Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

L’ACCOGLIENZA

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come Vittorio Feltri.

Le oche starnazzanti.

La Questione Settentrionale.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

Il Sud Sbancato.

La Televisione che attacca il Sud.

A chi credere. Il Sud Italia ti accorcia o ti allunga la vita?

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti.

Un mondo di confini spinati.

Quei razzisti come i Sammarinesi.

Quei razzisti come gli Svedesi.

Quei razzisti come i Norvegesi.

Quei razzisti come i Danesi.

Quei razzisti come i Tedeschi.

Quei razzisti come gli Spagnoli.

Quei razzisti come gli Svizzeri.

Quei razzisti come i Francesi.

Quei razzisti dei Paesi Bassi.

Quei razzisti come i Belgi.

Quei razzisti come gli Ungheresi.

Quei razzisti come i Rumeni.

Quei razzisti come i Kosovari.

Quei razzisti come i Greci.

Quei razzisti come i Giapponesi.

Quei razzisti come i Cinesi.

Quei razzisti come i Vietnamiti.

Quei razzisti come i Nord Coreani.

Quei razzisti come i Russi.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come gli Argentini.

Quei razzisti come i Cubani.

Quei razzisti come gli Austriaci.

Quei razzisti come i Turchi.

Quei razzisti come gli Israeliani.

Quei razzisti come i Libanesi.

Quei razzisti come gli Iraniani.

Quei razzisti come gli Arabi.

Quei razzisti come i Dubaiani.

Quei razzisti come i Qatarioti.

Quei razzisti come i Brasiliani.

Quei razzisti come gli Inglesi.

Quei razzisti come gli Statunitensi.

Quei razzisti come gli Australiani.

Quei razzisti come i Sudafricani.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Genocidi dimenticati: Gli zingari.

Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.

Il genocidio silenzioso dei Dogon.

Shoah ed Antisemitismo.

Paragonare le foibe alla Shoah?

Il Giorno del Ricordo.

Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.

Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Immigrazione ed emigrazione.

Espatriati. In Fuga dall’Italia.

Il trattato di Dublino, spiegato.

La Sanatoria dell’Invasione.

Quelli che…lo Ius Soli.

La Cittadinanza col Trucco.

Il Soggiorno col trucco.

L’Africa pignorata.

La Tratta dei Profughi.

Porti Aperti.

Gli affari dell’accoglienza.

Morire di Accoglienza.

I famelici…

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli…che Porti Chiusi.

Le “altre Lampedusa”.

Le Colpe in Libia.

Le colpe in Tunisia.

Le colpe in Algeria.

Le colpe in Siria.

 

  

 

 

L’ACCOGLIENZA

 

PRIMA PARTE

 

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Quei razzisti come Vittorio Feltri.

Il caso del "gran rifiuto" natalizio. La Campania regala presepi a tutta Italia ma la Regione Lombardia lo rifiuta: ora è fermo a Bergamo. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Si potrebbe immaginare come una scena di defilippiana memoria quella intercorsa a distanza tra la Regione Campania e la Regione Lombardia. La prima avrebbe infatti offerto in dono alla seconda il simbolo natalizio dell’artigianato locale per manifestare solidarietà in questo momento così difficile, che però sarebbe stato rifiutato con uno scambio di imbarazzi tra le segreterie dell’assessorato al turismo delle due regioni. E dunque: “Te piace ‘o presepio?”, “No nun m’piace”. L’iniziativa lanciata dalla Regione Campania per promuovere il turismo solidale a sostegno dell’artigianato locale si chiama ‘Viaggio in Italia del presepe napoletano’. Un presepio, fedele all’antica arte napoletana, è partito da Palazzo Frizzoni, sede istituzionale del comune di Bergamo. Inizia proprio dalla città italiana più duramente colpita nella prima fase della pandemia da Covid-19, il viaggio in Italia del presepio napoletano. Ad accogliere il dono della Regione Campania, il sindaco Giorgio Gori, che ha dichiarato: “A nome dell’amministrazione comunale di Bergamo desidero ringraziare il presidente Vincenzo De Luca, l’assessore Felice Casucci e tutta la giunta regionale della Campania per la donazione alla città di Bergamo. Il gesto, molto significativo, offre la possibilità di apprezzare la bellezza di un’opera artigianale ricca di storia che valorizza il patrimonio culturale napoletano e le antiche tradizioni folcloristiche. Un gesto che unisce i territori ed esprime un messaggio di speranza in un momento di grande difficoltà collettiva”. In viaggio i primi nove manufatti artigianali, realizzati da altrettante botteghe, che stanno raggiungendo in queste ore, dopo la sede lombarda, i luoghi espositivi indicati dalle amministrazioni pubbliche Italiane: palazzo Rospigliosi nel Comune di Zagarolo per la Regione Lazio, palazzo Guadagni Strozzi a Firenze per la Toscana, il Santuario regionale di San Francesco di Paola per la regione della Calabria, il Museo Sigismondo Castromediamo di Lecce per la regione della Puglia, la Chiesa dei Martiri di Torino per la il Piemonte, la sede della Regione Emilia Romagna, il Salone nobile di Palazzo Sceriman di Venezia per la Regione Veneto, la sede dell’assessorato Regionale della Sicilia. “La festività natalizia, con il suo carico simbolico rappresentato dalla natività, rinnova un forte bisogno di unità e coesione, un messaggio di speranza in un momento difficilissimo per la nazione, ma anche un gesto concreto che inaugura un paradigma di dialogo istituzionale fondato sulla straordinaria bellezza del nostro patrimonio artistico e artigianale come fonte di attrattività turistica”. Così l’assessore della Regione Campania alla Semplificazione amministrativa e al Turismo, Felice Casucci. Radici, cultura e lavoro, recita la deliberazione della giunta regionale della Campania, sono il cuore di questo progetto. Il ‘Viaggio in Italia del presepio napoletano’ inaugura un nuovo grand tour delle cose, ancor prima della mobilità delle persone” ha ribadito Casucci, che incalza: “I manufatti resi disponibili in favore di regioni e province autonome italiane saranno a carattere permanente, in modo che potranno essere esposti anche per periodi più lunghi rispetto alle sole festività natalizie, tenendo in considerazione la previsione futura di flussi turistici prevalentemente interni e di prossimità”. Le regioni hanno accettato il dono e lo stanno esponendo nei luoghi deputati. Ma in Regione Lombardia qualcosa non è andata, tanto che il presepe è rimasto a Bergamo e non a Milano dove doveva stare. Per l’assessore regionale al Turismo, Moda e Marketing territoriale di Regione Lombardia, Lara Magoni, si tratterebbe di un malinteso e non di un gran rifiuto: “Ho chiamato l’assessore al Turismo della Regione Campania, Felice Casucci, non appena mi è stata offerta la meravigliosa opportunità di ospitare in Regione Lombardia il presepe, come omaggio dalla Regione Campania – ha scritto in una nota – Un pensiero molto apprezzato, di affetto e di unione, soprattutto dopo un anno tragico come quello che la nostra Italia e la nostra Lombardia hanno vissuto. Urge quindi una precisazione: l’assessore campano, Felice Casucci, con una nota del 7 dicembre scorso, inviata a tutti gli assessori al Turismo d’Italia, aveva chiesto agli assessori regionali di potergli indicare dei luoghi a vocazione turistica, nei quali poter destinare i manufatti della tradizione napoletana”. “Dopo aver fatto una verifica di natura tecnica che ha evidenziato come la procedura campana – prosegue Lara Magoni – prevedesse un’assegnazione a partire dal 18 dicembre, tempo quindi non utile per un’iniziativa regionale, sono stata io stessa a ringraziare l’assessore Casucci per l’idea, rappresentandogli tutta la questione legata ai tempi stretti. Da assessore lombardo e da bergamasca gli ho poi suggerito di valutare Bergamo per questo meraviglioso dono: abbiamo entrambi convenuto infatti che fosse particolarmente significativo portare nella città simbolo del Covid il presepe, come messaggio di speranza e simbolo di rinascita per la nostra Bergamo”. Ma tra i corridoi di Palazzo Santa Lucia si vocifera che le cose non siano andate proprio così. Forse che, oltre al diverso colore politico, al governatore lombardo non siano piaciuti i numerosi attacchi di De Luca?

L'ultima "sparata". Ciocca, l’eurodeputato leghista che vuole vaccinare prima i lombardi: “Economicamente valgono più di un laziale”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Il vaccino anti-Covid? Va distribuito prima ai lombardi per un fattore di tipo economico perché “se si ammala un lombardo vale di più» e questo “è un dato di fatto: un cittadino lombardo vale di più economicamente rispetto a un cittadino laziale perché paga più tasse”. Parola di Angelo Ciocca, europarlamentare della Lega non nuovo a gesti o dichiarazioni clamorose. L’esponente del Carroccio ha spiegato la sua teoria durante la trasmissione di Antenna 3 ‘Lombardia Nera’ con una premessa che, viste le parole seguenti, sembra essere stata dimentica presto. Ciocca dice infatti che “sulla salute non si può fare politica”, salvo poi cambiare idea e farci "economia". L’europarlamentare salviniano infatti prosegue il suo ragionamento evidenziano come non sia pensabile che la Lombardia “che ha il doppio degli abitanti del Lazio possa ricevere meno vaccini. Poi bisogna valutare quanto l’importanza economica del territorio. La Lombardia, è un dato di fatto, è il motore di tutto il Paese”. Per questo, è il ragionamento di Coicca, “se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia”. Ciocca, come detto, non è nuovo a dichiarazioni o comportamento sopra le righe. Nell’ottobre 2018 si rese protagonista di una protesta eclatante contro il Commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici, calpestando pubblicamente con una scarpa ‘made in Italy’ la lettera scritta dal commissario in cui bocciava la manovra del governo giallo-verde. Per Ciocca anche problemi giudiziari: nel 2019 è stato condannato a un anno e 6 mesi (con sospensione condizionale della pena e la non menzione) nell’ambito del processo penale conseguito allo scandalo della cosiddetta “Rimborsopoli” della Regione Lombardia.

Mirella Serri per “la Stampa” il 12 novembre 2020. Chi sono i «figurinaires»? Coperti di stracci e a piedi nudi, questi bambini che vengono dalla Campania, dalla Basilicata e dalla Sicilia, come documenta all' inizio del secolo scorso La Stampa, vagano per le strade di Parigi vendendo statuine. L'inchiesta del quotidiano torinese viene ripresa con grande scalpore il 2 giugno 1901 da Le petit parisien. Il giornale francese denuncia che su 100 di questi piccolini, portati oltralpe dai manigoldi che li comprano dalle famiglie, circa 60 muoiono di malattie e di stenti. Questo e altri articoli sugli italiani all' estero, pubblicati nell' arco di circa 150 anni sulla stampa straniera, adesso escono in volume a cura di Andrea Pipino, In cerca di fortuna. L'emigrazione italiana dall' Ottocento a oggi sulla stampa di tutto il mondo, per le edizioni di Internazionale Storia (pp. 192, 14). Nel libro sono riunite le cronache degli episodi più tragici della nostra emigrazione, dal linciaggio di 11 connazionali a New Orleans al disastro della miniera di Marcinelle. Dai testi giornalistici appare anche uno scorcio insolito: come ci vedevano e come ci vedono gli altri? Il volume documenta gli aspetti meno noti di un razzismo assai poco evidente, che viaggia sotto pelle, ma pervasivo, quotidiano e sempre presente. Ne furono vittime i «cafoni» con le valige di cartone e ci ricorda i pregiudizi con cui guardiamo la realtà dell' odierna emigrazione in Italia. A chi venne imputato, senza nessuna argomentazione scientifica, il primo caso di colera a Chicago? Agli «italians», i quali abitano in «topaie e se ne stanno seduti in cortili sudici e con l' aria che odora di marcio»: il Chicago Tribune di fine Ottocento picchia duro, dimenticando che le miserabili condizioni di vita sono da addebitare alle scarsissime retribuzioni, e sbeffeggia pure il buon umore e l' atteggiamento «spensierato» dei nostri connazionali. L'untore che viene dal Sud, l' italiano così diverso, trasmette virus di varia natura, etica, politica e sociale: gli svizzeri ne sono convinti almeno dal 1931, quando hanno elaborato una legge per limitare l' invasione. «L' opinione pubblica e le autorità temevano che la popolazione potesse assimilare la mentalità degli immigrati e che il Paese potesse perdere parzialmente la sua cultura e la sua ideologia politica», così il Journal de Genève rievoca nel 1964 lontani provvedimenti legislativi il cui spirito e i cui timori però condivide pienamente. Il rifiuto degli stranieri in quanto portatori di infezioni di tutti i tipi è assai diffuso nella prima metà del Novecento: in Australia si teme che «l' insozzante marea mediterranea distrugga quella che prometteva di essere una nazione eletta», rileva lo Smith' s Weekly; in Brasile la presenza degli italiani comporterà gravi problemi sociali, osserva il Federação, anche se gli emigrati si trovano a vivere in condizioni di benessere. L' elenco dei misfatti e della corruzione con cui gli italiani contagiano i popoli all' estero è assai ampio, ma nei Paesi più democratici queste accuse suscitano anche anticorpi e reazioni. Ecco dunque la North American Review, nel giugno 1896, sostenere che «gli italiani non appartengono a una classe di immigrati indesiderabile... Se vengono assunti da padroni senza scrupoli, allora va combattuto il sistema dei padroni». Oppure ecco la Popular Science Monthly denunciare il traffico di manodopera che arricchisce i datori di lavoro statunitensi. La polemica contro la discriminazione e contro il rifiuto dei «diversi» comincia così a farsi sentire nella seconda metà del secolo scorso. Ma il cambiamento richiede tempi lunghi. In Germania Der Spiegel, ancora nel 1964, maschera con difficoltà il disprezzo: gli italiani sono la disperazione dei doganieri poiché trasportano notevoli quantità di elettrodomestici e tornano a casa addirittura al volante di trattori. Sono grandi consumatori di brillantina e di escort: a Colonia il viale della prostituzione, Eigelstein, è conosciuto come Corso Italia, cosa che dimostra la loro scarsa integrazione «nella vita sociale dei tedeschi» (e non viceversa la scarsa disponibilità dei tedeschi alle relazioni con gli stranieri). «Mangiaspaghetti o beduini» vengono soprannominati gli italiani, scrive ancora il settimanale tedesco. E loro rispondono per le rime, ricordando ai teutonici che «le guerre le iniziano sempre ma non le vincono mai e che rinchiudono i nemici in campo di concentramento». Sono però in crescita le testate straniere che, influenzate dai mutamenti della pubblica opinione, correggono l' orientamento: un tempo in Canada gli italiani erano «i rubalavoro», scrive Mclean' s nel 1964, ora sono «la gioia dei loro datori di lavoro, disponibili e infaticabili». Nel 1970 gli svizzeri respingono con un referendum la proposta di limitare il numero degli stranieri: «Un progetto sgradito anche all' establishment economico», avverte la Gazette de Lausanne. I francesi chiamavano i nostri connazionali «ritals», ovvero «pezzenti» e «fannulloni», ma nel 1992 Le Monde ne esaltava «il talento particolare per le attività imprenditoriali». Insomma, come dimostra il caso degli italiani all' estero, la lotta contro i pregiudizi razziali ha il passo della tartaruga, il razzismo ha radici forti e robuste e a consolidarlo e farlo rifiorire ci pensa la propaganda politica più accanita contro l' integrazione e l' accoglienza.

Assessore alla cultura di Padova offende: “Qui c’è una cultura civica molto forte, non come a Napoli”. Rossella Grasso su Il Riformista il 28 Ottobre 2020. “Qui non siamo a Napoli. Qui esiste una cultura civica molto forte. Qui c’è un forte senso di comunità. C’è la forte consapevolezza che la salute è un bene comune e che, come tale, bisogna averne rispetto”. Con queste parole Andrea Colasio assessore alla Cultura del Comune di Padova commentando le proteste contro le strette è finito nella bufera social e non. L’assessore alla cultura, 63 anni, ex parlamentare dell’Ulivo ed esponente del Pd Veneto per la sua infelice uscita è stato travolto dalle polemiche. L’assessore voleva dire che malgrado l’emergenza coronavirus, i teatri, i cinema e i ristoranti potrebbero stare aperti come avviene in Trentino Alto Adige. Ma “qui non siamo a Napoli”, ha infelicemente detto. E si è scatenata l’ira di molti. “Ho già inviato al sindaco di Padova, Sergio Giordani, la richiesta di espulsione dalla giunta dell’assessore Colasio per le sue frasi inequivocabilmente razziste e discriminatorie verso l’intero popolo napoletano”, ha detto Gennaro De Crescenzo, fondatore del Movimento Neoborbonico. Poi la replica dalla sua omologa napoletana: “Ho letto su alcuni giornali on Line con incredulità e sconcerto le parole gravissime pronunciate dal mio collega di Padova, l’Assessore alla Cultura Andrea Colasio – ha detto l’assessore alla Cultura Eleonora De Majo – Basta! Davvero non se ne può più! Queste battute che sarebbero fuori luogo anche pronunciate al bancone di un bar, quando sono invece oggetto di una dichiarazione pubblica di un esponente istituzionale che si occupa addirittura di cultura in una importante città italiana, dimostrano plasticamente quanto il razzismo, gli stereotipi carichi di pregiudizio e la sottocultura antimeridionale , siano sentimenti incrostati nelle viscere del nostro paese”. “La città merita delle scuse – ha continuato De Majo –  Napoli, non ci sarebbe neanche bisogno di ribadirlo, ha dimostrato in questi mesi, come tutte le altre città italiane, un enorme senso di responsabilità ed una straordinaria capacità di cura della comunità. Una responsabilità che qui ha pesato più che altrove, perché abbiamo un reddito procapite medio che è quasi la metà di molte città del settentrione. Nonostante ciò Napoli è stata la città delle mani tese e dei ‘panari’ pieni di cibo calati ai balconi durante il lockdown per offrire a chi non aveva niente, qualcosa da mangiare. È stata la città in cui d’estate si sono organizzati più di trecento eventi culturali piccoli e grandi, tra centro e periferia, tutti nel massimo rispetto delle prescrizioni e nella massima tutela della saluta pubblica. Bisognerebbe ricordarsi ogni tanto che il senso civico è anche e soprattutto la solidarietà, la cura, l’attenzione verso il prossimo. Mentre il Paese è in ginocchio e si moltiplicano le manifestazioni di protesta per chiedere misure di sostegno rapide, efficaci e contestuali alle chiusure, le amministrazioni cittadine, i sindaci, gli assessori, stanno collaborando tra loro da mesi, da Nord a Sud, trasversalmente agli schieramenti politici di provenienza, per chiedere al governo strumenti per fronteggiare la crisi, in un clima di produttiva relazione istituzionale. Ecco perché le parole dell’assessore Colasio risultano ancora più deprecabili e fuori luogo ed ecco perché richiedono una immediata smentita”. L’assessore poi ha iniziato a cercare delle scuse plausibili e una giustificazione alle sue parole. Ma rispondergli sono stati in tanti, anche alcuni consiglieri napoletani tra cui Diego Venanzoni del gruppo “La città”: “A volte mi chiedo cosa spinge alcuni uomini politici più o meno impegnati (in questo caso meno) ad esondare con affermazioni che rasentano la follia e che, inevitabilmente, caro signor Colasio (assessore al Comune di Padova) celano in malo modo una vena di razzismo che evidentemente non riesce a smaltire. Poi se le sue origini siano meridionali, come afferma, la cosa riveste ancora più preoccupazione. Ma veniamo ai fatti come si fa ad affermare che a Padova (città che amo dove, peraltro, risiede mio fratello) non si è Napoli e, dunque, lì. Caro assessore (speriamo presto ex) lei rappresenta una città e si permette il lusso di regalare queste perle (trite e ritrite) e poi, quale excusatio non petita accusatio manifesta, chiede anche di non essere considerato un razzista? Guardi non consumerò altro inchiostro per ricordarle i tanti nomi della cultura partenopea che hanno fatto grande il nostro Paese perché come si dice in lingua napoletana ‘a lavà a capa ‘o ciuccio se perde l’acqua e ‘o sapone’. Mi ascolti venga a Napoli per farsi un bagno di cultura e di senso civico, ne ha proprio bisogno mi creda!”

Da "corriere.it" il 27 ottobre 2020. Piccolo inciampo grammaticale per il governatore del Veneto, Luca Zaia, nel corso della consueta conferenza stampa per fare il punto della situazione sull’emergenza Covid. Il presidente della Regione si è lanciato in un periodo ipotetico, ma ha subito perso il filo della concordanza verbale: «Dovesse, fosse, fosse stato... no lo devo dire col condizionale giusto!»

Da repubblica.it l'1 novembre 2020. Maurizio Crozza veste di nuovo i panni di Luca Zaia, nella nuova puntata di “Fratelli di Crozza” in onda il venerdì in prima serata sul Nove. Solo qualche giorno fa il presidente della Regione Veneto, nell'abituale conferenza stampa sugli aggiornamenti in merito alla situazione Coronavirus, si era inceppato sui verbi: il comico ha preso spunto da lì per realizzare un'imitazione in cui Zaia non azzecca un congiuntivo o un condizionale. "Per noi il sacrificio che han fatto i veneti dovesse essere stato… fosse dovuto stante… avendo statuto fando… Lo voglio dir bene col condizionale giusto, cioè col congiuntivo, cioè col congiunzionale. Ghe la devo far, è che l'italiano c'ha un verbo dentro ogni frase, è una lingua ostica", dice Crozza-Zaia.

Scuola, al liceo Manzoni di Milano iscrizione solo se abiti in centro e con la media del 9. Enrico Paoli su Libero Quotidiano il 25 ottobre 2020. Selezionare per distanziare, la filosofia di fondo. Il merito come metodo, magari sin troppo rigido. Magari. Fatto sta che, a partire dal prossimo anno scolastico, per essere ammessi al liceo Manzoni, uno dei più gettonati del capoluogo lombardo, sarà necessario avere almeno la media del nove e la residenza in centro. Sono questi due dei requisiti per essere ammessi alla scuola media superiore. Il motivo, come riportato nei criteri di ammissione per la prima dell'anno scolastico 2021/2022, è dettato dall'emergenza Coronavirus. Da un lato gli spazi sono pochi e quindi si potranno fare solo otto classi, spiegano dall'istituto, dall'altro gli studenti che già ci sono, soprattutto quelli che sono ora in prima, avranno bisogno di essere «riorientati» e quindi «è bene cercare di accogliere nelle classi prime quegli studenti che, ragionevolmente, è prevedibile siano molto motivati e non bisognosi di un eventuale riorientamento». Due quindi i requisiti per potersi iscrivere in uno dei licei più blasonati della città: uno meritocratico (ovvero la media del 10 o del 9 in seconda media in italiano, matematica e inglese) e uno territoriale. Sulla base di questi fattori sarà data la precedenza ai ragazzi con voti alti, residenti in zona 1, ovvero in pieno centro. A seguire le zone più vicine. Il Consiglio di istituto ha approvato le nuove norme con 15 voti favorevoli e 4 contrari ma a non tutti gli studenti, com' era facilmente prevedibile, la novità è piaciuta. E cosi ieri pomeriggio gli studenti del liceo, dopo l'ultimo giorno di scuola in presenza, dato che da lunedì riprenderà per tutte le superiori la didattica a distanza, hanno organizzato un picchetto informativo e di protesta. «Troviamo inammissibile», hanno spiegato sui social del Collettivo politico Manzoni, «che una scuola pubblica, che dovrebbe essere accessibile a tutti e a tutte, ponga così spudoratamente un limite alle iscrizioni». Va detto che il meccanismo del numero chiuso, in alcune facoltà universitarie, esiste da tempo. Nonostante l'avversione degli studenti, il buonsenso gli ha indotti a «evitare» un corteo, proprio per non creare assembramenti. I ragazzi si sono messi distanziati lungo il corridoio della presidenza e una delegazione è stata ricevuta dal vicepreside. «Il tema del sovraffollamento, che ormai non può più essere ignorato», hanno spiegato, «rimane solo ed esclusivamente di facciata, grazie ad una mossa strategica pensata per portare il nostro Liceo ad essere sempre più vicino all'ideale scuola dell'eccellenza». ma «non vogliamo una scuola elitaria che vede i suoi studenti e le sue studentesse come semplici trofei di cui potersi vantare, lasciando indietro chi non ha avuto la possibilità di ricevere un'istruzione che concedesse una media dell'8 o chi ha bisogno di più tempo, di maggiore esperienza, chi crede non siano i voti a determinare le proprie capacità». Il portavoce nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha espresso la sua solidarietà agli studenti. Da lunedì, intanto, si riparte con la didattica a distanza in tutte le scuole superiori della Lombardia. Al liceo Beccaria un gruppo di ragazzi si è presentato con tute e cappuccio bianchi perché «ci sentiamo fantasmi, nessuno ci ha consultato». 

Razzismo e Disastri Ambientali.

Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.

Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.

Per i media prezzolati e razzisti.

Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.

Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.

“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 24 ottobre 2020. Chissà cosa avrebbero pensato gli scrittori Corrado Alvaro e Giuseppe Berto, l'uno calabrese di nascita e l'altro di adozione, del cortometraggio di Gabriele Muccino, Calabria terra mia, presentato alla Festa del Cinema di Roma e dedicato alle bellezze della Punta dello Stivale. Chissà se avrebbero ritrovato, l'uno, il fascino mitologico di quella terra, animata da realismo magico, e l'altro il suo carattere selvaggio, schivo e assetato di infinito, che portò lo scrittore veneto, migrante all'incontrario, a sceglierla come posto di ristoro per il suo male di vivere. Forse non avrebbero trovato nulla di tutto ciò, ma avrebbero condiviso le critiche che, da parte di intellettuali e utenti social, sono state mosse al corto, sostenuto da Regione Calabria, con un finanziamento di 1 milione e 700mila euro. E avrebbero ammesso che, anziché l'immagine di un luogo reale che non deluda poi i turisti, come vorrebbe l'intento promozionale della pellicola, viene fuori il ritratto di un posto inesistente, proiettato in un passato ormai perduto o in una dimensione idilliaca, edulcorata e pertanto falsa. Una Calabria ipotetica ma bugiarda; una Calabria non fotografata nella sua bellezza, ma al più photoshoppata. In effetti, guardando il corto interpretato da Raoul Bova e la sua compagna Rocío, è facile trovare stucchevoli le scene dei loro pranzi d'amore al tavolino, coi calabresi in bretelle e coppole a bighellonare e i vecchietti a giocare a carte, mente una musica in modalità Il Padrino fa da sottofondo; e viene spontaneo considerare una somma di cliché l'asinello nei campi e le clementine estive, le masserie con le tende ricamate e gli agrumi sbucciati, le distese di grano e le spiagge bagnate da acque cristalline. In modo altrettanto immediato ti appare basica e banale la sceneggiatura con frasi tipo «Siamo il mare, siamo il sole, siamo la vita che ci fa sentire bene» e con qualche clamoroso strafalcione: «Dove vuoi che ti porto?», dice Bova, dimenticandosi, come un Di Maio qualunque, che si dovrebbe dire «dove vuoi che ti porti?». Va' dove ti "porto" il cuore... Ed è anche normale che, da parte dei detrattori, si elenchino i mali calabresi furbamente nascosti così come le bellezze vere e ignorate nel corto: la Calabria filosofica di Pitagora, Telesio e Campanella, la Calabria religiosa di San Francesco da Paola e San Giovanni in Fiore; la Calabria naturale degli "elefanti" in pietra e la Calabria tecnologica della "Silicon Valley" tra Cosenza e Rende. È tutto vero, ma chi muove queste critiche dimentica che pur sempre di spot si tratta, che per vendere un prodotto bisogna un po' deformare la realtà, scegliere solo alcuni aspetti ed enfatizzarli a costo di farne una cartolina, e insieme creare un racconto da fiction che funga da sogno: si vende la Calabria che vorremmo, non la Calabria che già abbiamo. Alimentare la dimensione onirica, non è questa la missione del cinema? Per farlo, bisogna rinunciare alla complessità, alla narrazione troppo approfondita, sennò sarebbe un documentario culturale, ma anche alla chiave troppo investigativa, sennò sarebbe un'inchiesta di denuncia delle brutture, dalla criminalità organizzata alle infrastrutture mancanti fino alle strutture ricettive inadeguate. Non puoi chiedere il certificato di autenticità a un corto, peraltro girato da un regista romano, con un attore romano e una spagnola. Per quanto ci riguarda, una cosa però l'avremmo cambiata di sicuro: al posto di Bova, avremmo scelto uno di Bovalino. Un autoctono che parlasse in calabrese e sbagliasse meno i congiuntivi.

La solita bufala della regia mafiosa delle rivolte del Sud. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 28 ottobre 2020.  Solo Roberto Saviano ha avuto il coraggio di spiegare che le mafie hanno tutto da guadagnare dal lockdown: «I camorristi acquistano aziende e locali che stanno fallendo». A marzo – quando i numeri di Alzano e Nembro spaventavano già oltre ogni misura – e si parlava di zone rosse e di impedire ogni mobilità tra regioni, a Luigi de Magistris, sindaco di Napoli scappò detto: «Se il contagio fosse partito dalla Campania e non dalla Lombardia, il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista a qualsiasi meridionale». Che uno può leggerlo pure come il solito vittimismo dei meridionali, che un po’ ci inzuppano il pane, ma una qualche verità c’è. Anche perché era bastato – qualche giorno prima – che dei padri di famiglia riempissero un paio di carrelli della spesa a un supermercato di Palermo e fossero andati via sfondando le casse senza pagare – e là il ministro dell’interno Lamorgese si era lasciata andare a scenari apocalittici di rivolte sociali imminenti. Perché c’è questa cosa qua che va detta – se tirano un petardo a Torino o a Milano è una cosa, ma se lo stesso petardo lo tirano a Napoli o a Palermo è un’altra. È una cosa antica, mica di adesso, antica almeno quanto l’Unità d’Italia – che una sua forzosità la ebbe, possiamo dirlo senza sembrare dei follower di Pino Aprile? Sì, c’erano stati i picciotti a Calatafimi a battersi con le camicie rosse e una lunga tradizione di libertà aveva innervato generazioni di patrioti risorgimentali siciliani e meridionali. Ma la forzosità c’era stata, e un certo dispregio delle classi politiche e intellettuali del Nord verso il Sud era rimasto. Avevano esportato la democrazia al Sud – più o meno era questa l’idea. Quando, appena sei anni dopo l’Unità, Palermo – delusa e amareggiata – insorge guidata da repubblicani e garibaldini contro il nuovo Regno, le tasse e la coscrizione obbligatoria, che erano le uniche cose nuove che erano arrivate, re Vittorio ordina a Ricasoli a mezzo un telegramma di fuoco che la rivolta sia troncata: «Il me semble nécessaire une sévère leçon à ces malfaiteurs qui viennent de troubler l’ordre et la tranquillité publique… J’espère donc que vous n’aurez aucune pitié de certe canaille». Malfaiteurs, canaille. Pure in francese, che manco in italiano si degnò di dirlo re Vittorio, come a rimarcare una distanza anche linguistica. Mafiosi – fu detto pure questo nelle cronache del tempo, e come no. E pensare che i capi della rivolta avevano pure seguito Garibaldi nell’avventura di Aspromonte. Non è che le cose siano cambiate tanto, da allora. Ogni volta che una protesta popolare, sociale si manifesta nel Meridione – c’è come un tic nervoso, una reazione coatta, un gesto incontrollato: è la mafia. O è la ndrangheta, o è la camorra. La camorra è stata subito tirata in ballo pochi giorni fa per le proteste di Napoli – e non da un qualche impressionabile opinionista ma da Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, insomma uno che queste cose le mangia a colazione e cena: «C’è la regia camorrista». La regia eh, mica solo la manovalanza. Così, è toccato a Roberto Saviano, che pur non guidando alcuna Commissione antimafia o alcuna Procura una sua qualche conoscenza delle cose l’ha accumulata negli anni, dire che no, «i camorristi guadagnano dal lockdown: fanno prestiti, acquistano aziende e ristoranti che stanno fallendo». E quindi non hanno nessun interesse a fare casino e proteste per trovare un qualche rimedio, anzi. Una lenta agonia e si sfregano le mani. È questo che è toccato fare a Napoli: rompere l’incantesimo malefico che ha addormentato tutto. In cui la parola d’ordine sinora era stata: Non disturbate il manovratore. Un lento piano inclinato, in cui tutti i provvedimenti governativi non riescono a colmare il disagio che intanto cresce. È come se per l’epidemia, per quanti tamponi tu faccia e per quanti asintomatici trovi e li metti in quarantena, ce ne sono sempre di più – e non riesci a fermarla. E così è per l’epidemia economica: per quante casse integrazioni ti inventi, per quanti bonus, per quanti sostegni e ristori – c’è sempre una categoria che rimane fuori e scivola verso la povertà. La povertà: la Caritas ha anch’essa i suoi bollettini quotidiani e riportano i piatti di pasta che vengono forniti quotidianamente alle mense gratuite. E crescono di numero. Napoli ha sorpreso tutti, proprio perché tutti siamo sotto l’incantesimo malefico: siamo spaventati, siamo stanchi. E all’improvviso migliaia e migliaia di persone scendono in strada e in piazza – con la mascherina, provando a stare distanziati, e non sono No- Mask, non sono fuori di testa “Qui non c’è coviddi” – e dicono che così stanno morendo, stanno morendo le loro attività, si vanno licenziando i dipendenti, sta spegnendosi la vita sociale di una città. Poi c’è stata Catania, poi c’è stata Milano, poi c’è stata Torino. Napoli ha tolto il tappo: il conflitto è contagioso. Ma non è solo un grido di dolore che è salito dal Sud e ha trovato eco al Nord. Le manifestazioni di Napoli sono state un grande sussulto di democrazia. Il più importante sussulto di democrazia, dall’inizio della pandemia. Ci sono stati cassonetti bruciati – è vero. Ci sono state aggressioni – è vero. Non hanno fatto bene, queste cose, alla manifestazione – è vero pure questo. I primi a saperlo sono proprio i napoletani che sono scesi in piazza e hanno continuato a farlo. Le manifestazioni di Napoli hanno rotto la paura e la depressione. Non sono ‘ per principio’ contro il governo: Napoli chiede provvedimenti, suggerisce iniziative, sollecita interventi. Non vuole la rivoluzione – mammamia. Vuole essere partecipe, vuole essere presa in considerazione, vuole dire la sua. Perché è della sua pelle che si va decretando. Questo è il messaggio “universale” che viene da Napoli – perché “vada tutto bene” bisogna coinvolgere le persone nelle decisioni, bisogna ascoltarle, bisogna capire le difficoltà che si vivono. Il contagio sta rendendo ancora più “liquida” la società – se i luoghi della decisione politica si ritraggono, questo è il pericolo vero per la democrazia.

«Calabria terra mia», lo spot firmato Muccino che fa infuriare i calabresi. Il Corriere della Sera il 23/10/2020. L’idea voleva essere quella di rappresentare una Calabria senza stereotipi per valorizzare il territorio e le ricchezze culturali e storiche. Dal corto del regista Gabriele Muccino, commissionato dalla Regione per un costo di 1,7 milioni di euro viene invece fuori una realtà d’altri tempi, scatenando un vespaio di polemiche. «Noi abbiamo commissionato un corto per emozionare e incuriosire chi ha voglia di visitare la Calabria. È un video per sprovincializzare e sdoganare il nostro territorio dai soliti cliché» spiega l’assessore regionale al turismo Fausto Orsomarso. In realtà negli otto minuti del cortometraggio vengono riproposti vecchi stereotipi con coppole, bretelle e scene che ricordano il «Padrino». «Io lo boccio, anche se mi sono piaciute le immagini e il suono. È stata rappresentata una Calabria che non c’è più» attacca lo scrittore Mimmo Gangemi. «Sono senza parole. Manca la ricerca di una terra che tenta di innovarsi. È una follia allo stato puro» aggiunge Florindo Rubettino, titolare dell’omonima casa editrice. Nel cortometraggio i protagonisti, Raoul Bova e la compagna Rocio Munoz Morales, raccontano una storia d’amore dove lui, calabrese d’origine, porta lei a visitare i luoghi della sua infanzia. Il tutto ambientato in uno scenario fatto di sterminate coltivazioni di agrumi e bergamotto e con il mare che fa da sfondo. «Le critiche allo spot non mi preoccupano - replica da parte sua il regista - fa parte del gioco, dovevo solo emozionare, non potevo far vedere di più».

Il cortometraggio di Muccino per rompere gli stereotipi, ha prodotto l’eterogenesi dei fini…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 25 Ottobre 2020. La Calabria è in rivolta. Nessuno degli innumerevoli e atavici problemi della Regione è causa del fermento: politici, intellettuali, giornalisti, buona parte dei calabresi, hanno dichiarato guerra al regista Gabriele Muccino, ritenuto responsabile di lesa calabresità, poiché, realizzando un cortometraggio commissionatogli dalla Regione anziché migliorarne l’immagine l’ha ulteriormente incrinata. A marzo, la presidente Jole Santelli, purtroppo morta dieci giorni fa, aveva dichiarato che uno dei punti più importanti del proprio programma sarebbe stato quello di far sparire gli stereotipi, le rappresentazioni fasulle e folkloristiche, che gravano sulla Calabria, e ne impediscono lo sviluppo economico, in prospettiva soprattutto turistica. Una nuova narrazione della Calabria, la mission: per raccontare una terra diversa da quella infissa nell’immaginario collettivo. Si puntava molto sul messaggio filmico, e molto anche in termini economici si era speso sull’opera di Muccino: un corto che infondesse curiosità, voglia di conoscere. E il corto è arrivato, il 20 ottobre è stato presentato in prima mondiale al festival del cinema di Roma. Il giorno dopo è stato diffuso sul web da un assessore della Giunta calabrese. Nel passare di poche ore si è scatenata una schiera enorme, e trasversale, di critiche. Veramente in pochi hanno provato a difendere l’opera di Muccino. 1.700.000 euro per 6 minuti di girato, quanto mediamente si spende in Italia per un film, quanto molti registi di qualità vorrebbero avere per realizzare un lungometraggio, magari di successo. E a guardarlo, il corto di Muccino, interpretato da Raoul Bova e Rocio Munoz Morales, effettivamente, per chi la Calabria la conosce si resta spaesati, per chi non la conosce si vedrà davanti il cliché di una terra arretrata in cui l’asino sia ancora un mezzo di locomozione, tutti siano impegnati a giocare a carte o a oziare, indossando vestiti anni cinquanta e calcando sul capo, in piena estate, coppole di lana. E tutti siano onorati della visita della bella straniera che l’oriundo porta a casa per mostrarle quanto bella sia la sua terra. In un trionfo di colori artefatti, clementine di plastica, lo stereotipo invece di sparire si materializza, il luogo comune imperversa. La Calabria ne esce avvilita, al di là delle intenzioni di chi ha costruito il corto. Soprattutto, l’effetto è controproducente rispetto al proposito del committente: eliminare lo stereotipo. 1.700.000 euro spesi, secondo i calabresi, male. L’impressione della beffa. La sensazione di essere trattati come bravi selvaggi a cui si concedano le carezze. E i calabresi è vero, sono permalosi, esagerano spesso con orgogli stupidi. Però, anche se non passa nel racconto attuale che si fa della Calabria, rinchiuso, spesso per colpa dei calabresi stessi, fra la cronaca nera e la nera cronaca. La Calabria è pur sempre figlia di una storia millenaria, di una cultura antica: per quanto sepolte, annacquate, non è il caso di trattare i calabresi come un popolo bambino. Un minimo di cautela. Solo un minimo. Che magari il problema della Calabria fosse davvero, solo, un problema di immagine. La Calabria ha problemi reali e nemmeno se venissero Coppola o Scorsese a girare spot, i problemi sarebbero risolti. Però anche il racconto sbagliato è un problema, e se si è pagati per aggiustare il tiro ai luoghi comuni, se non ci si impegna al massimo, dopo, ci si può trovare contro 2.000.000 di calabresi, che avranno molti difetti, come tutti gli abitanti del mondo, ma non sono.

Coppola, bretelle e asinello: questa non è la Calabria, caro Gabriele Muccino. Edoardo Sylos Labini su culturaidentita.it il 24 Ottobre 2020. Vive ancora forte dentro ognuno di noi il ricordo di Jole Santelli, la 51enne Presidente della Regione Calabria scomparsa prematuramente qualche giorno fa. Malgrado la grave malattia, Jole ha continuato coraggiosamente a combattere e a lavorare per la sua amata terra. Così il corto presentato al Festival del Cinema di Roma, Calabria terra mia, è sembrato il giusto omaggio ad una donna che lascia un vuoto nel governo della regione. Sul red carpet hanno sfilato gli attori protagonisti, Raul Bova con la compagna Rocio Munoz Morales e Gabriele Muccino, il regista di quest’opera di circa 8 minuti (compresi i quasi tre dei titoli di coda) costata 1 milione e ottocentomila euro. Insomma, per spendere così tanto in cinque minuti di girato ce ne vuole (malgrado il trionfo di droni che ci restituiscono paesaggi di mare mozzafiato, ma nulla più). Per non parlare della carrellata di clichè e di stereotipi che, leggendo i commenti sui social, hanno lasciato basiti molti calabresi. Tra clementine e bergamotti, soppressate e finocchietto, il corto inizia con una bella mano di Raul sulla coscia della bellissima Rocio, con un voce off che recita: “La tua terra ti parla con tante voci”. Loro, fighi pazzeschi, arrivano in jeep tra abitanti con bretelle, coppola e l’asinello che nemmeno più Little Italy dipinge così. Capiamo che Muccino oramai è un regista americano, però un po’ di conoscenza più profonda della Calabria, visto l’investimento economico, non avrebbe guastato. La fotografia da cartolina ci restituisce un mare splendido, ma ad un certo punto diventa ripetitiva come le effusioni tra i due bonazzi; inoltre non troviamo un’inquadratura per un sito archeologico, per un monumento, per uno degli importanti palazzi regionali. Non ci sono nemmeno i Bronzi: saranno fuggiti via come nell’autoironico spot girato sempre per la Regione Calabria nel 2011. Dove sono le mille identità che fanno della regione una terra unica, dalla Magna Grecia all’influenza normanna, da quella angioina, ebrea, arbëreshë? La Calabria, fuori dai luoghi comuni, è una terra da scoprire soprattutto per chi non ci è nato. Insomma, le buone intenzioni della Santelli non sono state onorate da uno dei più importanti registi del mainstream italiano. E molti calabresi a quanto pare non l’hanno presa bene. Le risorse per chi si occupa di cultura sul territorio a quanto pare ci sono. Ora starà all’assessore Spirlì , Presidente ad interim, dare un’adeguata risposta a chi si impegna per il rilancio culturale di questa straordinaria terra.

Da blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2020. Su Facebook un’attivista M5S ha scritto un post in cui festeggia per la morte della governatrice della Calabria Jole Santelli, scomparsa a soli 51 anni. “Evviva!!! Una mafiosa di meno!!!”, questo il post dell’attivista M5S riguardo la morte di Jole Santelli. Un post che è stato poi rimosso, mentre la pagine dell’attivista è stata oscurata da Facebook dopo le diverse segnalazioni fatte da molti utenti. Il post poi si concludeva con la frase: “Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio, ecc.ecc.”. A sollevare il caso è Monica Pietropaolo, attivista di Fratelli d’Italia e presidente del Circolo Giorgia Meloni presso il V Municipio di Roma. Il post in questione invece porta la firma di una attivista 5 stelle che su Facebook si presenta come “la prima attivista genovese dai tempi degli ‘Amici di Beppe Grillo’”. Il post è stato rimosso ma lo ha condiviso sulla sua pagina Fb la Pietropaolo, che all’agenzia Dire spiega: “Io non riesco a capire la cattiveria dimostrata da questa appartenente a M5s di Genova. Cattiveria totalmente gratuita e inutile, anche perché la Santelli non ha mai avuto a che fare con i mafiosi né tantomeno avuto mai procedimenti penali a suo carico. Detto questo io sono sempre per il discorso che il nemico politico si batte nelle urne e non si deve mai esultare per la morte di nessuno. Che esso sia del tuo stesso seme politico o d’altro”. “Premesso ciò – prosegue – se fossi nei rappresentanti politici del Movimento 5 stelle prenderei immediatamente le distanze e produrrei le scuse per colpa di questo soggetto che ritengo ignobile. Ma essendo loro di caratura politica sinistroide sono sicurissima che ciò non accadrà. Gioire per la morte di un essere umano è ignobile!”.

Ci va di mezzo anche l’Agesci. L’attivista M5S sul suo profilo tra le informazioni ha scritto “lavora presso Agesci gruppo Genova 14”. E così molti utenti stanno scrivendo proprio all’Agesci di Genova. L’Agesci gruppo Genova su Facebook si vede quindi costretta a fare questa precisazione: “Da questa mattina la Comunità Capi riceve tramite i canali social ingiurie e manifestazioni di sdegno e repulsione per alcuni post pubblicati da questa perona, la quale sul suo profilo – nonostante i nostri inviti a rimuoverlo – mantiene la dicitura ‘lavora presso Agesci gruppo Genova 14’. Questa persona nulla ha a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto pubblicamente prende le distanze sia dalle ideologie espresse dalla persona in oggetto sia dai contenuti da essa pubblicati”. (Fonte Facebook e Stretto Web).

L'odio dei 5 Stelle contro Jole Santelli, il post di Paola Castellaro: "Evvai, una mafiosa di meno". L'odio non si ferma nemmeno davanti alla morte, come dimostra Paola Castellaro, attivista 5 Stelle, con un post contro Jole Santelli a poche ore dalla sua scomparsa. Francesca Galici, Venerdì 16/10/2020 su Il Giornale. L'odio del web non si smentisce mai, nemmeno davanti alla morte. La scomparsa del governatore della Calabria, Jole Santelli, ha scatenato gli istinti più bassi di molti utenti del web che, si sono spinti ben oltre con commenti inutili e fuori luogo. Dalle pagine di satira fino ad attivisti politici, i messaggi contro la Santelli non si contano. Tra questi c'è un post di Paola Castellaro, che dopo aver pubblicato la sua gioia per la morte di una donna, è stata sommersa dalle critiche, al punto che non si è limitata a cancellare il commento, ha preferito sospendere il suo profilo di Facebook. "Evvai!!! Una mafiosa di meno!!! Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio ecc. ecc.", ha scritto Paola Castellaro. Parole violente e cattive come non mai, che fotografano una situazione fuori controllo nel nostro Paese. La donna si vantava di essere un'attivista del Movimento 5 Stelle, anzi, "la prima attivista genovese dai tempi degli 'Amici di Beppe Grillo'". Il suo attivismo politico è certificato anche da una candidatura alle amministrative del 2017 nel consiglio comunale con il Luca Pirondini per il Movimento 5 Stelle. Forse consapevole dell'errore commesso, o forse per evitare di continuare a essere sottoposta alla gogna mediatica per quanto scritto, Paola Castellaro ha preferito eliminare il suo profilo Facebook. Ma il web non perdona, rimane sempre una traccia di quanto scritto, tanto più quando si tratta di affermazioni di questo tenore. Inevitabile la polemica contro di lei, tanto che molti utenti adesso chiedono che vengano presi provvedimenti. "In merito a Paola Castellaro. Vi prego segnalate queste sue esternazioni alla scuola dove lavora. Mi sono presa la briga di cercare informazioni e ho scoperto che dovrebbe lavorare al liceo Parini di Genova", scrive Maura che si appella agli altri utenti: "Per cortesia spendere 5 minuti del vostro tempo per far sì che anche le parole d'odio e la cattiveria sui social possano aver conseguenze nella vita reale, andando oltre il credo politico". A dissociarsi dalla signora è anche il gruppo scout Agesci - Genova 14, che la Castellaro ha indicato come una delle sue sedi lavorative nel profilo Facebook. Per questa ragione, il distaccamento scoutistico ha ricevuto neumerosi insulti e inviti a prendere le distanze dalla Castellaro. "Questa persona non ha nulla a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto, pubblicamente, prende le distanze sia delle ideologie espresse dalla persona in oggetto, sia dai contenuti da essa pubblicati", si legge nel messaggio.

Jakob Fuglsang, il ciclista danese favorito al Giro deride gli italiani: "In Sicilia c'è spazzatura ovunque, sotto Firenze è Africa". Poi la "precisazione". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. "In Sicilia c'è spazzatura ovunque, sotto Firenze è Africa". Autore di queste "perle" è il ciclista danese Jakob Fuglsang, uno dei favoriti del giro d'Italia. Il 35enne, in una rubrica che scrive periodicamente per un giornale del suo Paese, ha riservato all'Italia e agli italiani parole sgradevoli, del tipo "Non capisco perché non ci sia il ponte tra Sicilia e Calabria, forse la mafia ha interesse che non venga costruito". Contattato dalla Gazzetta, Fuglsang ha provato a difendersi: "Non è così, non ho mai detto quelle cose. Le traduzioni con Google Translate, credetemi, non sono così affidabili. Io amo l’Italia e quella traduzione non rispecchia il mio pensiero". Il ciclista ha fatto sapere anche di aver parlato con il giornalista che raccoglie il testo: "Gli ho detto che non è possibile che vengano travisate così le mie parole", poi ha aggiunto: "Ho detto, quello sì, che ho notato diversi cani per strada che andavano in giro a cercare da mangiare per strada perché in certi punti c’era un po’ di spazzatura. Qualcuno ha anche attraversato la strada durante le tappe. Niente di più. Io amo l’Italia".

Ciro Scognamiglio per gazzetta.it il 15 ottobre 2020. La rubrica che Jakob Fuglsang tiene per un giornale danese fa ancora discutere, dopo le punzecchiature a Vincenzo Nibali ("Non mi saluta, forse è geloso di me") e un chiarimento privato tra i due. Stavolta però le frasi tradotte in inglese e rimbalzate al Giro contro il Sud Italia in particolare sono state gravissime, da stigmatizzare senza riserve. Estratti: "In Sicilia c’è spazzatura ovunque"; "Come dicono tutti gli italiani del Nord, tutto sotto Firenze è Africa"; "Non capisco perché non ci sia il ponte tra Sicilia e Calabria, forse la mafia ha interesse che non venga costruito". In serata, la Gazzetta ha contattato il 35enne danese dell’Astana in merito. Ecco le sue precisazioni: "Non è così, non ho mai detto quelle cose. Le traduzioni con Google Translate, credetemi, non sono così affidabili. Io amo l’Italia e quella traduzione non rispecchia il mio pensiero". Jakob fa questa rubrica per il giornale BT come una sorta di diario: "Ho parlato con il giornalista che raccoglie il testo e gli ho detto che non è possibile che vengano travisate così le mie parole. Ho detto, quello sì, che ho notato diversi cani per strada che andavano in giro a cercare da mangiare per strada perché in certi punti c’era un po’ di spazzatura. Qualcuno ha anche attraversato la strada durante le tappe. Niente di più. Io amo l’Italia, è la prima volta che sono stato in Sicilia e in tanti posti del Sud e mi sono piaciuti. La tappa lungo la costa pugliese è stata fantastica. Tanti posti bellissimi. Mi dispiace molto che ci sia stato questo equivoco".

Sud, la recensione del libro di Marco Esposito che passa in rassegna i luoghi comuni sul Mezzogiorno. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 09 ottobre 2020.  I meridionali non rispettano le regole, è più forte di loro: non ce la fanno proprio. E per di più non pagano le tasse. Il loro sport preferito è l'evasione fiscale. Il Mezzogiorno non decolla, nonostante l'intervento straordinario dello Stato. Gli abitanti del Sud migrano al Nord per curarsi poiché la gestione della loro sanità è contraddistinta da sprechi e ruberie. La massima ambizione di chi nasce nella parte inferiore dello Stivale è il posto pubblico e, una volta ottenuto, ci si dedica all'assenteismo, ché tanto lo stipendio è assicurato. Se solo non ci fosse il Meridione, che campa sulle spalle del Settentrione, l'Italia sarebbe più ricca. Non soltanto il Sud non è in grado di guadagnare, ma non è neppure capace di spendere le risorse che riceve in dono: i fondi europei, ad esempio, vengono restituiti al mittente. Del resto, i politici meridionali sono un branco di inetti. La popolazione del Mezzogiorno non fa che lamentarsi, vittimizzarsi, piangersi addosso. Prima di essere lapidata per quanto ho appena scritto preciso che questi e altri postulati sono riportati e smontati uno ad uno nel libro di Marco Esposito Fake Sud, perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede d'Italia, edito da Piemme. Ricorrendo ad una parola tanto in voga da essere abusata, ossia "fake", che significa "finto", l'autore nella sua opera ben documentata passa in rassegna una carrellata di "luoghi comuni", alcuni addirittura atavici, riguardo il Mezzogiorno e chi ci abita. Si tratta di preconcetti così sedimentati che ognuno di noi di fatto li ripete senza metterli in dubbio ed è avvezzo ad ascoltarli rimbombare nelle orecchie. In tal modo queste false credenze non soltanto hanno distorto la visione che coloro che dimorano nel Settentrione hanno di coloro che dimorano nel Meridione, bensì pure la visione che questi ultimi hanno di loro stessi. Un pregiudizio non è mica una cosa da niente: esso può addirittura bloccare lo sviluppo, tanto più se i tabù in questione sono copiosi. La loro funzione nel tempo è stata quella di mascherare sia le inefficienze sia lo scarso interesse delle istituzione nei confronti del Sud, considerato quale serbatoio di voti, da garantirsi mediante facili promesse o attraverso la prassi, consolidata in certe aree del nostro Paese, di trasformare i diritti in favori. Dunque l'arretratezza delle regioni meridionali è stata imputata alla loro posizione geografica, che le isolerebbe rispetto al resto del continente. Ennesima balla, in quanto il trovarsi al centro del Mediterraneo può rappresentare una formidabile opportunità, magari estendendo verso sud l'alta velocità, investendo in infrastrutture, rendendo più agili i trasporti. Cose che non sono mai avvenute. E la colpa non è tutta del cittadino meridionale sporco, brutto, cattivo e indolente. Egli è stato sempre ingannato, preso per i fondelli, illuso. Si è aggrappato ora a questo partito e ora a quest' altro, ma non ha mai visto la sua condizione mutare in meglio. Pensiamo all'ultima gigantesca fregatura: il Movimento Cinquestelle, il quale ha istituito un ministero del Sud che per il Sud non ha compiuto un bel niente. I pentastellati hanno assicurato posti di lavoro, eppure la disoccupazione, già endemica in alcune province, si è aggravata. E i beneficiari del reddito di cittadinanza in questi anni non hanno ricevuto neppure una proposta di lavoro, eppure avrebbero dovuto ottenerne addirittura tre nel giro di qualche mese. Questo ci raccontava l'ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio, poi migrato agli Esteri, non all'estero purtroppo. Sono tali lusinghe e promissioni continuamente infrante a fiaccare l'animo di noi terroni. Pardon, Esposito ritiene che "terrone" sia un'offesa. Non sono dello stesso avviso. Investiamo orgoglio in dosi massicce in polemicucce di lana caprina e trascuriamo poi di difendere i nostri diritti essenziali. Ignoro se queste che sto per introdurre siano bufale o meno, ma ai miei concittadini rimprovero l'assenza di intraprendenza, la rinuncia alla ribellione, l'accettazione passiva della realtà. Noi calabresi, ad esempio, proprio come i siciliani, abbiamo subìto per secoli incessanti invasioni, piegandoci nostro malgrado al potente di turno, e tutto questo un po' ce lo portiamo inciso nel nostro dna. Non siamo insorti. Non osiamo farlo neppure ora. Ci siamo dimostrati sempre in qualche modo favorevoli alla sottomissione. E poi ci crogioliamo troppo sui doni che ci ha elargito Madre Natura: il clima, il mare, i monti, fauna e flora uniche. Tuttavia, non sfruttiamo a dovere ciò che possediamo e questo è un peccato: equivale a disperderlo, a sprecarlo. Dopo le tante frottole che circolano sul Meridione, ci sono quelle - ancora più pericolose forse - che il Meridione fa circolare riguardo se stesso, come quella che lo vorrebbe terra di straordinarie ricchezze depredate con l'Unità d'Italia dagli invasori piemontesi che avrebbero impoverito quei luoghi. Il guaio del Sud è che c'è sempre qualcuno a cui dare la colpa del proprio malessere, contro cui puntare il dito, ché tanto così è più facile. E ciò conduce a permanere in uno stato di tragico immobilismo: «Se gli errori sono altrui, allora io non posso fare nulla per cambiare lo status quo». È uno schema da distruggere. Poiché il Meridione ha solo un modo di risollevarsi: premendo il peso sulle proprie ginocchia al fine di mettersi in piedi. Sarebbe opportuno che Nord e Sud deponessero i reciproci pregiudizi (nonché le armi) e facessero uno sforzo per conoscersi davvero, poiché - e ancora non ce lo siamo ficcato in testa - siamo parte di una stessa Nazione, di un medesimo organismo. Se una parte annaspa, neppure l'altra sta mica tanto bene. 

Vittorio Feltri sul Meridione: "Cosa amo, cosa non funziona e perché dovrò sempre difendermi dai cretini". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Caro Daniele, intanto complimenti: scrive in modo delizioso e compie osservazioni sensate per cui si rassegni a esser criticato, persino insultato. Ormai nel nostro Paese chi fotografa la realtà con un linguaggio opportuno, che non è mai politicamente corretto, passa per essere razzista o almeno antimeridionale. I meridionalisti di una volta, ne cito due su tutti, Gaetano Salvemini e Corrado Alvaro, la pensavano già come lei, persona intelligente e sensibile. La povertà oramai è diventata una vocazione in alcune regioni, viene difesa e vantata come fosse motivo di orgoglio. In una circostanza in tivù ho affermato che i cittadini del Sud in alcuni casi non soffrono di un complesso di inferiorità, bensì sono inferiori. Il mio non era un discorso antropologico, ma si riferiva al peso economico, organizzativo e sociale. Un territorio che esprime addirittura quattro mafie, siciliana, calabrese, napoletana e pugliese, deve essere indotto a modificarsi: cambiare abitudini, dedicarsi alla produzione di ricchezza, migliorare le condizioni ambientali. Per realizzare tale programma servono infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo, da cui dipende poi la qualità della vita. Il Meridione dispone di notevoli cervelli, copiose eccellenze e molte potenziali risorse. Tuttavia, se la politica sia locale che nazionale non è capace di sfruttare i propri beni, non possiamo applaudirla. L'inferiorità del Sud rispetto al Nord si misura attraverso il reddito pro-capite: in Lombardia 36 mila euro, in Campania 19 mila. Una differenza abissale che pone in risalto l'inadeguatezza della classe dirigente ad affrontare e risolvere i problemi che affliggono i meridionali. Naturalmente le mie frasi di senso comune hanno irritato la maggioranza dei suoi conterranei, i quali mi hanno ricoperto di improperi, convinti che il mio intento fosse quello di offenderli e non quello di stimolarli a reagire. Io sono innamorato del Molise dove ho vissuto a lungo, ne conosco la popolazione sannita, e a Guardialfiera, dove da ragazzo mi recavo, ho fatto di recente una donazione finalizzata a restaurare la campana più antica del pianeta. Ovviamente ho ricevuto affettuosi ringraziamenti dagli amici, però hanno prevalso i rimproveri di altra gente per via delle mie dichiarazioni sulla arretratezza del Mezzogiorno. Così va il mondo. Stimato Daniele, finché varranno di più le parole (male interpretate) dei fatti, lei ed io dovremo sempre proteggerci dai cretini, una maggioranza schiacciante. Le do un consiglio: venga a Milano, che digerisce tutti, perfino me. Un'ultima annotazione che vuole essere spiritosa. Spesso napoletani e calabresi mi dicono che loro, comunque, hanno tante bellezze naturali, tra cui il mare. Vero. Ma mica le hanno fatte loro. Gliele ha regalate il Padreterno, forse dispiaciuto poiché non se le godono né le adoperano come dovrebbero.

In Italia troppi parassiti, ma se non lavora nessuno chi ci salverà dalla crisi? Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 13 agosto 2020. Ho scritto più volte che dieci milioni di italiani ne mantengono cinquanta. Non è propriamente uno scoop. È la triste, per quanto denegata, realtà di un paese che tra i molti impedimenti alla crescita registra appunto questo: che quelli che lavorano sono pochi, e si dissanguano per mantenere i troppi che non lavorano. Ebbene, soprattutto da sinistra (e soprattutto da sud) ti rinfacciano che non è vero perché gli occupati in Italia in realtà non sono dieci ma venti milioni e rotti. Ora, a parte il fatto che venti su sessanta sono comunque pochi, c'è il dettaglio che il dato formale sull'occupazione non dice niente circa quello sostanziale: occupati, va bene (cioè stipendiati), ma lavorano? Non è uno scoop nemmeno quest' altro: la metà e oltre degli occupati non è occupata per nulla: è improduttiva, come sa chiunque. Sono ineccepibilmente "occupati" i dipendenti che godono legittimamente di aspettative, distacchi e permessi retribuiti: ma lavorano? Sono indiscutibilmente occupati i seimila (o novemila?) dipendenti del Comune di Palermo: ma ipotizzare che contribuiscano effettivamente, tutti quanti, sul fronte positivo dell'economia nazionale è forse azzardato. I venti milioni di "occupati" comprendono poi, per esempio, ventimila forestali siciliani (la Calabria è più inibita: ottomila): in Canada sono la metà della metà, ma è sicuramente perché lì c'è meno foresta. Ancora, sono inoppugnabilmente "occupati" gli undicimila dipendenti della Rai, che indubbiamente appartengono ai venti milioni di cui sopra: e non vorrai mica dirmi che questi undicimila non si guadagnano fino all'ultimo centesimo i novecento milioni di euro che gli paghiamo. E sono tutti perfettamente "occupati" i tre milioni di dipendenti che fanno funzionare in modo così egregio le nostre amministrazioni pubbliche. Che cosa faccio, continuo? Che le generazioni di parassiti (solitamente l'accesso allo status è dinastico) perdano completamente le staffe quando si ricordano quelle verità elementari è del tutto comprensibile, ma non è una buona ragione per dimenticarsene e semmai è una buona ragione per continuare a rinfacciarle. Specie se dobbiamo sopportare l'insulto di una Costituzione che vuole questa balorda Repubblica fondata sul lavoro.

Professore di Lecce vince il Global Teacher Award: è il primo italiano a ricevere il premio. La Repubblica il 26 ottobre 2020. Daniele Manni insegna  imprenditorialità e informatica all'Istituto "Galilei-Costa-Scarambone": aiuta studentesse e studenti a ideare micro e piccole imprese innovative che lanciano sul mercato nuovi prodotti e servizi. Il professor Daniele Manni, docente di imprenditorialità e informatica all'Istituto "Galilei-Costa-Scarambone" di Lecce, è il primo docente italiano a vincere il prestigioso ed internazionale "Global Teacher Award". A darne notizia è la ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina che si dice "orgogliosa". Il 22 novembre, in India, avrà luogo la cerimonia di consegna del riconoscimento. Già a settembre il professor Manni è stato sul podio degli "Innovation and Entrepreneurship Teaching Excellence Awards", arrivando 3°. Da anni al "Galilei-Costa-Scarambone" le studentesse e gli studenti vengono aiutati ad ideare micro e piccole imprese innovative che lanciano sul mercato nuovi prodotti e servizi. "Complimenti dunque al prof. Manni, alla dirigente scolastica Addolorata Mazzotta e a tutto l'Istituto per il prezioso lavoro portato avanti e i traguardi raggiunti", conclude la ministra.

Carlo, un italiano per la prima volta tra i dieci prof migliori del mondo. Pubblicato giovedì, 01 ottobre 2020 da Caterina Pasolini su La Repubblica.it. Mazzone, insegnante di informatica a Benevento, ha sfidato 12mila docenti di 140 paesi arrivando nella decina finale ai Global teacher prize. In palio, dalla Varkey Foundation, un milione di dollari da usare per progetti legati alla scuola. Un professore di italiano tra i dieci migliori professori del mondo. Carlo Mazzone, 55 anni di Ceppaloni, docente di informatica a Benevento, è il primo italiano a riuscire ad arrivare nella decina di finalisti che cercheranno di aggiudicarsi il Global Teacher prize. Il premio,  giunto alla sesta edizione, in collaborazione con l'Unesco,  e creato dalla Varkey Foundation,  ha visto quest'anno sfidarsi 12mila insegnanti di 140 paesi per aggiudicarsi il milione di dollari in palio che dovranno essere spesi in progetti per la scuola. "Io vorrei usare quei soldi per aiutare gli studenti a diventare imprenditori di loro stessi, per  combattere l'abbandono scolastico che al sud è drammatico. Perché per ogni ragazzo che abbandona gli studi, si perde un pezzo di futuro", dice Mazzone che da giovane era considerato la pecora nera di casa. Figlio e fratello di docenti, insegnanti, presidi, amanti di greco e latino, lui disdegnava le materie umanistiche. Voleva fare lo scienziato, amava l'elettronica, tanto da iscriversi di nascosto a radio Elettra leggendosi i fascicoli di nascosto, come giornalietti proibiti. Mancando volumi sulla sua materia, sui computer, negli anni ha cominciato a scriverli basandosi sulla sua esperienza prima nelle aziende e poi in classe, organizzando le lezioni in pratiche sfide tra gruppi di alunni per creare progetti. E molti sono stati premiati in concorsi europei. Fra i top 10 con Carlo Mazzone anche gli insegnanti Jamie Frost (Inghilterra), Mokhudu Cynthia Machaba (Sudafrica), Leah Juelke (Stati Uniti) e Yun Jeong-hyun (Corea del Sud).  La premiazione via web causa Covid avverrà il 3 dicembre a Londra dal Natural History Museum,  verrà anche annunciato anche un riconoscimento ad un eroe, che si è spinto oltre per far sì che i giovani continuino ad imparare durante la pandemia. "Il Global Teacher Prize è stato infatti creato per mettere in luce l’importante ruolo svolto dagli insegnanti nella società. Rendendo note migliaia di storie di eroi che hanno trasformato la vita dei più giovani, il premio mira a mettere in primo piano l’eccezionale lavoro degli insegnanti in tutto il mondo, quest'anno, più che mai, abbiamo visto gli insegnanti andare oltre per far sì che i giovani continuassero a imparare in tutto il mondo", ha sottolineato Sunny Varkey, imprenditore e filantropo che ha creato il premio. Sulla stessa linea l'Unesco. Le congratulazioni al professore di Ceppaloni le ha espresse Stefania Giannini, vicedirettore generale dell'Unesco, per il settore educazione. "Spero che la sua storia, scelta tra i tanti talentuosi e motivati docenti, ispiri chi vuole intraprendere la professione e metta in luce l'incredibile lavoro svolto quotidianamente dagli insegnanti in Italia e nel mondo. Il Global Teacher Prize aiuta a porre la voce degli insegnanti al centro della nostra missione, ovvero promuovere opportunità di insegnamento inclusive per i bambini e i ragazzi di tutto il mondo. Da quando è emersa la pandemia di coronavirus, 1,5 miliardi di studenti sono stati colpiti dalla chiusura di scuole e università. Non tutti allo stesso modo. I governi devono imparare da queste lezioni e agire con decisione per garantire che tutti i bambini ricevano un'istruzione di qualità nell'era del Covid e non solo".

Ma l'orrore non ha la bussola. Renato Moro Venerdì 2 Ottobre 2020 su quotidianodipuglia.it. Quando il giudice lesse la sentenza di condanna dei responsabili della morte di Renata Fonte, l'assessora uccisa a Nardò nella notte del 31 marzo di 36 anni fa, il faccendiere Antonio Spagnolo (mandante del delitto) sbottò in aula: «Ho capitato come Gesù!». Quelle parole fecero ridere giudici, avvocati e giornalisti, ma tutto finì lì perché la mancanza dei social e la scarsa attenzione dei telegiornali nazionali negarono un moltiplicatore a quello strafalcione. Oggi non sarebbe così. Oggi anche il mandante del delitto Fonte finirebbe nel parco degli insulti senza passare dal via. E soprattutto oggi il popolo dei social - o, meglio, quella parte di esso abituato a ragionare con i piedi - troverebbe il modo di legare quel verbo sbagliato alla latitudine che ha visto nascere e crescere l'imputato: ignorante, spietato, ambizioso fino a uccidere e figlio di un Sud che viaggia con una velocità tutta sua non solo nell'economia e nella sanità, ma anche nel bisogno di legalità e persino nella grammatica. È così. In questa Italia affetta da diplopia congenita c'è sempre una linea che divide tutto, anche l'indivisibile, ed è la linea immaginaria che separa un Sud liquido, e quindi espandibile al bisogno, da un Nord con i confini chiari e fissati col cemento. La tragica sorte di Eleonora Manta e Massimo De Santis e il conseguente arresto dell'assassino reo confesso offrono l'ennesimo esempio. Dalla sera di quel maledetto 21 settembre spesso ci si è avventurati un una lettura dei fatti che sa di vecchio, che puzza di umidità e muffa per quanto tempo quella lettura è rimasta - e sembra rimanerci ancora - nei cassetti della peggiore sociologia. Il principio, forzando un po' i concetti, sarebbe che se uccidi a Trezzano sul Naviglio o a Trento la colpa è in te, nella famiglia, nella scuola, nel prete che ti ha violentato a dieci anni o nello zio del cuginetto che ti baciava con troppa passione; se invece uccidi a Casarano o Rossano Calabro la colpa è in te, ma anche fuori da te e dal tuo mondo. Soprattutto colpa del Sud, forse delle «case bianche sferzate dallo scirocco sparse lungo poderi ticchiolati di ulivi e fichidindia» (Omar Di Monopoli ieri sul Fatto Quotidiano, c'è da chiedersi dove veda ancora degli ulivi), delle vecchie vestite di nero o magari della salsa fatta in casa, ma venuta acida. Così - tornando a ciò che scrive Di Monopoli -, la Casarano che è stata e sta tornando ad essere una capitale italiana del calzaturiero, che istruisce fino alla maturità i ragazzi di mezzo Salento e che si pone come centro commerciale e produttivo di un territorio vasto quasi quanto il Molise, diventa un «villaggio dimenticato da Dio»». Ciliegine sulla torta la doppia vita dell'assassino che ci ricorda «la polvere nascosta sotto l'ovattata quiete di certi luoghi del Sud»» (Marco Travaglio nel post che su Facebook presenta l'articolo di Omar Di Monopoli) e quella «Terra del male» con cui il redattore ha voluto titolare. Ora, sia chiaro che Di Monopoli è scrittore intelligente e leggibilissimo e che le sue letture non sono certo ferme al “Cristo fermatosi ad Eboli”, ma è pur vero che nell'interpretazione di questi fatti forse si sta un pochino esagerando. Antonio De Marco ha ucciso quei due poveri e innocenti fidanzati in un condominio di Lecce, ma avrebbe potuto farlo in un quartiere di Treviso o nel centro di Bologna. È quello che aveva e ha dentro che interessa. Il percorso che lo ha portato a uccidere che deve essere studiato, non se e perché Dio ha cancellato Casarano dalla sua agenda. Sta accadendo ciò che accadde con la famosa villetta dei Misseri ad Avetrana, dove fu uccisa Sarah Scazzi. Una casa di periferia come tante altre, col giardino davanti e il garage accanto, che potrebbe sorgere a Padova come ad Arezzo, ma quella - proprio quella - divenne il simbolo di un Sud assolato e sonnacchioso (era agosto) che chiude le imposte e gli occhi al passaggio di una ragazzina quindicenne e cerca di coprire i responsabili della sua morte. Non fu colpa di Avetrana, fu semplicemente colpa delle persone che Sarah incontrò il pomeriggio in cui scomparve. E Misseri, zio Michele, è solo un uomo senza scrupoli che ha nascosto il cadavere della nipote e coperto moglie e figlia assassine. Avrebbe potuto farlo a Genova, ma vuoi mettere quel dialetto e quella mattanza di congiuntivi che sembrano legarlo a doppio filo a un Sud ignorante, sgrammaticato e geneticamente delinquente? Siamo alla fiera dei luoghi comuni. Il fatto è che il degrado sociale, la fuga nell'illegalità e la scarsa disponibilità a collaborare con la Giustizia non sono connotazioni prettamente meridionali. Nell'omicidio di Yara Gambirasio, avvenuto a Bergamo, ci sono più tentativi di depistaggio di quanti possa averne messi in atto ad Avetrana la ditta Misseri. Erika e Omar uccisero la mamma e il fratellino di lei a Novi Ligure, in Piemonte. L'unica differenza con Casarano è che lì non si eccelle nella produzione delle scarpe, ma del cioccolato. Olindo e Rosa massacrarono quattro vicini di casa a Erba, nella ricca Lombardia. Prima ancora, 45 anni fa, i tre aguzzini che violentarono e seviziarono Donatella Colasanti e Rosaria Lopez (quest'ultima uccisa) venivano da uno dei più ricchi quartieri di Roma. L'elenco potrebbe continuare, ma sarebbe un esercizio inutile. Leggere dentro un assassino è diritto di tutti. Ma occorrerebbe partire da un punto fermo: per sprofondare negli abissi della mente non è richiesto il certificato di residenza.

In metro a Milano con maglietta "Odio Napoli". L'edicolante napoletano non lo serve e lui lo aggredisce. Le Iene News l'1 settembre 2020. La storia è stata raccontata su Facebook ed è diventata virale: un uomo avrebbe cercato di comprare un biglietto nella metropolitana di Milano indossando la maglietta razzista. L’edicolante si sarebbe rifiutato di servirlo e sarebbe scattata l’aggressione. Un uomo va in edicola nella metro alla fermata di Molino Dorino, a Milano, con addosso la maglia “Odio Napoli” che potete vedere nella foto qui sopra. L’edicolante però è napoletano, si rifiuta di servirlo, e si scatena un parapiglia. Questa incredibile vicenda è stata raccontata su Facebook dallo stesso edicolante, Carlo: stando al suo racconto i fatti sarebbero accaduti lunedì pomeriggio, alla periferia sud ovest del capoluogo lombardo. L’uomo con la maglietta razzista avrebbe voluto acquistare un biglietto d’ingresso per la metro. L’uomo, cappellino in testa e maglietta nera con la scritta gialla a caratteri cubitali, appena si è accorto che il negoziante proveniva proprio dalla quella città tanto odiata, e che si rifiutava di servirlo per colpa di quella stessa maglietta, avrebbe iniziato ad inveire contro di lui, arrivando a scagliargli addosso giornali e intonando cori da stadio contro la città partenopea. Alla fine, come ha raccontato lo stesso edicolante e come avrebbero notato gli addetti al servizio di sorveglianza della metro, si sarebbe allontanato in compagnia di due bambini “divertiti” dalla scena. L’edicolante però ha voluto lanciare un messaggio positivo sui social: “Ci tengo molto a precisare una cosa per me molto importante. Spero che questa cosa non generi altro odio ma faccia capire che i pregiudizi stanno rovinando il mondo. Deve passare un concetto e un messaggio chiaro: io ho tanti amici milanesi a cui voglio bene e che stimo tantissimo e alcuni sono anche meglio di qualche napoletano sicuramente. Non possiamo andare avanti con stereotipi e pregiudizi". Tante volte noi de Le Iene ci siamo occupati di razzismo, come quando vi abbiamo raccontato degli insulti allo stadio contro il calciatore Balotelli o delle dichiarazioni del critico d’arte Philippe Daverio contro i siciliani: episodi gravi che non ci stanchiamo di condannare.

Da leggo.it. «Odio Napoli». Scritto sulla maglietta e cantato in faccia all'edicolante. Quest'ultimo, Carlo, non ha battuto ciglio e nonostante lo snack lanciato addosso dallo sconosciuto ha mantenuto la calma: «Mi sono rifiutato di servirlo perché indossava quella scritta e ho detto a quell'uomo di rivolgersi a un altro collega. Come risposta mi ha cantato cori contro la mia città lanciandomi uno snack...». La storia è stata raccontata su Facebook da Carlo che lavora a Milano, più precisamente nell'edicola di Molino Dorino proprio dove le telecamere di sorveglianza hanno ripreso la scena. Con la stessa calma con la quale ha reagito alla provocazione, Carlo ha invitato l'"hater" di strada a un confronto pacifico e civile: «Mi dispiace per come la pensi ma sono qui per parlarne insieme e magari spiegarti che, nella vita, non bisogna generalizzare. Magari pubblicheremo insieme una foto a pace fatta...».

"Odio Napoli", parla il ragazzo: "All'edicolante ho detto napoletano di m***a per rabbia". Giulio Melis su Le Iene News il 2 settembre 2020. Ecco il video esclusivo delle telecamere di sorveglianza e la versione del ragazzo che indossando la maglietta ‘Odio Napoli’ ha scatenato un caso scontrandosi nella metro di Milano con un edicolante partenopeo. Ci ha contattato: “È un odio sportivo, e anche se fosse stata contro i napoletani questo non è razzismo”. “Alla fine gli ho detto "napoletano di merda" per rabbia perché ha fatto una cosa grave. Ma non l’ho aggredito: gli ho solo tirato due biscotti contro la vetrina delle sigarette”. Marco (il nome è di fantasia) ci ha contattato per darci la sua versione del caso che vi abbiamo raccontato ieri del ragazzo che si è presentato in un negozio all’interno della metropolitana di Milano all’altezza della stazione di Molino Dorino, parte sud ovest della città, con addosso una maglietta con la scritta “Odio Napoli” scontrandosi con un edicolante partenopeo. Marco è quel ragazzo che vedete qui sopra nel video, che vi mostriamo in esclusiva, girato dalle telecamere di sorveglianza (clicca qui per l’articolo di ieri). “Ero con i miei fratellini. Vado sempre lì ogni settimana a prendere le sigarette e li conosco bene, soprattutto un suo collega. Questo edicolante, napoletano, mi ha detto: "Io con quella maglia non ti servo". Pensavo scherzasse, ero già andato lì anche con quella maglietta. Poi mi sono un po’ incazzato e ho lanciato due biscotti contro la vetrina delle sigarette. Andandomene mi sono sentito dire: "O coglione, che cazzo fai!", gli ho risposto "ma vai, vai, napoletano di merda". L’ho detto per rabbia, non perché è napoletano, è perché era il tema della maglietta. Quello che ha fatto lui è molto grave, io sono un cliente, porto i soldi e penso che abbia il dovere di servirmi al di là delle sue opinioni su una cosa che ha il cliente”. Già, ma perché indossava quella maglietta con la scritta razzista “Odio Napoli”? “È un odio sportivo, io sono tifoso dell’Inter e odio la squadra di Napoli, come la Juventus e il Milan”, prosegue Marco al telefono raccontandoci anche di aver ricevuto una denuncia, di cui però non vuole parlare, durante una trasferta per seguire la propria squadra. “Non sono razzista, ho amici napoletani che se la ridono della maglia. Ma mettiamo fosse anche contro i napoletani, il razzismo è altro. Magari ora, vista la situazione, per un po’ di giorni non metterò più questa maglietta”. Marco ci dice anche di non escludere di adire per vie legali: “Ho parlato con mio cugino avvocato che mi ha spiegato che ho pienamente ragione: lui non poteva non servirmi”. Queste sono la versione e le idee di Marco. A noi quella maglietta proprio non va giù, anche perché "odio" è sempre una brutta parola che non si dovrebbe usare mai: siamo andati a parlare anche con l’edicolante.

Con la maglia “Odio Napoli, chi è l’edicolante napoletano: “I pregiudizi rovinano il mondo”. Da Salvatore Russo il 31 agosto 2020 su vesuviolive.it. 15 euro per oltraggiare la città di Napoli. Tanto costa la maglietta con la scritta “Odio Napoli” indossata da un giovane nella metro di Milano, stazione Molino Dorino. Non è passato inosservato alle telecamere di sicurezza che mostrano la sua reazione aggressiva quando l’edicolante napoletano si rifiuta di vendergli un biglietto, ferito per una frase che colpisce direttamente la sua provenienza territoriale. Razzismo è forse la parola più adatta per descrivere il senso di quelle parole intonate nelle curve di mezza italia, marchiate su una T-shirt facilmente acquistabile presso rivenditori fisici e online per tifosi. Dietro il verbo “odiare” si cela tutto ciò che dovrebbe suscitare sdegno, nonostante le poco convincenti argomentazioni sugli sfottò da stadio che tutto consentirebbero. Trattasi di denigrazione rispetto all’idea che si ha del popolo napoletano, considerato ancora come arretrato perché incivile e tendenzialmente predisposto al crimine. Almeno per una parte d’Italia. L’oggetto dell’offesa è chiaramente la città di Napoli e non la squadra di calcio. Concetto molto simile a quando si canta “Vesuvio lavali, Napoli colera” e via di seguito. L’edicolante è Carlo Volpicelli, 29enne nato a Napoli e cresciuto a Casoria. Studia nella città partenopea prima di emigrare verso nord in direzione Milano a 19 anni. Lavora come dipendente in quell’edicola e dal 2019 la gestisce in compagnia di un socio. «Il ragazzo non è nuovo a queste cose, è già passato altre volte con questa maglietta. Gli ho sempre detto di non indossarla, perché io non ce l’avrei fatta a servirlo così – sottolinea Carlo -. Tante altre volte era vestito in maniera normale e ho svolto il mio servizio regolarmente. Ma oggi alla vista di quella maglia non ce l’ho fatta». Il giovane accompagnato da due bambini si avvicina alla cassa, Carlo decide di non vendergli il biglietto e per risolvere la faccenda si sposta per consentire al suo collega di ultimare l’operazione, ma qui scatta la reazione scomposta dell’uomo che gli scaraventa addosso degli snack. «Ogni giorno combatto contro i pregiudizi, qui a Milano ci sono tanti milanesi intelligenti che comprendono e non ne hanno. Con la speranza che questa cosa non generi altro odio ma faccia capire che i pregiudizi stanno rovinando il mondo. Deve passare un concetto, io ho tanti amici milanesi che voglio bene e che stimo, non bisogna fare nemmeno noi di un’erba un fascio, altrimenti – sottolinea l’edicolante napoletano – restiamo piccoli come questo individuo. Se questa persona dovesse sentire il bisogno di chiarirsi con me sono disponibile, sono qui e pronto a parlarci».

«Mafia» per indicare il dialetto siciliano. Polemica su libro delle elementari. Salvo Fallica il 10/10/2020 su Il Corriere della Sera. La protesta del Pd dell’Isola sul volume «Leggere è» della Mondadori: «Offesi da un libro destinato alle scuole. Va ritirato immediatamente». In Sicilia esplode una polemica su un libro di testo scolastico, che associa la regione alla mafia. A sollevare la questione è un intervento del Pd regionale che ha stigmatizzato con fermezza: «No al binomio mafia-Sicilia. È vergognoso che l’Isola ed i siciliani vengano offesi in un libro destinato alle scuole». E viene chiesto il ritiro del testo con susseguenti scuse ai siciliani. Ma qual è l’origine del caso? Qual è il testo divenuto oggetto di polemica? La questione è stata sollevata da Antonio Ferrante, presidente della direzione regionale del Pd e da Aurora Ferreri, componente della direzione regionale. In una nota congiunta affermano: «In un testo scolastico edito da Mondadori per le scuole, Leggere è, alla voce lingue e dialetti viene letteralmente riportata la dicitura “mafia (siciliano)”. È vergognoso che la Sicilia e i siciliani vengano offesi in un testo scolastico, peraltro con un accostamento che di dialettale non ha proprio nulla». Ed argomentano: «Una casa editrice storica e autorevole come la Mondadori dovrebbe sapere che non è ancora certa l’etimologia della parola mafia e che, in ogni caso, da nessuna parte viene considerato un termine dialettale. Ma anche qualora così fosse, sarebbe altrettanto grave che venga scelto per rappresentare la Sicilia un termine che è sinonimo di dolore, morte e criminalità».

L’etimologia. Va detto che il testo in questione è un libro importante sul piano della didattica, costruito con una moderna visione pedagogica, multidisciplinare, che interseca aspetti linguistici e storici, filologici e filosofici. In una pagina dedicata alle «Origini dell’italiano» viene specificato che è una lingua che deriva dal latino. Poi vengono elencate una serie di termini che derivano dal greco, dall’arabo, dalle lingue germaniche, da lingue parlate in Spagna e da «lingue e dialetti parlati in città o regioni italiane». Segue un elenco di alcune parole alle quali vengono accostate delle lingue delle diverse aree della penisola. Alla parola mafia viene accostato tra parentesi «siciliano». Ed è da questo passaggio che è scaturito il caso. Ferrante e Ferreni nel loro intervento critico hanno anche fatto un passaggio sulla incerta origine etimologica della parola. Come è noto si tratta di un fenomeno storico sulla cui genesi vi sono interpretazioni storiografiche divergenti, ed altrettante ve ne sono sull’origine del termine. Santi Correnti, ad esempio, ha sostenuto che il termine mafia deriverebbe non dall’arabo ma probabilmente dal dialetto toscano. Una disputa molto complessa.

Gli altri esempi. Ma per Ferranti e Ferreri la questione prescinde dall’aspetto etimologico e sottolineano che «non si può rappresentare la Sicilia con un termine che è sinonimo di dolore, morte e criminalità». La questione è molto delicata perché la Sicilia ha faticato tanto per liberarsi dal binomio mafia-Isola. Anche perché è proprio in Sicilia che è nata la lotta alla mafia, ed è nell’Isola che tanti magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, del giornalismo, della cultura e della società civile hanno sacrificato la loro vita per permettere allo Stato di non perdere la guerra contro i mafiosi. E se negli ultimi lustri lo Stato sgomina tanti clan è perché positivi passi importanti sono stati compiuti. In questa ottica così complessa ogni cosa che richiama lo stereotipo del binomio mafia-Sicilia produce polemiche. Il testo in questione fa riferimento ad altre lingue e dialetti. Al napoletano è associato il termine «scugnizzo», mentre al lombardo viene accostato il più poetico «rugiada» oppure il gustoso «panettone», al genovese il termine «scoglio» (solo per fare alcuni esempi). Ferrante e Ferreri concludono il loro intervento in maniera molto critica: «Chiediamo alla casa editrice di ritirare immediatamente dal commercio il libro e, contestualmente, di porgere le proprie scuse ai siciliani. In caso contrario metteremo in campo tutte le azioni necessarie perché la Sicilia merita di essere conosciuta dai bambini per le sue bellezze e la sua storia prima che per una piaga che purtroppo non è circoscritta solo all'interno dei confini della nostra isola».

Le scuse di Mondadori. Sul punto Mondadori Education afferma in una nota che «quanto segnalato si riferisce a un’edizione del 2019. La nuova versione dell’opera, pubblicata a inizio 2020 e in commercio con il titolo “Parole in cerchio”, già recepisce una variazione di quell’esempio specifico. E sulla piattaforma Hub Scuola è inoltre disponibile la versione digitale aggiornata anche del testo del 2019. La casa editrice si scusa con chiunque si sia sentito urtato da tale contenuto».

Miloš, il pugile nato in Italia che non può andare in nazionale. Perché non è Suarez. È una promessa della boxe, è nato a Roma e ci ha sempre vissuto. Con il papà serbo e la mamma romena. Poverissimi. Chi lo ha visto sul ring dice che merita la maglia azzurra. Ma non può indossarla, perché per legge non è italiano. Tommaso Giagni su L'espresso l'1 ottobre 2020. È talmente bravo che meriterebbe di essere in nazionale. Un pugile tecnico, pulito, con una preziosa continuità d’allenamento e un enorme potenziale. Sono gli altri a dirlo, lui di sé parla poco e anzi parla poco in assoluto. Non che abbia problemi a esprimersi: conosce bene tre lingue perché suo padre è serbo, sua madre è romena e lui in Italia ha compiuto tutto il percorso scolastico. L’inglese sarebbe la quarta lingua ma non gli piace studiarlo. Capita che si distragga, si applichi poco, non lo nasconde: “Penso sempre al pugilato. Adesso devo combattere un po’, qualche match per scaricarmi, così poi torno a concentrarmi sulla scuola”. In Italia, a Roma, ci è anche nato.

Da milano.repubblica.it il 9 ottobre 2020. Il sindaco di Pavia, Mario Fabrizio Fracassi, scrive al presidente della Repubblica per chiedere "la concessione della cittadinanza per eminenti servizi resi al Paese alla giovane atleta Danielle Frédérique Madam, vittima di recenti aggressioni verbali". Atleta ventitreenne, originaria del Camerun ma residente in Italia dove vive da 16 anni, Danielle Frédérique Madam aveva commentato polemicamente sui social network il tentativo di concedere la cittadinanza "lampo" al calciatore Luis Suarez. Mentre lei non ha ancora potuto ottenerla. La ragazza è stata attaccata sui social per le sue dichiarazioni ma un uomo è arrivato anche a contestarla apertamente, di presenza, nel bar dove Frédérique Madam lavora a Pavia: "Sabato un uomo sui 45 anni è entrato, ha consumato, pagato, e poi mi ha guardato, evidentemente mi ha riconosciuta e ha esclamato: 'Tu non sei italiana, a cosa ti serve diventare italiana? Tu non diventerai mai italiana'". Nasce così l'iniziativa del sindaco leghista: "Pavia è con te", dice Mario Fabrizio Fracassi. "Signor Presidente - scrive il sindaco nella missiva a Sergio Mattarella - porgendoLe i miei saluti e quelli di Pavia... Le rivolgo queste brevi righe per porre alla Sua attenzione il caso di Danielle Frédérique Madam, giovane atleta ventitreenne, originaria del Camerun ma da 16 anni in Italia (ancorché da 4 residente), e pur tuttavia non ancora in possesso della cittadinanza italiana". Fracassi ricorda che Danielle "è sportiva di assoluto valore e può già vantare tre titoli nazionali di lancio del peso nelle categorie giovanili, oltre a un attaccamento spiccato e più volte manifestato nei confronti dei colori azzurri". Da qui la richiesta della cittadinanza italiana, "in virtù degli eminenti servizi resi al Paese e per l'eccezionale interesse dello Stato che ne discende".

Michele Serra per "la Repubblica" il 10 ottobre 2020. Non c'è solo un giudice a Berlino. C'è anche un sindaco a Pavia. Si chiama Fabrizio Fracassi, ha definito "un imbecille" e "una bestia" il suo concittadino, purtroppo anonimo, che è entrato in un bar della città per dire a Danielle Madam, ventitré anni, origini africane, studi in Italia, università in Italia, lavoro in Italia (barista), campionessa di lancio del peso in odore di maglia azzurra: tu non sei italiana, tu non sarai mai italiana. Il sindaco di Pavia ha scritto al presidente Mattarella perché si trovi la maniera di dare la cittadinanza italiana a Danielle. La difende, e difendendo lei illumina la causa di molte decine di migliaia di italiani di fatto che non possono esserlo anche di nome. Invisibili che parlano la nostra lingua sicuramente meglio dell'imbecille che è entrato in quel bar, e servono la collettività come parecchi "italiani veri" non hanno la voglia o la capacità di fare. L'imbecille in questione, per esempio, che disturba e intimorisce una giovane barista mentre lavora, e tende la corda dell'intolleranza, e guasta la già difficile serenità di una società, la nostra, già piena di grane, di problemi, di paure. Capita che quel sindaco sia leghista, ed è nella logica delle cose provare un leggero stupore. Ma ben maggiore dello stupore è la soddisfazione di sapere che la coscienza civica, della quale qualunque sindaco dev' essere il primo responsabile, viene prima dei pregiudizi. Compresi i miei, che non avrei scommesso un centesimo sul fatto che avrei avuto voglia di stringere la mano a un sindaco leghista. E mi sbagliavo. E come è bello sbagliare, quando a vincere è una buona ragione.

Coronavirus, il bigliettino lasciato sul tavolo del ristorante cinese: "La puttana di tua mamma, ci avete portato il Covid". Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. Hanno mangiato con la formula “All you can eat” per un conto da 180 euro. Ma, al momento di pagare, sette ragazzi sono scappati dal ristorante cinese-giapponese “Majide” di Ciriè, in provincia di Torino. Prima di fuggire di corsa senza pagare in mezzo agli altri clienti hanno lasciato sul tavolo un biglietto scritto a mano sul foglio di un block notes con su scritto: “La puttana di tua mamma, cinesi di merda ci avete portato in covid”. Il fatto è avvenuto martedì sera. Subito è scatta una denuncia contro i sette ragazzi da parte del proprietario del locale. Il ristoratore si è presentato dai carabinieri di Ciriè e ha raccontato l'accaduto che "suona come un’offesa a tutta la comunità cinese", scrive la Stampa. Il proprietario del ristorante ha poi detto ai carabinieri che quel gruppo di giovani non aveva mai frequentato prima il locale. Si sper per le indagini in un aiuto che potrebbe arrivare dalle telecamere che sorvegliano la zona.

Prima gli italiani, solo perché quelli dopo sono “negri”. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Il taglio razzista dello slogan “prima gli italiani” si vede bene pensando a coloro che vengono dopo, cioè gli immigrati, e ai loro titoli morali e civili opposti a quelli dei cittadini nostri. Perché “prima gli italiani” dovrà pur supporre una giustificazione ulteriore e presentabile rispetto a quella di chiamarsi – che so? – Matteo o Giorgia: giusto? E dunque il criterio della graduatoria qual è? Prima che cosa, insomma? Vediamo un po’. Prima i pensionati baby? Prima gli innumeri imboscati nei ministeri? Prima gli eserciti di forestali? Prima la folla di finti invalidi? Prima i percettori del reddito di cittadinanza che perpetua il diritto al divano? Prima, insomma, l’Italia parassitaria, indebitamente assistita, improduttiva, illegale, che ci tiene ai margini del mondo avanzato? Hai presente qual è la guarnizione tradizionale di quello slogan, no? Dice: “Chi viene qui da noi deve lavorare, deve rispettare le nostre leggi, deve pagare le tasse”. Già. Lavorare come i cinquanta milioni di italiani che non lavorano essendo mantenuti dal lavoro dei dieci residui. Rispettare le leggi come normalmente sono rispettate in Italia, e cioè al livello di illegalità più elevato dell’Occidente. E pagare le tasse, infine: che notoriamente è un adempimento spontaneo e diffusissimo tra noialtri. In questo bel quadro, si ammetterà, “prima gli italiani” suona maluccio. Forse non sarebbe indiscutibile nemmeno se il nostro decoro civile fosse specchiato, ma un senso dopotutto l’avrebbe: visto che qui è tutto nel perimetro legge, tutto distribuito secondo il merito di ciascuno, tutto ben regolato nel riconoscimento dei giusti diritti e nella sanzione dei privilegi ingiusti, allora l’immigrato si adegui e rimanga su questa rotaia di perfezione sociale. Altrimenti, ciccia. Il guaio è appunto che le cose stanno ben diversamente, ed è un Paese strutturalmente illegale e furbesco quello che pretende da un diseredato africano il contegno di un milionario svedese. E allora “prima gli italiani” significa soltanto che quegli altri vengono dopo perché sono negri.

Andrea Marinelli per il “Corriere della Sera” il 5 agosto 2020. Qual è il Paese che vi sta più antipatico in Europa, quello a cui non vorreste dare nessun aiuto finanziario durante una crisi economica? È una delle domande che un sondaggio effettuato da YouGov per conto dello European university institute di Fiesole ha posto a 21 mila cittadini di 14 Paesi europei, Regno Unito compreso. Per l'Italia la risposta è (quasi) scontata: la Germania - c'è una forbice di 13 punti percentuali fra chi aiuterebbe i tedeschi e chi non lo farebbe mai - e il Regno Unito (dove il margine si riduce però a 2 punti). Fra i 14 Paesi interpellati, gli unici che non ci tenderebbero la mano sono i finlandesi, che sono anche i meno generosi del continente e non aiuterebbero quasi nessuno. Persino gli olandesi, nonostante l'estenuante trattativa sul Recovery fund, non avrebbero dubbi nei nostri confronti: ben sette Stati, invece, non potrebbero contare sull'aiuto dei Paesi Bassi. In generale, oltre ai finlandesi, i meno disponibili sono i cittadini ungheresi (non offrirebbero soldi a 12 Paesi), poi francesi e greci. Ecco, se c'è una certezza, in Europa, è che i greci non darebbero un euro ai tedeschi: il margine è di 36 punti, il più alto del continente. Un'antipatia che non risale solo alla drammatica crisi greca, ma anche allo spionaggio portato avanti dalla Germania negli anni 2000 e al maxi risarcimento da 279 miliardi di euro che Atene pretende da Berlino per l'occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale. I più generosi sono i romeni, i polacchi e i danesi - aiuterebbero tutti i Paesi europei - seguiti da Spagna, Germania e Lituania che fornirebbero soldi a tutti tranne che al Regno Unito. Sarà la Brexit, oppure un raro slancio di unità e orgoglio continentale, ma i più antipatici sembrano essere proprio i sudditi di sua maestà: oltre ai «grandi benefattori», potrebbero contare soltanto sulla solidarietà degli svedesi. Loro, invece, aiuterebbero tutti: tanto perfida, insomma, non dev' essere questa Albione.

I “corona” hanno sempre da ridire: dopo che hanno impestato l’Italia, hanno sempre la faccia tosta di offendere.

Da ansa.it il 23 luglio 2020. "Abbiamo preso decisioni in anticipo di 20 giorni rispetto ad altre regioni. Quando noi chiudevamo altrove si facevano iniziative pubbliche, si diceva “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”, “Brescia non si ferma”, poi si sono fermati a contare migliaia di morti, migliaia non centinaia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, parlando dell'emergenza Covid19 nel corso della sua visita di oggi all'ospedale di Sapri (Salerno). De Luca ha duramente attaccato la gestione dell'emergenza covid19 nelle regioni del Nord Italia. "Solo nella provincia di Bergamo - ha detto - ci sono stati 2.000 morti fra gli anziani delle residenze assistenziali. In tutta la Campania i morti nelle Rsa sono stati 14. E' stato difficile mettere in quarantena il Vallo di Diano. A Milano discutono ancora se la zona rossa doveva farla Governo o Regione. Noi intanto abbiamo chiuso e salvato la vita di centinaia di persone. Abbiamo dato una prova importante, ovviamente parte essenziale del risultato è rappresentato dalla tenuta del nostro personale, qui abbiamo ospedali di assoluta eccellenza, non c'è bisogno di andare a Milano, Bologna, Verona, Pavia".

Quando il giovane Feltri  dava i nomi ai bambini del brefotrofio di Bergamo. Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera il 14/10/2020. All’inizio degli anni Sessanta, prima di darsi alla cronaca, il giornalista ha vinto un concorso in Provincia e lavorato al brefotrofio dell’ospedale cittadino: «Tenevo a quei piccoli, iniziai a dare cognomi normali come Belotti e Finazzi». Aveva iniziato da poco a collaborare con i giornali, ma non poteva certo prevedere la sua carriera nella carta stampata. E quindi nel frattempo faceva anche altro. All’inizio degli anni Sessanta Vittorio Feltri è stato per un paio d’anni dipendente dell’Istituto provinciale di assistenza materna e infantile, cioè il brefotrofio di Bergamo, che si trovava nel complesso di via Statuto dell’allora Ospedale Maggiore. E fra i suoi incarichi c’era anche quello di dare i nomi ai bambini abbandonati.

Vittorio Feltri, che ci faceva al brefotrofio?

«Ero poco più che ventenne, scribacchiavo sull’Eco di Bergamo, ma su insistenza di mia madre che voleva che trovassi un posto sicuro per tutta la vita, partecipai a un concorso dell’amministrazione provinciale. E nonostante non ne avessi nessuna voglia, mi capitò la sventura di vincerlo: quarto su una settantina di partecipanti. Dopo un anno in sede, in Provincia, venni spedito al brefotrofio, che era contiguo all’allora Ospedale Maggiore (nella palazzina che oggi è del comando provinciale della Guardia di finanza, ndr). Venivano portati lì i bambini che non venivano riconosciuti dalle madri. Ce n’erano tanti, si chiamavano “esposti all’abbandono”».

Con quale incarico?

«A quei bambini bisognava pur dare un nome e un cognome, e a quello pensavo io. Il nome a volte veniva concordato con le madri, altre volte si guardavano i santi del calendario. Per i cognomi la cosa funzionava che ogni anno era collegato a una lettera, quindi tutti i cognomi dovevano avere quella iniziale. Io me li inventavo o li prendevo da un elenco. Sono stato anche rimproverato perché non volevo dare quei cognomi terrificanti da trovatello come Diotallevi o Diotaiuti che si sarebbero trasformati in un marchio per tutta la vita».

E come aveva deciso di procedere?

«Cominciai a dare dei cognomi normali, come Belotti o Finazzi, e quando i dirigenti lo scoprirono si arrabbiarono. Avrei dovuto anche controllare gli orari di entrata e uscita dei dipendenti ma non lo facevo mai, una volta presi a calci il timbra cartellini e venni trasferito alla sede centrale a occuparmi delle rette del manicomio. Si dice spesso che nel pubblico non funziona niente, ma all’epoca andava tutto bene, l’unico che non faceva un accidente ero io».

Com’erano le madri?

«Alcune vivevano in brefotrofio per un certo periodo, poi tutte ricevevano per un certo periodo una piccola somma. Tra i miei incarichi c’era anche quello di consegnare loro i contributi e in quelle occasioni parlavamo un po’. C’erano tante poverine che non capivano nemmeno come avessero fatto a restare incinte, e alcune avevano avuto anche tre o quattro figli. Noi cercavamo di tenere insieme queste famiglie disastrate e a volte ci riuscivamo».

Che posto era?

«Non era poi così orrendo come si potrebbe pensare: era molto pulito, funzionava tutto a meraviglia e si faceva un lavoro eccellente. Io a quei bambini ci tenevo, personalmente, andavo spesso a trovarli. La mia prima moglie morì poco dopo il parto, lasciandomi con due gemelle, spesso non sapevo dove lasciarle e me le portavo al brefotrofio. Lì c’erano serventi, puericultrici e qualche maestrina per i più grandi. Una di quelle maestrine l’ho poi sposata ed è ancora mia moglie da 52 anni».

Coronavirus, Vittorio Feltri: "Le ore passate a cercare i nomi dei morti", una lettera a Bergamo. Libero Quotidiano il 23 luglio 2020. Con rispetto parlando, sono bergamasco. E ho sofferto le pene dell'inferno allorché la mia città è stata divorata dal Covid-19: migliaia di morti soffocati, cataste di bare portate chissà dove da autocarri dell'esercito, poiché il cimitero del posto, uno splendido monumento, era completamente esaurito e non ci stava più nemmeno una salma. Leggevo il quotidiano locale, L'Eco di Bergamo, e trasalivo a ogni pagina sfogliata. Il numero delle necrologie superava di gran lunga quello delle notizie correnti. Io sono nato e cresciuto dentro le mura veneziane, lì ho studiato e mi sono formato, praticamente mi conoscono tutti. Constatare che tanti amici di infanzia e di adolescenza andavano all'altro mondo mi ha distrutto nell'animo orobico. Anche la famiglia di mia moglie (da 52 anni) è stata falcidiata dal virus, contare i defunti tra i parenti non è un esercizio esaltante. Insomma ho vissuto tre mesi ed oltre di depressione cosmica. Pareva che la strage non finisse mai. Ogni giorno telefonavo a mio fratello Ariel e lo interrogavo sull'andamento della epidemia; i dati che mi forniva erano i peggiori d'Italia, come quelli di Brescia che amo visto che in un passato remoto mi ha fornito fidanzate meravigliose e generose. Trascorrevo metà del mio tempo lavorativo alla ricerca dei nomi delle persone che erano trapassate. Un incubo. Quanta gente non c'è più, e quanto dolore ho provato e provo. Temevo che l'ecatombe proseguisse chissà fino a quando. E invece i miei concittadini oggi hanno gli ospedali vuoti. Il Corona è stato sconfitto, i medici di casa nostra sono stati bravi come l'Atalanta. Hanno combattuto e vinto la battaglia. Che sollievo, amici lettori! Pur risiedendo a Milano apprendo ogni dì che Bergamo e Brescia, abitate da fratelli coltelli che in fondo, e pure in cima, si stimano, stanno risorgendo in fretta. Sarà perché hanno la vocazione di lavoratori indefessi, i miei conterranei non hanno ceduto alla disperazione. Si sono rimboccati le maniche e hanno ricominciato a risalire alla grande. I due centri urbani sono rifioriti, sempre più belli e puliti, invitano a darsi da fare. Da queste parti fervono le solite attività, i fatturati crescono e rientrano nella normalità ante virus. I negozi hanno riaperto, prima timidamente e prudentemente, ora con disinvoltura. Purtroppo i bar e i ristoranti tardano a decollare, in quanto il popolo nutre ancora molti timori a socializzare, tuttavia è solo questione di tempo: tra un po' le vecchie abitudini ludiche si affermeranno di nuovo. La paura di ammalarsi svanirà, e Bergamo e Brescia, che si sono finalmente abbracciate per divenire capitali della cultura, saranno più vispe che mai. Abbiamo tutti bisogno di qualche iniezione di ottimismo. Smettiamo di vedere nero l'orizzonte. Facciamo una passeggiata sugli spalti più belli del mondo: se il cielo è limpido, come accade spesso, si parerà davanti ai nostri occhi il Monte Rosa, così vicino che ci parrà di toccarlo con mano. Cara Bergamo, mi hai allevato, mi hai donato il tuo affetto e io ti sono grato, sono tuo figlio. Se stai male, sto male con te. Se stai bene, sono felice. Verrò presto ad abbracciarti, a visitare i tuoi vicoli medievali, ad ammirare le tue architetture sobrie, forse entrerò nella basilica di Santa Maria Maggiore, un priore della quale, monsignor Meli, mi ha insegnato il poco che so, adoperando parimenti il bergamasco e il latino.

Carabinieri Piacenza, il post shock del giornalista bergamasco: «Sono tutti meridionali predisposti a delinquere». Antonio Folle il 23 luglio 2020 su Il Mattino. «Sei meridionali su sei. Ora qui nessuno dice che essere meridionale significa essere delinquente, ci mancherebbe. Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al sud». Questo è un passo del post choc lanciato sui social network da Daniele Martinelli, giornalista bergamasco che ha così commentato i fatti di Piacenza e l'arresto di sei carabinieri accusati di aver formato una vera e propria associazione a delinquere. Un post che in pochissime ore ha scatenato un vero e proprio putiferio, con migliaia di commenti negativi da parte di utenti indignati per considerazioni razziste nei confronti dei meridionali, tanto da costringere il giornalista a rimuovere il post. E come in moltissimi casi del genere la "toppa" è peggiore del buco. Se nel primo post Martinelli si è lanciato in considerazioni dai tipici accenti lombrosiani e antimeridionali, infatti, nel secondo post ha ribadito che nelle forze dell'ordine spesso si annidano meridionali a caccia dello stipendio fisso. «Urge una riforma radicale del metodo di selezione - ha scritto - dei candidati a quello che sembra un rifugio soprattutto per Meridionali in cerca di stipendio fisso, più che una vocazione alla legalità e al patriottismo». È del tutto evidente che al giornalista d'inchiesta - come si autodefinisce sul suo sito -, ex inviato speciale del blog di Beppe Grillo ed ex collaboratore dello staff comunicazione dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle, sia sfuggito che nell'Arma dei Carabinieri, nella Polizia di Stato e nella Guardia di Finanza militano migliaia di meridionali che ogni giorno fanno onore alla propria divisa. Gli insulti rivolti a Martinelli non si sono fermati nemmeno dopo che il giornalista ha "corretto" il tiro. Anzi, in molti lo hanno accusato di non avere avuto il coraggio di sostenere le sue idee e di aver cercato facile visibilità attraverso un post sui social. Un atteggiamento che ricorda molto da vicino la vicenda del consigliere comunale di Pavia Niccolò Fraschini che, a fine febbraio scorso, in un post delirante affermava: «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». Salvo poi, ovviamente, ritirare il post e ritrattare le accuse infamanti che avevano suscitato rabbia e sdegno anche tra gli esponenti della sua stessa maggioranza nel consiglio comunale pavese.  Salvo d'Acquisto, solo per citare un nome illustre, era un Carabiniere meridionale e napoletano.

Carabinieri Piacenza, il giornalista Martinelli commenta: “Predisposizione a delinquere propria di chi nasce al Sud”. Da Chiara Di Tommaso il 23 luglio 2020 su vesuviolive.it. Ha scosso il mondo delle forze dell’ordine quanto scoperto in una caserma di carabinieri a Piacenza. Una vera e propria associazione a delinquere era stata messa in piedi da sei carabinieri che gestivano anche lo spaccio di droga della zona. Addirittura durante il lockdown, i carabinieri hanno accompagnato gli spacciatori a Milano per rifornirsi. Peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, alcune delle ipotesi di reato. Al momento sono stati resi noti i nomi dei carabinieri ma non la loro città di provenienza. Qualcuno ha deciso di cavalcare l’onda anti-meridionalista per attaccare il sud. Si tratta di Daniele Martinelli, giornalista professionista facente parte nel 2013 del gruppo comunicazione del Movimento 5 stelle alla Camera dei deputati. L’uomo che ha anche un blog ed è originario di Romano di Lombardia (in provincia di Bergamo), ha infatti scritto sul suo profilo Facebook: “6 carabinieri arrestati a Piacenza accusati di tortura e di aver estorto oltre che favorito lo spaccio di sostanze. L’elenco di militari dell’Arma che finisce nei guai per maltrattamenti e vessazioni si fa troppo lungo. Urge una riforma radicale del metodo di selezione dei candidati a quello che sembra un rifugio soprattutto per Meridionali in cerca di stipendio fisso, più che una vocazione alla legalità e al patriottismo“. 

A chi lo attacca di razzismo e di discriminazione territoriale, Martinelli replica in un commento in cui viene messo in luce ancora di più il suo pensiero antimeridionalista: “Ecco l’elenco dei 6 carabinieri arrestati a Piacenza: 

Giuseppe Montella, napoletano, boss dello spaccio e delle botte. 

Angelo Esposito, napoletano. 

Giacomo Falanga, napoletano. 

Daniele Spagnolo, pugliese. 

Salvatore Cappellano, siciliano. 

Marco Orlando, siciliano, comandante della caserma di Piacenza ai domiciliari.

6 meridionali su 6. Ora qui nessuno dice che essere meridionale significa essere delinquente, ci mancherebbe.

Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male, è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al Sud. Del resto la camorra, la Sacra corona unita, la Ndrangheta o la mafia con i loro metodi di sangue e violenza, non sono propriamente associabili alle mentalità tipiche del Piemonte, della Lombardia o del Veneto. Nessun valtellinese ha mai sciolto un bimbo nell’acido. Il siciliano Spatuzza sì. Ecco, sono questi i rudi metodi di un Sud arretrato dal quale proviene la stragrande maggioranza di delinquenti che sporcano il prestigio delle istituzioni e di quella maggioranza di gente per bene e onesta che indossa la divisa con onore. Ecco, non è tollerabile che dopo i casi Cucchi, Rasman, Uva, Aldrovandi, Ros-Ganzer, G8 di Genova (2001), Marrazzo (2009), violenze sessuali a Firenze (2017), i 27 militari violenti delle caserme della Lunigiana, ci sia ancora chi dica “ne risponderanno personalmente”. Va riformato il metodo di selezione dei candidati e inaspriti i controlli. Perché non è tollerabile che nessuno delle dirigenze intermedie fino ai vertici dell’Arma, non sappia o non abbia saputo. Non è tollerabile che inchieste così escano grazie a qualcuno che spiffera e che vince l’omertà. Guarda caso anche questa brutta bestia tipica del Sud e che è l’humus di tutte le mafie e di tutte le sopraffazioni”. 

Parole incommentabili che vengono smentite dai fatti. Una nuova stazione mobile è ora operativa a Piacenza. A guidarla è il capitano Giancarmine Carusone, 34enne originario di Caserta e che proviene dal comando di una Compagnia in provincia di Messina. Un meridionale. Mentre il comandante generale dell’arma dei carabinieri, Giovanni Nistri, nella sua formazione ha frequentano la Scuola Militare Nunziatella di Napoli nel quadriennio 1970 – 1974. Altra eccellenza del Sud.

Sentimento anti-lombardo? Realtà per 4 italiani su 10. Renato Mannheimer su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Ma davvero, in occasione della pandemia Covid 19, è maturato nel paese una sorta di sentimento “antilombardo”, un mix tra rancore, risentimento e anche un tantino di soddisfazione per il fatto che la regione abbia sofferto più di altre? In certi servizi giornalistici si sono sentite frasi pronunciate da diversi cittadini come: “I lombardi se lo meritano ad avere più contagi: sino ad oggi avevano pensato solo a fare i soldi”. Oppure “Con tutte le arie che si dava dicendo di essere un esempio per l’Italia, sono quasi contento che alla Lombardia gli sia capitato quello che gli è capitato. Mi dispiace per i morti, ma..” E molte altre considerazioni di questo genere. Secondo alcuni osservatori, si tratterebbe di un atteggiamento molto diffuso. Ma nessuno lo ha fino a oggi misurato scientificamente. Un recente sondaggio dell’istituto EumetraMR (realizzato intervistando un campione rappresentativo della popolazione adulta dell’intero Paese) ci mostra come, in realtà, la percezione dell’esistenza di un sentimento antilombardo sia piuttosto presente nel Paese. Secondo il 42% degli italiani, si tratta di un atteggiamento “molto” o “abbastanza” diffuso. Anche se, come vedremo la maggior parte dichiara che si tratta di un modo di pensare “degli altri”, non di se stesso. Resta il fatto che, secondo tanti, la propensione antilombarda esiste davvero. Non si tratta, beninteso, della maggioranza degli intervistati, ma di una porzione assai significativa di questi ultimi, secondo cui questo sentimento è davvero presente tra molti italiani. La percezione dell’esistenza di un mood antilombardo è sostenuta in particolare dai più giovani, ma si tratta una convinzione trasversale, riscontrabile in tutte le categorie demografiche e sociali. E anche in quelle politiche, con una lieve accentuazione tra i votanti per Forza Italia. L’idea che esista davvero un orientamento critico nei confronti della Lombardia è relativamente più diffusa proprio tra gli abitanti di questa regione. Poco più della metà lamenta il fatto che i Lombardi siano stati poco compresi proprio quando sono stati in difficoltà, se non addirittura trattati in modo ostile. Come si è detto, al di là della percezione generale dell’esistenza di un atteggiamento negativo nei confronti della Lombardia, se si domanda se questo stato d’animo è condiviso personalmente dall’intervistato, ci troviamo di fronte a un coro di dinieghi. Solo il 10% del campione intervistato dichiara di nutrire egli stesso una avversione verso la Lombardia. I restanti affermano invece che gli antilombardi sono “gli altri”, ma che loro stessi non lo sono. È una risposta prevedibile: difficilmente si riconosce di possedere un sentimento negativo. Ma il fatto stesso di dichiarare, perdipiù come abbiamo visto in proporzioni molto diffuse, che esso è presente tra la popolazione, indica che, nella realtà, esiste davvero. E non in piccola misura.

Atalanta: tifoso del Napoli provoca Gasperini, dirigente nerazzurro lo insulta: è bufera. Il collaboratore del club al supporter partenopeo: "Testa di cazzo, terrone del cazzo." La Procura federale indaga. Sportmediaset.mediaset.it l'11 luglio 2020. È bufera attorno a un dirigente dell'Atalanta per i pesanti insulti, anche di natura razzista, rivolti a un tifoso del Napoli che aveva provocato Gasperini al suo arrivo a Torino. Il supporter dei partenopei, avvicinandosi al tecnico nerazzurro appena sceso dal bus della squadra, lo ha apostrofato in maniera provocatoria: "Dopo 10 anni ve la giocate la partita o gliela regalate come al solito? Forza Napoli!", si sente in un video circolato molto sui social. Il chiaro riferimento alla sfida con la Juventus ha fatto imbufalire Gasperini, che prima ha tentato di allontanarsi e poi ha risposto "Vai a fare un giro". Mentre il tifoso si allontanava, però, un accompagnatore della Dea è passato agli insulti: "Testa di c..., terrone del c...", si sente chiaramente. Insulti che hanno provocato indignazione e, in alcuni casi, anche vera e propria rabbia sui social. L'accaduto non è passato inosservato nemmeno per la Procura federale, che, rende noto l'Ansa, si è già attivata aprendo un procedimento nei confronti di un dirigente individuato nel team manager Mirco Moioli e nei confronti del club per responsabilità oggettiva. Sulla vicenda, che verrà ricostruita grazie anche ai video pubblicati in rete, potrebbe essere contestata la violazione agli artt. 4 e 28 del Codice di giustizia sportiva.

Tifoso del Napoli provoca Gasperini, staff dell'Atalanta lo insulta: "Terrone del cazzo." Feroce battibecco tra un tifoso del Napoli che provoca Gasperini e un membro dello staff dell'Atalanta, che lo insulta. Antonio Prisco, Sabato 11/07/2020 su Il Giornale. Accuse e insulti tra un tifoso del Napoli e lo staff dell’Atalanta, poco ore prima della partita con la Juventus: un supporter azzurro ha avvicinato l’allenatore Gasperini alla stazione di Treviglio. ''Mister, dopo 10 anni ve la giocate la partita o gliela regalate come al solito? Forza Napoli!'', facendo andare su tutte le furie un membro dello staff nerazzurro, che ha risposto: "Testa di cazzo, terrone del cazzo". Un pò di nervosismo in casa Atalanta alla partenza della trasferta per Torino, dove stasera è in programma il big match della 32esima giornata di campionato. Un episodio destinato a far discutere, quello accaduto qualche ora fa a Treviglio, stazione nei pressi del centro sportivo di Zingonia con ripetute accuse e insulti tra un tifoso del Napoli e lo staff bergamasco.

L'episodio. Mentre l'Atalanta era in partenza per Torino dove stasera affronterà la Juventus, la comitiva nerazzurra è stata intercettata alla stazione di Treviglio, nella bassa bergamasca, dove era in attesa del Frecciarossa per raggiungere il capoluogo piemontese, da un tifoso del Napoli che ha rivolto a Gian Piero Gasperini una domanda polemica: "Mister, dopo 10 anni ve la giocate la partita o gliela regalate come al solito? Forza Napoli!". Chiaro il riferimento ai precedenti poco favorevoli degli ultimi anni degli orobici contro i bianconeri, che addirittura non vincono a Torino dal lontano 1989 quando espugnarono per 1-0 il vecchio Comunale grazie ad una rete dell'argentino Caniggia. Il tecnico della Dea, appena sceso dal bus, nonostante il fastidio per l'insinuazione, prima ha tentato di dribblare la domanda per poi reagire con una risposta eloquente: ''Fatti un giro, pedala coglione.''. A quel punto però in appoggio all'allenatore di Grugliasco, è arrivato un membro dello staff atalantino, il team manager Mirco Moioli, che ha utilizzato ben altre parole, invitando il sostenitore azzurro ad allontanarsi e sottolineando il tutto con la frase ''Testa di cazzo, terrone del cazzo" e completando l'espressione con una bestemmia irripetibile. Fino a questo momento dal club nerazzurro non è arrivato nessuno commento sull'accaduto, un episodio di sicuro spiacevole e da stigmatizzare nonostante la comprensibile tensione della vigilia. Intanto il video è diventato virale sui social in queste ultime ore e sui social è partito il solito tam tam a riguardo, proprio nella notte che potrebbe lanciare l'Atalanta nella lotta scudetto. Complice la terza sconfitta consecutiva della Lazio, gli uomini di Gasperini si porterebbero a soli punti dalla Juve.

"Stesso stipendio a Milano e Reggio Calabria? Sbagliato, il costo della vita è diverso": polemica sulle parole del sindaco Sala. Pubblicato sabato, 11 luglio 2020 da La Repubblica.it. Stipendi diversi per chi lavora al Nord e per chi lavora al Sud? Una polemica sull'asse Milano-Reggio Calabria che nasce dalle parole del sindaco di Milano Beppe Sala. Che due giorni fa, durante una diretta Facebook sulla pagina di InOltre-Alternativa progressista (pagina dei giovani democratici), parla di costo della vita e di difficoltà dei giovani con una frase netta, nonostante le premesse sulla difficoltà del discorso: "E' chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso". "Secondo il sindaco di Milano Beppe Sala i dipendenti pubblici del Sud dovrebbero essere meno pagati di quelli che lavorano al Nord. Il sindaco progressista propone, in sostanza, la reintroduzione delle gabbie salariali. A parità di mansioni, secondo Sala, un lavoratore di Reggio Calabria dovrebbe avere una retribuzione minore rispetto ad un lavoratore di Milano. Non ci meraviglia che da sinistra vengano proposte ricette economiche che coincidono con quelle che la grande finanza internazionale cerca di imporre all'Italia", attacca su Facebook la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro. "Chissà - continua - se quella di Sala è una posizione condivisa dal governo, chissà cosa ne pensano i Cinque Stelle. Il tema della riduzione del costo del lavoro è un argomento da affrontare se si vuole favorire il rilancio occupazionale al Sud, ma è necessario pensare a strumenti di incentivazione per le imprese. Non certo ipotizzare, come fa Sala, di intervenire sulle retribuzioni dei lavoratori che vivono in regioni che già soffrono un gravissimo ritardo infrastrutturale e dei servizi. Il sindaco Sala  - aggiunge - racconti ad un lavoratore calabrese che si trova davanti alla necessità di farsi curare fuori regione, o che deve accudire un familiare con disabilità, che merita di avere uno stipendio più basso perché vive in una regione in cui la vita costa meno".

Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro. "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.

La verità è che al Sud la vita costa di più. Angelo Bruscino, Imprenditore impegnato nella Green Economy, giornalista e scrittore, su Huffingtonpost.it il 13/07/2020. Caro sindaco di Milano, la verità è che al Sud la vita costa di più. Costa di più, perché abbiamo una pressione fiscale maggiore in cambio di servizi inesistenti. Costa di più, perché il tempo per aprire una impresa è il triplo che a Milano. Costa di più, perché la burocrazia è un costo occulto per cittadini e imprese. Costa di più, perché la nostra aspettativa di vita media è più bassa, ci ammaliamo di più e dobbiamo andare al Nord a farci curare, di tasca nostra. Costa di più, perché i processi sono infiniti. Costa di più, perché non abbiamo l’Alta velocità ma l’altra velocità. Costa di più, perché non abbiamo metrò, ma strade fatiscenti: andiamo al lavoro in auto, mica in Tav, con tutti i costi ambientali che ciò comporta. Costa di più, perché le scuole crollano, mancano gli asili e chi può manda i figli a studiare alla Bocconi a spese proprie. Costa di più, perché da Palermo a Messina o da Salerno a Reggio Calabria è una odissea. Costa di più, perché i prodotti che consumiamo vengono dal Nord, a eccezione di frutta, verdura e pesce, le uniche cose che costano di meno perché le produciamo! Dimenticando che i redditi degli impiegati pubblici servono proprio ad acquistare i beni del Nord, così che Lei possa dire: “Milano non si ferma”.

Stipendi Nord-Sud, De Magistris contro Sala: “Una visione alla Bossi”. Notizie.it il 14/07/2020. Luigi De Magistris ha criticato Beppe Sala per le sue affermazioni sulla differenza di stipendio tra Nord e Sud, paragonandolo a Umberto Bossi. Non smettono di far discutere le affermazioni del sindaco di Milano Beppe Sala in merito alla differenza di stipendi tra dipendenti pubblici del Nord e del Sud Italia, con il primo cittadino che ha sostenuto l’opportunità di adeguare i salari al costo della vita della regione in cui si risiede in modo che tutti abbiano lo stesso potere d’acquisto. Non è d’accordo con questa opinione il suo omologo napoletano Luigi De Magistris, che nel criticare le posizioni del collega meneghino lo ha paragonato all’ex segretario leghista Umberto Bossi. Intervistato da Radio 24, il primo cittadino partenopeo ha affermato come quella di avere stipendi differenziati per i dipendenti pubblici del Nord e del Sud sia una visione politica degna di Bossi, a suo dire largamente diffusa tra la popolazione del settentrione d’Italia: “Stipendi diversi per i dipendenti pubblici tra Nord e Sud Italia? Siamo amici io e Beppe Sala e abbiamo un ottimo rapporto. Ma non condivido per nulla questa proposta. È una visione di Bossi e mi dispiace che sia anche sua. So che è un pensiero, non voglio dire dominante, ma molto diffuso al Nord. Ma non è quello l’approccio, soprattutto in questo momento, bisogna dare prova di grande coesione. Gli stipendi sono già molto spesso diversi tra Nord e Sud. Il Sud ha dimostrato grande solidarietà e di saper reggere molto le sorti sanitarie del Paese e non amiamo l’assistenzialismo”. De Magistris afferma poi di non avere intenzione di tornare alle cosiddette gabbie salariali, il sistema che adeguava gli stipendi al costo della vita in 14 diverse zone d’Italia rimasto in vigore dal 1954 al 1969 e che venne abbandonato a seguito delle proteste dei sindacati che lo consideravano una norma discriminatoria: “Noi dobbiamo liberare energie chiedere allo Stato di fare la sua parte, ma essere autonomi. Vorrei un’Italia che ripartisse dalle autonomie delle città e dei territori, ma non con le gabbie salariali. Quella è una visione di Bossi e mi dispiace che sia anche di Sala. Non è così che riparte il Paese”.

REPUBBLICA ITALIANA UNA È INDIVISIBILE? SOLO A PAROLE, MA FORSE NEMMENO QUELLE. Massimo Mastruzzo il 12.07.2020 su Movimento 24 Agosto. Beppe Sala, da "Milano non si ferma" a "ce ne ricorderemo" a "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" il passo è stato breve. Quando Sala, che come tutti i sindaci ha giurato sulla costituzione, ritira fuori le gabbie salariali, un sistema di calcolo dei salari che mette in relazione le retribuzioni con determinati parametri territoriali, in fondo non fa altro che ratificare la disomogeneità territoriale attualmente presente in Italia. Difatti in Calabria, Regione ufficialmente facente parte della Repubblica italiana, pur pagando il SSN, se hai un problema di salute serio spesso devi farti curare in un'altra Regione; non hai gli stessi asili nido pubblici per i tuoi figli, ne tanto meno gli stessi mezzi pubblici, in compenso per il diritto alla mobilità paghi il triplo per l'assicurazione dell'auto; non hai diritto all'Alta Velocità, nonostante tu abbia contribuito alla realizzazione della stessa. Dopodiché che questa disomogeneità sia assolutamente incostituzionale, vedi la mancata applicazione dell'art 3 della costituzione, o che , ad esempio, l'alta velocità nel nord si è costruita anche con i contributi di quei cittadini, che proprio per la differenza di quei parametri territoriali, non ne possono usufruire perché non godono degli stessi diritti dei loro connazionali, sembra essere un concetto che politicamente non interessa più, o forse non è mai interessato a nessuno. Nonostante le buone intenzioni dei Padri costituenti di questa Repubblica, sembra che oltre quelle buone intenzioni non si è riusciti, o non si è voluto andare. La realtà purtroppo è che questa Repubblica non è mai stata considerata "una e indivisibile". Questo si evince semplicemente osservando come, anche da esponenti della sinistra progressista nazionale, invece che puntare a riequilibrare i diritti, si sottolinei quanto sia giusto guadagnare meno in virtù del meno che si ha. Comprendere che questo possa essere talmente accettato da considerarlo la normalità dovrebbe farci capire che questa Italia, così com'è, non potrà mai competere in Europa con nazioni come la Francia dove, ad esempio, se accetti di lavorare in zone disagiate hai uno stipendio più alto. Il paradosso è che poi se realtà politiche come M24A-ET sottolineano questa incostituzionale disomogeneità territoriale vengono additate di essere divisive. Si, pretendere l'Equità Territoriale, secondo quanto previsto dalla costituzione, viene indicato come un concetto divisivo, mantenere invece lo status quo, appare incredibilmente la soluzione che accomuna tutti i partiti nazionali. 

Da "ilmessaggero.it" il 23 giugno 2020. Doveva essere un invito promozionale per visitare Lamezia Terme. Invece si è trasformata in una pubblicità irriguardosa verso i calabresi e la Calabria descritta come «terra di mafia, terremoti, priva di turisti, di città "iconiche" come Venezia e Roma e anche di fan su Instagram». E' così che la compagnia aerea Easyjet ha pensato bene di descrivere questa regione del sud Italia suscitando non poche polemiche. Tanto da provocare, subito dopo la bufera social, una ancora più sconcertante marcia indietro con la cancellazione del post e una nuova (stavolta irreprensibile) descrizione. Ma andiamo con ordine. Sul sito di EasyJet alla voce  "Ispirami" la compagnia aerea aveva dedicato un apposito spazio a Lamezia Terme: «Per un assaggio autentico della vivace vita italiana - si legge -  visita la Calabria. Questa regione soffre di un evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti  e la mancanza di città iconiche come Roma o Venezia capaci di attrarre i fan di Instagram. Ma se cerchi un piccolo assaggio della dolce vita senza troppi turisti, allora sei nel posto giusto. Raggiungi le città costiere della costa tirrenica per spiagge sensazionali e mai affollate. Arrampicati fino alla città di montagna di Morano Calabro per panorami mozzafiato e case bizzarre costruite su cime, che dovrai vedere per credere. Potrai essere tra i pochi turisti a conoscere e apprezzare veramente i tre spettacolari parchi nazionali di questa regione». Un quadro, insomma, sommario, carico di luoghi comuni e pregiudizi di cui se ne sarebbe potuto fare volentieri a meno. Il post ha scatenato una vera e propria bufera in rete. «Easyjet chieda scusa, alla Calabria e all'Italia. Non c'è altro da aggiungere», ha scritto in un tweet il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano. Mentre il deputato calabrese di Fratelli d'Italia Wanda Ferro ha chiesto alla Regione di sospendere i rapporti con la compagnia aerea. «Descrivere la Calabria - afferma Ferro in una nota - come una terra di mafia e di terremoti dalla quale i turisti stanno alla larga, e i pochi che arrivano possono ammirare solo delle case bizzarre, è di una gravità senza precedenti. Il danno all'immagine della Calabria da parte di Easyjet è evidente, e rischia di avere ingiuste ripercussioni sulle attività turistiche.» La compagnia aerea ha così deciso di cambiare totalmente descrizione: «Lamezia Terme si trova nel cuore del Mediterraneo. Grazie alle sue attraenti inenature, spiagge incontaminate, meravigliosi paesaggi montani e aplini è una destinazione perfetta per le vostre vacanze. E' un posto favoloso che vale la pena visitare in qulsiasi peridoo dell'anno». Insomma come arrampicarsi sugli specchi. «La compagnia Easyjet si scusa con tutti calabresi e la Regione Calabria per la descrizione contenuta nella scheda informativa all'interno del sitò». Così la società in una nota, in cui spiega che 'l'intento originale del testo era sottolineare quanto la Calabria sia sottovalutata all'estero da un punto di vista turisticò. La Calabria è 'una terra per noi molto importante, che amiamo e che promuoviamo da sempre con numerosi voli su Lamezia Terme. Ne è una dimostrazione anche il fatto che il primo volo del 15 giugno - che coincide con il ripristino delle operazioni post lockdown - è stato quello verso l'aeroporto di Lamezia Termè. Dopo l'accaduto, "abbiamo provveduto immediatamente a rimuovere il testo in questione e avviato un'indagine interna per capire l'accaduto e fare in modo che non accada mai più"». 

Per Easyjet la Calabria è regione di mafia e terremoti. Monta la polemica e la compagnia aerea si scusa. Gianluca Prestia il 23 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Questa regione soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti”. In molti, probabilmente, avranno letto due volte tale frase, pensando di non averlo fatto attentamente ma avevano invece compreso perfettamente. Non è un refuso, né uno scherzo. È tutto vero ciò che ha scritto la compagnia aerea low cost Easyjet nel suo sito ufficiale. Incredibile ma vero verrebbe da esclamare, vero come le polemiche che stanno iniziando a montare e che, c’è da scommettere, arriveranno a far diventare l’episodio a livello nazionale. Cosa abbia spinto la società ad esprimersi in quei termini verso la Calabria e la sua gente non è ancora chiaro. Una errata traduzione oppure un’azione voluta, quindi dolosa (E quindi di pessimo gusto)? Ma leggiamo il messaggio integrale: “Per un assaggio autentico della vivace vita italiana, niente di meglio della Calabria. Questa regione soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti e la mancanza di città iconiche come Roma o Venezia capaci di attrarre i fan di Instagram. Ma se cerchi un piccolo assaggio della dolce vita, senza troppi turisti, allora sei nel posto giusto. Raggiungi le città costiere della costa tirrenica per spiagge sensazionali e mai affollate. Arrampicati fino alla città di montagna di Morano Calabro per panorami mozzafiato e case bizzarre costruite su cime, che dovrai vedere per credere. Potrai essere tra i pochi turisti a conoscere e apprezzare veramente i tre spettacolari parchi nazionali di questa regione”. Tutto questo campeggia, come detto, nel sito ufficiale della compagnia aerea su una pagina che è stata successivamente rimossa. Un secondo post, ma dai toni completamente diversi, lo si trova ad un altro indirizzo (LEGGI) ed ha sostituito la pagina al centro delle polemiche. Insomma, da Easyjet non ci sono ancora comunicazioni sui motivi che l’hanno spinta a scrivere quel messaggio vergognoso nei confronti di una regione dalla storia millenaria e del suo popolo, che spesso in circostanze come queste ricorre come pochi altri all’arma dell’ironia della quale il portale “Lo Statale Jonico” è maestro: “Grazie agli amici di EasyJet per la splendida descrizione, ma ci teniamo a precisare – per amore di onestà – che abbiamo anche dei difetti”. Chapeau! Arrivano le scuse ufficiali della compagnia aerea: «EasyJet si scusa apertamente con tutti i calabresi e la Regione Calabria per la descrizione contenuta nella scheda informativa all’interno del sito. L’intento originale del testo – si legge in una nota – era sottolineare quanto la Calabria sia sottovalutata all’estero da un punto di vista turistico. La Calabria è una terra per noi molto importante, che amiamo e che promuoviamo da sempre con numerosi voli su Lamezia Terme. Ne è una dimostrazione anche il fatto che il primo volo del 15 giugno, che coincide con il ripristino delle operazioni post lockdown, è stato quello verso l’aeroporto di Lamezia Terme. Abbiamo provveduto immediatamente a rimuovere il testo in questione e avviato un’indagine interna per capire l’accaduto e fare in modo che non accada mai più».

«Calabria terra di mafia e terremoti». Levata di scudi contro EasyJet: «Offesi tutti gli italiani». Il Quotidiano del Sud il 23 giugno 2020. Fa ancora discutere la “gaffe” della compagnia aerea EasyJet che nelle scorse ore ha pubblicato sul proprio sito internet un contenuto dal presunto fine promozionale in cui definiva la Calabria una regione che «soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti». Il messaggio è stato rimosso nella mattinata di oggi e neppure le scuse pubbliche hanno messo al riparo la compagnia aerea dalle accuse della politica italiana. Una levata di scudi più che mai trasversale. «EasyJet chieda scusa, alla Calabria e all’Italia. Non c’è altro da aggiungere». Così in un tweet il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano. «Offese inaccettabili contro la Calabria e l’Italia quelle contenute sul sito di EasyJet – scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni – Alla compagnia, che ha annunciato la rimozione della vergognosa scheda, chiediamo le scuse nei confronti dell’Italia intera». Per Matteo Salvini «è incredibile e inaccettabile che sul sito di una compagnia aerea come EasyJet sia apparsa una descrizione infamante della Calabria. I calabresi e tutti gli italiani meritano rispetto assoluto: pretendiamo chiarimenti e scuse immediate!». «La pseudo operazione di marketing sulla Calabria realizzata da EasyJet – commenta la presidente di Regione Jole Santelli – è offensiva, miope e ha un chiaro sapore razzista. Si potevano usare tante parole per descrivere la meraviglia e la straordinarietà di una regione unica al mondo, ma la compagnia inglese ha scelto le più becere e le più consunte, realizzando una pubblicità ingannevole che non è altro che una sommatoria di inqualificabili pregiudizi. Per questo ho immediatamente scritto una lettera di protesta alla compagnia. I calabresi meritano rispetto e una miglior considerazione da parte di tutti. Prendiamo comunque atto delle scuse pubbliche di EasyJet, che ha già provveduto a modificare il testo. A pensarci bene – conclude la governatrice – il modo migliore per rimediare a una gaffe senza precedenti sarebbe quello di incrementare in modo considerevole i voli per la Calabria, in modo da permettere alle migliaia e migliaia di passeggeri di EasyJet di scoprire le infinite meraviglie della nostra terra. Non abbiamo Roma e non abbiamo Venezia, certo, ma non ci lamentiamo affatto. La Calabria è una meraviglia che merita solo di essere ammirata». Per l’europarlamentare del Pd Pina Picierno “la Calabria, culla di civiltà per secoli, offre paesaggi mozzafiato ed è ricca di storia e cultura. Se i turisti sono stati scoraggiati dal venire in questa terra non è certo perché mancano città come Roma ma semmai per le poche infrastrutture che hanno reso difficili i collegamenti. Chi si è occupato della “promozione” di questo sito di sicuro non l’ha mai visitata e non ha mai potuto apprezzare l’accoglienza dei calabresi e le bellezze paesaggistiche di questa terra. È incredibile come una compagnia aerea così importante abbia affidato la sua comunicazione a persone con così tanti pregiudizi e luoghi comuni. Vergogna». «La descrizione fatta da EasyJet della Calabria era una vergogna assoluta, bene ha fatto la compagnia aerea a chiedere immediatamente scusa, rimuovere lo scritto e avviare una indagine interna – dichiara il commissario del Partito Democratico della Calabria Stefano Graziano – Da campano che ha imparato ad amare le bellezze di questa terra consiglio a turisti italiani e esteri di non cadere nei facili stereotipi e di visitarla. La Calabria è terra di storie, eccellenze e un mare bellissimo». «La descrizione della Calabria da parte di EasyJet – scrive l’europarlamentare calabrese del M5S Laura Ferrara – è vergognosa. Offende la mia terra e la mia gente, crea un danno d’immagine e scoraggia evidentemente i turisti a visitare la nostra terra, che è e deve essere nota per il suo ricco e meraviglioso patrimonio paesaggistico ed enogastronomico, per le sue antiche tradizioni e per l’accoglienza ineguagliabile che i cittadini calabresi riservano ai turisti e agli ospiti tutti». La parlamentare calabrese di Fdi Wanda Ferro arriva a chiedere la sospensione del rapporto tra la Regione e la compagnia aerea: «La descrizione della Calabria pubblicata sul sito della compagnia britannica è talmente distante dalla realtà e offensiva da non potere essere semplicemente frutto della superficialità, dell’ignoranza o degli incubi di chi ha redatto il testo. Il danno all’immagine della Calabria da parte di EasyJet è evidente, e rischia di avere ingiuste ripercussioni sulle attività turistiche. Per questo andrebbe sospeso immediatamente ogni eventuale rapporto della Regione con la compagnia aerea e andrebbero valutate possibili azioni risarcitorie». Intanto il Codacons annuncia di aver depositato una denuncia nei confronti di EasyJet ipotizzando il reato di diffamazione e di aver chiesto all’Antitrust di provvedere all’immediato sequestro del sito web della compagnia aerea britannica.

Quei cliché sulla Calabria non li ha inventati Easyjet ma quell’asse perverso tra toghe e giornali…Davide Varì su Il Dubbio il 23 giugno 2020. Bufera sulla compagnia area Easyjet che dipinge la Calabria come terra di ndrangheta e terremoti. Ma quei clichè sono stati costruiti da inchieste mediatico-giudiziarie sgonfiate alle prime udienze. La governatrice Santelli parla di razzismo, i parlamentari – da destra a sinistra – pretendono pubbliche scuse e i social trasudano rabbia e indignazione. Insomma, la rozza campagna della compagnia area Easyjet, che ha descritto la Calabria come terra di ‘ndrangheta e terremoti, è stata crocifissa e l’azienda costretta alle scuse. Eppure è troppo comodo prendersela solo con la compagnia area, che pure ha usato cliché davvero banali e beceri. Il fatto è che in questi anni tv, radio e giornali non hanno fatto altro che dipingere la Calabria come una terra nelle mani della ndrangheta, facendo passare il suo mare cristallino come il più inquinato d’Italia. E non importa se la grandissima parte dei calabresi non abbiano nulla a che fare con le mafie; e né importa che le analisi delle acque di balneazione delle agenzie governative dicano da anni che il mare calabrese è “eccellente”. No, nulla di tutto questo è decisivo perché nell’immaginario collettivo – costruito con caparbietà attraverso fake e populismo mediatico-giudiziario – la Calabria è e resta “terra di ‘ndrangheta e inquinamento”. Ma accusare Easyjet significa assolvere se stessi e chi in questi anni ha veicolato quell’immagine cupa e fasulla della Calabria. Non senza qualche tornaconto in termini di carriera e visibilità: parliamo di giornalisti che svolgono la professione limitandosi a frequentare le sale d’aspetto delle procure in attesa di qualche ordinanza da copiare e incollare. E di qualche magistrato che ha portato avanti inchieste decisamente temerarie, naufragate alla prima udienza.  “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”, cantava Fabrizio De Andrè.

Tony Iwobi sugli antirazzisti italiani: "Sono feroci razzisti. Mi chiamavano negro-verde solo perché leghista". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Nato in Nigeria ma bergamasco di adozione, il senatore Tony Iwobi, 63 anni, da 42 in Italia, è l'unico uomo di colore che rappresenta il popolo italiano il quale lo ha eletto e lo ama, poiché egli è uomo sobrio, pragmatico e semplice. Contrariamente a quanto si possa immaginare, il suo nome non compariva in nessuna lista di quella sinistra che si proclama ferocemente antirazzista, bensì è stata la Lega di Matteo Salvini, tacciata di avere in odio i neri, a ritenere che questo signore di buona volontà, lavoratore indefesso, cittadino modello, potesse dare un valido contributo al Paese. Quando gli chiedi se gli abitanti della penisola siano segregazionisti e intolleranti verso chi ha pelle bruna, Iwobi sorride. Poi esordisce: «Sono stanco di sentire parlare in modo ignobile e strumentale di razzismo». E, a proposito dell'omicidio dell'afroamericano George Floyd, afferma: «L'uccisione di una persona è un reato atroce, a prescindere dalla pigmentazione. Tale crimine deve essere condannato ma non può essere trasformato in un motivo per seminare il terrore e fare altri morti. Sotto le mentite spoglie della battaglia antirazzista si stanno compiendo delitti terribili ovunque. È ora di dire basta». Il senatore ci spiega di avere avuto modo di leggere alcuni dati da lui giudicati «fortemente significativi»: «In base alle statistiche risulta che negli Stati Uniti non sono i bianchi ad ammazzare i neri né questi ultimi ad ammazzare i primi, piuttosto sono soprattutto i neri a trucidare altri individui neri».

IL CONTAGIO. Tuttavia, il timore che le proteste brutali in corso negli Usa da settimane possano essere solo l'incipit di disordini ancora più devastanti nel prossimo futuro sussiste. Ed è facile che il contagio si estenda qui, cosa che di fatto è già avvenuta, come dimostra la febbre che pure in Europa induce alla distruzione delle statue di Winston Churchill, Giulio Cesare, Indro Montanelli, sulla base di un revisionismo storico da mentecatti e asini patentati, mirante ad amputarci della parte più profonda di noi stessi: le nostre radici, il nostro passato, ciò che determina chi siamo e chi saremo. «Quale gigantesca idiozia abbattere certi monumenti!», esclama il nigeriano orobico. «Non ho dubbi che l'obiettivo fondamentale dei manifestanti in America come in Europa sia quello di creare confusione. Essi condannano senza conoscere, ma se non conosci come puoi giudicare?», osserva Tony. E qualora gli capitasse di imbattersi nei ragazzi del movimento Black Lives Matter Italia, il senatore sa bene cosa consiglierebbe loro: «Ragionate con il vostro cervello. Conduce al fallimento la convinzione di debellare la violenza con altra violenza». Ma insomma il razzismo esiste o non esiste nel Belpaese? Secondo Iwobi, il popolo italiano non è affetto da questa malattia che diagnosticano i progressisti. «Semmai la gente è arrabbiata e delusa. Il malcontento è crescente, il disagio sociale pure. Quando gli italiani si oppongono ad altri sbarchi illegali non lo fanno perché ce l'hanno su con gli africani, o perché li considerano inferiori, ma perché essi si sentono abbandonati da un governo che sembra battersi con maggiore passione per chi deve arrivare piuttosto che per chi si trova già qui». Sotto la spinta della crisi economica innescata dal periodo di isolamento tale disperato senso di sfiducia degli italiani potrebbe diventare esplosivo.

IN GINOCCHIO. Chiamare "razzismo" gli effetti di una gestione sconsiderata del fenomeno migratorio è disonesto. «Da lustri la sinistra tira fuori fascismo e roba simile per screditare gli avversari politici e metterli in difficoltà. I progressisti incriminano di razzismo chiunque non la pensi come loro sull'immigrazione. Incluso me», commenta Tony ridendo. «Ognuno ha il sacrosanto diritto di emigrare in modo corretto, senza essere costretto ad attraversare il tunnel della morte. Andrebbe ripristinata e favorita l'immigrazione legale e non incentivata quella clandestina chiudendo un occhio, anzi due». Cosa farebbe Tony se Laura Boldrini si inginocchiasse davanti a lui poiché nero? «La ignorerei», risponde secco. E dopo un breve silenzio: «Non sono mai stato vittima di razzismo da parte dei cittadini, però nel contesto politico ho patito insulti che mi hanno fatto male. I cosiddetti "antirazzisti", quando sono stato eletto, mi chiamavano "zio Tom", o "negro da cortile", o "negro-verde", "manichin", in quanto leghista da oltre vent'anni. E tuttora lo fanno», conclude il senatore.

Quaranten(n)a - Quello che gli italiani dicono ai neri. Valerio Giacoia su Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. Christopher oggi ha quarant’anni anni e le sue cicatrici portano indietro nel tempo, sulla strada degli altiforni dell’Emilia Romagna. Nigeriano, sapeva bene che ai neri spettava il cerchio più duro: colare la ghisa a milletrecento gradi, quando questa schizza ovunque segnando il corpo come fosse marchio a fuoco sul bestiame. Toccava a loro anche scendere nell’anello più basso della fonderia scavando carboni, un po’ come ai neri d’Africa lavare piatti nei sotterranei dei ristoranti di lusso di mezzo mondo. “Non potevi lamentarti, perché rischiavi di non rinnovare quello straccio di contratto, con cui riuscivo a comprare il pane e mandare un po’ di soldi a mia madre”. Da quindici anni in Italia, moglie italiana, tre figli piccoli, Chris racconta di un quotidiano da osservato speciale in un paese dove è vero che la polizia non ti toglie il respiro con un ginocchio fino a soffocarti, che non ti spara alle spalle, che non ti pesta a sangue anche soltanto per un sospetto, ma dove capita che la tua bambina venga additata dai compagni delle elementari per la sua pelle e i suoi riccissimi capelli. “Nelle famiglie, è lì che qualcosa non funziona ”. Come quando molti anni fa con la sua prima ragazza, italiana di Ravenna, decisero di presentarsi a casa di lei e quella sera a Chris non andò meglio che al plurilaureato dottor Sidney Poitier in Indovina chi viene a cena, girato però nel 1967, quando i leader più carismatici delle Pantere Nere urlavano pubblicamente che l’America aveva dichiarato guerra ai neri. Anzi, andò molto peggio che nella commedia di Tennessee Williams: “La madre di lei mi vide sulla porta e scoppiò a piangere. Quando tornammo a casa nostra, chiamò per chiedere a sua figlia se fosse ancora viva”. Questa era la storia, e si tratta di quasi quindici anni fa. Questa è la storia, oggi. Nel pieno delle proteste negli Usa per la morte di George Floyd, quello che gli italiani dicono (e non dicono) ai neri, non fa molta differenza con un mondo dove il razzismo è sistemico. Lì si materializza nelle violenze della polizia, nelle evidenti diseguaglianze scoperchiate anche dalla pandemia, qui serpeggia in un silenzio che puzza di ipocrisia. Tempo fa la moglie di Christopher rispose all’annuncio di un’azienda che cercava venditori di cialde del caffè; la titolare rispose poi che quel “no” non era dipeso dal curriculum, ma da “questioni di opportunità”. La verità è che i razzisti spuntano spesso tra coloro con i quali dividiamo il pane. “La cosa più triste è che occorre dimostrare ogni giorno di non essere quello che dice Salvini in tv – si rammarica Christopher – e questo significa sorridere sempre, essere sempre educato, magari non protestare se qualcuno ti passa davanti nella fila alla posta, e tu vuoi evitare casini”. Anche Amelie, giornalista di origini calabresi che vive a Londra da moltissimi anni e che ha sposato un black, come lo chiama, di sangue britannico da generazioni, è abituata a evitare storie. In Inghilterra non ha mai avuto problemi, in Italia quando si trattò di presentarlo in famiglia le zie paterne ne fecero una malattia. Per le feste canoniche lei, Cliff e le due bambine furono ufficialmente banditi: “A noi non hai pensato – le dissero – sapevi che non ci avrebbe fatto piacere”. E quando d’estate le piccole incontravano i loro coetanei alle Terme di Guardia Piemontese, nel Cosentino, questi le guardavano come fossero “strani animaletti”, ricorda Amelie con una punta anche di tenerezza, “e per i genitori l’idea che potessero essere miei figlie naturali, figli di una bianca, calabrese, non era contemplabile”. L’Italia del razzismo sottile, e l’Italia dove gli insulti come “negro di merda” si sprecano. Non tanto negli stadi di calcio della serie A, che quasi non fa notizia ormai, bensì sui campetti della categoria dei Pulcini. Il sito “Cronache di ordinario razzismo” (cronachediordinariorazzismo.org) tiene dal 2011 uno sbalorditivo ed eroico elenco di episodi, spessissimo legati al mondo dello sport minorile e della scuola. Le cronache sono impressionanti, e sono centinaia: aggressioni a bambini al grido di “sei nero, ora ti facciamo diventare bianco”, “ti sta bene che sei caduta, i negri devono stare a terra”, pestaggi, discriminazioni, tetti al numero degli iscritti stranieri nelle scuole, umiliazioni. Secondo Emmanuel Edson, intellettuale del Camerun che vive a Milano da vent’anni, il problema è anche la percezione che gli africani d’Italia hanno di se stessi che ingigantisce quello stereotipo discriminatorio diffuso, a suo dire, anche a sinistra: “Il nero stesso ha inconsciamente interiorizzato quel senso di inferiorità, e anche quando rivendica la sua uguaglianza è difficile riuscire a difendersi e uscirne vittorioso, perché nel fondo c’è un passato che lo spinge giù”. Occorrerà attendere un’altra generazione per riscattarsi, ma a patto che ci si associ seriamente, lontano dalle logiche politiche italiane, spiega Edson, che sta ultimando un testo teatrale visionario, dove in un futuro non molto lontano vede sindaco di Milano una donna, e nera: “Molti gridano contro il razzismo, ma non conoscono la nostra letteratura, al contrario di ciò che accade in Francia, dove il 10 per cento dei professori nei licei sa parlare di colonialismo perché viene da quella storia, dunque forma le coscienze dei più giovani”. E noi italiani? Noi italiani siamo (anche) quelli dell’ultima fotografia scattata da Eurispes nel Rapporto 2020: secondo la maggioranza non esiste un reale problema di razzismo e xenofobia, e addirittura il 15,6 per cento nega l’esistenza della Shoah. Nessuna meraviglia, visto che qui ancora c’è chi interpreta Faccetta nera come una canzoncina goliardica.

ANTONIO RAPISARDA per Libero Quotidiano il 15 giugno 2020.  In questa caccia su scala mondiale alle "statue" - versione 2.0 dell' Inquisizione in salsa progressista, ridestata dal movimento Black lives matter - non potevano non approfittarne per tornare alla carica anche i secessionisti sud-tirolesi. Se nel Mezzogiorno, come abbiamo raccontato su Libero, ad essere presi di mira sono i busti di Giuseppe Garibaldi, accusato di essere stato un «mercenario terrorista» anti-meridionale, nell' estremo Nord a finire nel mirino degli iconoclasti, per l' ennesima volta, è il monumento degli Alpini di Brunico: uno dei simboli dell' italianità della regione, costruito nel 1938 per ricordare il ruolo del corpo dell' esercito nella guerra d' Etiopia e più volte vittima di attentati, sfregi e richieste di rimozione. L'accusa di queste ore? In parallelo con il fanatismo anti-razzista che sta andando in scena dagli Usa alla Gran Bretagna dopo l' omicidio George Floyd, il monumento - anche nella sua ultima "versione" dedicata semplicemente alla memoria di tutti gli alpini - è indicato arbitrariamente dai secessionisti come un inno razzista e colonialista. «Anche in Alto Adige ci sono numerosi monumenti e nomi di strade e caserme che ricordano l' oppressione e l'assassinio della popolazione africana nera in Etiopia. Tra questi ci sono cimeli fascisti come il rilievo di Mussolini a Bolzano e il monumento agli Alpini a Brunico». La proposta? «Rimuovere finalmente tali glorificazioni scolpite nella pietra». Queste le parole dei membri del Süd-Tiroler Freiheit - il partito radicale che rivendica la libertà del Sud-Tirolo dall' Italia- che esprimono così il loro principio di "rivalutazione storica": la scusa, cioè, con cui in mezzo mondo sta andando avanti la crociata politicamente corretta contro la storia.

Escalation Nella proposta di risoluzione al consiglio provinciale di Bolzano, il partito fondato da Eva Klotz chiede non solo la dismissione del monumento agli Alpini a Brunico ma - come già avvenuto più volte in questi ultimi anni con la toponomastica delle montagne e delle località - anche la rimozione dei nomi di strade e caserme che sono associati al Ventennio fascista o semplicemente all' Italia. Si tratta di un' escalation a tutti gli effetti: per far capire il "clima" che si respira in Alto Adige, solo qualche giorno fa, proprio alla vigilia della festa della Repubblica del 2 giugno, ci avevano pensato gli schützen ad esempio a spostare provocatoriamente il confine dell' Italia a Sud al motto di «l' Italia non fa bene all' Alto Adige. L' Italia è un danno per tutte le persone che ci vivono». La risposta della destra altoatesina in difesa del monumento agli Alpini e non solo non si è fatta attendere. «È pura demenza solo avvicinare l' idea pura di pace degli alpini al razzismo», sbotta Alessandro Urzì, consigliere regionale di Fratelli d' Italia che da parte sua definisce i secessionisti tirolesi «i talebani di casa nostra che cercano pateticamente di sfruttare l' onda innescata dalle proteste per la morte di George Floyd». Secondo il consigliere di FdI la richiesta di rimozione del monumento all' alpino è una speculazione, un' offesa al valore delle Penne nere: «La storia non si modifica a colpi di piccone - continua -. Con questo e con la dinamite ci hanno provato a cambiarla i terroristi e gli islamisti». Proprio per questo l' assimilazione alpini-razzismo viene rispedita al mittente: «Non ci provino a speculare accostando l' Italia e gli italiani al razzismo. Si facciano un serio esame di coscienza sulla loro vocazione all' insulto dei simboli e dell' identità italiana: questo sì che è razzismo». Se in Alto Adige la questione Floyd viene utilizzata per riattivare la propaganda anti-nazionale, a Londra gli identitari iniziano ad organizzarsi a difesa delle statue dall' attacco degli anti-razzisti. È successo ieri quando gruppi nazionalisti e diversi tifosi delle squadre di calcio londinesi si sono riuniti nelle strade - al Cenotafio a Whiteall come davanti la statua di Winston Churchill in Parliament Square - a protezione dei simboli della propria storia nazionale.

Il razzismo antimeridionale di Vittorio Feltri non è nuovo: anche Giorgio Bocca e Indro Montanelli manco scherzavano… Ignazio Coppola il 23 aprile 2020 su inuovivespri.it. La storia del razzismo contro il Sud Italia e i suoi abitanti – di cui Vittorio Feltri è solo uno dei tanti ‘protagonisti’ – comincia nel 1860. Inizia con i Savoia, con l’odio e l’astio dei generali e dei politici piemontesi, prosegue con i positivisti di fine ‘800 (Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri) e arriva fino ai nostri giorni. Basta andare a rileggersi cosa hanno detto e scritto dei meridionali Giorgio Bocca e Indro Montanelli…La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica viene oggi drammaticamente riproposta dalle farneticanti affermazioni razziali dei deliri antimeridionali del “giornalista” Vittorio Feltri, che raccoglie l’eredità di tanti suoi illustri colleghi giornalisti del Nord, come, tra gli altri, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, di cui parleremo più avanti, che verso i meridionali hanno sempre avuto parole di disprezzo e di repulsione. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia.

ACREDINE VERSO IL SUD – Le parole di Feltri di questi giorni non sono solo il frutto di una demenza senile razziale, ma sono il punto di arrivo di un’acredine e di una ipocrisia nei confronti del Sud che trova appunto le sue radici nelle bugie e nelle falsità che, a dosi massicce, ci sono state propinate, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua infatti ad ignorare che, alla base di una mala unità d’Italia, vi fu, come del resto continua ad esserci – retaggio del passato – un’ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato ed allora capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza, scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Feltri docet. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie, tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

CIALDINI: “QUESTA E’ AFRICA!” – Ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva: “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di Cialdini, criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. Ed ancora , a ulteriore testimonianza di questi propugnatori del razzismo antimeridionale, quanto scriveva all’alba dell’Unità d’Italia il generale conte Luigi Menabrea comandante del genio del corpo d’armata piemontese di stanza nell’ex Regno delle Due Sicilie, alla baronessa Olimpia Savio Rossi dal comando di Castellone di Gaeta il 26 dicembre del 1860: “I meridionali sono simili agli ottentotti (si riferiva ai Boscimani la popolazione che abitava l’Africa meridionale), nonostante il loro bel paese e le loro grandi memorie. L’abbassamento del senso morale e della dignità personale della popolazione sono le cose che colpiscono di più. Sotto gli stracci disgustosi che coprono le contadine non si riconosce più questa belle razza italiana, che sembra finire nel territorio romano”. Il conte piemontese Luigi Menabrea sarà poi dal 1867 al 1869 presidente del Consiglio dei Ministri del nuovo regno d’Italia e, non perdendo la sua propensione razzista nei confronti dei meridionali, si distinguerà nella spasmodica ricerca, nella sua qualità di capo del Governo, di territori fuori dall’Italia, in Patagonia (Argentina) prima e nell’isola di Socotra (Portogallo) in cui deportare – essendo le carceri italiane strapiene – miglia e miglia di prigionieri meridionali. Per fortuna il criminale disegno di Menabrea e del governo sabaudo non andò a buon fine per la decisa opposizione dell’Argentina e del Portogallo, che eccepirono problemi di sovranità che giustamente rivendicavano sui propri territori.

GOVONE: “LA SICILIA? BARBARI!” – E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia, un militare che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani: anch’egli non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in Parlamento: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, scrittore e ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”.

LOMBROSO, FERRI, NICEFORO – Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero – a spese del Sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti . l’Unità d’Italia. Grazie anche a questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano – afferma Gramsci – che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell'Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. Infatti, negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Lo scrittore ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio scrive un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 160 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori”quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista di Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze: quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo, in un suo libro del 1898, L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa – sostiene ancora Gramsci – in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. O dei posteggiatori abusivi come delira oggi Vittorio Feltri.

“NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI” – Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: “Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. O, ancora: “Non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura con Vittorio Feltri e i suoi sodali, ancora sino ai nostri giorni. Fra i detrattori dei Siciliani e dei meridionali, visti, nel loro insieme, come un popolo di “terroni” e di “mafiosi”, non sono poi mancati “ giornalisti famosi come dicevamo all’inizio, i “compianti” Indro Montanelli e Giorgio Bocca, che più di una volta ebbero a sottolineare la condizione di inferiorità delle popolazioni meridionali rispetto a quelle del Nord. Nel 1960, al tempo della guerra d’Algeria, in una intervista rilasciata al giornalista francese Weber per “Le Figaro Litteraire” (la notizia fu riportata dal quotidiano “L’Ora” di Palermo del 25 ottobre del 1990) Montanelli disse testualmente: MONTANELLI: “VOI AVETE L’ALGERIA, NOI LA SICILIA” – “Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia, ma voi non siete costretti a dire che gli algerini sono francesi, mentre noi, circostanza aggravante, siamo costretti ad accordare ai siciliani la qualifica di italiani”. Molti siciliani insorsero deplorando quella frase oltraggiosa, da cui si ricavava che Montanelli considerava gli Algerini un popolo di serie B e i Francesi un popolo di serie A, così come i Siciliani rispetto agli Italiani. In un articolo di risposta a quella intervista un magistrato di Caltanissetta (Salvatore Riggio) si domandava: “Ma che cosa ci facevano i Francesi in casa algerina? I Francesi non erano forse gli sfruttatori, gli oppressori, i colonizzatori, gli illegittimi occupanti mediante violenza bellica dell’Algeria? Gli Algerini non avevano il sacrosanto diritto di cacciare dalla loro Terra i colonizzatori francesi e reclamare la propria indipendenza? Secondo l’ottica razzista del Montanelli parrebbe di no, perché secondo lui forse la Provvidenza Divina aveva assegnato agli Algerini come angeli custodi i Francesi e secondo la stessa ottica la medesima Provvidenza Divina avrebbe designato i «Fratelli d’Italia» al di là dello Stretto custodi dei Siciliani, considerati dal Montanelli «Esseri» distinti dagli «Italiani» perché posti nella scala di una presunta gerarchia in un gradino inferiore”. Il magistrato citava poi un altro episodio analogo in cui Montanelli (era il 1967) se la prendeva con tutti gli avvocati siciliani accusandoli indiscriminatamente in massa di avere connivenze e collusioni con la delinquenza. Gli avvocati siciliani reagirono proponendo una querela per diffamazione contro di lui. “Ma dove voleva arrivare questo signore?”, si domandava il magistrato. “Voleva forse proporre anche la fornitura di avvocati nordisti per la difesa dei delinquenti siciliani, così come i nordisti ci forniscono giornalmente i loro prodotti per la nostra vita dato che ormai il Sud e la Sicilia in particolare sono stati ridotti soltanto a vaste aree di mercato di consumo interno?”. Ma non finisce qui. L’autore dell’articolo (apparso sulla rivista Il Domani) ricordava che nel 1970 Montanelli aveva scritto che, alla Sicilia, mancava da sempre una coscienza civile e sul Corriere della Sera del 9 Gennaio 1971 scriveva che in Sicilia non v’era traccia di pensiero illuministico. Gli rimproverava poi di non conoscere la storia, l’arte, il pensiero, la letteratura della Sicilia, e persino la geografia, avendo scritto che “il 26 Maggio 1860 tre ufficiali della flotta inglese erano sbarcati a Misilmeri” (Montanelli e Nozza, Garibaldi, 1963, pag. 372), mentre Misilmeri non è sul il mare. Il magistrato poi citava anche il caso di Moravia, che sull’Espresso del 3 Ottobre 1982 a pag. 37 in un articolo intitolato “Siciliano = mafioso?” ad un certo punto aveva scritto: “Il Siciliano in quanto tale, anche il galantuomo, è tendenzialmente mafioso”. Con tutto ciò, concludeva il magistrato, nel 1986 i “sicilioti” di Agrigento (affetti dalla sindrome di Stoccolma) assegnarono a Moravia il Premio Pirandello per la narrativa e il 28 novembre 1990 un’Associazione Culturale di Caltanissetta conferiva a Montanelli il Premio Internazionale Castello di Pietrarossa per la sezione giornalismo. “Cupidigia di servilismo”,così titolava l’articolo il magistrato. E presi da questa cupidigia di servilismo e affetti dalla sindrome di Stoccolma che, alla fine, i palermitani di corta memoria hanno addirittura dedicato a questo illustre giornalista – loro costante denigratore – addirittura una strada: appunto via Indro Montanelli, sita in una traversa della Via Tasca Lanza. E giunti a questo punto, speriamo per l’avvenire che il sindaco Leoluca Orlando o chi gli succederà non si convincano a dedicare come per Indro Montanelli una strada a un razzista seriale antimeridionale come Vittorio Feltri.

