ed elettricità.
La denuncia delle Ong. È la prima volta, denunciano opposizioni e Ong per i diritti umani, che il premier ungherese sceglie come bersaglio un "nemico interno". Una minoranza appunto, non già la Ue, le ondate migratore o gli immaginari complotti del filantropo George Soros. In tal modo il premier e il suo partito-Stato, la Fidesz sospesa dal Partito popolare europeo, copiano gli slogan lanciati dieci-undici anni fa dall'ultradestra. Come quando attorno al 2009 ci furono marce di gruppi paramilitari in villaggi rom e furono uccisi per motivi razzisti nove rom tra cui un bimbo, Robert Csorba, i cui funerali furono un momento alto della protesta dell'etnía Rom in tutta l'Europa di mezzo.
L'appello all'Europa. I Rom ungheresi chiedono aiuto all'Europa contro il premier sovranista che attacca i bambini come nemici e pericolo per la patria. Orbán procede sulla sua strada, inasprendo anche la censura. Da pochi giorni i media pubblici hanno bisogno del permesso da chiedere ogni volta alle autorità censorie (quindi di fatto a esecutivo e servizi segreti) per parlare di Greta Thunberg o di qualsiasi Ong o del tema "Diritti umani". I bimbi rom magiari sono sotto il tallone di una politica razzista, da Bruxelles non è ancora venuta una chiara risposta né una denuncia.
Emigrazione a messimi livelli. Nel frattempo l'emigrazione di giovani qualificati stanchi del clima politico dall'Ungheria tocca nuovi record nonostante il boom economico, la scuola ungheres è scesa per indice di qualità dal 37mo al 96mo posto nelle classifiche internazionali, e scuola e sanità affrontano una gravissima crisi di mancanza di fondi e strutture.
· Quei razzisti come i Rumeni.
Francesco Battistini per “7 – Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Camminava da solo. Passo lento, silenzioso, sospettoso. I segreti del bosco vecchio di Maramures non hanno fretta d’essere svelati e il guardaparco Liviu Pop lo sapeva. Le solite regole di prudenza, le stesse da sette anni: spegnere il motore, abbassare il volume della radio, togliere la suoneria allo smartphone (troveranno la sua jeep posteggiata, mezz’ora di sentiero più sotto). Aveva fatto tutta quella strada in salita, calpestando cauto i rami caduti da farnie e tigli, scavalcando indagatore i tronchi delle querce già abbattute, seguendo col fiatone il lamento delle motoseghe sempre più vicino, sempre più assassino. A un certo punto gli vibrò in tasca il cellulare: era la moglie. La prima volta non rispose, continuò a camminare. Ma pure lei continuava a chiamare, perché si sentiva qualcosa di strano e stava insistendo. Liviu si fermò un attimo e tirò su sbrigativo, forse un filo spazientito: «Ciao, scusa, adesso non posso, ci parliamo dopo, sto per fare un arresto, ladri di legna...». Si sa com’è, chi lavora sul serio: avanti, forza, è un mestiere pericoloso, ma qualcuno deve pur farlo. E quel mercoledì mattina, in quel taglio, c’era da zittire il grido di quelle motoseghe. Liviu camminò ancora un po’. Qualche centinaio di metri. Svoltò per un tratturo. Scese in una gola. Alla fine li vide, e fu perduto. Era entrato nel bosco, verticale. Senza immaginare che ne sarebbe uscito orizzontale. Hanno ammazzato Liviu: a colpi d’ascia, in ottobre. Hanno picchiato un’altra guardia, Raducu Gorcioaia: a morte, il mese prima. Hanno ucciso quattro ranger, negli ultimi tre anni. E dieci, ancora, li hanno minacciati e inseguiti e pestati sino a mandarli in ospedale. In Transilvania, i vampiri succhiano la linfa delle foreste e di tutti noi. Mafia del legno che bastona e non perdona. «Quando ho investigato sul parco di Retezat», racconta Gabriel Paun, capo dell’ong Agent Green, «una banda di teppisti mi ha aggredito e mi ha rotto le costole, le mani, la testa. Non mi hanno ammazzato perché sono scappato. Non è stato arrestato nessuno, per mesi sono rimasti a piede libero in attesa del processo. No, devo essere chiaro: non mi aspetto che gli assassini dei ranger la paghino». Il guardaparco Liviu aveva trent’anni, tre bambini, trecento euro di stipendio. Conosceva i suoi killer e molti sanno chi sono, ma quando le troupe tv di Bucarest salgono fino ai boschi primordiali di Maramures, dove di legna si campa e si muore, le interviste sono regolarmente di spalle e con la voce criptata. L’omertà è tale che il giudice Bogdan Gabor, messi in galera tre sospetti, ha dovuto usare la macchina della verità per interrogare i pochi testimoni disponibili. E sui social si discute se l’omicidio, in fondo, non sia stato solo un atto di legittima difesa. E in cambio della pensione di reversibilità, la vedova Pop ha finito per accettare un referto surreale stilato dai medici locali: c’è scritto che Liviu non è morto per il torace squarciato, ma a causa di un’emorragia interna e della sua salute precaria. «Forse è stato un suicidio», ha postato qualche amico degli amici. Il buio è ben oltre la siepe. Nella regione di Maramures, prima del comunismo, i padroni delle terre avevano potere tanto sui buoi quanto sul boia: poco è cambiato. A Rusu Bargaului, il “borgo rosso” fatto di casette misere che stanno lungo uno stradone verso l’Ucraina, 800 abitanti tutti disoccupati e nemmeno un ambulatorio medico o un negozio d’alimentari, c’è un prete ortodosso che all’affollatissima messa della domenica punta il dito sui guardaparco e sui poliziotti corrotti, sui politici a libro paga, su quelli che si voltano dall’altra parte. Prova a dire la verità: è stato arrestato tre volte, malmenato anche di più, gli hanno ucciso il padre, suo figlio ranger è stato mobbizzato dietro una scrivania perché non desse fastidio e l’altro figlio, pope pure lui, viene minacciato ogni giorno. «I mafiosi del legno hanno alleati potenti e arrivano ovunque», dice padre Ioan Platon: «Per screditarmi davanti alla mia comunità, si sono inventati che il ladro di legna sono io. Da vent’anni, il potere e il traffico illegale li controllano sempre gli stessi ». Tutti legati dall’affare: i sindaci con le mogli che mettono i cugini a capo della polizia locale, i capi della polizia che nominano altri cugini al controllo dei boschi...«I clan sono familiari, hanno legami con deputati di Bucarest, diventano ogni giorno più ricchi mentre la gente è sempre più povera. Usano la forza e corrompono chiunque: mi hanno mandato in chiesa perfino un mio vecchio compagno di scuola, per consigliarmi di tacere». Nel borgo rosso non c’è niente, le industrie hanno chiuso e la terra non è buona per coltivare, il legno è l’unica risorsa: agli inizi del secolo scorso, i carpentieri di qui erano famosi per l’abilità nel fare incastri e nel costruire campanili in abete alti settanta metri, senza usare un solo chiodo. Poi arrivò il comunismo e il legno diventò un tabù: di proprietà statale, ovvero del partito e del sindaco. Oggi, chi abita a Rusu Bargaului non può segare un ramo, né arderlo, né venderlo. È ancora e soltanto roba loro, di chi comanda. Basta percorrere i bordi delle foreste: hanno chiuso i boschi con cancelli & lucchetti e piazzato agli ingressi brutti ceffi armati di kalashnikov, che allontanano i curiosi nelle settimane del taglio illegale. Appena un giornalista va a curiosare, com’è capitato a 7, prima deve pagare cento euro di permesso al sindaco e poi un suv nero gli s’appiccica h24, per pedinarlo. «Quando vedo i film sulla mafia in Sicilia», dice N., un ranger collega di Liviu Pop che non autorizza a scrivere nemmeno l’iniziale del cognome, «penso che dovrebbero farne uno su come si vive qui. Nessuno fa rispettare la legge, perché la legge la fanno loro». Se cancellassimo la Transilvania e la sua natura preistorica, scriveva un grande geografo dell’Ottocento, Simion Mehedinti, la Romania sarebbe come una ruota senza raggi. Non solo la Romania: in questi Carpazi sopravvive la metà delle ultime, grandi foreste vergini d’Europa cresciute dopo l’era glaciale. Ci scorrazzano orsi e lupi, linci e gatti selvatici che non hanno mai visto uomo. Ci crescono larici d’ottanta metri e faggeti così fitti che non hanno mai fatto ombra a una strada o a una macchina. Dagli inizi degli anni Novanta, ci s’arricchiscono bande che tagliano tre ettari l’ora e vendono illegalmente i tronchi a segherie, cartiere, industrie dell’arredamento nell’Ue e in Giappone. Secondo l’Onu, dopo il traffico di droga, d’armi, d’esseri umani e d’avorio, quello del legname proibito è il più lucroso affare del crimine internazionale: cento miliardi di dollari l’anno, tra il 20 e il 30 per cento del mercato mondiale di legna. Ma se molto sappiamo dei disboscamenti di mogano, teak e palissandro ai Tropici o in Amazzonia, il silenzio copre quel che accade ai confini dell’Europa, nasconde gli effetti sull’economia e sull’ambiente provocati da questi clan dell’Est. Che sfuggono a controlli e a tassazioni per almeno cinque miliardi di euro; drogano il mercato del truciolare e del legno pregiato, abbattendo i prezzi e danneggiando i produttori onesti; deforestano senza limiti, finendo per alterare i tassi d’anidride carbonica nell’atmosfera e aumentando il riscaldamento globale. Nei villaggi intorno a Slanic Moldova, ogni inverno si vedono i risultati del disboscamento: valanghe di fango, incontrollate, che travolgono case e cose. Rusu Bargaului, una abitante del villaggio riceve la visita di padre Ioan Platon, prete ortodosso che da sempre denuncia i clan che depredano il territorio, impoverendo la gente che vi abita Rusu Bargaului, una abitante del villaggio riceve la visita di padre Ioan Platon, prete ortodosso che da sempre denuncia i clan che depredano il territorio, impoverendo la gente che vi abita. L’Università del Maryland e Greenpeace hanno incrociato centinaia di foto satellitari e calcolato che in quindici anni sono stati tagliati almeno 280 mila ettari di rarissima foresta primordiale, circa nove milioni di metri cubi d’alberi: la metà stava in parchi nazionali, teoricamente protetti. Tre ong hanno chiesto in settembre l’intervento del Consiglio europeo e Bruxelles ha dato una strigliata al governo romeno, che peraltro nel 2016 s’era già dotato di un’inutile legge per la tutela dell’ambiente. Nel Paese governato da una classe politica fra le più corrotte d’Europa, la mafia dei boschi non è una priorità: quando l’Interpol ha tentato d’usare droni e gps, per bloccare i ladri di legno, un ministro ha risposto che è complicato, che non ci sono risorse finanziarie, che non è chiaro dove operino esattamente le gang... «La domanda è perché il nostro governo permetta questa devastazione», s’interroga Paun, dandosi una risposta: «Forse è una cosa che fa comodo a tanti». Ci sono complicità. Gravi complicità. Il traffico d’alberi si svolge da sempre lungo il confine ucraino: la porta d’ingresso per legname che gli ambientalisti sospettano arrivi da zone poco controllate o addirittura contaminate (una su tutte: la regione di Chernobyl) e venga poi smerciato in tutt’Europa come romeno. Un affare che fa gola. Uno sfruttamento intensivo che dura da trent’anni e che ormai ha trasformato Maramures in una miniera illegale del legno. Com’è accaduto? Deposto Ceausescu, nel 1989, Bucarest aprì agli investitori stranieri e fu così che pure i boschi del profondo Nord vennero invasi. Un Far East senza controlli, prateria adatta alle scorribande di spregiudicate aziende europee. Una di queste, l’austriaca Holzindustrie Schweighofer, vecchia di 400 anni, clienti che vanno dal Giappone alla Germania, dall’Italia alla Gran Bretagna, è finita al centro d’inchieste giudiziarie e di manifestazioni di protesta: i suoi manager avrebbero offerto bonus per l’acquisto di legno illegale proveniente da Maramures, rivendendolo poi come biomassa e materiale per arredo a grandi catene commerciali. Gli attivisti di Agent Green, che hanno rivelato i traffici, sono stati aggrediti con spray al peperoncino e manganelli da misteriose squadre armate, mentre investigavano sugli stabilimenti e sugli stoccaggi di legna a Sebes. Sui giornali è finita una lettera del ceo di Schweighofer, indirizzata al primo ministro romeno, in cui si minacciavano gravi conseguenze nelle relazioni diplomatiche con Vienna, nel caso fosse stata approvata una legge che limitava lo sfruttamento. Lo scandalo ha fatto un po’ di rumore, subito inghiottito. Nessuno ha sloggiato gli austriaci, nessuno ha dato un taglio al taglio selvaggio, nei boschi di Maramures le motoseghe continuano a gridare. «Voi non ve ne rendete conto», dice padre Ioan, «ma probabilmente la sedia su cui sedete, il tavolo a cui mangiate, il letto in cui dormite è fatto con legna illegale». Hanno ammazzato Liviu, Liviu è vivo: ma solo nella memoria di chi sa.
· Quei razzisti come i Kosovari.
Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 6 novembre 2020. Chissà se stavolta racconterà qualcosa della Casa Gialla, come la chiamavano durante la guerra del '99: la clinica fantasma dove si diceva espiantassero le cornee dei prigionieri, per rivenderle all'estero. O dei traffici d'armi e di droga. O del mistero dei corpi gettati e mai trovati in certi laghetti. O magari dei soldi fatti con la prostituzione e la tratta d'esseri umani Thaci, il nemico ti ascolta: dopo aver tanto negato e insabbiato e minacciato e ostacolato, dopo dieci anni di denunce e di sussurri, il «Serpente» s' è arreso. È arrivata l'incriminazione formale del Tribunale dell'Aja. E ieri mattina Hashim Thaci, capo storico della guerriglia Uck, padrino politico e presidente del Kosovo, alla fine s' è dimesso. L'hanno messo su un volo militare per l'Olanda e coi fidati Kadri Veselj e Rexhep Selimi, detto il Sultano, è andato in una cella. Per farsi interrogare da quei giudici che considera ostili «negazionisti della verità», vogliosi solo di «riscrivere una storia eroica che nessuno può cambiare». È l'inizio della sua fine? A 52 anni, «il più pericoloso dei boss criminali dell'Uck» (definizione d'un rapporto firmato dal senatore svizzero Dick Marty) è sospettato d'essere stato a capo d'un «depravato sistema di potere» (parole dell'ex procuratrice Carla Del Ponte) e dovrà rispondere di crimini contro l'umanità, di guerra e torture su un centinaio di serbi, rom e albanesi. Il Tribunale dell'Aja ci ha abituato alle sorprese e nessun esponente Uck è mai stato condannato, nonostante manchino all'appello 1.641 desaparecidos «non giustificati». Ma questo processo, basato sul codice penale kosovaro e con giudici internazionali, è anche al famoso Gruppo di Drenica, il manipolo che ai tempi parlava col Pentagono: Thaci è finito alla sbarra con una decina di vecchi compagni di guerriglia. A dimostrazione che si fa sul serio, a Pristina è stato arrestato un altro ex presidente a interim, Jakup Krasniqi. Perché L'Aja sostiene che almeno un paio di volte la dirigenza kosovara abbia cercato di sabotare le indagini e ci siano state fughe di notizie: «S' è impiegato vent' anni a demolire una certa cultura dell'impunità - commenta un portavoce di Amnesty International - ma ora le vittime di guerra potranno sapere la verità su delitti orribili». Non abbiamo niente da nascondere, ci disse Thaci poco tempo fa in un'intervista: «A differenza dei serbi, noi siamo sempre andati all'Aja senza resistenze. Nessuno è mai scappato. È questo il prezzo della nostra libertà. Ma giudicare noi, è un'ingiustizia: le vittime vengono equiparate ai carnefici. È come se si fossero processati gli ebrei anziché i nazisti». Ieri il Serpente ha ripetuto cose simili, «orgoglioso d'aver combattuto al fianco della Nato contro Milosevic». Ha spiegato che le sue dimissioni da presidente sono per «proteggere l'integrità dello Stato», anche se ad aprile scade il mandato e il suo partito, il Pdk, difficilmente riuscirà a mantenere la poltrona. L'interim è stato dato alla giovane presidente del Parlamento, Vjosa Osmani. È una giurista, ha difeso l'indipendenza del Kosovo nelle corti internazionali. Ai tempi della guerra, andava ancora al liceo. E con quei laghetti, con quelle case gialle lei non c'entra proprio.
Kosovo, Thaci si difende in aula dalle accuse di crimini di guerra: "Mi dichiaro non colpevole". La Repubblica il 9 novembre 2020. L'ex presidente ed ex leader dell'Uck (nome di battaglia "Il serpente") compare davanti ai giudici del Tribunale speciale dell'Aja. “Vostro onore, queste accuse sono infondate. E io mi dichiaro non colpevole”. Hashim Thaci, l’ex presidente del Kosovo, dimessosi la scorsa settimana dopo la conferma delle accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, si è presentato con queste parole oggi in aula durante la prima udienza al Tribunale speciale dell’Aja che sta indagando sui crimini dell’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo. I capi d'accusa indicano che crimini di guerra relativi ad arresti e detenzioni illegali o arbitrarie, trattamento crudele, tortura e omicidi, e crimini contro l'umanità relativi a imprigionamento, altri atti disumani, tortura, omicidio, sparizioni forzate di persone e persecuzione, sono stati commessi "quantomeno" dal marzo 1998 al settembre 1999, durante la guerra contro la Serbia. Tali crimini sarebbero stati perpetrati da Thaci, l'ex leader del Partito democratico del Kosovo (Pdk) Kadri Veseli, Rexhep Selimi e Jakup Krasniqi - tutti ex leader dell'Uck - in diverse località del Kosovo, oltre che a Kukes e Cahan nel nord dell'Albania, "contro centinaia di civili e persone che non prendevano parte alle ostilità". Le vittime includevano persone sospettate di essere oppositori dell'Uck: nello specifico serbi, rom, ashkali, cattolici, civili considerati presunti collaboratori delle autorità della Serbia, albanesi affiliati o sostenitori della Lega democratica del Kosovo o altri partiti considerati anti-Uck, albanesi che non si univano alla lotta dell'Uck. Giovane indipendentista, rifugiatosi in Svizzera all'inizio degli anni '90 dove partecipa alla fondazione dell'Uck, durante gli anni della guerra con la Serbia Thaci diventa il leader politico dell'Esercito di liberazione: nome di battaglia "Il serpente". Primo ministro per tre mandati, dal 2016 al 2020 è stato presidente della Repubblica del Kosovo, autoproclamatasi indipendente dalla Serbia nel 2008 e che il governo di Belgrado continua a non riconoscere.
· Quei razzisti come i Greci.
Alba Dorata: da terzo partito a organizzazione criminale. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'8 ottobre 2020. Il 7 ottobre è stata messa la parola fine a uno dei capitoli più controversi e violenti della storia recente greca: Alba Dorata. Il fu terzo partito più votato della Grecia negli anni più bui e drammatici della crisi economica è stato dichiarato ufficialmente un’organizzazione criminale e i suoi membri, incluso il fondatore, sono in attesa di ricevere delle sentenze che si preannunciano molto severe.
La sentenza. Al termine di cinque anni di udienze, iniziate nell’aprile 2015, il tribunale di Atene presieduto dalla giudice Maria Lepeniotou ha raggiunto il verdetto: Alba Dorata non è un partito politico, è un’organizzazione criminale che ha fatto ricorso alla violenza sistematica per intimidire immigrati e sinistra radicale, lasciando a terra decine di feriti e anche dei morti. L’intera dirigenza è stata condannata per reati legati all'”aver guidato un’organizzazione criminale”: Nikos Michaloliakos, il fondatore, e gli ex parlamentari Christos Pappas, Artemis Matthaiopoulos, Ilias Panagiotaros, Ilias Kasidiaris, Yiannis Lagos e Giorgos Germenis. Altri due ex parlamentari, Giorgos Patelis e Anastasios Pantazis, sono stati invece accusati di reati legati alla “partecipazione ad un’organizzazione criminale”. Sotto processo si trovano complessivamente sessantotto persone fra ex dirigenti, ex parlamentari e attivisti, le quali, adesso, sono in attesa di ricevere le sentenze che, sulla base di quanto stabilito dalla corte, si prospettano molto severe. Sulla base delle prove raccolte degli investigatori, che la giustizia ha ritenuto essere valide, Alba Dorata è stata bollata come “un’organizzazione criminale che, assumendo la forma legale di un partito, ha goduto di una protezione costituzionale rafforzata”. Ma quel periodo di tutela, garantita dall’entrata in Parlamento del 2012, dal 7 ottobre è finito definitivamente e per il partito-organizzazione criminale è iniziato ufficialmente il conto alla rovescia verso lo smantellamento. Un ruolo fondamentale nell’allestimento dell’intero processo, e nel raggiungimento di un simile verdetto, è stato giocato dall’assassinio del rapper antifascista Killah P, compiuto nel 2013 da un commando di Alba Dorata. Per quella morte sono imputate quattordici persone, ognuna di essere accusata di partecipazione nell’omicidio, anch’esse in attesa di ricevere la sentenza.
Terza forza politica nazionale. Quella di Alba Dorata è una parabola divisa in due fasi: una lenta ascesa e una caduta repentina. Fondata nel 1985 da Nikos Michaloliakos, un nostalgico della dittatura dei colonnelli, si trasforma in un partito politico nella decade successiva ma senza mai ottenere risultati tali da permettere l’elezione di politici, neanche a livello locale. Alle parlamentari del 1996, il primo appuntamento elettorale per il partito, Alba Dorata ottenne lo 0.1% dei voti. Sedici anni dopo, alle parlamentari di maggio 2012 – ripetute il mese successivo nell’impossibilità di formare un esecutivo – il partito ottenne un risultato straordinario: quinta forza politica nazionale con il 7% dei voti, ossia quasi 441mila schede. La storica prestazione fu replicata in giugno (6.9% dei voti), consacrando l’entrata definitiva di Alba Dorata nel parlamento ellenico, anche se in opposizione. Nonostante l’ostilità dei partiti tradizionali e della grande stampa e la presenza di deputati fuori dalle righe, spesso espulsi dalle sedute per il loro comportamento aggressivo e/o per il ricorso ad un bagaglio comunicativo neonazista, Alba Dorata continuò a crescere ininterrottamente nei tre anni successivi alle parlamentari del 2012, convertendosi nella terza forza della nazione alle legislative del 2015, dove ottenne nuovamente il 7% delle preferenze. Ma il risultato più elevato che il partito abbia mai raggiunto è stato conseguito nel 2014. Quell’anno, in occasione delle europee, il 9.4% dell’elettorato decise di inviare politici di Alba Dorata a Bruxelles, ossia 536mila votanti; un chiaro messaggio indirizzato all’Unione Europea da parte del martoriato popolo greco.
Alba Dorata, non solo neonazismo. Nel 2015, quindi, i greci votarono in massa due partiti caratterizzati da delle piattaforme ideologiche diametralmente opposte: Syriza, di sinistra radicale, e Alba Dorata, di estrema destra. Quest’ultima viene spesso dipinta (a ragione) come un’entità di ispirazione neonazista, mescolante nostalgia della dittatura dei colonnelli ed euroscetticismo, ed è proprio su quest’ultimo punto che si concentra la grande maggioranza degli analisi effettuate sul fenomeno Alba Dorata. In breve, la letteratura ha interpretato Alba Dorata come un prodotto scaturito dalla tremenda crisi economica che ha avvolto la Grecia a partire dal 2009, devastando ogni settore produttivo e cambiando profondamente ogni aspetto della quotidianità, ma si tratta di una lettura semplicistica che non tiene conto di altri fattori. Alba Dorata è stata qualcosa di più che il frutto del malessere popolare legato alla disoccupazione e ai dettami della celebre Troika: oltre alle mense e alle raccolte fondi per i poveri, essa aveva istituito dei programmi ed eventi culturali per esaltare l’identità nazionale in un’epoca di vergogna per la propria condizione e aveva allestito delle ronde per riportare l’ordine nei quartieri più pericolosi delle grandi città, sostituendosi alle forze dell’ordine. Non è un caso, quindi, che il fenomeno Alba Dorata sia stato visto in maniera estremamente positiva da parte della polizia ellenica, quantomeno dal 2009 al 2013. Secondo alcune indagini, in occasione delle legislative del 2012 più di un poliziotto su due avrebbe dato il proprio ad Alba Dorata. In breve, questo partito non proponeva soltanto un piano di rinascita economica, era fautore di una visione nazionale basata sul recupero di valori tradizionali, sulla costruzione di una società fondata su ordine, giustizia e disciplina, e sulla riattivazione di una politica estera autonoma: fu votato anche, e soprattutto, per questo.
Il declino: dai raid anti-immigrati agli omicidi. Il declino di Alba Dorata è iniziato nello stesso momento in cui ha fatto ingresso nel parlamento ellenico: un’assioma, più che un’ipotesi. La caduta rapida, rovinosa e inarrestabile è stata provocata dalla stessa dirigenza, con a capo Michaloliakos, la quale non ha mai compreso una verità molto semplice, ovvero che un partito, legale e istituzionalizzato, non può agire al di fuori e al di sopra della legge come, appunto, un’organizzazione criminale. Il consenso avrebbe potuto essere incrementato in svariati modi, come ad esempio l’utilizzo ingegnoso di una parte degli stipendi dei parlamentari per finanziare attività caritatevoli già in essere, ma, paradossalmente, l’ingresso nell’architettura istituzionale ha dato impulso ad un processo di regressione culminato in un’involuzione criminale. Le ronde contro il degrado e la criminalità hanno assunto la forma di cacce all’immigrato, al di là dell’appartenenza effettiva o meno delle vittime a delle bande, i deputati eletti si sono resi protagonisti di attacchi fisici contro i colleghi e altri gesti eclatanti che hanno screditato l’immagine del partito anche presso gli stessi elettori e, infine, la lotta contro la sinistra radicale è stata spostata dalle scuole alle piazze, toccando periodicamente dei nuovi picchi di violenza. Ed è in quest’ultimo ambito che si origina la fine del fenomeno Alba Dorata: il 18 settembre 2013 alcuni militanti del partito uccidono a coltellate il rapper antifascista Pavlos Fyssas, in arte Killah P, provocando un’ondata di sdegno a livello nazionale che ha delle ripercussioni legali immediate. A un mese e mezzo di distanza dalla scomparsa del rapper avviene la rappresaglia: un commando appartenente alla galassia dell’anarco-comunismo fa fuoco contro gli uffici di Alba Dorata ad Atene, lasciando a terra due morti. Sullo sfondo dell’accoltellamento e dell’attentato aumenta sensibilmente l’insicurezza nelle strade greche per via degli scontri sempre più frequenti tra opposti estremismi, ragion per cui le autorità decidono di smorzare la tensione con uno stratagemma: utilizzare la morte violenta di Killah P per montare un caso contro l’intero partito. La combinazione di indagini delle forze dell’ordine, auto-sabotaggio continuo, crimini efferati e pressione mediatica, si rivela fatale in occasione delle legislative dello scorso: Alba Dorata non riesce a superare la soglia di sbarramento, ottenendo il 2.93% delle preferenze e uscendo dal parlamento. La pesante sconfitta spiana la strada all’accelerazione del maxi-processo, di cui si attendono, ormai, soltanto le sentenze.