La memoria di Montanelli - L’Italia e il sud «spiantato». Giuseppe De Tomaso il 21 Aprile 2009 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Metà disilluso metà disincantato, lo scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) sosteneva che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria. Indro Montanelli, di cui domani ricorre il centenario della nascita, citava spesso questa frase del suo maestro Ojetti. Vi ravvisava la triste fine che, post mortem, non avrebbe risparmiato neppure un Grande come lui, Indro, che del giornalismo aveva scalato tutti i gradini gerarchici, fino a raggiungere quello di pontefice massimo. «So di aver scritto sull’acqua», confessò Montanelli, sconsolato e rassegnato, un mese prima di passare a miglior vita. Ecco. Montanelli possedeva un fiuto da cane da tartufo. Fatta eccezione per Silvio Berlusconi, la cui stagione politica - secondo la Grande Penna - avrebbe coinciso con i tempi di una meteora, non già di una stella immortale, super-Indro aveva azzeccato quasi tutte le previsioni sul Belpaese e sulla politica italiana. Quasi tutte. Un altro pronostico l’«infallibile» Indro lo sbaglierà a proposito di se stesso. Montanelli ha scritto sull’acqua? Non scherziamo. Non passa giorno senza che un giornale pubblichi un suo pezzo, un brano dei suoi diari inediti, una riflessione di chi lo ha davvero visto da vicino. Persino la tv, elettrodomestico non particolarmente amato dall’anti-tecnologico Indro, ha rispolverato stralci di trasmissioni di 50 anni addietro, pellicole in cui il re della parola scritta troneggiava anche nelle vesti di sacerdote della parola parlata. Ironia e autoironia. Classe ed eleganza. I suoi Incontri  televisivi con i protagonisti di tutti i campi (da Moravia a Dino De Laurentiis) non erano la versione di serie B dei più celebri Incontri che furoreggiavano nelle librerie. Erano giornalismo di serie A, come assicurava il marchio di fabbrica. Comunque. A otto anni dalla sua scomparsa, l’Italia non ha dimenticato Indro Montanelli, nei cui confronti, perlomeno finora, non si è comportata da terra di contemporanei. Anzi. La domanda «Cosa avrebbe detto Indro se stesse in mezzo a noi?» è più gettonata di un disco degli Anni Sessanta, segno che l’uomo di Fucecchio ha lasciato un folto numero di orfani. Breve parentesi su antenati e posteri. Pur essendo un toscano milanesizzato, Montanelli non era insensibile ai problemi del Mezzogiorno. Il suo faro, nell’analisi della questione meridionale, era lo storico e politico lucano Giustino Fortunato (1848-1932). L’incontro con Don Giustino rimarrà scolpito nella mente del giovane inviato. «Lei ha visto i nostri calanchi, quelle distese di terra gialla e arida, senza macchie di verde? Sa perché sono così? Perché i pastori ci portano a pascolare le loro capre che non dànno tempo di crescere nemmeno a un filo d’erba. E sa perché i pastori gli lasciano distruggere erba e arbusti? Perché non credono in Dio. Chi non crede in Dio non crede nel domani. E chi non crede nel domani non pianta alberi. Ecco, ragazzo mio, la “questione” meridionale». Così parlò il simbolo della letteratura meridionalistica. Così ne resterà abbagliato il principe della carta stampata. Come dare torto a Don Giustino? Chiusa parentesi. Forse la fortuna postuma di Montanelli dipende dal suo percorso politico: cominciato a destra e finito, perlomeno sul piano elettorale, a sinistra. Per cui, la destra cita e ricita il Montanelli anticomunista che lascia il Corriere, da lui giudicato troppo debole verso progressisti e radical chic, per fondare Il Giornale dei moderati; mentre la sinistra cita e ricita il Montanelli antiberlusconiano che fonda la Voce e nell’urna vota per Prodi e D’Alema. Insomma, ciascuno tifa o tiferebbe per il suo Montanelli. Può darsi. Può darsi che la straordinaria produzione giornalistica del Nostro dia a tutti la possibilità di scegliere il Montanelli più congeniale alla sua visione delle cose. Ma, secondo noi, questa spiegazione dice e non dice. Anzi dice poco o punto. Il segreto della longevità postuma di Montanelli è uno: il suo rispetto per il Lettore. Sì, perché il Lettore è un animale strano. Può sembrare più distratto di un coniuge fedifrago, ma è più attento di uno scienziato davanti al microscopio. Guai a spacciargli merce taroccata. Il Lettore, anche se non sùbito, inevitabilmente se ne accorge, ed emette la propria sentenza (Raus, direbbe Umberto Bossi). Montanelli, invece, ha sempre rispettato il Lettore (che se ne è accorto), dicendo quello che pensava e pensando quello che diceva. Alla fine, anche i suoi nemici, anche coloro che non sempre condividevano le sue idee, hanno dovuto riconoscere che gli abiti politico-culturali di Cil-Indro profumavano di bucato. Il che costituiva e costituisce un riconoscimento più importante del laticlavio a vita, non a caso rifiutato da Montanelli. Conclusione. Non sempre i Grandi Maestri hanno prodotto Grandi Allievi. A volte hanno causato più danni di una guerra. Con Montanelli ciò non è accaduto, perché per i tipi come lui l’esempio era la più alta forma di autorità. E se oggi celebriamo il grande giornalista che, se non si fosse trasferito nell’Aldilà, avrebbe festeggiato il secolo di vita con Rita Levi Montalcini, è perché il suo esempio di persona libera vale più di una scrittura ineguagliabile e di una carriera irraggiungibile.

Indro Montanelli: noi italiani orfani di storia. Dino Messina il 15 marzo 2011 su Il Corriere della Sera. “Ma te sei matto”, mi disse quando rifiutai di fermarmi a cena per rientrare subito a Milano in redazione: “Guarda che nessuno è insostituibile”. Sagge parole di Indro Montanelli, che in questa intervista di fine agosto 1997, fatta per lanciare una iniziativa editoriale, mi spiegò la sua concezione della storia, i suoi maestri, i suoi riferimenti. La ripropongo oggi poiché dal 17 marzo il Corriere distribuisce la “Storia d’Italia” montanelliana, cominciando con “L’Italia del Risorgimento” in omaggio alla festa del 150° che cade proprio quel giorno.  Alcuni dei volumi furono interamente opera di Montanelli, altri scritti con Roberto Gervaso o con Mario Cervi. Ma l’impronta rimase sempre quella del maestro. 

CORTINA – “Chi è il curatore dell’Atlante storico che sarà distribuito dal Corriere?”. Geoffrey Barraclough. “Ah, non mi meraviglia affatto che sia un inglese. Per il mio ciclo di Storia d’Italia, valga quel che valga, io non ho letto autori italiani. Per la Storia di Roma, gli autori di riferimento sono stati il tedesco Theodor Mommsen e naturalmente il francese Jerome Carcopino. Per i Secoli bui e l’Alto Medioevo mi ispirai al bavarese Ferdinand Gregorovius, per l’Italia dei Comuni al britannico Anderson, per la storia dei papi a Ludwig von Pastor…”. A lezione di storia da Indro Montanelli, il maestro di giornalismo che di questa disciplina ha fatto la sua seconda professione, da quando, giovane laureato dell’università di Firenze, andò a studiare a Grenoble e alla Sorbona di Parigi, quindi si trasferì a Cambridge per seguire i corsi di Edward Carr, il grande specialista della Rivoluzione russa, autore tra l’altro del saggio What is history? Che cos’è la storia? E’ la domanda che rivolgiamo a Montanelli, in un pomeriggio di pioggia a Cortina. Il clima ideale per starsene in salotto a parlare di una passione che ha alimentato tutta la sua vita e a ricordare i vecchi maestri. Che, come si vede, non sono tutti italiani. “Ce ha un registratore?”, esordisce Montanelli, “perchè ne ho da dire”. Allora cominciamo. “Tra tutti i popoli occidentali, siamo quelli che meno conoscono la propria storia. E ciò dipende dal fatto che forse non siamo un popolo ma un agglomerato. E qui non si sa bene quale sia la causa e quale l’effetto: se cioè non siamo un popolo perchè conosciamo poco la nostra storia o viceversa. Una volta dissi a Ugo Ojetti, che per tanti versi è stato uno dei miei modelli: “Perchè non raccogli le tue cose viste? Tu hai il dovere di farlo”. Lui mi rispose: “Figlio mio, ti accorgerai anche tu che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati nè posteri. Perciò, senza memoria”. Ma torniamo alla storiografia italiana. “Quel che è mancato è stato l’anello di congiunzione tra il pubblico e l’accademia. I nostri testi di scuola sono illeggibili, così anche per le sinossi ho dovuto ricorrere a quelle inglesi. E per quanto riguarda il resto, beh, vuole sapere davvero quel che penso? I nostri storici non sanno raccontare, non hanno nemmeno la lingua per farlo, fanno una confusione voluta fra divulgazione e volgarizzazione. Dove sono i nostri Mack Smith, i nostri Carr? Se una cultura non pensa a diffondersi diventa parassitaria, serve soltanto a se stessa e alla corporazione”. Il suo giudizio così severo vale anche per Croce, Chabod, Salvemini? “Certo, vale anche per loro, perchè non hanno saputo raccontare la storia, ma soltanto la loro interpretazione, non hanno avuto l’umiltà di esporre i fatti, li hanno sempre presupposti”. Davvero tutti condannati gli storici italiani? “Intendiamoci, ci sono le eccezioni, e quali eccezioni. Per esempio lo storico dell’antichità Guglielmo Ferrero, che fu costretto ad andare a insegnare in Belgio perchè aveva il difetto di saper raccontare i fatti. Poi Gioacchino Volpe, Roberto Ridolfi e, naturalmente, Rosario Romeo. La sua biografia di Cavour è notevole”. Perchè dalle eccezioni positive ha escluso Renzo De Felice, il grande storico del fascismo? “Quando fondai il Giornale, volli subito tra i miei collaboratori Romeo e De Felice. Fummo in prima fila per difendere lo storico del fascismo dagli attacchi vergognosi cui era sottoposto. Ma questo è un altro discorso. Quel che voglio dire è che De Felice era uno storico di documenti, nella sua opera monumentale ha raccolto il meglio, ma non sapeva raccontare e soprattutto dalla sua biografia manca la cosa essenziale, il personaggio Mussolini”. Forse per uno storico l’ossessione della completezza è un limite? “Lytton Strachey, il biografo della regina Vittoria, in un saggio sulle qualità dello storico, indicava anche quel pizzico di ignoranza che impedisce di attardarsi eccessivamente sul particolare, aiuta a prendere le distanze. Ma vorrei tornare a Mussolini, per dire quanto il fascismo si indentificasse con lui. Una volta accompagnai Bontempelli a trovare Pirandello. Ascoltavo i due che criticavano il fascismo e, timidamente, intervenni: “Se, come voi sostenete, è un regime senza consistenza, allora cadrà presto”. Pirandello mi rispose: “Non cadrà mai, perchè è un vecchio tubo vuoto che ognuno può riempire come vuole”. “Dopo qualche tempo ebbi la conferma di quel che intendeva Pirandello. Collaboravo a Firenze al giornale diretto da Berto Ricci, l’Universale, che intendeva il fascismo come uno strumento per dare ai giovani una coscienza civile. Un giorno Mussolini, che è stato giornalista per tutta la vita, convocò la nostra redazione e si rivolse a me con voce solenne: “Ho letto il vostro articolo contro il razzismo, vi elogio. Il razzismo è roba da biondi”. Peccato che i miei capelli da giovane tendessero al biondo, forse Mussolini non se n’era accorto, o forse disse quella frase proprio perchè lo aveva notato. Dopo qualche giorno il duce convocò la redazione di Cantiere, che intendeva il fascismo come lo strumento per creare una nuova economia di Stato, di cui le corporazioni dovevano essere il primo passo. Tra i collaboratori c’era Pietro Ingrao. Mussolini diede ragione anche a loro. Ecco che cos’era il fascismo, un tubo vuoto che ognuno riempiva a suo piacimento”. I ricordi di storia vissuta si accavallano alle lezioni apprese dai libri, il metodo acquisito nella lunga militanza giornalistica diventa strumento per meglio capire il nostro passato. Ecco un’altra lezione di storia, nata da un incontro con Giustino Fortunato, il meridionalista liberale lucano. “Sull’Universale mi occupavo molto della questione del Mezzogiorno. In un articolo scrissi che il fascismo era la scorciatoia per riunificare l’Italia e a sostegno della mia tesi fornii alcune cifre. Un giorno ricevetti un biglietto: “Caro signore, ho letto i suoi articoli. Mi complimento per i dati, ma non sono d’accordo sulle conclusioni”. Quel biglietto era firmato Giustino Fortunato. Saltai su un treno per Napoli. Era una domenica. Salii le scale di un vecchio palazzo e mi venne ad aprire lui. Era il notabile meridionale al meglio, lo sguardo vivace, i fitti capelli bianchi. Mi disse: “Capisco che lei abbia di questi sogni, ma lei confonde il problema. Lei pensa che il problema del Meridione sia il Meridione stesso, ma sbaglia. Il problema del Meridione sono i meridionali”. E mi fece entrare in una grande stanza tappezzata di libri. Era la biblioteca di sua sorella. Io leggevo i nomi di santi e di mistici sui dorsi di quei volumi rilegati e non capivo dove voleva arrivare Fortunato, che a bruciapelo mi chiese: “Ha mai sentito parlare di un mistico meridionale?”. No, risposi. E lui: “Chi non crede in Dio vive soltanto del presente, non ha fiducia nel futuro. L’immagine del Meridione è nei calanchi aridi, non coltivati, abbandonati alle capre”. Montanelli continua a sostenere che gli italiani sono un popolo di contemporanei, che non hanno fiducia nel futuro e nemmeno interesse al proprio passato. Un giudizio in parte contraddetto dal successo che ha avuto la sua storia d’Italia. Quando le venne l’idea di scriverla? “Fu Dino Buzzati, scrittore straordinario ma anche grande giornalista, a propormi negli anni Cinquanta di scrivere per la Domenica del Corriere una storia di Roma. Io non sono un topo di archivio, il mio pregio è di saper scegliere i testi dei grandi ricercatori e mediare tra la cultura alta e il pubblico, che è uno dei compiti del giornalismo. Questo feci. Il successo fu tale che scoprii quanto desiderio gli italiani avessero di storia, di una storia vera, raccontata in una lingua accessibile a tutti. E’ un esercizio di umiltà cui mi sono applicato. La capacità me l’ha data il giornalismo”. E’ più difficile raccontare la storia del passato o quella del presente? “Senza dubbio quella del presente, anche se io continuo a provarci. Tra poco uscirà L’Italia dell’Ulivo scritta con Mario Cervi. Ma anche per il passato remoto la completezza e l’obiettività sono impossibili, altrimenti basterebbe un solo libro di storia. L’obiettività non esiste, è soltanto una tecnica, nella quale gli anglosassoni sono maestri, come mi spiegò il mio amico Webb Miller, giornalista della United Press che era stato con me a Parigi e in Finlandia. Lui mi passava le sue note che per me erano utilissime e un giorno gli dissi: ti ringrazio perchè devo anche a te, alla tua obiettività se ho fatto bene. Lui mi rispose che l’obiettività non esiste e me ne diede la prova. L’indomani saremmo andati in aereo a Stoccolma. Una volta arrivati, stendemmo due resoconti di quel breve viaggio e li confrontammo. Avevamo descritto la stessa esperienza non soltanto con parole diverse ma raccontando particolari differenti. Però c’è una tecnica che dà il senso dell’obiettività. E il mio amico Webb, che poi sarebbe morto suicida perchè non riusciva a smettere con l’alcol, mi dimostrò anche che si possono dire cose diverse con le stesse parole. Noi possiamo sostenere che Giulio Cesare fu un grande mariuolo ma fu un generale e uno statista. Poi possiamo dire che Giulio Cesare era un grande statista ma un mascalzone che non pagava i debiti. Nel primo caso abbiamo affermato che Cesare era uno statista, nel secondo che era un mascalzone”. Ma se l’obiettività non esiste, conclude Montanelli, “come è possibile farsi una propria visione della storia? L’unico consiglio che posso dare è leggere tante storie”.

Commedia All'Italiana. Esistono ancora i Settentrionali? Roberto Marino il 31 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. I maligni dicono che questa rivalità sia iniziata quando Vittorio Emanuele II e Garibaldi non avevano neanche fatto in tempo a girare i cavalli dopo la storica stretta di mano a Teano. È lì che è nato tutto: nordisti e sudisti, muro contro muro, fino a finire a “polentoni” contro “terroni”. Per la verità sono stati loro a cominciare: mille camicie rosse mandate allo sbaraglio, nascondendo la mano e le ambizioni sabaude del grande Piemonte, non sono una cosa da niente. E gli italiani? Ferite e lacerazioni non si risolvono con meno di due secoli. Il servizio di leva, le fabbriche e la televisione ci hanno provato a creare un popolo che avesse qualcosa in più in comune che la spartizione di una fettuccia di terra a spigolo nel Mediterraneo. E se un minimo di condivisione della lingua lo si deve alla Rai, il resto è rimasto più o meno com’era, pregiudizi, discriminazioni e insulti compresi. Poi da 30 anni in qua, sono arrivati quelli del Carroccio a rimestare le differenze e a scavare crepe, gettando sulla Questione meridionale anche una patetica e inquietante ombra razzista. Ma è teatro, solo teatro. Perché poi la Storia si prende le rivincite e rimette sempre le cose a posto. «Si è sempre meridionali di qualcuno», dice il professor Bellavista chiuso a lume di candela in ascensore con sciur Cazzaniga. E così 180 anni di pregiudizi incartati con la peggiore retorica padana, finiscono per diventare anacronistici. A forza di prendersela con i terroni, l’identità nordica è andata a farsi benedire. A Milano il cognome più diffuso sull’elenco del telefono è Hua, non proprio meneghino; e nella francofona Valle d’Aosta prevalgono quelli calabresi. Il mondo cambia sotto i nostri occhi e non aspetta nessuno, neanche quelli dei prati di Pontida con le ampolle dell’acqua del Po. Tra minacce di secessione, esibizioni di superiorità, presunzioni e ricchezze cumulate nell’ingiustizia delle spartizioni dei bilanci statali, il Nord si è ritrovato dentro l’incubo incredibile del coronavirus. I numeri sono dalla parte loro, ma l’identità? Esistono ancora i settentrionali? Certo che ci sono, ma sono minoranza. Quanti sono i torinesi, i milanesi, i veneziani, i genovesi di sangue puro da generazioni e generazioni? Pochi, una comunità sopraffatta in casa, malgrado tutte le misure e gli esorcismi per tenere a distanza gli «africani dello Stivale». Il Nord ha vinto tutte le battaglie ma ha perso la guerra con «gli inferiori». Ne sono consapevoli soprattutto i passeggeri e i guidatori del Carroccio. Cinema, teatro, televisione, letteratura parlano più dei vinti che dei vincitori. E così il riccone di provincia veneto o lombardo deve sorbirsi gli effetti e i prodotti di una cultura bollata come minore, insignificante, impalpabile. Rosicano, e come se rosicano. Gli alfieri della Lega più volte hanno stuzzicato l’argomento: basta con il terrone Camilleri o De Giovanni o Saviano. «Basta con queste storie che parlano una lingua che si fa fatica a capire». Bisogna pure comprenderli, poverini. Ma è andata così. I vinti si sono riscattati con i vincitori. Gli hanno lasciato le cifre del conto in banca e delle carte di credito. I numeri delle statistiche economiche, il ruolo di locomotiva dello sviluppo, i servizi più efficienti. L’agiatezza non sempre produce idee culturali, soprattutto quando è finalizzata a un edonismo fine a se stesso, senza neanche la spinta a chiedersi come e perché. Essere primi e accomodati nel benessere non produce sempre voglia di capire, crescere, raccontare. Il Nord è quasi sparito dalle storie, pur avendo i cinema, le librerie, i teatri e gli indici di lettura migliori. Il vecchio Sud ha rimontato il distacco sull’analfabetismo, ha saputo stringere i denti e imparare da chi ha accolto i suoi figli con la valigia di cartone. Si sono integrati, hanno orecchiato le cadenze e gli accenti. Fino a diventare una comunità che guarda al resto del paese. qualche volta, dall’alto in basso. Negli stadi di Torino, Bergamo, Verona, Brescia i cori contro i tifosi meridionali arrivano anche da altri sudisti trapiantati al Nord. La voglia di identità fa questi scherzi. La rivincita dei padani. Creare dai terroni i nuovi polentoni. Due Italie in una e non più una in due. Quando scompariranno dialetti, tradizioni, differenze, avremo forse gli «italiani», un Paese più omogeneo, ma chi ha detto che sarà anche migliore?

L'Italia è finita di Pino Aprile. Dopo lo straordinario successo di Terroni, Pino Aprile firma un libro infuocato, che irrompe con forza nel dibattito politico. Autorevoli studi e indagini dicono che, tra una manciata di anni, l'Italia, e forse l'Europa, non esisteranno più. Almeno come le conosciamo ora. Si spezzeranno per il fallimento della loro economia e non reggeranno alla spinta disgregatrice dei mercati finanziari. D'altronde, già oggi l'Italia non è più la stessa: grandi aziende, grattacieli, squadre di calcio appartengono a capitali stranieri. E unita, in realtà, l'Italia non lo è mai stata. Piuttosto, è il risultato di un'operazione scellerata di saccheggio e conquista, che ha distrutto il Sud. È questa la crepa, mai sanata, che si allargherà fino a inghiottire tutto l'edificio dell'Italia unita? O forse nelle tensioni e nelle divisioni gli italiani danno il meglio e lo smembramento sarà la nostra salvezza?

“L’ITALIA E’ FINITA. E FORSE E’ MEGLIO COSI’”: NUOVE VERITA’ NEL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE. Gennaro De Crescenzo su neoborbonici.it. “L’ITALIA E’ FINITA. E FORSE E’ MEGLIO COSI’”: NUOVE IMPORTANTI VERITA’ NEL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE. Pino Aprile analizza (da giornalista vero e spesso da storico vero) i fatti del passato e del presente del Sud (e anche dell’Italia e del mondo) e propone una sua soluzione dei problemi. “Tutto qui”, potremmo dire ma altro che “tutto qui”, se pensiamo che quelle analisi e quelle soluzioni molto spesso nessuno le ha fatte o prospettate e che si tratta (pur partendo dal passato) di analisi e soluzioni nuove.  Dico da sempre che nel mondo del meridionalismo si dovrebbe parlare di epoca pre e post-terroni per quante persone, da quel lontano 2010, sono state sensibilizzate su temi spesso sconosciuti. Il successo di Pino Aprile è in gran parte legato allo schema utilizzato nel suo best-seller, negli altri libri sul tema (da “Giù al Sud” al recente e importante “Carnefici”) e nel nuovo libro pubblicato qualche settimana fa: “L’Italia è finita. E forse è meglio così”. Pino Aprile non ha “la” soluzione per risolvere i problemi del Sud (si chiama “questione meridionale” e intere generazioni di politici e/o meridionalisti non sono riusciti a risolverla). Pino cerca “una” soluzione e la cerca alla luce di studi continui e di esperienze “sul campo”, nel confronto quotidiano che ha con i suoi lettori sui social come con le centinaia di conferenze in giro per l’Italia e per il resto del mondo (conosco poche persone in grado di percorrere tanti chilometri all’anno come Pino). I "nemici" di Aprile, allora (pochi, pochissimi , se rapportati agli incredibili numeri degli "amici" raccolti in questi anni), o non leggono i libri di Aprile (un'occhiata al web e alle copertine, un pizzico di pregiudizi, una buona dose di invidia o un poco di antico antimeridionalismo e siamo pronti!) oppure sono distratti: fanno evidentemente finta di lamentarsi per l'assenza delle fonti (eppure è facile: le mette all'interno del testo e non nelle note!) solo per l'incapacità di contrastarne le tesi (frutto in gran parte di ricerche personali o di quelle fonti, accademici alternativi "in primis"). Fanno evidentemente finta di contestare la validità di tante tesi senza entrare mai nel merito (spesso si tratta di opinionisti più o meno famosi che non sanno neanche dove sia il Sud) e senza mai proporre tesi alternative o, anzi, riproponendo tesi che hanno ridotto il Sud come sappiamo in 150 anni di colonizzazione e di questioni meridionali mai risolte e sempre più gravi con colpe che di certo non possono essere di Pino Aprile (non ha mai curato neanche l’amministrazione del suo condominio e non ha mai neanche cercato -pur avendo avuto non poche offerte- di diventare il “leader” dell’ennesimo partito meridionalista o della corrente meridionalista di qualche partito nazionale).

“Da un secolo e mezzo, i meridionalisti muoiono senza veder la fine della questione meridionale, nata in Italia, con l'annessione violenza del Regno delle Due Sicilie al regno sabaudo. L'Italia unita mi piace, ma alla pari; e la questione meridionale mi dispiace più di quanto mi piaccia l'Italia unita. Non voglio morire senza averne vista la fine (ho 68 anni e siamo longevi in famiglia, fatevene una ragione). Per cui: o finisce la questione meridionale o finisce l'Italia unita. E io ci voglio essere”. Qualcuno potrebbe mai contestare questa affermazione a meno che non sia un ministro o il figlo di un ministro italiano in carica o in “ex carica” dal 1860 ad oggi? Qualcuno potrebbe mai dire che non è vero che dal Sud “prima dell’unità non emigrava nessuno e che il Sud aveva i due terzi dei soldi di tutta Italia” o che in Italia esiste “una parte che insulta e si ritiene superiore e una parte che viene insultata e non reagisce più, perché dai e dai, si è convinta di esser inferiore”? E’ una falsità scrivere che “in Italia esiste una parte in cui costruiscono sempre più ospedali in cui accogliere malati costretti a emigrare, per curarsi e una parte in cui chiudono sempre più ospedali, onde costringere i malati a emigrare per curarsi; una parte in cui si pagano meno tasse e si hanno più servizi e una parte in cui si pagano più tasse per avere meno servizi e scadenti”? A meno che non siate direttori di nomina politica di un giornale o opinionisti più o meno “ufficiali” (e loro “seguaci” ignavi, ignari o più o meno consapevoli) o politici con responsabilità dirette o indirette (pure la passività è una colpa), qualcuno in buona fede potrebbe mai definire falsa la tesi secondo la quale “chiamare questo ‘un Paese’ è una presa in giro, una truffa che può durare solo finché non lo si sa o si finge di non sapere”? Del resto gli studi (anche internazionali) e i segnali (anche elettorali) che dimostrano la tesi di Aprile (la fine dell’Italia) non sono affatto pochi e solo chi non vuole leggerli, per pigrizia o per complicità, può far finta di nulla. Del resto la domanda è facile e la risposta dovrebbe essere altrettanto facile (un sì o un no): “è vero o no che la politica ‘unitaria’ ha scavato un solco quasi incolmabile fra le due macro-regioni, per concentrare ricchezza e infrastrutture solo in una delle due”? E’ vero o no che “l'Italia è il Paese occidentale che ha le più grandi disuguaglianze”? Non perdete tempo a cercare e ad affibbiare a Pino Aprile le definizioni più negative e (secondo voi) offensive (“terronico, terronista, neoborbonico, nostalgico, secessionista” ecc. ecc.) e dimostrate, se potete, che non è vero che “l’Italia ha il divario più duraturo del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito, diritti, salute, vita media...)”. Non accontentavi dei titoloni dettati dai governi di turno (“disoccupazione in calo, crisi finita” ecc.). Non accontentavi neanche delle statistiche nazionali che fanno di tutto per “coprire” i dati regionali e rassegnatevi all’idea che il Sud Italia è la zona più povera d’Europa e, purtroppo, Pino Aprile ha ragione… E sono in tanti, sempre di più, a porsi una domanda drammatica: “perché devo stare con chi mi ha derubato, mi deruba, mi insulta e mi ricorda a ogni passo che non mi vuole, dopo avermi  costretto a unirmi a lui a mano armata?”.  E qui non si tratta di essere anti-italiani e di spingere verso eventuali secessioni: la secessione è in atto da 150 anni e, come diciamo spesso, è in quella percentuale drammatica che riguarda i nostri giovani meridionali (che hanno la metà dei diritti, del lavoro, dei servizi, delle infrastrutture, delle occasioni e delle speranze di quelli del resto dell’Italia e dell’Europa). Qui si tratta di rendersi semplicemente conto di come sono andate le cose e di come continuano ad andare con la consapevolezza che “gli italiani si sentivano ed erano tali più quando, nel solco di storia, cultura e religione comuni, si ammiravano ed emulavano, in concorrenza, a volte armata, per le loro ricche diversità”. Ancora più chiara un’altra sintesi: “Il Paese si rompe, perché non lo si volle unire, ma assimilare. L'operazione non è riuscita”. Ai limiti del mondo pirandelliano, poi, è chi contesta ad Aprile (e magari ai neoborbonici) un dato inconfutabile: “in tutti i Paesi ci sono zone più ricche e più povere e lo Stato spende in queste ultime, più di quanto riceva”. E se “l’Italia è finita” è colpa di Pino Aprile che ci ha scritto un libro oppure di una Lega (sempre e comunque) Nord che governa da decenni e che nel suo statuto ha tra gli obiettivi la creazione della Padania (ed è quasi riuscita a crearla con la complicità periodica degli altri partiti)? E’ colpa di un libro o della prossima e bene avviata “secessione” del Veneto (e poi di Lombardia ed Emilia Romagna) finalizzata a distruggere quel patto di solidarietà nazionale a puri scopi economico-fiscali? E’ anti-italiano Aprile o chi offende il Sud ogni giorno con i suoi giornali (“Ci tocca mantenere un meridionale”, titolava Libero poche ore fa) o chi finge di ignorare quello che le regioni del Nord stanno facendo (con successo e anche in queste ore)? “Qual è il nuovo disegno del mondo? Quale il nostro posto, quello dell'Italia?”. Quello che emerge da questo libro non è una certezza ma una domanda, legittima, sacrosanta e che dovrebbe aprire dibattiti veri e possibilmente democratici. E se la vita media al Sud è diminuita di 4 anni rispetto al Nord (e a Napoli di 8) è colpa di Pino Aprile, dei meridionali che decidono di morire prima o di chi ha governato questo Paese? “L'alternativa è costruire un Paese veramente uno, ma il Nord non vuole e il Sud non ha più tempo di aspettare. E non si capisce perché il derubato dovrebbe ancora fidarsi del ladro” (e la frase dovrebbe campeggiare su strade e piazze del meridione d’Italia). “L'ingegneria istituzionale non risolve da sola; è utile solo in presenza di consapevolezza e volontà diffuse e condivise” è la risposta di Aprile a chi invoca anche da queste parti macroregioni o altri assetti istituzionali ed è una risposta che non possiamo non condividere sottolineando anche un altro aspetto evidenziato nel libro: sotto la spinta “emotiva” delle bandiere venete o lombarde qualcuno potrebbe pensare di “accettare la sfida” e di chiedere la stessa “autonomia” ma potrebbe cadere nella ennesima trappola: questo sistema oggettivamente nord-centrico, per continuare a “utilizzare” il Sud, potrebbe concedergli “autonomia” ma mai una vera “indipendenza”... Del resto è difficile per chiunque contestare il confronto tra i dati veicolati dai soliti Giletti o Del Debbio o Feltri di turno e quelli reali (idem per le questioni storiche con il supporto, magari, dei nuovi studi di accademici onesti e coraggiosi come Daniele, Malanima, Fenoaltea o Tanzi). Del resto è difficile minimizzare l’importanza di movimenti come quello neoborbonico (raccontato con i recenti articoli di Limes) o dei tanti che si battono per la verità storica diventando (lo ammise lo stesso Galli della Loggia tempo fa) “maggioritari” e creando non poche inquietudini sui fronti accademico/ufficiali impegnati in strenui e stressanti tour con convegni (tra di loro) per spiegare a se stessi e ai loro poveri alunni chi è Pino Aprile o chi sono i neoborbonici (guardandosi bene, ovviamente, dall’invitare sia il primo che i secondi). Non era facile affrontare temi che Aprile aveva già affrontato arrivando con un messaggio forte e chiaro sia ai lettori (magari post-terronici) “che sanno” e anche a quelli che “non sanno” e Aprile lo ha fatto con grande abilità (il libro è articolato e massiccio ma si legge con velocità e con piacere) guardando le cose da una prospettiva diversa da quella utilizzata nei libri precedenti (anche solo un occhio allo stile e ai contenuti dei finali dei capitoli vi fa capire perché Pino Aprile ha il successo che in tanti non hanno). Questa volta, tra l’altro, il Sud (dall’unità alle sue conseguenze passando per la Cassa per il Mezzogiorno fino ai drammatici dati attuali ignorati dagli intellettuali ufficiali troppo impegnati magari a combattere i “giorni della memoria“) non è l’unico protagonista del libro insieme a tante analisi e a tante tesi sulla nuova Europa e il nuovo mondo che stiamo vivendo e che forse vivremo. “L'Italia che proprio non riesce a essere unita, parrebbe avere tutto da guadagnare, rompendosi. Meglio, peggio? E che ne so: è una possibilità, è l'adeguamento al futuro e potrebbe darci sorprese. Per il Sud, peggio dell'ultimo secolo e mezzo, e soprattutto dei primi due decenni e degli ultimi due è difficile”. Una tesi, una possibilità, una sfida, una scommessa… Chiamatela come volete ma se ancora amate il Sud e, in fondo, l’Italia, non potete fare finta di non aver letto queste parole e non potete non leggere questo libro. Gennaro De Crescenzo

Per ogni guaio italiano ve n’è uno peggiore in Calabria. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 14 Gennaio 2020. Accade di contrapporre il male altrui al proprio, lo si fa per incoraggiarsi. È un fatto umano dai connotati pericolosi se da vizio dell’uomo si trasforma in metodo sociale: una società individua un suo pezzo sofferente, lo addita per sentirsi migliore. Inidoneità, ignoranza, furbizia, egoismo, anche un pizzico di razzismo ne sono causa. Pensando alla Calabria, la sua classificazione tra il peggio è effetto anche dell’autorazzismo: si è accettato il ruolo della pecora nera, assistendo e contribuendo alla costruzione di una rappresentazione della realtà. Si è partiti con i risolini e le chiacchiere degli stessi calabresi che riguardavano piccole porzioni del proprio territorio, dai riottosi, ribelli e irredimibili africoti di Stajana letteratura, si è passati alla razza dannata, sanlucota, platiese, locridea. Si è arrivati a una Calabria totalmente irredimibile, con un morbo che ha preso a seguire i calabresi in fuoriuscita. I meridionali in genere e i calabresi in particolare: non sono più ciò che sono, solo quello che appaiono. E la sostituzione della rappresentazione al reale non serve alla vittima né a chi si consola del suo male. A elencarli tutti, i mali calabresi o meridionali, servirebbero parecchi saggi, il Sud ha bisogno di verità, brutale, gli serve una classe intellettuale che ne apra le piaghe senza pietà, e poi una classe dirigente che, una a una, provi a curarle. E poi serve un popolo che sostenga l’una e spinga in punta di lama l’altra. Al momento mancano tutti. La Calabria, per esempio, non è più un luogo fisico, abitato da uomini. È una narrazione fatta da fuori, con complicità interne, che quotidianamente riempie i mezzi di informazione. Per consolare gli altri e affossare se stessa. È il modo giusto per non aiutarla. Ma questa Italia è un Paese che s’ostina a tenere i sudici sul banco degli imputati, additando ogni loro vizio, come solo loro vizio e non il sintomo di un’infezione che tocca tutti, un’Italia che cinicamente accetta la loro messa all’angolo non fa un favore a se stessa. E pure se è vero, se si deve parlare di mala sanità si tira in ballo la Calabria, la si tira in ballo per la mala politica, per la scuola cattiva, per il dileggio dell’ambiente. Per ogni guaio italiano vi è uno peggiore che alligna in Calabria. E poi da lì parte il mostro dei mostri, la ‘ndrangheta, che più la si combatte e più cresce e più invade il mondo. Le narrazioni non sono neutre, hanno il potere di spodestare la realtà dal suo posto e atterrare definitivamente un contesto. La Calabria questo è, il Sud questo sta diventando, oltre ad averli i drammi: la consolazione dei mali, che sono anche altrui, che sono di tutti.

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio.

Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Numeri. Caro Giletti, così ci siamo. Roberto Napoletano il 6 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bravo Giletti, il suo viaggio nel Sud a Non è l’Arena questa volta ci è piaciuto. Ai nostri occhi si è riscattato perché ha coperto con onestà il buco nero informativo della sua trasmissione che questo giornale ha denunciato perché insopportabile. Che a un cittadino calabrese lo Stato italiano elargisca 15,9 euro per investimenti in attrezzature sanitarie contro gli 89,9 che riceve un cittadino della Valle d’Aosta è uno scandalo morale, prima ancora che economico, perché lede i diritti di cittadinanza inviolabili della Repubblica italiana. A prescindere dal fatto, sia chiaro, che gli amministratori della Valle d’Aosta si sono dimessi perché indagati per associazione politico elettorale mafiosa e che il Comune di Saint Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta. Giletti ha mostrato le tabelle del Quotidiano del Sud che sono poi quelle dei Conti Pubblici Territoriali e ha detto con assoluta chiarezza che il capitolo degli investimenti sanitari dopo lo tsunami Coronavirus dovrà essere riscritto perché non equo. Non era scontato. Queste parole gli fanno onore e sono quelle che avremmo voluto sentire già due domeniche fa. Ogni volta che il conduttore di Non è l’Arena denuncerà gli sprechi e il malaffare calabrese nella sanità pubblica e privata ci avrà sempre al suo fianco. Perché questo giornale, come ho scritto la settimana scorsa, non ha e non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi pubblici e al coacervo di interessi massonici e amministrativi che a volte hanno spartito con essa il bottino e a volte ne hanno bloccato l’impiego per calcoli inverecondi. Questa vergogna deve essere esplorata e denunciata senza riguardi per nessuno perché la sanità è un bene pubblico e le vittime sono le donne e gli uomini del Mezzogiorno. Saremo sempre in prima linea nel sostenere a tutto campo l’azione di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori dall’Italia, e non ci stancheremo mai di ringraziarlo. C’è un punto rimasto in sospeso che aiuta a capire come sono andate davvero le cose, caro Giletti. È vero che i commissariamenti delle regioni del Sud hanno comportato un taglio dei trasferimenti per colpe loro, come hai opportunamente sottolineato, ma sono scattati per bilanci regionali in rosso per importi rilevanti che non hanno però paragone con quanto prima, durante e dopo è stato tolto alle stesse regioni del Sud per regalarlo alle regioni del Nord. Dal 2000 al 2017 su 47 miliardi di investimenti complessivi 27,4 sono andati al Nord, poco più di un terzo al Sud (10,5). Per la sanità italiana, un cittadino della Calabria ha ricevuto cinque volte di meno di un cittadino emiliano-romagnolo. A seguito dei giusti commissariamenti frutto di sprechi e inefficienze le Regioni del Mezzogiorno taglieggiate pesantemente per quasi un ventennio nella distribuzione delle risorse pubbliche hanno dovuto mandare a casa un altro 10% di personale. Ho scritto la Grande Balla perché questa ineludibile operazione verità che riguarda la sanità come la scuola, gli asili nido come i treni veloci, fosse chiara a tutti. Questa distorsione incostituzionale della spesa pubblica è tra l’altro all’origine dell’abnorme crescita della rendita sanitaria privata lombarda a discapito degli ospedali pubblici lombardi e del Mezzogiorno. Ogni battaglia sacrosanta di moralizzazione e di ricostruzione economica e sociale del Paese può partire solo da questi numeri. Che parlano perché hanno un cuore e un’anima. 

Settentrionali vs Meridionali. La parafrasi di un atteggiamento razzista da una parte e coglionista dall'altra.

Ogni volta che aprono bocca i padani non parlano mai (o solo) dei cazzi loro.

Su ogni argomento stanno sempre lì a comparare loro ai meridionali.

Riguardo al tema del Coronavirus.

Il Nord untore ha prima infettato il Sud e poi l'ha rinchiuso in casa da sano, affamandolo.

Il Nord ha dato prova di inefficienza ed incompetenza. Ciononostante, stanno lì a chiedersi ed a trovare il cavillo calunnioso sul perchè il Sud non deborda di morti, stante, secondo loro, l'arretratezza della sanità e della società meridionale, restia a rispettare le norme di contenimento.

La litania dei "Corona" settentrionali con la moglie cozza: Quanta è bella mia moglie; ma quanta è brutta la loro.

La risposta dei "Terroni" meridionali con la moglie bella ed affascinante: Quanta è brutta mia moglie; è più bella la loro.

Non riesco a trovare nessun settentrionale che riveli la realtà dei fatti e parli male della Padania. Che dica: che racchia di femmina!

Si riscontra solo: quanto è bella, progredita, onesta, ricca che paga le tasse.

Non riesco a trovare alcun meridionale che metta in evidenza i difetti e le mancanze del Nord ed indichi le eccellenze del Sud e che, nel paragone, dica: che bonazza di femmina!

Si riscontra solo: quanto è brutta, arretrata, mafiosa, povera ed evasora fiscale.

Non so chi mandare a fanculo: i razzisti o i coglioni!!

La mobilità resta un elemento cruciale per la valutare la "fase 2". Coronavirus, uno studio: "L'epidemia ha corso lungo ferrovie e autostrade". Primocanale.it sabato 11 aprile 2020. I collegamenti tra Liguria e Toscana, le vie di comunicazione a raggiera della Pianura Padana, la Via Emilia: in Italia l'epidemia di Covid-19 ha mosso velocemente i suoi primi passi seguendo i percorsi delle principali infrastrutture di trasporto, ovvero ferrovie e autostrade. Per questo la mobilità resta un elemento cruciale da valutare attentamente anche in vista della cosiddetta fase 2. Lo spiega Marino Gatto, professore di ecologia del Politecnico di Milano e primo autore di uno studio in via di pubblicazione sulla rivista dell'Accademia americana delle scienze (Pnas) che ricostruisce la mappa del contagio nel nostro Paese. Lo studio è stato realizzato da ricercatori italiani che lavorano presso il Politecnico di Milano, l'Università Ca' Foscari di Venezia, l'Università di Zurigo, il Politecnico federale di Losanna (Epfl) e l'Università di Padova. Come risultato ha prodotto "il primo modello di contagio per l'Italia che tiene conto sia dell'evoluzione temporale dell'infezione nelle popolazioni locali che della loro evoluzione spaziale", spiega Gatto. "Sappiamo che il virus si propaga per contatto diretto tra le persone e le vie di trasporto hanno sicuramente favorito la diffusione del contagio dai primi focolai", precisa l'esperto. Lo studio ha preso in considerazione sia l'evoluzione temporale dell'infezione nelle popolazioni locali che la loro distribuzione geografica, integrando gli spostamenti degli individui per raggiungere il luogo di lavoro, con una risoluzione a livello provinciale. Sono stati usati censimenti Istat per stimare la mobilità prima dell'epidemia e uno studio indipendente che ha sfruttato la geolocalizzazione dei cellulari per capire di quanto si è ridotta la mobilità con le restrizioni imposte. L'animazione così prodotta mostra l'Italia del contagio che si accende di rosso, delineando zone ben precise. "Il maggiore focolaio si è sviluppato in Lombardia, che non a caso è tra le regioni meglio connesse col resto d'Italia e del mondo", afferma Gatto. "Nella Pianura Padana, dove le vie di trasporto sono a raggiera, il virus si è diffuso delineando cerchi concentrici via via più larghi. In un secondo momento si è propagato in Veneto ed Emilia Romagna, prendendo la via Emilia per scendere verso le Marche". Gli Appennini, in un certo senso, hanno fatto da tappo, e "i focolai della Liguria si sono propagati verso la Toscana, seguendo la tratta da La Spezia verso Lucca, Firenze e Siena". Il sud, paradossalmente, potrebbe essere stato risparmiato proprio per il minor sviluppo infrastrutturale.

Coronavirus, come mai al Sud non è esplosa l’emergenza? Rezza: «Il fattore temporale ha salvato il Meridione».  L’intervista di Felice Florio su Open il 12 aprile 2020. «Non si può abbassare la guardia», afferma il capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. «Ci vuole poco per trasformare Bari in una grande Codogno» Quando è stato annunciato l’isolamento delle regioni del Nord Italia ed è scattato l’esodo verso Sud, lo scorso 7 marzo, si temeva che anche nei territori meno colpiti dal Coronavirus potessero nascere dei focolai capaci di far collassare le varie sanità regionali. Fortunatamente, non è accaduto. Le evidenze numeriche si leggono nei dati del 9, 10 e 11 aprile comunicati dalla Protezione civile. La somma totale dei casi positivi presenti al Sud e nelle Isole, il 9 aprile, era di 10.002. Nella sola Lombardia c’erano il triplo degli infetti: 29.530. Estendendo il confronto tra l’intero Nord e il Sud, il rapporto tra le persone positive al Sars-CoV2-19 nelle differenti aree è di 8 a 1. Il virus non ha sfondato la linea gotica. Un divario che si fa ancora più ampio considerando il numero dei decessi: il rapporto tra Meridione e Settentrione è di circa uno a 18. Il 10 aprile è arrivata la conferma di quei dati: in Lombardia c’è stato un incremento di casi totali di +1.246 rispetto al giorno precedente, un terzo del totale nazionale, di +3.951. Nessuna regione del Sud ha avuto un incremento superiore alle 100 unità: i territori meridionali più colpiti, ovvero Campania e Puglia, hanno avuto un aumento dei casi nelle 24 ore rispettivamente di +98 e +93. Idem ieri, 11 aprile: Campania +75, Puglia +95 e Lombardia +1.544. Per Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, è stato il «fattore temporale a salvare il Sud Italia».

Professore, perché il Sud ha retto?

«Il virus è entrato in Lombardia, probabilmente già prima del blocco dei voli da Wuhan. E lì si è diffuso in un periodo di picco influenzale: almeno inizialmente è stato molto difficile da diagnosticare. Poi si è trasmesso principalmente per contiguità, senza compiere salti a distanza, se non per qualche cluster ben circoscritto in Veneto, a Rimini e verso le Marche. Quando l’epidemia si è diffusa in tutta Italia e sono nati dei focolai al Sud, le autorità erano già preparate».

E cosa ha impedito che si arrivasse ai numeri di Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto?

«Il provvedimento di distanziamento sociale ha ostacolato il virus al Meridione prima che potesse diffondersi nelle stesse misure del Nord, dove circolava da parecchio tempo. Sì, c’è stata qualche catena di trasmissione a Roma, una città molto popolosa. Alcune catene si sono viste nelle Rsa, le residenze per anziani: ma quando il virus è arrivato davvero, i provvedimenti di distanziamento sociale erano stati già presi. Il fattore temporale ha salvato il Meridione».

Solo questione di tempo?

«No, assolutamente. Il virus ha dimostrato di colpire principalmente le aree più produttive, come il Nord Italia: semplicemente perché ci sono più contatti tra le persone e più spostamenti quotidiani legati a un mondo del lavoro frenetico. Anche l’aspetto della densità abitativa ha inciso. Ma le variabili sono tante, senza dimenticare il fattore della casualità, sempre presente nelle epidemie».

Lei stesso diceva che ci sono state trasmissioni incontrollate nelle Rsa, anche al Sud. Come se le spiega?

«Quando il virus circola, anche se circola poco, va a creare focolai di un certo rilievo nei luoghi chiusi: le principali catene di trasmissione si sono verificate nelle famiglie e negli ospedali. Le Rsa hanno personale che spesso si muove da una struttura all’altra e ospiti che spesso vengono mandati in ospedale per determinate cure: questi sono stati gli elementi che hanno facilitato la creazione dei focolai in determinati luoghi sensibili».

Si aspettava una maggiore incidenza del contagio dopo l’esodo di persone dal Nord al Sud avvenuto le prime domeniche di marzo?

«Abbiamo notato, nel periodo successivo all’esodo, catene di trasmissione intrafamiliare al Sud avvenute in seguito all’arrivo di un elemento del nucleo dal Nord. Al di là di qualche focolaio di questo tipo, fortunatamente la situazione non è degenerata. E parte del merito va anche ai governatori regionali che hanno istituito delle zone rosse laddove ce n’era bisogno: a memoria ne ricordo quattro nel Lazio, cinque in Campania, e anche in Calabria e Sicilia. Isolare i piccoli territori più colpiti ha funzionato».

Perché la Campania è la regione meridionale più colpita?

«La Campania preoccupa più delle altre semplicemente perché è tra le più popolose, con un’alta densità abitativa e dove ci sono più contatti tra le persone».

Cosa succederà nelle prossime settimane al Sud?

«Molto dipenderà dalle misure che si prenderanno e da quanto la popolazione le rispetterà. È difficile fare scenari perché, fin quando non ci sarà un vaccino, il virus circolerà. Non ce ne libereremo. Se si mollasse con le precauzioni, basterebbe poco tempo a trasformare Bari in una grande Codogno. Bisogna tenere molto alta la guardia, il distanziamento sociale ha dimostrato di riuscire a contenere il contagio e bisogna continuare su questa strada. Anche quando ci sarà la cosiddetta fase 2, occorrerà muoversi con cautela: la politica dovrà trovare un equilibrio tra la necessità della ripresa economica e la salvaguardia della salute pubblica. Il distanziamento sociale dovrà continuare».

La gaffe l'inviata di Agorà: "Non siamo fortunati, non c'è nessuno". Delusione per l'inviata Rai a Napoli per testimoniare il rispetto del decreto coronavirus: voleva documentare le violazioni ma la strada è deserta. Le sue parole scatenano l'indignazione sui social. Paola Francioni, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Da oltre un mese la televisione italiana è diventata quasi monotematica. L'argomento principale, trattato in ogni sua sfaccettatura, è il coronavirus. Difficilmente potrebbe essere diversamente, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale che sta facendo decine di migliaia di morti. I programmi televisivi delle reti nazionali si occupano prevalentemente di questo: sono stati soppressi momentaneamente tutti gli spazi di intrattenimento, relegati nella maggior parte dei casi a repliche di programmi già editi. Gli editori hanno preferito mettere momentaneamente da parte l'attualità leggera per concentrare le energie sul racconto del coronavirus. In questa spasmodica caccia alla notizia si è inserito anche Agorà, che negli ultimi giorni sta facendo discutere animatamente la rete. Il programma di informazione che va in onda al mattino su Rai3 è spesso elogiato la qualità del suo lavoro e dei suoi servizi ma in queste giornate così complesse i social hanno qualcosa da ridire sulle modalità con le quali la trasmissione ha deciso di informare. La polemica più accesa è scoppiata oggi e la protagonista è un'inviata del programma in collegamento da Napoli. La città Partenopea è spesso presa come esempio della scarsa attitudine degli italiani di rispettare le regole imposte dal governo. In un momento in cui si chiede il massimo rispetto delle distanze di sicurezza e in cui si chiede ai cittadini di limitare le loro uscire per contenere il contagio da coronavirus, sono molte le testimonianze contrarie che giungono da Napoli. In rete girano i video delle strade brulicanti di pedoni e di auto, sui social rimbalzano le immagini provenienti da ogni angolo della città che vorrebbero documentare una sorta di "allergia" alle regole da parte del sud. Forse in quest'ottica voleva inserirsi il servizio di Agorà di questa mattina, quando l'inviata si è recata in una delle principali arterie commerciali di Napoli per riprendere e testimoniare con la sua viva voce l'elevata circolazione dei mezzi nella città campana. Eppure, alle 8.37, alle sue spalle non circolavano che pochissime auto, nulla a che vedere con i racconti che provengono dalla città campana. "Io ti voglio far vedere quest'immagine. Noi siamo in una zona che sarebbe pedonale, siamo qui da circa mezz'ora. C'è in realtà un passaggio di auto abbastanza numerose, abbiamo visto furgoncini", racconta la giornalista ma, alle sue spalle, si vedono pochissime auto in transito. A quel punto, l'inviata pronuncia una frase che ha fatto indignare ben più di qualche telespettatore: "Non siamo fortunati in realtà, in questo momento si stanno comportando... Non c'è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c'era un passaggio intenso." Il fatto che la giornalista consideri una circostanza sfortunata quella di non poter rilevare con le telecamere un elevato passaggio veicolare, sinonimo di possibile trasgressione del decreto contro il coronavirus, sarebbe una circostanza sfortunata. Non la pensano così i napoletani, che sui social hanno fatto sentire la loro voce: "Ore 8.30, la giornalista in diretta dice che a Napoli c'è troppa gente per strada ma la telecamera inquadra una via Scarlatti deserta. Lei: 'Non siamo stati fortunati, fino a pochi minuti fa qui c'era un traffico intenso'... Come fate a non vergognarvi?", "Mi spiace non se ne parli, ma nel mio piccolo vorrei sottolineare quanto in basso stia scavando #agorai: l'inviata, in barba a ogni regola di distanziamento, tocca l'ospite; 'Non siamo fortunati, i napoletani si stanno comportando bene'. Mi vergogno per loro." Questi sono solo alcuni dei commenti che si trovano su Twitter, dove per altro si fa anche notare come l'inviata, trasgredendo una delle regole base imposte dal decreto contro il coronavirus, mette una mano sulla spalla di un suo ospite e non rispetta il distanziamento sociale. Solo poche ore fa il programma era stato criticato per aver mandato in onda un concitato inseguimento a un anziano runner con un drone della polizia, utilizzando come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie.

“A Napoli traffico intenso”: in strada non c’è nessuno e la giornalista tocca l’uomo. Da Francesco Pipitone il 15 Aprile 2020 su VesuvioLive. Questa mattina è andata in onda, come al solito, il programma di informazione Agorà in onda su Rai Tre. In collegamento da via Luca Giordano al Vomero c’era la giornalista Elena Biggioggero, che ha intervistato Luigi Sparano, segretario della sezione napoletana della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale. In realtà la Biggioggero fa domande molto interessanti a Sparano, il quale mette in luce problematiche estremamente importanti per quanto riguarda la gestione del pericolo della diffusione del contagio da coronavirus. Napoli, viene evidenziato, è una città in cui ci sono molti nuclei familiari numerosi, dunque il contagio avviene spesso tra le mura domestiche. Situazione che si fa più grave nei quartieri più popolari, dove le esigenze economiche spingono alla convivenza tra più persone, in particolar modo con gli anziani. Il problema sorge quando la conduttrice, Serena Bortone, si collega alle polemiche dei giorni scorsi sulla presunta eccessiva presenza di persone in strada domandando ad Elena Biggioggero se fosse vero o meno: “Siccome sono state fatte un po’ di polemiche – Napoli vuota, strade occupate eccetera – da testimone – per altro tu sei milanese, per questo hai uno sguardo nordico sul nostro amato Sud… non toccarlo, non vi avvicinate… – voglio sapere se Napoli è vuota oppure no, se si rispettano le regole oppure no”. A quel punto la giornalista fa girare il cameraman per fargli inquadrare la strada, che però in quel momento è vuota: “Guarda Serena, io ti voglio far vedere questa immagine. Noi stiamo in una zona che sarebbe pedonale. Siamo qua da circa una mezz’ora. C’è un passaggio di auto, insomma, abbastanza numerose; abbiamo visto furgoncini, sarebbe una zona commerciale in cui il commercio è interrotto perché i negozi sono chiusi. Ecco, non siamo fortunati in realtà perché in questo momento non c’è nessuno ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso”. Serena Bortone replica: “No perché ieri ci siamo sentiti con Elena e mi ha detto che Napoli era deserta. Quindi se poi qualcuno si sposta, insomma…”. In realtà via Luca Giordano è sì pedonale, ma soltanto in parte, come sa bene qualsiasi napoletano. Elena Biggioggero ha dunque fornito un’informazione sostanzialmente sbagliata, poiché fa intendere che nonostante la pedonalizzazione ci sia un passaggio intenso di auto. Secondo, quando la giornalista fa inquadrare la strada, viene ripresa la parte dove le auto possono passare e se ne vede transitare soltanto una, poi un autobus. Durante il collegamento furgoncini non se ne vedono, soltanto un mezzo dell’Asia per la raccolta dei rifiuti, e tra l’altro se anche fossero passati dei furgoncini molto probabilmente poteva trattarsi di lavoratori che consegnavano merci, chissà. Giornalisticamente l’informazione che ha dato è irrilevante poiché nulla faceva intendere una illiceità del passaggio – presunto – dei furgoncini. Ma la parte “migliore” l’abbiamo vista quando la Biggioggero ha messo la mano sulla spalla del dottor Sparano passandogli molto vicino, sfiorandolo addirittura, ed entrambi non avevano la mascherina posizionata sul volto. Serena Bertone infatti l’ha avvertita: “…non toccarlo, non vi avvicinate…”.

Da ilmessaggero.it il 16 aprile 2020. "Colerosi", così venivano chiamati i napoletani perché l'epidemia del colera si era scatenata al sud. Lo ricorda su twitter Vladimir Luxuria, che aggiunge: per fortuna nessuno usa il coronavirus per insultare veneti e lumbard. «Molti, tra cui Salvini, insultavano i napoletani di essere colerosi perché l'epidemia di colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è segno che possiamo essere ottimisti sul futuro». Lo scrive su Twitter Vladimir Luxuria. L'epidemia di colera di Italia scoppiò in Italia nel 1973, nelle aree costiere delle regioni Campania, Puglia e Sardegna tra il 20 agosto e il 12 ottobre. L'improvvisa epidemia, forse causata dal consumo di cozze crude o altri frutti di mare contaminati dal vibrione causò un grande allarme: all'ospedale Cotugno di Napoli vennero ricoverate 911 persone in dieci giorni.

Luxuria a Salvini: "No offese al Nord, ma insultavi i napoletani". L'attivista per i diritti Lgbt all'attacco del segretario della Lega: "Chiamava i partenopei colerosi…" Alberto Giorgi, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Attacco, via social network, a Matteo Salvini. L'affondo contro il capo politico del Carroccio arriva dalla piattaforma onine di Twitter e per l'esattezza dal profilo ufficiale di Vladimir Luxuria. Sì, perché quella che è stata la prima parlamentare transgender a essere eletta nel Parlamento di un Paese del Vecchio Continente si è scagliata contro l'ex ministro dell'Interno. Il motivo della questione? Non sono tematiche legate al cosiddetto mondo Lgbt – sigla che va a indicare le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender – di cui la Luxuria è attivista, bensì in materia di coronavirus. E così il personaggio televisivo ha voluto prendersela con il segretario della Lega, rinfacciandogli di aver insultato in passato i napoletani, dandogli dei "colerosi". L'uscita dell'ex deputata dal Partito della Rifondazione Comunista è assai critica nei confronti dell'ex titolare del Viminale, al quale prega di ricordare come in queste settimane difficili causa pandemia di coronavirus, nessuno – e dice “per fortuna” – si sia messo a insultare pesantemente le popolazioni del Nord, messo in ginocchio dal Covid-19. Per la precisione, Vladimir Luxuria, twitta così: "Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere 'colerosi' purché l'epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro". L'epidemia di colera a cui si riferisce la scrittrice è quella che scoppiò in Campania, Puglia e Sardegna nell'estate del 1973, per via – a quanto stabilito all'ora – dal massiccio consumo di cozze e frutti di mare crudi contaminati dal batterio vibrione. L'epidemia provocò 278 casi e 24 vittime. Il pubblico di Twitter si divide e non tutti apprezzano il post dell'autore. Tra questi, c'è chi scrive il seguente appunto: "Mi spiace dissentire, ma, è capitato di trovare messaggi di gente che quasi esultava del fatto che la regione più colpita fosse la Lombardia. Continuo a non augurarmi che al Sud scoppi un focolaio come il nostro! Sarebbe una strage". Alla considerazione, la Luxuria risponde così: "Spero tu abbia segnalato, mostrato e denunciato... io non ho visto nulla". Un altro, invece, scrive: "Un napoletano mi ha detto che augurava a me e alla mia famiglia il coronavirus…".

La bordata di Luxuria a Salvini: “Napoletani chiamati colerosi, oggi nessuno insulta il nord”. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. La showgirl, attivista ed ex deputata Vladimir Luxuria ha postato un tweet che è allo stesso tempo un attacco al leader della Lega Matteo Salvini e una riflessione sull’Italia post coronavirus. Secondo Luxuria il fatto che non si siano levati dei commenti razzisti verso le popolazioni del nord, e in particolare verso la Lombardia, la regione più colpita dal virus, è “un segno che possiamo essere ottimisti sul futuro”. Il tweet ha subito raccolto centinaia di reazioni social. Al contrario il post fa notare come, a causa della epidemia di colera che nel 1973 colpì in particolare la città di Napoli, la popolazione partenopea sia stata spesso additata come “colerosa”. Con insulti ed epiteti razzisti. Un coro da stadio, in particolare, era stato cantato (come documentato da un video) anche dall’oggi segretario della Lega Matteo Salvini, il leader che ha portato il Carroccio a essere primo partito d’Italia e a sfondare anche nelle regioni del Sud. Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere “colerosi” purché l’epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio… nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro. Il tweet di Luxuria non è passato inosservato. E fra commenti scettici e concordi, c’è chi ha ricordato le ultime manifestazioni di razzismo, ispirate dal coronavirus e apparse proprio negli stadi, contro i napoletani. In occasione della partita degli azzurri a Brescia, del 21 febbraio scorso, gli ultras della curva di casa avevano infatti intonato il coro incommentabile: “Napoletano coronavirus”. Altri commenti hanno ricordato come durante la partita del Napoli contro il Torino al San Paolo, dello scorso 29 febbraio, i tifosi partenopei avessero invece esposto uno striscione che recitava: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il Covid-19“.

Di Maio, i fannulloni e le imprese di Milano. Ieri, grazie anche al generoso contributo di voi lettori di ogni parte d'Italia, a Milano è stato aperto, nei padiglioni della Fiera, un nuovo ospedale che, a regime, avrà oltre duecento posti di rianimazione. Alessandro Sallusti, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. Ieri, grazie anche al generoso contributo di voi lettori di ogni parte d'Italia, a Milano è stato aperto, nei padiglioni della Fiera, un nuovo ospedale che, a regime, avrà oltre duecento posti di rianimazione. Non parliamo di una struttura da campo ma di un vero e proprio ospedale, nel suo genere tra i più moderni a capienti d'Europa che farà capo a un'altra eccellenza, il Policlinico di Milano. Lo hanno costruito sotto la regia di Guido Bertolaso in dieci giorni, lavorando su tre turni 24 ore al giorno, in deroga a lacci e lacciuoli della burocrazia. È un ponte Morandi bis (il capolavoro ingegneristico di Genova, issato in meno di un anno), dimostrazione che in Italia, se solo si vuole, tutto si può fare e non si è secondi a nessuno. Il giorno che in Italia, non dico tutto ma quasi tutto, dovesse funzionare in questo modo potremmo dire di essere diventati un Paese serio e moderno: la politica che sceglie e coordina (grazie presidente Fontana), i tecnici che mettono in campo le migliori intelligenze (grazie Guido Bertolaso), imprese e lavoratori che si buttano a capofitto e, perché no, privati (grazie anche a voi lettori) che finanziano direttamente ciò che serve alle loro comunità invece che gettare soldi nel calderone bucato dello Stato. Ma quel giorno purtroppo è lontano. Il nuovo ponte Morandi e l'ospedale di Milano sono opere nate sull'onda di tragedie e lutti - un vanto che ci saremmo volentieri evitato -, quando invece dovrebbero essere la normalità dell'agire pubblico. Quel giorno è lontano perché siamo schiacciati dall'incompetenza, dall'assistenzialismo e dalla burocrazia. E qui mi rivolgo al ministro Di Maio, padre del famigerato reddito di cittadinanza. Come Di Maio saprà il settore agricolo parte fondamentale della nostra economia - è in grande sofferenza. La terra non aspetta, i raccolti neppure, ma mancano, tra quarantene, malati e stranieri fuggiti, almeno 370mila addetti, questione di giorni e la stagione andrà in malora. Manca manodopera, ma oltre due milioni di persone sono a casa a far niente ufficialmente in attesa di occupazione ben pagate dal reddito suddetto. Ecco, possibile, signor ministro, che il dieci per cento di questi non possa essere obbligato ad andare nei campi, pena la perdita del ricco sussidio? Altro quindi che estendere il reddito. Estendiamo il lavoro che, come si vede, non manca. Non farlo è un insulto a tutti noi, a chi in quindici giorni ha costruito da zero un signor ospedale. Chi non ha voglia di lavorare, signor ministro, si arrangi. Non è più tempo di fannulloni.

Ecco che il direttore dall’alto della su arguzia padana mette in parallelo due questioni a lui padano molto care.

Da una parte l’efficienza della Padania che fa in barba alle regole ed in virtù dell’altrui regalie. In questo caso i soldi raccolti per bontà di benefattori.

Dall’altra parte, naturalmente, quel due milioni di scansafatiche, è sottinteso, sono meridionali e di conseguenza terroni, ossia agricoltori da mandar per campi. 

De Giovanni contro Libero: “Discrimina Napoli e il suo popolo”. Redazione de Il Riformista il 3 Aprile 2020. “Lo so, amici miei: mi direte che è sbagliato dare rilevanza e pubblicità a questi titoli, i quali difficilmente in altro modo arriverebbero all’attenzione della gente”. Maurizio De Giovanni giustifica così il suo intervento sulla sua pagina Facebook. Un lungo post che lo scrittore napoletano ha scritto commentando la prima pagina del quotidiano Libero, “questo ignobile giornale tenuto in piedi, è bene ricordarlo, da fondi pubblici ai quali tutti noi contribuiamo”. E il motivo sta nel fatto che “stavolta basta una fotografia a prospettiva schiacciata e una di un vicolo preso dall’alto per dire che "è in atto a Napoli e Palermo un suicidio di massa", che "De Luca ha ragione, ci vuole il lanciafiamme" (frase astratta dal contesto in cui è stata pronunciata, il governatore voleva dire tutt’altro come ben sa chi lo ha ascoltato in diretta), che "c’è un mercato di pastiere e pizze clandestine" (!!!), che se non contiamo i morti a decine di migliaia "è solo per un miracolo di San Gennaro e Santa Rosalia"“. Esistono due tipi di razzismo verso Napoli, argomenta lo scrittore. Uno è quello degli stadi, “ottuso, bestiale, imbecille”, che non merita risposta. L’altro è proprio quello “reiterato” dal quotidiano al quale, scrive de Giovanni, “mi direte che non vale la pena, citerete proverbi sull’acqua e il sapone e la testa dell’asino. Ma a volte il fegato si fa sentire più del cervello, quindi mi perdonerete se reagisco di fronte all’ennesima manipolazione dell’informazione che provoca l’ennesimo uso errato di carta e inchiostro degni di miglior sorte”. E quindi, in un post lungo, replica: “Sarebbe facile far presente che in un vicolo largo sei metri e lungo cento abitano centinaia di nuclei familiari, e che quindi una persona per famiglia che scende a fare la spesa (possiamo, sì? O dobbiamo fare turnazioni alfabetiche?) crea forzatamente una prossimità diversa che in una grande strada padana; che la risposta della popolazione della città è stata invece di grande senso civico, al di là di ogni aspettativa; che nessuno commercia clandestinamente in pizze e pastiere, e che certe notizie andrebbero provate e controllate. E sarebbe semplice dire che tutto questo è invece dimostrato da quella che per ora (e facendo ogni tipo di scongiuro, alla maniera nostra) è una situazione ampiamente sotto controllo, con numeri bassissimi sia di contagiati che di ricoverati in rapporto alla popolazione. Sarebbe semplice dire che la vituperata sanità campana ha dato una risposta più che eccellente all’emergenza, come dimostrato dall’attenzione e dalle inchieste delle televisioni straniere; così come purtroppo, e sottolineo purtroppo, non sembra sia accaduto altrove, dove l’iniziale sottovalutazione dell’epidemia ha creato il successivo moltiplicarsi dei contagi (milanononsiferma, bergamononsiferma eccetera). Sarebbe semplice dire che anzi l’eccellenza medica campana ha dato un importante contributo alle linee di combattimento della malattia, come il mal digerito (da certi colleghi del nord, che hanno avuto scomposte reazioni anche in TV) prof. Ascierto che continua a registrare dimissioni e guarigioni con la sua terapia. Sarebbe semplice far presente che le istituzioni locali hanno messo in campo rigide misure, perfettamente recepite dalla popolazione in tempi assai antecedenti quelle adottate anche nelle zone più colpite. Sarebbe semplice rilevare il fastidio ignorante di politici che adombrano un minor numero di tamponi fatti da queste parti, fingendo di dimenticare che esistono delle regole per le quali quest’indagine viene fatta e sono regole determinate a livello nazionale. Sarebbe semplice rilevare che non c’è stata una parola che non fosse di sostegno, di accorata partecipazione e di sincero dolore per le popolazioni colpite da questa pestilenza maledetta, e tacitiamo il fastidioso pensiero che forse così non sarebbe stato a parti invertite. E soprattutto sarebbe semplice richiamare gli organi d’informazione a un atteggiamento più corretto e solidale, in un momento in cui tutto serve tranne alimentare spaccature e divisioni: e che un popolo come questo, pur vivendo in una situazione urbanistica tutt’altro che adatta al distanziamento sociale, è riuscito e riesce a tenere a bada un contagio che si temeva avrebbe fatto decine di migliaia di morti. Evitando di scrivere falsità e di ridicolizzare tradizioni culturali che con dolore stiamo responsabilmente accantonando. Ma in quel caso sì, avreste ragione. Sprecheremmo acqua e sapone, e tanta amuchina. Tutta roba degna di miglior sorte, come quella carta e quell’inchiostro”.

Simioli: "Ascierto l'ha fatta grossa: il vaccino per il Covid-19! Voglio dire una cosa a Gerry Scotti". Francesco Manno il 22 marzo 2020 su areanapoli.it. Gianni Simioli, speaker di Radio Marte e di Rtl 102.5, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social. Lo speaker di Radio Marte e Rtl 102.5, Gianni Simioli, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Facebook. Ecco quanto si legge: "Caro Dott. Gerry Scotti, di seguito le giro le ultimissime sulla cura Ascierto. E’ lo stesso Ascierto che lei ha deriso e ridicolizzato a Striscia la notizia: si deve vergognare! Lo so, poi ha spiegato a una radio locale che lei legge un copione e che la “colpa” del suo “errore di valutazione“ è tutta da addebitare a chi scrive i testi del programma. Ma lei veramente pensa che siamo i meridionali napoletani che le ha raccontato qualcuno? Signor Gerry Scotti io non sono nessuno, non valgo ciò che vale lei per le aziende del sud che la pagano, spero profumatamente, per dire che è buonissimo questo o quel prodotto di Napoli o del meridione d’Italia (pur di conquistare i mercati del nord), eppure sono in grado di rifiutarmi di leggere una promozione che trovo distante kilometri dalla mia etica, filosofia o sentimento di vita". Gianni Simioli ha poi aggiunto: "È arrivata un’altra notizia da accogliere con ottimismo e un orgoglioso sorriso. Mentre la penisola si divide tra i runner che non rinunciano alla corsetta e la Palombelli che non si da ragione delle basse percentuali di contagio al Sud, qui, a Napoli, c’è un pazzo visionario, spinto da un’intera regione, che non si ferma. Si, sempre Lui, il Dottor Ascierto. Questa volta ha deciso di farla grossa: il vaccino per il Covid19! È di queste ore una sua intervista, registrata ai microfoni di SKY, nella quale è riassunta una speranza di tutto il paese. Il Dottore ha infatti dichiarato: “La Takis è un’azienda che lavora con noi per dei vaccini su alcuni melanoma che studiamo. In collaborazione con il Pascale e il Cotugno sperimenteranno anche un vaccino per il Coronavirus. Proprio qui al Cotugno, e questa è certamente una buona notizia. Non sarà una cosa di domani ma l’impressione è che con cauto ottimismo e lavoro ce la faremo, noi andiamo avanti”. Questa è la risposta di Napoli e di Ascierto a giorni di mala stampa e fake news su di Lui e sulla sanità campana. Questa è la risposta che unirà l’Italia di coloro che da Nord a Sud lottano e sperano di festeggiare presto, insieme, l’uscita dal periodo più buio della nostra storia. E ci arriveremo, credetemi. Non so quando ma così sarà. E sarà una grande festa per tutti. Anche per Striscia la Notizia, Barbara Palombelli e ilFatto Quotidiano. Si, esatto, perché noi siamo l’Italia che lotta, vince, ama ed include tutti. Anche chi non lo meriterebbe".

Luca Marconi per corriere.it il 22 marzo 2020. «Diffamazione aggravata», per un servizio televisivo «gravemente lesivo» nei confronti del direttore della Struttura complessa Melanoma e Terapie intensive del Pascale di Napoli, Paolo Ascierto, il «promotore» dello studio Aifa , l’Agenzia italiana del farmaco, sul Tocilizumab, il farmaco per le complicanze da artrite reumatoide che agisce anche sulle polmoniti da covid-19, liberando quota parte delle terapie intensive di cui oggi si ha tanto bisogno: è quel che contestano i vertici dell’istituto Pascale a Striscia la Notizia, intervenuta a suo modo per raccontare l’attacco polemico subìto da Ascierto a “Carta Bianca”, da parte dell’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Nel servizio ancora online Striscia riprende l’intervento di Galli, ma affidandosi ai commenti di Gerry Scotti («il professore Galli ha scoperto che l’alunno Ascierto ha copiato») per poi recuperare un vecchio meme con un incolpevole Emilio Fede che conclude: «Che figura ...». Ma ecco il comunicato del Pascale: «Con riferimento al programma televisivo “Striscia la notizia” del 17 marzo 2020, nel corso del quale è andato in onda un servizio che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto avvenuto tra il prof. Paolo Ascierto del Pascale di Napoli e il prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, si precisa quanto segue: l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto esprimono innanzitutto la più viva gratitudine verso tutti coloro che in questi giorni hanno manifestato la loro solidarietà e vicinanza nei confronti al prof. Ascierto». «Ritengono il servizio di “Striscia la notizia”, montato ad arte, gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi. Per tali motivi, la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto hanno dato mandato all’avv. prof. Andrea R. Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del conduttore della trasmissione, di quanti hanno curato il servizio e del Direttore Responsabile».

La napoletana Myrta Merlino: “E’ incredibile, non mi sarei mai aspettata un’eccellenza come il Cotugno” . Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. La conduttrice de “L’aria che tira” su La7 si è lasciata andare a una considerazione infelice sull’eccellenza dell’ospedale Cotugno, rimarcata la scorsa settimana anche da Sky News britannico. Nel corso della trasmissione andata in onda questa mattina, martedì 7 aprile, la Merlino, durante un collegamento con il direttore del giornale Alessandro Sallusti si è lasciata andare a una dichiarazione del genere: “Poi a Napoli… per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli… la storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”. Il solito luogo comune arriva al termine di un discorso sull’impreparazione degli ospedali della Lombardia, messi in ginocchio dal boom di contagi di coronavirus, compresi medici e infermieri. “Il vero tema – ha argomentato la Merlino – è questo: quando il Covid-19 arriva, un ospedale deve avere la capacità di creare una sorta di chiusura ermetica. Questo è mancato in una fase iniziale. E’ anche il motivo per cui a Napoli, invece… Ecco, per me è incredibile: non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli, ma la storia del Cotugno ci ha sorpreso, perché hanno creato una situazione quasi da astronave rispetto all’elemento Covid”.

Report copre Consip e attacca la sanità, ma Napoli esulta per nuovo centro Covid. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Non poteva essere meno opportuno il servizio di Report. La trasmissione di RaiTre, infatti, ha mostrato lunedì sera un servizio in cui ha pesantemente attaccato la sanità campana e in particolare l’Asl Napoli 1 Centro diretta dall’ingegner Ciro Verdoliva. In particolare nel video un anonimo parla addirittura di “omicidio colposo di massa” per il fatto che medici e operatori sanitari non avrebbero mascherine e i cosiddetti DPI. Il servizio prima fa vedere le tende inutilizzate al San Giovanni Bosco (che non è ospedale Covid) e al San Gennaro (che non ha pronto soccorso…) e poi parla di mascherine e DPI che non sarebbero adeguati. Forse i colleghi di Report non sono aggiornati sul fatto che, come sottolineato dal governatore De Luca, “le forniture di Consip sono saltate” per cui la regione sta facendo da se per quel che può in una situazione di emergenza non solo nazionale ma mondiale. Infatti il governatore ha annunciato di aver chiesto 400 ventilatori ma di averne ricevuti solo 41 dalla Protezione Civile (il 10%), mentre il 50% sono stati donati da un privato, Alfredo Romeo (editore di questo giornale ndr). Il giornalista poi si è avventurato negli ospedali ormai chiusi da anni di Napoli e della Campania facendo diventare il servizio la classica inchiesta di Report sugli sprechi che forse in questo momento si poteva anche evitare. Intanto il video di Report è uscito proprio nel momento in cui Napoli è esplosa letteralmente in un tifo da stadio. Infatti negli stessi minuti della messa in onda della trasmissione di RaiTre, all’Ospedale del Mare sono arrivati gli oltre 50 automezzi che trasportavano i moduli per il nuovo centro Covid che l’Asl Napoli 1 Centro sta realizzando a tempo di record. Il tutto per incrementare i posti in terapia intensiva e sub intensiva e costruire i tre monoblocchi per oltre una settantina di posti. Una risposta che più concreta non si può ad accuse strumentali e inopportune nel momento in cui, come sottolineato anche da Giulio Cavalli su queste pagine, “non è il momento delle polemiche ma di salvarci tutti“.

IL MODELLO NAPOLI ESALTA IL SUD: INNO E APPLAUSI PER IL NUOVO OSPEDALE DA CAMPO. Carlo Porcaro l'8 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nelle stesse ore in cui Report su Rai 3 riprendeva ospedali fantasma o fatiscenti – certo non da ieri, quindi inutilizzabili per gestire l’emergenza Coronavirus con tempestività – nel quartiere Ponticelli di Napoli veniva accolto tra applausi e inno di Mameli il “treno” di 57 tir provenienti da Padova che trasportavano i moduli prefabbricati per costruire il primo ospedale da campo realizzato in Campania per aumentare i posti letto di terapia intensiva dedicati ai pazienti Covid. Una scena carica di emotività che prelude ad un grande risultato in termini di risposta da parte di un sistema sanitario che sta reggendo lo tsnunami Covid-19. All’esterno del già esistente Ospedale del Mare, entro il 15 aprile verranno montati i primi 48 posti, entro il 27 poi arriveranno altri camion per allestire i restanti 24 per un totale di 72 posti. I cittadini campani da una parte stanno rispettando le regole e dall’altra stanno apprezzando gli sforzi istituzionali. Ci sono ritardi soprattutto nel sottoporre i potenziali malati a tampone, ma si sta cercando di recuperare. «Entro tre giorni –ha assicurato l’architetto Antonio Bruno, direttore dei lavori a Ponticelli – il Covid center sarà completamente montato. Seguirà la fase dei collaudi e dell’arredamento, contiamo che il centro sarà operativo subito dopo Pasqua». All’ingresso dell’ospedale da campo ci sarà uno spazio per la camera calda, un tunnel per l’ingresso dell’ambulanza e le aree pedonali, evidenziate con colori differenti. Che cosa c’era nei camion salutati da tanto affetto, neanche fossero stati un contingente degli Americani che venivano a liberare la città? I moduli per le stanze, le apparecchiature, i ventilatori. La struttura costa 7,7 milioni di euro, la gara è stata vinta dalla Manufacturing Engineering Development di Padova che si occupa proprio di moduli prefabbricati in sanità. Secondo il direttore dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva una volta finito l’incubo non andrà tutto al macero, ma l’ospedale resterà a disposizione dell’utenza. Nell’ambito del piano della Regione Campania per far fronte all’emergenza Covid-19 sono previsti altri due ospedali prefabbricati per la terapia intensiva a Salerno e a Caserta.Sul fronte dei numeri, è cominciata la discesa. Tutto lascia pensare che per i primi giorni di maggio almeno al Centro-Sud si possa uscire di casa seppur seguendo una serie di imposizioni. Ieri i casi positivi sono aumentati di 880 unità rispetto al giorno precedente “l’incremento più basso dal 10 marzo scorso”, ha detto il vertice della Protezione civile. I nuovi contagiati sono stati 3.039, in totale 94.067. Il Mezzogiorno continua a contribuire in maniera marginale: +170 affetti da Coronavirus nelle regioni continentali, 210 se aggiungiamo la Sicilia. Analizzando l’incidenza dei contagi per numero di abitanti, si ha un quadro ancora più evidente: 1 ogni 1.842 in Campania, 1 ogni 2.337 in Calabria, 1 ogni 1.602 in Puglia. Ancora alto il numero dei morti, 604 che fanno arrivare l’ammontare complessivo a 17.127. I guariti invece, sono 1555, per un totale di 24392.

Pandemia di coronavirus, se le eccellenze le trovi nella sanità del sud. L’equipe del professor Paolo Ascierto (al centro) dell’Istituto Pascale di Napoli, il primo a sperimentare l’efficacia di un farmaco anti-artritico contro il Covid-19. Carlo Porcaro il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Lo storytelling del Coronavirus svela un’Italia rovesciata. Le storie crude, dai reparti Covid degli ospedali, raccontano la caduta contemporanea di due miti: il primato della sanità lombarda, l’inefficienza di quella meridionale. È stato il Sud ad aiutare il Nord, a praticare con i fatti quella solidarietà nazionale tanto auspicata dal Quirinale in questa drammatica emergenza. Tre le ragioni sostanziali di questo capovolgimento destinato a riscrivere gli equilibri geopolitici e le relative narrazioni: il vantaggio di essersi organizzati per tempo in attesa dello tsunami; le straordinarie eccellenze mediche presenti in molte strutture del Mezzogiorno; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. I numeri parlano chiaro, andrebbero forse scanditi ad alta voce: su circa 17mila morti, il Sud isole comprese ne ha fatti registrare 850 vale a dire appena il 5 per cento; i contagiati a livello nazionale sono oltre i 95mila, ma da Roma in giù (insieme a Sicilia e Sardegna) se ne sono contati circa 10mila il che significa poco più del 10 per cento del totale. Il sistema, seppur con meno risorse e mezzi della parte settentrionale del Paese, non solo ha retto ma si è persino distinto. Allungando la mano a chi soffriva ed aveva bisogno di aiuto immediato. Tanti i casi da citare, a dimostrazione che non conta la provenienza geografica quanto la qualità associata alla passione.

IL CASO. In queste settimane la Cross, Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario per il coordinamento dei soccorsi sanitari urgenti, ha attivato la rete tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud. Ieri, per fare un primo esempio, è uscito dalla rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo uno dei due bergamaschi che erano stati trasportati a Palermo in aereo nei giorni scorsi per mancanza dei posti in terapia intensiva al nord; l’altro paziente arrivato dalla città lombarda si trova ricoverato ancora in rianimazione. Poi sono stati estubati e sono in via di guarigione i due pazienti lombardi, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, ricoverati nelle scorse settimane in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro: vi erano arrivati a bordo di un aereo militare atterrato nel vicino aeroporto di Lamezia Terme. Ora sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. “È stato un atto di grande generosità – ha commentato il direttore della struttura Giuseppe Zuccatelli – da parte della Calabria. È ora di smettere di dipingere questa regione in termini negativi”. Non è finita qui. È guarito il primo paziente Covid atterrato in Puglia da Bergamo la notte del 20 marzo scorso a bordo di un aereo C-130J della 46esima Brigata Aerea di Pisa con una barella ad alto biocontenimento: a darne notizia sono stati direttamente i medici dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari), dove l’uomo, 56 anni, era stato ricoverato con una insufficienza respiratoria severa, a seguito della richiesta dell’azienda ospedaliera Giovanni XXIII di Bergamo. Il paziente adesso è stato dichiarato fuori pericolo dopo essere stato sottoposto a due tamponi risultati negativi. In Campania, infine, dall’ospedale di Boscotrecase alle pendici del Vesuvio sono stati dimessi ben 11 pazienti affetti da Coronavirus, alcuni dei quali anziani. A Napoli, la Regione sta facendo costruire con uno stanziamento di oltre 7 milioni di euro un ospedale da campo con 72 nuovi posti di terapia intensiva.

LA POLEMICA. Incredibile. Letteralmente da non credere, la risposta del Sud all’emergenza secondo alcuni giornalisti e opinionisti. Il caso che in queste ore ha fatto indignare riguarda la giornalista napoletana Myrta Merlino su La7. Quest’ultima, in diretta tv si è detta meravigliata (“che sorpresa”, la sua espressione) che l’ospedale Cotugno di Napoli fosse stato un’eccellenza nazionale e internazionale con il suo zero contagiati. Una meraviglia del tutto fuori luogo per chi dovrebbe conoscere in maniera approfondita le caratteristiche di un territorio che, tra mille difficoltà e senza le risorse di altre parti d’Italia, riesce ad esprimere le migliori intelligenze in tanti settori. Poi, una volta tornata a casa, la conduttrice di ‘L’aria che tira’ ha provato a chiarire il suo pensiero. “So benissimo che a Napoli ci sono moltissime eccellenze, ma le eccellenze che abbiamo non cancellano i nostri problemi e non mi va di essere ipocrita. Io però amo Napoli, viva Napoli, è la mia città”. In studio si è scusata, ma il dado era ormai tratto. In una fase in cui si discetta tanto di fake news e corretta informazione, non si dovrebbero cavalcare luoghi comuni né si dovrebbero alimentare pregiudizi evidentemente inconsci. Basterebbe fare la cronaca. Di ritardi ed inefficienze, dove emergono, e di eccellenze e primati dove si palesano. La cronaca di queste settimane, come sopra elencato, ha parlato di una Napoli pronta e di un Sud efficiente. Non si tratta di una questione di appartenenza campanilistica. L’Italia, e la sua opinion-leadership, è decisamente nord-centrica e tende a tutelare gli interessi del Nord. La classe dirigente meridionale, per lo più grillina dopo le elezioni di due anni fa, non sa farsi rispettare a livello centrale ed ha fatto consolidare l’idea di un Meridione piagnone seduto sul divano a godersi il reddito di cittadinanza. Il vento però è cambiato, è nato un variegato movimento di pensiero – va detto, anche grazie ai social – che finalmente respinge al mittente le “scivolate” mediatiche e si libera dalla condizione di colonizzazione mentale. Ognuno faccia la sua parte.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

Sorpresa: il Nord si prende la gran parte dei soldi pubblici. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. 15.062 euro pro capite al Centro-Nord e 12.040 euro pro capite al Meridione. In altre parole, ciascun cittadino meridionale ha ricevuto in media 3.022 euro in meno rispetto a un suo connazionale residente al Centro-Nord. Questi i primi dati della 32esima edizione del Rapporto Italia 2020 di Eurispes in merito al Mezzogiorno. L’Istituto di ricerca degli italiani nel 2017 rileva un’ulteriore diminuzione della spesa pubblica al Mezzogiorno, che arriva a 11.939 (-0,8%), mentre al Centro-Nord si riscontra un aumento dell’1,6% (da 15.062 a 15.297 euro). Emerge una realtà dei fatti ben diversa rispetto a quanto diffuso nell’immaginario collettivo che vorrebbe un Sud «inondato» di una quantità immane di risorse finanziarie pubbliche, sottratte per contro al Centro-Nord. Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. Per contro, tutte le Regioni del Nord Italia si vedono irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale. Se della spesa pubblica totale, si considera la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere in percentuale alla sua popolazione, emerge che, complessivamente, dal 2000 al 2017, la somma corrispondente sottrattagli ammonta a più di 840 miliardi di euro netti (in media, circa 46,7 miliardi di euro l’anno).

Il piano per il Sud presentato con la foto di Trieste: e tu? Quanto conosci l'Italia? Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 da Corriere.it. La copertina del progetto con il titolo «Un piano per il Sud è un progetto per l’italia», l’hashtag «#Sud2030» e la foto di Duino, il Comune in Friuli-Venezia Giulia, con una splendida vista sul Golfo di Trieste e le sue falesie. Non proprio un panorama meridionale, insomma. È stata questa la svista che ha attirato critiche e ironie contro il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina (M5S). Diventando un caso politico, ma anche una facile battuta da salotto. E allora, vale la pena mettersi alla prova. Quanto conosciamo noi i luoghi simbolici dell'Italia? Proviamo a scoprirlo attraverso questo quiz.

Il governo presenta il Piano per il Sud ma in copertina c'è il Golfo di Trieste. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Un piano per il Mezzogiorno da 123 miliardi di euro. Lo hanno presentato venerdì a Gioia Tauro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina (M5S). Ma a diventare oggetto di discussione — e dell’ironia via Twitter — non sono state le misure previste per i giovani, la svolta ecologica, l’innovazione, il potenziamento dell'edilizia scolastica o l'estensione della No Tax area bensì la copertina del progetto con il titolo «Un piano per il Sud è un progetto per l’italia», l’hashtag «#Sud2030» e la foto di Duino, il Comune in Friuli-Venezia Giulia, con una splendida vista sul Golfo di Trieste e le sue falesie. Non proprio un panorama meridionale, insomma. La segnalazione arriva via Twitter dal giornalista Ferdinando Giugliano, raccoglie centinaia di «Mi piace», retweet e commenti sarcastici: «Il Sud dell'Impero Austro-ungarico!», «Lo ha fatto per vedere se stiamo attenti», «A sud di Oslo». E anche una replica del ministro Provenzano — «È un progetto per l'Italia, appunto. Sul serio» — che però non riesce a spegnere gli sfottò.

Tolti al Sud e dati al Nord 840 miliardi di euro in 17 anni. Chi riteneva e ritiene che parlare di rapina al Sud è una bufala, è servito. Cosa ti accerta il rapporto 2020 del noto Centro studi? Che dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto appunto al Sud 840 miliardi di euro. Lino Patruno il 07 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. E ora anche l’Eurispes. Chi riteneva e ritiene che parlare di rapina al Sud è una bufala, è servito. Cosa ti accerta il rapporto 2020 del noto Centro studi? Che dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto appunto al Sud 840 miliardi di euro, in media 46,7 miliardi all’anno. Non solo sottratti, ma dati al Nord. Effetto del mancato rispetto del famoso 34 per cento, la percentuale della popolazione meridionale che avrebbe dovuto essere anche la percentuale della spesa al Sud. Ecco perché il divario aumenta invece di diminuire. Ecco perché i giovani del Sud sono costretti a partire per la mancanza di lavoro. Uno scandalo nazionale ancòra più grande quanto più assoluto è stato il silenzio per tutto questo tempo. Con l’aggiunta delle tre regioni del Nord che chiedono autonomia perché stanche, dicono, di dare soldi al Sud. Non ha usato mezzi termini Gian Maria Fava, il sociologo presidente dell’Eurispes. Ha detto che sulla Questione meridionale dall’Unità a oggi si sono consumate le più <spudorate> menzogne. Col Sud di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia. Come luogo di concentrazione del malaffare. Come ricovero di nullafacenti. Come zavorra che frena la crescita economica e civile del Paese. Come dissipatore della ricchezza nazionale. Ma un Sud che attende ancòra una parola di onestà da parte di chi ha alimentato questo racconto. Mentre la situazione è letteralmente capovolta rispetto a quanto finora comunemente creduto e spacciato. E rivelata dai dati delle più autorevoli agenzie nazionale e internazionali. Ma anche questa volta si è tentato di far scivolare tutto nel silenzio. Scarsi accenni sulla stampa nazionale, impegnata col Festival di Sanremo. Ancòra più scarse reazioni dal mondo politico, impegnato a litigare. Eppure l’Eurispes ha più o meno confermato ciò che pure la Svimez aveva solo qualche mese fa denunciato. E in base agli stessi dati governativi dei Conti pubblici territoriali, non a piagnonismo meridionale. E cioè i 61 miliardi all’anno sottratti al Sud dal 2009, da quando si sarebbe dovuto riequilibrare la spesa pubblica <storica> che favorisce il Nord. Quanto lo stesso ex ministro nord-leghista Calderoli aveva ammesso invitando a cambiare. Non se ne è fatto nulla, tranne l’iniziale impegno del ministro Boccia a provvedere quando si è riparlato dell’autonomia a Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. E tranne un impegno verbale del presidente Conte. Ma intanto la spesa storica ai danni del Sud continua. E ai danni del Sud continua a essere usata la consueta arma di distrazione di massa. Di chi la colpa del suo incompleto sviluppo? Delle incapaci classi dirigenti meridionali. Della mancanza di mentalità imprenditoriale. Della società civile che non c’è. Delle mafie che al Sud farebbe piacere avere. Descrizione con la complicità di anime belle meridionali, tanto capaci di brillante autocritica (ma quale?) quanto incapaci di uscire dal loro colonialismo mentale. O forse interessate a non muovere nulla per sfruttare piccoli miseri vantaggi personali. Così storici, giornalisti, saggisti, benpensanti. Che molti dei mali attribuiti al Sud ci siano, è sicuro. Ma sono la causa del suo sottosviluppo o un effetto di questo sottosviluppo? Scrive in questi giorni un lettore (settentrionale) a un giornale nazionale: non ci sono dubbi che fare politica al Sud è più difficile con una disoccupazione da quarto mondo. Non ci sono dubbi che la pressione per avere di che vivere è il peso con cui ogni amministratore del Sud deve confrontarsi. Non ci sono dubbi che i bisogni non soddisfatti delle persone sono alla base di ogni problema. Non ci sono dubbi che senza servizi e infrastrutture adeguati non c’è possibilità di miglioramento né di allentamento delle tensioni sociali. Ma come si risponde a tutto questo? Si risponde che il Sud deve rimboccarsi le maniche e riconoscere le proprie colpe. La colpa è vostra. E troppo Sud ignaro o rassegnato o complice risponde che, sì, la colpa è solo nostra.

Inutile dire cosa si poteva fare con 46,7 miliardi l’anno. Quante strade, quanti treni, quante scuole, quante università, quanti ospedali, quanti asili nido, quanti anziani curati, quanti figli. Quanto lavoro per i giovani che non emigrino più. Tutto quanto non c’è mentre si parla di sprechi <del> Sud quando c’è soprattutto spreco <di> Sud come unica possibilità di crescita dell’intero Paese (che infatti non cresce). E condizioni di partenza diseguali che restano il comodo alibi di chi si adegua invece di reagire. Non si trova altrove un tale clima di colossale ribaltamento della verità e un tale clima di colossale sfruttamento di una parte del Paese a danno dell’altra. Non si trovano altrove una ingiustizia e una menzogna così lunghe e impunite. Lino Patruno

IL MEZZOGIORNO AL DI LÀ DELLE FAKE NEWS NEL RAPPORTO EURISPES 2020. Michele Eugenio Di Carlo il 4 febbraio 2020 su movimento24agosto.it. Gli studi, le ricerche, gli articoli dei meridionalisti trovano pieno conforto nella recentissimo Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani. Non ha usato mezzi termini il presidente dell’ Eurispes Gian Maria Fara, prendendo il via nella sua analisi proprio dal processo unitario italiano: «Sulla questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne. Il Sud, di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia, come luogo di concentrazione del malaffare, come ricovero di nullafacenti, come gancio che frena la crescita economica e civile del Paese, come elemento di dissipazione della ricchezza nazionale, attende ancora giustizia e una autocritica collettiva da parte di chi – pezzi interi di classe dirigente anche meridionale e sistema dell’informazione – ha alimentato questa deriva». L’accusa alla classe dirigente italiana e al sistema d’informazione è precisa e dello stesso tenore di quella che i meridionalisti muovono da decenni inascoltati e, spesso, oscurati proprio dai media. Non è un caso che riguardo all’informazione, tra mille difficoltà, si è cercato di diffondere ad esempio le conclusioni  avanzate nel testo “La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo” da Stefano Cristante e Valeria Cremonesini, docenti di sociologia dei processi comunicativi e culturali; conclusioni che lasciano sconcertati: negli ultimi 35 anni i media nazionali hanno messo in rilievo quasi solo i mali del Mezzogiorno creando negli stessi meridionali un immaginario percepito falsato. Raccapricciante la constatazione che, come aggiunge Fara, le più autorevoli agenzie nazionali ed internazionali certificano che riguardo al Mezzogiorno «siamo di fronte ad una situazione letteralmente capovolta rispetto a quanto creduto». Ed ecco i dati nero su bianco del Rapporto Italia 2020, che non si differenziano da quelli spesso divulgati nel passato ma ignobilmente contestati e ignorati:

1 – Lo stato italiano nel 2016 ha speso per ogni cittadino del Centro-Nord 15.062 euro, mentre per ogni cittadino del Sud la spesa è stata di 12.040 euro, una differenza di ben 3022 euro pro-capite;

2 – Nel 2017 l’Eurispes rileva per il Centro-Nord una spesa pro-capite aumentata a 15.297 euro, per il Sud una spesa pro-capite diminuita a 11.939 euro per una differenza che aumenta a 3358 euro e che moltiplicata per il numero di abitanti del Mezzogiorno ammonta a oltre 60 miliardi annui.

Dov’è quel Sud dalle mille risorse finanziarie sprecate raccontato nei salotti televisivi di quei talk show nazionali dove giacciono onnipresenti i soliti conduttori e opinionisti? E dov’è quel Sud a cui verrebbe distribuita gran parte della spesa pubblica, se al contrario i dati confermano che sono le regioni del Nord ad essere beneficiate da una spesa annua nettamente superiore? Il Rapporto Italia 2020 attesta incontrovertibilmente che, in relazione alla percentuale di popolazione residente, al Sud dal 2000 al 2017 è stata sottratta una somma pari a 840 miliardi. Un dato impressionante di cui politica e media non hanno mai tenuto conto negli ultimi decenni, tanto da averci costretto a coniare l’acronimo PUN per indicare l’insieme dei partiti nazionali indifferenti alla crescita economica, sociale e culturale del Sud. Eppure il PIL (prodotto interno lordo) del Nord si basa essenzialmente sulla vendita di beni e servizi al Sud, mentre lo scambio import-export tra le due aree del paese è interamente a vantaggio del Nord, tanto che riesce difficile comprendere come un’intera classe politica, sostenuta dai media, abbia potuto nell’ultimo trentennio pensare che lasciare il Sud senza infrastrutture e servizi potesse avvicinare il Nord all’area ricca dell’Europa. E’ del tutto evidente che abbassare il tenore di vita dei meridionali ne ha limitato il potere d’acquisto e di conseguenza il PIL delle regioni più avanzate economicamente d’Italia. Infatti, sempre dal Rapporto Italia 2020, si rileva che per 45 miliardi annui di trasferimenti da Nord a Sud ben 70,5 miliardi si trasferiscono in direzione contraria. Dati a noi ben noti visto che Pino Aprile nel suo recente “L’Italia è finita”, citando gli economisti Paolo Savona, Riccardo De Bonis della Banca d’Italia e Zeno Rotondi autore di “Sviluppo, rischio e conti con l’estero delle regioni italiane”, ha indicato lo stesso saldo attivo per il Nord. Chiaro il monito del Presidente dell’Eurispes: «… ogni ulteriore impoverimento del Sud si ripercuote sull’economia del Nord, il quale vendendo di meno al Sud, guadagna di meno, fa arretrare la propria produzione, danneggiando e mandando in crisi così la sua stessa economia». Tuttavia, nonostante l’analisi socio-economica dell’Eurispes, l’altro giorno il Governatore del Veneto Luca Zaia, in un’audizione alla Commissione Parlamentare per le questioni regionali, ha continuato a sostenere il suo progetto di Regionalismo differenziato continuando a riferire di sprechi e di cattiva amministrazione al Sud, mentre anche il neo rieletto Presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini sembra spingere nella stessa direzione. Una direzione che nel corso degli ultimi dieci anni ha visto aumentare le disuguaglianze sociali ed economiche tra aree geografiche diverse e che lo Stato, tenuto per Costituzione a rimuoverle, ha aggravato sostenendo una ripartizione territoriale per i servizi pubblici in base al principio iniquo della “spesa storica”. Disuguaglianze che, proprio attraverso il Regionalismo Differenziato, i Governatori delle regioni del Nord e i partiti nazionali del PUN (Lega, PD, FI, FDI) vorrebbero conservare stabilmente. Sta maturando il tempo in cui questi partiti nazionali, per lo più portatori di propaganda spicciola, pagheranno il prezzo di scelte politiche che hanno imposto condizioni di vita e di lavoro drammatiche ai cittadini del Sud, due milioni dei quali sono dovuti dolorosamente emigrare negli ultimi decenni.

Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta. Dalle tangenti del Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con più di 250 milioni nascosti dal fisco da imprenditori del nordest. Paolo Biondani e Leo Sisti il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Si chiama “lista De Boccard”. Dal computer del professionista svizzero Bruno De Boccard, sequestrato dai magistrati della Procura di Venezia, è emerso un elenco di dozzine di imprenditori, soprattutto veneti, protagonisti di una colossale evasione fiscale, celata all’ombra del super condono targato Berlusconi del 2009-2010. Un fiume di denaro di “oltre 250 milioni di euro”, finora mai completamente ricostruito, dove si mescolano le tangenti ai politici e i fondi neri degli stessi clienti. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti autostradali, in grandi alberghi o studi di commercialisti. Lo rivela l'inchiesta su  Espresso+ . L’indagine della Guardia di Finanza, nata sulla scia dello scandalo del Mose di Venezia, ha già portato al sequestro di oltre 12 milioni di euro. E ha fatto scoprire un traffico di tangenti per 1,5 milioni nascoste prima in Svizzera e poi in Croazia da una prestanome di Giancarlo Galan, ex governatore veneto e ministro di Forza Italia, già condannato per le maxicorruzioni del Mose. Questa nuova indagine ha fatto emergere anche una serie di documenti informatici con i dati di centinaia di società offshore utilizzate da politici e imprenditori per nascondere nei paradisi fiscali più di 250 milioni di euro. Molti casi di evasione sono stati però cancellati dalla prescrizione o dallo scudo fiscale. Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici

Secondo L’Espresso, il “re delle valigie” Giovanni Roncato ha ammesso di aver rimpatriato, grazie proprio allo scudo, 13,5 milioni di euro, detenuti all’estero e accumulati in passato “in seguito a minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa…la Mala del Brenta…nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona”. Ed ecco partire il carosello del denaro, affidato a “malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova Ovest”. Si chiama Alba Asset Inc, la offshore spuntata nei file di De Boccard, creati insieme al suo boss, il nobile italo-elvetico Filippo San Germano d’Aglié, nipote della regina del Belgio. Un altro nome eccellente che compare nell’inchiesta ribattezzata Padova Papers, germinazione dei più famosi Panama Papers, è quello di René Caovilla, titolare di un famoso marchio di scarpe, e boutique in tutto il mondo. Anche lui, al quale faceva capo la offshore Serena Investors, riporta L’Espresso, si è avvalso dello scudo fiscale, facendo rientrare in Italia 2,2 milioni di euro, “somme non regolarizzate affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera”. Anche tre commercialisti di uno affermato studio di Padova, giù emersi nelle vicende del Mose, entrano qui in scena come presunti organizzatori del riciclaggio di denaro nero: Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. Tutti collegati al duo San Germano-De Boccard, punti di riferimento di proprietari di hotel, fabbriche di scarpe, imprese di costruzioni e, ancora, big delle calzature. Come Damiano Pipinato, che attiva lo spostamento dei soldi attraverso proprio Guido Penso: “Lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori…Io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova”. Il dottor Penso non contava il denaro, si fidava, si accontentava della cifra indicata da Pipinato e “rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato”. Pipinato ha confessato di aver esportato all’estero 33 milioni di euro: 25 in Svizzera, 8 a Dubai.

Grandi evasori, ecco la lista. Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici. Paolo Biondani e Leo Sisti il 24 aprile 2019 su L'Espresso. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti ai caselli autostradali, in grandi alberghi, ristoranti o studi professionali. Un traffico di contanti che parte dal Veneto e arriva in Svizzera, nelle banche di fiducia di due altolocati tesorieri di denaro nero, con parentele in famiglie reali. Professionisti del pianeta offshore, al servizio di alcuni dei più rinomati commercialisti veneti. Tutti accusati di aver gestito per più di vent’anni una centrale internazionale dell’evasione fiscale. E del riciclaggio di tangenti intascate da politici poi condannati. Ma collegati da legami societari e familiari con parlamentari ancora al vertice delle istituzioni. Eccoli qua, i Padova Papers. Sono le carte riservate della maxi-indagine fiscale della Procura di Venezia, che pochi giorni fa ha portato al primo sequestro di oltre 12 milioni di euro. Soldi bloccati setacciando un fiume di denaro molto più ampio, «oltre 250 milioni», scrivono i magistrati, dove si mescolano le mazzette dei politici e i fondi neri degli evasori. Tutto parte dalle indagini sul Mose di Venezia, il più grande scandalo di corruzione in Italia dopo Tangentopoli. Tra il 2013 e il 2014, mentre scattano decine di arresti e condanne, la Guardia di Finanza scopre che imprenditori e politici usano gli stessi canali per nascondere soldi all’estero. In società offshore e conti bancari spesso intestati, sulla carta, a tre commercialisti di un affermato studio di Padova. Si chiamano Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. E lavorano per molti ricchi imprenditori veneti, proprietari di grandi alberghi, fabbriche di scarpe, industrie di valigie, aziende di costruzioni, immobiliari, centrali del gioco d’azzardo e altre ditte che non c’entrano con il Mose. Nel maggio 2015 le autorità svizzere accolgono la richiesta del procuratore aggiunto Stefano Ancillotto di perquisire gli uffici dei due presunti tesorieri del denaro nero: un nobile italo-elvetico, Filippo San Germano di San Martino d’Agliè, nipote della regina del Belgio, e il suo braccio destro, Bruno De Boccard. Nel computer di quest’ultimo salta fuori una lista di clienti, aggiornata dal 2002 fino al 2014, finora inedita. I giudici veneti la ribattezzano «lista De Boccard». In quel computer il professionista svizzero ha trascritto i dati di centinaia di società offshore, con gli azionisti, gli amministratori e l’attività, che si riduce alla gestione di conti esteri o di partecipazioni (riservate) in aziende italiane. In qualche caso compare il vero titolare, in molti altri c’è solo il fiduciario: un altro professionista, in rappresentanza di un cliente che vuole restare anonimo. La Guardia di Finanza concentra le indagini su 48 offshore, controllate da 46 cittadini italiani e da 9 società di capitali, che sembrano ancora attive. I dati però riguardano molti altri evasori. Solo nel 2014 risultano annotate 161 offshore. Nel 2011 se ne contavano 190, nel 2007 erano 232. Già nel 2002, il primo anno inserito nella lista, le offshore erano 228. Questo significa che c’è un esercito di grandi evasori non ancora smascherati. Visto che la lista è aggiornata a cinque anni fa, molti casi di evasione sono ormai cancellati dalla prescrizione. Mentre gli imprenditori più importanti, interrogati in caserma, spiegano in coro di aver approfittato dello studio fiscale: il super-condono varato nel 2009-2010 dal governo di Berlusconi e Tremonti (sostenuto dalla Lega). Un esempio è la deposizione del “re delle valigie” Giovanni Roncato: «Sono lo storico titolare della Valigeria Roncato spa, attualmente mi occupo di coltivazioni di riso in Romania. Conosco Filippo San Martino da 15 anni, in quanto è anch’egli produttore di riso. Siamo diventati amici (...). L’ho contattato alcuni anni fa, in quanto avevo dei capitali all’estero, da rimpatriare con lo scudo. Avevo iniziato a tenere soldi all’estero parecchi anni prima, a seguito di gravi minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa che immaginavo essere la Mala del Brenta: si trattava di minacce di morte per i miei figli fatte nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona. Queste minacce mi indussero all’epoca a consegnare cospicue somme di denaro a malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova ovest. Si tratta di fatti che non ho mai denunciato in quanto temevo per la morte dei miei figli allora piccoli». Chiudendo il verbale, Roncato sottolinea di aver regolarizzato tutto con lo scudo fiscale, da cui risulta che ha rimpatriato 13 milioni e mezzo. Nella lista De Boccard, il suo nome è collegato a una offshore chiamata Alba Asset Incorporation, attiva proprio fino al 2009. Per lui, quindi, nessuna contestazione. Il suo interrogatorio apre però uno squarcio sui rapporti tra imprenditori veneti e criminalità di stampo mafioso: perfino il re delle valigie pagava il pizzo per evitare rapimenti. Proprio come Silvio Berlusconi ad Arcore (tramite Marcello Dell’Utri e lo stalliere mafioso Vittorio Mangano). E come gli impreditori lombardi che negli anni dell’Anonima sequestri affidavano collette di soldi al generale Delfino per placare la ‘ndrangheta. Anche Renè Caovilla, titolare di un famoso marchio di calzature, conferma a verbale di avere avuto soldi in Svizzera e di aver «aderito allo scudo fiscale del 2009». L’industriale, che controllava la offshore Serena Investors, aggiunge che «le somme non regolarizzate venivano affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera», tra cui ricorda proprio Filippo San Germano, che gli fu presentato da «un commercialista di Venezia, G.B., poi defunto». Caovilla ha rimpatriato con lo scudo 2 milioni e 287 mila euro. Tra albergatori di Abano Terme, costruttori e imprenditori del gioco d’azzardo, l’oscar dell’evasione va a Damiano Pipinato, un altro big delle calzature, che è anche il più eloquente nella confessione: «Verso il 1997 o 1998 chiesi al mio commercialista, Guido Penso, come poter gestire i proventi dell’evasione, in quanto i controlli erano sempre più stringenti. Il commercialista mi propose di consegnarglieli, affermando che avrebbe messo lui a disposizione gli strumenti per aprire un conto svizzero, senza necessità che io apparissi. Quindi iniziai a consegnare somme consistenti a Penso. La cosa funzionava così: lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo, essendo preconcordato, che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori. Spesso lui aveva bisogno di liquidità per compensare partite di giro con altri clienti dello sudio. Infatti più volte ho visto che i miei accrediti, anche di un milione, venivano spezzettati e mi arrivavano da conti diversi. Fatto sta che io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova. Qui Penso non apriva la scatola, non contava il denaro, in ragione della decennale fiducia: io gli indicavo la cifra esatta, lui la riponeva nell’armadio e mi rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato». L’imprenditore è il primo a chiamare in causa anche i partner di Penso: «Alla metà degli anni Duemila, Guido, suo figlio Christian e il loro socio Paolo Venuti mi proposero di investire nell’immobiliare a Dubai, con altri imprenditori, spiegandomi che stavano organizzando una gestione di fondi all’estero per i clienti dello studio. Iniziai con un piccolo investimento che in un paio di mesi si rivalutò del 40 per cento. Quindi decisi di investire di più, attingendo alle precedenti disponibilità della mia famiglia nella banca svizzera Zarattini. Allora Guido Penso mi spiegò che a gestire il denaro in Svizzera era Filippo San Germano, che era la persona di sua fiducia che copriva anche me. Infatti tutte le mie società e conti esteri erano amministrati da San Germano». In totale, Damiano Pipinato ammette di aver portato all’estero, tramite il commercialista padovano e il suo nobile fiduciario, almeno 33 milioni: 25 in Svizzera, 8 a Dubai. Dove però, dopo la crisi immobiliare, «nel 2013 ho visto che l’investimento continuava a perdere valore». Scoppiato lo scandalo del Mose, l’imprenditore cerca di sanare tutto con la voluntary disclosure, che però non è uno scudo anonimo, ma una vera autodenuncia: l’interessato deve farsi identificare e rivelare come ha fatto a creare il nero. Quindi l’Agenzia delle entrate gli boccia l’istanza. E lui alla fine vuota il sacco. I due fiduciari svizzeri sono accusati di aver occultato e riciclato fondi neri per molti altri imprenditori veneti. Il tesoro già scoperto dall’accusa sale così di altri 29 milioni, mandati all’estero (attraverso apposite offshore) da imprenditori come Flavio Campagnaro (5 milioni, divisi in 50 consegne), Luca e Roberto Frasson (1,5 milioni), Sergio Marangon (1,2 milioni), Primo Faccia (250 mila dollari), Ignazio Baldan (250 mila euro), Mauro Mastrella (800 mila), Odino Polo (un milione), Maria Rosa e Stefano Bernardi (3 milioni) e Giovanni Gottardo (mezzo milione). In caserma, pur con qualche imbarazzo, tutti finiscono per ammettere i fatti, sottolineando però di essersi messi in regola grazie allo scudo. Alcuni rimarcano di aver soltanto ereditato conti esteri creati dal padre fin dagli anni Sessanta, «quando fare il nero era la regola». Altri, come Pipinato, si vedono contestare società offshore ancora attive, ma rispondono di averle dimenticate «perché furono usate per investimenti in Nicaragua, ma sono andati male e quei soldi li abbiamo perduti». In almeno vent’anni di traffici di denaro nero, ai tre commercialisti padovani dello studio Pvp (dalle loro iniziali) non sono mai mancate le coperture politiche. Paolo Venuti è stato già arrestato e condannato (a due anni) per le tangenti del Mose, come tesoriere-prestanome di Giancarlo Galan, governatore veneto dal 1995 al 2010 e poi ministro del governo Berlusconi. Quel troncone d’indagine ha svelato un nuovo sistema di corruzione: società private svendute a politici, che incassano le tangenti sotto forma di profitti aziendali. In particolare la Mantovani spa, azienda leader del Mose, ha intestato proprio a Venuti, come paravento di Galan, il 5 per cento di Adria Infrastrutture, la società del gruppo che vinceva appalti stradali con la Regione Veneto. E con lo stesso sistema la Mantovani ha arricchito anche il super-assessore Renato Chisso, altro condannato per il Mose. La nuova ordinanza ora accusa il commercialista di aver nascosto anche contanti incassati da Galan: almeno un milione e mezzo di euro. Soldi finiti in Croazia su un conto intestato alla moglie di Venuti, sempre come prestanome dell’ex doge, come conferma un’intercettazione della coppia in auto, al ritorno da una cena nella villa di Galan (ristrutturata con altre tangenti e quindi sequestrata). La pista dei soldi è emersa grazie ai Panama Papers, le carte segrete delle offshore. Dove L’Espresso nel 2016 ha scoperto un’anonima società panamense, Devon Consultant Assets, intestata a Venuti e mai dichiarata. Questi, i fattacci del passato, dalla corruzione per il Mose al riciclaggio. Dallo studio Pvp parte però un filo segreto di rapporti professionali e familiari che arriva al presente e porta fino alla seconda carica dello Stato. Lo studio Pvp ha legami molto stretti con una società di Padova, Delta Erre, che è una specie di club dei più affermati fiscalisti veneti. Tra gli azionisti compare Paolo Venuti, che si è visto sequestare la sua quota in questi giorni. La stessa società ha accolto tra i suoi azionisti anche Giambattista Casellati, un grande avvocato di Padova. Che è il marito di Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’attuale presidente del Senato. Che ai tempi dello scudo fiscale era sottosegretario alla Giustizia, oltre che parlamentare di Forza Italia. Marito e moglie sono anche soci d’affari in una piccola azienda italiana chiamata Esa, creata nel 1983, che nell’ultimo bilancio (2017) dichiara 55 mila euro di ricavi. La Delta Erre, costituita nel lontano 1971, è un club esclusivo, con partner selezionati. Fino al 2017 era una fiduciaria, poi si è concentrata sulle consulenze fiscali. Da anni è un punto di riferimento per le aziende di area ciellina. E da sempre ha forti legami con alcuni protagonisti dello scandalo Mose. Tra i soci fondatori spicca infatti Guido Penso, che è stato presidente del consiglio d’amministrazione fino al 1996. Già allora il commercialista manovrava fondi neri degli evasori, come spiega l’ordinanza che oggi accusa lui e suo figlio di aver orchestrato, con il collega Venuti, anche il riciclaggio del tesoro di Galan. I Panama Papers confermano che proprio Penso, attraverso un suo studio di Londra, gestiva già nel 2000 alcune offshore, come la Sorenson Holding delle Bahamas, ora accusate di nascondere i milioni degli evasori. La Delta Erre non è coinvolta direttamente in questi scandali. Però compare più volte negli atti delle indagini. Ad esempio l’imprenditore Damiano Pipinato, oltre ai 33 milioni dell’evasione, ha parlato anche di una serie di offshore utilizzate per mascherare le sue proprietà a Padova e spostare all’estero i soldi degli affitti. Tra quegli immobili così schermati (con una società italiana controllata da anonime panamensi) c’è una palazzina in via Corciglia 14. Dove ha sede lo studio Cortellazzo e Soatto. Che paga da anni un affitto notevole: 240 mila euro più Iva, poi ribassato a 185 mila. Soldi che, attraverso le offshore, finivano nei conti svizzeri di Pipinato. Sia Soatto che Cortellazzo ricompaiono anche tra i soci della Delta Erre, al fianco di Venuti (il prestanome di Galan) e dell’avvocato Casellati (il marito della presidente del Senato). Allo studio Soatto e Cortellazzo è dedicato perfino un capitolo spinoso della sentenza sul Mose: sono loro ad aver firmato una perizia che, secondo i giudici, ha consentito alla Mantovani spa, l’azienda simbolo delle tangenti venete, di sopravvalutare le sue attività. Il loro studio è registrato con la sigla “Servizi professionali organizzati” e ha come socio di maggioranza il commercialista Lucio Antonello, che è anche l’attuale numero uno della Delta Erre. Come presidente del Senato, la signora Casellati è sicuramente dalla parte della legalità e della lotta all’evasione fiscale. Il problema è che i soci di suo marito giocano nella squadra avversaria.

DEMOCRISTIANI. L'editoriale di Roberto Napoletano il 4 marzo 2020 su quotidianodelsud.it. Nessuno fa niente per il suo Paese. Tutti stanno a guardare quello che fanno gli altri. Lo sport nazionale è giudicare o porre veti. Il motore dei comportamenti dei singoli sono il proprio interesse e l’invidia sociale. Una moltitudine ripetitiva di comportamenti individuali di questo tipo produce una collettività che riconosce le “capitali” dei loro egoismi e smarrisce l’identità comune di una nazione. Ne viene fuori una comunità in stato confusionale capace di fabbricare con le sue parole inutili una recessione in casa. Moro e Fanfani facevano lezione all’università e poi nel resto della giornata facevano politica. Molti della classe dirigente di governo di oggi – centrale e, soprattutto, regionale/locale – non potrebbero nemmeno seguire i corsi dei grandi professori democristiani. Ho pensato a Moro e Fanfani leggendo le dichiarazioni di Bruno Tabacci, politico di lungo corso e ex presidente della Regione Lombardia, al nostro Claudio Marincola: “Eravamo democristiani. E finché ci siamo stati noi la sanità pubblica non è mai stata messa in discussione. Poi è successo qualcosa, non mi chieda però cosa. So solo che ci fu un grande cambiamento, famiglie importanti già attive in altri settori iniziarono a investire nella sanità cifre notevoli e poco dopo arrivarono i tagli. Meno medici, meno infermieri, meno ospedali, meno posti-letto”. In queste parole c’è la chiave di quello che è avvenuto a Milano e, a catena, nell’intero Paese. Dietro la perdita di valore della sanità pubblica e di ciò che rappresenta in termini di sicurezza, di igiene e di prevenzione, c’è quello che l’attuale sindaco di Milano, Beppe Sala, ha definito “l’ecosistema sanitario” lombardo. Qualcosa che coniuga tagli lineari alla sanità pubblica e business dei privati. Si passa dalla chimica petrolifera alle cliniche, ma soprattutto si prenotano quote ingenti di risorse pubbliche con il moltiplicatore della Spesa Storica che favorisce il ricco a discapito del povero. Nessuno vuole discutere le eccellenze private, ma è sotto gli occhi di tutti come prevenzione e organizzazione dell’accoglienza pubblica abbiano sofferto con l’emergenza coronavirus. La sanità privata lombarda ha fatto incetta di finanziamenti sottratti alle Regioni del Sud – la sanità ospedaliera meridionale è finita sotto processo per clientele a volte vere ma di più per una moda funzionale agli interessi privati nordisti – e se ne guarda bene oggi da restituire qualcosa. Il virus che i focolai di Lodi e della bergamasca portano in superficie è la perdita del primato della cultura del servizio sanitario nazionale e della sanità pubblica. Quegli stessi micro-interessi degli azionisti-clienti di Banca Ubi che si oppongono per ragioni di bottega al disegno da sistema Paese di Intesa Sanpaolo si possono riscontrare nella cultura della fatturazione pubblica e dei super-rimborsi che appartiene alle famiglie private dell’ecosistema sanitario lombardo. Se la politica non dà una spallata a questi micro-interessi, l’Italia non potrà mai rialzare la testa.

La grande balla, il nuovo libro di Roberto Napoletano: «Il Nord vive sulle spalle del Sud». Redazione de ilgolfo24.it il 6 Marzo 2020. Si intitola “La grande balla” ed è il nuovo libro di Roberto Napoletano, frequentatore di Ischia, “Giornalista dell’Anno” nel 1990 al Premio Internazionale di Giornalismo, già direttore de Il Sole 24 ore. Con dati e statistiche ufficiali alla mano, l’autore racconta lo scippo di 61 miliardi che ogni anno il Nord effettua ai danni del Sud. E capovolge lo stereotipo del meridione d’Italia assistito che, al contrario, è stato abbandonato. Un’inchiesta esplosiva sulle vere cause, e le vere responsabilità, di un’Italia divisa in due, che si fa la guerra invece di unire le forze. La questione meridionale come non l’avete mai vista. È quanto assicura Roberto Napoletano, che torna in libreria con un saggio rigoroso e inedito sul divario tra Nord e Sud. Il titolo “La grande balla”, edito dalla Nave di Teseo. Secondo la ricostruzione dell’autore, «la regione Veneto fa pagare allo stato italiano non ai contribuenti veneti, per la sua sanità, lo stipendio a sedicimila dipendenti in più, non medici, di quanti ne fa pagare la sempre vituperata regione Campania che ha un milione di abitanti in più». «Sapete che l’Emilia Romagna e la Puglia, a quasi parità di popolazione, ricevono la prima tre miliardi in più e la seconda tre miliardi in meno per la sanità? Che a fare il deficit sanitario – si legge in un estratto del libro –  sono tre regioni a statuto ordinario del Nord non del Sud, per la precisione Piemonte, Liguria, Toscana, parola della corte dei conti?». «Vi siete mai chiesti chi ha il primato dei dipendenti pubblici in Italia? Penserete in automatico ai mille carrozzoni comunali e regionali dei mille Sud italiani, vero? No, sbagliato! – scrive Napoletano – Il Nordest, che comprende Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli, vince alla grande: ha cinque dipendenti pubblici ogni cento abitanti contro i 4,4 del solito diffamato Mezzogiorno e, addirittura, alla pari con Roma, senza avere neppure uno dei ministeri, delle authority, delle ambasciate che ‘popolano’ la Capitale di una nazione. Se dubitate dei numeri o il confronto non vi aggrada prendetevela con l’ISTAT che è la firma statistica dell’Italia nel mondo». Domande articolate, per certi versi con risposte sorprendenti e del tutto inedite, quelle che vengono fuori nel volume, appena edito da La nave di Teseo: quanti cittadini sanno che 61 miliardi dovuti al Sud vengono ogni anno regalati al Nord? Per Napoletano «si tratta del più grande furto di stato mai conosciuto nella storia recente della Repubblica italiana. I numeri di questa operazione verità fanno tremare vene e polsi, e permettono legittimamente di chiedersi se l’Italia esista ancora». Nord assistito, Sud dimenticato “La grande balla” di Roberto Napoletano intende portare il lettore a intraprendere un lungo viaggio nelle piccole grandi patrie dell’assistenzialismo, che – secondo l’autore – non sono al Sud, ma tutte al Nord. «La politica si è abituata da vent’anni a togliere investimenti al Sud per soddisfare le pretese dei questuanti di turno, sistemare gli amici degli amici nel coacervo di enti pubblici proliferati con la spesa facile. Tutti collocati nelle ricche regioni del Nord». Non dimentichiamo che il giornalista, per anni è stato direttore del Sole 24 Ore e, quindi, ha avuto modo di conoscere il sistema economico italiano dall’ interno.

Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio. Silvia Siniscalchi il 21 Agosto 2017 su iconfronti.it. In considerazione della disastrosa situazione della sanità campana, si ripropone qui uno studio sui fondamenti filosofico-giuridici e socio-sanitari del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, che suscitarono un profondo interesse già presso i contemporanei (come il Luppoli, il D’Onofri, il Galdi e il Cuoco, tanto per accennare a dei nomi di intellettuali di valore). Senza volere accogliere le ragioni del revanscismo borbonico e senza entrare nella questione dell’autentica paternità del Codice, ci si limita a constatare l’assoluta modernità di una legislazione sanitaria che rappresenta uno degli esempi in tema più avanzati del XIX secolo e attuato nel Meridione d’Italia.

Sul colle detto di S. Leucio, adiacente alla famosa reggia vanvitelliana, nel sito di una diruta chiesetta longobarda dedicata a quel santo, Ferdinando IV di Borbone, dopo aver murato l’intero bosco circostante, aveva fatto costruire un piccolo casino di caccia (1773-74), che poco dopo abbandonò perché vi era morto il suo primogenito Carlo Tito, trasferendo la propria residenza nell’attigua località detta Belvedere (da allora chiamata estensivamente, ma a torto, S. Leucio), di bella vista, ottima aria e fertilità del terreno per ogni tipo di produzione, vite in particolare. «Vi fece perciò subito costruire – soccorre qui uno stralcio della sintetica “voce” di un quasi coevo Dizionario – delle nuove fabbriche, ed un’antico salone lo convertì in chiesa nel 1775, che eresse benanche in parrocchia per la popolazione, che vi fece radunare al numero di circa 350 individui addetti non solo alla custodia del bosco, che alla coltivazione de’ terreni, che sono in quei contorni. Nel 1776 ampliò maggiormente le fabbriche, e vi stabilì una casa di educazione, e quindi da tempo in tempo vieppiù rese il luogo abitabile e popolato con istabilirvi una colonia di artefici a formare ottime manifatture di seta, cioè stoffe, fettucce, veli, calze, da non farci affatto invidiare le decantate manifatture forestiere. Il numero di questi artefici è oggi [fine ‘700] giunto a circa 800. Nel 1789 il suddivisato nostro Clementissimo Sovrano con molta saviezza scrisse le leggi per questa sua nuova Colonia, da far veramente in tutti i tempi avvenire gloria all’Augusto Suo Nome»

L’ultimo riferimento è ovviamente al famoso Statuto della real Colonia, che sarà analizzato nei paragrafi seguenti, specie per la normativa socio-sanitaria, ma del quale occorre subito anticipare, in estrema sintesi, una finalità altamente etica, quella di prevedere una “città degli uguali”, dove appunto vigesse «l’assoluta uguaglianza tra donne e uomini, il diritto all’istruzione, alla successione e alla proprietà, alla casa e all’equo salario, alla tutela in caso di bisogno, all’assistenza sanitaria, alla prevenzione del vaiolo, alla formazione e al lavoro».

Se questi sono, assai scarnificati, i fatti incontestabili della nascita e vita primiera della colonia e del suo contenuto statutario, assai più discutibili e discussi sono i valori e i significati ad essi attribuiti, a partire dalla paternità dell’idea e fino al processo normativo, progettuale ed effettuale. Poiché il merito maggiore si riconosce alla stesura dello statuto, gli studiosi si sono accapigliati sul nome del vero artefice, dando per scontato che – data l’ignoranza, l’indolenza intellettuale, la rozzezza di comportamenti del re “nasone” o “lazzarone” (come spregiativamente veniva e verrà chiamato) – non poteva esser stato lui l’estensore: dopo aver di massima condiviso che l’autore del codice fosse il massone Antonio Planelli, con varie sfumature al sovrano si è accreditato al massimo un contributo maldestro ed episodico, riscontrabile nella scarsa organicità della normativa, come riconoscimento di un’indole sostanzialmente buona e benevola verso il popolo, con cui “si trovava bene” e nel quale spesso si identificava nelle sue note stranezze quotidiane (vari travestimenti, scherzi, ecc.). In questa farragine di titubanti ipotesi è intervenuta di recente la ricerca, seria e documentata, di una giovane studiosa, a risolvere forse definitivamente il dilemma. Mi riferisco ai lavori, impostati anche in utile chiave collegiale e didattica, di Nadia Verdile, in particolare a quello portato avanti col progetto “Carolinopoli: l’utopia di una regina”, svolto nell’anno scol. 2003-2004 presso l’ist. Statale d’Arte “San Leucio”, e concretizzato in un volume intitolato Carolina (2004). Senza disattribuire l’autoralità materiale al Planelli, la Verdile sostiene che quella spirituale e filosofica vada riconosciuta alla regina Carolina, cui andrebbe altresì il merito di tutte le riforme realizzate nel Regno di Napoli prima della rivoluzione francese. Oltre che sulla bibliografia più accreditata (Coniglio,1981; Tescione,1932, in testa a decine di altri autori), la ricercatrice si basa sull’analisi e la parziale stampa delle lettere, custodite all’archivio di Stato di Napoli e mai prima edite, che da S. Leucio il re inviò alla regina tra il 1788 e il 1799, nonché di quelle di Carolina al marito (Verdile, 2008), la cui lettura «ha consentito una lucida definizione delle personalità dei due sovrani e degli interessi degli stessi» (Verdile, 2004, p.11). Quanto alla sovrana, emerge il ritratto di una donna che, lungi dall’essere solo crudele e sanguinaria (come vuole il cliché appostole dopo la repressione della rivoluzione del 1799), attiva i “malfamati” intrighi di corte solo nel desiderio alto e nobile di sconfiggere il partito filospagnolo (incarnato prima dal “tardo” Tanucci e poi dal Sambuca) a favore di quello filoasburgico, capitanato dall’ammiraglio Francesco Acton e di poi da Domenico Caracciolo, con il seguito di tutti gli intellettuali, i nobili e i borghesi progressisti, facenti spesso capo alle logge massoniche, cui stava a cuore il risollevamento delle sorti del Regno. Di più: Carolina, degna figlia della più progressista tra le personalità dei principi illuminati (l’imperatrice Maria Teresa d’Austria), appare come una sovrana coltissima, che legge e scrive quattro lingue (francese, tedesco, italiano e spagnolo) oltre a saper tradurre il latino, che, fin dal suo arrivo a Napoli, cura l’incremento della sua biblioteca (formata da 6443 volumi, oltre a molti periodici) e se la fa trasportare al seguito nelle parentesi di fuga in Sicilia, che è istruita in letteratura, storia, botanica, musica, canto e – fatto assai indiziario – filosofia, etica, diritto, pedagogia, economia e botanica. Dall’altro lato, troviamo un sovrano meno zotico e tartufesco di come si è voluto far credere, ma “giustamente” insofferente della etichetta e degli squallidi personaggi di corte, come della partecipazione al Consiglio di Stato (in cui ben presto sedé autorevolmente Carolina), in nome di una vita sana, all’aperto, dedita alla caccia, alla pesca, al nuoto e a varie attività ginniche, nel contatto “diretto” dei suoi sudditi (spesso al femminile, come si malignava…): un re che ben volentieri cedette “lo scettro” alla sua metà, con la quale in certo senso caratteriologicamente si compensava, comunque fungendo da elemento equilibratore tra i poteri. Sulla base di tali valutazioni, la conclusione della Verdile appare abbastanza plausibile, anche alla luce della stima che a Carolina manifestarono personaggi del calibro di Pietro Colletta, Vincenzo Cuoco e altri.

Accantonato, con sufficiente persuasività, il problema dell’attribuzione autorale, non meno interessante sarà soffermarsi, sia pur in breve, sulle fonti ispiratrici (teoriche e pratiche) della legislazione e delle esperienze effettive realizzate dalla colonia reale, compreso il progetto “utopico” di «Ferdinandopoli». Sapere che l’ideazione fu di Carolina non semplifica la soluzione e, a parer di chi scrive, la stessa regina avrebbe trovato difficoltà a rintracciare precisamente i suoi “modelli” ispiratori, in una temperie storica illuminata da tanta letteratura utopistico-socialistico-riformistica e da innumerevoli esperimenti pratici, realizzati in varie parti del mondo, di comunità autogestite. Di antecedenti, infatti, ce ne sarebbero molti e anche molto remoti nel tempo. Scrive a riguardo il Tescione: «Se si dovesse risalire ai primi germi delle idee, delle dottrine e dei progetti di costituzioni politiche a cui potrebbe ricollegarsi la costituzione di S, Leucio, occorrerebbe fare un ardito volo oltre gli orizzonti del mondo moderno e medioevale e di là dalle vie battute da Cicerone e da Aristotele, per raggiungere le pure scaturigini del pensiero platonico. Non sarebbe fuor di luogo allora ricordare il piano di quella Platonopoli di cui fin dal terzo secolo dopo Cristo il filosofo Plotino proponeva l’attuazione ad un tiranno della decadenza romana, il Galieno, chiedendo per lo scopo appunto un distretto della Campania, o la concezione di quella fantastica repubblica aristocratica e monastica ch’è la Città del Sole, con cui il Campanella, nel XVI secolo, perfezionando il sistema comunista di Tommaso Moro, precorreva, in un certo modo, le utopie del secolo XVIII» (Tescione, 1932, p.’’’..; in proposito cfr. Dematteis, 1963). Quanto ai precorrimenti teorici più prossimi, il Battaglini crede di dover citare: Francesco Saverio Salfi nel suo Elogio del Filangieri; il Dumas, che trova affinità col socialismo e richiama Fourier e il suo falansterio; lo Stefani che parla di colonia socialistica borbonica e chiama in causa il pensiero e i tentativi storici di Robert Owen; Francesco Longano, un riformatore napoletano che distingueva tra il politico che dà lavoro ai bisognosi, e l’uomo superstizioso che gli fa l’elemosina; il Mercier per un suo romanzo fantapolitico e la creazione di una città fantastica; il Gori che parla di impronta comunista; infine il Croce e seguaci, fermi sull’errata interpretazione del “capriccio” del sovrano.

Circa la posizione ideale e fattuale dell’Owen in confronto a quella borbonica, intanto, registriamo uno studio specifico condotto dalla più recente studiosa leuciana, che, al di là delle forti differenze, trova anche delle collimanze, in questi termini: «Eppure i telai uniscono le due utopie anche se da San Leucio la seta va verso le grandi residenze del potere mentre da New Lanark le tele di cotone vengono distribuite ai mercati della nazione. E da ultimo, ma prima riflessione da fare, l’utopia leuciana e quella newlarkiana sono nate dalla forza ideologica e culturale di due personalità profondamente diverse: da una parte il pensiero illuminato di Maria Carolina d’Asburgo, colta, amica e sostenitrice della massoneria progressista, sovrana, e dall’altra il pensiero illuminato di Robert Owen, operaio, poi imprenditore, economista. E dunque è nell’etica dell’Illuminismo che si fonda l’incontro di due grandi progetti utopici che hanno avuto il merito di dimostrare che una società degli uguali può e deve essere perseguita» (Verdile, 2006, p. 28). Molto più ricco, profondo e articolato è il contributo che il Tescione, il maggiore studioso in materia, aveva offerto in proposito nel suo monumentale volume del 1932, poi riedito nel 1961 senza sostanziali aggiunte e in forma più agile (senza note a piè di pagina). Dei più importanti autori richiamati, infatti, egli ricostruiva articolatamente la storia individuale e il pensiero. In questa sede si possono solo ricordare i nomi degli esponenti, attivi nel Napoletano già prima dell’ascesa al trono di Carlo III di «quel progredito movimento intellettuale mercé il quale lo spirito dell’Europa civile e laica era penetrato nel regno di Napoli, destandovi scintille di fecondi dibattiti, forza e luce alla lotta per svincolare lo stato e l’organismo sociale dalle pastoie feudali».

In definitiva, sulla scorta del Tescione (1932, passim) si può affermare, per un verso, che l’ispirazione più profonda e più prossima delle leggi di S. Leucio proviene dalla Scienza della legislazione del Filangieri, che in precedenza aveva dettato i principi anche alla politica del Tanucci contro la mendicità e per l’educazione del popolo alle arti e ai mestieri (specie con l’editto del 1769), per l’altro – accogliendo la Verdile e in riferimento alle ricezione etico-politica da parte di Carolina – dalle «riforme messe in pratica […] nell’impero austriaco da sua madre prima e da suo fratello, l’imperatore Giuseppe II in seguito, e nel Granducato di Toscana dal fratello Pietro Leopoldo» (Verdile, 2004, p. 25). Meglio chiarisce la questione il Kruft, sostenendo che lo statuto in parole «è una sintesi delle concezioni giusnaturaliste-istituzionali e delle teorie economiche formulate a Napoli da Vico a Filangieri. In questa idea dello Stato è insita una impostazione paternalistico-monarchica. Il re si pone al vertice di una rivoluzione sociale fondata sul diritto naturale: è una “rivoluzione dall’alto”. Segno tangibile del vincolo tra il re e la colonia è il collegamento tra il palazzo e la fabbrica. L’esperimento filantropico del 1789 diventa involontariamente un’alternativa in piccolo alla Rivoluzione francese».

Si può infine condividere con il maggior studioso della materia l’idea che, all’atto pratico, l’istituzione leuciana dava a Carolina «la possibilità di conciliare, su di un terreno particolarmente favorevole, le sue tendenze romantiche con i capricci del re» (Tescione, 1932, p. 136): che vale a riconoscere come l’intrapresa complessiva della colonia fosse l’unica maniera per la regina di far impegnare un sovrano tendenzialmente refrattario alle cose di governo verso un obiettivo serio e fruttuoso per la corona e il popolo, in un sito prediletto perché dava sfogo alle sue passioni e, sul versante aziendale, gli consentiva inoltre di applicare la sua particolare competenza in fatto di macchinari e anche di agrimensura.

Ciò ci induce a non sottovalutare il contributo ferdinandeo alla formulazione pratica (al di là della difettosa conoscenza della lingua italiana), specie nel settore dell’organizzazione della giornata lavorativa, della massimizzazione nell’uso ottimale delle macchine e dei risultati produttivi (e simili), degli articoli del Codice e soprattutto del più analitico Regolamento di gestione interna della fabbrica, stilato da Domenico Cosmi. Lo stesso valga rispetto al progetto solo parzialmente realizzato di «Ferdinandopoli», che – come tra breve diremo – essendo un riflesso degli statuti leuciani (Schiavo, 1986), conserva sì la sua matrice nella spinta ideale della regina, ma dovette avere nel “praticone” Ferdinando una sicura e consapevole guida per l’architetto progettista Collecini. In realtà, da tempo è maturata in alcuni studiosi la convinzione che il discorso locale di S. Leucio si inquadrasse in una più ampia strategia politico-territoriale, che – alla luce dell’intuizione della Verdile – non poteva che maturare nella fervida mente di Carolina, in accordo col generico “populismo” ferdinandeo. Innanzitutto, l’esperimento leuciano era la prova che si potesse fare a meno della componente più retriva della feudalità e si dovesse invece puntare su un rapporto diretto tra dinastia e popolo, in funzione accentratrice e antibaronale. Inoltre, si trattava di un tentativo non isolato di diversificazione funzionale dei “siti reali” (da riserva di caccia a villaggio operaio, azienda agricola o caserma) per organizzare e valorizzare il territorio tra intorno di Napoli e Caserta (Alisio, 1976; Caputo, 1977; Battaglini, 1983, p. 25). In tale programma rientrava infatti anche l’esigenza di trasformare Napoli da parassitaria metropoli di consumo a centro di produzione, decentrando però nei centri limitrofi le attività industriali, per decongestionare la capitale e alleggerirne la pressione demografica (Caputo, 1977; Battaglini, 1983,  p. 25). Del resto nella città partenopea era evidente da tempo la crisi della sericoltura, per cause complesse che vanno dal peso enorme delle tasse alla carenza di manodopera specializzata e di strumenti e macchine più moderne: questo spiega perché l’esperimento delle seterie fosse fatto proprio a S. Leucio, dove quella industria poteva diventare sicuramente competitiva, grazie alle caratteristiche geografico-naturali e geoantropiche del sito: come riconoscerà in una relazione del 1826 il De Welz, appaltatore della ormai ex-colonia, il clima e suolo amici del gelso (nota pianta di supporto alla coltivazione del baco) e di tante produzioni agroalimentari (da cui l’abbondanza di viveri a basso prezzo), la «bassezza della mano d’opera, i prezzi leggieri delle materie prime, […], il motor d’acqua instancabile e gratuito [azionato dallo stesso acquedotto della Reggia], operai destri, artefici intelligenti» (citato da Battaglini, 1983, p. 14) costituivano fattori positivi della conduzione aziendale. Al fondo dell’operazione non poteva non celarsi la battaglia contro la miseria, la mendicità, l’accattonaggio e la degradazione fisica e morale di tanta parte della popolazione urbana e rurale (che era la causa di temute turbative all’ordine pubblico), per cui tutto l’apparato economico-manifatturiero e urbanistico aveva una destinazione prevalentemente sociale: non a caso, per quanto riguarda gli oziosi, lo Statuto prevedeva che i “Seniori del popolo”, addetti al controllo della colonia, hanno il dovere di vigilare «rigidamente sul costume degli individui della Società, sull’assidua applicazione al lavoro, e sull’esatto adempimento del proprio dovere di ciascuno. E trovando, che in ess’alligni qualche scostumato, qualche ozioso, o sfaticato, dopo averlo due volte seriamente ammonito, ne posseranno a me l’avviso, acciò possa mandarsi o in casa di correzione, o espellersi dalla società, secondo le circostanze». Stessa sorte è riservata ai giovani che, giunti ai sedici anni di età, si rifiutino di lavorare o di apprendere il mestiere (Ferdinando IV, 1789, paragrafo XIV). Siamo dunque di fronte a una utopia laica e paternalistica, a parere dei Eugenio Battisti (cit. in Battaglini, 1983, p. 25), alla quale è lecito aggiungere anche l’aggettivo «religioso», sia pur nella particolare accezione dei regnanti borbonici che, pur avendo in precedenza osteggiato l’ideologia “indipendentista” espressa nelle colonie paraguayane dai Gesuiti (tanto da espellerli dal regno), dopo la parentesi rivoluzionaria si accostarono all’”altare” in quanto utile garante del “trono”.

Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio.  Silvia Siniscalchi l'8 Marzo 2018  su iconfronti.it. In Campania − regione dei maggiori ritardi e disguidi nella politica sanitaria, che tanto pesano su tutti i cittadini − vi fu un periodo, alla fine del XVIII secolo, di grandi conquiste civili e sociali proprio in questo settore. Ci riferiamo ad alcuni interessanti aspetti del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, con particolare riguardo alla straordinario stadio di avanzamento proprio dei suoi aspetti sanitari. Analizzare gli aspetti assistenziali e socio-sanitari, quali emergono dallo Statuto della Real Colonia borbonica dei lavoratori della seta, costituisce un’impresa alquanto problematica; alla complessità intrinseca dell’indagine (dove entrano in gioco storia, diritto, medicina e urbanistica), si aggiunge infatti la scarsità di studi in materia disponibili (soprattutto per il Mezzogiorno), che si sono dovuti misurare  con la multiforme situazione assistenziale dell’Italia pre-unitaria. Ciò nonostante, gli studi dedicati al settore si sono notevolmente accresciuti negli ultimi vent’anni, ponendo l’attenzione sullo sviluppo delle modalità diagnostiche e curative della medicina nelle varie epoche, sulla sua contaminazione con pratiche magiche, religiose e credenze popolari, sulla sua attenzione per le malattie legate al lavoro e, particolarmente, sul processo che da scienza a carattere individuale l’ha trasformata in sistema di assistenza, cura e prevenzione collettiva controllato dallo stato. A tal proposito, eventi e riforme del XVIII secolo sono apparsi determinanti per l’ammodernamento della sanità e la sua trasformazione in sistema statale, sebbene, secondo alcuni studiosi, solo nel periodo successivo alla Rivoluzione francese i presupposti sociopolitici, istituzionali, ideologici ed epistemologici di tale epocale mutamento sarebbero giunti a maturazione (Keel, 2007). Perciò, in tale prospettiva, il Decennio napoleonico è stato ritenuto molto significativo, soprattutto per il Mezzogiorno dell’Italia: grazie ai processi di centralizzazione burocratica avviati dai napoleonidi, infatti, «l’avocazione degli arrendamenti[3] e l’abolizione di altre entrate richiesero profonde trasformazioni nelle strutture amministrative dell’assistenza e della beneficenza e resero necessario un più diretto impegno finanziario da parte dello stato» (Lepre, 1985, p. 10).

Se il 1789 rappresenta uno spartiacque della storia moderna europea anche dal punto di vista sanitario, appare sorprendente il tempismo con cui, proprio nel novembre di questo stesso anno, come già evidenziato, il Re di Napoli in persona avesse autorizzato la stampa del Codice di S. Leucio, il cui carattere etico-egualitario (ispirato a un programma di rinnovamento sociale di stampo illuministico redatto vent’anni prima dall’allora ministro Bernardo Tanucci) appariva molto aggiornato e moderno anche nella cura degli aspetti socio-assistenziali. Tale circostanza era del tutto coerente rispetto alle finalità complessive della colonia leuciana – ispirata al concetto, tipicamente settecentesco, di “pubblica felicità” (ossia di benessere psico-fisico della collettività, come ribadito da illuministi del calibro di L. A. Muratori)[4] e, quindi, di salute pubblica – ma rifletteva, al contempo, un obiettivo politico primario dei governi “illuminati”, che nella seconda metà del XVIII secolo vi avevano dato ampio spazio nei loro programmi, ponendo mano a una profonda riorganizzazione del sistema ospedaliero (Garbellotti, 2003, p. 124). Il Real Albergo de' Poveri di Napol (stampa di Gatti e Duca). Secondo le sue originarie finalità doveva essere un luogo di carità e assistenza per bisognosi e indigenti. L’interesse dei monarchi nei confronti della salute pubblica, d’altra parte, non era semplicemente un atteggiamento di tipo filantropico, ma espressione della necessità di controllare globalmente il corpo sociale su cui esercitavano la propria legislazione nonché «garanzia di efficienza, di produttività, di ricchezza», che li spingeva altresì a «interessarsi direttamente delle condizioni di vita di tutta la popolazione e delle condizioni di lavoro della popolazione attiva» (Cosmacini, 1988, p. 253). Alla luce delle precedenti considerazioni, è logico supporre che anche sotto questo aspetto il re Ferdinando dovesse essere stato non poco influenzato dalla cultura e dalle idee progressiste di sua moglie, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, nonché dal confronto con il cognato Pietro Leopoldo, esempio emblematico di riformismo illuminato nella gestione sanitaria della Toscana. La regolamentazione della sanità pubblica nella Real Colonia di S. Leucio, organicamente correlata ad altri tipi di forme assistenziali contemplate dall’intero corpus normativo, non si limitava tuttavia a emulare le tendenze ideologiche ad essa contemporanee: lo Statuto, infatti, si ispirava concretamente ai più avanzati criteri sanitari del XVIII secolo, che si sarebbero affermati in Europa e nel resto della penisola italiana solo nel corso della prima metà dell’800. Pertanto, diviene possibile rilevarne e apprezzarne il pregnante significato solo ponendoli in correlazione con i principi di regolamentazione sociale, istituzionale ed etica che caratterizzano il documento nel suo insieme, nonché analizzandoli alla luce del contesto utopistico-pianificatorio e, almeno in parte, della coeva situazione storica della medicina e della sanità in Italia. Lo studio del medico (tratto da Paul Lacroix, "L'école et la science jusqu'à la Renaissance", Paris, Firmin-Didot, 1887) Rispetto a quest’ultima, la concezione sanitaria del Codice è senza dubbio all’avanguardia, recependo i dettami di «nuova impostazione del problema salute, sia sul piano individuale che sul piano sociale», alla cui luce medici e non medici, «nel clima di razionalità e fervore creato a Milano come a Firenze dalle riforme teresiane-giuseppine-leopoldine, nutrono interessi di medicina razionale, di salubrità ambientale, di sanità, di scientificità, fortemente ravvivati dalla circolazione d’idee che muove dall’Inghilterra e dalla Francia» (Cosmacini, 1988, p. 251). È insomma evidente l’influenza dell’Austria sull’orientamento ideologico dell’autore dello Statuto, che, a prescindere dalla sua identità, dà prova di avere ben compreso l’importanza di alcuni risultati scientifici della scienza medica dell’epoca (spesso contestati e rifiutati dalla popolazione per ignoranza e sulla base di insensati pregiudizi), considerando la salute pubblica come un bene da preservare e curare, sia dal punto di vista materiale che spirituale, sulla base di procedure controllate e in luoghi deputati allo scopo. Di qui, contrariamente alla prassi diffusa del tempo, la concezione statutaria dell’ospedale come luogo destinato esclusivamente alla cura dei malati, dotato di una classe medica fornita direttamente dal re (al servizio dello stato e quindi qualificata) e monitorato quotidianamente per il rispetto delle più elementari nozioni igienico-sanitarie (Ferdinando IV, 1789, pp. 37-38). Il riformismo dello Statuto contribuisce a dare così avvio al processo formativo dell’ospedale così come oggi concepito, basandosi su una concezione medico-sanitaria lontana dalle finalità genericamente assistenziali, curative ma anche formative, rieducative e repressive degli istituti ospedalieri d’età moderna. Questi ultimi costituivano infatti dei veri e propri centri di accoglienza, controllo e rieducazione per malati, mendicanti, indigenti e disadattati in generale, generalmente considerati (a eccezione dei casi di oggettiva inabilità al lavoro) dei fannulloni e dei parassiti sociali. Pertanto l’istruzione, a partire dalla seconda metà del Settecento, «cominciò ad essere considerata anche come una sorta di arma per sconfiggere l’ignoranza che stava alla base dei comportamenti devianti», per educare i poveri al lavoro, alla disciplina e ottenerne il recupero sociale. Tali erano i presupposti ideologici dello stesso Albergo dei Poveri di Napoli, conformemente al programma di Tanucci («che moveva dalla premessa etica fondamentale del Genovesi» della necessità di educare il popolo, sollevandolo dallo stato di ignoranza e abiezione in cui versava: Tescione, 1932, p. 126). Il Codice di S. Leucio, pur accogliendo tali istanze, le affronta con criteri moderni, predisponendo per ciascuna di esse una differente e peculiare destinazione istituzionale: la “Cassa della Carità”, per il sostegno materiale ed economico di quanti fossero divenuti inabili al lavoro per causa di forza maggiore (nonché, in caso di morte, per il pagamento delle spese necessarie all’esequie); la “Casa degli Infermi” (ossia l’ospedale), con funzioni curative e assistenziali di tipo sanitario; la “Scuola normale”, per la formazione scolastica e lavorativa dei fanciulli di entrambi i sessi, obbligatoria a partire dai sei anni di età. Tra questi istituti, la “Cassa della Carità” è dunque delegata a sostenere le spese di assistenza socio-sanitaria ai coloni in difficoltà. La sua denominazione, tuttavia, risulta ingannevole, lasciando immaginare che si fondi su principi generici di associazione e di solidarietà umana (che pure ne costituiscono un presupposto). Al contrario, la “Cassa della Carità” non rappresenta un istituto di elemosina collettiva, ma una sorta di “fondo malattie”, con finalità analoghe a quelle degli attuali enti di previdenza sociale, «nei quali direttamente o indirettamente si attua l’attività dei gruppi o dello Stato volta ad eliminare negli individui il bisogno di ricorrere alla beneficenza, a prevenire la miseria mediante il concorso di cloro stessi che sono destinati a beneficiarne» (Dal Pane, 1958, p. 317). Pertanto, la “Cassa della carità”, fondata sul risparmio degli interessati (i contributi mensili e proporzionali al reddito dei lavoratori della colonia) rappresenta un esempio di ente previdenziale ante litteram. I leuciani caduti in miseria «o per vecchiaia, o per infermità, o per altra fatal disgrazia, ma non mai per pigrizia, ovvero infingardaggine» hanno maturato il diritto di essere assistititi in virtù del loro pregresso e costante contributo “previdenziale”. Non a caso, i coloni morosi a oltranza perdono il diritto all’assistenza, sia in caso di disgrazia che di morte, mentre i maleducati, gli oziosi e gli sfaticati recidivi sono espulsi dalla colonia. La concezione della previdenza socio-sanitaria dello Statuto di S. Leucio s’inserisce quindi a pieno titolo nel moderno sistema di norme e istituti fondati sul diritto dei lavoratori all’assistenza, «compiuta a mezzo di fondi costituiti dai risparmi dei lavoratori stessi». A tale proposito, risultano molto interessanti anche le norme sull’orario di lavoro (tanto più perché quasi sconosciute in quest’epoca), che lo fissavano in due turni, di durata analoga a quella della luce solare, con il solo intervallo del pranzo. Assistenzialismo, economia e politica, dunque, nello Statuto s’intrecciano indissolubilmente, a partire da un’idea di pubblica assistenza, cura e prevenzione molto più ampia di quella strettamente medica, essendo inteso il benessere della persona nel suo significato complessivo, fisiologico, morale, psicologico e giuridico (come emerge anche dal nesso individuato da Ferdinando IV tra il rapido aumento degli abitanti della colonia e la bontà dell’aria, la tranquillità e la pace domestica in cui vivevano).

La modernità degli aspetti sanitari del Codice è ulteriormente confermata se comparata con le disposizioni sanitarie relative all’amministrazione del Regno di Napoli emanate nel 1808 da Gioacchino Murat (con la separazione delle istituzioni medico-ospedaliere da quelle filantropiche, la nascita di nuovi ospedali e il controllo statale dell’assistenza sanitaria), le cui disposizioni sarebbero state ampiamente recepite dalla legge del ripristinato regno borbonico del 20 ottobre 1819 «sulla pubblica salute ne’ domini di qua e di là del Faro». Non a caso, negli anni Venti, data organica e definitiva sistemazione a tutta la decretazione in materia sanitaria, la legislazione del Regno delle Due Sicilie si rivela «una delle più analitiche e dettagliate degli stati preunitari» (Botti, 1988, pp. 1222-1223). Se tale circostanza può essere attribuita all’influenza francese sulla presa di coscienza borbonica dell’importanza della salute pubblica per il buon governo del Regno (Botti, 1988, p. 1222), non si può tuttavia dimenticare che il Codice dimostri come, almeno sul piano ideologico e “laboratoriale”, i Borbone avessero impostato in chiave moderna la gestione del problema sanitario ben prima della conquista francese del Regno di Napoli. Gli aspetti innovativi in campo sanitario del Codice, d’altra parte, rientrano nelle finalità sociali insite nell’esperimento di S. Leucio e nel piano di iniziative organicamente coordinate promosse da Ferdinando IV, basate su un consolidato corpus legislativo: gli articoli richiamano infatti elementi di diritto privato, pubblico, civile e penale e, per alcuni versi, riflettono atteggiamenti culturali caratteristici della cultura del XVIII secolo (tra cui la condanna senza appello dei fannulloni e dei renitenti al lavoro). L’ispirazione giuridica del Codice coesiste inoltre con quella religiosa, subito affermata nella pagina iniziale del testo, con il richiamo all’obbligo di osservare la Legge divina dell’amore verso Dio e verso il prossimo (prima regola che Ferdinando impone ai suoi coloni: Ferdinando IV, 1789, p. 11), seguito dall’elencazione dei “Doveri negativi” (Cap. I) e dei “Doveri Positivi” (Cap. II: cfr. nota 2). Nell’ambito di questi ultimi rientrano le regole sanitarie, con preliminari e importanti richiami alle norme igieniche fondamentali per il vivere civile. Ai coloni-lavoratori, infatti, è innanzitutto ordinato «che estrema sia la nettezza, e la polizia sopra le vostre persone […]: che questa polizia sia anche esattamente osservata nelle vostre case, acciò possa godersi di quella perfetta sanità, ch’è tanto necessaria nelle persone, che vivono con l’industria delle braccia». L’osservanza della norma è oggetto di verifica e controllo quotidiano da parte dei magistrati civili (detti “Seniori del popolo”), vigilanti della colonia con funzioni di giudici di pace, i cui rapporti sono consegnati direttamente al re (Ferdinando IV, 1789, pp. 23-24 e p. 44). Se il richiamo alla scrupolosa cura della pulizia personale e delle abitazioni può oggi sembrare quasi superfluo, se ne comprenderà appieno la ragione in considerazione della sua estrema importanza non solo per il decoro personale e il rispetto della convivenza sociale, ma anche per la prevenzione delle malattie infettive ed epidemiche, a fronte dell’esistenza tra la popolazione del XVIII secolo di abitudini e convincimenti arcaici e pseudo-religiosi, spesso sostenuti dagli stessi medici, tra cui quello di lavarsi poco o di non lavarsi affatto, soprattutto in caso di malattia (Cosmacini, 1988, pp. 214-215). D’altra parte le condizioni materiali dei lavoratori del tempo erano decisamente miserrime: nei primi stabilimenti manifatturieri, tra cui quelli dei fabbricanti di seta, le testimonianze storiche sottolineano come «gli imprenditori non si preoccupassero dell’igiene del lavoro»: i procedimenti tecnici in uso, spesso pregiudizievoli alla salute degli operai, «non erano accompagnati dalle misure igieniche necessarie a prevenire le dannose esalazioni delle materie lavorate, le attive condizioni dell’ambiente di lavoro, le malattie professionali […] Del resto lo stato di fatto si rivela in tutto rispondente alla modesta cultura igienica del tempo alle scarse preoccupazioni governative per questo ordine di pubblici interessi, per la stessa igiene generale». Nel secolo successivo la situazione non era migliore. La “Statistica” del Regno di Napoli (redatta nel 1811 per volere di G. Murat) offre, per bocca del redattore canonico Francesco Perrini, ampie testimonianze delle infelici condizioni di vita della popolazione delle provincie del Regno: colpisce l’abituale uso di acqua poco pulita, l’alimentazione scadente, le condizioni igieniche disastrose (la vita quotidiana si svolgeva in case piccole, male areate, umide e fatiscenti, in promiscua coabitazione con gli animali da cortile e/o da allevamento), la diffusione della malaria (Demarco, 1988, pp. 209-254). Aggiunta alla denutrizione e alla fatica eccessiva dei lavoratori, tale situazione favoriva il proliferare dei contagi, drammaticamente diffusi in questo periodo: se a metà Settecento la peste era scomparsa dall’Europa (con l’eccezione in Italia dell’epidemia di Marsiglia del 1720 e di quella di Messina e Reggio nel 1743), «un altro flagello, il vaiolo, ha preso il suo posto nel determinare la morbosità-mortalità catastrofica della popolazione europea. Ciò vale ancor di più per la popolazione italiana, risparmiata dalla peste con alcuni decenni d’anticipo rispetto alla popolazione di altri paesi e flagellata invece dal vaiolo con grande frequenza e intensità» (Cosmacini, 1988, p. 238). Di qui il richiamo del Codice all’ordine e alla massima pulizia possibili, con particolare riguardo alla “Casa degli Infermi”, il centro di accoglienza e di cura per i malati, amministrato da specifici regolamenti interni, e anch’esso quotidianamente ispezionato dai “Seniori del Popolo”, aventi il compito di verificarne le condizioni igieniche e l’esatta e scrupolosa assistenza materiale e spirituale offerta ai malati[18]. La “Casa degli Infermi” è dunque progettata in ossequio ai principi di salubrità e disinfezione richiesti dalle sue finalità specifiche. Nel passaggio dalla cosiddetta medicina ‘al letto del malato’ (ossia a domicilio) a quella clinica ‘ospedaliera’ (secondo la definizione del Keel, 2007), nonché alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche del tempo, il Codice si allinea in tal modo alle informative mediche del Settecento, che richiedevano la creazione di ambienti spaziosi, riscaldati e ben ventilati (Scotti, 1984, citato da Garbellotti, p. 126), progettando la costruzione di questa Casa come «separata totalmente dall’altre in luogo d’aria buona, e ventilata», per la cura di tutti gli ammalati, cronici e non (Ferdinando IV, 1789, p. 47). Questo semplice progetto, pur rimasto tale, appare in tutta la sua importanza se si considera l’abituale stato di disordine, sporcizia e cattivo odore degli ospedali settecenteschi (eclatante, a riguardo, la diffusa e inumana pratica di risparmiare spazio sistemando due malati in uno stesso letto), progressivamente superato solo nel corso del XIX secolo. Ciò premesso, la funzione prioritaria assegnata dal Codice alla “Casa degli Infermi” è innanzitutto di tipo preventivo: ogni anno, infatti, nei periodi precedenti le grandi epidemie (primavera e autunno), per tutti i ragazzi e ragazze della colonia leuciana è «prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s’interponga autorità o tenerezza de’genitori» (Colletta, 1856, tomo I, p. 138), al fine di scongiurare i pericoli derivanti da una loro eventuale esposizione al contagio della terribile malattia. Il richiamo all’obbligatorietà dell’innesto del vaiolo si richiamava a un dispaccio reale che prescriveva tale pratica in tutto il Regno è uno dei principali elementi di modernità del Codice, che si inserisce in tal modo nel dibattito su una delle più accese questioni scientifiche e culturali dell’Italia del Settecento. Il metodo dell’innesto, detto «della variolizzazione, cioè della inoculazione a scopo profilattico del vaiolo umano (la cui forma più grave, o variola maior, prevale nel Settecento sulla forma più lieve, o variola minor), nasce da una pratica che circassi e cinesi, esperti del male […], attuavano da secoli in Oriente», volta a provocare una manifestazione della malattia in forma lieve, che immunizzava la persona dal contagio. Il dibattito tra fautori e oppositori dell’innesto, tuttavia, a cui presero parte anche intellettuali del calibro di Pietro Verri, non si riduceva schematicamente a una lotta tra progressisti e conservatori, essendo controversi i risultati dell’inoculazione: quest’ultima, di fatto, era priva di un sicuro metodo applicativo e, dunque, se praticata in modo erroneo, diventava rischiosa, in alcuni casi, addirittura letale.

Ciò nonostante, la pratica produceva senza dubbio più benefici che danni; nel 1756, infatti, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria (la cui stessa famiglia era stata decimata dal male), sentiti i pareri favorevoli di vari consulenti, dava l’assenso affinché venisse impiegata in Toscana, colpita da una violenta epidemia di vaiolo. Di qui il «”primato della Toscana nella battaglia per l’innesto”, sullo sfondo del temperato riformismo della Reggenza lorenese e poi del riformismo progressista del granduca Pietro Leopoldo» e ancora di qui la convinta adesione alla pratica dell’innesto da parte di Ferdinando IV di Borbone, che, dopo aver perduto due figli nel 1788 a causa del contagio, vi avrebbe sottoposto il resto della prole.

Da Libero Quotidiano, il giornale di Vittorio Feltri.

Napoli si bruciano da soli: 13 luglio 2017.

Comandano i Terroni: 11 gennaio 2019.

Virus alla conquista del Sud:  4 marzo 2020.

Ha ragione De Luca: ci vuole il lanciafiamme. Quarantena alla napoletana: tutti in strada. 3 aprile 2020.

Mattia Feltri per Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. Sono arrivato a Libero nel febbraio del 2004 per il gusto della mattana e per una vanteria di libertà: non so quanti, pochi o nessuno, avessero prima lavorato in un giornale diretto dal padre, e non per bisogno, proprio per sbruffonaggine. Venivo da otto anni al Foglio, innamorato perso del direttore Giuliano Ferrara, ero partito dalle notizie in breve, messo progressivamente alla prova, promosso inviato, gratificato con le due righe in apertura della rubrica delle lettere e cinto da altri piccoli allori del nostro piccolo, simpatico, tronfio mondo. L'amore infine fu, credo, ricambiato: ogni mio articolo era indiscusso, buono quasi per definizione e mi sentii perduto. C' era più nulla da conquistare. L' idea folle saltò fuori una sera, mentre dicevo a mio padre dell' impossibilità di andare in un altro giornale: nessuno osava portare via gente dalla truppa di Ferrara. E tu vieni da me, disse. Stai a Libero per un po', poi verranno a cercarti. Una tale stravaganza da risultare irresistibile. E poi in capo a due giorni mi telefonò Stefano Folli, allora direttore del Corriere della Sera: l' avessi saputo, t' avrei preso io. Diamoci appuntamento a fine anno, disse, e se nel frattempo qualcuno ti fa una proposta, avvertimi e ti prendo prima. Come aver vinto la lotteria di Capodanno. Intanto mi sarei tolto lo sfizio di vedere mio padre all' opera. Un conto era sentirne parlare, altro toccare con mano. Era, mio padre, l' uomo che all' Indipendente aveva rivoluzionato il giornalismo con l' intuizione sacrilega: era ora di finirla con il lei, alla politica si poteva dare del tu. I giornali, come li vedete oggi, sono figli di due rivoluzioni simultanee: quella di mio padre, da cui sono stati generati per esempio il Fatto e la Verità, e quella di Paolo Mieli alla Stampa, con le prime pagine omnibus, l' ibridazione di alto e basso, poi adottata da ogni quotidiano mainstream. Ecco, era una bella occasione per infilarsi in una delle due rivoluzioni. La terza, introdotta dal Foglio, con la sua grafica irresistibilmente punitiva, senza foto, senza sezioni, senza programmi tv, senza altro che parole scritte per un pubblico con l' ambizione di mettersi lì a farsi fumare la testa, è rimasta di nicchia, ed è il suo bello. Ferrara e mio padre facevano giornali opposti figli di opposti approcci. Giuliano imbandiva riunioni quasi esegetiche dalle cui diramazioni scaturivano i pezzi; mio padre lasciava parlare come a cercare il senso ultimo, finché gli riusciva di chiudere il cerchio e allora se ne andava soddisfatto. Il massimo dell' analisi uno, il massimo della sintesi l' altro. Ma, ecco, senza farla né lunga né professorale, doveva essere una vacanza da entomologo, e subito mi lasciai tirare sopra la giostra. Eravamo estemporanei, talvolta situazionisti, non di rado anarchici, ogni mattina era un festival, l' avvio di un' escursione senza meta, e lì dentro ci ho lasciato amici, affetti, ricordi, un pezzetto di vita utile a vedere le cose in una diversa prospettiva, a complicarmi più di un po', a capire meglio che le cose non sono mai semplici, sono sempre maledettamente contraddittorie. Quando a settembre Folli fu sollevato dalla direzione del Corriere, avrei dovuto buttarmi dalla finestra. Ne fui quasi sollevato. Volevo restare a Libero. Mi ero appassionato. Mi piaceva portare dentro una quota della mia visione laterale, della mia eterodossia, stavo cominciando a stendere un progetto per la riorganizzazione della seconda parte del giornale (cronaca, cultura, spettacoli e sport), la sera prendevamo su e andavamo a giocare a calcio, eravamo affiatati, solidali, colmi d' energia. E lì arrivò Marcello Sorgi, direttore della Stampa dove avrei trascorso i successivi quindici anni della mia vita. Se non vai ti butto fuori a calci, disse mio padre. Devi decidere che cosa vuoi fare da grande, disse Alessandro Sallusti. L' ultimo giorno - era gennaio del 2005, solo undici mesi dopo il mio arrivo - mi sono commosso. È tutto quello che ti ho lasciato, caro Libero: qualche lacrima. Ma talvolta ho avuto sorrisi insinceri, le lacrime mai.

Vittorio Feltri su Marco Travaglio: "Ha ragione il Cazzaro quotidiano, vi spiego una cosa sull'odio politico". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. Ha ragione Daniela Ranieri che ieri sul Cazzaro Quotidiano scrive un brillante articolo contro il presidente di Confindustria, Bonomi, accusandolo di una pretesa assurda: essere amato da tutti. È noto che i padroni, cioè i ricchi, sono detestati dai poveri e perfino da una parte (bassa) del ceto medio. I contrasti fra le classi non hanno una data di inizio: sono sempre avvenuti talvolta in forma cruenta. Ciononostante gli imprenditori insistono nel tentativo di essere benvoluti. Illusione. L'unico odio persistente e intramontabile è quello sociale. La gente normale osserva i comportamenti dei signori e rosica, vorrebbe essere come loro ma il reddito non glielo consente. Per cui l'attrito tra i due gruppi, lungi dall'attenuarsi, si inasprisce continuamente. Poi c'è una massa di indifferenti che pur invidiando gli abbienti è rassegnata a recitare un ruolo subalterno, subisce i padroni con santa pazienza. In politica le carte si mescolano. Non manca chi pur detestando gli industriali, ha stravotato Berlusconi nella speranza che questi irradiasse un po' del proprio benessere sul popolo. Figuriamoci. Quando la scena era dominata dalla Democrazia Cristiana parecchi commentatori erano stupiti dal fatto che un partito simile, gelatinoso e legato alla Chiesa, potesse prevalere ad ogni elezione. In realtà il fenomeno era facilmente comprensibile: l'avversario dello Scudo Crociato era il Pci, un coacervo di persone inaffidabili, legate addirittura alla Unione Sovietica, del quale era impegnativo fidarsi. Meglio i baciapile. Nel tempo l'Italia è mutata, ma non completamente. Cosicché nel 2018 abbiamo assistito al trionfo del Movimento 5 Stelle, che ottenne il 33 per cento dei consensi, diventando la prima forza nazionale, pur essendo stata fondata sulla base di uno slogan burino al massimo: vaffanculo, abbastanza misero sul piano ideologico. I grillini governano da due anni e stando ai sondaggi hanno già perso il 50 per cento dei voti probabili. Ci sarà un perché. Se è arduo amare, come osserva Daniela Ranieri, il pescecane Bonomi, lo è altrettanto stimare il ministro sotto vuoto spinto Di Maio, passato alla storia, anzi alla barzelletta, però non all'esame di grammatica, visto che litiga con i congiuntivi quanto il premier Conte, quello che dice vadino anziché vadano. Quindi è un gioco da ragazzi capire le ragioni per cui i cittadini se non hanno affetto per il confindustriale, ne hanno ancor meno per personaggi quali Gigino, Crimi, Toninelli e relativa banda di parvenu. Il Cazzaro Quotidiano fa bene a reggere la coda ai citati dilettanti, i problemi editoriali sono più importanti della logica e della politica. Ma la cara Ranieri non si stupisca se Il Sole 24 Ore arranca come ogni quotidiano. Se non c'è più trippa per gatti, non ci sono più lettori in abbondanza nemmeno per i giornali, e sono pochi anche quelli del foglio pentastellato.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2020. Il conformismo non si sviluppa in base a una idea ma a un pregiudizio. E proprio per questo si espande. Molta gente non elabora i suoi pensieri e si impossessa di quelli delle minoranze trainanti. Lo fa per non essere tagliata fuori dal consorzio umano, si intruppa onde sentirsi in buona compagnia. L'omofobia non esiste, quantomeno non è un fenomeno diffuso e allarmante, al massimo riguarda qualche cretino esaltato. Eppure è considerata una emergenza da affrontare addirittura a livello legislativo. Si vuole reprimere un sentimento inesistente. Non conosco nessuno che sia ostile ai gay, la maggior parte delle persone se ne infischia delle preferenze sessuali del prossimo, dinanzi a uno sconosciuto non si chiede se gradisce coricarsi con uomini e donne. Nonostante ciò si sta provvedendo in Parlamento a promuovere una norma che condanni coloro che affermano: meglio che un bambino abbia un papà e una mamma piuttosto che due mamme o due papà. Simile regola, se fosse approvata, di fatto vieterebbe la libertà di opinione alla faccia della Costituzione che invece la garantisce. Il conformismo più bieco domina altresì nella discussione sulla immigrazione indiscriminata che affligge l'Italia. Se tu soltanto dici che andrebbe governata e quindi limitata c'è chi ti taccia immediatamente di razzismo. Se sostieni il contrario, non mancano coloro che ti guardano male e ti giudicano quale nemico della Patria. Qualora ti venga in mente di criticare l'attuale esecutivo per un qualsiasi motivo come minimo il Fatto Quotidiano, di informazione grillina, ti accusa di fascismo, quantomeno di leghismo, sostantivo che sta assumendo i caratteri dell'insulto. Il desiderio di appiattirsi alle minoranze dispotiche che si proclamano intellettuali non è una novità di questi tempi. Quando negli anni Settanta e Ottanta la Democrazia cristiana era egemone non trovavi uno che confessasse di votarla. Era già di moda essere di sinistra e la massa faceva discorsi progressisti, diciamo pure comunisti, per non apparire fuori dalla corrente à la page. Poi alle elezioni la Dc vinceva con le mani in tasca. La stessa cosa accadde a Berlusconi. I giornali e le televisioni lo bistrattavano, poi però dalle urne il Cavaliere usciva trionfatore. Adesso non becchi un disgraziato che manifesti simpatia per Salvini o la Meloni, non sarebbe chic. Il popolo bue si accoda a Zingaretti e a Di Maio, salvo mandarli al diavolo allorché si tratti di votare. Ecco perché sono persuaso che il conformismo, prevalente nei rapporti sociali, sia perdente nei momenti decisivi. Esso è un rifugio per gli ipocriti, i timorosi, quelli che vogliono piacere alla gente che piace. Il dramma è che i cittadini si comportano ancora da sudditi, ma fino a un certo punto. Davanti alla scheda elettorale, nella solitudine del seggio, puniscono gli schiavisti del pensiero unico. Speriamo sia così in futuro. Se ci restituiranno il diritto di esprimere le nostre preferenze non mi stupirei se i compatrioti, stanchi di essere trattati da deficienti, avessero la forza di reagire, provocando un simpatico ribaltone che favorisse l'allontanamento della banda Casalino. Per quanto non mi illuda che il conformismo venga debellato. Ci sarà sempre qualcuno capace di essere un cattivo maestro.

Vittorio Feltri sull'alcolismo in Italia: "Bacco è il più grande amico e il più grande assassino". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 08 agosto 2020. Qui di seguito pubblichiamo un articolo scritto dal direttore Vittorio Feltri negli anni Ottanta sugli italiani grandi produttori di vino ma anche grandi bevitori. Gli italiani potranno forse morire di freddo o di fame, ma non moriranno mai di sete. Li salva il vino, di cui sono grandi produttori e grandissimi bevitori. E il whisky, di cui sono i maggiori importatori d'Europa. Non avremo l'umorismo sottile degli inglesi, ma siamo i più ricchi di spirito. Anche dei francesi che fino a qualche anno fa detenevano il primato mondiale del brindisi. Se i "militi" e i fiancheggiatori delle Brigate rosse - secondo le stime dei servizi segreti - sono oltre cento mila, gli acquirenti del rosso di Puglia sono almeno cinque milioni; e se la terza via al socialismo è tortuosa, la via del bianco è più praticata della Roma-Ostia. Le statistiche più aggiornate, elaborate dal professor Cancrini dell'università di Roma, sono - è il caso di dirlo - da capogiro: 600 mila alcolizzati. Bevono e respirano, non fanno altro. Nelle retroguardie dell'etilismo c'è poi un esercito di candidati alla fase acuta: tre milioni e mezzo di bevitori abituali e destinati a uscire presto dalla trincea delle bottiglie per passare alle ampolle dell'ipodermoclisi. Dovranno battersi contro la cirrosi epatica che avanza a vele spiegate su un mare di alcol: dal 1960 a oggi è aumentata del 140 per cento: 50 decessi all'anno per ogni centomila abitanti. Dal 1958 al 1978 i ricoveri in manicomio sono cresciuti del 310 per cento fra le donne, del 299 fra gli uomini da 30 a 49 anni. E i ricoveri in ospedale, mediamente, del 130 per cento. E poi dicono della droga. Ma per la maggior parte degli italiani l'eroina rimane la moglie di Garibaldi, e la ricerca dei paradisi artificiali non si svolge tanto nella siringa quanto nel fondo della bottiglia. Si muore più di mezzolitro che di cucchiaino, i bicchierini di troppo uccidono mille volte di più che l'eroina. La dose può ammazzare sul colpo, il fiasco toglie la vita a piccoli sorsi. Il calvario dell'alcolista di solito è molto lungo, venti o trent' anni di singhiozzo prima di esalare l'ultima zaffata. Venti o trent' anni vissuti nell'ansia e contro l'ansia: gli alcolisti bevono per farsela passare, ma l'effetto tranquillante dello spirito dura poco e in misura diversamente proporzionale al grado di alcolismo. È come una tortura: giù vino e su sete. Eppure tutti parlano con angoscia del problema droga, ma nessuno o pochi si preoccupano della sbronza. Mentre sociologi, psicologi, medici e ministri alzano gli scudi contro il pericolo del "buco", milioni di italiani alzano il gomito convinti che non faccia male. Anzi, sono incoraggiati a tracannare sempre di più da una serie di luoghi comuni sulle presunte qualità terapeutiche del sorso. E dalla pubblicità addirittura ossessiva.

L'ATMOSFERA. L'amaro che ci trasforma in Superman, l'aperitivo che ci salva dai guai della giornata, il liquorino che dilata le coronarie, l'atmosfera, e giù con le immagini suggestionanti: distinto quarantenne brizzolato che porge una coppetta di un certo liquore a bellissima bionda; sorriso condiscendente di lei che gli accarezza la mano e lo conduce verso la terrazza; una folata di vento che gonfia le tende e, sullo sfondo blu di un mare spumeggiante, la coppia s' abbandona in un lungo abbraccio. Ovviamente, è sottinteso che se il quarantenne brizzolato ce l'ha fatta, il merito è del liquore. E siccome l'istinto imitativo è forte in tutti, i più deboli non appena avranno per le mani una bionda, magari anche bruttina, crederanno che senza cicchetto lei non ci sta. Si comincia così: il primo sorso per vincere l'insicurezza, il secondo per brindare al successo, il terzo per affrontare il capufficio e via di seguito di tappo in tappo finché il pretesto per bere si presenta ogni momento della giornata. Il bicchierino diventa indispensabile anche per prendere l'ascensore. Qualcuno obietta che la pubblicità non ha alcuna responsabilità in quanto se uno è così indifeso da lasciarsi influenzare da un carosello, sarà stupido da ubriaco quanto da sobrio. Ma certi schematismi sono inapplicabili quando si tratta di valutare i fenomeni di massa: anche blu jeans attillati pare che rendano impotenti e frigide, eppure li indossano interi popoli. Tutti cretini non saranno.

DOLORE DEL VIVERE. la gente beve da sempre, dicono altri. Il vino è civiltà. Sarà, ma un conto è considerarlo un alimento, sia pure stimolante e particolarmente gradevole; un altro è tracannarlo come analgesico del dolore di vivere. Anche i contadini dell'Albero degli zoccoli non disdegnavano il fiasco, ma compariva sul tavolo come il più simpatico dei convitati; raramente sostituiva l'amico o la moglie. Oggi invece, nella società delle tecnologie avanzate, uomini e donne ingoiano alcol senza sorridere: come accade frequentemente di vedere gente in auto che parla da sola a un semaforo rosso, così è facile incontrare al bar persone che si fanno un doppio whisky di fretta, un occhio all'orologio, un altro bicchiere. Già nel 1964, in Italia il consumo pro capite di alcol puro all'anno era di 15 litri; ma questa pur allarmante quantità, in 15 anni si è quasi raddoppiata nonostante gli addetti dell'agricoltura, nel frattempo, si siano dimezzati. È la prova che l'etilismo non è una malattia da zappa. Anzi, è più diffuso al Nord che al Sud: in Lombardia c'è un alcolista su 100 abitanti; in Sicilia e in Calabria, 1 su mille. Il bere si è nevrotizzato, come il fumare: è un gesto ripetitivo, monomaniacale, un rito estenuante e schiavizzante. Agli inizi degli Anni Trenta, 98 bevitori su 100 erano ultra cinquantenni; solo lo 0.01 per cento era costituito da donne. Adesso, pur nell'approssimazione di statistiche elaborate da singoli studiosi (non esiste in Italia una vera e propria scuola che approfondisca il problema) sembra che almeno la metà degli etilisti sia composta da persone da 20 a 49 anni; un quinto solo donne. Come si spiega il fenomeno? Secondo gli esperti, nelle campagne del Meridione accade ciò che accadeva nel Settentrione fino a mezzo secolo fa: si beve soltanto di domenica e per stare in compagnia, per carburare il buon umore. Se a Guardialfiera uno si sbronza ogni sera, ci mette 15 giorni a diventare lo scemo del villaggio; come spazio vitale gli resta l'osteria, e forse neanche quella. Ma a Milano, Roma o Torino chi ha voglia e tempo di contare le ciucche del vicino? Purché uno lavori ha diritto di buttarsi nello stomaco ciò che vuole. La tentazione è dietro l'angolo: alla mensa, al bar aziendale, al ristorante, nel mobiletto-bar ricavato da un mappamondo e collocato al centro del soggiorno. E poi la solitudine, l'insoddisfazione, le frustrazioni. Molti ragazzi si bucano perché la cultura del loro ambiente, in fondo, non respinge la droga, e lasciano stare il bicchiere. Ma la persona matura, consapevole dei rischi e della scomodità dell'eroina, compresi l'alto costo e la difficoltà di procurarsela, preferisce l'amaro, che fra l'altro è inodore. L'effetto inebriante è quasi identico, maggiore è la sopportabilità, più lungo il processo di intossicazione e di assuefazione e, per giunta, nessuno si sogna di guardare male il collega sorpreso al bar col digestivo in mano. Inoltre l'eroina comporta obiettive difficoltà d'uso: toilette, siringa, laccio e spacciatore. Un gran daffare. Per bere bastano 1000 lire, c'è un bar ogni 100 metri. Né mancano le opportunità: chiunque può invitare gente a casa sua per assaggiare, dopo una giornata di lavoro, la tale annata di rosso. Sarebbe indubbiamente più imbarazzante dire al proprio direttore: «Senta, l'aspetto stasera, per lei ho deciso di tirare fuori quella canapa che mi ha portato mio cugino dall'Afghanistan». Davanti a un ragazzo morto di eroina sul marciapiedi della stazione, tutti provano pena e orrore; se un ubriaco smarrisce la strada o non riesce a infilare la chiave nella toppa, al massimo ti viene da ridere. C'è gente che trema se inciampa in una siringa gettata via dal tossicomane; una bottiglia fa paura solamente se è piena di benzina. È questione di abitudine. Da bambini ci dicevano, dai un sorso, non vedi come sei pallido. Il vino ci faceva schifo, ma ci costringevano a berlo. Da adolescenti ci invitavano a ballare e dietro le bottigliette di Coca Cola c'era il brandy; il più bullo della compagnia se ne faceva un goccio tra un'Esportazione e un'altra, e finivi per provarlo anche tu. Dava il mal di testa, ma insistevi. Da militare o bevevi o ti rassegnavi agli sfottò. Alcol dappertutto. È naturale che il vino non sia tabù, l'approccio non è traumatico. Se poi il palato è fine e si sanno apprezzare i sapori, bere è un piacere innocuo. Ma è questione di quantità, di misura, di motivazioni. Anche l'alcolista più scatenato ha cominciato per scherzo e nella convinzione di poter smettere quando gli pareva. Probabilmente all'inizio non era il vino che gli piaceva ma Ornella Muti, in mancanza della quale provò a rifarsi con il bianchino d'annata. Al collo della bottiglia avrebbe preferito la mano della ragazza, ma il vino è buon succedaneo, una trappola tremenda che prende soprattutto quelli che temono la realtà e tentano di fuggire. Più sono disperati e più tirano. E più restano invischiati. Nessuno li aiuta: tranne il manicomio, non c'è luogo di cura. Se mancano le strutture per il recupero del drogato, per l'alcolista giunto all'abbruttimento non c'è neanche pietà. Solo derisione e ribrezzo.

LE SCELTE. In molti casi chi beve è alla ricerca di un affetto, e finisce abbracciato a un lampione. Inutile dire tanto a me non può succedere: chiunque può cadere, le difese che pure ciascuno di noi ha non sono mai sufficienti a scongiurare il pericolo. Può bastare un periodo nero, un insuccesso, un lutto, un momento di solitudine e di disperazione: le bottiglie sono come le ciliegie, una tira l'altra. Non ci protegge nemmeno la legge, gli alcolici sono in vendita ovunque e senza limitazioni, dal supermercato alla salumeria, persino in farmacia. Se crolla la volontà, se vacilla il senso etico sono guai seri. Ventimila italiani all'anno muoiono così, per i danni diretti o indiretti dell'alcol. Quattromila sono donne che, fra l'altro, bevono male: amari, anisette, mandarino e cedro, vermouth. E con rabbia: perché il marito sta troppo fuori casa, perché i figli sono cresciuti e non hanno più bisogno di loro, perché non trovano un lavoro e se lo hanno trovato è stata una delusione. E perché al sesto piano di un condominio di Cinisello, una donna di 45 anni o parla con la radio di quartiere o, per non buttarsi giù, si attacca alla bottiglia. A saperlo prendere, Bacco è un buon amico. Altrimenti è un assassino. 

Vittorio feltri per "Libero Quotidiano" il 7 agosto 2020. Ogni paese ha le proprie abitudini alimentari da cui difficilmente si libera. A Bergamo, dove io sono nato e ho trascorso la giovinezza, la domenica si sentiva un forte odore di arrosto. Nelle case si preparava un piatto tradizionale, il coniglio fritto. Non l'ho mai mangiato perché amavo i coniglietti che mio nonno allevava nel suo cortile. Ma questo è un dettaglio personale insignificante. Uccidere gli animali per nutrirsene è comunemente considerata una pratica consolidata e per nulla condannabile, sebbene sia accompagnata da crudeltà orribili. Molti sono golosi di aragoste, esse nei ristoranti sono esposte vive in bella evidenza. Il cliente ne sceglie una e il cuoco la sbatte in un pentolone di acqua bollente e chi inghiotte il povero crostaceo si lecca le dita e sborsa una discreta cifra per pagare la cosiddetta leccornia. Disgustoso, certamente. Non c'è niente come la consuetudine che annulla qualsiasi tipo di sensibilità. Pertanto non mi stupisco che un branco di migranti a Lampedusa sia entrato in una masseria e abbia rubato galline e capre onde trasformarle in lauto pasto. Bisogna condannare il furto, reato grave, però non l'uso alimentare che è stato fatto della refurtiva. La proprietaria della fattoria giustamente ha denunciato i ladri e attende fiduciosa che questi siano sanzionati. Ci mancherebbe. Ma la vicenda non finisce qui. I grassatori in questione, oltre alle bestie citate, hanno stecchito e arrostito perfino il cane della derubata. Già. Il cane. Questo per noi occidentali, italiani in particolare, è ripugnante. Mica siamo cinesi. E il fatto che certi clandestini giunti di sfroso nella penisola ci sottraggano il gatto (è successo un paio di settimane orsono) e lo arrostiscano per strada, e ora si impossessino addirittura del cucciolo di una signora al fine di metterlo in padella non lo tolleriamo. E ci ribelliamo e invochiamo severe pene per coloro che, infischiandosene dei nostri costumi (non del tutto) civili, accoppano bestiole di affezione allo scopo di divorarle. Chi viene abusivamente da queste parti sarebbe almeno obbligato a rispettare il nostro modo di vivere, viceversa ci sbranano il micio e il botolo. Ciò è intollerabile. Non comprendiamo vari compatrioti i quali non solo incoraggiano l'arrivo dei barbari, ma ne auspicano una urgente integrazione. Come faranno a integrarsi individui dediti al furto e allo sbranamento dei nostri animali a cui vogliamo bene quali figli, talvolta di più? L'unica speranza di salvezza è che Salvini torni a menare il torrone e tenga lontana da noi l'orda dei selvaggi imperversanti e incontenibili. Invece che processare il capo della Lega lo isserei di imperio a Palazzo Chigi al posto del foggiano amico di Casalino. Mentre a coloro che non bloccano l'invasione dei neri e similari direi semplicemente che ci hanno rotto le scatole e gradiremmo si accomodassero in Africa a nutrirsi di lucertole, insetti e a dormire nelle capanne acconce alla loro attitudine umana. riproduzione riservata.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 6 agosto 2020. Purtroppo nel nostro Paese non siamo ancora riusciti a conquistare l'immunità di gregge e il virus maledetto ci colpisce tuttora anche se molto di meno rispetto a un recente passato. Però possiamo consolarci: dilaga l'imbecillità di gregge, praticamente è inarrestabile. Ieri il Fatto Quotidiano ha pubblicato due pagine dedicate alla legge in corso di approvazione in Parlamento relativa alla omofobia. Tutto interessante fin dal titolo. Questo: Gay? No, froci. La destra contro il ddl Zan. In effetti gli omosessuali hanno ragione di pretendere di essere chiamati gay, però al di là della definizione rimangono froci e tra di loro si appellano proprio così. E chissenefrega delle parole. I fatti dicono che parecchi maschi preferiscono coricarsi con altri maschi anziché con donne come previsto dalla natura. Non è il caso di scandalizzarsi se uno gradisce l'ano più della vulva, che sarà mai? Tuttavia è assurdo pretendere che la realtà non possa essere descritta con parole popolari italiane e si debba ricorrere ad anglicismi. Lo stesso problema si pone allorché si discuta di sessismo, di cui sono prevalentemente accusati gli uomini che, viceversa, ne sono vittime. In effetti quale è l'insulto più diffuso dalle nostre parti? Testa di cazzo. Una espressione spesso in bocca pure alle signore. Nessuna delle quali ha detto: testa di figa. Anzi, questo sostantivo, sebbene aggettivizzato, ormai è un complimento. Per dire che una cosa è bella si afferma che è una figata. Invece per sostenere che è brutta si afferma che è una cazzata. Non solo. Un bel ragazzo viene gratificato con questa carineria linguistica: è un figo. Quindi ha vinto l'organo femminile su quello maschile, che è dispregiativo. È la dimostrazione che i conformisti del politicamente corretto sono affetti da imbecillità di gregge, non analizzano le questioni lessicali ma le trasformano in pretesti per polemizzare con chi rispetta il dizionario nella convinzione che addolcire le espressioni verbali per apparire più chic sia una idiozia. Perfino il vernacolo più colorito è più digeribile, perché più spontaneo, delle frasi di cui si è appropriata la imbecillità di gregge. Chiudo con un altro esempio. Quando una persona, di entrambi i sessi, è stanca di vivere una situazione sbotta: ne ho pieni i coglioni. Roba maschile. Mai sentito una fanciulla dire: ne ho piene le ovaie. E allora dove è il sessismo? Il popolo vince sempre sul piano della conversazione, poiché il linguaggio corrente viene dal basso e non dall'alto degli imbecilli. Il posteriore si può definire culo, come quello del bicchiere, oppure sedere, ciononostante culo rimane.

Vittorio Feltri sul Meridione: "Cosa amo, cosa non funziona e perché dovrò sempre difendermi dai cretini". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Caro Daniele, intanto complimenti: scrive in modo delizioso e compie osservazioni sensate per cui si rassegni a esser criticato, persino insultato. Ormai nel nostro Paese chi fotografa la realtà con un linguaggio opportuno, che non è mai politicamente corretto, passa per essere razzista o almeno antimeridionale. I meridionalisti di una volta, ne cito due su tutti, Gaetano Salvemini e Corrado Alvaro, la pensavano già come lei, persona intelligente e sensibile. La povertà oramai è diventata una vocazione in alcune regioni, viene difesa e vantata come fosse motivo di orgoglio. In una circostanza in tivù ho affermato che i cittadini del Sud in alcuni casi non soffrono di un complesso di inferiorità, bensì sono inferiori. Il mio non era un discorso antropologico, ma si riferiva al peso economico, organizzativo e sociale. Un territorio che esprime addirittura quattro mafie, siciliana, calabrese, napoletana e pugliese, deve essere indotto a modificarsi: cambiare abitudini, dedicarsi alla produzione di ricchezza, migliorare le condizioni ambientali. Per realizzare tale programma servono infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo, da cui dipende poi la qualità della vita. Il Meridione dispone di notevoli cervelli, copiose eccellenze e molte potenziali risorse. Tuttavia, se la politica sia locale che nazionale non è capace di sfruttare i propri beni, non possiamo applaudirla. L'inferiorità del Sud rispetto al Nord si misura attraverso il reddito pro-capite: in Lombardia 36 mila euro, in Campania 19 mila. Una differenza abissale che pone in risalto l'inadeguatezza della classe dirigente ad affrontare e risolvere i problemi che affliggono i meridionali. Naturalmente le mie frasi di senso comune hanno irritato la maggioranza dei suoi conterranei, i quali mi hanno ricoperto di improperi, convinti che il mio intento fosse quello di offenderli e non quello di stimolarli a reagire. Io sono innamorato del Molise dove ho vissuto a lungo, ne conosco la popolazione sannita, e a Guardialfiera, dove da ragazzo mi recavo, ho fatto di recente una donazione finalizzata a restaurare la campana più antica del pianeta. Ovviamente ho ricevuto affettuosi ringraziamenti dagli amici, però hanno prevalso i rimproveri di altra gente per via delle mie dichiarazioni sulla arretratezza del Mezzogiorno. Così va il mondo. Stimato Daniele, finché varranno di più le parole (male interpretate) dei fatti, lei ed io dovremo sempre proteggerci dai cretini, una maggioranza schiacciante. Le do un consiglio: venga a Milano, che digerisce tutti, perfino me. Un'ultima annotazione che vuole essere spiritosa. Spesso napoletani e calabresi mi dicono che loro, comunque, hanno tante bellezze naturali, tra cui il mare. Vero. Ma mica le hanno fatte loro. Gliele ha regalate il Padreterno, forse dispiaciuto poiché non se le godono né le adoperano come dovrebbero.

Vittorio Feltri contro la legge sull'omofobia: "Condannato perché non la penso come Casalino?" Libero Quotidiano il 27 luglio 2020. Il nostro grande Antonio Socci ha disquisito ieri magistralmente sul tema riguardante l'omofobia, dimostrando con argomenti di ferro quanto sia assurdo e antiliberale approvare una legge che vieti ai cittadini italiani di esprimere opinioni non in linea con quelle di moda, cioè favorevoli a non distinguere il genere delle persone. Non ho molto da aggiungere ai ragionamenti inoppugnabili del nostro valente giornalista, cattolico anticonformista e colto. Però una piccola chiosa ce l'ho sulla punta della lingua. Non riesco a capire per quale arcano motivo un individuo non possa esternare idee omofobe. Intendiamoci, io non nutro avversione nei confronti degli omosessuali. Quando incontro qualcuno non mi chiedo quali siano le sue preferenze tra le lenzuola, delle quali - perdonate la franchezza - non mi importa nulla. Cosa volete che me ne freghi se Francesco ama Mario anziché Maria o se Maria predilige Giovanna anziché Filippo. Tra l'altro non posso disprezzare le lesbiche che hanno i miei stessi gusti. Che senso ha discettare su quello che avviene nel talamo? Sono affari privatissimi, che hanno in comune la politica e il codice penale con le nostre abitudini in camera da letto? Per favore, il Parlamento si occupi del Paese piuttosto che delle pratiche ininfluenti dei paesani. Poi scusate. A me gli alpini sono simpatici, li stimo addirittura, mentre a mio cugino stanno ferocemente sulla scatole e lo sbandiera ai quattro venti. Nessuno si è mai sognato di sottoporlo a procedimento penale. A mio fratello sono antipatici coloro che hanno i capelli rossi e non lo nasconde. Mai nessuno lo ha perseguito. Io detesto l'Ordine dei giornalisti e in genere i giornalisti. È proibito questo mio nobile sentimento? Spero di no. Ciascuno ha i propri orientamenti e non è opportuno impedirgli di rivelarli. Se qualcuno ha in uggia i gay perché mai bisogna punirlo se lo dice? Infine, sarò padrone di affermare che la famiglia più idonea ad allevare un figlio è costituita da un uomo e una donna e non da due signore? Per quale ragione la magistratura deve ficcare il naso nei casi miei, e condannarmi poiché ho una visione che non aderisce a quella di Casalino? Smettiamola con queste bischerate liberticide. Fateci campare come ci piace. 

Vittorio Feltri e "l'incontestabile verità" che la sinistra non vuole far dire: "Proteggiamo l'islam, addio pace". Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 19 luglio 2020. Non sopporto l'islamismo, religione che ritengo insensata, mentre sopporto il cristianesimo perché ha favorito il diffondersi di una cultura civile, a lungo termine. Quando i cattolici arrostivano gli eretici facevano schifo. Adesso fanno schifo i musulmani con la loro passione per le decapitazioni, gli attentati, l'odio per gli occidentali a cui poi chiedono ospitalità. Ma ciò che più stupisce è che noi europei, nonostante tutto, tolleriamo questa gente imbevuta di una fede che la porta a commettere stragi, a incendiare le cattedrali, ad ammazzare chi rispetta il crocefisso. Non solo la tolleriamo, la proteggiamo. In un recente passato sono stato processato e censurato dall'Ordine dei giornalisti per un articolo scritto su Libero in cui deploravo il comportamento e la mentalità di certi seguaci di Allah dediti a umiliare e vessare le donne, senza contare le loro violenze che hanno insanguinato mezza Europa. Incredibile. Mi hanno punito per aver espresso una opinione dai contenuti incontestabili. Significa che gli islamici hanno intimidito anche la libera stampa, piegandola a una ideologia tanto sgangherata quanto potente. Io, cronista da mezzo secolo, non sono autorizzato a criticare persone che trattano le femmine quali schiave, che occupano le nostre città pretendendo di imporre ai locali i propri costumi privi di umanità. Un tribunale speciale costituito da professionisti dell'informazione mi ha sanzionato per aver esposto la mia libera opinione sul modo vergognoso di agire di uomini che suppongono ingenuamente di essere attesi in paradiso da 77 vergini e che si fanno esplodere nella speranza di accelerare i tempi per abbracciarle. Scusate, cari lettori, vi sembra normale che un redattore non possa mettere in ridicolo ciò che tale è? E venga bastonato soltanto perché afferma una verità inconfutabile? Nella mia lunga vita nelle redazioni ne ho viste di ogni colore e ormai non mi stupisco più di niente, però mi domando come mai trionfi sempre di più la stupidità di chi invece dovrebbe difendere la categoria chiamata a raccontare la realtà. La stampa è governata da personaggi quasi tutti di sinistra i quali interpretano il nostro mestiere come riguardasse l'igiene dei loro cessi lordati dal politicamente corretto, parente stretto del soffocamento del pensiero individuale la cui espressione è garantita dall'articolo 21 della Costituzione. Addirittura questi sacerdoti ostili all'anticonformismo si sono inventati un codice deontologico arbitrario e oscurantista che vieta di usare il linguaggio del popolo, ignorando che la parola appunto popolare è l'unica forma di democrazia genuina. Noi reclamiamo il diritto di dire ai musulmani che rifiutiamo la loro maniera di vivere contraria alla nostra cultura.

Vittorio Feltri, addio all'Ordine dei Giornalisti: "Sono nauseato, processato per titoli che non piacciono alla Corporazione". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. Addio all'Ordine dei Giornalisti, Vittorio Feltri si dimette dalla categoria professionale dopo 50 anni di "militanza". Una decisione in polemica con l'Odg stesso, scelta che il direttore di Libero commenta con la AdnKronos. Carlo Verna, il presidente dell'Ordine, ha detto che valuteranno la richiesta di dimissioni. "Ma ci mancherebbe altro, mica è una prigione? Io me e vado dove cavolo mi pare, anche a casa. Il direttore editoriale posso continuare a farlo lo stesso perché lo può fare chiunque, anche un geometra. Mi sono stancato, mi massacrano, mi stufano, mi fanno perdere tempo e devo pagare gli avvocati. Ma andassero a quel paese... non ce la faccio più, basta, fine, non cambierò idea, non torno indietro", ha sbottato il direttore. Dunque, Feltri ha spiegato un poco più nel dettaglio le sue motivazioni: "'Mi rifiuto di essere processato per certe mie espressioni che non vanno a genio alla Corporazione che non mi pare sia abilitata a fare processi di questo tipo - rimarca  -. Vengo processato anche per dei titoli ma si dà il caso che io sia il direttore editoriale e che ci sia un direttore responsabile quindi questi qui non sanno neanche che il direttore editoriale non risponde dei contenuti del giornale". E ancora, aggiunge: "Mi processi per un reato che non posso commettere? Io posso proporre un titolo ma non lo posso imporre. Sono nauseato e adesso ho anche intenzione di querelare tutti quelli che mi hanno ingiustamente tentato di perseguirmi perché non possono attribuire al direttore editoriale compiti che non sono suoi, basterebbe leggere il mio contratto", conclude Vittorio Feltri.

Vittorio Feltri dà l'addio all'Odg: "Nauseato dai processi". Il direttore editoriale di Libero conferma l'addio preannunciato dal direttore del Giornale, Alessandro Salluti, oggi sul Giornale: "Io vado dove mi pare". Alberto Giorgi, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Vittorio Feltri si è dimesso dall'Ordine dei giornalisti. A darne notizia ci ha pensato il suo collega Alessandro Sallusti, direttore de ilGiornale, con un editoriale sul quotidiano oggi in edicola. Il direttore responsabile di Libero saluta e se ne va, dopo cinquant'anni di carriera. Un addio in polemica con l'Odg della Lombardia. Il presidente dell'organo, Carlo Verna, ha così commentato all'Adnkronos la notizia delle dimissioni di Feltri: "Sto presiedendo il Consiglio Nazionale in corso e tra poco parlerò proprio di questa vicenda. Comunque la lettera di dimissioni di Feltri è stata effettivamente depositata al consiglio della Lombardia, ma il Consiglio deve riunirsi per accettarle e cancellarlo". Il diretto interessato, sempre all'Adnkronos, ha replicato alle parole di Verna: "Dice che valuteranno la mia richiesta di dimissioni dall'Odg? Ma ci mancherebbe altro, mica è una prigione. Io me e vado dove cavolo mi pare, anche a casa". La scelta di dare le dimissioni non cambierà il lavoro di Feltri, che dice: "Il direttore editoriale posso continuare a farlo lo stesso perché lo può fare chiunque anche un geometra. Mi sono stancato, mi massacrano, mi stufano, mi fanno perdere tempo e devo pagare gli avvocati. Ma andassero a quel paese...non ce la faccio più, basta, fine, non cambierò idea, non torno indietro". Feltri dice basta per le sanzioni disciplinari e i processi subiti. A tal proposito, il direttore Sallusti sulle colonne del Giornale ha scritto: "Immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l'Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione". "Mi rifiuto di essere processato per certe mie espressioni che non vanno a genio alla Corporazione che non mi pare sia abilitata a fare processi di questo tipo. Vengo processato anche per dei titoli ma si dà il caso che io sia il direttore editoriale e che ci sia un direttore responsabile quindi questi qui non sanno neanche che il direttore editoriale non risponde dei contenuti del giornale", affonda il colpo Vittorio Feltri, che in ultima battuta ha voluto ringraziare Alessandro Sallusti: "Ho letto il suo editoriale che mi è sembrato impeccabile anzi lo ringrazio per la sua presa di posizione in mia difesa".

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2020. Il dado è tratto. Mi sono dimesso dal Disordine dei giornalisti, perché lo ritengo indegno di avermi tra i suoi iscritti. Esso mi ha perseguitato per anni avvolgendomi in una nuvola di fumus persecutionis. Mi ha accusato perfino di aver composto titoli sgraditi ignorando, per sottolineare la sua cultura giornalistica, che il direttore editoriale, quale io sono, fa un altro mestiere e non è perseguibile per i contenuti di un quotidiano, esistendo un direttore responsabile cui per contratto e per legge spetta il controllo di ciò che viene stampato. Questo per dirvi a quale livello sono coloro chiamati a giudicare la correttezza dell'operato dei colleghi. Ciò precisato, me ne vado lo stesso da questa consorteria di gente sconosciuta al pubblico e che nonostante ciò si arroga il diritto di promuovere e bocciare, soprattutto bocciare i cronisti in base alle loro preferenze politiche. Il Consiglio disciplinare dell'Ordine infatti esamina il linguaggio degli articoli e se lo ritiene politicamente scorretto, ovvero non di suo gusto, procede e condanna. L'ente inutile e dannoso si è dato un codice deontologico che si propone di fare la guerra al vocabolario e anche ai concetti che non coincidono con il conformismo progressista dilagante. Io rifiuto questo stile becero e fascista o, meglio, comunista e me ne vado per i fatti miei, non voglio più avere che fare con un tribunale speciale pronto a colpire gli eretici. La mia scelta non mi impedirà di esprimere opinioni da libero cittadino e di esercitare le funzioni di direttore editoriale. Non vedevo l'ora di uscire dalla mefitica prigione in cui ero recluso da 51 anni. Da notare: lo scorso anno l'Ordine mi assegnò la medaglia d'oro per aver dato lustro alla professione, intanto però dava inizio alla recrudescenza della mia persecuzione, peraltro in atto da tempo. Non ho mai ritirato tale benemerenza. Alcuni lustri orsono mi chiamò dicendomi che non potevo assumere il ruolo di presidente degli ippodromi milanesi. Riteneva ci fosse un conflitto di interessi. Feci notare: Indro Montanelli era stato in consiglio di amministrazione della Fiorentina calcio e Enzo Biagi in quello del Bologna. Fui assolto. Poi mi incolparono per la pubblicità di cui ero testimonial per una casa di moda. Documentai che il mio compenso era stato devoluto in beneficienza. Altra assoluzione. Poi il caso Boffo. Fui sospeso ingiustamente per tre mesi. Si dà un caso: Boffo è scomparso mentre io sono ancora qui a litigare coi miei censori. Vi risparmio altri episodi grotteschi. Cito un titolo di Libero: Vieni avanti Gretina. Altro procedimento contro di me benché, ripeto, la pubblicazione del "delitto" sia dipesa non da me bensì dal direttore responsabile. Ovvio, a questo punto preferisco abbandonare questa gabbia di incompetenti. Alla mia età, 77 anni, si sopporta tutto tranne le persone moleste che mi prefiggo di denunciare non appena la vicenda si sarà conclusa. Per me non cambia nulla. Rimango direttore editoriale e consigliere di amministrazione, i miei articoli di cittadino con l'esigenza di esprimere le proprie opinioni, se saranno accettati dal direttore, usciranno. Viva l'Atalanta, abbasso l'Ordine.

Da liberoquotidiano.it il 29 giugno 2020. “Invece di dare lezioni a me, leggi oggi sul Corriere della Sera la rubrica del prof. Aldo Grasso così ti ricorderai di essere un giornalista di serie C”. Vittorio Feltri torna sulla polemica con Carlo Verna, il presidente dell’Ordine dei giornalisti che proprio non riesce a superare l’amarezza per non aver potuto “rieducare” il direttore editoriale di Libero. “Avrei preferito riaccompagnarlo sulla strada giusta”, ha dichiarato Verna in merito alle dimissioni che Feltri ha presentato all’Ordine. C’è chi ha esultato a questa notizia, come Ottavio Lucarelli che da capo delle firme della Campania è arrivato a parlare addirittura di vittoria di Napoli e del Sud. Aldo Grasso è intervenuto sulla vicenda ponendo la domanda più pertinente: esiste una strada giusta nel giornalismo? “Verna lo ricordo come voce di Tutto il calcio minuto per minuto e come conduttore di C Siamo, programma dedicato alla serie C di calcio. Ora, in tutta onestà, non è che parlando di serie C - è il commento di Grasso - uno si debba per forza pavoneggiare di deontologia a schiena dritta, di affettazioni di indipendenza, della libertà di dirsi al di sopra delle parti”.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 giugno 2020. Alla ricerca della strada giusta. Per trovare la strada giusta ho «sfogliato» a lungo Rai Play, sicuro di trovarla. Spiego il perché. Di fronte alle dimissioni di Vittorio Feltri dall’Ordine dei giornalisti, il presidente nazionale dell’Ordine, Carlo Verna ha dichiarato: «Avrei preferito riaccompagnarlo sulla strada giusta». Esiste una strada giusta nel giornalismo? Verna lo ricordo come voce di «Tutto il calcio minuto per minuto» (l’età dell’oro era finita da un pezzo) e come conduttore di «C Siamo», programma dedicato alla serie C di calcio. Ora, in tutta onestà, non è che parlando di serie C uno si debba per forza pavoneggiare di deontologia a schiena dritta, di affettazioni di indipendenza, della libertà di dirsi al di sopra delle parti. Più che altro bisogna fare ascolti, altrimenti si chiude. Già in una radiocronaca sportiva del Servizio pubblico (che da sempre è il bottino di chi vince le elezioni) è difficile trovare la strada giusta, figuriamoci nel vasto mare della stampa e delle tv. Come ha scritto Giuliano Ferrara, «i giornalisti sono dipendenti, la loro indipendenza è un tratto del carattere, se c’è c’è e se non c’è non c’è, ma non è un distintivo professionale o una bandiera editoriale da sventolare con pallido orgoglio e torvaggine virtuosa». Nella ricerca su Rai Play ho però trovato una lunga intervista che Carlo Verna ha concesso al giornalista Gigi Marzullo (nessuno provi a chiedersi come Marzullo è entrato in Rai!). Ecco, quell’intervista la proporrei come libro di testo in tutte le scuole di giornalismo, compresa l’interpretazione dei sogni in chiusura di puntata. A un certo punto, dopo non poche concessioni alla vanità personale, Verna sostiene che «il giornalismo è un bene comune» e che i giornalisti sono come postini: «Recapitiamo il pacco della conoscenza». Purché la conoscenza non sia, come dicono a Napoli, un pacco, doppio pacco e contropaccotto. O è quella la strada giusta?

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 29 giugno 2020. Anche io purtroppo sono stato di sinistra, pertanto conosco bene i polli del recinto progressista, i cui frequentatori con gli anni sono peggiorati per vari e ovvi motivi. Essi un tempo difendevano, almeno a parole, la classe operaia che tuttavia non è mai andata in paradiso. In Italia i compagni, dalla fine degli anni Sessanta all'inizio degli Ottanta, in gran numero ne hanno combinate di cotte e di crude, ricorrendo alla violenza nelle università e nelle piazze nonché alle armi per punire i fascisti e i borghesi, dei quali dicevano: «Non dureranno che pochi mesi». Poi è caduto il muro di Berlino e i rossi si sono sbiaditi, hanno perso il colore purpureo però hanno mantenuto il vizio di sentirsi i migliori fichi del bigoncio politico, i più colti, i più sensibili, gli unici degni non soltanto in Italia di guidare le pratiche democratiche. In realtà sono dei poveracci, poco istruiti come, per esempio, Nicola Zingaretti, capo del Pd, figuriamoci i suoi sodali. Pur di stare in piedi, le brigate rosa, abbandonata la P38 e l'abitudine di organizzare picchetti davanti alle fabbriche in sciopero, si sono inventati il politicamente corretto, consistente nella guerra al vocabolario della lingua di Dante, nella difesa dei clandestini, nell'appoggio insensato al femminismo ormai anacronistico, nella lotta al sessismo, nella promozione dell'omosessualità. Tutta roba ottima da trattare nei salotti delle sciure milanesi, ma altresì in grado di alimentare in forma grottesca il perbenismo già abbastanza dilagante. Ormai è diventato difficile perfino parlare. Se non tessi l'elogio di Greta bensì osi criticarla in quanto non possiede alcuna preparazione scientifica e fa affermazioni fuori da ogni logica, se non manifesti simpatia per le Sardine, se non applaudi al passaggio del corteo inscenato dagli organizzatori dei Gay-pride, vieni insultato a sangue quale retrogrado, addirittura fascista, razzista, sessista eccetera. Chi non si adegua al pensiero dominante e ignorante è considerato immeritevole di appartenere al consesso civile, è una persona da scartare, punire, dileggiare. Le opinioni non in coincidenza con quelle di moda non sono accettate, e coloro che le propagano, specialmente se giornalisti, sono da condannare quanto le bestemmie che, viceversa, sono invocazioni aspre di aiuto dal Cielo. Scherzo, naturalmente. Eppure è incontrovertibile che non vi è pace per quelli che non salgono sul carro della banalità, tanto amato dalla gente che piace alla gente insofferente alle tue idee. È vietato adoperare la propria testa, proibito persino usare un linguaggio non approvato da lorsignori, nelle mani dei quali si giocano i destini della stampa e delle televisioni nazionali, non più libere di essere loro stesse, piuttosto obbligate a piegarsi agli ordini dei padroni e dei predoni delle corporazioni più ignobili e sgangherate della storia patria.

Feltri smaschera la cultura dell’illibertà. Giancristiano Desiderio, 29 giugno 2020, su Nicolaporro.it. L’Ordine – così con la maiuscola – dei giornalisti, gli ordini professionali, il valore legale dei titoli di studio: ma in che razza di Paese viviamo? Se non sei iscritto all’Ordine dei giornalisti puoi scrivere sì, ma non puoi esercitare la professione o hai comunque problemi a farlo e senz’altro non puoi assumere la direzione responsabile di un giornale. Gli ordini professionali, a loro volta, discendono direttamente dalle corporazioni e dividono la società italiana in scatole, categorie, classi che rivendicano le loro prerogative in termini di iscrizioni, tutele, aggiornamento, controllo, esercizio della professione. Il valore legale dei “pezzi di carta”, poi, è un bollo di Stato con cui il merito viene svalutato e l’impreparazione è mascherata con il timbro legale che trasforma la cultura, il sapere, l’educazione in una merce di scambio. Ma che razza di Paese siamo? Diciamocelo con franchezza: un paese con una profonda cultura illiberale e una concezione paternalistica e autoritaria dello Stato. Tuttavia, c’è qualcosa di peggio. E il qualcosa di peggio è la pretesa di far passare questi cascami autoritari come una sorta di garanzia e di indipendenza ora del giornalismo, ora delle professioni, ora della scuola, mentre ne sanciscono la dipendenza e la sottomissione. Il caso Feltri – di questi tempi c’è sempre un caso Feltri da discutere e sembra quasi che il direttore voglia far scoppiare gli scandali per mostrare le assurdità feudali della nostro vita civile – il caso Feltri, dicevo, è emblematico: sceglie di lasciare l’Ordine – così con la maiuscola – e il presidente dell’Ordine, Carlo Verna, dichiara che avrebbe voluto ricondurlo sulla retta via, senza rendersi conto, probabilmente, di ciò che diceva o, forse, rendendosene conto e rivendicando il ruolo. Beh, delle due possibilità non saprei davvero quale sia la peggiore. Ma perché accadono corto-circuiti come questo? Perché la cultura politica italiana non ha mai realmente conosciuto una vera e propria cultura anti-totalitaria ma solo il dogma dell’antifascismo militante in cui il partito comunista e il partito degli intellettuali marxisti da un lato ha scomunicato il fascismo e ogni avversario politico tacitandolo con l’accusa di essere fascista e dall’altro si è appropriato degli stessi istituti dello Stato fascista. Tra questi vi sono proprio l’Ordine dei giornalisti e il valore legale dei titoli di studio ma con una differenza fondamentale: proprio durante l’epoca repubblicana questi istituti vengono portati ad una perfezione illiberale. Sia il giornalismo sia la scuola per vivere non hanno bisogno di questi istituti. Al giornalismo bastano l’articolo 21 della Costituzione e il codice penale, alla scuola invece non serve per nulla lo Stato pedagogo ma un sistema giuridico-istituzionale fondato sulla libertà. Per quanto riguarda, poi, gli ordini delle categorie professionali bastano libere associazioni. Come è possibile che l’Abc della libertà della cultura è in Italia non solo ignorato ma addirittura capovolto? Come è possibile che gli stessi uomini di cultura – di pensiero si sarebbe detto un tempo – siano sempre alla ricerca di autorizzazioni da parte dello Stato o di enti para-statali con cui timbrare le coscienze? È possibile perché non esiste una cultura della libertà. Purtroppo, è fin troppo possibile perché il marxismo italiano ha mirato esattamente a raggiungere questo obiettivo egemonico riconducendo la libertà di pensiero, di espressione, della cultura, della educazione alla sottomissione ad un Partito che mirava a farsi esso stesso società e Stato alimentando la subcultura del potere illimitato perché buono. Il moderno Principe di Gramsci ha vinto fino a diventare abito mentale. Questo veleno – la parola è di Luigi Einaudi – , che altro non è che il capovolgimento del rapporto tra cultura e potere fino a sottomettere la cultura al potere, è entrato così in profondità nella vita civile italiana da ritenere come legittima l’idea che un giornalista libero debba essere ricondotto all’Ordine e la scuola che è sempre libera e pubblica è tale solo e soltanto se è la scuola di Stato. Non a caso i maggiori problemi italiani sono di natura culturale prim’ancora che strettamente politica: giustizia, scuola, lavoro, mercato. Come si fa? Beh, per esempio, nel campo del giornalismo, facendo come Vittorio Feltri. Giancristiano Desiderio, 29 giugno 2020

Alessandro Sallusti per ''il Giornale'' il 26 giugno 2020. Vittorio Feltri non è più giornalista, non nel senso giuridico del termine. Dopo cinquant' anni di carriera si è dimesso dall'Ordine rinunciando a titoli e posti di comando nei giornali, compreso nel suo Libero (lo fondò nel 2000). Perché lo abbia fatto lo spiegherà lui, ma io immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l'Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione. Dovete sapere che per esercitare la professione di giornalista bisogna essere iscritti all'Ordine - inventato dal fascismo per controllare l'informazione - e sottostare alle sue regole deontologiche, che oggi vengono applicate con libero arbitrio da colleghi che si ergono a giudici del pensiero altrui in barba all'articolo 21 della Costituzione, che garantisce a qualsiasi cittadino la libertà di espressione in ogni forma e con ogni mezzo. In pratica puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto. Chi sgarra finisce nelle grinfie del soviet che, soprattutto se non ti penti pubblicamente, ti condanna alla morte professionale. A quel punto sei fritto: nessun giornale può più pubblicare i tuoi scritti e se un direttore dovesse ospitarti da iscritto sospeso o radiato farebbe automaticamente la stessa fine. Se invece ti dimetti dall'Ordine, è vero che non puoi più esercitare la professione - e quindi neppure dirigere -, ma uscendo dal controllo politico puoi scrivere ovunque, senza compenso, come qualsiasi comune cittadino. In sostanza. Per potere continuare a scrivere, Vittorio Feltri - immaginando di essere di qui a poco ghigliottinato, penso io - ha dovuto rinunciare al suo mestiere. Non è un bel giorno per la categoria, che formalmente perde uno dei giornalisti che - piaccia o no - hanno scritto la storia di questo mestiere, successo dopo successo, da trent' anni a questa parte sia come penna sia come direttore. Feltri non è una voce ingabbiabile dentro regole ipocrite e convenzionali? Certo, è per questo che piace. Ogni tanto va sopra le righe? Sì, ma non più di altri ai quali, essendo di sinistra, mai nulla viene contestato. Ha un brutto carattere? Di più, ne sono testimone, ma ben vengano uomini di carattere. Io mi auguro che le centinaia di colleghi ai quali negli anni Vittorio Feltri ha offerto lavoro e insegnato un mestiere, oggi abbiano un sussulto di orgoglio, e da uomini liberi facciano sentire la loro voce; mi auguro che i suoi oppositori aguzzini si vergognino della loro squallida miseria culturale e professionale; mi auguro che Carlo Verna, presidente dell'Ordine - quindi di tutti i giornalisti, non solo di quelli di sinistra - abbia la forza di rifiutare le dimissioni e garantire a un grande collega la libertà che merita, perché se così non fosse da oggi nessuno di noi potrà sentirsi al sicuro. E auguro a Vittorio Feltri di scrivere liberamente, anche da non giornalista, fino a che Dio gliene darà la forza.

Vittorio Feltri si dimette da giornalista: l'annuncio arriva direttamente da Sallusti! Vittorio Feltri, dopo essere finito nel mirino delle critiche per certe opinioni sui meridionali, si è dimesso dal ruolo di giornalista. Francesco Manno il 26 giugno 2020 su areanapoli.it. Vittorio Feltri si è dimesso dall'Ordine dei giornalisti. Lo annuncia Il Giornale che, con un articolo di Sallusti, commenta così la notizia: "Perché lo abbia fatto lo spiegherà lui, ma io immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l’Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione". Feltri si sarebbe dimesso contro i tentativi da parte dell'Ordine dei giornalisti di reprimere le sue parole. Ecco quanto si legge su un articolo di Sallusti per Il Giornale: "Dovere sapere che per esercitare la professione di giornalista bisogna essere iscritti all'Ordine e sottostare alle sue regole deontologiche, che oggi vengono applicate con libero arbitrio da colleghi che si ergono a giudici del pensiero altrui in barba all’articolo 21 della Costituzione, che garantisce a qualsiasi cittadino la libertà di espressione in ogni forma e con ogni mezzo. In pratica puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto. Chi sgarra finisce nelle grinfie del soviet che, soprattutto se non ti penti pubblicamente, ti condanna alla morte professionale. A quel punto sei fritto: nessun giornale può più pubblicare i tuoi scritti e se un direttore dovesse ospitarti da iscritto sospeso o radiato farebbe automaticamente la stessa fine. Se invece ti dimetti dall’Ordine, è vero che non puoi più esercitare la professione – e quindi neppure dirigere -, ma uscendo dal controllo politico puoi scrivere ovunque, senza compenso, come qualsiasi comune cittadino. In sostanza. Per potere continuare a scrivere, Vittorio Feltri – immaginando di essere di qui a poco ghigliottinato, penso io – ha dovuto rinunciare al suo mestiere".

Dimissioni di Feltri, il pianto greco di Sallusti: "L'Ordine voleva imbavagliarlo". Il direttore de Il Giornale: "Puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto". Globalist il 26 giugno 2020. Facendo una rapida carrellata dei titoli offensivi scelti da Vittorio Feltri per il suo giornale Libero, è difficile scegliere quale sia il più disgustoso, se quel "patata bollente" riferito a Virginia Raggi, oppure quel surreale "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Senza contare le volte in cui Feltri è stato offensivo a parole, come quando ha detto che Milano è "un vivaio di finocchi". Vittorio Feltri è imbarazzante per la categoria giornalistica, eppure Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, è convinto che fosse suo diritto approfittare della sua posizione di giornalista per offendere e umiliare il prossimo. "Dovete sapere che per esercitare la professione di giornalista bisogna essere iscritti all’Ordine – inventato dal fascismo per controllare l’informazione – e sottostare alle sue regole deontologiche, che oggi vengono applicate con libero arbitrio da colleghi che si ergono a giudici del pensiero altrui in barba all’articolo 21 della Costituzione, che garantisce a qualsiasi cittadino la libertà di espressione in ogni forma e con ogni mezzo", sostiene Sallusti. Per poi aggiungere: "In pratica puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto. Chi sgarra finisce nelle grinfie del soviet che, soprattutto se non ti penti pubblicamente, ti condanna alla morte professionale. A quel punto sei fritto: nessun giornale può più pubblicare i tuoi scritti e se un direttore dovesse ospitarti da iscritto sospeso o radiato farebbe automaticamente la stessa fine". E infine: "Se invece ti dimetti dall’Ordine, è vero che non puoi più esercitare la professione – e quindi neppure dirigere -, ma uscendo dal controllo politico puoi scrivere ovunque, senza compenso, come qualsiasi comune cittadino. In sostanza. Per potere continuare a scrivere, Vittorio Feltri – immaginando di essere di qui a poco ghigliottinato, penso io – ha dovuto rinunciare al suo mestiere". Una manipolazione della realtà difficile da credere, che parte da un assunto tipico del pensiero di destra: che libertà di parola significa libertà di dire ciò che si vuole, non importa quanto offensivo e lesivo della dignità altrui sia. Si dovrebbe imparare da piccoli che le libertà non sono assolute, ma terminano quando iniziano quelle degli altri. Individui come Feltri e Sallusti sono evidentemente convinti invece che libertà significhi insulto libero. Che Virginia Raggi, definita sulle pagine di Libero "patata bollente", doveva stare zitta e buona perché Feltri stava esercitando la sua libertà di essere sessista.

Vittorio Feltri lascia l'Ordine dei Giornalisti, lo sfregio di Ottavio Lucarelli: "Una vergogna per Napoli". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. La notizia del giorno? Vittorio Feltri si dimette dall'Ordine dei Giornalisti, in polemica con la Corporazione. La vergogna del giorno? Quella di Ottavio Lucarelli, presidente dell'Odg della Campania, che sul proprio profilo Facebook esulta per la decisione del direttore. E scrive: "Feltri si dimette da giornalista. Una vittoria del presidente nazionale Carlo Verna, una vittoria dell’Ordine della Campania che ha presentato il primo esposto, una vittoria per l’informazione pulita, per Napoli e la Campania". Insomma, Lucarelli tratta la questione alla stregua di una partita di calcio, parla di "vittoria", si riempie la bocca di "informazione pulita", ancora piccato per le stoccate del direttore nel confronti del Meridione. Una vergogna sulla quale è inutile spendere altre parole.

Vittorio Feltri si dimette dall'Ordine dei giornalisti, il presidente Verna: "Volevamo accompagnarlo a una maggiore attenzione. C'è una causa per danno d'immagine". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. "Avremmo preferito accompagnare Vittorio Feltri su una strada di  maggior attenzione alle norme della professione". Il direttore editoriale di Libero si dimette dell'Ordine dei giornalisti e il presidente dell'Odg Carlo Verna la prende così. "Oltre alle numerose azioni disciplinari in corso nei suoi confronti, recentemente il Consiglio Nazionale ha dato mandato legale per valutare un eventuale danno di immagine all'intera categoria causato da alcune sue ripetute e circostanziate esternazioni. Una volta al di fuori della categoria Feltri potrà tranquillamente continuare ad esprimere liberamente le sue opinioni come prevede l'Articolo 21 della Costituzione. È ovvio che la responsabilità di quello che scriverà si sposta sui direttori responsabili delle testate che lo ospiteranno; come avviene per i tantissimi non giornalisti che ogni giorno, sulla carta stampata o in tv, esprimono liberamente le proprie idee".

FELTRI SI DIMETTE E NON SARÀ PIÙ GIORNALISTA, MA L’ORDINE NON MOLLA: “MANDATO LEGALE CONTRO DI LUI”. Feltri si dimette e non sarà più giornalista, ma l’Ordine non molla: “Mandato legale contro di lui”. Redazione Bufale il 26 Giugno 2020.

Feltri si dimette e non sarà più giornalista, ma l’Ordine non molla: “Mandato legale contro di lui” Bufale.net. La notizia del giorno nel mondo della comunicazione in Italia si riferisce indubbiamente a Vittorio Feltri che si dimette. Il Direttore di Libero, infatti, a breve non potrà più essere considerato giornalista, anche se si apprende che continuerà a scrivere i suoi editoriali. Troppo veementi, evidentemente, le polemiche innescata da alcune sue recenti uscite contro i meridionali, come avrete sicuramente notato alcune settimane fa quando questo volto noto perse il controllo in diretta TV durante la trasmissione condotta da Mario Giordano.

Feltri si dimette: la reazione dell’Ordine dei Giornalisti. Ci sono due cose da riportare a margine dell’annuncio con Feltri che si dimette dall’Ordine dei Giornalisti. In primo luogo, come evidenziato dal diretto interessato in giornata, continuerò a fare il direttore editoriale, in quanto le leggi attuali prevedono che lo possa fare “anche un geometra”. In particolare, continuerà a scrivere editoriali quando ne avrà voglia, nonostante non sarà più un giornalista. Potrà procedere a titolo gratuito, mentre la responsabilità su quello che pubblicherà andrà a ricadere sul Direttore Responsabile del giornale. Chi pensava che le dimissioni di Feltri avrebbero fatto cambiare approccio all’Ordine dei Giornalisti, però, sbaglia di grosso. In serata, infatti, sono arrivate le dichiarazioni del presidente, Carlo Verna, il quale ha dapprima precisato che avrebbe preferito indurlo semplicemente ad una maggiore attenzione sulle dichiarazioni rilasciate. Successivamente, ha lasciato intendere che l’OdG non farà passi indietro dal punto di vista legale: “Oltre alle numerose azioni disciplinari in corso nei suoi confronti, recentemente il Consiglio Nazionale ha dato mandato legale per valutare un eventuale danno di immagine all’intera categoria causato da alcune sue ripetute e circostanziate esternazioni”. Verna ha anche confermato che, una volta accettate le dimissioni di Feltri, l’Ordine dei Giornalisti continuerà a monitorarlo, anche se a quel punto la responsabilità di quello che pubblicherà cadrà inevitabilmente sulle spalle del Direttore Responsabile. Figura differente rispetto a quella che andrà a ricoprire Feltri, per sua stessa ammissione destinato ad essere Direttore Editoriale.

Feltri si dimette, è una furbata: sarà più libero di scrivere “editoriali” offensivi. Da Francesco Pipitone Giovedì 26, 2020 su vesuviolive.it. Vittorio Feltri ha deciso di dimettersi da giornalista. Le sue dichiarazioni e suoi “editoriali” di chiara matrice discriminatoria, se non proprio razzista, hanno scatenato polemiche e procedimenti disciplinari da parte dell’Ordine dei Giornalisti, delle vere e proprie scocciature dalle quali l’ex direttore di Libero si è deciso a svincolarsi. Questo, tuttavia, non significa che non potrà più scrivere né che non potrà parlare in televisione. Nemmeno che non potrà essere pagato per farlo. La libertà di espressione è un diritto costituzionale e non è riservato solo ai giornalisti, giustamente, ma in questo caso vediamo l’altra faccia medaglia che consiste in una maggiore autonomia per Feltri di poter dire quello che gli pare. Ossia redigere articoli razzisti e diffamatori senza avere seccature nell’immediato. La sola differenza è che non lo farà da giornalista, una consolazione di forma ma nella sostanza inutile, poiché non ha effetti tangibili nella realtà. Vittorio Feltri resta perseguibile civilmente e penalmente nel caso in cui si rendesse responsabile di qualche illecito, tuttavia i tempi della giustizia e le difficoltà nell’individuazione del soggetto offeso giocano dalla parte dell’ex giornalista. Uno conto è, infatti, la diffamazione nei confronti di una persona determinata, un altro è quella nei confronti di entità come “i napoletani”, “i meridionali”, “gli immigrati”. Insomma, uno stratagemma arguto per restare impunito.

Vittorio Feltri si dimette da giornalista. Shock le sue frasi: da "zoo pieno di terroni" a "nonostante sia di Foggia". Feltri da parecchio tempo era direttore editoriale. Si è reso protagonista di frasi e dichiarazioni sconcertanti contro il Sud, i foggiani e Conte. Lo riporta "Il Giornale" di Sallusti. Redazione il 26 giugno 2020 su foggiatoday.it. Vittorio Feltri lascia l'ordine dei giornalisti. A rivelarlo in prima pagina 'Il Giornale': "Feltri si dimette da giornalista": "Dopo cinquant'anni di carriera - scrive in un editoriale Alessandro Sallusti - si è dimesso dall'ordine rinunciando a titoli e posti di comando nei giornali, compreso nel suo Libero (lo fondò nel 2000). Perché lo abbia fatto lo spiegherà lui, ma io immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l'ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione". Vittorio Feltri si è reso protagonista di lunga serie di frasi provocatorie, discriminatorie e sconcertanti all'indirizzo dei meridionali, del premier Giuseppe Conte e dei foggiani: "Da manutengoli ingordi" a "I meridionali sono inferiori", dalla "Dittatura romanfoggiana" a "zoo pieno di terroni", da "addirittura ben vestito nonostante sia di Foggia" e via discorrendo. Feltri da parecchio tempo in ogni caso non era più direttore responsabile dei quotidiani per cui lavorava ma “soltanto” direttore editoriale. Sallusti - secondo il quale le dimissioni Feltri arrivano quindi per protestare contro il tentativo di bavaglio nei confronti del direttore editoriale di Libero - ha aggiunto: "Io mi auguro che le centinaia di colleghi ai quali negli anni Vittorio Feltri ha offerto lavoro e insegnato un mestiere, oggi abbiano un sussulto di orgoglio, e da uomini liberi facciano sentire la loro voce; mi auguro che i suoi oppositori aguzzini si vergognino della loro squallida miseria culturale e professionale; mi auguro che Carlo Verna, presidente dell’ordine – quindi di tutti i giornalisti, non solo di quelli di sinistra – abbia la forza di rifiutare le dimissioni e garantire a un grande collega la libertà che merita, perché se così non fosse da oggi nessuno di noi potrà sentirsi al sicuro. E auguro a Vittorio Feltri di scrivere liberamente, anche da non giornalista, fino a che Dio gliene darà la forza"

Chi è la moglie di Vittorio Feltri? Ecco la donna che gli ha ridato il sorriso. Angela Marrelli il  24 Giugno 2020 su meteoweek.com. Vittorio Feltri l’ha sposata dopo la morte della prima moglie, scomparsa prematuramente dopo il parto. Conosciamo meglio Enoe Bonfanti, colei che ha ridato il sorriso al direttore di Libero.

La seconda moglie di Vittorio Feltri. Si sa qualcosa di Enoe Bonfanti solo attraverso le parole di suo marito Vittorio Feltri, essendo lei, una donna molto riservata. E’ il secondo matrimonio per il direttore di Libero, che dura da oltre 50 anni, con estrema solidità. Feltri ha sposato Enoe in vedovanza: Maria Luisa, la prima moglie, morì giovane dopo il parto, lasciandogli due figlie, Saba e Laura, oltre a un dolore incolmabile. Enoe arrivò nella sua vita per ridargli il sorriso e dalla loro unione nacquero Mattia e Fiorenza. La donna ha cresciuto tutti e quattro figli del giornalista amorevolmente.

L’ incontro con Enoe Bonfanti. Vittorio Feltri proprio in un’intervista rilasciata a Domenica Live, ricorda così il momento del loro incontro: “È successo così, sono rimasto vedovo, una parola orrenda, con due figlie. Nella disgrazia, però, ho avuto la fortuna di incontrare una donna che mi ha salvato la vita che è la mia attuale moglie.” Ha raccontato il giornalista. Poi ha aggiunto: “All’epoca, lavoravo al brefotrofio, il luogo dove partorivano le donne che non intendevano riconoscere il bambino, mia moglie ha cominciato ad occuparsi delle mie figlie con molta delicatezza e io ho iniziato ad occuparmi di lei. All’inizio, lei non voleva ma io sono stato cocciuto. E la cosa è durata poco, una cinquantina d’anni…”.

Un matrimonio lungo oltre 50 anni. Di loro non si parla molto perché nessuno della famiglia Feltri ama il mondo della televisione e le luci dei riflettori e pertanto è difficile leggere qualche gossip che li riguarda. Una cosa certa è che il matrimonio tra Vittorio Feltri ed Enoe Bonfanti è uno dei più duraturi che ci sono nel panorama italiano. Tuttavia qualche indiscrezione è arrivata su Enoe: la donna ha vissuto a Ponteranica Alta (in provincia di Bergamo) per tanto tempo, insieme ai suoi cari. La villa, immersa nel verde e lontana dalla città, pare sia stata messa in vendita da Vittorio Feltri per agevolare un trasferimento nel capoluogo lombardo. Ma le informazioni finiscono qua, tranne per una curiosità: la coppia ha una passione che li accomuna ed è l’amore per i gatti, tanto che Vittorio Feltri avrebbe definito la sua, una famiglia di “gattolici”.

Vittorio Feltri, la differenza tra le piazze rosse e quella di Meloni e Salvini: "Perché detesto il comunismo".  Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 giugno 2020. Le manifestazioni di piazza non mi sono mai piaciute. Quando ero poco più che un ragazzo a Bergamo, città democristiana, partecipai a una sfilata del primo maggio. Indossavo un abito blu e nell'occhiello della giacca avevo infilato un fiore rosso, per far capire a tutti che ero di sinistra. Lo ero davvero. Se non che un omone sgraziato mi si avvicinò e mi apostrofò: senti Ciccio, questa è la festa dei lavoratori, non dei figli di papà. Gli risposi senza esitare: io il papà nemmeno ce l'ho perché è morto quando ero un bambino, se mi insulti gratis si vede che tu sei un figlio, non di papà, ma di puttana. Il tipo rimase di stucco, poi disse: sei tu che offendi me. E io ti prendo a schiaffi. La mia replica fu secca: e io te li restituisco, così restiamo in pareggio. Il personaggio scoppiò a ridere. Mi chiese: sei comunista? Replicai senza astio: sono socialista, Lombardiano, ti secca? Lui, continuando a ridere aggiunse: allora sei un compagno. Io di rimando: pensavi che fossi qui a fare compagnia a te, coglione. Sciolto il corteo in piazza Vittorio Veneto, andammo insieme al bar Savoia a bere l'aperitivo e fraternizzammo. Strada facendo egli dichiarò: si vede che hai studiato, hai la lingua affilata. Ero in imbarazzo, aggiunsi solo che studiare senza capire non serve a un cazzo, meglio lavorare, insegna di più. Ogni tanto lo incontravo sul Sentierone, lo struscio di Bergamo, e per me era un piacere. Due anni fa appresi che era morto di cancro. Provai un dolore immenso uguale a quello che ora mi lacera il petto ricordandomi di questo operaio che si ruppe la schiena per mantenere il figlio all'università, ora ingegnere. Ho raccontato questa storia per un motivo semplice: non ho odiato mai i comunisti, ma ho detestato il comunismo per la sua supponenza ideologica, quasi fosse una religione autorizzata ad allontanare con disprezzo gli eretici. La sinistra ha perso per fortuna i propri connotati bolscevici e me ne rallegro. Tuttavia ha mantenuto il vizio di considerare indegni coloro che progressisti non sono, preferendo altre correnti politiche, per esempio quella della Meloni, Fratelli d'Italia, e quella di Salvini, Lega. Ieri in vari luoghi del Paese si sono registrati raduni in varie piazze. Ebbene quelle tinte di rosso sono state valutate opportune, addirittura da applaudire, mentre quelle della destra sono state liquidate quali schifezze censurabili. Perché? Perché sì. Non c'è discussione. Gli eredi di Stalin e di Togliatti sono esseri superiori e sono autorizzati a organizzare manifestazioni pubbliche, ovviamente legittime e meritevoli di applausi, mentre chiunque altro si raduni in piazza è da vituperare. La democrazia non deve distinguere tra buoni e cattivi, è obbligata, per essere tale, a tollerare chiunque non ne rifiuti i principi. Il 2 giugno è la festa della Repubblica che sconfisse la monarchia anche con i voti dei repubblichini di Salò, tanto per essere chiari. Già il fascismo, pur deprecabile, era repubblicano. Sappiatelo.

Vittorio Feltri su Attilio Fontana: "Prendersela con lui e con la Lombardia fa comodo a chi odia il Nord". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 maggio 2020. Il presidente della Regione Lombardia viene quotidianamente bersagliato dalla sinistra, specialmente la più estrema, la quale ha perfino scritto su un muro che si tratta di un assassino. Dopo di che i progressisti danno degli odiatori ai propri avversari. Attilio Fontana in realtà è una persona mite, un amministratore avveduto che non ha mai calpestato bucce di banana neanche per sbaglio. Ha contrastato come ha potuto, fin dall'inizio e in opposizione al governo, il virus mediante i mezzi di cui disponeva. Purtroppo da queste parti il morbo ha colpito duro, più che altrove, per il semplice fatto che qui il numero degli abitanti sfiora gli 11 milioni, la gente vive a stretto contatto e il contagio dunque è molto più facile e rapido. D'altronde Milano (Mediolanum) è al centro di un territorio nevralgico dove transitano tutti i commerci tra il centro Europa e l'Europa meridionale, ovvio che la densità umana superi quella della Basilicata con le conseguenze del caso. La nostra sanità locale non ha nulla da invidiare ad alcuna nazione continentale, e se il Covid ha provocato una strage ciò è dovuto alla sua misteriosità. E ancora oggi fa paura poiché è sconosciuto e quindi difficile da prevenire e debellare. La dimostrazione che la malattia sia devastante dovunque si manifesti è data dalla circostanza che negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Spagna e in numerosi altri Paesi le vittime del Corona sono state e continuano ad essere una massa pressoché incalcolabile. Basta questo per dire senza ombra di dubbio che l'Italia, per quanto rallentata e afflitta da una burocrazia ottusa, non si è comportata meno virtuosamente di tante altre nazioni. Il problema risiede nella qualità perniciosa dell'infezione che ha colto impreparati perfino i più stimati scienziati, non nell'imperizia dei politici, per quanto incompetenti. Cosicché prendersela con i lombardi può far comodo a chi detesta il Settentrione, causa acrimonia economica e sociale, tuttavia non ha alcun senso. Infatti la nostra regione seguita ad essere meta di tanti meridionali che preferiscono farsi curare a Milano per un banale motivo: qui la sanità garantisce risultati nettamente superiori. Tra l'altro, conviene ricordare che il capoluogo lombardo conta un milione e mezzo di residenti, però i milanesi non superano le 70 mila unità. Tutti gli altri che vi sbarcano il lunario provengono da lontane province, specialmente del Sud, e qui lavorano sodo confermando che antropologicamente non sono affatto inferiori ai nordici, ma semplicemente hanno abbandonato le loro terre in quanto esse offrono minori opportunità di impiego, di qui la mia affermazione in tv che nel Mezzogiorno esiste una oggettiva inferiorità economica, sociale e perfino civile, visto che le mafie in varie zone la fanno da padrone, essendo più efficienti e organizzate dello Stato. Chi lo nega ha le fette di salame sugli occhi. Ci auguriamo che i dissidi tra settentrionali e meridionali siano soltanto pretesti sciocchi per alimentare un campanilismo le cui origini risalgono all'epoca dell'Italia dei Comuni. riproduzione riservata.

Secessione, la previsione di Vittorio Feltri: senza fretta ma prima o poi il Nord lascerà l'Italia. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 aprile 2020. Stupefacente il titolo de la Repubblica di ieri: "Italia, quanta fretta". Dopo due mesi di detenzioni, cosa mai successa a memoria di vivente, mi sembra normale che i reclusi ne abbiano piene le scatole, non tanto di stare barricati tra le mura domestiche, quanto di non poter lavorare e guadagnarsi il pane che inizia a scarseggiare. Qui al Nord in particolare la gente è impaziente: non riscuote più lo stipendio, i piccoli risparmi familiari si sono esauriti, ovvio che punti a riprendere le proprie attività, questione di sopravvivenza. Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica pur con tutte le protezioni che evitino nuovi contagi. Tra l' altro, in vari Paesi flagellati quanto il nostro dal virus si è ricominciato o si sta ricominciando a produrre sotto la spinta della necessità.  Non si capisce per quale motivo i compatrioti debbano essere accusati di avere le fregole, cioè ansia di ripartire per la libidine di recarsi in cantiere o in ufficio. Queste sono fandonie spacciate per analisi sociologiche, mentre la realtà è che un popolo operoso e generoso quale quello settentrionale desidera soltanto rimpadronirsi delle proprie redini e continuare nella propria esistenza di persone perbene, non di gregari. La mentalità corrente specialmente al Sud è nota: il Meridione è una terra affascinante e ricca di umanità, invece la Pianura padana e le Prealpi sono abitate da uomini e donne che puntano solo al denaro, fregandosene degli stornellatori. Il loro Dio sono profitto e fatturato. Luoghi comuni, pregiudizi che rivelano una preoccupante mancanza di informazioni esatte oltre che di cultura autentica. I "nemici" nostri però non devono esagerare, perché prima o poi i bollenti spiriti bossiani rischierebbero una nuova edizione. Monta a Milano, Bergamo, Brescia, Padova, Treviso eccetera la ribellione alla dittatura romanfoggiana. Nelle succitate zone è sul punto di maturare la volontà di mandare al diavolo la capitale e dintorni, prende corpo la minaccia di non fornire più un euro agli spreconi che amministrano male lo Stato. Il primo ad aver lanciato l' allarme è Fedriga, governatore leghista del Friuli, il quale ha dichiarato di tagliare l' invio nella Città eterna di qualsiasi contributo. Ha talmente ragione che a lui si sono uniti subito, nel nobile intento di fottersene del governo, il Trentino e l' Alto Adige. Manca soltanto la Lombardia per creare una frattura tra le due Italie divise da una antipatia reciproca che si era sopita e che le polemiche sul virus hanno risvegliato in modo drammatico. Attenzione, manutengoli ingordi, a non tirare troppo la corda poiché correte il pericolo di rompere il giochino che fino ad ora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata.

Feltri e Senaldi: “Al nord si vuole lavorare, non si suona il mandolino”. Salernonotizie.it il 19 Aprile 2020. “Le parole diffuse pubblicamente da Feltri in un editoriale e Senaldi in Tv fanno rabbrividire. Hanno dichiarato che il Nord “vuole riaprire per lavorare, non suonare il mandolino” e che “il Sud non si pone il problema perché non ha aziende”. Affermazioni di una gravità inaudita, che denotano un razzismo e cialtronismo estremo, oltre ad essere insensate e prive di alcun fondamento. Gente come loro camminerebbe sui cadaveri pur di far soldi. Solo la Lombardia ha il 94% dei nuovi malati da Covid in Italia, hanno infettato una nazione a causa di politiche irresponsabili. E questa gente, invece di chiedere scusa, si sente in diritto di dare lezioni a chi, come le regioni del sud, ha impedito il dilagare del virus e dei morti. Pensassero alle loro colpe, agli errori fatti, prendessero esempio dalla Campania, che sta svolgendo un lavoro egregio, piuttosto che diffamare gratuitamente il mezzogiorno d’Italia come fanno da settimane per nascondere la propria incapacità”. E’ quanto dichiarato da Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi e il conduttore radiofonico Gianni Simioli in merito alle ennesime affermazioni discriminatorie di Feltri e Senaldi.

Forgione travolge Feltri: "Minacce da Bergamo. Nonno Vittorio ha fretta di riaprire la Lombardia". Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano, ha commentato il recente articolo di Vittorio Feltri su Libero. Areanapoli.it il 19 aprile 2020. "Minacce da Bergamo", Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano, ha commentato con un post sui social il recente artico di Vittorio Feltri su Libero nel quale si augura una presta ripartenza della Lombardia. Ecco le parole di Forgione: "Dalla sua scrivania orobica, il giornalista infeltrito scrive per il suo giornale di fretta di riaprire la Lombardia, la regione che ha fatto danni perché non aveva alcuna fretta di chiudere, anzi, alcuna voglia. Bisogna riaprire in fretta, magari procurando altri problemi, e poi, senza fretta, lasciare l'Italia. Ci racconta, nonno Vittorio, che la gente è impaziente per riprendere a guadagnare, "in particolare al Nord", come se altrove si campi d'aria, e la pensa esattamente così chi scrive che "non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica". Dice che l'umanità dell'affascinante Meridione e la bramosia di denaro della Pianura Padana e delle Prealpi sono solo luoghi comuni, lui che per i luoghi comuni sui meridionali ha reso noto se stesso e il suo giornale". Forgione prosegue: "Avverte che lassù, tra le valli lombarde e venete, monta "la ribellione alla dittatura romanfoggiana"; insomma, una ritorno agli slogan della Lega Nord riposti per convenienza nel cassetto dal furbacchion Salvini. Informa che "manca soltanto la Lombardia per creare una frattura tra le due Italie divise da una antipatia reciproca che si era sopita e che le polemiche sul virus hanno risvegliato in modo drammatico". E conclude minacciando il Sud, che senza il Nord andrebbe "a ramengo" e farebbe "una brutta fine, per altro meritata". Echi che arrivano da Bergamo, una delle città che più soffrono e che merita la solidarietà di tutti a prescindere, anche per la sfortuna di essere rappresentata da qualche incompetente che ha scherzato con il virus e pure da certe penne, capaci di condizionare l'opinione delle persone meno libere di pensiero, di dividere e alimentare la debolezza del Paese. Ma che, non va dimenticato, resta pur sempre "la Città dei Mille", il centro italiano che più di tutti ha contribuito ad armare Garibaldi affinché invadesse il Sud. Prima hanno voluto che si facesse quest'Italia di colonizzatori e colonizzati e ora, una volta spremuto il limone, minacciano di dividerla. Senza fretta, però, non sia mai che il Sud smette di comprare merci e servizi del Nord. Finisce che il Nord va "a ramengo" appresso al Sud. Senza fretta, nonno Vittorio".

L’originale editoriale di Feltri: “Al Nord non si suona il mandolino, bensì si torna in fabbrica”. La risposta di Troisi: “A Napoli tutte queste chitarre e mandolini che camminano in strada sono pericolose”. Arn.Capez. su Ladomenicasettimanale.it il 19 Aprile 2020. Abbiamo capito da tempo. Il Quotidiano Libero per tentare di vendere qualche copia in più e motivare le truppe secessioniste, evidentemente, legate alla prima Lega quella dell’ideologo Gianfranco Miglio ogni tanto – ormai è un classico decadente – affida a Vittorio Feltri, il solito editoriale aterosclerotico domenicale. Questa volta il direttore – sul cui capo pendono diversi provvedimenti disciplinari – allieta i suoi lettori con l’articolo: “Senza fretta, ma il Nord se ne andrà”. La minestra è riscaldata, l’approssimazione tanta e la trama è maliconicamente sempre la stessa: Un Nord operoso ed efficiente, un Sud che non vuole fare un emerito cazzo. “Qui al Nord in particolare la gente è impaziente, non riscuote più lo stipendio, i piccoli risparmi familiari si sono esauriti, ovvio che punti a riprendere le proprie attività, questione di sopravvivenza – scrive Feltri – Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica pur con tutte le protezioni che evitino nuovi contagi”. Soliti luoghi comuni, frasi fatte, rappresentazione retorica di un Sud e un Meridione nullafacente. Quel “suonare il mandolino” porta dritto a Napoli, uno strumento musicale che, non tutti sono in grado di suonare, della grande tradizione partenopea. Vittorio Feltri non lo sa, ma il napoletano prova simpatia per un tipo come lui : quei capelli canuti, l’essere un po’ burbero, con la puzza sotto al naso, antipatico al punto giusto e che guarda dall’alto verso il basso con la parlata da profondo "Norde". Un personaggio perfetto per mettere in atto qualche consiglio del saggio Don Ersilio (Eduardo De Filippo) dell’Oro di Napoli. La faccenda si chiuderebbe con un ‘pernacchio’ di cuore e di testa che tradotto suona : “Tu sì ‘a schifezza ‘ra schifezza ‘ra schiefezza ‘ra schifezza ‘e l’uommn. Mi spiego?”. Ma sembra una risposta troppo scortese allora meglio prendere in prestito una riflessione di Massimo Troisi che ospite di Pippo Baudo a metà degli anni Ottanta – parliamo di 35 anni fa – risponde alla sua maniera agli obsoleti luoghi comuni. “A Napoli la gente continumante suonano e cantano infatti in mezzo alla strada tutti quanti camminano con i mandolini e le chitarre. Vanno avanti e indietro eppure questo è difficoltoso: immagina nei pullman, negli uffici con queste chitarre e mandolini diventa pericoloso. Il manico della chitarra è pericoloso per i bambini principalmente perchè urta e gli danno il manico sempre dietro la testa”. Arn.Capez.

La controffensiva del Nord continua: “Il Sud cosa deve riaprire? Non ha aziende”. Arn.Capez. su Ladomenicasettimanale.it il 19 Aprile 2020. Una controffensiva contro il Sud d’Italia. Il livore si sta trasformando in un odio cieco, c’è una strategia ben orchestrata per mettere pezzi d’Italia dilaniati dal virus uno contro l’altro. Pietro Senaldi, direttore del Quotidiano Libero, degno alunno ma senza talento del suo maestro Vittorio Feltri, ospite della trasmissione ‘Stasera Italia’ in onda su Retequattro ha spiegato perchè le regioni del Nord scalpitano e vogliono la fine del lockdown a differenza, invece, del Mezzogiorno d’Italia. “La Lombardia che paga il 25% di tasse è la regione economicamente più attiva si ponga questo problema”. “Il Sud mi sembra normale che non si ponga il problema ormai non ha più aziende, aveva l’Ilva e gliel’hanno levata. Che cosa deve riaprire?” La controffensiva contro le regione del Mezzogiorno d’Italia continua e qualche manina vorrebbe scippare anche la quota del 34% di investimenti pubblici riservati al meridione per finanziare la ripresa economica del dopo Covid19 al Nord, epicentro della pandemia da Coronavirus. Arn.Capez.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2020. Barbara Lezzi è una signora di Lecce, la più bella città pugliese, dotata di un barocco talmente affascinante da togliere il fiato. Ma Barbara, ex ministro per il Sud nel primo governo Conte, opportunamente trombata dal premier, si è appunto rivelata indegna di presiedere un dicastero e ora passeggia nell' area parlamentare priva di un compito fisso. Tuttavia ella continua a far parte della banda grillina, ridotta ai minimi termini, dai cui seggi conferma di rendersi inutile, anzi dannosa. Senza contare le sue apparizioni televisive durante le quali sputa sentenze sprovviste di qualsiasi logica politica. Poveraccia, va capita. Come tutti coloro che non hanno una adeguata preparazione culturale, Lezzi riempie i suoi discorsi di banalità, quando va bene, e di minchiate solenni quando va male. A suo tempo la pugliese si impegnò a occuparsi di Ilva e ci risulta che non sia riuscita a combinare niente poiché niente sa fare, tranne che straparlare. D'altronde, pure sabato sera la meridionale, che non è una colpa ma un dato di fatto, si è lanciata in una serie di sproloqui sconditi di sugo eppure zeppi di livore gratuito. Ha aggredito il direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, dicendogli che il suo giornale è letto da quattro gatti, quando invece trattasi di uno dei pochi quotidiani in grado di guadagnare copie nonostante il mercato della stampa sia da anni in crisi. La donna è disinformata, il che non stupisce, considerato il suo livello di istruzione, ed è normale che ignori i temi dei quali discetta a ruota libera, come se anziché in uno studio televisivo fosse seduta sulla poltrona della propria parrucchiera. Misera, immaginando di suscitare uno scandalo, ha affermato che l' editore del foglio che leggete sia Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, mentre, viceversa, la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola. Allorché la sprovveduta Lezzi ha poi incautamente sottolineato, rivolgendosi a Senaldi, che Libero incassa le provvidenze pubbliche, ha pestato una cacca gigantesca, in quanto se ce n' è una che riceve mensilmente l' indennità elargita dallo Stato, questa è proprio lei. Siamo al bue che dà del cornuto all' asino. L' inettitudine dell' onorevole grillina è talmente crassa da lasciare allibiti. Barbara è inconsapevole che la stampa di tutta Europa è sostenuta dai governi di ciascun Paese, non per generosità, bensì perché non esiste democrazia se si uccide la libertà di pensiero espresso dai giornali. Senta, Lezzi della malora, prima di aprire bocca se la sciacqui. Quanto alla conduttrice del programma andato in onda su Rete 4, tale Veronica Gentili, quella che mi ha definito ubriacone tempo fa, pur essendo lei balorda e incapace, ha tentennato di fronte alle scorrettezze della parlamentare e si è limitata a bofonchiare. Dio le crea e il diavolo le appaia. Mi auguro che la rete berlusconiana possa rimediare.

Dagospia il 20 aprile 2020:

Vittorio Feltri, Twitter 2:29 PM - Apr 20, 2020: Tagadà non è una brutta trasmissione: è una boiata pazzesca. Tiziana Panella è bravissima nel distillilare banalità impressionanti.

Vittorio Feltri, Twitter 2:13 PM - Apr 20, 2020: La vita in diretta fa più schifo di quella registrata.

Vittorio Feltri, Twitter 2:09 PM - Apr 20, 2020: Diario di casa è un programma tv in onda ogni giorno alla ore 14 condotto da un uomo e una donna. È dedicato ai bambini chiusi in casa. Trasmette idiozie raccapriccianti che rompono i coglioni più del virus.

Dal “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. A “Libero” devono aver perso la memoria. Ieri il direttore Vittorio Feltri si è lanciato in un editoriale per tentare di convincere i lettori che il suo quotidiano sia estraneo ad Antonio Angelucci, deputato berlusconiano proprietario di diverse cliniche private oltreché di giornali (Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria ecc.). E se l'è presa con la 5 Stelle Barbara Lezzi, rea di aver insinuato, ribattendo al direttore Pietro Senaldi, “che l'editore del foglio che leggete (Libero, appunto, ndr) sia Antonio Angelucci, mentre la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola”. Certo. Angelucci è talmente estraneo a Libero che sul sito della Tosinvest, il gruppo di famiglia, si legge: “... proprietaria della testata giornalistica Opinioni Nuove - Libero Quotidiano”. Sul finire dell'editoriale, già che c'è, Feltri si concede il lusso di un pizzino sui palinsesti televisivi: non essendogli piaciuto come Veronica Gentili (Stasera Italia, Rete4) ha gestito l'ospitata della Lezzi contro Senaldi (non l’ha uccisa su due piedi, a distanza), prima la insulta e poi chiede “che la rete berlusconiana possa rimediare”. Magari cacciandola? Nel caso, Veronica non provi neanche a chiedere un lavoro ad Angelucci: lui con Libero non c'entra niente.

Marco Leardi per davidemaggio.it il 3 maggio 2020. “Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere“. Parola offensive, spiacevoli da leggere. Tanto più perché scritte da un giornalista di assoluto calibro come Vittorio Feltri. Ieri sera, il direttore editoriale di Libero si è accanito contro la conduttrice di Rete4 con una serie di tweet pubblicati durante la messa in onda di Stasera Italia Weekend, il programma da lei presentato. La raffica di commenti sparata da Feltri non necessita di interpretazioni. Queste le parole del direttorissimo:

“Povera Veronica Gentili sembra isterica,  sembra balorda o forse lo è, smetta di bere”.

“Povera Veronica Gentili, mi fa pena, mi sembra balorda: si vede che beve per darsi coraggio”.

“Veronica Gentili che mestiere fa a Rete 4, la valletta? Non ha il fisico”.

Tra il giornalista e la conduttrice i rapporti si erano irreparabilmente incrinati dopo che, quest’ultima, in un discusso fuori onda trasmesso da Striscia La Notizia, aveva dato dell’ubriaco al direttore editoriale di Libero. Da parte sua, Feltri, nonostante le scuse della collega, se l’era legata al dito e le esternazioni aggressive di ieri ne sono la riprova. Nei giorni scorsi, Veronica Gentili aveva criticato le recenti affermazioni del giornalista bergamasco sui meridionali ed aveva escluso la possibilità di ospitarlo nuovamente a Stasera Italia Weekend. “Dopo il nostro scazzo epico, dopo il fuorionda, dopo che lui si è comportato molto male con me, direi che stiamo bene ognuno per la sua strada. Io non sono abituata a parlare di lui, lui spesso parla di me, ma va bene così“ aveva detto la Gentili nel corso di una diretta Instagram. Ieri, la nuove e ineleganti bordate a distanza di Feltri.

Caro Feltri, non proverai mai l’onore di essere del Sud. Anna Rita Leonardi de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Caro Feltri, sono calabrese e fiera di esserlo. La famiglia di mia madre è calabrese, quella di mio padre è per metà sicula e per metà pugliese. Vivo in provincia di Salerno da 3 anni, con mio marito. In gioventù ho abitato 5 anni a Napoli, mentre studiavo e lavoravo. I miei due bimbi piccoli sono nati a Napoli. Io e mio marito abbiamo scelto di farli nascere lì perché volevamo che il loro primo respiro fosse nella città più bella del mondo. Volevamo sapere che, ovunque li porterà la vita, potranno sempre dire con orgoglio “sono nato/a a Napoli!“. Napoli è arte, storia, cultura, forza, bellezza. Ma non solo Napoli. Nelle loro vene scorre sangue calabrese, pugliese, siciliano, campano. Ed è un sangue meraviglioso. Uno di quelli che la gente come te non potrà mai capire. A te, quindi, che auguri a noi meridionali di fare “una brutta fine” dico: ti compatisco e provo pena per te. Perché tu, l’onore di essere DEL SUD, non lo proverai mai!

Feltri shock contro il Sud: «Ciucciate quattrini ai lavoratori del Nord, farete una brutta fine». Leggo.it Martedì 21 Aprile 2020. Il direttore di Libero Vittorio Feltri non è nuovo a provocazioni pungenti, ma stavolta le sue parole non sono passate inosservate: in un editoriale scritto due giorni fa sul suo giornale infatti, Feltri parla di una nuova divisione tra Nord e Sud dopo questa pandemia di coronavirus. Una pandemia che ha visto il Nord contare a migliaia contagi e vittime, mentre il Sud, fortunatamente, è riuscito a contenere i numeri anche grazie al lockdown. «Qui al nord la gente è impaziente - scrive Feltri - non riscuote più lo stipendio, i risparmi si sono esauriti. Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, ma di tornare in fabbrica». «Un popolo operoso e generoso come quello settentrionale desidera solo rimpadronirsi delle proprie redini e continuare la propria esistenza di persone perbene», aggiunge Feltri. Poi l’attacco al Sud: «La mentalità corrente è nota, il Meridione è terra affascinante e ricca di umanità mentre la Pianura Padana e le Prealpi sono abitate da uomini che puntano solo al denaro». «Luoghi comuni» e «pregiudizi», secondo Feltri. «A Milano, Bergamo, Brescia, Padova, Treviso, scrive, è sul punto di maturare la volontà di mandare al diavolo la capitale e dintorni». «Attenzione, manutengoli ingordi - conclude riferendosi alle regioni del Sud - a non tirare troppo la corda, poiché correte il pericolo di rompere il giochino che finora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata».

Vittorio Feltri: "Coronavirus o no, l'Italia non cambia". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 aprile 2020. Leggo vari interventi sui giornali e apprendo che il virus in ogni caso cambierà il nostro modo di essere e vivere. Saremmo di fronte a una sorta di rivoluzione, che fa rima con mutazione. Gli italiani si starebbero preparando ad avere rapporti sociali del tutto nuovi, non più quelli di una volta. Può darsi, tutto è possibile, tuttavia al momento scorgo segnali opposti: i vizi nazionali negli ultimi due mesi si sono confermati e addirittura consolidati. L' Italia era ed è rimasta un insieme di genti e non dispone di un popolo omogeneo e solidale. Non è una nazione bensì un agglomerato di comuni che faticano a riconoscersi in una patria e perfino in una regione. Il Sud gioisce e fa pernacchie al Nord, felice che i settentrionali siano stati massacrati dal virus assassino. I meridionali interpretano questa congiuntura come un giudizio universale. Pensano - scrivono e cantano - con gaudio che la giustizia divina ha regolato conti in sospeso da secoli. «Che meraviglia vedere i polentoni che annaspano nelle sale della terapia intensiva. Quanti morti ieri a Milano? 800? Buona notizia. A Napoli solo 200. Ovvio, noi partenopei siamo migliori, moralmente più saldi, non adoriamo dio Soldo ma, al massimo, San Gennaro». Altro che unità Nazionale. Godiamoci la vendetta e suoniamo il mandolino a festa. Vincenzo De Luca proclama di voler sigillare i confini della Campania. Fa bene. Li chiuda per sempre, però non solamente in entrata, piuttosto anche in uscita, così la smettiamo con le polemiche sterili. Il governatore del Friuli, Massimiliano Fedriga, annuncia di bloccare il trasferimento dei proventi fiscali a Roma. Se li tiene per sé e i suoi corregionali. Ottima idea. Se la sposano pure il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, i signori del Mezzogiorno cesseranno di festeggiare i trionfi del Covid. Come si vede i costumi sono immutabili. Ci sarà un perché. Si sostiene che ai primi di maggio ci sarà una ripartenza economica in tutta la Penisola. Non ci credo. Ogni regione ha le proprie peculiarità e i propri problemi non solo sanitari, ciascuna di esse merita una considerazione particolare. Perché le nostre caratteristiche sono diverse dalle Alpi a Palermo. Il governo non si illuda che uno valga uno, a volte uno vale 5 oppure zero. Giuseppe Conte gira il mondo, si è recato dappertutto meno che a Bergamo e Brescia, convinto forse che queste due città siano bavaresi, dato il loro reddito. Egli se ne frega del Settentrione, crede che sia Centocelle, una periferia indegna di attenzione. Oggi quanto ieri e dieci anni fa, la locomotiva finanziaria italiana è importante solamente allorché si tratta di delapidarla. Da queste parti si è svolto un referendum a favore dell' autonomia, che ha stravinto, eppure Roma ha fatto spallucce per non mortificare sé medesima e i meridionali in bolletta e quindi bisognosi degli oboli di Milano e vasti dintorni. Ma andate a morire ammazzati.

Trapani: "Coronavirus, sintesi su Napoli e i napoletani visti da Feltri, Sgarbi, Merlino, Mentana e...". Il giornalista e scrittore ha fatto una sintesi su quanto detto da alcuni personaggi tra politici e giornalisti sulla città di Napoli in relazione all'emergenza. Areanapoli.it il 21 aprile 2020. Paolo Trapani, giornalista e scrittore napoletano, attraverso la propria bacheca di facebook, ha fatto un riassunto su quanto accaduto fin qui da quando è iniziata ufficialmente l'emergenza coronavirus in relazione all'approccio avuto dagli organi di stampa nei riguardi della città di Napoli. Ecco quanto si legge: "Marzo/aprile 2020, breve sintesi su Napoli e sui Napoletani secondo la visione di alcuni 'autorevolissimi' scienziati. Napoli abitata da fannulloni che suonano il mandolino (Feltri). Napoli che non pensa a lavorare perché non ha aziende da riaprire (Senaldi). Napoli amministrata con rigore altrimenti i napoletani non rispetterebbero le regole (Sgarbi)". E poi: "Napoli senza eccellenze, perché in fondo il ''Tocilizumab di Ascierto'' già lo conoscevano ma non lo usavano (Galli). Napoli affollata che si svuota, sfortunatamente, all'arrivo delle telecamere (Biggioggero). Napoli che deve ringraziare la Lombardia se il virus non ha raso tutto al suolo, mica il senso civico e i sacrifici dei suoi cittadini (Gallera). E se a Napoli nasce il primo Covid-center da campo, il primo protocollo sperimentale e vi è il primo ospedale pubblico a contagio zero tra medici ed operatori sanitari è una casualità, ovviamente, perché a Napoli ogni tanto c'è ''anche'' una ''sorprendente'' eccellenza (Mentana e Merlino)".

Articoli Feltri, il presidente dell'Ordine dei Giornalisti scrive a de Magistris: "Chiedo io scusa". La lettera di Carlo Verna al Sindaco di Napoli alla luce degli ultimi articoli del giornalista di Libero. Redazione napolitoday.it il 21 aprile 2020. Il presidente del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti Carlo Verna ha scritto al sindaco di Napoli Luigi de Magistris in merito alle recenti polemiche innescate dagli articoli di Vittorio Feltri e Libero. "Sono nato in uno storico palazzo nel cuore di Napoli - scrive Verna - in via Foria dove Luciano De Crescenzo girò diverse scene del suo famoso 'Così parlò Bellavista'. In quell’edificio dove campeggia uno stemma in cui si legge 'numquam retrorsum', giammai indietreggeremo, non ci sono ascensori. Ma il Professore ne simulò scenograficamente l’esistenza per una scena sublime. La coesistenza obbligata nel buio e nel silenzio del napoletano e del milanese (interpretato dall’impareggiabile attore meneghino Renato Scarpa) che si guardavano con sospetto e che all’improvviso incontrandosi scoprirono reciprocamente un filo  umano che li univa molto più resistente degli stereotipi divisivi, facendo scoccare la scintilla dell’amicizia. Un sentimento che deve estendersi in questi giorni di una prova difficilissima. Napoli è Milano, Milano è Napoli, Italia, Europa (nonostante le spine), mondo, umanità. Quei tanti morti lombardi per lo spirito di Bellavista sono i nostri morti. De Crescenzo è stato Napoli, Feltri non è Milano, non lasciamoci trascinare fuori da quell’ascensore. Se non si sale si scende così come Papa Francesco sottolinea che chi non progredisce regredisce". "Perché scrivo, perché me ne occupo a costo di apparire sdolcinato? Cambio subito tono, assumendo le vesti di presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, che si ritrova tra gli iscritti questo nome (Vittorio Feltri, ndr) noto anche per la sua capacità di essere urticante, in passato pure in maniera brillante ma negli ultimi tempi fuori dalle righe e meritevole di ampie reprimende come seminatore d’odio. In tanti scrivono per sollecitare di metterlo fuori della nostra comunità professionale. Si può fare attraverso un regolare procedimento guidato da un autonomo consiglio di disciplina. È competente quello del luogo dove il giornalista è iscritto, ovvero nel caso specifico quello della Lombardia, che naturalmente deve essere attento sempre nelle sue pronunce alle libertà garantite dall’art. 21 della Costituzione, anche se sottolineo il principio di non discriminazione insito nell’art.3 noto per sancire l’uguaglianza, e ai giuristi indicherei la strada della valutazione della cosiddetta legge Mancino. È lo stato diritto che dal 2012 ha voluto la separazione dei poteri anche nell’ambito degli ordini professionali. Con chi giudica nessuno può interferire. Sarebbe come chiedere conto a un Presidente del consiglio dell’azione, dell’omissione o della fondatezza della pronuncia di un magistrato. Non si può fare. Posso solo chiedere scusa a mio nome e a quello della stragrande maggioranza di colleghi che hanno lo stesso tesserino di Feltri, per il reiterato atteggiamento di vacua ostilità. Lo trovo indegno ma mi adeguo e amo Milano come Napoli, di cui sono sempre rimasto orgoglioso cittadino. Con Luciano e Renato accendiamo le due candeline nel silenzio dell’ascensore, come nel film, distanti dal rumore di Vittorio", conclude Verna.

Feltri e Sgarbi, sui "mandolini" di Napoli rispose già Massimo Troisi. La stilettata di Dario Sarnataro. Dopo le polemiche per le parole di Feltri e Sgarbi nei riguardi dei napoletani, il collega del quotidiano Il Mattino ha ricordato le perle di Troisi. Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 aprile 2020. "C’è chi ha (aveva) classe e ironia e chi invece continua ad alimentare odio e divisioni (anche in questo momento drammatico), vomitando parole infeltrite nel disprezzo e negli stereotipi più banali. L’uomo non cambierà mai...". Questo il commento di Dario Sarnataro, giornalista del quotidiano Il Mattino e speaker di Radio Marte. Una stilettata - evidentemente - nei confronti di Vittorio Feltri, direttore di Libero il quale nelle scorse ore ha dichiarato: "Il Nord vuole riaprire per lavorare, non per suonare il mandolino". Vittorio Sgarbi, invece, dopo aver sostenuto in diretta che "i napoletani non rispettano le regole", ha chiarito che intendeva dire "regole insensate, non è un attacco a Napoli". Dario Sarnataro ha anche ricordato, a corredo delle sue parole, la maestria con cui il grande Massimo Troisi smontò i luoghi comuni su Napoli nel noto film "No grazie, il caffè mi rende nervoso", ma anche in una storica intervista rilasciata a Pippo Baudo. Insomma, passano gli anni, ma gli stereotipi sono ancora somari di battaglia (non ce ne voglia il povero ciuco, che non ha la classe del cavallo) cavalcati da pseudo intellettuali patentati. Non ce ne voglia Troisi - che ci ha lasciati nel lontano 1994 - se il suo nome lo accostiamo a personaggi discutibili. Purtroppo passa il tempo e alcuni ancora insistono alzando muri di ignoranza mirabilmente demoliti con ironia dal fuoriclasse Sangiorgese più di 30 anni fa.

Il coronavirus non ferma il razzismo verso il Sud: Vergogna! Su rete 4 continua la campagna infamante verso la Campania. di Carolina D'Avino il 22 Aprile 2020 su 21secolo.news. In prima serata il direttore di Libero, Feltri, si esibisce in una serie di offese verso il Sud e nello specifico contro la Campania. Il pretesto usato stavolta è la dichiarazione del governatore della regione Campania De Luca, il quale aveva annunciato, nei giorni scorsi, di trincerare la Campania se le regioni del Nord riaprissero prima della fine dell’emergenza sanitaria. A “Fuori dal Coro” intervistato dal collega Mario Giordano, il Direttore Feltri, già tristemente noto per la sua ideologia verso i meridionali, si lancia senza pietà contro la Campania. La canzone è dalle strofe conosciute, perchè cantate già dallo stesso governatore della Lombardia Fontana: bisognerà chiudere le porte a chi si reca in Lombardia per farsi curare. Nessun accenno ai tanti meridionali che sono la forza lavoro delle imprese del Nord, né ai tanti precari della scuola che ogni anno si recano in Lombardia, Piemonte, Veneto ecc., perchè vi è penuria di insegnanti. Feltri, però, rincara la dose e dopo aver detto senza giri di parole, che mai si recherebbe in Campania, aggiunge che non avrebbe motivo di farlo perchè vorrebbe dire poter fare solo il posteggiatore abusivo. Se anche questo non bastasse, chiude la sua invettiva affermando che i Campani sono a suo avviso inferiori. Disinteressato al parere di chi ascolta, quando Giordano gli fa notare che le sue parole potrebbero offendere chi ascolta, risponde di essere abituato a querele e denunce. Il presentatore si dissocia ma ormai il dado è tratto. Visto il passato del direttore di Libero la cosa potrebbe anche passare inosservata, se non fosse che episodi di questo genere si verificano ormai tutti i giorni e su tutte le reti, dalla Rai a Mediaset passando per La7. Il coronavirus non ferma il razzismo verso il Sud, altro che belle speranze che questo virus apocalittico ci renderà migliori. Uniti sui balconi, cantiamo un Inno Nazionale di cui ignoriamo il testo, che si riporta testualmente:

“Noi fummo da secoli

Calpesti, derisi,

Perchè non siam popoli,

Perche’ siam divisi“

e nel frattempo continuiamo a diffamare quel Sud raccontato come fanalino di coda di un Nord industriale, quando invece spesso è la mente di quel motore, senza il quale il braccio non potrebbe funzionare. Una pagina, l’ennesima, che fa vergogna all’Italia. Inconcepibile che nel 2020 si debba ancora ascoltare in Tv, in prima serata, un racconto vecchio e incompleto.

De Crescenzo: "Qualcuno fermi Feltri, è istigazione all'odio razziale. Denuncia e mail agli sponsor". Il noto professore ha replicato alle dichiarazioni del direttore di Libero che ha definito i "meridionali inferiori nella maggior parte dei casi". Redazione di areanapoli.it il 21 aprile 2020. Gennaro De Crescenzo, napoletano, laurea in lettere, docente di italiano e storia, giornalista, saggista, specializzato in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli e fondatore nel 1993 del Movimento Neoborbonico, ha attaccato duramente il direttore di Libero, il giornalista Vittorio Feltri il quale ai microfoni di Rete 4, pochi minuti fa, ha dichiarato: "I meridionali sono inferiori in molti casi. Si arrabbiano? Chissenefrega". Ecco quanto scritto da De Crescenzo: "BASTA CON FELTRI: QUALCUNO FERMI QUESTO PERSONAGGIO. È ISTIGAZIONE ALL'ODIO RAZZIALE. SERVONO MIGLIAIA DI MAIL AGLI SPONSOR DI RETEQUATTRO ("Fuori dal coro" 21/4/20) e una denuncia penale, visto che l'Ordine dei Giornalisti non fa nulla". Poi ha aggiunto: "Feltri ha poi detto: "Cosa andremmo a fare in Campania? I posteggiatori abusivi? È invidia contro la Lombardia, sono complessi di inferiorità anche se IN GRAN PARTE DEI CASI I MERIDIONALI SONO INFERIORI". Il tutto tra battutine e risatine del conduttore Mario Giordano e dell'ospite. Riusciamo a far arrivare agli sponsor migliaia di lettere? Io gli ho scritto. "Fino a quando sponsorizzerete programmi come Fuori dal Coro con ospiti razzisti come Feltri che sputa fango sui meridionali "che in gran parte dei casi sono inferiori" io non posso più acquistare i vostri prodotti. Saluti rammaricati dal Sud". 

Feltri e i meridionali inferiori. Dipocheparole il 22 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. In questo simpatico spezzone di Fuori dal Coro di Mario Giordano possiamo ammirare (si fa per dire) Vittorio Feltri mentre tenta per l’ennesima volta di scatenare contro di sé una shitstorm prendendosela con uno dei suoi bersagli preferiti: i meridionali: “Molta gente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché ha un complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, credo semplicemente che i meridionali in molti casi siano inferiori”. Subito dopo potete ammirare come Giordano finga alla grandissima un po’ di indignazione come da copione dopo la frase di Feltri mentre in realtà nella sua testa sta esultando come Tardelli dopo il goal alla Germania nel 1982 perché Feltri ha fatto il suo solito spettacolino che farà arrabbiare metà del suo pubblico e divertire l’altra metà. Poi addirittura dice: “Ma se cambiano canale è un guaio!”.

Feltri attacca i meridionali, Ziliani: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha commentato le parole di Feltri sui suoi profili ufficiali social. Redazione areanapoli.it il 22 aprile 2020. Vittorio Feltri è intervenuto nel corso della trasmissione "Fuori dal Coro" utilizzando delle discutibili parole contro i meridionali. Il direttore di Libero è un fiume in piena e continua a non digerire la possibile scelta di De Luca di chiudere i confini della Campania. "Al Sud stanno gioendo per le disgrazie del Nord. Non dovrebbero odiarci così tanto, visto che ben 14mila meridionali ogni anno si curano nelle strutture lombarde. Hanno un sentimento di rabbia e invidia nei nostri confronti perché subiscono una sorta di complesso d'inferiorità. Io però non credo ai complessi d'inferiorità, credo che in molti casi i meridionali siano inferiori". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha risposto così a Vittorio Feltri sui suoi profili ufficiali social: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti. Oltre che esseri umani". Angelo Forgione, giornalista e scrittore napoletano, ha commentato così il pensiero di Feltri: "L'ODG capisca che quella di #Feltri, da tempo, non è libertà di opinione ma istigazione all'odio che non può essere più tollerata. Le trasmissioni deputate a creare scompiglio si nascondono dietro il suo sfacciato razzismo e lo strumentalizzano per compiere sinistri disegni".

Vittorio Feltri a Fuori dal coro: “Meridionali inferiori, subiscono il complesso”. Antonio Scali il 22 Aprile 2020 su TPI. Ieri, 21 aprile 2020 il direttore di Libero Vittorio Feltri è stato ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano. Che Feltri non sia uno che le mandi a dire e che ami le polemiche non è certo una novità, ma stavolta forse ha fatto un passo oltre, suscitando critiche unanimi. Ripercorriamo cosa è accaduto. Giordano gli ha chiesto se nei confronti della drammatica situazione in Lombardia a causa del Coronavirus ci sia stato “un po’ di accanimento“, una sorta di “godimento per i primi della classe che stanno male”. Una domanda provocatoria alla quale Feltri ha risposto senza tanti giri di parole: secondo il direttore di Libero, infatti, è evidente che ci siano persone che stanno godendo per la situazione della Lombardia. “Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del Coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che naturalmente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità“, ha spiegato Feltri. Il giornalista ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori“. Ecco il video tratto dalla puntata di ieri di Fuori dal coro: Una frase che ha messo in imbarazzo persino Giordano, conduttore della trasmissione, che ha bonariamente rimproverato il collega: “Adesso me li fa arrabbiare davvero”. Feltri ha poi risposto: “E chi se ne frega se si arrabbiano, secondo me si arrabbiano tutti i giorni. Mi insultano e mi augurano di morire ma io dico quello che penso”. La vera preoccupazione di Giordano però non sembra essere l’indignazione per le parole appena ascoltate contro i meridionali quanto l’auditel: “Se mi cambiano canale è un guaio”. A quel punto il direttore di Libero lo ha rassicurato dicendo: “Non preoccuparti, per queste cose non cambiano canale. Stanno lì di più per odiarmi maggiormente”. Feltri purtroppo non è nuovo ad uscite del genere nei confronti del Sud. Parlando sempre del Coronavirus, infatti, il giornalista in un recente articolo su Libero aveva parlato di “brutta fine meritata” per i meridionali. Le parole di ieri a Fuori dal coro hanno indignato molte persone, che adesso chiedono la sua definitiva radiazione dall’albo dei giornalisti.

Coronavirus e mass media: Perché torna di moda l’odio contro il Sud? Amedeo Zeni su Ladomenicasettimanale.it il 20 Aprile 2020. Il razzismo, soprattutto in sociologia, è facilmente spiegabile con definizioni accurate sulla disuguaglianza, teorie basate sul pregiudizio che esistano razze superiori e razze inferiori. Una propensione dunque, a ritenere usi e costumi migliori rispetto ad altre comunità. Una fobia che può avere cause storiche come il dominio coloniale, atto a giustificare lo sfruttamento di territori, motivi economici che “autorizzano” il pensiero frustrante che un’altra collettività è la causa del proprio malessere (Hitler vi ricorda qualcosa?), cause culturali con pregiudizi connessi all’integralismo religioso o politico che tendono a non accogliere differenze e a ghettizzare di conseguenza ogni forma di diversità e mille altre definizioni ognuna utile e importante. Insomma, se vogliamo tradurre il concetto di razzismo in spiegazioni accessibili, potremmo parlare da qui a domani. Può addirittura esistere, e perché no, una spiegazione in termini sessuali. Apriti cielo. L’idea anch’essa implicitamente culturale e radicata nel nostro inconscio (senza scomodare psicoanalisi freudiane) che l’altro sia più dotato di noi. Avete letto bene, dotato. Ammettiamo che possa apparire semplicistica come spiegazione, ma è davvero così impensabile, in un’analisi di natura quasi antropologica, ritenere che non ci sia un file rouge tra invidia sociale e vigore sessuale in alcune determinate forme di razzismo? Una persona di colore scura è ancestralmente immaginata come sessualmente più dotata di una persona bianca; che sia vero o meno al momento non importa, il punto del ragionamento sta nell’immaginare una definizione che vede il razzismo come forma di ignoranza generata dall’insicurezza e dal depotenziamento della propria virilità se confrontato con le dotazioni fisiche degli altrui apparati muscolari. Vi assicuro che non siamo impazziti, non ancora, è in realtà la cultura moderna che porta a immaginare anche scenari mentali di questo tipo. In una era così globalizzata in cui le informazioni sono accessibili davvero a tutti, il pensare ancora in modo insofferente nei confronti di altri non sempre può avere radici storiche ma talvolta può anche manifestarsi, semplicemente, in una forma di sudditanza psicologica (o meglio, complesso di inferiorità) verso chi, nonostante eventuali arretratezze in termini di risorse economiche e sociali, è esteticamente più piacevole, più radioso e più capace di far proseguire la specie godendo di una forma fisica e mentale predisposta alla solarità, alla condivisione del piacere, e semplificando, alla sessualità. In uno stato di precarietà delle opportunità intese come incapacità di godersi la vita liberamente, ora per stacanovismo, ora per condizionamenti da climi ostili, ora per rivalità in senso generico, accade quindi che attori sociali, seppure talvolta dotati di lauree, siano sprovvisti di quelle astratte competenze che garantiscano loro (e nessun libro questo lo insegna) di essere più predisposti alla bellezza con tutti i suoi sottoinsiemi. Se in modo quasi farsesco abbiamo pensato che un uomo di colore viene invidiato e quindi odiato perché ha genitali più importanti, stessa cosa accade, in un paradosso quasi metafisico, per alcuni del nord Italia che, nel 2020, ancora cercano di evidenziare gli stereotipi sul sud, nello specifico su Napoli e su napoletani. Sia ben chiaro, diciamolo per i polemici, Napoli ha i suoi difetti, le sue tracotanze, le sue violenze e bla bla bla, ma questo coronavirus sta mettendo in atto con le mille sfaccettature della comunicazione, una possibile spiegazione di questo costante tentativo di infangare la città di Napoli. E se fosse invidia sociale? Se fosse invidia sessuale? Se fosse quella interna e quasi inspiegabile rabbia dovuta al fatto che lì, in quella “terra del malaffare” c’è la bellezza in senso lato, ci sono le bellissime ragazze e i bellissimi ragazzi che sanno come vivere (e come sopravvivere) mentre i taluni idioti nordici (più pochi forse di quanto si creda) non riescono a ottenere queste gratifiche (ora per motivi fisici ora semplicemente per mancanza di apertura mentale). La provocazione è ovvia, ma nemmeno poi tanto lontana da una possibile verità. L’invidia della bellezza, che essa sia sensualità estetica, letteraria, paesaggistica, sessuale, è di sicuro presente in chi ancora prova ad odiare Napoli, per il semplice motivo che ritiene (pur senza saperlo consciamente) di non avere le stesse opportunità. Un pensiero sbagliato perché l’Italia è bella ovunque a sud come a nord, e questo lo sanno bene le persone intelligenti che abitano nel settentrione dello stivale italico, e che non si fanno il problema di odiare, perché sanno godersi la propria esistenza senza alimentare un odio interiore così profondo. Sono quelli dall’accento nordico che, seduti a tavola con chi ha l’accento napoletano, non pensano a decifrare correttamente le proprie sintassi dialettiche, né, sicuri di sé, spendono il tempo a misurazioni subliminali dei propri apparati ma pensano a mangiare e godersi la giornata di sole. Tutto il resto, convinciamocene, è invidia. Amedeo Zeni

Coronavirus, Zaia: "È Sud contro Nord. Dal 4 maggio solo riaperture". Il governatore del Veneto: "Se alcuni presidenti chiudono i confini regionali, fanno loro l'autonomia". E sulla riapertura: "Se c'è supporto scientifico, giusto aprire". Giorgia Baroncini, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. "È una prima forma di autonomia, il Sud ha deciso di sposare il nostro progetto autonomista, lo dico come battuta. Voglio fare una appello: finitela di dire Nord contro Sud. Se il Sud dice di chiudere le frontiere, è Sud contro Nord", ha tuonato il presidente del Veneto Luca Zaia commentando l'annuncio del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che si è detto pronto a chiudere i confini regionali. "Se dovessimo avere corse in avanti in regioni dove c'è il contagio così forte, la Campania chiuderà i suoi confini. Faremo un'ordinanza per vietare l'ingresso dei cittadini provenienti da quelle regioni", aveva infatti dichiarato De Luca. "Sarebbe difficile bloccare lo spostamento fuori regione se le imprese sono aperte - ha commentato Zaia in diretta Facebook -. Mettevi nei panni di un cittadino che sale in treno: vuol dire che tutti i treni saranno soppressi, che tutti i treni che escono dai confini regionali non hanno più senso. Ma che proposta è, come fanno a mettere in piedi queste misure? Noi abbiamo sempre ospitato e accettato tutti, non ho mai fatto un'ordinanza per mandare via la gente dalle seconde case''. Il governatore del Veneto ha poi ribadito la sua posizione sulla ripartenza del Paese: ''Se c'è il supporto scientifico, è giusto che si apra. Sancita la messa in sicurezza dei cittadini e che si andrà avanti con un trend di attenuazione del contagio, ritengo che il tema della riapertura si possa affrontare agevolmente. Tempi? Speravo e spero che qualche segnale arrivi anche prima, ma immagino che il 4 maggio sia la dead line, oltre la quale ci saranno solo provvedimenti per le riaperture'', ha spiegato. Da giorni il Veneto spinge per la riapertura tanto che Zaia aveva anche auspicato ad un allentamento delle misure "da subito, in modo razionale, prudente e ragionato". Ma il premier Conte è stato chiaro: non intende accelerare i tempi e dare il via alle riaperture prima del 3 maggio. Nel piano di "ritorno alla normalità" di Zaia "la mascherina è una conditio sine qua non. Stiamo lavorando per una soluzione sostenibile e rispettosa della libertà. Ribadisco, se tutti indossano mascherina, guanti e disinfettanti abbiamo risolto oltre il 90 per cento dei problemi". Poi l'attacco: "È deplorevole chi esce senza mascherina, non ha coscienza che mette in pericolo la salute degli altri. Chi esce senza mascherina è irresponsabile".

Vittorio Feltri sui napoletani: "Lo è il mio migliore amico, un genio. Ma ci sono anche dei fessi". Libero Quotidiano il 06 aprile 2020. Un cinguettio autobiografico, quello vergato da Vittorio Feltri. Parla di amicizia, adolescenza e allegria, il direttore di Libero. Su twitter, infatti, scrive: "In Molise ho trascorso la mia adolescenza in modo meraviglioso. Ho vissuto a Napoli i giorni più allegri, città che amo e so essere stata la capitale della cultura europea. Napoletano è il mio più grande amico, Paolo Isotta, un genio". E dopo la lunga premessa, la stoccata: "Ma anche tra i partenopei ci sono i fessi". Già, tutto il mondo è paese. Il sospetto: Vittorio Feltri si riferisce alle immagini che arrivano da Napoli dove di fatto la quarantena da coronavirus non viene assolutamente rispettata?

Vittorio Feltri: "Tre signore meridionali hanno identificato il Coronavirus in 48 ore, una lezione a tutti". Cristina Agostini su Libero Quotidiano il 2 febbraio 2020. Vittorio Feltri elogia le ricercatrici dell'ospedale Spallanzani di Roma: "Tre signore meridionali hanno identificato il Coronavirus in 48 ore, un miracolo", scrive il direttore di Libero in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "Una lezione a tutto il mondo scientifico. Poi dicono che i terroni sono incapaci. Balle. Applausi a loro". Le tre dottoresse sono Maria Rosaria Capobianchi, Francesca Colavita e Concetta Castilletti. A capo del team c'è la Capobianchi, 63 anni, venti dei quali passati nel laboratorio di virologia dell'ospedale capitolino di Via Portuense, che dirige con energia e tenacia: una squadra che già in passato ha isolato virus come Ebola e Chikungunya. "Avere a disposizione il virus è partire da una buona base per fare tutto quello che serve dopo", spiega. Prossimo passo "il sequenziamento del genoma che verrà presto completato e distribuito a livello internazionale per aiutare la lotta al coronavirus". Leggi anche: "Perché finiremo tutti contagiati dal Coronavirus". Sondaggio choc di Noto: numeri agghiaccianti Tre signore meridionali hanno identificato il Coronavirus in 48 ore, un miracolo. Una lezione a tutto il mondo scientifico. Poi dicono che i terroni sono incapaci. Balle. Applausi a loro.— Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2020 "Isolare il virus e il materiale di partenza iniziale per qualunque cura - spiega Capobianchi -. Averlo a disposizione grazie a un sistema di crescita e di coltivazione in vitro, fornisce uno strumento per perfezionare le diagnosi, i test sierologici e la risposta delle persone all'infezione". Lo studio degli anticorpi rappresenta un aspetto fondamentale perché è la "risposta protettiva" dell'organismo ed è quindi il primo passo per un eventuale studio su un vaccino. "Inoltre avere un virus in coltura permette di provare farmaci in vitro", aggiunge, "e studi di patogenesi, sui meccanismi di replicazione, i rapporti tra il virus e la cellula ospite e i casi di infezioni primarie e secondarie".

Vittorio Feltri, la lettera a Bergamo: "Ho perso il conto dei morti. Io, colpevole di essere scampato allo sterminio". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 aprile 2020. La mia amata Bergamo è in ginocchio, così prega meglio, con maggiore concentrazione. In questi giorni di pestilenza assassina che ha provocato migliaia di vittime, un primato assoluto, essa non può fare altro che rivolgersi al Padreterno nella speranza di aiuto, visto che la scienza non sa che fare per contenere la strage. Da queste parti è più facile andare all’altro mondo che al supermercato e la gente ignora come comportarsi, salvo ubbidire alle disposizioni ermetiche di Giuseppe Conte, dal che si evince quanto sia disperata. Sui colli e nelle valli dove ho trascorso infanzia e giovinezza i preti hanno rinunciato a suonare le campane a morto per non terrorizzare la popolazione, già frastornata dai lutti. Non si capisce perché la provincia sia al vertice della classifica dei defunti a causa del virus. Non c’è virologo che abbia scoperto i motivi per cui proprio lassù, in mezzo al verde e tra persone educate, sia avvenuta simile ecatombe. Quasi 5000 trapassati senza contare quelli non censiti. È un mistero più cupo del maledetto Corona. Confesso che anche i miei parenti sono stati falcidiati, ogni dì mi giunge una telefonata che mi informa di un decesso. Pure alcuni miei amici e compagni di scuola sono finiti al cimitero, ne ho perso il conto mentre avrei preferito perdere il Conte. Mi sento un abusivo della sopravvivenza. Quando tornerò a Bergamo per lanciare una occhiata alla casa che conservo in quella terra, avvertirò quasi di essere un estraneo, non troverò qualcuno con cui fare due chiacchiere sulla nostra prodigiosa Atalanta. Io sono ancora qui a picchiettare sul computer, colpevole di essere scampato allo sterminio. Peggio, di essere fuggito dal paesello in ottobre, poco prima che la malattia esplodesse, come se presagissi il peggio, e da allora non ci ho più messo piede. Anche questo particolare mi trafigge il cuore: sono scappato a tempo per evitare il contagio. Mio fratello Ariel sostiene che io abbia soltanto avuto culo o sia stato ispirato da Sangiovese, protettore di chi beve volentieri un bicchiere o quattro. Forse ha ragione lui, però la sera, quando rientro nella mia dimora milanese e in tv seguo le statistiche relative alle vittime del Covid-19, provo una fitta al petto e mi viene il magone, a me che non piango mai per non tradire la mia fragilità. Oggi non mi trattengo, ammetto di essere debole e impaurito, più che la morte temo la disperazione nel constatare che fra i miei concittadini non riconoscerò più coloro con i quali ho condiviso gli anni più belli, quelli con cui passeggiavo spesso lungo il Sentierone, luogo deputato allo struscio, o sulle incantevoli mura veneziane, teatro del mio primo bacio, dato a una ragazza, commessa di un negozio di elettrodomestici, che non ho più incontrato pur ricordandomi con nostalgia la sua tenerezza. Spero non sia stata travolta dal morbo. Sospetto che queste righe turbate possano infastidire il lettore, tuttavia spero che almeno i miei bergamaschi comprendano: costituiscono lo sfogo di uno di loro incapace di trattenere il proprio dolore. Il mio pensiero corre specialmente ai vecchi come me, ammazzati dalla febbre e dalla polmonite. Individui in gamba che accudivano i nipoti e aiutavano i figli a tirare avanti la baracca, cattolici un po’ troppo bigotti ma generosi. Mi mancheranno il tintinnio dei bicchieri e le chiacchiere di ogni venerdì sera, allorché rientravo da Milano, e sostavo alla trattoria Falconi, scherzosamente definita “università della saggezza”, al fine di gustare un calice di bianco. Gli avventori sulle prime mi riservavano un certo riguardo, in seguito, dopo che avevo pronunciato un paio di battute burine, diventavano consanguinei, mi chiamavano Vittorio e volevano sempre offrire loro le consumazioni. Non tradirò mai la mia esistenza paesana, rustica e ruspante. Mi riconosco in ogni orobico, e in questo detto riassuntivo: «Set bergamasca, fiama de rar, ma sota la sender brasca». Traduco: «Gente bergamasca, raramente si infiamma, ma sotto la cenere cova la brace». Ciao, Berghem. Sarai nel mio cuore e ti sarò grato fino all’ultimo giorno che mi rimane. Mi hai dato tutto, soprattutto i vizi e i difetti, e altresì per questo ti voglio bene. Requiem.

Vittorio Feltri, il coronavirus e la pagina dei necrologi: "I morti intorno a me e un pensiero fisso". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 7 aprile 2020. Immagino che i lettori, leggendo ogni giorno quante persone scompaiono dalla faccia della Terra a causa del virus, siano depressi e temano per sé e i propri congiunti di precipitare nel mucchio delle vittime. Davanti a una strage che appare inarrestabile è difficile rimanere indifferenti. Confesso: anche io ho paura come tutti, ma un po' meno, suppongo, poiché con la morte ho una consuetudine familiare. Avevo sei anni quando mio padre se ne volò nell'aldilà inaspettatamente. Ebbe una malattia strana, il morbo di Addison, che colpisce le ghiandole surrenali, alla quale in pochi mesi dovette soccombere. Un paio d'ore prima che esalasse l'ultimo respiro, fui introdotto nella sua stanza di ospedale. Giaceva stremato in un letto, le lenzuola lo coprivano fino al collo, spuntava soltanto il volto afflitto su cui spiccavano le occhiaie viola e la bocca semiaperta a caccia di ossigeno. Fu egli - mi svelarono - a volermi incontrare per l'estremo saluto. Tremavo, avevo capito, nonostante l'età, che sarebbe defunto. Mi disse: «Ricordati, se vuoi, di me, però ricordati soprattutto che riuscirai a diventare grande anche senza babbo, tu hai stoffa, non sprecarla». Poi chiuse gli occhi, forse assopito. Abbandonai la camera in punta di piedi, avvertivo la solennità del momento. Mentre mi avvicinavo all'uscita intravidi mia madre appoggiata con i gomiti al muro, la sua schiena sobbalzava, erano singhiozzi. Non osai sfiorarla. Non è gradevole crescere senza babbo, eppure si può resistere. Bisogna solamente abituarsi a solitudine e fatica. La mamma sgobbava tutto il dì per mantenere la famiglia, eravamo tre fratelli, io il più piccolo. Ho impresse nella memoria certe serate in cucina, illuminata da una lampadina che creava nient' altro che ombre. Ogni tanto mi appropinquavo alla finestra dai vetri appannati e guardavo in basso, nell'oscurità, nella speranza di scorgere la mamma intenta ad attraversare il cortile per raggiungere le scale e arrivare in casa. Era un'attesa estenuante, punteggiata di delusioni. Quando finalmente ella compariva e si accingeva a posare la suola sul primo gradino, le correvo incontro festante, il petto mi scoppiava dalla gioia. Macera si sedeva a tavola e interrogava noi figli sull'andamento scolastico. Io non avevo niente da raccontare, mi bastava starle accanto. Passano gli anni, mi trasformo in un giovanotto, lavoro e studio, ad un ritmo faticoso ma non insostenibile. Scrivo per l'Eco di Bergamo, giornale della mia città, e non mi mancano soddisfazioni. Poi conosco una ragazza, ci frequentiamo, rimane incinta e la sposo. Invece di un bambino, sforna due femminucce. Allorché i medici me lo comunicano perdo i sensi. Penso che allevare due gemelle sia superiore alle mie forze. Tuttavia il peggio deve ancora venire. E viene presto. Mia moglie trapassa. Resto lì come un pirla con due fagottini. Mi adatto e mi risposo con una santa donna che mi ha salvato e che ancora mi salva. Poi va all'altro mondo il marito di mia sorella, così, tanto per gradire. Quindi scompare la mia mamma, altra botta. Insomma intorno a me si infittisce il cimitero. Sono costretto ad abituarmi ai decessi, ciascuno dei quali impoverisce il mio piccolo universo affettivo e mi induce alla rassegnazione. Che è il peggiore dei sentimenti umani. Tutti sappiamo che la vita ha un termine, però quando si conclude intorno a te il tuo animo si strazia. La mattina, appena ti svegli, non rifletti su come sarà la tua giornata, bensì sul vuoto che hanno creato nella tua esistenza coloro che se ne sono andati via. La sera, quando ti corichi, ti senti immeritatamente un sopravvissuto. E mormori a te stesso: «Adesso tocca a me». Valuti: «Poco male, l'importante è non soffrire». Invece soffri già e ogni dolorino che avverti nel corpo sospetti che sia un segnale. Infine la mente ti restituisce le immagini ormai sbiadite delle persone che amavi e concludi: «Se crepo pure io forse è giusto». Intanto tengo duro e quando sull'Eco di Bergamo scorro i necrologi delle centinaia di trapassati, gente delle mie parti, i miei lutti si estendono all'infinito avvicinandomi non solo ai miei estinti ma a tutti. L'unica certezza: presto o tardi tireremo le cuoia, io e voi.

Coronavirus, Vittorio Feltri: "Finché uccide i vecchi non è il caso di allarmarsi. Ecco il vero razzismo". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Vittorio Feltri ammette che il razzismo, in tutta questa vicenda del coronavirus esiste. Ma attenzione, è razzismo verso gli anziani. "Contrordine: non è vero che non esista il razzismo", scrive il direttore di Libero in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "C'è e colpisce i vecchi". E c'è anche "la prova", che "consiste nel fatto che il virus uccide le persone su di età e ciò sembra consolare chi ha paura" del contagio. "Finché crepano i Matusalemme", conclude Feltri, "non è il caso di allarmarsi". Insomma, come aveva scritto in un tweet precedente, "non è più il colore della pelle a essere discriminante ma l'età. Ma il razzismo è lo stesso".

Ecco il nuovo razzismo: "È morto? Era anziano..." Alessandro Sallusti, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Sono anziani, e quindi spesso già malati di loro, i primi morti italiani del Coronavirus. Nei commenti ufficiali e nelle chiacchiere tra conoscenti e amici è quello dell'età l'argomento principe per scacciare la paura di essere coinvolti nell'epidemia o per depotenziarne gli effetti. Io non sono più giovane, ma neppure ottantenne, quindi sono in una specie di limbo: in caso di contagio, essendo pure cardiopatico, rischio di morire ma non troppo, diciamo una cosa giusta. È ovvio che i primi a cadere, in guerra come nella vita, sono i più deboli o se volete i meno forti. E sarebbe banale ricordare che dopo i primi (i vecchietti) è il turno dei secondi (gli adulti) e poi dei terzi (i giovani) come è purtroppo successo in Cina dove l'età media dei contagiati secondo uno studio dell'americana Emory University pubblicato dalla rivista scientifica Jama -, si attesta attorno ai 54 anni. Ma attenzione, mettiamo pure che l'azione più virulenta del virus resti confinata nella terza età, che per gli statistici inizia chissà perché - a 65 anni. Parliamo di un bacino potenziale di oltre dodici milioni di persone a rischio, tanti sono gli ultra sessantacinquenni in Italia. E se stringiamo il campo agli ultra ottantenni non tutti ovviamente in ottima salute la cifra scende a quattro milioni (di cui uno nella sola Lombardia), direi non proprio noccioline. Se l'epidemia dovesse fare strage in questa fascia di popolazione darebbe certo una mano ai traballanti conti dell'Inps, ma non mi sembra questo un valido motivo per lasciarglielo fare. Non è che la vita di un anziano con la salute «così così» vale meno di un'altra. Anzi, semmai va più protetta proprio perché più fragile. E proteggerla non è soltanto compito delle autorità preposte ma anche direi soprattutto di chi anziano non è e che con i suoi comportamenti («tanto io sono forte, sano e la faccio franca») può seminare il virus là dove attecchirà con più violenza. In un'epoca in cui tutto (spesso anche le scemenze) è definito razzismo, teniamo alta l'allerta sul razzismo contro gli anziani. Ieri non sono morti di Coronavirus due ottantenni, ma due persone esattamente come chiunque di noi. Se non deve contare il colore della pelle, perché mai dovrebbe essere importante l'età?

Coronavirus in Italia, neanche gli anziani meritano di morire. Giampiero Casoni 25/02/2020 su Notizie.it. A ogni notizia di morte per Coronavirus ci rassicuriamo dicendo: "Muoiono solo anziani". E magari abbiamo accanto nostra madre e nostro padre, che smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi. Fra le tante appendici un po’ cretine che l’arrivo in Italia del Coronavirus sta generando ce n’è una che proprio non dovrebbe andarci giù: quella per cui, essendo clinicamente le persone anziane più suscettibili di andarsene al Creatore a causa di Covid 19, la percezione della loro morte sia vista come un fatto quasi ineluttabile o secondario. Come al solito essere anziani è faccenda dura, non solo nel tran tran di una quotidianità che li percula nei meme sui cantieri, ma anche nella drammatica eccezionalità di un’epidemia birbacciona come poche. Torna prepotente ed immortale alla memoria Zavattini, che pare dicesse che “l’età non produce saggi, ma solo vecchi”, persone cioè che ogni società si ostina ad elevare ad archetipo di categoria da rispettare, ma che poi puntualmente, quando le ginocchia dei sistemi complessi occidentali tremano, sono le prime a pagare pegno ad un cinismo che ci dovrebbe far incazzare anche a fare la tara alle paure di questi giorni. Dove sta scritto che, essendo morte per lo più persone anziane a causa del Covid 19, la cosa deve farci meno da ariete emotivo? Entro certi limiti funziona la psicologia narcotica per cui tutti, oggi, ubriachi di social, di scazzottate politiche e di bollettini virologici, cerchiamo di esorcizzare il male rimarcando con ostinazione bambina gli ambiti dove fa male davvero, quelli cioè dove sui documenti di identità campeggiano date da Italia monarchica. Però non basta. Chi ha riflettuto, seriamente riflettuto sul fatto empirico e semplice che magari una di quelle persone morte in questi giorni avrebbe avuto davanti a sé altri cinque, dieci, quindici anni di vita, magari anche attiva e gratificante? Ci siamo posti il problema che ogni morte è devastazione pura per gli affetti che essa scuote e che ci sono persone che piangono quei morti, anziani, giovani o prefetali che siano? No, se sei vecchio puoi morire quasi nella beatitudine beota di chi ormai ha fatto il suo tempo e paga pegno all’eugenetica imbecille di un certo modo di percepire la società. E si badi bene e finiamola di non dircelo, trattasi di società che è buonista ma non buona, che disegna una povera Italia 2.0 e fa rimpiangere l’Italia povera degli anni ’50, che guarda al progresso ma non conosce la civiltà, due cose cioè che, come diceva Guareschi, sono completamente diverse. Ma a noi poco frega: con le mani imbevute di Amuchina, un occhio ai social e pronti a trasformare ogni “etciù” nel nuovo Allah Akbar, abbiamo trovato il nostro nuovo mantra, il vaccino emozionale che precede il vaccino clinico di Moderna Technologies Inc: quello con cui, ad ogni notizia di morte avvenuta lanciamo nell’aria la litania del "muoiono solo anziani". Magari dicendolo con nostra madre e nostro padre che, dal tinello, smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 28 febbraio 2020. Alessandro Sallusti sul suo Giornale ha messo il dito nella piaga. Il razzismo è vivo e pugnace ma non colpisce i poveri africani o altri diseredati, bensì distrugge i vecchi, contro i quali si è sviluppata una vera e propria congiura. Chi ha compiuto 70 anni, o anche meno, è considerato una persona di scarso valore, un rincoglionito, di solito beone, indegno di far parte del consorzio civile. Mai quanto in questi giorni sono esplosi sentimenti ostili alla cosiddetta terza età. Complice il virus, l' anziano che muore infetto è buono giusto per completare le statistiche, però non dispiace a nessuno che finisca sottoterra. Anzi il suo funerale è consolatorio per i giovani, dimostra che Corona ci vede benissimo e uccide solo gli scarti vetusti della società. Se crepa un giovane tutti si spaventano per immedesimazione. Pensano: oddio forse sono a rischio pure io. Se viceversa va al cimitero un soggetto attempato si fregano le mani dalla soddisfazione: meno male che il virus è esiziale soltanto per quei rompicoglioni che sfruttano la pensione immiserendo l' Inps. A ciò siamo arrivati e il fatto non mi sorprende poiché i venerandi da decenni sono nel mirino di chi si illude di rimanere in eterno giovane, ignorando che per campare a lungo è indispensabile incanutire. I vecchi subiscono lo scherno, il dileggio dei ragazzotti e dei loro genitori, i quali si confermano razzisti. Infatti la discriminazione non si determina in base al colore della pelle, della nazionalità di un individuo, ma scatta nei confronti dei Matusa. Eppure nessuno si scandalizza né deplora tale orrendo costume. D' altronde siamo abituati alla imbecillità diffusa. Basta constatare un particolare. Allorché l' Italia era schiava del fascismo non c' era in giro neanche un antifascista, ora che le camicie nere sono morte l' antifascismo trionfa. Lottare contro i fantasmi è facile.  

Ferdinando Camon per “la Stampa” il 27 febbraio 2020. Qui dove sto scrivendo, e cioè a venti chilometri da Vo' che è uno dei focolai del virus, corre con un certo rilievo la notizia che nell' altro focolaio, Codogno, il contagio sta toccando anche i bambini, dai 5 ai 15 anni. Nei bar non si parla d' altro. Perché se la malattia comincia a toccare i bambini, allora è una cosa seria, da combattere con tutti i mezzi, senza badare ai costi. Si dice sempre che la mortalità dei contagiati sta fra l' 1 e il 2 per cento, ma se comprende i bambini è come se aumentasse vertiginosamente. Questo mi fa piacere, è bello vivere in un popolo che protegge i piccoli, però se permettete mi deprime anche, perché i vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l' informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni? Nego che ciò sia vero. I giornali e le televisioni che non lanciano e non rilanciano il dato che a morire per questo virus sono il 14 per cento degli ultraottantenni contagiati sbagliano. I vecchi sono importanti, oso dire più dei giovani, i molto vecchi più dei molto giovani. I molto giovani sono uno spazio da riempire, uno spazio in cui la storia di domani scaricherà materiali che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Chissà cosa ci sarà tra quei materiali. Amori, bassezze, viltà, eroismi, egoismi, onestà, menefreghismi, genialità, idiozie. Non sappiamo. Il nostro amore per i bambini è un amore cieco. Li amiamo a prescindere. Ma i nostri sentimenti per i vecchi non sono ciechi. Riusciti o falliti che siano, i vecchi hanno vissuto, e sono pieni di esperienze. Trattandoli con rispetto e con stima, noi rispettiamo e stimiamo le loro esperienze. Sono fragili, sono preziosi, sono antiquariato. Sono insostituibili. Un vaso nuovo, se lo rompi, ne prendi un altro tale e quale, ma un vaso antico non lo trovi più. Perciò dico: è un medico indegno o cialtrone quello che dà poca o minore importanza ai pazienti vecchi, e vecchi vuol dire più di anziani. Ci fu una volta un medico disonesto, un ortopedico che impiantava protesi difettose, che producevano infezioni, malattie e perfino morte. Lui se ne fregava, a lui costavano poco, se le faceva pagare molto, lucrava sula differenza, e sperava di continuare all' infinito. La malattia non era un problema. La morte era un problema. Siccome i pazienti erano anziani, sopra i sessant' anni o settanta, lui quando uno moriva se lo scrollava di dosso con una battuta: «E quanti anni voleva vivere, novanta?». Rispondo io: sì, certo, novanta e più, perché no? La vita è vita finché è vissuta in attesa di altra vita, quando è in attesa della morte fa parte della morte, è morte anticipata. Erano i filosofi esistenzialisti che vivevano «in attesa della morte», e battezzavano questo tempo fuori della vita in latino, in greco e in tedesco. Io sto pensando alla gente comune, come voi, come me, gente per la quale vivere significa essere vivo, e se sei vivo sei pieno di tutti gli infiniti doni della vita, compresi i litigi, le incomprensioni, i tradimenti, i perdoni, i ritorni, che tu abbia dieci anni o venti o ottanta. Morire vuol sempre dire addio a tutto, e non è vero che il tutto a cui dai l' addio sia più vasto a vent' anni che a ottanta, e che perciò la morte di un ventenne sia una morte completa, mentre a ottanta muore solo quella porzioncina di vita che ancora resta. La morte è sempre una perdita totale, uno di noi se ne va totalmente e per sempre, e piangendo su di lui noi in realtà piangiamo su di noi, sulla nostra fine. Non vorremmo mai che avvenisse. Ci sembra sempre che il tempo che abbiamo da vivere contenga ancora tutto. Una volta nati, vorremmo essere nati per sempre, non per alcuni anni. Siamo tutti collegati, viventi con viventi, e ci sentiamo in pericolo se qualcuno comincia ad escludere qualcun altro, perché è malato, perché è scemo, perché è povero. O perché è vecchio. Non è che se qualcuno muore vecchio, non suona la campana. La campana suona comunque, perché suona per coloro che restano. È dunque se c' è questo 14 per cento di ultraottantenni che se contagiati se ne vanno, smettiamola di ignorarli. Perché imbrogliamo noi, non loro.

Coronavirus tra Nord e Sud Italia. E quella paura che non può diventare intolleranza. Noi meridionali da decenni per qualcuno siamo i colerosi e i terremotati. Sappiamo bene quanto faccia male un atteggiamento del genere, quindi tocca anche a noi fare la nostra parte in favore delle popolazioni di Veneto e Lombardia. Come? Affrontando la storia del Coronavirus in maniera responsabile: il virus dell’idiozia fa danni esattamente come il virus proveniente dalla Cina. Solo che per quest’ultimo si troverà un vaccino. Ciro Pellegrino su Fan Page il 24 febbraio 2020. «Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po' di retorica. Nel primo caso l'abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio». La Peste, Albert Camus. Guardatela da qui, la storia del Coronavirus. Sforzatevi. Guardatela da Sud. Vi dico com'è: noi non siamo abituati. Non siamo abituati a essere quelli che alzano barriere, che lanciano l'allarme. Che respingono (o almeno vorrebbero). Noi meridionali siamo da sempre i colerosi e i terremotati e non solo allo stadio. Siamo quelli al checkpoint, siamo quelli messi in attesa, quelli che devono «attendere le disposizioni dell'autorità». Oggi se un Dio c'è magari non giocherà a dadi ma ammetterete che ha un sottile senso del paradosso. Permettetemi un ragionamento laterale, permettetemi di incorrere nell'errore preconizzato da Camus, cioè quello di un po' di retorica:  tranne casi  prontamente repressi dalle istituzioni dello Stato, parlo del divieto di sbarchi a Ischia o altre antipatiche decisioni come quel Comune (Casamarciano, Napoli) che ha chiuso le porte a un gruppo di giovani calciatrici venete, qui per ora la paura è rivolta soprattutto verso noi stessi. Non chiamatemi piagnucoloso, ma non faccio altro che pensare ad una cosa: se fosse accaduto il contrario? Se il focolaio di Coronavirus fosse iniziato da Sud, a partire da Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Molise, Basilicata? Se anziché a Lodi ad Avellino, anziché in Veneto a Napoli? Avremmo potuto sperare in pietà? O qualcuno avrebbe rispolverato vecchi steccati mai abbattuti, rialzato muri con mattoni pronti all'uso, gridato ai terroni di andar via, come in anni passati pure è accaduto? La consapevolezza di quanto faccia male un atteggiamento del genere è il nostro anticorpo. C'è sempre più bisogno di cautela. Bene ha fatto ieri il prefetto di Napoli, la città più grande del Mezzogiorno, a richiamare alla calma soprattutto certi sindaci "intraprendenti", pronti a vietare pure gli sbarchi senza motivo. Dunque ora tocca un po' anche a noi, gente del sud, fare la nostra parte e affrontare responsabilmente questa storia, anche nell'utilizzo delle parole nei confronti di chi vive in Lombardia e Veneto (peraltro spesso sono emigranti meridionali): nel corso dei decenni ci hanno apostrofati con qualsiasi appellativo, causa colera e calamità naturali di vario tipo. Tocca a noi non affrontare questa storiaccia con lo stesso stupido metodo, tocca a noi evitare le psicosi inutili. Al virus dell'idiozia non c'è vaccino esattamente come per quello cinese. Solo che per quest'ultimo lo troveranno. 

Razzismo da coronavirus contro il Nord, Pino Aprile: “Al Sud offesi per anni senza motivo. Ammalarsi qui non è la stessa cosa”.  Antonio Sabbatino il 26 Febbraio 2020 su internapoli.it. «Ammalarsi al Nord e al Sud sembra non essere mai la stessa cosa, il Paese Italia non esiste». Lo scrittore Pino Aprile, autore del saggio “Terroni’’ (edizione Piemme), commenta così quanto sta accadendo in Italia dopo la diffusione del Coronavirus con la stragrande maggioranza dei casi verificatesi nelle regioni del Centro-Nord, dove pure non sono mai mancate parole e atteggiamento di scherno nei confronti dei meridionali. Proprio al Sud gli unici 3 casi accertati di Coronavirus riguardano altrettanti turisti bergamaschi in vacanza a Palermo (marito, moglie e un’altra persona), quasi una nemesi rispetto ai tanti insulti ai meridionali negli anni e dopo il tweet dei giorni scorsi del direttore di Libero Vittorio Feltri con riferimento all’epidemia di colera a Napoli negli anni ‘70. «Se volessimo scherzare – afferma in proposito Aprile – dico che nella storia ci sono stati casi in cui degli eserciti per conquistare altri territori mandavano avanti i lebbrosi per provocare un’epidemia. Tornando seri, questa vicenda dimostra, anche in maniera banale, che i diritti come quelli alla salute, ma non solo, dovrebbero valere allo stesso modo a Bergamo come a Palermo». Ma, aggiunge lo scrittore, «questo non accade. Ammalarsi al Nord e al Sud sembra non essere mai la stessa cosa. Allargo il ragionamento e faccio un riferimento pratico per far comprendere certe disparità: per andare nei territori del Mezzogiorno spesso si è costretti ad utilizzare treni vecchi che vanno a rilento. Questo vuol dire che il Paese Italia non esiste». Tra gli effetti collaterali del Coronavirus, che ha mietuto 11 vittime contagiando al momento oltre 350 persone, le polemiche istituzionali. Nei giorni scorsi il presidente del consiglio Giuseppe Conte aveva parlato dello scoppio di un focolaio di Coronavirus in Lombardia, nel lodigiano a causa di un’ipotetica mancanza di applicazione dei protocolli da parte di una struttura sanitaria suscitando le ire del governatore della regione Attilio Fontana e di parte del mondo medico. Anche qui Pino Aprile cerca di “unire’’ idealmente l’Italia. «Gli ospedali “fetenti’’ ci sono ovunque, come in tante parti ci sono le eccellenze. Non dimentichiamo che la coppia cinese che ha contratto il Coronavirus è stata curata allo Spallanzani di Roma nel quale lavorano quelle 3 ricercatrici, tutte meridionali, che hanno isolato il Coronavirus». Inoltre: «Va ricordato poi come tantissimi vicepresidenti della Regione Lombardia siano finiti in carcere per aver ricevuto mazzette nella sanità e in carcere per mazzette nella sanità ci è finito anche l’ex governatore Formigoni. A questo si connette la perenne disparità di risorse a disposizione. Se io ad esempio ho 1000 euro a disposizione, come succede nelle regioni del Nord, e ne rubo la metà, ce ne saranno sempre 500 a disposizione. Se, sempre come esempio, invece ho a disposizione 300 euro, come invece capita al Sud, e ne rubo sempre la metà mi restano pochi spiccioli. Capite la differenza?». Altra reazione, questa volta più d’istinto, è quella avuta dai cittadini ischitani che hanno protestato dopo l’arrivo sull’isola verde di un gruppo di turisti lombardi e veneti appena sbarcati sull’isola (con il prefetto che ha stoppato la decisione delle autorità locali di vietare l’ingresso ai cittadini residenti nei territori dei focolai). In un video delle lamentele, si sente dire ad una donna “per tanto tempo ci avete definito terroni’’ quasi come una vendetta morale. «Io quella frase la posso giustificare. Dal Nord ci hanno definito in taluni modi senza che vi fosse un virus ed anche i cartelli “non si affitta ai settentrionali’’ ha suscitato principalmente una reazione di stupore» il commento di Pino Aprile. 

Coronavirus, la rivincita dei meridionali: "Settentrionali, restate a casa vostra". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. Come esuli di guerra vengono accolti in queste ore dalle loro famiglie quei meridionali che dal Settentrione stanno facendo ritorno in terra madre a causa del contagio di coronavirus esploso venerdì scorso in Lombardia e poi diffusosi nelle regioni limitrofe, precipitando nel panico gli abitanti dello stivale. Le mamme abbracciano all'aeroporto o in stazione i loro figli, studenti fuori sede, scampati al pericolo di finire in terapia intensiva o - peggio - di crepare, le nonne li rimpinzano di ogni ben di Dio, pasta al forno, parmigiana di melanzane, polpettone, peperonata, caponata, come se i nipoti giungessero deperiti e stremati dal fronte. Il Sud sempre maltrattato, deriso, osteggiato, compatito, costretto a permanere ai margini, escluso, fanalino di coda della Nazione intera, si è adesso preso la sua rivincita sul Nord ed i polentoni che lo popolano, considerati quali untori, appestati da cui stare alla larga. Anzi, da tenere alla larga e rispedire altrove. Tramonta con il virus made in China il valore supremo dei terroni, ossia la rinomata e celebrata ospitalità: lombardi e veneti non sono graditi, se ne stiano a casa loro, in compagnia del Corona. La paura induce alla chiusura, alla circospezione, alla diffidenza, persino all'odio. E così, per la legge del contrappasso, principio in base al quale i colpevoli di qualche crimine o peccato patiscono proprio ciò che hanno inflitto, i polentoni vengono ghettizzati e messi al bando, come se diffondessero terribili morbi per il solo fatto di provenire da determinate aree del Paese.

CARTELLO-BURLA. E la memoria storica vola subito al periodo in cui gli immigrati del Sud, quelli che poi avrebbero in parte meridionalizzato il Nord, subivano discriminazioni di ogni tipo nelle città in cui approdavano per motivi di lavoro con la valigia di cartone. "Non si affitta ai settentrionali", si legge su un cartello la cui immagine in questi giorni sta girando sul web. Probabilmente si tratta di una burla, tuttavia non vi è dubbio che da Roma in giù stia montando un desiderio di vendetta nei confronti dei settentrionali, che, covato per decenni e decenni, soltanto ora ha trovato una "buona" occasione per tracimare ed esprimersi in tutta la sua virulenza. Coloro che dimorano nel Mezzogiorno si dicono orgogliosamente "sani" e puntano il dito contro quelli che vivono dalla parte opposta, i quali per i loro costumi promiscui, il loro stile di vita cosmopolita e moderno, ricco ma rischioso, si sono beccati il coronavirus. «E adesso che se lo tengano. Ben gli sta!», mormora qualcuno. È il momento di gettare benzina sul fuoco di vecchie faide familiari, mai sopitesi. Di saldare i conti in sospeso, sventolando il pretesto dell'emergenza sanitaria. Dunque, vietare l'ingresso in certi comuni o regioni a milanesi e torinesi, o a lombardi e veneti, diventa in qualche modo giustificato, giusto, ammissibile ed ammesso, sebbene tali provvedimenti non sorgano soltanto dall'esigenza di salvaguardare gli autoctoni, evitando che la malattia si propaghi, ma pure da un bisogno impellente di rivalsa. Pure coloro che non giungono dalla cosiddetta zona rossa, ossia dal focolaio dell'infezione, sono guardati con sospetto e li si prenderebbe volentieri a sberle, purché muniti di tute protettive, guanti in lattice e mascherine.

POLENTA O POLPETTE. Insomma, se fino ad ieri il razzismo era indirizzato ai cinesi, ora ha come bersaglio i nordici. E ci si dimentica un elemento fondamentale: a prescindere dal fatto che mangiamo prevalentemente polenta e cotolette o preferiamo divorare polpette e maccheroni, siamo tutti quanti italiani e componiamo un unico organismo, l'Italia. E se di questo organismo si ammala una parte, quantunque piccola, o pure estesa, allora esso è acciaccato tutto e la febbre che lo prende non si concentra solamente nel punto dolente. L'unità è stata fatta nel 1861, eppure essa è rimasta incompiuta. Siamo diventati Stato, ma non siamo mai diventati popolo unitario. Restiamo frammentati, divisi, spesso ostili gli uni con gli altri. Il coronavirus ci è piovuto addosso dalla Cina per mostrarci i nostri limiti.

Coronavirus, il Sud si "vendica": "Non si affitta ai settentrionali". Un cartello, probabilmente fake, apparso in rete ha scatenato le polemiche. Il coronavirus al Nord sembra aver dato il via alla "discriminazione al contrario". Giorgia Baroncini, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. "Non si affittano case ai settentrionali". È quanto recita un cartello che sta facendo il giro del web. Con molta probabilità si tratta di un avviso fake creato da Kotiomkin, libero laboratorio di satira, ma la frase sta alimentando il dibattito tra gli utenti. La diffusione del coronavirus al Nord, in particolare in Lombardia e Veneto, sembra aver dato il via alla "discriminazione al contrario", come spiega il Messaggero. Negli anni sono stati i meridionali a finire nel mirino dei settentrionali con i più classici stereotipi italiani. Ora la situazione, si ribalta con la proposta di misure per contenere la diffusione del virus cinese nel Sud Italia. E così sul web è apparso il cartello "Non si affittano case ai settentrionali" che fa il verso agli annunci appesi nei palazzi delle regioni del Nord in cui i proprietari di casa si rifiutavano di dare alloggio a chi veniva dal Sud. Ora è arrivato il momento della "vendetta" dei meridionali. Non è ancora chiaro se il cartello che impazza sui social è ironico o autentico, ma è bastato a scatenare le polemiche.

I commenti. In rete c'è infatti chi ha preso la scritta come un gioco, chi ha pensato di mettere in pratica misure per arginare l'arrivo di settentrionali e chi si è indignato. "Rivincita terrona. Non si affittano case ai settentrionali", "Aiutiamo i settentrionali a casa loro", "Chi la fa, l'aspetti", "Terroni, questo è il vostro momento", ha ironizzato qualche utente. Altri invece si sono scagliati contro l'annuncio: "Che vergogna queste sanguisughe", "Il karma....la ruota gira....ora tocca a voi!! Ma che problemi avete....e che cazzo di persone siete!?", "In un momento del genere non capisco cosa ci sia da ridere", si legge tra i commenti. Ma c'è anche chi non si è lasciato scappare l'occasione per rivolgere degli insulti: "L'Italia è un paese di coglioni, e ciò si evince dal fatto che i settentrionali coglioni stanno venendo al sud infettando in tal modo persone sane. Complimenti davvero, un applauso a questi fenomeni!!!". In molti ha invece cercato di sdrammatizzare la situazione, ma il cartello ha scaldato gli animi.

IL CARTELLO MEME NON SI AFFITTA AI SETTENTRIONALI. Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Il cartello con la scritta Non si affitta a settentrionali per adesso gira soltanto sui social e sui gruppi WhatsApp dove tutti sono bravi a ironizzare con il virus degli altri. Però se va avanti così, prima o poi si rischia di trovarlo anche affisso su qualche portone di un paese qualsiasi al di sotto del Garigliano. Perché di fronte alla paura del contagio, sono in tanti a scoprirsi salviniani al contrario, pronti ad adottare una improvvisata politica di respingimenti, con gli indesiderati che stavolta non arrivano dall' Africa ma dalla Lombardia e dal Veneto. I primi a muoversi in questo senso sono stati sei sindaci ischitani, rimessi subito in riga dal prefetto di Napoli che ha annullato l' ordinanza con la quale vietavano lo sbarco sull' isola a turisti provenienti dalle due regioni dove si è maggiormente sviluppata l' infezione. «Non ci sono i presupposti giuridici per un provvedimento del genere - spiega al Corriere il prefetto Marco Valentini - e compito delle istituzioni, in un momento del genere, è mantenere la calma e l' equilibrio, non fare inutili fughe in avanti». Fughe che però ci sono state comunque. In Basilicata il governatore Vito Bardi ha disposto la quarantena per gli studenti lucani che rientrano da Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria e Emilia Romagna. Regioni elencate pure dal sindaco di Gravina di Puglia, Alesio Valente, che ha invitato chiunque intenda entrare in paese provenendo da quelle zone a comunicarlo telefonicamente alla polizia locale, fornendo nome, data di arrivo e indirizzo di dove si intende soggiornare. Insomma, che si tratti di connazionali o concittadini non fa molta differenza: se stanno dove il Covid-19 ha attecchito è meglio che ci restino, sembra essere l' auspicio di chi da quelle aree è lontano centinaia di chilometri. In Irpinia, per esempio, nessuno ha accolto con piacere i due insegnanti fuggiti da Codogno prima che scattasse la quarantena, e che ora l' isolamento obbligato lo stanno facendo a casa loro, dove avranno tutto il tempo di leggere la valanga di insulti ricevuti su Facebook. E peggio ancora è andata a una comitiva di turisti provenienti proprio da Lombardia e Veneto (ma non dalla zona rossa) che a Benevento si sono visti cancellare dal titolare dell' albergo le prenotazioni fatte nelle scorse settimane. Perché, pure se non c' è nessun cartello, in certi posti adesso davvero non si fitta a settentrionali. 