· Quei razzisti come i Giapponesi.
Da theguardian.com il 17 dicembre 2020. La decisione del Giappone di resistere alle pressioni internazionali per migliorare le condizioni delle galline ovaiole è finita sotto esame dopo le accuse di corruzione che coinvolgono un ex ministro dell'agricoltura. Takamori Yoshikawa, membro del Partito Liberal Democratico (LDP) e ministro dell'agricoltura da ottobre 2018 a settembre 2019, avrebbe accettato donazioni non dichiarate di 5 milioni di yen (36.000 sterline) da un ex rappresentante di un importante produttore di uova a Hiroshima, Giappone occidentale. Secondo quanto riferito, il primo dei tre presunti pagamenti sarebbe stato effettuato circa due mesi dopo che l'Organizzazione mondiale per la salute animale (Oie) ha emesso una nuova bozza di linee guida per i produttori di uova con l’obiettivo di liberare i polli dalle loro gabbie anguste e installare invece nidi e posatoi più grandi e più comodi. Yoshikawa, che rappresenta un distretto di Hokkaido, la più settentrionale delle isole principali dell'arcipelago giapponese, parlando coi giornalisti ha negato di aver ricevuto denaro contante. I pubblici ministeri stanno indagando sulle accuse, che sono fonte di imbarazzo per il primo ministro giapponese, Yoshihide Suga, noto per essere vicino a Yoshikawa. Dato che quasi tutti i produttori di uova giapponesi utilizzano gabbie vietate dall'Ue nel 2012, conformarsi al cambiamento avrebbe significato effettuare costose ristrutturazioni agli allevamenti. L'industria del pollame giapponese ha tradizionalmente fatto pressioni per tenere i polli nell’attuale situazione, con più galline stipate in gabbie metalliche: una pratica che l'Autorità europea per la sicurezza alimentare ha condannato, affermando che così gli animali sono più a rischio malattie. Nonostante il cambiamento globale verso l'abolizione di questo tipo di gabbie, il 94% degli allevatori di pollame in Giappone continua a usarle per le galline domestiche, secondo un rapporto del 2019 dell'International Egg Commission citato dal Japan Times. Nel gennaio 2019, il governo ha dichiarato di opporsi alla bozza di linee guida dell'Oie sulla base del fatto che le nuove disposizioni per l'allevamento del pollame aumenterebbero il numero di uova rotte e sporche e porterebbero a un più alto tasso di mortalità tra i polli. L'Oie, di cui fa parte il Giappone, da allora ha annacquato le sue indicazioni, affermando che l'uso di cassette nido e trespoli era "desiderabile" invece che obbligatorio. Ovviamente sulla questione sono intervenuti anche gli attivisti per i diritti degli animali. L'Animal Rights Center Japan ha affermato che invece di prolungare la sofferenza dei polli l'industria dovrebbe “lavorare con i governi e i legislatori per migliorare il benessere degli animali”. Ha esortato l'industria a "tenere il passo con le tendenze globali del benessere degli animali piuttosto che aggrapparsi allo status quo" per proteggere i suoi profitti. Yoshikawa, 70 anni, si è dimesso da due incarichi LDP all'inizio di questo mese, dicendo che era in cura in ospedale per un problema cardiaco. Ha promesso di "rispondere sinceramente" agli investigatori se convocato per un interrogatorio.
Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 7 dicembre 2020. «Eravamo solo dei ragazzi. Uguali a quelli che oggi vanno al liceo. Non eravamo pazzi esaltati, non eravamo eroi. Eravamo solo dei ragazzi». Se Kazuo Odachi si è deciso a parlare, a 93 anni, è perché sa che se non lo farà lui, sui kamikaze scenderà il silenzio per sempre. Resterà solo un' iconografia tradizionale e spesso superficiale di pazzi suicidi, in fondo privi di ogni umanità, obiettivi da abbattere. Odachi è uno degli ultimi superstiti di un gruppo che non avrebbe dovuto sopravvivere. A 17 anni, nel 1943, si arruolò nella marina imperiale e entrò a far parte della Yokaren, un programma di addestramento veloce per studenti volontari. Divenne un kamikaze. Sette volte partì in missione, sette volte fallì: sopravvisse, non avendo incontrato nemici. L' ottava volta, mentre stava per decollare con una bomba da tonnellate, arrivò la notizia della resa del Giappone. Tornò a casa il giorno dell' ultimo dell' anno del '45. Il treno passava per la città di Hiroshima: capì quello che la resa significava. Bruciò nel caminetto del salone la sciabola del giuramento e ricominciò a vivere, cercando di dimenticare. Del suo passato di kamikaze non ha parlato a nessuno per decenni: non a sua moglie, non ai colleghi poliziotti, non ai figli, non agli amici. Ma mai ha smesso di andare a raccogliersi al santuario di Yasukuni, dove si venerano «le anime dei soldati morti per l' imperatore». Poi, alcuni anni fa, ha deciso che avrebbe raccontato. Non tanto il suo «segreto», ma la «verità» su quei ragazzi. La sua 'Biografia di un Kamikaze'' è uscita prima in giapponese, poi, meno di due mesi fa, in inglese, 'Memoir of a kamikaze'', pubblicato da Tuttle. Dopo una carriera nella Polizia, Odachi è libero di praticare oggi la sua vera passione, il kendo, arte marziale che insegnava anche ai bambini, prima che l' epidemia lo costringesse a casa. Vorrebbe solo, come ha spiegato anche al New York Times, che non si dimenticasse che «il meraviglioso paese che il Giappone è diventato, si è costruito anche sulle loro morti».
GLI AEREI. Nato vicino alla base aerea di Tokorozawa, racconta come fin da piccolissimo fosse affascinato dagli aerei, e come fin da piccolissimo avesse assimilato l' idea che non sarebbe vissuto a lungo. Arruolarsi volontario fu naturale e, dice, «oggi non lo rimpiango, so che non avrebbe potuto essere altrimenti». Nel 1944 si ritrovò con la sua squadra nella Taiwan occupata dai giapponesi. «In fondo sapevamo che la sconfitta era inevitabile», dice, ma fu proprio allora che i superiori ci chiesero il più grande sacrificio: «Eravamo pronti a morire per proteggere chi amavamo, non perché ci esaltava buttare via le nostre vite». Le istruzioni erano succinte, anche se con retorica: «ci dicevano che dovevamo scolpire il nemico con le nostre eliche», il che significava lanciare i loro caccia Zero zavorrati con bombe che pesavano tonnellate sulle portaerei e gli incrociatori alleati per distruggerli, «significava morte certa, ma almeno avremmo portato il nemico con noi». Nell' ottobre del 1944 partecipa alla battaglia per il Golfo di Leyte, che si concluse con una disfatta per il Giappone. «La prima volta che chiesero chi si portava volontario, nessuno rispose racconta Soltanto quando gli ufficiali cominciarono ad arringare, qualcuno, cominciò ad alzare la mano. In poche parole: ci istigavano al suicidio». Per sette volte toccò a lui, ma ogni volta qualcosa andò storto e lui tornò alla base. «Ogni sera gli ufficiali annunciavano chi sarebbe andato il giorno dopo, ci sentivamo come condannati a morte». Odachi è oggi un signore in piena forma, molto sorridente e pieno di spirito. Pensa che la costituzione pacifista del Giappone sia la migliore del mondo, ma anche che ogni paese «ha il diritto sacrosanto di difendersi».
"Affrontare la massa di schiavi". Mishima e la guerra al mondo moderno. Nel 1968, Mishima pubblica La difesa della cultura - ora disponibile per la prima volta ai lettori italiani grazie a Idrovolante edizioni - in cui si scaglia contro la debolezza del Giappone moderno. Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. Visse poco, Yukio Mishima. Appena 45 anni: dal 1925 al 1970. In mezzo la Seconda guerra mondiale, una carneficina tremenda alla quale non partecipò. Un po' perché suo padre era un alto funzionario della corte dell'imperatore, un po' perché Kimitake Hiraoka (questo il suo vero nome) finse i sintomi di una tubercolosi e se ne stette a casa. Vide i suoi amici partire per il fronte e mai più ritornare. Lui, gracile e con gli occhiali, se ne stava ore e ore a studiare. Un topo di biblioteca in grado di alzare solamente la penna. Pallido e magro, dedicava le sue giornate alla lettura e a racimolare qualche notizia sul conflitto. Come è noto, per il Giappone le cose andarono molto male. Sfidò il colosso americano nel Pacifico, ma non potè nulla. Gli aerei dei kamikaze si fiondavano sulle navi americane. Sotto di loro c'era solo l'oceano. Sopra, invece, il cielo sempre più bianco. In mezzo i velivoli con la bandiera del sol levante. È la guerra, ma per Mishima diventerà filosofia vissuta e arte. Che cos'è il coraggio se non guardare?, scriverà anni dopo ne La voce degli spiriti eroici. Ma guardare a volte è impossibile. Nell'agosto del 1945 gli americani sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Negasaki. Un'azione non necessaria, volta più a impaurire la Russia sovietica che a piegare un Giappone già fiaccato da anni di guerra. Una tragedia umana infinita, alla quale ne seguirà una spirituale: l'imperatore venne costretto ad ammettere di essere un comune mortale. Non era più dio. Era solo un uomo. Per migliaia di giapponesi fu la fine di un'era. Nei palazzi imperiali gli uomini sguainarono le spade, si tastarono il ventre e poi affondarono la lama. Offrirono la loro vita all'impero che fu. Mishima visse tutto questo quando aveva solamente vent'anni. I suoi coetanei erano pochi e, quei pochi, erano visti con sospetto. Perché la loro vita era stata risparmiata? Perché non avevano versato il sangue per salvare la divinità dell'imperatore? Dalle macerie, il Giappone si rialzò tutto sommato in fretta. Negli anni Sessanta si trovò - come il nostro Paese, altro grande sconfitto del conflitto - in pieno boom economico. Emerse una nuova figura all'interno della nazione, quella del lavoratore indefesso, inchiodato per dodici e più ore al proprio posto, per poi tornare a casa sfinito e magari, come riportano i video dei giorni nostri, distrutto dall'alcool. Una vita svuotata, da larve. Che, verrebbe da dire, non è vita. O almeno vita che val la pena vivere. Nel 1968, Mishima pubblicoò La difesa della cultura - che ora esce per la prima volta in Italia grazie a Idrovolante edizioni - in cui si scagliò contro il "culturalismo", "quel borioso disvalore che costringe i popoli ad ostentare solo alcuni aspetti della propria cultura a scapito di altri quasi da "rinnegare", "nascondere", o "disorcere" fino quasi all'autodistruzione", come scrive Daniele Dell'Orco nella sua prefazione al volume. Non era un nostalgico, Mishima. Sapeva che un'epoca era ormai chiusa e che ne era iniziata un'altra. Ma lui, in questo nuovo Giappone, non poteva vivere. Forse perché, proprio come durante la guerra, era rimasto l'unico superstite. Solo, con un drappello di amici e commilitoni del Tate no kai, il suo esercito privato. Sapeva di essere minoranza: "Noi invece ci mettiamo dalla parte dei forti e partiamo come minoranza. La limpidezza, la franchezza, l'onestà, l'elevatezza morale dello spirito giapponese, sono cosa nostra". I nemici, per Kimitake Hiraoka, erano due: il comunismo e l'americanismo, che tolgono la dimensione verticale - quindi spirituale - dalla vita. Una battaglia culturale e, per ciò stessa, violenta: "La nostra controrivoluzione consiste nel respingere il nemico sul bagnasciuga, e il bagnasciuga non è quello del territorio giapponese, ma la diga dei frangiflutti dello spirito di noi giapponesi uno ad uno. Bisogna affrontare la massa degli schiavi rivoluzionari, con il gegato di chi va anvanti da solo anche se gli atlri fossero milioni. Non bisogna curarsi degli insulti e delle calunnie, dello scherno e delle provocazione della folla, ma bisogna affrontarla decisi fino alla morte, per riscegliare quello spirito giapponese che ha corrso. Noi siamo coloro che incarnano la tradizione di bellezza del Giappone". Parole che divennero azione. Il 25 novembre del 1970, insieme a quattro uomini del Tate no Kai, Mishima entrò nell'ufficio del generale Mashita. Lo fece portar via e si affacciò dal balcone, di fronte a un migliaio di uomini. "Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l'esistenza di un valore superiore all'attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo". Rientrò nell'edificio. Mishima replicò quanto fatto dai funzionari dell'imperatore al termine della seconda guerra mondiale: sguainò la spada, si tastò il ventre e poi affondò la lama. Offì la sua vita all'impero che fu.