Dagospia il 25 febbraio 2020. Da I Lunatici Radio2. "Io vivo alle Mauritius da dieci anni e manco dall'Italia da due anni. Eppure il mio ristorante di cucina italiana nel sud di Mauritius sta perdendo tantissimi clienti negli ultimi giorni. Molti clienti mi fanno battute perché sono italiano. C'è razzismo verso di noi, mi fanno battute brutte, mi chiedono se mi sono lavato le mani o cose del genere. Il razzismo c'è in Italia contro i cinesi ma c'è anche qui contro gli italiani". Fa riflettere lo sfogo di Giuseppe, ristoratore italiano che da dieci anni vive alle Mauritius e che questa notte ha chiamato i Lunatici di Rai Radio2, Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Giuseppe dopo aver composto lo 063131 si è sfogato: "Che c'entro io con il Coronavirus? Sono due anni che non vengo in Italia", ha ripetuto. "La clientela del mio ristorante in questi giorni è molto diminuita e quelli che vengono quasi mi guardano male".

(ANSA il 25 febbraio 2020) - "E' stato un incubo. Sono emotivamente distrutto, arrabbiato; un gran dispiacere. E' stata una presa di posizione assolutamente non di buon senso. Vacanza di una settimana buttata alle ortiche per i miei 60 anni, festeggiati praticamente in aereo, con le mie figlie in lacrime che si sono viste portar via un sogno. Un gran danno emotivo. Ho visto scene di pianto, di urla, di disperazione perché non sapevamo che fine avremmo fatto. Devo ringraziare il comandante dell'Alitalia, che ha saputo gestire la situazione, a fronte di una zero ospitalità locale: mi sono sentito 'cittadino di Alitalia'". E' la testimonianza all'aeroporto di Fiumicino di un milanese rientrato dalle Mauritius con il gruppo di 40 connazionali originari della Lombardia e del Veneto che hanno scelto di tornare in Italia dopo aver rifiutato l'opzione della quarantena disposta dalle autorità locali. "Non so neanche con chi devo prendermela per quello che è successo. Mi piacerebbe che ora, non so chi, qualcuno facesse un gesto nei nostri confronti. E mi auguro di non perdere i miei soldi, sarebbe una beffa tremenda - ha raccontato ancora -. Ci hanno fatto solo scendere in un corridoio di approccio all'aeroporto; siamo stati seduti per terra, non ci hanno neanche fatto accedere ai bagni, al bar; solo tempo dopo ci hanno dato dei tramezzini con dell'acqua. C'erano bimbi piccoli, una di un anno e mezzo che, povera stella, non aveva neanche i pannolini di ricambio, e che è diventata la mascotte del gruppo; isolati per ore, le notizie rimbalzavano ed in pratica siamo stati sull'aereo per più di 24 ore, avremmo fatto il giro del mondo. Ad un certo punto, colpo di scena, le autorità locali hanno chiesto chi fosse della Lombardia e del Veneto e che dovevamo rimanere a bordo. Abbiamo capito che la vacanza sarebbe saltata. Nessuno di noi ha fatto il furbo, facendo finta di non essere di tale provenienza e provando quindi a scendere". "Ciò che è successo, e ce ne siamo accorti solo dopo un paio di ore di attesa prima di poterci imbarcare, è alquanto strano e da un punto di vista microbiologico, assurdo - ha detto invece uno dei passeggeri, diversi dei quali con indosso le mascherine, rientrati dalla vacanza alle Mauritius e che hanno viaggiato con i 40 connazionali lombardi e veneti - perché se sono dei passeggeri che l'Italia ha lasciato uscire, vuol dire che non sono dei passeggeri contagiati e quindi avevano tutto il diritto di poter sbarcare. Ed invece li hanno sottoposti ad una specie di "ricatto": o scendete e state in quarantena o ve ne tornate, creando un clima di paura pure tra di noi. Molti passeggeri, infatti, che stavano alle Mauritius e che dovevano tornare a casa, hanno preferito non prendere questo aereo".

Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Si preparavano a una vacanza di sole e mare, di relax. Hanno rischiato di finire in quarantena per quattordici giorni, in un ospedale a 8 mila chilometri da casa. Sono le 7 e tre quarti del mattino, ora italiana, quando l' Airbus dell' Alitalia partito la sera prima da Fiumicino atterra all' aeroporto di Mauritius, nell' Oceano indiano. A bordo del volo AZ772 ci sono 212 passeggeri e 12 membri dell' equipaggio. Il messaggio nella cabina di pilotaggio era arrivato pochi minuti prima, quando il comandante aveva appena iniziato la discesa verso quella settimana di mare d' inverno che è la vera destinazione di questo volo. Dicono dalla torre di controllo che, una volta atterrati, tutti i passeggeri dovranno rimanere a bordo in attesa di istruzioni. All' inizio il comandante pensa che ci sia qualche problema nell' aeroporto di arrivo. Anche perché la sera prima, al momento del decollo, tutto era regolare, non c' era stata nessuna comunicazione particolare. Le autorità di Mauritius non avevano detto nulla a quelle italiane, zero comunicazioni anche ad Alitalia. E invece il problema è proprio quello, il coronavirus, il contagio che si è diffuso in Italia, al momento solo in alcune regioni del Nord. In un primo momento, come comunicato dalla torre di controllo, tutti i passeggeri e i membri dell' equipaggio vengono trattenuti a bordo. E subito la questione diventa un caso diplomatico. Viene coinvolta l'ambasciata di Pretoria, in Sud Africa, competente per Mauritius. E quindi l' Unità di crisi del ministero degli Esteri. Ci sono momenti di tensione, diciamo così. Non solo per il caso specifico, che comunque coinvolge più di 200 persone. Ma anche perché sono tutti consapevoli che quell' Airbus fermo sulla pista di Mauritius rappresenta un precedente, il primo caso di quella che potrebbe essere una lunga serie di stop ai voli in arrivo dall' Italia, in questo momento il terzo Paese al mondo per numero di contagi. E con l' aggravante che siamo stati proprio noi, in Europa, i primi a chiudere i voli con la Cina dopo l' inizio dell' epidemia di coronavirus. Dopo un' ora buona di negoziato viene trovato un compromesso. Possono scendere tutti i passeggeri, tranne quelli che subito prima del volo partito da Fiumicino ne avevano preso un altro dagli aeroporti lombardi o veneti, in sostanza Milano o Venezia. Quelli che rimangono sull' Airbus sono in tutto 40. E hanno davanti due strade: 14 giorni di quarantena in due ospedali a Mauritius, prima di cominciare una vacanza che però a quel punto sarebbe già finita perché i pacchetti sono di solito di una settimana. Oppure essere rimpatriati subito, con lo stesso volo Alitalia, già programmato nel pomeriggio per Fiumicino. La scelta non rasserena gli animi. Anzi. «Gli italiani residenti a Roma o Bologna sono potuti entrare, noi no. Una decisione assurda» dice Daniele Tagliapietra, imprenditore di Mestre, intervistato dal Corriere del Veneto , in vacanza con la figlia di 15 mesi. «Che senso ha? Abbiamo viaggiato per dieci ore sullo stesso aereo». Ma da Mauritius non vogliono sentire ragioni. Dopo qualche momento di confusione, i quaranta posti vengono trovati sull' aereo di ritorno. Tutti i 40 i passeggeri bloccati decidono di ripartire. Meglio evitare una quarantena dall' altra parte del mondo.

Puglia, quando arrivò il colera nel 1973 il Nord ci sbeffeggiò. Senza i social poche «fake news». E nessuno contro l’Africa. Ugo Sbisà il 25 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La psicosi generata dalla diffusione del coronavirus e soprattutto i provvedimenti amministrativi di chiusura che, al Nord e in diverse regioni, stanno riguardando molti luoghi pubblici, risvegliano nella memoria di chi li ha vissuti il ricordo dell’epidemia di colera che nel 1973, insieme con Napoli, mise a dura prova anche Bari. Era all’incirca la fine di agosto quando si verificarono i primi casi in città e per molti si trattò di una vera e propria doccia fredda: l’ultima epidemia di colera a Bari risaliva infatti al 1837, mentre la città si era «salvata» da una nuova ondata che aveva riguardato l’intero meridione nel 1873. In altre parole, il colera sembrava un male confinato all’Ottocento e sopravviveva nella memoria degli anziani o, tutt’al più, in quella dei lettori di romanzi di ambientazione esotica. Questo spiega perché i primi casi colsero alla sprovvista le strutture sanitarie e le farmacie, prive dei farmaci necessari per la prevenzione e la cura della malattia. Ma - e questo è decisamente peggio - la diffusione del vibrione era tradizionalmente associata alle cattive condizioni igieniche e questo favorì la circolazione di notizie non sempre veritiere diffuse soprattutto dagli inviati di certa stampa del Nord che, in particolare nel descrivere le condizioni di vita di Bari vecchia, calcarono sin troppo la mano, raccontando di miasmi insopportabili e soprattutto di topi che, al calar del sole, diventavano i padroni incontrastati dei vicoli e persino delle abitazioni...Esagerazioni a parte, l’amministrazione comunale - all’epoca guidata dal democristiano Nicola Vernola - intervenne prontamente disponendo la chiusura di tutti i locali pubblici, cosicché, in quel caldo scampolo d’estate, i baresi dovettero rassegnarsi a trascorrere le serate in casa, dividendosi tra il televisore (con la sola scelta tra Raiuno e Raidue) o rispolverando con grande anticipo sul Natale i giochi di carte e di società. Fuori casa nessuno avrebbe mai rischiato di bere persino un semplice bicchiere d’acqua, meno che mai se di rubinetto. Cinema, teatri, ristoranti erano tutti rigorosamente chiusi e lo stesso Vernola, anni dopo, ricordò divertito di essere stato chiamato da un allarmatissimo Aldo Moro pochi giorni dopo lo scoppio dell’epidemia: i due avevano pranzato assieme la settimana precedente e Vernola, da buon barese, aveva consumato delle cozze crude. Di qui la preoccupazione dello statista salentino che il primo cittadino potesse aver contratto la malattia. Ovviamente, la cautela non si fermò ai luoghi di svago, ma riguardò anche l’inaugurazione della Fiera del Levante e persino le scuole, tant’è che quell’anno 1973-74 s’iniziò con oltre un mese di ritardo. E furono forse gli studenti gli unici che, con una punta di incoscienza, guardarono al vibrione con una certa simpatia. I più fortunati di loro ripararono con le madri nelle case estive, considerate più «sicure» perché lontane dal focolaio d’infezione. La situazione cominciò a normalizzarsi con l’arrivo del vaccino in grande quantità, che coincise anche con un lento ritorno alla normalità. L’emergenza era durata all’incirca un paio di mesi, ma soprattutto - sebbene il colera fosse un male curabile con rimedi noti e non un virus ancora in attesa di antidoti - era stata affrontata senza psicosi. Merito di una ferma ed efficace gestione sanitaria - si distinse, fra i tanti, il prof. Nicola Simonetti - e amministrativa, ma soprattutto anche di una più «sana» informazione. Quarantasette anni fa, internet era pura fantascienza e in loco le notizie o le raccomandazioni circolavano solo sulla carta stampata, in radio e in televisione, ma sempre dopo essere state accuratamente valutate e verificate. In altre parole, l’epoca delle fake news era di là da venire e il mondo della politica non si azzardava minimamente a strumentalizzare le emergenze per attaccare i propri avversari. Un ultimo aspetto: fermo restando che la città di allora era forse meno pulita di quella di oggi, alla fine il focolaio dell’infezione venne identificato a Napoli in una importante partita di cozze arrivata sui mercati del Sud dal Nordafrica; il caldo e una certa disinvoltura igienica delle zone colpite avevano fatto il resto. Ma nessuno se la prese col Nordafrica...

Ritorna il razzismo: la Storia non è maestra di vita. Gilberto Corbellini il 5 Novembre 2019 su Il Riformista. Il razzismo sta ritornando in Italia, se mai era scomparso, e nei prossimi decenni spazzerà lo stivale in lungo e in largo, con conseguenza per ora non prevedibili. I segnali quotidiani sono la punta dell’iceberg: basta ascoltare per strada, nei bar, tra i ragazzi davanti alle scuole o alle aule universitarie, sui treni, allo stadio e nei palazzetti dello sport, etc. E questo malgrado gli applausi di 151 senatori a un progetto nato morto, quello della senatrice a vita Liliana Segre. Addolora la messinscena parlamentare che ha consentito ai razzisti veri, potenziali o inconsapevoli di mettere a segno un non secondario risultato propagandistico, esponendo la povera Liliana Segre alla berlina, insieme al politicamente corretto. Non lo meritava, la senatrice. Non merita neppure di ricevere sulla sua posta elettronica duecento insulti antisemiti al giorno. Il tutto più che prevedibile. Perché esporre la signora Segre al dolore di vedere dei nazistoidi irriderla? Riuscendo ad apparire addirittura anticonformisti… E poi, in che consiste e a che serve l’istituzione di una Commissione per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo? Cos’è? Esistono già leggi per perseguire questi i reati. Serviva proprio ravvivare i sentimenti razzisti diffusi nel Paese? Il documento è un assist a vantaggio del razzismo montante. Ha consentito ai razzisti di aggregare qualche sedicente liberale. È noto che l’Italia, insieme ad alcuni Paesi slavi, ha i più alti tassi europei di razzismo e antisemitismo. È anche il Paese dove circa il 70% dei cittadini manca delle competenze per capire come funzionano le società della conoscenza e il 40% è analfabeta funzionale – nel senso che se costoro leggono un paragrafo che contiene affermazioni in contraddizione non se ne rendono conto. Siamo all’ultimo posto tra i Paesi Ocse. Il quoziente intellettivo, e in seconda battuta, il livello di istruzione sono le condizioni predittive della refrattarietà al razzismo; essere un po’ ignoranti aiuta, anche se non sempre basta, a crescere antisemiti e razzisti. Non c’è più niente che si possa fare. Il razzismo è alle porte e vedremo che cosa riserverà. I principali alleati del razzismo sono il politicamente corretto, cioè l’egualitarismo ideologico, caratterizzato da quell’atteggiamento di superiorità morale e braccia aperte ai migranti, a prescindere, che scatena sentimenti di odio per i diversi e anti-intellettualisti; e la Storia come patrimonio morale, cioè l’idea che si possano per esempio correggere le storture del razzismo e dell’antisemitismo facendo appello alla memoria. Con tutto il rispetto dovuto al Presidente della Repubblica Mattarella, egli sbaglia, tragicamente sbaglia, quando dice, circa una volta la settimana, che sarebbe un dovere morale “ricordare” le tragedie del passato. Non ci sono prove che ricordare tenga lontano l’odio; serve a credere ingannevolmente che la memoria sia un fatto oggettivo. La Storia non porta a nessuna responsabilità morale: non è mai accaduto e mai accadrà. Al contrario, può trascinare con sé le brutte emozioni che hanno causato nel passato le stesse o analoghe tragedie. La Storia, quando arriva al popolo che si vorrebbe educare, diventa un racconto funzionale a darsi ragione o autoassolversi. Se fosse vero che la Storia serve a migliorare l’etica pubblica, saremmo un popolo virtuoso e senza razzismo, stante la quantità che ci è stata e viene propinata. E invece… siamo un paese di ignoranti, razzisti e corrotti. Lo storico David Rieff, figlio di Susan Sontag, ha pubblicato nel 2016 un libro intitolato Elogio dell’oblio, dove afferma che «a maggior parte degli argomenti a sostegno della memoria collettiva come imperativo morale e sociale» sono discutibili. La celebrata ingiunzione di George Santayana, «coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», è falsa. Si pensa che ricordare voglia dire essere responsabili: verso verità, storia, il proprio paese, etc. ma «è un atto di irresponsabilità, che minaccia di minare sia la comunità che, nella nostra era terapeutica, noi stessi». Rieff passa in rassegna i più noti eccidi etnici per provarlo. Non dobbiamo negare il valore della memoria per insistere sul fatto che la documentazione storica non giustifica il passaporto morale che al ricordo viene solitamente concesso oggi. «La memoria storica collettiva – insiste Rieff – e le forme del ricordo che sono la sua espressione più comune, non sono né fattuali, né proporzionali, né stabili». Sono narrazioni ricostruite e interpretate, con il rischio che diventino strumenti per disseppellire sempre lo stesso odio.

Marco Pasqua per ilmessaggero.it il 10 febbraio 2020. Un gruppo di cinesi (tra questi anche minorenni) aggrediti verbalmente in strada da tre giovanissimi. Un'aggressione registrata domenica scorsa a Roma, nella zona di Don Bosco, in piazza dei Consoli. Una famiglia di cinesi si trovava in strada quando, all'improvviso, tre ragazzi, intorno ai 15 anni di età, hanno iniziato ad insultarli. Ma non avevano fatto i conti con i cittadini che hanno assistito alla scena e che hanno deciso di intervenire in difesa delle vittime di quell'aggressione verbale. Un signore cerca addirittura di bloccare il ragazzo, che urla: «Lasciami stare, mi devi portare rispetto». Sul posto è intervenuta la polizia del commissariato Tuscolano, anche se i cittadini cinesi non hanno sporto denuncia. «Avete il Coronavirus, andateve via», avrebbe gridato un giovane. «Che sono queste parole?», urla un residente all'indirizzo degli aggressori, faticando non poco nel tenerli a distanza dalla famiglia cinese. «Cinesi di merda», rincara la dose il ragazzo, sui 15 anni di età. Tra le vittime dell'aggressione verbale anche una ragazza incinta. Quando la polizia è arrivata sul posto, ha sorpreso uno dei tre aggressori con un coccio di bottiglia tra le mani: il giovane è stato identificato e poi riaffidato ai genitori. «A Roma un gruppo di ragazzi cinesi è stato aggredito. È vergognoso. Ferma condanna di quanto accaduto: episodi come questo sono frutto di ignoranza e razzismo. Roma è vicina alle vittime di quest'aggressione», scrive su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.

Da adnkronos.com il 22 febbraio 2020. Ancora un'aggressione ai danni di una cittadina di origine cinese a Torino, questa volta di giorno e in pieno centro. La donna, una quarantenne, era per strada, è stata prima apostrofata con epiteti come “cinese virus, vai via” da una coppia che poi l'ha aggredita. Dopo essersi fatta medicare in ospedale, per le lesioni riportate e una prognosi di alcuni giorni, la donna ha sporto denuncia alla polizia. Sull'episodio indagano gli agenti del commissariato Dora Vanchiglia. L'aggressione subita dalla signora è la seconda che si verifica nel capoluogo piemontese. La scorsa settimana una coppia di giovani era stata aggredita a tarda sera mentre stava tornando a casa dal lavoro alla periferia nord della città. Dopo essere stati insultati, i due erano stati colpiti con alcune bottiglie da alcuni giovani.

Nel bene o nel male umanità senza barriere. Carlo Fusi l'1 Febbraio 2020, su Il Dubbio. Il panico da pandemia si vince se riusciamo a tenere unite due dimensioni. La prima è che l’umanità sempre più è senza barriere, nel bene e nel male. La seconda, che questa situazione è sinonimo di nuove opportunità ed eterne fragilità. E adesso questa entità impalpabile, con un diametro che varia tra 20 e 300 nanometri, e ogni nanometro è pari a un miliardesimo di metro, aleggiando spazia dovunque: nell’attesa di infilarsi capricciosamente nei polmoni del primo che capita a tiro. Contemporaneamente – come i virus, appunto – l’immaterialità si tramuta, e aggredisce quanto di più imponente e solido ci riguarda: l’apparato industriale, costretto a bloccarsi e a strozzare perfino una delle economie più potenti al mondo come quella cinese. Dunque mentre non dobbiamo cedere agli allarmismi e al corto circuito mentale che ci fa vedere un infetto o, peggio, un untore in chiunque abbia tratti somatici asiatici, non possiamo non domandarci: che succede, di cosa dobbiamo avere davvero paura, da cosa e come dobbiamo difenderci? La mondializzazione, l’interconnessione da villaggio globale come avrebbe detto Umberto Eco, ci circonda e avvinghia. Sottrarsi non solo è impossibile: sarebbe disastroso. Perché l’altra faccia della globalizzazione è che oggi possiamo salvaguardarci in modo enormemente più efficace rispetto al passato: e proprio in virtù dello scambio in tempo reale di scienza, conoscenza e capacità. Piuttosto colpisce la paradossalità di frontiere terresti e aeree blindate per fronteggiare patologie eteree ed incorporee. Sono due facce della stessa medaglia dei tempi che viviamo. Ecco, ma allora che si deve fare? L’attesa è per il vaccino, invincibile scudo stellare contro la pandemia. Nelle nostre menti e nei nostri cuori, dobbiamo tenere unite due dimensioni ognuna delle quali, da sola, può infettare razionalità e civiltà. La prima è che l’umanità sempre più è senza barriere, nel bene e nel male. La seconda, che questa situazione è sinonimo di nuove opportunità ed eterne fragilità. Il vaccino migliore è la profilassi dei nostri sentimenti e la razionalità dei comportamenti. Mettendo al bando al tempo stesso paura e fanatismi.

20enne italiano originario del Senegal picchiato in strada: «Negro... vai via». Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. La violenza di un gruppo di razzisti scatenati nel cuore di Palermo ha trasformato la movida del sabato sera in una bruttale mattanza. Tutti contro «questo negro di m...», come s’è sentito ripetere un ragazzo palermitano di venti anni, di origine senegalese, pelle olivastra, da anni residente nella città che della accoglienza ha fatto la «Carta» spesso sbandierata dal sindaco Leoluca Orlando. Ma l’altra notte il pestaggio ha avuto per scenario il centro storico, l’area fra via Spinuzza e via Cavour, a due passi dal Teatro Massimo. Senza una ragione apparente, sembra senza nemmeno il cenno di una provocazione, quasi come se si trattasse di una spedizione punitiva o di una lezione da assestare solo per spirito razzista, un gruppo di adolescenti che adesso polizia e carabinieri cercano attraverso i video delle telecamere di sorveglianza ha dato l’assalto al ragazzo rimasto infine sul marciapiedi col volto tumefatto, dolori a braccia e gambe, ecchimosi e tumefazioni diffuse. Proprio come se lo è visto consegnare all’alba a casa la madre, pronta a denunciare l’aggressione al popolo di Facebook: «Mio figlio ritornava a casa da lavoro. Gli gridavano “vattene via”... Perché tutto questo odio solo per il colore della pelle?». È il quesito che inquieta i due ragazzi di passaggio che forse gli hanno salvato la vita. Due testimoni intervenuti senza che altri provassero a separare dagli aggressori il giovane, incapace di difendersi nonostante avesse brandito per un momento la catena di una moto. La chiamata alla polizia e le urla di quei due giovani hanno fatto dileguare i ragazzotti. Poi la corsa in ospedale, al Civico, una prognosi di dieci giorni e il ritorno a casa da dove anche lui denuncia la rabbia via social postando la foto del pestaggio: «Sono io il ragazzo aggredito, vi ringrazio ancora. Urlo con voce alta che Palermo è una bellissima città accogliente e antirazzista, a Palermo ci sono tante belle persone, io mi trovo veramente benissimo a Palermo, ma ci sono pochi stro... che non sono mai usciti fuori Palermo. Gli consiglio di girare un po’ il mondo e di vedere come funzionano le cose. Sono veramente animali, troppo chiusi. Essere nero o bianco che senso ha? Non ho più parole. Comunque a Palermo ci sono sempre tante belle persone, non siete tutti razzisti, a Palermo i razzisti ci sono, ma sono pochissimi». Una posizione condivida da tanti giovani che replicano con messaggi di solidarietà «contro questi trogloditi». C’è chi chiede scusa, assicurando che «a Palermo non siamo tutti uguali, per fortuna». E chi spiega che non si tratta di razzismo: «È ignoranza». Ma c’è pure chi, come Alessandra, è turbata «non solo dai mostri aggressori ma anche da quanti era lì a guardare “lo spettacolo”». Stessa valutazione di Valeria: «Ecco scattare l’indifferenza di cui parla sempre Liliana Segre, l’indifferenza della folla che assiste passiva pensando di non essersi schierata ma che già ha scelto, con il suo silenzio e con il suo mancato intervento stando così dalla parte del male».

Tifosi del Verona  allo stadio con la sagoma  di Hitler sul berretto. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Allo stadio con un berretto che riproduce la sagoma di Hitler: ci hanno provato alcuni tifosi dell’Hellas Verona in occasione della partita contro il Bologna di alcune settimane fa e adesso sono i n procinto di ricevere un Daspo da parte della questura del capoluogo emiliano. Il gruppo, composto da una decina di ultras, è stato bloccato all’ingresso dello stadio Dall’Ara il 19 gennaio scorso e l’episodio è finito su un verbale di segnalazione alla Digos. I supporter del Verona non sono nuovi a episodi di ispirazione xenofoba e filonazista: alcuni mesi fa in occasione di un raduno un gruppo degli ultras più accesi aveva intonato un coro che definiva il verona «una squadra a forma di svastica». Il berretto finito al centro del caso difficilmente sarebbe passato inosservato: la visiera riproduce la sagoma della capigliatura di Hitler mentre al posto dei baffetti c’è la scala, simbolo dell’Hellas. L’immagine è completata dalla scritta «Verona». I cappellini sono stati immediatamente sequestrati. Le conseguenze per i tifosi che li sfoggiavano potrebbero essere di duplice natura: da un lato il Daspo emesso dalla questura di Bologna che impedirà ai responsabili l’ingresso negli stadi italiani; dall’altro una denuncia per violazione della legge Mancino che punisce ogni forma di incitamento all’odio razziale.

(ANSA il 10 febbraio 2020) - E' stato espulso dal gruppo della Lega Nord al Comune di Arzignano (Vicenza) Daniele Beschin, il coordinatore di Forza Nuova del vicentino finito sotto accusa per alcune frasi su Facebook sull'"italianità" della modella concittadina    , di origine senegalese, comparsa sulla copertina di Vogue Italia. Lo rende noto lo stesso Beschin, affermando di essere stato vittima di "giochi di palazzo e per delle guerre fratricide interne alla Lega che non mi riguardano, però - ribadisce - di razzismo nelle mie parole non c'era nulla". "Sono sorpreso e anche amareggiato - dice Beschin - nel constatare come le mie parole siano state volutamente fraintese e strumentalizzate. Il mio commento era riferito solo a dei canoni di bellezza e non al fatto che la bellissima Mati sia una ragazza italiana, fatto indiscutibile".

"Napoletani figli del colera vi mettiamo in quarantena": lo striscione shock dei tifosi dell'Inter. Considerata a rischio sicurezza la doppia sfida di semifinale di Coppa Italia tra il Napoli e la squadra nerazzurra. Ignazio Riccio, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Un nuovo episodio di discriminazione nei confronti del popolo napoletano ha agitato gli animi su internet. È diventata virale sui social network la foto dello striscione esposto a Milano a due passi dallo stadio San Siro. "Napoletani figli del colera vi mettiamo in quarantena", la frase incriminata, che evidenzia ancora una volta come il tifo calcistico spesso travalichi i limiti del buon vivere civile. I colori dello striscione, il nero e l’azzurro, non lasciano dubbi sugli autori del messaggio. I tifosi dell’Inter si preparano in questo modo alla doppia sfida di Coppa Italia tra la loro squadra e il Napoli, che garantisce l’accesso alla finale della competizione. Le reazioni dei tifosi napoletani sono state di sdegno e rabbia, anche perché gli autori dello striscione hanno fatto riferimento velatamente, ironizzando, anche alla vicenda del Coronavirus, che sta allarmando il mondo intero. Il clima di tensione tra le tifoserie rende le partite di coppa ad altro rischio e per questo motivo le forze dell’ordine si stanno preparando per evitare disordini e incidenti allo stadio. Recentemente ci sono state polemiche anche tra cittadini campani per la scelta di utilizzare alcune frasi di Massimo Troisi. Un incidente diplomatico fortuito, una provocazione o semplice campanilismo? Hanno fatto discutere le frasi scritte sulle luminarie natalizie installate nel Comune di San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, che hanno provocato la reazione stizzita dei cittadini del capoluogo campano. “Non sono napoletano, sono di San Giorgio a Cremano”, questa la scritta incriminata, una frase pronunciata anni fa dall’attore e regista Massimo Troisi, nato proprio in questo centro ai piedi del Vesuvio. Una serie di lampadine che richiamano le citazioni più importanti del compianto artista, volute fortemente dal sindaco Giorgio Zinno, che in questo modo ha, ancora una volta, reso omaggio al suo illustre concittadino. Troisi quella frase la proferì per rimarcare la sua origine umile, di uomo di provincia, non certo per offendere Napoli e i napoletani, ma oggi il richiamo a quell’espressione ha offeso i residenti della città partenopea. Ad alzare il polverone è stato sul suo profilo social Gianni Simioli, il conduttore della trasmissione di Radio Marte “La Radiazza”, che è andato giù duro contro l’iniziativa dell’amministrazione comunale. “A San Giorgio sono diventati leghisti? Non ci sono giustificazioni. Non venite quindi a dirmi che Massimo Troisi, che l’avrà anche pronunciata, abbia mai pensato di farne una luminaria di Natale”. I commenti al post di Simioli sono stati al vetriolo, con accuse e sberleffi agli organizzatori del Natale a San Giorgio a Cremano. Le uniche parole di affetto e di riguardo sono state rivolte proprio nei confronti di Massimo Troisi, che è stato riconosciuto da tutti come il principale esponente della nuova comicità napoletana, nata agli albori degli anni Settanta. Soprannominato “il comico dei sentimenti” o il “Pulcinella senza maschera”, è considerato uno dei maggiori interpreti nella storia del teatro e del cinema italiano.

Antonio Ruzzo per “il Giornale” il 29 gennaio 2020. Ipocrisia del fair play, di chi si illude che basti far indossare a un bambino la maglia della squadra avversaria e mandarlo in campo mano nella mano con i campioni per insegnargli i valori dello sport. Ipocrisia di un calcio incapace a volte (spesso) di dare l' esempio. Di un calcio che insulta, fa «buuu», minaccia, fa a botte e arriva anche a uccidere come è successo poche settimane in un agguato tra tifosi in Basilicata. Ipocrisia di uno sport che s' indigna e che alla fine mette alla gogna un ragazzino di nove anni che in realtà fa solo ciò che vede, ciò che gli insegnano, che fanno gli adulti e i suoi «eroi» in campo e fuori. La storia è di pochi giorni fa. Domenica sera, quando allo stadio entrano in campo Napoli e Juventus, ad accompagnare le squadre come sempre ci sono anche i bambini che indossano le maglie di padroni di casa e avversari e si mettono a centrocampo per salutare il pubblico. Davanti alle telecamere, che lo inquadrano con la divisa bianconera dell'«odiata» Juve, c' è però un bimbo-mascotte che copre il simbolo dello scudetto bianconero fiero di rivendicare il tifo e una rivalità che a Napoli è sanguigna, che va oltre la logica, oltre Higuain e anche oltre a Sarri. Roba da grandi. Ma lui è in campo e quindi ne approfitta. Buonsenso vorrebbe che finisse tutto lì. Anche e perchè è già successo, durante un derby Juve-Toro, che una piccola mascotte granata che indossava la maglia bianconera mimasse alle telecamere la cresta del «gallo» Belotti. E invece (purtroppo) la storia continua perchè a fine partita, sotto il naso del piccolo tifoso partenopeo, qualcuno mette addirittura un microfono e lui completa l' invettiva anti juventina scimmiottando ciò che fanno gli adulti con una colorita serie di insulti. Tanti anni fa sarebbe finita con una sgridata, una sculacciata o magari un ceffone. A futura memoria, a spiegargli che alla sua età andare in campo al San Paolo con Ronaldo, Dybala, Ruiz o Insigne non capita a tutti e non serve fare i fenomeni ma bisogna imparare a stare al proprio posto. Ma ormai web e social amplificano ogni respiro. Così in poche ore il video di quell' assurda «intervista» finisce in rete commentato da decine di migliaia di persone: «Come sempre accade - spiega l' avvocato della famiglia Sergio Pisani - si è scatenata una vera e propria gogna contro il piccolo e la sua famiglia con migliaia di commenti, di insulti e anche minacce. Ho chiesto l' immediata rimozione del video da parte di chiunque lo abbia pubblicato o solo condiviso perchè è assurdo che un minorenne possa subire l' invadenza di microfoni e telecamere senza il consenso dei genitori...». Ma sono gli adulti a dare l' esempio. Nella vita e anche nello sport perchè è lì che si comincia. Nei campetti di periferia, negli spogliatoi, nelle sfide tra pulcini, allievi, juniores è tutto uno scimmiottare ciò che fanno i grandi in campo e fuori. E non sempre il circolo è virtuoso, anzi: la deriva è pessima. Non c' entrano solo il calcio, la pallavolo, il basket o chissà quale altro sport, non c' entrano solo i campioni che insultano, mandano arbitri a quel paese, barano in campo e fuoricampo. C' entrano cultura ed educazione. C' entrano genitori arroganti sugli spalti che sono ugualmente arroganti in auto, durante la coda ad uno sportello, con i professori dei loro ragazzi, al lavoro, in casa. E i figli fanno ciò che fanno loro perchè sono carte assorbenti che raccolgono il bene e il male. E' una perversa catena di Sant' Antonio dove conta solo primeggiare, battere l' avversario, vincere e magari poi sbeffeggiare i battuti. E allora arrivano quasi come una boccata d' ossigeno le prime dichiarazioni di Quique Setièn, neo allenatore del Barcellona che, arrivato al Nou Camp, ha spiegato al mondo qual è la sua filosofia di sport: «Bisogna dare un' importanza anche allo sforzo, all' impegno, a come si valorizzano le risorse di cui si dispone e alla verità- ha detto- Stiamo trasmettendo ai nostri figli e alle nuove generazioni l' idea che se non vinci non sei una persona valida. Stiamo creando così una tremenda quantità di falliti». Il resto sono chiacchiere. Anzi, solo ipocrisia.

Da ilgazzettino.it del 3 dicembre 2013. Non è stata una decisione particolarmente felice quella della Juventus che, domenica scorsa per la partita contro l'Udinese, ha aperto le porte dello Juventus Stadium ai ragazzini delle scuole per riempire le curve, che erano state chiuse dal giudice sportivo per cori discriminatori. Ogni volta che il portiere dei friulani Brkic toccava palla, infatti, i ragazzi urlavano "Oh merda" all'indirizzo del giocatore. Il risultato? La società è stata multata.

Il caso di Telese Terme. “Quella bimba è stata in Cina”, scuola semivuota per rischio contagio: “Controlli ok, è psicosi coronavirus”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. La compagna di classe dei loro figli è una bambina cinese da poco rientrata dal suo Paese d’origine. Psicosi coronavirus in un istituto comprensivo di Telese Terme, piccolo comune in provincia di Benevento, dove da qualche giorno le classi sono semivuote per “evitare il rischio contagio”. Ore ad alta tensione in Campania dopo la notizia delle coppia di coniugi di nazionalità cinese che a Roma è risultata positiva al virus diffusosi in oltre 18 nazioni. Prima il caso di Sorrento, con gli abitanti scossi dalla visita della comitiva cinese che nei giorni scorsi sarebbe entrata in contatto con la coppia di coniugi colpita da coronavirus e ricoverata allo Spallanzani di Roma. Poi la protesta delle mamme dell’istituto comprensivo statale Telese Terme che hanno anche inviato giovedì 30 gennaio una lettera alla dirigente scolastica Rosa Pellegrino per chiedere “le iniziative intraprese” di comune accordo con l’Asl, “e se quest’ultima ha attivato i protocolli del caso”.

LA VICENDA – La bambina in questione frequenta la quarta elementare ed è rientrata il 29 gennaio scorso in Italia dopo aver trascorso diverse settimane in Cina, dove era tornata con i genitori per festeggiare anche il Capodanno. Un rientro che ha allarmato i genitori della scuola sannita, molti dei quali ha ritenuto opportuno non far andare i figli a scuola. La stessa alunna cinese è a casa “per scelta dei genitori” fa sapere la preside che questa mattina ha risposto con una nota alle spiegazioni chieste dai genitori che chiedevano un periodo di incubazione di 15 giorni. “Con grande senso di responsabilità e sensibilità, i genitori stanno privando la figlia delle attività didattiche pur di non creare scompiglio tra le famiglie” sottolinea la dirigente che aggiunge: “Il Paese in cui si è recata la bambina, Wenzho, è un piccolo centro sulla costa a circa mille chilometri dalla provincia di Wuhan, focolaio del virus”. La bambina, così come i genitori, è stata sottoposta ad accertamenti sia durante il periodo trascorso in Cina che al rientro in Italia. “Hanno superato ben quattro controlli aeroportuali in entrata e in uscita e non presentano alcun sintomo influenzale” fa sapere la dirigente scolastica. La dirigente sottolinea che non metterebbe mai a “rischio gli altri bambini” e che “la situazione è sotto stretto monitoraggio dell’Asl di Telese Terme, che ha confermato che non c’è necessità di quarantena per chi, pur rientrando dalla Cina, non presenta sintomi influenzali.  Sull’episodio il sindaco di Telese Terme Pasquale Carofano rassicura: “Il suo unico peccato è quello di essere andata in Cina per qualche settimana” spiega sottolineando che i suoi figli sono andati regolarmente a scuola. “La situazione è sotto controllo, la famiglia cinese quando è tornata in città il 29 gennaio scorso ha effettuato tutti i controlli del caso e non è emerso nulla di preoccupante”.

Marco Leardi per davidemaggio.it il 27 febbraio 2020. Un’uscita infelice. Cataloghiamola così. Ieri sera a L’Assedio, sul Nove, Michela Murgia ha pronunciato una battuta ironica nelle intenzioni ma davvero poco riuscita. La scrittrice, infatti, si è augurata che il Coronavirus prosegua ancora un po’ se il suo risultato sono le strade più vivibili e i mezzi pubblici semi-vuoti. Interloquendo con la conduttrice Daria Bignardi, che l’aveva convocata a Milano per supplire all’assenza del pubblico in studio (proprio a causa precauzioni anti-virus), Murgia ha affermato: “Ho viaggiato comodissimamente in un aereo semi-vuoto, sono arrivata in una città senza traffico. Le persone… normalmente non riesco a fare un passo. Può durare un altro po’ questo virus? Se il risultato è la vivibilità delle strade, io ci metterei la firma“. E la conduttrice, smorzando, ha più prudentemente chiosato: “Diciamo che ci sono dei pro e dei contro…“. Ora, utilizzare il sorriso per stemperare anche le situazioni più serie è cosa legittima ed anzi apprezzabile. Quindi non biasimeremo le intenzioni della scrittrice sarda, che nel salotto deserto della Bignardi voleva probabilmente destare simpatia. Le battute, però, sono come le ciambelle: non sempre escono col buco. E, soprattutto, bisogna saperle fare. Auspicare che il virus duri “un altro po’” in un momento in cui ci sono undici Comuni blindati, oltre 400 infetti ed ospedali in costante allerta non è proprio il massimo. Anzi, è fuori luogo. Anche il compiacimento per l’assenza di folle (segno di un impatto sociale ai limiti della psicosi), poteva essere posto in termini diversi, come del resto ha poi tentato di fare la stessa Bignardi. A naso, scommettiamo che non tutti i telespettatori abbiano gradito o compreso le affermazioni della scrittrice, a maggior ragione se sintonizzati dalle zone focolaio. Morale della storia: l’ironia è un’arte rara e solo chi la possiede davvero sa che ci sono tempi e modi per esercitarla con efficacia.

Nicola Porro contro Michela Murgia: "Coronavirus, che gliene frega dei morti? Spocchia di sinistra". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Ha fatto discutere, eccome, la sparata di Michela Murgia. La scrittrice rossa, ospite in tv, è riuscita ad augurarsi che il coronavirus "duri ancora un po'". La ragione? "I mezzi pubblici sono semi-deserti e le città sono più vivibili". Frasi agghiaccianti, contro le quali - tra gli altri - si scaglia anche Nicola Porro. "Nemmeno il coronavirus riesce a fermare la spocchia della sinistra radical chic", cinguetta su Twitter introducendo il commento di Max Del Papa contro la Murgia. Il pezzo contro la scrittrice è durissimo. Titolo: "Murgia, il classismo ai tempi del coronavirus". Un articolo nella cui conclusione si legge: " Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione". Parole di Max Del Papa, condivise in toto da Nicola Porro.

Murgia, il classismo ai tempi del Coronavirus. Max Del Papa, 28 febbraio 2020 su Nicolaporro.it. Michela Murgia loves coronavirus. Le tiene lontana la massa, sostiene, quel popolaccio lurido e pezzente ch’ella ostenta di amare, ma a debita distanza, di un amore secco, teorico, frigido, nella più distillata tradizione comunista. Questa Murgia, scrittora di un solo exploit, peraltro effimero, Abbacadora, Abracadabra, ma sul quale campa da quel dì, ama, non riamata, il coronavirus e va a dirlo da una esterrefatta Daria Bignardi, che, per l’occasione, scioglie il bigné del birignao e tenta di metterci una pezza. Fatica sprecata: Murgia, aplomb da casa del popolo, pretese da nobildonna del regno di Sardegna (se non hanno pane, dategli il coronavirus), va presa in blocco, con la cultura sproporzionata, la simpatia travolgente, la raffinatezza analitica, il profondissimo rispetto dell’altro. Quel librarsi nei cieli alti della riflessione con la levità di un gabbiano nutrito di erudizione. Fascista è chi fascista fa. La “matria”. La società patriarcale. La difesa da prontosoccorso di quell’altro soggettino equilibrato e accattivante, Chef Rubio, quello che vuol serenamente far fuori sovranisti e sionisti e lei, a sirene spiegate contro gli sconcertati: ma cosa dite, buzzurri, incolti, bifolchi, è una iperbole. Anche Murgia è una iperbole; vorrebbe il coronavirus “ancora un po'”: ora, lasciamo pur perdere il giochetto del “se l’avesse detto un altro, uno di destra, se l’avesse detto Salvini o la Meloni”: cosa sarebbe successo è chiarissimo, altro che iperbole, si sarebbe scatenata Murgia inveendo contro il fascista che è chi lo fa, la società maschilista, il razzismo, il nazismo, il sessismo: quante storie, Michela. Tutto già visto, già sentito, tutto strabusato e scontato. Piuttosto, è da rimarcare il curiosissimo concetto di solidarietà, di umanità, di socialità di questa Murgia qua. Eh, già. Ma non è la stessa paladina dei migranti senza limiti e confini, senza controlli e precauzioni? Non è la portavocia delle masse popolari, la paladona della sanità pubblica, del tutto pubblico nel nome di un nuovo rinascimento socialista? Non è quella del trasporto universale per il sale della terra, la difensora di ogni causa giusta, non è la stessa che si lascia ritrarre, mollemente abbandonata su una dormeuse, su morbidi cuscini mentre ride, languida e complice col prolifico disegnatore da centro sociale Zerocalcare in nome dell’amore proletario? Il punto non è “immaginiamoci se la sparata del coronavirus ti amo l’avesse detta un altro”: il punto è che l’ha detta proprio Murgia. Ipsa dixit. Also sprach Zaramurgia. L’amica del popolo, ma, soprattutto, del giaguaro. Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione. Anche se nessuno ci aveva mai provato, tranne, eventualmente, i due o tre lettori dell’Espresso ancora resistenti. Oh Murgia: e se il virus attaccasse anche i migranti? Se si scatenasse sui poveri, che non hanno mezzi per curarsi a dovere? Se mietesse vittime nel sud del sud del mondo? Fa niente, l’importante è che Murgia voli su un aereo da sola: lei, mollemente adagiata sulle poltroncine in pelle di povero, il pilota e una hostess in ruolo di schiava a farle vento. Fate largo, passa Murgia, svuotate le strade: forse, in verità, non c’era bisogno del coronavirus. Ma che fa? Se non altro abbiamo scoperto che il suo prontuario di democrazia progressiva, “fascista è chi il fascista fa” era autobiografico. Un po’ l’avevamo sempre sospettato, adesso è arrivata la conferma, autografa, dalla sconsolata Birignao Bignardi. ‘Acca miseria, Accabadora, Bibidibobidibù.

Libero è quasi felice perché il Coronavirus è arrivato anche al Sud: «Ora sì che siamo tutti fratelli». Enzo Boldi il 4 marzo 2020 su giornalettismo.com. Il 4 marzo 2020, andando in edicola a comprare i quotidiani, scopriamo che il Coronavirus è un novello Garibaldi che è riuscito a unire l’Italia. Il tutto appare in prima pagina, con il classico titolo a nove colonne, su Libero Quotidiano che quasi esulta per i primi casi di contagio anche nel Meridione. Secondo la testata diretta da Pietro Senaldi e Vittorio Feltri (sul lato editoriale), il Coronavirus al Sud è riuscito a far sentire gli italiani tutti fratelli, senza la discriminazione sulle persone affette nel Settentrione. «Virus alla conquista del Sud», recita il titolo di Libero nell’edizione pubblicata mercoledì 4 marzo 2020. Il tutto accompagnato da occhiello e sommario: «L’infezione crea l’unità d’Italia» e «Trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia: 55 morti, si allarga la zona rossa». Insomma, l’arrivo del Coronavirus al Sud sembra essere rappresentato come un novello Garibaldi che ha riportato unità nazionale. Si parla di caccia all’untore nel titolo che anticipa l’articolo scritto da Renato Farina, senza sottolineare – e non è un giudizio di merito, anzi – come la maggior parte dei contagi nel Sud Italia sia arrivato proprio da persone che hanno frequentato le zone rosse del Nord o altri centri delle zona: dall’uomo pugliese che è tornato da Codogno dove era andato in visita dalla madre, al poliziotto di Pomezia rientrato da un concerto dei Jonas Brothers al Forum di Assago (Milano). Insomma, ribadendo che non ha senso suddividere la popolazione in Nord e Sud, il target di Libero è completamente sbagliato.

Il concetto di unità d’Italia. Il Coronavirus al Sud non è una manna dal cielo per rinverdire gli antichi fasti dell’Unità d’Italia che, ricordiamo, è stata messa più volte a rischio dalla vecchia Lega Nord che chiedeva (e, in alcuni casi, continua a chiedere) la secessione del Veneto (tra i tanti), per non parlare della Padania. L’arrivo del Covid-19 nel Meridione non è un motivo per esultare.

Libero esulta per il Coronavirus al Sud. Mario Neri il 4 Marzo 2020 su nextquotidiano.it. Così come nella tragedia c’è sempre un filo di commedia e viceversa, Libero – ormai dedito a spegnere il fuoco dell’emergenza Coronavirus – oggi esulta per una “buona notizia” di quelle che in effetti non bisogna perdersi: l’infezione crea l’unità d’Italia perché il virus è partito alla conquista del Sud. E subito ecco i numeri della buona notizia: trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia. “Ora sì che siamo tutti  fratelli, finita la caccia all’untore del Nord”. Certo, Libero non sa – o non capisce – che non ci sono per ora focolai autonomi identificati al Sud, e questo significa che in effetti COVID-19 è arrivata nel meridione attraverso i contatti tra Nord e Sud (celebre il caso della Puglia, dove un uomo si è ammalato dopo aver visitato l’anziana madre dalle parti di Codogno, ma c’è anche Roma dove la figlia del poliziotto malato era stata ad Assago per un concerto dei Jonas Brothers). E quindi la “caccia all’untore del Nord” in effetti non ha ragione di essere conclusa, anche se non pare che sia mai seriamente cominciata (anche perché a Taranto se la sono presa con il cittadino pugliese, non certo con i lodigiani). Ma questi sono dettagli, meglio festeggiare: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta.

Mario Neri è uno pseudonimo.

"Virus alla conquista del Sud", titolo shock di Libero in prima pagina! Scoppia la bufera. Alessandro Sepe il 4 marzo 2020 su AreaNapoli.it. L'edizione odierna di Libero ha pubblicato in prima pagina un titolo davvero discutibile in merito all'emergenza Coronavirus. "Virus alla conquista del Sud", è l'orrendo titolo pubblicato in prima pagina dall'edizione odierna del quotidiano Libero. Il tutto accompagnato da occhiello e sommario: "L’infezione crea l’unità d’Italia" e "Trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia: 55 morti, si allarga la zona rossa". Un titolo davvero evitabile in un momento così difficile per il nostro paese. Tanti utenti sui social stanno aspramente criticando la scelta editoriale del quotidiano nazionale. Il Coronavirus al Sud, come vuol far intendere Libero, non è una manna dal cielo per rinverdire gli antichi fasti dell’Unità d’Italia che, ricordiamo, è stata messa più volte a rischio dalla vecchia Lega Nord che chiedeva la secessione del Veneto (tra i tanti), per non parlare della Padania. L’arrivo del Covid-19 nel Meridione non è un motivo per esultare.

Coronavirus, Libero: “Virus alla conquista del Sud, ora siamo tutti fratelli”. Claudia Ausilio 4 marzo 2020 su vesuviolive.it. I casi di coronavirus in Italia aumentano di ora in ora, tanto da spingere il Governo a varare delle misure speciali per contenere il virus. Dai focolai del Nord, oggi sono aumentati i contagi da Covid-19 anche al sud: è di ieri sera la notizia del primo caso ad Ischia, un turista bresciano in vacanza sull’isola verde. E’ così che il quotidiano “Libero” ci ricasca e pubblica in prima pagina un articolo dal titolo: “Virus alla conquista del Sud- L’infezione crea l’Unità d’Italia”. Un’espressione che sa di esultanza, che equivale a dire finalmente arriva pure nel Mezzogiorno e non siamo solo noi gli “appestati”. Eppure i casi di contagio al Sud non derivano da focolai locali, ma sono stati portati dalle zone rosse o gialle del Nord. Si tratta di turisti lombardi o di persone che sono state in quell’area anche solo per pochi giorni per motivi di lavoro o di svago. Il virus, invece, ha davvero avvicinato gli italiani, che almeno nelle tragedie o nelle difficoltà si dimostrano uniti. Non a caso i napoletani hanno dedicato uno striscione allo stadio alle popolazioni maggiormente colpite dai contagi: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il covid19”. 

“Libero” discrimina il Sud, esplode l’indignazione su Facebook. Emiliana D'Agostino il 4 marzo 2020 su labussolanews.it. Gianni Simioli pone all’attenzione dei suoi seguaci l’ultimo provocatorio (ma anche discriminatorio) titolo del giornale “Libero”: gli utenti sono indignati. Il giornale “Libero” ci è cascato di nuovo. Il noto conduttore di RadioMarte commenta con l’hashtag #merde l’ennesimo titolo discriminatorio del quotidiano e sotto il post, l’indignazione dei followers di Simioli esplode. C’è chi posta foto di cornetti, chi propone la radiazione dell’intera redazione di “Libero” e chi, invece, suggerisce usi alternativi per utilizzare le pagine del giornale, la maggior parte da svolgere in toilette. Eppure questo è solo l’ultimo attacco che “Libero” fa: al Meridione, ai migranti, alla comunità LGBT, alle minoranze di qualunque tipo.

La prima pagina dello scandalo. “L’infezione crea l’Unità d’Italia. Il virus alla conquista del Sud”: questo il titolo incriminato, stampato a caratteri cubitali in rosso e nero sulla prima pagina del giornale. Segue il bollettino di guerra che tutti i media di notizie da giorni ci informano, facendo particolare attenzione a trattare prima dei casi scoperti al Sud e, solo alla fine, arriva la notizia che la zona rossa del Nord va sempre più allargandosi. A concludere il tutto, nel taglio basso del giornale, un altro articolo che grida “Napoli difende il rapinatore”, facendo riferimento al caso del quindicenne ucciso da un Carabiniere durante una rapina.

Molto rumore per nulla. “Libero”, soprattutto negli ultimi anni, ci ha abituati a titoli del genere, titoli che fanno parlare di sé e destano scalpore. E certo, gli attacchi della redazione tutta e del direttore Vittorio Feltri rischiano spesso di offendere le coscienze di molti e sempre quelle di qualcuno. Eppure si tratta di titoli che, non a caso, non passano mai in sordina: creano un effetto, sebbene negativo, in chiunque venga attaccato nel titolo della giornata. Bisogna, dunque, chiedersi se c’è davvero bisogno di sentirsi toccati da titoli creati ad hoc per far parlare di sé. In fondo se non fosse per titoli del genere, chi ancora parlerebbe di carta stampata nell’era in cui le news online circolano velocemente e gratuitamente?

Da corriere.it il 28 febbraio 2020. Il governatore del Veneto intervistato ad Antenna 3-Nord Est. «La mentalità che ha il nostro popolo a livello di igiene è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani. L’alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale. La Cina ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi».

Coronavirus, Fraschini (Prima Pavia) se la prende con i napoletani. Polemiche per un post su Facebook del consigliere comunale. "Noi lombardi trattati come untori. Non accetto lezioni da chi vive nell'immondizia". Il sindaco: "Inaccettabile, mi dissocio". Manuela Marziani su Il Giorno il 29 febbraio 2020. Sta sollevando un vespaio il post pubblicato su Facebook dal consigliere comunale di Pavia Prima, Niccolò Fraschini. "Ci è voluto il coronavirus - scrive Fraschini - per far sì che noi lombardi ottenessimo finalmente la #secessione. L'unica differenza è che sono gli altri a secedere da noi appestati e non viceversa!". E ha anche aggiunto: "Noi lombardi veniamo schifati da gente che vive nell'immondizia (napoletani et similia) o che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest ha le fogne popolare da bambini abbandonati". Immediatamente il sindaco Mario Fabrizio Fracassi, esponente della Lega, ha replicato a Fraschini (che in consiglio comunale sostiene la maggioranza di centrodestra): "Come primo cittadino di Pavia e come italiano - ha detto il sindaco Fracassi -, mi dissocio senza se e senza ma dalle dichiarazioni di Niccolò Fraschini, consigliere della lista civica 'Pavia Prima', così come si sono dissociati per intero la mia giunta e i consiglieri di maggioranza. Vorrei considerala solo un'uscita infelice, ma la denigrazione è inaccettabile e va sempre respinta. In questi giorni, poi, in cui dovrebbe prevalere l'unità nazionale di fronte alla crisi, fa ancora più male leggere certe frasi di italiani del Nord contro italiani del Sud e di italiani del Sud contro italiani del Nord, come avvenuto dopo i primi casi del coronavirus in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Il rispetto si deve a tutti. E attaccarci tra di noi, che siamo un unico popolo, è ancora più triste". E Fraschini ha provato a gettare acqua sul fuoco: "Sono sinceramente dispiaciuto - ha commentato - se qualcuno si è sentito offeso dai toni da me utilizzati. Il mio post era dettato da una comprensibile e diffusa esasperazione: da giorni noi lombardi siamo additati come untori e appestati nel resto del Paese e in altri Stati". 

Antonio Folle per ilmessaggero.it il 29 marzo 2020. «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». È il post della vergogna lanciato sui social poche ore fa da Niccolò Fraschini, consigliere comunale di Pavia, eletto in una lista di centrodestra in appoggio al sindaco Fabrizio Fracassi. Un vero e proprio uragano di insulti ha costretto l'esponente del consiglio comunale a rimuovere il post incriminato e a "chiudere" la bacheca. Il web, però, non perdona e ormai da diverse ore lo screenshot del post sta circolando su Facebook, suscitando rabbia e indignazione. Una carriera all'insegna del "prima il nord" quella del trentaquattrenne esponente del consiglio comunale di Pavia che, sui suoi profili social - dove si definisce Europeista, liberale, attivo nel volontariato, sciatore, corridore, ottimista, testardo e juventino - mette spesso e volentieri nel mirino proprio i meridionali e le città del sud. Un chiodo fisso che non lo ha messo al riparo da dichiarazioni spesso al limite del razzismo e della discriminazione territoriale. «Sicilia e Sardegna - si legge in un suo commento relativo all'autonomia differenziata delle Regioni - le commissarierei e metterei solo commissari brianzoli per 10 anni, con poteri da stato d'assedio». Una comunicazione social decisamente sopra le righe quella del giovane consigliere comunale lombardo che, a chi gli faceva notare il contenuto razzista di alcuni commenti, poche settimane fa replicava: «Per me razzista non è un insulto. Forse non vi è chiaro. Ho ben altri difetti». Lo stesso Fraschini, che accusa i napoletani di vivere tra i rifiuti, durante la sua campagna elettorale - è stato eletto con 250 preferenze - denunciava il pessimo stato igienico di alcune periferie di Pavia. Uno dei suoi "bersagli" preferiti sembra essere il leader della Lega Matteo Salvini, che Fraschini addita più volte come traditore della causa dell'autonomia della Lombardia. Non mancano gli insulti a Luigi di Maio, all'epoca ministro del lavoro, paragonato ad un asino. La psicosi da Coronavirus ha contribuito a mettere a nudo ancora una volta l'atavica insofferenza tra il nord e il sud del paese. Il vergognoso post di Fraschini - molto pesanti gli insulti rivolti alla Romania -  fa il pari con le altrettanto vergognose immagini della cittadina di Ischia che insultava una carovana di turisti provenienti dal nord.

Coronavirus, Ai Weiwei: "Il coronavirus è come la pasta, la Cina l'ha inventato e l'Italia l'ha diffuso nel mondo". Libero Quotidiano il 06 marzo 2020. Il famoso regista Ai Weiwei finisce nella bufera per una battuta riuscita davvero male. Mentre l'Italia è all'inizio di una durissima battaglia contro il coronavirus, il regista cinese si è esibito sui social in un'uscita poco felice: "Il coronavirus è come la pasta. I cinesi l'hanno inventato, ma gli italiani lo hanno diffuso in tutto il mondo". E di conseguenza passa di nuovo a livello internazionale la tesi secondo cui gli italiani sono gli untori a livello globale. Notizia acclarata falsa, dato che si è poi scoperto che il paziente zero europeo era in Germania e il primo morto in Spagna. L'Italia anziché ignorare l'emergenza l'ha affrontata di petto e quindi ha un alto numero di contagi, mentre la maggior parte dei Paesi preferisce nascondere i veri numeri sotto il tappeto per evitare gravi ripercussioni economiche e sanitarie.  

Da "ilfattoquotidiano.it" il 6 marzo 2020. La vicepremier cinese Sun Chunlan, in visita a Wuhan, è stata duramente criticata dai cittadini chiusi in casa a causa del coronavirus. L’alto funzionario era arrivata nella città per ispezionare il lavoro di un comitato di quartiere, incaricato di prendersi cura dei residenti in quarantena. Gli abitanti dalle finestre hanno urlato “falso, falso, è tutto falso”, riferendosi proprio agli aiuti che non sarebbero arrivati. I video pubblicati online mostrano Sun e una delegazione camminare mentre i residenti gridano dalle finestre.

Coronavirus, Massini: "Quando dicevamo finché uccide i cinesi, chi se ne importa". Repubblica Tv il 6 marzo 2020. Dallo studio vuoto di Piazzapulita su La7, Stefano Massini racconta il suo punto di vista sulla psicosi da contagio da coronavirus. "Niente ci interessa - dice lo scrittore - se non ciò che ci è vicino. Niente ci riguarda se non ciò che entra nel nostro minuscolo cerchio di autonomia. Quando è scoppiato il virus in Cina dicevamo 'l'importante è che non arrivi qua, finché uccide i cinesi chi se ne importa. L'importante è che non arrivi qua'. Il coronavirus insegna l'ossessione di entrare in contatto con qualcosa che possa incrinare il nostro equilibrio e tutto questo è inaccettabile per chiunque che, come il sottoscritto, voglia continuare a indignarsi, ad arrabbiarsi e a guardare il mondo fuori dal cerchio"

Zaia: "I cinesi? Tutti li abbiamo visti mangiare i topi vivi". Per il governatore del Veneto gli alti standard di igiene e le regole alimentari che gli italiani rispettano ha permesso di contenere l’epidemia di coronavirus. Gabriele Laganà, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Se l’emergenza coronavirus nel nostro Paese è ancora relativamente contenuta lo si deve agli alti standard di igiene e alle regole alimentari che tutti i cittadini rispettano, a differenze dei cinesi che mangiano praticamente di tutto. È questo il pensiero espresso in un intervento tv dal governatore del Veneto Luca Zaia che, in modo polemico, ha voluto rispondere a tutti che considerano non solo la Regione da lui amministrata ma l’Italia intera una sorta di untori dell’infezione Covid-19. "La mentalità che ha il nostro popolo a livello di igiene è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani. L’alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale", ha affermato Zaia nel corso di un’intervista alla televisione Antenna Tre-Nord Est. Il governatore ha continuato lanciando un duro attacco alla Cina che "ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi". Nell’intervista Zaia stava parlando dell’epidemia di coronavirus che in Veneto ha fatto registrare fin qui 133 persone positive delle quali 69 non hanno nessun sintomo, 21 sono ricoverate e 8 sono in terapia intensiva. A Rainews24, invece, il governatore ha spiegato che nella Regione non c’è una crescita esponenziale di casi di persone colpite dal coronavirus ma "una crescita lenta dei positivi e dei contagiati. Abbiamo fatto 6.800 campioni perché abbiamo voluto da subito il campionamento dei casi per dare tranquillità' ai cittadini rispetto al focolaio". Sempre ai microfoni della tv allnews, Zaia ha auspicato che il dibattito sulla chiusura delle scuole si chiuda oggi con ordinanza. "Dire domenica sera che le scuole sono aperte lunedì o nei prossimi giorni significa mettere in difficoltà tante famiglie. Spero che si chiuda oggi questo dibattito". "Io spero- ha continuato- che si possa aprire e ripartire, tenendo presente di un territorio che ha il virus. Ogni misura che verrà adottata è fondamentale che abbia una validazione scientifica degli esperti. Onde evitare di vedere esperti che dicono una cosa e altri il contrario". Per quanto riguarda i danni all'economia causati dal coronavirus, il governatore ha sottolineato che “l'industria turistica è in ginocchio, ha 18 miliardi di fatturato con 70 milioni di presenze. È in ginocchio, gli unici contatti sono le disdette. Quindi, prenotazioni zero. Poi tutte le difficoltà che hanno le 600mila imprese venete". "Se Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono in difficoltà, significa un crollo del Pil nazionale", ha aggiunto.

Claudio Borghi sta con Luca Zaia. Il video-choc: "I cinesi mangiano i topi vivi, ecco le prove".  Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Sta facendo molto discutere l'ultima uscita pubblica di Luca Zaia, che è diventata virale in poco tempo. Il governatore del Veneto ha espresso il suo parere sul livello di igiene degli italiani in relazione al coronavirus: "La nostra mentalità è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani, L'alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale". Fino a qui nulla di strano, poi però è arrivato l'affondo sulla Cina: "Ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi". Questa frase ha suscitato ilarità ma anche tante polemiche. In difesa di Zaia è accorso Claudio Borghi, che ha affermato la veridicità di ciò che ha detto il governatore veneto: "Che i vicentini mangino i gatti è detto comune ma non l'ho mai visto fare. Che i topi vivi appena nati siano un piatto storico cinese (oggi pare proibito ma ancora consumato) è cosa assodata". Il deputato della Lega ha postato anche un video recente del Daily Mail UK come prova del fatto che in Asia c'è ancora chi mangia topi vivi. 

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2020. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, dice che i cinesi mangiano i topi vivi. Più precisamente: «Li abbiamo visti tutti i video con persone che mangiano topi vivi o questo genere di cose...». Così un' intervista registrata su Antenna 3 Nord- est rischia di incrinare i rapporti diplomatici con Pechino. Zaia adombra una superiorità italiana rispetto ai cinesi. «L' igiene che ha il nostro popolo - spiega - i veneti e i cittadini italiani, la formazione culturale che abbiamo, è quella di farsi la doccia, di lavarsi, di lavarsi spesso le mani, di un regime di pulizia personale particolare. Anche l' alimentazione, le norme identiche, il frigorifero, le date di scadenza degli alimenti... Cosa c' entra? C' entra perché è un fatto culturale». Fatto culturale, ribadisce il presidente della regione Veneto sottolineando, appunto, che «la Cina ha pagato un grande conto di questa epidemia perché comunque li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o questo genere di cose». Pronta la risposta dall' ambasciata cinese in Italia: «In un momento cruciale come questo, in cui Cina e Italia si trovano fianco a fianco ad affrontare l' epidemia - sottolineano - un politico italiano non ha risparmiato calunnie sul popolo cinese. Si tratta di offese gratuite che ci lasciano basiti. Ci consola il fatto che moltissimi amici italiani non sono d' accordo con tali affermazioni e, anzi, le criticano fermamente. Siamo convinti che le parole di un singolo politico non rappresentino assolutamente il sentire comune del popolo italiano, un popolo civile e nostro amico». Irritazione trapela dalle parole dell' ambasciata che, a conclusione della sua replica, rilancia la palla nel comune campo da gioco, quello della lotta globale all' infezione: «Il nuovo coronavirus - dicono i diplomatici cinesi - è un nemico comune, che richiede una risposta comune. In un momento così difficile, è necessario mettere da parte superbia e pregiudizi, e rafforzare la comprensione e la cooperazione al fine di tutelare la sicurezza e la salute comune dell' umanità intera». In serata Zaia si pente: «Mi scuso se ho urtato la sensibilità di qualcuno, anche per i rapporti personali, noti e testimoniati, che ho con la comunità cinese». Molte le reazioni. «Prima Fontana con la messinscena della mascherina. Oggi Zaia. Quando proprio non si può fare a meno di tirare la zappa sui piedi del nostro Paese e metterci in cattiva luce, in un momento già delicato. Complimenti», dice Danilo Toninelli dei 5 Stelle. Mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori commenta: «Tra questo che dice spropositi e l' altro con la mascherina direi che non potevano fare peggior servizio alla causa del federalismo e dell' autonomia regionale». 

Zaia: «Cinesi e topi?  Io, massacrato per parole uscite male, mi scuso». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio.

Presidente Zaia, indietro tutta?

«Noi proponiamo di allentare la stretta. Ma non decidiamo da soli. E senza l’approvazione del mondo scientifico, non lo facciamo».

Cosa è cambiato rispetto a una settimana fa?

«Abbiamo un quadro scientifico più definito. E gli altri Paesi hanno già cominciato ad approfittare di questo momento di debolezza dell’Italia per occupare i nostri spazi. Bisogna uscirne velocemente».

Altrimenti?

«Senta, io qui ho il turismo e 600.000 partite Iva che da soli valgono 150 miliardi di Pil. Se vanno in fumo, altro che recessione, è Medio Evo. Se ci sono i presupposti bisogna dare un segnale di ripartenza».

E la salute?

«Io ho sempre messo davanti la salute dei miei cittadini. Se si ammalano, l’economia va male lo stesso. Per questo il mondo scientifico non si deve chiamare fuori. Altrimenti sembra che abbiamo fatto tutto da soli, quando invece non è mai stato così».

Abbiamo esagerato con le ordinanze che chiudono tutto?

«Anche se non c’è più il Totocalcio, l’Italia rimane un Paese pieno di gente che gioca la schedina con il 13 vincente di lunedì. In verità i protocolli dell’Oms ci consigliavano un approccio ancora più pesante».

Quand’è che ha visto un cinese mangiarsi i topi vivi come ha detto in tv?

«È tutto il giorno che vengo massacrato per quel video. Nella migliore delle ipotesi sono stato frainteso, nella peggiore strumentalizzato».

Non è lei che quello che parla?

«Sì, certo. Quella frase mi è uscita male, d’accordo. Se qualcuno si sente offeso, mi scuso. Non era mia intenzione fare il qualunquista e tanto meno generalizzare. Intendevo fare una riflessione più compiuta».

L’hanno criticata quasi tutti, da Calenda all’ex ministra Grillo. Cosa voleva dire?

«Volevo parlare delle fake news e dei video che hanno girato prima che l’epidemia arrivasse da noi. Hanno preparato la culla per il neonato. Qui non è arrivato il virus, ma il virus della Cina. Prova ne sia l’aumento esponenziale della diffidenza nei confronti dei cinesi, creata dai social».

Nel video incriminato le sue considerazioni sulla loro igiene sono una terapia d’urto?

«Volevo solo dire che le certificazioni sul fronte della sicurezza alimentare e sanitaria variano da Paese a Paese. Era una riflessione a 360 gradi su un Paese che ha metropoli moderne e altre zone che sono il loro esatto opposto».

Il video è diventato subito virale.

«Mi dispiace profondamente. Questo è uno dei problemi principali. A differenza della Sars che è del 2003 e dell’aviaria che è del 2006, questo è il primo virus dell’era digitale. L’informazione in tempo reale, vera o falsa che sia, coinvolge tutti noi, condiziona le nostre scelte e i nostri comportamenti. Dobbiamo abituarci a creare modelli diversi di approccio, anche comunicativo».

Due mesi fa lei ha proposto l’isolamento per chi rientrava dalla Cina.

«No. Ho parlato di isolamento fiduciario non dalla Cina, ma dalle zone infette. In questo Paese sembra che ogni limitazione della libertà personale sia un atto di razzismo. Invece ci sono norme di polizia sanitaria che purtroppo impongono determinati atteggiamenti».

La popolazione si è rivelata meno apprensiva delle istituzioni?

«È come stare su un pullman. Chi è al volante deve guardare la strada e preoccuparsi di tutto. I passeggeri possono fare le foto e chiacchierare. Solo uno ne risponde. In questo caso sono io».

Ieri chiedevate misure forti, oggi meno. Non si rischia di creare confusione?

«Avrei molto da ridire su chi banalizza quel che facciamo. La mia ordinanza scade domenica. Prima si chiarisce ogni aspetto con i tecnici del governo, meglio è. Non possiamo andare avanti in ordine sparso. E lo scaricabarile non mi ha mai appassionato».

Intanto l’economia piange.

«Le nostre imprese sono devastate da questa emergenza che prima è sanitaria e poi mediatica. Il governo deve intervenire mettendo in campo un budget da centinaia di milioni per una campagna di riposizionamento della reputazione del nostro Paese».

Non ci sono le ambasciate per questo?

«Con tutto il rispetto, davanti a un danno di immagine mostruoso, con la concorrenza mondiale che è pronta a mangiarci, serve qualcosa di più incisivo».

Da "ilmessaggero.it" l'1 marzo 2020. Zaia chiede scusa. E lo fa scrivendo una lettera all’ambasciatore cinese Lì: «Le scrivo per non accampare scuse: quando si sbaglia, si sbaglia». Il governatore del Veneto aveva detto durante una trasmissione televisiva che parlava di coronavirus l’infelice frase: «Abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi». Polemiche a livello mondiale e ora le scuse nella lettera con carta intestata Regione Veneto. Il testo è apparso su Twitter: «Nulla valgono le giustificazioni sulla stanchezza accumulata in questi giorni di grande tensione o sulla frettolosità di esposizione di concetti e di ragionamenti assai più articolati svolti nei giorni precedenti - senza peraltro suscitare polemiche - in molte sedi pubbliche e a molti organi di stampa». Zaia continua: «Ho, più semplicemente, sottolineato le differenze di usi e costumi, così come avrei potuto sottolineare le differenze fra noi e alcuni paesi europei, fra cui la stessa Europa e gli Stati uniti, fra le Ue e il Giappone, e così via…».  Il governatore del Veneto conclude: «Insomma, Signor Ambasciatore: non è mio stile e mio costume, mia abitudine e modalità espositiva, aggredire e sottolineare diversità di pelle, di religione di genere, di scelte sentimentali. Chi mi conosce lo sa...» 

Da "artribune.com" l'1 marzo 2020. Mentre in Italia l’emergenza Coronavirus è ancora in corso e purtroppo si registrano nuovi casi di persone colpite, i settori dell’economia, dell’istruzione e della cultura provano a risollevarsi dal momento di crisi che ha già causato rallentamenti nel sistema industriale, cali in Borsa, cancellazioni e rinvii di manifestazioni e fiere soprattutto a Milano (tra tutti, il Salone del Mobile). Un Paese sotto scacco, insomma, soprattutto le regioni del Nord maggiormente interessate dall’epidemia, ovvero Lombardia, Piemonte e Veneto. Quest’ultima, in particolare, nelle ultime ore si trova al centro di un polverone mediatico che ha messo a rischio i rapporti diplomatici con la Cina: il governatore della Regione, il leghista Luca Zaia, durante un’intervista ad Antenna Tre Nordest, commentando quanto sta accadendo in Italia e in Veneto per via del Coronavirus, ha dichiarato: “penso che la Cina abbia pagato un grande conto in questa epidemia perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o cose del genere… Sa perché noi dopo una settimana abbiamo 116 positivi, dei quali 63 non hanno sintomi e ne abbiamo solo 28 in ospedale? Sa perché? Perché l’igiene che ha il nostro popolo, i veneti, i cittadini italiani, la formazione culturale che abbiamo è un regime di pulizia personale particolare. Anche l’alimentazione…”. Un’affermazione, questa, arrivata alle orecchie del governo cinese, che non ha per niente apprezzato lo scivolone: “in un momento cruciale come questo, in cui Cina e Italia si trovano fianco a fianco ad affrontare l’epidemia, un politico italiano non ha risparmiato calunnie sul popolo cinese. Si tratta di offese gratuite che ci lasciano basiti”, si legge su una nota stampa dell’ambasciata cinese a Roma. “Ci consola il fatto che moltissimi amici italiani non sono d’accordo con tali affermazioni e, anzi, le criticano fermamente. Siamo convinti che quelle parole non rappresentino assolutamente il sentire comune del popolo italiano. “Il popolo italiano è un popolo civile e nostro amico. Il nuovo Coronavirus è un nemico comune, che richiede una risposta comune. In un momento così difficile, è necessario mettere da parte superbia e pregiudizi, e rafforzare la comprensione e la cooperazione al fine di tutelare la sicurezza e la salute comune dell’umanità intera”. Crisi diplomatica esplosa e mondo della politica e dei media in subbuglio: da una parte c’è chi in maniera più o meno blanda la pensa come Zaia – mangiare carne di topo, cane o gatto non sarebbe molto salutare per l’uomo –, dall’altra c’è chi accusa il governatore veneto di razzismo e anche di non sufficiente conoscenza e comprensione delle tradizioni culturali di altri popoli. Ad ogni modo, sono arrivate inevitabili le scuse di Zaia, che ha dichiarato: “mi spiace che qualcuno abbia montato una polemica su questo, non ho mai detto che i cinesi non si lavano. E mi scuso se ho urtato la sensibilità di qualcuno, anche per i rapporti personali, noti e testimoniati, che ho con la comunità cinese. Mi spiace d’essere stato da alcuni frainteso, e da altri volutamente strumentalizzato. La mia era una riflessione che non voleva offendere nessuno; si riferiva alla montagna di materiale e video, molti dei quali fake, che pesano sulla ‘reputazione’ di questo virus. È indubbio”, prosegue Zaia, “che le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina. Ma il qualunquismo e la generalizzazione non sono nel mio stile. È pur vero, tuttavia, che in un paese dalle mille sfaccettature, che presenta contesti metropolitani di assoluta innovazione, come Shanghai, Pechino, Shenzhen, ve ne sono altri che sono agli antipodi. Ho deciso di intervenire personalmente su questo per un fatto di correttezza e lealtà, ma devo dire anche che siamo molto impegnati nella partita del contenimento del virus, e non ho tempo da perdere su queste cose”.  Insomma, nessun “qualunquismo” e nessuna “generalizzazione”, però è anche vero che “le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina”. Forse è vero, almeno adesso, e dando una sbirciata tra i piatti della tradizione gastronomica delle regioni italiane, non sembra che tra le ricette compaia la carne di topo. Troviamo però, potrebbe fare notare qualcuno, la carne di gatto, di rana, d’anguilla, non considerando che per molte popolazioni del mondo – per motivi culturali e religiosi – è impensabile concepire l’idea di cibarsi di carne di maiale o di vacca. Tralasciamo però per il momento questa digressione gastronomica e torniamo alla frase di Zaia, secondo cui “le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina”. Nel 2020 in Italia non si mangiano topi, è vero, però abbiamo documenti fotografici che attestano che fino a un secolo fa, e proprio in Veneto, cibarsi di topi non era poi una stranezza. E a dircelo è stato proprio lo stesso Zaia, citando sulla propria pagina Facebook una mostra tenutasi a Belluno due anni fa! La mostra citata da Zaia e inaugurata il 23 novembre 2018 a Belluno a Palazzo Crepadona, e a cura dell’Archivio Storico del Comune, si intitolava Belluno, una città. Il nuovo secolo, la guerra, un’esposizione che attraverso documenti e fotografia d’epoca raccontava le vicende della città veneta a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, e quindi la drammatica fase dell’occupazione austroungarica tra il 1917 e il 1918, nota come “an de la fam”, ovvero “anno della fame”. Tra quelle in mostra, una fotografia in particolare racchiude tutto l’orrore della guerra, e soprattutto le tragiche conseguenze che essa ha avuto sulla popolazione del bellunese: uno scatto di Pietro De Cian, facente parte della collezione Massenz-Baldini della Biblioteca Civica. “Topi messi ad essiccare a Belluno durante "l’an de la fam", l’anno della fame. Questa straordinaria immagine è esposta, insieme a moltissime altre, nella straordinaria mostra documentaria, iconografica e multimediale su Belluno durante la Prima guerra mondiale appena inaugurata a Palazzo Crepadona”, scriveva il 26 novembre 2018 Zaia sulla propria pagina Facebook, terminando il post con l’hashtag “VenetoDaAmare”. I topi messi ad essiccare sarebbero poi stati mangiati dai bellunesi, rappresentando a quanto pare l’unica fonte di nutrimento possibile in quel momento storico. 100 anni sono tanti, è vero, e i bellunesi mangiavano topi per necessità, non per tradizione o scelta, tuttavia non sembrano differenze così clamorose da potersi ergere ad alfieri della tradizione culturale igienica del mondo. Che la differenza stia nel fatto che i cinesi mangiano a detta di Zaia “topi vivi” e i bellunesi invece li mettevano a essiccare al sole? “Topi vivi” = virus e topi essiccati = “straordinario”? In ogni caso una buona occasione per andarsi a rivedere recensioni e catalogo di quella mostra di due anni fa.

Marco Giusti per Dagospia il 13 marzo 2020. Svelato finalmente da dove nasce la battuta di Luca Zaia sui topi vivi, i cinesi, i veneti… Ci voleva Tatti Sanguineti che mi ha consigliato di rileggere le pagine del suo storico libro su Rodolfo Sonego, “Il cervello di Alberto Sordi”, per capire la dimestichezza che hanno i veneti per topi e pipistrelli. Altro che i cinesi. Sonego sta preparando la sceneggiatura de “Il disco volante”, che verrà poi realizzato da Tinto Brass con Alberto Sordi protagonista e gira per la campagna veneta più miserabile… “Attraversando questi paesi con le urne – si era in periodo elettorale – approdai in una osteria di cacciatori poveri poveri alle prese con dei piatti pieni e non riuscivo bene a capire di cosa.

“Ma cosa mangiate?”

“Osei” (uccelli).

“Mah… ne avete preso un bel po’…”.

“Xe osei e pipistrei”.

“C’è una bella differenza. I pipistrei son topi, cazzo!”.

“Ah… Cartucce costano. Qualche volta xe osei, qualche volta no ghe xe osei. Ghe xe una montagna, con ’na galeria dentro, perché tutti aeroplani da caccia durante la guerra veniva fora andava a bombardar… e ghe xe tuto pieno de pipistrei. Là dentro co ’na sciopata sola xe un graspo de pipistrei. Anca trenta…”.

“E come li mangiate? Arrosto, allo spiedo?”.

“Qualche volta no xe osei, se magna pipistrei!”.

“Ma cavolo!”.

“Mettemo un po’ de pipistrei e un po’ de osei, così te magni gli osei e te credi de magnar pipistrei e quando invece…”.

Osei e pipistrei: quanti contorcimenti.

Laura Bogliolo per ilmessaggero.it il 26 febbraio 2020. «Sono un cinese che la mattina va a scuola insieme a te, che ti passa il compito di matematica all'esame, che ha fatto taglio e messa in piega a tua mamma». Inizia così la lettera appesa a una vetrina di un negozio di via Tuscolana, a Roma. La foto è stata scattata qualche giorno fa, è stata postata sui social e sta avendo un gran successo. A Roma ci sono oltre 2,8 milioni di residenti, i cinesi secondo gli ultimi dati dell'Anagrafe sono 19600, gli stranieri nella Capitale rappresentano il 13,4% della popolazione (dato 1° gennaio 2019). La paura del contagio del coronavirus ha fatto praticamente svuotare i negozi gestiti dai cinesi che sono davvero tanti. E la lettera apparsa nella popolosa via Tuscolana, è un estremo tentativo di non isolare la comunità cinese. «Sono il solito cinese che fa parte della tua vita - si legge nella lettera - che ha pianto quando ha visto i morti del terremoto di Amatrice, che il sabato sera ti accoglie al ristorante cinese come uno di casa». E quindi l'accorata richiesta: «Non trattarmi come un virus, la diffidenza e il pregiudizio a volte uccidono più di un virus...».

Fabio Giuffrida per open.online il 26 febbraio 2020. Aggressioni, insulti, occhiatacce e battute. Non è un momento facile per la comunità cinese, alle prese con razzismo e psicosi da coronavirus. «Ho più paura delle persone che del coronavirus. Troppa discriminazione verso di noi che abbiamo la “colpa” di essere cinesi. E andrà sempre peggio se la mia comunità non si decide a denunciare una volta per tutte. I cittadini cinesi, infatti, preferiscono “testa bassa e silenzio”, hanno paura di ritorsioni e si sentono “ospiti” in Italia, un Paese che in realtà è anche il loro (visto che in molti risiedono sul territorio italiano da oltre 20-30 anni, ndr). Ma adesso basta stare zitta, non si può più tollerare questa situazione». Questo lo sfogo di Elisa, nata in Cina ma da oltre 20 anni in Italia, a Open.

«Preso a bottigliate da italiani». Il primo caso di razzismo che ci viene segnalato è quello verificatosi il 24 febbraio sera, in un rifornimento di benzina a Cassola, in provincia di Vicenza, nel Veneto, dove Zhang, un uomo di origine cinese, è stato preso a bottigliate da un 30enne italiano perché cinese. Questa la sua “colpa”.

L’aggressione a un giovane cinese. «Ero entrato nel bar del rifornimento di benzina per vedere se fosse possibile cambiare con tagli più piccoli una banconota da 50 euro. La barista, però, vedendomi, mi ha detto subito “Hai il coronavirus, tu non puoi entrare!”. A quel punto un ragazzo, che si trovava seduto all’interno, si è alzato e, dopo aver afferrato una bottiglia di birra che era sopra il tavolo, me l’ha rotta in testa causandomi delle lesioni» si legge sulla denuncia, di cui Open è in possesso, presentata ai carabinieri. «La cosa più grave è che nessuno sia intervenuto per difenderlo» ci spiega una nostra fonte.

«Via schifosi, cinesi di merda». Il secondo caso, invece, risale al 23 febbraio quando, in un Despar di Cividale del Friuli, una donna, «spingendo il carrello ha detto: “Ca**o di cinesi, perché uscite e continuate a contagiare la gente? Via via schifosi. Cinesi di mer*a» ci racconta Elisa, che da otto anni gestisce un bar e che, «da quando c’è l’emergenza coronavirus ha pochissimi clienti, con un 70% di fatturato in meno» tra «occhiatacce e battute sgradevoli». Ora, però, «ci sono anche clienti che dicono apertamente “non andate dalla cinese che rischiate il virus”». «Io per la prima volta, dopo 20 anni in Italia, mi rendo conto che non potrò mai essere considerata italiana. Oggi i cinesi sono come gli ebrei all’epoca» ha aggiunto.

«Tappatevi naso e bocca». Il terzo caso, invece, ha visto protagonista Valentina, ragazza di origini cinesi che, come spiega a Open, si trovava al supermercato con la madre quando è stata insultata da una donna con a seguito due bambini. «La madre ha urlato ai figli di tapparsi il naso e la bocca. Poi, ogni volta che ci beccavamo nei reparti, facevano retromarcia e cambiavano subito direzione». E non è la prima volta. Di casi di razzismo se sono registrati decine negli ultimi mesi: dagli insulti a una 19enne agli sputi alla coppia di cinesi a Venezia, dal 13enne insultato durante la partita perché cinese al bimbo aggredito a Bologna. E questi sono solo alcuni dei casi di razzismo documentati. Il rischio è che ce ne siano molti altri mai denunciati.

Coronavirus, a Roma è sindrome cinese…Il Dubbio il 31 gennaio 2020. Ingresso vietato ai cinesi in un bar del centro, mascherine a ruba e turisti in fuga. A Roma è psicosi. Ristoranti cinesi semivuoti, mascherine e guanti in lattice esauriti da giorni e divieti di accesso ai cittadini di origine cinese. Insomma, i due casi di coronavirus accertati a Roma hanno fatto scattare una vera e propria psicosi. Finiti anche amuchina e altri disinfettanti. “Sold out – no mask”, niente mascherine, in inglese, in cinese, in giapponese, con tanto di disegnino esplicativo, recita il cartello affisso sulla porta di una farmacia nel centro storico di Roma. Ma non importa, perché la gente continua a entrare e chiederne. E c’è chi ne approfitta per fare affari: Secondo il Codacons ci sono già stati incrementi fino al +400% per i listini di alcune mascherine vendute online. A poca distanza, nei pressi della fontana di Trevi, un altro cartello: “A causa delle disposizioni internazionali di sicurezza tutte le persone provenienti dalla Cina non hanno il permesso di entrare in questo locale. Ci scusiamo per l’inconveniente”. Una fuga in avanti da parte dei titolari subito stigmatizzata dalla sindaca Virginia Raggi che l’ha definito “assolutamente ingiustificato”, tanto che la scritta è scomparsa poco dopo. “Stop psicosi e allarmismi. Ascoltiamo solo indicazioni e pareri delle autorità sanitarie”, è l’appello della prima cittadina. Intanto gli affari vanno male per chi lavora con il turismo. Il primo a farne le spese è l’hotel Palatino nel quartiere Monti, dove soggiornavano i due turisti malati di coronavirus. Inevitabili le disdette e il direttore Enzo Ciannelli lancia l’appello ai media: “Ci vuole aiuto anche da parte vostra perché è stato creato un po’ di terrorismo. I nostri datori di lavoro sarebbero dei pazzi a farci lavorare se la struttura fosse a rischio”.

Coronavirus: “Ritorna in Cina. E m'ha spaccato la bottiglia in testa”. Le Iene News il 6 marzo 2020. “Tornatene in Cina perché non ho voglia di infettarmi per colpa tua”. La fobia del Coronavirus sta scatenando nella popolazione italiana i peggiori istinti razzisti. Nicolò De Devitiis ha incontrato Matteo, che ha aggredito un ragazzo cinese con una bottiglia. “Io non sto dicendo che non ho fatto niente, io sto dicendo che quel tipo se le meritava. Non perché ha il coronavirus ma perché è un coglione”. Matteo, 21 anni, pochi giorni fa ha aggredito con una bottiglia in mano un ragazzo cinese, ma sostiene di non averlo fatto come atto di razzismo. Così gli chiediamo cosa pensa dei cinesi e la risposta non è certo delle più pacifiche: “Dal momento in cui uno straniero entra nel mio paese, dove io sono nato, dove io ho il dna, deve portarmi rispetto perché mio ospite”. E quell’aggressione? “Perché io non sono mai andato in un bar a rompere i coglioni”, ci risponde secco Matteo. Ma quando gli facciamo notare che il ragazzo cinese era entrato solo per cambiare dei soldi e non per dare fastidio, ci risponde senza mezzi termini: “Ma a me non me ne frega un cazzo, li vai a cambiare prima di fare benzina”. Ma cosa è successo davvero? Lo chiediamo anche ad Alex, la vittima dell’aggressione. “Quando sono entrato la barista mi ha detto che avevo il coronavirus e che quindi non potevo entrare ma io gli ho spiegato che sono in Italia da 10 anni e che non sono infetto”. Ed è qui che Matteo l’avrebbe aggredito, “Mi ha detto ‘che cazzo vuoi? Ritorna in Cina’ e poi mi ha spaccato la bottiglia in testa…”. Ma secondo la ricostruzione di Alex non sarebbe nemmeno finita lì: “Io sono subito uscito, mi ha seguito e mi ha detto ‘ti do un pugno’”. Allora Matteo, perché l’ha aggredito? “Perché mi ha rotto il cazzo. è inutile tirare fuori storie sul coronavirus, il motivo era una semplice rissa, ha dato della puttana alla barista e non ci ho più visto”. Insomma, aggredito l’ha aggredito, ma Matteo sostiene che il coronavirus non c’entri niente, anzi che sia stato il ragazzo cinese a provocare. Matteo l’abbiamo sentito, Alex pure, non ci resta che ascoltare anche la versione della barista. “Matteo ha capito che questo mi ha offesa e l’ha attaccato, anche se non è vero che mi ha offesa o comunque io non l’ho sentito”. Il racconto sembra coincidere proprio con quello di Alex: tutto tranne un particolare. “Non ho assolutamente detto che doveva uscire perché aveva il coronavirus anzi, mi sono pure messa a difenderlo!”. Ci dice lei in lacrime: “Sono preoccupata ora per il mio posto di lavoro, per la diffamazione…”. Torniamo da Matteo che continua a lamentarsi del ragazzo cinese. “È venuto a dire che siamo razzisti” ci dice arrabbiato. Ma lo è o no? “Io sono fascista, non sono razzista. Dal primo all’ultimo secondo della mia vita esigo rispetto”. Ma poi, dopo un po’ che ci parliamo, finalmente fa un passo indietro: “Sono cosciente di aver sbagliato e so di aver sbagliato...”. Cogliamo subito l’occasione per proporgli un incontro per chiarirsi con Alex, ma non reagisce proprio benissimo: “Chiamatelo qua quel cinese di merda”. E anche se non sembra così convinto ci proviamo lo stesso e andiamo a prendere Alex. “Io ho sbagliato, ma anche tu devi dichiarare di aver sbagliato” dice Matteo ad Alex porgendogli la mano. Peccato però che la stretta di mano non sia ricambiata: “Accetto le scuse ma non do la mia mano perché non lo sento dal cuore, mi spacca una bottiglia in testa e se mi chiede scusa è tutto a posto? No”, ci spiega Alex ancora un po’ impaurito. Non molliamo, senza grossi risultati inizialmente. “L’ho picchiato perché l’italiano non lo capisce, se vieni qua devi sapere quello che dico e quello che dice lui. Io gli sto porgendo la mano se lui non l’accetta, la colpa è sua” dice Matteo. E riparte: “Pensi che io perda tempo con questa faccia di merda? Se non mi dai la mano allora devi andare via perché non sei italiano”. Insomma, trovare un punto di incontro sembra quasi impossibile! E dopo poco si ritorna al punto di partenza: scoppia di nuovo una lite. “Ne vuoi una altra in testa? Sei una merda, ti vedranno in tv e vedranno tutti che sei un cinese figlio di puttana!”, urla minaccioso Matteo prima di andarsene. Così tentiamo l’impossibile spiegando ad Alex il gesto di Matteo, un po’ forzato ma comunque sincero, e incredibilmente dopo l’intervento di Nicolò De Devitiis, i due litiganti si stringono la mano. “La prossima volta conterò non solo fino a 10, ma anche fino a 20…. Che 10 non mi bastano”, chiosa Matteo.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 5 marzo 2020. Spunta un movente razziale alimentato dalla psicosi del coronavirus dietro l'aggressione subita qualche sera fa a Oxford Street, nel cuore di Londra, da uno studente originario di Singapore, il 23enne Jonathan Mok. A denunciarlo è stato lui stesso, mentre sui media sono apparse le foto del volto tumefatto del ragazzo scattate dopo l'attacco. Stando al racconto dello studente dell'University College si è trattato di un pestaggio a freddo, "non provocato", da parte di 4 ragazzi. "Non voglio il tuo coronavirus nel mio Paese", gli avrebbe urlato uno degli aggressori. Poi il pugno in faccia. "E' accaduto tutto all'improvviso - spiega su Facebook Jonathan Mok -, un pugno mi ha colpito al volto e mi sono ritrovato coperto di sangue". Il 23enne, ancora sotto shock, ha poi messo in guardia gli utenti dal rischio che l'emergenza Covid-19 possa essere cavalcata da chi già "odia le persone diverse da sé e macchiare l'immagine d'una città tollerante". Sull'episodio indaga la polizia britannica. Scotland Yard ha aperto un fascicolo per il reato di aggressione aggravata dal razzismo, ma finora non ha arrestato nessuno.

Coronavirus, bar di Roma contro cinesi: “Non autorizzati a entrare in questo posto”. Laura Pellegrini il 31/01/2020 su Notizie.it. In un bar di Roma è apparso un cartello che vieta l'ingresso alle persone cinesi: scatta la psicosi coronavirus. Scatta la psicosi coronavirus a Roma dopo i due casi accertati dei turisti e un terzo caso sospetto: in un bar della Capitale è stato vietato l’ingresso ai cinesi. L’episodio è avvenuto in via dei Lavatori, a pochissima distanza dalla Fontana di Trevi, in pieno centro. Migliaia di turisti si riversano ogni giorno nella zona, eppure il locale pone alcune restrizioni ai clienti.

Coronavirua a Roma, bar contro cinesi. Ingresso vietato alle persone cinesi: questo è il cartello apparso al’esterno di un bar di Roma dopo l’accertamento dei due casi di coronavirus. Infatti, nella capitale è scoppiata la psicosi contagio nonostante il presidente del Consiglio e il direttore dell’hotel nel quale hanno alloggiato i turisti abbiano invitato ad evitare allarmismi. “Due to international safety measures all people coming from China are not allowed to have access in this place. We apologise for any inconvenient“, recita il foglio. Ovvero tradotto: “A causa delle misure di sicurezza internazionali le persone che vengono dalla Cina non sono autorizzate a entrare in questo posto. Ci scusiamo per ogni inconveniente”. Inevitabile lo scoppio di enormi polemiche soprattutto tra i passanti, per la maggior parte cittadini italiani. Il cartello era stato momentaneamente rimosso per correggere e modificare la traduzione della frase in giapponese. In seguito, però, è tornato affisso all’esterno del locale, scatenando le reazioni dei cittadini.

Coronavirus a Roma, bar in via del Lavatore: «Ingresso vietato a chi arriva dalla Cina». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Che sia psicosi o no, la paura del Coronoravirus a Roma sta prendendo sempre più piede. Tanto che in uno dei siti più turistici della Capitale, Fontana di Trevi, sono comparsi cartelli molto espliciti. «Vietato l’ingresso a chi arriva dalla Cina». Il bar Trevi, del Relife Fontana di Trevi hotel, in via del Lavatore 43, in pieno centro storico, ha infatti esposto un cartello tradotto in inglese e in cinese: «A causa delle misure di sicurezza internazionali, a tutte le persone provenienti dalla Cina non è permesso entrare in questo posto. Ci scusiamo per l’inconveniente».

Danilo Barbagallo per leggo.it il 31 gennaio 2020. Il Coronavirus spaventa anche la Capitale e gli esercenti cominciano a prendere provvedimenti. Nel centro di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, precisamente a via del Lavatore, dove passano migliaia di turisti al giorno, un bar caffetteria ha affisso stamattina un cartello che invita chi arriva dalla Cina a non entrare nel locale. Come ha potuto verificare Leggo, l’affissione recita: «Due to international safety measures all people coming from China are not allowed to have access in this place. We apologise for any inconvenient». («A causa delle misure di sicurezza internazionali le persone che vengono dalla Cina non sono autorizzate a entrare in questo posto. Ci scusiamo per ogni inconveniente»). L’avviso è stato temporaneamente rimosso per una correzione al testo in giapponese, e poi riaffisso nonostante abbia suscitato molte reazioni e polemiche da parte dei passanti, primi fra tutti gli italiani. A farlo scomparire del tutto ci hanno pensato i vigili di Roma Capitale, che hanno intimato agli esercenti di rimuoverlo.

Nico Riva per leggo.it il 31 gennaio 2020. «Non voleva assolutamente essere discriminatorio. Non vogliamo essere accusati di razzismo. Il nostro era solo un invito al buonsenso», dichiara Nadia Esposito, la portavoce dell'hotel Relais Fontana di Trevi che questa mattina, dopo la conferma di due casi di Coronavirus registrati a Roma, ha affisso un cartello che vietava l'ingresso alle persone provenienti dalla Cina. La portavoce però spiega: «Il cartello non ha nulla a che vedere con le persone di nazionalità cinese. Era rivolto a chi è stato recentemente in Cina, di qualunque nazionalità, quindi anche italiani». Ma dopo poco tempo, si son presentati i vigili della Polizia Locale e l'hanno fatto rimuovere con la giustificazione che fosse discriminatorio. «Viste le misure di sicurezza internazionale tutte le persone provenienti dalla Cina non sono ammesse in questo posto. Ci scusiamo per l'inconveniente». Così recitava il cartello affisso all'ingresso dell'Hotel e del Bar in via Lavatore, a due passi dalla Fontana di Trevi. «L'abbiamo messo per lo stesso motivo per cui questa mattina lo Stato italiano ha bloccato i voli da e per la Cina, quindi per prevenire e tutelare la salute dei nostri ospiti, dei nostri dipendenti e di chiunque altro. Visti anche i due casi di ieri in via Cavour, ci siamo sentiti in diritto e in dovere», ha aggiunto la portavoce. «Ci dispiacerebbe ricevere accuse di razzismo. Non abbiamo nulla contro le persone di nazionalità cinese, infatti il cartello specifica bene "le persone provenienti dalla Cina". Se arrivasse un cliente italiano che è stato in Cina due giorni fa, l'atteggiamento sarebbe identico, così come se arrivasse un cliente di nazionalità cinese che però non va in Cina da tempo, il problema non si porrebbe», ha proseguito Nadia Esposito. La portavoce ha infine sottolineato che per l'hotel e il bar si tratta anche di un «danno economico, perché l'affluenza di persone che arrivano dalla Cina in questo periodo è molto alta. Abbiamo anche rimborsato diversi clienti che dovevano arrivare dalla Cina. Abbiamo scelto di attuare delle misure cautelari finché non si stabilizzerà la situazione. Il nostro è solo un invito al buon senso. Si tratta di un problema che va ben oltre il guadagno». Ma i vigili non hanno voluto sentire ragioni, ordinando la rimozione del cartello.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 31 gennaio 2020. Nella serata in cui vengono confermati i primi due casi in Italia di persone contagiate da coronavirus, alla tv spetta il ruolo della cronaca e, se possibile, della rassicurazione. Gli aggiornamenti sono utili, indispensabili, ma vanno accompagnati da gesti plateali e fortemente simbolici che arrivino rapidamente al pubblico a casa. Ecco allora la decisione di Corrado Formigli di addentare in diretta a Piazzapulita un involtino di verdura alla griglia proveniente da un ristorante cinese di Roma e di far fare altrettanto agli ospiti in studio. “Noi siamo amici della scienza – dice il conduttore - mangiate tranquilli, non viene da qui il virus. Potete andare nei ristoranti cinesi, siate razionali, crediate nella scienza, nelle persone di buonsenso. Passerà”. Ad oggi i contagiati in tutto il mondo sono più di 8 mila, i morti oltre 170. A risentire della psicosi sono proprio i ristoranti cinesi, che hanno visto ridursi la clientela in maniera corposa. La mossa di Formigli ha fatto tornare alla mente l’episodio che il 21 febbraio 2006 vide protagonista Lamberto Sposini. L’allora conduttore del Tg5, nell’edizione delle 20, mangiò un pollo in diretta per allontanare la fobia dell’influenza aviaria. Dagospia il 31 gennaio 2020. VIDEO-FLASH! BARBARA D'URSO SI PAPPA UN BISCOTTO DELLA FORTUNA CINESE IN DIRETTA DURANTE LA PUNTATA DI "POMERIGGIO CINQUE" – COME FORMIGLI CON GLI INVOLTINI PRIMAVERA (E SPOSINI NEL 2006 CON IL POLLO), L'OBIETTIVO È TRANQUILLIZZARE LE PERSONE PER L'EPIDEMIA DI CORONAVIRUS. MA "BARBARIE" NON SEMBRA TANTO CONVINTA...

Se all’improvviso la cinese sull’autobus diventa l’untore che innesca la pandemia. Fulvio Giuliani il 30 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il corto circuito con venature razziste che scatta inesorabile: stop agli involtini primavera e ai barconi che traboccano di cinesi e asiatici. Roberto Burioni, ben noto uomo di scienza a cui dobbiamo una consistente fetta della battaglia di civiltà in favore dei vaccini, sostiene che le notizie dei sospetti casi di contagio da nuovo coronavirus non andrebbero neanche date. Perché innescherebbero un inevitabile circolo vizioso di allarmismo. Calandomi nel punto di vista dello scienziato, non posso non riconoscerne le ragioni, ma da giornalista provo sempre un brivido di diffidenza, davanti alle notizie taciute, anche con le migliori intenzioni. Resto dell’idea che un’informazione quanto più completa possibile, intellettualmente onesta e sostenuta da robuste collaborazioni scientifiche, soprattutto in casi come questo, sia il modo migliore per contrastare l’insorgere di ondate di panico. Se è vero che non sentir parlare di un caso sospetto, nell’immediato possa evitare ( o ritardare…) l’insorgere di un senso di paura, a medio termine può innescare il dubbio che le autorità stiano nascondendo qualcosa. Che non ci dicano tutto. Da che mondo è mondo, davanti alle pandemie la reazione della pubblica opinione si muove sostanzialmente su un doppio binario. Da una parte, il timore di essere inghiottiti in un incubo non gestibile, l’ancestrale terrore della morte senza volto, che arriva a sconvolgere le nostre esistenze. Dall’altra, la necessità di scaricare la paura che si fa rabbia. Ci mettono poco le persone a sentire l’esigenza di trovare un colpevole. Non potendosela prendere con un virus, è facile rivolgere la propria attenzione a chi detiene il potere, identificandolo istintivamente come un’entità interessata solo a mantenere l’ordine pubblico, anche a costo di raccontare bugie clamorose. Del resto, anche in queste ore, i sospetti sul comportamento del governo cinese si moltiplicano e non solo in ambienti sensibili al Complottismo. Tacere, per farla breve, non conviene mai. Quello che conviene è invitare le persone a ragionare, spiegando loro – ad esempio – che boicottare i ristoranti o i negozi cinesi è poco più di un riflesso condizionato. In teoria, l’unica cosa utile che dovremmo fare è informarci su eventuali e recenti viaggi in patria di chef o personale cinese di ciascun locale, per tacere delle visite che ciascuno di loro potrebbe aver ricevuto dal paese natale. Evidentemente, una follia, senza dimenticare che il temuto portatore ( magari sano) del coronavirus potrebbe essere dalle fattezze caucasiche…Escludendo, pertanto, di chiudersi in casa e aspettare o l’Armageddon o che passi la paura, conviene approfittare di questi giorni concitati per qualche riflessione sul nostro tempo. Comincerei da questa: spesso possiamo intere settimane a dibattere, accalorandoci, sulle proposte di nuove barriere fisiche e ideali, dividendoci fra chi propugna la difesa anche fisica del nostro piccolo mondo e chi considera tutto questo solo una perdita di tempo. Poi, arriva il nuovo coronavirus, svelando l’imbarazzante inconsistenza di certi dibattiti. In un mondo interconnesso come quello di oggi, semplicemente dobbiamo prendere atto che le nostre fortune e sfortune dipendono anche da una miriade di relazioni, a cui rinunciare è semplicemente impensabile, perché troppo costoso. Ne andrebbe del nostro stesso stile di vita. I problemi, da quelli relativamente imprevedibili come le pandemie ai grandi temi che caratterizzano la nostra epoca, meritano massima razionalità e decisioni a un tempo rapide e strategiche. i tocca sentir parlare, invece, di rischi di diffusione in Italia del virus, collegati alle tratte dei migranti. Una lettura che sfida contemporaneamente senso del ridicolo e della realtà. Con la fabbrica del mondo che rischia di andare in tilt – di questo dovremmo aver paura, non di fantasmi agitati per motivi elettorali il dibattito in Italia si ferma al boicottaggio dell’involtino primavera o al confronto social sui barconi nel Mediterraneo, che notoriamente traboccano di cinesi. Amo il mio Paese, anche quando la farsa sembra prendere il sopravvento, eppure proprio per questo amore sento la necessità di un dibattito più maturo. Davanti all’idea stessa di una pandemia, è umano che la reazione della pubblica opinione non sia improntata ad una ferrea logica. Che però l’irrazionalità rischi di entrare anche in ben altre sfere, per meri calcoli politici, è abbastanza insopportabile. Lasciamo parlare gli esperti, ascoltiamoli e affidiamoci a loro. Non sono un’élite, è gente che ha studiato. L’alternativa mi spaventa, ad oggi, molto di più del coronavirus. 

Razzismo sul bus a Lecco: “Sei nera, non voglio il tuo posto”. Beatrice Carvisiglia il 31/01/2020 su Notizie.it Un nuovo episodio di razzismo sul bus si è verificato a Lecco. Un'anziana signora ha rifiutato il posto offerto da una donna senegalese. Un altro episodio di razzismo sul bus: questa volta è toccato a Binta, una donna senegalese di 32 anni che vive e lavora in Italia da cinque. Ogni giorno prende l’autobus per tornare a casa e frequenta il Cpia di Oggiono, un centro per l’istruzione degli adulti in cui si confronta con altri che come lei sono lì per integrarsi, parlare meglio l’italiano, raccontare la loro cultura. Tra le quattro mura del CPIA, Binta si sente più sicura. Forse proprio per questo ha deciso di raccontare alla sua insegnante, Monica Mauri, quello che è successo sull’autobus di Lecco. Un episodio di discriminazione che non è stato il primo, e in cui molti dei suoi compagni di corso si sono riconosciuti.

Lecco, episodio di razzismo sul bus. Binta racconta di aver preso il mezzo strapieno, colmo di ragazzi con gli zaini, con pochissimo spazio a disposizione. Nella sua cultura il rispetto per gli anziani è fondamentale. Binta ha notato tra la calca del bus una donna anziana e ha pensato fosse giusto cederle il posto. La risposta dell’anziana è stata lapidaria: “Sei nera, non voglio il tuo posto“. Binta racconta di essere rimasta pietrificata e, tornata a casa, ha pianto ripensando a quell’ingiustizia. In classe i suoi compagni sono stati solidali, hanno raccontato episodi simili, scene di quotidiano razzismo sul bus. Il suo amico Marcelino, un 23enne originario della Nuova Guinea, sostiene che “sono soprattutto gli anziani ad essere diffidenti“. Poi aggiunge: “Nella nostra cultura è impensabile lasciare una persona più grande di te in piedi quando tu sei seduto”. A seguito della discussione in classe, l’insegnante Monica Mauri, assieme il collega Paolo Barbieri, ha pubblicato un duro post su Facebook condannando l’accaduto. La speranza di questi docenti è che le testimonianze servano a creare solidarietà e comprensione. Lecco, sostengono, non è una città razzista. Tuttavia, se tali episodi accadono bisogna prendersi il carico di denunciarli e far sì che le persone discriminate si sentano, per quanto possibile, più tutelate.

Codacons denuncia la Rai: "Diffamati i calabresi, intollerabile da Tiberio Timperi". In un comunicato divulgato in rete, il Codacons ha reso noto di aver presentato una denuncia contro la Rai e il conduttore di Unomattina in famiglia, Tiberio Timperi. Serena Granato, Mercoledì 29/01/2020 su Il Giornale. Uno dei volti televisivi di casa Rai è finito al centro di una polemica mediatica. Si tratta di Tiberio Timperi. Il conduttore originario di Roma e classe 1964 sta facendo discutere di sé, per via di una sua battuta riservata ad un telespettatore, collegatosi dalla Calabria con il format da lui condotto insieme a Monica Setta, Unomattina in famiglia. E nelle ultime ore, è emerso che il volto Rai è stato denunciato dal Codacons. Il Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori ha, quindi, stigmatizzato la battuta lanciata da Timperi su Rai 2, lo scorso sabato 25 gennaio, in un comunicato divulgato in rete. Nella denuncia in questione, il Codacons accusa Timperi di aver attribuito -attraverso la battuta "incriminata"- ritenuta razzista- ai calabresi e alla Calabria atti criminali, in particolare l'occultamento di cadaveri nei piloni di cemento armato. Accuse che il conduttore ha rispedito al mittente, chiarendo la sua posizione in merito, sul suo profilo Instagram. "Leggo di essere stato denunciato per una battuta scherzosa, fatta ad un concorrente in trasmissione -ha rilasciato per iscritto a corredo di un post condiviso su Instagram, per poi difendersi rispetto a quanto denunciato dal Codacons-, sia chiaro: la battuta era nei confronti della mia redazione e più in generale della Rai. Difatti, se avessi favorito un concorrente, a rimetterci, come ovvio, sarei stato io. Qualcuno, per motivi che ignoro, ha travisato le mie parole. Spiace leggere che avrei offeso una regione italiana. Una regione che, come tutte le altre, mi appartiene e che mai mi sognerei di offendere. Io ho rispetto per la Calabria e per i calabresi. Se qualcuno si è sentito offeso, mi spiace”.

Il comunicato di denuncia del Codacons contro Tiberio Timperi. Nel comunicato di denuncia, che ora divide l'opinione del web sul conto del noto volto Rai, viene chiarito cosa ha sospinto il Codacons a denunciare la nota battuta di Tiberio Timperi. "Sabato 25 gennaio 2020 su Rai Uno, nel corso della trasmissione ‘UnoMattina in Famiglia’, il conduttore Tiberio Timperi interloquiva con un telespettatore in collegamento dalla Calabria -si legge-. Il telespettatore, dovendo rispondere ad un quiz, invocava un aiuto da parte del pubblico presente in studio. A questo punto il conduttore Timperi rispondeva: "Se non ti aiutiamo, andremo a fare i piloni della Salerno – Reggio Calabria", accompagnando tale pessima battuta da una mimica fin troppo esplicita. In questo modo si attribuisce a tutti i Calabresi, indistintamente, comportamenti mafiosi. Tanto non è degno di un servizio pubblico, profumatamente pagato – sostiene Francesco Di Lieto, vicepresidente nazionale del Codacons – da tutti i cittadini". E, a conclusione della denuncia, viene precisato: "A nessuno può essere consentito di diffamare impunemente un’intera regione, per strappare qualche risatina. Il Codacons ha presentato una denuncia in Procura contro l’Azienda e contro il Conduttore. Si tratta di una frase di chiaro stampo razzista che costituisce una offesa per i cittadini calabresi. Ciò detto, la Rai ha il dovere di scusarsi. Non possiamo certo imporre a Timperi di voler bene alla nostra terra, ma visto che i Calabresi sostengono il suo stipendio, un minimo di rispetto lo pretendiamo". 

Facebook.  ttimperi il 29 gennaio 2020: Verificato. Leggo di essere stato denunciato per una battuta fatta ad un concorrente in trasmissione. Sia chiaro: la battuta era nei confronti della mia redazione e più in generale della Rai. Difatti se avessi favorito un concorrente, a rimetterci, come ovvio, sarei stato io. E la denuncia del Codacons, in questo caso, sarebbe stata più che opportuna. Qualcuno, per motivi che ignoro, ha travisato le mie parole. Il filmato è disponibile su Raiplay. Io sono in buonafede. Spiace leggere che avrei offeso una regione italiana. Una regione che come tutte le altre mi appartiene e che mai mi sognerei di offendere. Io ho rispetto. Per la Calabria e per i calabresi. E per tutte le altre regioni e le sue genti. Sono calabrese, romano, laziale, toscano, trentino, pugliese, siciliano, campano, lucano, umbro, ligure, molisano, lombardo, veneto, piemontese, emiliano, sardo, abruzzese, marchigiano. Sono un incrocio di mille contaminazioni che mi fanno italiano. Sono italiano. Innamorato della mia storia. E orgoglioso di esserlo. Se qualcuno si è sentito offeso mi spiace.

Congiuntivo di classe. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 su Corriere.it da Massimo Gramellini. Da quando sono arrivato nella mia nuova scuola — scrive su Facebook il preside dell’istituto Giacomo Leopardi di Sant’Antimo, in provincia di Napoli — mi sembra di essere precipitato nel Sudafrica dell’apartheid. Alcuni genitori, ma anche alcuni professori, gli avrebbero chiesto di separare i ricchi dai poveri, creando classi per i figli dei professionisti e altre per quelli degli operai. Una discriminazione inaccettabile, più che mai in una scuola pubblica, la cui missione dovrebbe consistere nel garantire a tutti le stesse opportunità di partenza. Ma c’è un particolare, nello sfogo del preside, che non saprei se definire comico o drammatico: il linguaggio usato dai genitori benestanti per giustificare le loro richieste. «Abbiamo paura che i nostri figli prendino cattive abitudini». «Vogliamo che seguino le nostre orme». Intendiamoci. Il congiuntivo è una pessima abitudine e, a seguire le orme di chi ne è immune, si finisce per diventare quantomeno ministri. Resta il fatto che pretendere di preservare una presunta superiorità sociale ostentando le prove della propria ignoranza è uno di quei cortocircuiti dell’inconsapevolezza contro i quali non c’è contromisura che tenga. Da tempo, forse non solo in Italia, il benessere economico ha divorziato dalla cultura. Certi genitori chiedono alla scuola di isolare i loro figli dagli ambienti meno altolocati, nella convinzione che lì si annidino i pericoli più grandi. Non sanno che molto spesso il pericolo è in casa.

Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 28 Gennaio 2020. I figli degli operai da una parte, quelli della Napoli bene dall' altra. Dopo il caso della scuola del quartiere Trionfale a Roma, la saga del presunto "classismo tra i banchi di scuola" prosegue nel capoluogo partenopeo, con una sostanziale differenza: qui a denunciare l' odiosa divisione nella collocazione degli studenti all' interno del medesimo istituto, non sono gli organi di stampa, non è il quotidiano Leggo come allora, ma è lo stesso preside allibito dalle pretese di genitori e insegnanti e, soprattutto, dal modo in cui sono poste con un uso spericolato del congiuntivo che neanche Luigino Di Maio dei tempi d' oro. Il post, comparso un paio di giorni fa sulla pagina dell' Istituto comprensivo Giacomo Leopardi di Sant' Antimo (hinterland napoletano), nella sezione utilizzata per le comunicazioni agli iscritti e alle famiglie, diceva: «Prima qualche genitore, poi addirittura qualche docente viene ad esprimere la necessità di formare classi suddivise sulla base del censo». Richiesta sconcertante, secondo la dirigenza scolastica, al punto che il grido d' allarme di questo preside è giunto al sottosegretario all' Istruzione, Peppe De Cristofaro, il quale intende denunciare situazioni di evidente discriminazione nelle scuole pubbliche. «Non mi stancherò mai di intervenire», promette l' esponente di Liberi e Uguali, che cita don Lorenzo Milani: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d' espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose». Il riferimento al priore di Barbiana morto nel '67 non è casuale: don Milani era il sacerdote che insegnava ai bambini poveri e disagiati, esclusi dagli altri, ma erano gli anni a cavallo tra il 1950 e il 1960 e da allora molto è cambiato per questo ci si stupisce ancora se le classi con "discriminazioni per censo" siano realtà nel 2020. È pur vero che in certe zone del nostro Mezzogiorno le distanze tra chi sceglie la strada dello studio, della legalità e del rispetto delle regole e chi magari trova più facile inseguire i falsi miti del bullo uguale più furbo, sembrano amplificate. C' è il modello bravo ragazzo e quello da fan di Gomorra non è neppure più una questione geografica poiché il fenomeno ormai è ramificato. Il dramma, poi, è quando l' esempio negativo arriva dalle famiglie e su tale aspetto si è concentrato il messaggio di sdegno del preside del Leopardi, frasi subito cancellate per evitare il polverone com' è accaduto nella Capitale, con quella presentazione poco felice sul sito della scuola in cui l' istituto ammetteva che in un plesso c' erano i rampolli della Roma bene, in un altro, il distaccamento, i figli delle colf e delle badanti. Apriti cielo. La scuola è una e deve insegnare a tutti in uguale misura, su questo non ci piove. Sarebbe però ipocrita negare che al momento dell' iscrizione qualche genitore s' informa su dove è più opportuno mandare la creatura, sebbene nella scelta debba prevalere la qualità dell' insegnamento non il portafogli dei genitori dei compagnucci di classe. Ma tant' è. Il post del preside del Leopardi è stato rimosso, ma qualcuno ha fatto in tempo a prendere nota. «Da quando sono arrivato nella nuova scuola, ho spesso la sensazione di essere in Sudafrica», era l' esordio. Sudafrica nel senso di apartheid: i neri separati dai bianchi, robe di un altro secolo e da Terzo mondo eppure a volte ancora attuali perfino nella civilissima Italia, culla della cultura occidentale dove tuttavia serve un ripasso generale della grammatica. «Abbiamo paura che i nostri figli prendino cattive abitudini», ha scritto una delle mamme esigenti al preside. «Vogliamo che i nostri figli seguino le nostre orme», le ha fatto eco un papà, un altro tra coloro che non desiderano vedere il proprio pargolo mischiato con la teppaglia. E questo preside turbato si è sfogato su Facebook: «Io ascolto, ascolto e mi rendo conto che il limite della mia pazienza coincide con i limiti nell' uso del congiuntivo dei miei saccenti e classisti interlocutori». I quali reclamano l' ambiente giusto per la prole, ma poi magari in casa non sanno nemmeno l' Abc della lingua italiana.

Il consigliere del Papa attacca: "La Calabria? È senza speranza". Il gesuita Bartolomeo Sorge commenta i risultati elettorali delle regionali. L'Emilia Romagna è "benestante" e "guarda al futuro". La Calabria invece è "senza speranza". Giuseppe Aloisi, Martedì 28/01/2020 su Il Giornale. Una parte di Chiesa cattolica tifa per il centrosinistra. E questo è un dato certo. Ma padre Bartolomeo Sorge, gesuita, parteggia in maniera palese o quasi. In uno dei suoi ultimi tweet, il consacrato, che in passato ha diretto La Civiltà Cattolica, ha scritto quanto segue sull'esito delle elezioni regionali: "Due Italie. EMILIA ROMAGNA: benestante, guarda al futuro, rinvigorita dalla linfa nuova delle “sardine”. CALABRIA: ferma al palo, si affida al congenito antimeriodalismo della Lega, senza speranza". La vittoria di Stefano Bonaccini, del Partito Democratico e delle "sardine" è sinonimo di apertura al futuro. Quella di Jole Santelli e del centrodestra nella terra calabrese rappresenta tutt'altro. L'analisi di Sorge, dal punto di vista progressista, è cristallina, mentre la Calabria nella disamina del gesuita è appunto "ferma al palo". Un consacrato può prendere una posizione di questo tipo? La domanda è iniziata a circolare negli ambienti sin dalla comparsa del tweet. Ma Sorge aveva già specificato quali fossero le sue preferenze elettorali. Quasi in contemporanea con l'esordio delle "sardine" a Bologna, del resto, il padre gesuita aveva equiparato il movimento anti-Salvini con lo spirito dei primi cristiani. Il simbolo, ossia un pesce, è lo stesso. Altri ecclesiastici italiani ritengono che l'associazione tra i " primi cristiani" e le "sardine" rappresenti un insulto al sangue dei martiri, ma tant'è. Padre Bartolomeo Sorge si era espresso così: "Il pesce delle piazze di oggi (le “sardine”) è - come il pesce dei primi cristiani (IXTHYS) - anelito di libertà da ogni “imperatore” palese o occulto". Quando le "sardine" sono scese per la prima volta in una piazza di Roma, poi, padre Bartolomeo Sorge aveva commentato trionfante sempre via social: "Da BOLOGNA a ROMA : dal “pesce” come simbolo e segno (JXtus) alla nuova moltiplicazione dei “pesci”: “siamo in 100.000!”. L'analisi post-elettorale fa dunque parte di un filone che dura da mesi. Vale la pena sottolineare come non tutta la Chiesa cattolica voglia schiacciarsi sulle istanze delle "sardine" e del centrosinistra. Un altro sacerdote, padre Francesco Sollazzo, che abbiamo di recente intervistato, ha dichiarato in relazione al manifesto programmatico delle sardine che: " La pretesa, opponendosi al principio di partecipazione, è una vera e propria forma di violenza che non può essere tollerata, ma rigettata da tutte le componenti sociali che operano nell’orizzonte politico del Paese".

Maria Giovanna Maglie contro il consigliere di Papa Francesco: "Razzista e comunista, insulta i calabresi". Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Nei meandri del voto in Emilia Romagna. Ad esplorarli ci ha pensato Maria Giovanna Maglie, la quale non ha mai fatto mistero di stare dalla parte di Lega, Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini. In questo caso, dalla parte degli sconfitti, per quanto il risultato del Carroccio nella roccaforte rossa sia stato eccezionale. E così, scavando scavando, la giornalista ha intercettato, rilanciato e stigmatizzato un commento di Bartolomeo Sorge. Di chi si tratta? Gesuita, teologo e politologo italiano, è un esperto di dottrina social della Chiesa. Nato nel 1946, all'attivo diverse pubblicazioni, è considerato uno dei più stretti e fidati collaboratori di Papa Francesco. Col "vizio" del commento politico, recentemente si era distinto per la "bocciatura" della scissione di Matteo Renzi quando salutò il Pd per dar vita ad Italia Viva. Ma in questo caso, Sorge si è speso commentando su Twitter il voto in Emilia Romagna. Un cinguettio nel quale non nasconde assolutamente da che parte stia - ovvero, contro Salvini - e in cui aggiunge considerazioni destinate a far discutere. Già, perché il prelato cinguetta: "Due Italie. Emilia Romagna: benestante, guarda al futuro, rinvigorita dalla linfa nuova delle sardine. Calabria: ferma al palo, ai affida al congenito antimeridionalismo della Lega, senza speranza". Insomma, bravi i "benestanti emiliani" mentre vengono bocciati gli zoticoni - ovvio, zoticoni non lo ha scritto. Eppure... - calabresi che hanno votato a destra: "Fermi al palo", "senza speranza". Parole, appunto, destinate a far discutere. Parole riprese e rilanciate dalla Maglie, sempre su Twitter, che contro Sorge usa parole pesantissime: "Questo vetero comunista travestito da sardone - premette - è il gesuita decano dei consiglieri di Bergoglio", dunque cita Papa Francesco. Dunque la Maglie aggiunge: "È anche un razzista, leggete cosa scrive della Calabria che ha votato il centrodestra!". E in effetti...

Coronavirus, rinviato il Capodanno cinese a Roma. La portavoce della comunità: "Basta intolleranza". La paura del contagio potrebbe essere sfociata in due episodi di razzismo a Venezia e Torino. Lucia King: "E' un virus che può colpire chiunque non dipende dal posto dove si è nati o da dove si proviene". La Repubblica il 26 gennaio 2020. "Abbiamo deciso di rinviare la festa per il Capodanno cinese in programma il 2 febbraio di San Giovanni a Roma". Lo annuncia la portavoce della comunità cinese a Roma Lucia King. "Abbiamo concordato in modo congiunto con tutta la comunità che la festa deve essere rinviata perché c'è gente che sta male e non è il caso di festeggiare - ha aggiunto -. Ci dispiace perché i preparativi duravano da tre mesi, ma in questo momento è la scelta migliore. Comunicheremo in seguito una nuova data". E ancora Lucia King: "In Cina stanno soffrendo in questo momento, ieri sera ho lanciato la richiesta di rimandare alle altre associazioni che organizzano e festa ed hanno subito accettato, rimandiamo e probabilmente doneremo i fondi destinati alla festa per l'acquisto di materiale sanitario da inviare in Cina". Aggiunge: "Quando c'è stato bisogno di aiuto in Italia, come comunità cinese siamo sempre stati presenti, penso agli ultimi terremoti nei quali abbiamo fornito assistenza economica. In questo momento non chiediamo aiuto economico ma vicinanza, comprensione e tolleranza". Anche perché, ancora Lucia King, "in questi giorni ci sono stati episodi spiacevoli con battute sgradevoli come "allontaniamoci che ci sono delle persone cinesi". E' un virus che può colpire chiunque non dipende dal posto dove si è nati o da dove si proviene". La paura del contagio, che in molti casi si concretizza nell'annullare cene al ristorante cinese, potrebbe infatti essere sfociata in due episodi di razzismo. A Venezia una baby gang di adolescenti ha seguito, insultato e sputato contro una coppia di turisti cinesi. E a Torino una famiglia di cinesi che vive in Italia da decenni, parenti di Lucia King, si è sentita dire: "Allontaniamoci che portano la Sars dalla Cina". I due turisti di Venezia stavano passeggiando lungo la riva del Canale della Giudecca, quando il gruppo di adolescenti avrebbe cominciato a insultarli per poi sputargli addosso. Le forze dell'ordine finora non hanno ricevuto segnalazioni sulla vicenda che verrà approfondita ma si ipotizza che l'episodio possa essere legato proprio all'epidemia da coronavirus. "L'umanità deve essere unita per lottare contro questo virus. In questo momento non è il caso di allarmarci in Italia - dice Lucia King - naturalmente è importante prendere le dovute precauzioni. La comunità cinese vive da decenni in Italia. Non esiste nessun pericolo. I ristoranti cinesi acquistano gli ingredienti dagli stessi fornitori di quelli italiani".

Spruzzò il deodorante sui colleghi stranieri: condannato per razzismo. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it. Fece il giro della rete il video girato e postato sul profilo Facebook di una dipendente della catena di ristoranti Rossopomodoro in cui si vedeva un collega pizzaiolo italiano del locale all’interno della Stazione Centrale aggirarsi nelle cucine spruzzando deodorante sui lavoratori di colore. Per il Tribunale del lavoro di Milano, è razzismo: il pizzaiolo e la società sono stati condannati a risarcire le vittime. Il giudice, in particolare, ha definito il comportamento come «molestie razziali» e ha condannato il datore di lavoro perché ha di fatto consentito la cosa, creando «un ambiente lavorativo non inclusivo e di non accoglienza». Nella clip, pubblicata su Facebook da Biancavee Ortill, che lavora nello stesso ristorante della Stazione Centrale a Milano, si sente l’uomo dire: «Alzate la maglietta. Alza le ascelle. Anche tu, alza la maglietta. Ma questo (il deodorante, ndr) non ce l’avete a casa voi? Perché non ve lo mettete?». Una voce fuori campo conclude con: «Disinfestazione».

Deodorante spruzzato sui colleghi stranieri, condannati ristoratore e pizzaiolo. Molestia e discriminazione razziale le accuse. Accadde lo scorso anno in un locale della Stazione centrale di Milano. Tutto fu registrato in un video pubblicato poi su Facebook. Zita Dazzi il 25 gennaio 2020 su La Repubblica. Aveva spruzzato del deodorante sui dipendenti di colore di un bistrot all'interno della Stazione centrale, dicendo che quei colleghi puzzavano. Il video, ripreso da una collega, era finito su Facebook e ne era nato un caso. Adesso il giudice ha condannato non solo il molestatore che se la prendeva con i colleghi stranieri, ma anche la società, che usava in franchising il marchio Rossopomodoro, una nota catena multinazionale di pizzerie con diversi locali a Milano e in molte metropoli europee. La società affermava di non avere responsabilità, trattandosi di un gesto folle di un dipendente qualsiasi: il giudice l’ha pensata diversamente e ha condannato il pizzaiolo che spruzzava il deodorante identificando il comportamento come discriminazione razziale e molestia. Ma ha condannato anche il datore di lavoro perché non ha impedito la creazione di un "clima umiliante e offensivo" nei confronti dei lavoratori di colore sbeffeggiati e ridicolizzati a più riprese in pubblico e in privato dal collega. Nel dispositivo della sentenza alla società viene dunque ordinato di organizzare un corso di formazione al rispetto delle persone. È la prima volta in Italia che viene emessa una condanna di questo tipo. Tutto era successo un anno fa, il 26 gennaio 2019, nella pizzeria all'interno della Stazione centrale di Milano. Uno dei responsabili di sala aveva spruzzato il deodorante su due colleghi di origine africana intimando "alza le ascelle", "ma perché non lo usate questo?", mentre in sottofondo si sentivano risate. I lavoratori costretti a subire questo trattamento, in alcuni casi, sorrideva imbarazzati, guardando la telecamera dello smartphone che riprendeva tutto. Il giorno dopo i dipendenti presi in giro dal collega con maggiore anzianità di servizio si erano rivolti agli avvocati Alberto Guariso, Livio Neri e Daniele Bergonzi, esperti di diritto del Lavoro e dell'immigrazione. Lo studio legale ha promosso la causa presso la sezione Lavoro del Tribunale civile di Milano con un esposto contro il pizzaiolo del quale venivano riferiti numerosi episodi di insulti e disprezzo a forte connotazione razziale. La giudice Manuela Sara Moglia ha accolto in pieno le accuse e ha condannato i fatti come "molestie razziali". Il datore di lavoro (ex art. 2049 del codice civile) viene invece condannato in relazione a quelle frasi offensive e comportamenti razzisti perché si rileva come sia stato reso possibile o agevolato il comportamento lesivo, comportamento determinato da "un ambiente lavorativo non inclusivo e di non accoglienza". "Non vi è dubbio che fra gli obblighi vi è anche quello di - si legge nell'ordinanza - assicurare ai propri dipendenti un ambiente lavorativo nel quale la persona non sia vittima di soprusi, trattamenti degradanti, umilianti e discriminatori". E ancora: "Il diritto fa obbligo al datore di lavoro di assicurare ai lavoratori il diritto all'integrità fisica e la personalità morale". Il Tribunale ha condannato in solido il molestatore e il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalle vittime e a predisporre per tutti i dipendenti un corso finalizzato alla educazione al rispetto di ogni cittadino indipendentemente dalla provenienza etnica. "Quando sono venuti in studio da noi - raccontano i tre legali - dall'episodio specifico oggetto della denuncia siamo risaliti a un clima intimidatorio prolungato, fatto di continui insulti e atteggiamenti discriminatori. Siamo molto soddisfatti della condanna perché è la prima volta che un giudice condanna una società a fare un corso per i dipendenti sul rispetto della diversità e all'antirazzismo. Dovrà esser fatta rispettare e che prendano sul serio l'ordine del giudice. Vigileremo affinché questo venga fatto".

«Inutile dar soldi per i dei malati terminali, tanto lì la gente muore». Bufera sul consigliere Fi. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Floriana Rullo. Le parole di Carmine Passalacqua sulla struttura «Il Gelso» che assiste pazienti malati terminali di tumore. «Come mai si continuano a dare fondi a un ente come l’hospice Il Gelso, già supportato da Asl e altre istituzioni, piuttosto che ad altri. Lì, in fondo, la gente muore...». Parole di Carmine Passalacqua, esponente di maggioranza tra le fila di Forza Italia e presidente della Commissione cultura di Alessandria. Dichiarazioni infelici (Il Gelso dà sollievo alle persone malate di tumore all’ultimo stadio) che qualcuno ha anche registrato, pronunciate nel corso di una Commissione Affari Istituzionali in cui si discuteva, appunto, di uno dei luoghi più cari per gli alessandrini. Il sostegno del personale dell’hospice cittadino va spesso anche alle famiglie dei degenti. Però Passalacqua, che non è nuovo ad uscite «originali», ha chiesto di «non fare beneficenza al Gelso, tutti portano al Gelso...ma non ne ha bisogno...ha contributi statali. Io non capisco tutte queste raccolte fondi e non vedo perché non si faccia beneficenza anche ad altri. Ci sono tante altre strutture che hanno bisogno di fondi, pensiamo ai bambini». Passalacqua non è nuovo ad uscite polemiche: nell’aprile scorso le sue dimissioni erano state chieste dopo un post apparso su Facebook contro i partigiani che eseguirono la fucilazione di Mussolini e sull’ex capo dello Stato Sandro Pertini. In quel caso il sindaco non poté fare altro che prendere le distanze. Inevitabile la bufera sui social e anche nel mondo della politica alessandrina. Tanto che gli è stato chiesto di dimettersi da presidente della Commissione Cultura. A spingere per un suo passo indietro sono in particolare Pd, M5S e Insieme per Rossa. «Carmine Passalacqua, a nome dei cittadini che rappresenta, non può suggerire ad una associazione privata dove fare volontariato - dicono i consiglieri di minoranza-. Troviamo vergognose le sue parole usate per descrivere l’attività del hospice “Il Gelso» e chiediamo al sindaco, alla giunta e alla maggioranza che vengano chieste le sue dimissioni da presidente della commissione cultura».

Carmelo Caruso per “il Giornale” il 22 gennaio 2020. Bisogna tenere altissima la guardia, ma l' Italia non è un paese finito sott' odio. I crimini contro le diversità non crescono, ma diminuiscono. Non è vero dunque che gli italiani sono sempre più «sputatori di professione» e non siamo ancora al Buio oltre la siepe e questo malgrado gran parte della rabbia riguardi proprio razzismo e xenofobia. Sono dati che vanno letti con attenzione, senza farsi prendere da entusiasmi (al contrario), ma nello stesso tempo segnalando che nel 2019 i reati d' odio sono inferiori rispetto a quelli del 2018. I numeri li ha raccolti e divulgati, ieri, l' Oscad, l' Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, un organismo interforze (Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri) che dal 2010 monitora e registra i reati denunciati presso le autorità, quelli che possono essere puniti perché coperti dal codice, e le segnalazioni di discriminazioni non coperti da norme. «Questo per arrivare a un numero che poi giriamo a Osce e che permette di accendere una luce» dicono i tecnici di Oscad. Si tratta quindi del migliore dato possibile che possiamo avere. E i dati sono i seguenti: rispetto al 2018, anno in cui sono stati accertati 1.111 reati, si certifica un' inversione di tendenza. Nel 2019 i reati sono infatti 969. Prima di tutto sono calate le aggressioni fisiche, oggi passate a 191 rispetto alle 205 dell' anno scorso. Va precisato che la fetta più consistente di questi crimini si riferisce a razzismo e xenofobia, comunque in calo. Tre reati su quattro sono di matrice razzista. È una categoria ampia che include discriminazioni di razza-colore, nazionalità e che tiene conto di manifestazioni di ostilità verso i popoli rom, sinti, ma anche verso musulmani, membri di religioni diverse e non per ultimo, rigurgiti di antisemitismo. È il fenomeno che più sta allarmando le democrazie e non solo la nostra (ieri è apparso in Francia uno studio simile che rivela come un ebreo su tre si senta minacciato). Sono 161 invece le discriminazioni nei confronti dei disabili mentre 82 quelli per orientamento sessuale e identità di genere. Entrando nel dettaglio sono scesi gli attacchi contro i luoghi di culto (da 50 a 0) o le profanazioni di tombe (da 188 a 147). A commentare il report è stato il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, preoccupata dalla «banalizzazione» che a questo genere di reati, troppe volte, si accompagna. Per il ministro «oggi si discrimina in base alla razza, al colore della pelle, all' orientamento sessuale. Ma siamo nel 2020, è inaccettabile che una qualsiasi diversità sia fonte di discriminazione e che si debba nascondere il proprio essere per evitare di caderne vittima». Sono le stesse convinzioni della senatrice a vita Liliana Segre, anche lei intervenuta in questa occasione: «L' odio è odio in tutte le sue forme e qualunque uomo di buona volontà dovrebbe combatterlo». Sempre troppo poco contro l' odio, ma anche usarlo porta a banalizzarlo.

Studentessa denuncia: «Insultata perché sono cinese. Poi gli sputi». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Camilla Gargioni. Valentina Wang, 19 anni, insultata da due sedicenni sul treno a Mestre: «Prova a pronunciare la “r”, tanto non ci riesci». Poi sputi e offese. Valentina Wang ha 19 anni e, come ogni giorno, sta aspettando il treno che da Venezia - città dove frequenta l’università Ca’ Foscari - la porti dalla famiglia a Badia Polesine (Rovigo). È al binario di Mestre quando un paio di ragazzi, che avranno avuto al massimo 16 anni, iniziano a importunarla gridandole: «Prova a pronunciare la “r”, tanto non riesci, incapace». Valentina è di origini cinesi, ma è cresciuta in Italia e proprio la scorsa estate ha ottenuto la cittadinanza. All’inizio prova a ignorarli, ma quelli insistono, con frasi razziste e sessiste sempre più accese. «Al che non ho più tollerato e ho iniziato a rispondere a tono», scrive Valentina sul suo profilo Facebook, dove ha denunciato l’accaduto. La giovane si sente avvilita, umiliata e sola: c’è un altro ragazzino su quella carrozza, che però preferisce restarsene seduto in disparte. Sembra tutto finito ma ecco che alla fermata di Padova i due si alzano, le sputano addosso e una volta scesi, le fanno il dito medio fuori dal finestrino. «Ha provato a parlarne con il controllore, ma questo le ha consigliato di rivolgersi alla polizia ferroviaria, tendendo a sminuire la cosa - ricostruisce il fidanzato di Valentina, Giovanni Furlan -. Le era già capitato di avere qualche piccolo contrasto, ma mai di una violenza simile». Il post della ragazza è diventato subito virale su Facebook. Sulla questione è intervenuto il direttore regionale di Trenitalia Veneto Tiziano Baggio: «Faremo subito degli accertamenti, voglio incontrare la viaggiatrice per darle la nostra solidarietà».

L'assist di Mihajlovic alla Lega: "Tifo per Salvini e Borgonzoni". L'allenatore del Bologna si schiera con la Lega in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Alberto Giorgi, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "Matteo Salvini è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, dai tempi del Milan. Mi piace la sua forza, la sua grinta, è un combattente". Sinisa Mihajlovic esce allo scoperto e fa il proprio endorsement al leader della Lega. "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni", spiega nell'intervista rilasciata al Resto del Carlino. L'allenatore del Bologna sta combattendo da mesi come un leone contro un brutto male e come spesso gli capita non ha paura di esporsi. Neanche se si tratta di politica. E infatti nella chiacchierata con il quotidiano locale, il serbo si lascia andare a parole al miele verso il segretario del Carroccio: "Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene. I grandi uomini fanno questo, nello sport e nella politica". Dunque, il mister dei rossoblù entra nel merito della tornata elettorale nella regione "rossa" per eccellenza, dove il centrosinistra governa senza sosta da cinquant'anni: "Cambiare tanto per cambiare non serve. Io posso solo dire che sono in Italia dal 1992 e anche se non è il mio Paese di origine, è come se lo fosse diventato. E, da allora, trovo l'Italia peggiorata. Quindi bisogna avere idee e la forza di migliorare…". Da questo presupposto, ecco l'appoggio totale al capo politico della Lega e alla candidata (leghista) del centrodestra unito contro il dem Stefano Bonaccini: "Salvini è intelligente e capace, è all'altezza di guidare il Paese. E le donne – come Lucia Borgonzoni, ndr – beh le donne sono più forti degli uomini: le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all'altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". L'ultima battuta dell'intervista di Mihajlovic al Carlino è dedicata alla querelle sul caso della nave Gregoretti e al processo a Matteo Salvini: "Normale. Silvio Berlusconi quanti processi ha avuto? È normale che quando cerchi di cambiare molte cose e magari usi metodi forti, qualcuno possa chiedere di valutare il tuo operato. Di Matteo io dico: 'Fidatevi. E vedete quello che fa'".

Mihajlovic e le elezioni in Emilia Romagna: “Sto con Salvini”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. In vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna, Sinisa Mihajlovic ha fatto sapere da che parte è schierato. Sinisa Mihajlovic ha espresso la sua opinione in merito alle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna in programma per domenica 26 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna ha dichiarato di voler sostenere Matteo Salvini e la sua candidata Lucia Borgonzoni. Il leader leghista ha ringraziato Sinisa tramite social, definendolo un “grande campione” e un “uomo coraggioso“. Pur non votando per il rinnovo del Consiglio regionale, Sinisa ha espresso la sua preferenza politica schierandosi dalla parte della Lega. Ha infatti raccontato di essere amico di Salvini da qualche anno, precisamente dal 2015, “i tempi del Milan“. Ha poi avuto recentemente un incontro con il leader del Carroccio, che ha sempre espresso ammirazione nei suoi confronti e che è passato a trovarlo per vedere come stesse. “Un incontro piacevole“, ha spiegato l’allenatore. “Mi piace la sua forza e la sua grinta, è un combattente“, ha continuato. Ha poi aggiunto che ritiene Salvini un uomo tosto che fa quello che dice, ribadendo il sentimento di amicizia che lo lega a lui. Mihajlovic ha poi espresso il suo apprezzamento anche nei confronti della candidata presidente del centrodestra. Pur non conoscendola personalmente, la ritiene una donna all’altezza in virtù del suo carattere e della sua determinazione. “Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio“, ha precisato, sostenendo che Lucia Borgonzoni sia un’ottima scelta per la regione per il suo carisma e per la fiducia che si è meritata. Non è tardato ad arrivare il ringraziamento della leghista all’allenatore del Bologna. Queste le sue parole condivise in un post su Facebook: “Grazie di cuore, Mister, speriamo, insieme alla nostra squadra, di riuscire a meritare questa fiducia, per il cambiamento dell’Emilia Romagna, con umiltà ma tanta passione“. Anche Matteo Salvini ha ringraziato Sinisa per il coraggio che ha avuto nell’esprimere la preferenza per il suo partito.

Mihajlovic si schiera con Salvini e gli heaters gli augurano la morte. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna si era schierato con la candidata del centrodestra. Dopo l’endorsement per Matteo Salvini e Lucia Bergonzoni in vista delle elezioni emiliane di domenica prossima, l’alleantore del Bologna Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli heaters  che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. L’allenatore serbo sta combattendo la sua battaglia contro la leucemia che lo ha colpito l’estate scorsa ed è reduce da un trapianto di midollo osseo. Tra coloro che si sono scagliati contro di lui per l’intervista pro-Salvini vi è anche chi gli rimprovera scarsa riconoscenza nei confronti di Stefano Bonaccini, presidente uscente dell’Emilia Romagna e candidato del centro sinistra alle elezioni di domenica, per il fatto di essere stato curato in un ospedale pubblico di Bologna. Sull’altro versante, non manca chi prende le difese di Mihajlovic stigmatizzando il comportamento di chi si è spinto fino ad augurargli la morte. “Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola”, “Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d’Italia”, sono alcuni dei commenti che circolano su twitter.

Il leone Sinisa e i conigli rossi. Andrea Indini su Il Giornale il 22 gennaio 2020. Ha visto di tutto nella sua vita Sinisa, figuriamoci se si fa scalfire da quattro conigli rossi che lo insultano e gli augurano la morte. Lui resterà sempre un leone, loro degli ignobili roditori che si attaccano a una tastiera per inveire contro chi non la pensa come loro. Ne ha viste tante Mihajlovic e oggi non si fa certo problemi a rilasciare un’intervista per dire che appoggia in tutto e per tutto Matteo Salvini. Non se li fa anche se siede sulla panchina di una squadra, il Bologna, la cui curva è più rossa che non ce n’è. E poi: perché mai dovrebbe farsene? Ha detto quello che pensa. Punto. Si chiama libertà. La violenza con cui gli sono piombati addosso era prevedibile. E sono andati a colpirlo là dove, fino a qualche settimana fa, tutti gli si stringevano attorno: la malattia che gli divora dentro, quel tumore che non lo ha fermato. Se non lo ha fatto il cancro figuriamoci se ci riusciranno quei quattro idioti che gli augurano la morte perché ha fatto un endorsement al Capitano leghista. Gli rinfacciano di appoggiare Lucia Borgonzoni e gli ricordano che nel frattempo “si fa curare con la sanità di Bonaccini”. Per questo dovrebbe tacere. “Sosterrà Salvini in Emilia Romagna – scrivono – con un tumore già ci convive”. Da brividi. E ancora: “Speriamo muoia entro domenica”. Per Sinisa sono tutti moscerini. Lui che è cresciuto nella Jugoslavia del generale Tito, che ha vissuto sulla propria pelle due guerre violentissime, che ha visto le bombe americane radere al suolo le città serbe e gli amici cadere come foglie, non si lascia certo smuovere da un augurio di morte. La morte, appunto, l’ha guardata in faccia più volte e più volte l’ha sconfitta. Con un unico rimpianto. “Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto – ha raccontato tempo fa – il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre”. Tutto il resto sono bassezze che non lo toccano ma che a noi dicono, ancora una volta, che le anime belle che vogliono i tribunali contro le destre sono i primi, feroci odiatori che metterebbero alla gogna chiunque non la pensi come loro. 

Sinisa tifa Salvini e la sinistra impazzisce: "E poi ti curi con la sanità di Bonaccini". Dopo l'endorsement dell'allenatore del Bologna Siniša Mihajlović a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, c'è chi lo accusa: "Si cura con la sanità di Bonaccini". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Sinisa Mihajlovic, ex giocatore di Sampdoria, Lazio e Inter e ora allenatore del Bologna, è finito nel mirino della stampa di sinistra dopo l'endorsement a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni dato in un'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino. "Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni" ha dichiariato Sinisa, sottolineando che Salvini "mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi". Apriti cielo! Da notare che Sinisa Mihajlovic è uno dei pochissimi "vip" a fare il tifo per Salvini e Borgonzoni in Emilia-Romagna: se dovessimo stilare la lista di quelli apparsi sui giornali in favore di Bonaccini, a cominciare da quelli saliti sul palco con le sardine a Bologna, non finiremmo più.

"Si cura con la sanità di Bonaccini". La notizia, oltre a scatenare i social (insulti compresi), ha anche acceso la stampa di sinistra e progressista. Next Quotidiano, testata edita da Nexilia, titola così: "Sinisa Mihajlovic appoggia Borgonzoni ma si cura con la sanità di Bonaccini", in riferimento alla battaglia contro la leucemia che l'allenatore del Bologna sta conducendo con grandissima tenacia e dignità dopo essersi sottoposto al trapianto di midollo osseo. Una malattia terribile che Mihajlovic sta combattendo sin dal primo giorno con la forza di un leone, senza peraltro mai abbandonare la sua squadra, il Bologna. Nell'articolo Next Quotidiano si chiede "cosa vorrebbe cambiare Mihajlovic in Emilia-Romagna" probabilmente "non l’equipe medica dell’Ospedale Sant’Orsola che lo ha avuto in cura. L’istituto di ematologia Seragnoli è considerato una delle eccellenze della Sanità pubblica italiana. Ma probabilmente all’allenatore del Bologna poco importa che il progetto della Lega sia quello di una progressiva privatizzazione del comparto sul modello della Lombardia". Oltre all'inopportunità di scomodare la malattia e questioni personali estremamente delicate per criticare una legittima opinione politica, va rilevato che la sanità "non è di Bonaccini" ma dell'Emilia-Romagna e dello stato italiano. Il fatto che un suo diritto sia stato garantito significa che Sinisa, peraltro cittadino onorario di Bologna, debba per forza di cose pensarla come l'attuale governatore su tutto? Si fa davvero fatica a comprendere la logica di un'argomentazione del genere. Lo stesso quotidiano osserva, inoltre: "Nessuno a quanto pare lo ha avvertito che in Emilia-Romagna vincerà Lucia Borgonzoni e non il leader della Lega, ma sono dettagli dei quali non si curano nemmeno i più convinti elettori della Lega". Peccato che Mihajlovic sappia benissimo chi è Lucia Borgonzoni, come spiega lui stesso nell'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino: "Le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all’altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". Ci sarebbe poi molto da discutere e da obiettare sulla paventata privatizzazione della sanità menzionata nell'articolo, oggetto di dibattito politico (e scontro) fra lo stesso Bonaccini e la Lega in Emilia-Romagna. Bonaccini aveva commentato così sulla sua pagina Facebook l’intervista del segretario della Lega Emilia, Gianluca Vinci, andata in onda su Telereggio: "Il segretario della Lega Emilia ci spiega il loro progetto per la sanita’ in Regione: privatizzazione del 50% dei servizi. Dice inoltre che il loro programma e’ stato scritto con i presidenti di Lombardia e Veneto". Affermazioni per le quali il governatore uscente dell'Emilia-Romagna è stato querelato dallo stesso Vinci: "Bonaccini pubblica sul suo profilo una fake news creata con un copia incolla di parti di una mia intervista distorcendone il significato. Complimenti al governatore ‘uscente’ per questa ennesima dimostrazione del fatto che è in estrema difficoltà".

Insulti sui social contro Sinisa: c'è chi gli augura la morte. Nel frattempo, Sinisa è stato oggetto di pesanti attacchi sui social network dopo il suo endorsement per Matteo Salvini in vista delle elezioni regionali di domenica. Come riporta l'Adnkronos, l'allenatore del Bologna è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". A scagliarsi contro il il mister dei rossoblù anche la pagina SatirSfaction. "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive", si legge su Twitter. E ancora "Mihajlovic sostiene Salvini: "Darei il mio sangue per lui". Frasi forti che non hanno fatto per nulla sorridere. Anzi, hanno attirato le critiche degli utenti. "Questa non è satira, è assoluta mancanza di rispetto", "Fai schifo", "Non è satira, è stronzaggine pura", "Vi dovreste vergognare", "Mi viene il voltastomaco", alcune delle reazioni al post. Senza dimenticare la gaffe dell'assessore regionale della giunta Bonaccini, Massimo Mezzetti: "E pensare che, se dessimo retta a chi dice “negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri”, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi" ha scritto sulla sua pagina Facebook. Dichiarazioni a cui ha prontamente risposto Matteo Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona".

Gli insulti shock a Mihajlovic: "Malato mentale, meriti la morte". Vergognosi attacchi all'allenatore del Bologna dopo l'endorsement alla Lega: "Ha alcuni danni cerebrali irreversibili, speriamo che muoia". Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Una vergogna assoluta: commenti deplorevoli ai danni di Sinisa Mihajlovic, "colpevole" di aver espresso parole positive nei confronti della Lega. Il serbo, che sta combattendo contro la leucemia ed è reduce da un trapianto di midollo osseo, ha strizzato l'occhio a Matteo Salvini: "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni. Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene". Appoggiare una linea politica di destra, come al solito, ha scatenato tutta la violenza dei leoni da tastiera della sinistra. Coloro che si dichiarano antifascisti e antiviolenti hanno messo in campo un'ondata di minacce contro l'allenatore del Bologna. Tra l'altro è spuntata anche la battuta choc della pagina di SatirSfaction: "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive". Gli haters lo hanno ricoperto di offese, arrivando addirittura ad augurargli la morte. "Speriamo muoia entro domenica. Fatti curare da Casapound. Sei un fascista. Laziale. Ti davano dello zingaro e te lo sei scordato e quindi non mi sorprende che tu abbia fatto propaganda per Salvini. Ai bolognesi tifosi però dispiace. Se ti levi dalle palle a me sta bene", scrive un utente. C'è chi ha espresso felicità per il travaglio che ha passato: "Mi auguro sinceramente che la chemio aiuti Mihajlovic ad uscire dalla malattia! Purtroppo però debbo constatare che alcuni danni cerebrali irreversibili sembra che li abbia già fatti". Un'altra utente ha invece twittato: "Questo per farvi capire che a volte le disgrazie uno se le merita". Ovviamente non sono mancate le difese a sostegno del tecnico: "Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola"; "Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d'Italia".  

Salvini replica all'uscita di Massimo Mezzetti su Sinisa Mihajlovic: "Non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "E pensare che, se dessimo retta a chi dice negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi". È il commento, pubblicato su Facebook, di Massimo Mezzetti, assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità nella giunta Bonaccini, in Emilia-Romagna. Il riferimento dell'assessore regionale è alle recenti dichiarazioni dell'allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che ha confessato in un'intervista a Il Resto del Carlino di fare il tifo per il leader leghista Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni. Parole, quelle dell'assessore, destinate ad alimentare nuove polemiche. Durissima la replica del leader del Carroccio, Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona" osserva Salvini in una nota. "Orgogliosi di governare tante Regioni con Sanità d’eccellenza, onorati della stima di Sinisa e fieri di poter liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra di Bonaccini e Mezzetti. Speriamo - prosegue Matteo Salvini - che Bonaccini censuri la scemenza del suo assessore, e che magari ci parli anche di Jolanda di Savoia". Sui social network alcuni uteni hanno espresso dure critiche nei confronti dell'uscita (a dir poco infelice) dell'assessore regionale. "Questa te la potevi risparmiare" scrive un utente sotto il post, mentre un altro rimarca: "Sono di sinistra. Ma questa è pessima". Mezzetti prova a difendersi: "Non mi sembra di essere stato offensivo nei confronti di [Mihajlovic] in quanto uomo. Ho messo in evidenza una sua contraddizione fra ciò che sostiene (forse meglio dire, chi sostiene) e l'esperienza che ha vissuto". E ancora: "Ho fatto una constatazione semplice. I cattivi sono quelli che non l'avrebbero curato, mica io. Io voglio che possa continuare a usufruire della nostra buona sanità, non sono come quelli che vogliono cacciare gli stranieri dai nostri ospedali". Dopo l'assist a Matteo Salvini e alla Lega, l'allenatore del Bologna ed ex calciatore è stato oggetto di una vera e propria campagna d'odio via social. Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". La sua colpa? Non essere di sinistra o, perlomeno, non simpatizzare per la sinistra italiana. Quella dei "buoni", delle sardine e di chi rigetta l'odio.

ELEONORA CAPELLI per bologna.repubblica.it il 23 gennaio 2020. Le regionali in Emilia si trasformano in un derby tra allenatori rossoblù. Dopo l'endorsement di Sinisa Mihajlovic per la Lega alle elezioni del prossimo 26 gennaio, l'ex allenatore del Bologna, Renzo Ulivieri scende in campo per Bonaccini e per la coalizione di centrosinistra. In particolare a sostegno del candidato Igor Taruffi della lista "Coraggiosa". "Sono un estimatore di Mihajlovic, in tante occasioni ci siamo conosciuti e abbiamo parlato - dice l'allenatore toscano, sulla panchina del Bologna dal 1994 al 1998 e successivamente dal 2005 al 2007 - non condivido chi sostiene che non dovesse parlare, chi è nel mondo del calcio può parlare e sosterrò sempre la sua libertà di farlo. Però poi dico: non gli date retta". Ulivieri, che in passato è stato anche candidato alle elezioni con Sel, difende la dimensione dell'impegno politico ma anche idee completamente diverse da quelle di Sinisa. "Il nostro è un pensiero completamente diverso - spiega - riguardo l'uomo, l'umanità, riguardo al senso di stare insieme. Sostengo che l'Emilia è un modello, sono per Bonaccini e Taruffi, per quella coalizione che porta avanti un discorso cominciato tanti anni fa, di democrazia, di partecipazione, di scelte". Per questo Ulivieri chiede: "Non statelo a sentire". "Le cose in Emilia stanno in un'altra maniera, non come dice Salvini - sostiene Ulivieri - i cittadini dell'Emilia lo sanno e non si faranno incantare".

Tony Damascelli per il Giornale il 23 gennaio 2020. Non c' è dubbio che Benito Mussolini fosse tifoso della Roma così come, in seguito, Giulio Andreotti, mentre Palmiro Togliatti si scaldasse per la Juventus, come Luciano Lama, gente di sinistra, quest' ultima, vicina al simbolo del capitalismo, Giovanni Agnelli. Ai tempi, nessuna speculazione o rivolta di popolo per il tifo calcistico dei personaggi politici ma è vero il contrario, quando un calciatore illustra la propria idea e ideologia, allora la musica cambia, Bruno Neri si rifiutò di alzare il braccio per il saluto romano, era l' anno millenovecentotrentuno e si inaugurava lo stadio di Firenze alla presenza dell' autorità del fascio, quell' immagine restò non soltanto nelle fotografie ma fu il simbolo di una ribellione che portò Neri a diventare partigiano ed essere poi fucilato dai nazisti. Venne poi la democrazia che, comunque accetta con fatica, alcune posizioni politiche degli atleti. Si discute della dichiarazione pro Salvini e Lega di Sinisa Mihajlovic, allenatore simbolo del Bologna, cioè del club che è stato allenato negli anni da Renzo Ulivieri la cui appartenenza al partito comunista viene ribadita con il busto di Vladimir Ilic Uljanov, per i compagni di tutto il mondo, Lenin, collocato sulla credenza di casa. Lo stesso Uliveri, vice presidente della Federcalcio e presidente degli allenatori, si è fotografato a Chicago, posando con il dito medio rivolto alla Trump Tower. Affollato, come una gradinata, è l' elenco di figure illustri che passano dal pugno chiuso di Paolo Sollier a quello di Cristiano Lucarelli, così come Riccardo Zampagna apertamente schierato con gli operai della ThyssenKrupp, acciaierie di Terni, fabbrica nella quale lui stesso aveva lavorato prima di darsi al football. Non figurine ma persone e personaggi di rilievo per la tifoseria che, spesso, si manifesta con nomi da battaglia, dai commandos ai feddayn, dagli ultras alle brigate. Quando il portiere del Milan, Christian Abbiati, dichiarò di condividere il fascismo per i valori della Patria, il senso dell' ordine e della sicurezza, garanzie del vivere quotidiano, provocò il subbuglio anche se tentò di rimediare dicendo di non poter assolutamente accettare le leggi razziali e l' alleanza con Hitler e l' entrata in guerra. Fu timbrato, come Paolo Di Canio che, tra tatuaggi duceschi e saluto romano, non abbisogna di passaporto diplomatico. Idem come sopra per Stefano Tacconi che si presentò per le liste di Alleanza Nazionale che fu. Di destra è Sergio Pellissier che ha ammesso di rispettare il fascismo «per le cose belle, accanto a quelle brutte». Se la squadra va verso la squadraccia, in campo corrono anche molti compagni e affini, Simone Perrotta si è innamorato dei 5Stelle, Massimo Mauro era entrato nel giro dell' Ulivo, Sacchi e Lippi amano il garofano rosso, mentre la battuta più felice rimane quella di Eugenio Fascetti: «L' unica cosa di sinistra che mi piace è la colonna della classifica di serie A». Aggiungo ai passionari della politica, Giovanni Galli e Giuseppe Giannini e Angelo Peruzzi, in formazione tra Forza Italia e Popolo delle Libertà. A sorpresa, Antonio Cabrini aveva aderito all' Italia dei Valori di Di Pietro. Un album che non solletica i collezionisti ma dimostra che il football tenta di nascondersi nel canneto. Se i politici usano il calcio per aumentare il consenso e salire a bordo della diligenza quando la loro squadra, nazionale o di club, vince, i calciatori, sulla stessa diligenza preferiscono non salire, per evitare fischi e ingiurie del favoloso pubblico dei tifosi. Che sono anche elettori.

Alessandro Barbano per il ''Corriere dello Sport'' il 23 gennaio 2020. Disse, Sinisa Mihajlovic, tornando dopo tre mesi di cure: “Mi sorprende aver unito tutti con la mia malattia, io sono stato sempre divisivo. E forse tornerò a esserlo”. La promessa l’ha mantenuta con l’endorsement a Matteo Salvini, fatto ieri in un’intervista al Carlino. Chi lo conosce bene non si è stupito, perché sa che la divisività è una cifra irredimibile del suo carattere. Ma per un Sergente serbo che si schiera a destra, c’è subito uno Zar russo che gli risponde dal lato mancino. È Ivan Zaytsev, campione del volley modenese e nazionale, in piazza Grande con le sardine fin dalle prime adunate: sul suo profilo Instagram da ieri compare una foto di Stefano Bonaccini, con una eloquente didascalia: “Il mio Presidente”. Lo sport si è schierato. Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla valenza di questa sfida elettorale, eccolo servito: la competizione tracima dalle segreterie politiche fino agli spogliatoi più prestigiosi. L’Emilia Romagna è una roccaforte che neanche gli incerti della Seconda Repubblica avevano messo in discussione. Su questo confine mai conteso, e oggi improvvisamente contendibile, si giocano non solo gli equilibri di governo, ma le visioni e gli schemi con cui il Paese si è raccontato e in parte ancora si racconta da settant’anni. Non c’è da stupirsi che la battaglia delle battaglie abbia assoldato l’intera platea dei riservisti. Ma quanto pesa l’opinione dei campioni dello sport? Molto, secondo le aspettative degli spin doctor dei due sfidanti, che se li sono contesi con un corteggiamento scientifico. Meno, a giudicare dalle reazioni sui social: la sovraesposizione ha sempre un effetto paradosso. Così, sulla community “Lo spettro della bolognesità”, che conta su Facebook 17mila utenti, c’è chi arriva a rimproverare a Mihajlovic di sputare nel piatto di quel modello emiliano che lo ha assistito con tempestività taumaturgica. “Mica l’ha operato Bonaccini”, replica un altro cibernauta. E da più parti ci si chiede in che misura la sortita del tecnico chiami in corresponsabilità anche il club: in tempi in cui le società regolano il diritto di parola dei loro campioni, è difficile pensare che il Bologna non sapesse e non volesse. D’altra parte Sinisa non è uno abituato a chiedere il permesso di parlare. E certamente parlare di politica è un suo diritto. Ma che cosa accadrebbe se il tecnico della Spal Leonardo Semplici, contro cui il Bologna giocherà a Ferrara il giorno prima dell’apertura delle urne, dichiarasse la sua fede per Bonaccini? Il derby emiliano rischierebbe di trasformarsi in un antipasto bollente delle elezioni. In nome di un tirannia che assoggetta ambiti della vita pubblici abitualmente separati, il calcio cesserebbe di essere quella valvola di decantazione che è. Certamente questo Mihajlovic e Zaytsev e le loro scuderie politiche di riferimento non l’hanno pensato. A questa soffocante polarizzazione di bandiere e stati d’animo viene in soccorso un motto di Blaise Pascal, a cui si ispira il filosofo statunitense Michael Walzer nel suo libro “Sfere di giustizia”: «Dobbiamo onori diversi ai diversi meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza». E, si può aggiungere, ammirazione all’impresa sportiva. Questo per dire che il 4-2-3-1 del Sergente e l’ace in battuta a 120 all’ora dello zar restano una fenomenologia del corpo, e non una religione dello spirito e del sapere assoluto. Per nostra fortuna.