Da ilmessaggero.it il 28 agosto 2020. Il premier giapponese Shinzo Abe ha deciso di dimettersi per motivi di salute. Le preoccupazioni per la salute di Abe sono aumentate dopo i due ricoveri in ospedale nella scorsa settimana. Nei giorni scorsi funzionari del partito di governo, Lpd, avevano cercato di smentire le voci riguardo alla possibilità che Abe potesse per motivi di salute non completare il mandato che scade a settembre del prossimo anno. «Il mio attuale stato di salute, a seguito dei recenti controlli, non mi consente di concentrarmi sulle questioni più importanti che riguardano il governo, ed è il motivo per cui intendo farmi da parte», ha detto il premier nel corso di una conferenza stampa trasmessa in diretta dalle reti nipponiche. Abe è stato già costretto dalla sua malattia, un disturbo intestinale chiamato rettocolite ulcerosa, a rinunciare all'incarico di premier nel 2007, appena un anno dopo l'elezione. È tornato al potere nel dicembre del 2012 e lunedì scorso, con 2799 giorni consecutivi al potere, ha superato il precedente record di longevità di un premier giapponese, ce era stato registrato da un suo prozio, Eisaku Sato, al governo dal novembre del 1964 al luglio del 1972. Se confermata la notizia delle dimissioni, Abe lascia il governo in un momento in cui il Giappone deve fare i conti con una ripresa dell'epidemia di Covid, con bilanci quotidiani che ad agosto hanno di frequente superato i mille casi, e con la conseguente crisi economica. Sulla scia delle indiscrezioni delle imminenti dimissioni del premier giapponese Shinzo Abe, è già partito il totonomine dei media nipponici sul possible successore del capo dell'esecutivo. A guidare la lista ancora un a volta il 63enne Shigeru Ishiba, già ministro della Difesa e precedente sfidante di Abe alla guida del partito liberal-democratico. Tra i favoriti anche l'attuale ministro della Difesa Taro Kono, che ha ricoperto anche il ruolo di ministro degli Esteri nel precedente consiglio dei ministri di Abe. Nella lista anche l'attuale capo della commissione di vigilanza del partito conservatore, Fumio Kishida, il 71enne capo di Gabinetto Yoshihide Suga - uno dei più fedeli alleati di Abe - e il ministro delle Finanze Taro Aso, che ha già servito come capo del governo per un breve periodo alla fine del 2008.
(ANSA il 28 agosto 2020) - Sulla scia delle indiscrezioni delle imminenti dimissioni del premier giapponese Shinzo Abe, è già partito il totonomine dei media nipponici sul possible successore del capo dell'esecutivo. A guidare la lista ancora un a volta il 63enne Shigeru Ishiba, già ministro della Difesa e precedente sfidante di Abe alla guida del partito liberal-democratico. Tra i favoriti anche l'attuale ministro della Difesa Taro Kono, che ha ricoperto anche il ruolo di ministro degli Esteri nel precedente consiglio dei ministri di Abe. Nella lista anche l'attuale capo della commissione di vigilanza del partito conservatore, Fumio Kishida, il 71enne capo di Gabinetto Yoshihide Suga - uno dei più fedeli alleati di Abe - e il ministro delle Finanze Taro Aso, che ha già servito come capo del governo per un breve periodo alla fine del 2008. La Borsa di Tokyo vira subito in negativo dopo le anticipazioni dei media nipponici sulle dimissioni del premier giapponese Shinzo Abe. Quando mancava più di mezz'ora dalla chiusura il Nikkei cedeva oltre il 2%, tornando sotto quota 23.000 e perdendo quasi 500 punti. Sul mercato valutario lo yen guadagna terreno sul dollaro a un livello di 106,70 e a 126,20 sull'euro.
Abe si è dimesso: così ha cambiato il Giappone. Andrea Muratore il 28 agosto 2020 su Inside Over. Il premier giapponese Shinzo Abe, annuncia le proprie dimissioni dopo quasi otto anni consecutivi di governo. La motivazione sarebbe da ricondurre ai dolorosi affanni causati da un male cronico, la colite ulcerosa, di cui Abe soffre dall’età di 17 anni. Quando nell’arco di pochi giorni, nelle scorse settimane, è circolata la notizia che il primo ministro giapponese si era recato nell’Ospedale dell’Università di Keio per dei controlli sulla sua condizione fisica le voci hanno iniziato a circolare, per poi diventare in seguito sempre più pressanti. La salute personale del premier potrebbe dunque riuscire laddove tre elezioni (2012, 2014, 2017) e numerose sfide alla sua leadership nel Partito Liberal-Democratico da lui guidato non sono riuscite: sottrarre ad Abe il controllo dell’agenda politica giapponese e dell’azione di governo, da lui rilanciata a partire da quel 26 dicembre 2012 in cui la Dieta del Giappone, il parlamento nipponico, lo elesse nuovamente primo ministro dopo la fugace esperienza di governo del 2006-2007. Abe, nato nel settembre 1954 nella capitale nipponica da una famiglia usa da tempo a frequentare i palazzi del potere di Tokyo, figlio di Abe Shintaro, che fu Ministro degli Esteri negli Anni Ottanta, nipote di un deputato per via paterna (Abe Kan) e di un primo ministro (Kishi Nobusuke, in carica dal 1957 al 1960) per via materna, nel corso della sua lunga leadership ha collezionato importanti risultati che hanno cambiato il quadro politico giapponese. Abe ha impostato una piattaforma politica estremamente ambiziosa capace di rilanciare le prospettive strategiche ed economiche di Tokyo nel contesto globale e mirato a stimolare un’innovazione profonda dell’architettura istituzionale e costituzionale emersa dalla sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale. Fieramente conservatore, membro dell’ala più rigorista del partito di centro-destra di cui fa parte, Abe ha portato nei palazzi del potere di Tokyo una mentalità più aperta a iniziative strategiche consolidate rispetto ai suoi predecessori, a lungo focalizzati sul mantenimento del benessere economico e materiale del Paese con politiche di piccolo e medio cabotaggio. Membro della società Nippon Kaigi, che si batte per rilanciare il senso di orgoglio e appartenenza nazionale nel sistema-Paese nipponico, valorizzare nuovamente la figura politica dell’imperatore e superare l’eredità ideologica e materiale della seconda guerra mondiale Abe ha trasmesso in proposte politiche la sua visione. Ed è significativo per capire la sua parabola politica partire dalle opere incompiute: Abe ha per otto anni inseguito il superamento della clausola pacifista insita nell’Articolo 9 della Costituzione elaborata dopo la resa agli Alleati nel 1945. Paravento istituzionale per giustificare strategie più assertive sul fronte internazionale, rafforzamenti dell’apparato militare, rilancio di una retorica patriottica che in Giappone non si vedeva dai tempi della guerra. Obiettivo che si è rivelato, in fin dei conti, quasi utopico in una società come quella giapponese, abituata da tempo al benessere diffuso, ma che dà l’idea della duplice natura del leader Abe: un concentrato di idealismo e realismo, un uomo forte capace di leggere lucidamente la sua epoca ma saldo nelle proprie convinzioni ideologiche. Sotto certi punti di vista, ma con tutti i dovuti distinguo del caso, un personaggio non troppo diverso dal presidente cinese Xi Jinping in quanto a differenza rispetto ai disegni dei predecessori. Abe ha comunque sdoganato la possibilità per le forze armate nipponiche di partecipare a missioni internazionali, inserito la competizione con la Cina e l’alleanza con gli Stati Uniti in un’architettura più ampia in cui Tokyo ha potuto coltivarsi autonomamente spazi diplomatici (come i progetti geoeconomici o l’alleanza con India e Australia) e tornare attore di primo piano. Poco successo hanno avuto invece le pressioni sul neo-imperatore Naruhito affinché, dopo l’abdicazione del padre Akihito assumesse un più spiccato ruolo politico. “Ordine e armonia”, il significato del termine Reiwa con cui Naruhito ha denominato la sua era imperiale, non coincide fino in fondo con l’idea politica di Abe. Sull’economia Abe ha rotto la tradizionale linea rigorista e neoliberista del suo partito lanciando le politiche di ampio respiro della Abenomics, un programma ultra-keynesiano di spesa pubblica alimentato dalla dilatazione dei bilanci della Bank of Japan e finalizzato a riportare livelli di crescita e investimento sostenuti nel Paese. Il programma ha aumentato, sotto diversi punti di vista, la sostenibilità del debito pubblico giapponese incrementando la presa su di esso della BoJ, ma al contempo ha risentito di tutti i problemi tipici dei quantitative easing: un’eccessiva postura finanziaria. “Sebbene gli investimenti privati in Giappone siano aumentati negli ultimi anni, gli analisti sono concordi sul fatto che quelli aziendali dovrebbero essere molto più sostenuti, alla luce delle riforme fatte”, fa notare l’Ispi. Nonostante i profitti record delle società, negli ultimi sei anni, gli investimenti hanno registrato solo un aumento moderato ma l’aumento previsto dei salari giapponesi – una delle condizioni preliminari di una sana inflazione – non si è ancora materializzato. Tutto ciò ha determinato crescenti preoccupazioni relative alla sostenibilità delle riforme intraprese.” Sul lungo periodo Abe ha individuato nella riduzione delle imposte alla classe media, passate dal 37 al 32% con prospettive di tagli al di sotto del 30%, nell’attrazione di manodopera straniera nei settori qualificati e nell’inversione del declinante trend demografico le politiche da attuare contemporaneamente ai progetti di espansione della base monetaria. Tali progetti, dopo le dimissioni, saranno lasciati in campo al suo successore, che potrebbe essere l’unico membro del governo con esperienza da premier, il vice di Abe Taro Aso, in carica tra il 2008 e il 2009 alla guida del Paese e dal 2012 “zar” della politica economica come ministro delle Finanze. Cattolico, prossimo agli 80 anni, Aso è un custode della linea politica portata avanti da Abe nel lungo periodo da premier, ed è forse addirittura più tenace nelle sue convinzioni rispetto al compagno di partito. La successione non sarebbe, dunque, una vera eredità, ma avverrebbe nella continuità, con l’unica differenza del diverso carisma tra Abe e il più schivo Aso. Una scelta che sostanzialmente non modificherebbe le linee prospettiche disegnate da Abe alla guida del Paese.
Quelle donne dai corpi tatuati che sfidavano religione e leggi. Per molto tempo in Giappone i tatuaggi sono stati visti come il simbolo del male. Poi qualcosa è cambiato...Andrea Indini, Domenica 23/08/2020 su Il Giornale. “Kenzo non poteva vedere il viso del tatuatore, che gli dava le spalle, ma riusciva a distinguere il movimento preciso delle mani. Con il pollice e l’indice della mano sinistra tendeva la pelle, mentre nel medio e l’anulare della stessa mano stringeva tre pennelli. Servendosi poi del polpastrello sinistro come di una leva, con la destra faceva penetrare nella pelle uno dopo l’altro, su e giù, gli aghi raccolti in un mazzo, producendo una specie di lievissimo scoppiettio”. Nel secondo dopo guerra gli irezumi, i tatuaggi tradizionali, sono ancora vietati per legge in tutto il Giappone. Solo gli uomini della yakuza, le donne di malaffare e, più in generale, le classi sociali più basse sono disposti ad arrischiarsi in uno studio illegale per farci incidere tutta la schiena. Ed è in una Tokyo sordida, ancora devastata dai bombardamenti è resa insicura dalla povertà, che viene ritrovato in una stanza chiusa dall’interno il cadavere di una donna bellissima. È stato fatto a pezzi e ne sono rimasti solo gli arti. Il tronco, prima completamente ricoperto da un serpente e da un Orochimaru. Il drammatico omicidio di Kinue è solo il primo di una lunga scia di sangue che si dipana nel romanzo di Takagi Akimitsu (1920-1995): Il mistero della donna tatuata (Einaudi). “Pochi al mondo conoscono la bellezza dell’irezumi - il tatuaggio. E ancora meno sono coloro che subiscono il fascino insito nel gesto di imprimere una vita segreta su un corpo umano. Quell’ignoranza è probabilmente dovuta a tenaci pregiudizi”. Akimatsu, che dopo la laurea decise di fare lo scrittore seguendo la profezia che gli fece un indovino divenendo uno dei più importanti e famosi autori di gialli giapponesi, ci porta in un mondo in cui questo pregiudizio è violentissimo. La maggior parte delle “persone perbene” dà “per scontato che a farsi tatuare sia soltanto la feccia della società”. Questo perché per i giapponesi educati dal pensiero confuciano credono che il corpo ricevuto dai genitori debba essere preservato intatto. Così accade, nell’immediato dopo guerra, che gli irezumi inizino a “contagiare” gli occidentali che si trovano in Oriente. È l’esercito di occupazione che inizia a portarne disegni e tecnica negli Stati Uniti ed è qui che iniziano a tenersi i primi concorsi per eleggere il disegno più bello a cui partecipano anche le persone più in vista. Al concorso organizzato dal Circolo tatuati di Edo, che Akimatsu descrive nel romanzo pubblicato nel 1948, partecipano solo avanzi di galera. E tra questi pure una ventina di donne, il peggio del peggio. La vincitrice è proprio Kinue, figlia di un grande tatuatore Hori’yasu. Troppo sfrontata, troppo bella, troppo disinibita. Così succede che qualcuno la ammazza con qualche goccia di cianuro nascosto in un bicchiere di birra e le deturpa il corpo nel modo peggiore. Il caso viene affidato all’ispettore capo Matsushita che finisce per indagare nei bassi fondi di Tokyo. Qui entra in contatto con spietati uomini d’affari, che fanno i soldi nel mercato nero che prolifera sulle macerie del conflitto mondiale, violenti uomini della yakuza, che entrano ed escono dal carcere, maniaci appassionati di irezumi, che sono disposti a pagare per “strappar via” la pelle tatuata da un cadavere, e una maledizione che grava sulla stessa Kinue e sui suoi due fratelli, anche loro completamente disegnati. Nonostante lo stigma del Confucio e della legge quello che Akimatsu fa emergere in un racconto tanto veloce quanto asciutto è la bellezza di una tecnica e di una una cultura che non può essere relegata nei bassi fondi. Perché soffrire e spendere tanto per poi essere additati da tutti? Nella regione del Kansai l’irezumi viene chiamato anche gaman, ovvero pazienza, perché chi decide di farlo sa che dovrà sopportare sia la spesa sia il dolore. Le sedute dei tatuaggi tradizionali sono molto brevi e l’infezione che ne consegue porta sempre a puntate di febbre a 39 gradi. Eppure molti sono disposti a sfidare tutto questo per avere addosso un disegno che li segnerà per sempre. Tutto questo perché, secondo un noto psicologo, il tatuaggio è un istinto umano primordiale: l’incarnazione perfetta della libido. “Da una parte - spiega - abbiamo un ago acuminato, dall’altra l’epidermide perforata, e il liquido che sgorga. C’è chi dà e chi riceve: si possono chiaramente vedere, in quest’atto, le due facce di una stessa medaglia”. È forse per questo che, quando in Giappone sembrava che la legge è il sentire comune fossero riusciti a sradicare l’irezumi, ecco che questo è risorto dalle sue stesse ceneri. Come la Fenice.
Jing-Jing Lee: «Vi racconto l’inferno delle “donne di conforto” alla mercé dei giapponesi». Orlando Trinchi su Il Dubbio il 23 agosto 2020. Quando Tokyo occupò Singapore nella Seconda guerra mondiale, migliaia di coreane, cinesi e filippine furono ridotte a schiave sessuali. Una vicenda rimossa, oggi raccontata nell’ultimo romanzo di Jing-Jing Lee: “Storia della nostra scomparsa”. Wei an fu, “donna di conforto”: questo l’appellativo riservato alle ragazze – migliaia di coreane, filippine, cinesi – rapite e rinchiuse, nel mezzo dell’occupazione militare da parte del Giappone durante la Seconda guerra mondiale, nelle cosiddette comfort stations ( prigioni- bordello) con l’obiettivo di trasformarle in schiave sessuali. Wang Di, protagonista dell’intenso ed evocativo romanzo di Jing- Jing Lee, Storia della nostra scomparsa ( Fazi Editore), ha soltanto tredici anni quando viene allontanata dal villaggio e dalla sua famiglia all’epoca dell’invasione nipponica di Singapore per essere rinchiusa in una comfort house e diventare un oggetto alla mercé dei militari giapponesi. La sua vicenda si incrocia, sessant’anni dopo, con quella di Kevin, un ragazzo intenzionato a scoprire la verità sulla propria famiglia dopo aver ascoltato le confessioni della nonna in punto di morte. Un romanzo scomodo, doloroso: per scriverlo l’autrice – anche lei nata e cresciuta a Singapore – ha dovuto scavare nella propria storia familiare e riportare alla luce la memoria tormentata di un’intera generazione di donne destinate all’oblio.
Ms. Jing- Jing Lee, cosa l’ha spinta a scrivere una storia drammatica quanto delicata come quella delle comfort women, consumatasi durante l’invasione giapponese di Singapore? Cos’ha significato per lei raccontarla?
«Non avevo intenzione di scrivere un romanzo basato su fatti storici. Ho iniziato a farlo perché uno dei personaggi di una precedente raccolta di racconti ha continuato a indugiare nella mia mente molto tempo dopo la pubblicazione del libro. È stato solo mentre lo scrivevo che ho realizzato che gran parte del romanzo doveva essere ambientato nella Singapore occupata dai Giapponesi. Avvertivo una grande responsabilità nel descrivere le comfort women e la Singapore del 1940 in modo accurato – a tal fine, ho impiegato molto tempo a documentarmi».
Nel romanzo ha evidenziato come alle ragazze recluse vengano imposti dei nomi giapponesi. Cosa questo ha significato per loro?
«A mio avviso, ciò significò molto per loro in termini di proprietà e colonizzazione. È indicativo anche della mentalità del Giappone imperiale nei confronti del resto dell’Asia – ritenevano i non giapponesi alla stregua di subumani. Non so come abbiano giustificato l’attribuzione di un nuovo nome imposto alle ragazze: forse avranno affermato che sarebbe stato più semplice per il personale pronunciare nomi giapponesi, forse era solo per rendere più anonime le ragazze».
«Nella casa bianca e nera – ricorda Wang Di – parlavamo soltanto dei nostri corpi». Cosa rappresentava per le ragazze il loro stesso corpo durante la prigionia nelle confort stations?
«Credo che per loro i corpi rappresentassero principalmente un rimando alla loro vergogna e vulnerabilità. Anche quando sono diventate più grandi, i corpi delle comfort women fungevano come una sorta di promemoria degli orrori che avevano attraversato. Molte di loro hanno contratto malattie sessualmente trasmissibili ( che non sono state adeguatamente trattate in tempo) e hanno avuto problemi di salute per il resto della loro vita; alcune di loro non poterono avere figli per quello che avevano passato. In un documentario intitolato “Because We Were Beautiful”, le vittime indonesiane dell’esercito imperiale giapponese hanno espresso rammarico per essere state tanto desiderabili da avere attirato l’attenzione dei soldati ( da qui il titolo del documentario)».
«Nessuna di noi pronunciò mai la parola "stupro". Non dovevamo farlo». Quanto la creazione di zone grigie – che deriva anche dal non dare il giusto nome alle cose – ha contribuito a dinamiche di violenza e prevaricazione?
«Penso che in realtà non nominare l’atto derivi da un tabù sociale che riguarda lo stupro, cosa che ha contribuito a perpetuare più a lungo il tabù stesso. Si tratta di un circolo vizioso: queste dinamiche creano un contesto in cui alle donne non è permesso parlare di tali problemi – a costo di venire punite per averlo fatto – e il silenzio che circonda la violenza sessuale fa sì che questi tabù rimangano intatti. Il silenzio delle vittime è parte integrante della “scomparsa” di queste donne».
«È una confort woman!» : la vergogna provata dopo la liberazione può essere quasi maggiore delle violenze subite? L’isolamento familiare e sociale ha fatto seguito all’isolamento fisico della detenzione?
«Non credo che queste donne siano state detenute dopo la guerra, ma, in realtà, molte di loro si vergognavano di parlare di quanto era loro accaduto con i familiari. L’isolamento sociale che hanno esperito potrebbe essere terribile quanto la detenzione: in alcuni casi esse sono rimaste nelle stesse zone in cui erano state tradotte ( molte donne coreane, ad esempio, sono state condotte in Manciuria e in Cina), in isolamento sociale, lontane dalle loro comunità e dalle loro famiglie per il resto delle loro vite».
Pio D'Emilia per ''Il Messaggero'' il 7 settembre 2020. Nessuno sa bene quanti siano. Diecimila, ventimila. Qualcuno dice addirittura centomila. È l' esercito dei johatsusha, coloro che evaporano. Mentre diminuisce il numero dei suicidi che resta comunque uno dei più alti al mondo, circa 20 mila l' anno, uno ogni mezz' ora, con preoccupante incremento della fascia dei minori tra i 6 e i 14 anni, tra i quali è la causa di morte più diffusa) ed irrompe il triste fenomeno della kodokushi (morte in solitudine, persone, soprattutto anziani, che si lasciano morire di fame in casa, pur di non disturbare familiari oramai lontani e disinteressati) in Giappone aumenta quello delle persone che, ogni anno, spariscono. Come avviene nel resto del mondo, Italia compresa, si può decidere di sparire per tanti motivi. Quello che è difficile è riapparire, magari a centinaia di km di distanza, e riuscire a condurre una vita (quasi) normale. Senza documenti, e con una, o più, identità inventate. Niente di più facile, in Giappone. Paese in genere percepito come uno stato di polizia, con le autorità che controllano in modo rigoroso ed efficace la popolazione. In parte è vero, ma si tratta di un controllo soft, reso possibile dal consenso sociale e dalla disponibilità dei cittadini a collaborare. Ma in realtà, non è così. Intanto, in Giappone non esiste l' obbligo di possedere e tanto meno di circolare con un documento di identità. Per espatriare, certo, ci vuole il passaporto, per guidare devi avere una patente, e per farsi curare una tessera sanitaria. Ma nessuno di questi documenti è obbligatorio e nessun cittadino può essere fermato come succede da noi per un normale controllo e portato in questura perché non ha documenti. La propria identità, generalmente, viene semplicemente dichiarata, e spesso, ma non indispensabilmente, confermata dalla presentazione di un biglietto da visita. Sul quale, volendo, ci si può scrivere qualsiasi cosa. Stesso discorso per trovare un lavoro. A meno che non si tratti di concorsi pubblici dove occorre allegare una serie di documenti, compreso il cosiddetto koseki - equivalente del nostro stato di famiglia per essere assunti anche a tempo indeterminato basta inviare un semplicissimo curriculum vitae (rirekisho) con una foto. Certo, le aziende possono chiedere ulteriori informazioni, ma in genere non lo fanno. Ancora più facile è accedere al mercato del lavoro precario, vero punto di forza dell' economia giapponese, capace di assorbire ed espellere a seconda della contingenza, milioni di persone. Per lavorare part time, a ore, presso un benzinaio, un conbini (piccoli supermarket aperti 24 ore su 24), un bar o ristorante, basta presentarsi, dare un nome qualsiasi, fare un bell' inchino e darsi da fare. A fine giornata, o settimana, si verrà pagati, in contanti (non è quindi necessario possedere un conto in banca). Insomma, un vero e proprio paradiso per chiunque voglia evaporare, quale che sia il motivo, e in qualche modo riprovarci. Ho conosciuto un ricercato che è riuscito a girovagare per tutto l' arcipelago per 15 anni, periodo dopo il quale in Giappone scatta la prescrizione, per qualsiasi tipo di reato. Diverso tuttavia è l' impatto ed il giudizio, sociale. Che mentre per chi si suicida è improntato al rispetto, per chi evapora è invece molto negativo. Questo sia per motivi etico-culturali – il suicidio in Giappone ha una lunga e condivisa tradizione positiva: la vita appartiene all' individuo, e chi si suicida mostra coraggio e capacità di assunzione di responsabilità – che pratici. Soprattutto per quanto riguarda le famiglie. Che, mentre nel caso di evaporazione debbono aspettare almeno 7 anni per ottenere una dichiarazione di morte presunta, e sono dunque costrette a subire tutte le conseguenze economiche e sociali del fallimento e della fuga del loro congiunto, in caso di suicidio hanno la possibilità di mantenere il loro status e le loro condizioni di vita grazie ai più che cospicui risarcimenti delle assicurazioni. Che nonostante negli ultimi tempi impongano alcune condizioni (tipo aver stipulato il contratto almeno da un anno) sono tra le poche al mondo a pagare anche in caso di suicidio.