Sacchi come Mihajlovic: ha scelto Salvini e Borgonzoni. Stasera a Bologna presenterà il suo libro in un incontro organizzato da Forza Italia. La senatrice Bernini: ''Ci aspettiamo il suo appoggio''. Antonio Prisco, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Anche Arrigo Sacchi in appoggio alla Lega di Matteo Salvini e della candidata Lucia Borgonzoni, in vista delle prossime elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Dopo le dichiarazioni di Sinisa Mihajlovic, dal mondo del calcio potrebbe arrivare un nuovo endorsement a favore di Lucia Borgonzoni. Arrigo Sacchi, romagnolo di Fusignano, l'indimenticato allenatore del primo Milan di Silvio Berlusconi e della Nazionale italiana, potrebbe lanciare da Bologna il proprio endorsement al centrodestra in vista del voto di domenica. Questa sera, nelle sale del Museo della storia di Bologna, Sacchi presenterà il libro La coppa degli immortali Sottotitolo: Milan 1989: la leggenda della squadra più forte di tutti i tempi raccontata da chi la inventò, scritto con Luigi Garlando. A quanto si sa, Arrigo non ha mai aderito ad alcun partito, rifiutando sempre qualsiasi tessera in tasca. Tuttavia non ha mai nascosto di avere votato sempre per Silvio Berlusconi, da quando il Cavaliere scese in campo nel 1994. Sugli inviti, il simbolo Forza Italia-Berlusconi per Borgonzoni, che si troverà anche sulle schede elettorali delle regionali non lascerebbe alcun dubbio sulla scelta dell'ex tecnico milanista. Con Sacchi, all’incontro intervengono Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di FI, Adriano Galliani, ex vicepresidente del Milan, senatore di FI, e Marino Bartoletti, giornalista, nel 2004 candidato sindaco civico a Forlì, sostenuto dal centrodestra. Non sarebbe la prima volta che il nome di Sacchi viene associato alla Lega. L’agosto scorso, il grande tifoso rossonero Matteo Salvini, allora Ministero dell’Interno, dalla spiaggia del Papeete, a Milano Marittima, pubblicò su Instagram un selfie proprio in suo compagnia con il commento: ''Arrigo Sacchi, numero uno!''. Inutile nascondere che tutti, questa sera, si attendono dall'ex allenatore rossonero un sostegno esplicito a favore del centro destra. ''Sarei molto delusa se non lo facesse'', afferma la senatrice Anna Maria Bernini, che con grande entusiasmo aggiunge: ''Il mondo pallonaro è con noi, con un presidente così, se il mondo del pallone non fosse con noi avremmo veramente sbagliato tutto''. Intanto sponda Pd arrivano a sorpresa le dichiarazioni di Andrea Corsini, assessore regionale al turismo dell'Emilia-Romagna: ''Arrigo Sacchi ha partecipato a due iniziative organizzate dal Partito Democratico di Cervia e Fusignano, per promuovere e sostenere la mia candidatura alle elezioni regionali di domenica prossima. In entrambe le occasioni e in una importante trasmissione radiofonica nazionale Arrigo ha dichiarato che lui sostiene le persone che hanno lavorato bene e quindi sosterrà Andrea Corsini e Stefano Bonaccini''. Questa sera la soluzione del giallo?

Salvini citofona al cittadino tunisino: “Scusi lei spaccia?” La campagna porta a porta dell’ex ministro è senza limiti. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La campagna elettorale di Matteo Salvini prosegue senza limiti. Stavolta a farne le spese è un cittadino tunisino residente in Emilia. Raccolto alcune voci di quartiere che lo indicavano come spacciatore, l’ex ministro dell’Interno, circondato dai microfoni e dalle guardie del corpo, ha citofonato e ha chiesto: “E’ lei il tunisino che spaccia nel quartiere?”. “A che titolo l’ho fatto?  – ha spiegato poi Salvini ai giornalisti -. In qualità di cittadino. Le forze dell’ordine fanno meglio di me il loro mestiere, quindi hanno gli elementi per decidere se quel tizio spaccia o non spaccia. Mi volevo togliere una curiosità, visto che una signora di 70 anni mi dice "mi minacciano di morte perchè lì spacciano”. Intorno a Salvini molti sostenitori, ma anche diversi contestatori che gridavano: “Cosa fai qui? Tornatene al Papeete”.

Salvini e il citofono a Bologna: “L’ho fatto per aiutare una mamma”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it.  Continua la campagna elettorale di Matteo Salvini in Emilia Romagna in vista delle elezioni regionali di domenica 26 gennaio 2020: nel corso di una diretta Facebook da Bologna con i cittadini del quartiere Pilastro, ha suonato il citofono di un cittadino per chiedere se, come su segnalazione di una residente, fosse uno spacciatore di droga. Il motivo del gesto – che ha suscitato non poche polemiche, prima fra tutte quella dello scrittore Fabio Volo – è stato rivelato dallo stesso leader della Lega.

Il motivo del gesto. “Quando una mamma chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante protesta“. All’indomani dell’episodio nel quartiere Pilastro, Salvini è intervenuto a Mattino 5 spiegando le motivazioni del gesto al citofono. “Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa” ha continuato il leader leghista. “Abbiamo segnalato a chi di dovere che là si spaccia droga. C’è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato la proposta Droga zero, perché la droga è morte“.

Matteo Salvini al citofono, il tunisino Yassin a tutto campo: "Perché la signora mi ha segnalato". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Dopo 24 ore esatte è arrivata la replica di Yassin, il 17enne tunisino, che, mentre Matteo Salvini citofonava, giocava a calcio. Il video di risposta è stato pubblicato dal profilo Facebook dell'avvocato e attivista Cathy La Torre, e ritrae il giovane di spalle, in quanto minorenne. Yassin afferma di esserci "rimasto male" quando, al suo ritorno, i genitori gli hanno comunicato la comparsata di Salvini alla ricerca di un ragazzino spacciatore. Lui che non ha mai spacciato in vita sua ed entro 4-5 mesi diventerà padre e maggiorenne. Per approfondire leggi anche: Matteo Salvini al citofono e la Tunisia si indigna. Sapete chi è questo parlamentare? Molto sospetto..."Non ho mai spacciato, non ho precedenti penali, non sono indagato", riferisce Yassin, che poi spiega la possibile ragione per cui quella donna lo ha indicato come spacciatore: "Ho avuto a che fare con la signora perché scoppiavamo petardi sotto casa". Quindi, secondo il 17enne, la signora lo avrebbe associato agli spacciatori del quartiere Pilastro. Infine arriva l'appello indirizzato direttamente al leader della Lega: "Salvini, togli quel video". 

SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano il 23 gennaio 2020. La signora Annarita Biagini ha dato fastidio. Prendendo Matteo Salvini sotto braccio e portandolo per un giro "panoramico" sul suo quartiere degradato, il Pilastro di Bologna, ha acceso un faro dove non doveva. Una piazza di spaccio dove i pusher vogliono continuare la propria attività al riparo dal clamore. Ed eccola la ritorsione: la sessantenne bolognese ieri mattina si è ritrovata la macchina con il parabrezza e i vetri laterali in frantumi. Un dispetto. Una intimidazione. Indagano le forze dell' ordine. D' altronde che il suo fosse un rione difficile, lo sapeva: «Io la sera, quando esco a portare il cane, tengo sempre la pistola in tasca. È regolarmente denunciata, mi dispiace ma è così», ha confessato al Corriere. «Vivo qui da trent' anni e le cose negli ultimi tempi sono solo peggiorate. Tutti sanno quello che succede ma nessuno parla, ho spesso denunciato queste cose alle forze dell' ordine», ha detto la donna mostrando un dossier con foto e segnalazioni sulle attività degli spacciatori. «Chiedo semplicemente di poter uscire di casa tranquillamente e qui da un po' non mi sento sicura» (...)

Da La Stampa il 23 gennaio 2020. Anna Rita Biagini vive da trent' anni al Pilastro, un quartiere difficile oltre l' anello della tangenziale bolognese, a duecento metri dal punto in cui la banda della Uno Bianca ammazzò tre carabinieri nel 1991. L' altra notte, dopo la visita di Salvini e le accuse di spaccio alla famiglia tunisina via citofono, qualcuno ha spaccato i vetri della sua auto con un mattone. Sul gesto del leader leghista e sulle sue conseguenze su un ragazzo di 17 anni e sul padre, denigrati in diretta tv, non ha alcuna riserva: «Io avrei fatto la stessa cosa, avrei suonato al citofono come ha fatto Salvini, perché quando uno ha ragione è giusto fare così. Ho denunciato queste persone, le ho fotografate insieme ad altri e consegnato le foto alle forze dell' ordine. Spacciano qui sotto, dappertutto, e nessuno mi leva dalla testa che siano stati loro a rompermi i vetri della macchina».

Non si sente strumentalizzata politicamente?

«Non mi aspettavo che ci sarebbero state telecamere e giornalisti, così come lo schieramento di polizia. Pensavo che ci sarebbe stato solo un colloquio con Salvini, poi è stato lui a trasformarlo in un evento pubblico. Può aver sbagliato, ma conosciamo Salvini e sappiamo com' è spontaneo. Io comunque non mi sento usata, mi sento dalla sua parte, e l' importante è che questa storia sia venuta fuori».

Com' è nata l' idea di incontrare il leader della Lega qui al Pilastro?

«Martedì ho ricevuto una telefonata del maresciallo dei carabinieri che mi ha detto che sarei stata avvisata del suo arrivo da un collaboratore di Salvini. Si fidava ciecamente di me perché sapeva che ho tutto in mano sulla situazione dello spaccio in quartiere, foto e prove».

Ma se suonassero al suo di campanello, accusandola di un reato grave, come reagirebbe?

«Non ho niente da nascondere, li farei entrare e mi farei spiegare com' è nata quella voce. Sono schietta e pulita».

Sì ma la privacy delle persone?

«E la mia privacy dove sta quando questi tipi sono qui sotto a spacciare?».

È vero che gira armata?

«Solo di sera, quando esco col cane, porto con me una pistola regolarmente denunciata. Ce l' ho da 6-7 anni, da quando mi hanno minacciata di morte». (fra.giu.)

Bologna, distrutta la macchina della donna che ha denunciato lo spaccio. Offese e minacce alla signora che ha perso il figlio per droga: "Lei fa schifo, spero vi lascino in mutande, ti butterei un secchio di merda." Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Chi denuncia spaccio di droga rischia non solo di avere serie ripercussioni, ma di essere vittima di gravi offese e minacce. È successo ad Anna Rita Biagini, la signora che ha indicato a Matteo Salvini a quale citofono suonare in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna, per chiedere al presunto pusher tunisino se spacciasse. Questa mattina i familiari della donna hanno scoperto che la sua vettura è stata oggetto di un atto violento: parabrezza danneggiato e vetri laterali della macchina in frantumi. Perciò è stata subito presentata una denuncia ai carabinieri della Stazione Bologna Mazzini, che hanno tempestivamente provveduto ad avviare le indagini per danneggiamento aggravato, al momento contro ignoti. Si tenterà dunque di risalire al colpevole o ai vandali. Il leader della Lega, intervenuto in una diretta sul proprio profilo Facebook, si è schierato a sostegno della Biagini: "Ieri ho avuto l'onore di incontrare una madre coraggiosa che si batte con una motivazione in più, perchè ha perso un figlio di overdose e su di lei la politica si divide, qualcuno arriva a fare polemica su di lei, ma noi siamo andati a disturbare la piazza dello spaccio". Poco dopo su Twitter ha aggiunto: "Questa è la dura verità. Il mio abbraccio alla signora, onore al suo coraggio. Chi vota Lega domenica in Emilia-Romagna sa che da parte nostra ci sarà lotta dura e senza quartiere agli spacciatori di morte".

Offese e minacce. Il profilo Facebook della donna è stato tempestato e invaso da vergognosi commenti, con tanto di offese e minacce. "Che schifo di persona che è..mi vergognerei a girare se fossi in lei...spero vi lascino in mutande..schifosi"; "Ignobile ....che essere umano spregevole ....vieni a citofonare a me ... Te jett nu sicchie e merd ncuoll....Lota di femmina ....mi fa orrore"; "Spero che venga denunciata, che debba pagare di tasca sua le spese processuali e il risarcimento, magari la prossima volta eviterà di fare la spia al suo impresentabile capitone felpato"; "Le hanno sfondato l'auto. Sarà pure brutto da dire, ma siamo contenti".

Francesco Cancellato per fanpage.it il 22 gennaio 2020. Non era in casa, quando Matteo Salvini ha citofonato a casa dei suoi genitori, la sera di martedì 21 gennaio, chiedendo se in quella casa al primo piano ci fosse una centrale di spaccio del quartiere Pilastro di Bologna.  E ora vuole denunciare la donna che ha portato il leader della Lega a diffamarlo in diretta Facebook. Perché lui, il 17enne di origine tunisina accusato dal leader leghista non spaccia droga. Non più,  in realtà, perché ammette “sono pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più”, ma ora “vado a scuola, sono un ragazzo normalissimo, non mi manca niente”. Abbiamo intercettato il ragazzo sotto casa dei genitori, sconvolti dal blitz di Salvini: “Mia madre ha 67 anni, mio padre si spacca il culo, se vai a casa trovi i vestiti di Bartolini – spiega il ragazzo a Fanpage.it – Lui ci è rimasto molto male”.  Difende anche il fratello, “che non fa queste cose, lui gioca a calcio”. È anche per questo che il ragazzo ha deciso di sporgere denuncia nei confronti della signora che ha portato Salvini sotto casa sua:“Io incontro questa signora qua dietro nel parcheggio – racconta – Lei ha il cane, io ho il cane, a volte ci incrociamo. Domani vado in procura e la denuncio per diffamazione”. Seguendo le indicazioni di una residente della zona, il leader della Lega, Matteo Salvini, era andato a citofonare a casa di alcune persone ritenute “presunti spacciatori”. L'ha fatto in diretta su Facebook, facendo i nomi di queste persone e mostrando il palazzo in cui vivono. Andando a chieder loro se è vero che spacciano e se può salire a casa loro. Salvini si trovava nella zona periferica del Pilastro a Bologna. Seguendo sempre le indicazioni della donna, ha suonato al citofono di una famiglia di origine tunisina su indicazione della signora. Al citofono ha risposto un uomo e Salvini l'ha interrogato: “Buonasera. Lei è al primo piano? Ci può far entrare cortesemente? Perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole e volevano che lei la smentisse, ci hanno detto che da lei parte lo spaccio del quartiere. Giusto o sbagliato?”.

Salvini e la signora Biagini, la sua guida al Pilastro: «Quando esco col cane porto sempre con me una pistola». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it. È piombata nel cuore della campagna elettorale dell’Emilia-Romagna. A pochi giorni dal voto anche lei, accompagnata dal leader della Lega, Matteo Salvini, si è presa i riflettori per una sera, guidando l’ex ministro dell’Interno nei meandri del Pilastro, quartiere alla periferia di Bologna. Era con lui anche di fronte al citofono di una presunta famiglia di spacciatori stranieri diventato nelle ultime ore il nuovo caso con relative polemiche della propaganda salviniana. Anna Rita Biagini, 61 anni, ammette di «non avere paura per essersi mostrata vicino a Salvini, anche perché tutti sanno che denuncio gli spacciatori e il degrado della zona, piuttosto ho paura certe sere a uscire». Davanti alle telecamere ha ammesso: «La sera quando porto il cane a fare una passeggiata mi porto una pistola in tasca, è regolarmente denunciata. Mi spiace ma è così». La signora è stata portata al presidio annunciato da Salvini da alcuni esponenti della Lega, che l’hanno poi «scortata» quando l’evento elettorale è finito. Lei si è apertamente dichiarata fan del Capitano, ricevendo la promessa di Salvini di una nuova visita: «Tornerò». «Mio figlio è morto di overdose a trent’anni, per questo combatto lo spaccio – racconta la signora –. In realtà lui era malato di Sla e purtroppo era tossicodipendente. Quando le suoi condizioni erano pevauggiorate tanto da ridurlo su una sedia rotelle ha deciso di farla finita e lo ha fatto nel modo che conosceva, facendosi una dose letale». La 61enne racconta di vivere al Pilastro da trent’anni e ha consegnato al segretario leghista un dossier con foto e segnalazioni fatte in zona contro i pusher. Il quartiere è da sempre etichettato come una delle zone più difficili di Bologna, noto anche per la strage del Pilastro ad opera della Uno Bianca: il 4 gennaio 1991 i carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini rimasero vittime della scia di sangue dei fratelli Savi e dei loro complici. La Biagini ha parlato a Salvini dei pusher che infestano il quartiere. «Tutti sanno quello che fanno – ha sottolineato la signora all’ex capo del Viminale –. Ho più volte denunciato a polizia e carabinieri la situazione». Poi ha mostrato le aiuole e i muretti dove verrebbe nascosta la droga. Con lei hanno solidarizzato altri residenti ma le sono piovute addosso anche le critiche di altri abitanti del Pilastro perché «facendo in questo modo vuoi raccontare questa zona sempre allo stesso modo». Lei si è difesa, spiegando anche di non essere mai stata un’elettrice di sinistra riconvertita alla Lega. «Ho visto questa zona peggiorare nel tempo – ha ammesso –. E quello che mi dispiace è che dal presidente di quartiere mi sento dire che invece qui le cose vanno bene, ma non vanno bene per niente. Per questo apprezzo Salvini, mi è sembrato che su questi problemi abbia le idee chiare e mi convince. Qui da tempo ci promettono una nuova caserma dei carabinieri, ma rimandano sempre. E la cosa non la sopporto».

Il ragazzo a cui ha citofonato Salvini:  «Non siamo spacciatori, solo pregiudizi» E Tunisi protesta: deplorevole provocazione. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Mauro Giordano e Cesare Zapperi. Il 17enne nordafricano vive con la sua famiglia nel quartiere Pilastro. «Io e la mia famiglia siamo scossi per quello che è successo, intendiamo andare avanti per vie legali». Il vicepresidente del parlamento tunisino: «Salvini è razzista e mina i rapporti tra i nostri Paesi». «Non sono uno spacciatore e non lo sono nemmeno i miei parenti, siamo scossi per quello che è successo e intendiamo andare avanti per vie legali». A parlare è il 17enne accusato di spaccio insieme al padre nel quartiere Pilastro di Bologna. L’accusa è arrivata dal leader della Lega, Matteo Salvini, che durante un evento elettorale ha citofonato alla famiglia chiedendo: «È vero che qui spacciate?». Il tutto mentre veniva ripreso dai giornalisti che stavano seguendo l’appuntamento della campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia-Romagna. Il tour anti-spaccio dell’ex ministro dell’Interno è stato guidato da una residente della zona, alla quale alcune ore dopo è stata danneggiata l’auto. La famiglia si è rivolta allo studio dell’avvocato Cathy La Torre e ha intenzione di presentare delle denunce per quanto accaduto sia nei confronti di Salvini che della 61enne che lo ha accompagnato.

Cosa rispondi a queste accuse?

«Che non c’è nulla di vero. Sono un ragazzo tranquillo che vive in quel quartiere, non ho precedenti penali. Mio fratello, di qualche anno più grande, ha invece degli arretrati con la giustizia per furto e rissa. Niente a che vedere con lo spaccio di droga».

C’erano già stati dei contrasti con la vostra vicina di casa?

«In passato sì, ma per questioni di altro tipo. Lei ha da ridire con tutti nel quartiere non solo con me, mio padre e gli altri familiari. Soprattutto quando c’era un bar sotto casa nostra lei si lamentava di tutto. Ma non capisco come sia arrivata ad accusarmi di questo».

Perché, secondo te, sono venuti a citofonare proprio a voi?

«Questo è quello che mi domando dall’altra sera. O meglio, me lo spiego così: è vero che in strada ci sono degli spacciatori, ma cosa ci posso fare io se qualcuno che frequenta i miei stessi posti spaccia? Noi abbiamo una casa, un indirizzo, un posto dove venirci a cercare e lo hanno fatto solo sulla base di pregiudizi. Ma in ogni caso nessuno autorizza Salvini a fare quello che ha fatto».

Oggi, spiega l’avvocata La Torre, c’è stato un incontro con il giovane per valutare i primi aspetti con la vicenda. Domani ci sarà invece un confronto con i genitori del ragazzo.

Da fanpage.it il 31 gennaio 2020. Durante un blitz a Bologna, nel quartiere periferico del Pilastro, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha citofonato alla casa di una famiglia di origine tunisina accusata, da una residente della zona, di spacciare droga. Tutto è avvenuto in diretta su Facebook, coi nomi delle persone coinvolte ripetuti più volte. "Ho 17 anni, faccio la vita di qualsiasi altro studente" dice il giovane indicato come presunto spacciatore. "Ho precedenti, ma sono pulito da un bel po'" aggiunge suo fratello maggiore, che fra l'altro non vive più nella zona già da tempo.

Da “la Stampa” il 31 gennaio 2020. «Ho 17 anni, studio e gioco a calcio. A Imola. Sono stato convocato in nazionale, è stata una grandissima esperienza». Il ragazzo del citofono a cui ha suonato il leader della Lega Matteo Salvini durante la campagna elettorale per le Regionali dell' Emilia Romagna è stato ieri intervistato a Piazza Pulita su La7. «Non ho mai avuto precedenti, non sono uno spacciatore. Ogni giorno mi chiedo: perché proprio me? A un 17enne gli hai rovinato la vita in cinque minuti da un giorno all' altro. Un politico che è venuto in periferia così...Cioè da pizzaiolo, postino, a suonare e dire "tu spacci". Ma cos' è?»

Karima Moual per “la Stampa” il 31 gennaio 2020. Al civico 16, tra una delle tante palazzine del Pilastro, quartiere popolare e multietnico alla periferia di Bologna, non c' è solo un citofono al quale ha suonato l' ex ministro dell' interno Matteo Salvini, ma un appartamento dove già al suo ingresso si respira l' aria di un' Italia che difficilmente viene raccontata. Quella della contaminazione che si fa famiglia. Una famiglia, Labidi - Razza, che si scopre solo dopo essere italo - tunisina, ribaltando un finale che sembrava scontato, quando in piena campagna elettorale, la sera del 22 gennaio l' ex Ministro dell' interno Matteo Salvini si fece guidare da una cittadina di quartiere, che gli indicava una famiglia tunisina, accusandola di spaccio. Il resto lo conosciamo ed è testimoniato in un video sul web, che Facebook ha già rimosso perchè inneggia all' odio: «Buonasera, ci hanno detto che da lei parte una parte dello spaccio nel quartiere». Sono le parole di Matteo Salvini. Risate, clack e poi, il sipario doveva scendere. E invece no. Entriamo nella casa della famiglia Labidi - Razza: «Quando dalla Tunisia sono arrivato in Italia nel '79, Matteo Salvini forse non era ancora nato - racconta il signor Labidi, 58 anni, oggi autista ma con alle spalle 20 anni come cuoco. E' scosso, fatica a dormire perché amareggiato e molto stanco per quella famosa citofonata, che non fece solo il giro delle reti italiane, ma fu trasmessa anche in lingua araba nei social network e nei maggiori canali televisivi arabi, facendo montare tanta rabbia, sdegno e un intervento del governo tunisino, trascinando il nostro paese in un incidente diplomatico con un paese amico. «Perché proprio a noi?». E' la domanda che si continua a chiedere Labidi, da più di 40 anni in Italia e residente al quartiere Pilastro da sempre. Lì ha conosciuto la moglie Caterina, e lì sono nati i loro 4 figli. Due figlie che vivono all' estero, il figlio più grande con la sua famiglia in un altro quartiere, mentre con loro è rimasto solo il figlio più piccolo, Yassin, 17 anni, calciatore, preso di mira dall' ex ministro dell' interno, dal momento in cui lo ha indicato come spacciatore. Ma perché proprio a voi? Ci pensa ancora un po', ma a rispondere è Caterina, seduta nel salottino di casa, grondante sino a toccare il kitch, di Tunisia e Italia, Islam e cristianesimo. Quadri di sure del corano, insieme a croci, angeli e un ritratto di Madre Teresa di Calcutta, insieme a trofei coppe e medaglie del figlio calciatore. «Salvini ci ha citofonato, facendoci passare per una famiglia di spacciatori, a scopi propagandistici per la sua campagna elettorale, ma la verità è che non pensava fossimo una famiglia italo-tunisina. Non pensava che io fossi italiana, perché purtroppo, finché si trova di fronte a minoranze, stranieri che non conoscono i loro diritti, che magari hanno paura, allora gli va bene - spiega Caterina. E gli è sempre andata bene - rincara - ma questa volta no, questa volta gli è andata male perché ha trovato me, italiana, che conosco i miei diritti, e porterò fino in fondo la mia battaglia contro questo uomo, che ha rovinato una famiglia intera». Caterina è un fiume in piena, mentre Labidi con occhi bassi, continua a ripetere: «Ma l' Italia non è così! qui nel quartiere mi conoscono da anni, sanno chi sono, mi rispettano e mi vogliono bene e mai come in questa occasione li ho sentiti vicino. Ci è arrivata tanta solidarietà. Certo, qualche sbaglio - confessa Labidi - l' ho fatto anch' io in passato quando ero molto giovane, ma io sono ormai un uomo di famiglia e da anni, pulito, che si sveglia all' alba lavorando onestamente 8- 9 ore come autista. Guadagno anche bene e non mi posso lamentare». E mentre lo dice, si premura di tirare fuori le sue busta paga come a dimostrare la sua innocenza. Un gesto che evidenzia la consapevolezza di sentire sulla pelle come la sua storia sia stata sporcata. «Siamo stati processati in mondo visione, senza aver fatto nulla, abbiamo subìto una violazione dei nostri diritti ma anche una violenza inaudita verso di noi e un minore di 17 anni, mio figlio Yassin - si sfoga ancora Caterina - che oggi è rovinato psicologicamente. È spento, non ha più voglia di uscire, di fare nulla, un ragazzo che era energia pura». Dietro alla famiglia c' è più di un avvocato. «Abbiamo denunciato Salvini - dice Caterina - perché ciò che ha fatto non può passare impunito in quanto pericoloso non solo per il male che ci ha fatto ma anche per il messaggio che manda agli italiani, la libertà di processare chiunque, soprattutto se straniero e indifeso, anche solo per sentito dire». Buona parte del quartiere Pilastro si è sollevata nei giorni dopo. Lo racconta Mohamed, che spiega come ha sensibilizzato la famiglia, amici e tutti quelli delle comunità straniere con in tasca la cittadinanza per andare a votare Bonaccini per non far vincere Salvini. «A casa mia - spiega Fadoua oggi 25 anni nata al Pilastro ma di origine marocchina - abbiamo riunito tante persone per spiegargli come votare. Persone che avevano la cittadinanza ma non avevano mai votato». Riunioni, appelli via social, telefonate messaggi, anche in lingue straniere, il passa parola è stato una valanga. «A Salvini - continua Flavia - la citofonata, gliel' abbiamo suonata noi. Basta fare carne da macello con i più deboli, gli immigrati, perché se la loro voce è più debole, ci penseremo noi italiani, che con loro conviviamo fianco a fianco».

Parla il padre del presunto pusher tunisino: "Ora denunciamo Salvini". Il ragazzo respinge tutte le accuse: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell'Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Noi non spacciamo". Luca Sablone, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Ancora polemiche sulla citofonata di Matteo Salvini al presunto pusher in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna. Nella giornata di ieri sono arrivate le forti reazioni da parte di Moez Sinaoui: l'ambasciatore della Tunisia a Roma ha espresso la propria "costernazione per l’imbarazzante condotta", che viene definita come una "deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato". In scena però è entrato anche il ragazzo in questione, che ha smentito tutte le accuse sullo spaccio. La famiglia ha annunciato una battaglia legale contro l'ex ministro dell'Interno: "Non siamo spacciatori, con quella pagliacciata Salvini ci ha rovinato la vita e per questo lo denunceremo". Il 17enne si difende dopo essere stato additato praticamente in diretta nazionale: "Come si è permesso di fare una cosa simile, siamo brave persone". Il giovane ha fornito alcuni dettagli anche per quanto riguarda la sua vita privata: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell’Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Tra qualche mese avrò anche io una bambina. Non capisco perché se la siano presa con noi". Intanto nella giornata di ieri ha incontrato l'avvocato Cathy La Torre e oggi è prevista una riunione del legale con i genitori del ragazzo: in tale occasione verranno presentate denunce contro il leader della Lega e contro Anna Rita Biagini, la 61enne che ha indicato a quale citifono suonare e a cui hanno distrutto la macchina.

Scatta la manifestazione. Come riportato dal Corriere della Sera, padre e figlio hanno fatto sapere: "Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c’è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi". Pare che il baby tunisino sia incensurato, mentre il fratello - che vive in un altro appartamento nel quartiere - ha già avuto problemi con la giustizia: una denuncia per furto e rissa. Il padre ha ammesso: "Io invece più di vent’anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente". Di professione fa il corriere. Domani i residenti e le associazioni del Pilastro organizzeranno una manifestazione in strada per protestare e per rispondere "all'immagine negativa che è stata proiettata da chi vuole strumentalizzare una zona con problemi ma anche ricca di cose positive".

Blitz di Salvini al citofono, Yassin difeso da Cathy La Torre: “Non spaccio, studio e gioco a calcio. Ora ho paura”. Redazione de Il Riformista 23 Gennaio 2020. “Ancora una volta, al Capitano, ha detto male. Si è scusato per il video in cui ha preso in giro un ragazzo dislessico. Questa volta le scuse non credo basteranno”. L’avvocato bolognese Cathy La Torre, attivista per i diritti civili, torna ad accusare Matteo Salvini. Al legale si è rivolto infatti Yassin, il 17enne tunisino che lunedì sera si è visto citofonare dall’ex ministro dell’Interno e chiedere se spacciava. “Ci sono rimasto, è una brutta cosa – spiega il ragazzo nel video -. Mi viene da pensare ‘adesso la gente come mi guarda? I miei amici come mi guardano?’. Molto probabilmente mi guarderanno con occhi diversi, ma voglio far capire che io non sono uno spacciatore, gioco a calcio, tra 5 mesi divento padre”. Yassin si rivolge allo stesso Salvini e lancia un appello. “Vorrei far capire questo: che non sono uno spacciatore e voglio far levare quel video lì. Salvini togli quel video, sono cose non vere, tu dici ‘spacciatore, padre e figlio che spacciano’ e questo non è vero… Voglio continuare la mia vita di prima, voglio uscire di casa. Prima la gente non mi conosceva, ora dicono ‘Iaia lo spacciatore’ (Iaia è il soprannome di Yassin, ndr). Ma cos’è?”, si chiede il 17enne. In un post che accompagna la video-intervista, l’avvocato (che difenderà Sergio Echamanov, il ragazzo dislessico bullizzato da Salvini durante un comizio in una cittadina alle porte di Ferrara, ndr) ricorda che Yassin “è italiano, figlio di un matrimonio misto, che mi vergogno pure a doverlo dire che si, si è pure figli di matrimoni misti! Iaia – spiega – nella vita gioca a calcio e lo fa pure discretamente bene tanto da essere stato convocato 3 volte dalla nazionale giovanile a Coverciano, e aver giocato nel Sassuolo, nel Modena e no: non spaccia. Non ha precedenti penali, di nessun tipo. Zero. Nada. Niente. Vuole solo vivere la sua vita, giocare a calcio, studiare per ottenere la stessa patente del padre (che è un autista della Bartolini) e fare lo stesso lavoro. Perché tra 5 mesi diventa papà anche lui. Ma da ieri – sottolinea ancora -, per tanti, è solo ‘Yassin lo spacciatore’. Perché un ex Ministro dell’Interno ha citofonato a casa sua chiedendogli ‘lei è uno spacciatore’. Perché serviva dare in pasto ai suoi fan l’immigrato delinquente”, conclude l’avvocato.

Monica Rubino per repubblica.it il 22 gennaio 2020. "Siamo sbalorditi, la Tunisia non merita un trattamento del genere". A nome del Parlamento tunisino, il deputato Sami Ben Abdelaali chiede a Matteo Salvini scuse ufficiali nei confronti della famiglia tunisina coinvolta nel "blitz" al quartiere Pilastro di Bologna. Ieri, l'ex ministro dell'Interno in campagna elettorale in Emilia Romagna, ha inscenato un tour nella periferia bolognese citofonando -  mentre veniva ripreso dalla telecamere e circondato dalle forze dell'ordine -  a una famiglia tunisina di via Deledda su indicazione di alcuni residenti e chiedendo: "A casa sua si spaccia?". Dopo le contestazioni dei giovani del quartiere, del Pd e dello stesso sindaco di Bologna Merola, contro il leader leghista si è sollevata un'ondata di indignazione anche fra i deputati del Parlamento tunisino. "In Tunisia quest'azione vergognosa di Salvini ha scatenato una grande protesta - spiega Sami Ben Abdelaali -  unita a manifestazioni di solidarietà nei confronti della famiglia tunisina e del minore citati per nome dall'ex (per fortuna) ministro dell'Interno".

Il Parlamento tunisino. "Siamo sbalorditi per l'attacco diffamatorio nei confronti di una famiglia di lavoratori, oltretutto sferrato da una persona che in Italia ha ricoperto incarichi di governo. Anche se un parente di questa famiglia ha avuto precedenti penali, questo non giustifica una tale campagna di odio. Chi sbaglia deve pagare, ma non possiamo tollerare il discredito sull'intera comunità tunisina che è sana e lavoratrice", aggiunge Abdelaali, ex presidente di un istituto bancario siciliano, residente a Palermo e sposato con una siciliana, eletto al Parlamento tunisino nelle liste dei tunisini all'estero. "Trattare così nostri immigrati è una vergogna - conclude - difendo la dignità e diritti dei nostri cittadini. Se ci fosse stato un problema si poteva segnalare alle autorità competenti, senza alcun bisogno di messinscene a favore di telecamere. Salvini capisca che queste azioni per ottenere qualche voto in più non sono più di moda, i rapporti internazionali fra Italia e Tunisia vanno bel al di sopra dei suoi incitamenti discriminatori".

Blitz di Salvini al citofono, il Parlamento tunisino: «Gesto razzista, chieda scusa». Simona Musco su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La replica del leader della Lega: « la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere». Crisi diplomatica tra Italia e Tunisia dopo che Matteo Salvini, su segnalazione di alcuni cittadini, ha citofonato ad una famiglia tunisina del quartiere Palazzo, a Bologna, per chiedere se le persone residenti nell’appartamento spacciassero droga.  Un gesto ripreso dalle telecamere a seguito del senatore, impegnato nella campagna elettorale per le regionali in Emilia, che ha suscitato l’indignazione del vicepresidente del Parlamento di Tunisi, Osama Sghaier, che in un’intervista rilasciata a Radio Capital ha parlato di «atteggiamento razzista e vergognoso che mina i rapporti tra Italia e Tunisia». Salvini, ha aggiunto Sghaier, «è un irresponsabile, perché non è la prima volta che prende atteggiamenti vergognosi nei confronti della popolazione tunisina. Lui continua a essere razzista e mina le relazioni che ci sono tra la popolazione italiana e la nostra. I nostri paesi hanno ottimi rapporti. I tunisini in Italia pagano le tasse e quelle tasse servono anche a pagare lo stipendio di Salvini. Dunque, si tratta di un gesto puramente razzista». Duro anche il commento del deputato Sami Ben Abdelaali, che a nome del Parlamento tunisino ha chiesto le scuse ufficiali di Salvini nei confronti della famiglia, definendo quella del leader del Carroccio «un’azione vergognosa, fatta per ottenere qualche voto in più alle regionali». A rincarare la dose anche l’ambasciatore tunisino a Roma, Moez Sinaoui, che in una lettera inviata alla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati,  ha espresso la sua «costernazione per l’imbarazzante condotta» del leader della Lega, una «deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato» da parte di un «pubblico rappresentante dell’Italia», paese che vanta «un’amicizia di lunga data con la Tunisia». Sinaoui ha accusato Salvini di aver«illegittimamente diffamato una famiglia tunisina», atteggiamento che ha «stigmatizzato l’intera comunità tunisina in Italia».

Ma Salvini non torna sui suoi passi. «Il vicepresidente del Parlamento tunisino mi accusa di razzismo? Io ho raccolto il grido di dolore di una mamma coraggio che ha perso il figlio per droga – ha replicato – un atto di riconoscenza che dovremmo far tutti: la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere. Tolleranza zero contro droga e spacciatori di morte: per noi è una priorità. In Emilia Romagna e in tutta Italia ci sono immigrati per bene, che si sono integrati e che rispettano le leggi. Ma chi spaccia droga è un problema per tutti: che sia straniero o italiano non fa nessuna differenza».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2020. Nell' ambito delle comunicazioni di massa, scarso rilievo hanno avuto gli studi sul citofono. Una sottovalutazione imperdonabile, relegata ad ambito condominiale: «Tra il balcone e il citofono ti dedico i miei guai», canta Tiziano Ferro. La bravata di Matteo Salvini (com' è noto ha citofonato a una famiglia di origine tunisina della periferia di Bologna per chiedere se in quella casa abitasse uno spacciatore) è stata paragonata a una forma di linciaggio (con telecamere a seguito). Ma è anche figlia, come ha sottolineato Mattia Feltri, «di un giornalismo che si acclama da sé con la schiena diritta perché insegue la preda per strada, e a microfono e telecamera spianati gli chiede se sia un pedofilo o se non si senta un genocida a riscuotere il vitalizio». Una decina d' anni fa, in questo spazio, mi è capitato di scrivere: «Lo strappa-opinioni non recede di fronte a nulla: l'umanità dolente gli si presenta come uno sterminato campionario, un' inesauribile collezione di vicende personali, facce, accenti, gesti, manie cui porre una sola e unica domanda: "Cosa ha provato in quel momento?" Se non c' è la persona si accontenta anche di un citofono: il microfono davanti a un citofono, dal punto di vista espressivo, è il livello più basso del mestiere». Il citofono è stato nobilitato dai comici (Chiambretti a Complimenti per la trasmissione ; Aldo, Giovanni e Giacomo a Mai dire gol ; Andrea Rivera a Parla con me , Enrico Brignano a A Sproposito di noi ) e mortificato dai «cronisti d' assalto» che hanno trasformato lo strumento nel surrogato dello scalpo. Un genere, come scrive Il Foglio , «portato alla gloria dalle Iene : si suona al portone di qualcuno sospettato o indicato di qualcosa, che non sa bene con chi sta parlando, e gli si fa l' interrogatorio al citofono». Con una mossa tracotante, Salvini è riuscito a citofonare a sé stesso, cioè a far parlare di sé anche negli ultimi giorni di campagna elettorale.

Simone Di Meo per la Verità il 24 gennaio 2020. Aveva annunciato: «Rifarei tutto». Ed è stato di parola Matteo Salvini, per nulla intimorito dalla tempesta mediatica (con strascico diplomatico) che si è abbattuta dopo la citofonata di martedì scorso, al Pilastro, quartiere bordeline di Bologna, a un' abitazione di presunti spacciatori. Ieri, nel tour elettorale a Modena, è andato nuovamente in scena. Puntando un esercizio commerciale. «Dov' è questo negozio, è qui al civico 38?» ha domandato il leader leghista in diretta Facebook. La segnalazione, pure in questa circostanza, è arrivata dalle donne del rione. «Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla Procura e alle forze dell' ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché qua dentro si spaccia la droga», ha aggiunto. «Speriamo che la nostra presenza di oggi possa portare a fare i controlli del caso, possa portare a qualche chiusura e a qualche arresto. Ringrazio le mamme e le nonne che ci hanno messo la faccia. È dal 1999 che c' è questo negozio? Sono vent' anni? Visto che sono testone, tornerò tutte le volte, finché non sarà chiuso definitivamente», è stata la sua promessa. Resta aperta, anzi apertissima, invece la questione bolognese con la famiglia tunisina di via Grazia Deledda, additata dall' ex vicepremier come presunta centrale di smercio di stupefacenti. Al Corriere della Sera, il padre e il figlio minorenne hanno annunciato di voler trascinare davanti al giudice sia Salvini sia la signora che gli ha indicato il loro appartamento. «Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c' è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi», hanno riferito. Il diciassettenne, che studia e gioca a calcio, risulta incensurato, ma il papà, oggi corriere per la Bartolini, ha ammesso qualche problema: «Io invece più di vent' anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente». Pure il fratello maggiore, che non vive più al Pilastro, ha trascorsi giudiziari. Al quotidiano online Fanpage.it, ha ammesso di essere «pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più, adesso sto facendo il bravo». La donna a cui fanno riferimento il genitore e il figlio nordafricani si chiama Anna Rita Biagini, ed è stata la «guida» di Salvini nel giro per le strade a caccia di pusher. Il giorno dopo il tour, l' anziana ha trovato la sua auto vandalizzata. Ma non si è scomposta. A Radio Capital, la Biagini ha rincarato la dose: «Io so che quel ragazzo spaccia, ho le foto. Ora Salvini mi ha regalato i soldi per ripagare i vetri della macchina che mi hanno danneggiato». Suo figlio, malato di Sla, è morto per un' overdose a trent' anni. Qualcuno l' ha accusata di essere una visionaria. Lei ha replicato: «Ho già fatto chiudere un bar qui vicino per stupefacenti». Appena possibile, racconta tutto quel che può alle forze dell' ordine. «Ho iniziato a ricevere minacce, così ho deciso di prendere una pistola, regolarmente detenuta (da lei soprannominata «l' amica Mafalda», ndr). Saranno ormai sei o sette anni che la porto sempre con me quando esco. Mi spiace, ma è così». Lo stesso leader leghista non ha alcuna intenzione di indietreggiare e, davanti alle dichiarazioni della famiglia tunisina, ha ribattuto: «Se c' è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore». E ha difeso quelli che lo hanno accompagnato a Bologna: «I cittadini non hanno dubbi, hanno certezze». La sortita dell' ex ministro dell' Interno ha scatenato una ridda di reazioni. Oltre a quella delle autorità tunisine, che hanno protestato ufficialmente con una lettera al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, esprimendo «costernazione per l' increscioso episodio», è arrivata la rampogna (non la prima, a dire il vero) anche da parte del capo della polizia, Franco Gabrielli. «Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la polizia in maniera indiscriminata», è stata la bordata del massimo responsabile nazionale di pubblica sicurezza. Concetti che risuonano anche nel monito del segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo. «Non è stato un atteggiamento particolarmente felice», ha spiegato. I vescovi dicono «basta con la costante campagna elettorale», il clima di «conflittualità» va avanti da troppo tempo. Al fianco del capo del Carroccio si è schierato però Vittorio Sgarbi. «Il tunisino è uno studente, ma occorrerà fare un' indagine. Gli untori sono gli spacciatori, l' altro è un cittadino normale», ha attaccato il parlamentare. «Se tu avessi un figlio che prende droga data da un pusher a scuola, avresti un solo desiderio: picchiare il pusher. È il pensiero di ogni genitore. Il politico rappresenta i cittadini nel modo più umano e diretto, è questa la sua grandezza». Difficile che tutti la pensino così.

Dagospia il 24 gennaio 2020. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori). Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ha suscitato un vespaio di polemiche la citofonata di Matteo Salvini in un quartiere a rischio di Bologna, dove si spaccia droga. Io stessa, nel mio piccolo, per aver difeso, con motivazioni politiche, quel gesto estremo sono stata presa di mira da alcuni, anche colleghi molto politically correct, che sui social hanno provato a spiegarmi il garantismo. Proprio a me che andavo a trovare in privato, ero ancora inviato speciale a L'Unità, Bettino Craxi vivo a Hammamet. Ma da giornalista politica poi di Panorama del Gruppo Mondadori sono stata e sono tuttora anche per altri giornali inviata sulla Lega. Approvo il gesto di Salvini perché così ha gettato un sasso politico nello stagno del silenzio di quel quartiere dove una madre coraggio, che ha perso il figlio per droga, è costretta a girare armata, nell'indifferenza delle istituzioni locali e nazionali. E lo analizzo da giornalista esperta anche di Lega, dalla Lega Nord di Umberto Bossi a quella nazionale di Salvini, primo partito italiano. L'allievo ha superato il maestro Umberto nei voti. Ma la tecnica, rivista e aggiornata, anche attraverso un geniale mix di linguaggio senza intermediazione tra territorio e internet, segue di fatto il canovaccio base del Senatùr. Ovvero "spararla" o farla grossa quando nessuno ti ascolta. Bossi a me allora a Panorama, a margine di una delle prime interviste esclusive, dopo la malattia del 2004, rivelò: "Chiedevo la secessione in realtà per ottenere la Devoluzione. Quando nessuno ti ascolta, devi gridare più forte". Era il Bossi che parlava di "bergamaschi armati", di "proiettili a 30 lire" che in realtà così, bucando il video, voleva ottenere più autonomia, mettendo in guardia dal fatto che se non l'avessero concessa allora sì che ci sarebbe stata la secessione. Certo, anche lì linguaggio non era esattamente in punta di diritto. Ma era linguaggio politico. Così come politico io ritengo il gesto estremo di Salvini, da me intervistato tante volte da 15 anni, che, per sua stessa natura e non solo perché allievo del "Barbaro di Gemonio", è proprio così. Come ha scritto su Twitter Annalisa Chirico, confermo: avrebbe citofonato anche a un camorrista. La notizia anche secondo me non è la citofonata, ma quel quartiere abbandonato dalle istituzioni. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori)

Matteo Salvini e la citofonata a Bologna, Pietro Senaldi: "Nostalgia del Viminale?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Dagli allo spacciatore. Salvini l' ha rifatto. Martedì sera, nella periferia bolognese, a favore di telecamere e attorniato da elettori festanti aveva citofonato a casa di una famiglia tunisina con un figlio carico di precedenti penali. «Scusi, è vero che in famiglia smerciate droga? Perché nel quartiere si dice così e ad accusarla è anche la madre di un ragazzo morto per overdose». Da sinistra si sono alzate subito migliaia di avvocati d' ufficio per il ragazzo pregiudicato e altrettanti pm pronti a incriminare il leader leghista per violazione della privacy e delazione. Il bailamme suscitato non ha intimorito lo sponsor numero uno di Lucia Borgonzoni, candidata presidente dell' Emilia-Romagna. Ieri a ora di pranzo l' ex ministro dell' Interno ha concesso la replica. Evidentemente nostalgico dei tempi in cui sedeva al Viminale, il Matteo, sempre attorniato da due cordoni di folla adorante, ha puntato la saracinesca abbassata di un negozio di proprietà di immigrati nigeriani e ha allungato l' indice accusatorio: «La gente, i residenti, mi dicono che qui dentro si spaccia. Non se ne può più, invito la Questura e la Procura a indagare». Più che pentito, recidivo. Le accuse della sinistra mirano a screditare Salvini e additarlo agli occhi degli elettori come una sorta di teppista della politica, forse cercano anche di demoralizzare e far vacillare il rivale, ma sull' interessato ottengono l' effetto opposto. Il leader leghista non si scusa, anzi, si eccita e alza la posta.

IL GARANTISMO. Chi ha ragione? Vedremo domenica sera, è la risposta più facile. Ma noi di Libero vogliamo dire la nostra anche a partita in corso. Esteticamente, e pure sostanzialmente, il gesto ci piace poco. Siamo garantisti con tutti, perfino con gli immigrati in odore di spaccio. Temiamo peraltro che la denuncia pubblica, indipendentemente dal fatto che risponda o meno al vero, procurerà più noie giudiziarie al leader leghista che agli individui di origine extracomunitaria messi alla gogna. Penalmente parlando quindi, la mossa potrebbe rivelarsi un autogol. Però questo non significa che ci sfugga il significato politico del comportamento di Salvini, che va letto esclusivamente come un momento della sua campagna elettorale. Proprio quello che i suoi denigratori non riescono a fare. Il ragionamento di Matteo è piuttosto semplice. Gli spacciatori non votano e se proprio lo fanno, scelgono gli altri a prescindere da qualsiasi cosa che io possa dire o fare. Quanto agli immigrati, quelli integrati e che rispettano la legge sono normalmente più inflessibili degli italiani da venti generazioni verso i nuovi arrivati che delinquono e screditano tutta la categoria. Pertanto, sono d' accordo con me. Il ragionamento salviniano si estende poi ai cosiddetti residenti, siano delle periferie o anche dei quartieri centrali infestati dai trafficanti e dai loro clienti. Il leader leghista sa che essi hanno ben chiaro che la droga gli rovina la vita e ritengono la soluzione del problema più impellente del rispetto del galateo politico e, anche se è brutto dirlo, sono insensibili alle ragioni giuridiche di chi viene messo all' indice, perché lo detestano e ritengono di non potersi trovare mai al suo posto. Per quel che riguarda gli altri, gli elettori del centrodestra benpensanti, che pure esistono anche se la sinistra li ignora, Matteo sa che sono disponibili a pagare il prezzo delle sue intemperanze verbali e comportamentali se la ricompensa è liberarli dalla sinistra. E non solo per le tasse, la politica migratoria dissennata, la guardia abbassata sulla sicurezza nelle strade, la connivenza con le organizzazioni di natura sociale che agiscono, come a Bibbiano, ispirate più dall' ideologia che dai bisogni e tutto l' armamentario di mal governo pratico e teorico che il Pd e i suoi alleati si portano dietro ovunque.

REAZIONI SCOMPOSTE. Le provocazioni di Salvini gli portano voti anche per le reazioni che suscitano nella sinistra, della quale esaltano il moralismo, l' ipocrisia e l' atteggiamento di chi la sa sempre giusta e pretende di dirti come comportarti. E se non la ascolti si scatena, mentre tace quando il suo popolo augura a Mihajlovic che la leucemia lo uccida solo perché ha detto che gli piace il leader della Lega. Pure i vescovi ieri hanno attaccato l' ex ministro per il suo tour anti-spaccio, sostenendo che è stato un comportamento infelice. Certo non è stato ineccepibile, e noi di Libero non lo sottoscriviamo. Ma ce ne fosse uno tra i detrattori che, con Salvini, avesse premesso anche una doverosa condanna della droga e di chi la spaccia. Se non altro, avrebbe tolto all' ex ministro dell' Interno l' esclusiva della lotta alla criminalità e forse avrebbe diminuito nella maggioranza degli italiani il desiderio impellente di vedere tornare al Viminale l' oggetto della disapprovazione delle sardine e degli altri branchi di pesci rossi. Pietro Senaldi

Dagospia il 22 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. Matteo Salvini, leader della Lega, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.

Sulla citofonata. “Se c’è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede di dargli una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre –ha affermato Salvini-. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Però era giusto squarciare il silenzio che purtroppo c’è in tanti quartieri italiani. Per me che sono stato a San Patrignano a parlare con ragazzine di 15 anni che si facevano di eroina, gridare che la lotta alla droga debba essere un obiettivo primario della politica è mio dovere. Che poi uno spacciatore sia tunisino, italiano o finlandese non è importante. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore. I residenti del quartieri non hanno dubbi, hanno certezze. Travaglio parla di giustizia citofonica? Secondo Travaglio io dovrei andare in galera, con una pena maggiore rispetto a quella degli spacciatori di droga, perché il reato per cui sono imputato prevede fino a 15 anni di carcere. E’ assurdo che i Travaglio e il Pd di turno ritengano che sia normale una roba del genere, secondo me è un enorme spreco di denaro pubblico questa roba qui. Mi chiedono di citofonare ai mafiosi? Sono andato a bermi un caffè con Nicola Gratteri che è uno dei principali nemici delle mafie, che si batte ogni giorno contro la ‘ndrangheta. Ricordo poi che la villa ai Casamonica con la ruspa l’ho abbattuta io, non Fabio Volo o Fabio Fazio. E a Corleone il commissariato di polizia confiscato alla mafia l’ho inaugurato io. Se c’è qualcuno a cui sto sulle palle sono proprio mafiosi e camorristi”.

Sul caso Gregoretti. “Ho chiesto ai miei di votare per il processo. Di sbarchi ne avrò bloccati una trentina. Non l’ho mai fatto di nascosto né da solo. Oggi Conte e compagnia fanno come le 3 scimmiette, non vedo non sento non parlo, per me vale più la dignità, per Conte evidentemente vale di più la poltrona”. Sulle elezioni in Emilia Romagna. “Un anziano partigiano a Brescello mi ha detto: se ci fosse ancora Peppone voterebbe te. Lui ha la tessera del PCI e domenica voterà Lega. Mi ha detto che il PD ormai è il partito del sistema, delle banche, non è più il partito della tradizione contadina, operaia, degli artigiani. Noi vinceremo domenica perché ci votano quelle persone lì, non perché sbarcano gli alieni. Il M5S nasce a Bologna con il Vaffa Day contro il sistema del Pd, oggi governano col Pd quindi è chiaro che oggi anche molti delusi del M5S voteranno Lega. Mi sento di rappresentare una certa tradizione della sinistra vicina agli ultimi. Modello emiliano? I successi delle imprese emiliane dipendono dagli imprenditori emiliani, nonostante la burocrazia imposta dalla Regione e nonostante il sistema non fondato sul merito, perché se sei amico corri se non hai l’amico al posto giusto fai fatica. Non vogliamo insegnare niente a nessuno, ma nelle regioni in cui governiamo abbiamo dimostrato che le liste d’attesa si possono accorciare, si possono assumere più medici e infermieri”.

Su Bibbiano. “Stasera sono a Bibbiano, splendido comune agricolo. Ma quello che è successo in quel comprensorio con 26 indagati e troppi bambini portati via con l’inganno alle famiglie secondo l’accusa, è indegno per una splendida regione come l’Emilia Romagna. La responsabilità penale è dei singoli. Quello che noi contestiamo da anni è di non aver visto e, quando è esploso tutto, averlo liquidato come un fatto da poco. A parte che anche un singolo bambino portato via con l’inganno a una mamma e un papà è un dramma, l’obiettivo dei bimbi dati in affido è lavorare per riconsegnarli alle famiglie di provenienza e questo purtroppo, a Bibbiano e non solo, accade solo nella minoranza dei casi. Questo vuol dire che l’intero sistema di affidi va rivisto”. “Si parla molto di Emilia Romagna perché vincere qua sarà un fatto clamoroso e commovente, ma c’è anche la Calabria che di problemi ne ha di enormi. Pensate che non c’è l’assessore al turismo. E’ come se in Arabia Saudita non ci fosse un ministro che si occupa del petrolio. Secondo me qui vinceremo con almeno 20 punti di distacco e per la Lega sarà una prima volta in assoluta. Sarà un’emozione anche quella”.

Sul retroscena secondo cui Di Maio avrebbe accettato di fare il premier con la Lega ma Grillo glielo avrebbe impedito. “Onestamente non so se sia vero. Sia Grillo che Di Maio mi sembra che abbiano scelto l’abbraccio mortale col PD contro la volontà del loro popolo. Evidentemente Grillo ha fatto le sue valutazioni, però io non ho mai parlato direttamente né con Grillo né con Di Maio. Se si fossero sciolte le Camere e si fosse andati al voto, oggi avremmo un governo diverso, che rappresenta la volontà popolare, stabile e non litigioso”.

Rivalità con Meloni? “Assolutamente no. Più cresce tutto il centrodestra meglio è, più cresce FDI, FI, la lista di Toti meglio è. Chiaro che la Lega al 30% ormai da mesi per me è un enorme responsabilità ma è anche il premio a tanti amministratori della Lega. Anche nel Lazio. Zingaretti teoricamente è pagato per fare il governatore del Lazio, invece fa il segretario di partito in giro per l’Italia. Vedremo di restituire il prima possibile parola ai cittadini di Roma e del Lazio perché l’accoppiata Zingaretti-Raggi sta producendo disastri”.

Simone Pierini per leggo.it il 22 gennaio 2020. Fabio Volo tuona contro Matteo Salvini. Nel corso della sua trasmissione su radio Deejay, Il Volo del Mattino, il conduttore si è scagliato contro l'ex ministro dell'Interno. Motivo scatenante il gesto di Salvini che citofona a casa di un tunisino a Bologna chiedendo se fosse uno spacciatore. Fabio Volo non usa giri di parole: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Lo sfogo ha raccolto l'approvazione del popolo di Twitter che ha apprezzato la dura presa di posizione del conduttore di Radio Deejay. Ma già nella serata di ieri era montata la protesta contro il leader della Lega. Il primo ad accusarlo il sindaco di Bologna Virginio Merola su Facebook: «Io credo che si debba vergognare, caro Salvini. Lei non è un cittadino qualunque. Ha fatto il ministro dell'interno, come mai in quel caso non ha avuto lo stesso interesse? Forse perché adesso è solo propaganda e si comporta da irresponsabile per qualche voto in più». Contro Salvini si era espressa anche il sottosegretario di Stato al Ministero dello Sviluppo Economico Alessia Morani: «Ecco il video di #Salvini che suona al campanello di una casa a #Bologna chiedendo se li abita uno spacciatore. Fa anche il nome. Poi chiede: è tunisino? È un cialtrone, un provocatore pericoloso. Ha passato ogni limite. Sta cercando l’incidente, è evidente. Guardate voi stessi». Questa mattina l'ex ministro ha voluto spiegare i motivi del gesto. «Abbiamo segnalato a chi di dovere che là c'è chi spaccia droga. C'è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato una proposta di Droga zero, perchè droga è morte». Ha affermato Matteo Salvini in collegamento con Mattino 5, tornando sulla sua scelta di citofonare, ieri sera, a casa di un presunto spacciatore, nel quartiere Pilastro. «Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa. Quando una mamma mi chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante - conclude - protesta».

Linus si scusa per l'attacco di Fabio Volo a Salvini: "Parole condivisibili ma ha sbagliato i toni". Dopo le dure critiche di Fabio Volo a Matteo Salvini in diretta radiofonica, il direttore di radio Deejay ha pubblicato sui social un messaggio di scuse agli ascoltatori pur condividendo il punto di vista di Volo. Novella Toloni, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Non si smorza la polemica intorno a Fabio Volo dopo le pesanti affermazioni rivolte dallo speaker radiofonico a Matteo Salvini. L'attacco frontale al leader della Lega per aver citofonato a un privato accusato di spaccio di droga a Bologna ha diviso il popolo social ma anche scatenato una reazione interna all'azienda per cui lavora. A poche ore dalle sue dichiarazioni fatte nel corso del suo programma mattutino, il direttore di radio Deejay, Linus, è intervenuto per smorzare i toni della polemica, ma soprattutto per chiedere scusa agli ascoltatori per i toni usati dal bresciano. Pasquale Di Molfetta, noto come dj Linus, ha bacchettato pubblicamente il suo speaker parlando di "comizio scomposto" e confermando che Fabio Volo non era autorizzato a fare dichiarazioni simili in radio. Con un post pubblicato sulla sua pagina Instagram, Linus ha così detto la sua sulla vicenda: "Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. [...] Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa". Linus ha però ribadito che l'opinione espressa da Volo sull'azione di Matteo Salvini a Bologna è "condivisibile", ma sbagliata nei toni, per questo ha chiesto scusa: "Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere". Il direttore di radio Deejay, alla fine del post, non ha risparmiato una stoccata finale a chi accusa la radio di essere di sinistra: "Il mio "padrone" da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete".

Simone Pierini per leggo.it il 23 gennaio 2020. Il "capo" bacchetta il "suo ragazzo". Linus, direttore artistico di Radio Deejay, se la prende con Fabio Volo per le parole usate, il modo e il tema affrontato ieri mattina durante la sua trasmissione "Il Volo del Mattino". «Non era autorizzato, mi scuso a nome di Radio Deejay», dice Linus in un lungo post su Instagram dove spiega i motivi della strigliata a Fabio Volo che nei confronti di Matteo Salvini si era espresso così: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Il riferimento era chiaramente al gesto dell'ex ministro di citofonare a casa di una famiglia di origine tunisina colpevole, secondo Salvini, di spacciare droga nel quartiere Pilastro a Bologna. «Due parole sulla vicenda Volo / Salvini - scrive Linus su Instagram - Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa». «Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile - aggiunge il direttore artistico di Radio Deejay - da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere». «Una piccola cosa però ci tengo a precisare - conclude su Instagram - che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete».

IL POST SU INSTAGRAM SU LINUS SU FABIO VOLO E SALVINI. Due parole sulla vicenda Volo / Salvini. Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa. Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere. Una piccola cosa però ci tengo a precisare, che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete. Grazie

Da leggo.it il 23 gennaio 2020. Anche Fedez ha commentato il gesto di Matteo Salvini sotto la casa di un giovane tunisino, presunto spacciatore. Il video del leader della Lega al citofono è diventato virale e ha riempito le bacheche social. «Stamattina mi imbatto in questo video dove, in sostanza una signora dice al buon Salvini che il tipo del primo piano spaccia e lui decide di dare vita a questo teatrino», ha dichiarato su Instagram il cantante. Critici contro l'ex ministro degli Interni, anche altri personaggi dello spettacolo come Fabio Volo. «Sembra banale dirlo, ma in uno stato di diritto non dovrebbe essere la portinaia del condominio a dare l'etichetta di spacciatore. Il buon Matteo forse voleva vestire i panni del giustiziere, mi è sembrato più un testimone di Geova mancato», ha scritto nelle storie. «Questa scena è comica eppure non mi viene da ridere», aggiunge il marito di Chiara Ferragni, che accompagna il suo commento con lo screenshot di una foto in cui si vede Salvini che parla con il capo ultras del Milan, condannato per spaccio di droga. «Chissà se si sono conosciuti durante il tour dei citofoni», scrive Fedez sull'immagine.

Salvini ci ricasca, teatrino e gogna davanti negozio a Modena: “Qui dentro si spaccia”. Redazione de Il Riformista il 23 Gennaio 2020. Matteo Salvini ci ricasca. Il leader della Lega, impegnato nel tour elettorale per le Regionali in Emilia Romagna, ha ripetuto a Modena il teatrino messo in piedi già martedì sera a Bologna, quando ha citofonato ad una abitazione nella periferia del capoluogo cercando presunti spacciatori. Durante una diretta Facebook Salvini si è fatto indicare un esercizio commerciale dove, secondo i residenti della zona, in maggioranza mamme, si spaccerebbe droga. “Al civico 38 spacciano, non serve citofonare, l’hanno già chiuso. Ogni volta che posso dare una mano a mamme e persone che denunciano queste cose, io la do. La sinistra invece continua a non farlo nemmeno in Parlamento”, ha detto Salvini davanti ai microfoni e alle telecamere dei giornalisti. ”Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla procura e alle forze dell’ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché stando a residenti e commercianti qua dentro si spaccia la droga, chi spaccia deve stare in galera e non a passeggio per Modena”, ha aggiunto il leader del Carroccio.

IL CAPO DELLA POLIZIA CONTRO SALVINI – Una stoccata alla strategia mediatica di Salvini è arrivata al capo della Polizia Franco Gabrielli. A margine di un evento sulla sicurezza ha infatti commentato con durezza il gesto dell’ex ministro dell’Interno di citofonare a un presunto spacciatore a Bologna: “Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la Polizia in maniera indiscriminata”.

Salvini a Bologna fa un passo indietro: “Se il ragazzo è innocente avrà le mie scuse”. Laura Pellegrini il 24/01/2020 su Notizie.it. Matteo Salvini fa un passo indietro sul caso della citofonata al 17enne tunisino di Bologna: potrebbero arrivare delle scuse al giovane. Il leader della Lega fa marcia indietro sul caso del 17enne tunisino di Bologna: dopo le polemiche scoppiate per la citofonata, Salvini potrebbe porgere le sue scuse. Sul web continua a girare il video del leghista che chiede al 17enne: “Scusi lei spaccia?”, mentre il dibattito pubblico si divide. L’ex ministro, dunque, ospite ad Agorà su Rai 3 ha annunciato: “Avrà le mie scuse”, ma con una condizione. Si continua a parlare del blitz di Matteo Salvini nel quartiere di Pilastro, a Bologna: il leghista aveva citofonato a un ragazzo tunisino per chiedere se fosse uno spacciatore. Tra una polemica e l’altra, però, Salvini ha annunciato che potrebbe porgere le proprie scuse al ragazzo ma ad una condizione. Ospite ad Agorà, il leader del Carroccio ha ammesso le proprie responsabilità e si è detto pronto a fare un passo indietro. “Contro la droga non sono garantista, è morte – ha detto -. Se questo ragazzo non sarà ritenuto una spacciatore avrà le mie scuse”. Poi, però, il leghista ha proseguito: “In quel palazzo si spaccia. Punto. E non vado io a fare gli arresti. ma sono contento che l’Italia sappia che là si spaccia”. Nella giornata del 23 gennaio, inoltre, da Piacenza il leghista aveva dichiarato: “Adesso mi manca solo di essere denunciato da uno spacciatore e le ho viste tutte”. Tuttavia, ribadiva anche: “Sono orgoglioso di essere andato in una zona della periferia bolognese dove non vedevano un politico da anni a dare una mano a madri e padri nella loro lotta alla droga”. Il giovane tunisino di 17 anni, infatti, aveva dichiarato a Tpi: “Sono andato a denunciare. Non spaccio, non ho nessun precedente”.

Salvini al citofono, Maroni: “Questioni di campagna elettorale”. Veronica Caliandro il 24/01/2020 su Notizie.it. Maroni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. Ospite a Piazzapulita, Roberto Maroni ha espresso il proprio parere in merito al gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni regionali, l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader del Carroccio, fatta dopo la segnalazione di una signora del posto. Immediate le polemiche conseguenti a questa vicenda, con i vari esponenti politici che a loro volta hanno espresso il loro parere. Nella giornata di ieri ci ha pensato Giorgia Meloni, affermando che lei, al posto del leader leghista, non lo avrebbe fatto. A commentare la vicenda, oggi, ci ha pensato Roberto Maroni che, ospite a Piazzapulita ha affermato: “Io la lotta allo spaccio di droga e alla criminalità l’ho fatta con uno stile diverso, però l’importante è che si faccia. Salvini ha voluto sottolineare questo fatto e che se ne parli sempre avendolo fatto in campagna elettorale vuol dire che ha fatto una scelta che fa parlare. Giusta o sbagliata fa parlare… sono questioni di campagna elettorale“. Per poi aggiungere: “Io non l’avrei fatto”. Per quanto riguarda il caso Ferrara sollevato dal servizio del programma ha poi affermato: “La sensazione è che per la prima volta nella storia di quella regione, nella prima volta nella storia della sinistra ci sia un testa a testa che potrebbe determinare una sconfitta storica, come avvenne a Bologna per altri motivi. Perché là fu un errore della sinistra, qui invece sarebbe proprio un giudizio negativo sul governo. Un giudizio politicamente molto pesante che dovrebbe avere conseguenze sul governo, Naturalmente questa è la mia opinione”. Per poi aggiungere: “Salvini fa sei comizi al giorno: quello è lo stile che può portare alla vittoria. Se quello che ha fatto può avere rilevanza penale lo vedremo…”.

Blitz al citofono, azione squadrista di Salvini ma non è l’unico. Iuri Maria Prado il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quando un fatto di inciviltà irrompe sulla scena pubblica di questo Paese bisogna evitare accuratamente di far finta che si tratti del classico caso isolato, dell’eccezione additata a esempio di una perversione accidentale e minoritaria. O peggio: dare a intendere che che le involuzioni incivili del Paese siano il frutto di colpi di mano addebitabili a una parte cattiva, mente l’Italia democratica, l’Italia perbene, viva e resistente, soffre soltanto la pena inflitta da episodiche prevalenze di sentimenti estranei e maligni. Su queste contraffazioni si è retto tutto il corso democratico di un Paese – il nostro – inerte di fronte alle leggi razziali, e tra i padri della patria repubblicana stanno tutti quelli che hanno prestato giuramento di fedeltà al regime ventennale, mentre i tredici che non hanno giurato sono estromessi – et pour cause – da quel Pantheon balordo e mistificatorio. Tutto questo per dire che bisogna stare molto attenti quando, pur doverosamente, si denuncia il fatto di squadrismo di cui si è reso responsabile il senatore Matteo Salvini, che, ripreso dalle telecamere, a capo di un codazzo di cittadini inferociti, si è attaccato al citofono di un abitante di un quartiere bolognese per chiedergli se è vero che spaccia stupefacenti. E’ un fatto di gravità incommensurabile, perché a presidio del rispetto della legge dovrebbero esserci le forze dell’ordine, non i parlamentari-agitatori che si mettono alla guida di ronde che vogliono processare sotto casa il “tunisino” di turno. Ma, per favore, evitiamo di contrassegnare la faccenda come se fosse la dimostrazione che l’Italia è un bel Belpaese incomprensibilmente esposto a un imprevedibile ed esclusivo vento, come si dice, “di destra”. Il capo leghista che minaccia di ruspa la zingaraccia non è diverso, manco d’un grammo, rispetto al democratico Walter Veltroni che dice che Roma era una città sicura finché non l’hanno invasa i romeni, e il ministro diessino che vanta il calo degli sbarchi grazie all’inconfessata politica di finanziamento dei lager libici, giustificata dal pericolo di smottamento democratico del Paese, non è migliore del leghista truce che li vuole tutti respinti perché prima vengono gli italiani. Il razzismo, lo Stato di diritto violentato, la maniera spiccia della giustizia, non sono in questo Paese denunciati per quello che sono e a prescindere da chi sia responsabile di queste violazioni: ma secondo che a rendersene responsabile sia l’uno o l’altro, con lo sfregio, con lo scempio, con l’insulto civile che si giustifica perché, alternativamente, difende il confine italiano della Padania allargata o la democrazzia con due zeta del circolo progressista. I commenti sui giornali di domani (oggi, per chi legge) ce li immaginiamo, con gli editorialisti giudiziosamente democratici a spiegarci che i tunisini spacciatori, in effetti, bisogna arrestarli senza tante storie ma deve pensarci la magistratura combattente, non il leghista sostituito al governo dalla lungimirante sinistra che si toglie il cappello davanti all’avvocato del popolo, quello che non è più un mascalzone per i decreti sicurezza e l’abolizione della prescrizione approvati in gialloverde, e anzi diventa uno statista quando si tratta di mantenerli, uguali uguali, in maggioranza giallorossa. O come al tempo delle proposte di “segnalazione” del Movimento 5 Stelle, poco più di un anno fa, quando i capi grillini istituivano un sistema di denuncia dei responsabili di comportamenti “che non rispettano i principi che stanno alla base del Movimento”, il partito dell’onestà per via di delazione. Una iniziativa che spiegava molto bene quale fosse il concetto di ordine sociale e di convivenza civile coltivato da quella pericolosa schiatta di analfabeti. Era l’immagine dello Stato che ci propongono, della società che ci offrono, dell’ordinamento civile che ci promettono: l’immagine riflessa del loro Movimento. E nessuno a dirne nulla. Per cui: piano, piano. Quel che ha fatto l’altra sera Salvini (tra l’altro con giornalisti al seguito, tutti zitti) merita ogni censura. E’ una cosa che fa vergogna, e non si capisce come anche solo quell’iniziativa di sostanziale istigazione al linciaggio possa non revocare gli intendimenti di voto di chi ancora oggi si affiderebbe al potere di governo di quel signore. Ma l’alternativa a quelli che oggi gli si oppongono sta in gente che considererebbe perfettamente legittimo citofonare al presunto corrotto piuttosto che al nordafricano: a telecamere aperte e sulla cima di un analogo corteo di italiani perbene. E non che si tratti di un’ipotesi, perché la pratica di fare picchetti davanti al portone di casa del mascalzone di turno per esporlo alla giustizia di piazza – sia il furbetto del cartellino, sia il politico indagato, sia l’extracomunitario che ruba l’alloggio ai figli della Nazione, sia l’imprenditore corrotto – costituisce qui da noi una tradizione ben diffusa a destra e a manca. E a fronteggiarsi sono due opposte ma identiche pretese di forca, due politiche e due giornalismi uniti nell’identico disprezzo per i diritti della persona.

Vittorio Sgarbi: "Fabio Volo non ha capito il gesto di Salvini, occhio che un giorno non suoni suo citofono". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Vittorio Sgarbi le suona a Fabio Volo che ha sfidato Matteo Salvini invitandolo ad andare "a suonare il campanello di un camorrista". Una "irritazione incomprensibile", sbotta il critico d'arte. Volo "sopravvaluta o sottovaluta Salvini. Si tratta di colpi di teatro e di provocazioni. D'altra parte se Volo avesse un figlio di cui si può identificare il pusher, dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo. Questo ha voluto dire, con il suo gesto, Salvini, avendo anche il vantaggio di seguire una pista che lo portava verso un presunto spacciatore tunisino". Volo, continua Sgarbi, "non ha pensato che Salvini è candidato anche in Calabria e presto lo sarà in Campania. Nessun dubbio che risponderà positivamente alla sfida di Volo e andrà, con molti sostenitori, a suonare il campanello di un pusher della camorra o della 'ndrangheta. Ne sono certo". E conclude: "Vorrà insistere Volo fino a che punto arriva Salvini? Non è detto che un giorno non suoni anche il suo campanello. Con molti auguri".

Blitz di Salvini al citofono, Giorgia Meloni: “Io non lo avrei fatto”. Veronica Caliandro il 22/01/2020 su Notizie.it. Giorgia Meloni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni, che si svolgeranno domenica 26 gennaio, Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader leghista, fatta dopo la segnalazione da parte di una signora del posto, scatenando un bel po’ di polemiche, come ad esempio quelle di Fabio Volo. A prendere le distanze dal gesto del leader leghista anche Giorgia Meloni. Ospite a Stasera Italia su Rete 4, infatti, la Meloni ha a commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno, affermando che lei non lo avrebbe mai fatto. In particolare ha affermato: “È sicuramente una mossa forte, di quelle a cui lui ci ha abituato; credo volesse dare voce a un problema diffuso nelle periferie, di fronte al quale la gente si sente lasciata sola. Lo spaccio è sostanzialmente impunito in Italia”. Per poi aggiungere: “Il dubbio che ho è che quando sei una persona in vista il rischio emulazione potrebbe non essere controllabile. Io non lo avrei fatto, ma non lo trovo così incredibile”. Dichiarazioni, quella della leader di Fratelli d’Italia, che dimostrano una linea di pensiero diversa da quella di Salvini, volta a mettere ben in evidenza le differenze tra i due partiti. D’altronde, come dichiarato poco tempo fa dalla stessa Meloni a Lucia Annunziata su Rai Tre: “ Noi, dico proprio il centrodestra diciamo che quello che prende più voti all’interno della coalizione è il leader del centrodestra. Salvini l’ultima volta ha vinto quella competizione. La prossima volta vediamo chi le vince”.

Salvini suona al citofono a Bologna. Seguendo le indicazioni di una donna del quartiere, il leader della Lega si è recato sotto il campanello di una palazzina per suonare a quello della famiglia accusata di essere spacciatrice di droga. “Buonasera. Lei è al primo piano? Ci può far entrare cortesemente? Perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole e volevano che lei la smentisse, ci hanno detto che da lei parte lo spaccio del quartiere. Giusto o sbagliato?”. Così ha chiesto alla persona che si è palesata dall’altra parte del citofono, che ha però attaccato e non ha risposto alla sua richiesta. Imperterrito ha provato a farlo una seconda e una terza volta fino a che la medesima persona non è tornata al citofono. Intanto la signora gli aveva spiegato che a spacciare erano due membri della famiglia: il padre e il figlio. Salvini ha dunque chiesto al cittadino se potesse farlo entrare per verificare se sia vero ciò che dicono i cittadini, ovvero che da lui e da suo padre provenga parte dello spaccio del quartiere. Dall’altra parte qualcuno ha però risposto che il padre non si trovava in casa al momento ma a lavorare e ha di nuovo riattaccato. Il leader leghista ha assicurato ai cittadini di aver intenzione di seguire il caso segnalando l’episodio alle forze dell’ordine, anche se “loro lo sanno, il problema è che vengono rilasciati dopo un quarto d’ora“. A chi gli ha chiesto a che titolo avesse suonato quel citofono, lui ha risposto di averlo fatto in qualità di cittadino.

Il sondaggio di Alessandra Ghisleri, così l’Italia si scopre antisemita: “Gli ebrei hanno troppo potere”. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Secondo un sondaggio  della Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, pubblicato sulla Stampa in edicola martedì 14 maggio, l' 1,3 per cento degli italiani pensa che la Shoah sia una leggenda inventata. L' 1,3 per cento potrebbe essere una percentuale fisiologica di imbecilli totali, scrive Mattia Feltri, e tuttavia corrisponde a circa 700 mila italiani maggiorenni - più o meno la popolazione di Palermo, quasi quella di Torino - convinti che Hitler non abbia torto un capello agli ebrei. Un altro dieci e mezzo per cento si limita a sostenere che il terribile consuntivo (sei milioni di ebrei ammazzati) sia stato fortemente esagerato dalla storiografia. Il 6,1 per cento si dichiara "poco favorevole" o "non favorevole" alla religione ebraica. Il 14 per cento degli intervistati ritiene che i palestinesi siano vittime di un genocidio da parte di Israele, l' 11,6 che gli ebrei dispongano di un soverchio potere economico-finanziario internazionale, il 10,7 che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, l' 8,4 che si ritengano superiori agli altri, il 5,8 che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. La sequela di pregiudizi dimostra che la percentuale di aperti antisemiti (6,1 per cento) è molto al di sotto degli antisemiti inconsapevoli, o malamente mascherati. E Alessandra Ghisleri invita a leggere bene i numeri. Intanto l' 1,3 per cento di negazionisti "non è alto, ma mi aspettavo lo 0,2 o lo 0,3, qualcosa del genere". Poi, aggiunge, è impressionante che fra i dichiaratamente antisemiti il 49 per cento abbondante accusi gli ebrei di strapotere finanziario e quasi il 47 di sentirsi una razza superiore, e cioè le pietre angolari su cui il nazismo costruì la sua propaganda.

Piero Sansonetti ad Agorà provoca Augusta Montaruli, la meloniana lo zittisce: "Non sono razzista anti rom". Libero Quotidiano il 17 Gennaio 2020. Piero Sansonetti, ospite di Serena Bortone, ad Agorà su Rai tre, commenta il Convegno sull'antisemitismo di Matteo Salvini: "Mi piacerebbe che la Lega facesse anche un convegno in cui dicesse che la discriminazione dei rom è un'ignominia, allora lo voterei pure". Il direttore del Riformista tenta poi di provocare Augusta Montaruli, di Fratelli d'Italia, che è in collegamento. Sansonetti le chiede se si impegna a "combattere il razzismo anti-rom". Ma la meloniana non cade nella trappola: "Io non sono una razzista anti-rom e quindi non ho nessun problema purché si possa dire liberamente che per esempio determinati atteggiamenti dei rom nei nostri campi nomadi che vengono perennemente distrutti non mi sia precluso".

Daniel Mosseri per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2020. Una mano aperta con scritto "Stop this story!". È partita in queste ore sui social una nuova campagna contro l' antisemitismo. È stata lanciata da Moshe Kantor, presidente dello European Jewish Congress e ha raccolto l' appoggio fra gli altri del presidente israeliano Reuven Rivlin, dell'attrice britannica Vanessa Kirby (la principessa Margaret nella popolare serie "The Crown" su Netflix), e del cestista Nba Omri Casspi. L'iniziativa, la prima del suo genere a utilizzare su Instagram gli effetti della realtà aumentata, è stata pensata in vista del Quinto forum mondiale sull' Olocausto in programma a Gerusalemme il prossimo 23 gennaio. In quella data, 45 capi di stato e di governo si incontreranno presso lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah, per ricordare il 75esimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. E poiché il ricordo non basta, i 45 leader globali cercheranno nuove strade per combattere il pregiudizio antiebraico. Anche la supermodella israeliana Bar Refaeli si attivata online per combattere l' antisemitismo. Meno fortuna, invece, ha avuto la sua collega e connazionale Arbel Kynan che dell' odio per lo stato ebraico è rimasta vittima. È stata la stessa mannequin a raccontarlo su Instagram. «Qualche giorno fa sono arrivata a Parigi per essere fotografata per un' azienda di moda molto rinomata che partecipa anche alla settimana della Haute Couture. Prima del mio arrivo a Parigi mi hanno detto che sarebbero stati felici di avermi alla sfilata». Tutto bene, dunque? No. Allo shooting le è stato chiesto da dove venisse, «Da Tel Aviv», ha risposto la bella Arbel. Giorni dopo ha ricevuto una mail dal suo agente: «Il cliente è libanese e non vuole modelle israeliane». Un no secco come succede spesso anche nel campo dello sport, con tanti saluti alla campagna contro il razzismo e l' antisemitismo. Un atteggiamento in linea con l' imminente ondata di ipocrisia legata ad Auschwitz da parte di chi piangerà gli ebrei morti continuando a odiare quelli vivi.

"Esclusi dalla discoteca perché sono di colore" La denuncia di Muccino. Denuncia social per Gabriele Muccino, che accusa una discoteca del ravennate di razzismo per non aver fatto entrare gli amici di suo figlio solo perché di colore. Francesca Galici, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Gabriele Muccino utilizza spesso i social per comunicare con i suoi tantissimi ammiratori ma stavolta ha deciso di sfruttare la potenza di Facebook per una denuncia. L'attore ha mosso gravi accuse di razzismo nei confronti di un locale del ravennate per presunti comportamenti irrispettosi nei confronti di suo figlio e degli amici. "Ieri sera mio figlio è andato con due amici di colore nel locale #Hof di Ravenna Porto Fuori. Si è sentito dire sia dal buttafuori che da un addetto al locale che lui poteva entrare ma gli amici no", esordisce il regista, rivelando una fatto sgradevole che sarebbe accaduto nel noto locale della Riviera Romagnola. Stando al racconto dell'uomo, i ragazzi avrebbero comunque aspettato un po' fuori dal locale, in attesa che qualcosa si sbloccasse per riuscire a entrare e fare serata con i loro coetanei. Ma nonostante tutto così non è stato: "Dopo oltre un'ora di attesa, alla domanda Perché?, è stato risposto: Perché loro sono neri e fanno casino." Una risposta che ha fatto indignare Gabriele Muccino, che ha quindi deciso di rendere pubblico quanto avvenuto. "Stiamo sconfinando nell'#Apartheid", ha concluso il regista. Al momento il locale chiamato in causa non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione in merito alle parole di Gabriele Muccino, che non ha avuto remore nel nominarlo. Molti sono stati i commenti sotto il suo post anche da parte di persone che vivono da tanti anni la vita notturna della Riviera Romagnola e che hanno notato un profondo cambiamento. "Abito in Romagna... Giuro che è cambiata tantissimo, peccato, davvero peccato. Mi spiace per i tre ragazzi", ha scritto una ragazza. Tra quelli che solidarizzano con il figlio di Gabriele Muccino e con i suoi amici c'è anche chi viole sottolineare una presunta contraddizione nella percezione delle notizie che ogni giorno vengono riportate dai media e dai social. "Ma bravi tutti non ho sentito un commento da parte vostra delle forze dell'ordine aggredite a Napoli da dei ragazzini", ha scritto un ragazzo in riferimento a uno dei fatti di cronaca più noti degli ultimi giorni. C'è anche chi cerca di ridimensionare la gravità di quanto accaduto a Ravenna, riportando un racconto di vita vissuta che, in qualche modo, si collega all'episodio discriminatorio raccontato da Gabriele Muccino: "A mia sorella durante un colloquio di lavoro 2 donne e 2 uomini, si è sentita rispondere che avrebbero preso gli uomini perché poi le donne rimangono incinte... Quindi meno problemi." Il post del regista racconta uno spaccato dell'Italia attuale ma è anche scorrendo i commenti dei seguaci di Muccino che ci si può fare un'idea del Paese di oggi. Non è detto che il locale decida di rispondere al regista o se preferisca la via del silenzio e del basso profilo ma il racconto di Gabriele Muccino muove accuse ben precise che difficilmente possono essere ignorate.

Fiorentina-Atalanta, Gasperini e gli insulti dei tifosi viola: «Mia madre ha fatto la guerra per dare il diritto di parola a questi deficienti». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Bocci. «L’atteggiamento del pubblico viola verso di me? Io non ho mai insultato nessuno. Oggi ero carico al massimo per la mia squadra ma mi sono preso più volte di figlio di p... Mia madre ha fatto la guerra per dare diritto di parola a questi deficienti. Loro sì che sono figli di p... Si tratta di maleducazione e cafonaggine, oltre che di un insulto pesante da affrontare». Lo ha detto il tecnico dell’Atalanta, Gian Piero Gasperini, in conferenza stampa al termine della gara di Coppa Italia disputata al Franchi e persa 2-1 contro la Fiorentina. Durante la partita Gasperini è stato preso più volte di mira dai tifosi viola: i rapporti, anche in precedenza erano tesi, con Gasperini che aveva in passato criticato Federico Chiesa. Per l’allenatore dell’Atalanta si tratta di un «insulto pesante da accettare».

Atalanta, Gasperini furioso: "Figli di puttana saranno i tifosi della Fiorentina". Alcuni tifosi della Fiorentina hanno insultato Gasperini che ha risposto per le rime: "I figli di p... saranno loro, mia madre ha fatto la guerra per dare la libertà e parola a quei deficienti". Marco Gentile, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. L'Atalanta di Gian Piero Gasperini non ce l'ha fatta, inaspettatamente, a passare il turno di Coppa Italia contro la Fiorentina di Giuseppe Iachini che ha sfoderato la prestazione della vita, la migliore stagionale, ed ha così staccato il pass per i quarti di finale dove ora affronterà l'Inter di Antonio Conte che ieri sera ha battuto per 4-1 il Cagliari di Rolando Maran. La partita del Franchi è stata equilibrata e tirata dal primo all'ultimo minuto con gli ultimi 25 minuti più recupero che sono diventati incandescenti per via dell'espulsione per doppia ammonizione del capitano viola German Pezzella. Il difensore argentino, infatti, nel tentativo di conquistarsi un calcio di rigore sul risultato di 1-1 è caduto in area senza subire però il contatto di Ilicic con l'arbitro Manganiello che ha estratto il secondo giallo e conseguente cartellino rosso.

Parole di fuoco. La Fiorentina nonostante l'inferiorità numerica ha tenuto botta e ha addirittura piazzato il colpo del ko con Lirola a sette minuti dal novantesimo con un Gian Piero Gasperini furioso in panchina per la sconfitta maturata che estromette così i nerazzurri dalla coppa nazionale. Il finale di partita è stato caldo, molto caldo con i tifosi della Fiorentina che hanno a più riprese insultato il tecnico dell'Atalanta che in conferenza stampa ha risposto per le rime: "Gli insulti dei tifosi avversari? I figli di p... saranno loro, mia madre ha fatto la guerra per dare la libertà e la parola a quei deficienti che mi hanno insultato. Io non ho mai insultato nessuno, questo è un insulto che va al di là dello sport".

Favola nerazzura. Gasperini ha poi ammesso di essere amareggiato per essere uscito anzitempo dalla Coppa Italia: "Uscire in questo modo ci dispiace, avevamo creato i presupposti per superare il turno anche in una giornata di difficoltà". L'ex allenatore di Inter e Genoa ha però guardato il bicchiere mezzo pieno: "A fine andata siamo quarti, è una posizione fantastica per noi e credo che potremo ripeterci. La Champions è una ciliegina a parte". Infine, il tecnico di Pinerolo ha parlato della "favola Atalanta" che è ormai diventata una certezza sia in Italia che in Europa con la Dea che giocherà gli ottavi di finale di Champions League. Gasperini ci ha tenuto a dividere i meriti con tutti: "Mi danno tantissimi meriti, ma vanno distribuiti anche con società, ambiente e giocatori. Oggi ci deve insegnare che dobbiamo sempre essere al meglio delle nostre possibilità, altrimenti anche quando hai la sensazione di averne di più puoi uscire”.

Nicola Occhipinti per la Gazzetta dello Sport il 16 gennaio 2020. Siamo tutti neri. Tutti omosessuali, minatori e immigrati. Quando vogliamo fare sentire la nostra solidarietà a qualcuno, identificarci con lui, o perlomeno tentare di farlo con sincerità, è il gesto più forte che possiamo mettere in campo. Allora, per una volta sentiamoci anche un po' figli di puttana. Ieri a Firenze l' allenatore della Fiorentina Gian Piero Gasperini è stato reiteratamente insultato dai tifosi viola, che per una buona parte della partita di Coppa Italia contro l' Atalanta gli hanno dedicato una canzone dal ritornello sempre uguale. La stessa sorte, sempre nello stadio di Firenze, era toccata ad Antonio Conte lo scorso dicembre perché non sfuggissero a nessuno i suoi trascorsi juventini. E una sorte simile tocca prima o poi a tutti i giocatori che calcano gli stadi della Serie A. Perché offendere la mamma dell' allenatore avversario attribuendole una professione infamante deve essere meno odioso che offendere un giocatore africano facendogli buu? Il razzismo dilagante (negli stadi italiani non ci facciamo mancare niente) è un fenomeno allarmante, una piaga che ci riporta a uomini malvagi e a un passato che vorremmo non incontrare più. Ma non è il caso, a costo di passare per perbenisti, di prendere provvedimenti contro chi offende reiteratamente con cori organizzati la dignità delle persone? L' insulto negli stadi si è sempre sentito a casa. I cori che offendono giocatori, arbitri e tifosi rivali esistono da prima del calcio. Ed entro certi limiti si possono anche considerare facenti parte dello show. Ma una battaglia contro le offese pesanti, con le opportune distinzioni e sanzioni, darebbe anche alla lotta al razzismo un contesto migliore per essere efficace. In campo e sulle tribune tutti, bianchi e neri, slavi ed ex juventini, sarebbero tutelati nella loro dignità. L' America e altri Paesi ci hanno insegnato che un altro modo di tifare è possibile. Incoraggiando la propria squadra e non umiliando quella rivale. Anche facendosi scherno dei rivali, ma senza insultare la mamma di nessuno. In tempi di eccessi di atteggiamenti e parole politically correct che ogni tanto ci fanno perdere di vista il senso di quello che vorrebbero tutelare, a questa battaglia di civiltà non vorremmo rinunciare.

Fiorentina-Atalanta, Commisso replica a Gasperini: ''Tifosi viola vanno rispettati''. Il patron viola sullo sfogo del tecnico: ''Ognuno dovrebbe guardare in casa propria". Percassi: ''Partita andava sospesa, al Franchi è stato toccato il fondo". La Repubblica il 16 gennaio 2020. La replica della Fiorentina non si è fatta attendere. Lo sfogo di Gasperini nel post partita della sfida di coppa Italia tra i viola e l'Atalanta - partita che ha visto la squadra di Iachini vincere 2-1 e qualificarsi per i quarti - non è andato giù al patron viola Rocco Commisso. "Dagli spalti mi hanno gridato figlio di p... più volte - ha detto l'allenatore dei bergamaschi -. Lo saranno loro, mia madre ha fatto la guerra. Non accetto questi insulti, questa è una cosa esagerata che va al di là del calcio, un fatto di maleducazione e cafonaggine, un insulto pesante da accettare". Parole a cui Commisso ha replicato con una nota affidata ai canali social del club: "Ho letto e sentito parole molto dure e offensive nei confronti dei tifosi della Fiorentina sia da parte di Gasperini che del presidente Percassi. Prima di parlare dei tifosi delle altre squadre e della nostra in particolare penso sia doveroso guardare cosa succede in casa propria. I tifosi della Fiorentina vanno rispettati" dice Commisso. "Mi hanno raccontato che dopo le dichiarazioni di Gasperini a suo tempo contro Chiesa il nostro giocatore a Bergamo è stato insultato per tutta la partita. Quest'anno a Parma, in campionato contro l'Atalanta, mio figlio e Joe Barone sono stati insultati e anche minacciati in tribuna, ma nessuno ha detto o fatto nulla se non scaricare la colpa al personale di servizio. E ricordo anche il brutto episodio dei cori razzisti contro Dalbert. I commenti in casa Atalanta - ha evidenziato Commisso - non sono stati di forte condanna. Io concludo dicendo che al figlio di Percassi ho dato la nostra massima ospitalità e sono rimasto a parlare con lui per diverso tempo". A prendere le difese di Gasperini è stato lo stesso patron della 'Dea', Antonio Percassi. "Gasperini al Franchi è stato il bersaglio di cori disgustosi, incivili, insopportabili. Una cosa indecente, andata avanti per tutta la partita e chiaramente ascoltata in tv, a più riprese. Tutto questo è assolutamente vergognoso. L'arbitro doveva sospendere la partita, come accade quando dagli spalti si levano ululati razzisti. Se fosse successo a Bergamo, immagino che cosa si sarebbe detto di Bergamo e dei bergamaschi. Le parole di Gasperini nel post gara? Ha reagito nel modo giusto. L'Atalanta è al suo fianco. Al Franchi è stato toccato il fondo", ha concluso Percassi.

Scuola romana divide gli studenti, la descrizione sul sito web: “Qui i figli dei ricchi, lì quelli delle colf”. Redazione de Il Riformista il 15 Gennaio 2020. Una scuola che divide i suoi studenti in base al censo, ‘fiera’ di descrivere la discriminazione e ghettizzazione di ragazzi e ragazze sul suo stesso sito ufficiale. Succede a Roma, all’Istituto Comprensivo “Via Trionfale” composto da quattro plessi nei Municipi XIV e XV della Capitale. Online si può infatti leggere che “la sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alta”, mentre “il Plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana”. Infine la precisazione sul plesso di via Vallombrosa, con l’istituto che ricorda sul web come accolga “prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)”.

I PRESIDI PRENDONO LE DISTANZE – Una descrizione allucinante, che ha generato una polemica fortissima. A prendere le distanze sono stati gli stessi presidi scolastici. “La scuola è un luogo educativo ed inclusivo, no a forme di categorizzazioni superficiali e inutili” sottolinea Mario Rusconi, presidente dell’ANP-Lazio. “La scuola non può evidenziare eventuali differenziazioni socio-culturali degli alunni iscritti poiché, tra l’altro, oltre a dare una cattiva rappresentazione di sé stessa agli occhi di chi legge corre anche il rischio di originare idee o forme classiste”, ha precisato Rusconi.

LA RABBIA DEL MINISTRO AZZOLINA – Sul caso è intervenuto anche il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina: “La scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione. Descrivere e pubblicare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso. Mi auguro che l’istituto romano di cui ci racconta oggi Leggo possa dare motivate ragioni di questa scelta. Che comunque non condivido”, ha scritto su Facebook.

IL PASSO INDIETRO DELL’ISTITUTO – Dopo la bufera per le accuse di discriminazione e classismo, il Consiglio di Istituto dell’Ic di Via Trionfale è intervenuto precisando che non c’era intenti di questo tipo, solamente una “mera descrizione socio economica del territorio”. L’istituto ha inoltre sottolineato di aver proceduto ad “una modifica perché siano rimosse le definizioni interpretate in maniera discriminatoria”.

Roma, scuola si presenta: «Qui la borghesia, là il ceto medio-basso». Il ministro Azzolina: «Scelta assurda». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. L’autopresentazione sul sito di un istituto di Roma: «Nell’altro plesso più stranieri». La ministra: assurdo. Ma la preside aveva portato avanti la battaglia per la scuola multietnica. «Nella scuola di via Vallombrosa, a Roma, ci studiano i figli delle badanti, precisamente delle badanti dell’alta borghesia romana che vive in via Cortina d’Ampezzo»: è la dettagliata descrizione degli alunni dell’Istituto comprensivo di via Trionfale rilanciata su Leggo». In pratica sul sito della scuola, alla voce presentazione, si viene a sapere nel dettaglio a quale classe sociale appartengono i bambini che frequentano le singole sedi della scuola. L’autopresentazione della scuola: «La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana». Sul plesso di via Vallombrosa si va ancora più a fondo: «Il plesso sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)». «Sono davvero sconcertato che nel 2020 una scuola pubblica possa presentarsi sul proprio sito internet distinguendo i propri plessi in base al rango socio-economico dei propri alunni andando contro ogni valore espresso dalla nostra Costituzione. Sto già intervenendo per richiederne l’immediata rimozione dal sito web»: è la reazione del sottosegretario all’Istruzione Peppe De Cristofaro. Interviene anche il presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma e del Lazio Mario Rusconi: «Quello dell’Istituto comprensivo “Via Trionfale” e’ un messaggio secondo cui esisterebbero classi di serie a e classi di serie b. Si mette in risalto il concetto che da una parte si fa una vera formazione e dall’altra una meno intensa e questo lo ritengo profondamente sbagliato. La scuola deve essere inclusiva e l’inclusione funziona meglio quando le classi sono disomogenee». «La scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione. Descrivere e pubblicare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso. Mi auguro che l’istituto romano di cui ci racconta oggi @leggoit possa dare motivate ragioni di questa scelta. Che comunque non condivido» è il commento su Twitter del ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina.

Via Trionfale, scuola nella bufera: chi è la preside accusata di essere classista. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. L’autopresentazione sul sito di un istituto di Roma: «Nell’altro plesso più stranieri». La ministra: assurdo. Ma la preside aveva portato avanti la battaglia per la scuola multietnica. Non è la prima volta che succede, e forse non sarà neanche l’ultima, vista l’abitudine delle scuole di presentarsi in maniera accattivante (e a volte maldestra): il liceo Visconti, con la sua introduzione per «studenti alto-borghesi e senza disabili», due anni fa creò un caso. Come quello scoppiato per la descrizione della scuola di via Trionfale: una relazione risalente al 2011 e che solo ieri, dopo la denuncia di Leggo e la durissima posizione della ministra Lucia Azzolina, è stata rimossa. «La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna — si leggeva nella auto-presentazione dell’istituto di Roma — accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana». Sul plesso di via Vallombrosa si andava ancora più a fondo: «Il plesso sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)». Una distinzione «in base al rango socio-economico dei propri alunni» che va «contro ogni valore espresso dalla nostra Costituzione», rileva il sottosegretario Peppe De Cristofaro. Incalza Azzolina: «Non ha senso, la scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione». Insistono i presidi: «C’è il rischio di originare idee o forme classiste». E il tentativo di rimediare la gaffe non risolve la questione. «I dati riportati nella presentazione della scuola, composta da quattro distinti plessi, in diversi contesti socio-culturali, sono da leggere come mera descrizione socio-economica del territorio, secondo le indicazioni del Miur per la redazione del Pof (piano di offerta formativa, ndr). L’istituto non ha mai posto in essere condotte discriminatorie nella ripartizione degli alunni nei diversi plessi o nelle diverse classi», si difende il consiglio di istituto. Dunque, tutta colpa delle indicazioni del Miur? Non sembra. Il Rav, il documento di autovalutazione della scuola, pubblicato su scuolainchiaro.it, elenca i punti di debolezza e di forza dell’istituto. Ma in maniera molto diversa. «Il contesto socio-economico è disomogeneo poiché il territorio di riferimento, che insiste su due Municipi, include fasce di popolazione appartenenti al ceto alto e zone in cui è elevata la presenza di famiglie di cittadinanza non italiana, socialmente svantaggiate. La percentuale di alunni con bisogni educativi speciali raggiunge il 9 % del totale della popolazione scolastica. L’analisi della presenza di alunni con cittadinanza non italiana rispetto al totale della popolazione dei singoli plessi rileva disomogeneità: Trionfale 30%, Assarotti 29%, Taverna 19%, Vallombrosa 7%. Per la scuola secondaria di primo grado (...) il 25% ». Una descrizione asettica. «Come ci si sarebbe aspettato da una preside come Nunzia Marciano, aperta al sociale», commenta Mario Rusconi, presidente dei presidi del Lazio. La 58enne, napoletana di origini ma romana di adozioni, è infatti nota come la preside battagliera che 11 anni fa reggeva la Carlo Pisacane, la scuola romana col 90% di studenti immigrati, che si attirò le critiche dell’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno (An), e provocò la circolare Gelmini per il tetto del 30% di immigrati in classe. Una dirigente lungimirante, che avrebbe voluto intitolare la Pisacane, che ospitava 24 etnie diverse, a Tsunesaburo Makiguchi e al suo modello ispirato alla pace e al rispetto reciproco. Ma le fu vietato.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2020. Nel presentare «online» le sue varie sedi in città, il consiglio d' istituto di una scuola elementare romana ha pensato bene di sottolinearne le differenze sociali. Qui ceto medio-alto, là medio-basso con abbondanza di stranieri, là ancora figli dell' alta borghesia mescolati alla prole dei loro dipendenti: badanti e colf. Una fotografia, ma dell' indicibile. Perché l' opuscolo di una scuola, tanto più di una scuola pubblica, tanto più di una scuola pubblica per bambini, dovrebbe illustrare le peculiarità dei suoi corsi e i talenti dei suoi insegnanti, non il reddito dei suoi alunni. Gli autori del pasticciaccio brutto di via Trionfale hanno giurato che le loro parole avevano un intento descrittivo e non discriminatorio: un genitore medio-basso potrà continuare a iscrivere suo figlio alla scuola dei medio-alti (e ci mancherebbe!). Ma il tema sollevato da questo caso riguarda qualcosa di molto più ampio. Riguarda il linguaggio e i valori che lo ispirano. Sappiamo che tanti genitori cercano di sistemare i figli nella scuola più omogenea al loro ambiente sociale, ma non possono essere i dirigenti della scuola pubblica a rammentarglielo per iscritto. La scuola pubblica è nata per consentire l'uguaglianza dei punti di partenza. Un' utopia, forse. Però è di questo genere di utopie che si nutre il lessico di una democrazia. Rinunciare non solo a perseguirle, ma ormai persino a nominarle, a qualcuno sembrerà un esercizio di realismo. Temo invece che assomigli a una resa.

La politica s’indigna per la scuola al Trionfale ma con lo ius soli non ci sarebbe disuguaglianza. Roberto Vicaretti il 17 gennaio 2020  su Il Dubbio. Gli “open days” ci rivelano una scuola pubblica debole e una società che teme le diversità e rifiuta il confronto. Il caso dell’Istituto comprensivo “Via Trionfale” di Roma? Non è un incidente, non è una gaffe. È il sintomo evidente di un progressivo indebolimento e snaturamento della scuola pubblica; è lo specchio di un’Italia spaccata, lacerata in frammenti di società incapaci di incontrarsi, confrontarsi e dialogare tra di loro; è, infine, il risultato negativo di scelte non fatte da una politica incapace di guardare oltre l’ultimo sondaggio. I fatti: siamo nella stagione degli “open days”, i giorni dell’anno in cui le nostre scuole si tirano a lucido in vista della prossima scadenza delle iscrizioni all’anno scolastico. L’istituto “Via Trionfale” si presenta: “La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio- alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio- bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana Il plesso di via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie, invece, prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie”. Potremmo cavarcela accusando l’istituto di classismo – accusa, peraltro, che non è sbiadita dopo il goffo tentativo di correzione -, ma, così facendo, non comprenderemmo a fondo ciò che quell’episodio ci dice. In primo luogo, il caso del “Via Trionfale” ci restituisce l’immagine di una scuola pubblica costretta a inseguire gli alunni e le loro famiglie come se fossero dei clienti e, di conseguenza, a farla agire come un supermercato per accaparrarsi il maggior numero di consumatori, meglio se abbienti. E così l’offerta “3×2”, il maxisconto, la grande occasione si traducono per la scuola nel presentarsi come il ritrovo dell’élite della città. Una logica di mercato, intrisa di liberismo, che ha iniettato nella scuola pubblica un modo di operare tipico delle scuole private, stravolgendo il dna e il senso stesso dell’istruzione pubblica.

Ma tutto questo non basterebbe a spiegare quell’assurda descrizione. La storia del “Via Trionfale” ci dice che se una scuola avverte il bisogno di presentare la propria offerta anche sulla base di quei parametri è perché cerca di rispondere a una domanda dei cittadini che anche in quella direzione si orienta. Dietro quelle parole ci sono una città, una società e un Paese che rifiutano il confronto, che scappano dalla diversità e che si industriano per bloccare – come se ce ne fosse bisogno – l’ascensore sociale. Le diseguaglianze, che la grande crisi ha acuito, hanno fratturato il Paese, divaricando ulteriormente le storie e i destini di chi sta meglio da quelli della parte della popolazione che ha più sofferto e più soffre. L’alta borghesia da un lato, il ceto popolare dall’altro ciascuno nel proprio mondo, divisi; ciascuno impegnato a salvarsi da solo. La solidarietà, il senso di destino comune del Paese finiti in fondo alla gerarchia dei valori. C’è, infine, un terzo elemento da considerare e che chiama in causa direttamente la politica. Illuminante in questo senso un passaggio di quella contestata presentazione quando, parlando della struttura di Monte Mario si evidenza che “conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana”. Ecco l’ultimo tassello: i bambini e i ragazzi, i loro diritti e la necessità di dare al Paese una nuova legge sulla cittadinanza. Se la scuola pubblica, che dovrebbe essere la culla dell’integrazione, diventa un luogo di discriminazione, di isolamento e separazione come può l’Italia di domani essere accogliente, equa e solidale? Lo ius soli o lo ius culturae sono la risposta o la chiave di volta per risolvere questa enorme sfida? No, ovviamente. O, comunque, non da soli. Eppure rappresenterebbero un primo passo capace di abbattere un’assurda diseguaglianza tra bambini e, allo stesso tempo, l’avvio di una svolta culturale. Se ci fosse stata nel nostro ordinamento un’altra legge sulla cittadinanza, quell’insopportabile frase che separa gli alunni di seria A da quelli serie B sulla base del Paese d’origine dei genitori non sarebbe stata scritta. E invece? E invece la politica non ha saputo e non sa dare la risposta che centinaia di migliaia di bambini, ragazzi e giovani attendono. La paura – e i numeri in Parlamento – hanno bloccato il centrosinistra nella precedente legislatura; la paura – e le ambiguità del Movimento 5Stelle e del suo leader – frenano oggi la maggioranza giallorossa. Il caso “Via Trionfale” ci dimostra che, anche su questo tema, è il momento di accelerare.

Firenze, la scuola su internet: «Da noi non sono presenti nomadi». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Gasperetti. La frase sull’assenza di studenti nomadi a scuola appare a pagina 3 del Rav, il rapporto di valutazione dell’istituto comprensivo «Masaccio», scuola appena fuori dal centro storico di Firenze. In poche righe si comunica a tutti (il documento è online e pubblico come prevedono le normative), che «il contesto socio economico della scuola e medio alto con un background familiare tendenzialmente alto». E si spiega che «si tratta per lo più di liberi professionisti, settore terziario e commercianti». Informando inoltre che «risulta infatti 0 la percentuale di genitori disoccupati in tutti gli ordini di scuola». Il rapporto sulla qualità della scuola prosegue poi spiegando che «l’incidenza di studenti con cittadinanza non italiana è di 51 alunni», dunque minimo. E infine letteralmente si scrive: «Non sono presenti studenti nomadi, risulta invece un esiguo numero di studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate». Una frase questa che, dopo essere stata pubblicata da un servizio della Nazione, sta provocando non poche polemiche. Non riuscendo a parlare con la dirigente scolastica o un suo sostituto della scuola, abbiamo interpellato il provveditore Roberto Curtolo. Che ci ha spiegato che la normativa nazionale prevede che si specifichi anche la presenza di eventuali ragazzi rom nell’istituto insieme anche ai riscontri del livello sociale degli iscritti. «Soltanto per prevedere un’offerta didattica mirata e positiva e certamente non discriminante», spiega il provveditore.

La scheda che compare sul sito della scuola. Ma non è discriminante indicare in un documento pubblico la presenza di ragazzi di particolari etnie in una scuola? «Sono personalmente dell’opinione che dovrebbero essere elaborati due documenti — risponde Curtolo —. Il primo, con tutte le statistiche previste dalle normative, interno alla scuola che ha l’obbligo di conoscere anche lo status sociale dei propri iscritti per programmare al meglio gli interventi didattici e pedagogici. Il secondo, privo di dati che possono essere mal interpretati, pubblico per garantire la trasparenza dell’istituto».

I rapporti shock degli Istituti: "In questa scuola niente rom". Dopo il caso scoppiato a Roma nord, emergono frasi choc nei rapporti di autovalutazione in alcune scuole della Toscana. Francesca Bernasconi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Contesti socio-economici alto o medio-alti, con famiglie di cultura elevata e una minima presenza di studenti stranieri. Sono alcune delle affermazioni che si leggono nei rapporti di autovalutazione pubblicati sui siti di alcuni Istituti scolastici e riportati dalla Nazione. E affiorano nuove frasi choc, dopo il caso che ha travolto un Istituto di Roma nord, che aveva messo nero su banco sul suo sito web la differenza tra alunni ricchi e poveri: "La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana", si leggeva. In Toscana, negli Istituti non emerge la divisione tra studenti appartenenti a famiglie ricche e povere, ma nei Rapporti di autovalutazione si fa riferimento al livello sociale e al reddito delle famiglie degli alunni. Sul documento della scuola secondaria di primo grado Masaccio di Firenze, riferito al periodo 2015-2016, viene spiegato che "il contesto socio economico è medio alto con un background familiare tendenzialmente alto: si tratta per lo più di liberi professionisti, settore terziario e commercianti". Ma la descrizione della scuola non si ferma qui e viene indicato un dato choc: "Non sono presenti studenti nomadi e risulta un esiguo numero di studenti provvedimenti da zone particolarmente svantaggiate". Anche dal Dino Compagni arrivano affermazioni che si riferiscono al reddito e si sottolinea che "gli alunni provengono per la maggior parte da un contesto socio economico di alto livello, con famiglie di cultura elevata". E, secondo quanto riferisce la Nazione, verrebbe anche indicato che gli alunni della fascia più elevata studiano "accanto ai ragazzi delle colf impiegate nelle belle case del quartiere". A Prato, invece, al Convitto Cicognini, la maggior parte degli studenti sarebbero "figli di professionisti" e la quantità degli alunni provenienti da famiglie svantaggiate sarebbe stata indicata come "molto bassa". Ma, accanto a questi esempi, in cui i rapporti difendono la presenza di alunni di ceto elevato, non mancano quelli positivi. Tra tutti, c'è l'Istituto di Posanicco, in provincia di Pisa dove, "l'incontro con diverse culture arricchisce gli alunni e li rende più consapevoli della dimensione sociale in cui sono inseriti". Dal 2015, le scuole devono compilare un rapporto di autoanalisi, compilando il Rav, Rapporto di autovalutazione fornito dal Ministero, che ha l'obiettivo di analizzare le caratteristiche peculiari delle scuole e individuarne i punti deboli, per migliorarli.

Da ilmattino.it l'11 gennaio 2020. «Salvini è venuto spesso a Napoli? Sarà venuto per assaggiare i friarielli, non per fare il ministro dell'Interno». Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, risponde così a chi gli fa presente le critiche di Matteo Salvini dopo le aggressioni che si sono verificate a Napoli al personale sanitario. «Di quel periodo, di quando era ministro, ricordo in particolare un tweet notturno - dice a LiraTv - E cioè questa sera broccoletti e radicchio. Questo era il messaggio che lanciava il ministro dell'Interno, non quanti agenti avrebbe mandato a Napoli o le iniziative di sicurezza come il posto di polizia all'ospedale San Giovanni Bosco, ma tweet gastronomici. È stato allora che ho capito cosa veniva a fare a Napoli». Comunque, aggiunge De Luca, «ho molta simpatia per Salvini». Il suo suggerimento?  «Fai un comizio in meno e leggi l'Infinito di Leopardi, ti riconcilierai con la vita. Altro che tutta una vita persa in comizi. «n questo momento fa venti comizi al giorno in Emilia Romagna ma sta perdendo tempo perché perderà. I cittadini guardano i problemi concreti, non il sovranismo e le pippe».

 “Infettano i nostri figli”, mamme buttano giocattoli di bimbo autistico. Ciro Cuozzo il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. Hanno gettato via i giocattoli che un bambino autistico utilizzava durante le ore di lezione perché erano “sporchi” e rappresentavano una “fonte di infezione” per i loro figli. A scoprirlo è stato lo stesso piccolo alunno, colto da una forte crisi per aver perso i suoi riferimenti nella classe che frequenta ogni giorno. L’episodio, riportato nel corso della trasmissione Barba e Capelli in onda su Radio Crc, è avvenuto questa mattina, venerdì 10 gennaio, nella scuola elementare Amanzi-Ranucci-Alfieri di Marano, comune a nord di Napoli. Protagoniste alcune mamme che hanno abusato del ruolo che si sono auto-assegnate all’interno dell’istituto scolastico, dove puliscono la classe dei figli perché la cooperativa incaricata, in mobilitazione da mesi per la riduzione delle ore lavorative, “non lo fa in modo adeguato, lasciando le aule sporche”. Un episodio che “ci lascia senza parole” ha commentato Flora Angellotti, consigliera comunale, componente della III commissione (Politiche Sociali, Pari Opportunità, Sport, Cultura, Beni Confiscati e Pubblica Istruzione), che ha già annunciato una campagna di sensibilizzazione sull’argomento: “Pensavamo che non ce ne fosse bisogno e invece l’episodio avvenuto alla Ranucci ci ha fatto capire che c’è ancora tanto da fare su questo argomento”. Intanto la dirigente scolastica Antonietta Guadagno si è impegnata a ricomprare i giocattoli che la scuola aveva già messo a disposizione del giovane alunno a inizio anno.

Offesi in pizzeria 5 ragazzi Down: «Non si può mangiare vicino a loro». Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it da Carlo Macrì. Ragazzi affetti dalla sindrome di Down derisi e apostrofati in pizzeria da tre clienti romani che hanno abbandonato il locale, infastiditi: «Non si può mangiare vicino a queste persone, ci viene il vomito». Questa storia non assomiglia affatto alla fiction «Ognuno e perfetto» la serie Rai dedicata ai ragazzi down. Tutt’altro. Quello che si è verificato a Filadelfia, piccolo comune del Vibonese, è una storia di degrado sociale che si ritorce contro chi perfetto non è. Cinque ragazzi affetti dalla sindrome di down, sono stati derisi e apostrofati in pizzeria da tre (signori?) romani che seduti vicini al loro tavolo in un locale del luogo, si sono lasciati andare a frasi come:«Non si può mangiare vicino a queste persone, ci viene il vomito». Poi quasi accusando il gestore di averli fatti entrare, hanno abbandonato il locale, infastiditi. A raccontare questa storia è Francesco Conidi che da anni guida l’associazione «Giovanni Gemelli» a Filadelfia. Si occupa assieme ad altre due figure di educatori, del reinserimento dei ragazzi nella società e del loro percorso educativo. Ogni settimana il gruppetto di ragazzi down si ritrova nei locali dell’associazione, dove sviluppano varie attività in piena autonomia, seguiti dallo psicologo e da un’assistente sociale sempre, comunque, con accanto le famiglie. Spesso dopo le attività si recano a mangiare la pizza e vengono fatti sedere da soli al tavolo, sempre osservati dagli educatori che stazionano molto vicini a loro, proprio per quel senso di autonomia necessaria che serve loro per il percorso formativo. Lunedì 23 dicembre il gruppetto di ragazzi down in età compresa tra i 20 e i 35 anni, si è recato in pizzeria, anche per festeggiare l’arrivo del Natale. Con loro c’erano lo stesso Conidi e anche la mamma di uno dei ragazzi. Hanno ordinato, chiacchieravano, mentre al tavolo vicino al loro, tre persone marito, moglie e figlia, alla vista dei ragazzi ha iniziato a dare segnali di inquietudine. Tanto che hanno «segnalato» la presenza dei ragazzi alla cameriera, quasi a voler dire: «Perché li avete fatti accomodare qui?». Ovviamente sia il gestore del locale che i lavoranti non hanno minimamente dato seguito a quelle lamentele. Quando già i ragazzi avevano già finito la pizza, mentre i tre avventori stavano consumando l’antipasto, la signora che Conidi sostiene potesse avere sui 70 anni, ha iniziato a inveire contro di loro, pronunciando la frase vergognosa: «Non si può mangiare ci viene il vomito. Capisco che sono malati, addirittura portali in pizzeria…. Bisognerebbe lasciarli a casa». E nel dire questo hanno lasciato il locale, pagando il conto. I ragazzi hanno avuto la solidarietà del proprietario del locale. Non solo. Anche il sindaco di Filadelfia Maurizio De Nisi il cui Comune sta portando avanti un’opera di reinserimento lavorativo dei ragazzi down si è fatto sentire: «È sconcertante prendere atto che alle soglie del 2020 a una persona possa essere negata la libertà di cenare con gli amici solo perché affetta da sindrome di down». Le tre persone che si sono rese protagoniste di questa triste vicenda non sarebbero di Filadelfia. Potrebbero essere del comprensorio ma, residenti a Roma. I carabinieri hanno avviato un’attività per cercare di identificarli. All’associazione è giunta la solidarietà da ogni parte d’Italia.

Capodanno, albergo e veglione vietati per un gruppo di ragazzi autistici. Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 da Corriere.it. Prima sì, poi no. E per dieci famiglie con ragazzi autistici è saltato il Capodanno in un esclusivo hotel non lontano da Frosinone. A denunciare l’episodio di discriminazione nei confronti dei giovani disabili sono stati proprio i mancati clienti del complesso alberghiero «Terme di Pompeo», in via Casilina, a Ferentino, che dopo aver prenotato regolarmente per una quarantina di persone, hanno poi ricevuto la brutta notizia: niente festone con i ragazzi, fra i 12 e i 18 anni, perché i responsabili dell’hotel hanno spiegato di non poter fare fronte alla presenza di disabili nella loro struttura e di dover comunque assicurare la tranquillità agli altri ospiti. Il gruppo è solito trascorrere insieme periodi di vacanza e proprio per questo aveva pensato a un soggiorno per Capodanno nel complesso alberghiero sorto dove si trovavano le terme frequentate nell’antichità anche dall’imperatore Vespasiano. Era andato tutto bene fino alla prenotazione, poi però alla richiesta di informazioni sulla sistemazione di bambini e ragazzi, la direzione dell’albergo ha capito che si trattava di autistici e allora, stando alla ricostruzione dei diretti interessati, è cambiato l’atteggiamento, fino alla cancellazione della prenotazione. Insomma una vacanza annullata fra scuse e spiegazioni fantasiose e assurde, che hanno fatto soffrire e indignato i parenti dei ragazzi ai quali sarebbero stati offerti altri periodi per soggiorni esclusivi nella struttura, sempre senza altri ospiti attorno. Un isolamento forzato, insomma.

Muore neonata nigeriana  al pronto soccorso, in sala d’attesa insulti alla madre: «Tanto ne sfornate altri». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 su Corriere.it da A. Fulloni e B. Gerosa. «Morte bianca» della piccola di cinque mesi. Alle urla disperate della mamma la gente commenta: «Fate tacere la scimmia». Dopo che la piccola è morta al pronto soccorso e la mamma stava piangendo e gridando disperata, i commenti ascoltati sono stati questi: «Tanto ne sfornano uno all’anno». Oppure: si tratta di una «tradizione africana», di un «rito tribale», se non addirittura di un «rito satanico». Sondrio, sabato scorso, le dieci e trenta. Nell’astanteria dell’ospedale si è appena spenta una bimba di cinque mesi. Una «morte in culla», uno di quei decessi inspiegabili che colpiscono i lattanti. La madre, una ragazza di origine nigeriana, 22 anni, è straziata e urla per il dolore. Ha perso tutto. Tutto quello che le è più caro. Eppure, tra i più di coloro che stanno seduti nella «sala lista» — quella dove vengono consegnati i «numeretti» delle prenotazioni — non compare compassione. Sono circa una quindicina di persone, in gran parte sopra i cinquant’anni. Da loro si odono solo parole terribili. Appunto, tipo queste: «Tanto ne sfornano uno all’anno». E non c’è bisogno di aggiungere altro a ciò che ha riportato Sondriotoday.it, il sito che ha dato la notizia rimbalzata poi ovunque sul web. Ad ascoltare, casualmente, le frasi razziste è stata una giovanissima consigliera comunale di Sondrio, Francesca Gugiatti, lista civica di centrosinistra, 25 anni, maestra in una scuola primaria. «Non stavo bene, mia mamma mi ha accompagnato in ospedale» dice a Corriere.it Francesca, rimasta in astanteria sin verso le 16 del pomeriggio. La sua è dunque una testimonianza in presa diretta, raccolta mandando a memoria vocabolo dopo vocabolo dopo che nella sala d’aspetto hanno cominciato ad udirsi quelle grida «disperate intervallate da singhiozzi» provenienti dall’adiacente pronto soccorso. Saranno circa le 11 e ancora non si è capito quale dramma si sia consumato nell’ambulatorio vicino; ma poco prima in diversi hanno visto entrare la bimba infagottata tra le braccia della madre. Tanto basta per parlare — appunto — di «riti tribali», «satanismo», «scimmie». Chi dice di «tradizioni loro», chi aggiunge che «è pazza». «Mia madre interviene sottovoce — prosegue Francesca — cercando di far capire che non sappiamo niente di quanto possa essere successo a questa donna». Ma il vociare «continua imperterrito. Giudizi, parole poco appropriate, tanta cattiveria». Verso mezzogiorno, seppure in via ufficiosa, «si viene a sapere della morte della neonata». Ed ecco il commento di un uomo sulla sessantina: «Tanto ne sfornano uno all’anno...». A quella parole la madre ottantenne che gli sta accanto sgrana gli occhi e lo riprende: «Ma cosa dici! Stiamo parlando di una bambina morta...». Alle 16 la consigliera, sino a quel momento in disparte e silenziosa, controlla il telefonino e apprende da «Sondriotoday.it» l’ufficializzazione del decesso. Si guarda attorno, comunica l’informazione a chi sta ancora nella «sala lista» e a quel punto «cade il gelo». Quando rincasa, Francesca riassume ciò che ha visto su Facebook e il suo post diventa virale. In serata partecipa all’assemblea cittadina delle «sardine» che si ritrovano in piazza Campello, nel centro storico del capoluogo valtellinese. Qui, dal palco, racconta nuovamente l’accaduto davanti a quattrocento persone. Che restano ammutolite. Delle cause che hanno portato al decesso della piccolina si sa poco. Una «morte bianca», forse. La certezza arriverà dall’esito dell’autopsia che si è tenuta ieri (martedì). La mamma era a casa quando si è accorta che la figlia stava male, respirando a fatica. La donna allora è scesa in strada chiedendo aiuto e incontrando un uomo — compassionevole — che si è fermato per accompagnarla in ospedale con l’auto. Quando sono arrivati al pronto soccorso dell’ospedale civile la bimba era in condizioni disperate. Poco dopo è arrivato anche il padre — un uomo con obbligo di firma per reati di droga — avvisato dalla compagna. I carabinieri erano già lì. Nessuno dei militari ha udito le frasi razziste, anche perché, dice Francesca, erano dentro al pronto soccorso, assai distanti dunque da quel parlare privo di compatimento. Alla notizia della morte della bimba, un ufficiale ha accusato un malore. Nemmeno medici e infermieri hanno udito alcunché, «tutti concentrati nel tentativo di rianimarla». Il direttore generale della Asst Valtellina Alto Lario Tommaso Saporito adesso scuote la testa. Mormora poche parole, queste: «Quando c’è di mezzo la morte la pietà deve prevalere su tutto».

Muore bimba di 5 mesi: “Chi se ne frega è una scimmia”. Angela Azzaro il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. “Tanto ne sfornano uno all’anno”, “scimmie”, “tradizione africana”, “rito tribale”, “rito satanico…”. Inizia così la discesa agli inferi in un pronto soccorso della provincia italiana. È sabato mattina, si entra, si fa il triage, si prende il numero e si aspetta. Forse si guarda anche un po’ il cellulare, si chatta, ci si lamenta delle lungaggini. Tutto sembra normale nell’ospedale di Sondrio, quando verso le 10.30 un grido e poi i singhiozzi interrompono l’attesa. È una madre che si dispera, sta vedendo la figlia di cinque mesi morire. Le sue urla, il suo dolore, non suscitano commozione ma dispetto, fastidio. Non fanno crollare le certezze sul senso della vita, non lasciano attoniti. Per lei tutto questo non si prova. Perché? È nigeriana. Le lacrime, le grida, per alcuni sono “riti tribali”, per altri sono “riti satanici”, per qualcun altro il dolore di quella madre, simile al dolore di qualsiasi altra madre, in qualsiasi parte del mondo, è invece la reazione tipica “della tradizione africana”. Per qualche ora, i medici, aiutati dalle forze dell’ordine, tentano di rianimare la bimba. Poi si devono arrendere. Non ce la fa. È morta. Le urla diventano strazianti. La giovane donna viene raggiunta dal marito. Ma anche in quel momento il cinismo, l’orrore non si fermano. La discesa agli inferi continua. E in quella sala di attesa, in cui l’umanità è per alcuni sospesa, è possibile pensare, dire, sentire frasi agghiaccianti. Come questa: “Tanto ne sfornano uno all’anno”. Lo dicono senza vergogna, senza sprofondare, senza timore, senza ritegno. La donna di origini nigeriane è molto giovane, ha 22 anni. È in casa quando si accorge che la bimba, nella culla, non respira. Corre in strada, chiede aiuto e un automobilista le presta soccorso portandola subito all’ospedale. Le chiamano “morti bianche”, morti inspiegabili che colpiscono i lattanti. Per essere certi si attende l’esito dell’autopsia disposta dalla Procura. Alle quattro del pomeriggio la fine della speranza è ufficiale: la bimba è morta. E a quel punto anche nella sala d’attesa cala il gelo. Se oggi possiamo scrivere e denunciare quello che è accaduto, è grazie a una testimone. Sono i testimoni che tramandano la Storia: chi ha visto, chi ha vissuto, chi ha il coraggio e la forza di raccontare. La testimone al pronto soccorso di Sondrio si chiama Francesca Gugiatti, è una giovanissima consigliera comunale, ha 25 anni ed è stata eletta con una lista civica di centrosinistra. Francesca fa parte del movimento delle Sardine e quando sabato sera è andata alla riunione cittadina del neo movimento ha raccontato. Il gelo è calato anche lì. Le Sardine sono nate anche per questo: contro l’indifferenza, contro l’odio per il diverso, contro una politica e una cultura indifferenti alle morti in mare. Francesca prende la parola, e ricostruisce quella terribile giornata che ha descritto anche in un post su Facebook che diventa virale. “Non stavo bene, mia mamma mi ha accompagnata in ospedale…”. È appena arrivata quando sente le urla, poi i primi insulti, l’indifferenza anche davanti al dolore, davanti a una bimba di appena cinque mesi che sta morendo: “Tanto ne sfornano uno all’anno”. La madre che è con lei si arrabbia, non sta zitta e ribatte: “Ma cosa dici! Stai parlando di una bambina morta”. Gli insulti arrivano da persone sulla sessantina, non da teppisti: sanno quello che dicono. Francesca è l’unica a sentire le loro offese, lo precisa la direzione sanitaria dell’ospedale che prende le distanze dall’episodio ma sottolinea come le frasi non possano essere né confermate né smentite. I carabinieri, intervenuti per aiutare la madre della piccola, sono dentro il pronto soccorso. Uno di loro, un maggiore, quando non c’è più speranza ha un malore. I medici neanche hanno sentito, né gli infermieri: erano impegnati a tentare di salvare la bimba. Questa volta in quel pronto soccorso accade qualcosa: l’orrore trova un argine nella parola, in chi denuncia, in quell’Italia rappresentata anche dai medici e dalle forze dell’ordine che non ci stanno ad arrendersi alla barbarie. La testimonianza di Francesca, anche tramite la condivisione del post, fa il giro d’Italia, scuote le coscienze. È una scena troppo straziante, troppo tutto, per stare indifferenti, per non dire basta. La politica prende posizione contro l’episodio di razzismo. Dal Pd a Italia viva, da Forza Italia a Leu. Anche Giorgia Meloni interviene per condannare l’episodio: “Da madre – scrive la leader di Fratelli d’Italia – non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce”. Tra i primi ad intervenire Matteo Renzi: “Quella donna merita un abbraccio, non il disprezzo razzista”. Nel pronto soccorso di Sondrio si sono confrontate due Italie: l’Italia dell’odio per il diverso, del razzismo. L’Italia che, dopo anni e anni di campagne, non rispetta più la vita umana se non ha il suo stesso colore. Dall’altra c’è l’Italia che invece non rinuncia a restare umana: la sardina Francesca, il signore che offre il primo soccorso, i carabinieri, i medici, gli infermieri. Non si sono lasciati vincere dall’egoismo, ma hanno reagito, hanno provato pietà e dolore, per quella madre straziata che secondo alcuni ha un’unica imperdonabile “colpa”: avere la pelle diversa dalla nostra. Ps: Sul web si scatena l’attacco alla testimonianza di Francesca. “È una sardina: si sarebbe inventata tutto, non ci sono altri testimoni”. Lei ribatte che ci sono altre persone che hanno assistito e si sono indignate. Nessuno la smentisce…

Insulti razzisti a madre che perde figlia, la denuncia della sardina e la lettera del sindaco leghista. Il Riformista il 18 Dicembre 2019. E’ stata la consigliera comunale di Sondrio, Francesca Gugiatti, 25enne maestra di scuola primaria, a raccontare i commenti vergognosi e razzisti delle persone presenti sabato scorso al pronto soccorso mentre la giovane mamma nigeriana, 22 anni, si disperava per la morte della figlia di appena cinque mesi. Lo ha fatto dal palco dove stesso quella sera si è tenuta la prima manifestazione delle sardine di Sondrio. Francesca ha raccontato quelle terribili parole che è stata costretta ad ascoltare mentre le grida della donna andavano avanti. “Rito tribale“, “rito satanico”, “tradizione africana“, etichettando “scimmia” la giovane madre. La piccola di 5 mesi è vittima probabilmente della cosiddetta “morte di culla“. La 22enne nigeriana si è accorta che la piccola non respirava bene ed è arrivata al pronto soccorso chiedendo aiuto ai medici. Il personale sanitario ha preso in cura la piccola ma, nonostante diversi tentativi di rianimazione, non c’è stato nulla da fare.

L’OSPEDALE SI CHIAMA FUORI – Il racconto di Francesca è stato ripreso prima da Sondrio Today, che ha lanciato la notizia, poi dal gruppo Facebook “Sardine Provincia di Sondrio”, diventando virale negli ultimi giorni nonostante qualcuno (puntualmente smentito) sostenesse che si trattasse di una fake news. “Tribali siete voi, come si fa a vomitare odio su una mamma che ha appena perso la figlia” sbottano più utenti. Sulla vicenda è intervenuta la direzione sanitaria dell’ospedale di Sondrio spiegando che “le frasi riportate da Francesca non possono essere né confermate, né smentite. Il personale in servizio non le ha assolutamente sentite. E’ certo, invece che l’assistenza e la cura nei confronti della famiglia e della loro figlioletta sono state massime”.

LA LETTERA DEL SINDACO LEGHISTA – Anche il sindaco di Sondrio, il leghista Marco Scaramellini, in una lettera inviata a Sondrio Today ha ricordato la tragedia: “La morte di una piccola bambina ed il dolore immenso della sua giovane mamma, hanno profondamente scosso la nostra Comunità. A nome di tutta la cittadinanza e con la condivisione degli ex Sindaci Bianca Bianchini, Alberto Frizziero e Alcide Molteni, porgo le più sentite condoglianze alla giovane mamma ed alla sua famiglia, colpiti da una tragedia così grande. Sicuro che la Comunità sondriese saprà far sentire la propria vicinanza ad una famiglia così duramente colpita, auspico una partecipazione al dolore composta e rispettosa, così come è sempre avvenuto in occasioni simili. Di fronte ad una mamma che perde la propria figlia, non resta che stringersi idealmente attorno a lei, in silenzio e in meditazione”.

A LAMENTARSI 15 PERSONE – “Infastiditi dalle urla disperate di una madre che ha appena perso la propria bambina di 5 mesi, hanno cominciato a lamentarsi, a sminuire quel dolore straziante. Nella sala d’aspetto dell’ospedale di Sondrio, circa quindici persone hanno dato vita a un vero festival dell’orrore: qualcuno ha parlato di ‘tradizione africana’, altri di ‘rito tribale’ o ‘rito satanico’, qualcun’altra ha definito la madre devastata dal dolore una ‘scimmia’, per concludere con un uomo che ha sentenziato ‘tanto ne sfornano uno all’anno’. Parole di un cinismo spaventoso. Che fanno raggelare il sangue. Che feriscono nel profondo, non solo quella donna a cui il destino ha appena strappato la figlia, ma tutte le persone perbene. Ma come si fa a essere così cattivi? Come si fa a infierire davanti al dolore più grande?”. Lo scrive su Facebook Anna Ascani, vice ministra all’Istruzione. “Il racconto di Francesca Gugiatti, giovane maestra in una scuola primaria- aggiunge-, fa davvero accapponare la pelle. Quelle parole intrise di odio razziale, di cinismo, di totale mancanza di empatia, ci descrivono un’umanità smarrita. Mi chiedo: se quelle urla disperate fossero state di una donna italiana, la reazione sarebbe stata la stessa? Non ci si vergogna più di essere razzisti. Anzi, lo si vuole esternare. Lo si vuole far sapere. Ci si vanta. Questo fa paura. Questo è il male del nostro tempo che dobbiamo combattere con tutta la nostra forza e determinazione. Non ci voltiamo dall’altra parte. Ribelliamoci a tanto cinismo. Restiamo umani! Voglio esprimere la mia solidarietà e vicinanza totale a questa donna che ha perduto la figlia, e ringraziare chi, a differenza di altri, le è stata vicino. Non ci rassegniamo”.

CONDANNE BIPARTISAN – Da Giorgia Meloni a Matteo Renzi, passando per l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Tutti hanno condannato le frasi orribili pronunciate sabato scorso all’interno del pronto soccorso dell’ospedale di Sondrio. “Epiteti e appellativi di quel disgustoso repertorio di un paese che sta perdendo di vista i minimi principi di umanità e pietà. Una vicenda che fa correre i brividi sulla schiena. Pietà l’e morta a Sondrio, ieri” scrive Pisapia. La leader di Fratelli d’Italia aggiunge: “A Sondrio donna nigeriana derisa in ospedale perché urlava per la morte della figlia di 5 mesi. Da madre non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce che si possa provare. Che schifo”.  “Una madre nigeriana urla straziata dalla morte della figlia. In risposta riceve insulti razzisti. Spero che riscopriamo il senso della parola Vergogna. Un abbraccio alla mamma. E un pensiero a chi va avanti dopo la perdita di un figlio” commenta Matteo Renzi, capo politico di Italia Viva.

Sondrio, insulti in ospedale a una donna nigeriana che ha perso la figlia. La viceministra Ascani: "Ora ribelliamoci". La bambina aveva cinque mesi, alle urla di disperazione della madre alcuni utenti hanno risposto con gli sfottò. Meloni (Fdi): "Che infami". M5S: "Contribuiamo alle spese per i funerali". La Repubblica il 18 dicembre 2019. Una mamma nigeriana ha perso la sua bambina di cinque mesi. Quando i medici all'Ospedale civile di Sondrio le hanno detto che per sua figlia non c’era più niente da fare, ha reagito con la prevedibile disperazione di una madre colpita dalla tragedia più grande. Questo però ha infastidito una quindicina di utenti dello stesso ospedale che hanno iniziato a lamentarsi e poi hanno offeso ripetutamente quella povera donna. A raccontarlo e condividerlo sui social network è Francesca Gugiatti, maestra elementare e consigliera comunale nel capoluogo della Valtellina. "Qualcuno ha parlato di tradizione africana, altri di rito tribale o rito satanico, qualcun'altra ha definito la madre devastata dal dolore una scimmia, per concludere con un uomo che ha sentenziato 'tanto ne sfornano uno all'anno'. Parole di un cinismo spaventoso. Che fanno raggelare il sangue. Che feriscono nel profondo, non solo quella donna a cui il destino ha appena strappato la figlia, ma tutte le persone perbene. Ma come si fa a essere così cattivi? come si fa a infierire davanti al dolore più grande?". Questo racconto, scrive su Facebook la viceministra dell’Istruzione Anna Ascani fa davvero accapponare la pelle. Quelle parole intrise di odio razziale, di cinismo, di totale mancanza di empatia, ci descrivono un'umanità smarrita. Mi chiedo: se quelle urla disperate fossero state di una donna italiana, la reazione sarebbe stata la stessa? Non ci si vergogna più di essere razzisti. Anzi, lo si vuole esternare. Lo si vuole far sapere. Ci si vanta. Questo fa paura. Questo è il male del nostro tempo che dobbiamo combattere con tutta la nostra forza e determinazione. Non ci voltiamo dall'altra parte. Ribelliamoci a tanto cinismo. Restiamo umani! voglio esprimere la mia solidarietà e vicinanza totale a questa donna che ha perduto la figlia, e ringraziare chi, a differenza di altri, le è stata vicino. Non ci rassegniamo". Sul caso interviene anche la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. "Da madre – scrive su Facebook - non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce che un essere umano possa provare. Non ho parole, che schifo". "La società civile si sta trasformando in qualcosa di mostruoso. Esseri non umani che hanno oltraggiato con viscide parole e incomprensibili rancori culturali la morte di una bambina di soli cinque mesi". E’ il commento del gruppo 5 Stelle alla Regione Lombardia. "E' un momento di grande tristezza - dice Raffaele Erba, consigliere M5S -. Questo clima inumano e razzista va stigmatizzato con tutte le forze. Vorremmo metterci a disposizione della famiglia e chiedere di contattarci per offrire un contributo per le spese funerarie a testimonianza che il nostro è e sarà un Paese civile e solidale. Inoltre chiediamo che Regione Lombardia decida finalmente di investire in politiche di inclusione, formazione a partire dalle scuole e campagne di sensibilizzazione che abbiano effetti concreti".

Da open.online il 18 Dicembre 2019. «Dopo aver saputo della morte della bambina di pochi mesi una persona presente ha detto: “Tanto ne sfornano uno all’anno, non è un problema”», racconta la testimone a Open. L’eco della vicenda di Sondrio raccontata da Open si è fatta sempre più ampia, arrivando a coinvolgere anche il mondo politico, con prese di posizione doverosamente dure da parte di alcuni leader. Come sempre avviene in questi casi, tra i commenti sui social c’è anche chi mette in discussione il racconto. Siamo allora andati a ascoltare chi era presente in quel pronto soccorso di Sondrio.

Cos’è successo quella mattina in pronto soccorso?

«Mi trovavo al pronto soccorso, accompagnata da mia madre, perché non mi sentivo bene. Erano circa le 10.30 del mattino. A un tratto si sono iniziate a sentire delle urla nella zona delle sale visita. Il timbro di voce era quello di una donna».

La sala d’attesa è però divisa dalle sale di visita, è corretto?

«Sì, dalla sala d’attesa non si vedeva molto, si sentivano solo le urla. Alcuni signori si sono messi a spiare attraverso i vetri delle porte e hanno visto che si trattava di una signora e di altre persone con lei. E da quel momento sono iniziati i commenti».

Cosa dicevano?

«Erano commenti molto pesanti a sfondo razzista. E purtroppo non erano solo un paio di persone a farli, ma quasi l’intera sala in cui si trovavano circa 15 persone, tra pazienti e accompagnatori. È stato detto che stava facendo “riti satanici”, “le sue tradizioni”, che era pazza. Ero preoccupata dalla situazione perché non si capiva cosa stesse succedendo, si sentivano solo urla».

Il personale medico-sanitario ha avuto modo di intervenire?

«No, perché nella sala d’attesa non c’era nessuno, solo le operatrici che chiamavano i numeri, ma erano distanti dalle persone che facevano le esternazioni razziste».

E poi cos’è successo?

«Poi le urla si sono interrotte. Io sono entrata, son stata visitata e poi in attesa dei risultati è emerso quello che era successo. Una persona presente ha detto: “Tanto ne sfornano uno all’anno, non è una tragedia”, mentre altri, che precedentemente avevano insultato la madre, si son zittiti. Cosa si può dire quando si viene a sapere della morte di una bambina di pochi mesi?».

Ci sono altri testimoni?

«Ho condiviso l’accaduto in un post su Facebook: inizialmente il post era pubblico, poi l’ho impostato come privato, quindi non è leggibile se non ai miei amici».

«Sono stata contattata da un’altra ragazza, che era stata accompagnata da un’amica, che si trovava in pronto soccorso durante l’accaduto e mi ha ringraziata per aver raccontato pubblicamente l’episodio. Anche lei era rimasta allibita e amareggiata da quanto successo».

Giorgia Meloni, insulti a sinistra. Difende la mamma nigeriana per l'orrore di Sondrio e la massacrano. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 19 Dicembre 2019. La tragedia della giovane mamma nigeriana che ha perso la figlioletta di appena cinque mesi pochi minuti dopo essere giunta al pronto soccorso di Sondrio e che ha dovuto subire, oltre alla più terribile delle notizie, anche miseri insulti razzisti ha suscitato lo sdegno di tutta l' opinione pubblica e, ovviamente, di tutte le forze politiche. Assai sensibile al tema della tutela della maternità e dei minori, Giorgia Meloni - dopo che la notizia è diventata di dominio pubblico grazie alla denuncia di Francesca Gugiatti, consigliere comunale di centrosinistra presente sul posto - è intervenuta con un post durissimo nei confronti di chi ha avuto l' ardire di apostrofare, si dice perché disturbato dal chiasso, le urla di disperazione della signora con frasi del genere: «Fatela tacere, scimmia», «Tanto ne sfornano uno all'anno». «Da madre - questa la replica sui social della leader di Fratelli d' Italia - non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce che un essere umano possa provare. Non ho parole, che schifo». Per Giorgia, evidentemente, il fatto si commentava da sé ma richiedeva, per la sua gravità e il rilievo, una condanna pubblica. Una presa di posizione "senza se e senza ma" che ha trovato subito l' approvazione di Carlo Calenda il quale, qualche ora prima, aveva invitato proprio i leader sovranisti ad intervenire sul fatto. «Chapeau. Brava e netta», ha affermato il fondatore di Azione il quale, però, ha dovuto far fronte a una grottesca polemica sul suo profilo Twitter da parte dei follower. «Fosse anche coerente con il suo messaggio politico, sarebbe bellissimo», ha affermato una lettrice riferendosi alla Meloni. «Le battaglie si vincono un metro alla volta - questa la controreplica di Calenda -. La Meloni ha condannato senza se e senza ma. Questa volta ha fatto la cosa giusta. Cerchiamo di riconoscerlo». Gli attacchi non finiscono qui. «Con questo Calenda ha messo l'ultimo chiodo alla sua possibile appartenenza alla sinistra - ha scritto un altro utente -. Appoggiando la Meloni che parla di "derisione" invece che di razzismo. Vai Carletto, insegna agli angeli cos'è il cerchiobottismo della Dc». Anche qui non si è fatta attendere la risposta a tono dell' europarlamentare: «Posso spiegare a te cos' è la stupidaggine ideologica. Ho chiesto ieri che Salvini e Meloni condannassero un episodio orrendo. La Meloni lo ha fatto. Giusto riconoscerlo. Non mi trascinerai nel "tanto peggio, tanto meglio". Non è sinistra, è semplice idiozia che avvelena il paese».

Meloni difende la mamma nigeriana insultata. Calenda si complimenta e viene processato. Il Secolo d'Italia mercoledì 18 dicembre 2019. Vietato riconoscere quando l’avversario ha ragione. Potrebbe costare caro. “Chapeau. Brava e netta”. Carlo Calenda su Twitter osa complimentarsi con Giorgia Meloni. Motivo? Il commento coraggioso sugli  insulti razzisti alla donna nigeriana dopo aver perso la figlioletta  di appena 5 mesi. «Da madre non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame. Insultare una donna straziata dal dolore più atroce che si possa provare. Non ho parole, che schifo». Così su Facebook la leader di Fratelli d’Italia alla notizia di quegli epiteti rivolti alla donna disperata: “Mettetela a tacere, quella scimmia”. Come dare torto alla Meloni? Eppure il fondatore di Azioneviene criticato duramente dai suoi followers su Twitter. Ma Calenda non ci sta e ribatte colpo su colpo. Sempre via social, ieri, l’europarlamentare aveva invocato un intervento della Meloni e di Salvini. «Quello che è successo ieri a Sondrio è vergognoso. Ora io credo sia giusto chiedere a Matteo Salvini e Giorgia Meloni di prendere una posizione su quanto avvenuto», aveva scritto. Una volta registrata la dura condanna della leader di FdI, Calenda si complimenta. Ma i suoi beniamini non glielo perdonano.

Il processo sui social al fondatore di Azione. «Fosse anche coerente con il suo messaggio politico, sarebbe bellissimo», scrive Ylenia Acquaviti a Calenda. «Le battaglie si vincono un metro alla volta. La Meloni ha condannato senza se e senza ma. Questa volta ha fatto la cosa giusta. Cerchiamo di riconoscerlo semplicemente”, è la risposta dell’europarlamentare. Più duro CaneDuca che scrive «Tutto becerume da antifascisti militanti. Onorevole scusi ma dovrebbe prendere le distanze da questi commenti vergognosi». Ancora una volta Calenda rilancia. «Ho già risposto. La Meloni ha fatto la cosa giusta. Altri commenti sono a mio avviso in questo caso del tutto sbagliati». E ancora: «Con questo Calenda ha messo l’ultimo chiodo alla sua possibile appartenenza alla sinistra. Appoggiando la Meloni che parla di derisione invece che di razzismo. Vai Carletto, insegna agli angeli cos’è il cerchiobottismo della Dc», scrive Matteo Sciutteri. Immediata la risposta del leader di Azione: «Posso spiegare a te cos’è la stupidaggine ideologica. Ho chiesto ieri che Salvini e Meloni condannassero un episodio orrendo. La Meloni lo ha fatto. Giusto riconoscerlo. Non mi trascinerai nel “tanto peggio, tanto meglio”. Non è sinistra, è semplice idiozia che avvelena il paese».

Meloni e il tweet per la mamma nigeriana: «Sul razzismo niente ambiguità, anche dal mio popolo». Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Paola di Caro. La leader di FdI e il tweet sulla mamma nigeriana: «Non ci devono essere dubbi. Imbecille chi contesta il mio diritto a esprimermi su questo argomento». Non ci ha pensato su molto. Anzi, l’ha fatto «di getto, per un bisogno naturale». Quando ha saputo della brutta, orribile storia, ha buttato giù un tweet: «A Sondrio donna nigeriana derisa in ospedale perché urlava per la morte della figlia di 5 mesi. Da madre non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce che si possa provare. Che schifo», ha scritto Giorgia Meloni. 24 ore dopo, centinaia di commenti e retweet, e altre migliaia di “mi piace” testimoniano che l’uscita è piaciuta a tanti. Ma anche che ha diviso e fatto discutere la rete. C’è chi non si accontenta: «La tua solidarietà e solo da madre? Troppo facile così». Chi non la ritiene legittimata, in quanto politica di destra, per intervenire su un tema così: «Siete voi con le vostre politiche fasciste a creare questo clima», le hanno replicato. C’è chi la difende, come Roberto Burioni, da diversa fede politica. Chi la attacca. Lei si scandalizza: «Quelli che contestano il mio diritto di esprimermi su un tema del genere sono degli imbecilli. Non ho mai alimentato un clima di razzismo, sono pronta a qualsiasi confronto con chiunque su questo. Non troveranno mai una mia parola contraria ai diritti e al rispetto delle persone. E se ho fatto quel post è perché non voglio ci sia alcuna ambiguità sul razzismo, nemmeno per il mio popolo e per chi mi segue. Per me il rispetto della persona, degli individui, delle identità è totale». Poi c’è la politica. «Chi alimenta il razzismo - attacca la leader di FdI - è una sinistra che con demagogia irresponsabile parla di accoglienza indiscriminata scaricando poi il peso della gestione, dell’integrazione, della sostenibilità degli ingressi sui più poveri, sulle periferie, scatenando davvero fenomeni di intolleranza». E ancora: «Le battaglie contro il neo-colonialismo, per la difesa di ragazze nigeriane portate qui senza controllo e poi lasciate in mano ai racket della prostituzione le ho fatte io, non altri. Razzista è chi non si pone questi temi come cruciali». Per questo «trovatemi una parola sbagliata da me pronunciata, e poi ne riparliamo. Con una società fuori controllo, che arriva - se provato - ad agire in maniera vergognosa contro una donna che perde in figlio, io non voglio avere nulla a che fare».

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 20 dicembre 2019. Giorgia Meloni è di destra. Come tale, in una Repubblica fondata sulle curve, è legittimata a dire solo cose che ci si aspetta da una di destra. Così facendo, ottiene il plauso incondizionato dei seguaci e il rispetto arcigno dei rivali. Ma appena solidarizza con la madre nigeriana sbertucciata in ospedale da alcuni pazienti, perché secondo loro piangeva in modo scomposto la morte della sua bambina, raccoglie le critiche di entrambe le fazioni. Quelli di destra la accusano di avere voluto compiacere gli avversari. Quelli di sinistra di razzolare meglio di come predica. E un po' tutti di essersi espressa «da madre», come se provare empatia per un' altra donna che ha perso il figlio rappresentasse un cedimento sentimentale o, peggio, un alibi «buonista» per giustificare la propria incoerenza. Il desiderio di semplificazione insito negli esseri umani e la tendenza del web a privilegiare i settarismi sembrano inchiodare i protagonisti del dibattito pubblico a una casella prefissata. Quando uno di loro, in preda a un afflato emotivo, esce dallo schema assegnatogli dal pregiudizio che lo riguarda, provoca negli spettatori una sensazione di spaesamento, come il venire meno di una certezza. Dai politici e dagli editorialisti si pretende che siano sempre uguali a sé stessi. La loro prevedibilità è rassicurante, specie per chi li detesta. Se domani Zingaretti dicesse che non ne può più delle tasse e Salvini che ha un amico in qualche Ong, i primi a sentirsi traditi sarebbero quelli che non li votano.

Il razzismo immaginario all'Ospedale di Sondrio. Nigeriana insultata mentre moriva la figlia, era la notizia. Peccato che medici, ospedale e Carabinieri smentiscano. Andrea Soglio il 20 dicembre 2019 su Panorama. Ormai la tifoseria politica, le sardine, il sovranismo, il "clima d'odio", ci hanno del tutto tolto ogni briciolo di lucidità nel valutare le cose, gli episodi, le parole. Così si rischia di arrivare troppo in fretta a conclusioni assurde su cose mai successe come per il presunto caso di razzismo avvenuto (o che sarebbe avvenuto) all'ospedale di Sondrio. Andiamo con ordine e per una volta ricostruiamo i fatti con tutti gli elementi che abbiamo a disposizione.

- Sabato scorso, al mattino, al Pronto Soccorso dell'Ospedale di Sondrio si presenta una donna, nigeriana, di 22 anni. La sua bimba, neonata, non respira. I medici fanno il possibile ma non riescono a salvarla: morte bianca. Il reazione della madre è straziante: grida tra i corridoi, urla, si dimena. Tutto normale per quello che è il dolore più grande possibile per una madre: la perdita di un figlio.

- è a questo punto che, Francesca Gugiatti, consigliere comunale di Sondrio per una lista di sinistra ed assessore in un comune vicino, racconta di aver sentito insulti razzisti verso la donna africana: "Fate tacere quella scimmia", "tanto quelli come lei ne sfornano uno all'anno". Altri avrebbero parlato di "riti voodoo", ed, in ultimo, avrebbero dato alla giovane madre della "scimmia".

- Francesca Gugiatti scrive su fb quanto (sarebbe) accaduto. Il suo racconto in pochi minuti fa il giro dei conoscenti, arriva alle Sardine, entra in circolo e si diffonde in tutta Italia. Scatta la campagna di indignazione: politici, giornali, opinionisti condannano l'accaduto. Persino Giorgia Meloni deve commentare. prendendo le distanze da questo (presunto) caso di razzismo.

- il giorno dopo l'Ospedale smentisce: "Stando alle testimonianze dei medici e degli infermieri presenti al pronto Soccorso non ci sarebbe stato alcun commento, grida, insulto razzista nei confronti della donna nigeriana". Ma c'è di più.

- un Colonnello dei Carabinieri era anche lui presente in quei momenti all'Ospedale, al Pronto Soccorso. "Non 'è stato nessun commento e nessun insulto razzista - la sua testimonianza -. Al momento erano presenti solo la madre della bambina, il padre, una parente, il personale medico ed i Carabinieri. Nessuno ha gridato frasi razziste all'indirizzo della donna e la donna non può aver reagito a questi insulti perché non c'è stata interazione tra chi aspettava di essere curato e lei".

- la stessa donna nigeriana, intervistata ieri, dice di non aver sentito nulla.

- la donna è arrivata in ospedale grazie ad un cittadino di Sondrio che vedendola disperata per la figlia che non respirava, l'ha caricata in macchina e portata al Pronto Soccorso senza esitazione.

- Francesca Gugiatti ha cancellato il suo primo post-denuncia su fb sostituendolo con uno dai toni molto più morbidi e smussati.

Questi sono i fatti, dall'inizio alla fine. Cosa sia successo davvero è difficile stabilirlo. Di sicuro questo clima razzista, questo festival dell'orrore di cui molti hanno parlato, non c'è stato. Sondrio non è un covo di brutti razzisti e non c'è alcuna caccia all'africano.

Ps. in realtà c'è ancora una cosa da dire: il papà della bambina morta è un uomo conosciuto dalle forze dell'ordine. Si tratta di un ivoriano arrestato tempo fa in una maxi inchiesta sul traffico e spaccio di droga. Ora ha l'obbligo di firma. Nessuno lo ha insultato, anzi, gli è stata fornita come giusto che fosse tutta l'assistenza possibile dai medici, dagli infermieri, dai Carabinieri. Normale umanità e buon senso. Altro che razzismo, immaginario.

Pure i carabinieri smentiscono: "Nessun insulto alla madre nigeriana". Dopo la denuncia di una sardina, l'Arma sconfessa la ricostruzione di quanto sarebbe accaduto all'ospedale di Sondrio. Pina Francone, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Che cosa è successo davvero all'interno dell'ospedale di Sondrio? Qui, sabato 14 dicembre una madre nigeriana ha drammaticamente perso la figlia di cinque mesi. Un dolore straziante, da rispettare. La 22enne, una volta appresa la notizia del decesso della sua piccolina, si è lasciata andare al pianto e a grida di dolore. È qui che qualcuno dei presenti – magari non a conoscenza della tragedia appena verificatasi al pronto soccorso del nosocomio – si sarebbe lasciato scappare frasi irrispettosi e volgari nei confronti della giovane donna di colore. Poco dopo, la notizia di quel drammatico decesso e di quegli insulti razzisti – "Fate tacere quella scimmia" – inizia a circolare sui social network, venendo portata alla ribalta dalla "sardina" Francesca Gugiatti, consigliera comunale per il centrosinistra in città. Dunque, il caso è montato come una valanga, diventando questione nazionale. Giorgia Meloni, per esempio, una volta appresa la notizia l'ha così duramente commentata sui propri canali social: "'Fatela tacere, scimmia. Tanto ne sfornano uno all'anno'. A Sondrio una donna nigeriana derisa in ospedale perché urlava per la morte della figlia di soli cinque mesi. Da madre non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce che un essere umano possa provare. Non ho parole, che schifo". Molti altri leader ed esponenti della sinistra italiana hanno commentato il fatto, parlando di razzismo, xenofobia e quant'altro. C’è però qualcosa che non torna in tutta questa vicenda. In primis, il fatto che la direzione sanitaria dell'ospedale di Sondrio abbia spiegato come "le frasi riportate non possono essere né confermate, né smentite", perché nessun medico né infermiere le ha sentite. In secundis, perché anche i carabinieri non hanno sentito insulti. Infatti, come riportato da La Verità, la versione ufficiale dell'Arma è la seguente: "Non c'è stato nessun commento e nessun insulto razzista, perché presenti erano solo la madre, il marito (arrestato per droga e in attesa del processo, ndr), il personale medico, una parente e i carabinieri. Nessuno ha gridato frasi razziste all'indirizzo della donna e la donna non può aver reagito a questi insulti perché non c' è stata interazione tra chi aspettava di essere curato e lei". Insomma, il rischio è che si si trattato di un caso di razzismo immaginario, montato ad arte, e sulla pelle di una vita di cinque mesi spentasi drammaticamente troppo presto.

Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 19 dicembre 2019. «Non sono una scimmia. Sono una mamma. Se mentre mia figlia moriva qualcuno mi ha insultata perché sono nata in Nigeria, non ho nulla da dire. Sono loro casomai a dovermi spiegare come si fa a trasformarsi in persone così». La madre della piccola Mistura sussurra. Chiusa nella camera spoglia che condivide con la sorella e una cugina, cerca di sopravvivere al dolore «che ora anche a me toglie il respiro ». Con lei c'è il compagno, immigrato dalla Costa d' Avorio. Quando viene a Sondrio, come l' altro giorno, dorme anche lui in questa casa-stanza. «Mistura era il regalo del cielo per essere riuscita a scappare dalla fame - dice al telefono in un inglese essenziale la signora Alimi, 22 anni - la speranza di una vita più umana. L' avevo sognata per tanto tempo». Sabato, nel pronto soccorso dell' ospedale cittadino, non ha sentito le frasi razziste che hanno accompagnato il suo calvario. Le ha apprese dopo, come tutti. La sua dolcezza e la sofferenza che ora la morde, lo stupore davanti a insulti incomprensibili, le impediscono di rispondere all' odio con il rancore. Vuole invece ringraziare Francesca Gugiatti, 24 anni, studentessa e maestra di Sondrio, consigliera comunale di una lista civica di centrosinistra. «Una ragazza coraggiosa e una donna come me - dice Alimi - L' unica ad essersi sentita umiliata e offesa dalla mancanza di pietà. Le auguro di diventare una madre più fortunata di me». Questa grandezza non cancella fatti che fanno vergognare. La piccola Mistura, venuta al mondo il 27 luglio, sabato mattina ha improvvisamente smesso di respirare. Dormiva nel lettone con mamma e papà. «La madre si è accorta - dice il colonnello dei carabinieri Rocco Taurasi - ed è corsa in strada a chiedere aiuto. La famiglia non ha l'auto: la piccola, di quasi 5 mesi, è stata avvolta in una coperta». Un passante si è fermato e ha fatto una cosa normale: mamma e figlia, grazie a lui, in pochi minuti sono arrivate in ospedale. Nel pronto soccorso, la tragedia. Medici e infermieri hanno fatto più del massimo, ma Mistura non ce l' ha fatta. Per la signora Alimi è stato come impazzire. «Gridava disperata - dice uno dei medici intervenuti - non stava in piedi e batteva la testa per terra. Una scena straziante, ha commosso tutti. Così le abbiamo portato il corpo della figlia senza più vita: l' ha abbracciato e si è calmata ». In sala d' aspetto, percezione e reazioni sono state diverse. Tra i presenti, inconsapevoli di quanto succedeva nella zona urgenze, i primi commenti sono stati di sconcerto. A denunciarli, in serata e davanti alle sardine riunite in piazza, Francesca Gugiatti. Anche lei era in ospedale con la mamma Iaia. «Qualcuno parlava di riti voodoo - dice - di tradizioni sataniche e tribali. Hanno detto che quella donna era pazza e che andava portata in manicomio. Mi ha invaso la tristezza». Grazie ai social, il dramma è stato presto chiaro. «L' ho detto ed è sceso il gelo - dice Francesca - ma nessuno ha espresso compassione». A esplodere, l' esasperazione per lunga attesa: conseguenza delle cure sulla mamma e sulla figlia spirata. Poi, l' ignoranza e il razzismo di un uomo sulla sessantina. «Fate tacere quella scimmia - la richiesta shock - tanto quelle come lei ne sfornano uno all' anno. Per loro perdere un figlio è diverso ». Ancora una volta, tutti zitti. «Mi sono sembrati inaccettabili - dice Iaia - anche il silenzio e l' indifferenza. Non una parola di carità o di pietà, solo la fretta di risolvere il proprio problema». Più le solite conclusioni banali: «Passano davanti a tutti e nemmeno pagano». A dire perché Mistura è morta, l' autopsia. Nessun segno esterno di violenza. I medici ipotizzano la "morte bianca" che colpisce in culla, o un rigurgito. In ospedale, disperati, anche papà e zia della bambina. Nessuno ha sentito gli insulti. Poteva restare un ignoto caso di razzismo locale. Invece, grazie a Francesca Gugiatti, è diventato ciò che è: un inaccettabile rigurgito di dilagata xenofobia nazionale, condannata da tutte le forze politiche. «La nostra comunità - dice il sindaco di Sondrio Marco Scaramellini, della Lega - è colpita dalla tragedia e si stringe a questa mamma in rispettoso silenzio. Eventuali frasi di qualche imbecille non sono assolutamente condivisibili e non rappresentano il sentimento della gente di Sondrio». Ora il problema, per Procura e forze dell'Ordine, sono le prove di parole razziste che nessuno avrebbe pronunciato, se lo stesso macigno avesse schiacciato una mamma italiana. Medici, infermieri e parenti, all' interno del pronto soccorso, non potevano sentire. I carabinieri cercano altri testimoni tra i presenti in sala d' aspetto. Ieri pomeriggio Francesca Gugiatti è stata sentita in questura. Difficile, senza la prova di una chiara volontà di offendere, sostenere un' accusa di razzismo contro ignoti. Resta, per ora, la dignità di una madre offesa mentre la sua bambina se ne va.

Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 16 dicembre 2019. Decisione clamorosa a Vallecas. L’Albacete si è rifiutato di giocare il secondo tempo della partita di Segunda contro il Rayo Vallecano per protestare contro i cori rivolti nel primo tempo al proprio giocatore, l’ucraino Roman Zozulya. È una storia politica che ha dei precedenti spiacevoli e che stasera ha portato alla sospensione della partita, cosa mai successa nel calcio spagnolo per dei cori discriminanti in arrivo dagli spalti. L’attaccante ucraino non ha mai nascosto le sue simpatie per l’estrema destra e quando a inizio 2017 fu preso in prestito dal Rayo Vallecano i tifosi della squadra del popolare quartiere madrileno di Vallecas s’indignarono e iniziarono a protestare con tanta forza che alla fine il Rayo rinunciò al giocatore che dovette tornare al Betis, dove però non poteva giocare per questioni di regolamento. Zozulya rimase fermo per qualche mese e poi tornò a giocare con l’Albacete.

IL CORO —  Stasera per la prima volta si è ripresentato a Vallecas e i tifosi del Rayo lo hanno accolto dandogli a più riprese del ‘puto nazi’, maledetto nazista. Al 33’ della gara l’arbitro Lopez Toca ha sospeso l’incontro per alcuni minuti con lo speaker che ha invitato i tifosi a sospendere il coro.

LA DECISIONE—   Nell’intervallo, con la gara ferma sullo 0-0 e l’Albacete in 10 per l’espulsione di Israfilov, i dirigenti della squadra ospite hanno deciso di non tornare in campo. È iniziata una lunga attesa con i tifosi del Rayo che cantavano "Era uno scherzo, Zozulya era uno scherzo", ironia che non ha rasserenato l’ambiente né cambiato le cose: dopo 40 minuti è arrivato l’annuncio, con la sospensione ufficiale della gara.

Da “il Giornale” il 14 dicembre 2019. Nel calcio dilettantistico e professionistico, gli episodi di razzismo sono in costante aumento da sei stagioni a questa parte. A tutti i livelli, dentro e fuori gli impianti sportivi. È quanto emerge dal report «Calciatori sotto tiro: focus razzismo stagione 2018/19» pubblicato dall' Aic e dedicato all' analisi degli episodi di razzismo ai danni di giocatori di ogni categoria. «Da anni si lanciano campagne, si propongono spot o percorsi formativi ma alla fine resta una sensazione enorme di impotenza - l'analisi amara di Damiano Tommasi, presidente dell' Assocalciatori -. Nei campionati giovanili sono purtroppo in aumento gli episodi di discriminazione e forse la riflessione si deve indirizzare proprio sulle nostre famiglie, oltre che alle istituzioni. L'impegno di Aic continua nella ricerca di un grimaldello che sia repressivo o formativo, regolamentare o mediatico ma che possa davvero far girare pagina ad un paese e ad uno sport che meritano altro tipo di visibilità». A livello professionistico sono stati i calciatori di Serie A, in particolare, ad essere destinatari di pesanti insulti razzisti ma anche di vere e proprie intimidazioni personali da parte dei «tifosi» avversari, atti che si esplicano quasi esclusivamente in gruppo, prevalentemente con lo «strumento» del coro offensivo. Tra i dilettanti, casi di razzismo in tutti i campionati, con significativi picchi in quelli di Prima, Seconda e Terza Categoria. È il Nord Italia l'area nella quale si registra il maggior numero di casi: sugli spalti o nelle zone di passaggio degli impianti sportivi (42%), ma anche sul campo da gioco (57%). Il vero allarme si registra, però, nei campionati giovanili, dove il numero degli episodi di razzismo «sul campo» risulta nettamente superiore alla media. A finire nel mirino di giovani colleghi italiani, e dei loro genitori o dirigenti, sono stati soprattutto calciatori di colore di squadre avversarie. A livello territoriale, infine, Roma (14%), Milano (9%), Padova e Torino (7%) sono le città nelle quali è stato registrato il maggior numero di episodi di razzismo «dentro gli stadi».