Chris Weller per "it.businessinsider.com" il 16 luglio 2020. In giapponese, la parola è johatsu, o gli “evaporati”. Tormentati dalla vergogna per aver perso il lavoro, per un matrimonio fallito, o per un debito, migliaia di cittadini giapponesi pare si siano iniziati a lasciare alle spalle le proprie identità per cercare un rifugio nell’anonimato, mettendosi fuori dalla circolazione. Questo secondo un libro di recente pubblicato chiamato “The Vanished: The ‘Evaporated People’ of Japan in Stories and Photographs (Gli evaporati del Giappone attraverso storie e fotografie) della coppia, lei autrice e lui fotografo, francese Léna Mauger e Stéphane Remael. Il libro, anche in francese, riporta una serie di aneddoti su gente che è scappata dalla società moderna in cerca di una vita più riservata e con meno vergogna. Mauger e Remael hanno trascorso cinque anni viaggiando per il Giappone, iniziando nel 2008, guadagnando la fiducia della gente del luogo per arrivare a conoscere a fondo la triste tendenza. Hanno anche incontrato le persone care di quelli che sono scomparsi: padri, mogli, ed ex amanti abbandonati. Non esistono dati ufficiali del governo su questa tendenza, ma secondo la ricerca della coppia oltre 100mila persone spariscono ogni anno. Nessuna di queste persone scompare fisicamente, in sé e per sé; l’“evaporazione” è più una scomparsa amministrativa. Come per le persone nei Programmi di Protezione Testimoni negli Stati Uniti, i johatsu optano per cambiare i loro nomi, indirizzi, e legami professionali. Possono praticamente fare tabula rasa. In Giappone questa fuga può essere sorprendentemente facile, sostiene Public Radio International (PRI). Le leggi sulla privacy giapponesi danno ai cittadini una grande libertà nel mantenere segreti i loro movimenti. Soltanto in casi criminali la polizia scava nei dati personali della gente, e i parenti non possono consultare i dati finanziari. Come ha detto Mauger al New York Post a dicembre, i casi di scomparsa sono causati dall’enorme pressione che la cultura giapponese mette sul "salvare la faccia". “È un tabù enorme” ha detto Mauger. “È qualcosa di cui non si può realmente parlare. Ma la gente può sparire perché c’è un’altra società sotto la società giapponese. Quando la gente scompare sa che può trovare un modo per sopravvivere”. I casi di johatsu sembrano essere emersi alla fine degli anni Sessanta, supportati da un film del 1967 intitolato “A Man Vanishes”, in cui un uomo improvvisamente si lascia alle spalle lavoro e fidanzata e sparisce. Alla fine degli anni Settanta, sono emersi più casi di giovani lavoratori cresciuti in campagna che scappavano dal lavoro duro verso le città, dice Hikaru Yamagishi, che studia Scienze Politiche a Yale. Un uomo che Mauger e Remael hanno incontrato ha detto che il suo lavoro era quello di trasferire questi johatsu in villaggi e città lontane durante gli anni Novanta. Lui e altri come lui si autodefinivano “traslocatori notturni”. Il loro lavoro consisteva nel portare la gente in nuove location segrete, sotto la copertura dell’oscurità. Secondo PRI gli anni Novanta furono un’epoca di boom per questi “traslocatori notturni”. L’economia era appena crollata e tante persone cercavano una via d’uscita. “È una cosa folle, ma in quegli anni la scomparsa divenne un business” ha detto Mauger a PRI. Nel loro libro, Mauger e Remael gettano anche una nuova luce sulle persone care che vengono lasciate indietro. Spesso le famiglie dei johatsu hanno detto che avrebbero preferito che la persona scomparsa non avesse provato tanta vergogna. “Vogliamo soltanto avere sue notizie, non deve tornare a casa. Se ha bisogno di soldi, glie li mandiamo” ha detto un genitore di un johatsu a Mauger e Remael. L’ossessione giapponese del "salvare la faccia" si manifesta anche in altri modi. Ad esempio la lingua giapponese ha una parola per descrivere i suicidi dovuti ad eccessivo lavoro: karoshi. Lo scorso ottobre, una relazione ha scoperto che oltre il 20 per cento della gente in un sondaggio su 10mila ha detto di lavorare almeno 80 ore di straordinari al mese. Metà di quelli che hanno risposto ha detto di rinunciare a prendersi vacanze retribuite. Negli ultimi mesi, il governo giapponese ha fatto piccoli passi per ridurre i casi di karoshi, come incoraggiare le società a lasciare che i propri dipendenti lavorino meno il venerdì. Secondo gli esperti, comunque, la cultura del lavoro è così forte che per molti gli incentivi ancora non compensano i lati negativi dell’abbandonare. Questo sempre che non scelgano di fare come i johatsu, andandosene sì, ma per sempre.
· Quei razzisti come i Cinesi.
Giulia Zonca per “la Stampa” il 14 dicembre 2020. Per giocare bisogna avere i capelli neri. La regola è capricciosa così come sembra, sbucata in mezzo a molte altre nel codice di comportamento destinato a chi vuole rappresentare la Cina. In qualsiasi modo, anche su un campo da calcio universitario dove le ragazze con la tinta vengono squalificate. Niente colori strani, proibite le meches, per non parlare dei colpi di sole, severamente osteggiati gli schiarimenti, vade retro la decolorazione, i ciuffi vivaci e soprattutto il rosa che spopola nel calcio femminile perché lo porta Megan Rapinoe: campionessa mondiale, Pallone d’oro e faccia di ogni ribellione. Lei si è messa in ginocchio contro la discriminazione, si è presentata in tribunale per la parità di salario, si è votata al fucsia per mettere un accento che ora in molte replicano, richiamano e omaggiano. Ma la Cina oggi ha un solo punto di riferimento concesso, il presidente Xi Jinping che pretende un immagine sobria, soprattutto unica, standardizzata. La studentessa media è nera, liscia e così deve restare, la massa così deve passare, per dare l’idea di un popolo ubbidiente e giudizioso. Il divieto è recente, scritto in un regolamento più fresco del colore sulle ciocche. Un paio di settimane fa il primo arbitro zelante ha deciso di appellarsi al cavillo, la centrocampista striata di rosa è rimasta in tribuna per punizione e la notizia ha viaggiato veloce su Weibo, il social più diffuso in Cina. Quasi tutte le colleghe impegnate nel torneo in corso hanno cercato di levare le sfumature della testa, non tanto per evitare guai, quanto per giocare. Si sono ripresentate senza code striate e frange punk, più o meno uniformi, solo lontane dal nero naturale e l’incontro tra Fuzhou e Jimei è saltato. Una squadra ha accusato l’altra di essere fuori protocollo: rivendicazioni e dita puntate fino a che non è scattata la contestazione su ogni singola acconciatura. Le scampate al giudizio universale erano meno di sette per parte, sotto il numero legale. A casa. Per l’ultima sfida della competizione tutte, nessuna esclusa, si sono tinte di nero. Un trucco per tornare alle origini, una facciata che viene via con il tempo e ben rappresenta questo regime impegnato a essere insieme globale e autarchico. Da quando il calcio ha un peso nelle strategia di Stato, ha anche una linea da seguire. I professionisti non possono mostrare tatuaggi, hanno diritto alla convocazione in nazionale solo se li coprono. Maniche lunghe, bendaggi e poco importa se la norma si scontra con nomi che ormai si sono disegnati collo e mani, se spesso sbuca la coda di un drago da un polsino o il carattere di una parola da un colletto. Conta il colpo d’occhio, la Cina che somiglia a se stessa, tutti uguali e di conseguenza controllati. Per un braccialetto sfuggito al dogma anti gioielli, il difensore Wang Shenchao ha preso 12 mesi di sospensione. Essere uno sportivo di successo significa essere un modello e gli esempi non perdono tempo dietro ai vezzi, come se scegliersi il colore dei capelli fosse davvero un gesto così superficiale. I rivoluzionari contro la parrucca, i contestatori capelloni, il caschetto corto alla Giovanna d’Arco per celebrare l’indipendenza, la storia è piena di tagli dimostrativi. E pure di scomposti tentativi di osteggiarli. Dalle tv cinesi sono scomparsi i cartoni con le eroine fluorescenti, a partir dalle «Shining Star», animazione coreana in cui ogni protagonista ha un colore diverso, censurate per il desiderio poco onorevole di diventare cantanti pop e probabilmente per i testi politici sui gusti del gelato. Le «shining» sono pensate per un pubblico tra i 7 e 9 anni, futuri adolescenti che potrebbero spingere per un cambio culturale. La Cina di Xi è connessa al mondo, è tecnologica, viaggia (quando può), si confronta e sa come trovare spunti oltre un cartone bandito, però il dress code del calcio è più subdolo. Il sistema è troppo rigido per concedere una possibilità a chi ha talento e vuole tenersi la propria identità, i giovani vogliono giocare e accettano l’imposizione. Tinta nera per tutte, può sempre gocciolare, come quella di Rudy Giuliani, e mostrare la sua precarietà.
Filippo Santelli per “la Repubblica” il 13 novembre 2020. La prima è stata una professoressa di una scuola media. Qualche settimana fa ha portato in classe una scatola di assorbenti e detto alle ragazze di servirsi ogni volta che ne hanno bisogno, magari riportandone un altro in seguito. Quando Jiang Jinjing, attivista per i diritti delle donne, ha visto la foto della scatola girare sui social l' ha subito rilanciata. Da tempo Jiang si batte contro la "povertà mestruale", la difficoltà di accesso agli assorbenti frequente in molti Paesi in via di sviluppo, comprese alcune aree più arretrate della Cina, e contro lo stigma associato al ciclo femminile. La foto ha iniziato a circolare e spinto tante altre donne a fare lo stesso. Confezioni di assorbenti sono comparse fuori dai bagni di scuole medie, superiori e università cinesi, oltre 300 secondo il New York Times . «Basta con la vergogna delle mestruazioni », si legge su un foglietto appeso vicino a una di queste scatole. Quella raccontata dal quotidiano americano è solo l' ultima delle sfide in tema di corpo e sessualità lanciate alla cultura patriarcale della Cina: negli ultimi giorni ha fatto discutere la storia di un assistente di volo che, dopo essere stato licenziato dalla compagnia di Stato China Southern per il video di un suo bacio omosessuale, ha fatto causa alla società. Sul tema, come su tutto ciò che riguarda la sessualità, l' atteggiamento delle autorità è ambivalente. Da un lato lasciano spazio al dibattito. Dall' altro procedono con estrema prudenza nel riconoscimento dei diritti: per l' omosessualità per esempio vige la politica dei "tre no": non approvata, non disapprovata, non promossa. Più in generale, una nuova legge prevede che dal prossimo anno l' educazione sessuale diventi obbligatoria nella scuola dell' obbligo. È la prima volta che il governo usa ufficialmente il termine "educazione sessuale". La battaglia sugli assorbenti in questo contesto è particolarmente significativa, proprio perchè la cultura patriarcale rende molti argomenti, soprattutto quelli che riguardano la sessualità femminile, tabù: oltre il 60% delle donne cinesi usa delle perifrasi per indicare il ciclo mestruale. Ma non solo: di recente l' Associazione per la pianificazione familiare e l' Università Tsinghua ha proposto a quasi 50mila universitari un questionario, nove domande che spaziavano dall' efficacia del coitus interruptus come metodo contraccettivo alle malattie sessualmente trasmissibili, e oltre un terzo dei partecipanti ha risposto correttamente solo a tre quesiti o meno. Neppure un terzo ne ha azzeccati più di sei. Una mancanza di conoscenza che qualche esperto arriva a definire «analfabetismo sessuale». Eppure la travolgente modernizzazione sta cambiando anche la sensibilità dei cittadini, in particolare gli abitanti più istruiti delle grandi città. Ha suscitato indignazione per esempio il fatto che ai medici eroi di Wuhan non siano stati forniti assorbenti, nonostante le donne fossero la metà dei dottori e la maggioranza degli infermieri. Il Partito comunista non permette che le rivendicazioni diventino movimenti organizzati, ma alcuni attivisti come Jiang Jinjing riescono a portarle avanti. E singoli cittadini, come l' assistente di volo, lottano per i propri diritti in tribunale.
Michelangelo Cocco per “il Messaggero” il 2 novembre 2020. Messa sotto controllo l' epidemia di Covid-19, calato il sipario sul Comitato centrale del Partito comunista, per i cinesi è arrivato il momento di contarsi. Da ieri milioni di cinesi hanno iniziato a registrare i loro connazionali per il settimo censimento nazionale, evento che si ripete ogni dieci anni da quando, nel 1949, venne proclamata la Repubblica popolare. A quanto ammonta oggi la popolazione più numerosa del pianeta, composta da 56 etnie sparse sul quarto Paese più esteso del mondo? Il censimento precedente, nel 2010, aveva registrato poco meno di 1,4 miliardi di abitanti (esattamente 1.339.724.852). Per raccogliere i dati delle famiglie sono stati sguinzagliati 7 milioni di lavoratori socialmente utili che, per due mesi, busseranno alle porte di scintillanti grattacieli shanghaiesi, come a quelle delle case di remoti villaggi tibetani, delle yurte, le tende mongole abitate da popoli nomadi ai confini col Pakistan. Parte della popolazione invece risponderà al censimento attraverso una app, nonostante un numero crescente di cittadini abbia mostrato segni d' insofferenza verso la raccolta di loro dati personali, perfino durante l' emergenza Covid, quando i cellulari erano diventati veri e propri lasciapassare (per stazioni, negozi, condomini), trasmettendo le informazioni sanitarie degli utenti. In un Paese in cui due giganti - Tencent e Alibaba - si dividono il business miliardario dei pagamenti elettronici, l' Ufficio nazionale di statistica (Nbs) ha provato a rassicurare: i dati raccolti verranno utilizzati solo per il censimento e rimarranno segreti. Sesso, età, etnia, occupazione, reddito: miliardi di informazioni confluiranno nella capitale Pechino dove verranno classificate ed elaborate dal Nbs, che avrà bisogno di un paio d' anni per restituirci l' immagine aggiornata della Cina della «Nuova era» proclamata dal presidente Xi Jinping. La tendenza è quella di un Paese che invecchia, rapidamente, con gli ultra sessantenni che sono ormai il 18% della popolazione. E questo preoccupa la leadership del Partito: il timore è che la Cina il cui reddito pro capite ha raggiunto 10.000 dollari annui - diventi vecchia prima che ricca. Per questo c' è grande attesa per capire se, dopo l' abolizione l' anno scorso della «politica del figlio unico», i cinesi (400 milioni dei quali si sono trasformati da contadini e operai in ceto medio) facciano di nuovo figli, confidando nella crescita dell' economia nazionale. Ora che tutte le famiglie possono avere un secondo bebè senza incorrere in sanzioni, arriverà il tanto atteso baby-boom? Pare proprio di no, dal momento che il tasso di natalità registrato l' anno scorso è stato il più basso da quando Mao, il 1 ottobre 1949, si affacciò da Tienanmen annunciando la nascita della Repubblica popolare. E il motivo è semplice: i cinesi oggi affrontano il continuo aumento del costo della vita costruendo mini-famiglie. E così le stime del governo per il 2020 sono di un incremento della popolazione del 5,99%, con i cinesi che diventerebbero 1,43 miliardi. Anche se questo calcolo potrebbe rivelarsi ottimistico e perciò Evergrande invita il governo a legalizzare anche il terzo figlio: «Se non verranno apportati dei correttivi, ciò danneggerà seriamente il ringiovanimento della Cina e la sua ascesa come grande potenza», avverte una ricerca del colosso del settore immobiliare. Negli spazi consentiti dalla censura, la gente comune chiede più assistenza. I servizi essenziali forniti dallo Stato in Cina sono davvero essenziali, mentre tutto il resto si paga a caro prezzo. Secondo i demografi, ci vorranno almeno quindici anni prima che la politica del secondo figlio contribuisca a svecchiare la popolazione, perché le donne ritardano il momento della gravidanza per far carriera e perché la classe media cinese non vuole rinunciare al benessere raggiunto per un altro bebè.
La Cina, gli Uiguri e i campi di prigionia segreti. Le Iene News il 15 dicembre 2020. Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona e di fede musulmana che vive in Cina: il governo di Pechino sembra aver usato la sua forza militare e tecnologica per perseguitarli. Con l’aiuto di una ex prigioniera e del portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, Roberta Rei ci fa conoscere cosa sembra accadere nei campi di prigionia segreti. E perché questo ci riguarda da vicino. “Se non l’avessi visto, non ci avrei creduto. Ma ho visto tutto, anche la morte”. Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona di fede musulmana che vive in Cina. Roberta Rei ci racconta la storia di questo popolo, composto di milioni di persone, e di come la potenza militare e tecnologica del governo di Pechino sembrerebbe esser stata usata contro di loro per annientarli. Le più autorevoli organizzazioni che si occupano di diritti umani pensano che gli Uiguri siano vittime del più grande internamento di massa dalla Seconda guerra mondiale. Anche Papa Francesco ha definito gli Uiguri “perseguitati”. Gli Uiguri sono circa 16 milioni, di cui 11 vivono nella regione dello Xinjiang, nel nord ovest della Cina. Dopo una lunga storia di tensioni con il governo di Pechino, le cose sono precipitate con l’avvento al potere del presidente Xi Jinping, anche a causa di una serie di attentati terroristici compiuti da Uiguri. Da qui il governo cinese ha lanciato un’offensiva durissima, che però non toccherebbe solo i terroristi ma tutto il popolo degli Uiguri. “È parte della strategia cinese etichettare come terrorismo tout-court una richiesta di diritti culturali”, ci dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Da qui questa politica di chiuderli in luoghi eufemisticamente chiamati Centri per la formazione professionale che sono campi di concentramento veri e propri”. Roberta Rei ci racconta cosa sembra accadere in quei campi grazie a una testimone diretta. “Sono stata lì dentro un anno, tre mesi e dieci giorni. Ho contato ogni singolo giorno”, ci racconta la donna. “Lo stupro è all’ordine del giorno”, ci racconta una testimone diretta di quanto avverrebbe in quei campi di prigionia. “Ho visto donne impazzire. Andavano nei bagni, prendevano gli escrementi e si disegnavano baffi e barba. Dicevano: ‘guarda, sono diventata un uomo’”.
Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano” il 15 ottobre 2020. La Repubblica Popolare Cinese, oltre a Cuba, la Russia e altri ameni Paesi che non sono certo universalmente riconosciuti per le loro incontestabili tradizioni democratiche, sono tra i nuovi membri eletti nel Consiglio dei diritti umani dell'Onu dall'Assemblea Generale. Il nuovo mandato durerà tre anni e avrà inizio dal primo gennaio del prossimo anno. Si noti che la Cina l'avrebbe spuntata in un testa a testa agghiacciante sull'Arabia Saudita e che alla fine quest' ultima è stata scartata in quanto ritenuta in un modo o nell'altro responsabile del truculento assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, fatto a pezzi due anni fa nel consolato saudita di Istanbul. La Cina invece nel frattempo ha fatto sparire qualche blogger e giornalista che denunciava la diffusione del Coronavirus, ha internato centinaia di migliaia di uiguri, di tibetani e di mongoli in campi di rieducazione, ma ancora una volta l'ha fatta franca e dall'alto della sua secolare esperienza avrà il compito di vigilare sul rispetto dei diritti umani degli altri Stati. Peraltro, come solo una settimana fa ha denunciato l'associazione Chinese Human Right Defenders (Chrd), Pechino non ha ancora risposto ad alcuna delle raccomandazione che la stessa Onu due anni fa aveva avanzato nei suoi confronti proprio relativamente al rispetto dei diritti umani. Ogni quattro anni infatti gli Stati membri vengono sottoposti a una sorta di test di buona condotta chiamato "Esame periodico universale" del quale si occupa appunto il Consiglio appena rieletto. Nel 2018 il Consiglio ha formulato 346 raccomandazioni per la Cina, cioè 346 punti sul quale Pechino avrebbe dovuto rendere conto e migliorare. Nel marzo 2019 Xi Jinping ne ha accettate 284. Il Chrd ha concentrato il suo esame su 47 raccomandazioni, le più importanti, che il governo cinese ha dichiarato di aver "già attuato" e su altre 11 che sarebbero in "in corso di attuazione", riguardanti in sostanza la situazione delle donne, delle persone Lgbt, delle minoranze etniche e religiose e dei gruppi emarginati e svantaggiati. L'indagine ha evidenziato al contrario che la Cina non ha attuato alcuna delle 58 raccomandazioni prese in considerazione e che in gruppi di cui sopra sono stati e sono tuttora sistematicamente discriminati se non perseguitati. La situazione degli uiguri ad esempio è peggiorata sostanzialmente con la costruzione di campi di detenzione e di rieducazione. La stessa sorte spetta ai tibetani per i quali è in programma perfino la ridistribuzione famigliare nelle altre province del Paese secondo un quadro generale neomaoista di autoproduzione (autarchia) che verrà rilanciato nel prossimo piano quinquennale. I diritti umani per Pechino sono dunque noiose quisquilie, ma facendo parte ora dello stesso organo che dovrebbe controllarne il rispetto avrà ora buon gioco a evitare che sull'argomento che la riguarda si torni sopra. in brutta compagnia Per assurdo Louis Charbonneau, direttore di Human Rights Watch per l'Onu, ha commentato il risultato delle votazioni per il Consiglio sostenendo che «il fallimento dell'Arabia Saudita nel conquistare un seggio nel Consiglio dei diritti umani è un gradito promemoria della necessità di una maggiore concorrenza nelle elezioni delle Nazioni Unite» e che «se ci fossero stati altri candidati, anche Cina, Cuba e Russia avrebbero potuto perdere». Come dire che non c'erano alternative e che il Consiglio dei diritti umani dell'Onu ha perso di conseguenza qualsiasi credibilità. Eppure l'Onu rimane convinta che l'elezione «di questi Paesi immeritevoli non impedirà al Consiglio di far luce sugli abusi e di parlare per le vittime», e che anzi, «essendo nel consiglio, questi molestatori saranno direttamente sotto i riflettori». Quali riflettori? Oltre a Cina, Russia e Cuba il Consiglio dei diritti umani sarà composto da Costa d'Avorio, Gabon, Malawi, Senegal, Nepal, Pakistan, Uzbekistan, Ucraina, Bolivia, Messico, Francia e Gran Bretagna. A parte i due Paesi europei che già hanno qualche fatica ad accusare i cinesi per i troppi interessi economici che li legano a loro, c'è da dubitare che gli altri membri abbiano la forza, l'indipendenza e la limpidità necessaria per dire la loro. Anzi, Pakistan e Uzbekistan sono costantemente sotto la lente di ingrandimento per le continue violazione dei principi basilari di umanità e almeno il 60% delle nazioni del Consiglio è composto da Paesi che non rispettano gli standard minimi di una democrazia libera. E poi ci si stupisce se l'America di Trump, tenendo presente anche il trattamento sistematicamente riservato a Israele da tale Consiglio, lo abbia definitivamente abbandonato nel 2018.
Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 15 ottobre 2020. I Bts, idoli mondiali del K-pop sudcoreano, hanno molti record. Ultimo quello del singolo Dynamite, visto 101 milioni di volte in 24 ore su YouTube. Ma sono anche specializzati nel genere delle polemiche politiche a sfondo storico. L' ultima riguarda la Guerra di Corea e li ha messi nei guai in Cina. La band rischia di perdere contratti pubblicitari di aziende di Seul che temono Pechino. È successo che durante l' ennesima premiazione a New York il leader del gruppo, Kim Nam-joon, nome d' arte RM (che sta per Rap Monster), ha pensato di commemorare i 70 anni della Guerra di Corea con un pensiero riconoscente per la «storia di sofferenza comune» vissuta da Stati Uniti e Sud Corea durante il conflitto che devastò la penisola coreana tra il 1950 e il 1953. «Non dimenticheremo mai il sacrificio di tanti uomini e donne delle nostre due nazioni», ha detto RM. La dichiarazione non è passata inosservata a Pechino, dove i sette cantanti di Seul contano cinque milioni di seguaci su Weibo, principale social network mandarino. Anche la Cina partecipò alla guerra e molti si sono indignati per la mancanza di sensibilità dei Bts, accusandoli di essersi schierati con gli americani, al momento piuttosto impopolari a Pechino. In rete sono comparsi gli hashtag «I Bts hanno mancato di rispetto alla Cina» e «Non ci sono idoli musicali che vengano prima della Patria». E commenti minacciosi: «I BTS non debbono più guadagnare soldi cinesi, visto che non rispettano i sentimenti del popolo cinese». Il problema è che nella Guerra di Corea combatterono anche i cinesi, dalla parte dei nordcoreani che avevano invaso il Sud. Mao inviò un corpo di «volontari» che si sacrificarono anch' essi, per tre anni, salvando l' esercito e il regime nordista di Kim Il-sung dalla disfatta. Quando nel 1953 fu firmato il cessate il fuoco a Panmunjom sul 38° Parallelo, con gli eserciti inchiodati sulle stesse posizioni territoriali in cui i due governi nemici erano attestati all' inizio, erano caduti 200 mila soldati del Sud, 400 mila del Nord, 36 mila americani e 180 mila cinesi oltre a due milioni di civili. A Pechino arrivano ancora oggi i resti dei morti in battaglia, accolti da cerimonie che alimentano il nazionalismo. La superstar RM però ha parlato solo del sangue versato da americani e sudisti ed è scoppiata la polemica. «I BTS hanno ferito i sentimenti dei ragazzi cinesi», ha scritto il Global Times , giornale comunista e fieramente nazionalista di Pechino. Nella storiografia ufficiale cinese la campagna di Corea è definita «Guerra di resistenza all' aggressione americana» e oggi che i rapporti con gli Stati Uniti sono nuovamente deteriorati, la propaganda torna a parlarne per mobilitare l' opinione pubblica. «I Bts negano la storia», conclude il quotidiano. È intervenuto anche Zhao Lijian, combattivo portavoce del ministero degli Esteri di Pechino: «Bisognerebbe imparare dalla storia e tener cara la pace per nutrire l' amicizia tra i popoli». Il caso sta avendo ripercussioni commerciali: temendo un danno d' immagine 0 un boicottaggio in Cina (ci sono diversi precedenti), alcuni grossi marchi di Seul, da Samsung a Fila a Hyundai, hanno cancellato dalla rete i loro spot pubblicitari con i Bts. Non è la prima volta che gli idoli del K-pop finiscono in una crisi storica: nel 2018 uno membro della band indossò una T-shirt celebrativa della liberazione della Corea dal giogo giapponese alla fine della Seconda guerra mondiale nella quale era ben visibile il fungo atomico che annientò Hiroshima e Nagasaki. La tv di Tokyo oscurò i Bts.
Coronavirus: ecco le responsabilità della Cina. Milena Gabanelli e Luigi Offeddu su Dataroom de Il Corriere della Sera il 28 settembre 2020. È accaduto anche con la pandemia da Coronavirus: la Cina, dal 1945 membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto, tace o nega da sempre quando le si chiede conto di come rispetta i diritti umani, in questo caso la libertà di informazione. Stavolta però il suo silenzio viene pagato anche da molti altri Paesi. Il South China Morning Post, storico quotidiano di Hong Kong, riporta più volte informazioni da fonti governative: il primo contagio del nuovo morbo è stato registrato in Cina il 17 novembre 2019. L’informazione all’Oms dovrebbe essere immediata, ma le autorità attendono fino al 31 dicembre prima di comunicare al corrispondente ufficio di Pechino una «strana polmonite» sviluppatasi a Wuhan nel mercato di animali vivi. I «wet market» erano già i principali indiziati del precedente Sars-Cov1 del 2002. Però solo il 9 gennaio 2020 Pechino parla di «nuovo coronavirus» simile al precedente Sars. Il 30 gennaio l’Oms dichiara l’emergenza internazionale. Nel frattempo il business e il turismo mondiale va e viene dalla Cina come se nulla fosse. Solo nel mese di dicembre e solo con l’Europa i voli sono 5.523 (dati Eurocontrol). Secondo fonti dell’Enac – l’Ente nazionale italiano dell’aviazione civile – il 13 gennaio, mentre si prepara il lockdown di Wuhan, Pechino firma con l’Italia (ignara) un memorandum d’intesa per un aumento fino a 164 voli settimanali per parte, di cui 108 con decorrenza immediata. Poi c’è stato il blocco. Il prezzo di quel mese e mezzo di silenzio è incalcolabile. La Cina nega ogni responsabilità e reagisce alla perdita di credibilità aumentando la repressione con lo schiacciamento della libertà a Hong Kong, con le nuove mire strategiche nel Mar Cinese Meridionale, con il pugno sempre più pesante sulle minoranze etniche, sulla libertà di espressione interna, con il gelo nei rapporti con la chiesa cattolica, con arroganti minacce agli Stati sovrani.