Mario Balotelli, l'accusa di Fabio Liverani: "Anch'io ho la pelle nera, ma...". Perché il razzismo non c'entra. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Con Mario Balotelli il razzismo e il colore della pelle non c'entrano. A sostenerlo è Fabio Liverani, tecnico del Lecce sconfitto sabato dal Brescia di SuperMario per 3-0. Al termine della gara, l'ex calciatore di Perugia, Lazio e Nazionale si sfoga con parole molto dure: "Io sono sui campi da vent'anni e credo che ognuno di noi ha la sua storia. Anch'io sono di pelle nera, ma non ho mai ricevuto un buu in nessuno stadio. Queste cose non si possono strumentalizzare. Io non porto rancore, esco dal campo e finisce lì. Ma ci vuole educazione". Poi il riferimento diretto a Balotelli: "Tutti hanno gli occhi per vedere che si può avere un comportamento diverso. In campo bisogna saper fare e bisogna saperci stare".

Razzismo, l'ex campione del mondo: “Siate equi e offendete tutti, non solo i neri!”. Le Iene l'01 gennaio 2020. Pier Davide Romani è stato il primo atleta di colore della nazionale italiana di pattinaggio. Ci racconta la sua storia, fatta di sport, soddisfazioni e anche qualche attacco sul colore della pelle, “ma era bullismo, non razzismo, c’è una bella differenza”. E ci parla della sua strategia, che parte dal deridere l'ignoranza. Pier Davide Romani ha 39 anni ed è stato “il primo atleta di colore della nazionale di pattinaggio”, ci racconta. “Il mio primo mondiale l’ho vinto nel 2002”. Cittadino italiano cresciuto a Bologna, Pier ci racconta la sua storia. “Sono nato in Etiopia, ad Addis Abeba. Sono scappato con la mia famiglia quando è scoppiata la guerra civile. Avevo quattro anni quando mi sono stabilito definitivamente in Italia. Eravamo dei rifugiati politici, per questo non è stato difficile avere la cittadinanza italiana. Oggi sarebbe sicuramente diverso”. Pier ci racconta di aver avuto la fortuna di nascere in una famiglia che in Etiopia era benestante. “Siamo potuti venire in aereo, ma una volta qui i miei sono ripartiti da zero. Per mia mamma non è stato facile passare da una condizione in cui era benestante a fare i lavori più umili, come l’operaia o la badante. Non l’ha vissuta molto bene e mi diceva sempre "ricordati che sei un nero in un paese di bianchi"”. Ma Pier non ha mai dato particolare peso a queste parole e forse per questo oggi vuole raccontarci una storia diversa, in cui non mancano i momenti difficili e le battute sul colore della pelle, ma una storia che comunque lui definisce “fortunata, di integrazione”. Un’integrazione in cui lo sport fa la sua parte. Pier ha mai subìto atti di razzismo durante la sua attività? “Negli sport poveri, e per poveri intendo quegli sport che non sono né calcio, né basket dove diventi milionario, c’è una cultura dello sport e del rispetto che è molto alta. Un atleta non può essere razzista”, sostiene Pier.  “Un atleta è meritocratico, sa che se deve vincere una gara deve farsi il culo. Quindi la mia risposta è no: non ho subito atti di razzismo nel pattinaggio. Semmai ho subìto del bullismo”. Quella tra razzismo e bullismo è una distinzione a cui Pier sembra tenere molto. “Dobbiamo differenziare la stupidità del razzismo inteso come ‘essere una razza superiore all’altra’, dal bullismo, che per me è la voglia di sottomettere una persona indipendentemente da un credo, che sia nano, obeso, gay o qualsiasi altra cosa. Essere esclusi dalla nazionale perché di colore è razzismo, offendere un nero dicendo negro è semplicemente la voglia di offendere aggrappandosi alla prima cosa che ci differenzia dagli altri”. A lui hanno mai fatto questo genere di offese? “Certo, da scimmia a mangia banane”. Come rispondeva? “Ho detto che le banane sono buone. È ovvio che se le persone pensano di offendere legandosi a questo e tu gli togli questa possibilità cosa gli rimane? La semplice ignoranza”. Per questo Pier non ha dubbi quando gli chiediamo come si combatte secondo lui il razzismo: “Deridendolo”. Cioè? “Se tu togli l‘arma del razzismo come offesa togli buona parte del razzismo. A chi viene offeso per il colore della sua pelle consiglio di rispondere con ironia”. Non si rischia di sminuire il problema in questo modo? “No”, risponde deciso. “È un discorso così culturale che non puoi neanche cambiarlo rispondendo in maniera seria. Se tu reagisci arrabbiandoti alimenti l’offesa. L’ignorante che hai davanti non sarai tu a renderlo intelligente o a sensibilizzarlo”. Torniamo al calcio: perché si sentono più spesso che negli altri sport episodi di razzismo? “Stiamo parlando dei tifosi, non degli sportivi. Il numero dei tifosi del calcio è talmente alto che comprende una fascia molto vasta tra persone sveglie e persone meno sveglie”. Questione di numeri quindi? “Non voglio generalizzare, però sono cose che accadono quando il livello intellettivo e culturale è molto basso”. Le cose miglioreranno, che sia nel calcio o nella società? “Secondo me no. Questo tipo di razzismo è legato all’ignoranza e secondo voi vivremo in un mondo dove non ci saranno più ignoranti?”. E Pier ci lascia con una ironica raccomandazione: “Siate equi: offendete tutti quelli che potete offendere e non solamente i neri!”. 

Insultò il maggiore Karim, condannato per razzismo sergente degli alpini È la prima volta. Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Un anno e sei mesi per le frasi ingiuriose contro il suo superiore, ufficiale di origini maghrebine. La difesa: incredibile. Il sergente lo detestava e faceva poco per mascherarlo: «Sto marocchino di m...», «pezzo di m... sto meschino», «non è degno di stare nell’esercito italiano». E avanti così con sfumature varie. Parlava del maggiore Karim Akalay Bensellam, suo superiore, primo e unico ufficiale italiano degli alpini di origini maghrebine. Per queste frasi, pronunciate secondo l’accusa alla presenza di altri militari in varie occasioni, il sergente Carmelo Lo Manto è stato condannato ieri dal Tribunale militare di Verona a un anno e sei mesi. Si è chiuso così il processo che ha visto il sergente imputato di un reato che mai contestato prima in Italia dai giudici con le stellette: razzismo. Più precisamente: «Diffamazione militare continuata pluriaggravata dalla discriminazione etnica». Condanna pesante, soprattutto se si considera che il pm aveva chiesto una pena decisamente più bassa, quattro mesi. I giudici sono dunque andati oltre, sorprendendo lo stesso legale di Bensellam, Massimiliano Strampelli: «Sono incredulo di fronte all’inusuale durezza della condanna. Si tratta di una pena altissima per un tribunale militare». Stupore naturalmente anche da parte della difesa del sergente: «La definirei incredibile, con 14 testimoni a favore che smentivano il maggiore e che non sono mai stati sentiti a processo. Chiaramente faremo appello». Va detto che diversi altri testimoni, commilitoni, hanno deposto contro il sergente. È il caso dell’alpina Elena Andreola: «Durante l’alzabandiera era consuetudine sentire il sergente insultarlo». E quello della sua collega di caserma Sara Barcaro: «Il sergente non si curava del fatto che molti ascoltavano». Nell’ultima udienza, quella di ieri, è stato sentito il caporal maggiore Luca Servili, testimone arrivato in piena zona cesarini e asso insperato dell’accusa. Servili ha parlato di omertà e di aver sentito parlar male del maggiore decine di volte. «Diceva che gliel’avrebbe fatta pagare». Fra i due non correva buon sangue. Anche Bensellam era finito sotto processo con l’accusa di aver aggredito il sergente. Il procedimento si era chiuso con un proscioglimento per «particolare tenuità del fatto». La condanna di oggi è per il maggiore una battaglia vinta. Ma la guerra, ha deciso il sergente, non è finita.

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì di Repubblica” il 30 dicembre 2019. Cosa spinge un gruppo di tifosi di Verona a festeggiare la squadra del cuore inneggiando in coro l' inspiegabile invocazione «Niente negri»? Ovvero, quale indicibile tabu si nasconde dietro a certe manifestazioni di razzismo? Una possibile risposta sta nel video e nella canzone che reclamizza il film di Checco Zalone, Immigrato, là dove il protagonista si ritrova appunto un "negro" (l' attore Maurizio Bousso), nel soggiorno di casa sua, «ma mia moglie non è spaventata / anzi sembra molto rilassata / e ritrovo quel suo sguardo malandrino / che faceva quando...». I puntini di sospensione preludono alla signora Zalone (Emanuela Fanelli) che balla strusciandosi davanti e dietro con l' immigrato. Fino all' eloquente visione di loro tre a letto: il "negro" sta in mezzo e intima a Checco di fare silenzio, donde la reazione terminale dell' italiano in posa mussoliniana sul balcone di casa; e qui si potrebbe ricordare il regio decreto legge emesso il 19 aprile 1937 dopo la conquista etiopica e il ritorno dell' Impero sui colli fatali di Roma, che puniva con la reclusione i rapporti "di indole coniugale" tra bianche e neri (viceversa, come s' intuisce da certe canzoncine semi-patriottiche, la tolleranza sembrava più ampia). Dopo di che, tornando all' attualità senza andare fuori tema, vale la pena di rivedersi un' altra clip, Trombo a facoltà, assai più grossolana e provocatoria ma di genuina produzione nera, nella quale il cantante e youtuber di origine ghanese Bello Figo con molta espressività si compiace per l' intensa vita sessuale cui è sottoposto in Italia. Ora, il video ha generato polemiche e denunce perché alcune scene sono girate all' Università di Pisa; ma francamente il sospetto è che l' indicibile violazione stia più che altro nel fatto che Bello Figo si accoppia con donne (in verità lui le chiama in modo più volgare) bianche, che assai lo apprezzerebbero. Il che non è nemmeno da escludere, in assoluto. In questo senso fa riflettere l' epifania televisiva di Mandy Jean Prince, fotomodello senegalese finito su un calendario e accolto in varie sotto-trasmissioni, siti e rotocalchi trash, ma destinati per lo più a un pubblico femminile quale Mandingo, Gigante d' ebano, Bronzo di Riace africano, Big bamboo... Prince, che pure ha capito l' andazzo, ci dà talmente dentro che presentandosi aggiunge alle generalità l' impegnativa misura "25 centimetri", con conseguente ovazione delle donne in sala e risposta di Bonolis: «Ma che siete indemoniate?». Ecco, sì, o forse no. Nel frattempo, in "niente negri" e altre graziose invocazioni ecco che i tifosi del Verona e altri maschi italiani, sempre più incerti sul primato sessuale, hanno scovato nel razzismo una brutta, buffa e illusoria medicina alle loro pene d' invidia.

Trento, niente casa popolare ai parenti di chi è stato in carcere. Giulia Merlo il 19 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Approvata la norma che “punisce” i familiari dei condannati. L’unica correzione accettata ha riguardato l’eliminazione dal novero dei reati quello di maltrattamenti in famiglia. Niente casa popolare per i parenti di chi ha e chi ha in prima persona una condanna penale alle spalle. La norma a prima firma del governatore leghista Maurizio Fugatti è stata approvata definitivamente dal consiglio provinciale di Trento, senza alcuna modifica – nonostante la dura opposizione delle minoranze che hanno fatto ostruzionismo in aula e anche di una parte della maggioranza – al disegno di legge provinciale 36/ 2019, che prevede “l’assenza da parte del richiedente e dei componenti del nucleo familiare, nei dieci anni precedenti la data di presentazione della domanda, di condanne definitive per i delitti non colposi per i quali la legge prevede la pena della reclusione non inferiore a cinque anni, nonché per i reati previsti dall’articolo 380, comma 2, del codice di procedura penale”. Il che comporta l’impossibilità di chiedere un alloggio popolare per chi è stato condannato per reati con pena edittale di almeno 5 anni, oltre che per reati come il furto aggravato, la rapina, tutti i reati che riguardano sostanze stupefacenti. Non solo, la stessa esclusione pesa anche su chi, da richiedente, ha un membro della famiglia condannato per uno di questi reati nei dieci anni precedenti alla domanda. Infine, la sopravvenienza di una condanna all’assegnatario o a uno dei suoi familiari provoca la revoca della casa popolare o, nel caso, il mancato rinnovo dell’assegnazione. L’unica correzione accettata ha riguardato l’eliminazione dal novero dei reati quello di maltrattamenti in famiglia: le inquiline Itea vittime di violenza non perderanno più la casa ( come da previsione iniziale) se denunciano il coniuge e questo viene condannato. La previsione normativa aveva immediatamente sollevato polemiche, soprattutto in merito alla sua potenziale incostituzionalità rispetto all’articolo 27 della Costituzione, sia in base al principio della personalità della responsabilità penale ( l’articolo farebbe ricadere su genitori, figli o coniugi gli effetti negativi di una condanna penale), che in base al terzo comma, che prevede la funzione riabilitativa della pena ( che verrebbe meno nel caso in cui, a condanna scontata, i suoi effetti continuassero a prodursi indirettamente sul cittadino che ha esaurito il suo debito con lo Stato, incidendo un diritto come quello alla casa). Dopo l’approvazione, tuttavia, lo stesso Fugatti ha annunciato che sono previste «una serie di deroghe» caso per caso, «di più, rinviamo a un regolamento di Giunta, che indicherà altre eccezioni alla regola». Proprio questa iniziativa ha fatto andare su tutte le furie il centrosinistra: «Il presidente vuole pure arrogarsi il diritto di derogare caso per caso alla cacciata dei parenti del reo, autoassegnandosi non solo il potere di graziare i colpevoli, come il presidente della Repubblica, ma anche il potere di assolvere, come i giudici», ha tuonato il consigliere Paolo Ghezzi. Insomma, dopo la tempesta mediatica per l’approvazione di una norma con la ratio conclamata di «privilegiare i cittadini onesti» ( penalizzando chi ha già, però, scontato la condanna e i suoi familiari), la Giunta potrebbe tentare di rimediare in sordina alle previsioni più evidentemente controverse. Al netto dell’idoneità della questione a finire davanti a un giudice nel momento in cui venisse applicata, la legge provinciale è stata avversata anche dai sindaci di alcuni Comuni della Provincia, pronti a opporsi e a non recepire le nuove regole. Del resto, dubbi di opportunità erano stati sollevati anche in seno alla stessa maggioranza con il consigliere Claudio Cia che aveva presentato un emendamento che puntava a superare le ricadute sui familiari innocenti attraverso l’introduzione del principio di connivenza o complicità della famiglia: «Si deve consentire ai conviventi stessi di fornire una prova liberatoria, nel senso di dimostrare di non aver agevolato né partecipato, neppure omissivamente, alla realizzazione di condotte antisociali», aveva spiegato Cia. La Lega, però, ha tirato dritto ( mentre Cia si è astenuto sul voto finale). Ora la norma è legge della Provincia: tutte da verificarsi, invece, sono le conseguenze reali e giuridiche per gli inquilini delle case popolari.

Un articolo scritto e pubblicato da veri razzisti…. La fissazione per il Sud: in manovra uno sconto sugli aerei dalla Sicilia. Addio al carovoli per i siciliani. Un emendamento voluto dal Movimento 5 stelle. Una delle novità principali per la quotidianità dei pendolari dell'Isola riguarda il via libera - con un emendamento di Italia Viva - alle tariffe sociali sui voli per gli aeroporti di Catania e Palermo. Roberto Chifari, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Addio carovoli, al via le tariffe sociali. L'idea farà felici molti pendolari ma c'è un ma che incombe sull'emendamento. La Sicilia infatti ha diritto alla continuità territoriale e non ha bisogno di regalie da parte del Governo. Il Senato ha approvato un emendamento che stanzia 25 milioni di euro a favore dei siciliani, grazie ai quali quattro categorie sociali particolarmente svantaggiate (studenti fuori sede, lavoratori fuori sede, disabili gravi e gravissimi, potranno acquistare il biglietto aereo con uno sconto del 30 per cento. La riduzione sarà applicata su qualunque vettore aereo, per qualsiasi destinazione, da Palermo e da Catania. Toccherà ad un decreto del ministro delle infrastrutture entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, di concerto con il Mef, stabilire le modalità attuative del nuovo regime tariffario con la quantificazione dello sconto, le modalità e ai termini del rimborso dell'importo differenziale tra il prezzo dei biglietti aerei e la tariffa sociale. Gli stanziamenti per la misura sono pari a 25 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2020. Giusto, giustissimo e la decisione forse arriva anche in ritardo e comunque dopo le proteste dei viaggiatori costretti a pagare un volo per la Sicilia anche 800 euro. Si tratta di atti dovuti per la continuità territoriale. Visto l'isolamento totale dell'isola e il caro voli. Peccato che la Sicilia non abbia bisogno di regalie ma di moderne infrastrutture. Il viceministro alle infrastrutture Giancarlo Cancelleri però trionfa per lo sconto sulle tariffe. "Sono 25 milioni di euro per il 2020. All'acquisto del biglietto su qualunque vettore aereo, per qualsiasi destinazione, da Palermo e da Catania aggiungerà il codice di sconto - spiega Cancelleri -. Stiamo cominciando con uno sconto del 30 per cento e poi a metà anno faremo i conti su quanti soldi sono rimasti". Intanto è stata aperta una commissione Ars sull'argomento. "La strategia è introdurre un tetto massimo al costo dei biglietti: dobbiamo garantire il diritto dei siciliani ad essere isolani e non isolati - dicono i presidenti delle Commissioni Ambiente, Ue e Statuto dell'Ars Giusi Savarino, Giuseppe Compagnone e Elvira Amata che sono intervenuti sulla questione del caro voli da e per la Sicilia -. Il presidente Musumeci è in attesa dell'ok da Roma per avviare la continuità territoriale anche per gli aeroporti di Palermo e Catania - dice Savarino - Il riconoscimento dei famosi oneri di servizio pubblico, condizione necessaria per ottenere la continuità territoriale, parte dall'avvio di una conferenza di servizi ad opera del presidente della Regione che deve essere però delegato dal ministro ai Trasporti. Al momento si attende quindi la delega dal ministro De Micheli". Sul caro voli adesso c'è stato anche l'idea di istituire un pullman a prezzo simbolico per gli studenti che tornano in Sicilia a Natale. Non solo una iniziativa di sostegno, ma una mossa fortemente polemica nei confronti delle compagnie aeree - in particolare Alitalia e Ryanair. Nei giorni scorsi si è mobilitato un gruppo di giovani che attraverso i social hanno organizzato pullman terroni: un torpedone solidale partirà il 20 alle ore 19 da Milano, per giungere a Catania il giorno successivo, dopo una doppia tappa in Campania, a Napoli e Cosenza: 87 posti prenotati da" veri terroni" decisi a tornare al Sud per il periodo festivo. Adesso ecco anche la Regione che attraverso l'Azienda siciliana trasporti - una delle sue partecipate - metterà a disposizione per i giovani fuorisede fino a otto pullman, a un costo simbolico per viaggiatore che va dai dieci ai trenta euro.

Voli per il Sud Italia troppo cari a Natale? Passando  da Budapest si risparmia. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Leonard Berberi. I voli per il Meridione arrivano anche a 300 euro a tratta. E così un esercito di pendolari prenota i voli facendo scalo in Polonia e Ungheria. La matematica a volte sfida la logica. E la logistica. Per andare da un punto A a un punto B in alcuni periodi dell’anno — il Natale, il Capodanno, la Pasqua, l’estate — conviene transitare in un punto C. E spezzettare le prenotazioni. Per dire: chi il 23 dicembre decide di andare da Milano a Palermo potrebbe sborsare 178 euro (con easyJet) o 190 (con Alitalia) per una sola andata. Oppure pagarne la metà, ma con qualche sacrificio in più. Ad esempio: imbarcarsi su un aereo Wizz Air da Malpensa per Budapest, quindi prendere un Ryanair per il capoluogo siciliano. Costo complessivo delle due tratte: 91 euro. Le festività invernali per i meridionali che lavorano o studiano nel Nord Italia diventano un salasso. I voli che di solito nei periodi normali costano anche 16 euro — ad esempio il Milano-Palermo —, balzano anche a 250-300 euro (a tratta). Per questo contro il «caro voli» il governatore della Sicilia Nello Musumeci propone la creazione di una compagnia aerea regionale in grado di offrire tariffe a prezzi calmierati. Nel frattempo c’è chi paga centinaia di euro oppure decide di restarsene al Settentrione. O, come fanno diversi giovani, sfruttano i motori di ricerca dei voli per trovare i percorsi alternativi più convenienti. E così, come ha raccontato La Stampa, da Torino gli universitari prenotano i voli con le low cost che portano prima nell’Est Europa poi salgono su altri aerei che li trasportano a casa, in Sicilia. Ci si impiega qualche ora in più — a volte un giorno —, ma si paga anche la metà. Prendiamo un altro esempio: un volo diretto da Venezia a Palermo con Ryanair costa 299 euro di meno, stando alle simulazioni effettuate dal Corriere. Al netto dei costi extra come l’imbarco prioritario, il bagaglio in stiva, la scelta del posto. E però ne basterebbero 174 prenotando un biglietto con Alitalia (per il Venezia-Budapest via Fiumicino) e un altro con Ryanair (Budapest-Palermo). Come spiega più d’un esperto l’idea di base è muoversi seguendo la logica dei flussi. Le rotte Nord-Sud Italia in questo periodo sono molto richieste (e prenotate). Altre tratte che portano al Meridione — come il Regno Unito o l’Est Europa — invece sono meno ricercate: del resto chi vive in Polonia o in Ungheria, per esempio, il Natale tende a passarlo a casa. E così i sedili degli aerei che operano quei voli non vengono venduti tutti e subito. E così gli algoritmi delle compagnie — e chi si occupa delle tariffe nei dipartimenti di Revenue management — abbassano i prezzi per poter massimizzare i ricavi. E così capita che chi a Torino è diretto a Catania si ritrova a tornare a casa fermandosi qualche ora a Cracovia o a Budapest.

Le Fake News sul Sud. Nel Mezzogiorno la politica costa più che al Nord? FALSO. Redazione ilsudonline.it il 21 Novembre 2019. Smontiamo un’altra delle “fake news” del Nord. Ovvero quella che sostiene che il Sud sia l’area del Paese dove i costi della burocrazia e della politica sono più elevati. Insomma, i soliti spreconi. Invece, la realtà è completamente diversa. E lo dimostrano i numeri reali. Sommando i consigli regionali, provinciali e comunali, poi, la politica costa 1,4 miliardi, cioè 35 euro l’anno per ogni italiano, di cui 19 solo per le Regioni. E’ quanto emerge dal Siope, il sistema che rileva incassi e pagamenti delle pubbliche amministrazioni, ma andando a spulciare i bilanci delle singole regioni arriva la conferma di un costo eccessivo della politica. Ed è il Nord a spendere di più per il funzionamento della macchina burocratica: alla voce “Servizi istituzionali” nel bilancio della Lombardia è iscritta la cifra monstre di 742 milioni, contro i 256 della Puglia e i 207 della Campania. Ma anche il Veneto, che ha una popolazione pari a quella della Puglia. non scherza: 482 milioni nel 2019. Entrando più nel dettaglio, per i “servizi generali”, ad esempio, la Lombardia spende 73 milioni, il Veneto 21 milioni, contro i 20 milioni della Puglia e i 6,7 della Campania. Anche per il funzionamento degli “organi istituzionali” c’è un buon divario: 75 milioni il costo messo in bilancio dalla Lombardia, 52 milioni, invece dalla Puglia.

Bossi ricorda a Salvini cos’è la Lega: “Aiutiamo il Sud a casa loro, sennò straripa come l’Africa”. Redazione de Il Riformista il 21 Dicembre 2019. “Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. Queste le parole di Umberto Bossi durante il suo intervento al congresso federale della Lega a Milano.

“L’Africa non è stata aiutata e – ha proseguito l’ex leader leghista – ci arrivano tutti addosso”. Dichiarazioni che hanno scatenato le risate dei presenti e il silenzio di Matteo Salvini. Il capo politico del Carroccio era seduto vicino a Bossi ma non è intervenuto né si è dissociato da quanto ascoltato. Le parole dell’ex Sanatur hanno scatenato l’indignazione degli abitanti del Sud Italia dove la Lega negli ultimi mesi è in forte ascesa. Un incidente diplomatico che non passerà inosservato.

Polemiche per la frase di Bossi sul Sud: “Straripano come l’Africa”. Laura Pellegrini il 22/12/2019 su Notizie.it. Infiammano le polemiche per la frase di Bossi sul Sud Italia pronunciata al Congresso della Lega: Matteo Salvini non è intervenuto in alcun modo. Umberto Bossi ha partecipato al Congresso della Lega insieme a Matteo Salvini nel quale è stato lanciato il nuovo Statuto che rinnova il partito. Tuttavia, l’ex leader del Carroccio è andato incontro a una serie di polemiche per una frase pronunciata contro il meridione della nostra penisola. Bossi, infatti, avrebbe detto: “Mi sembra giusto aiutare il Sud altrimenti straripano come l’Africa”. Salvini, invece, ha spiegato la questione con altri termini: “La nostra gente del Nord deve vivere tranquillamente e pagare meno residuo fiscale di 100 miliardi di euro”. La Lega ha cambiato il suo Statuto durante il Congresso tenuto a Milano sabato 21 dicembre. Matteo Salvini, insieme a Umberto Bossi e i suoi sostenitori hanno partecipato alla festa. Uno degli obbiettivi del partito è quello di rinnovare l’Italia e rappresentare tutti i cittadini. Anche per questo motivo, infatti, la denominazione è passata da “Lega Nord” a “Lega”, nonostante nella sede ufficiale appaia ancora la vecchia denominazione. Umberto Bossi, a tale proposito, ha suscitato grandi polemiche per una frase pronunciata contro il Sud Italia. L’ex leader del Carroccio, testualmente ha detto: al Sud “straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. Nel suo discorso avrebbe aggiunto anche: “Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui”. “L’Africa non è stata aiutata e – ha aggiunto ancora l’ex leader leghista – ci arrivano tutti addosso”.

La mancata replica di Salvini. A molte persone, infine, non è sceso nemmeno il mancato feedback del leader leghista Matteo Salvini sulle parole del collega Bossi. Ma non si esclude un successivo commento magari sui social.

Bufera su Umberto Bossi: “Aiutare il Sud a casa loro, altrimenti vengono qui come l’Africa”.  Redazione Bufale il 21 Dicembre 2019. Stanno facendo discutere molto le dichiarazioni di Umberto Bossi in occasione del congresso della Lega che si è tenuto oggi 21 dicembre, considerando la presa di posizione dell’ex leader del Carroccio su un tema delicato come quello del Sud. Da anni, infatti, Salvini sta provando a segnare un cambio di rotta del partito, al punto da cambiarne anche la denominazione. Si è passati da Lega Nord a Lega, nonostante le polemiche dei mesi scorsi sulla scritta presente all’ingresso della sede principale, ancora focalizzata sulla vecchia denominazione.

Cosa ha detto Umberto Bossi sul Sud davanti a Salvini. In particolare, oggi si torna a parlare di Umberto Bossi dopo alcune “imprese” di suoi figlio dei mesi scorsi, come avrete notato attraverso alcuni nostri approfondimenti. In particolare, l’ex trascinatore della Lega ha affermato che gli sembra giusto aiutare il Sud, altrimenti se non dovessero essere aiutati “a casa loro” ci sarebbe un rischio concreto. Citando testualmente quanto dichiarato dal diretto interessato, infatti, i meridionali “straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa“. Questo in sintesi quanto affermato Umberto Bossi nel suo intervento in occasione del tanto atteso congresso federale della Lega Nord a Milano. Rafforzando quanto affermato in precedenza, come ricorda Repubblica, “l’Africa non è stata aiutata e ci arrivano tutti addosso“. Un raffronto, quello di Bossi, che non è stato apprezzato né dai denigratori della Lega sui social, né da parte dei suoi sostenitori. Soprattutto considerando la recente crescita del Carroccio nel Mezzogiorno. Ad alcuni, non è piaciuta nemmeno la mancata replica di Salvini alle parole di Umberto Bossi, ma qui si entra in un campo che a noi non compete. Alla luce delle richieste che ci sono pervenute, possiamo solo far presente che le parole dell’ex leader della Lega siano a tutti gli effetti autentiche. Questo il video che sta circolando nelle ultime ore.

Salvini e i Terroni. Come la mettiamo con le parole di Bossi? Michel Dessi il 23 dicembre 2019 su Il Giornale. È il 23 dicembre, la vigilia della vigilia di Natale. Al suono della sveglia delle 07.00 ho aperto gli occhi e ho pensato: “è un giorno come gli altri. Si torna a casa e sarà il solito Natale.” Ipocrita. Come la gente che finge di volerti bene e ti saluta con grande affetto augurandoti “buone feste a te e famiglia”. Invece no. Non è un giorno come gli altri. È un bel giorno. L’unica Frecciargento Roma – Reggio Calabria arriva al binario 7. La banchina è affollata più del solito. Mamme, bambini, mariti. Passeggini e bagagli. Tanti bagagli. E giochi. Molti. Stranamente la Freccia 8345 parte puntuale. Alle 08.58. La chiamano freccia solo perché salta qualche stazione e tira dritto verso la Calabria. Risparmiando così un po’ di tempo. In realtà è un comune treno. Come quelli che ci sono al Sud. No, non è comodo come le freccerosse. Niente alta velocità. Si sa, il Paese è diviso in due. Spezzato da vecchi retaggi culturali e mala politica. Neanche i 5 stelle sono riusciti a cambiare le cose. E non ci riusciranno. Si illude chi pensa il contrario. “Prima la TAV!” Dicono. Perché regalare l’alta velocità  agli ‘ndranghetisti? Per farli arrivare prima a Roma o a Milano? Meglio evitare. Come se la ‘ndrangheta non fosse infiltrata bene in quei territori. È arrivata perfino in Valle D’Aosta. Come nel resto d’Italia. Il treno dei Terroni è pieno. I vagoni diventano casa, anche se per poco. Precisamente quattro ore e mezza. Il tempo di raggiungere la Nostra Terra. Il Meridione. I bambini sono felici. E la loro felicità è contagiosa. Si stupiscono per qualsiasi cosa. Loro non si lamentano. Sono tutti felici di tornare a casa, nella propria Terra. La Terra di Calabria. Bella e dannata. Maledetta dalla classe dirigente. Così la chiamano. A casa li aspettano le nonne, felici per l’arrivo dei nipotini che non vedono da tanto tempo. Il sugo sarà già sul fuco. Le polpette in forno. C’è un bambino accanto a me, avrà due anni, con due grandi occhi ghiaccio. È in braccio alla sua mamma. Elenca balbettando il nome dei nonni e degli zii. È felice. Felice di rivederli. Felice di viaggiare. Guarda fuori dal finestrino e indica il cielo. “Aturro”, dice. Gioca. Spensierato.  C’è chi legge e chi, assorto, guarda fuori dal finestrino. Il tempo scorre, come i pensieri. C’è chi ascolta musica e chi socializza. Chi si preoccupa per il proprio cagnolino e chi studia. Sono i migranti. Siamo i migranti. Li osservo e non posso che pensare ad Umberto Bossi, e alle sue ultime parole pronunciate al congresso federale della Lega. “Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. Penso. E mi trattengo dallo scrivere. Poi mi ricordo del suo grande sogno “la Padania libera ed indipendente”. Per fortuna è infranto. Sono contento che Salvini abbia cambiato pelle alla Lega. Che abbia cancellato Bossi e i suoi compagni. Che abbia archiviato il rito dell’ampolla. Del partito fondato nel 1989 da Bossi resta solo il ricordo. Brutto. L’acqua del Po è evaporata e la boccetta di Bossi è stata riposta da Matteo Salvini per fare spazio al Presepe. Il verde lega si è sbiadito e il blu è dominante. Il simbolo cambia e il partito si evolve. Un partito che esiste in funzione del “capitano”. E, speriamo, negli interessi degli italiani. Anche dei Meridionali. Dei terroni.

Bossi sproloquia e dalla Lega sghignazzi e silenzi. Pubblicato: 22 Dicembre 2019 da Paolo Di Marco su dedalomultimedia.it. Umberto Bossi sproloquia “giusto aiutare il sud ma a casa loro sennò straripano qui come gli africani” e tutti a ridere e a sghignazzare. Il senatur non stava bevendo un buon bicchiere di rosso in una bella e confortevole taverna padana accanto verdi amiconi di merende infarcite di lauree albanesi o fondi, per così dire, impropri. Stava tenendo il suo bel discorso al congresso federale della Lega Nord a Milano. Ed era proprio a fianco di Matteo Salvini preoccupato quest'ultimo solo di tasteriate l'ennesimo post senza alzare gli occhi dal video. Non è uno stupido ed ha capito immediatamente che il suo caro amicone padano gli stava propinando una bella insalata. Non si è unito ai sghignazzi, e questo gli fa onore al cospetto di tanti maleducati, ma non ha neppure risposto per le rime come avrebbe dovuto fare un vero leader nazionale. E questo per chi sta al sud e ancora di più per i leghisti meridionali dovrebbe essere una sorta di peccato mortale. Invece niente, nessuno si è sentito offeso, tutti hanno calato la testa supinamente. Ho cercato disperatamente una reazione leghista targata Sicilia o Enna; ho trovato solo una serie di firme su un documento #processatecitutti. Per il fango in faccia del “Senatur” nulla. Che schifo. Che schifo. Che schifo. Lo ripeto e lo scrivo tre volte ma non basterebbero mille volte. Non punto il dito aprioristicamente contro chi ha fatto una scelta leghista, la democrazia è bella per questo è varia e c'è posto per tutti. Punto il dito contro chi la propria identità di siciliano e di meridionale la ha svenduta e messa sotto il culo solo per poter cavalcare l'onda lunga che oggi Salvini può offrire. Un seggio in parlamento, in un consiglio regionale o in un consiglio comunale lavano ogni affronto. Che schifo. Che schifo. Che schifo. La storia anche recente racconta che il grande male della politica nostrana è stata la genuflessione ai diktat romani. Chi vuole cambiare tutto oggi ha solo spostato indirizzo prima Roma, adesso Milano con l'aggravante dell'insulto. Ripeto non demonizzo i leghisti meridionali, alcuni sono pure cari amici. Ma non posso stimare chi non ha amore per la propria terra. E l'amore esige prima di tutto rispetto. Al senatur consiglierei di andare a guardare dei video, non a leggere libri capisco che è stancante ed è uno sport da lui poco apprezzato. Mi riferisco ai numerosi servizi dello scrittore-giornalista Pino Aprile sul furto continuo che dal 1861 ad oggi le regioni del nord, con il consenso di Roma-ladrona, perpetrano ai danni delle comunità del Sud. Se ha argomenti, cioè documenti, fatti seri e non insulti, risponda.

Crippa (Lega Salvini): "Bossi sbaglia, insultare il meridione non fa il bene del partito". Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2019. “Ho incontrato tante persone per bene al Sud. Dobbiamo valorizzare le diversità, non solo le identità” perché “la nuova Lega si giocherà una partita importante al sud”. “Bossi ha sbagliato, insultare i meridionali non fa il bene della Lega”. Intervistato dall’AdnKronos, il vicesegretario della Lega, Andrea Crippa, ha così replicato alle parole del vecchio leader, intervenuto ieri al Congresso straordinario che ha mandato in soffitta la Lega Nord, lasciando il passo alla Lega di Salvini. “Ho incontrato tante persone per bene al Sud – sottolinea l’ex leader dei giovani padani, voluto da Salvini al suo fianco come vice – . Dobbiamo valorizzare le diversità, non solo le identità” perché “la nuova Lega si giocherà una partita importante al sud“. Per Crippa quindi “certe dichiarazioni sul sud sono state offensive, hanno offeso tante persone che stanno contribuendo al progetto della Lega, che sono in campo per dare finalmente risposte diversa alle persone del meridione“. “La Lega – aggiunge il vice di Salvini – ha in mente un progetto nazionale, dove sono inclusi tutti gli uomini e le donne che hanno voglia di ridare una speranza di un futuro migliore anche ai giovani del sud che in questo momento stanno andando all’estero a fare quei lavori che gli stessi europei non vogliono più fare“. “Io non rinnego nulla del passato – assicura Crippa – ma certe dichiarazioni di esponenti della Lega, dove si insultano persone del meridione non fanno il bene né della Lega, né di quelle persone che vedono in noi la speranza di cambiamento, per il rinnovamento di una politica ancorata a temi vecchi, che vuole salvaguardare solo scranni e stipendi“.

Da Scelba a Re Giorgio. I pochi "terroni" al potere. Salvo Toscano su Live Sicilia Venerdì 11 Gennaio 2019. I palazzi del potere in realtà sono stati per lo più appannaggio del Nord nell'Italia repubblicana. Quanti “terroni” al potere, fa notare con la consueta cifra di sobrietà e buon gusto Libero. Con un titolo che immaginiamo sarà piaciuto ai suoi lettori sotto la linea gotica. Ebbene sì, rivelando al mondo di saper far di conto almeno fino a quattro, il nordico quotidiano s'è accorto d'un tratto che tre delle quattro più alte cariche dello Stato sono ricoperte da meridionali. E cioè Sergio Mattarella, siciliano, Giuseppe Conte, pugliese, e Roberto Fico, campano. Non accadeva da un pezzo, in effetti. Perché come probabilmente confortava di più Libero, per anni e anni l'Italia non aveva avuto un presidente del Consiglio meridionale. Conte è il primo premier nato a sud di Roma dai tempi di Ciriaco De Mita. Era il 23 luglio del 1989 quando spirava il governo guidato dal democristiano di Nusco, "intellettuale della Magna Grecia". Ci sono voluti quasi trent'anni perché un “terrone” tornasse a Palazzo Chigi. Troppo pochi forse per Libero, ma tant'è. Prima di De Mita, nell'Italia repubblicana i presidenti del Consiglio meridionali si erano comunque contati sulla punta delle dita: erano stati Giovanni Leone, campano, per meno di un anno complessivamente in due diversi governi, Mario Scelba, l'unico siciliano, Antonio Segni, che era di Sassari, e il pugliese di Maglie Aldo Moro, con cinque governi. Sei meridionali su ventinove presidenti del Consiglio. Sì, perché lì dove davvero si comanda, a Palazzo Chigi, i meridionali in realtà raramente mettono piede. È andata meglio al Quirinale. Su dodici presidenti, sei sono nati a sud di Roma: il palermitano Sergio Mattarella, i napoletani Enrico De Nicola, Giovanni Leone (che sdoganò con napoletana facezia il gesto delle corna) e Giorgio Napolitano (Re Giorgio, l'unico che fatto il bis), i sassaresi Francesco Cossiga e Antonio Segni. Quanto alle due camere, ammesso che i presidenti delle camere “comandino” come scrive Libero, va detto che Fico è il primo meridionale a ricoprire la carica dal 1994 quando terminò il mandato di Napolitano. A Montecitorio, in realtà, i “terroni” non hanno “comandato” quasi mai, escluse le due citate eccezioni e la presidenza di Giovanni Leone. Quanto a Pietro Ingrao, visto che era nato in provincia di Latina, forse l'etichetta à la Libero di terrone per lui è controversa (dove comincia esattamente la Terronia?), ma decisiva in quel caso potrebbe essere la sua ascendenza sicula, aveva avi di Grotte. Meglio i “terroni” al Senato. Che tra gli altri è stato presieduto negli anni della Repubblica in ordine cronologico da De Nicola, dal dimenticato palermitano Giuseppe Paratore, liberale, dal lucano Tommaso Morlino (ma solo per sei mesi), Francesco Cossiga, Nicola Mancino, democristiano campano, Franco Marini, abruzzese (ma volendo essere pignoli, nato leggermente a nord di Roma, esattamente a San Pio delle Camere), fino all'intero decennio palermitano delle presidenze consecutive di Renato Schifani e Piero Grasso. Otto su ventidue nell'era repubblicana, niente male. Ma comandano davvero questi “terroni”? Il dubbio resta. Soprattutto se si guarda agli ultimi anni. Prendete il Partito democratico, per esempio. Da quando è nato non ha mai avuto un segretario meridionale. Ma nemmeno un vicesegretario. E nemmeno un presidente del partito. E nemmeno un segretario organizzativo. Tutte e quattro queste cariche dal 2007 anno di fondazione dei dem, non sono mai state ricoperte da una persona nata a sud della Capitale. In fondo la stessa musica è suonata più o meno altrove. Con l'eccezione del campano Luigi Di Maio, formalmente a capo del movimento di un milanese e di un genovese, di leader politici meridionali in giro in questi anni se ne sono visti pochi. Il centrodestra è stato governato per lunghissimi anni dal milanese Silvio Berlusconi, circondato da altri capi partito settentrionali (Fini e Casini, bolognesi, Bossi, lumbard a capo di quel partito i cui esponenti tra un'esortazione all'Etna e un incoraggiamento al Vesuvio teorizzavano la scarsa confidenza dei meridionali con la carta igienica). L'unico leader meridionale di quell'area politica fu il siciliano Angelino Alfano, e si sa come gli è finita. Il peso del Sud nelle scelte del Palazzo, in fondo, si pesa guardando ai dati relativi agli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, che nel 2017 hanno raggiunto il loro minimo in quindici anni, sostanzialmente dimezzati rispetto ai primi anni 2000 (dati Confindustria-Srm). Altro che "comandare"...E allora, la domanda resta: comandano davvero questi “terroni” o qualcuno sta semplicemente preparando già la narrazione di un alibi per giustificare un fallimento prossimo venturo?

Salvini: negli atti del processo di Torino spunta la condanna per razzismo. Per i cori antinapoletani alla festa di Pontida del 2009. La Repubblica l'11 gennaio 2020. C'è una condanna per razzismo nel passato di Matteo Salvini. Il segretario federale della Lega, ed ex ministro dell'Interno, è stato destinatario di un decreto penale, quando cioè il giudice stabilisce su richiesta del pm una pena pecuniaria senza passare per il processo, per avere violato la cosiddetta legge Mancino, quella che punisce chi compie azioni discriminatorie, per alcuni cori contro i napoletani. Il decreto - come anticipato dal quotidiano Cronaca Qui e confermato in ambienti giudiziari - è contenuto negli atti del processo in cui, a Torino, il leader del Carroccio è a processo per vilipendio dell'ordine giudiziario. I fatti risalgono a una festa di Pontida del 2009, quando Salvini era capogruppo al Comune di Milano dell'allora Lega Nord e deputato da poco eletto al Parlamento europeo. Il coro anti-napoletani, ripreso da un cellulare, era finito online, ma non si era avuta notizia del decreto penale di condanna. "Se ci sono napoletani che si sono sentiti offesi, mi scuso - aveva dichiarato all'epoca Salvini - ma credo che un politico debba essere valutato per quello che fa, non per quello che dice un sabato sera tra amici quando si parla di calcio". 

Andrea Giambartolomei per ilfattoquotidiano.it l'11 gennaio 2020. “Matteo Salvini ha una condanna per razzismo: una pena di 5.700 euro per quel coro contro i napoletani intonato alla Festa della Lega Nord a Pontida nel 2009“. L’attuale segretario della Lega ed ex ministro dell’Interno, era stato colpito dal provvedimento per aver violato la legge Mancino, quella che punisce chi compie azioni discriminatorie. Di questa sentenza, però, non era mai emersa prima la notizia: è arrivata per mezzo di un decreto penale di condanna, quando su richiesta di un pm il giudice stabilisce una pena pecuniaria senza passare per un processo. Ne dà conto oggi Cronaca Qui, quotidiano di Torino, che ha scoperto questa notizia tra gli atti del processo contro Salvini per vilipendio alla magistratura, in corso nel capoluogo piemontese: “Salvini condannato per razzismo”, titola il giornale.

Quando Matteo Salvini cantava: “Napoli merda, Napoli colera…” I fatti risalgono al giugno 2009. La sera del 13 Salvini – all’epoca capogruppo della Lega Nord al Comune di Milano e deputato da poco eletto al Parlamento europeo – si trova a Pontida (Bergamo) alla Festa del Carroccio e, bevendo una birra in compagnia dei “Giovani padani”, lancia il coro discriminatorio: “Senti che puzza/scappano anche i cani: sono arrivati i napoletani. Sono colerosi, terremotati, con il sapone non vi siete mai lavati”. Qualcuno riprende la scena e il video finisce online il 7 luglio. Salvini si scusa, ma soltanto parzialmente: “Se ci sono napoletani che si sono sentiti offesi – dichiara quel giorno a Radio24 – porgo le mie più sincere e sentite scuse, ma ritengo che un politico vada valutato per quello che fa, non quello che dice un sabato sera tra amici quando si parla di calcio”. Poi si dimette dalla carica di deputato solo per una “singolare coincidenza”, come afferma lui, perché in quel giorno scadeva il termine per optare tra il seggio a Montecitorio e quello a Bruxelles, due ruoli incompatibili. Nel frattempo però, questo il fatto fino ad oggi sconosciuto e rivelato dal quotidiano torinese, due cittadini napoletani sporgono una querela finita alla procura di Bergamo, che iscrive Salvini nel registro degli indagati per diffamazione e violazione della legge Mancino, che punisce “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. L’accusa, ritenendo che l’indagato potesse subire soltanto una pena pecuniaria, chiede e ottiene dal giudice l’emissione del decreto penale di condanna finito adesso agli atti del processo torinese. Nel 2018 la Lega – per voce dell’allora ministro della Famiglia Lorenzo Fontana – propone proprio di abolire la legge Mancino e ottiene il sostegno di Salvini, ministro dell’Interno: “Già in passato la Lega aveva proposto di abolire la legge Mancino. Sono d’accordo con la proposta di Fontana: alle idee contrappongono altre idee, non le manette”. A mettersi di traverso è il Movimento 5 stelle, allora alleato di governo. L’abrogazione quindi non va in porto, ma viene modificata una condizione: il codice di autoregolamentazione delle candidature, adottato nel 2014 e rivisto dalla maggioranza gialloverde nella primavera 2019, non considera più come “impresentabili” i candidati condannati per la violazione della legge Mancino.

Da corrieredellosport.it il 22 febbraio 2020. Napoletani Coronavirus". Questo il coro partito dalla Curva Nord del Brescia alla mezz'ora della partita tra Brescia e Napoli, vinta 2-1 dai partenopei al Rigamonti. Il coro era stato intonato già una prima volta qualche minuto prima. Durante il match si sono sentite anche grida inneggianti al Vesuvio, come accaduto non di rado in altri stadi d'Italia. I cori di insulto assumono un significato di maggiore gravità perché oggi 16 cittadini italiani sono risultati contagiati dal Coronavirus, alcuni ricoverati in gravi condizioni: 14 peraltro proprio in Lombardia, nella regione di Brescia.

Dagospia il 22 febbraio 2020. Dal profilo Facebook di Marino Bartoletti. Dunque l’Italia, o almeno una sua parte, è come si dice “sotto possibile attacco” dal Coronavirus. Si sta cercando di trovare un auspicabile punto di equilibrio fra prudenza e senso di responsabilità, fra rischio di psicosi e senso delle proporzioni, fra corretta comunicazione e allarmismo. E in tutto questo in uno stadio di calcio (luogo deputato non posso più dire alla civiltà, ma perlomeno al desiderio di passare un po’ di tempo in tranquillità) un branco di deficienti (obiezioni sulla definizione?) non trova di meglio da fare che eleggere la malattia a insulto per la città avversaria. Una domanda accorata rivolta (soprattutto) alla stragrandissima parte dei bresciani dotati di educazione e buon senso: PERCHE’?

PS 1 Il Coronavirus, per ora, è diffuso in una zona per fortuna ristretta della Lombardia e non della Campania.

PS2 Fra i tifosi ululanti era presenta una delegazione campana (anti-Napoli) che si è associata al coro.

FELTRI TWEET. Da Lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola in confronto al Corona. Da areanapolit.it il 22 febbraio 2020. La giornalista del quotidiano Il Mattino e blogger, Anna Trieste, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Twitter rispondendo, tra le altre cose, ad un post scritto dal giornalista Vittorio Feltri. Ecco quanto si legge: "Ha detto Vittorio Feltri che lui da lombardo i napoletani li invidia perché hanno avuto soltanto il colera che è una cosa piccola rispetto al #coronavirus. Ecco. Io invece da napoletana non li invidio i lombardi. Avere un conterraneo come Vittorio Feltri deve essere 'na bella figur 'e mmerd onestamente". Mentre in Italia sta divampando la paura per il diffondersi del Coronavirus, ci sono 14 casi accertati in Lombardia, Vittorio Feltri, direttore del quotidiano nazionale Libero, ha scritto su Twitter un messaggio che ha fatto molto discutere e indignare tante persone, napoletani e non: "Da Lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola in confronto al Corona", il post di Feltri. Parole che non fanno certamente onore a un giornalista come lui.

Vittorio Feltri contro il governo: "Abbiamo fatto entrare tutti, anche il coronavirus". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Continuano gli sbarchi al grido di accogliamo tutti. Peccato che abbiamo spalancato le porte anche al virus sottovalutandone per giorni e giorni la gravità. Coloro che avvertivano il pericolo di una epidemia e raccomandavano la chiusura delle scuole nonché severi controlli per evitare il dilagare dell' infezione sono stati a lungo sbeffeggiati quasi fossero degli uccelli del malaugurio, mentre avevano ragione da vendere. Milano e altre città del Nord ieri erano semideserte, la gente trema e si difende come può, ascolta i consigli dei cosiddetti esperti sperando di cavarsela. Il governo è intervenuto in ritardo e intanto il morbo ha colpito in breve ben oltre 150 persone e minaccia di colpirne molte altre. I pessimisti affermano che gli infettati raggiungeranno presto quota 500. Gli ottimisti gettano acqua sul fuoco e sostengono che le vittime non sono poi in punto di morte. Sta di fatto però che il 20 per cento di esse si trova in terapia intensiva, ciò significa che tanto bene gli attaccati non stanno. In pratica l' Italia, dopo aver agito al rallentatore, ora è affetta da paralisi "progressista", ogni attività si è fermata ed è giusto, tuttavia non bisogna dimenticare che gli interventi restrittivi sono stati tardivi. Non è un caso che il nostro Paese in Europa sia il più infestato. Dopo di che rispettiamo le idee di tutti, pure quelle degli stolti (la maggioranza rumorosa), meno quella di Carlo Calenda, specialista in contraddizioni. Il quale accusa Libero di aver peccato in cialtronaggine (lui che è il re dei cialtroni, tanto che non ha mai combinato nulla di buono) avendo pubblicato questo titolo: "Prove tecniche di strage". Sormontato da un occhiello in cui si rimproverava al governo di aver nicchiato agevolando in tal modo il propagarsi del Corona. Parole che riflettono la realtà, purtroppo, e non possono essere censurate. Viceversa l' ex ministro, pur dicendo di essere liberale e di non aver mai querelato un giornalista, sprona l' esecutivo a tapparci la bocca secondo i costumi delle dittature sudamericane, caricature di quelle comuniste. Calenda non è il solo a pronunciare bestialità. Romano (Pd), per esempio, ci taccia di alimentare l' industria della paura. Ridicolo. Il terrore semmai è fomentato dal virus inizialmente snobbato dal BisConte dormiente e incapace. Si dà il caso che il popolo Lombardo e quello Veneto non escano più neanche di casa non certo suggestionati da Libero, bensì perché atterriti da una malattia inadeguatamente affrontata dalla politica cara ai Calenda e ai Romano. A costoro auguriamo di non essere contagiati, però li invitiamo a non declamare cazzate da lazzaroni professionali. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 marzo 2020. Giovanissimo rapinatore napoletano, Ugo Russo, 15 anni, ucciso a pistolettate da un carabiniere di 23 anni. Una storia incredibile avvenuta nel capoluogo campano, resa ancora più assurda dall' epilogo al pronto soccorso, dove il ragazzino era stato portato dopo la sparatoria che lo aveva colpito: i familiari e i parenti della vittima hanno devastato per rabbia il reparto ospedaliero, chiedendo giustizia. Quale giustizia? Saperlo. I fatti sono ingarbugliati. Tentiamo di fare chiarezza. Il militare dell' Arma fuori servizio è fermo in auto con la fidanzata nella zona di Santa Lucia. Si avvicina Russo con la rivoltella spianata (che poi si rivelerà un giocattolo) e intima all' uomo al volante di consegnargli il Rolex che stringe al polso. Il rapinato avverte il malavitoso: occhio che sono un carabiniere. Il giovinetto se ne infischia e insiste nella sua intimidazione, finché il servitore dello Stato, minacciato, estrae la propria arma e fa fuoco tre volte. Russo, raggiunto dai proiettili alla testa, stramazza e viene trasportato nella struttura sanitaria. Niente da fare: muore. A questo punto scoppia un casino infernale. I congiunti del morto, convinti sia stato commesso un sopruso, distruggono tutto ciò che possono. Una protesta violentissima. Data l' età del loro caro, sono persuasi che questi dovesse essere risparmiato dal tutore dell' ordine, il quale forse prima di premere il grilletto sarebbe stato obbligato a consultare i documenti di colui che gli voleva sottrarre l' orologio. Non hanno tenuto conto che se uno punta a rapinarti, non ti importa la sua data di nascita e reagisci con i mezzi di cui disponi. In altre parole, un bandito, per quanto adolescente, dovrebbe sapere che aggredire un cittadino comporta il rischio di subirne una reazione le cui conseguenze se sono tragiche, pace amen. Non possiamo rimproverare il militare dell' Arma perché non si è fatto sopraffare dal ragazzo. Chi viene aggredito ha il diritto di difendersi come può. Le proteste dei genitori del giovanotto sono comprensibili sul piano umano, non su quello della logica. I nostri figli che prendono una brutta piega continuiamo ad amarli, ma non è lecito giustificarli se commettono un delitto grave quale una rapina e ci rimettono la vita. Chi diventa criminale sappia che tra gli incerti del mestiere c' è una pallottola in testa.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 29 marzo 2020. Il Coronavirus non ha soltanto provocato disastri sociali ed economici, e sorvoliamo sulle vittime e i contagiati, ma anche qualcosa di buono: ad esso si deve gratitudine perché ha pressoché cancellato le sardine dal panorama politico italiano. Non è cosa da sottovalutare. Ci siamo liberati di un gruppo folto di giovanotti che andavano in piazza due o tre volte alla settimana per appoggiare il Pd e denigrare il centrodestra, dicendo con foga che bisogna combattere l' odio. Invero i pesciolini, nel manifestare i loro sentimenti amorosi verso la sinistra, usavano toni guerreschi allo scopo di denigrare Salvini. Erano e forse sono ancora in piena contraddizione: si proclamavano buoni e dolci e in realtà erano aspri quanto l' aceto. Non è soltanto questo il problema delle alici in barile: esse non sanno che fare, quale linea politica adottare, quale obiettivo perseguire. Sono inutili e disorganizzate, sbandate e prive di un disegno concreto tale da farle contare un po' di più del due di picche. Ciononostante per un periodo, non brevissimo, sono state al centro della scena minacciando di diventare protagoniste della vita pubblica. Non che mi spaventassero, per carità, ero consapevole della loro inconsistenza ideale e programmatica, tuttavia non speravo che sparissero tanto in fretta. Invece è bastato il glorioso Corona a toglierle di mezzo. La cerimonia funebre delle acciughe si è celebrata nello studio televisivo dominato dalla ottima De Filippi, che invitandole alla sua trasmissione ne ha predisposto allegramente la sepoltura. Esse, in appena dieci minuti, hanno dimostrato una insipienza spaventevole, la quale naturalmente sospettavamo fosse una caratteristica predominante della neonata associazione ittica. Hanno rimediato una figuraccia che neppure la brava Maria è riuscita ad attenuare. In ogni caso dobbiamo rendere merito al virus, protagonista principale del fatto che i pesci siano finiti nella rete. Speriamo ci rimangano, in attesa dell' annientamento. Non è l' unica lieta novella che segnaliamo al popolo. La malattia del giorno ha provocato un altro fenomeno rincuorante. Oltre alle citatissime sardine, si sono dileguati i gretini del clima, quelli che annunciano non solo il surriscaldamento del pianeta, ma anche la sua fine nel giro di pochi decenni. All' improvviso, davanti alla diffusione delle infezioni, le truppe agguerrite degli ambientalisti irriducibili si sono disciolte. Sparite. Nessuno dà più retta a questi esaltati squadroni della morte imminente, snobbati, ridicolizzati. Niente più manifestazioni pubbliche con folle oceaniche, zero prediche infantili, bocche chiuse. C' è altro cui pensare. È la conferma che non tutti i mali vengono per nuocere. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 7 febbraio 2020. La ministra dell'Interno Luciana Lamorgese se ne esce, in un' intervista a Repubblica, con quest' espressione: «L'odio è un' emergenza». Può darsi che la signora non abbia torto in assoluto. Ma vorrei segnalarle che questo sentimento negativo impera da millenni funestando l'umanità fin dagli albori. Si dà il caso che Caino fece secco Abele non certo per amore. La storia, per chi la conosce, dimostra che gli esseri viventi, nei secoli dei secoli, non hanno fatto altro che scannarsi. In quello scorso ne abbiamo viste di tutti i colori. I nazisti hanno sterminato gli ebrei alla grande per affetto? I fascisti hanno collaborato nello sterminio suddetto e non si sono risparmiati neanche in Patria allorché si trattava di manganellare la gente non d' accordo col duce, e sorvoliamo sull' olio di ricino distribuito come vitamina. Poi gli antifascisti si sono vendicati organizzando, a guerra finita, un conflitto civile nel quale numerosi camerati sono stati ammazzati non tanto dolcemente. E veniamo al 1968 e anni successivi. La Brigate rosse ne hanno stecchiti più di ogni virus con la collaborazione di Prima Linea. Ogni giorno all' epoca c'erano un gambizzato (per esempio Indro Montanelli) e un paio di morti macellati dai simpatici comunisti armati, senza che la sinistra del PCI se ne indignasse, almeno per un lungo periodo. Rammento che Ramelli, ragazzo di 17 anni, fu trucidato dai signorini di Lotta Continua poiché non era di sinistra. Fu massacrato a colpi di spranga in testa, così, per sport. In pratica noi l'astio non lo abbiamo mai centellinato e questo madame Lamorgese dovrebbe saperlo dal momento che non è nata un mese fa. Ella invece ha un difetto di memoria e se la prende furiosamente con la gente di oggidì che, secondo lei, sarebbe infoiata al punto di aver reso l' Italia una specie di mattatoio. Il problema secondo lei nasce dal linguaggio, dato che le parole trafiggono più della spada. Il che è una cazzata. Ella dichiara: «Di Salvini non parlo. (E chi se ne frega, ndr). Ma la politica tutta, a prescindere dagli schieramenti e dalle legittime convinzioni personali, ha bisogno di una igiene delle parole e dei comportamenti. Anche perché la progressiva assuefazione ha già fatto danni». Pure il capo del Viminale insomma se la prende col vocabolario, il quale poverino invece è innocente. Colpevolizzare il linguaggio è una operazione cretina. Non c' entra il lessico, semmai vanno condannati coloro che ciarlano a vanvera e insultano sistematicamente chi la pensa diversamente dai bischeri di sinistra, i veri odiatori, che personalmente non mi danno alcun fastidio in quanto ciò che affermano mi entra in un orecchio e mi esce dall' altro. Finché il cosiddetto odio si limita a esprimersi oralmente non produce danni, se viceversa si traduce in azioni violente si richiede l' intervento della magistratura, la quale però il più delle volte se ne fotte, perché temo faccia il tifo per i presunti progressisti. In sintesi, l' acredine, quanto l' invidia, essendo il motore del mondo non mi fa paura, considerato che con essa convivo da che sono nato, semmai temo i conformisti che l' hanno trasformata in una sorta di moda utile per rompere le palle ai cittadini, i quali hanno ben altri dilemmi e sono in ben altre faccende affaccendati.

Sanremo 2020, Vittorio Feltri su Roberto Benigni: "Canta l'amore gay, che cazzo guadagnare così". Libero Quotidiano il 7 Febbraio 2020. Vittorio Feltri commenta con un pizzico di ironia l'intervento al Festival di Sanremo di Roberto Benigni. Quest'ultimo ha raccontato l'eros del Cantico dei cantici e ha professato l'amore di qualsiasi tipo: "L'uomo con la sua donna, la donna con la sua donna, l'uomo con il suo uomo". Il suo monologo è stato il più lungo della kermesse, d'altronde doveva giustificare un cachet da 300mila euro. Il commento pungente di Vittorio Feltri arriva tramite Twitter: "Benigni canta strapagato l'amore gay. Però, che culo guadagnare così". 

Vittorio Feltri contro le Sardine: "Non dico che sono deficienti, ma non sembrano politicamente preparati". Libero Quotidiano il 7 Febbraio 2020. Vittorio Feltri inquadra le Sardine per quello che sono, senza troppi giri di parole. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, il direttore di Libero dice: "Mi sono sempre chiesto quali fossero le finalità delle Sardine lì, delle Acciughe, non ho capito niente, non si sono espressi". E ancora, affonda: "Il capo delle Acciughe, Sardone, ah no Mattia Santori (come gli suggeriscono poi dallo studio, ndr) sarà simpaticissimo al bar ma quando gli hanno chiesto cosa pensasse della prescrizione ha risposto che non lo sa". Ecco, conclude Feltri, "non dico che sono deficienti ma non sono preparati per fare qualsivoglia iniziativa. Adesso si stanno disunendo. Quelli di Scampia non sono stupidi, se non si lasciano trascinare dai pesciolini avranno i loro bravi motivi".

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 6 febbraio 2020. Nelle scorse settimane, il popolo inglese è andato a votare per le elezioni politiche. Motivo molto semplice. La Gran Bretagna deve uscire dall' Unione europea come deciso da un referendum in cui la cosiddetta Brexit ha vinto con un margine non ampio ma comunque netto. I conservatori, alla testa della battaglia anti-Europa assieme al partito "ribelle" di Nigel Farage, non avevano i numeri necessari per trattare con Bruxelles senza rischiare di trovarsi sconfitti poi nel proprio Parlamento, con le immaginabili conseguenze negative in termini di autorevolezza. Caduta Theresa May, il nuovo leader dei tories, l' ex sindaco di Boris Johnson, ha coraggiosamente scelto di tornare alle urne (nei paesi democratici si fa così) per veder confermato o smentito il mandato per trovare un accordo con l' Europa. Un rischio. Premiato da un successo travolgente. I laburisti, guidati da Corbyn, si sono presentati con un programma di nazionalizzazioni che perfino Lenin avrebbe trovato eccessivo. Sconfitta disastrosa. Bene. Il giorno dopo ho letto con attenzione i commenti della stampa italiana, da sempre ottusamente contraria alla Brexit per motivi di propaganda pro Unione europea che sfuggono, a mio avviso, a ogni logica che non sia il conformismo puro e semplice. Quando vinse la Brexit dissero che aveva votato solo la pancia del paese, in pratica le zone rurali o ex industriali del nord. I londinesi cosmopoliti, la parte migliore della Gran Bretagna, secondo i nostri soloni, avevano votato in massa per rimanere in Europa. E quello era la scelta giusta. I giovani però non avevano capito, avevano disertato la consultazione e consegnato le sorti dell' isola a vecchi sciovinisti e rancorosi. I nostri illuminati editorialisti, che conoscono benissimo Piccadilly Circus, ma forse neanche quello, avevano condannato a morte l' economia della City e previsto fuga in massa di importantissime (ciao, belli) agenzie europee e banche e investitori. Naturalmente non è successo quasi nulla. E non sarebbe successo proprio nulla se la May avesse avuto forza sufficiente in Parlamento per chiudere la discussione. Bene, ora Boris Johnson quella forza ce l' ha. E straripante. Ma i nostri "esperti" non hanno cambiato idea. Segnatevi la profezia del 99 per cento della stampa italiana. Questo è l' ultimo brindisi di Johnson, da qui in avanti l' Inghilterra diventerà una potenza economica marginale. A nessuno viene in mente che uscire dall' Unione europea, e decidere autonomamente del proprio destino, possa essere una scelta di libertà. No, è egoismo. Meglio restare vassalli di un impero (in cui l'imperatore è una moneta) che serve solo a mascherare la debolezza della Francia e lo strapotere della Germania. Almeno fino a quando le cose staranno così, e l' Unione non avrà alcuna politica comune in campo fiscale, militare e di politica estera. Almeno fino a quando il Parlamento europeo non sarà come l' attuale: uno specchietto per le allodole, che credono di dare legittimità democratica all' Unione senza considerare che il potere degli eletti è quasi simbolico. Non voglio però parlarvi solo della Brexit. La vicenda è esplicativa dell' incredibile provincialismo col quale i nostri commentatori guardano ai Paesi stranieri dei quali si dicono esperti. Non ne azzeccano mai una. Trump doveva essere piallato dalla Clinton, abbiamo visto com' è finita. La Brexit doveva essere sconfitta, abbiamo visto com' è finita. Boris Johnson rischiava la rimonta di Corbyn, abbiamo visto com' è finita. I progressisti di tutto il mondo sono buoni, bravi e belli. Come quel fenomeno di Obama, premio Nobel per la pace a prescindere dai disastri che la sua dissennata politica ha creato in Medio oriente, dalla gestione della crisi siriana ai missili sulla Libia passando per le fallimentari primavere arabe. Vogliamo proseguire? Il rapporto coi russi avrebbe dovuto rovinare Trump. Invece sotto le macerie è finita la Clinton. Trump era un lurido isolazionista che avrebbe distrutto la crescita economica. È accaduto l' esatto contrario. Vogliamo venire in Italia? Berlusconi nel 1994 doveva essere sconfitto dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. E infatti... è accaduto il contrario. Il Movimento 5 stelle era un fenomeno passeggero. Così passeggero da arrivare ad essere il primo partito in Italia e a governare (con i piedi). La Lega di Salvini aveva perso l' anima e si sarebbe dovuta accontentare di governare su Varese e provincia. Infatti ha il 35 per cento su base nazionale e dopo la disastrosa esperienza di governo con Di Maio si appresta a tornare al comando, questa volta con un più sensato centrodestra. Insomma, i "fuoriclasse" dell' informazione spesso non capiscono nulla. Vivono asserragliati in un mondo troppo piccolo, quello dei loro amici. Trascorrono belle serate in ristoranti di lusso a darsi ragione l' un l' altro. Non colgono neppure la sfumatura di ironico disprezzo negli occhi dei camerieri dai quali sono serviti con professionale ma finta riverenza.

Vittorio Feltri contro le toghe dai ricchi stipendi: "I magistrati sono gli unici che se sbagliano non pagano". Libero Quotidiano l'11 Febbraio 2020. Il pm calabrese antimafia, Nicola Gratteri, ha dichiarato durante una intervista rilasciata in tv a Lucia Annunziata, di guadagnare bene. Ci mancherebbe altro. Ignoro a quanto ammonti il suo compenso mensile, ma immagino che i di lui colleghi incassino la stessa cifra. È giusto che coloro i quali amministrano la giustizia, un incarico delicato e complicato, ricevano emolumenti adeguati al ruolo che ricoprono. Però c' è un problema che con le mie sole forze non riesco a risolvere. Risulta che in Francia e in Inghilterra il numero delle toghe sia la metà di quelle italiane, ciononostante l' Iter giudiziario nei citati paesi è molto più veloce che nel nostro. Perché? Non ho un' idea in proposito, ma solo qualche sospetto. So per esempio che siamo un popolo assai litigioso, qualsiasi grana condominiale (se ne registrano a migliaia) finisce nei tribunali che di conseguenza sono ingolfati da una serie di cause sceme che richiedono udienze su udienze tali da imporre perdite infinite di tempo. I magistrati poi lamentano carenze di personale ausiliario che ritardano il disbrigo delle pratiche. Se i nodi sono questi si possono sciogliere. I processini provocati dalle beghe fra inquilini si affidino ad apposite commissioni che applichino un tanto al chilo le norme, sgravando pm e giudici alle prese con roba più seria. Per quanto riguarda cancellieri e segretari vari mancanti, si dovrebbe ovviare alle attuali lacune investendo in assunzioni finanziate con i soldi oggi stupidamente sprecati col reddito di cittadinanza. Così i magistrati non avrebbero più pretesti per giustificare la loro storica lentezza. Infine nessuno finora ci ha spiegato perché i magistrati siano i soli lavoratori pubblici (e non contiamo quelli privati) che se sbagliano, e Dio sa quanti di essi commettono errori gravi che pesano sul groppone dei connazionali, non pagano mai. E dire che sulla loro responsabilità civile obbligatoria ci fu addirittura un referendum popolare. I medici sono schiacciati da procedimenti penali e non, i giornalisti per una virgola storta vanno alla sbarra, perfino gli operai delle ferrovie (accade in questi giorni) sono sotto torchio per un guasto ai binari, mentre i signori togati anche se sbattono in galera un innocente non ne rispondono di tasca. Ovvio che siano più disattenti dei comuni mortali pur ricevendo stipendi cospicui. Bisogna rimediare. Riempite pure di soldi gli addetti alla giustizia, ma se giustizia non fanno siano trattati come noi manovali. di Vittorio Feltri

Vittorio Feltri contro Umberto Bossi: "Dovrebbe stare zitto, Matteo Salvini è più bravo di lui". Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. Un nuovo scontro tra Umberto Bossi e Matteo Salvini, con il primo che ha attaccato il secondo in un'intervista a Repubblica, criticando la svolta nazionalista impressa alla Lega. Da par suo l'ex ministro dell'Interno ha replicato al Senatùr affermando che i soli padri nobili della Lega sono gli elettori. Ennesimo scontro, la frattura tra i due è sempre più profonda. E cosa ne pensa, Vittorio Feltri? Il direttore di Libero ha detto la sua in un'intervista al Tg4, dove non ha lasciato spazio ad alcuna ambiguità: "A me sembra una sciocchezza quella di Bossi, che mi è simpatico e ha fondato un partito che poi si è sviluppato. Ma non scordiamo che non ha mai superato il 7-8% dei consensi, mentre Salvini ha ottenuto alle ultime elezioni il 40% e di norma è sul 30 per cento - rimarca il direttore -. Questo significa che Salvini è più bravo di Bossi, al quale converrebbe stare zitto. A Salvini conviene andare avanti per la sua strada, su cui è arrivato ad ora molto lontano: ha portato la Lega ad essere il primo partito italiano. Non si può dare del fesso a chi ha portato Salvini a quei livelli", conclude Vittorio Feltri.

Vittorio Feltri sul cancro alla laringe: "Fa più male la figa delle sigarette, ecco la prova". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Sicuri che il fumo faccia così male? Il dubbio lo coltiva, da sempre, Vittorio Feltri, fumatore mai pentito. E proprio su questo dubbio, il direttore di Libero si esprime su Twitter. Cita Melania Rizzoli, "medico eccellente", ricorda Feltri. E la Rizzoli, prosegue nella sua narrazione, "mi ha detto che il cancro alla laringe si pensava fosse dovuto al fumo, invece è causato dal papilloma virus". Il direttore passa poi alla dissacrante conclusione: "Ergo, fa più male la figa delle sigarette. Impara, sindaco di Milano". L'ultimo riferimento è a Beppe Sala, il quale ha recentemente scatenato la guerra alle bionde, vietate alle banchine dei mezzi pubblici e anche allo stadio di San Siro. Lo stesso Beppe Sala a cui, soltanto poco prima, Feltri aveva riservato un altro, durissimo, tweet.

Feltri: “I giornali, come le donne, dopo un po’ vanno cambiati”.  Marco Lomonaco il 31/01/2020 su Il Giornale Off. Vittorione a tutto campo. Ieri su Libero Vittorio Feltri ha sceritto un articolo in difesa della comunità cinesi, in questo periodo molto osteggiata causa panico da coronavirus: “Immagino che la piaga del virus Corona sarà presto sanata, sebbene certe notizie che giungono dal Sol Levante siano inquietanti: si afferma che la popolazione si nutra di insetti e animali vivi, ingurgitati senza precauzioni. Tale pratica mi fa orrore, ma non dimentico che nelle valli bergamasche fino al 1970 i miei conterranei si nutrivano di rane e di piccoli volatili, nonché di anguille. Ho molta simpatia per i cinesi. Sono lavoratori indefessi, studiosi accaniti, dotati di una volontà di ferro. Forse per questo non sono vittime di razzismo, vivono appartati nei loro quartieri, si fanno gli affari propri, non disturbano. Mi domando perché gli africani, in linea di massima, non vengano accolti con tanta cordialità nel nostro Paese. E una risposta c’è. Non ho mai visto un giallo bighellonare per strada e chiedere l’elemosina”. Vittorio Feltri, 76 anni, giornalista, scrittore, personaggio eclettico, provocatore e fine editorialista, di lui hanno detto e scritto bene e male, sempre tutto il contrario di tutto.

Direttore, partiamo dal suo nuovo libro. Cos’ha significato per lei la pubblicazione dell’autobiografia intitolata “Il Borghese”?

«Diciamo che non è una biografia classica né un autobiografia. Sono delle mie memorie messe nero su bianco (senza ausilio di documentazione o quant’altro) ricche di aneddoti e siparietti divertenti. Le ho raccolte in forma di capitoli, dedicandone ciascuno ad un personaggio diverso. Ho voluto dilettare un po’ il lettore raccontando quello che succede nelle redazioni e nei rapporti tra i giornalisti, che di norma non è conosciuto. E’ come se fosse un articolo di giornale troppo lungo».

Com’è cambiato il mondo del giornalismo rispetto a quando lei ha iniziato? Dia un consiglio a un giovane aspirante giornalista.

«Non è cambiato il giornalismo, è cambiata la realtà. E’ arrivata una tecnologia devastante che non dico che ci ha ammazzati, ma almeno storditi! Anche la tv – ad esempio – ci ha tolto il gusto dei reportage: prima mandavi un giornalista in Siria a raccontare, ora ce lo mandi lo stesso ma parlano le immagini per lui. Inoltre i giornalisti trovano comodo oggi attingere da internet, il quale come è oramai risaputo è abbastanza inattendibile, e non si rendono conto del fatto che è proprio la rete ad averci tarpato le ali (in quanto giornalisti). Le persone si informano su Google, senza badare alla fonte, scavalcando il tramite che si fa garante dell’informazione fornita. Nonostante tutto questo, in sé il giornalismo è sempre uguale, anche se devo dire che negli anni la scuola è un po’ decaduta e non tutti i ragazzi che vorrebbero fare i giornalisti possono oggi, non tutti ne hanno gli strumenti; detto ciò quelli bravi ci sono ancora, io a Libero ne ho cinque o sei che sono eccellenti. Il vero problema è trovare un buon lavoro, nei giornali si tende a licenziare e non ad assumere. Se uno però insiste e non demorde ce la fa, com’è sempre stato: io stesso ho fatto anni e anni di abusivato prima di farcela in questo mondo».

Possiamo dire che lei si gode la pensione lavorando?

«Sì perché alla pensione “in ciabatte” non ci penso neanche. La mia passione coincide con il mio lavoro, quindi continuo a farlo e a guadagnare lavorando; se mi pagano la pensione me ne sbatto le balle. Fisicamente sto bene, non faccio fatica, anche se a volte mi stanco. Amo molto la carta stampata, molto più della tv: insomma faccio molto volentieri il mio lavoro e non ho intenzione di smettere».

Disse qualche tempo fa al Fatto: «i giornali sono come le donne, dopo un po’ mi stufo».

«Ogni tanto mi piace cambiare. Non si può sempre vedere le stesse facce, fare le stesse cose, affrontare gli stessi problemi. Non dico ogni due anni ma ogni tanto mi piace cambiare e nella vita bisogna avere il coraggio di affrontare i cambiamenti».

A quale dei molti giornali in cui ha lavorato è rimasto più affezionato?

«Devo dire di essere rimasto legato in modo particolare al Corriere della Sera, dove sono rimasto per quindici anni tra alti e bassi – a dirla tutta con più bassi che alti. Poi senza dubbio sono affezionato al Giornale, che ho risollevato, e infine al mio quotidiano Libero, che ho creato dal nulla».

E anche di una donna si stufa dopo un po’?

«Come tutti, non è che sono il solo a stufarmi. Semplicemente io ho la faccia di tolla e non ho problemi ad ammetterlo. Diciamo che è difficoltoso stare tutta la vita con una donna senza fare qualche piccolo deragliamento. Io con mia moglie ho celebrato cinquant’anni di matrimonio, quindi non è che ogni volta che ho un’erezione mi sposo. Però è piacevole la compagnia di una bella donna intelligente con cui è piacevole parlare. Diciamo che non è che se devo andare a pranzo scelgo Senaldi, preferisco andare con una bella donna».

Lei ha conosciuto Montanelli al Corriere della Sera, o dopo?

«L’ho conosciuto che se n’era già andato dal Corriere. Io vi arrivai nel 74, quando Montanelli fondò Il Giornale Nuovo. Pensi che in quel periodo ero l’unico che lo poteva intervistare, perché tutti gli altri del Corriere gli stavano tremendamente sulle balle».

Descriva Montanelli in due o tre parole.

«Il Papa dei giornalisti italiani».

Enzo Biagi.

«Il più scaltro e fantasioso della compagnia».

Oriana Fallaci.

«Una fuoriclasse».

Senta Feltri, avrà sentito parlare del bordello delle bambole che ha aperto a Torino recentemente. Vorrei capire cosa ne pensa e se secondo lei, vista la situazione, non sia il caso di riaprire le case chiuse in Italia.

«Naturalmente ognuno di noi giudica sulla base della propria esperienza. Io non ho mai avuto il bisogno di frequentare una casa di tolleranza, perché grazie al Cielo le donne mi hanno sempre apprezzato. Del bordello delle bambole non me ne frega niente sinceramente e nemmeno della riapertura delle case chiuse. Basterebbe dare un minimo di regola a questo fenomeno ma, sinceramente, non vedo nessuna urgenza di riaprire le case: la gente scopa e ha sempre scopato senza leggi e senza l’assistenza dello Stato».

Ci dica due parole su questo sodalizio Di Maio – Salvini al governo del Paese. Sta funzionando?

«Su Di Maio non mi esprimo nemmeno perché ho terminato da un pezzo le parolacce per farlo. Per quanto riguarda Salvini invece, sapevo che sarebbe andato lontano, ha fiuto e talento ed è un uomo del popolo che sta in mezzo al popolo. E’ normale che riscuota grandi consensi, contrariamente a quel “becchino” di Martina. Conobbi Salvini una decina di anni fa e intravidi in lui il potenziale dell’uomo politico: a distanza di dieci anni credo di aver avuto ragione».

Ci racconta un episodio OFF della sua carriera?

«Un episodio che non molti conoscono della mia vita è l’incontro con Biagi al Corriere. Ho avuto la possibilità conoscendolo di entrare nella sua squadra che produceva programmi per Rai 1 e in qualche modo possiamo dire che, quatto quatto, dal dietro le quinte, gli ho rubato in parte il mestiere. Abbiamo lavorato per anni gomito a gomito e da quell’esperienza in poi le cose mi sono andate meglio di prima. Grazie a quell’incontro la mia carriera in un certo senso svoltò».

Chi è il miglior giornalista in Italia oggi? Se per lei ha senso questa definizione.

«Per quanto riguarda la carta stampata -e quindi la scrittura-, certamente Marco Travaglio. Per ciò che concerne invece la capacità di essere eclettico, la poliedricità del professionista, direi Aldo Cazzullo».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 31 gennaio 2020. Ho molta simpatia per i cinesi. Sono lavoratori indefessi, studiosi accaniti, dotati di una volontà di ferro. Forse per questo non sono vittime di razzismo, vivono appartati nei loro quartieri, si fanno gli affari propri, non disturbano. Mi domando perché gli africani, in linea di massima, non vengano accolti con tanta cordialità nel nostro Paese. E una risposta c' è. Non ho mai visto un giallo bighellonare per strada e chiedere l'elemosina. Dalle mie parti, nei dintorni di Bergamo, fino a qualche anno fa c'era un bar, sembrava un cimitero che, a un certo punto, fu ceduto a una famiglia di pechinesi. All'improvviso, quel locale in procinto di fallire si rianimò. Oggi non chiude mai nemmeno durante le feste raccomandate. È più frequentato del caffè della stazione. Vende tabacchi, giornali, pasticcini, bottiglie di vino pregiato. Insomma smercia di tutto con una gentilezza orientale, non con le maniere brusche tipicamente orobiche. È un esercizio modello, che immagino vada a gonfie vele. Sempre pieno di gente soddisfatta. La sua operosità fa riflettere sul contributo che i cinesi danno alla economia italiana a volte asfittica. Racconto un altro episodio di cui sono stato protagonista. Tempo fa ero direttore del quotidiano Indipendente. Il mio amico Giorgio Forattini mi telefonò e mi disse: «Conosco una ragazza cinese che studia all'università di Bologna e vorrebbe guadagnare qualche soldo per mantenersi. Tu puoi aiutarla?». Risposi: «Scusa, ma come? Avere una cinese in redazione è come avere un rinoceronte in casa. Non vedo quale ruolo sarebbe utile affidarle se non quello della donna delle pulizie». Replica di Forattini: «A me interessa che tu la riceva per dimostrare che mi sono occupato di lei, poi fa ciò che ti pare». La ricevetti. Era una ragazza bella e alta, indossava abiti tradizionali della sua terra, parlava perfettamente la nostra lingua. Non sapendo bene che proporle, le chiesi: scrivimi un pezzo sulla scuola primaria della tua patria, di cui noi non sappiamo niente. La signorina, che aveva il nome più corto del mondo, I, non si scompose. Si ritirò nella stanza dei collaboratori, riuscendone con tre fogli dattilografati che mi porse con un sorriso. Lessi il testo e rimasi sconcertato: erano vergati da Dio, non un errore, prosa limpida. Mentre l'assunsi pensai: hanno vinto loro, i cinesi, sono più intelligenti di noi. Non sbagliavo. Rimase con me un biennio, svolgendo la professione in maniera impeccabile. Quando la portavo con me in un ristorante alla moda di corso Venezia, a Milano, il chiacchiericcio dei commensali, che ci osservavano mentre attraversavamo la sala in cerca del tavolo, si sospendeva. Non si udiva più nemmeno il tintinnio dei bicchieri. I clienti zittivano e guardavano I che con incedere elegante mi seguiva. Era pure molto bella, benché con un fisico morfologicamente diverso da quello delle nostre donne. Al termine degli studi accademici, ella tornò in Oriente, precisamente a Hong Kong, dove le fu offerto il posto di caporedattore della maggiore televisione locale. Mi telefonò un paio di volte per salutarmi, poi persi ogni contatto. Ho narrato questa storia stupefacente per giustificare il fatto che non sono meravigliato del successo che conseguono le persone dagli occhi a mandorla nel mondo intero. Immagino che la piaga del virus Corona sarà presto sanata, sebbene certe notizie che giungono dal Sol Levante siano inquietanti: si afferma che la popolazione si nutra di insetti e animali vivi, ingurgitati senza precauzioni. Tale pratica mi fa orrore, ma non dimentico che nelle valli bergamasche fino al 1970 i miei conterranei si nutrivano di rane e di piccoli volatili, nonché di anguille. Ignoro le cause del diffondersi del morbo che sta terrorizzando milioni di uomini e donne, ma quand' anche esistesse l' abitudine di divorare povere bestie, non avremmo diritto di deplorare i cinesi. Cinesi siamo stati pure noi, nel nostro piccolo.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. Non è un libro per depravare fanciulli, quasi non ci fossero già abbastanza maestri del settore: sarebbe stato troppo banale per uno come lui. Il titolo dice Tre incredibili racconti erotici per ragazzi (La nave di Teseo, pagine 59, 10). E in effetti la copertina dotata di una Minnie, la fidanzata di Topolino, ignuda alla faccia di Walt Disney (opera di Max Papeschi, all' interno ci sono tre bei disegni di Gipi) induce all' idea che quello screanzato di Massimiliano Parente si dedichi con la sua prosa arrapante a guidare adolescenti acerbi in qualche bordello letterario, come una nave scuola che introduca giovinetti e giovinette agli espedienti della lascivia. Per fortuna, nulla di tutto questo. I ragazzi siamo noi, tristi figure del nostro tempo, qualsiasi età abbiamo, imprigionati in un' idea di sesso, di morale e di piacere così trasgressivo da essere noioso. Tutto si può purché si lasci incasellare nei canoni del politicamente corretto, sessualmente corretto, porcellescamente correttissimo. Senza alcunché di umano e neppure di animale, tantomeno di sanamente folle. Incredibili i racconti lo sono perché raccontano una realtà assurda da noi accettata come se fossimo stati ipnotizzati. A essere incredibile insomma, come lo sono davvero i tre racconti, è questa normalità oscena. Indecente è che noi ci si sia accoccolati dentro i suoi muri con numeri di telefono dove si promettono esperienze di "slave" (da schiavi), cosa comunemente accettata, e non si butti giù questo castello di finta libertà e finto rispetto per gli altri, usando l' ascia.

LO SCENARIO. Si entra in questi mondi, narrati in prima persona, con un ritmo che fa incollare gli occhi fino alla fine, e il sapore che resta in bocca è di consolazione, perché qualcuno - Parente - ci ha rivelato il trucco su cui si regge questa tirannide del sesso per ragazzi idioti. Il sesso a sua volta non è solo "la scopata": il sesso è specie in quest' epoca totalitario, invasivo, e costituisce il nerbo di ogni vicenda a qualsiasi livello del vivere. C'è chi mi ha suggerito di provare a leggere le attuali contese di governo e tra i partiti come conflitti tra schieramenti di genere. Tra omo e bisex contro etero, nelle varia gradazioni possibili e (non) immaginabili. Non credo che Parente abbia costruito a tavolino questo scenario. Il suo talento enorme gli consente di tirare i fili con la facilità di un ragno. A proposito di aracnidi: siamo noi le mosche cadute in questa tela rivelataci da Massimiliano. Ci siamo avvolti e la si subisce quasi fosse una fatwa irreparabile. Siamo tutti ragazzi smidollati, schiavi di conformismo del nuovo tipo, che uccide qualsiasi incanto, sorpresa, trasgressione, ingenuità. Tutto è già blindato da un costume, dove ogni diversità presunta è perfettamente normale, regolata da codicilli premurosi per tutelare il piacere. L' opposto del cattolico pudore, imposto e in realtà favolosamente trasgredito, senza che i preti si scandalizzassero. Confesso. Parente fa rimpiangere l' educazione dell' oratorio.

I PARADOSSI. Avrei dovuto aspettarmela, questa sorpresa. Niente di ovvio e di banale esce dalle sue dita. Massimiliano Parente dacché lo conosco e frequento (ho anche firmato un libro a due mani con lui sul nuovo galateo, Il vero cafone) gioca con il conformismo sbudellandolo. A volte si è esposto pericolosamente a causa di questa sua attitudine. Perché il conformismo è molto stupido, e non accetta ironie che ne rivelino l' idiozia. Per cui si costruisce una legge apparentemente perfetta, come quella contro lo stalkeraggio - qui accade nella prima novella -, ma poi si lascia che mezze calzette famose gettino esche perfettamente coscienti di ferire anime fragili. Le quali a loro volta invocano leggi che fermino la diffusione delle tette in rete, esposte come prede. Con un effetto paradossale, incredibile, devastante. Tranquillo Massimiliano. Mi aspetto che i serpenti e le serpentesse del #Metoo e delle campagne isteriche contro il femminicidio (quasi che non fosse già grave in massimo grado l' omicidio in sé) si rivoltino e ti mordano. Lo fanno inesorabilmente con chi svela la menzogna del "politicamente corretto" non accontentandosi di criticarlo, ma deridendolo. Per quel che conta, sono con te.

Feltri, Salvini e la "guerra mondiale" in Emilia: "In tv tutti a far festa per il Pd. Sorvolo sulla Gruber". Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Ho letto e ascoltato vari commenti post elettorali e ne ho tratto l' impressione che il Pd abbia vinto la guerra mondiale. In realtà ha solo riconquistato una regione rossa da sempre. Una impresa storica o una semplice conferma che l' Emilia Romagna è un vivaio di riciclati, passati disinvoltamente da Stalin a Occhetto, e da questi, strada facendo, sono arrivati, in una decrescita qualitativa, a Zingaretti? Il comunismo a mio modesto avviso non è una fede politica, bensì una grave malattia mentale da cui si può migliorare, non guarire. Pertanto non deve stupire che anche stavolta i compagni l' abbiano spuntata, battendo la Lega, la quale ingenuamente si era illusa di sbarazzarsi di loro. Figuriamoci se un popolo che si fece ammaliare dal marxismo sia disposto a salire in massa sul Carroccio fondato da Bossi e rifondato da Salvini. Oddio, è lecito illudersi ma fino a un certo punto. Oggi Matteo viene allegramente spernacchiato su ogni emittente e ogni giornale, i politologi di complemento, reclutati per analizzare i risultati espressi dalle urne, godono quali ricci nel valutare la sconfitta del Capitano. Non riescono a trattenere la loro beatitudine, e non capiscono che la sua è stata una prova eroica. Chi mai prima aveva sfidato minacciosamente i signori progressisti, che poi tali non sono? Neppure la Democrazia cristiana fu in grado di raggiungere in Emilia le percentuali raggiunte da Matteo. Il quale durante la campagna elettorale ha fatto il ganassa, come si dice a Milano, però ciò è normale. Chiunque partecipi a una competizione esibisce i muscoli onde intimorire l' avversario, non si mette in posizione supina. Ovvio. L' affermazione scontata del Pd ha dato la stura ai peggiori sentimenti anti leghisti. I conduttori televisivi e i loro ospiti non si sono trattenuti dal manifestare soddisfazione, anzi, gioia per l' inciampo di Alberto da Giussano. Sorridevano beati quasi avessero azzeccato un terno al Lotto. Perfino la mia amica Myrta Merlino, di norma composta (non sempre) si è abbandonata al buonumore. Per non parlare di Tiziana Panella, giuliva e contenta quanto mai nella celebrazione del successo Pd, trascurando il fatto che la destra recentemente si è impadronita di otto regioni, ultima la Calabria che, secondo lei, donna del Sud, non vale una cicca. Ormai La7 di Cairo è l' ufficio stampa della sinistra, le trasmissioni più apprezzabili sono le pubblicità riguardanti i materassi e le poltrone. Sorvolo sulla Gruber, per decenza.

Vittorio Feltri sull'Italia: "Ma quale latrina? Non siamo inferiori rispetto a nessuno, o quasi". Libero Quotidiano il 26 Gennaio 2020. Percepire non significa conoscere. Ciononostante si blatera quasi esclusivamente di temperatura percepita, che non è misurata dal termometro, trattasi di sensazione. Lo stesso vale per la corruzione, anche questa percepita. Si dice che l' Italia è marcia, piena di individui che danno e ricevono mazzette, vivono di sotterfugi, non pagano le tasse e via sputtanando. Per non parlare della delinquenza, la quale viene dipinta come un cancro che divora il tessuto sociale. Tutte panzane che ci rovinano la reputazione gratuitamente. La nostra Nazione è talmente sana da essere quella europea che registra il minor numero, in rapporto alla popolazione, di reati. Nel 2019, dati alla mano, dalle nostre parti le azioni delittuose hanno raggiunto il minimo storico. La sicurezza non è mai totale in nessun luogo al mondo, però da noi essa non costituisce una emergenza. Sono in costante calo gli omicidi (benché le mafie non siano state sconfitte), le rapine e perfino i furti. Non sto descrivendo la situazione del paradiso terrestre, tuttavia faccio notare che non siamo all' ultimo posto nella classifica della civiltà, ma in vetta o quasi. Dobbiamo smetterla di piangerci addosso e di autodenigrarci. Invece di percepire ciò che non esiste dobbiamo esaminare le statistiche che, sui grandi numeri, non sbagliano mai. La corruzione consiste in gran parte nel tentativo da parte della gente non di strappare un favore, bensì il rispetto di un diritto. Se ho bisogno di una Tac all' ospedale, l' impiegato mi comunica di tornare fra sei mesi. Per accelerare le tempistiche, dunque, metto mano al portafogli e allungo al funzionario 100 euro. Cosicché d' incanto ottengo l' appuntamento col medico che mi riceverà la prossima settimana. Questo non è un episodio corruttivo, ma una semplificazione nel mare della burocrazia più spietata e soffocante del globo. I femminicidi sono sempre troppi, d' accordo, eppure inferiori alla media continentale. Aumentano invece gli scandali negli ospizi, vecchi brutalizzati e addirittura torturati, tuttavia nessuno se ne cura. Gli anziani possono essere presi a calci nel culo impunemente, così i bambini negli asili dove non sono ancora state installate le telecamere. Il nostro problema non è provocato dal comportamento dei cittadini, piuttosto dalla politica incapace di proteggere le persone oneste e di tutelarle con una legislazione idonea. Quanto alla microcriminalità che turba la popolazione, giova ricordare che essa non è combattuta efficacemente dalle forze dell' ordine perché queste ultime sono frenate da disposizioni che proteggono i malviventi e demonizzano agenti e militari allorché agiscono con vigore. In altri termini, c' è più comprensione per i malfattori che non per chi li contrasta. La nostra patria non sarà l' Eldorado però neppure la latrina che emerge dai racconti di una informazione che distorce la realtà. E noi non saremo i migliori, ma quasi. Consoliamoci invece di sentirci inferiori. Inferiori a chi? di Vittorio Feltri

Vittorio Feltri contro Piercamillo Davigo: "Non esistono innocenti? Anche lui rischia di essere scoperto". Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Giustizia e dintorni. Non c'è soltanto Alfonso Bonafede con le sue gaffe sugli "innocenti che non vanno in galera". Ci sono anche le teorie di Piercamillo Davigo, ideologo in tema di giustizia del M5s ultra-manettaro, il quale in buona sostanza ha una concezione secondo la quale gli innocenti non esistono, ma esistono soltanto colpevoli che ancora non sono stati scoperti. Lo disse, chiaro e tondo, tempo fa. Giustizialismo puro. Roba da Davigo, grillini e Marco Travaglio. E contro Davigo, su Twitter, punta il metaforico dito Vittorio Feltri, con il seguente cinguettio: "Davigo sostiene che non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti. Fosse vero, anche lui rischierebbe di essere scoperto", conclude allusivo il direttore di Libero.

Vittorio Feltri, nessuna illusione dopo l'Emilia Romagna: "I soldatini Pd e M5s non mollano la poltrona". Libero Quotidiano il 24 Gennaio 2020. Caro Becchi e caro Palma, sul piano del buon senso avete ragione. Ma su quello pratico avete torto marcio perché non tenete conto di un fatto decisivo. Quand' anche domenica dovesse stravincere la Lega in Emilia e in Calabria, il numero dei parlamentari che oggi costituisce la maggioranza di governo non muterebbe di un punto, pertanto l' esecutivo non ne soffrirebbe. Voi giustamente obiettate che se nel Paese l' asse politico si è spostato da sinistra a destra, coerentemente il capo dello Stato sarebbe obbligato a sciogliere le Camere e a indire nuove elezioni nazionali. Non sarà così, per un semplice motivo. Senatori e deputati piuttosto che affrontare una crisi destinata a sfociare in una consultazione sosterrebbero non solo Palazzo Chigi ma pure un gabinetto di decenza, onde non rischiare di perdere il posto in Aula. Ecco la ragione per cui sono convinto che Conte conserverà la presidenza del Consiglio che garantisce ai poltronisti in suo appoggio di seguitare a percepire l' indennità, la quale è sempre preferibile al reddito di cittadinanza. In altre più crude parole, i soldatini del M5S e del Pd non mollerebbero la cadrega nemmeno nel caso in cui a Montecitorio e dintorni si scatenasse un allarme atomico. Meglio morti che affamati. Il mio è un discorso volgare però proprio per questo è veritiero, fondato sull' esperienza decennale maturata quale cronista politico. Naturalmente mi auguro che Mattarella trovi il sistema per licenziare tutti i parlamentari e dare la parola, anzi la scheda, al popolo come usa nelle democrazie decenti, tuttavia temo che il mio e il vostro desiderio, Becchi e Palma, non si realizzi. Mancano i presupposti. Un' ultima osservazione. Salvini viene quotidianamente attaccato con vari pretesti, molti sono capziosi, nell' intento di metterlo a cuccia pugnalandolo, impedendogli in tale modo di vincere le battaglie elettorali. L' astio nei suoi confronti e perfino l' odio ovviamente sono sentimenti legittimi. Coloro che si illudono di batterlo sfruttando simili metodi dovrebbero comunque capire che sovente la pubblicità negativa giova a chi ne è vittima. Dare addosso scriteriatamente a Matteo significa fornirgli il carburante utile ad arrivare primo nelle urne. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 23 gennaio 2020. È la fine di un bluff, di una montatura. Non deve stupire che Luigi Di Maio abbia ceduto le armi che non aveva, ma continua a sorprendere che egli, per lungo tempo, sia stato al timone del partito di maggioranza relativa. Come è possibile che un personaggio tanto modesto sia riuscito a salire al vertice, e a rimanerci fino a ieri, di un movimento che alle ultime elezioni politiche ha preso il 33% dei voti, è e resta un mistero. Mentre la sua caduta risponde alla logica: Gigino si è rivelato quasi subito incapace di gestire un gruppo imponente e perfino se stesso. La sua esperienza ai piani alti del baraccone grillino si conclude nel peggiore dei modi, ma è stata coerente con la nullità culturale dell' ometto, troppo giovane e impreparato per dirigere una forza elettorale numericamente di rilievo. Se egli ha fallito tuttavia la colpa non è solamente sua. I pentastellati ebbero successo perché predicavano contro l'euro, contro Bruxelles, e strombazzavano teorie sovraniste e populiste. Poi, una volta conquistato il potere, hanno fatto dietrofront. Hanno cominciato a rompere le palle col reddito di cittadinanza, si sono allineati ai precetti di Angela Merkel, si sono affidati a Giuseppe Conte, hanno introdotto l'abolizione della prescrizione. Insomma hanno sposato una linea opposta a quella che avevano dichiarato di perseguire in campagna elettorale. Il pilota Di Maio, non in grado di manovrare neppure uno scooter, ha guidato la macchina contromano e inevitabilmente è andato a sbattere. Ora è ferito e rischia il decesso politico, secondo demerito. Tralasciamo di insistere sul salto della quaglia, dalla Lega al Pd, che di per sé era un tentativo di suicidio. Tralasciamo le difficoltà di Luigino nella coniugazione dei verbi italiani. Tralasciamo le burrasche fiscali dei famigliari. Sorvoliamo per pietà su certi lati della sua personalità che lo rendono buffo. Non è bello infierire sugli sconfitti. Di Maio non è più un leader, e ciò è consolante, eppure egli non smette di essere un piccolo ministro degli Esteri di un grande Paese quale il nostro, che seguita a prendere dei granchi. Questa stagione caratterizzata dal dilettantismo e dall' improvvisazione deve chiudersi in fretta. Altrimenti sarà una tragedia. Avere un governo inferiore al livello medio dei cittadini è nocivo. O ci liberiamo in fretta dei poveri grillini oppure ci ritroveremo feriti o defunti in fondo al burrone.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2020. Conosco Sala, sindaco di Milano da parecchi anni e l'ho apprezzato in particolare modo allorché organizzò in maniera magistrale il famoso Expo che contribuì a rilanciare alla grande la città. Quindi mi imbarazza ora parlarne male, però non posso trattenermi. Non so cosa gli sia passato per la mente, ma dicono voglia impedire alla gente di fumare per strada. Io capisco che a lui stiano sulle balle le sigarette e gli riconosco il diritto di combatterle con ogni mezzo tranne uno: vietarle per legge. In casa sua non è lecito accenderne neanche una? Bene, può pretendere questo ed altro: entro le sue mura si vive come egli comanda. Non esiste problema. Un problema invece sorge nel momento in cui il primo cittadino ambrosiano esige che noi ci si astenga dall' aspirare nuvole azzurre per strada, alle fermate dei mezzi pubblici eccetera. È evidente che l' annuncio dei suddetti provvedimenti proibizionistici abbia allarmato i milanesi, i quali si domandano angosciati: Sala sta bene o gli è dato di volta il cervello? Perché al posto di romperci l' anima con certe mattane non si fa i cazzi suoi? Interrogativi non del tutto illegittimi viste le ragioni che lo avrebbero indotto a studiare l'opportunità di strapparci la cicca di bocca. Il sindaco, in sostanza, dichiara che il fumo inquina l'atmosfera della metropoli e la rende irrespirabile. In tale sua convinzione egli è supportato da un medico, pneumologo di fama, il quale asserisce che una sigaretta è più nociva dello scarico di una locomotiva e di alcune automobili. Sarà vero? Nonostante io abbia fiducia nella scienza e perfino, talvolta, negli scienziati non credo a certe esagerazioni che sconfinano nella scemenza. Forse è più salubre l'aria di una pineta che non le nuvolette prodotte dal tabacco combusto, tuttavia da qui a sostenere che esse ne ammazzino di più degli impianti di riscaldamento gestiti dal Comune ce ne corre. Prima di vietare il fumo, che io aspiro da 60 anni e non sono ancora morto, si spengano le caldaie che soffocano la cittadinanza e impongono il blocco della circolazione solo d'inverno. Infatti quando in primavera esse si fermano, lo smog non c'è più.

Vittorio Feltri: "Prescrizione, i processi dureranno all'infinito. Era meglio abolire i giudici fannulloni". Libero Quotidiano il 17 Gennaio 2020. Vittorio Feltri, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, attacca sulla riforma della giustizia voluta dal Movimento 5 stelle e firmata Alfonso Bonafede: "La prescrizione non c'è più ma i processi dureranno all'infinito", scrive il direttore di Libero. Che si chiede: "Non era meglio abolire i giudici fannulloni?". Una riforma che non piace alle opposizioni ma anche molto criticata dagli "addetti ai lavori". "La riforma della prescrizione è un intervento di settore inutile e sostanzialmente dannoso. È come se un cittadino prendesse un treno che sa quando parte ma non sa quando arriverà a destinazione", ha detto il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin intervenendo a Studio 24, su Rainews 24.

Vittorio Feltri: "Non va sospesa la prescrizione, ma certe toghe. E la chiamano giustizia". Libero Quotidiano il 18 Gennaio 2020. Divampa la polemica sulla abolizione della prescrizione, che in pratica vuol dire una cosa sola: i processi non si estinguono mai, vanno avanti finché non arriva una sentenza, cosicché le vittime di un reato saranno almeno moralmente risarcite. A prima vista sembra una saggia decisione in favore di chi abbia subito un danno di qualsiasi tipo. Molti magistrati sono favorevoli alla non cancellazione dei procedimenti, e credo di conoscerne il motivo. Essi infatti sono protagonisti, non sempre per colpa loro, della lentezza del sistema giudiziario. Dicono che le toghe siano poche (e non è vero se paragonate a quelle di Paesi più veloci nel disbrigo delle pratiche) e che nei tribunali manchino cancellieri nonché altro personale ausiliario. Forse hanno ragione di lamentarsi, tuttavia resta il fatto indubitabile che la giustizia italiana sia la più indolente del globo terraqueo. Credo dunque sia consentito sospettare che il potere giudiziario sia un po' troppo pigro nella propria amministrazione. Sorge spontaneo un dubbio. Questo: se i procedimenti non si concludono mai e durano a volte decenni, è lecito ritenere che la responsabilità dei ritardi sia attribuibile alla furbizia degli imputati, i quali se davvero fossero tanto astuti non sarebbero alla sbarra ma l'avrebbero fatta franca? Più probabile che, se per addivenire alle conclusioni un processo si richiede lo scorrere di lustri, non sia estranea la oziosità dei pm e dei giudici. Cosicché una persona accusata di aver combinato qualcosa di sbagliato sta in ballo un quarto di secolo prima di ottenere un verdetto. Da ciò si evince: prima di fare fuori la prescrizione che, alla scadenza di certi tempi, elimina il contenzioso, sarebbe opportuno rimuovere le lungaggini e magari richiamare all'ordine coloro che le provocano. Insomma, se i dibattimenti comportano secoli per giungere a un giudizio, non bisogna prendersela con chi li subisce, bensì con chi provoca la dilatazione dei medesimi. Il problema si complica ove si considera che il 50 per cento dei carcerati viene alla fine riconosciuto innocente. Si tiene cioè in galera per anni gente che non ha commesso scorrettezze. E il governo invece di abbreviare la durata dei processi, sopprime la prescrizione, consentendo alle toghe di non esaurire mai il loro lavoro. Esse sono abilitate a sbagliare senza pagare per i loro errori. E poi la chiamano Giustizia. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri su "Cancellare Salvini" di Repubblica: "Criticare il leghista si può, altri sono intoccabili". Libero Quotidiano il 16 Gennaio 2020. Cari colleghi dell'Ordine, stamane il quotidiano Repubblica reca in prima pagina il seguente titolone di apertura: "Cancellare Salvini". Non credo che l'intenzione del titolista fosse quella di cancellare con la gomma il capo della Lega. È una frase minacciosa che incita al linciaggio. Cosa sarebbe successo se Libero avesse scritto a caratteri cubitali: "Cancellare Segre"? Segnalo a voi, che non leggete i giornali ma processate i giornalisti politicamente scorretti, questa perla democratica e antifascista. Sono curioso di vedere se sanzionerete Carlo Verdelli che pure è un direttore stimabile. Cordiali saluti. Ecco, questo è l'esposto che ieri ho inviato ai soloni della categoria dopo essere inciampato nel citato titolo di Repubblica dedicato al reprobo Matteo Salvini. Noi di Libero non vorremmo mai punire un collega, convinti come siamo che le libertà di pensiero e di stampa siano sempre da salvaguardare e da rispettare in ogni circostanza, purché le espressioni maneggiate dai cronisti non sconfinino, come in tal caso, nell'incitamento all'odio oppure, come in altri casi, nella diffamazione, che è un reato da perseguire penalmente e non deve riguardare i tribunalini di categoria, a mio giudizio poco raccomandabili essendo influenzati dalle ideologie. La mia denuncia non intende colpire il direttore Verdelli, che sul suo giornale ha il diritto di adoperare il linguaggio che ritiene più opportuno. A me importa soltanto stabilire la fondatezza di un concetto: la deontologia o la si rispetta tutti, anche se discutibile, oppure che venga archiviata fra le cose inutili, o meglio dannose, perché essa si presta a dividere i professionisti della informazione in buoni e cattivi, quando invece siamo quasi tutti cattivi, noi che scriviamo cazzate quotidiane senza nemmeno avere tempo di riflettere. Infine ci troviamo o in tribunale a giustificarci oppure a subire le reprimende della corporazione che pende a sinistra come la torre di Pisa. Inoltre faccio presente che in questo genere di contenziosi si usano due pesi e due misure. Un paio di anni orsono Libero, riferendosi alle grane del sindaco di Roma Virginia Raggi, pubblicò questo titolo: "Patata bollente". Non l'avesse mai fatto. La signora ci querelò. E in settembre si discuterà la causa, mi pare a Catania. Venerdì 27 settembre 2019 noto poi su Italia Oggi, il mio quotidiano preferito, diretto da Pierluigi Magnaschi, grande giornalista, la seguente titolazione: "Fioramonti, una patata bollente". Espressione identica a quella da noi rivolta alla prima cittadina di Roma. E non vi è anima che l'abbia contestata, né a livello giudiziario né a quello dell'Ordine degli scribi. Nessuno ci ha spiegato perché noi non possiamo parlare di tuberi mentre il quotidiano economico li può citare senza conseguenze negative. Il mio sospetto, anzi la mia certezza, è che la patata bollente possa essere maschile e non femminile. Trattasi di discriminazione sessista. La signora va rispettata e non può essere paragonata a una verdura commestibile, mentre il signore finisca pure in una friggitrice. Vi rendete conto quanto i nostri giudici siano privi di senso logico? Vittorio Feltri

Vittorio Feltri su Ratzinger e Papa Francesco: "È meglio avere due Papi e un prete non sposato". Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Pubblichiamo l'editoriale di Feltri andato in stampa prima della richiesta ufficiale dell'entourage del Papa Emerito Benedetto XVI di ritirare la firma dal libro scritto insieme al cardinale Robert Sarah. Forse è meglio avere due Papi che uno solo. Dove sbaglia uno di essi interviene l'altro e gli errori si evitano. In questi giorni è uscito un libro di Ratzinger in cui si ribadisce l' utilità del celibato dei preti. È vero che Bergoglio si è limitato a dire, se non a proporre, di utilizzare dei vecchi cattolici, di provata fede, per somministrare i sacramenti e non di concedere a tutti i preti di sposarsi. Ma si sa come vanno queste cose, si apre il rubinetto, dapprincipio esce solo qualche goccia, poi l' acqua non la fermi più. Insomma il rischio è che tra un po' i sacerdoti di più o meno fresca consacrazione siano autorizzati a prendere moglie, come succede tra i cosiddetti protestanti. Se così fosse sarebbe una calamità per la reputazione della Chiesa. I motivi sono semplici, uguali a quelli che insidiano i matrimoni dei laici, sempre più rari e funestati da richieste di divorzio. Il clero umanamente non è diverso dai geometri, dai ragionieri, cioè da tutti noi, pertanto se dovesse ingarbugliarsi nello sposalizio, soffrirebbe degli stessi guai che minacciano la tranquillità di qualsiasi famiglia, chiamiamola borghese. Suppongo che persino un parroco dopo alcuni anni di convivenza potrebbe avere le tasche piene della consorte e desiderarne un' altra. Inevitabili discussioni e liti: piatti che volano, parolacce, e trascuriamo gli schiaffoni. I pettegolezzi non sono mai arginabili, cosicché la comunità cristiana verrebbe a conoscenza delle beghe in canonica. Immaginate le conseguenze. Poi c' è il capitolo della prole. Se il monsignore è padre di tre figli, sono alte le probabilità che almeno uno di essi sia una testa di rapa, frequenti discoteche, beva, si droghi e ne combini peggio che Bertoldo. Il prelato come potrebbe giustificare il pargolo sballato senza rimediare una colossale figura di palta? Ho accennato soltanto ad alcune probabili grane a carico di un personaggio che indossi l' abito talare e quello del marito. Leggi anche: Vittorio Feltri smonta l'idea di Gesù di sinistra pro-migranti. E non ho ancora approfondito la questione delle separazioni. Vi figurate il parroco che scaccia la sua donna da casa e le paga gli alimenti? Con quali soldi, oltretutto, visto che gli stipendi dei sacerdoti sono equiparati a quelli di un bracciante agricolo calabrese? Bravo Ratzinger, la tentazione di coniugarsi lasciamola al popolo, il quale quando rompe l' unione finisce per pranzare alla Caritas. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri smonta l'idea di Gesù di sinistra e pro-migranti: "Così lo insultate". Libero Quotidiano il 13 Gennaio 2020. Teologi, preti e intellettuali dei miei stivali si dannano per dimostrare con argomenti fumosi che Gesù era di sinistra e, se vivesse oggi, sarebbe dalla parte degli immigrati. La cosa non stupisce ma irrita i cattolici autentici, infastiditi dal fatto che la fede venga strumentalizzata a fini politici. Il cristianesimo, anche per i non credenti, è un punto di riferimento in Occidente. La cultura evangelica da duemila anni è entrata nel dna dei popoli non soltanto europei, e ne ha influenzato in linea di massima i comportamenti etici e pratici. Non è una opinione di chi scrive, ma la descrizione di una realtà sotto gli occhi di chiunque. Infatti Benedetto Croce, pur essendo laico, disse: «Non possiamo non dirci cristiani». Aveva ragione al cento per cento. Gli italiani in particolare sono imbevuti dei concetti del Nuovo Testamento. In ogni famiglia gli insegnamenti biblici sono stati basilari e hanno formato la mentalità di milioni di persone, comprese quelle che poi sono diventate atee o agnostiche. Perché questo fenomeno? Fin da ragazzi siamo impregnati di argomenti religiosi. Nelle nostre case si recitava il rosario ogni sera. Prima di dormire i genitori ci obbligavano a recitare qualche preghiera. La mattina udivamo e udiamo ancora il suono delle campane, fatti due passi per strada ci imbattiamo in una chiesa o in una cappella, i simboli cristiani, non solo il crocefisso, sono presenti dovunque. A scuola siamo stati costretti a studiare Dante Alighieri, Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni, per citare i più noti, quindi la nostra formazione è assolutamente cristiana, e ragioniamo anche inconsapevolmente da cristiani pur non essendo convinti della immortalità dell' anima e faccende simili. Ora, dopo secoli di abitudini improntate alla fede, chi intende persuaderci che Gesù fosse omosessuale, peggio, pedofilo, ed un anticipatore del comunismo, ci sembra cretino e forse lo è. Certe polemiche nate e sviluppatesi nelle sacrestie progressiste ci sgomentano. Che siano poi i preti ad alimentarle è assurdo, oltre che comico. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri: "Spesso si chiude un ospizio dove i vecchi vengono seviziati e i giornali se ne fottono". Libero Quotidiano l'11 Gennaio 2020. Vittorio Feltri, dopo l'articolo di Libero sull'ospizio lager di Palermo, ha denunciato con un tweet la poca attenzione che si dà questi casi, rispetto a episodi gravi come i femminicidi che invece hanno - secondo il direttore editoriale di Libero - molta più attenzione mediatica: "La violenza sulle donne è una drammatica realtà di cui giustamente si discute ogni dí. Ma ogni tre giorni in Italia si chiude un ospizio dove i vecchi vengono seviziati. E i giornali e l’opinione pubblica se ne fo***no". È il tweet postato sul proprio profilo da Feltri. In Italia, infatti, viene chiusa 1 una casa di riposo ogni 3 giorni. Ma in Italia 1 anziano su 3 è vittima di una qualsiasi forma di violenza; 2,9 milioni subiscono maltrattamenti psicologici; 600mila sono raggirati con truffe finanziarie; 400mila subiscono maltrattamenti fisici; 100mila subiscono abusi sessuali; il 68,7% degli anziani nelle case di riposo è in contenzione fisica. In Europa, secondo l' Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ogni anni si stima siano 4 milioni i casi di violenze.

Vittorio Feltri, annuncio shock: "Mi ritiro". La presa di coscienza dopo la polemica social. Libero Quotidiano il 9 Gennaio 2020. Vittorio Feltri si ritira. Tranquilli, non dal giornalismo ma da Twitter. L'annuncio è arrivato proprio sul noto social network e suonava così: "I responsabili di Twitter sono penosi e a tratti ridicoli, pur avendo oltre 680.OOO seguaci io mi ritiro perché provo disgusto". La frecciatina del direttore di Libero è legata alla censura nei confronti di Feltri che Twitter ha deciso di mettere in atto nei giorni scorsi. Il motivo? Feltri ha pubblicato un commento alle parole di Nicola Zingaretti, quelle in cui il segretario piddino aveva invitato Matteo Salvini a tornarsene al Papeete. Un commento nel quale il direttore consigliava al dem di bersi la cicuta. Una pura battuta che però Twitter non ha preso con filosofia. Nonostante questo sono stati talmente tanti i sostenitori, che Feltri ha deciso, almeno per il momento, di fare retromarcia. 

Vittorio Feltri sulla crisi in Iran: "Vedremo di tutto tranne l'atomica". Libero Quotidiano il 9 Gennaio 2020. La reazione dell'Iran alla strage organizzata dagli Usa era scontata, l'avevamo prevista. E non crediamo che le ritorsioni finiscano qui. La vita umana in certi Paesi musulmani vale una cicca. Basti pensare che al funerale di Soleimani, eliminato da Trump, sono morte nella calca infernale 56 persone, e nessuno ha fatto una piega. Come si spiega tanta indifferenza? Il lettore può immaginarlo senza spremere le meningi. Qui siamo di fronte a due civiltà diverse e inconciliabili: quella cristiana, che ha influenzato l'educazione e la cultura degli statunitensi e degli europei, e quella islamica che ha permeato la mentalità di vari paesi, specialmente mediorientali, nei quali vige la legge coranica che ha creato Stati etici dove la religione (e non i codici penali e civili) detta ogni regola, per quanto arbitraria. Questo non giustifica però spiega il modo di agire degli iraniani. Per costoro la vendetta è un obbligo morale. Per essi disseminare il suolo di cadaveri non è un peccato bensì una necessità. D'altronde non è una novità che nelle nazioni sotto l'egida di Allah ammazzare è quasi un divertimento. Non lo diciamo noi, lo dimostrano i fatti. Cosicché attendiamoci dall'Iran imbufalito altri assalti terroristici che colpiranno postazioni non solo americane ma anche europee, perfino italiane benché noi in questa faccenda non si abbia messo becco. I nostri militari rimarranno in Iraq a fare i maestri d'armi, e ciò è sufficiente a farli apparire agli occhi iraniani quali nemici. Prepariamoci alle più crudeli rappresaglie nonostante il governo Conte non dia segnali di grandi preoccupazioni. Un solo pericolo non dobbiamo temere, e cioè che scoppi una guerra nucleare per un motivo semplicissimo: gli Stati Uniti (e perfino Israele) sono dotati di una forza atomica nettamente superiore rispetto a quella degli avversari, i quali pertanto se ne guarderanno dall'ingaggiare una lotta all'ultimo sangue, perché quel sangue sarebbe prevalentemente musulmano. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano”  il 5 gennaio 2020. Ormai i social dominano sul web e dobbiamo prenderne atto. La nuova comunicazione corre su internet con crescente forza. Ma ciò è noto e forse non valeva neppure la pena di rammentarlo. Piuttosto vorrei raccontare ai lettori un fatto curioso che mi ha visto protagonista. Alcuni giorni fa scrissi un tweet scherzoso. Il seguente: «Zingaretti dice che Salvini deve smettere con la grappa, e io consiglio invece al segretario Pd di sbronzarsi con la cicuta». Tale frase è stata non solo censurata, mi è valsa la sospensione temporanea dal social in questione. Motivo? Si tratterebbe di una minaccia o qualcosa del genere. Cosicché è stata cancellata. Circostanza di cui non me ne frega nulla. Però merita una chiosa. Salvini viene coperto di improperi cento volte al dì e nessuno protesta, io dico a Zingaretti, che dà dell' ubriacone al Matteo lombardo, di bere la cicuta (che non esiste più dai tempi di Socrate) e vengo silenziato. Segnalo per sovrammercato che la mia trascurabile persona è quotidianamente oggetto di contumelie, la più tenera delle quali è che devo morire perché sono ubriaco, nonostante ciò non è mai scattato un provvedimento finalizzato a moderare i termini. Come mai due pesi e due misure nel valutare l'offensività dei tweet? La spiegazione è semplice: se le parole indiavolate (si fa per dire) colpiscono uno come me che di sinistra non è, va tutto bene madama la marchesa, se viceversa accarezzano la gobba di un progressista protetto dal conformismo nazionale, allora sono vietate. Incredibile ma vero. Il nostro Paese non finisce mai di stupire.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 31 dicembre 2019. Buon anno a tutti, a quelli di destra e a quelli di sinistra che odiano Libero perché è politicamente scorretto e usa un linguaggio colloquiale, cioè quello in voga nelle famiglie, nei bar, nelle scuole, nei quadrivi. Buon anno ai terroni, li chiamo così scherzosamente, senza offesa, i quali vivono peggio di noi settentrionali non perché siano più stupidi, ma a causa di un ambiente sociale che li trascura. Buon anno a tutte le donne che dimostrano costantemente di essere migliori degli uomini, lavorano con alacrità, ottengono risultati eccellenti, studiano con maggiore impegno e sono più tenaci dei maschi. Buon anno agli omosessuali, che io preferisco chiamare froci o ricchioni senza l'intento di disprezzarli, i quali nonostante l' evoluzione dei costumi nazionali seguitano ad essere presi di mira. L' ultimo caso è disgustoso. Un ragazzo a Milano è stato picchiato selvaggiamente soltanto perché gay. Dieci teppisti scatenati lo hanno aggredito colpendolo in testa e altrove con bottiglie rotte. Per quale motivo? Costui camminava tranquillamente tenendo per mano il proprio compagno. Una aggressione che suscita ripugnanza. Non si comprende sulla base di quale motivazione un giovanotto che non arreca danno ad alcuno e se ne sta con un amico, senza disturbare, possa essere malmenato in quanto ha gusti sessuali diversi da quelli della massa. È una manifestazione di intolleranza che va punita con estrema severità. Deve passare il concetto che ciascuno è libero di fare del proprio corpo ciò che vuole nonché di amare chi gli pare senza subire violenze ispirate a pregiudizi. La gente, tutti noi, è costretta ad abituarsi al fatto che l'umanità ha facoltà di comportarsi come le aggrada senza patire alcuna repressione. Senza vergognarsi né nascondersi per pudicizia. Così come ciascuno di noi può essere serenamente di destra o di sinistra, sardina o comunista o fascista, non avendo l'obbligo di giustificarsi. Bisogna che il popolo si renda conto della necessità di occuparsi delle proprie faccende: se tutti ci attenessimo a questo sacro principio non ci sarebbero più neanche le guerre.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 7 gennaio 2020. Ultimi dati allarmanti per la Chiesa che insiste nel perseguire una politica allineata a quella della sinistra più vieta e conformista. Le offerte dei fedeli di risulta, cioè i pochi rimasti dopo lustri di calo impressionante, si sono dimezzate in pochi anni. Ai tempi in cui il reddito nazionale era esiguo, inferiore a quello attuale, le cassette d'elemosina si riempivano perché i cristiani erano in sintonia con le prediche del clero, perciò elargivano alla parrocchia quanto più denaro potessero. Lo facevano volentieri, con convinzione, sicuri che i preti utilizzavano i fondi raccolti per andare in soccorso della gente bisognosa o comunque a scopo sociale. Per esempio, onde finanziare gli oratori, ottimi centri di aggregazione giovanile nei quali, perfino io, ateo irriducibile, ho trascorso in letizia l'infanzia e l' adolescenza ricevendo una educazione superiore a quella scolastica. Inoltre, per esperienza personale, sono in grado di testimoniare che quasi tutte le organizzazioni dedite al volontariato erano guidate con grande slancio da sacerdoti pieni di sacro fuoco. Nessuno osava dubitare che costoro agissero per interesse personale o in appoggio di un partito o contro un altro. La fiducia nella Chiesa era totale, fuori discussione. Anche i comunisti più incalliti non negavano la nobile funzione di prevosti e curati, tutti impegnati a compiere del bene. Poi il clima nel Paese è mutato, si è inacidito, sono nate fazioni in lotta aspra, le quali, oltre a combattersi, si odiano sostenendo opinioni inconciliabili. E coloro che indossano l'abito talare, anziché perseguire obiettivi di pace, si sono schierati: chi è per la difesa strenua della tradizione cattolica e chi, invece, sicuramente in buona fede, è per l' accoglienza indiscriminata degli immigrati e la loro integrazione, e favorisce una sorta di commistione tra cristiani e musulmani al grido: "Siamo tutti fratelli". Fatalmente i rapporti tra i primi ed i secondi si sono avvelenati, producendo a volte scontri o almeno polemiche difficili da sedare con pacati scambi di vedute. L'ala conservatrice è disgustata dal comportamento dei preti che consentono ai frequentatori dei luoghi di culto di cantare "Bella ciao", mentre l' ala progressista appoggia l'idea di abolire il presepio negli asili e nelle scuole in omaggio a chi professa la religione islamica. Tra i litiganti non c' è verso di trovare un accordo, cosicché molta gente si è allontanata dalle parrocchie e non versa più l' obolo domenicale a sostegno delle attività ecclesiastiche collaterali. Risultato: le donazioni si sono smezzate, come si è smezzata la moltitudine dei devoti. Cari sacerdoti, datevi una regolata.

Vittorio Feltri fa le pulci a Sergio Mattarella: "Il suo discorso? Un pistolotto dalle frasi scontate". Libero Quotidiano il 2 Gennaio 2020. Lodi sperticate a Sergio Mattarella per il suo discorso augurale agli italiani in occasione della fine dell' anno. Lo hanno elogiato tutti e non abbiamo nulla da eccepire. Il Capo dello Stato è persona stimabile e ha pronunciato parole condivisibili. Dobbiamo perseguire la coesione nazionale, serve spirito patriottico, a chiunque è richiesto di impegnarsi per creare posti di lavoro, che sono alla base di una possibile rinascita del Paese. Volendo fare le pulci al presidente, dovremmo rilevare che l' ingrediente principale del suo elegante pistolotto è stato la retorica: frasi scontate, ripetute mille volte e rimaste nei decenni lettera morta. Ogni dodici mesi il Quirinale ci propina la solita minestra riscaldata e non potrebbe agire molto diversamente visto che la politica nostrana non muta mai se non in peggio. Forse è normale sia così. Tuttavia noi, che siamo notoriamente scorretti nella sostanza e nel linguaggio, al suo posto avremmo affrontato altri temi, non diciamo nuovi, ma di sicuro scottanti. Per esempio quello della immigrazione e quello della occupazione. Il primo è al centro delle polemiche e delle discussioni popolari; il secondo si basa su un dato: se un uomo o una donna non ha imparato un mestiere è ovvio che non trovi un impiego. Quindi ai giovani e non solo a loro è d' uopo raccomandare di non aspettare il reddito di cittadinanza o l' aiuto della amministrazione pubblica, bensì di darsi da fare allo scopo di padroneggiare una attività professionale. Non bisogna piagnucolare a causa di una crisi economica che non c' è. O meglio, c' è laddove manca l' iniziativa privata perché mortificata da un sistema fiscale punitivo e da una giustizia inefficiente. Vogliamo poi trattare la vicenda vergognosa della abolizione della prescrizione? Altro che implorare i cittadini di essere solidali, qui occorre impedire che il governo complichi la vita a ciascuno di noi. Forza Mattarella, tiri fuori le unghie e proibisca ai ministri di complicarci l'esistenza con provvedimenti totalmente assurdi. È giusto sottolineare quali siano i problemi che ci angustiano, però sarebbe opportuno evidenziare oltre alla bellezza delle imprese spaziali, anche il fatto statisticamente provato che i compatrioti sono gli europei che hanno accumulato il risparmio più alto del continente, altro che povertà. Soltanto nel 2019 esso è aumentato del 14 per cento. Rammento infine che l' 84 per cento di loro è proprietario della casa in cui abita. Dove è quindi la disperazione in cui ci troveremmo? Quanto alle apparentemente incolmabili differenze tra Nord e Sud, convinciamoci che l' unico modo per far progredire il Meridione è fornirlo di infrastrutture, senza le quali non si fanno passi avanti si va solamente indietro. È indubbio che la guida politica sia fondamentale, ma non è colpa dei settentrionali se abbiamo un esecutivo composto da gente incompetente e incapace di provvedere a un rilancio serio della produzione industriale nonché di incentivare l' opera delle aziende. Presidente Mattarella, accetti i nostri auguri e non legga le nostre note come gratuiti rimproveri. Vittorio Feltri

Da liberoquotidiano.it il 3 gennaio 2020. Vittorio Feltri si schiera dalla parte di Papa Francesco. In un post pubblicato sul suo profilo Twitter, il direttore di Libero, scrive infatti: "Se il Papa mena una rompiballe mi diventa meno antipatico". E conclude: "Bravo Francesco, e non chiedere scusa, non è il caso". Bergoglio, la sera di Capodanno, si era visto "costretto" a schiaffeggiare la mano a una fedele che da oltre le transenne continuava a tirarlo per la manica e a strattonarlo. La sicurezza non era intervenuta, perché è stato lo stesso Pontefice a risolvere la situazione in maniera piuttosto brusca, con tanto di rimbrotto vistoso alla signora un po' troppo entusiasta. Del resto sarà pure il Papa ma è sempre umano. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 gennaio 2020. Gianluigi Paragone è stato espulso dal M5S causa indisciplina, quasi fosse un alunno della scuola secondaria. Ma la cosa non mi stupisce come non dovrebbe stupire il senatore cacciato. Costui quando si inserì nel bordello cinquestelle non credo si aspettasse di entrare nel Rotary. Immagino sapesse che il capo politico era Gigino Di Maio, cioè un ex bibitaro catapultato al vertice di un movimento fondato sul vaffanculo coniato quale slogan raffinato da Beppe Grillo, un simpaticone che sta alla politica come io sto alla musica da camera. Paragone, secondo me, si rassegnò ad essere cooptato dalle truppe pentastellate perché non aveva niente di meglio da fare, essendo uscito dal giornalismo dopo numerose traversie. Deve aver pensato: meglio parlamentare che disoccupato. Come dargli torto? All'inizio dell'avventura egli si divertì molto. Visse probabilmente il cambiamento professionale quale eccitante opportunità. D'altra parte il Palazzo attira non tutti ma quasi. L'Aula affascina sia le persone semplici quanto quelle complicate. Cosicché Gianluigi si accomodò in poltrona e si persuase di essere presto promosso alla presidenza della commissione "scandali bancari". Era pronto e felice di essere chiamato a ricoprire un incarico assai importante, foriero di pubblicità, cioè di visibilità. Poi il clima intorno a lui mutò. Da ballerino di prima fila retrocesse nella zona oscura del palcoscenico. Il suo umore fatalmente smise di essere scintillante, si oscurò lentamente fino a diventare nero. Cominciò a bisticciare con i colleghi, si accorse che Di Maio è bravo soltanto quando recita nel ruolo di fanfarone e rapidamente si stufò di averci a che fare. A forza di tirare la corda, questa si è spezzata ed è arrivato per il povero Paragone il cartellino rosso. Fuori dalle palle. E di palle i grillini se ne intendono, visto che ne inventano una al dì. Basta. Il mio ex collega per non aver approvato la legge di bilancio è stato scaricato, considerato un Giuda. Egli ora è inviperito e non si esclude che ricorra, con l' aiuto di Di Battista (che conosco solo di cattiva fama), perfino alla giustizia ordinaria onde impugnare il provvedimento a suo carico. Vedremo in qual maniera finirà. Ma non è questo il punto. L' errore di Gianluigi è stato quello di aver ceduto all' incanto stellato, scambiandolo come un firmamento salvifico, non accorgendosi che si trattava di una cloaca piena di escrementi. Egli è stato per anni un giornalista esperto. Fu direttore della Padania, quotidiano leghista quanto lui. Il suo lavoro al timone del foglio e le sue comparsate televisive erano convincenti, cosicché mi venne l' idea di assumerlo a Libero in veste di vicedirettore. Lavorammo insieme per un lungo periodo. Ciononostante al ragazzo evidentemente non bastava di stare accanto a me, brigò con l' aiuto della Lega per avere un posto in Rai, e lo ottenne. Contento lui...Qualche tempo dopo, insoddisfatto del trono offertogli dall' ex monopolio televisivo, si trasferì alla "7" di Urbano Cairo, che gli affidò programmi di relativo ma non straripante successo. E l' editore, forse precipitosamente, lo invitò a guadagnare l' uscita. Gianluigi si trovò a piedi in mezzo alla strada, posizione antipatica, e si cercò qualcosa di meglio. Collaborò con Libero ricevendo un compenso insufficiente per sopravvivere, finché colse al volo la possibilità di scendere dal Carroccio e di inserirsi nel bordello promettente, in apparenza, di Di Maio, con il quale per mesi ebbe un rapporto quasi fraterno. In effetti i due andavano d' accordo. Eppure l' idillio - lo dimostrano gli ultimi fatti - durò lo spazio di alcuni mesi. Ora siamo alla rottura. Totale. Girano i coltelli che ammazzano anche i fratelli, figuriamoci i compagni di partito. Paragone a essere sinceri ha molte ragioni, però anche un torto marcio: quello di essersi fidato di un magliaro. Faceva bene a restare nella Lega, la quale abbonda di persone serie e perbene.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 30 dicembre 2019. Qualche settimana fa un genio della politica scema aveva proposto di estendere il diritto di voto ai sedicenni, togliendolo ai vecchi, presumo gli ultrasettantenni, considerati imbecilli e disattenti alle problematiche giovanili. Una idea più strampalata non era possibile averla. E lo si è verificato in questi giorni, dopo l' incidente occorso alle due ragazze di Roma, falciate e uccise in corso Francia, entrambe poco più che adolescenti, talmente mature e pronte per la cabina elettorale da aver attraversato di notte la carreggiata, dopo aver scavalcato follemente le protezioni metalliche, e, come se non bastasse, col semaforo rosso. Vi sembra che agendo così le fanciulle abbiano superato brillantemente l' esame di idoneità ad esprimere il loro suffragio? Quasi tutte le tragedie automobilistiche hanno quali protagoniste persone in verde età, vuoi perché guidano in stato di ebbrezza, vuoi perché drogate, vuoi perché, avendo trascorso una serata in discoteca o locali simili, non sono più in grado di autodisciplinarsi e vanno a sbattere di qua e di là come deficienti. E c' è chi preferisce affidare a costoro i destini del Paese piuttosto che a uomini e a donne prudenti e saggi non fosse altro per il fatto che hanno abitudini di vita sobrie. Questa vicenda tragica mi pare sia la dimostrazione che i sedicenni non sono capaci di provvedere a se stessi, di tutelarsi, pertanto non sono all' altezza, a maggior ragione, di scegliere questo o quel partito. Essi sono supponenti e pieni di boria, ma se li interroghi sulla storia recente d' Italia non ti danno una risposta giusta nemmeno per caso. Ignorano perfino chi sia il presidente della Repubblica e quello del Consiglio. Vagolano nella incertezzza. Studiano male, anzi, non studiano per niente, eppure vanno in piazza a gridare la loro stoltezza. Peraltro gli adulti, compresi i genitori, li incoraggiano a gettarsi allo sbaraglio e a sparare cazzate ogni due minuti. Come quel prete che ha celebrato le esequie di Gaia e Camilla, il quale ha pronunciato una frase infame. Questa: "Il senso dell' esistenza è guidare sbronzi?". No di certo. Ma non lo è nemmeno passeggiare oltre la mezzanotte lungo una importante arteria della Capitale e passare da un marciapiedi all' altro col semaforo rosso. Lanciare accuse tanto pesanti in chiesa equivale a fare la pipì nel tabernacolo. I giovani sono la nostra speranza però, talvolta, la nostra rovina.

Vittorio Feltri contro Marco Travaglio: "Non capisco come possa gioire per la morte altrui". Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2019. Il Fatto Quotidiano venerdì scorso ha dedicato ben due pezzi onde raccontare come al Foglio e a Italia Oggi siano state tolte le cosiddette provvidenze, cioè i modesti finanziamenti pubblici che consentivano alle due testate di pareggiare i conti e di andare in edicola. Negli articoli in questione traspariva in modo chiaro una certa soddisfazione a riguardo del provvedimento che taglia ai citati giornali i mezzi per sopravvivere. E personalmente non comprendo perché si possa gioire per la loro probabile morte. Intendiamoci, si può essere contrari all' intervento salvifico dello Stato nelle imprese private. Nel caso però non si possono creare figli e figliastri: alcune aziende, per esempio l' Ilva e Alitalia, meritano sostegni governativi, altre invece vanno scaricate quali ferri vecchi e inutili. I famosi due pesi e due misure non devono assurgere a metodi amministrativi. Tutti sanno che la democrazia per essere tale abbisogna della libera stampa che ne controlli l' attività; abolire i quotidiani di minoranza significa uccidere le opinioni che alimentano il confronto appunto democratico. Ecco il motivo per cui pressoché in ogni Paese europeo si elargiscono quattrini a varie testate, e ciò avviene senza scatenare polemiche. Recentemente perfino la Germania ha deciso di adeguarsi al costume continentale, stanziando una cifra cospicua per consentire la onerosa distribuzione della informazione cartacea. Dove è lo scandalo? D' altronde rammentiamo ai lettori e ai signorini del quotidiano di Marco Travaglio, che pure il cinema, il teatro, la lirica e l' Anpi (i partigiani morti e sepolti da anni) godono di sovvenzioni ministeriali finalizzate a garantire la continuazione di opere definite culturali. Se il denaro pubblico non servisse a tenere in piedi la Scala di Milano perderemmo un gioiello musicale invidiato nel mondo. Quindi per favore smettiamola di fare la guerra al Foglio, a Italia Oggi nonché a tutta la stampa. È vero che le idee, belle o brutte, camminano sulle gambe degli uomini, ciononostante necessitano dell' editoria per essere divulgate. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri: Finanziare l'editoria è essenziale per la libertà di stampa e d'opinione. Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2019. Il Fatto Quotidiano venerdì scorso ha dedicato ben due pezzi onde raccontare come al Foglio e a Italia Oggi siano state tolte le cosiddette provvidenze, cioè i modesti finanziamenti pubblici che consentivano alle due testate di pareggiare i conti e di andare in edicola. Negli articoli in questione traspariva in modo chiaro una certa soddisfazione a riguardo del provvedimento che taglia ai citati giornali i mezzi per sopravvivere. E personalmente non comprendo perché si possa gioire per la loro probabile morte. Intendiamoci, si può essere contrari all' intervento salvifico dello Stato nelle imprese private. Nel caso però non si possono creare figli e figliastri: alcune aziende, per esempio l' Ilva e Alitalia, meritano sostegni governativi, altre invece vanno scaricate quali ferri vecchi e inutili. I famosi due pesi e due misure non devono assurgere a metodi amministrativi. Tutti sanno che la democrazia per essere tale abbisogna della libera stampa che ne controlli l' attività; abolire i quotidiani di minoranza significa uccidere le opinioni che alimentano il confronto appunto democratico. Ecco il motivo per cui pressoché in ogni Paese europeo si elargiscono quattrini a varie testate, e ciò avviene senza scatenare polemiche.

Vittorio Feltri: "Al posto di Giuseppe Conte vedrei volentieri Checco Zalone, pugliese ma molto intelligente". Libero Quotidiano il 28 Dicembre 2019. Vittorio Feltri, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, asfalta il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: "Al posto di Conte vedrei volentieri a Palazzo Chigi Checco Zalone, anche questi pugliese ma molto intelligente". Tolo Tolo, di Zalone, è il film più atteso, e discusso, delle festività e aprirà il nuovo anno cinematografico uscendo nelle sale proprio l’1 gennaio. Quinta e ultima avventura del regista pugliese è la prima dove Luca Medici esordisce alla regia, oltre che curare le musiche originali, e soggetto e sceneggiatura insieme a Paolo Virzì. E a proposito di musiche, la canzone Immigrato che ha anticipato la pellicola non ha mancato di suscitare polemiche per la parodia su chi viene in Italia a chiedere l'elemosina e "rubare le nostre donne", con Matteo Salvini che ha proposto Zalone come senatore a vita. Lui, di origini baresi, ha liquidato le critiche dicendo di non discriminare nemmeno i foggiani...

Vittorio Feltri, Pietro Genovese: "Il senso della vita non è neppure attraversare di notte col semaforo rosso". Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2019. Vittorio Feltri, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, commenta la vicenda di Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, che ha investito e ucciso con il suo suv due sedicenni, Gaia e Camilla, a Roma: "Severa omelia ai funerali delle ragazze uccise a Roma: 'Il senso della vita è guidare sbronzi?'. Ma non lo è neppure attraversare di notte la strada col semaforo rosso". Pare infatti, secondo le prime ricostruzioni della dinamica del tragico incidente che le due giovani abbiano attraversato di notte senza aspettare il verde. Ipotesi respinta dai genitori di Camilla Romagnoli: "Teniamo a dire che è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l'abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato". L'avvocato Piraino dal canto suo si dice "profondamente rattristato, prima che come difensore dei signori Romagnoli, come cittadino per gli interventi in libertà di persone solo incuriosite dal fatto drammatico che ha gettato nella tragedia tre famiglie". 

Vittorio Feltri, Genovese, Gaia e Camilla: "Non è colpa solo dell'autista, perché nessuno può essere assolto". Libero Quotidiano il 28 Dicembre 2019. Si sono svolti i funerali delle due sedicenni travolte e uccise da un'auto impazzita, guidata da un ventenne scriteriato. Siamo tutti sconvolti dalla morte delle due ragazze. Una vicenda assurda, la loro, che con i nostri criteri di giudizio non riusciamo a capire. Ci sono tanti perché che meritano un risposta finora mancata. Il giovane al volante, Pietro Genovese, è stato arrestato per duplice omicidio stradale, ancora prima di essere processato, e già questa ci sembra una forzatura per quanto giustificata dal fatto che egli guidasse in stato di ubriachezza, senza contare la droga cui era assuefatto. Motivi per punirlo non mancano, per carità. Però attenzione. Anche le fanciulle non sono innocenti. Alla loro età non si va in giro di sera tardi, e i genitori hanno sbagliato a non trattenerle a casa evitando i rischi che corrono gli adolescenti lasciati liberi di scorrazzare dopo una certa ora per le metropoli insidiose. A mezzanotte, quando si è poco più che bambine, è meglio stendersi tra le lenzuola che sull'asfalto di Corso Francia. Va specificato che le amichette in libera uscita hanno attraversato la strada col semaforo rosso, dopo aver scavalcato pericolosamente le limitazioni metalliche. Non si fa. Non bisogna farlo se non si vuole rischiare la vita. Invece loro hanno azzardato a compiere un salto nel buio e l'auto che sopravveniva ad alta e criminale velocità le ha falciate uccidendole sul colpo. Il conducente della vettura, completamente fuori di testa, rimbambito dall'alcol, non ha neppure tentato di frenare e di schivare Gaia e Camilla, decedute sul colpo. Ma la dinamica del grave incidente è tale che nessuno dei protagonisti della sciagura può essere assolto. Cretino lui e irresponsabili le vittime. Purtroppo succede frequentemente che dopo l'imbrunire accadano incidenti di questo tipo, non si comprende come mai due povere fanciulle abbandonate dalla famiglia vaghino indisturbate alle ore piccole nei centri urbani, e come mai un giovanotto abbia facoltà di sfrecciare in automobile a cento all'ora senza preoccuparsi dei disastri che può combinare. Ecco la ragione per cui ce la prendiamo con ogni protagonista della tragedia. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri sulla morte del M5s: "Ve lo vedete Paragone fare lingua in bocca ai comunisti?" Libero quotidiano il 22 Dicembre 2019. Il Movimento 5 Stelle non solo ha perso consensi a iosa, stando almeno ai sondaggi più attuali; ma comincia a essere sgradito perfino a vari propri esponenti - parlamentari - che ne hanno le scatole piene della politica grillina. Alcuni di essi hanno manifestato l'idea di abbandonare il club di Di Maio ricoverandosi in altri gruppi, non sappiamo quali e non ci importa molto di scoprirlo. Il problema risiede altrove. Gli sbandamenti dei cinquestelle su diversi temi politici importanti hanno creato insoddisfazione e sconcerto nel gruppone fondato da Beppe Grillo basato sullo slogan più cretino della storia italiana: vaffanculo. Che non è una esortazione bensì una minaccia, la quale tuttavia allora esprimeva uno stato d'animo diffuso nei cittadini, stanchi morti di avere a che fare con parlamentari intenti soltanto a fare i cavoli propri. Il succitato vaffanculo in pratica si è trasformato in fretta in un adattamento allo stile romano. Montecitorio non è stato aperto quale scatola di tonno, come predicava il comico genovese; al contrario, è stato ermeticamente chiuso allo scopo di tutelare gli interessi della casta pentastellata. Ovvio che alcuni militanti, davanti al passaggio collaborativo da Salvini a Zingaretti, si siano scocciati e meditino di emigrare in cerca di miglior fortuna. Gianluigi Paragone, per esempio, leghista della prima ora e addirittura direttore della Padania, non è disposto a fare lingua in bocca con gli ex comunisti, per cui preferisce piantare il M5S. La sua uscita è solo un segnale, eppure non va sottovalutato. Altri colleghi lo seguiranno finché il movimento non sarà prosciugato. Il malessere è profondo e sintomatico di una insofferenza nei confronti dei capi, da Grillo a Di Maio senza considerare qualche sottoposto. Siamo di fronte a una rissa annunciata che non produrrà nulla di buono. Nel senso più semplice del termine: i pentastellati non sono ancora defunti ma sono molto malati, non camperanno a lungo e lasceranno spazio alle sardine che, fuori dalle acque del conformismo, troveranno prematura morte. Requiem. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri su Matteo Salvini: "Contro di lui una trappola schifosa, fogna foderata di magistrati". Libero Quotidiano il 21 Dicembre 2019. Molti sono scandalizzati perché Salvini è sotto tiro della magistratura e del tribunale dei ministri per via della nave carica di immigrati che lui bloccò per qualche giorno in mare, in attesa che si decidesse dove sbarcarli. I suoi più accaniti accusatori sono i grillini e i compagni del Pd, i quali pretendono che egli vada in galera e si tolga dall' arena politica. Tutto ciò è scorretto, tuttavia ha una spiegazione logica ancorché disgustosa. Matteo è odiato non per motivi personali bensì in quanto in pochi anni ha ottenuto un consenso giudicato eccessivo sia sul piano elettorale sia su quello dei sondaggi. Egli ha trascinato la Lega ai vertici delle previsioni riferite a eventuali prossime elezioni, il che spaventa, che dico, terrorizza i suoi "nemici" che vedono nell'ex Carroccio una minaccia ferale. Non vanno giustificati, ma compresi di certo. L'unico modo che hanno per togliersi dai piedi il famoso capitano è incastrarlo dal punto di vista giudiziario: processarlo, condannarlo, eliminarlo dalla scena. L'operazione non è difficile da compiersi dato che Salvini non gode della simpatia, immagino, neanche dei giudici. Uno più uno fa due, e il totale serve alla bisogna. Spazzare via il ragazzotto milanese significa liberare il campo al Pd e in parte al M5S, supportati dalle acciughe. Intendo dire che l'attuale maggioranza è stretta alle corde dal capo leghista: urge farlo secco con ogni mezzo, ivi compresi la vigliaccheria e l'agguato. Altrimenti Conte, Di Maio e Zingaretti rispetto a lui saranno sempre in seconda fila, cioè perdenti. Costoro non hanno alternative se desiderano confermarsi classe dirigente, ecco il motivo per cui insistono nel voler ingabbiare l'unico uomo capace di mandarli in mona. Non sappiamo ancora se la trappola scatterà, però il fatto stesso che sia stata allestita fa schifo e meriterebbe un censura. Purtroppo in Italia la politica è diventata una fogna foderata di toghe. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri: I responsabili del crac non pagheranno, il conto arriverà a noi. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Tanto per tenerci giù di morale, osserviamo che l' ennesima banca italiana, dopo Monte dei Paschi e varie altre, è andata in malora. Si tratta della Popolare di Bari in difficoltà per le solite cause, la principale delle quali è una gestione folle di cui nessuno risponderà a livello civile e penale. Chiunque in Italia commetta errori è tenuto a renderne conto. Per esempio, se un giornalista sbaglia una frase viene querelato e naturalmente condannato. Se invece un magistrato e un banchiere la combinano grossa la fanno franca e buona notte al secchio. Non conosciamo nei dettagli le topiche attribuibili all' istituto di credito pugliese, tuttavia sappiamo che esso ha prestato soldi a cani e porci e non è più riuscito a ottenerne la restituzione non avendo preteso dai clienti garanzie di solvibilità. A forza di sganciare denaro a chi non era e non è in grado di saldare il debito, ovvio che la Popolare in questione, al pari di molte consorelle, si trovi ora con l' acqua alla gola.

Titolo Libero: “Una banca di bari non merita soldi”. Feltri: “Dati soldi a cani e porci”. Chiara Di Tommaso il 15 dicembre 2019 su Vesuvio live. Fa discutere il nuovo titolo del giornale ‘Libero’, da sempre noto per le sue prime pagine d’impatto. Tra gli ultimi, quello che tirava in ballo Papa Francesco (‘Non ha meglio di niente da fare’). Questa volta nel mirino del fondatore del giornale Vittorio Feltri è finita la Banca Popolare di Bari. Questa la prima di oggi, 15 dicembre, emblematica già dalla scelta di non utilizzare Bari come città ma ‘bari’ come sostantivo. Una scelta che spiega l’idea del quotidiano di associare alla Banca degli "imbroglioni": “Una banca di bari non merita aiuti”. L’istituto pugliese dava soldi a tutti. Quattro fascicoli giudiziari sui bilanci aggiustati, il 25% dei prestiti è marcio. Ma Conte prepara l’intervento pubblico miliardario per salvare Popolare Bari. La spiegazione del titolo di Libero sulla Banca di Bari è fornita in un editoriale pubblicato sul sito e a firma di Vittorio Feltri: “Non conosciamo nei dettagli le topiche attribuibili all’ istituto di credito pugliese, tuttavia sappiamo che esso ha prestato soldi a cani e porci e non è più riuscito a ottenerne la restituzione non avendo preteso dai clienti garanzie di solvibilità. A forza di sganciare denaro a chi non era e non è in grado di saldare il debito, ovvio che la Popolare in questione, al pari di molte consorelle, si trovi ora con l’acqua alla gola”. Una situazione che secondo il giornalista di Libero porterà i cittadini italiani a dover pagare di loro tasca per il crac della Banca. E fino ad ora sono ben sette le inchieste che negli ultimi anni hanno spinto la magistratura barese a indagare sulla gestione dell’istituto di credito. Le ultime due sono con il modello 45, cioè senza indagati né ipotesi di reato, e si sono rese necessarie dopo la lettera trasmessa alla Procura dalla Consob. La Commissione nazionale per le società e la Borsa ha infatti segnalato il mancato invio da parte della banca delle comunicazioni al mercato sulla situazione dei conti.

BANCA POPOLARE DI BARI. Feltri “Libero” di insultare, se non è al Nord che si finanzia un “salvataggio”. Alberto Guarino il 17 Dicembre 2019 su identitainsorgenti.com. Il giullare bergamasco ha ripreso a grugnire odio contro il Sud,  raccogliendo l’ennesimo assist per segnare un gol a porta vuota ed esternando perle di saggezza “padane”, con titoli nauseabondi, come quello apparso domenica 15 Dicembre sul quotidiano “libero” (la minuscola è voluta) suo perverso strumento di  divulgazione scientifica del “nulla cosmico”. Vittorio Feltri colpisce ancora, con la sua prevedibilità, il suo pressappochismo, la violenza della sua dialettica “vichinga”, sbagliando – anch’esso volutamente – una maiuscola per rimpicciolire la città di Bari, dopo i guasti provocati da dirigenti e banchieri disonesti, nella sua Banca Popolare, ma dimentica i miliardi erogati negli anni passati per salvare banche del Centro-Nord (Monte dei Paschi, Banca Etruria, banche toscane), miliardi “necessari” a mantenere inalterate le economie di quelle terre floride, mentre le economie “sudiste” possono essere affossate, soprattutto quando c’é il succulento pretesto di un illecito.

Salvataggi a senso unico. Quei 500 milioni di Euro che Conte destinerà al salvataggio della Banca più importante del meridione, pur essendo “bruscolini”, rispetto a ben altri salvataggi, devono sembrare una cifra astronomica, per il giullare e i suoi seguaci, e allora giù con l’epiteto territoriale, poco importa se la Puglia é stata definita la regione più bella del mondo, da autorevoli organi di informazione stranieri, si stranieri, perchè l’Italia é quel paese (anche qui minuscola voluta), che se un apprezzamento dovesse avvenire dall’interno, ecco che un esercito di odiatori invidiosi, inizierebbe a operare i distinguo, pur di screditare tale apprezzamento. Chi se lo dimentica quel Banco di Napoli, che non fu salvato ma inghiottito da una banca del Nord, come dimenticare quell’assenza di istituti di credito meridionali, dovuta anche a scarse politiche di investimenti mancate al meridione.

Il silenzio dei leghisti “nostrani”. Ma c’é una cosa che proprio non ci va giù; quel silenzio dei leghisti del sud, che per giustificare la loro “nuova” appartenenza politica, dichiarano da sempre di difendere le identità, e di volerlo fare con un movimento (appunto la Lega) che prediligerebbe la legalità, senza rendersi conto che spesso e volentieri, nei posti di comando, anche dalle loro parti, il “capitone” verde, spesso ci manda suoi affiliati che con il Sud non hanno nulla a che spartire. Nessuno dei leghisti del Sud che si lamenti di quel Feltri che offende anche loro, nessuno che sbatta i pugni sul tavolo, nessuno che si scandalizzi che un giornale finanziato con soldi  pubblici erutti sterco radioattivo alimentato da paranoici convincimenti che trovano terreno fertile in quella disperazione di una parte del paese, da decenni abbandonato a se stesso, perché per decenni si é deciso che non dovesse mai poter “intraprendere”. Questo rumoroso silenzio di uomini del Sud, arroccati sulla “piattaforma” leghista, é il sintomo di questo male tutto italiano, un male fatto di uomini e donne senza storia, senza dignità, senza tempo…Alberto Guarino

Vittorio Feltri ancora contro Andrea Scanzi: "Assomiglia a un testicolo. Chiamate l'infermiera". Libero Quotidiano il 18 Dicembre 2019. "Andrea Scanzi è convinto di essere un campione come Leo Messi. Chiamate gli infermieri. Non sta in piedi e si aggrappa al fiasco, l’unica sua risorsa dialettica". Questo è l'ultimo messaggio di Vittorio Feltri in direzione di Andrea Scanzi. Già ieri il direttore di Libero si era scagliato contro il giornalista phonato del Fatto Quotidiano, la cui dimensione dell'ego potrebbe risolvere la fame del mondo, se trasformata in cibo. Ma non è finita. Successivamente Feltri ha rincarato la dose con un altro cinguettio, il seguente: A me è simpatico Scanzi, è talmente intelligente e fuori di testa che assomiglia a un testicolo. Di seguito, l''antefatto. Ovvero il primo tweet del direttore in risposta a un violentissimo commento di Scanzi contro di lui. "Risulta che Il Fatto Quotidiano abbia perso in ottobre", scriveva su Twitter Feltri, "rispetto allo scorso anno l’11 per cento delle copie vendute. Consigliamo a Travaglio: se vuole riguadagnarne altrettante basta che perda il buttafuori Andrea Scanzi". Al tweet Scanzi aveva risposto con volgarità di varia natura scritte come un bambino di quinta elementare. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 15 dicembre 2019. Tanto per tenerci giù di morale, osserviamo che l' ennesima banca italiana, dopo Monte dei Paschi e varie altre, è andata in malora. Si tratta della Popolare di Bari in difficoltà per le solite cause, la principale delle quali è una gestione folle di cui nessuno risponderà a livello civile e penale. Chiunque in Italia commetta errori è tenuto a renderne conto. Per esempio, se un giornalista sbaglia una frase viene querelato e naturalmente condannato. Se invece un magistrato e un banchiere la combinano grossa la fanno franca e buona notte al secchio. Non conosciamo nei dettagli le topiche attribuibili all' istituto di credito pugliese, tuttavia sappiamo che esso ha prestato soldi a cani e porci e non è più riuscito a ottenerne la restituzione non avendo preteso dai clienti garanzie di solvibilità. A forza di sganciare denaro a chi non era e non è in grado di saldare il debito, ovvio che la Popolare in questione, al pari di molte consorelle, si trovi ora con l' acqua alla gola. Siamo di fronte a un fallimento mostruoso e, secondo tradizione, toccherà allo Stato, spendendo i nostri quattrini, quelli pubblici, riparare ai danni. Un imprenditore che vanti un credito nei confronti della PA fatica anni per riscuotere quanto gli spetta, e magari è costretto a chiudere bottega, se viceversa una banca viene amministrata con le terga e salta per aria, il governo corre in suo soccorso per toglierla dai guai. Tale è la prassi assurda. La vicenda della azienda barese si assomma alla tragedia dell' Ilva di Taranto, cosicché la Puglia a questo punto versa in condizioni pietose, e dovrà per forza ricorrere alla finanza statale per sopravvivere. I denari necessari per sistemare lo sfascio saranno prelevati dalle tasche dei connazionali, che non avranno neanche il diritto di ricorrere alla blasfemia per sfogarsi, giacché è vietata dalla legge, mentre i deficienti che hanno provocato il disastro la passeranno liscia, non andranno in galera e non saranno nemmeno costretti a sfamarsi alla Caritas, bensì assolti per insufficienza di prove. Lo schifo continua alla luce del sole nell'indifferenza dell' esecutivo.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2019. Lella Costa, attrice di lungo corso e di corta fama, è stata ospite di Massimo Gramellini nel suo programma, Le parole, su Raitre, e si è lanciata in un monologo contro Libero, reo di avere pubblicato la recensione di una fiction dedicata alla straordinaria Nilde Iotti. L' articolo è stato vergato da Giorgio Carbone, persona perbene e dalla prosa elegante che scrive sui giornali da circa 50 anni senza mai incorrere in una grana. Ebbene, in questo caso ha urtato la suscettibilità della Costa avendo sottolineato innocentemente che la defunta presidente della Camera, nell' opera televisiva, viene rappresentata come una donna di mondo, brava in politica e tra le mura domestiche e perfino in camera da letto. Non si tratta di osservazioni partorite dal nostro collega, bensì di considerazioni fatte dall' autore del filmato, il quale ha proposto ai telespettatori un ritratto di Nilde. Ma le femministe, Lella in testa, invece di prendersela con costui (e sarebbe stato assurdo lo stesso), si sono scagliate contro il cronista puntuale che non ha omesso di raccontare fedelmente i contenuti dello sceneggiato. Con tutta la buona volontà non riusciamo a capire cosa ci sia di male nell' affermare che Iotti fosse un individuo normale nelle sue pulsioni vitali. Anche di me è stato detto che ho sempre avuto dimestichezza con il gentil sesso e non mi sono offeso, limitandomi a rispondere che l' erotismo al massimo mi risulta essere fonte di nostalgia. Perché mai la compagna di Togliatti sarebbe stata oltraggiata per il sol fatto che è stata puntualizzata la sua verve? Di un uomo si può dichiarare scherzando o sul serio che abbia la carne debole (e il pesce debolissimo), mentre di una signora si devono tacere pure quelle che taluni considerano virtù? Non si tiene conto che l'agognata parità dei generi prevede altresì la parità di commento sotto ogni aspetto? Oddio, pretendere da Lella Costa un tale ragionamento, per quanto rudimentale, potrà forse essere eccessivamente ottimistico, tuttavia dal conduttore della trasmissione ci saremmo aspettati che invitasse l' attrice a non indulgere in bischerate sesquipedali. Non importa. Sappiamo che spesso contro gli sprovveduti siamo disarmati.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Il lettore è pregato di osservare attentamente la cosiddetta opera d'arte la cui foto pubblichiamo oggi. Essa ritrae Gesù accanto ad un fanciullo. E fin qui nulla di male. Delle figure di Cristo sono piene le pinacoteche e le chiese di tutto il mondo e nessuno se ne duole. Eppure, in questo caso, l' effigie del Redentore esposta dal museo comunale di Roma, sotto l' egida dell' assessorato capitolino, va oltre ogni immaginazione. Il figlio di Dio può essere messo in discussione quale uomo in carne ed ossa, tuttavia dileggiarlo significa dubitarne non tanto la divinità (cosa che sarebbe lecito fare con cattivo gusto), bensì contestarne moralità e forza rivoluzionaria, le quali hanno mutato la civiltà mondiale. Ecco perché si tratta di una operazione vile nonché ispirata ad un desiderio di deridere un personaggio che da oltre 2000 anni ci insegna a comportarci in modo fraterno con i nostri simili. Ovvio che non tutti siamo capaci di obbedire ai suoi moniti, ma noi occidentali sappiamo che il primogenito di Maria e Giuseppe aveva ragione. Io non sono un credente, tuttavia mi sento sfregiato dal ritratto di Gesù profanato da un presunto artista allo scopo di beffeggiarlo e proporlo quale pedofilo incallito e pronto ad approfittare di un giovinetto inginocchiato di fronte a lui. Questa è una schifezza indigeribile che grida vendetta e impone una ribellione. Che poi sia un ente pubblico a presentare una simile manifestazione blasfema ci offende nell' intimo e ci fa gridare allo scandalo. Ciascuno sia libero di affermare ciò che vuole, ma nessuno è autorizzato a prendere per i fondelli il capo della cristianità come fosse un malvivente irredimibile. Nella serata, a seguito delle proteste, il museo ha fatto sapere che rimuoverà l' opera. Ce ne rallegriamo, però il solo fatto che avessero deciso di esporla la dice lunga su quanto siano in pericolo i principi della nostra civiltà cristiana.

Vittorio Feltri a Marco Travaglio: "Il Fatto Quotidiano perde copie? Devi cacciare Andrea Scanzi". Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Vittorio Feltri dà un consiglio interessante a Marco Travaglio per frenare l'emorragia di copie. "Risulta che Il Fatto Quotidiano abbia perso in ottobre", scrive su Twitter Feltri, "rispetto allo scorso anno l’11 per cento delle copie vendute. Consigliamo a Travaglio: se vuole riguadagnarne altrettante basta che perda il buttafuori Andrea Scanzi". Andrea Scanzi, che da quando ha smesso di farsi le lampade ha perso un po' di quel fascino tamarro che lo distingueva dalla massa, non è simpaticissimo a Feltri. Due anni fa gli scrisse infatti: "Caro Andrea Scanzi non avevi bisogno di scrivere un articolo volgare su di me per dimostrare di essere un coglioncino. È noto a tutti da tempo che lo sei. Sappi che è meglio bersi un whisky che bersi il cervello come fai tu".

Andrea Scanzi: “Littorio Feltri, l’uomo che sussurrava ai gin tonic”. Pubblicato su INFOSANNIO il 10 Settembre 2019. (Uscito oggi sul Fatto Quotidiano cartaceo. Rubrica Identikit, come ogni martedì). Littorio Feltri, l’uomo che sussurrava ai gin tonic, è un noto idolo contemporaneo. Di lui, in particolare, le masse amano quel suo parlar forbito, sempre in punta di penna e mai sopra le righe. Egli è pure un grande animalista. Lo si intuisce anche solo dai suoi ultimi tweet. Per esempio: “Apprendo che gli scimpanzé hanno un minimo di dna inferiore a quello nostro che impedisce loro il linguaggio. Per il resto sono uguali a noi. Prescisi (sic). Non parlano. Beati loro che di conseguenza non ascoltano. E non leggono i social”. Oppure: “Ho visto il video del pompiere che ha salvato il gattino e ho pianto anche io. Non tutti gli uomini per fortuna sono merde. Ne esistono di bravi e sensibili”. Bravo Littorio: hai capito che l’umanità è sopravvalutata e gli animali sono molto meglio di noi. Peraltro senza neanche sforzarsi granché. Ma non è certo questo l’unico pregio del nostro eroe, paladino indefesso di casalinghe e Cuba Libre come se piovesse. Con fare diuturnamente borbottante e malmostoso, Littorio (l’epiteto è come noto di Travaglio) ha di recente mollato ogni ormeggio. Suole imperversare in tivù, soprattutto Rete4 e La7, per lanciar strali a caso con la leggiadria di un facocero lanciato a bomba contro una cristalleria comunista. Da sempre intellettualmente sbarazzino come una musona meretrice del West, Littorio si è messo in testa di andare sempre oltre l’imitazione gaglioffa che ne fa Crozza. E ci riesce, spingendo ogni volta il pedale alcolico del greve popolano. Ciò, oltre a esaltare le plebi (che lui fucilerebbe giustamente tutte), crea un ulteriore parossismo di comicità se si considera che il Littorio scriba ami usare nei suoi articoli parole arcaiche per sentirsi un po’ Gozzano. Qualcuno (in queste ore Ruotolo e Borrometi) ne chiede la cacciata dall’Ordine dei Giornalisti, ma sarebbe una perdita immane per l’umanità tutta: Egli è tutto. Di lui, rapiti, vergammo un anno fa un elzeviro colmo d’amor, che Littorio apprezzò da par suo con parole sature di stima: “Caro Scanzi, non avevi bisogno di scrivere un articolo volgare su di me per dimostrare di essere un coglioncino. È noto a tutti da tempo che lo sei. Sappi che è meglio bersi un whisky che bersi il cervello come fai tu”. Grazie Litto’! Purtroppo l’uomo che sussurrava ai gin tonic è oggi triste, perché il nuovo governo Mazinga non gli piace. Ma proprio per niente. Giovedì 5 settembre, dopo aver appreso la lista dei ministri, egli ha tuonato duro. Anzi durissimo. La prima pagina di Libero, giornale che sin dal nome che si è dato ci tiene a prendersi e prenderci per il culo in partenza, era quel dì assai guerreggiante. Ogni titolo, uno svolazzo. “Il governo più ridicolo della storia” (invece quello del bunga bunga era un giglio di campo). “Di Maio ministro degli Esteri e dei disastri” (e Di Maio deve ancora cominciare). “Peggio non poteva capitare, ma non stracciamoci le vesti. Limitiamoci a vomitare per qualche tempo, che non sarà troppo lungo, speriamo. Una squadra tanto sgangherata ci riempie vergogna e ci induce a pensare che al male, in effetti, non vi è limite” (daje Litto’!). Quindi il colpo di genio: “Lo zoo di Conte pieno di terroni fa ribrezzo”. E vai col fiasco! Ci immaginiamo non senza invidia le riunioni in redazione di Libero, in un parossismo contagioso di rutti, shottini e ceffoni piazzati bene a Filippo Facci tanto per ammazzare il tempo. Idoli senza pari. Verrebbe da dire che, se questo strano Mazinga fa così schifo a tali dotti scampaforche (per dirla con Kit Carson), forse qualche pregio ce l’ha. Sarebbe però ingeneroso nei confronti di Littorio: l’uomo che sussurrava ai gin tonic non può sbagliare. Mai. E se talora qualche volta così ci sembra, è solo perché ogni tanto persino i migliori barman del bar di Guerre Stellari sbagliano dose.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2019. Premessa. Le beghe tra giornalisti non hanno nulla di interessante. Titillano il capezzolo, la testa è troppo, sono degli idioti che si beccano tra loro per credere di esistere. Stavolta tocca però rendere noto ai lettori di Libero qualcosa che vi riguarda direttamente. Tale Andrea Scanzi, che forse avrete notato tirare peti verbali accolti festosamente dalle moine ricciolute di Lilli Gruber, ha inondato di insulti e di falsità il foglio per cui versate quotidianamente l' obolo di un euro e mezzo e soprattutto tempo e fiducia. Tutte e tre merci preziosissime, che mi commuove sapere da voi riservate al lavoro di questa compagnia di asini che mi onoro di guidare insieme con Pietro Senaldi. Mi preme dirvi: mesciamo per voi vino sincero, se talvolta sa di tappo, è colpa mia. Le critiche sono bene accette, perfino le più aspre. Tuttavia chi ci accusa di adulterare il prodotto, avvelenandovi e aggirando la vostra buona fede, non ha il diritto di filarsene via come un verme sul web tra gli applausi dei suoi simili. In Tribunale c' è posto. Premessa finita. L'altro ieri Andrea Scanzi ha vomitato menzogne mal scritte su Il Fatto Quotidiano a proposito di Libero e dei suoi cronisti. Recita testualmente Scanzi che «(Feltri) con una mano sdraia l'ultimo gin e con l'altra butta là l'ennesimo scritto a casaccio per poi dar la colpa al Senaldi. Vittorio fa la cazzata e i ceffoni li prende Senaldi». Lo userei come «foglia di fico»: cioè, per vigliaccheria, lo costringerei a firmare miei articoli, così da preservarmi intatto da attacchi e critiche. È una bugia fattuale e uno sfregio morale: i pezzi di Senaldi sono inconfondibili, scrive troppo meglio di me. E non creda lo gnomo di poter dribblare e farsi scusare con il pretesto che la sua sarebbe satira. Satira un par di balle. Questa sì che è viltà. Mascherare livore e fake news dietro un vocabolario che manipola e degrada lo stile di Marco Travaglio, per cavarsela in Tribunale. Il tema che ha dato pretesto alla balla di questo gigione da tastiera è stato la polemica sulle virtù amatorie di Nilde Iotti, adombrate con allegria da Giorgio Carbone nonostante si fosse sorbito l' omonimo pippone sceneggiato della Rai. Carbone è un signore che da cinquant'anni fornisce recensioni inappuntabili e di competente finezza. L'ho voluto con me, avendone saggiato nei decenni la prosa. Senaldi ed io ci vantiamo di averne ospitato lo scritto, in realtà pregevolissimo, e vituperato dalle code di paglia perché ha osato accostare un mostro sacro a virtù apprezzate non solo dai proletari. Orrore. Tabù infranto? Arriva Scanzi con lo scotch. Finché se la prende con me, uno magari soprassiede. Invece costui tira acido in faccia pure ai colleghi di Libero convinto di potersi nascondere tra le gambe di Travaglio e di qualche giudice. Li squalifica professionalmente chiamandoli «giornalisti» dove le virgolette funzionano come una negazione. Li deforma fisicamente, giudicandoli di «fattezze sghembe» tali per cui «l' ultima volta che hanno fatto sesso è forse coincisa con la conferenza di Jalta». Se si riferisce a me, confermo: esatto. Ed è stato con sua zia suora. Ma la prossima sarà con lui, se ho capito bene, frequentando amorevolmente i grillini, qual è la sua pertinenza preferita. Avendo letto l'articolo di Scanzi troppo tardi, mi ero limitato sul momento ad un tweet: «Risulta che il Fatto Quotidiano abbia perso in ottobre, rispetto allo scorso anno, l'11 per cento delle copie vendute. Consigliamo a Travaglio: se vuole riguadagnarne altrettante basta che perda il buttafuori Andrea Scanzi». Lo ribadisco sulla carta. Ebbene Scanzi, al posto di difendere il Fatto che fa? Il genio della latrina mi chiama Littorio: ha scopiazzato un nomignolo il cui inventore (Marco Travaglio) l'ha mandato in prescrizione da anni, ma forse Scanzi pensa che Bonafede ne consenta il recupero. E fin qui pace, i giochi littoriali li ha vinti anche Giorgio Bocca. Soprattutto si vanta di vendere un sacco di libri più di me. Mi fa piacere. Più ne vende, più accumula denari per arricchirmi.

Dagospia il 19 dicembre 2019. (Grazie Libero!) Dall’account facebook di Andrea Scanzi. Non gli sto dietro, ragazzi! Ormai Libero esce solo per parlare di me. Un pezzo al giorno sul sito. La foto in prima pagina di un mese fa, per farmi insultare addirittura da un morto. L’attacco a Celentano per essersi ridotto a invitare me dopo la De Filippi (la “mia” puntata ha fatto più ascolti di quella con la De Filippi). Ne indovinassero una, questi sdraiati neuronali. E adesso, dopo i tweet dettati dall’ipertrofia prostatica, il mai domo e sempre ciucco Littorio Feltri mi dedica addirittura l’editoriale in prima con foto annessa. Troppa grazia! Il successo del mio libro li ha proprio cortocircuitati. Ed è anche logico, perché gli ho zimbellato il padrone. E poi il libro di Littorio non l’ha comprato neanche un Senaldi qualsiasi: rosicare è naturale. Ringrazio la foglia di fico Pietro e l’uomo che sussurrava ai gin tonic Littorio per questi attacchi continui: portano bene e confermano di essere nel giusto. Sono una coppia meravigliosa. Senaldi va in tivù a farsi bastonare da chiunque, esibisce la presenza scenica dei daini morti, finge di fare il direttore e prende i ceffoni al posto di Feltri. Un martire figlio di un Dio minore. Littorio, da parte sua, è così rincitrullito da non rendersi neanche conto che i media - da anni - lo usano come vecchio scemo del villaggio. Il nonno scorreggione che borbotta a caso, veste come uno Sherlock Holmes bombardato a tradimento dall’arteriosclerosi galoppante (con tanto di gora urinante ad altezza patta, che fa molto chic) e tracanna ogni cosa con la voracità degli imbuti astiosi. Non si uccidono così neanche i cavalli, figuriamoci i giornalisti. Ma in quel senso lì, va detto, il tartagliante Littorio si era già ammazzato da solo quando pugnalò alle spalle Montanelli; e quando il grande Indro glielo fece notare, durante una puntata di Santoro, Littorio si fece ovviamente piccolo piccolo, esibendo il coraggio tipico dei fascistelli eunuchi. Sono una coppia sublime: Palline Mosce e Arteria Vilipesa. Gli ridono tutti dietro e non li legge neanche il Merda, ma dal loro fortino derelitto continuano a latrare a caso. Un abbraccio ai tre neuroni in croce a loro inopinatamente sopravvissuti, e ancora grazie per questi attacchi a nastro. Dopo il “metodo Boffo”, il “metodo Scanzi”: son soddisfazioni. Siete stupendi, ragazzacci putrescenti. Vi voglio bene!

Dagospia il 19 dicembre 2019. “Il natale? Purtroppo arriva ogni anno, non lo sopporto. E poi dopo c'è il Capodanno che è pure peggio. Cosa rispondo quando, in questi giorni, tutti mi dicono 'Se non ci vediamo buon natale? Con gli stessi luoghi comuni. Io però la risposta ce l'avrei: vorrei rispondergli 'ma vaffanculo'... Però non è in linea con lo spirito natalizio, e mi adeguo...”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Vittorio Feltri, direttore di Libero e decisamente poco appassionato del clima natalizio. Lei e sua moglie fate molti regali in famiglia? “No, solo ai miei nipoti più piccoli diamo quattro soldi per comprarsi quello che preferiscono, perché io e mia moglie dei loro gusti sappiamo poco”. Le toccherà partecipare almeno alla festa di Natale del suo giornale...”Si, purtroppo a quella non mi posso opporre e non riesco nemmeno ad inventarmi un impegno, visti i giorni. Per fortuna la festa di redazione dura dai 15 ai 20 minuti, e io dopo 2 minuti già mi sono rotto...” E come vive il suo capodanno? “Vado a letto presto, il brindisi lo faccio alle otto di sera, per digerire il discorso del Presidente della Repubblica. Poi mangio qualcosa e vado a letto presto”. E' vero che ha regalato una giacca a Maurizio Crozza perché quando faceva la sua imitazione il comico, a suo avviso, si vestiva male? “E' verissimo, gli ho preso una bella giacca da Della Valle e gliela ho spedita. Vedo che la indossa sempre ora in trasmissione. Poi siccome Crozza è genovese non è che la butto via, magari la indossa anche per andare al supermercato...” Crozza l'ha ringraziata per questo regalo decisamente inatteso? “Certo, è una persona educata”. In questi giorni ha avuto un acceso botta-risposta con Andrea Scanzi. Come mai? “Con lui non ho problemi, fosse il giudizio di Manzoni ci terrei ma cosa me ne frega di quello che dice Scanzi”, ha sentenziato Feltri a Un Giorno da Pecora.

Vittorio Feltri e il futuro di Mattia Santori e Sardine: "Non meritano antipatia, ma la loro morte..." Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Le Sardine non meritano antipatia e mi dispiace per la brutta fine che faranno. La loro morte è segnata. La frequentazione decennale degli antri della politica mi autorizza a fare la Cassandra della loro caduta in padella. Le friggeranno povere Sardine. Se le spartiranno, magari con una fetta di limone e le patate lesse. Le si vede in queste ultime ore, corteggiate e adulate, in visita ad esempio da Lucia Annunziata e Lilli Gruber. Credendo di visitare le loro rispettabili nonne partigiane e post-comuniste, ci pare di sentirle dire: «Ma che bocca grande che hai». Gnam. Nei loro esordi le Sardine hanno avuto la leggerezza delle favole. Dotati di squame e di pinne come la celebre Sirenetta di Andersen e di Walt Disney, ma anche di belle facce e bei capelli, i loro capi si sono esibiti guizzanti, e hanno incantato le anime belle, cui sono apparsi come pesciolini un po' volanti sulle nuvole del sogno. Sardine Peter Pan. Avannotti nati nelle vasche del nulla, senza padri né madri, tutti le volevano adottare. Così parevano avere un destino di maturità durevole: diversa dai girotondini, dai movimenti dei viola e degli arancioni. Nessuna grevità di tratto, all' inizio facce pulite e ignote. Ragazzi antisalviniani sì, ma moderatamente, e solo perché Matteo fa troppi tweet: si calmasse, e magari ci si sarebbe potuti accompagnare anche con lui (Figuriamoci). Sì, sardine un po' di sinistra, ma si sa come sono i ragazzi, e però senza la zavorra della falce e del martello a tirarli giù nel fondo limaccioso della vecchia politica. Con queste loro costumanze vezzose, i cartelli pitturati da bambini delle elementari, a colori pastello, hanno sedotto persino qualcuno a destra, speranzoso che la nascente popolarità di un movimento strappasse le penne e tagliasse le unghie alla Lega, mettendola fuori moda. C'è voluto meno di un mese perché questo fascino presso l' opinione pubblica poco o niente militante finisse a ramengo, proprio mentre è cresciuto a vista d' occhio l' appetito dei pescecani rossi e gialli affamati di consensi perduti, bisognosi di ingurgitare il pesce azzurro.

Gnam. In origine, almeno il primo giorno, le Sardine non parevano destinate a questa sorte. Non si sa se per malizia o per convinzione avevano evitato anche di cantare "Bella ciao". Vedendo in effigie e ascoltando in tivù i quattro inventori bolognesi di questi raduni, ho apprezzato in loro l' attitudine a usare lo shampoo e i congiuntivi.

Non erano antipatici. Il problema - sin dalle loro prime trionfali apparizioni - era che non si capiva se ci fosse qualcosa nella profondità dei loro ricami verbali sulla gentilezza, la sincerità, eccetera. Non dico idee, non esageriamo, ma uno spunto di originalità, un attaccamento alle questioni pratiche, e una proposta di soluzione. Ilva, Alitalia, tasse, migrazioni. Possibile che gli stesse bene tutto, ma proprio tutto del governo, e la sola protesta fosse diretta a chi non governava né Bologna, né l' Emilia-Romagna e tanto meno l'Italia? Ma sì: aria fritta di sinistra, tale quale il loro destino. In tanti anziani militanti, bisognosi di rigenerare le loro illusioni perdute di sessantottini, l' ultimo è stato ieri Gad Lerner, si ostinano a vedere in costoro la palingenesi della sinistra, la rigenerazione dalle ceneri della fenice morta.

Non andrà così. La faccenda è diventata chiara dopo che le 160 sardine gallonate si sono chiuse nel palazzo occupato e hanno cavato dalle loro zucche cinque punticini innocui di galateo del nulla, e un solo punto politico: no ai decreti sulla sicurezza. Proprio quel no che è stato la dannazione della sinistra, e la causa del suo sprofondamento. Una ricetta di sicure sconfitte condivisa da ciascuna delle varie correnti del Pd e dei Cinque Stelle, nonché da Italia Viva, + Europa, Calenda, Verdi. Tutti. Dall' ala antisalviniana di Forza Italia fino ai filo palestinesi arabi sono pronti a contendersi i singoli capi acciughe per metterli alla testa di qualche sciagurata lista civica per le regionali e con l' intento di fagocitarli facendoli parlare a qualche congresso, infilandoli nel loro acquario. Finiranno nel loro menù. Sardine fritte. E pure pesanti da digerire. Vittorio Feltri

·         Le oche starnazzanti.

CALABRIA SENZA SPERANZA. Emergenza Covid, siamo al punto di massimo tradimento delle istituzioni. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 7 novembre 2020. Possiamo tollerare che il 27 ottobre, sette mesi dopo la prima ondata, il ministro della Salute si ricordi di nominare il generale Cotticelli commissario attuatore per il piano Covid in Calabria e che il medesimo generale non ritenga di dovere neppure leggere la comunicazione che lo riguarda? Non sa che è commissario per la sanità in Calabria e ritiene che il ministero debba fare il lavoro suo. Non sa che è stato nominato commissario attuatore per il piano Covid. Non sa che tocca a lui fare il piano B. Non conosce il numero dei posti letto in terapia intensiva della Regione a lui affidata e chiede assistenza tecnica all’usciere del suo piano. Non sa probabilmente neppure come si chiama. Non abbiamo la minima idea di chi possa avergli dato le stellette di generale. Riteniamo un’offesa al decoro delle istituzioni avere nominato una persona così incompetente alla guida della sanità calabrese. Si chiama Saverio Cotticelli. Non può rimanere nemmeno un secondo di più seduto su quella poltrona perché la sua sola presenza può rappresentare un oltraggio alle donne e agli uomini della Calabria. Rimuoverlo da quella poltrona è obbligatorio ma resta una decisione tardiva che nulla toglie alle responsabilità di chi lo ha nominato e di chi lo ha fino ad oggi mantenuto in questo incarico. Siamo molto oltre la barzelletta di un generale chiamato da uno Stato patrigno a fare un mestiere che non conosce. Siamo al punto massimo di tradimento delle istituzioni quando si decide che alle ruberie della politica locale regionale, ai falsi in bilancio e alle corruttele delle aziende sanitarie, si deve aggiungere un altro stipendio pagato da tutti noi per non fare nulla. Anzi peggio. Per non leggersi neanche le carte che lo riguardano. Per cumulare debiti su debiti. Per aggravare ciò che nessuno riteneva possibile aggravare ancora di più. Possiamo tollerare che il 27 ottobre, sette mesi dopo la prima ondata, il ministero della Salute si ricordi di nominare il generale Cotticelli commissario attuatore per il piano Covid e che il medesimo generale non ritenga di dovere neppure leggere la comunicazione che lo riguarda? Ministro Speranza, erano spariti tutti i manager di settore al momento della nomina di Cotticelli, c’erano disponili solo uomini dell’arma? E, soprattutto, che cosa ha fatto Lei da marzo a ottobre, forse era più urgente leggere le bozze del suo libro che occuparsi dell’emergenza sanitaria calabrese? Commissario Arcuri, possiamo ricordarLe che la Calabria fa parte dell’Italia e che doveva essere la prima delle sue preoccupazioni? Che cosa Le fa ritenere che dobbiamo sopportare ancora il peso della Sua tanto manifesta quanto presuntuosa incapacità? Per quanto vi possa apparire paradossale ci tocca addirittura assistere ad un Presidente facente funzioni della Regione, tale Nino Spirlì, che scopre che la sua Regione è finita in codice rosso, occupa le tv da mattina a sera ma non sa niente di quello che è avvenuto prima di lui e non trova mai un minuto per informarsi che l’attuazione del piano Covid non doveva farlo la Regione ma il commissario Cotticelli. Anche qui siamo alla farsa di una tragedia vera. La tragedia vera è che a ogni cittadino calabrese vanno 15,9 euro per investimenti fissi in sanità e a ogni cittadino emiliano-romagnolo ne vanno 84,4. La tragedia vera è che tutto ciò avviene da undici anni in un luogo nascosto della democrazia italiana che si chiama Conferenza Stato-Regioni dove, con il trucco della spesa storica, esistono cittadini di seria A e cittadini di serie B grazie a una solida alleanza tra la Sinistra Padronale tosco-emiliana e la Destra lombardo-veneta a trazione leghista. Siamo alla tragedia di un misfatto che si ripete nel silenzio complice di tutti senza che un solo presidente della Regione Calabria o di una qualunque delle Regioni del Mezzogiorno abbia ritenuto di sollevare il problema in quella sede o, meglio ancora, davanti alla Corte Costituzionale. Siamo nel caso della Calabria alla tragedia supplementare di uno Stato che subentra alla Regione nella gestione della sanità da oltre dieci anni per una serie di scandali che hanno riguardato le aziende sanitarie locali, ma riesce a fare peggio di chi li ha preceduti. Siamo allo Stato patrigno che non vede, non sente, non parla, e fa male. Molto male. Non ha consapevolezza o non vuole avere consapevolezza che con un finanziamento così ingiustificatamente ridotto non è possibile fare alcuna azione di risanamento e, tanto meno, di riorganizzazione e di sviluppo delle attività sanitarie. Lo Stato è fuori. Non ha la cassa. I soldi sono stati trasferiti alle Regioni e, come questo giornale documenta in assoluta solitudine da mesi e mesi, la ripartizione delle risorse di fatto non appartiene più alla potestà nazionale, ma all’arbitrio negoziale tra i Capetti delle Regioni che si sono autonominati “Capi di stato” e che hanno in mente loro una precisa gerarchia. Per cui gli “Stati” del Centro-Nord lombardo-veneto e dei “granducati” toscano e emiliano-romagnolo, quello piemontese di origine sabauda e la consorella Liguria che contribuiscono insieme al primo e al secondo posto alla realizzazione del deficit sanitario nazionale, sono tutti Stati di serie A, lo staterello calabrese può giocare al massimo la sua partita nei campionati minori. Il finale di questo circolo perverso di un Paese che è diventato terra di nessuno, dove non si sa più chi comanda, dove non si sa chi decide, dove tutto è opinabile, è che una regione come la Calabria dove il tasso di contagio non è per fortuna esploso, deve subire la beffa di finire in codice rosso come regioni infinitamente più foraggiate dallo Stato (Lombardia e Piemonte) che hanno tassi di contagio infinitamente superiori, per la semplice ed esclusiva ragione che non è stata messa nelle condizioni di assicurarsi un livello di protezione ospedaliera adeguato. Il finale di questa maledetta storia italiana che ne fotografa le ragioni profonde della sua crisi strutturale è che un’economia già in ginocchio come quella calabrese viene rasa al suolo non perché c’è una pandemia globale, ma per colpe che non appartengono a questa comunità. Che cosa hanno fatto, mi chiedo, le donne e gli uomini della Calabria per meritarsi un tale trattamento di “riguardo”? Ma vi rendete conto a quali abissi di irresponsabilità ci ha condotto il federalismo incompiuto all’italiana che mette insieme il miope egoismo del Nord e la rassegnazione al degrado del Sud? Lo ripetiamo come un disco incantato ogni giorno, ma se non si mette mano con urgenza immediata alla riforma dello Stato e della sua macchina amministrativa, non abbiamo speranze. Se non si restituisce allo Stato ciò che è dello Stato, se non la smettono i Capetti delle Regioni di muoversi come Capi di Stato ombra, non solo non supereremo la crisi terribile del Covid ma faremo lentamente precipitare il Sud intero nella povertà e il Nord intero in un regime di sudditanza coloniale tedesca e francese come subfornitori di industria e di finanza. Nel frattempo c’è una sola realtà che riguarda i cittadini calabresi. Che hanno visto aumentare, di addizionale in addizionale, le loro tasse per coprire i buchi della sanità. Cioè per non avere nulla. Come dire: “stracornuti e stramazziati”. Questa realtà fa paura.

Andrea Bassi per “il Messaggero” il 6 novembre 2020. Un miliardo di euro. Sull'unghia. Mentre il resto del Paese arranca tra la pandemia e la crisi economica, c' è un pezzetto d' Italia che può viaggiare su un binario parallelo, più veloce. O, se si vuole, in un' altra classe. Migliore ovviamente. Basta prendere le parole spese dal ministro delle infrastrutture, Paola De Micheli, che con un entusiasmo che stride con il momento, ha celebrato la sua decisione di firmare il decreto che finanzia con il suddetto miliardo le infrastrutture lombarde in attesa delle Olimpiadi invernali del 2026 di Milano e Cortina. «Faremo compiere un salto di qualità infrastrutturale - è stata la spiegazione della ministra - a una delle aree più sviluppate del Paese con una ricaduta importante per la qualità della vita delle persone e anche un miglioramento competitivo per le imprese». Che va bene. Chi prospera ha diritto di stare meglio. Anche se a Milano non si scierà, perché montagne e piste non ce ne sono. Ma nemmeno si può sorvolare sul fatto che, ancora una volta, il governo ha deciso di sostenere la parte più ricca del Paese a scapito del Sud. Quelle stesse Regioni settentrionali che sono state, come ha appena sottolineato la Banca d' Italia nel suo studio sulle economie regionali, la culla della recessione italiana. Recessione la cui onda d' urto, tuttavia, ha spiegato sempre via Nazionale, ha messo al tappeto soprattutto le famiglie del Centro-Sud. Basta pensare alla crisi nera del turismo, o all' ecatombe dei lavoratori a termine e stagionali concentrati soprattutto nelle Regioni meridionali. Il punto sta proprio qui. Nel continuare a pensare, erroneamente, solo alla presunta locomotiva, mentre i vagoni deragliano. La prova? Proprio mentre la ministra De Micheli celebrava il decreto pro-Milano, il governo ha preso una decisione controversa, immediatamente contestata dagli interessati: dichiarare il lockdown di una regione, la Calabria, non perché i contagi sono fuori controllo, ma perché se lo fossero, avrebbe un sistema sanitario talmente disastrato da non poter reggere l' onda d' urto. Insomma, lo stesso governo che ha trovato un miliardo per i giochi invernali del 2026, ha alzato le mani davanti al disastrato sistema sanitario calabrese, scegliendo la via più semplice: la chiusura. Con le pesanti conseguenze economiche che questo comporta per un territorio che ha il reddito medio più basso d' Italia: solo 15.430 euro contro gli oltre 25.600 euro della Lombardia. La colpa, si potrebbe obiettare, è in fin dei conti della stessa classe politica. La sanità calabrese è da oltre 10 anni commissariata con lo scopo di ripianare il debito. Solo che lo stesso debito, da quando la Regione è sottoposta al piano di rientro, è passato da 150 milioni a quasi 1 miliardo. E ora il commissariamento è stato allungato di 3 anni. Il vero problema è che l' unica ricetta messa in campo sono stati tagli ai posti letto e agli ospedali. Il risultato è che i commissariamenti non hanno aiutato la Calabria a migliorare il sistema sanitario e se oggi si ritrova zona rossa è più per la fragilità della rete degli ospedali e del tracciamento che per una reale esplosione del contagio. La debolezza del sistema sanitario calabrese negli anni è anche stata accentuata dall' effetto perverso del mancato rilancio, perché i cittadini cercano assistenza in altre regioni. Secondo un report della Fondazione Gimbe, diffuso a settembre, la Calabria ha uno dei saldi peggiori nel calcolo che valuta la mobilità attiva e passiva: 287,4 milioni di euro che finiscono soprattutto in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana dove i calabresi sono costretti ad rivolgersi per curarsi a causa delle carenze della sanità locale povera di investimenti. Difficile che si possa uscire da questa situazione senza un vero intervento emergenziale che possa contare su finanziamenti straordinari cospicui. Magari gli stessi assegnati per rifare le strade lombarde in vista delle olimpiadi. Anche perché, se da un lato non si possono nascondere le responsabilità politiche, dall' altro il sistema sanitario calabrese è andato in difficoltà, come altri del Mezzogiorno, anche per i criteri di riparto del fondo sanitario che per anni hanno premiato le regioni settentrionali. Alla Calabria, con quasi 2 milioni di abitanti, sono stati destinati soltanto 3,6 miliardi. Dunque, 1.800 euro pro capite contro i 1.916 destinati alla salute di un cittadino del Friuli o, ancora, i 1.935 impiegati per un piemontese. Un meccanismo che, secondo la Corte dei Conti, ha portato a una distribuzione sbilanciata verso il Nord delle risorse. Dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei regioni settentrionali hanno visto aumentare la loro quota mediamente del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud hanno visto lievitare la loro parte solo dell' 1,75%: significa più o meno 1 miliardo in meno in 5 anni. Proprio la stessa cifra destinata ai giochi del 2026.

ITALIA TERRA DI NESSUNO. Siamo al punto finale di un Paese che si crogiola nell’eccesso di debito e nella carenza di Stato. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 5 novembre 2020. Lo Stato patrigno si permette di dare 84,4 euro pro capite a un cittadino emiliano-romagnolo e 15,9 euro a un cittadino calabrese di investimenti nella sanità come se nulla fosse, e poi che fa? Arriva a chiudere la regione, che lo Stato ha commissariato da dieci anni e che i tedeschi hanno indicato come zona meno infetta, perché non ha nulla o quasi per proteggersi sul piano sanitario. Praticamente stracornuti e stramazziati. Otto mesi fa il commissario Arcuri la conosceva o no la situazione delle terapie intensive della Calabria? Che cosa hanno fatto lui e Speranza per acquistare posti letto e prepararsi alla seconda ondata? Stracornuti e stramazziati. C’è un punto dell’Italia dove il Paese Arlecchino dei Capetti Regionali che danno ai ricchi e tolgono ai poveri e il rigore ottuso di ragionieri ministeriali graduati con le stellette e muniti di poteri commissariali, possono decretare la morte sanitaria, economica e civile di una intera nazione. Benvenuti in questa terra di nessuno che non è solo la Calabria ma l’Italia dove non si capisce più chi comanda e tutti i poteri istituzionali non sono impegnati a fare ma piuttosto a fare molto perché nessuno di loro faccia qualcosa dentro un inverecondo scaricabarile di responsabilità. Benvenuti nel pezzo estremo di questa terra di nessuno dove aziende sanitarie che non presentano bilanci e altre accusate di infiltrazioni della criminalità organizzata hanno portato giustamente al commissariamento della sanità regionale senza che questo abbia migliorato di fatto qualcosa. Perché tra un piano di rientro e l’altro dello Stato patrigno e un taglio alla fonte di investimenti fissi in sanità che permette di dare 84,4 euro pro capite a un cittadino emiliano-romagnolo e 15,9 euro a un cittadino calabrese come se nulla fosse, l’unico risultato possibile è che si arrivi a chiudere la Regione che i tedeschi hanno indicato come zona meno infetta perché non ha nulla o quasi per proteggersi sul piano sanitario. Chiudendo la Calabria peraltro, forse, metti ulteriormente in crisi anche il livello sanitario, ma soprattutto riconosci che hai un deficit patologico strutturale e che tu Stato patrigno non hai fatto nulla per risolverlo. Otto mesi fa, commissario Arcuri, la conosceva o no la situazione delle terapie intensive della Calabria? Sì o no? Che cosa ha fatto per acquistare posti letto e prepararsi alla seconda ondata? Otto mesi otto: che cosa ha fatto lei, lo Stato, i suoi commissari sanitari perché la Calabria venisse prima di tutti in quanto partiva da più indietro di tutti e non ha più potestà regionali in materia? Che cosa ha fatto per fare capire ai commissari che l’equilibrio finanziario che prevede la morte del paziente non guarisce la sanità, ma condanna un popolo intero al turismo sanitario e la sua economia alla disfatta? Che cosa può avere spinto a trattare il Piemonte, principale responsabile del deficit sanitario nazionale, meglio della Puglia o la Liguria, corresponsabile con il Piemonte dello stesso deficit, meglio della Sardegna? Perché mai tutti questi soggetti regionali che hanno sempre avuto di più della Calabria sono trattati meglio anche in piena Pandemia? Quale logica si è voluto seguire? Ci troviamo di fronte al paradosso che le Regioni pluriforaggiate dalla spesa pubblica e con un accesso al capitale privato molto più elevato diventano zona rossa (Piemonte e Lombardia) perché nonostante tutte le risorse di cui ingiustificatamente beneficiano non sanno fare prevenzione e hanno tassi abnormi di contagio. Viceversa le Regioni svantaggiate come quella calabrese che hanno comunque un basso tasso di contagio devono chiudere ciò che resta della loro economia e della loro vita sociale. Perché prima il federalismo della irresponsabilità li ha privati dei diritti di cittadinanza sanitaria e scolastica e poi perché uno Stato patrigno – che indossa l’abito dei commissari-ragionieri e di quello all’emergenza affetto da acuto strabismo nordista – fa strame non delle sue pretese ma dei suoi più elementari diritti. Come si spiega, commissario Arcuri e ministro Speranza, questa insopportabile differenza tra Centro-Nord e Sud anche nella ripartizione degli interventi di emergenza? Perché si comprano più letti di terapia intensiva per una parte rispetto all’altra? Siamo, forse, al punto finale di un Paese che si crogiola da troppo tempo nell’eccesso di debito e nella carenza di Stato come ammonivano molto tempo fa in un libro famoso (L’economia italiana, edizioni il Mulino) Ignazio Visco e Luigi Federico Signorini. Questo tentativo lombardo di buttarla tutta in politica è deplorevole anche se il Governo deve essere in grado di fornire tutte le spiegazioni necessarie per capire bene come funzionano i criteri uguali per tutti. Un punto importante dell’Italia di oggi è quello di decidere i progetti a partire dalla sanità e, ancora di più, l’esecuzione dei progetti individuati come cruciali dalle strutture con team motivati. Non siamo in grado di avere una capacità di intervento pubblico strutturale, ma solo congiunturale che fa crescere il debito. Questa situazione è frutto anche della cattiva disposizione dei politici nei confronti di chi lavora nelle amministrazioni pubbliche dei ministeri e nei governi regionali e dal loro conseguenziale, progressivo scadimento, ma ancora prima da un assetto istituzionale che è fatto apposta per non decidere e aumentare gli squilibri territoriali. Per questo mi viene spesso di pensare che solo l’Europa potrebbe liberare il Mezzogiorno dallo Stato patrigno e dai feudatari regionali del Nord che hanno messo le mani sulla cassa da dieci anni in qua e non la mollano più. Il ministro Speranza è molto preoccupato per la salute della Calabria, apprezziamo la sua preoccupazione, ma farebbe bene a chiedersi che cosa ha fatto lui e che cosa hanno fatto i suoi collaboratori da otto mesi in qua per la Regione Calabria.

LO STATO IN TERAPIA INTENSIVA. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 6 novembre 2020. Con questo groviglio di poteri di veto e venti “capi di Stato” ombra, uno per Regione, il Paese non ce la fa. Se non si torna a dare allo Stato quello che è dello Stato non si va da nessuna parte. Anche se nessuno ve lo dirà mai ufficialmente non si chiude tutto come è stato fatto a marzo perché lo Stato italiano non ha i soldi per risarcire tutti. Ma la fiducia si è esaurita e nessuno è più disposto ad attendere. Uno Stato dove nessuno è in grado di imporre un ordine. Che dipende al 100% dai soldi della Banca Centrale Europea. Uno Stato che è tenuto in vita da quegli acquisti che dureranno a lungo, ma sapendo che senza di essi fallisce un minuto dopo. Siamo al Pandemonium italiano. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo. Le Regioni messe in codice rosso vivono una misura sanitaria come un fallimento politico. Altre Regioni messe in codice giallo esigono il codice rosso. Altre regioni finite nel codice arancione reclamano il giallo. Tutti la buttano in politica. Tutti straparlano. Tutti quelli che straparlano hanno fatto poco e male. Non è da meno il governo. Che arriva tardi, sei giorni dopo e senza soldi. Che arriva male e, cioè, dopo avere bruciato credibilità e gran parte degli effetti concreti delle nuove restrizioni per essersi rinchiuso in un conclave eterno allo scopo di strappare un consenso impossibile su una regola comune ai “padroni d’Italia” che sono i Capetti delle Regioni del Nord. Non si può chiedere alla Conferenza Stato-Regioni, dove la regola è l’arbitrio e dove è morto per miope egoismo lo spirito unitario del Paese, che improvvisamente approvi una regola uguale per tutti. Una regola che prevede parametri uguali per i cittadini lombardi e campani o per i cittadini emiliano-romagnoli e quelli calabresi. Al massimo, come è accaduto, questa regola comune si può solo imporla. Perché è l’esatto opposto di quello che ha fatto fino a oggi la Conferenza Stato-Regioni da sempre saldamente nelle mani della Sinistra Padronale tosco-emiliana e della Destra lombardo-veneta a trazione leghista in combutta tra di loro. Sapete che cosa vuol dire tutto ciò? Che non è vero che è stata tagliata la sanità come si sente dire in giro perché nel lungo termine la spesa è cresciuta mediamente del 3,5 % l’anno. Chi lo sostiene dice una balla e lo fa per nascondere i trasferimenti indebiti alle Regioni del Nord. Chi invece dice che le Regioni del Sud hanno subito un taglio drastico soprattutto nelle assunzioni non dice una balla. Questa è la sacrosanta verità. Ergo: quando la Pandemia era solo nelle regioni del Nord si soffriva molto, ma si poteva immaginare di resistere per gli ingenti trasferimenti avuti e il tasso presunto di organizzazione, ora invece che la Pandemia è anche al Sud si sente sulla pelle delle persone il morso di quei tagli ingiusti. Al punto che con i parametri comuni adottati devi chiudere la Calabria che ha un contagio leggero e, quindi, sei costretto a uccidere un’economia in ginocchio non per colpa delle pandemia, ma per colpa di un sistema sanitario che non è in grado di affrontare l’emergenza per almeno due ragioni. La prima: è stato spoliato ingiustificatamente di risorse dalla ripartizione incostituzionale tra le Regioni che lede i diritti di cittadinanza della comunità calabrese nel silenzio complice dei suoi amministratori. La seconda: perché, una volta commissariata la sanità regionale per scandali veri e presunti, si è deciso di affidarne la gestione a uno Stato Patrigno che non ha saputo fare altro che tagliare, tagliare, tagliare, con criteri ragionieristici. Questo significa abolire il Mezzogiorno e, di fatto, l’Italia. Questo significa, di fatto, dire ai calabresi che sono penalizzati due volte fino all’inverosimile. C’è una verità più profonda, però, che nessuno dice. Siamo dentro un pasticcio di Stato che non ha precedenti. Perché c’è un sistema istituzionale dilaniato dal federalismo dell’irresponsabilità. Perché in cassa non c’è più un euro nonostante le balle che abbiamo raccontato sulla ripresa portentosa italiana unica al mondo e sui soldi europeiche arriveranno ma non ora. Se fai un decreto di cosiddetti ristori per un paio di miliardi fai una scelta assolutamente sottodimensionata. Anche se nessuno ve lo dirà mai ufficialmente non si chiude tutto come è stato fatto a marzo pur avendo dati peggiori di marzo, perché lo Stato italiano non ha i soldi per risarcire tutti i soggetti economici di cui decreta la cessazione delle attività e dare quindi a loro tutto ciò che è dovuto. Non ha tutta la cassa che serve per impedire che la tensione sociale già esplosa incendi l’intero Paese. Siamo davanti a un Paese sfibrato che va in piazza. La gente non è più disposta come la prima volta a eseguire l’ordine alla cieca. Per questo hanno chiuso i negozi di vestiti, i bar, i ristoranti, questo e quello, ma non hanno toccato l’altro lavoro, almeno per ora ci provano. Affrontiamo la seconda ondata della più grande crisi sanitaria globale e conseguentemente del nuovo ’29 mondiale con un dpcm post-datato e un governo che non ha o, peggio, addirittura non può avere la mano ferma sulla leva di comando perché il sistema Italia si è infilato con le sue mani in un tunnel di egoismi da cui sarebbe stato difficile vedere la luce anche senza Covid. Figuriamoci oggi che tutto congiura contro. Per almeno tre motivi. Punto uno. Tutti hanno capito che i soldi veri non ci sono. Per cui se io faccio il barista e devo morire perché né Governo né Regione hanno risorse reali per me, allora io combatto come un pazzo con tutti i mezzi possibili perché non sono disposto a morire. Punto secondo. L’inefficacia evidente dei risarcimenti della prima ondata di modesta entità arrivati tardi o mai rende tutti diffidenti. La fiducia si è esaurita e nessuno è più disposto ad attendere. I proclami ripetuti di ottimismo fuori dalla realtà del ministro Gualtieri sono miscela esplosiva. Punto terzo. Ci è toccata anche la peggiore opposizione europea che ha sbagliato toni e comportamenti fin dal primo momento. Soffia sul fuoco e si salda con il protagonismo inconsulto dei Capetti delle Regioni. Quando la curva dei contagi si aggraverà ancora e il morso della fame supererà il livello di guardia i Capi delle opposizioni sovraniste e i governatori che fanno oggi le star non sapranno dove andare a nascondersi. Forse, a questo punto, è più chiaro a tutti perché si fa fatica a capire chi ha la forza, l’autorità e i soldi per imporre quella disciplina civile che abbiamo visto esprimersi a marzo e che si è rivelata fino a oggi l’unico modo per ridurre i contagi. Perché si fa fatica a capire se chi ha la regia della politica economica ha o non ha il controllo della barra e del motore per condurre la barca italiana fuori dagli scogli dove marosi mai visti la hanno scagliata. Con questo groviglio di poteri di veto e venti “capi di Stato” ombra, uno per Regione, che si fanno belli con i soldi degli altri, il Paese è destinato a uscire dal novero delle grandi economie industrializzate e la Depressione mondiale può solo accelerare il processo. Questo giornale in assoluta solitudine, dal suo primo giorno di uscita un anno e mezzo fa, sostiene che se non si esce dal federalismo dell’irresponsabilità e non si torna a dare allo Stato quello che è dello Stato non si va da nessuna parte. Se ci fosse la politica con la P maiuscola avrebbe la doppia consapevolezza della gravità del momento globale e della gravità del momento italiano. Il frastuono dei Capetti e dei loro piccoli e grandi sponsor non impedirebbe a quella Politica di metterli a posto.

I CALABRESI PAGANO TANTO PER LA SANITÀ. RICEVONO NULLA E I SOLDI VANNO AL NORD. Dieci anni di burocrazia e commissariamenti, di piani di rientro e scontri furibondi. Velerio Panettieri su Il Quotidiano del Sud il 6 novembre 2020. La Calabria non è in zona rossa da oggi, lo è da almeno dieci anni. Dieci anni di burocrazia e commissariamenti, di piani di rientro dal debito sanitario e scontri furibondi tra politica e tecnici. Di decreti speciali rinnovati ogni diciotto mesi e una gestione della burocrazia sanitaria impossibile da controllare. Non è una questione di contagi (che ci sono e preoccupano), o il problema del controllo dei tracciamenti e del numero di posti letto che non soddisfa neanche gli standard basilari dettati dal ministero della Salute. Tutto questo è una conseguenza, un problema radicato dietro le cifre ragionieristiche, i tagli lineari che hanno chiuso reparti e interi ospedali nel corso di un decennio e mandato a casa 3mila 700 operatori sanitari che non sono mai stati rimpiazzati per effetto del blocco del turnover imposto dallo stesso piano di rientro dal debito sanitario. La Calabria è un buco nero se si guarda ai conti: lo è per l’emigrazione sanitaria, che genera un saldo negativo allo stato attuale fermo sui 278 milioni di euro. Milioni che la Calabria paga ad altre regioni. Lo è perché due aziende sanitarie, quella di Catanzaro e Reggio Calabria sono state sciolte per infiltrazioni mafiose, per una gestione assurda degli appalti sanitari affidati a ditte in chiaro odore di mafia, per le doppie e triple fatture pagate ai privati e la contabilità creativa che ha generato mostri, per anni di bilanci mai presentati che hanno generato milioni di euro di debito. Lo è per un’altra azienda, la più grande di tutte, che da anni si ostina a non presentare neanche un bilancio. Solo a Reggio Calabria il volume dei contenziosi sfiora un miliardo di euro. Tutto messo nero su bianco dalla commissione prefettizia che in questo momento sta reggendo l’Azienda sanitaria provinciale. L’ultima rilevazione sul crack finanziario della sanità calabrese ha certificato un debito di 200 milioni di euro circa, parte del quale non risulta coperto né dal fondo sanitario nazionale né dall’aumento progressivo del gettito fiscale Irap e dall’addizionale Irpef, altra conseguenza puramente punitiva per non essere stati bravi a fare i conti a casa. E poi ci sono i livelli essenziali di assistenza. In Calabria sono sotto soglia da tempo, a gennaio 2020 finalmente abbiamo raggiunto la soglia dei 162 punti. Una soglia basata su 33 indicatori che raccontano lo stato della sanità in Calabria dai ricoveri agli screening oncologici, passando per l’assistenza alle fasce più deboli. E il fatto che negli anni siano piombati da ministero dell’Economia e della Salute una marea di commissari non ha cambiato le carte in tavola. Perché è la ricetta ad essere sbagliata: investimenti ridotti all’osso e politica al risparmio. È innegabile che lo strumento del commissariamento dopo oltre dieci anni, non abbia prodotto i risultati sperati. Men che meno adesso che la regione si è trovata in mezzo ad una pandemia. L’ultima riunione interministeriale con l’attuale commissario, il generale Saverio Cotticelli, è finita letteralmente in un bagno di sangue. Una resa dei conti nei confronti dello stesso commissario che non avrebbe fatto quello per il quale era stato mandato da queste parti. Il debito è fermo sui 200 milioni di euro, non tutto coperto dall’aumento delle tasse. E qui la beffa è doppia: i calabresi pagano tanto per la sanità, ma ricevono sostanzialmente poco o nulla. E tutto è anche frutto di una reiterata politica predatoria e clientelare che ha interessato tutti i colori politici per oltre un decennio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ospedali che chiudono reparti per giorni perché non funziona un ascensore, strutture con 2,5 posti letto ogni 100mila abitanti, ben al di sotto di qualsiasi media nazionale e ritardi sul pagamento dei fornitori che superano ampiamente i tre anni. Il punto è tutto qui, non sono le eccellenze mediche a mancare in Calabria, spesso infilate in scenari di vera e propria guerra, c’è uno sperpero continuo di risorse e una burocrazia tremenda che tutto fagocita. Anche la nuova proroga al decreto Calabria, che dovrebbe consegnare ulteriori poteri al prossimo commissario (Cotticelli ha già annunciato le sue dimissioni) non fa dormire sonni tranquilli. Ma da questo labirinto del Minotauro fino ad oggi nessuno è riuscito a trovare una via d’uscita.

PERCHÈ LE OPERE PUBBLICHE AL SUD FANNO RUMORE? LA TRAGICOMMEDIA DELLA FERROVIA ADRIATICA E ALTRE STORIE. Raffaele Vescera su movimento24agosto.it il 19.10.2020. “Fa più rumore una scorreggia fatta a Napoli che una bomba esplosa a Milano”. E’ un detto ormai proverbiale per denunciare la scarsa attenzione dei media italiani verso quanto di clamoroso accade al Nord nel campo del malaffare, al contrario del rilievo sovrabbondante che viene dato a quello del Sud, bollato come Gomorra. Eppure i numeri diffusi dal ministero degli interni parlano chiaro: le città con il tasso di criminalità più alto sono tutte al Nord, a partire da Milano, seguita da Rimini, Bologna, Venezia, Firenze, Genova, etc. Per trovare la prima città meridionale bisogna scendere a metà classifica, Napoli dopo il 30° posto. Ma queste sono altre storie. Quanto invece oggi ci sta a cuore, è l’ennesima decisione di impedire la costruzione del raddoppio di binario ferroviario sulla linea adriatica al Sud, tra Foggia e Pescara, dove un tratto di 27 km tra Lesina e Termoli è ancora fermo al binario unico inaugurato 157 anni fa. Un binario unico che obbliga i treni a fermarsi alla stazione precedente per permettere il passaggio del convoglio proveniente in senso inverso, con attese che possono a volte superare il quarto d’ora, laddove oggi, da Bologna in su, in 15 minuti i Tav a 300 km l’ora fanno 75 km di strada. Senza dire che nel caso di lavori urgenti da farsi su quel vecchio binario meridionale, triste e solitario, la circolazione si può bloccare per giorni interi. Quale sarebbe la causa del nuovo impedimento alla costruzione del secondo binario e perché la realizzazione, pur finanziata dal 2001 è ferma da vent’anni? Farebbe troppo rumore. Sic! “La sottocommissione Via-Vas del ministero dell’Ambiente ha chiesto a Rfi alternative progettuali in termini di tracciato meno impattanti sul territorio e verso la popolazione: nella relazione è evidenziata «l’inopportunità di risolvere il problema esclusivamente attraverso il sistema delle barriere, unanimemente ritenuto inadeguato. È opportuno che Rfi ponga in essere ulteriori opzioni risolutive innovative».” Insomma, il nuovo tracciato risulterebbe insopportabilmente rumoroso per gli abitanti. Eppure chi conosce quella zone sa che tra la cittadina di Lesina, dove peraltro il binario passa ad alcuni km di distanza, e Termoli, non vi sono centri abitati. Il vecchio binario, sempre triste e solitario, corre tra piatti campi di grano con rare masserie e disabitate pinete marine. Allora chi disturberebbe il rumore del ciuf ciuf elettrico in quelle desolate campagne? Ah, sì, altro pretesto tirato fuori lo scorso anno, il rumore arrecherebbe fastidio all’uccello fratino, tipico di quelle zone. Tanto sostiene il ministero dell’ambiente e cotanto parere deve osservare Ferrovie dello Stato. Confesso la mia tarda età. Quaranta anni fa, fermo a Termoli per una precedenza da dare a un treno proveniente da Foggia, giovane insofferente, domandai a un anziano capostazione il perché di tanta attesa. “Se ne parla dagli anni ’20, ma io credo che noi il doppio binario, non lo vedremo mai." Mi rispose quell’uomo profetico. Dunque, pur di non disturbare l’uccello fratino, anziché affiancare il secondo binario a quello esistente, si è progettato una deviazione del percorso, dal costo aggiuntivo di 170 milioni di Euro, per portare il binario nella valle del Biferno, che a detta del ministero a causa del rumore diventerebbe una valle dell’inferno, pur per gli scarsi abitanti del luogo, stante che l’intero Molise conta meno abitanti della sola città di Bari. Il commissariamento dell'opera per valenza strategica nazionale ed europea, no? Eppure, si è fatto in Val di Susa, dove i binari attivi sono quattro e sottoutilizzati, e la devastazione ambientale con la costruzione dell’inutile e dannoso tunnel, dal costo astronomico di 12 miliardi di euro, va avanti, fregandosene delle proteste degli abitanti, represse con manganelli e galera. Eppure anche il terzo valico ligure (ne esistono già due) tra Milano e Genova, dall’altrettanto inutile, dannoso e dall’astronomico costo di alcuni miliardi di Euro per risparmiare pochi minuti di viaggio, va avanti indefesso. (Qui mi risparmio una battuta volgare.) In conclusione, al Nord si deve investire purchessia, per volare sui binari in concorrenza agli aerei, al Sud invece ogni pretesto è buono per non spendere un centesimo e bisogna continuare a viaggiare a mezza velocità, in concorrenza alle diligenze del tempo andato. Bari-Reggio Calabria in treno? Dalle 8 alle 14 ore, fino a 4 cambi, sulla linea ionica per 450 km. Trapani Siracusa in treno? 11 ore con tre cambi per 360 km. I conti della velocità fateli voi. In mezzo c’è lo Stretto di Messina, con un ponte fantasma progettato da decenni. Ma questa è un’altra storia.

Sudismi. Italia senza Lep da 10 anni, il Nord pensa all’autonomia. Per la vera perequazione il Sud dovrà imparare a lottare. Non sono bastati il fallimento della sanità lombarda e l’anarchia delle Regioni per convincersi a tornare a un sano centralismo? Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 23 ottobre 2020. Siamo rimasti fermi per 10 anni alla spesa storica in attesa dei livelli essenziali di prestazioni (Lep) e adesso sembra che dobbiamo correre per arrivare velocemente all’autonomia differenziata chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Forse dipende dal buon risultato che ha dato l’autonomia nel settore sanitario che porta Francesco Boccia, in realtà il Pd, a spingere perché si arrivi al più presto a vararla? Non è bastato il fallimento che anche in questi giorni registra la sanità lombarda, ma in generale l’andare in ordine sparso delle Regioni, per convincersi a tornare, per lo meno in alcuni settori chiave come la scuola, la sanità e l’infrastrutturazione, a un sano centralismo?

ROBIN HOOD AL CONTRARIO. Troppo forte l’accordo tra la sinistra padronale emiliano romagnolo e la destra leghista lombardo-veneta per potere resistere? Certo, la battaglia condotta da parte della intellighenzia meridionale, con in testa la Svimez, ha rallentato il percorso e ha fatto sì che si siano poste alcune condizioni propedeutiche per il varo delle autonomie differenziate, come la perequazione infrastrutturale e la definizione dei Lep, che ora dovrebbero essere calcolati, dopo che per tanti anni la loro assenza ha permesso uno scippo di 60 miliardi l’anno, distribuendo le risorse sulla base della spesa storica. Anche se in molti non concordano su tale sottrazione, compreso il “candido” Carlo Cottarelli, che in realtà, oltre a contestare i dati dell’osservatorio dei Conti pubblici, non perde occasione per ribadire che la distribuzione della spesa pubblica non debba avvenire sulla base della popolazione esistente nelle varie zone, ma, come ancora sostiene in un’intervista del 21 ottobre scorso al Mattino «le risorse devono essere distribuite anche oltre la proporzionalità del Pil pro capite». Quindi, secondo tale interpretazione, lo Stato diventa un Robin Hood al contrario, che dà di più a chi più ha e meno a chi ha meno. Infatti quella parola “anche” sembra una concessione, cioè vuol dire che normalmente dovrebbero essere distribuite in base al Pil prodotto, ma si può anche qualche volta derogare, facendo entrare dalla finestra quello che sembrava uscito dalla porta, quel concetto di residuo fiscale che ormai sembra essere stato abbandonato da tutti, se Svimez in una sua recente nota afferma: «Le motivazioni di quel rivendicazionismo sono gradualmente uscite di scena perché troppo evidenti erano i limiti dell’interpretazione “territoriale» . Sommessamente ricorderei che tale distribuzione strana delle risorse avviene anche per le Università, per le quali esse sono state date sulla base di un meccanismo che a prima vista premia i migliori. Ma mettendo insieme i parametri di efficienza del sistema, della sua capacità di competere nel mondo attraverso le citazioni internazionali e infine sul placement dei propri studenti, sono state premiate le università ovviamente penalizzando gli studenti, che senza colpa si ritrovano man mano, al Sud , a studiare in super licei, mentre la parte di ricerca viene lasciata alle Università del Nord. E questo è un altro capitolo della stessa storia. 

FONDO DI PEREQUAZIONE. Ma torniamo alla autonomia differenziata. Dopo l’inserimento della legge quadro nel Nadef, la nota di aggiornamento al Def, come promesso dal ministro Boccia, arriva anche, sempre all’interno della legge di Bilancio, il fondo di compensazione per il divario infrastrutturale. «Le risorse sono state incluse nelle tabelle della manovra e saranno a disposizione del Mezzogiorno, delle aree interne e delle aree di montagna non appena sarà approvata la legge sull’autonomia». Si tratta di 4,6 miliardi. Vale a dire quel «fondo di perequazione infrastrutturale» che è uno dei cardini della legge quadro sull’autonomia firmata dal ministro per gli Affari regionali. II principio è che l’autonomia vada a braccetto con il superamento del gap infrastrutturale del Sud. Nella legge quadro si parla anche di «aree interne montane» e di «aree disagiate». Quindi le risorse per la perequazione infrastrutturale possono anche andare a finanziare aree a 20 km da Milano, che abbiano problemi particolari. Al solito: una sorta di complesso di colpa del Sud che, per far passare alcuni finanziamenti, deve estenderli anche al Centro Nord. Ma al di la di tale aspetto, sembra molto ingenuo pensare di eliminare il ritardo di infrastrutturazione con 4 miliardi e mezzo, con i quali al massimo si potranno fare 90 , dico 90, chilometri di vera alta velocità ferroviaria. Anche perché bisognerà vedere come andranno destinate. Si potrà dire che è un primo passaggio, ma intanto è interessante vedere il dibattito tra De Menech, coordinatore dei parlamentari veneti del Pd a Roma e la neo vicepresidente regionale Elisa de Berti, chiamata “la doghessa”, il mastino che prenderà il posto di Luca Zaia alla fine del terzo mandato. Il primo sostiene che il fondo consentirà di finanziare opere per esempio in Lessinia Polesine altopiano di Asiago e provincia di Belluno. «Convocherò presto i sindaci, le associazioni di categoria e le parti con cui stabilire le priorità; spero la Regione capisca che quei soldi servono a dire a Rfi e Anas che quei soldi non saranno destinati solo sulla base del bacino di utenza». E la risposta della vice presidente che accusa il parlamentare Pd di essere stato all’estero negli ultimi cinque anni: «Si è perso per strada centinaia di milioni che negli ultimi anni, grazie anche ai mondiali di Sci e Olimpiadi, stiamo spendendo nel bellunese. Ti ricordo che elettrificazione delle linee ferroviarie verso nord l’abbiamo ottenuta puntando i piedi. Con Anas vengono investiti una marea di soldi, sull’Alemagna, per gli impianti a fune, per le varianti di Cortina Longarone. Su Lessinia, altopiano di Asiago e Polesine si può fare di più, certo, ma ci vuole onestà intellettuale».

LOTTA PER LA PEREQUAZIONE. Illuminante questo scambio di battute di come potrà andare la perequazione infrastrutturale e di come le risorse potranno essere spese. E di come bisognerà lottare per non essere beffati. Ma questa battaglia chi la dovrà fare? La nostra classe dominante estrattiva occupata a raccogliere mancette per i propri clientes? Si può rimproverare ai veneti di fare in modo che arrivino più risorse nelle loro zone? O vanno premiati per l’impegno che pongono nel difendere i propri rappresentati? Purtroppo le nostre responsabilità non sono poche e di certo dobbiamo competere con chi ha fatto del proprio mandato una missione da portare a compimento, sapendo che l’elettore lo premierà se avrà perseguito il bene comune. Forse dobbiamo imparare.

VETTE DA SCALARE PER CHI VIVE AL SUD. Il costo medio pro capite della mobilità. Roberto Napoletano il 30 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Abbiamo calcolato quanto deve spendere di più o di meno un cittadino a seconda dei territori in cui vive per muoversi e per comprare merci. I primi risultati fanno tremare vene e polsi visto che tutte le aree metropolitane del Mezzogiorno, esclusa quella di Napoli, non dispongono di adeguate reti di trasporto su guida vincolata, cioè non sono supportate da reti metropolitane. Non c’è peggiore sordo di chi non vuol sentire. Qualunque indicatore si prenda della spesa pubblica italiana viene fuori l’anomalia miope di una sperequazione abnorme nella spesa sociale e nella spesa infrastrutturale tra Nord e Sud del Paese. Una sperequazione che, a suo modo, “urla” fino a scassare i timpani degli interlocutori che non solo ci sono cittadini di serie A,B,C…zeta ma che questa differenziazione voluta è l’origine del problema competitivo italiano e, a seguire, del suo sviluppo negato. Non potremo mai crescere se non fermeremo il pilota automatico con cui i capetti delle cosiddette regioni forti estraggono ogni anno dal bilancio pubblico italiano decine di miliardi dovuti alla popolazione meridionale per scuole, ospedali, treni veloci, bus scolastici, trasporto locale e mobilità in genere e li regalano alla popolazione settentrionale in parte per fare buona spesa sociale e buone infrastrutture e in parte – purtroppo sempre crescente – sia per alimentare clientele/assistenzialismo sia per finanziare indirettamente la crescita delle attività criminali in combutta con mafie imprenditrici endogene in settori sempre più estesi. Come rifiuti, movimento terra, grande e piccola distribuzione, turismo, sanità, e così via. Questa è la malattia italiana e la temperatura della febbre è salita di anno in anno nella Conferenza Stato-Regioni dove la Sinistra Padronale emiliano-romagnola e la Destra lombarda a trazione leghista hanno fatto e fanno il bello e il cattivo tempo. Ridurre il numero dei parlamentari senza cambiare i compiti di Camera e Senato votando sì al referendum, significa dare un altro colpo durissimo al Mezzogiorno non assistenziale perché ne diminuisce le rappresentanze dei territori, ma soprattutto aumenta indirettamente il tasso di inamovibilità dei “parlamentari regionali” e di quel sistema di venti Staterelli che ha dato agli “austro-olandesi” di casa nostra il potere incostituzionale di rapinare a loro (ingiusto) favore le risorse pubbliche, ponendo le premesse del “crack italiano” che riguarda Nord e Sud perché il primo è diventato una colonia franco tedesca e il secondo – privato di tutto – è stato condannato al sottosviluppo. Se è vero, come è vero, che sono gli unici due territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007/2008, è chiaro che dobbiamo uscire in fretta da questa spirale perversa. Se è vero, come è vero, che l’emergenza Covid mette a nudo davanti agli occhi di chi vuol vedere gli effetti territoriali su scuole, trasporti e ospedali pubblici di una distorsione così incredibile di trasferimenti, a maggior ragione dobbiamo invertire totalmente la rotta. Questo giornale in assoluta solitudine ha documentato, sulla base dei conti pubblici territoriali della Repubblica italiana, il misfatto dello scippo di 60 e passa miliardi di spesa pubblica lorda (ogni anno aumenta perché il pilota automatico della spesa storica scava sempre più in profondità) operato dal Nord a sfavore del Sud che ha determinato il record storico negativo di un reddito pro capite dei cittadini del Mezzogiorno ridotto alla metà dei restanti due terzi del Paese. Potremmo dire due nazioni separate in casa: una che è diventata Grecia (il Sud d’Italia) una che è diventata Sud (il Nord d’Italia). Adesso con la competenza tecnica indiscutibile di Ercole Incalza e di uomini di valore delle istituzioni europee il Quotidiano del Sud-l’AltraVoce dell’Italia sta elaborando quello che abbiamo voluto definire il CPCM e, cioè, il costo medio pro capite della mobilità. Che cosa significa? Quanto deve spendere di più o di meno un cittadino a seconda dei territori in cui vive per muoversi e per comprare merci. I primi risultati fanno tremare vene e polsi visto che tutte le aree metropolitane del Mezzogiorno, esclusa quella di Napoli, non dispongono di adeguate reti di trasporto su guida vincolata, cioè non sono supportate da reti metropolitane. La distanza  tra costo di trasporto privato (5.000 euro l’anno) e costo di trasporto pubblico  (250 euro l’anno) determina un CPCM esplosivo – non ha nulla a che vedere con i DPCM della stagione Covid – che si attesta su un valore variabile tra 15 e 20 volte  superiore per chi vive nei territori meridionali rispetto a chi vive nei territori settentrionali. Sì, avete capito bene, siamo ridotti così, e chi ne prescinde per interesse o ignavia è un pazzo da legare. Capite allora perché l’Italia, non il Sud, si gioca tutto con il piano Next Generation? Perché con questi differenziali interni o l’Italia si presenta in Europa con un piatto unico che sono le reti digitali e materiali del Mezzogiorno (fibra anche nel Comune più sperduto, treni veloci, porti e retroporti, Ponte sullo Stretto) o continuiamo a fare i pasticci di prima (vedi accordo Tim-Cdp) e allora facciamo il male irrimediabile dell’Italia. Anche perché non si può giocare con la Commissione Europea che è fatta di persone collaborative ma rigorose e di spirito critico. Se il 15 ottobre non dovessimo superare l’esame perché non vogliamo dare al Sud la priorità che serve per salvare l’Italia e che l’Europa ci chiede o perché siamo incapaci di fare progetti in grande e preferiamo continuare a mercanteggiare con i capetti del disastro Regioni, il segnale di poca credibilità italiana a livello europeo avrebbe effetti devastanti in casa e ci procurerebbe problemi a livello internazionale. Non ce lo possiamo permettere.

Faide tra Regioni e veti surreali fanno deragliare il treno Italia.  Claudio Marincola il 21 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. C’è un mistero che mette una contro l’altra due regioni del Sud. Che fine ha fatto il Fratino? Chi l’ha fatto scomparire? Perché questo volatile dagli occhi marroni e il becco nero non nidifica più in quello che fine a qualche tempo era il suo habitat preferito? Sembrerebbe una questione prevalentemente ornitologica, ma non lo è. L’uccellino, dalle piume grigio cenere, è lungo appena 16 cm ma non sa di portare sulle ali una grande responsabilità: da anni fa litigare Molise e Puglia. È una specie protetta. In tutti i sensi. Blocca la realizzazione dell’Alta capacità ferroviaria adriatica, una delle 130 opere infrastrutturali, una di quelle opere che secondo il governo andrebbero fatte subito, senza perdere un solo minuto.

IL COLPO DI SCENA. È invece notizia di 40 giorni fa che la valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente ha dato parere negativo. Quello che non si sapeva è che è bastato un solo voto contrario. Quello del segretario della commissione, l’avvocato romano Sandro Campilongo, esperto di diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto amministrativo e civile. Uno di che di volatili ne sa poco o niente. Era tutto pronto. Costo: circa 500 milioni di euro. Raccolti i pareri, appaltati i 14 chilometri della tratta pugliese, un bando da 106 milioni di euro. Mancava solo il via libera agli altri 20 km in territorio molisano per completare il raddoppio della Termoli-Ripalta, una tratta in cui da sempre si viaggia su binario unico. I finanziamenti ci sono. Il cronoprogramma Rfi si sarebbe concluso nel 2022. C’era l’ok della Ue per inserirlo nel quadro dello Spazio unico ferroviario e il sì di tutti gli altri ministeri interessati. Aprire quel corridoio avrebbe effetti benefici sul turismo e anche per il trasporto merci, che in questo modo verrebbe trasferito su ferro alleggerendo l’autostrada da Tir e bisonti. Per il via libera mancava solo la valutazione sull’impatto che la ferrovia avrebbe avuto sull’ambiente avifaunistico. In quel tratto i binari potrebbero infatti disturbare il Charadrius Alexandrinus, un migratore euroasiatico che viene a svernare al Sud. Stesso dicasi per un’altra specie dai colori più vivaci, la ghiandaia marina che ha la coda blu e riflessi verdastri.

L’UCCELLO FANTASMA. Qualcuno nel frattempo si è preso però la briga di esplorare in lungo e in largo la zona interessata dal progetto per trovare tracce di questi nidi. Steli, paglia, radichette. Appostamenti tra la vegetazione, sabbia e sassi, fenditure di rocce. C’è chi ha provato persino con i richiami: «Zit, tziu, tzi, zi, zirr…». Del Fratino nessuna traccia. Il parere del ministero, arrivato con 90 giorni di ritardo, ha gelato le aspettative di sviluppo e collocato l’opera su un (doppio) binario morto. Un’opera considerata strategica boccata perché, come si legge nel dispositivo della commissione, 70 pagine di valutazioni e studi molto accurati, «manca la caratterizzazione qualitativa e quantitativa della fauna nidificante e la sua distribuzione nell’area di intervento». Nel frattempo, però, in quella specifica zona il Fratino e la Ghiandaia (Coracius Garrulus), sono scomparsi. Chi li ha visti? Che fine hanno fatto? «Il Fratino è una specie dunale e nidifica sulla spiaggia, non arriva mai oltre la pineta – ha dichiarato al sito primonumero.it Nicola Morante, presidente del Gruppo ornitologico molisano che da 40 anni frequenta la zona e conosce quel territorio come le proprie tasche – Il Fratino non è mai stato disturbato nemmeno dalla linea attuale, ben più vicina alla spiaggia di quella che si dovrà fare e che corre a 300 metri dall’arenile nella zona a sud di Campomarino, all’altezza del Saccione, e in alcuni punti a sole poche decine di metri dalla spiaggia”. Anni e anni di progettazioni, studi, ricerche e lavori buttati per il fantasma di un uccello che non c’è e se c’è vola indisturbato, innocuo, accanto alla ferrovia. Una storia di veti incrociati, di ostruzionismo tra Regioni. Di cavilli. I tecnici del ministero non avrebbero, tra l’altro, raccolto alcun parere scientifico in materia di ornitologia. Con il risultato che ora un uccellino fantasma blocca un’opera considerata strategica e di interesse nazionale anche dal ministro della Cultura e del turismo, Dario Franceschini.

UN SOLO NO CONTRO 30 SÌ BLOCCA TUTTO. Il Fratino: siamo sicuri che la questione ambientale non sia solo un pretesto? Il presidente della Regione Molise, Donato Toma, eletto nelle file del centrodestra, prende un impegno: «È impossibile che ogni volta che insorge un problema ambientale ci fermiamo. E una volta un uccello, un’altra una formica… serve uno sviluppo che sia sostenibile. Noi il fratino lo abbiamo sulle dune di Termoli e lo tuteliamo. Ho già programmato una giunta politica con il mio dirigente alle infrastrutture per convocare un tavolo e invitare Rfi. Vogliamo trovare un soluzione per riuscire a realizzare il raddoppio ferroviario». Ma chi è che non vuole il completamento della linea? Tanto più che, a parte il segretario Campolongo, l’intera commissione ministeriale Via e Vas, compreso il presidente, l’ingegner Guido Monteforti Specchi, aveva dato parere favorevole: 30 sì contro un solo no non bastano a togliere il freno. «È un’opera strategica non solamente per il Mezzogiorno, ma per tutto il Paese – sostiene l’assessore ai Trasporti della Regione Puglia, il dem Giovanni Giannini, in questi giorni in piena campagna elettorale – realizzarla vorrebbe dire completare un lavoro iniziato con l’innalzamento della galleria di Cattolica per consentire il passaggio dei grandi container e raggiungere in quella tratta i 200 chilometri orari. Il Molise ha preteso e ottenuto di trasferire la linea accanto all’autostrada e ora tutti gli ostacoli si potrebbero superare».

MANDIAMO A CASA I PREDONI. Roberto Napoletano il 19 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Avviso ai naviganti. Non è possibile fare una legge dove è scritto che la crisi economica è vietata per legge. Si possono vietare per un po’ i licenziamenti, ma non si può impedire all’infinito alle aziende che non hanno più commesse di chiudere le loro attività. I consumi sono crollati ai livelli di venticinque anni fa e sono quasi tutti assorbiti dalle cosiddette spese obbligate. In silenzio hanno tirato giù le loro saracinesche per non riaprirle più da un capo all’altro del Paese troppi commercianti e artigiani. Precipita inascoltato e abbandonato negli abissi della Grande Depressione quel pezzo di economia di mercato del Mezzogiorno che era rimasto comunque in vita nonostante uno Stato che ha fatto figli e figliastri nella spesa per infrastrutture e nella spesa sociale e un accesso al credito di fatto negato. Diciamo le cose come stanno. La Grande Illusione sovranista italiana che ha costretto il Paese a pagare un conto superiore a quello dei danni prodotti da una terza guerra mondiale persa sull’altare delle due grandi crisi globali – finanziaria e dei debiti sovrani – ha radici uniche nel panorama europeo e mondiale. Sono le radici di un regionalismo predone che ha fatto crescere nei territori padani la mala pianta di un egoismo miope che ha aumentato il peso delle clientele e dell’assistenzialismo in economia mettendo fuori mercato la grande impresa privata e allargando a macchia d’olio la penetrazione della criminalità organizzata e della mafia imprenditrice endogena in settori sempre più vasti come smaltimento rifiuti, movimento terra, sanità, turismo, piccolo e grande commercio. Questo Paese Arlecchino dei mille conflitti di interessi territoriali non regge più e ci espone al ridicolo. Tutte le potestà legislative sono concorrenti fino alla paralisi. Il ricco è sempre più ricco e il povero sempre più povero, senza rendersi conto il primo che l’eccesso di povertà a cui il suo egoismo condanna il secondo alla lunga farà diventare lui stesso povero. Dai tamponi alle discoteche per prendere la più banale delle decisioni ci vogliono i tempi di una guerra punica moderna. Le decisioni puntualmente impugnate davanti al primo giudice che si incontra per strada arrivano quando metà del disastro è già avvenuto. A fare in modo che anche l’altra metà si realizzi ci pensano strutture amministrative, sanitarie, aeroportuali che non riconoscono l’autorità dello Stato e sono la degna espressione della peggiore burocrazia mondiale che è quella delle Regioni e delle società da esse controllate con primati sorprendentemente irraggiungibili in Lombardia, come dimostrano gli ultimi casi di Orio al Serio e di Malpensa. Parliamoci chiaro. Un cittadino lombardo riceve come spesa sanitaria pro capite 2533 euro e un cittadino emiliano-romagnolo 2142 contro i 1593 della Campania e i 1701 della Sicilia. Sono i dati del settore pubblico allargato del 2018 elaborati dai conti pubblici territoriali a prezzi costanti del 2015. Con gli stessi indiscutibili criteri sempre pro capite un cittadino emiliano-romagnolo riceve 2069 euro per le reti infrastrutturali, un cittadino lombardo 1946 e un cittadino campano 731. Sono i numeri, una minima parte, del regionalismo predone all’italiana. Fino a quando il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Bonaccini, non risponde in Parlamento di queste vergogne civili, non rimuove tali vincoli che sono macigni sulla competitività del Nord e del Sud del Paese, e soprattutto continua a scappare dal suo dovere costituzionale di varare i fondi di perequazione sociale e infrastrutturale ordinati dalla legge Calderoli del federalismo fiscale del 2009, non potrà mai aspirare alla guida del Partito democratico ma bensì della rediviva Lega secessionista del primo Bossi. Farebbe bene nel frattempo a non chiedere più l’autonomia ma l’indipendenza degli emiliano-romagnoli, come dice lui, magari insieme ai suoi “compagni di merende” lombardi. Questo sistema perverso e iniquo inizia e conclude il problema competitivo italiano. Perché ha azzerato la spesa per infrastrutture e tagliato brutalmente quella sociale al Sud portando il reddito pro capite dei suoi cittadini alla metà degli altri due terzi del Paese. Perché ha riempito di droga assistenziale il Nord privandolo del suo primo mercato di esportazioni che sono i consumi del Mezzogiorno e ha di fatto convertito all’assistenzialismo e ai vizi della rendita pubblica settori sempre più vasti dell’impresa privata. Che, non a caso, è deceduta alla voce grande impresa, se la passa non bene alla voce media impresa, soffre terribilmente alla voce piccola impresa. Facciamola finita prima che scadano i tempi delle leggi che bloccano i licenziamenti. Il Nord faccia soffiare il suo vento, ma per chiedere che alla fiscalità di vantaggio nel Sud e al piano di opere infrastrutturali sempre nel Sud – Alta velocità ferroviaria, porti retroporti, Ponte sullo Stretto e rete unica in fibra – si affianchi un massiccio piano di investimenti delocalizzati al Sud da parte di ciò che è sopravvissuto delle imprese del Nord, ugualmente agevolati. Lo si faccia cogliendo con convinzione l’occasione del Recovery Plan e sapendo che si fa oggi quello che si doveva fare almeno venti anni fa. Ci si attrezzi all’istante con una struttura centrale tipo prima Cassa del Mezzogiorno scegliendo per una volta i migliori sul mercato e usando tutti i poteri possibili: straordinari, speciali, commissariali. L’alternativa è che prosegua il saccheggio interno e si consumi ogni reputazione residua in Europa. In mezzo ci potrebbero essere un bel ricorso alla Corte Costituzionale e una sentenza che obblighi le Regioni del Nord a restituire centinaia di miliardi alle Regioni del Sud. Noi ci auguriamo che finisca questa sceneggiata di uno Stato diviso in venti Staterelli, dove i governatori degli Staterelli a differenza di quello che avviene in America non tassano e spendono, ma spendono solo. Quasi sempre male e sempre “rubando” ai poveri per favorire i ricchi. Comunque, con soldi non loro.

IL PAESE ARLECCHINO NON ATTIRA TURISTI. Roberto Napoletano il 21 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se si vuole avere turismo stanziale nel Mezzogiorno servono una buona sanità, un buono aeroporto, treni veloci e una buona gestione dei rifiuti. Serve insomma tutto quello che è stato rubato fino a oggi. Nord e Sud sono obbligati a crescere insieme, ma il Paese Arlecchino delle venti Regioni, delle venti sanità, delle venti reti digitali, delle venti reti ferroviarie, impedisce che ciò avvenga perché è concepito su misura di ogni genere di egoismo e di miopia. Impedisce di fare grandi opere. Ruba sistematicamente spesa pubblica sociale e di sviluppo alla popolazione del Sud per regalare a piene mani assistenzialismo alle famiglie e alle imprese del Nord. Scarica sui poveri il costo della rendita pubblica che sostiene il reddito privato dei ricchi, non la produzione e la capacità di produrre a livelli competitivi nell’arena globale. Di fatto ha messo fuori mercato la grande impresa familiare del Nord in crisi di suo e drogata dai soldi facili e ha condannato al sottosviluppo il Mezzogiorno desertificato di scuole, ospedali, treni e fibra veloci, e così via. Siamo arrivati al capolavoro assoluto di fare scendere il reddito pro capite di un terzo della popolazione, venti milioni di persone, alla metà degli altri due terzi, privando il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” e l’economia italiana di quella dimensione nazionale integrata minima per potere rimanere nel novero dei Grandi Paesi industrializzati. Diciamo le cose come stanno: questo sistema insulsamente regionalista dove perfino sulle discoteche – aperte, chiuse, aperte a metà – ognuno si permette di fare di testa sua, per non parlare dei treni regionali e locali, è cromosomicamente predisposto per fare dell’Italia quello che oggi è. La grande malata d’Europa. Per capire quanto sia importante ristabilire con urgenza la parificazione dei diritti di cittadinanza sociale e infrastrutturale dove con il trucco della spesa storica ballano decine di miliardi l’anno tolte ai territori meridionali e “regalate” ai territori settentrionali da almeno dieci anni in qua, basti pensare alla questione del turismo e a quanto questa dipenda dalla manomorta della Conferenza Stato-Regioni che toglie e dà a chi vuole senza rendere conto a nessuno. Se si vuole avere turismo stanziale inglese e tedesco non la settimana di vacanza, ma turisti che svernano tre mesi da Londra o da Francoforte nelle perle del mare, delle campagne e dei monti del Sud, che si innamorano dei suoi paesini e delle sue città piene di storia e di cultura, servono una buona sanità con ospedali vicini e efficienti, un buon aeroporto, treni veloci e una buona gestione dei rifiuti perché l’immondizia sotto casa fa scappare perfino il turista giornaliero. Serve insomma proprio tutto ciò che è stato rubato con il più clamoroso scippo della storia recente alle donne e agli uomini del Sud. Si è fatto in Italia l’esatto contrario di quello che si è fatto in Spagna, dove l’alta velocità ferroviaria è partita dal Sud per arrivare al Nord, mentre da noi si è tornata a fermare all’altezza di Eboli dimostrando che lo Stato non va oltre Salerno e “frega” così un pezzo di Italia abbandonato dolosamente al suo destino. Quasi non lo riconosce. Per questo la Conferenza Stato-Regioni deve tornare a essere ad horas un luogo di consultazione non di decisione e il governo deve adottare il parametro della spesa media nazionale in rapporto alla popolazione sulla base della serie storica degli ultimi venti/trenta anni. Chi è sopra restituisce, chi è sotto finalmente riceve ciò che gli spetta. Si utilizzi il Mes per consentire alle Regioni ricche di avere una fase di transizione per provare a camminare con i soldi propri non con quelli degli altri, ma si comincino a ammodernare e fare ospedali e scuole nei territori meridionali e si rimettano in rete le loro bellezze e le loro città con alta velocità, porti e retroporti. Questo significa pensare al futuro dell’Italia e avere turismo di lunga durata negli angoli più belli del suo Mezzogiorno. Non avere buoni ospedali, buoni treni, buona rete in fibra è esiziale per vincere questa scommessa. Se si continua con l’andazzo predatorio regionalista attuale averli oggi è impossibile. Liberiamo l’Italia dal Paese Arlecchino e dalla sua furia masochista.

Pino Aprile aggiorna "Terroni" e chiama a testimone il virus. Il presunto fallimento nella gestione dell'emergenza è il pretesto per minacciare (nuovamente) la secessione. Carlo Lottieri, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. Quello uscito a firma di Pino Aprile con il titolo Il male del Nord. Perché o si fa l'Italia da Sud o si muore (Pienogiorno, pagg. 175, euro 16,90) può apparire un instant-book sulla pandemia. In realtà, il pamphlet è un'altra, ennesima, riformulazione delle tesi di Terroni, solo che ora il Coronavirus è sfruttato per sostenere la tesi che di fronte all'emergenza il Nord è stato pessimo e il Sud eccellente. Il volume dedica tante pagine al fallimento di un Nord che, in fondo, dinanzi al virus avrebbe mostrato tutta la sua inefficienza. Uno degli epicentri non è stato forse quel Trivulzio da cui partì l'inchiesta di Mani Pulite? Tutto torna. Il Nord riempitosi di bare ha avuto, in fondo, quel che era inevitabile. L'altro aspetto su cui Aprile insiste è l'eccellente prova offerta dalle istituzioni regionali di Campania e Puglia di fronte all'emergenza, oltre che di quei sistemi sanitari. Al di là di questa vittoria schiacciante (pochi morti al Sud, tantissimi al Nord), ad Aprile è altro che interessa. Come già nei libri precedenti, all'autore preme soprattutto evidenziare come troppi segnali ormai ci mostrino quanto «lo squilibrato, iniquo sistema-Italia sia al capolinea, esasperato dall'ingordigia del Nord». Allora il Sud non ha soltanto vinto il derby: lo ha stravinto, dato che ha retto dopo molti decenni di sfruttamento territoriale. Anche qui quella del Sud continuamente depauperato dal Nord è la vera tesi del libro. Aprile ha ragione quando ricorda che l'unificazione italiana fu una criminale guerra di conquista, ma mescola tutto ciò con mille altre cose. Ad esempio, afferma che la relativa prosperità goduta dalle popolazioni settentrionali nei decenni passati sarebbe stata conseguente al fatto - come disse il ministro Provenzano - che Milano e il Nord prendono e non danno. Quel benessere non poggiava allora sul tessuto delle piccole imprese e neppure sull'ingegno di Caprotti, Del Vecchio o Ferrero. No. Se nel Settentrione si è avuta una certa agiatezza è perché si è sfruttato il Mezzogiorno. Attenzione: Aprile non sottolinea - come sarebbe giusto - che l'interventismo pubblico crea enormi opportunità per gli imprenditori che vivono all'ombra della politica, ma colloca l'intero Settentrione entro questo schema. Sullo sfondo c'è non soltanto un'evidente antipatia verso quanti vivono a una certa latitudine, ma anche un'opzione socialista. E in effetti perfino l'Italia giallo-rossa appare ad Aprile come iper-liberista. Così nelle sue pagine il rapporto tra Nord e Sud d'Italia evoca la stessa relazione tra Nord e Sud del mondo della letteratura terzomondista. In entrambi i casi i ricchi prosperano e i poveri declinano, «al punto che il club dei super-ricchi diviene sempre più esclusivo e se appena qualche decennio fa poche migliaia di paperoni avevano la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale, oggi è una mezza dozzina di loro a possedere altrettanto». Fin qui siamo nell'ambito di una scrittura emozionale, che in qualche modo fa leva su una delle conseguenze più spiacevoli dell'unificazione: avere creato una tensione identitaria tra popolazioni che in passato si erano sempre rispettate e avere costruito (su questo Aprile ha ragione) un astratto modello a cui adeguarsi, estraneo alle potenzialità del Mezzogiorno. Queste pulsioni, però sono incompatibili con l'argomento cruciale. Fin dal titolo, dopo aver maledetto (con moltissime ragioni!) l'unificazione della penisola e dopo aver versato fiumi di bile su lombardi e veneti, Aprile ripropone la medesima ricetta: «O si riparte dal Sud e dall'uguale diritto per tutti o la prossima tappa è la secessione». La prossima tappa? Ma come fa Aprile a immaginare di restare entro un universo così iniquo? O crede alle cose che ha scritto, e allora deve pretendere l'immediata secessione, oppure l'intero volume non ha alcun senso. Sarebbe come se gli schiavi neri delle piantagioni si fossero rivolti ai loro padroni, a metà Ottocento, dicendo che o alla svelta gettavano le fruste, oppure si sarebbero ribellati No: di fronte a un'istituzione tanto ingiusta c'è solo la strada dell'abolizionismo. D'altro canto, egli è contrario pure a modeste forme di autogoverno, dato che «con l'Autonomia differenziata, le Regioni ricche puntano ad arricchirsi ulteriormente, sottraendo ancora alle più povere oppure mirando alla secessione per non dividere con chi ha meno». Insomma, nella visione politica di Aprile il Nord usa l'Italia per sfruttare il Mezzogiorno e la risposta a tutto questo sarebbe una strenua difesa della Repubblica unitaria d'impianto giacobino. Alla fine, nonostante gli attacchi all'Italia «matrigna», con questo volumetto Aprile appare davvero il prototipo dell'italianità: di quella mancanza di rigore e coerenza che tanti, da fuori, giustamente ci rimproverano. Per fortuna nel Mezzogiorno c'è moltissima gente che si rende perfettamente conto come sia proprio il comunismo territoriale difeso da Aprile a distruggere il Sud, dato che solo l'autogoverno implica responsabilità, riduzione del potere politico, fine di ogni illusione statalista. Il Mezzogiorno non si merita questa confusione di idee e per questo fa bene - nella sua maggioranza - a tenersi lontano da tesi tanto discutibili.

FITTO, CANDIDATO GOVERNATORE DELLA PUGLIA PER IL CENTRODESTRA: “I FONDI DEL RECOVERY FUND NON VANNO DATI AL SUD, BENSI’ AL NORD”.  Raffaele Vescera il 13.08.2020 Giovanni Palmulli su movimento24agosto.it. Aberrante, raccapricciante! La dichiarazione di Raffaele Fitto, candidato governatore in Puglia, fa accapponare la pelle e davvero tocca il fondo dell’aberrazione politica in Italia.

Andiamo per ordine. Cosa ha detto Fitto nel corso del programma “In onda” dell’altra sera?

“Io non sarei nemmeno d’accordo sul gruppo di parlamentari meridionalisti perché è una iniziativa assolutamente sbagliata. Noi dobbiamo intervenire sulle misure e le risorse per il Covid nelle parti del paese che hanno subito questo tipo di impatto in modo molto maggiore. Nel Sud i problemi sono diversi, sono molto più complessi e andrebbero affrontati con una logica diversa”.

Insomma Fitto, allineandosi al politicamente corretto del copione politico italiano, riserva soldi e l’indicativo presente al Nord (dobbiamo intervenire nelle parti del paese…) lasciando al Sud promesse, al condizionale e/o al futuro (nel Sud i problemi andrebbero affrontati…). Fin qui siamo nella vecchia e logora prassi politica degli ultimi 160 anni. Ma Fitto va oltre. Fitto prende posizione nel nuovo scenario della politica italiana. Mentre nasce uno schieramento meridionalista trasversale in Parlamento, mentre il P.U.N. (il Partito Unico del Nord, trasversale da sempre) si schiera lungo la linea Maginot a difesa della vecchia politica di privilegio del Nord e sopraffazione verso il Sud, lui, Fitto, dice a chiare lettere di stare dalla parte della fazione politica che lo ha candidato. Fazione politica che sta a Nord, con il Nord, per il Nord. E così il nostro bravo candidato salentino dichiara che sbagliano i meridionalisti trasversali (ma non i nordisti trasversali – misteri della politica italiana!) e che i Recovery Fund va destinato al Nord, come il Piano Marshall e tutto il resto da 160 anni in qua. Perché lì il virus ha colpito pesante! Fitto (e il sig. Senaldi) ignorano deliberatamente che il R.F. non viene dato per curare le ferite da Covid (altrimenti la Spagna – ben più pesantemente colpita dal virus – avrebbe ottenuto somme ben maggiori delle nostre), ma per rilanciare le economie dei vari paesi europei. E l’Itala ha avuto più di tutti perché ha al suo interno la più vasta Macroarea economicamente depressa esistente in Europa. Il R.F. deve dunque servire a far ripartire questa Macroarea (il nostro Sud) perché se riparte il Sud riparte l’Itala e si salva la stessa Europa! Ma Fitto, (come hanno già fatto Bonaccini, Sala, Malan, Martina, Zingaretti ecc…) non può né accettare né ammettere questo assunto, peraltro evidente e messo per iscritto dalla Comunità Europea. Fitto, come gli altri politici citati, deve portare acqua al mulino del Nord, lì dove vivono i suoi politici di riferimento e i rimboccatori di maniche, quelli che si sono fatti da soli, con il loro lavoro (trascurabili gli abbondanti foraggiamenti statali!). E lo deve fare a costo di tradire la sua terra e perdere la sua stessa faccia. Una considerazione va fatta: Fitto e similari hanno sempre attuato questa politica, ma prima lo facevano senza che nessuno se ne accorgesse. Ci davano una briciolina e la presentavano come una grande vittoria. Ora questo non lo possono più fare perché li abbiamo smascherati, noi del M24A-ET sicuramente, ma non da soli. Il ringraziamento è d’obbligo verso tutta l’onda meridionalista iniziata da qualche anno in qua. Ora non lo possono più fare, dicevamo, e sono costretti a schierarsi apertamente, o con la Puglia (e il Sud) o con chi li candida e li sostiene politicamente, pazienza se ciò comporta sostenere le loro assurde e arroganti tesi. Se si sono esposti, per noi è un bene. Ora potremo chiedere ai candidati schierati con Fitto e a chi ha intenzione di votarli: “Ora lo sai con chi sta il tuo capolista! Intendi restar zitto? Intendi ancora votarlo?” Ma con questo non vogliamo affatto spezzare una lancia a favore dell’altro candidato, indugiando in questo infimo teatrino di periferia. L’altro candidato – lo facciamo notare – non ha parlato o perlomeno noi non lo abbiamo sentito. Non si è esposto a dire: “Fitto ha sbagliato, invece io…”. Perché non ha approfittato di questo assist? A voi la risposta, e entro novembre. Il momento è topico, quindi. Con noi o contro di noi. Con il Sud o con il PUN. Noi siamo convinti di aver scoperchiato un pozzo nero maleodorante e pieno di scheletri. Se questo pozzo non viene bonificato al più presto, il rischio è di veder inghiottita l’Itala intera!

LA LEZIONE DEL VIRUS A UN CERTO NORD: “L’ALTRO” SEI PURE TU, PRIMA O POI. Pino Aprile il 4 Marzo 2020 … E, SFIDANDO IL RIDICOLO, GRIDA AL “RAZZISMO”! ‘O munn è cagnate! Chelle ca stev ‘ngopp è gghiute sotte, e chelle cha stev sott è gghiute ‘ngopp! Un certo Nord (la cui prima vittima è il resto del Nord, coinvolto in un grossolano giudizio che tutti accomuna nel peggio) fa i conti con i suoi comportamenti e scopre di non stare simpatico e, anzi, proprio sulle palle. I fenomeni sociali sono di lenta costruzione, ma di fulminea espansione: decenni di insulti padani, di supponenza, prepotenza, arroganza, presunzione, “Prima il Nord” e presunto diritto etnico all’offesa dell’altro, sino all’aggressione (zingaro, terrone, migrante, poco importa), hanno tanto caricato il piatto della bilancia, che l’arrivo di coronavirus (il “Cigno nero” l’imprevisto che sconvolge gli assetti consolidati), lo ha fatto calare, ribaltando l’equilibrio.

INSULTATI E PICCHIATI CINESI AL NORD, QUANDO IL VIRUS “ERA CINESE”. E SE DIVENTA PADANO? Ribaltare, vuol dire che le cose vengono viste e valutate al contrario. Per esempio: Ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di cinesi (presunti colpevoli di virus), alcuni di loro cittadini italiani, ma di origine orientale. In qualche caso, l’inciviltà è giunta ad atti di violenza. Un cinese che gestisce con la moglie un bar a Bassano del Grappa è stato picchiato da un avventore in un locale, a Cassola; altri sono stati offesi, dileggiati (una donna e i figli al supermercato), un adolescente aggredito durante la partita, perché orientale… Poi si scopre che il ceppo di coronavirus che imperversa in Lombardia e Veneto, e da lì dilaga, potrebbe essere padano: autoctono. E se gli incivili che han “fatto pagare” ai cinesi la presunta provenienza del virus fossero insultati, aggrediti, solo perché lombardo-veneti? Razzismo? Chiamatelo come volete, ma sarebbe quella roba di prima, all’incontrario (ricordando che l’imbecillità è universale e se l’aggressore a Cassola è stato aiutato a dileguarsi, a Bassano il cinese aggredito e sua moglie hanno avuto la solidarietà dei loro clienti).

LA PIÙ FLORIDA INDUSTRIA LOMBARDO-VENETA È QUELLA DEI “RISARCIMENTI”, ANCHE PER I DANNI PROVOCATI AD ALTRI. Con il virus, puntuale come le tasse, è riapparso il riflesso condizionato padano: l’Italia ci copra di miliardi, per risarcirci (modello di moderazione, si accontenterebbero di quattro volte quel che Trump ha chiesto per tutti gli Stati Uniti). Perché loro “producono” e qualunque cosa interrompa o rallenti il flusso ininterrotto di denaro pubblico, scatta il diritto a essere sovvenzionati (Tav, Mose, Expo, Human Technopole, Pedemontane…, ora virus). Nella corsa a chi la spara più grossa, politici di ogni schieramento, ma ugualmente privi di vergogna e senso del ridicolo, si sono rincorsi nel reclamare “risarcimenti”: abolire tasse, non pagare i mutui… Per ora, vince il campionato delle cazzate il Cazzaro Magno, Matteo Salvini, arrivato (per adesso) a 50 miliardi, venti volte la cifra per gli Stati Uniti (2,5 miliardi di dollari). Ma se gli date tempo (e altri mojitos?) vedrete che saprà superarsi. Avviso: stabilite voi la cifra; al Sud chiederemo il doppio, per i danni provocati dalla gestione dell’epidemia, che ne ha favorito l’espansione al Sud.

DOPO FONTANA CON LA MASCHERINA E ZAIA CHE INSULTA I CINESI, CHI INVESTE IN ITALIA? Perché, se sono i presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia a distruggere la nostra economia con le loro cretinate, si può chiedere a Lombardia e Veneto di pagare i danni o no? Ha fatto il giro del mondo la foto di Fontana con la mascherina (vabbe’ che è carnevale…) che si autodenuncia a rischio infezione, perché una sua collaboratrice è stata (dice, e noi ci crediamo. Non dovremmo?) trovata positiva al coronavirus. Che dite: ci viene ora uno In Italia o ci pensa? Le esternazioni di Zaia su presunte, discutibili abitudini alimentari dei cinesi mangiatori di i topi vivi hanno arricchito lo stupidario della stampa internazionale e indotto Pechino a intervenire. I veneti (“l’anno della fame”) i topi li preferivano essiccati (forse per evitare che tale riserva alimentare si assottigliasse, altri veneti sono mangiagatti)? Come vedete, a sparare cazzate siamo bravi tutti. Il guaio è prenderle sul serio. E quelle da cabaret dei due presidenti sono state un danno serio. Che fanno: ci risarciscono?

FAVORITA LA SANITÀ PRIVATA, QUANDO ARRIVA L’EPIDEMIA E QUELLA PUBBLICA SOFFRE…I lombardoveneti hanno sempre vantato l’eccellenza della loro sanità regionale, privilegiando, però (specie la Lombardia) quella privata. Ma quando arriva l’epidemia, la sanità pubblica va in apnea e si cercano posti letto per carità a Sud, in strutture pubbliche, confermandosi l’eccellenza padana speculazione pura. E ora mandiamo fatture maggiorate come successo per i nostri malati costretti a farsi curare al Nord? I campioni della diffamazione del Sud via tv e carta (igienica) stampata si sono scatenati nella “denuncia del razzismo” meridionale contro il Nord (certe facce non dovrebbero andare in giro senza mutande). Hanno scatenato l’inferno contro “l’odio razziale” di chi, a Ischia, protestò per l’arrivo di 150 turisti lombardi a rischio virus. I sindaci dell’isola avevano vietato l’accesso; il prefetto lo ha imposto. Brutto sentirsi discriminati, eh? Rita Dalla Chiesa, perdendo una buona occasione per tacere ha criticato l’autodifesa dell’isola invitando a boicottarla come meta turistica. Ma vogliamo scherzare: lombardi trattati come fossero terroni, migranti?

SI È IMPEDITO A ISCHIA DI TUTELARSI E FRA I TURISTI PADANI FATTI SBARCARE A FORZA CE N’ERA UNO A RICHIO VIRUS. ECONOMIA DISTRUTTA. Poi si scopre che uno di quei turisti potrebbe essere positivo al virus. Ischia ha un ospedale con 60 letti, per 60mila persone, vive di solo turismo e ora è considerata l’equivalente di un lazzaretto. Chi paga? Salvini fu accolto con entusiasmo, da molti ischitani, ma i risarcimenti li chiede solo per il Nord, anche quando è il Nord (inconsapevole: mica vorremo prendercela con i turisti lombardi) a rovinare l’economia di una delle capitali turistiche italiane e del Mezzogiorno. La Lega (punta di diamante di una comunità in larga parte consenziente, visti i voti che prende) faceva le campagne contro i terroni che portano sporcizia al Nord, i migranti con la peste, la lebbra, il colera e la scabbia, e chiedeva protezione e…?: risarcimenti (come avete fatto a indovinare?); ora dal Nord arriva al Sud l’epidemia e la distruzione di un sistema economico basato sul turismo, e la Lega chiede risarcimenti. Ma al Nord, anche per i danni che produce agli altri (mentre i governatori del Sud tacciono, come da costume coloniale e gregario).

MA NESSUNO HA CANTATO: “SENTI CHE PUZZA/ SCAPPANO ANCHE I CANI/ ARRIVANO I PADANI”. PER NAPOLI, INVECE…Ci si stupisce che gli altri si siano rotti i coglioni di un Nord la cui capofila, la Lombardia (più il Veneto, ora), è entrata nell’Italia unita con poco più dell’un per cento del denaro circolante nella Penisola (contro il 66 del Regno delle Due Sicilie) e da allora cresce a spese del Paese, vantando un credito inestinguibile e inesistente. Presumendo di maturare su questo pure un diritto all’insulto, alla denigrazione. Che ora si rivolta contro. Alle persone perbene (e non c’è latitudine che le distingua) chiedo un giudizio sulla colpevole tolleranza verso “il folclore” leghista (vera anima del peggior Nord, con propaggini coloniali a Sud); per farmi meglio capire, applico la legge della reciprocità: immaginate che oggi un terrone un po’ cretino (o… folcloristico?), si mettesse a cantare: “Senti che puzza/ scappano anche i cani/ dal Lombardo-Veneto/ arrivano i padani/ contagiosi, alluvionati/ con l’amuchina/ non vi siete mai lavati/ coronavirus (o Po, a scelta) pensaci tu!”. È ancora folclore? Brucia? E agli altri no? Immaginate di esser chiamati da ministri: porci, topi da derattizzare, merdacce, colerosi…, sol perché padani. E vedere quei figuri rimanere al loro posto, rispettati e riveriti. Brucia? E agli altri no? (A proposito, se quel terrone cretino dovesse davvero parodiare un “grande leader” del Nord e delle sue propaggini coloniali del Sud, prima di censurarlo, pensateci bene: potreste ritrovarvelo vice presidente del Consiglio). Ma io ho fiducia nella potente legge della reciprocità che il virus sta ricordando a chi pensava che toccasse il peggio sempre agli altri, perché gli altri se lo meritano; e ho fiducia nella gente per bene, che se si vede e si sente poco, nel casino dei cialtroni (gli inglesi dicono che è il barattolo vuoto a far rumore. Vale pure per i cervelli). C’è chi mi oppone che il mio è una sorta di atto di fede. Non è vero: è un fatto di cui si scorgono tracce. Ve ne suggerisco una: un’offesa al giornalismo ha titolato “Virus alla conquista del Sud”. E millanta questo (godendoci, pare) come “Unità d’Italia: ora sì che siamo tutti fratelli”. E capite cosa vuol dire: nel bene, noi siamo il Nord e voi merdacce; diventiamo “fratelli” quando il male che vi abbiamo portato ci accomuna (come nel 1860-61, con l’“Unità” intesa quale bagno di sangue a Sud, carcerazioni, deportazioni, trasferimento a Nord delle industrie, delle commesse e dell’oro meridionali).

MA I CAMPIONI DELLA DIFFAMAZIONE DEL SUD PERDONO COPIE IN EDICOLA E ARRANCANO IN TV. Quella schifezza stampata è un insulto quotidiano al Sud e suscita reazioni disgustate dei terroni. I quali, sbagliando, rischiano di considerarla “la voce del Nord”. Non è così: il giudizio dei lettori si misura in edicola. Sotto la guida del campione di tanto livore nei confronti dei meridionali, la tiratura del fogliaccio è scesa da 120mila a meno di 25mila copie. Ed è il Nord ad averlo schifato. Mentre i programmi di “approfondimento” anti-Sud vedono boicottati i loro inserzionisti. Quindi, qualcuno sa e comprende. Ora forse anche chi non sa e non comprende potrebbe porsi qualche domanda. La reciprocità (a volte, anche tramite un virus) questo dice: attento, che “l’altro” prima o poi, sei tu.

Ma se siamo così diversi! Domenico Bonaventura,  Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista il 21 Luglio 2020.  Quella che la narrazione mediatica sta facendo passare è la distanza, la differenza di approccio tra gli oculati e gli scialacquoni. L’utilizzo di “frugale”, con riferimento ai Paesi nordeuropei, non può che andare in questa direzione. Semplice, modesto, parco, parsimonioso. Sono questi i sinonimi che si possono leggere in qualunque dizionario. Insomma, il termine “frugale” – e lo dico da giornalista – sembra soltanto una scorciatoia giornalistica per creare contrapposizione, per continuare a vivere di quel racconto (che in parte poggia anche sulla realtà) che vede Sud e Nord Europa l’un contro l’altro armati. D’altronde, “si è sempre meridionali di qualcuno”, aforizzava il leggendario professor Bellavista parlando con il supermilanese ingegnere Cazzaniga, il quale a sua volta descriveva le strambe abitudini della sua signora tedesca. Un aforisma, ad esempio, ripreso e adattato anche dal governatore De Luca, che nel suo politelling (come Francesco Giorgino definisce lo storytelling politico) lo utilizza nel frame del “leghismo meridionale” (come lo definiscono Alessio Postiglione e Angelo Bruscino in “Popolo e populismo”) per provare a compattare – dalla sua parte – i campani contro i vichinghi settentrionali. Mai come in questi giorni, l’Europa si sta rivelando una fusione a freddo tra Paesi che nulla o quasi hanno da dividersi, se non la consapevolezza della necessità di stare insieme per fare da contraltare alle potenze sino-russo-statunitensi. Che esista più di qualche differenza tra il Sud e il Nord del continente è un fatto solare. Differenze sociali, politiche e, di conseguenza, mediatiche. Quelle politiche stanno venendo fuori in queste ore in tutta la loro dirompenza. Ma non sono che lo specchio di una distanza relativa alle altre due categorie. Ci fermiamo su quella mediatica, prendendo come riferimento “Modelli di giornalismo” di Daniel Hallin e Paolo Mancini (2008, Editori Laterza). Il saggio divide i Paesi, europei e non, in tre gruppi, in base ai rapporti tra media e politica:

modello mediterraneo o pluralista-polarizzato;

modello dell’Europa centro-settentrionale o democratico-corporativo;

modello nord-atlantico o liberale.

L’Italia, naturalmente, rientra nel primo, insieme a Portogallo, Spagna, Francia e Grecia. Ciò che distingue questi Paesi è che le istituzioni liberali, l’industrializzazione capitalistica e la democrazia politica sono arrivate con ritardo rispetto al resto d’Europa (la Francia viene spesso trattata come caso border-line). Si riscontrano esempi molto frequenti di sovrapposizione tra media e politica, forte parallelismo politico e abbondante intervento statale in ambito mediatico – come elargitore di fondi e come regolatore -, oltre a uno sviluppo generalmente debole dei media commerciali. Ciò ha condotto, nel tempo, a un giornalismo orientato più al commento che ai fatti, a media fortemente politicizzati e a un notevole sviluppo del fenomeno della partigianeria politica dei giornalisti, spesso considerata da questi ultimi come un vanto, piuttosto che come un’anomalia (retaggio dell’enorme sviluppo della stampa di partito e della peculiarità della politica sulla televisione). Nel modello dell’Europa centro-settentrionale o democratico-corporativo, che oggi in molti chiamerebbero “modello frugale”, rientrano i Paesi che in queste ore a Bruxelles stanno rendendo il negoziato un campo minato. Austria, Belgio, Finlandia, Olanda, Danimarca, Norvegia. E Germania, che però ha presentato una propria proposta con la Francia. Anche qui si ravvisa un forte intervento dello Stato, ma teso più alla tutela della elevata professionalizzazione e della libertà di stampa. Il servizio pubblico radiotelevisivo è forte, caratterizzato dalla presenza della politica nella televisione. Tutto questo per dire non che le differenze di tipo mediatico influiscano sulle politiche (piuttosto sul racconto che gli stessi media ne fanno). Ma che, al contrario, se ci sono tutte queste distanze nell’ambito di tv, giornali e rete, non c’è da meravigliarsi se a livello politico gli abissi che separano Sud e Nord d’Europa appaiano percorribili soltanto da compromessi ad estremo ribasso.

Barbara Jerkov e Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 14 agosto 2020. Prima il Nord, anche ad agosto. Appena 9 città meridionali (su un totale di 29) potranno infatti accedere agli oltre 500 milioni di euro di indennizzi a fondo perduto previsti per le attività commerciali delle città d'arte colpite dal calo dei turisti stranieri. A penalizzare il Sud sono i criteri adottati dal ministero per i Beni culturali e il Turismo. Questi parametri, basandosi su dati statistici, non solo hanno finito per considerare Verbania più meritevole di Roma o Napoli, ma soprattutto per escludere intere Regioni (come Umbria e Calabria) e città che sono un fiore all'occhiello del turismo made in Italy. Ad esempio tra tutti i centri storici pugliesi, l'unico ad essere ammesso tra quelli che hanno diritto al bonus è Bari. Non c'è spazio quindi per gli imprenditori tarantini, né tantomeno per quelli leccesi. Al contrario sono invece ben 20 le città d'arte del centro-Nord che avranno accesso «all'aiuto mirato» voluto dal ministro Dario Franceschini e in dirittura d'arrivo in Gazzetta Ufficiale. A far discutere è dunque il curioso metodo utilizzato dal ministero per selezionare le città d'arte che hanno diritto ai fondi. Nel computo usato dal Mibact, infatti, sono inclusi i capoluoghi di provincia e le città metropolitane che secondo l'Istat hanno registrato nel 2019 presenze turistiche tre volte superiori al numero di residenti oppure i comuni capoluogo di città metropolitane che hanno ospitato un numero di viaggiatori pari a quello dei residenti. Un sistema complesso che «abbiamo adottato per individuare un certo numero di centri urbani su cui avere degli effetti immediati in termini economici» spiegano con un certo imbarazzo dal ministero, sostenendo che «la misura andava circoscritta e si necessitava di un parametro». «Chiaramente - aggiungono - Verbania in termini di presenze assolute è al di sotto della Capitale mentre in termini percentuali è sopra Roma». A testimonianza che la statistica può ingannare e, soprattutto, penalizzare. Ciò che non si comprende è perché mai questa riflessione non è stata fatta dal ministro. Grazie a questo calcolo e alla decisione di escludere certe tipologie di comuni, un centro come Sassari ad esempio resta tagliato fuori nonostante tra le città della sua provincia abbia Alghero o Arzachena che contano tra i propri turisti circa il 70% di presenze straniere ogni anno, più o meno come Roma e Milano. E fuori resta anche Messina che, comprendendo Taormina nella sua città Metropolitana, è una delle principali mete raggiunte dai viaggiatori non italiani. A svantaggiarle in questo caso sembra essere il mancato riconoscimento dello status di città metropolitana per quanto Alghero, ad esempio, vanti più residenti e più turisti di Verbania. La classifica realizzata ad hoc dal Mibact è quindi un'evidente semplificazione statistica dello scenario turistico italiano e, in quanto tale, non rispecchia la complessità del settore. Sono ben 6 infatti le regioni ad essere escluse dal contributo che copre fino al 20% del fatturato (tetto di 150 mila euro) per le imprese che hanno subito un calo di almeno un terzo rispetto all'anno prima, e sono Valle d'Aosta, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Molise, Abruzzo e Calabria. Un caso limite è ad esempio rappresentato da Perugia, capoluogo umbro, che stando alle stime effettuate dall'istituto Demoskopica su dati di Banca Italia e Istat, è la più penalizzata in assoluto di tutta la Penisola in termini di presenze turistiche (circa il 50% in meno). Una specificità che il Mibact però non ritiene danneggi i commercianti: «È vero che alcune città d'arte non avranno accesso al bonus - spiegano - ma ciò non vuol dire che saranno abbandonate perché potranno usufruire di altre misure previste nel decreto Agosto». Statistica permettendo.

Lo scippo al Sud continua anche sui centri storici: gli aiuti a fondo perduto premiano quelli del Nord. Si perpetua il trucco della spesa storica: tra le città selezionate, 20 su 29 sono centrosettentrionali. Nessun aiuto per chi è indietro ma ha forti margini di crescita. Pietro Massimo Busetta il 14 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quando si pensa al “non rubare” del settimo comandamento si pensa immediatamente ai ladri e agli scassinatori. In realtà, il “non rubare” si riferisce a tutto il mondo dell’economia che permea la nostra vita. È un comandamento al quale chi crede, ma anche chi non crede, si ispira come condotta di vita. E la prima reazione alla scoperta di un furto è la pretesa della restituzione di quello che si è sottratto al prossimo. Stupirsi del fatto che ciò non avvenga sarebbe da ingenui. Ma vedere come con protervia e arroganza si continui da parte di alcuni a far finta di nulla, rispetto allo scippo di 60 miliardi l’anno, anzi a rivendicare, ogni volta che vi è un provvedimento a favore del Sud, una pretesa questione settentrionale a cui verrebbero sottratte risorse dovute, mi pare intollerabile. Il campione mediatico di tale atteggiamento, per ora, é quel sindaco di uno dei lati del triangolo Milano-Bergamo-Monza, area più ricca d’Italia, Giorgio Gori, anche esponente ascoltato del Pd. A cui si aggiungono frequentemente Stefano Bonaccini e Giuseppe Sala. Non si fa riferimento a Luca Zaia e Attilio Fontana o Giancarlo Giorgetti, perché è nella loro identità la caratteristica di difendere gli interessi illegittimi del Nord bulimico.

I SOLITI FAVORITISMI. Stupisce invece che lo stesso principio, che si rifà alla spesa storica, cioè che se tu hai avuto di più continuo a darti di più, anche se ci si è resi conto che ad alcuni viene dato quello che non spetterebbe, venga adottato da un ministro, che sembrerebbe più sensibile alle esigenze e alle ragioni del Mezzogiorno che sono poi quelle di tutto il Paese. Parlo del ministro Dario Franceschini e dell’aiuto di oltre 500 milioni di euro, il contributo a fondo perduto che spetterebbe alle attività dei centri storici. Perché l’ inserimento nel gruppo avviene sulla base dei dati di presenze (non di arrivi) di turisti stranieri avuti nel 2019. La logica della legge è di preparare i nostri centri storici, più frequentati dagli stranieri, alla fine dell’emergenza, non facendo trovare un deserto di attività, nel frattempo chiuse. La via dell’inferno però è lastricata di buone intenzioni. Perché l’inserimento, in mancanza di correttivi, come per esempio la quantità di beni culturali esistenti nelle zone o un calcolo di potenziale inespresso, arrivano a coloro che hanno già sviluppato un dimensione turistica consistente. E i dati parlano chiaro: tra le città selezionate, 20 su 29 sono collocate nelle regioni del Centro Nord e resterebbero esclusi i Comuni di almeno tre regioni: Calabria, Molise e Friuli Venezia Giulia. In realtà, anche questi aiuti seguono la logica della cassa integrazione e degli altri sostegni: li dai a chi ha perso, sostieni il reddito di chi ha avuto calo di fatturato, e chiaramente a Venezia, Firenze, Milano o Roma le perdite sono state molto più consistenti di quelle delle realtà meridionali. Ma è lo stesso gioco della spesa storica, se non metti dei correttivi si aiuteranno i soliti più ricchi e non farai nulla per indirizzare un aiuto alle realtà più indietro e con margini di crescita interessanti. Per esempio non inserisci tra queste città la bellissima Lecce o Taormina o Caserta, la cui reggia è l’ultima grande opera che sia sta fatta nel Mezzogiorno, ma ci trovi Verbania.

IDEA COMPLESSIVA. Il modo più facile di distribuire risorse a pioggia e di alimentare il consenso, non utilizzando questa occasione per indirizzare verso una diminuzione dei divari, in questo caso di presenze turistiche. Costretto magari poi a mettere il numero chiuso in alcune città d’arte perché invivibili e lasciare abbandonate altre realtà, che sono scrigni d’arte e che scoprì per caso dopo anni come Matera. Ma poi, quando devi individuare la capitale italiana della cultura, stai attento che una volta tocchi al Sud e una al Nord, invece di stabilire per legge che le capitali della cultura italiane ed europea, quando ci tocca, per i prossimi dieci anni devono essere solo al Sud. Perché i Gori si lamenteranno, anche se le loro comunità hanno un reddito pro capite triplo di quello medio del Sud e in una famiglia lavorano due persone contro meno di una in media al Sud. E anche se i grandi eventi vengono tutti localizzati al Nord, come l’Expo recente e le prossime Olimpiadi invernali, che in genere portano come dote qualche miliardo per completare la rete infrastrutturale, di cui non si parla e un incremento di presenze straniere che poi determinano l’inserimento delle città nel gruppo delle città d’arte da finanziare. Guardare al singolo intervento senza una visione di insieme è molto pericoloso ma è quello che si sta facendo: forse una idea complessiva non sarebbe male.

L’Italia dei paradossi: il Sud perde soldi e il Nord si lamenta…Marco Demarco su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Molte “voci“ che si alzano dal Sud lamentano con crescente allarme la sottrazione di risorse a vantaggio del Nord. Tra queste ci sono le voci di chi non si accorge di muoversi in sostanziale sintonia con quanti in Europa fanno la stessa cosa, cioè difendono aspettative e interessi particolari, maturati prima dell’emergenza sanitaria, e agitati senza riguardi per la mutata situazione post-Covid. Solo che le voci del Sud ci appaiono giustificate dalla criticità del contesto sociale, e dunque legittime; mentre le altre risultano a noi odiose, perché cariche di irresponsabile egoismo. Eppure, se in nome della solidarietà censuriamo le spinte nazionali che tendono a insabbiare gli obiettivi comunitari, non possiamo poi, asimmetricamente, assecondare tutte le rivendicazioni che hanno origini localistiche e si alimentano di risentimenti e frustrazioni risalenti nel tempo. Bisogna dunque valutare, distinguere, e non farsi prendere dal manicheismo populista o dal riduzionismo demagogico. Del tipo: è tutta colpa di Orban e di Salvini, per intenderci. Tanto più che fino a ieri davamo per scontato che i “cattivi” fossero esclusivamente i paesi dell’Europa dell’Est, in particolare quelli del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Mentre oggi il quadro è molto cambiato: nell’ambito del negoziato sul Recovery Fund, dall’Est arriva all’Italia un imprevisto sostegno, e la minaccia più seria viene invece dal Nord, dai cosiddetti “Stati frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia). Chi avrebbe potuto immaginarlo solo qualche mese fa? Non a caso, su Repubblica, Ezio Mauro ieri ha scritto – ed è una novità significativa – che «sta emergendo un nuovissimo nazionalismo non sovranista». È la riprova che le cose si stanno complicando e che prendersela con Salvini e Orban può rivelarsi una debole manovra diversiva. In questa situazione, specialmente se ci caliamo dentro i confini nazionali, la posizione più imbarazzante diventa quella di chi vuole furbescamente ricoprire tutte le parti in commedia; di chi prova a stare con i buoni e con i cattivi contemporaneamente; di chi a parole difende le ragioni del Sud e polemizza con “quelli del Nord”, ma sotto sotto fa in realtà l’esatto contrario. Si scopre così che nell’ultimo provvedimento sulla semplificazione, il cui valore è stato più volte sottolineato dal governo e dalla maggioranza giallorossa, al comma b dell’articolo 47 si stabilisce che le risorse del fondo Sviluppo e Coesione – come è noto in gran parte destinati al Sud – sono ora a disposizione di “programmi nazionali”. Una svolta che implica una scelta precisa: in nome dell’emergenza e della semplificazione, i fondi vanno dove si possono spendere subito, senza alcun riguardo per la collocazione geografica dei progetti. L’esatto opposto, insomma, di quel principio, ribadito anche nel piano per il Sud del ministro Provenzano, secondo cui lo Stato è impegnato a destinare il 34% degli investimenti pubblici alle Regioni meridionali. Le due cose non si tengono, questo è evidente. Ma è così che si procede in questa Italia dell’equivoco elevato a valore strategico. Il colmo, poi, è dato da un Nord che ciò nonostante non si ritiene soddisfatto. E che ancora l’altro giorno, per bocca di Elisabetta Gualmini, europarlamentare Pd, docente di Scienze economiche e vice di Bonaccini, il governatore dell’Emilia Romagna, ha tuonato contro «la sfumatura assistenzialista, a trazione meridionale, del governo».

FAZIOSI, INCOMPETENTI E BUGIARDI. Le balle della sinistra padronale: il Sud è stato come sempre abolito dai grandi investimenti. Roberto Napoletano il 10 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Dicono che faranno l’Alta velocità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria e Palermo-Catania-Messina ma non è vero. C’è un solo cantiere già aperto: Napoli-Bari. Una vergogna che blocca le potenzialità di crescita dell’Italia intera perché senza la riunificazione infrastrutturale il Nord non riavrà il suo mercato di consumi interno e si determina una situazione di pericolosità estrema. Passano i giorni, la catastrofe economica italiana è sotto gli occhi di chiunque vuole vedere, ma non succede niente. “Parole, parole, parole” abbiamo titolato ieri. Oggi abbiamo il dovere di aggiungere che non solo, come ovvio, le parole non sono fatti, ma in molti casi sono parole pericolose. Perché creano illusioni destinate a tradursi in delusioni violente e sono benzina pura sul fuoco della polveriera sociale italiana che ha le sue “capitali” nel Mezzogiorno. Abbiamo un buco di cassa di 50 miliardi di cui abbiamo parlato per primi nel silenzio opaco dei cosiddetti giornali di qualità. Non diciamo come lo copriamo, facciamo gli spocchiosi con il Mes (tacciamo per carità di patria delle opposizioni sovraniste e dei loro anziani mentori in malafede) e passiamo le giornate a litigare su come spendere soldi che non abbiamo e che, quand’anche li avessimo, non saremmo in grado di spendere. Questo giornale non nasconderà mai ai suoi lettori la verità, non asseconderà mai nessun potere di turno. Il Presidente Conte che gira l’Europa come una Madonna pellegrina per convincere Capi di Stato e cancellerie europee che il Paese cambierà, farà le riforme, aprirà i cantieri, deve sapere che ha in mano tanti due di picche e nessun re di cuori. Una lista di priorità di grandi opere stilata da una ministra delle infrastrutture e dei trasporti che ha conquistato il podio della Sinistra Padronale – quella sdraiata come un tappetino al servizio del capitalismo privato della rendita – e che è riuscita a bloccare una regione senza fare mai marcia indietro, è il peggiore biglietto da visita che si possa esibire in Europa e scava la fossa al governo Conte 2 che proprio grazie all’iniziativa del suo Presidente ha affrontato bene l’emergenza sanitaria. Basta balle! Il Mezzogiorno è stato come sempre abolito dai grandi investimenti infrastrutturali e, come documenta Ercole Incalza della cui competenza nessuno può dubitare, tranne il cantiere già aperto della Napoli-Bari, nulla si muoverà di concreto per i prossimi due anni nell’Alta velocità ferroviaria del Mezzogiorno. Siamo in una situazione di pericolosità estrema perché si dice che si faranno la Salerno-Reggio Calabria e la Palermo-Catania-Messina ma non è vero perché al massimo si butteranno un altro po’ di soldi pubblici per fare studi e progetti già fatti. Una vergogna assoluta che blocca per sempre le potenzialità di crescita dell’Italia intera perché senza la riunificazione infrastrutturale del Paese il Nord non riavrà il suo mercato di consumi interno e diventerà l’appendice meridionale del gigante tedesco a sua volta stretto nella tenaglia cinese-americana. Una tragedia di cui tutti coloro che hanno responsabilità politica nel Mezzogiorno saranno corresponsabili se continueranno a tacere come hanno fatto negli ultimi venti anni. Questo giornale li stanerà uno a uno perché la situazione di oggi è molto differente da quella di ieri e dell’altro ieri perché la Grande Depressione mondiale prima non c’era. Abbiamo apprezzato il realismo di Marco Tronchetti Provera che ha messo nero su bianco una previsione del 15/20% di calo del fatturato della Pirelli avendo il coraggio di dire la verità che è proprio quello che serve. Anche qui vogliamo ricordare che nel silenzio generale, sulla base di mere analisi empiriche, ci siamo permessi di parlare di una caduta del Pil italiano di almeno il 15%. Ovviamente lo abbiamo fatto non perché siamo catastrofisti ma per spingere tutti a uno scatto fatto di cose concrete che solo la consapevolezza della situazione può dare. Se tagliamo il Sud, apriamo i cantieri forse tra due anni, prolunghiamo le “vacanze” degli statali fino alla fine dell’anno, chiudiamo l’Italia e non la riapriamo più. Se si vuole fare davvero l’alta velocità ferroviaria nel Mezzogiorno si lanci un bando di gara internazionale, si faccia cadere il tabù del ponte di Messina, e si segua da Palazzo Chigi il modello del progetto integrato e dei consorzi con partner selezionati utilizzato per il piano strategico dell’alta velocità ferroviaria del Nord di molti anni fa. Questo significa occuparsi del Mezzogiorno e riparare ai torti che ha subito. Questo significa salvare l’Italia. Con i cento e passa decreti attuativi mai adottati del Tesoro e la ministra zerbino De Micheli ci possono anche riempire di soldi europei, ma non ce la faremo mai. Perché siamo incapaci e a dettare legge saranno sempre i Soliti Noti. Quelli che usano il bilancio pubblico per le loro porcherie e rubano il futuro ai nostri giovani.

IL CONTO DELLA SINISTRA PADRONALE. Per quanto tempo l'Italia potrà sopportare i disastri del Pd e della ministra De Micheli? Roberto Napoletano l'8 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ora tutti hanno scoperto che in cassa c’è un buco da 50 miliardi e che la lista degli appalti prende in giro metà Paese dando briciole al Sud e soldi veri al Nord. Fanno bene i governatori del Mezzogiorno a chiedere conto dei soprusi miopi che impediscono la ricostruzione dell’economia italiana. Ce la faranno i nostri eroi, Francesco Boccia e Giuseppe Provenzano, ministri delle Regioni e del Mezzogiorno, a fare ragionare la Sinistra Padronale che tiene in ostaggio Conte e il Paese? Che cosa si deve fare per liberare le due Italie dall’ossessione del codice degli appalti dell’ex ministro del Pd Delrio e liberare quel partito e l’economia italiana dal più clamoroso calcio negli stinchi che un Paese può dare a se stesso? Ci sarà qualcuno nel Pd in grado di ricordare a Delrio che aveva preso l’impegno di ridurre le stazioni appaltanti da 35 mila a 5 mila e, cioè, al doppio di Germania e Francia, ma che non è successo assolutamente nulla e questa inerzia la paga un’economia paralizzata che non fa investimenti e precipita in fondo a tutte le classifiche? Ma per quanto tempo ancora si può pensare che l’Italia possa sopportare l’azione e i disastri del peggiore ministro della storia repubblicana che risponde al nome di Paola De Micheli, sempre del Pd, che si permette di prendere in giro i cittadini italiani confondendo opere cantierabili con risorse disponibili e che arriva perfino, cosa che non le perdoneremo mai, a prendere in giro i cittadini calabresi e del Mezzogiorno scambiando progetti per cantieri, treni di media velocità per alta velocità, sempre a favore del Nord e sempre subdolamente contro il Sud? È riuscita a bloccare una regione intera, la Liguria, questa impresentabile ministra senza chiedere scusa e ritirare ad horas le sue demenziali disposizioni, riuscendo nel miracolo di fare apparire il predecessore grillino Toninelli un pozzo di competenza al suo confronto. Con splendido tempismo è riuscita a affidare la gestione del ponte Morandi ai Benetton nello stesso giorno che la Consulta ha ritenuto legittimo escluderli dalla ricostruzione dello stesso Ponte. Ma in che mani, ci chiediamo, siamo finiti? Che cosa aspetta Zingaretti a prendere le distanze da questo pericolo pubblico che è la De Micheli e il Presidente Conte a chiedere per impresentabilità e incompetenza acclarate le sue irrevocabili dimissioni? Da Palazzo Chigi è uscito un documento a firma del capo del Dipartimento, Antonio Scino, di designazione leghista, che voleva fare saltare il vincolo del 34% delle risorse al Sud e destinarle come sempre al Nord, possiamo chiedere, come giustamente ripete giorno e notte Provenzano, per quale misteriosa ragione è ancora lì al suo posto? Ci fermiamo qui. Non abbiamo voglia di proseguire. Quello che deve essere chiaro a tutti è che esiste un giornale che si è permesso di segnalare nel silenzio servile dei cosiddetti giornali di qualità che c’è un buco di cassa di 50 miliardi che ora hanno scoperto tutti e che la lista degli appalti del decreto semplificazioni (vero De Micheli?) continua a prendere in giro metà Paese dando briciole al Sud per continuare a studiare e soldi veri ai cantieri nel Nord ovviamente con il plauso di buona parte anche dell’informazione che nella migliore delle ipotesi non capisce. Basta!!! Fanno bene i governatori del Sud a abbracciare la campagna di questo giornale, condotta in assoluta solitudine e avallata dalle principali istituzioni economiche, statistiche e contabili della Repubblica italiana, e a dire chiaro e tondo che con i soprusi delle Regioni del Nord di Sinistra e di Destra se la vedranno davanti alla Corte Costituzionale perché ogni limite ha una pazienza. Come direbbe il grande Totò. A tutti i sapientoni del pensiero unico ci permettiamo di ricordare che abbiamo sfondato il pavimento e distrutto le cantine, siamo sotto gli ultimi in tutto perché continuiamo a fare regali a un Nord assistenziale e togliamo risorse produttive al Mezzogiorno che può salvare l’intero Paese. Se ne è accorta perfino la Merkel non i cosiddetti giornali di qualità e la Sinistra Padronale con i suoi ministri impresentabili. Presidente Conte questa volta o riuscirà a cambiare rotta con i fatti o salterà. Sia chiaro: chi prenderà il suo posto o cambierà rotta o farà saltare l’Italia. Questi sono i punti veri. Il resto sono chiacchiere. Penose.

I SOLDI DELL'EUROPA DIROTTATI AL NORD. Siamo alla vergogna delle vergogne. Non sarà mai troppo tardi quando gli amministratori delle Regioni meridionali avranno la dignità di rivolgersi alla Corte costituzionale per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni. Roberto Napoletano il 6luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Noi vogliamo bene all’Italia e solo per questo ci siamo imposti di non soffiare sul fuoco della polveriera sociale che può incendiare il Paese in autunno. Siamo sull’orlo del baratro e ci comportiamo come se avessimo il portafoglio pieno e i miliardi che ci ballano. Calpestiamo il Mezzogiorno e il lavoro privato con la brutalità che solo l’ignoranza delle cose può consentire. Non riapriamo il pubblico impiego, il sindacato tutela privilegi fuori dal mondo, e raccontiamo la favola della didattica a distanza in una scuola colpevolmente dimezzata. Lasciamo morire il commercio, chiudiamo l’economia a partire dal turismo, e crediamo di potere ricominciare come se nulla fosse ridando i soldi ai Soliti Noti e regalando spesa pubblica ai ricchi rubandola ai poveri facendo l’esatto contrario di quello che ci chiede l’Europa. Facciamo finta di cambiare la macchina pubblica per cui gli investimenti rischiano di non partire mai e litighiamo su chi nomina i commissari e su quali opere devono avere la priorità quasi che fosse discutibile il dato di fatto che negli ultimi venti anni si è azzerata la spesa per investimenti nel Mezzogiorno (0,15% del Pil) e si vuole addirittura proseguire con l’andazzo incostituzionale di fare figli e figliastri nella sanità pubblica adesso addirittura anche con i fondi europei del Mes che non abbiamo nemmeno il pudore di chiedere ma sottobanco già ci dividiamo. Non so se si è capito bene quello che sto dicendo: con la consueta miope arroganza vogliamo prenderci i soldi europei per fare regali a Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, la governance reale del Paese che unisce Destra e Sinistra, quando l’Europa ci aiuta eccezionalmente per l’ultima volta affinché facciamo finalmente gli ospedali pubblici, terapie intensive e ricerca nelle regioni del Mezzogiorno arbitrariamente private dei loro diritti costituzionali. Siamo alla vergogna delle vergogne. Non sarà mai troppo tardi quando gli amministratori delle Regioni meridionali avranno la dignità di rivolgersi alla Corte costituzionale per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni. Questo giornale con l’avallo delle principali istituzioni economiche, contabili, statistiche della Repubblica italiana ha condotto ben tre operazioni verità (mai smentite da chicchessia) che documentano lo scippo da 60 e passa miliardi di spesa pubblica l’anno del Nord a danno del Sud e che sono la base giuridica della necessaria azione davanti alla suprema Corte. Ritenevamo che almeno il Coronavirus avrebbe consentito di bandire certe pratiche da Nord ladrone. Non è così se è vero come è vero che si è predisposta una bozza di ripartizione degli eventuali aiuti del Mes che continua a dare smaccatamente di più alle Regioni del Nord rispetto a quelle del Sud e si litiga sulle grandi opere da inserire nelle liste delle priorità con l’obiettivo della Sinistra Padronale di continuare a privilegiare in modo miope il Nord a spese del Sud. Questa è l’amara realtà e francamente siamo allibiti davanti allo spettacolo di un ministro dell’Economia che ha un buco di cassa di 50 miliardi, qualcosa che vale tre manovre, e non dice come intende coprirlo con l’assestamento di bilancio né anticipa il Def. Si permette di dire che è assolutamente urgente utilizzare le risorse comunitarie mentre continua a fabbricare leggi inattuabili e a prevedere decreti attuativi che non vengono adottati. Non perde una parola per ricordare a tutti che l’Europa pone una sola condizione: dovete spendere bene i quattrini che vi diamo mettendo al centro il Mezzogiorno. Dovete spenderli per fare quelle infrastrutture di sviluppo negate al Sud che consentono di perseguire il riequilibrio territoriale e di fare ripartire l’economia dell’Italia intera. Non lo dice, ma è così: dovete fare l’esatto opposto di quello che avete fatto fino a oggi. Soprattutto, dovete farlo in fretta. La Sinistra Padronale deve smetterla con il vizietto di aiutare gli amici degli amici ovviamente sempre ricchi e deve dare una mano a Conte per sbloccare poteri commissariali, alta velocità ferroviaria al Sud e smontare senza ipocrisie abuso d’ufficio e codice degli appalti. A sua volta Conte deve avere la forza di imporre ai grillini di uscire dal tunnel delle politiche assistenzialiste e dalla pratica delle regalie agli amici incompetenti perché la priorità è fare ripartire il lavoro. Sempre Conte deve abolire quota 100 per le pensioni che è il frutto della stessa cultura assistenzialista ma di impronta grillina. Se si vuole evitare il baratro, fatto di crollo dell’economia reale e di sfiducia dei mercati, il percorso è obbligato. Per poterlo percorrere insieme o con altri bisogna almeno capirlo.

Non bastano i soldi scippati al Sud: la Lombardia ha 320 milioni di buco. Claudio Marincola il 9 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. È proprio vero che nulla sarà più come prima. È caduto infatti anche l’ultimo tabù: ora anche la Lombardia ha i conti in rosso. Perdite straordinarie per circa 320 milioni di euro, da ripianare tagliando i costi e risparmiando sul welfare. Cose mai viste da quelle parti. La cifra è scritta nero su bianco nel Dfr, il Documento di finanza regionale 2020-2022 e fa un certo effetto considerando che da sempre è la Regione che incassa la fetta più grossa dei finanziamenti previsti dal piano sanitario nazionale. A determinare l’insolito sforamento è stata ovviamente l’emergenza Codiv-19 che ha colpito duramente la Regione del presidente Attilio Fontana. Più uscite ma anche minori entrate per 33 milioni di euro pari a un – 11% circa, da attribuirsi per il 27% ai minori introiti per il bollo auto, addizionale Irpef (-21%) e al decremento dell’Irap, (-43%) sia per quanto riguarda il saldo del 2019 che il primo acconto 2020. Un ulteriore 9% lo si deve alle minori riscossioni dell’Agenzia delle entrate per la tregua da lockdown. Il “buco” è chiaramente di derivazione sanitaria. Dai tabulati della Regione si evince che degli 894.100.214,35 euro spesi sono stati autorizzati finora solo 52.035.024,92 euro sul totale degli oltre 566.035024,92 euro rendicontati, Il Pirellone ha richiesto al commissario straordinario 502.808.621,77 milioni di euro. Ma ad oggi – sui fa notare dall’assessorato al Bilancio della regione Lombardia – queste risorse non sono state ancora assegnate. Si tratta di spese sostenute durante l’emergenza per l’assistenza medica, per la sanificazione di strutture sanitarie, acquisto di apparecchiature medicali, dispositivi di protezione e quant’altro è stato necessario per fronteggiare l’esplosione dell’epidemia nei giorni più caldi. Altri 63 milioni di euro sono stati richiesti al Dipartimento di Protezione civile. Spese varie ma sempre prettamente sanitarie. Esempio; l’assistenza alberghiera ai pazienti positivi o quarantenati e a medici e infermieri; la distribuzione dei medicinali; il trasporto salme da presidi ubicati al di fuori della provincia o della regione delle vittime e l’allestimento di strutture temporanee. Un calderone, insomma, in cui c’è di tutto. Restano invece in capo alla Regione Lombardia alcune spese che non sono state autorizzate. Tipo: rafforzamento della pianificazione della prevenzione e i costi aggiuntivi di personale, tra tutte quest’ultima resta la voce di spesa più importante: 148.246.093,69 milioni di euro. Mai come in questo esercizio finanziario ogni voce di spesa racconta il dramma che si è consumato nella regione considerata fino a ieri la Locomotiva d’Italia. Un ente locale, che a differenza di altre aree geografiche, può contare su entrate consolidate, introiti stabili, solidità finanziaria. Nel 2019 l’avanzo di bilancio ammontava infatti ad 1 miliardo e 324 milioni di euro, di cui 518 milioni provenienti dal bilancio di competenza. Una riserva ingente a cui sarà necessario attingere ora che la crisi da Covid 19 ha imposto una brusca inversione di tendenza. “Il nostro problema – conferma infatti il consigliere regionale Dem Raffaele Straniero – è stato semmai il contrario: la capacità di spesa”. Non la pensa così l’assessore al Bilancio Davide Carlo Carapini, bresciano e leghista della prima ora che ha più volte chiesto di accelerare le procedure dei rimborsi. La Conferenza delle regioni e delle Province autonome ha fatto di recente la ricognizione delle spese sostenute da tutti gli enti locali tra il 31 gennaio e il 31 maggio 2020 in relazione all’emergenza Codiv-19 ma le procedure per applicare i rimborsi previsti dal decreto Cura Italia viaggiano ancora molto al rilento. Arriveranno? Ma quando? Nell’incertezza della copertura, il Pirellone non esclude di utilizzare i proventi delle donazioni, circa 52 milioni di euro. Sono il frutto di raccolte fondi tra i privati ma anche delle aziende territoriale della sanità (Ats): Ats Brianza; Insubria; Val Padana; Bergamo e Città metropolitana. Risorse sono arrivate anche dagli Irccs di Besta; San Matteo; Policlinico e dall’Istituto nazionale dei tumori. Ognuno ha fatto la sua parte. Un discorso diverso è quello delle donazioni arrivate per il padiglione di Rho Fiera destinato alle terapie intensive. Pazienti che si contano sulle dita di una mano: costo 20 milioni circa di euro. Secondo molti uno spreco inutile, risorse sottratte al pubblico e regalate ai privati. Il nuovo ospedale messo su con la collaborazione di Bertolaso e il contributo di Berlusconi, per intenderci. Sebbene dei 52 milioni raccolti, ben 25 indicavano nella lettera di accompagnamento o nella delibera di autorizzazione la preferenza per la destinazione Rho, la Regione chiederà ai donatori l’autorizzazione a destinarle ad altre “iniziative” legate comunque all’emergenza. Il Codiv 19 ha stravolto i bilanci di tutte le regioni italiane, nessuna esclusa. Ma se quelle povere saranno ancora più povere questa volta anche i ricchi piangono. Lacrime e sangue è costato il coronavirus anche all’Emilia-Romagna, l’altra eccellenza. Un colpo duro alle casse regionali non ancora del tutto quantificato. Si dà il caso però che nel riparto delle risorse nazionali, la regione guidata dal governatore Bonaccini aveva scoperto proprio a marzo, in piena emergenza, di poter incassare 175 milioni in più dell’esercizio precedente. Un tesoretto da cui ripartire. Chissà certe sorprese nel Mezzogiorno non si verificano mai.

TRADITO IL SUD, TRADITA L'ITALIA. Roberto Napoletano l'8 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. I PAESI che fanno parte dell’Unione Europea sono 27. Un bel numero. Una squadra di pallone con le riserve e le riserve delle riserve più un’altra mezza squadra di titolari. Tra tutti questi giocatori non c’è nessuno che va peggio di noi. Con il Regno Unito impegnato in una eterna Brexit saremmo stati 28. Il risultato resterebbe invariato. Sempre ultimi. Questo è l’unico risultato clamoroso certo che riguarda l’Italia. Segnala il rischio Paese che è in cima alle preoccupazioni dell’Europa che per scongiurarlo è pronta per la prima volta a dare all’Italia non solo prestiti a tassi di favore ma anche fondo perduto ovviamente sempre a fronte di progetti esecutivi attuati e rendicontati. Un Paese che ha un buco di cassa di oltre 50 miliardi, non lo dice nessuno ma è così, e si appresta a raggiungere vette inesplorate di debito pubblico non può consentirsi il lusso di unire alla peggiore performance di crescita pre Covid, frutto di vent’anni di scelte sbagliate di politica economica e di una macchina pubblica centrale e regionale incapace di spendere, anche il record negativo di essere l’ultima economia europea a ripartire dopo il Covid. Le previsioni del prodotto interno lordo tutte negative e tutte per l’Italia ancora una volta da recordman tra i Paesi sotto zero peccano, a nostro avviso, di eccesso di ottimismo. Questo giornale sulla base di valutazioni empiriche, la somma dei mesi di chiusura totale e di quelli a chiusura parziale delle attività economiche, ha parlato in tempi non sospetti di un Pil negativo del 15% quando tutti, mettendo la testa sotto la sabbia come gli struzzi, si trastullavano con previsioni inferiori di un terzo. Non vogliamo tirarla lunga perché sull’orlo del baratro ci toccherebbe occuparci di tanta vaghezza assortita, chiacchiere lunari di rimpasto, una ministra delle infrastrutture (De Micheli) che riesce a bloccare una regione e spicca per incompetenza, una squadra di ministri del Pd che difende il codice degli appalti e non vuole i commissari perché bisogna difendere le riforme di Delrio che hanno bloccato gli appalti in Italia senza scalfire il patrimonio imbarazzante di 35 mila stazioni appaltanti contro le duemila di Francia e Germania. Vogliamo invece dire una sola cosa che nessuno vuole dire, nessuno vuole vedere, nessuno vuole sentire. Che è la sola cosa che blocca la crescita del Paese da almeno un quarto di secolo: l’abolizione del Mezzogiorno dalla spesa pubblica produttiva e sociale. Il vizietto dei ricchi della Sinistra (Emilia-Romagna e Toscana) e della Destra (Lombardia e Veneto), di fare il pieno di finanziamento pubblico a spese degli altri territori italiani. Purtroppo, anche in un quadro di semplificazione oggettiva che è il massimo che Conte è riuscito a strappare al Pd, i soldi europei finanzieranno al Nord subito opere e al Sud studi di fattibilità, progetti. Se si vuole fare per davvero l’alta velocità ferroviaria al Sud si fa come si è fatto ormai tanto tempo fa al Nord. Non si finanzia uno studio di fattibilità ma si fa un atto concessorio per un Progetto integrato per l’alta velocità ferroviaria con un bando di gara rivolto a un pool di imprese selezionate. Se si vuole fare sul serio si fa così se no si continua a prendere in giro il Sud e con i soldi di oggi del Sud a finanziare assistenza e opere al Nord, avendo cura al Sud di assegnare sempre i soldi di domani. Quelli che quando arriva l’oggi non ci sono più perché li ha già presi il Nord. Sul capitolo sanità è addirittura peggio. Si è predisposta una bozza per cui con i soldi del Mes si vuole dare alla Lombardia da sola quasi quanto riceve tutto il Mezzogiorno continentale e si continua a non capire perché il Veneto con un milione di abitanti in meno deve prendere più o meno quello che prende la Campania e l’Emilia Romagna sempre più della Puglia. Siamo alla violazione palese, insistita e scandalosa dei diritti costituzionali di cittadinanza e siamo contenti che due presidente di Regione (Campania e Sicilia) abbiano finalmente accolto il nostro suggerimento di rivolgersi alla Consulta per tutelare i diritti violati e, cosa ancora più importante, dare contro tutti e contro tutto l’ultima chance all’Italia per tornare a crescere. Fare, cioè, l’unica cosa che deve fare da quasi trent’anni e non fa. La riunificazione infrastrutturale delle due Italie. Serve al Nord per tornare ad avere il suo mercato di consumi interno. Serve al sistema produttivo italiano per recuperare una dimensione di impresa accettabile a livello globale che è cosa diversa da essere l’appendice meridionale del gigante tedesco. Serve al Paese intero per tornare ad essere la base logistica del Mediterraneo e recuperare la sua leadership sui mercati strategici della sponda Sud del mondo. Serve all’Europa che è stanca di dovere chiedere il permesso a Erdogan o a Abdel Fattah al-Sisi per fare un investimento in Libia e non sa più come spiegare che apre i cordoni della borsa perché l’Italia persegua e realizzi il suo riequilibrio strutturale non altro. Chi glielo spiega a Bonaccini e Fontana che, causa Covid, hanno perso sei mesi di “turismo sanitario” e hanno un buco di bilancio da sanare? Con i giochetti di prima non si va da nessuna parte perché questa volta l’Italia affonda e perché l’Europa non si vuole fare prendere in giro. Consigliamo al Presidente Conte di sfidare i guappi di cartone del Pd per fare scelte più radicali e condividere non a parole la priorità italiana del Mezzogiorno. Anche perché se l’Italia non recupera questo pezzo così vasto di territorio esce dal novero dei Paesi industrializzati.

Dagospia il 9 giugno 2020. QUANTO STARNAZZANO I LOMBARDI - E’ BASTATO METTERLI DUE MESI NEL RUOLO DI UNTORI-DISCRIMINATI PER ASSISTERE A UNA REAZIONE FURIBONDA, DE BORTOLI IN TESTA - MA COME? IL SUD E I MERIDIONALI VENGONO TRATTATI CON SPREGIO, SEMPRE. (DO YOU REMEMBER: “NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI”?) E ORA PER QUALCHE SFOTTO’ SI GRIDA ALL’INVIDIA SOCIALE? L’ESAGERAZIONE DI FELTRI: “CONTRO LA LOMBARDIA, PROVENIENTI DAL MERIDIONE, SONO STATI LANCIATI STRALI VELENOSI. UN PESTAGGIO SENZA PRECEDENTI CHE COLPISCE POLENTONI QUASI FOSSERO DELINQUENTI”.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”  il 9 giugno 2020. È ora di riaprire il fuoco che pure mi ha strinato. Un paio di mesi orsono, forse meno, ero ospite del programma televisivo «Fuori dal coro» condotto dall'ottimo Mario Giordano. Alle sette di sera registrai una intervista su temi di attualità. Il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l'intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo, aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D'Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile. Chiunque sa che il Mezzogiorno soffre di arretratezza in campo produttivo: il reddito dei suoi cittadini è la metà di quello dei lombardi, è devastato dalla criminalità organizzata, è privo di infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo. Queste sono verità incontestabili. Nonostante ciò sono stato linciato quasi avessi offeso il popolo del Sud, il quale peraltro si lamenta proprio perché lo Stato non ha mai provveduto a colmare certe lacune che lo rendono appunto inferiore (che non è una parolaccia) al settentrione. È un fatto noto a chiunque conosca la realtà patria. Mi sono preso valanghe di insulti. Addirittura Massimo Giletti, factotum dell'Arena della 7, ha organizzato una puntata durante la quale i suoi ospiti, da Luca Telese al sindaco di Benevento, mi hanno brutalizzato volgarmente, accusandomi di antimeridionalismo, ignorando la mia storia. Solamente Alessandro Sallusti mi ha generosamente difeso. Non contento, Giletti ha incaricato la ex ministra De Gregorio di raccogliere le contumelie dirette a me ad opera di un considerevole numero di sudisti che hanno parlato per sentito dire, cioè senza avere udito il mio intervento tv. Più scorretti di così è impossibile. Naturalmente me ne sono infischiato. Alla superficialità di certa gente sono avvezzo. Ora però si dà il caso che si è scatenata una bufera contro la Lombardia, accusata di aver commesso ogni nefandezza in occasione del Covid, come se il virus fosse stato realizzato da Attilio Fontana e dai suoi collaboratori. Contro questa regione pilota, provenienti dal meridione, sono stati lanciati strali velenosi. Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c'è stata e non c'è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta, se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo.   

Feltri difende il Nord, nuovo titolo discutibile di Libero: arriva l'ironico commento di Di Mare. Vittorio Feltri, giornalista e Direttore di Libero, ha pubblicato un altro editoriale che prende di mira i Meridionali.  Redazione areanapoli.it il 9 giugno 2020. Renato Farina, giornalista, ha scritto un articolo su Libero dal titolo: "Tutti odiano la Lombardia, nessuno odia il Mezzogiorno". Farina scrive che “bisognerebbe aggiungere un comma alle leggi che tutelano dalle discriminazioni razziali, religiose, sessuali. Andrebbe dedicato alla lotta contro la lombardofobia”. Cita Giuseppe Verdi e annuncia l’organizzazione di un Lombard-Pride. Per l’occasione Ferruccio de Bortoli potrebbe lanciare il suo movimento territoriale. Vittorio Feltri, sempre su Libero, ha invece scritto: “Se nomini il Sud ti massacrano, se insulti il Nord. Io contro il Mezzogiorno? Ho detto verità incontestabili. Sono stato linciato quasi avessi offeso il popolo del Sud. Si è scatenata una bufera contro la Lombardia accusata di aver commesso ogni nefandezza in occasione del Covid, come il virus fosse stato realizzato da Fontana e i suoi collaboratori. Senza la Lombardia chi oggi accusa tornerebbe alla mezzadria e al latifondo”. Gino Di Mare, giornalista e fratello di Franco (ora Direttore di Rai 3), ha commentato in modo ironico su Facebook: "I titoli di Libero andrebbero protetti, tutelati, esposti. Secondo me una permanente al Thyssen-Bornemisza di Madrid avrebbe il suo perché. Almeno facciamo ridere anche agli spagnoli".

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 12 giugno 2020. Illustre Sergio Pinto, pubblichiamo volentieri la sua lettera garbata sperando dimostri ai nostri lettori come stanno effettivamente le cose. Nessuno qui a Libero è ostile ai terroni, termine scherzoso esattamente come lo è polentoni. Certi modi di dire non devono assumere una connotazione dispregiativa, al contrario vengono usati con affetto. Io sono stato recentemente criticato perché ho parlato delle tribolazioni del Sud, abbandonato dalla politica e reso così incapace di fronteggiare una arretratezza che risale a tempi lontani. Da oltre sessanta anni i meridionalisti più provveduti si lamentano poiché il Mezzogiorno è male amministrato dallo Stato Centrale, e hanno mille ragioni. Sono sempre mancati investimenti tesi allo sviluppo del territorio, privo di infrastrutture, di trasporti adeguati alle esigenze degli imprenditori che, di fatto, non sono riusciti a sfondare sul piano economico lasciando la loro gente in una situazione di subalternità rispetto al Nord. Negare tutto questo significa non aver capito nulla delle problematiche che affliggono da secoli le regioni più sfortunate d' Italia. Personalmente insisto da lustri: la rinascita delle due Sicilie dipende dalla volontà degli uomini. I quali non devono favorire piogge di denaro sulle zone depresse, quattrini che poi vengono raccattati dalla malavita organizzata e destinati ad arricchire le famiglie mafiose. I soldi pubblici vanno investiti in grandi opere che siano importanti ai fini di un rilancio definitivo del Meridione, bisognoso di strade, ponti, aeroporti, ferrovie, altrimenti esso non sarà mai in grado di competere con i connazionali più vicini all' Europa. Quando affermo che molti napoletani sono inferiori ai lombardi scopro l' acqua calda, nel senso che le possibilità dei vesuviani, perseguitati dalla miseria, dalla camorra e da un caos cittadino incontrollabile, sono evidentemente più modeste rispetto a quelle di cui dispongono gli abitanti di Milano. Chi non riconosce che esiste un gap tra una parte e l' altra dello stivale o è cieco o è sciocco. Non si tratta di differenze antropologiche tra polentoni e terrori, tuttavia smentire che le due categorie abbiano un reddito e un modus vivendi dissimili costituisce una manifestazione di ottusità.

Da casanapoli.net il 12 giugno 2020. Il direttore di “Libero Quotidiano“, Vittorio Feltri, torna ad attaccare Napoli e il Sud in generale, per rispondere alle accuse rivolte contro la Lombardia. Vittorio Feltri torna a parlare contro Napoli e il meridione d’Italia. Il direttore di Libero, rispondendo alle accuse rivolte contro la Lombardia attacca Napoli e il sud a testa bassa. Queste le sue parole: “Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c’è stata e non c’è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta. Se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo“. Il direttore di Libero continua la sua invettiva contro i Napoletani: “Ricordo quando il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l’intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo. Aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D’Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile. Chiunque sa che il Mezzogiorno soffre di arretratezza in campo produttivo: il reddito dei suoi cittadini è la metà di quello dei lombardi, è devastato dalla criminalità organizzata, è privo di infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo. Queste sono verità incontestabili. Nonostante ciò sono stato linciato quasi avessi offeso il popolo del Sud, il quale peraltro si lamenta proprio perché lo Stato non ha mai provveduto a colmare certe lacune che lo rendono appunto inferiore (che non è una parolaccia) al settentrione. È un fatto noto a chiunque conosca la realtà patria. Mi sono preso valanghe di insulti”.

Libero e Feltri difendono la Lombardia e attaccano il Sud: “Offese sanguinose sparate sui lombardi”. Da Chiara Di Tommaso il 9 giugno 2020 su vesuviolive.it. Fa discutere il nuovo titolo di apertura di ‘Libero’ e il relativo editoriale in prima pagina firmato da Vittorio Feltri. Questa volta il giornale mette direttamente a confronto il Nord e il Sud alimentando odio come si evince del titolo che recita: “Tutti odiano la Lombardia, nessuno odia il Mezzogiorno”, con tanto di foto di Attilio Fontana. Una difesa a spada tratta del governatore contro le accuse fatte da ‘Report’ e da ‘Il fatto quotidiano’ sulla gestione della sanità lombarda: “Giù le mani da Fontana”, “Attacco al potere economico”. Peccato che a parlare siano i dati e le varie inchieste aperte contro Fontana per indagare sulla gestione dell’emergenza. Ma per ‘Libero’ e Vittorio Feltri gli attacchi a Fontana vengono esclusivamente dai ‘meridionali invidiosi’ della Lombardia. Guai a sottolineare qualcosa che non va, subito arriva l’editoriale in difesa del Nord e contro il Sud troppo permaloso: “Se nomini il Sud ti massacrano, se insulti il Nord…”. Feltri ricorda una sua frase quella sull’inferiorità dei meridionali e la spiega meglio, sottolineando come non sia solo economica. “Un paio di mesi orsono, forse meno, ero ospite del programma televisivo «Fuori dal coro» condotto dall’ottimo Mario Giordano. Alle sette di sera registrai una intervista su temi di attualità. Il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l’intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo, aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D’Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile“. Ed ecco la sua difesa della Lombardia: “Contro questa regione pilota, provenienti dal meridione, sono stati lanciati strali velenosi. Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c’è stata e non c’è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta, se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo“. In democrazia vi è libertà di parola ma un conto è raccontare i fatti, altro difendere l’indifendibile accusando il Sud. Forse sono in tanti che dovrebbero chiudere la bocca.

Libero e il “Sud infettato”. Next Quotidiano l'11 ottobre 2020. La prima pagina del quotidiano “Libero” di oggi, nella solita difesa della Lombardia e della sua disastrosa gestione dell’epidemia, regala un’altra delle sue chicche di razzismo: “Altro che Lombardia, il Sud è infettato”, ci avvisa. E nell’occhiello si legge quasi una nota di compiacimento quando scrive: “Il Covid dilaga nel Mezzogiorno”, per poi scrivere nel sommario che “sono bastati pochi contagi per mandare la sanità da Roma in giù in tilt”. Evidentemente il quotidiano diretto da Feltri (che preferisce dedicarsi alla crociata contro i monopattini nel suo editoriale) e da Pietro Senaldi, non dispone di calcolatrice. Basta andare, per esempio, ai dati di ieri, per constatare che la Lombardia, da sola, contava 1140 su 5724 casi di nuovi contagi (circa il del 20% di quelli registrati in tutta Italia). E il Sud “infetto”? Sommando quelli di Abruzzo (94), Molise (28), Puglia (184), Campania (664), Basilicata (42), Calabria (68) e Sicilia (285), il totale di nuovi casi registrato ieri è stato di 1365 (225 in più della sola Lombardia che “Libero” indica quasi come una eccellenza). Anche volendo fare un confronto con la popolazione residente e l’incidenza su questa dei contagi (uno dei refrain a difesa della Lombardia è di essere la regione più popolosa d’ Italia, con oltre dieci milioni di abitanti), il titolo di “Libero” si rivela la solita bufala. A fronte di quei dieci milioni, le regioni del Sud contano quasi il doppio dei residenti lombardi. E’ vero che i contagi stanno aumentando soprattutto in Campania, ma questo non vuol dire che “il Sud è infetto”. Ma tanto, si sa, a lavare la testa agli asini di “Libero” ci si rimette solo acqua e sapone…

Il tempismo di Libero che dice che il sud è infettato, quando la Lombardia supera i 1000 casi in 24 ore. La prima pagina di Libero di oggi, alla luce dei dati Covid di ieri, non può che risultare fuori luogo. Ilaria Roncone su Giornalettismo l'11/10/2020. “Il Covid dilaga nel Mezzogiorno. Altro che Lombardia, il sud è infettato”: questo il titolo da prima pagina dell’edizione di Libero oggi. Non mancano le puntualizzazioni su quanto siano bastati “pochi contagi per mandare la sanità da Roma in giù in tilt“. Che Libero non faccia titoli lusinghieri nei confronti del sud Italia lo sappiamo da sempre, ma oggi possiamo sottolineare quanto risulti ironica la prima pagina in virtù dei numeri coronavirus della giornata di ieri in Lombardia, in Campania e nel sud in generale.

Dati coronavirus Lombardia: solo ieri 1.140 nuovi contagi. Continua la crescita esponenziale dei nuovi contagi in Italia. Nella giornata di ieri sono stati registrati 5.724 nuovi casi positivi di Covid con 133.084 tamponi effettuati e 29 morti. Una crescita generalizzata dei contagi, certo, ma ieri la regione che ha pagato il prezzo più alto è stata proprio quella Lombardia che Libero contrappone al sud: 1.140 nuovi positivi con Milano città che ha fatto registrare oltre 300 nuovi casi.

Perché la prima pagina Libero sul sud infettato non ha senso. Anche il sud è in salita per quanto riguarda i dati coronavirus, con la Campania – in particolare – che vede il governatore De Luca iniziare a parlare della possibilità di lockdown Campania qualora il rapporto tra nuovi contagi e guariti dovesse diventare eccessivamente sbilanciato. I nuovi contagi in Campania ieri? 664, dato leggermente in calo rispetto ai giorni precedenti, seppure comunque alto. Chiariamolo: i contagi salgono ovunque, nessuna regione risulta da un po’ di tempo ormai a contagi zero; la crescita della curva è visibile ovunque e in ogni regione crea preoccupazione. Andando però a guardare ai numeri è evidente come il paragone fatto da Libero tra il sud e la Lombardia non sia propriamente corretto.

Coronavirus, Vittorio Feltri su Napoli: "La città va aiutata a non farsi del male, si rischia una catastrofe". Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. Quanto succede a Napoli preoccupa tutti, anche il sindaco De Magistris, il quale chiede invano che la Campania sia dichiarata zona rossa. In effetti la città è fuori controllo, come provano le immagini televisive e le varie fotografie giunte nelle redazioni dei giornali. Gli affollamenti sono impressionanti, il lungomare scoppia a causa della quantità mostruosa di persone che ivi si accalcano. Poi sussiste l'aspetto sanitario: gli ospedali sono pieni zeppi di gente che abbisogna di soccorso ed è noto che le strutture a disposizione dei medici non sono le più efficienti del mondo. Appare imprescindibile che il governo ci metta una pezza. Difficile pensare che Conte e il ministro Speranza non si accorgano della urgenza di intervenire allo scopo di impedire danni gravi. Napoli è una metropoli complessa e delicata, non può essere mollata allo spontaneismo dei propri abitanti che spesso non vivono bensì sopravvivono tra mille difficoltà. De Magistris ha ragione allorché si straccia le vesti in attesa che il premier si decida ad assumere provvedimenti adeguati. Il rischio è che la situazione sfugga di mano alle autorità, ammesso non sia già sfuggita loro. Sarebbero guai seri e ardui da affrontare. Indubbiamente il tessuto sociale e produttivo dei partenopei non è dei migliori e occorre stare attenti a non inibirlo con divieti ferrei riguardanti le attività alle soglie del lecito, altrimenti la popolazione finirebbe in ginocchio, addirittura farebbe la fame. Eppure qualche misura restrittiva risulta essenziale al fine di tutelare la salute pubblica. I napoletani vanno aiutati a non farsi del male. Abbandonarli alle loro intemperanze sarebbe una catastrofe. Purché non si esageri con i divieti che già hanno danneggiato varie Regioni abbastanza disciplinate. In sostanza, l'avvocato del popolo, i cui consensi sono in caduta libera, come dimostrano i sondaggi, o si affretta a raddrizzare la baracca o non durerà molto a Palazzo Chigi, travolto come è dai numeri dei contagiati e dei morti, da nessuno controllati con esattezza ma in base ai quali il presidente del Consiglio ha pedestremente stabilito la colorazione delle Regioni. Egli, se desidera durare ancora un po', non può esimersi dal darsi una calmata e una regolata.  

Filippo Facci sul mancato lockdown in Campania: "Tutti temono reazioni, guai trattarli come cittadini normali". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 12 novembre 2020. La Campania dovevano farla rossa scarlatta, da subito, o viola funerario: l'avevano già capito tutti da un pezzo, l'aveva detto persino il sindaco Luigi De Magistris (più che altro per inimicizia col presidente della Regione Vincenzo De Luca) e però no, guai: mica si può trattare la Campania come se fosse una regione normale, mica puoi trattare i suoi cittadini come se fossero cittadini normali con un senso civico normale: bisognava aspettare un po', fare una riunione a parte, mandare i tecnici del Ministero per controllare, accorgersi del segreto appunto di Pulcinella (cioè che i dati erano farlocchi, nella miglior tradizione contraffattoria partenopea) e magari, adesso, occorre pure colorare altre regioni per mimetizzare il progressivo arrossamento di una Campania che, nel novembre 2020, toh guarda, ha scoperto il Covid. I napoletani, di mascherine ed assembramenti, se ne sono sempre bellamente fottuti - non tutti i napoletani: e che noia doverlo sempre precisare - ma bastava passare a Napoli nell'estate e nel primo autunno per percepire il solito mondo a parte, dove davanti a Borgo Marinari si vedevano ragazzi in tre in motorino senza casco - anche adesso De Magistris ha dimenticato di chiudere il lungomare - e tu figurati a dirgli di mettere la mascherina. Cioè: le regole anti-assembramento, in Italia, ci sono praticamente da marzo: ora le hanno scoperte per esempio anche a Giugliano (125mila abitanti, comune non capoluogo di provincia più popoloso d'Italia) dove le ordinanze contro gli assembramenti le hanno firmate soltanto l'altro ieri perché il neo sindaco ha scoperto che «gli ospedali sono in grande sofferenza perché ormai totalmente saturi, e il personale medico ed infermieristico è piegato da turni massacranti». Chi l'avrebbe immaginato: cosicché ora i minori, dopo le 18, potranno circolare solo accompagnati, e le piazze saranno chiuse per l'intero weekend, sarà vietato fumare in pubblico (chissà che c'entra) e niente spiagge di sabato e domenica. Poi ci sono i sindaci dell'orrido casertano, zona dove le mascherine servirebbero da decenni per la puzza dei mucchi di spazzatura che ti fa deragliare per strada: ecco, nel casertano, per far rispettare le regole, i sindaci chiedono l'intervento dell'esercito.

PARACULATE. Ovviamente i paraculi ondeggiano e se ne lavano le mani (senza disinfettante) e dicono anche: «Comprendiamo la volontà di voler evitare assolutamente un nuovo lockdown generalizzato e lasciare che siano le autorità locali a scegliere quali restrizioni aggiungere ma se noi sindaci variamo ordinanze abbiamo bisogno dell'esercito e di più forze dell'ordine affinché queste regole siano fatte rispettare». Se per «queste» regole serve l'esercito, per altre forse servirebbero i Marines. «È impensabile credere che le Polizie Municipali possano da sole realizzare un capillare controllo ci ritroviamo bersagliati di critiche, a volte anche dileggiati, e questo ci ferisce». Traduzione: la possibilità che nel casertano la cittadinanza comprenda e rispetti le regole, senza il monito di gente armata, non viene contemplata. «Le aziende sanitarie locali sono sotto stress e hanno pesanti carenze di organico, ma riteniamo inaccettabile che le comunicazioni di nuove positività vengano effettuate dopo giorni, visto che questo ritardo si ripercuote sull'attivazione dei servizi di assistenza; ciò che non può essere più tollerato è il ritardo nell'esecuzione dei tamponi, soprattutto di guarigione, cui spesso bisogna aggiungere giorni e giorni di attesa per la comunicazione dell'esito. Abbiamo registrato segnalazioni di mancate risposte del 118, lunghe attese in ambulanza e auto in attesa di un posto in ospedale». Echi da una presunta zona gialla: sono sempre i sindaci a parlare, i parvenu del Covid-19. Ma non basta che nel casertano (se preferite lo chiamiamo agro-aversano) si registri oltre il 40% dei casi dell'intera provincia, ossia 5.301 positivi su 12.320: per disciplinare la cittadinanza occorre spianare le mitragliette dell'esercito. E non basta, in Campania, chiedere i dati: occorre inviare i tecnici del ministero per una ricognizione sui dati reali. Neanche davanti all'ufficio immigrazione di Napoli (la Questura, cioè) sono capaci di far rispettare un minimo i distanziamenti: lo denuncia il sindacato di Polizia. E poi? Poi arriva il drammatizzatore per eccellenza, Luigi De Magistris, un altro che pare sia arrivato ieri: «La situazione è sottostimata con i dati formali i vertici della Asl dicevano che il tempo medio di arrivo di un'ambulanza è intorno ai 20 minuti, un tempo non drammatico: io ho relazioni delle forze di polizia secondo cui l'ambulanza per un incidente non arriva prima di 40-60 minuti. I laboratori che fanno i tamponi dicono che i dati da loro elaborati non risultano nei dati ufficiali, dove si parla di 600 terapie intensive di cui 186 occupate, ma poi ci scrivono i medici e dicono che non riescono a trovare terapie intensive per i pazienti. Quindi c'è qualcosa che non va, i conti non tornano». I conti non tornano a tutta l'Italia, ma è di adesso anche la lagna degli esercenti napoletani che al pari degli altri hanno vissuto e vivono in un altro pianeta, dove i negozi erano già pronti per il Natale: addobbi esposti in piazza Mercato coi commercianti a frignare, ora, come se stessero sbarcando gli alieni: «Se ci chiudono rischiamo il fallimento», «siamo in questa piazza da quasi un secolo», «già la chiusura alle 18,30 ci aveva danneggiato», «se la merce pagata resterà invenduta non so come faremo».