La notte di Hong Kong. È stata tenuta segreta fino a poche ore prima della pubblicazione, la notte del 30 giugno: settemila parole, 66 articoli. La nuova «legge sulla sicurezza» punisce con condanne fino all’ergastolo ipotesi di reato come «secessione, sovversione, collusione con Paesi stranieri per minacce alla sicurezza nazionale». Elaborata a Pechino, ha posto fine a un anno e mezzo di proteste a Hong Kong, oggi regione amministrativa speciale, ma con il patto Pechino-Londra di conservarne alcune libertà civili fondamentali fino al 2047: «un solo Paese, due sistemi». Le proteste erano iniziate perché la Cina pretendeva di processare nei tribunali di Pechino gli imputati di presunti reati (anche politici) commessi a Hong Kong. La pretesa è stata poi ritirata, ma intanto «Pechino – spiega una fonte – ha approfittato della distrazione dell’Occidente causata dalla pandemia per varare la legge sulla sicurezza nazionale». Così, rinviate di un anno le elezioni previste per metà settembre (i sondaggi davano già al 60% l’opposizione liberal), fuggiti in esilio i principali leader democratici, centinaia di arresti solo nei primi giorni, in manette anche l’editore liberal Jimmy Lai, con i due figli, ufficialmente per «collusione contro l’unità dello Stato cinese». Dodici cittadini di Hong Kong sono invece stati arrestati nelle ultime settimane, mentre cercavano di raggiungere Taiwan in barca. Londra ha offerto «una nuova via di immigrazione» ai 3 milioni di cittadini residenti a Hong Kong che nel 1997 scelsero, con l’accordo di Pechino, di conservare il loro passaporto inglese. La risposta di Pechino: «non considero validi quei passaporti».
Il nodo Taiwan. Dal gennaio 2021 Taiwan avrà un nuovo passaporto. In copertina la parola «Repubblica di Cina» non si legge quasi più, al suo posto «Taiwan». Un segno preoccupante per Pechino che ha sempre ammonito: se «quelli dichiareranno l’indipendenza, attaccheremo militarmente». Perché Taiwan, indipendente di fatto dal 1949, non è uno Stato indipendente di diritto, non siede – per volontà di Pechino – nelle organizzazioni internazionali. Per la Cina è una «entità ribelle», e solo 14 Stati la riconoscono diplomaticamente. Un solo esempio: Pechino ha impedito che l’Oms invitasse al suo vertice annuale 2020 Taiwan come esempio di buona gestione sanitaria. E l’Oms ha obbedito. Non è solo questione di orgoglio imperiale, ma soprattutto geostrategica, perché il Mar Cinese Meridionale è al centro dei suoi piani di espansione: gremito di isole artificiali cinesi, è una miniera sottomarina con 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di piedi cubi di gas naturale. Taiwan si è attrezzata: tutti i suoi piani militari sono calibrati su un’ipotesi di invasione anfibia proveniente dalla Cina, che a sua volta si è armata con tecnologia in grado di distruggere e uccidere senza intervento umano.
Le esecuzioni. Secondo Amnesty International la Cina ha il primato mondiale delle esecuzioni capitali, previste per 46 diversi reati, inclusa la sovversione. Le esecuzioni sarebbero «migliaia all’anno», ma Pechino dice che non esistono «statistiche separate», che il numero include gli ergastoli e le pene oltre i 5 anni. In pratica le considera un segreto di Stato. Solo nel 2014 l’Onu ha approvato 20 raccomandazioni contro la pena di morte, tutte non vincolanti, lasciate cadere da Pechino come «inapplicabili e in contrasto con la realtà cinese». Senza risposta anche le proteste del Consiglio Onu per i diritti umani: anzi, nell’aprile 2020, proprio in quel Consiglio da cui nel 2018 si è dimesso il rappresentante americano, la Cina, bocciata dalle periodiche «revisioni» del Palazzo di Vetro in tema di libertà e giustizia, ha ottenuto un suo seggio fino al 2021. Forse perché, sostiene il «Centro per una Nuova Sicurezza Americana», sta riempiendo il vuoto lasciato da Trump nelle organizzazioni internazionali, e perché ha appena promesso una donazione all’Onu di 2 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi due anni.
Repressione delle minoranze etnico-religiose. Il Tibet è una regione autonoma, i suoi 3,1 milioni di abitanti sono quasi tutti buddisti, con una loro lingua e una identità nazionale risalenti al 127 a.C. Hanno sempre rivendicato l’indipendenza da Pechino e hanno pagato un prezzo: templi distrutti e repressione sanguinosa. Il Dalai Lama, premio Nobel per la Pace, vive in esilio nell’India del Nord, ha rinunciato a ogni potere temporale e alla linea indipendentista. Chiede però ancora «compassione» e il rispetto dei diritti umani. Nella regione autonoma occidentale dello Xinjiang vivono 23 milioni di abitanti, il 47% sono musulmani uiguri. Inaccettabile per Pechino la loro richiesta di libertà religiosa. Alla repressione violenta si alterna la «rieducazione politica» o «formazione ideologica e civile» attraverso il lavoro forzato. Lo scorso 1 settembre il World Uyghur Congress, in occasione della visita a Berlino del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, chiede aiuto al governo tedesco: da 1 a 3 milioni di uiguri sono detenuti senza accuse nei campi di «rieducazione», dove avvengono torture e sterilizzazioni forzate. La Germania ha protestato più volte, anche se nello Xinjiang si trovano fabbriche tedesche come la Volkswagen (a Urumqi), la Siemens, la Basf. I 4022 campi di rieducazione sono stati formalmente aboliti nel 2013, ma un drone inglese ha catturato immagini di un campo nello Xinjiang dove migliaia di persone produrrebbero giocattoli, abiti, e merce a basso costo poi venduta in Occidente. Pechino l’ha liquidata come propaganda trumpiana, ma non autorizza l’accesso agli ispettori Onu chiesto nel 2019 da 22 Stati con una lettera del Consiglio per i diritti umani. Dalla lettera mancava la firma americana, ritirata ormai da un anno. Intanto gli uiguri emigrati in Europa, e ormai cittadini di Olanda o Finlandia, quando denunciano il dramma dello Xinjiang vengono minacciati da agenti cinesi: «Pensa alla tua famiglia». Nella Mongolia esterna, indipendente dal 1921 e popolata dagli eredi di Gengis Khan, da quest’anno l’insegnamento non avverrà più nella lingua locale, ma sarà obbligatorio il mandarino.
Rapporti Cina-Vaticano. Oggi in Cina ci sono 10 milioni di cristiani, 101 vescovi, 146 diocesi, 4000 preti, circa 4500 suore. È in scadenza l’accordo provvisorio Pechino-Roma del 2018. Dovrebbe confermare che l’ultima parola nell’ordinazione dei vescovi spetta al Papa. Un compromesso teorico, insomma. Ma la situazione reale è ben diversa, sostengono proprio fonti cattoliche: i patti non sono stati rispettati dal regime, le chiese sono sbarrate e dominate dalla bandiera del partito, e chi aspira a essere assunto in un ufficio governativo deve prima rinunciare a ogni fede religiosa. O meglio: lo Stato proclama la libertà religiosa e riconosce ufficialmente 5 fedi, ma poi spiega ai membri del partito che ogni culto è «anestesia spirituale», incompatibile con l’iscrizione al partito. Però la tessera di quel partito è almeno nei fatti indispensabile per accedere agli impieghi pubblici. Intanto i missionari italiani devono tornare a casa, incluso Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews.
Le minacce agli Stati sovrani. Che succede alle voci critiche? Cheng Lei, cittadina australiana di nascita cinese e nota conduttrice di una Tv pubblica di Pechino, è finita agli arresti domiciliari in un luogo sconosciuto, senza un’accusa esplicita. I leader di Tienanmen sono in esilio fra Usa, Francia, Australia e anche Italia. Le minacce si estendono anche agli Stati sovrani. «Con gli amici noi usiamo del buon vino, e i fucili con i nemici», ha ringhiato l’ambasciatore cinese a Stoccolma quando il governo svedese ha annunciato di voler premiare l’editore e scrittore Gui Minhai, svedese nato in Cina, dove era stato condannato a 10 anni per presunto spionaggio. Durante il suo tour europeo il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha fatto tappa il 3 settembre nella Repubblica Ceca, e rivolgendosi al Presidente del Senato Miloš Vystrčil, che era appena stato in visita a Taiwan, ha dichiarato testualmente «pagherete caro il vostro opportunismo politico». Il 31 agosto era passato dalla Norvegia. Un giornalista aveva chiesto al ministro cosa pensasse della possibilità di estendere «ai ragazzi di Hong Kong» il Nobel per la Pace. Risposta: «la Norvegia non usi il Premio per interferire nei nostri affari interni, pensi piuttosto a coltivare relazioni “sane” che si sono finalmente realizzate dopo il “gelido inverno” seguito al Nobel conferito nel 2010 al dissidente incarcerato Liu Xiaobo».
Il prezzo del silenzio. Quanto conta la libertà di parola in un mondo sempre più interconnesso, che dovrà fare i conti con minacce sanitarie e riscaldamento globale, e dove la Cina ha un ruolo centrale? Il giurista dell’università di pechino He Weifang ha dichiarato: «l’assenza in Cina di libertà di parola e di espressione ha favorito il diffondersi del contagio», lo aveva ribadito un suo illustre collega, Xu Zhangrun, arrestato. Li Wenliang, l’oculista cinese che per primo individuò il virus è stato prima fermato, poi censurato, e infine ne fu vittima. Oggi nel mondo si contano quasi un milione di morti, e una recessione globale. La Cina non si è scusata, ed esalta la superiorità del modello cinese, che avrebbe gestire in modo straordinario la pandemia, mentre i paesi democratici non sono in grado. Oggi dichiara di avere solo 8 casi su 1,4 miliardi di abitanti. Impossibile sapere se quel numero sia reale. Non c’è dubbio che Stati Uniti, Brasile, e qualche Paese europeo abbiano sottovalutato, ma come sarebbero andate le cose se le autorità cinesi avessero subito informato la comunità internazionale della gravità di ciò che stava succedendo? Non lo sapremo mai, come non sapremo esattamente cosa è successo perché l’inchiesta internazionale indipendente votata all’Oms all’unanimità a maggio, è ancora un pezzo di carta.
La nuova campagna di “epurazione e rettifica” in Cina. Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 27 Agosto 2020. La Cina ha lanciato una nuova campagna di “epurazione e rettifica” contro la corruzione. Come ha riportato di recente il South Morning Post, le forze dell’ordine hanno annunciato una campagna per epurare dalle proprie fila gli “elementi corrotti” e creare un esercito inattaccabile. La campagna avrà inizio quest’anno con una serie di progetti pilota in cinque città e quattro contee per poi proseguire a livello nazionale nel 2021. Mentre la testata francese RFI paragona l’iniziativa ad una purga stalinista nel partito, altri analisti avvertono l’eco del “Movimento di rettifica” Yan’an, che 78 anni fa servì al consolidamento della posizione di Mao Zedong (il primo febbraio 1942, nella famosa base rossa di Yan’an, fu ufficialmente inaugurato il “zheng-feng”, traducibile come “movimento per il raddrizzamento delle tendenze” o “campagna di rettificazione”, che durò per due anni) e della lotta contro la corruzione (ed il repulisti) che ha aiutato il presidente Xi Jinping a neutralizzare le minacce e a consolidare il suo potere all’inizio del mandato. La pratica della rieducazione e del controllo sistematico del comportamento segnano, si sa, tutta la storia della Cina comunista. Su China Story, Ling Li ha scritto tuttavia che “l’ultima volta che una campagna di rettificazione è stata organizzata dal vertice del partito, prendendo di mira istituzioni giudiziarie (corti e procuratori, in particolare), fu la campagna per la ‘riforma della giustizia’ dal 1952 al 1953 (che è durata per sette mesi). Quella campagna fu lanciata per sradicare il ‘veleno’ della prassi giudiziaria vigente sotto il governo nazionalista” che ha preceduto il regime comunista cinese. Il nuovo sforzo, invece, “sembra focalizzarsi maggiormente sulla cattiva condotta della polizia”. Del resto, “la polizia è considerata l’apparato coercitivo più importante tra tutte le istituzioni politiche e giudiziarie” e, perciò, la sua lealtà è cruciale per i leader del partito. Sullo stesso sito, Adam Ni osserva che l’iniziativa la dice lunga sulla concezione che Xi ha della leadership e su come pensa di evitare il destino delle passate dinastie. In altre parole, Xi sembra pensa