«UN'ECONOMIA PARTICOLARE». Non sapevano di essere in Italia, dove il problema sussiste da marzo: Napoli non è Italia, lo sanno anche loro. Sono abituati a cavarsela sempre. Quindici giorni fa il presidente della Regione, Vincenzo De Luca, annunciava un imminente lockdown perché gli ospedali erano al collasso: poi ha smesso di annunciare. La scena se l'è presa tutta De Magistris, nemico politico di De Luca ed eterno elemosinatore di denari anche per l'ignobile causa del lavoro nero: «Napoli ha un'economia particolare, anche circolare, fatta di sommerso, di lavoro ad ore, di una serie di attività che sfuggono alle statistiche ordinarie in tema di lavoro e di produzione». Sfuggono. Come i dati reali sul Covid. Ieri il presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro, ha detto una frase da rileggere dieci volte: «Riteniamo validi i dati della Campania ma approfondimenti sono in atto per cogliere aspetti che potrebbero completare una analisi che è in corso». Che cazzo vuol dire? Forse che i dati non contemplavano che tra i medici di famiglia di Napoli e provincia risultano 6 morti per Covid (da settembre) oltre a 20 contagiati e due appena dimessi. Forse che i dati sono vecchi e parziali mentre i numeri veri galoppano, come ha ammesso la Federazione dei Medici dove ogni medico di famiglia segue almeno 7 pazienti in sorveglianza domiciliare, e sono assediati nei loro studi dove non hanno la minima protezione. Loro, la zona rossa, la invocano: «Bisogna bloccare tutto per frenare il contagio». In sostanza, va tutto al contrario come al solito. La Lombardia è zona rossa, ma si vive. La Campania è zona gialla, ma non si vive. Non più.

Filippo Facci provoca i napoletani: “Sono stato a Napoli, sono sopravvissuto”. Da Claudia Ausilio il 5 settembre 2020 su vesuviolive.it. Filippo Facci colpisce ancora, ma questa volta con un post provocatorio sui social. Il giornalista lombardo ha trascorso tre giorni a Napoli ed ha postato su Facebook le sue foto in giro. “Sono stato a Napoli tre giorni. E soprattutto sono sopravvissuto. Non è stato sempre facile“, ha scritto. Le foto scattate hanno mostrato tutta la bellezza e le eccellenze di Napoli, in giro per la città, in barca e anche in un caseificio. Ma altre immagini raccontano un’altra faccia del territorio, con zone degradate ed abbandonate. I commenti al post sono quasi tutti ironici, i napoletani hanno colto il senso simpatico e “provocatorio” delle parole di Facci, non sempre dalla parte dei meridionali.

Vittorio Feltri a L'aria che tira: "In Campania lavoro prevalentemente nero. Chiudere tutto per coronavirus significa far morire la gente". Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. Coronavirus. Sempre coronavirus. Il tema tiene ovviamente banco a L'aria che tira, il programma di approfondimento del mattino in onda su La7. Ospite in collegamento il direttore di Libero, Vittorio Feltri, che si presta ad alcune considerazioni sul Covid e, soprattutto, sul caso-Campania e la peculiare "zona gialla" ancora assegnata alla regione (mentre la Lombardia è zona rossa ormai da giorni). "Non sono né medico né infermiere, non mi intendo di questa materia - premette il direttore -. Sono riuscito a non prendere io il virus e già questo mi dà una certa soddisfazione: spero di riuscire ancora a combatterlo". Dunque, il focus del discorso si sposta sulla politica: "Però è evidente che in alcune regioni sta accadendo d tutto. Napoli e tutta la Campania sono delle zone particolari, c'è un lavoro prevalentemente nero, che diventa quindi una risorsa e non una violazione della legge. Fermare tutto significa far morire di fame molta gente. Allora la scelta è: o morire di fame o morire di virus. Tertium non datur: non è semplice prendere delle decisioni. Ma fa abbastanza sorridere, amaramente, il fatto che la Lombardia sia zona rossa mentre la Campania, che sta vivendo un momento drammatico, sia zona gialla. Come se fosse una festa continua", conclude Vittorio Feltri.

Vittorio Feltri e l'anziano morto al Cardarelli: "Solo a Napoli si crepa nel cesso di una corsia. In un angolo, come uno straccio". Libero Quotidiano il 14 novembre 2020. Non ho visto né voglio vedere il filmato messo in rete da mano ignota che mostra le immagini agghiaccianti di un vecchio morto in un cesso dell'ospedale Cardarelli di Napoli. Il quale anziano, che soffriva per il Covid, si trovava in attesa di cure al Pronto soccorso, gettato in un angolo come uno straccio. Egli a un certo punto si è alzato dal proprio giaciglio e si è recato nella toilette, da cui è uscito defunto. Non intendo avviare la caccia a chi ha trascurato il povero individuo, di cui non conosco la storia: mi limito a riferire l'accaduto, che dimostra in modo drammatico la situazione napoletana in particolare e campana in generale. È evidente che le strutture sanitarie partenopee non sono in grado di fronteggiare l'emergenza, significa che qualcuno non ha provveduto negli ultimi sei mesi a dotare i nosocomi delle attrezzature necessarie per combattere un virus in libera uscita da parecchio tempo. Forse Napoli non si aspettava che il morbo la aggredisse nella misura in cui ha attaccato la Lombardia, si era illusa di farla franca pensando che il Nord, dato il suo stile di vita, pagasse per colpe ataviche. Invece il Covid non è razzista e colpisce chiunque gli arrivi a tiro, senza distinguere le sue vittime. Ma il governo ha dormito. Doveva prevedere che il Golfo non sarebbe stato risparmiato, viceversa si è dedicato alla distruzione di Attilio Fontana, quasi fosse l'untore per eccellenza, e lo ha fatto con un impegno degno di miglior causa. Cosicché oggi la ex capitale della cultura europea trema di paura, teme di crepare di polmonite bilaterale oppure di fame. Tertium non datur. Nonostante lo sfacelo in atto l'esecutivo tarda a dichiarare la regione in questione zona rossa, perché ha paura di una rivolta dei cittadini già provati da un assetto sociale precario, dalla mancanza di lavoro e di risorse. Comprendiamo la titubanza del premier, ma gli ricordiamo che l'incertezza è la strada più veloce per giungere al fallimento. E la dipartita del vecchio avvenuta nel cesso è un segnale di arretratezza da non sottovalutare. Una cosa simile poteva accadere soltanto a Napoli che non sta a cuore dei governanti. 

Cardarelli, il linguaggio sprezzante di Feltri: “Il vecchio morto nel cesso è un segnale di arretratezza”. Veronica Ronza il 13 novembre 2020 su vesuviolive.it. Vittorio Feltri, del quotidiano “Libero”, torna all’attacco e dedica un articolo alla vicenda dell’uomo morto al Cardarelli. Parla di “cose turche” e titola “Solamente a Napoli si può crepare nel cesso in corsia”. Inutile dire che il collegamento “Napoli” e “morire in bagno” non regge. Si è trattato di uno spiacevole episodio che avrebbe potuto coinvolgere qualsiasi città. Tra l’altro non è ancora stata fatta chiarezza sulla vicenda, essendo in contrasto le versioni date da familiari, presenti e direttore generale del nosocomio. Eppure, Feltri sentenzia: “Non ho visto né voglio vedere il filmato messo in rete da mano ignota che mostra le immagini agghiaccianti di un vecchio morto in un cesso al Cardarelli. Il quale anziano, soffriva per il Covid, si trovava in attesa di cure al Pronto Soccorso, gettato in un angolo come uno straccio.” In realtà, l’autore del video non è nemmeno “ignoto”, al contrario si è palesato ed anche scusato con i familiari della vittima. Ma il giornalista continua: “Egli a un certo punto si è alzato dal proprio giaciglio e si è recato nella toilette da cui è uscito defunto.” “Non intendo avviare la caccia a chi ha trascurato il povero individuo, di cui non conosco la storia. Mi limito a riferire l’accaduto che dimostra in modo drammatico la situazione napoletana in particolare e campana generale. Significa che qualcuno non ha provveduto a dotare i nosocomi delle attrezzature necessarie per combattere un virus in circolo da parecchio tempo.” Una situazione che realmente è critica ma, del resto, in questo periodo di piena pandemia, lo è anche nel resto d’Italia. Ma, ancora una volta, il quotidiano “Libero” e il direttore Vittorio Feltri marciano sulle situazioni drammatiche legate alla nostra Regione, come il tragico episodio del Cardarelli. Sul Governo, scrive: “Nonostante lo sfacelo in atto l’esecutivo tarda a dichiarare la Campania zona rossa. Ha paura di una rivolta dei cittadini già provati da un assetto sociale precario. Dalla mancanza di lavoro e risorse. Comprendiamo la titubanza del premier ma ricordiamo che l’incertezza è la strada più veloce per giungere al fallimento. E la dipartita del vecchio avvenuta nel cesso è un segnale di arretratezza.” “Il Governo ha dormito. Doveva prevedere che il Golfo non sarebbe stato risparmiato. Viceversa si è accanito su Fontana, quasi fosse l’untore per eccellenza. E lo ha fatto con un impegno degno di miglior causa. Cosicché oggi la ex capitale della cultura europea trema di paura, trema di crepare di polmonite bilaterale oppure di fame.”

Veronica Ronza. Laureata in comunicazione presso l'Università degli studi di Salerno. Divoratrice di libri e appassionata di scrittura.

La Pagliuzza e la Trave negli occhi dei razzisti.

Paola Fucilieri per ilgiornale.it il 10 novembre 2020. «Serve l'intervento dell'Esercito e della Protezione civile, servono forze esterne, l'ho chiesto alla Regione: adesso l'epicentro della pandemia siamo noi». In caduta libera. Ieri, nel giorno in cui l'Ordine nazionale dei medici ha chiesto al Governo il lockdown totale per tutto il Paese per contrastare la diffusione di questa seconda ondata di coronavirus, il caso dell'ospedale San Gerardo di Monza e della sanità brianzola in genere assurge al ruolo di «nuova Codogno» o «nuova Bergamo». E proprio per ciò che la cittadina lodigiana e il capoluogo orobico avevano rappresentato all'inizio della pandemia: quello monzese senza dubbio in questo momento rappresenta il presidio medico dell'area italiana più massacrata dalla pandemia. «La capacità di mantenere attivo un ospedale dipende dall'equilibrio tra entrate e uscite di pazienti. Questo equilibrio da circa una settimana è stato progressivamente compromesso» ha spiegato ieri senza mezzi termini il direttore generale dell'Azienda ospedaliera di Monza, Mario Alparone, lanciando l'allarme sulla situazione in cui versa il San Gerardo di Monza, insieme a quello di Desio, sotto pressione da settimane per i ricoveri di malati di Covid19. Il motivo del «collasso» secondo la lucida analisi di Alparone sarebbe duplice: «Il primo - spiega - dipende dal fatto che i trasferimenti di pazienti che prima venivano assorbiti dagli altri ospedali della Brianza ora è venuto meno e diventa urgente che si attivino anche verso ospedali meno colpiti dal nostro. Inoltre - aggiunge - nel frattempo abbiamo sì acquisito 40 medici, 45 infermieri di comunità e 34 infermieri a tempo determinato, ma abbiamo anche 340 operatori sanitari positivi a casa: un numero straordinario. Il personale era sufficiente in tempo di pace, non lo è più invece adesso in una situazione che non esito a definire eccezionale». Il direttore generale si aspetta «di essere supportato come noi abbiamo supportato gli altri in fase uno». Infatti al culmine dell'emergenza Covid-19 la stragrande maggioranza dei malati che vennero accolti dal San Gerardo di Monza provenivano da tante altre zone della Lombardia. E furono davvero tantissimi, sintomo di grande «generosità» da parte della struttura sanitaria brianzola. Anche per questa ragione adesso che i posti letto per i malati di coronavirus al San Gerardo sono esauriti, diventa improrogabile l'intervento in soccorso da parte di quegli altri presidi ospedalieri lombardi che possono dare il loro contributo in questa direzione. Al momento nell'ospedale sarebbero 450 i malati dei quali 43 ricoverati in terapia intensiva, le barelle dei malati sono sparse in tutti i reparti, le ambulanze vanno e vengono e se i «nuovi arrivi» di contagiati sono al ritmo di una quarantina al giorno si parla, seppure non ufficialmente, di una quarantina di morti nel giro dell'ultima settimana. Inoltre tutti i codici verdi da alcuni giorni vengono automaticamente dirottati verso altre strutture.

Dagospia il 9 novembre 2020. Selvaggia Lucarelli su Facebook: Temo non sia ben chiaro a tutti- o forse sì- cosa sta succedendo a Milano: qui ci sono talmente tanti positivi in giro che ormai chiunque ha contatti con positivi. Vi giuro: siamo impestati. Io non so quanta gente positiva conosco o so che s'è presa il Covid. E onestamente penso che presto o tardi toccherà anche a me. Si è deciso che il tracciamento non esiste più e tutti o quasi fanno finta di nulla perché parliamoci chiaramente: che fai? Ti chiudi 14 giorni in casa, poi esci, entri in contatto con un altro positivo e ti richiudi? Pure se stai bene? Ma va. Anche la persona più rigorosa non può gestire questa situazione con il buonsenso che si adotterebbe in altre situazioni. Intendiamoci: per me può anche essere una decisone presa a tavolino per andare avanti, ma deve essere chiaro che sono saltati tutti i protocolli, anche in buona parte dei posti di lavoro. Si fa finta di nulla. Al massimo un tampone rapido, che per giunta ha un'alta percentuale di fallibilità, e tutto come prima. Ma proprio al massimo. Dunque la domanda è: se abbiamo deciso che si convive così col virus, che senso ha questo finto lockdown che penalizza solo ristoranti e pochi altri se tanto ci infettiamo tutti al lavoro, in famiglia, a scuola? Davvero pensate che i milanesi (e non solo i milanesi) possano vivere in perenne auto-quarantena perché entrano più volte a settimana in contatto con un positivo? E poi, se chiedo il tampone e devi aspettare 10 giorni per farlo, sono positivo e nessuno mi fa più il tampone di controllo allo scadere dei 14 giorni, che faccio, sto un mese a casa? Davvero è così pieno di kamikaze magari asintomatici che entrano in questa giungla di sciatta burocrazia? Ve lo dico io: no. Dunque lo dico chiaro: tutto questo non può funzionare. E se lo scopo era renderci liberi e belli a Natale, beh, il rischio è che a Natale staremo peggio. O al massimo in questo limbo di autogestione sanitaria in cui ognuno pensa per sé, e ormai pure legittimamente. Spero di sbagliarmi.

 In viaggio sulla metro di Milano: assembramenti e indicazioni ignorate, all’ora di punta è il caos.  Simone Gorla il 7 ottobre 2020 su Fanpage. Pubblicato da Davide Arcuri. A Milano è polemica sulla sicurezza dei mezzi pubblici dopo le denunce sugli assembramenti nelle stazioni e a bordo dei treni della metropolitana. Fanpage.it ha documentato la situazione all’ora di punta: tra vagoni pieni, passeggeri ammassati, indicazioni ignorate, sembra di essere tornati alla normalità pre-covid. Treni della metropolitana affollati all'ora di punta. Banchine con decine di passeggeri in attesa dove il distanziamento diventa impossibile. A Milano si torna a discutere della sicurezza sul mezzi pubblici dopo la denuncia del consigliere comunale Alessandro De Chirico, di Forza Italia, ha postato due foto sul suo profilo Facebook che mostrano i viaggiatori ammassati sulla banchina della stazione di Milano Cadorna e sulla M1 diretta a Sesto San Giovanni. Atm ha affermato che non si può più parlare di affollamento, perché non è più previsto l'obbligo di distanza di un metro, e assicurato che la capienza dell'80 per cento è rispettata. Per verificare la situazione, siamo andati a fare un giro nella metro di Milano, all'ora di punta, per documentare la situazione. Prendiamo la prima metro alle ore 8 dalla stazione Lotto in direzione Sesto San Giovanni. La banchina è vuota e anche all'interno del vagone ci sono poche persone. Qualche posto è disponibile e lo spazio è abbondante. Anche nel convoglio successivo la situazione è simile, qualche persona in più, ma spazio e distanziamento ancora accettabili. Arriviamo alla stazione di Cadorna, protagonista della foto che ha scatenato le polemiche. Sulla banchina c'è ancora poco traffico, anche se i flussi di entrata e uscita non sono per niente regolati. La maggior parte dei passeggeri infatti non rispetta la segnaletica posizionata a terra. Attorno alle 8.20, mentre l'ora di punta si avvicina, il traffico inizia a farsi più intenso. All'arrivo del treno, sulla banchina, i passeggeri in partenza si mischiano con quelli in arrivo senza una separazione chiara e senza distanziamento. Sulla metro M2 in direzione Gessate ci spostiamo verso Milano Centrale. Anche in questo caso la capienza sembra rispettata e una volta arrivati in stazione la troviamo semivuota. Forse, complice anche la bella giornata, molti hanno deciso di muoversi in bicicletta e monopattino ed evitare la metropolitana. Si sono intanto fatte le 8.45 e torniamo alla stazione Cadorna. È l'ora più temuta per tutti i pendolari, ed effettivamente la situazione cambia. Fermata dopo fermata il vagone si riempie, creando un vero e proprio assembramento. Arrivati alla stazione Garibaldi, il treno si svuota e torna a riempirsi in pochi secondi. Non solo non viene rispettato il distanziamento, ma ci si ritrova completamente ammassati, in questo caso, sicuramente, la famosa "capienza massima dell'80%" non viene rispettata. Classiche scene da metropolitana "pre-Covid", sembrano essere di nuovo la normalità. (ha collaborato Davide Arcuri)

La Pagliuzza e la Trave negli occhi dei razzisti.

Piazze e parchi ancora invasi dalla gente Zampa: "Controlli o interviene l'esercito". Il sottosegretario chiede a tutti i sindaci di usare il pugno di ferro. Tiziana Paolocci, Martedì 10/11/2020 su Il Giornale. Il «lockdown leggero» serve a poco, al pari dei «controlli morbidi», che non funzionano come deterrente. Strade, piazze e parchi di Milano, Roma, Firenze, Napoli e Bari nello scorso weekend sono state prese d'assalto da centinaia di persone. Scene tristemente note, che ci si augurava di non vedere più in queste ore in cui si rincorrono gli appelli dei medici, che chiedono maggiore responsabilità. «Non dimentichiamoci di chi muore, serve senso etico da parte di tutti - dice Flavia Petrini, presidente Siaarti -. Come cittadino non credo che alcune cose siano sopportabili». Sabato e domenica a Milano, in piena zona rossa, sembra una giornata pre-Covid, con assembramenti ovunque, code davanti ai negozi e parchi gremiti. Identica fotografia nella capitale, mentre sul lungomare laziale sembrava luglio, con i ristoranti pieni e gente in giro senza mascherina. «Nel weekend abbiamo assistito a scene di affollamento assurde, sembra che troppi non abbiano piena consapevolezza della tragedia che stiamo rischiando» ammette il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Furioso il governatore del Veneto Luca Zaia: «Ogni struttura organizzata ha un punto di non ritorno, abbiamo un sistema sanitario che tiene ma oltre un certo limite non va e guardando le foto del fine settimana penso ai prossimi dieci giorni». «Tra ieri e oggi abbiamo avuto nella provincia di Firenze 1500 nuove persone contagiate, ma a giudicare dalla folla di ieri nelle piazze di Firenze c'è ancora qualcuno che sottovaluta questa terribile pandemia», fa eco il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Via Sparano, a Bari, era invasa dal popolo dello shopping. «Queste immagini sono uno schiaffo alle persone ammalate e agli imprenditori, ma poi tutti corriamo a casa a indignarci del mancato rispetto delle regole o delle restrizioni», commenta il sindaco di Bari Antonio Decaro. Il primo cittadino di Benevento, Clemente Nastella, invece, punta il dito contro il collega di Napoli, Luigi de Magistris, che non vuole sentirne tra l'altro di chiudere il lungomare, chiedendo di muoversi per limitare la movida nella sua città e adottare provvedimenti nell'interesse di tutti. I controlli messi in atto non bastano a convincere gli italiani a uscire responsabilmente. Le Forze di Polizia nella scorsa settimana hanno controllato 484.524 persone (134.357 nel weekend) e di queste 3.942 hanno ricevuto sanzioni amministrative per il mancato rispetto delle misure di prevenzione, mentre 82 sono state denunciate per non aver violato la quarantena. Tra venerdì e sabato passate al setaccio anche 21.816 attività ed esercizi commerciali: quasi 2mila sanzionate e per 64 sono scattati i provvedimenti di chiusura. Ma non basta ancora. «I dati parlano chiaro - avverte il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa -. I sindaci devono mandare controlli massicci e se non ce la fanno chiedano aiuto all'esercito. Appare chiaro che servono più controlli. Stanno per arrivare misure più dure, ma alla fine resta solo il lockdown».

Campania in prima pagina su “Libero”: “La ruota gira. Canta Napoli e si infetta, ora il lanciafiamme fa cilecca”. Veronica Ronza il 9 ottobre 2020 su vesuviolive.it. Il quotidiano “Libero”, negli ultimi giorni, ha posto particolare attenzione alla questione Covid in Campania. Ormai è risaputo che la Regione è una delle più colpite in fatto di Covid-19. Situazione che desta dispiacere ai più ma, probabilmente, non ai giornalisti della testata in questione. Già Angelo Forgione, nella giornata di ieri, ha utilizzato il suo account Facebook per evidenziare le parole poco carine di Renato Farina, co-fondatore della testata insieme a Vittorio Feltri. Il suo pezzo, infatti, ha come titolo “La Campania colpita dal virus adesso ricorda la Lombardia” e come occhiello “La ruota gira”. Inoltre, si legge: “Quando il Covid infuriava al Nord, molti al Sud infierirono su milanesi e bergamaschi. Ora che l’emergenza tocca a loro, il Pirellone apre ai napoletani l’ospedale in Fiera. Il gesto dei lombardi alla Prima Crociata anti-Covid è una magnifica offerta di fraternità. La piccola vendetta lombarda è il far del bene. A questo punto, dopo esserci presi la soddisfazione della memoria, pace.” A rincarare la dose, la prima pagina del numero di oggi in cui sovrasta il seguente titolo: “Canta Napoli e si infetta. Ora il lanciafiamme di De Luca fa cilecca.” E ancora si descrive in maniera distorta ciò che sta accadendo, infierendo ancor di più su una popolazione già provata: “Per le vie del capoluogo campano la gente si accalca come se nulla fosse, le terapie intensive della Regione si riempiono e lo ‘sceriffo’ è impotente.” Del resto, è parte della linea editoriale del quotidiano “Libero” la critica al Sud, dunque non poteva non essere rimarcato il peggioramento della situazione Covid in Campania. Proprio nel pieno della pandemia, il direttore editoriale Vittorio Feltri, nonostante l’emergenza che ha colpito e messo in ginocchio tutta l’Italia, si impegnava ad accusare di inferiorità i meridionali nei salotti televisivi.

Quei pagliacci di Libero che deridono il Sud infetto. Da thewam.net il 10 ottobre 2020. Un altro attacco gratuito da giornali del nord al meridione. Dopo «De Luca uomo di merda, a fanculo i campani», scritto su Affari Italiani, questa mattina Libero titola: «Il Covid dilaga al Sud. Altro che Lombardia, il Sud è infetto». Con un tono dispregiativo e proprio il giorno in cui la Lombardia fa il doppio dei contagi della Campania...

Il quotidiano Libero deve avere un problema patologico con il Sud e i Meridionali. Articolisti e titolisti fanno a gara a chi è più becero, alimentando spaccature in un Paese che è in bilico, travolto da una emergenza sanitaria senza precedenti. Un po’ come il tipo di Affari Italiani che oltre a definire De Luca “un uomo di merda” (vero giornalismo d’altri tempi…), si è sentito in dovere di mandare “a fanculo” i campani. Una volta certe gente non avrebbe avuto diritto di parola neppure al bancone di un bar. Ora scrive sui giornali.

Il Sud è infetto, altro che la Lombardia. Ma torniamo a Libero, la perla quotidiana è questa: «Il Covid dilaga nel Mezzogiorno. Altro che Lombardia, il sud è infettato». Ora, che il Covid dilaga al Sud è vero, purtroppo: ma perché questo paragone con la Lombardia, oltretutto proprio nel giorno in cui proprio la Lombardia fa registrate 1.100 casi, ovvero 500 contagi in più della Campania, che è seconda.

Una informazione che fa schifo. Come fosse una gara, una competizione tra Regioni. Una specie di Giochi senza frontiere del coronavirus e Libero il quotidiano di riferimento degli ultrà settentrionali. In tutta franchezza: siamo schifati da questi atteggiamenti. Siamo schifati da questa informazione. Siamo schifati da chi continua a contrapporre, in modo anacronistico, il Nord contro il Sud. La presunta efficienza contro il presunto fannullonismo para mafioso. Basta.

Solo per dire che la nostra sanità non è come quella lombarda. Libero ha fatto quel titolo per poter dire, con esibita soddisfazione: «Sono bastati pochi contagi per mandare in tilt la sanità da Roma in giù». E ribadire come invece il sistema lombardo è sì stato messo in crisi in primavera, ma a fronte di una vera emergenza. Embè, lo sappiamo, lo sanno tutti che la sanità lombarda è più efficiente di quella al Sud. E allora? Si vince un premio, ci si sollazza su un giornale a osservare le difficoltà meridionali nell’intima speranza di assistere a una tragedia? Per fare cosa, dire a tutti che il “sud piagnone” si è piegato davanti al Covid? Libero, così come il Giornale, non sono nuovi a uscite di questo tipo. Il tiro al meridionale viene subito dopo il tiro all’immigrato, ma sta guadagnando terreno. Evidentemente l’immigrato invasore non interessa più.

Ancora una risposta a De Luca. Forse bruciano ancora, e dopo mesi, quelle dichiarazioni di De Luca («al nord non hanno chiuso e ora contano i morti»), o l’aver assistito impotenti al crollo di tante certezze, come l’efficientismo settentrionale, messo in ginocchio da un microscopico virus, o ancora fa male quel pezzo di El Pais sulla «fine del modello lombardo», proprio a causa della risposta alla pandemia. A dire il vero capire le ragioni di tanta beceraggine, di questa ignobile volgarità che imbratta i giornali, non ci interessa per nulla. Restano lì, titolacci e pezzacci scritti per spaccare il Paese, magari ci scappa anche una ospitata in un talk show di terza serie. Nel frattempo l’Italia, tutta intera, soffre dello stesso male, della stessa emergenza sanitaria e della stessa crisi economica. Solo qualche pagliaccio dell’informazione può pensare ad altro.

Le fake news su Attilio Fontana di Travaglio e Report che alimentano il clima d’odio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Per il pubblico ministero Alberto Nobili, che lo ha interrogato venerdi scorso, è persona offesa. Per il Fatto quotidiano e la trasmissione Report è una sorta di faccendiere in perenne conflitto d’interessi. Per Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, non c’è pace, da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19. Marco Travaglio lo ha messo nel mirino e ogni giorno ne chiede le dimissioni, se non è proprio possibile l’arresto. E due giorni fa si è fatto dare in prestito dai suoi amici della trasmissione scandalistica Report una finta notizia su un conflitto di interessi nella speranza che qualche procuratore voglia aprire un fascicolo e indagare Attilio Fontana. Speranza presto esaudita visto che secondo indiscrezioni la Procura di Milano ha aperto un’indagine conoscitiva, senza ipotesi di reato né indagati. Contemporaneamente sono apparse sui muri di Milano scritte del tipo “Fontana assassino” (rivendicata dai Carc, comitati di appoggio alla resistenza comunista), oppure “Fontana assassino, Sala zerbino”, che viene attribuita a un centro sociale di nome Zam. E il legale della Regione Jacopo Pensa ha anche consegnato al pm Nobili un dossier di trenta pagine intitolato «Clima d’odio», tanto per chiarire di che cosa si tratti. Non proprio una situazione rilassante per uno che da tre mesi sta affrontando la tragedia di malati e morti come mai si era visto, e la marea montante di revanscismo che sale da Scidda e Cariddi verso la Regione più popolosa, più progredita e più colpita d’Italia. Lo scoop di Report è – si può dirlo? – una vera stupidaggine. E l’uso che ne viene dato dal Fatto, cui è stata concessa in esclusiva graziosamente l’anticipazione, anche per aumentare l’ascolto alla trasmissione di ieri sera, una vera porcata. Soprattutto nei confronti di una persona unanimemente (anche dagli stessi cronisti di Report, ci pare) ritenuta per bene. Lo “scandalo” si snoda tra il 16 aprile e il 20 maggio. Nei giorni in cui erano introvabili i presidi sanitari e il governo aveva già fatto pasticci con le mascherine, l’Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia, lancia un invito per la fornitura di camici idrorepellenti e altri indumenti di presidio sanitario. E contemporaneamente molte aziende lombarde iniziano a riconvertire le proprie attività per dare una mano, per solidarietà. Chi si mette a cucire mascherine, chi produce camici e cappellini. All’invito di Aria rispondono tre aziende, una delle quali amministrata dal cognato di Fontana, Andrea Dini. La Centrale acquisti della Regione emette fatture che nel giro di un mese vengono però stornate, perché la società Dama Spa aveva chiarito dal primo momento di aver avuto intenzione, come già altri come Giorgio Armani, di fare una donazione dei camici. Del resto la stessa società Dama non era nuova a questo tipo di gesti, visto che aveva già versato 60.000 euro al Fondo per le emergenze della Regione e aveva fatto diverse donazioni agli ospedali della provincia di Varese. In ogni caso non un euro dei cittadini è entrato nelle sua casse, anzi ne sono usciti parecchi. Ma che cosa stuzzica la fantasia sospettosa di Travaglio? Il fatto che Fontana non ne sapesse niente, prima di tutto (ah, ma allora è come Scajola!) e il lasso di tempo trascorso tra l’invito di Aria e lo storno della fattura. La spiegazione è stata data ed è molto banale, l’assenza del Ceo in quei giorni dall’azienda. In ogni caso l’inchiesta di Report è stata avviata “dopo”, quindi quale è il problema? È sempre il solito: manette manette! Un po’ di scandalismo. Un bel soffiare su quel fuoco pericoloso che si sta sviluppando, tanto da far preoccupare lo stesso Presidente Mattarella, soprattutto nelle regioni del sud, nei confronti dei cittadini lombardi, tanto da far chiedere l’istituzione di una sorta di apartheid della regione più produttiva d’Italia, considerata anche la più contagiosa. Lo si è visto fin dall’articolo di Gad Lerner (che giustamente si è poi guadagnato un passaggio al Fatto quotidiano) su Repubblica del 4 aprile in cui accusava la Regione Lombardia di aver compiuto una strage al Pio Albergo Trivulzio. Si è poi scoperto che le inchieste sulle Rsa sono 40 in tutta Italia e che i dati dei contagi e delle morti nelle case di riposo degli altri Paesi europei erano ben più elevati di quelli lombardi. Poi c’è stata la vicenda del reparto terapia intensiva alla Fiera di Milano costruito con fondi privati in quindici giorni nel momento dell’emergenza più tragica, irriso da Travaglio perché, per fortuna, la situazione è poi migliorata e non c’è stato bisogno di riempirlo. Poi la campagna per la mancata istituzione della zona rossa nel bergamasco, quasi come se spettasse alle Regioni istituire posti di blocco con carabinieri e polizia. Per fortuna è stata la stessa pm di Bergamo a mettere i puntini sulle “i” dicendo che era compito del governo quella decisione che purtroppo non fu presa. Ma, considerazioni politiche a parte ed errori fatti un po’ da tutti di fronte a qualcosa di inedito e tragico come una gravissima pandemia, il problema è che l’opera di sputtanamento in questo Paese sembra non finire mai. Anche senza le intercettazioni, anche senza il trojan, resta il fatto che nella sub-cultura grillino-travagliesca il sospetto continua a essere l’anticamera della verità, un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca, un indagato è peggio di un condannato e un presidente di Regione “non poteva non sapere”. Oggi tocca a Fontana. Ma domani? Ma quando arrivano i famosi più puri che epurano i puri?

L'odio contro la Lombardia ​per attaccare il centrodestra. Sinistra e Cinque Stelle montano una campagna contro i lombardi. Dietro c'è un preciso disegno politico per attaccare la Regione guidata dal centrodestra. Andrea Indini, Lunedì 08/06/2020 su Il Giornale. È un odio violento, atavico, a lungo taciuto e in questi mesi, complice l'epidemia di coronavirus che ha piegato il Nord Italia, esploso con una virulenza senza precedenti. Un odio che ha investito in particolar modo i lombardi e la Lombardia, non solo in quanto tali, ma per quello che rappresenta: da sempre fortino del centrodestra e, negli ultimi anni, capitanata da governatori leghisti. Nonostante i morti, che contiamo a migliaia, e nonostante la fatica a combattere un nemico tanto piccolo quanto letale, la sinistra e i Cinque Stelle si sono scagliati (senza alcun rispetto) per biechi fini politici. Se, all'inizio, quando l'Italia si è ritrovata - con il fiato sospeso - nella morsa della quarantena, i colpi bassi erano più radi, non appena è scattata la "fase 2" l'odio è esploso con un vigore senza precedenti, fino a immaginare cimiteri pieni di morti con il centrodestra al governo. L'odio è iniziato in sordina. Sembravano semplici scaramucce politiche. Come quando il 26 febbraio, meno di una settimana dopo la scoperta del "paziente 1" a Codogno, il governatore Attilio Fontana pubblica su Facebook un video in cui annuncia il contagio di una collaboratrice. Il suo viso è coperto da una mascherina chirurgica, verde. In quei giorni non se ne vedono tante in giro. È probabilmente il primo politico italiano a indossarne una in pubblico. È un messaggio, certo. Un messaggio a tutti i lombardi affinché prendano le precauzioni necessarie per evitare il più possibile occasioni di contagio. "Da oggi qualcosa cambierà perchè pure io mi atterrò a quelle che sono le disposizioni dell'Istituto Superiore di Sanità per cui per due settimane vivrò in una sorta di auto quarantena - spiega - oggi ho già passato la giornata indossando la mascherina e continuerò a farlo nei prossimi giorni". Gli sono subito saltati tutti al collo. I primi ad attaccare sono stati quelli del Partito democratico. Da Matteo Orfini, che arriva addirittura a negare l'utilità di metterla in Aula alla Camera ("È un gesto inutile e dannoso per il messaggio che diffonde"), a Maurizio Martina che lo accusa addirittura di "alimentare il panico" e di "danneggiare i cittadini e il Paese". I grillini (ovviamente) non sono da meno. "Sono immagini che non aiutano perché spaventano ed espongono l'Italia al rischio di un isolamento economico che non ha alcuna giustificazione", tuona Danilo Toninelli. "Il panico deve essere assolutamente arginato, non alimentato in alcun modo - conclude - serve una corretta informazione, che non faccia inutili allarmismi, un linguaggio equilibrato e altrettanto deve valere per i gesti". Sin dai primi giorni il Prirellone si trova in forte contrasto con Palazzo Chigi. In Regione Lombardia si accorgono sin da subito che a Roma non stanno capendo la gravità della situazione. E così, mentre i vari Nicola Zingaretti, Beppe Sala e Giorgio Gori fanno campagne per tenere aperto, sono costretti a rimboccarsi le mani e fare da soli. Non solo. Devono pure "parare" le apre critiche del premier Giuseppe Conte, che prova ad addossare all'ospedale di Codogno le colpe del focolaio nel Lodigiano, e ingaggiare un estenuante braccio di ferro sempre con la presidenza del Consiglio per allargare al più presto la "zona rossa" alla Val Seriana e al Bresciano, dove già il 2 marzo - dati alla mano - appare chiaro che la situazione è ormai sfuggita di mano. Non ci riuscirà. La chiusura della regione arriverà troppo tardi e Fontana & Co. dovranno pure sorbirsi le critiche per non essersela fatta da soli, quando anche il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha messo in chiaro ai microfoni del Tg3 che tale decisione spettava all'esecutivo. Se non è la polemica sulle "zone rosse" mancate, sono le critiche al sistema sanitario regionale che fatica a reggere l'urto del Covid-19. Il 15 aprile, in un articolo apparso su Le Monde, Roberto Saviano non perde occasione per tirare in ballo "il territorio di Silvio Berlusconi" e si erge sul piedistallo per impartire ai lombardi "la debolezza insita nel credersi invincibili". A sinistra è un sentimento diffuso. Sono molti, infatti, quelli che credono che il coronavirus abbia dato una lezione al Pirellone e che soprattutto il centrodestra non sia stato all'altezza di gestirlo. Per dimostrarlo vengono montati ad arte teoremi sulla gestione del sistema sanitario, vengono scomodati (senza nemmeno leggere le ordinanze della Regione che sono identiche, in tutto e per tutto, a quelle emanate da altri governatori iscritti al Pd) gli anziani morti nelle Rsa, viene screditata la costruzione dell'ospedale in Fiera (quando è stato il governo Conte a chiedere alle Regioni di aumentare del 50 per cento il numero dei posti letto). Il 21 maggio, durante l'informativa del premier sulla "fase 2" alla Camera, si viene quasi alle mani quando il grillino Riccardo Ricciardi se ne esce con accuse senza precedenti (guarda il video). "Chiedono collaborazione alle opposizioni e poi vengono qui a prendere per il culo sui morti? Ecco, prendersela coi morti anche no", sbotta Giancarlo Giorgetti invitando il ministro della Salute Roberto Speranza a tenere a bada i Cinque Stelle. "Tira male, io ve lo dico, qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga, coi morti che ci sono stati. Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire in aula a provocarci sui morti". Il punto è che anche all'interno di Liberi e Uguali, partito a cui è iscritto Speranza, la pensano allo stesso modo. Qualche settimana più avanti Pierluigi Bersani se ne andrà in televisione a dire che "se avesse governato questa gente qua (il centrodestra, ndr) non sarebbero bastati i cimiteri". E non ci si deve, poi, stupire se ci ritroviamo i muri di Milano lordati dagli antagonisti con la scritta choc "Fontana assassino". Lo stesso slogan urlato dai sindacati scesi in piazza ai primi di giugno. La campagna (mediatica) di denigrazione tocca probabilmente il suo apice con il falso scoop di Report, poi ripreso dal Fatto Quotidiano, in cui si fa passare una donazione di materiale sanitario per un conflitto di interessi. Un "attacco politico vergognoso", come lo ha definito lo stesso Fontana, che ora finirà in aula di tribunale. L'odio politico, però, si mischia all'odio regionale. E così sono troppi quelli che stanno portando avanti una vera e propria campagna contro i lombardi. Lo fa persino chi, come lo scrittore Massimo Mantellini, dovrebbe preservare il Paese dalla violenza verbale. Conte lo ha, infatti, voluto nella task force governativa (una delle tante) per epurare il web dall'odio dilagante. Nei giorni scorsi se ne è uscito con un post a dir poco delirante: "La dico piano: chiudiamo i lombardi in Lombardia. Almeno per questa estate". Lo stesso che vorrebbero fare alcuni governatori di sinistra per sminuire gli sforzi che dal 20 febbraio il Pirellone sta compiendo per vincere la partita contro il coronavirus. Sicuramente Regione Lombardia, come anche il governo, ha fatto errori. Li ha fatti perché si è trovata a dover combattere una battaglia senza precedenti. Usarli, ingigantirli e distorcerli per fini politici è una bieca campagna di disinformazione che non rende giustizia a tutti quei morti che stiamo ancora piangendo.

Nicola Mirenzi per huffingtonpost.it l'8 giugno 2020. Il conto si paga con la vergogna: “Ancora oggi mi sento un po’ appestato. Non esco da Milano. Rimango a casa il più possibile. Ascolto racconti di amici che sono andati fuori dalla Lombardia e sono stati accolti da battutine, insinuazioni, cattiverie. Alcuni hanno dovuto subire anche un cartellone che diceva: “Torna a casa tua”. Sono cose che mettono a disagio e feriscono le persone. Uno spirito anti lombardo è emerso nel Paese. Come se vedere colpita questa Regione, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: schadenfreude, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta”. Nato a Milano nel 1953, Ferruccio De Bortoli – giornalista, saggista, per due volte direttore del Corriere della Sera, di cui oggi è uno dei principali editorialisti – non aveva mai considerato l’ipotesi che il luogo di nascita riportato sulla sua carta d’identità potesse diventare un marchio, se non d’infamia, almeno di diffidenza: “Il razzismo al contrario, cioè l’idea che ora i cittadini italiani discriminati siano quelli del Nord, mentre prima erano quelli del Sud, è un concetto che trovo esagerato. Io credo che si tratti più precisamente di un pregiudizio radicato, che ha moventi sociali, politici, economici. Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il Paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove”.

La Lombardia non ha sbagliato niente?

«Anche la Lombardia ha commesso degli errori. Soprattutto, di comunicazione. La Giunta farebbe bene a riconoscerli e spiegare perché li ha commessi. Io però – da lombardo – mi faccio anche un’altra domanda. Mi chiedo: "Perché siamo diventati antipatici?"»

Ha una risposta?

«Credo che, a volte, siamo stati troppo orgogliosi dei nostri primati, esaltando le nostre virtù fino a sfiorare l’arroganza. Forse, abbiamo avuto anche un atteggiamento semi-colonialista, proiettando un’immagine di noi stessi che chiedeva un adeguamento ai nostri numeri. Senz’altro, abbiamo sbagliato qualcosa anche noi».

Però?

«Però la Lombardia è stata investita dal contagio con una violenza inusitata. Si è trovata di fronte un nemico che nessuno conosceva e, all’inizio, tutti abbiamo sottovalutato, incluso io. La giustizia deve andare sino in fondo, perché i familiari delle vittime e il Paese devono conoscere la verità. Non si può però accettare la criminalizzazione preventiva che è stata fatta. Stiamo parlando di una terra che è stata martoriata, con decine di migliaia di morti. Dobbiamo avere rispetto. Un conto è capire cosa non ha funzionato. Un altro conto è alimentare processi sommari. Che sono inaccettabili».

Da dove è venuta fuori questa pulsione?

«Le posizioni sbrigative e sprezzanti contro Milano e la Lombardia nascondono un’invidia sociale nei confronti di chi è stato sempre ritenuto migliore. Sta succedendo in Italia qualcosa di simile a quello che accade in Spagna con la Catalogna ed è successo in Gran Bretagna con Londra, ed è all’origine della Brexit: si detesta chi è più ricco, chi è riuscito a cavarsela nel mondo, chi ha espresso al meglio le proprie capacità».

Perché non scatta, invece, l’emulazione?

«Perché bisognerebbe partire dal riconoscere le proprie mancanze, dandosi come obiettivo quello di colmarle. L’Italia, invece, è un Paese di continui e incessanti dualismi. Quello tra Nord e Sud è uno dei più longevi. Negli ultimi anni, il dislivello si è tradotto in un risentimento del Sud verso il Nord. Infatti, già prima della pandemia, il ministro Provenzano aveva detto che Milano non restituisce nulla. Ora, questo rancore si è manifestato più platealmente».

Che cosa ci vede dentro?

«Un disprezzo dell’impresa, una diffidenza nei confronti dell’industria, una rivincita della statalizzazione contro il mercato. Sottilmente, il liberismo viene ritenuto responsabile di quello che è successo. Non ci sono prove che sia così. Però lasciarlo intendere serve a proporre un ritorno al ruolo dello Stato, il cui luogo d’elezione naturale è Roma».

La sanità privata ha funzionato bene?

«Gli ospedali privati, in Lombardia, si sono dati da fare, come si sono dati da fare tutti. La solidarietà con il pubblico è scattata. Forse si può rimproverare un ritardo, ma non si può attaccare il privato in quanto privato, il modello lombardo in quanto lombardo. Dimenticando che ogni anno 165 mila persone vengono a curarsi qui da altre Regioni. In Italia, la sanità di sette Regioni è stata commissariata. Abbiamo visto malcostume, ruberie, cattive gestioni scaricate sulle spalle dei contribuenti. E ora il problema italiano sarebbe la sanità lombarda?»

È un attacco politico?

«Il pregiudizio anti lombardo è radicato in una parte della sinistra italiana. Politicamente, Milano è percepita come la città di Craxi, di Berlusconi, di Bossi, ora di Salvini. È qualcosa di estraneo, che la sinistra non è mai riuscita ad afferrare fino in fondo. Anche Sala, che oggi è sindaco della città, è come se venisse da fuori, non facendo parte della tradizione Pd».

Basta a fondare un preconcetto?

«C’è anche il fatto che la sinistra non ha mai parlato la lingua delle imprese piccole e grandi che costituiscono l’economia del Nord. Però, anziché interrogarsi sul perché, cercando di rimediare, oggi imbocca la scorciatoia della diffidenza. Ma non si può risollevare il Paese coltivando un sentimento anti industriale, sospettando chi intraprende e produce. La Lombardia vale il 22% del Pil italiano. Ha 54 miliardi di residuo fiscale, pur contando il 16% della popolazione nazionale. Come si fa a non capire che senza Milano e la Lombardia l’Italia non si metterà mai in piedi?»

Cosa propone?

«Una tregua. Sospendiamo le polemiche. Rimettiamo insieme il Paese. Cerchiamo di comprendere cosa è successo, non per colpire l’uno o l’altro, ma per riparare gli errori e farci trovare pronti in autunno, se ce ne sarà bisogno. Nel frattempo, la giustizia farà il suo dovere».

Quante probabilità ci sono che accada?

«Non le so calcolare. Quel che so – e che mi addolora – è che ci stiamo lasciando andare alle piccinerie. Alla volgarità di frasi come ‘Milano da bare’. Alla grettezza regionalistica. Tanti piccoli noi contro voi. Ma veramente vogliamo tornare ai pregiudizi? Al milanese bauscia, al ligure tirchio, al calabrese scansafatiche? C’è davvero qualcuno che crede che si possa uscire dall’angolo così?»

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2020. «Io ho vissuto la vicenda Covid con un'angoscia personale grandissima. Terribile. Quello che mi ha aiutato a non fermarmi, è stato proprio il cercare tutte le soluzioni per uscirne. Immaginare una strada anche per le fasi di ripartenza che abbiamo di fronte».

Attilio Fontana è nel suo ufficio, provato dopo mesi a ritmi serrati. Ma quale lezione ha tratto da questa vicenda?

«Quello che mi porto dentro è stato il vedere centinaia di persone che non si sono date tregua, con dedizione assoluta, per aiutare gli altri».

Lei quali errori si imputa?

«Noi, ma credo quasi tutti, siamo stati colti di sorpresa da un'emergenza bestiale, di errori ne abbiamo commessi fin che ne vuole. Però, a marzo prendere decisioni era durissima. Per questo ora io sto studiando, cercando di vedere in quello che è accaduto le indicazioni per fare meglio in futuro».

Per esempio?

«Inutile che anticipi adesso. Sto per nominare un mio gruppo di lavoro che entro la metà di agosto indicherà le cose da fare e quelle da evitare, proprio sulla base di questi mesi. La competenza viene prima di tutto, e la Lombardia, me lo lasci dire, sulle competenze è fortissima».

Ferruccio de Bortoli ha detto che prendersela con la Lombardia e Milano, che riescono a competere nel mondo, «alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto».

«Guardi, io di Ferruccio de Bortoli ho la massima stima, e certo non lo si può accusare di simpatie leghiste. Io penso che Milano e la Lombardia sono e resteranno la locomotiva della Nazione, e a breve ricominceranno a tirare con tutta la loro forza. Certo, se poi qualcuno cerca di usare la vicenda Covid per fini politici, significa che non solo ha del tempo da perdere, ma che ha anche l'animo dello sciacallo. Chi si gingilla con questa politichetta, ha capito male il nostro Paese».

A proposito, quali i rapporti con il sindaco Beppe Sala? Anche con lui avete avuto momenti complicati.

«Mi creda, la mia non è una risposta di stile. Ma devo dire che io ho una grande stima di Sala. Certo, non sempre sono d'accordo con lui. Ma quando c'è da collaborare, l'ho sempre fatto. Peraltro, la sinergia è indispensabile, perché la Lombardia non può fare a meno di Milano e Milano non può fare a meno della Lombardia».

Perdoni, presidente. Ma dell'ospedale nell'ex Fiera non è pentito? Di fatto, ha ospitato pochissimi pazienti.

«Lei vuole scherzare... Anche quello è nato sotto una pressione terribile, l'ho deciso quando un medico, con le lacrime agli occhi, mi ha detto che non voleva più scegliere chi far vivere. Detto questo, di strutture simili ne sono state create ovunque nel mondo, 19 nei soli Stati Uniti. Ma di queste, 13 non sono mai entrate in funzione. L'ospedale in Fiera è stato uno straordinario regalo alla città da parte di più di 5.000 donatori nel momento più drammatico della pandemia. Per costruirlo in tempi da record, grazie a Fondazione Fiera Milano, non è stato speso un euro di soldi pubblici».

Ma adesso che ne fate?

«Lo teniamo pronto, sperando di non usarlo, per fronteggiare un'eventuale seconda ondata. E dopo, nulla sarà disperso: con il coordinamento del Policlinico entrerà nella rete ospedaliera lombarda. Un piano, le anticipo, che prevede 1.446 posti letto di terapia intensiva e ulteriori 704 letti di terapia semi intensiva, almeno metà dei quali devono poter essere tempestivamente convertiti in intensivi. Come peraltro chiede il governo».

Presidente, dica la verità: la sanità lombarda è uscita molto ammaccata da questa vicenda. O no?

«Di nuovo: non scherziamo. Qui viene gente a curarsi da tutto il mondo. E c'è un perché: abbiamo strutture pubbliche formidabili che vanno potenziate, sostenute, arricchite. E abbiamo un settore privato forte in grado di consentire ai cittadini di scegliere. Mi chiedeva un mea culpa? Probabilmente, negli ultimi anni abbiamo trascurato i medici di famiglia. Le anticipo che a settembre lanceremo un importante piano d'azione a loro dedicato. Sono il primo presidio sanitario delle nostre comunità e lo renderemo più forte».

Il Tar ha appena bocciato l'acquisto dei test sierologici senza procedure di evidenza pubblica della Diasorin dal San Matteo di Pavia.

«Guardi che però io non sono parte attiva in questa vicenda».

Molto criticata anche la decisione di ricoverare pazienti Covid nelle Rsa, su cui è in corso anche un'indagine. Qui nessun mea culpa?

«I pazienti sono stati ospitati in 18 case di riposo su 709. Il problema non viene da quello, ma dire il contrario è una finta verità facile da smerciare. Del resto, il 17 aprile l'Iss ha proprio previsto che siano realizzate unità Covid dentro le Rsa».

E poi c'è la vicenda dei camici forniti da un'azienda di cui è socia sua moglie.

«A parte il fatto che mia moglie è socia al 10% e non controlla nulla, vuole sapere la verità? In quei giorni la Regione ha chiesto camici e mascherine da chiunque li avesse. Il punto è questo».

“Caccia al milanese” la nuova moda dell’Estate 2020. Francesco Caroli su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Caro Beppe Sala, altro che scuse. Avevi proprio ragione e sì, ce ne dovremo ricordare. Ce ne dovremo ricordare quando ci si dovrà giustificare di voler tornare a respirare l’aria della propria terra. Ce ne dovremo ricordare quando si subiranno delle occhiate di disappunto o di sospetto. Ce ne dovremo ricordare quando ci sentiremo estranei non graditi lì dove siamo cresciuti, dove andiamo in vacanza da anni o semplicemente dove ci sentiamo a casa. Qualche giorno fa il Presidente della Regione Sardegna, il filo leghista (non è un ossimoro, ma il frutto di epoca malata) Christian Solinas, parlava della necessità di un patentino immunitario per i turisti milanesi e lombardi in arrivo sulla loro isola. Il sindaco di Milano Beppe Sala commentò cosi «Alcuni presidenti di Regione dicono che per i milanesi ci vuole una patente d’immunità? Io però, e parlo da cittadino più che da primo cittadino, quando poi deciderò dove andare per un weekend o per una vacanza, me ne ricorderò», salvo poi a distanza di poche ore scusarsi per questa considerazione. Non troviamo ci sia niente di male nel ricordarsi i trattamenti e le parole che si ricevono, soprattutto quando si è in difficoltà, sulle gambe, feriti ed a dirle è chi amministra una terra meravigliosa legata in maniera viscerale con i cittadini lombardi. Questo avveniva ormai alcune settimane fa. Tutt’oggi navigando nel web e tra i social ma, purtroppo, anche durante videochiamate o nelle prime nuove riunioni di famiglia e cene con gli amici di sempre è immancabile il momento di battutine o peggio insinuazioni ed insulti velati su lombardi, milanesi acquisiti e non. Sono momenti, attimi, emozioni e parole che feriscono, che creano disagio, che crepano i primi sorrisi di molti che per mesi sono stati lontani dai propri affetti, perché rispettosi ed attenti alla salute degli altri oltre che della propria, e che solo ora rientrano nella propria Regione o si concedono qualche giorno di svago. Eh sì, perché il lockdown, dicono gli esperti, può avere pericolosi effetti sulla salute e sull’equilibrio mentale di molti, soprattutto di chi ha vissuto questa tragica esperienza solo o distante dagli affetti più veri. E’ quindi tragico per queste persone sentirsi ancora una volta soli in un oceano di pregiudizi, di chiacchiere sparate ai quattro venti con la presunzione di saper leggere dei dati. Ed eccoci ad un’altra annosa questione: i dati che dovrebbero raccontare anche questa Fase 3. Dati che letti superficialmente racconterebbero ai più una tragedia ancora in atto in Lombardia. Dati che non tengono conto degli ormai pochissimi accessi in Pronto Soccorso in Lombardia, come nel resto d’Italia. Dati che non tengono conto che le terapie che ci stanno facendo uscire da questa crisi sono state sviluppate col lavoro sul campo svolto nella trincea degli Ospedali lombardi, invasi per primi da un nemico spietato. Dati che a volte nascondono il volto più umano di questa tragedia, dei suoi morti, dei lavoratori che non sanno quando e se potranno ripartire, dei cittadini italiani da sempre fieri della propria cultura dell’accoglienza. Nessuno ma proprio nessuno può permettersi oggi di dire ad un giovane studente, manager, poliziotto o infermiere o chicchessia di non poter ambire a sorridere, magari vicino alla sua famiglia in Puglia o in Campania, di non poter desiderare di respirare la libertà tanto desiderata di una birra con gli amici, di non poter restare incantato davanti al proprio mare, spesso capace di ricaricare le batterie come poche cose al mondo per chi ci è nato. Eppure questa “caccia all’untore” è di moda oggi. “Come se vedere colpita questa Città, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: schadenfreude, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta” si è espresso cosi, e non poteva fare di meglio a nostro avviso, anche Ferruccio De Bortoli – in un intervista recente all’ Huffingtonpost. “Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il Paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove”. E’ ovvio che anche la Lombardia ha commesso degli errori. Senz’altro, abbiamo sbagliato qualcosa anche noi. Ma la Lombardia è stata investita per prima dalla più grande emergenza sanitaria del dopoguerra e si è trovata di fronte un nemico che nessuno conosceva e che in moltissimi avevano sottovalutato. Va sicuramente capito cosa non ha funzionato. Ma alimentare oggi processi sommari, spesso basati su paure infondate o dettate da fake news, è inaccettabile. Sono inaccettabili le posizioni sprezzanti contro Milano sia che nascano da un’invidia sociale nei confronti di chi è da sempre considerato la locomotiva italiana, sia che nascano da timori sanitari o di ingestibilità di un’eventuale seconda ondata. Non possiamo accettare che succeda in Italia qualcosa di simile a quello che accade in Spagna con la Catalogna ed è successo in Gran Bretagna con Londra, all’origine della Brexit: si detesta chi è più ricco, chi è riuscito a cavarsela nel mondo, chi ha espresso al meglio le proprie capacità. Non si può soprattutto permettere che a vincere sia la paura dell’altro, propria di un’ignoranza gretta e meschina, magari avvallata dalla convinzione di avere una propria insulsa verità in tasca senza mai essere riusciti a guardare un problema da più punti di vista, imparando e migliorando sé stessi. In questi giorni l’Italia e gli italiani hanno il dovere morale di rialzarsi, di migliorare sé stessi, di progettare un futuro che ci veda protagonisti di un nuovo Rinascimento. Ed il dito in questi casi va puntato lì dove si vuole arrivare, verso l’alto e non verso l’altro. L’invidia e il rancore troppo spesso invece rappresentano ormai il puzzo che sovrasta il profumo del genio, delle competenze e dello spirito che da sempre hanno contraddistinto l’Italia tutta, Paese che oggi, invece, si nasconde dietro i propri alibi o in uno scaricabarile verso colpe reali o meno di altri. Svilenti emozioni che bloccano la ripartenza. Parlando di sanità, non va dimenticato che ogni anno 165 mila persone vengono a curarsi qui da altre Regioni. Non va dimenticato che la sanità di sette Regioni è stata commissariata. Abbiamo visto malcostume, ruberie, cattive gestioni scaricate sulle spalle dei contribuenti. E ora il problema italiano sarebbe la sanità lombarda? Ma davvero c’è chi pensa che si può risollevare il Paese coltivando un sentimento anti industriale, sospettando chi intraprende e produce. La Lombardia vale il 22% del Pil italiano. Ha 54 miliardi di residuo fiscale, pur contando il 16% della popolazione nazionale. Come si fa a non capire che senza Milano e la Lombardia l’Italia non si rialzerà mai in piedi, più forte di prima? Uniti e coesi per ripartire. Umani e consapevoli per riabbracciarsi. Capaci ed illuminati per sognare. Insieme e non più da “semplici” Italiani, ma da Europei. Questa riflessione è stata scritta a 4 mani con Francesco Scarcia, Ingegnere spaziale e già Presidente di Erasmus Student Network del Politecnico di Milano.

Renato Farina: "La Camorra è il cancro d'Italia ma tutti infangano la Lombardia". Libero Quotidiano l'11 giugno 2020. E il cancro d'Italia sarebbe la Lombardia? Da cui difendersi con filtri e passaporti sanitari, intimando minacce ai lombardi e a chi li rappresenta? Questi sguazzano nella camorra fino alle ginocchia, e invece di bonificare la loro palude che inquina il mondo, si permettono di tirar sassi alla Madonnina? Ieri a Napoli è stata per l'appunto sgominata una rete di camorra, 59 persone sono state arrestate. Le accuse: associazione mafiosa, concorso esterno, corruzione elettorale, estorsione e turbata libertà degli incanti. In pratica erano i padroni di un comune, Sant' Antimo. Ci sono di mezzo anche attentati dinamitardi. Il clan Puca si era comprato un sacco di voti. Ma la lista prediletta perse ugualmente. Dopo di che, invece di aspettare cinque anni, si proposero di costringere i vincitori a dimettersi con i modi tipici di queste brave persone: il fuoco. Ci sono di mezzo anche politici - i fratelli Cesaro, di cui uno senatore di Forza Italia - ed esponenti delle forze dell'ordine - due carabinieri sarebbero stati a libro paga dei clan. 

PESTE MORALE. Ovvio: le misure sono "cautelari", preventive cioè. Siamo noiosi, togliamo pathos alla faccenda, ma bisogna ridirlo: per stabilire la colpevolezza dei soggetti non basta un mandato di cattura, e vale la presunzione d'innocenza, non c'è eccezione a questa regola. Registriamo la notizia, e con risalto, perché ci sembra parecchio simbolica dello stato della nazione e di dove siano i bubboni e dove abiti la radice purulenta della nostra peste morale: in Campania, al Sud. Questa retata sarà certo trascurata. L'abitudine ci ha indotti a ritenere la criminalità organizzata un tratto folkloristico e persino cinematograficamente trendy, uno starnuto endemico. Che sarà mai. In fondo è tutto fatturato: vuoi per la malavita, vuoi per chi narrandola la trasforma in mito. Senza risalto mediatico era stato pure il blitz natalizio ordinato da Nicola Gratteri contro la 'ndrangheta, con 330 carcerazioni in Calabria e dovunque. Anche in Lombardia, ovvio: non sono scemi i mafiosi, investono dove il business gira, e, grazie a comunità di migranti per la grande maggioranza perbene, ci si può mescolare inserendosi nel tessuto economico sano, inquinandolo. A proposito. Tutti zitti sulla volontà dei colleghi di azzerare Gratteri, come risulta dalle intercettazioni di Palamara, dove il procuratore di Catanzaro era gratificato da titoli come «folle, persona da fermare»: per molto meno se lo avesse detto un qualsiasi politico di centro destra all'indirizzo di un qualunque magistrato antimafia sarebbe stato impalato. Torniamo al Nord. Il giornale unico nazionale - tivù + stampa + social - insiste. Ancora ieri ha infilato nella sua macina di carne umana la Lombardia. È questa regione, con i suoi dieci milioni e passa di abitanti, e i suoi 16.300 morti da Covid la cui catasta non ha meritato la visita del capo dello Stato, a essere ancora sotto attacco. Non bisogna essere ingenui. L'attacco mediatico e politico, seguito subito da quello giudiziario (fascicolo senza ipotesi di reato e senza nomi di indagati, ma fa brodo anche la zampa della gallina) ad Attilio Fontana, è sì contro un singolo, maoisticamente però serve a educare tutti i lombardi. Avvocato integerrimo e capace, è da mesi assaltato, vivisezionato, appeso con Wanted sulle prime pagine perché è il governatore di questo strano mondo superiore (in latitudine, reddito, sanità, amministrazione pubblica, produttività, occupazione) che l'idiozia italica dominante, nel momento della sua debolezza nella catastrofe da virus, vuole sottomettere al neo-statalismo giallorosso. La Lombardia come modello economico, morale e politico era (ed è) un'alternativa radicale allo status quo. 

CORTINA DI FERRO. Oplà. Moralmente essa è stata con manovra a tenaglia stritolata come fosse il cancro del Paese. La donazione da parte di un'azienda di attrezzi sanitari è diventata il pretesto inverosimile per provare a trasformare l'oro in sterco. Ed ecco la nostra idea. La Lombardia vi fa così schifo? Fatecela, una bella cortina di ferro intorno. Isolateci sul serio. Anzi, giacché è un'idea del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, eseguite il suo proposito che aveva manifestato come una minaccia per non indurre i lombardi untori in tentazione, mica che cerchino di andare ad Ischia o a Pozzuoli trasferendovi il virus. De Luca è troppo simpatico per essere criticato. Feltri lo ripete sempre. D'accordo. Assecondiamolo. Un bel muro per difendere il festoso popolo campano dall'infezione nordista, dovuta - come ha scritto seriamente Angelo Forgione, autore immortale di "Napoli, capitale morale" - al vizio del lavoro esagerato. Questa è stata l'idea dell'ex sindaco di Salerno (Pd). Separare i campani dal contagio dei lombardi. Non è che gli è mancata la volontà politica, crediamo, di imitare l'amato Xi Jinping e innalzare la Grande Muraglia di tipo cinese. Ma dove trovava i muratori napoletani disponibili a tirarlo su, con 'sto virus e 'sto caldo? Per costruirlo avrebbe dovuto attingere ai carpentieri e pavimentisti delle valli bergamasche. Tranquillo, Enzino, vengono e pure gratis. Insieme alle maestranze friulane che hanno rimesso a posto il Friuli in tre anni dopo che era stato raso al suolo, ci mettono un mesetto. Importante però è anche fissare la reciprocità del provvedimento. I lombardi e il Sud non vengono da voi, ma per favore potete badare ai vostri terroni? Non è un linguaggio nostro, ma una citazione. È di Luigi De Magistris, che fu il primo a evocare il passaggio dal confinamento al muro. L'idea, O' Sindaco partenopeo la buttò sulla faccia dell'omologo milanese Beppe Sala, in un dialogo animato da forte solidarietà verso le sofferenze dei lombardi: «Se fosse stata Napoli e non Milano epicentro della pandemia, alzavate il muro sparando ai terroni!». Oh come godeva De Magistris a trattare i milanesi come razzisti, che voglia di tirar su una parete di cemento armato per fargliela ai lombardi e blindarli in un lazzaretto come contrappasso. Fatelo, dài. Ma per favore, potete bloccare "le batterie di rapinatori" che salgono da Napoli a Milano, Varese, Segrate per rapine volanti e poi ritornano giù a tarantellarsi il bottino? Trascrivo da un ritaglio del settembre scorso: «"Ha appena parcheggiato una persona con un orologio interessante al polso". Bastava un avvistamento comunicato via cellulare per mobilitare la banda di rapinatori in trasferta, a Milano dal Napoletano. I sei componenti puntavano ai Rolex». L'ultimo caso ieri. Hanno arrestato sette napoletani, specialisti di rapine in trasferta. Si erano fermati a Bologna stavolta, perché - come dice De Luca - Milano è pericolosa. Bisogna dire però che i sette portavano correttamente, da tradizione, la mascherina. E dunque De Luca può risparmiare sul lanciafiamme. 

Dagospia il 9 giugno 2020. “POTRESTE SMETTERE DI MANTENERCI E DUNQUE DI STARNAZZARE?” LETTERA DI OTTAVIO CAPPELLANI A DAGOSPIA. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, da siculo, al contrario di Sallusti, ti ringrazio per la "confezione" alla lamentazione (molto napoletana, in verità) di Vittorio Feltri sui poveri lumbard. Da siculo, vorrei notificare a Sallusti che l'idea migliana del federalismo, e anche del federalismo fiscale, era bello e buono e santo e probabilmente avrebbe salvato la Sicilia e tutto il Meridione. L'idea è stata abbandonata proprio da Salvini, al quale, evidentemente, essere re di polentonia non gli bastava. Lo capisco, è un territorio rozzo e barbaro, senza alcuna raffinatezza, dove esibite il portafoglio in pubblico. E infatti la Lega si è precipitata sull'assessorato alla Cultura, ai Beni Culturali e all'Identità Siciliana. Cosa che manco Lercio. Potreste smettere di mantenerci e dunque di starnazzare? grazie Ottavio Cappellani

Dagospia il 9 giugno 2020. ''TE LO SPIEGO IO PERCHÉ STARNAZZIAMO''. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Da consumatore compulsivo di Dagospia (lettore è riduttivo), mi è saltata all’occhio la confezione con cui avete presentato l’editoriale odierno di Vittorio Feltri sulla Lombardia sbertucciata. “Quanto starnazzano i lombardi”, vi chiedete, anzi affermate (in realtà molto poco, se penso alla compostezza calvinista delle famiglie bergamasche, tutte con almeno un lutto causa pandemia in casa). “È bastato metterli due mesi nel ruolo di untori/discriminati per assistere a una reazione furibonda, De Bortoli in testa”, aggiungete, e se è “furibonda” la sobria e analitica difesa debortoliana di questa landa non esattamente irrilevante ai fini del Pil italico, mi chiedo con che aggettivazione descrivereste la fissazione monomaniacale di chi, Fatto Quotidiano in testa, da mesi sbatte la mia regione in prima pagina come una cricca di malavitosi e assassini. Ma il punto non è nemmeno questo. La notarella che vorrei sottoporvi, dalla periferia polentona dell’impero, riguarda quello che c’è sotto il nostro “starnazzamento”. Nientemeno che 54 miliardi di euro. La cifra, raccolta con le tasse dei suoi abitanti, che la Lombardia ogni anno vede volatilizzarsi, risucchiata dall’idrovora dello Stato centrale. I tecnici lo chiamano “residuo fiscale”, a noi bauscia poveri di spirito pare una rapina che non ha pari nel mondo civile (la Baviera ha impostato un braccio di ferro con Berlino per 3 miliardi di residuo, la Catalogna è in stato di rivolta permanente contro Madrid per circa 10 miliardi). Allora, lo starnazzare, perdipiù in meneghino gutturale, può senz’altro essere volgare. Capirete però che a noi pare assai peggio mantenere da decenni il Paese senza fiatare, e alla prima difficoltà essere presi a calci in bocca dai mantenuti.

Cordialmente, Giovanni Sallusti

DAGO-RISPOSTA. Caro Giovanni Sallusti, scomodare il “residuo fiscale” della Lombardia per giustificare la stizzita reazione di alcuni lombardi è un argomento un po’ grossier. Dire di “mantenere da decenni il Paese senza fiatare” è un’affermazione degna del “Dogui” Nicheli e del suo “lavoro, guadagno, pago, pretendo”. Per la serie: noi cacciamo i dane’ e voi non dovete rompere le palle. E neanche criticare. La Lombardia contribuisce in proporzione alla sua ricchezza, più di altre regioni. E’ vero. Ma se la redistribuzione avviene con la progressività delle imposte sulle persone fisiche, con cui si finanziano i servizi, è chiaro che i trasferimenti non vanno a zonzo da un territorio a un altro, ma dai più “ricchi” ai più “poveri”. Non è un dettaglio: è un principio che s’aggancia ad almeno tre o quattro articoli della Costituzione. E se è vero che i lumbard trascinano l’Italia è pur vero che ricevono dal resto del Paese - e dallo Stato centrale idrovora - più di quanto siano disposti a riconoscere: dall’Expo (fu il governo Prodi a proporre Milano) al sostegno per i giochi Milano-Cortina 2026, ad esempio. Fino alla forza lavoro, spesso molto qualificata, in arrivo dal resto d’Italia. Se una regione diventa fulcro e locomotiva di un Paese non è solo per la laboriosità dei “bauscia poveri di spirito” (a proposito: quanti non lombardi lavorano e pagano le tasse da quelle parti?): è il sistema-Paese che contribuisce a rendere una città o una regione un magnete che poi, come denunciava il ministro Provenzano, finisce per risucchiare tutto (investimenti, eventi, lavoratori).  Sentirsi vittima di un “pestaggio senza precedenti” (Feltri dixit) e assistere alla diffusione di uno “spirito anti lombardo” (De Bortoli dixit) sembra la reazione un po’ fregnona dei primi della classe bacchettati dalla maestra. Di quelli che per diritto divino e quattrino non possono essere mai biasimati. Ma poi, di preciso, di cosa stiamo parlando? Quando scrivi di “essere presi a calci in bocca dai mantenuti” a cosa ti riferisci? Alle critiche (opinabili ma legittime) al governatore Fontana e al suo assessore Gallera da parte dei giornalisti? Alle inchieste (legittime) sulla sanità lombarda? A qualche battuta da social sugli untorelli? Questo presunto sentimento anti lombardo da cosa è avvalorato? Dal divieto di sbarco (poi revocato) ai turisti a Ischia? Siamo seri. De Bortoli ha parlato di “pregiudizi radicati” contro i lombardi. E i meridionali allora cosa dovrebbero dire? Ancora oggi qualche “bauscia povero di spirito” non affitta casa a chi viene dal Sud. “L’unità morale” degli italiani vale solo quando s’avanza qualche critica tra l’Adda e il Ticino? Lo stesso De Bortoli è costretto ad ammettere che i lombardi hanno esaltato le loro virtù “fino a sfiorare l’arroganza” con “un atteggiamento semi-colonialista”. E chi semina vento, raccoglie pernacchie. Ps: la “rapina” dei 54 miliardi di euro di residuo fiscale che lo Stato centrale ciuccia alla Lombardia è molto pubblicizzata sopra la linea del Po. Lo è meno l’altra rapina: quella che vede la Lombardia in testa alla classifica delle regioni dove l’evasione fiscale è più alta. Ma è meglio non parlarne, dovesse adombrarsi qualcuno sotto la Madunina.

Dagospia il 10 giugno 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Giovanni Sallusti: Caro Dago, Vi importuno per la seconda volta in due giorni dall’Estremo Nord (ho casa a Como, nemmeno a Milano, quindi immagino di aggiungere all’assodato “starnazzamento” lombardo una sgradevole sfumatura di uggiosità lacustre) per felicitarmi della notizia. Sono stato scavalcato, quanto a spirito “federalista”, dal siculo Cappellani, con tanto di citazione del comasco Miglio. Il che del resto sta nella storia della splendida isola, anch’essa vittima del centralismo italico, seppur vittima di altro genere. Lì infatti sono schiavi sotto l’assistenzialismo, qui siamo schiavi sotto la rapina fiscale. Per cui faccio mie le parole ipernordiste di Cappellani, che davvero non avrei potuto scrivere meglio: se ne esce solo se noi lombardi “smetteremo di mantenervi” e dunque di “starnazzare”. I 54 miliardi del residuo fiscale, da domani, restano sopra il Po. E no, caro Dago, qui vengo alla vostra risposta, non è un argomento “grossier”. Sono 5500 euro a lombardo, e vi assicuro che nel post-Covid fanno la differenza tra la vita e la morte professionale per molti artigiani brianzoli, per molti negozianti bresciani, per molti casciavit milanesi, altro che ironia sul “Dogui” Nicheli (che poi è pur sempre qualcuno che ha il dannato vizio di creare posti di lavoro). Che non si stia palesando poi nel dibattito uno “spirito anti-lombardo”, di fronte a programmi tivù che da mesi attaccano la Lombardia (uno su tutti, il “Piazzapulita” del mangiatore compulsivo di involtini cinesi Formigli), testate nazionali che da mesi attaccano la Lombardia (una su tutte, il Fatto del capoufficio stampa di Palazzo Chigi Travaglio), scrittori o presunti tali come Massimo Mantellini, che dimostrano la propria appartenenza alla task force governativa contro l’odio online blaterando la proposta d’odio offline di “chiudere i lombardi in Lombardia”, è tesi che dei brillanti frequentatori dell’attualità come voi non possono certo sostenere. Quanto all’evasione fiscale, cito la Nota di aggiornamento al Def 2019 del governo giallorosso, non esattamente una velina filopadana, quando si va ad analizzare la “distribuzione territoriale dell’incidenza dell’Economia Non Osservata”. Ebbene, essa in Calabria è al 20,9% del valore aggiunto complessivo, in Campania al 20%, in Sicilia e Puglia al 19%. In Lombardia è al 10,8%. Ecco, lo dico col maggior tatto possibile, ho la leggerissima sensazione che l’evasione abbia più a che fare con i traffici criminali di Don Carmelo, piuttosto che con i Rolex del Dogui. Cordialmente, Giovanni Sallusti.

Dagospia il 10 giugno 2020. Riceviamo e pubblichiamo: La replica della replica della replica non meriterebbe una replica. Epperò cvd (come volevasi dimostrare) Sallusti si rotola beato nello stagno di chi, oramai è evidente, gode nel mantenerci per potere starnazzare: siamo ai limiti dello stalking secondo la legislazione di Paperopoli. E ci volete mollare o no? Non una parola ha speso il Sallusti per richiamare all'ordine padano e federalista il centralississimissimo Salvini. In ultimo le mie non sono parole ipernordiste perché (quack) il federalismo (quack) non l'ha inventato la Lombardia (quack quack sberequeck). Proprio non ce la fate, appena aprite bocca partono i cani da riporto. Saluti e baci cordiali, ma davvero, non manteneteci più, come se avessimo accettato. Ottavio Cappellani

 Lettera di Pino Aprile a Dagospia l'11 giugno 2020. Caro Dago, è un fenomeno culturale interessante l'incapacità, persino di alcuni dei migliori esponenti della classe dirigente lombarda (quindi, per non offendere i Ferruccio de Bortoli, non c'entra la robaccia da rivista del Ku Klux Klan dei Feltri Vittorio e consimili; o la schifezza televisiva da bar sport leghista dei Del Debbio e consimili) di capire perché l'opinione pubblica nazionale stia rivedendo, alla luce dei disastri e degli scandali della gestione dell'epidemia di covid-19, lo stereotipo del Nord efficiente, “locomotiva” e onesto (pare ci credano davvero, nonostante retate da decine e centinaia di arresti per l'Expo, l'interminabile sequenza di appalti truccati e carcerati eccellenti della Sanità “migliore d'Italia” e delle “grandi opere”).  Per essere più precisi, il Nord si riduce alla Lombardia, per il declino del Piemonte, finito in fondo alla classifica (ingrata Italia, lamenta Aldo Cazzullo, mentre al Sud, dopo 159 anni, non hanno ancora finito di contare i morti e i deportati, per i quali essere grati) e l'imbarazzante paragone, per i lombardi, con il Veneto che, pur investito dalla stessa bufera epidemica, ne è uscito molto prima e molto meglio. Ne scrivo, tra l’altro, in un mio libro uscito appena ieri l’altro: Il male del Nord, il mio Terroni dieci anni dopo, e ai tempi della pandemia. “Locomotiva” è la citazione della quota lombarda del prodotto nazionale lordo. Ma si omette di citare quanto di quello si deve a investimenti pubblici concentrati lì a produrre superfluo, sottraendo il necessario a due terzi del Paese (Sud e aree interne), condannate al rango di terre non-europee, per servizi e infrastrutture, e incolpate delle della privazione di diritti di cui sono vittime); “locomotiva” che si è venduta tutto, dai gioielli (grandi società, grattacieli, fabbriche, maison dell'italian style) ai giocattoli (le squadre di calcio), e mantiene il suo livello di vita grazie ai trasferimenti di risorse pubbliche destinate al Sud e dirottate al Nord: almeno 61-62 miliardi all'anno, stando a quanto documenta l'ente statale dei Conti Pubblici Territoriali (significa rubare al Sud circa dieci ponti sullo Stretto di Messina all'anno); e che in 15 anni, 2000-2015, è stata capace di “trainare” il Paese, unico nel continente, a una crescita di zero-zero virgola, mentre le medie del resto d'Europa vanno dal 18 al 38 per cento (zona euro-zona non euro). Interessante pure il modo in cui la classe dirigente lombarda mira a banalizzare (trasformandola ancora una volta in una colpa terrona) la sua caduta dal podio di “regione che fa grande l'Italia nel mondo” (ovvero di regione che l'Italia fa grande nel mondo, dotandola di risorse e servizi che nega alle altre): il disconoscimento della primazia lombarda (“Prima il Nord” o “prima i bianchi”, la pretesa è la stessa: razzista) sarebbe un malanimo dei meridionali che coglierebbero la situazione di debolezza della regione devastata dal virus, per manifestare la loro “invidia per i primi della classe“ (aridaje!) e mancanza di solidarietà. È un modo subdolo per non riconoscere il proprio fallimento, tale già da un bel po', ma nascosto dietro l'illusione ottica dei soldi che girano, perché requisiti al resto del Paese. È stato il Los Angeles Time a parlare di “tempesta perfetta: il disastro del virus in Lombardia è una lezione per il mondo” e quegli errori commessi “saranno studiati per anni”; è stato lo spagnolo El Pais a scrivere: “il virus inverte i ruoli storici del Nord e del Sud d'Italia”, a proposito della più efficiente risposta meridionale al morbo; sono state le tv anglosassoni a documentare l'eccellenza degli ospedali di Napoli; è stato il quotidiano francese Le Monde a dedicare un inserto di quattro pagine, con il titolo: “Lombardia: autopsia di un disastro”. Cosa c'entrano i terroni? Sono stati i tedeschi, gli austriaci, i greci e quasi tutti gli altri Paesi europei a escludere l'Italia dai loro flussi turistici, per via della Lombardia e del Nord-Ovest ancora troppo infestati dal virus; è stato il presidente della Liguria, Giovanni Toti, a protestare per l'esodo incontrollato di lombardi a rischio morbo nelle seconde case liguri; sono stati imprenditori turistici della Versilia a dire che i lombardi non li vogliono, per non rischiare di compromettere la stagione già danneggiata; è stato il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, a dire che se al posto della Lombardia ci fosse stata una regione del Sud, l'avrebbero tenuta blindata e commissariata. E quanto a solidarietà, migliaia di infermieri e medici meridionali si sono offerti volontari per aiutare la Lombardia e i malati gravi lombardi sono stati ospitati e guariti negli ospedali del Sud, mentre il Veneto non ha offerto un operatore sanitario, né un posto letto di terapia intensiva, pur avendone il 60 per cento vuoti. Che c'entrano i terroni? C'entrano, perché “anche” i meridionali hanno criticato la disastrosa gestione lombarda dell'epidemia. E i giornali del Nord, i politici del Nord, la classe dirigente e tanti intellettuali del Nord (quoque tu, Ferrucce!) tacciono su tutto il resto e riducono la figuraccia alla presunta “invidia” dei meridionali per chi è più bravo di loro (sì? Vogliamo parlare dell'ospedale-covid costruito a Napoli con 7 milioni in 30 ore “e 45 secondi”, 72 posti letto, e della sceneggiata di quello della Fiera di Milano, costato da 21 milioni a forse il doppio, inaugurato finito dopo due settimane, ma finito dopo altre due, per tre posti letto, poi faticosamente portati a una dozzina, forse 20?). Ancora una volta, la Lombardia (e il Nord in generale) trasforma una propria debolezza in colpa dei terroni: se fallisce come “locomotiva” è per la palla al piede, il Sud, che dice di “mantenere” (“residuo fiscale”: quoque tu, Ferrucce!), mentre gli sottrae decine di miliardi all'anno; se si rivela un disastro nella gestione l'epidemia, colpa dei terroni è mostrarsi più efficienti (lo scrivono in tutto il mondo, meno che i giornali del Nord, in Italia), per “invidia dei primi della classe” (un modo per rimettersi in testa, quando ci si scopre ultimi, dopo il Veneto, il Sud e e tutti gli altri). Ora, a parte che, fosse pur vero, il malanimo terrone, sarebbe ampiamente giustificato quale ritorsione per decenni di insulti, discriminazioni, razzismo padano contro i meridionali. E che la classe dirigente del Nord, specie lombarda, ha aizzato, tollerato, minimizzato e di fatto condiviso, tanto che uno dei giornali più rappresentativi dello spirito padano, fallita la razzistissima Padania, è il portavoce del Feltri-pensiero (parola grossa), quanto di più anti-meridionale ci sia (“sono inferiori”). La fine di un popolo si misura con un sentimento-termometro: la vergogna, il guardiano delle norme della convivenza. Sparita quella, c'è solo una indistinta massa umana che non riconosce ad altri la stessa dignità, gli stessi diritti, lo stesso rispetto. I Feltri, i capi partito con condanna per razzismo che fa curriculum sono la prova di questa dissoluzione delle basi di convivenza. Interventi pur più sfumati nella sostanza e civili nella forma, quale quello di de Bortoli, a me paiono persino più rivelatori, perché mostrano che i veleni di quel sentire sono entrati nel dialogo e nei temi dell'area moderata; quindi sono “culturalmente” dominanti, rappresentativi di una comune, diffusa convinzione. Il che spiega quel misto di sorpresa e sconcerto, persino contenuta irritazione (o spudorata, vedi Feltri: «Senza di noi farete una brutta fine, meritata») di chi vede violato un dogma, la certezza fondante della propria identità: siamo noi, i migliori per autodefinizione, a decidere la classifica e a porre tutti gli altri in quell'ordine “naturale delle cose” che va da “Prima il Nord” a “terroni di merda” (i più costumati, invece: «Non sono razzista, figurati. La mia cameriera è di Molfetta, ho un operaio di Trapani, il mio compagno di bocce è napoletano. Brava gente, ma non sono come noi»). Stupisce il loro risentito stupore dinanzi a critiche più che motivate (che non accettano, perché non abituati a esser giudicati, ma a giudicare) e che vengono declassate a invidia per il primo della classe; invidia per la Sua Eccellenza la Sanità lombarda, patrona dei privati allevati a dismisura con soldi pubblici (e alla prova del virus letteralmente franata, al contrario di quelle veneta, emiliana, meridionale). Quel risentito stupore denuncia la natura del rapporto squilibrato: se noi vi insultiamo, è espressione di un sentimento popolare e diffuso di insofferenza per le vostre colpe; se voi osate discutere la nostra primazia, persino quando tutto il mondo e il resto d'Italia la contestano, la cosa ci risulta intollerabile, una sorta di aggressione. Il Nord ha paura, perché il Sud non accetta più la condizione di sudditanza: si mette alla pari! Si incrina la base del sistema di potere coloniale su cui si regge l'economia del Nord, dall'Unità (trasferimento selvaggio di risorse da Sud a Nord) a oggi (trasferimento selvaggio di risorse da Sud a Nord): una economia che genera una politica, su cui fiorisce una cultura. Se prima questo avveniva in forme sfumate, non immediatamente riconoscibili, oggi, con la consapevolezza sempre più diffusa, a Sud, di come stanno davvero le cose e con la fine, nell'euro, del controllo della propria moneta, senza l'elasticità della svalutazione, il gioco si è fatto scoperto: il razzismo si mostra senza sfumature e il sistema si è arroccato. Yanis Varoufakis, in “Adulti nella stanza”, narra la domanda che gli fece l'allora segretario di Stato degli Stati Uniti, Larry Summers, quando il docente greco fu eletto al Parlamento, poi ministro alle Finanze nel momento più buio del suo Paese: «Ci sono due specie di politici, quelli che “giocano dentro” e quelli che “giocano fuori”. Tu come giochi?». Giocare dentro vuol dire essere garantiti ma complici; giocare fuori sono liberi, ma inascoltati. Quando il blocco di potere padano si sentiva forte, poteva permettersi il lusso di avere Pasolini a fargli il controcanto sulla prima pagina del Corriere della sera; oggi non si legge un economista, uno storico fuori dal coro “noi locomotiva, voi terroni mantenuti” (i Viesti, i Sales, i Daniele, eccetera, tutti esclusi) e se il ministro Peppe Provenzano dice una coraggiosa banalità («Milano prende e non restituisce») si alzano le barricate giornalistiche e non si spiega la verità di quella frase; i documenti truccati per rubare risorse al Sud si possono leggere in alcuni libri, rimbalzati su qualche giornale al Sud, vedere a Report, ma non sporcano le “macchine del consenso” del potere padano. Le colpe degli intellettuali del consenso (alcuni per ignoranza, in buona fede; altri, sapendo, per convenienza e viltà), sono di portata storica in questa miserabile stagione di allevamento di una classe dirigente razzista. Tale lettura suona troppo terrona, di parte, esagerata, ai sostenitori di quel sistema? Basterebbero le analisi e i documenti dello Svimez, dell'Eurispes), volendo capire. È la chiusura al dubbio e alla possibilità di riconoscere sbagliato quel che si crede di sapere la ragione prima della mancata conoscenza reciproca degli italiani, del pregiudizio, del razzismo, inutilmente denunciato da oltre un secolo, da Ciccotti e Gramsci a oggi. Una chiusura troppo spesso sospetta: non conviene, si campa male “fuori”. Ma, alla fine, anche il virus, come è stato detto, può essere il pettine che mostra i nodi. Il risentito stupore alla pretesa terrona della parità, anche di giudizio dei fatti, disorienta il “prima il Nord”, il lombardo presunto “trainante” incapace di accettare equiparazione ai presunti “trainati”. Se dallo stupore e dalla stizza per la lesa maestà derivasse anche un interrogarsi su se stessi (parlo per quelli in buona fede, e de Bortoli lo considero tale), forse si farebbe in tempo a diventare un popolo. Altrimenti, la frattura già conclamata diverrà insanabile. O equità, o secessione. “Prima io” è razzismo; e quel tempo è finito: se non alla pari, meglio da soli. La lente impietosa del coronavirus ha fotografato con brutale evidenza l’Italia com’è: non è un Paese, non c’è. Se ne può stupire solo chi in tutti questi anni, per interessi privatissimi ben più che per miopia, non ha voluto vedere. Ma le gigantesche falle che la pandemia e la crisi economica hanno reso palesi, frutto velenoso di mali remoti e recenti, ci hanno messo di fronte anche a un’antica, virulenta verità: ciò che si fa agli altri, si fa a se stessi. Ora, mentre vanno in scena grandi generosità e incalliti egoismi, siamo al punto di non ritorno. Se l’Italia non sarà in grado di ripartire da Sud, se si tenteranno di imporre nuovamente i fallimentari modelli del passato, allora si spezzerà definitivamente. Se non sarà finalmente equa e unita, allora non sarà proprio più niente. PINO APRILE giornalista e scrittore, è autore di saggi di straordinario successo, tradotti in diversi paesi. Terroni, uscito nel 2010 e diventato un caso editoriale da mezzo milione di copie, e i successivi lavori, tra cui Giù al Sud e Carnefici, hanno fatto di lui il giornalista “meridionalista” più seguito d’Italia, al Sud come al Nord. A New York è stato proclamato “Uomo dell’Anno” dall’Italian Language Inter-Cultural Alliance.

CORRUZIONE, LOMBARDIA È DA RECORD. sinistraxmilano.org il 7 ottobre 2019. L’articolo di ieri su Avvenire rilancia l’allarme di Transparency International Italia sulla corruzione italiana. Record Lombardo, Milano e Brescia su tutti. Da leggere. Luca Bonzanni. Grandi mazzette e micro-corruzione. È la quotidianità del malaffare che s’intreccia con la pubblica amministrazione attraverso matrici diverse, chiaramente criminali o mimetizzate negli interstizi di imprenditoria e politica. La Lombardia, centro economico e di potere dell’intero Paese, resta giocoforza terra di collusione e connivenze: l’ultimo campanello d’allarme arriva da Transparency International, ong impegnata nel campo della legalità, che ha mappato censendo le notizie apparse sui media il fenomeno in Italia, individuando nella Lombardia la regione più interessata da condanne, inchieste e arresti per corruzione o malversazione nella sfera pubblica. Sono stati 66 gli episodi individuati in regione nei primi mesi del 2019: nella classifica del Belpaese, il podio è completato dalla Sicilia (59 casi) e dalla Campania (52), col Lazio al quarto posto (46). Un dato, quello del primo semestre di quest’anno, tendenzialmente in linea con i dati registrati sull’intero 2018: negli scorsi dodici mesi, Transparency aveva censito in Lombardia un totale di 125 casi di corruzione e reati affini; a spiccare, le 36 “voci” di Brescia e le 33 di Milano. Scorrendo nel dettaglio i fatti elencati da gennaio a giugno 2019, 23 sono localizzati a Milano e provincia. Maggio è stato il mese mediaticamente più caldo: prima l’inchiesta “Mensa dei poveri” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo lombardo, con un centinaio di indagati e una quarantina di misure cautelai (tra cui l’arresto del consigliere comunale di Milano Pietro Tatarella e i domiciliari per il consigliere regionale Fabio Altitonante, entrambi di Forza Italia) a scoperchiare un presunto sistema di appalti pilotati, finanziamenti illeciti ai partiti, persino i tentacoli della ‘ndrangheta sullo sfondo; poi la vicenda di Legnano, con accuse di corruzione elettorale e nomine pilotate che portarono ai domiciliari il sindaco Gianbattista Fratus (Lega) e l’assessora alle opere pubbliche Chiara Lazzarini e in carcere il vicesindaco Maurizio Cozzi. Sono invece 24, tra condanne e inchieste in corso, i casi censiti in sei mesi nel Bresciano, altro centro nevralgico della corruzione, soprattutto quella “micro”. «Non ci stupiscono i tre settori più critici si legge nel report semestrale di Transparency International, con considerazioni sulla situazione nazionale che trovano riflessi anche nello scenario lombardo -: pubblica amministrazione, sanità e politica. Quello che colpisce di più è il fatto che proprio questi tre settori, così cruciali nella vita di tutti noi, da soli rappresentino quasi i due terzi dei casi riportati dai media. E addirittura un caso su tre è relativo ad appalti pubblici. Questo dimostra nuovamente quanto alto sia il rischio di corruzione in un settore tanto delicato come quello dei lavori pubblici. La tipologia di reato contestato vede la corruzione come la più diffusa con il 40% dei casi, ma non possiamo dimenticare tutti i reati affini come peculato, abuso d’ufficio e turbativa d’asta». 

Milano vs Resto d’Italia: è il Sud che ruba al Nord o avviene il contrario? Francesco Bruno il 13 Novembre 2019 sueconopoly.ilsole24ore.com. Le parole su Milano del ministro Giuseppe Provenzano sono state un po’ strumentalizzate, come sempre accade quando si solleticano i vari campanilismi che interessano il nostro Paese. Lo stesso ministro ha poi corretto il tiro in un post su Facebook, scritto a mente fredda. Ma se la polemica è abbastanza stantia, la questione sottesa non è irrilevante. Essa  potrebbe interessare diversi tipi di dualismi, come quello tra metropoli e provincia ad esempio. Ma nel caso italiano i divari più significativi restano quelli regionali o per macroaree. Milano è sicuramente in forte ascesa come città, ma è anche il centro di un sistema industriale avanzato e inserito nelle catene globali del valore. Piuttosto che soffermarsi sul ruolo -limitato- che una singola città può avere a livello nazionale, se non quello di fungere da esempio come correttamente scritto da Massimo Famularo, l’occasione appare propizia per riflettere sui divari infranazionali, tra le principali fonti di polemiche interne nel dibattito mediatico e politico. Perché in fin dei conti, da 158 anni, si finisce nel solito vicolo cieco: è il Sud che ruba al Nord o avviene il contrario? La domanda riguarda due principali temi. usati dalle opposte fazioni. Da un lato il Nord che reclama lo “scippo” di risorse economiche, dall’altro il Mezzogiorno che lamenta il drenaggio di capitale umano. Entrambe le tesi sono suffragate dai dati, ma presentano alcune distorsioni da un punto di vista del rapporto causa-effetto. Partiamo dal primo punto. Per provare ad elaborare alcune riflessioni, possiamo utilizzare la recente pubblicazione della Banca d’Italia sulle economie regionali. Iniziamo con le istanze del Settentrione. Veniamo da anni in cui alcune regioni del Nord, Veneto in particolare, seguito da Lombardia ed Emilia-Romagna, chiedono nuove forme di autonomia differenziata. A prescindere dal merito della riforma (in aggiornamento e già trattato spesso su Econopoly), la movimentazione politica muoveva dalla retorica sul cosiddetto residuo fiscale (stima, a livello locale, di un ipotetico saldo fra le spese e le entrate del bilancio pubblico). Nel citato rapporto si legge a tal proposito che «(…) nel 2017 (ultimo anno per il quale è possibile effettuare la ricostruzione) il bilancio pubblico avrebbe erogato risorse nette pari all’incirca al 3,6 per cento del PIL nazionale alle regioni meridionali, contro un prelievo netto pari al 5,6 per cento in quelle del Centro Nord (corrispondenti a circa il 16 e il 7 per cento del PIL delle rispettive macroaree e a 2.900 e 2.400 euro in termini pro capite)». Se andiamo a vedere le tabelle, in percentuale al PIL nazionale, la Lombardia è nettamente la regione con il residuo fiscale più alto.

Quindi, è vero che la Lombardia ad esempio -e in particolare il suo capoluogo- dà tanto al resto del Paese, ma occorre chiarire due un aspetto fondamentale, che rappresenta un equivoco nella battaglia politica degli autonomisti. La forma di redistribuzione principale del nostro sistema è la progressività delle imposte sulle persone fisiche, con la quale si finanziano poi i vari servizi dello stato sociale. I trasferimenti, pertanto, non viaggiano da un territorio a un altro, ma dai “ricchi” ai “poveri” per capirci. Il fatto che sia più abituale che il ricco abiti a Nord piuttosto che a Sud, rappresenta un dato che non muta il principio costituzionale di base, che garantisce alcuni diritti a prescindere dalla residenza. Se così non fosse, finiremmo nel paradosso di una Milano che potrebbe rivendicare il residuo fiscale positivo nei confronti del resto della Lombardia. Si tratta di un principio insuperabile, a meno di secessione. Chiarito quanto sopra, passiamo alle tipiche istanze meridionali, che -in tema di risorse- lamentano una spesa pubblica pro capite, corrente e in conto capitale, inferiore a quella del Nord. Secondo il rapporto di cui sopra, «In termini pro capite tale spesa è valutabile in circa 10.600 euro per un cittadino residente nelle regioni meridionali, a fronte di 12.000 euro per un residente al Centro Nord». Ma come precisa lo studio la differenza è dovuta principalmente alla componente pensionistica, sebbene restino carenze sul lato dei livelli essenziali delle prestazioni. Anche per le spese in conto capitale il Sud appare sfavorito a livello pro capite, ma in misura minore.

Da qui si potrebbe evincere la figura di un Nord ladrone? La Storia d’Italia suggerisce di no. Semplicemente perché non è tutto riconducibile ad una questione di quantum, ma anche di qualità della spesa pubblica. Inebriati dalle varie teorie sul famigerato moltiplicatore, sono in molti (non solo al Sud naturalmente) ad immaginare virtù miracolose della spesa stessa, salvo poi scontrarsi con una realtà differente. I risultati sono sotto i nostri occhi, ma non vogliamo levare le fette di prosciutto. La Banca d’Italia ci dà un suggerimento sul perché innanzitutto il miracolo non avvenga. Inoltre, il Mezzogiorno ha un rapporto ancor più controverso con la spesa pubblica, perché la stessa è molto alta se rapportata al PIL dell’area. Questo ha inevitabilmente prodotto forme di assuefazione, spesso sfociate in richieste di assistenzialismo. Ma nonostante questo ci si ostina a ritenere l’intervento dall’alto come possibile panacea, dimenticandosi che la spesa viene poi sistematicamente dirottata al sostegno dei redditi piuttosto che ad investimenti produttivi. Con una torta sempre più piccola da dividere. Ciò non significa che il sistema di finanziamento degli enti locali non debba essere corretto nelle sue distorsioni ed inefficienze, ma appare del tutto utopistico sovrastimare gli effetti sullo sviluppo derivanti da un’eventuale aumento delle risorse pubbliche a disposizione. In definitiva sul punto delle risorse economiche, entrambi gli schieramenti appaiono vittime di alcune informazioni fuorvianti e di illusioni di lunga data. A livello di effetti però, le illusioni sono più pericolose per il Mezzogiorno, che sembra non voler imparare le lezioni che la sua storia gli impartisce. In merito alla seconda questione, relativa all’emigrazione ed al drenaggio di capitale umano, mi scuso per l’autocitazione, ma posso aggiungere ben poco rispetto a quanto scritto qualche mese fa su questi pixel. Oltre a riflettere amaramente su come questo Paese faccia così fatica a comprendere le ragioni dei ragazzi che emigrano dal Mezzogiorno al Centro-Nord o dall’Italia all’estero, mi unisco alla provocazione di Massimo Famularo rivolta al Ministro. Si chiede perché Milano non formi classe dirigente come un tempo,  ma il Ministro farebbe bene a guardarsi intorno, anche all’interno dell’Esecutivo di cui fa parte. Vede meritocrazia intorno a sé? Nella politica? O nei principali incarichi a nomina pubblica? Forse è per questo che le menti migliori scelgono un’altra via, che ad alcuni potrà apparire egoistica nei confronti del Paese, ma che spesso altro non è che una normale e sana ambizione di raggiungere traguardi che siano in linea con gli sforzi e le fatiche di una vita. E su questo non deve riflettere solo Milano, che sembra peraltro aver capito il trend imposto dai nostri tempi, ma il resto d’Italia.

Lo stato spende più al Nord o al Sud? Da ilpost.it venerdì 20 dicembre 2019. Dipende molto da come si conta la spesa pubblica, ma se si tiene conto di tutto-tutto gli abitanti del Sud ricevono meno degli altri. Il divario crescente tra Nord e Sud del paese è tornato ancora una volta di attualità, negli ultimi anni, grazie al dibattito sulla maggiore autonomia chiesta da alcune regioni del Nord Italia. Uno dei motivi che spesso motivano questa richiesta è l’idea che le regioni più ricche vedano una parte significativa delle risorse pubbliche – che contribuiscono in gran parte a creare – impiegate per finanziare una spesa pubblica inefficiente, improduttiva e clientelare nel resto del paese. Di recente però lo SVIMEZ, il centro di ricerca pubblico sullo sviluppo del Sud Italia, ha ricordato che quando si include nel conteggio ogni voce, il Nord riceve una percentuale della spesa pubblica molto superiore al Sud: circa 4 mila euro a persona in più. È un dato che non è molto conosciuto dai non addetti ai lavori, anche perché di recente il dibattito sul divario Nord-Sud si è concentrato sulla questione del residuo fiscale, ossia quante tasse raccolte in una regione rimangono effettivamente sul territorio e quante invece vengono redistribuite nel resto del paese. Com’è facile immaginare, le regioni del Nord sono quelle con il residuo fiscale più alto: principalmente per il fatto che hanno un PIL maggiore e abitanti più ricchi, quindi pagano più tasse delle regioni meno sviluppate e con abitanti meno ricchi (e, spesso, più disoccupati e indigenti). Ridurre o addirittura eliminare il divario fiscale è l’obiettivo rivendicato da molti dei sostenitori dell’autonomia. Accanto alla questione del residuo fiscale, cioè di quanto i territori pagano in tasse in proporzione a quanto ricevono, è importante osservare anche quanto ricevono in assoluto. In altre parole, al di là di chi paga di più (sappiamo che la risposta è il Nord), è interessante sapere anche chi riceve di più. A questo proposito, negli ultimi tempi sono circolati molto i dati della Ragioneria generale dello Stato sulla “spesa statale generalizzata” (furono pubblicati per esempio dall’ex ministra leghista per gli Affari regionali Erika Stefani). Secondo questi dati le regioni del Nord – Lombardia e Veneto in testa – sono quelle che ricevono meno risorse: ogni anno un lombardo riceve circa 2.700 euro di spesa statale regionalizzata, un veneto 2.900, mentre un abitante del Lazio ne riceve ben 5.700. Come ha ricordato però lo SVIMEZ lo scorso aprile – e poi, di nuovo, in un’audizione parlamentare pochi giorni fa – i dati della Ragioneria generale dello Stato sono parziali. È la stessa Ragioneria, infatti, a spiegare che su circa 590 miliardi di euro l’anno di pagamenti effettuati dallo Stato, ne considera “regionalizzabili” – cioè ripartibili a livello regionale – circa 270. Da questo conto mancano alcune voci molto importanti, per esempio la spesa previdenziale e per assistenza sociale: quindi pensioni, politiche sociali e per la famiglia, che da sole costituiscono quasi il 70 per cento della spesa che la Ragioneria considera “non regionalizzabile”. Il conto della Ragioneria, infine, tiene conto solo dei pagamenti dello Stato centrale, quindi non considera le risorse proprie impegnate nella sanità dalle regioni, per esempio, né quelle spese dalle società controllate pubbliche che forniscono servizi molto importanti per la qualità della vita dei cittadini, per esempio i trasporti locali e la raccolta dei rifiuti. Per avere un quadro più completo di quanta spesa pubblica effettivamente raggiunga ogni regione, i ricercatori dello SVIMEZ sostengono che sia meglio utilizzare dati diversi da quelli parziali della Ragioneria: quelli raccolti dal sistema Conti Pubblici Territoriali (CPT), che fa parte dell’Agenzia per la coesione territoriale. A differenza dei dati della Ragioneria, quelli del CPT includono tutti i flussi finanziari, compresi quelli previdenziali e quelli del cosiddetto “settore pubblico allargato” (che include per esempio società di diritto privato ma a controllo pubblico). Tenendo conto anche di questi dati, la classifica di chi riceve più spesa pubblica cambia. Se per la Ragioneria, infatti, il Sud e i suoi abitanti ricevono circa 3.800 euro di spesa pubblica pro capite ogni anno, mentre al Centro-Nord la cifra scende al 3.375, guardando i dati del CPT sul totale della pubblica amministrazione (comprensivo anche di regioni, enti locali ed enti previdenziali) il Centro-Nord passa in vantaggio con una spesa pro capite di 13.400 euro contro i 10.900 del Sud. Se nel conto si include anche il settore pubblico allargato (quindi ENI, Ferrovie dello Stato, società municipalizzate, ecc.) il divario arriva a quasi 4 mila euro a persona, con una spesa pubblica pro capite al Centro-Nord pari a 17 mila euro e al Sud pari a 13.300. Andando a vedere le singole regioni, emerge che la regione che riceve nel complesso la maggior quantità di spesa pubblica pro capite è la Valle d’Aosta, con 25 mila euro annuali. Tra le regioni non a statuto speciale riceve più spesa pubblica il Lazio, con 22 mila euro, seguita dalla Liguria, con 18 mila. La regione dove invece si spende meno è la Campania, con 12 mila euro: meno della metà della regione che riceve di più.

Storie di “Gallo” e “Paglietta”, il Nord vuole farsi Stato Dal trucco della spesa storica alle mani sulla cassa centrale fino allo “scippo” delle tasse. Roberto Napoletano il 2 luglio 2019 su Il Quotidiano del Sud. C’è qualcosa di veramente misterioso che gonfia il petto per gli strilli dei Governatori padani. Fingono di avere qualche numerino sconosciuto ai più, ma ancora prima alle regole generali della contabilità e degli Stati unitari o federali, per non parlare della decenza, che li fa reclamare senza rossore la “restituzione” di non si capisce che per sanare l’ingiustizia perpetrata da non si capisce chi. Hanno la pancia piena di una abbuffata di decine e decine di miliardi l’anno (61, per la precisione) indebitamente sottratti alle donne e agli uomini del Mezzogiorno per trasferirli in mille rivoli assistenziali nei portafogli dei loro cittadini-elettori e si permettono di pretendere, oltre ogni limite, di avere restituito ciò che loro dovrebbero restituire con gli interessi e la recita di una cinquantina di rosari se non vogliono perdere la speranza che qualcuno possa pensare di assolverli un giorno dai loro peccati.

SCOPRI I CONTENUTI SULLO SCIPPO PERPETRATO AL SUD. La banda del buco del Grande Partito del Nord, di cui loro fanno oggi autorevolmente parte, ha inventato il gioco delle tre carte di Pontida e Varese, che ha fatto fare la figura dei principianti a quelli di Forcella. Di che si tratta? Con destrezza lumbard, nel silenzio complice di tutti, hanno buttato nel cestino le due carte – livelli essenziali di prestazione e fabbisogni standard – che sono imposte dalla Costituzione e perfino dalle regole federali dell’ex ministro leghista Calderoli, ma danno il giusto ai meno ricchi e per questo (solo per questo) non sono stati mai dolosamente determinati. Sul tavolo resta solo la terza carta che è la moneta dei ricchi e, cioè, la spesa storica perché li fa stravincere e ne arma le mani predoni dentro la cassa pubblica. Ogni anno i lamentosi signorotti della politica del Nord vanno al bancomat dello Stato e inseriscono la moneta telematica che ha il cambio della refurtiva incorporato. Ogni anno assumono sempre più gente, buttano soldi qua e là, aumentano la spesa storica e, poi, il bancomat paga in contanti per ogni loro desiderio. Ignorano i “Governatori” che in uno Stato unitario o federale esiste un atto costitutivo che tiene insieme diritti e doveri tra cittadini e Stato e che questo patto nulla ha a che vedere con il genetico e generico diritto del mitizzato territorio del Nord. Anche se si accondiscendesse a questi inammissibili (e penosi) conti territoriali di dare e avere in salsa leghista, mai emergerebbe una quantificazione legittima di pretese ma un obbligo costituzionale cogente di restituzione di tutto ciò che è stato fino a oggi egoisticamente rubato dal Nord al Sud attingendo alla spesa pubblica, ignorando i diritti di cittadinanza di molti. Tutto ciò, principi, metodo, numeri (veri) non quelli loro (mai esibiti) e, tanto meno, quelli falsi raccontati dalla portavoce-Pinocchio in Parlamento, la ministra Erika Stefani, i Governatori fanno finita di non sapere, di non vedere, di non sentire, confermando che c’è del metodo nella follia. Questo metodo fa cadere la maschera e rivela il loro vero obiettivo: farsi Stato.

STORIA DI “GALLO” E “PAGLIETTA”. A Napoli, questo agitato strombazzare è argutamente assimilato alla mattutina performance del “gallo ‘ncoppa ‘a munnezza” che, a pieni polmoni, come un brontolone di provincia, ripete il suo antelucano verboso rituale. Sempre a Napoli, l’insistenza fastidiosa di certi comportamenti, per cui la questione delle quote latte è un problema di Stato e la Regione Emilia Romagna si ritaglia il ruolo di concorso esterno in autonomia differenziata, l’inevitabile, supplementare, carico di quotidiane litanie sull’autonomia “virtuosa” configura un mestiere ben noto, quello del “paglietta”. Personaggio retorico e inconcludente ma pericoloso se – come accade nelle pianure del Nord – governa milioni di ricchi, male informati, decadenti fedeli. Per evitare equivoci, nella settimana che si propone (auspicabilmente e verosimilmente solo a parole) di definire una proposta di autonomia differenziata e di presentarla all’approvazione del Consiglio dei ministri, vogliamo riepilogare alcuni punti fermi e alcuni punti interrogativi che il nostro lavoro di inchiesta giornalistica ha messo a fuoco in questi mesi. Ci rivolgeremo di volta in volta al “gallo” o al “paglietta” di turno avendo, però, la consapevolezza di sottolineare che questi bizzarri elementi comportamentali emergono solo quando si parla di autonomia e di cassa pubblica a testimonianza che si tocca un nervo scoperto. In più circostanze, e intendo qui ribadirlo, abbiamo parlato della buona amministrazione dei territori del Nord (non tutti e non sempre, ovviamente) e dei loro Governatori, nonché della forza del tessuto civile. Il punto da noi posto nell’interesse del Nord quasi prima che del Sud, è quella di una più equa distribuzione delle poche risorse pubbliche perché si smetta di pensare che tutti i soldi pubblici nazionali per fare investimenti siano proprietà delle regioni ricche e alle regioni povere restino solo i fondi comunitari come un Paese terzo a cui, poi, puntualmente si sottraggono i cofinanziamenti nazionali per soddisfare l’ultima corporazione di turno nordista tipo quote latte e dintorni. Per fortuna, non siamo più soli, e siamo certi che l’operazione-verità avviata da questo giornale avrà nell’indagine conoscitiva proposta dalla presidente della Commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco, una sede competente e attenta. Sottoponiamo, di seguito, alcuni elementi di valutazione.

STORIA DEI 61 MILIARDI E DINTORNI.

a) I dati dei conti pubblici territoriali più aggiornati misurano algebricamente la spesa del settore pubblico allargato e sono inequivoci. Sono gli unici completamente veritieri (qualcuno informi la ministra Stefani) perché riguardano amministrazioni centrali, Regioni, Province, Comuni, Comunità montane, Inps, Anas, Ferrovie, e così via. Il conto è presto fatto: a una popolazione del Sud pari al 34,3% corrisponde il 28,3% della spesa pubblica, al 65,7% della popolazione del Centro-Nord arriva il 71,7%. Balla il 6% che viene indebitamente sottratto al Sud povero e regalato al Nord ricco. Sono 61 miliardi l’anno, avete capito bene. C’è qualcuno disposto a chiedere al “gallo” o al “paglietta” nordisti, alla loro prima egoistica lamentazione general generica, di mettere mano al portafoglio e di cominciare a restituire quanto di ciò arbitrariamente sottratto da almeno dieci anni in qua?

b) Come è stato possibile tutto ciò? Lo abbiamo già detto, hanno fatto il gioco delle tre carte e continuano senza un minimo di decenza a ben guardarsi dal definire i Lep e i fabbisogni, concepiscono di aggredire anche la cassa delle amministrazioni centrali dove la Costituzione e le regole generali di uno Stato unitario vengono rispettate. C’è qualche motivo, governatore Zaia, governatore Fontana e, in concorso esterno, governatore Bonaccini perché a dieci anni dalla legge Calderoli non solo non si varano i parametri per rispettare i diritti di cittadinanza dalle Alpi a Pantelleria, ma addirittura non trovate il tempo neppure per costituire un Fondo di perequazione tra Regioni come, almeno formalmente, hanno fatto i Comuni? Di che cosa avete paura? Volete togliere alle Regioni del Sud indebitamente penalizzate lo strumento giuridico per agire e chiedervene conto nelle sedi giudiziarie competenti? Il “gallo” e il “paglietta” hanno nulla da dire, in proposito, tra un’ingiustificata lamentazione e l’altra?

c) Siete a conoscenza che nella sua classica definizione di federalismo fiscale di stampo cooperativo, J.M. Buchanan esplicitò negli anni 50 il criterio di equità orizzontale che ritroviamo nello spirito della riforma del titolo V sintetizzato dal motto: si trattano in modo uguale gli uguali. In base a questo principio FEDERALE “un individuo dovrebbe avere la garanzia che dovunque egli desideri risiedere nella nazione, il trattamento fiscale complessivo che egli riceverà sarà approssimativamente lo stesso”. Ho parlato un linguaggio difficile? Allora mi spiego meglio: che giudizio avrebbe, governatore Zaia, di una persona con un reddito X che paga regolarmente le sue tasse e vorrebbe che lo Stato si impegnasse a investire il gettito delle sue tasse per rifare per la terza volta la villa comunale (attualmente in ottimo stato) su cui si affaccia la sua abitazione mentre le strade comunali continuano ad essere piene di buche, il pronto soccorso dell’ospedale perde pezzi, e così via? Ci pensi un attimo è quello che state chiedendo di fare voi trattenendo una cassa che nessuno è neppure in grado di determinare e che anche voi avete difficoltà a mettere nero su bianco in documenti da presentare nelle sedi competenti? Che cosa ve lo impedisce? Perché non lo fate?

d) Per evitare equivoci la base del patto sociale nel quale si riconosce una comunità, sia che si organizzi in modo federale che unitario, non consente simili giochetti, non sa che cosa sia il presunto diritto alla restituzione del cosiddetto residuo fiscale che nessuno sa e potrà mai davvero sapere che cosa esattamente sia. In una comunità di eguali dove il trattamento fiscale deve essere approssimativamente lo stesso e dove i principi di solidarietà sono fondanti, questo oggetto misterioso di cui si narra nelle vallate del Nord non ha neppure diritto di asilo. Diverso è il caso di uno Stato Confederale che collega comunità diverse e dove il principio di equità orizzontale vale all’interno delle singole comunità e non per individui di comunità diverse, modello al quale di fatto aspira il sedicente regionalismo a geometria variabile che intende realizzare il regime di autonomia rafforzata. Si tratta di questo? Sì, allora ditelo: volete farvi Stato? Tutto si può fare, ma bisogna dirlo e non bastano di certo referendum consultivi e le compiacenze del mite Gentiloni, premier pro tempore, per fare sparire l’Italia senza nemmeno chiedere ai cittadini italiani di esprimersi tutti nell’urna. Qualcuno, tra una lamentazione e l’altra, del “gallo” o della “paglietta” di turno, potrà spiegare questi elementari ragionamenti?

e) Siete al corrente che la Ragioneria dello Stato in un documento a uso interno ha fatto presente che se non sanate i difetti costituivi di questo federalismo all’italiana, il federalismo dei ricchi, il volume di criticità mette a rischio l’intero impianto in vigore? Non quello che follemente sognate?

f) Qualcuno vi ha informato che 65 Comuni del Sud si sono rivolti al TAR del Lazio perché ricevono zero euro spaccato per asili nido e altra spesa sociale garantita dai diritti di cittadinanza e che la presidenza del TAR ha chiesto al ministero dell’interno una “documentata relazione” relativa alla questione perché da questo ministero dipende il fondo di perequazione tra Comuni? Qui almeno hanno avuto la decenza di costituirlo.

g) Sapete che cosa è successo, di saccheggio in saccheggio del Nord al Sud dalla cassa di Stato, nella mappa dell’impiego pubblico? Che la capitale del posto fisso è diventata il Nord Est che ha 4,9 dipendenti pubblici ogni mille, ultimo censimento Istat, contro i 4,5 del Sud, isole comprese? Non vi sembra che dietro questi numeri non c’è solo la fine di un luogo comune insopportabile ma anche l’alterazione del corso sano di flussi pubblici che si traducono in assistenzialismo al Nord (non ne ha bisogno) e tolgono risorse per gli investimenti al Sud fino ad azzerarle? Ma dove ci condurranno mai logiche così miopi e regressive?

h) Che cosa dire del rapporto sulla finanza pubblica della Corte dei conti che segnala che le Regioni del Nord hanno assunto dieci volte di più di quelle del Sud e che gran parte del buco (copre tutto il bancomat della spesa storica) viene da tre regioni a statuto ordinario del Nord, nell’ordine Piemonte, Liguria e, meno, Toscana?

i) Come si fa a parlare con tanta leggerezza di residuo fiscale di una regione piuttosto che un’altra in uno stato unitario o federale che dir si voglia? Ma davvero volete ripetere, anche su questo versante, la figuraccia fatta dalla ministra Stefani sulla regionalizzazione della spesa pubblica? Volete anche voi sentirvi dire che i numeri esposti sono fragili, indimostrabili, comparativamente lacunosi, comunque senza diritto di cittadinanza in uno Stato federale? Come si fa a dire che una tassa pagata in una determinata città è frutto del lavoro di quella città mentre il reddito prodotto potrebbe essere (molto spesso è) il frutto del lavoro di altri cittadini italiani svolto in altri territori? E poi, come li calcolate? Che cosa rispondete al presidente della Svimez, Adriano Giannola, che sostiene che dovete almeno scalare gli interessi che percepite sui titoli di Stato perché “rappresentano una spesa erogata a titolo di servizio del debito pubblico” che una prassi consolidata non computa anche se resta una delle poste con un significativo impatto redistributivo?

QUEI NUMERI AL LOTTO. Il ragionamento di Giannola è il seguente: vista la pretesa del diritto alla restituzione in base a un presunto residuo fiscale che sottrarrebbe risorse da un territorio per finanziare un altro territorio (aggiungo io come sarebbe giusto, ma come qui non avviene perché l’abbuffata di spesa pubblica sottratta dal Nord al Sud ammazza tutto) allora questo dato va integrato con l’imputazione territorialmente corretta della spesa pubblica impiegata per corrispondere il servizio del debito. Tanto più che (equivalenza ricardiana) il valore delle imposte presenti e future necessarie a soddisfare il debito tende a coincidere con l’ammontare degli interessi percepiti dai detentori del debito. Per questi, insomma, gli interessi percepiti sono una forma di restituzione di imposte. Secondo Giannola e tanti altri, quindi, anche in termini quantitativi questo presunto residuo fiscale non avrebbe nulla da spartire con i numeri al lotto dati al bar o sui giornali, mai in documenti ufficiali presentati oggi all’esame del governo, ma si ridurrebbe a poco più di un terzo di quanto indebitamente acquisito di anno in anno dalle Regioni del Nord con la spesa pubblica non dovuta. Potremmo dire: di che cosa parliamo? Invece no, la nostra critica è molto più radicale: questo numero (qualunque sia la sua dimensione) in uno stato unitario o federale non può essere frutto di “appropriazione indebita” da parte di chicchessia e minerebbe, tra l’altro, in modo clamoroso, unico al mondo, le ragioni fondanti dello Stato e quelle altrettanto importanti (obbligate) di perequazione fiscale. Senza di esse non esisterebbe lo Stato, siamo stati chiari? Ma come vi permettete di dire li spendo io questi quattrini (molto molto meno di quello che pensate voi) quando sono dell’intera comunità nazionale? Certo che possono essere vostri – solo vostri se esistono. – Ma vi dovete perlomeno fare uno Stato per i fatti vostri. Ovviamente non vi conviene, ma se avete tanta voglia di consegnarvi mani e piedi a francesi, tedeschi, cinesi, che farebbero di voi un solo boccone, accomodatevi. Perché ciò avvenga, ancorché masochistico, dovreste almeno svestire i panni del “paglietta” e dire come stanno le cose. Soprattutto, dovreste dire al “gallo” di cantare un’altra canzone.

Roberto Maroni: «Continuerò a difendere l’Autonomia, ma la spesa storica va superata».  L’ex ministro leghista: «Il Veneto ha chiesto 23 materie, la Lombardia 20: siamo sicuri che servano tutte?» Claudio Marincola il 31 ottobre 2019 su Il Quotidiano del Sud. Conosce bene le regole del galleggiamento, Roberto Maroni. Ex segretario federale della Lega Nord, ministro dell’Interno e poi del Lavoro nei governi Berlusconi, governatore della Lombardia fino allo scorso anno, finito in fuorigioco per una lunga vicenda giudiziaria. A 64 anni il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia lo ha chiamato a far parte della commissione che tratterò con le regioni la difficile partita dell’autonomia differenziata.

Lei ha detto di essere disposto a trattare anche con il diavolo se questo potrà servire alla causa dell’autonomia. Ma chi è il diavolo, scusi?

«Era solo un modo di dire».

Sembrava riferito al ministro.

«Guardi, conosco Boccia, ed è tutt’altro che un diavolo. Con quella espressione mi riferivo a un episodio del passato. Quando Umberto Bossi mi disse, era il ’94, di andare a trattare con Alleanza nazionale. Loro erano contrari al federalismo, noi al presidenzialismo. Non se ne usciva. Alle elezioni si rischiava di andare l’uno contro l’altro. Fisichella e Miglio, due professori, si incontrarono per trovare un’intesa ma invano. Poi arrivò Pinuccio Tatarella, uscì dalla stanza e disse ai giornalisti: “Trovato l’accordo”. E nacque il governo. Ecco, io penso che se ci si mette intorno a un tavolo e si trova una soluzione, si riesce a fare quello che al governo precedente non è riuscito. Una cosa utile a tutti. Al Sud e al Nord. Per questo ho accettato l’offerta di Boccia».

Lei andrà a trattare con le regioni. Ma come la mettiamo con i 61 miliardi l’anno di mancati investimenti sottratti al Sud? Noi lo chiamiamo scippo. E cosa pensa sul 34% degli investimenti che il governo destinerà al Mezzogiorno?

«So di cosa parla, leggo il vostro giornale. Ma sullo scippo non sono d’accordo. O meglio, dipende dai criteri».

Sono numeri certificati dalla contabilità nazionale. E c’è un’indagine conoscitiva in Parlamento.

«I criteri con cui si fanno questi calcoli sono tutti discutibili. E comunque, anche ammettendo lo scippo, e io non sono d’accordo, potremmo parlare del residuo fiscale, la differenza tra quello che le regioni versano e le risorse che tornano indietro ai territori».

Il residuo fiscale dei territori non esiste, esiste solo quello individuale. Non lo diciamo noi, lo dice la Ragioneria generale dello Stato…

«…la interrompo. La verità vera è che alla modifica del Titolo V della Costituzione, pensato per dare più autonomia alle regioni, non si è dato attuazione».

Obiezione. Al governo ci siete stati anche voi.

«Certo, verissimo. L’autonomia è una sorta di contenitore rimasto vuoto. E allora io dico: mettiamoci intorno a un tavolo e discutiamo. Voi parlate di scippo? E volete che tutto resti uguale e si continui così? Non conviene a nessuno, vediamo come rimediare, troviamo una forma di win to win che vada bene anche alle regioni. E anche al diavolo, se occorre. L’autonomia può essere una buona soluzione per tutti».

Il Veneto vuole il via libera su 23 materie, la Lombardia su 20. E poi c’è il nodo dell’istruzione. Le pare facile trovare un’intesa?

«Aspetti. Il confronto serve proprio a questo. Può servire a superare quello che voi chiamate “scippo”. L’autonomia è prevista dalla Costituzione, gli articoli 116 e 119 non hanno nulla di eversivo. Partiamo dunque dalla pre-intesa che io stesso, da governatore della Lombardia, ho firmato il 28 febbraio del 2018 con l’allora primo ministro Gentiloni, a Palazzo Chigi».

C’è un’Italia che viaggia sull’Alta velocità in business class e un’altra dove tutte le rotaie del Meridione non raggiungono quelle della sola Lombardia. Dove un malato su 5 non si cura perché non se lo può permettere. A lei questa Italia piace?

«No, non piace neanche a me. Ma senza voler sostituire i governatori, perché non voglio parlare per nome e per conto loro, posso dire che ci sono molte cose, per esempio a proposito dell’articolo 117, che si possono rivedere. La disponibilità di Boccia a parlarne c’è».

Esempio?

«Il Veneto chiede 23 materie concorrenti. Ma servono proprio tutte, ci siamo chiesti? Sono materie che ci interessano quelle sull’ordinamento delle Casse Rurali e delle Casse di Risparmio che tra l’altro non esistono più? E che dire dell’ordinamento sportivo? Siamo sicuri che ai territori gliene freghi qualcosa? Stesso dicasi per la materia che regolamenta porti e aeroporti, visto che c’è l’Anac e un eventuale devoluzione potrebbe anche essere vista con sospetto da compagnie straniere che potrebbero investire. Anche per ciò che comporta le competenze in materia di Grandi reti di trasporti e di navigazione. A prescindere che in Lombardia non c’è il mare ma siamo sicuri che sia essenziale incartarsi su questioni del genere? Ordinamento della comunicazione. Ma davvero c’interessa? E il trasporto dell’energia perché non può rimanere nazionale? Capisco la produzione, lì potremmo incassare le accise, ma il trasporto? Che se ne fa la Lombardia?».

Lo scippo nasce dal criterio della spesa storica. Per anni i servizi sono stati finanziati alle regioni e ai comuni che già li avevano. Zero asili, zero mense scolastiche, zero trasporti a tutti gli altri.

«La spesa storica andava di pari passo con la definizione dei fabbisogni standard e dei Lep. Era un calcolo transitorio. Di chi è la colpa se si è andati avanti così? Non è certo della Lombardia, ma è dei governi. Poi c’è il discorso di chi le risorse le sa utilizzare e chi no. Lo sa che restituiremo il 75% dei fondi europei, decine di miliardi?».

Il Nord spesso ha gestito quei fondi peggio del Sud.

«Purtroppo esistono anche nel Nord zone di inefficienza. Abbiamo un nostro “Sud”. Voglio raccontarle un episodio. Quando ero ministro mi presentarono una graduatoria: i Comuni che facevano meglio la raccolta differenziata. Al quarto posto, dopo alcune città del Nord, c’era Salerno. Non volevo crederci. Feci controllare, pensavo a un errore, ma a un secondo controllo verificai che era tutto vero. Allora andai a Salerno e volli conoscere di persona il sindaco. Era De Luca, siamo rimasti amici».

Appunto. Ammetterà che la favoletta di un Sud inefficiente e sprecone che non merita le risorse perché non sa gestirle non regge più.

«Ci sono buone pratiche anche al Sud, certo ne sono perfettamente consapevole. Ma se mi dice che il Nord ha depredato il Sud glielo contesto».

E lo scippo, dunque?

«Se mi convincete che effettivamente c’è stato uno scippo sarò il primo ad ammetterlo. In quanto al lavoro che farò in commissione non terrò la bandiera del Nord, non ho accettato per questo. Terrò alta la bandiera dell’autonomia».

Il falso mito dello "scippo" di risorse del Nord a danno del Sud: al Mezzogiorno la spesa pubblica pesa di più. a cura di OSSERVATORIO CPI,  Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, su La Repubblica il 26 settembre 2020. Lo Stato spende di più per i cittadini del Centro-Nord che per quelli del Mezzogiorno? Al netto della spesa per interessi e di quella pensionistica - che lo Stato non può decidere come allocare a livello territoriale - la risposta è negativa. Se poi si tiene conto del diverso costo della vita, il Meridione sembra beneficiare di un trattamento migliore rispetto al Centro-Nord. Di recente, il presidente dell'Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno (Svimez) ha dichiarato che "il Nord ha sottratto al Sud 60 miliardi all'anno". Come è stata ottenuta questa stima? Nell'analisi della Svimez vi sono una serie di peculiarità che a nostro avviso distorcono notevolmente il risultato. Innanzitutto, l'analisi è basata sui dati di spese ed entrate di fonte CPT (Conti Pubblici Territoriali a cura dell'Agenzia della Coesione) la cui somma per regioni è molto diversa dai totali nazionali ISTAT, un punto (di notevole gravità) che è già stato messo in evidenza dalla Banca d'Italia e dall'Ufficio Parlamentare di Bilancio. In secondo luogo, viene considerata la spesa  della cosiddetta P.A. allargata, ovvero l'insieme di società partecipate, enti locali e amministrazioni centrali. Di conseguenza, in questi 60 miliardi sono incluse le spese di società come Eni, Enel, Poste Italiane e Leonardo che sono quotate in borsa e non operano in base a obiettivi di perequazione geografica, bensì di profittabilità e che devono comunque cercare di soddisfare la domanda effettiva per i beni e servizi prodotti. È quindi pressoché inevitabile che la spesa di queste società sia maggiore nelle regioni più ricche, in cui la domanda è più elevata e  le opportunità d'affari sono tipicamente maggiori. Consegue che considerare tutta la P.A. allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica. In terzo luogo, nel calcolo dei 60 miliardi "sottratti" al Mezzogiorno, secondo Svimez, ci sono anche le pensioni, che rappresentano più di 250 miliardi all'anno di spesa pubblica. Tuttavia, lo Stato non ha alcun controllo sulla loro allocazione regionale: dato che al Nord i lavoratori (provenienti sia dal Nord che dal Sud) hanno versato più contributi, i pensionati settentrionali hanno mediamente diritto a pensioni più alte, il che fa inevitabilmente lievitare la spesa pubblica pro capite nelle loro Regioni. Infine, la Svimez non tiene conto delle differenze molto rilevanti nel costo della vita tra regioni.

La distribuzione regionale della spesa. Passando alla pars costruens, per fare un'analisi solida della distribuzione regionale della spesa, occorre fare riferimento all'aggregato della Pubblica Amministrazione (che a livello nazionale è calcolato dall'ISTAT, in base ai criteri Eurostat), la cui disaggregazione per regioni e macroaree è calcolata dalla Banca d'Italia.

 Tav. 1: Spesa pro capite della P.A.

Tav. 1: Spesa pro capite della P.A.

 

Centro-Nord

Mezzogiorno

Gap

SPESA NOMINALE PRO CAPITE (MEDIA 2014-2016, EURO)

11850

10900

-950

SPESA NOMINALE PRO CAPITE SENZA PENSIONI (MEDIA 2014-2016, EURO)

6800

7150

+350

SPESA PRO CAPITE SENZA PENSIONI A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO (MEDIA 2014-2016, EURO)

6550

8500

+1950

 

Tutti i dati sono al netto degli interessi sul debito. Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati della Banca d’Italia e ISTAT. Se si considera il dato grezzo dell'intera PA al netto degli interessi sul debito, con riferimento alla media del periodo 2014-2016, il Mezzogiorno appare leggermente svantaggiato nel senso che la spesa pro capite è pari 10.900 euro a fronte di 11.850 euro nel resto del paese, con un gap di 950 euro (Tavola 1, prima colonna). Va detto subito che questo dato non è statisticamente significativo perché, come si mostra più avanti, vi sono differenze significative fra regioni a Statuto ordinario e a Statuto speciale, nonché fra regioni di diverse dimensioni all'interno delle stesse macroaree. In ogni caso, moltiplicando questo gap per la popolazione del Mezzogiorno (20,5 milioni) si ottiene la cifra di 19,5 miliardi all'anno, che è rilevante, ma molto lontana dal dato citato dalla Svimez. Tuttavia, se si sottraggono le pensioni, sulla cui allocazione geografica il decisore politico non ha alcun controllo, la spesa pro capite di tutta la P.A. nelle varie regioni rimane abbastanza eterogenea, ma la "classifica" non sembra discriminare il Meridione rispetto al Centro-Nord; anzi il gap si rovescia a favore del Mezzogiorno e diventa positivo (+350 euro pro capite, Tavola 1, seconda colonna). L'altra correzione ai dati grezzi sulle uscite della P.A. muove dalla considerazione che nel Mezzogiorno i prezzi sono più bassi che al Centro-Nord; ogni euro di spesa in una regione del Sud ha quindi un potere d'acquisto - e quindi un valore reale - maggiore rispetto al resto del Paese. Per eseguire l'aggiustamento a Parità di Potere d'Acquisto (PPA) della spesa, è stata utilizzata l'unica fonte ufficiale disponibile che è rappresentata dalle soglie di povertà definite dall'ISTAT. La soglia di povertà nel Mezzogiorno è inferiore del 20 percento circa rispetto al Centro e del 24 rispetto al Nord, rispecchiando una considerevole differenza nel costo della vita. Quando si opera anche questa correzione, il gap diventa molto rilevante (+1950 euro pro capite) e decisamente favorevole al Mezzogiorno (Tavola 1, terza colonna). In valori assoluti, si tratta di una maggiore spesa "reale" nel Mezzogiorno pari a quasi 40 miliardi. Anche per quanto riguarda le singole Regioni, la spesa non pensionistica pro capite a Parità di Potere d'Acquisto non sembra penalizzare il Mezzogiorno, ma piuttosto appare favorire le Regioni a Statuto Speciale e quelle più piccole (Figura 1).

Il Mezzogiorno è discriminato? Per un'analisi più accurata occorre tenere conto delle differenza di spesa determinata da fattori diversi da quelli che sono oggetto di questa indagine, ossia la dimensione delle regioni (dato che vi sono notevoli economie di scala) e il loro status costituzionale (regioni a Statuto Ordinario e a Statuto Speciale). Per fare questo è necessario effettuare una regressione multivariata, che consenta di cogliere separatamente l'effetto della grandezza e dello status di ogni regione sulla spesa pro capite della P.A., lasciando che l'appartenenza al Mezzogiorno spieghi le differenze restanti. In altre parole, si individua la differenza nella spesa pro capite tra una regione del Mezzogiorno e una del Centro-Nord a parità di popolazione e status.

 

Tav. 2: la spesa della P.A. è più bassa al Mezzogiorno? (regressioni)

 

Tav. 2: la spesa della P.A. è più bassa al Mezzogiorno? (regressioni)

 

(1) Variabile dipendente:
Spesa PA pro capite

(2) Variabile dipendente:
Spesa PA pro capite
senza pensioni

(3) Variabile dipendente:
Spesa PA pro capite
senza pensioni e PPA



POPOLAZIONE (MILIONI)



-402,5
***



-341,7
**



-356,2
***

 

(-3,63)

(-2,78)

(-3,07)



STATUTO SPECIALE



2160,9
***



2398,9
***



2094,7
***

 

(3,54)

(3,55)

(3,28)



MEZZOGIORNO



-1560,1
***



-393,7



1397,1
**

 

(-2,92)

(-0,67)

(2,50)




COSTANTE




13758,6***
(25,00)




8421,9***
(13,82)




8219,4***
(14,27)

OSSERVAZIONI

21

21

21

 

0,74

0,65

0,69

 

Statistiche tra parentesi. *** significativo al 99%, ** significativo al 95%, *significativo al 90%. I valori di popolazione e spesa pro capite sono medie 2014-2016. Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati della Banca d’Italia e ISTAT. I risultati sono presentati nella Tavola 2. Come anticipato, la spesa pro capite è minore nelle regioni grandi (350-400 euro pro capite in meno per ogni milione di abitanti) e maggiore in quelle a Statuto Speciale (oltre 2.000 euro pro capite in più). Al netto di questi fattori, se non si escludono le pensioni dalla spesa della P.A., la differenza tra spesa pro capite nel Mezzogiorno e al Centro-Nord è significativa e negativa: i cittadini meridionali riceverebbero ciascuno circa 1.560 euro in meno (colonna (1)). Tuttavia, se si escludono le pensioni da questo calcolo, la differenza tra Sud e Centro-Nord non è più statisticamente significativa. In altre parole, il Sud non è discriminato nella distribuzione geografica della spesa pubblica nominale non pensionistica (colonna (2)). Infine, se si considera la spesa della P.A. a Parità di Potere d'Acquisto (PPA), ovvero se si tiene conto delle differenze nei prezzi, il Sud appare significativamente favorito, nell'ordine di quasi 1.400 euro pro capite (colonna (3)). Questo risultato dipende ovviamente dal fatto che quasi tutti gli stipendi pagati dalla P.A. sono uguali tra regioni e rispecchia quindi il loro maggior valore reale nel Mezzogiorno. In altre parole, tenendo conto anche delle differenze nel costo della vita, il Mezzogiorno riceverebbe un trattamento più generoso del resto dell'Italia. A livello aggregato, questa maggiore spesa pro capite equivarrebbe a circa 28,6 miliardi all'anno.

Quante risorse redistribuisce lo Stato? La combinazione tra un ampio divario in termini di PIL pro capite tra Centro-Nord e Meridione e una spesa pubblica nominale pro capite più equilibrata tra le due macroaree, fa sì che, anche includendo la spesa pensionistica e senza tenere conto delle differenze di potere d'acquisto, il peso della P.A. sul PIL regionale sia estremamente alto nel Mezzogiorno e più contenuto nel resto del Paese. Agli estremi ci sono la Lombardia, in cui la spesa pubblica è poco più del 33 percento del prodotto regionale, e la Calabria, dove questo dato raggiunge l'80 percento, una cifra davvero elevata. Poiché il peso delle entrate della P.A. sui PIL regionali è molto più omogeneo, l'esistenza di massicci trasferimenti (i cosiddetti residui fiscali) tra regioni è inevitabile (Figura 2). La Banca d'Italia calcola che nel periodo 2002-2016, i trasferimenti pubblici a favore del Mezzogiorno sono oscillati fra il 15 e il 20% del Pil dell'area; rapportato alla media del PIL 2014-2016, queste percentuali corrispondono a cifre annuali tra 57 e 76 miliardi di euro. Le regioni che hanno sostenuto la quasi totalità di quest'onere sono la Lombardia, l'Emilia Romagna, il Lazio, il Veneto, il Piemonte e la Toscana. Da parte della Svimez (e di molti meridionalisti) si argomenta che quello dei residui fiscali è un falso problema perché il prelievo riguarda gli individui, non i territori e perché i diritti di cittadinanza non possono variare in base alla residenza. L'argomento è comprensibile e in parte condivisibile. Occorre però tenere conto che in tutte le strutture federali è prevista una qualche corrispondenza fra la capacità contributiva di una regione e la sua spesa. Se si pensa che questa corrispondenza non possa o non debba verificarsi, allora non si capisce che senso abbia dire che l'autonomia delle Regioni prevista dalla Costituzione vada contemperata con i livelli essenziali delle prestazioni; bisognerebbe dire chiaramente che non si ritiene auspicabile alcuna forma di federalismo o tantomeno di autonomia differenziata. In ogni caso, non sembra in alcun modo accettabile distribuire in ragione della popolazione anche la spesa delle imprese partecipate che operano sul mercato, nonché le pensioni che dipendono dai redditi percepiti nel passato. Quanto alla questione delle Parità di Potere d'Acquisto, si può essere dell'opinione che gli stipendi pubblici e forse anche quelli privati debbano essere gli stessi in tutto il paese, ma non si può negare che un euro al Sud ha un potere d'acquisto - e quindi un valore - maggiore che nel resto del Paese. Questo insieme di fattori fanno sì che il Mezzogiorno d'Italia sia una della poche aree al mondo in cui il livello dei consumi (privati più collettivi) è superiore al PIL: sempre con riferimento al periodo 2014-2016, tale rapporto è pari a 1,025 nel Mezzogiorno e a solo 0,746 nel resto d'Italia. In un'altra nota di prossima pubblicazione, mostriamo che ciò è vero dagli anni cinquanta del secolo scorso ed è la ragione principale per la quale la bilancia commerciale del Mezzogiorno è costantemente in deficit, per cifre anch'esse tipicamente comprese fra il 15 e il 20% del PIL.

Conclusione e problemi irrisolti. Alla luce di queste considerazioni la dichiarazione del presidente della Svimez circa i 60 miliardi "sottratti" ogni anno dal Nord al Sud - al netto dei gravi limiti dei dati sottostanti - è vera soltanto se si considera l'intera P.A. allargata, senza tenere conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni). Questa dichiarazione è infatti ispirata ad un'interpretazione estremamente estensiva del principio costituzionale di perequazione della spesa pubblica, in quanto sottintende che la distribuzione geografica della spesa pro capite dovrebbe essere simile in tutte le aree del paese, includendo nella valutazione anche le imprese partecipate che operano con criteri di mercato e le pensioni che non possono che dipendere dai redditi passati. In ogni caso, per quanto riguarda la spesa della P.A. in senso stretto - e quindi la spesa che il decisore politico può decidere dove allocare - già al netto delle pensioni il Meridione non appare discriminato; se poi si corregge per il costo della vita sembrerebbe addirittura favorito. Questo trattamento, equo nominalmente e vantaggioso a Parità di Potere d'Acquisto si traduce in ingenti trasferimenti da parte delle amministrazioni pubbliche dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno. Questa considerazione è puramente quantitativa e non è detto che "più sia meglio": come mostrano gli indicatori della stessa Svimez, la qualità dei servizi pubblici al Sud è generalmente peggiore; quindi l'assenza di discriminazione nell'ammontare di risorse non esclude una carenza di servizi, anche essenziali, che pesa negativamente sulle persone e sulle imprese di molte aree del Mezzogiorno. Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani

L'operazione verità ritorna in Parlamento. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. Nel Paese dei bugiardi i cani miagolano e i gatti abbaiano. Poi arriva qualcuno che, come il Gelsomino del racconto di Gianni Rodari, inizia a dire pane al pane e vino e al vino e la verità viene a galla. Una favola? No. La storia della ripartizione delle risorse pubbliche tra il Nord ed il Sud e del modo in cui per anni è stato perpetrato lo  “scippo”. Una battaglia che questo giornale porta avanti da sempre e che ora verrà affidata a livello istituzionale ad una sorta di “sottocommissione” formata da Banca d’Italia, Istat e  Upb (Ufficio parlamentare di bilancio). Poi succede che grazie ad un articolo («Quei privilegi differenziati che come la bussola indicano sempre il Nord», a firma del professor Adriano Giannola, presidente della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), la questione finisca in Parlamento. E che un’interrogazione firmata dal senatore pentastellato Vincenzo Presutto e da altri 23 senatori M5S e la senatrice di Forza Italia Gabriella Giammarco, finisca sul tavolo del ministro dell’Economia chiamato a rispondere circa l’esistenza di una forte sperequazione tra Nord e Sud nell’allocazione della spesa pubblica a tutto vantaggio del primo: “il ministro Roberto Gualtieri chiarisca…”. Arriva in Parlamento. O meglio torna. La commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario guidata dalla deputata Carla Ruocco aveva infatti già avviato una indagine conoscitiva durata 6 mesi sui sistemi tributari delle regioni convocando in audizione tra l’ altro anche il ministro per gli affari regionali Francesco Boccia. Il primo passo dell’ operazione verità per smascherare le storture che l’attuazione del federalismo fiscale nella prospettiva dell’autonomia differenziata si trascina dietro.  

LA CAMPAGNA PREVENTIVA CONTRO IL SUD: “EVITIAMO SPRECHI”. Il Nord riceve annualmente 60 miliardi di euro più del Sud in termini di risorse complessive. Il costo delle erogazioni pensionistiche non coperto dai versamenti contributivi che va incluso nella valutazione della spesa pubblica attribuibile ai diversi territori e non spalmato sulla fiscalità generale. «Il Nord – si legge nell’interrogazione – riceve maggiori erogazioni per pensioni anticipate (metodo contributivo) grazie ad una platea di individui che, essendo entrati prima nel mondo del lavoro, godono della pensione per un numero maggiore di anni e che in genere hanno pensioni di importo superiore rispetto alle pensioni di vecchiaia». Va calcolato il complesso della spesa pubblica attivata da un aggregato pubblico ampio, insieme delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali, degli enti previdenziali e delle società partecipate. Le quali, di norma, attivano spese per importi maggiori al Nord rispetto al Sud. Sarà un caso da qualche mese a questa parte – fatalmente in vista del Recovery fund – è partita una campagna in direzione opposta e contraria. Prima il professor Andrea Giovanardi su Il Foglio, poi Giampaolo Galli e Giulio Gottardo (Osservatorio sui conti pubblici italiani) su Repubblica, hanno sostenuto che l’operatore pubblico non può decidere come allocare a livello territoriale. Né la spesa pensionistica (che dipende dai contributi versati), né le imprese pubbliche (che dipendono dalle regole del mercato. Con il paradosso che, essendo al Sud il costo della vita notevolmente inferiore rispetto al Nord, il Mezzogiorno risulterebbe addirittura favorito (sig..). Fin qui il dibattito sulla diversa allocazione delle risorse tra Nord e Sud. Con l’aggiunta di qualche ulteriore intervento finalizzato a scoraggiare l’utilizzo dei fondi del programma Next Generation Eu nel Mezzogiorno.  Sud. in quanto – hanno sostenuto di recente Francesco Drago e Lorenza Reichlin – nel Mezzogiorno non ci sarebbero gli interlocutori adatti, i soggetti che «possano dare le gambe». Per cui meglio, la conclusione meglio «evitare sprechi».

PRESUTTO: RISPETTARE ALMENO LA CLAUSOLA DEL 34%. Quanto tutto questo chiacchiericcio scomposto si ricolleghi al tema dell’autonomia differenziata, alla capacità fiscale di una regione e ai meccanismi perequativi è di tutta evidenza. Vincenzo Presutto è il vicepresidente della Commissione parlamentare bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale. Fa parte del gruppo dirigente pentastellato con la qualifica di “facilitatore” in ambito economico. Ma va da sé che l’interrogazione presentata ieri richiede una risposta tutta politica. Chiede in che modo si vogliano utilizzare i 209 i miliardi di euro che l’Unione europea ha concesso all’Italia. La quota più alta in assoluto, di cui una parte consistente per rilanciare lo sviluppo delle aree più arretrate. E chi è più arretrato del nostro Meridione, dove l’ultima serie di grandi interventi risale agli anni ’50, gli anni in cui operava la Cassa del Mezzogiorno? «L’Italia – ricorda Presutto – sarebbe chiamata per lo meno a rispettare la clausola del 34 per cento, il che darebbe al Mezzogiorno la disponibilità di 71 miliardi di euro, percentuale che allo stato dei fatti risulta inadeguata a colmare il divario tra Nord e Sud. Per la prima volta nascerà una sorta di sottocommissione. Un gruppo composto da un rappresentante di Banca d’Italia, Istat e l’Ufficio parlamentare di bilancio per stabilire i criteri e chiarire la discordanza tra le valutazioni della Svimez e quelle dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani e i dati di spese fonte CPT (conti pubblici territoriali elaborati dall’Agenzia della coesione)». Da qui l’opportunità di un confronto anche sul piano metodologico per un corretto utilizzo dell’informazione statistica nella valutazione dei flussi territoriali delle spese e delle entrate pubbliche.  Si chiede di fare chiarezza sulla ripartizione della spesa pubblica, fornire voci di spesa, valutare l’intervento pubblico per far luce sul reale gap esistente, superando qualsiasi contrapposizione di carattere accademico, e togliendo qualsiasi dubbio interpretativo. Quello che noi abbiamo “operazione verità”.

Ennesimo colpo al Sud: altri 70 milioni dirottati al Nord. Fondi Ue, Italia bocciata dalla Corte dei conti europea. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. Un nuovo “sgarbo” sembra profilarsi nei confronti del Mezzogiorno a vantaggio del Nord, una sottrazione di risorse che vale 70 milioni. A segnalarlo è stato il deputato Paolo Russo, responsabile nazionale del dipartimento Sud di Forza Italia: «Per dare un nuovo colpo ai bilanci dei territori del Sud mancava solo l’adozione dei nuovi criteri per la revisione della metodologia dei fabbisogni standard dei Comuni appartenenti alle Regioni a statuto ordinario per il servizio smaltimento rifiuti». L’obiettivo, si è sostenuto, sarebbe costruire meglio i piani finanziari dei Comuni per lo smaltimento dei rifiuti. Ma la sostanza, ha avvertito Russo, « è che è destinata a incidere, a danno degli enti locali del Sud, sulla ripartizione del fondo di solidarietà perequativo nazionale dei comuni. Il risultato è, infatti, che i grandi centri del Nord saranno ulteriormente avvantaggiati. Questo governo quando c’è da togliere al Meridione è rapido ed efficiente, quando, invece, c’è da definire i fabbisogni standard sul fronte dei trasporti, degli asili o della salute cincischia, rallenta o ritarda. Ci dicono che questa sperequazione ulteriore valga poco in termini economici e la chiamano sterilizzazione. Per me è un altro regalo al Nord che vale 70 milioni di euro tolti al Sud».

I FONDI STRUTTURALI. Ieri, intanto, la Corte dei conti europea ha bacchettato l’Italia per l’uso dei fondi strutturali. Il Paese è al penultimo posto in Europa per l’utilizzo dei fondi strutturali europei nel 2019. Con il 30,7% di fondi spesi – rispetto a una media europea del 40% – condivide la posizione di fanalino di coda con la Croazia, che fa anche peggio arrivando solo al 30% e si aggiudica l’ultimo posto nella classifica che vede in testa la Finlandia con il 66,2%, seguita dall’Irlanda con il 60,6% e dal Lussemburgo con il 57%.

LA CLASSIFICA. La “pagella” – che suona come l’ennesima reprimenda nei confronti del Paese in merito alla sua capacità di spesa, alimentando le “perplessità” dei Paesi frugali sulla reale possibilità di mettere a terra le risorse del Next Generation Eu – compare nella relazione in cui la Corte europea paragona l’assorbimento dei fondi del 2019 e del 2012, rappresentativi dei cicli di spesa a valere sui bilanci settennali della Ue per il 2007-2013 e il 2014-2020. La “giustificazione”, accompagnata dai numeri a sostegno dell’impegno per un cambiamento di rotta, arriva dal ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, in un’audizione in commissione Politiche europee del Senato.

La dotazione complessiva di tutti i Programmi dell’attuale ciclo vale oltre 53 miliardi, due terzi dei quali sono destinati alle regioni del Sud, sia meno sviluppate sia in transizione, ha ricordato il ministro. «I ritardi accumulati in partenza dal ciclo di programmazione ne hanno reso complessa l’attuazione, ma negli ultimi mesi abbiamo registrato importanti segnali di accelerazione – ha detto Provenzano – Diversamente da quanto accaduto negli anni precedenti, tutti i Programmi operativi hanno raggiunto le soglie minime di spesa previste al 31 dicembre 2019».

LA CONTESTAZIONE. I ritardi ci sono stati, quindi, ma il ministro contesta la comparazione con il ciclo precedente adottata dalla Corte dei conti europei per due motivi: innanzitutto, per «il ritardato avvio del ciclo 2014-20, a seguito di un negoziato molto lungo, mentre lo sforzo delle Amministrazioni regionali e centrali era ancora tutto indirizzato alla chiusura del ciclo precedente onde evitare di perdere risorse. E poi la regola dell’N+3 che dilata di un ulteriore anno i tempi di assorbimento rispetto al ciclo precedente (quando valeva l’N+2)». Tuttavia, ha riconosciuto il ministro, «nonostante il raggiungimento del target, la situazione di avanzamento della spesa a fine 2019 non era affatto soddisfacente e si attestava a un dato tra i più bassi dell’intera Ue. In particolare, nelle regioni del Mezzogiorno e nel Centro Nord era pari, rispettivamente a circa il 26% e il 32%». Il monitoraggio Igrue, aggiornato al 30 agosto, mostra «un apprezzabile miglioramento», destinato, secondo Provenzano, a migliorare ulteriormente quando saranno «visibili» gli effetti della riprogrammazione delle risorse nell’emergenza Covid 19 operata con le Regioni per circa 11,5 miliardi. Da febbraio ad agosto, intanto, risulta una crescita degli impegni dal 60,5% al 69,2 e dei pagamenti dal 31,7% al 39,2% dell’intera spesa programmata, che vale 3 miliardi. I programmi procedono in maniera disomogenea, alcuni sono particolarmente in ritardo, come i Por di Calabria, Marche e Abruzzo in ambito Fers, o di Sicilia, Campania e Abruzzo per il Fse. E i comunque riguardano anche le amministrazioni centrali. Per quanto riguarda l’obiettivo di spesa di fine 2020, stimato in 12,1 miliardi di quota Ue, «restano da certificare e richiedere rimborsi per circa 2 miliardi di contributi comunitari», pertanto l’Italia, ha affermato il ministro, è «in linea con gli impegni previsti».

IL CICLO 2021-2027. Intanto, per quanto riguarda il prossimo ciclo 2021-2027, ha detto Provenzano, l’Italia è tra i pochi Paesi che vede aumentare la dotazione di Fondi Ue di 6,8 miliardi. Inoltre, ha aggiunto, «a seguito di un lungo confronto con il Mef abbiamo deciso» in legge di Bilancio 2021 «di aumentare l’impegno finanziario di cofinanziamento nazionale dei programmi di uso dei fondi strutturali Ue rispetto ai minimi fissati dalla Commissione, così riequilibrare e aumentare il cofinanziamento anche nelle Regioni meno sviluppate e in quelle in transizione. Questo ci porterà ad avere una dotazione di fondi strutturali, tra cofinanziamento europeo e cofinanziamenti nazionali, di circa 80 miliardi di euro. Se ci pensate, è un ammontare di aiuti superiore alla quota dei sussidi, ad esempio, della Recovery and Resilience Facility». Quanto al Next Generation Eu, il ministro ha ribadito la necessità che la clausola del 34% per il Sud sia «applicata anche alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma – ha sottolineato – come una quota minima».

TRASPORTI, I FURBETTI DELLE REGIONI. Il virus sul bus porta i soldi al Nord. Roberto Napoletano il 14 ottobre 2020 su Il Quotidiano del Sud. I governatori della terza camera dello Stato fanno finta che devono rispettare il tetto dell’80% e chiedono una compensazione per il restante 20%, ma i pulmini viaggiano zeppi, le persone sono strette come sardine. Per cui gli incassi saranno quelli di sempre, ma a questi incassi vogliono aggiungere pure le compensazioni. Che federalismo è quello che mette la cassa dei ricchi prima di ogni cosa e che ignora la perequazione perfino in tempi di Pandemia? Governano i governatori. Sua Maestà, Stefano Bonaccini, parla e si muove come uno specialissimo Presidente del Senato delle Regioni di impronta monarchica. Nessuno gli ha dato questo mandato, ma lui lo esercita e lo fa a modo suo. Prima i ricchi, poi i poveri. Volessimo affrontare per una volta un tema serio: come mai gli investimenti in sanità sono pari a 85 euro pro capite per ogni cittadino emiliano-romagnolo e a 16 euro pro capite per ogni cittadino calabrese? Buon ultimi a certificare questi numeri-verità sono arrivati i ricercatori del Crea di Tor Vergata che si sono addirittura spinti a dire che sull’efficienza delle singole regioni pesa per il 40% la quantità di finanziamenti ricevuti. Chissà che cosa si inventeranno i professorini in servizio permanente effettivo della squadra della diseguaglianza per negare questa elementare evidenza! Sono arrivati al punto di mettere in discussione la statistica nazionale pur di proteggere l’indifendibile. Francamente impressiona. Per chi come questo giornale sottolinea dal primo giorno di uscita la gravità della questione istituzionale meridionale per le evidentissime incapacità della sua classe dirigente c’è proprio da sorridere nel vedere come ci si affatica contro ogni regola e ogni logica a smontare quello che non è smontabile. Vale a dire che, grazie al trucco della spesa storica, in sanità scuola e trasporti si fanno figli e figliastri fino al punto che le Regioni del Nord si azzannano perché lo Stato rifinanzi i servizi aggiuntivi di pulmini e scuola-bus mentre il Sud questi bus navetta non li ha mai visti nemmeno in cartolina. Scusate, una domanda: ma questa apertura delle scuole Sua Maestà Bonaccini della Sinistra Padronale e i pari-dignitari Fontana e Zaia della Destra a trazione leghista se la aspettavano o no? Sono stati presi in contropiede, come mai? A queste linee aggiuntive, visto che loro i bus navetta ce li hanno, non potevano pensarci prima? Ora Zaia vuole la didattica a distanza, come facciamo con le aree interne del Nord e quasi tutto il Sud che la banda ultra veloce se la possono solo sognare? Ma forse forse, siamo arrivati al punto che non esiste più l’impresa globale o l’impresa nazionale, ma solo quella regionale pagata dagli altri e, cioè, sovvenzionata dallo Stato? Che federalismo è quello che mette la cassa dei ricchi prima di ogni cosa? Che ignora la perequazione perfino in tempi di Pandemia. Che arriva addirittura a fare affari sul Covid. Sui trasporti locali i controlli sono una finzione, non esistono, non sono stati proprio previsti, probabilmente neppure potrebbero funzionare. I ras regionali non li vogliono svuotare, i loro bus. Ovviamente non esiste il biglietto nominativo, zero tracciabilità. Morale: fanno finta che devono rispettare il tetto dell’ottanta per cento e chiedono una compensazione per il restante 20%, ma i pulmini viaggiano zeppi, le persone sono strette come sardine. Per cui gli incassi saranno quelli di sempre, ma a questi incassi vogliono aggiungere le compensazioni negate a ristoratori e operatori turistici, questi sì, davvero in brache di tela. Non sappiamo come fare a rinnovare la cassa integrazione e, al di là degli annunci fuori misura e fuori luogo di chi guida la politica economica italiana, la Grande Depressione avanza, e il nostro problema è quello di soddisfare le pretese di lorsignori governatori! Gli stessi che fanno le pulci al governo per qualunque tipo di provvedimento prenda ma non hanno le carte in regola per rimproverare alcunché, e non hanno nemmeno la dignità morale di ragionare in termini solidaristici. Quando la finiranno di rivendicare le loro autonomie e le loro competenze sul territorio solo se devono bussare a quattrini? Ci ha colpito che la Francia nel suo piano nazionale di Recovery Fund ha assegnato la quota più rilevante (36 miliardi) alla coesione sociale e territoriale, lo ha fatto per tabulas e senza grandi proclami. Questo accade nella nazione della città-Stato per eccellenza. Presidente Conte, non c’è più tempo per traccheggiare e fare compromessi con i mille cantastorie dell’interesse predominante e del miope privilegio dei ricchi. Per noi il Recovery Plan deve avere una sola declinazione: l’equità sociale e territoriale e il superamento di una frammentazione decisionale che ha nella incapacità di molti governatori meridionali e nell’arroganza di molti governatori del Nord la causa prima del declino strutturale italiano.

Resta un mistero lo stato di soggezione dei governatori del Sud nei confronti di quelli del Nord.

Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Invece di elemosinare posti di terapia intensiva e qualche assunzione in più nella sanità per fare fronte alla seconda ondata della pandemia, perché i Capi delle Regioni del Sud non si rivolgono tutti insieme alla Corte Costituzionale affinché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola? Che cosa impedisce loro di chiedere l’attuazione della legge Calderoli e vedere finalmente riconosciuti i diritti di cittadinanza degli abitanti delle loro comunità? E che dire del ministro Gualtieri che parla dell’economia italiana come di una specie di turbo che umilia le grandi economie del mondo! Ma dove vive? Siamo allibiti. Viviamo i giorni durissimi della seconda ondata della Pandemia. Il mondo è tornato a tremare, noi non sappiamo che cosa ci aspetta in casa. Lo sceriffo De Luca ha voluto più di tutti chiudere la Campania quando il Covid non c’era e rischia ora di doverla richiudere perché ha terrorizzato di nuovo i suoi cittadini. Che si sono rimessi tutti in fila a fare il tampone rischiando di moltiplicare i contagi perché nulla è stato fatto in questi lunghissimi sei mesi per garantire servizi celeri e rafforzare la medicina sul territorio. Ovviamente l’economia della regione più importante del Mezzogiorno è stata chiusa, ma nessuno se ne cura perché i professionisti dell’anti-Covid dispongono della vita umana e della vita economica delle persone e i Capi delle Regioni sanno solo presentare il conto allo Stato, pavoneggiarsi in tv da mattina a sera, insidiare Crozza come imitatore professionale e, in genere, come showman. I ristoranti sono di nuovo vuoti, il trasporto veloce e quello aereo sono in ginocchio. Il mondo dell’intrattenimento ha fatto finta di ripartire, la scuola se la è cavata meglio del previsto anche se soffre e le Italie pure nelle sofferenze sono ovviamente due. Il pubblico impiego ha persone di valore che si sacrificano, ma non ha gli strumenti digitali per fare da casa quello che faceva in ufficio e dà il suo contributo silenzioso al lento spegnersi della piccola economia di consumi. Tutti i dipendenti privati che sono in cassa integrazione sono consapevoli che l’anno prossimo rischiano di rimanere a casa. Il quadro, insomma, è nerissimo, ma non serio. Al punto che per unire farsa alla farsa tocca di vedere un ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che a Porta a Porta, sotto gli occhi sbigottiti di Bruno Vespa, parla dell’economia italiana come di una specie di turbo che umilia le grandi economie del mondo. Scusatemi, ma dove vive? E ancora: che cosa deve accadere per capire che il gallismo dei Capi delle Regioni porta l’Italia alla rovina? È possibile continuare, anche ai tempi del Covid, in questo circuito perverso di miopi egoismi che non è nient’altro che l’Italia ridotta in venti staterelli? Ma quale dignità possono avere davanti ai nostri occhi i Capi delle Regioni del Nord che si nascondono dietro lo scudo della spesa storica per fare incetta di spesa pubblica sociale e infrastrutturale e, ancora di più, i Capi delle Regioni del Sud che elemosinano posti di terapia intensiva e qualche assunzione in più nella sanità ma si guardano bene dal ricorrere alla Corte costituzionale per chiedere l’attuazione della legge Calderoli e vedere finalmente riconosciuti i diritti di cittadinanza degli abitanti delle loro comunità? In quali mani siamo finiti! Che cosa impedisce ai Capi delle Regioni del Sud di rivolgersi tutti insieme alla Corte costituzionale perché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola? Possibile che neppure l’occasione storica del nuovo piano Marshall europeo – le somme oggi in gioco sono molto di più di quelle di allora – permetta di riequilibrare la spesa sociale e di avviare la riunificazione infrastrutturale immateriale e materiale delle due Italie? Per noi che in assoluta solitudine abbiamo condotto l’operazione verità e denunciato la grande balla di un Sud che vive sulle spalle del Nord, resta un mistero insondabile lo stato di soggezione dei governatori del Sud nei confronti dei governatori del Nord. Non si tratta di dichiarare guerra a nessuno, ma di rinunciare alla pratica poco dignitosa di presentarsi sempre con il cappello in mano e di imboccare la via maestra che consente di ristabilire la verità una volta per tutte. Nell’interesse dei ricchi come dei poveri. Se non si passa da qui l’Italia tutta conoscerà la fase estrema del suo lunghissimo declino e uscirà dal novero delle grandi economie industrializzate.

SUD, DOVE TUTTO CIO’ CHE FA LO STATO E’ MENO DELLA META’ DEL NORD. Raffaele Vescera il 04.10.2020 su Il Movimento 24 agosto. La differenza di dotazione delle infrastrutture tra Nord e Sud è semplicemente scandalosa, come si evince dalla seguente tabella:

Chilometri di autostrada ogni 100 kmq. Nel Nord-Ovest 3,3%. Nel Sud l’1,7%.

Chilometri di ferrovia ogni 100 kmq. Nel Nord-Ovest del 7,2%. Al Sud del 4,7%.

Alta velocità ferroviaria, nel Nord è del 9,6. Nel Sud del 1,4%.

Aeroporti: Tra Albenga e Trieste, ben 17, al Nord 1 x 50 km. Tra Napoli e Bari solo 1, al Sud 1 x 300 km.

Porti: Porto franco a Trieste, inclusione del porto di Genova nella nuova “via della seta”, con esclusione dei porti del Sud, Messina, Gioia Tauro, Taranto etc. Ma questo è il meno, tra Bari e Napoli non esiste un solo treno che colleghi le due maggiori città del Sud continentale, mentre da Bari a Reggio Calabria occorrono ben 14 ore di treno per fare 450 km, a una velocità media di 30 km l’ora. Il nordico ministro Delrio, nel precedente piano ferroviario da 5 miliardi di euro ne ha destinati il 95% al Nord per 69 progetti e 2 al Sud, promettendo di intervenire per migliorare la condizione della ferrovia jonica, chiudendola però per 4 anni, il sospetto che voglia chiuderla per sempre è legittimo. E sia, tutto ciò è parte della Questione meridionale, mentre i media denunciano scandalizzati presunti sprechi al Sud, al Nord si investe e si spreca per davvero, dall’inutile autostrada doppione Bre-Be-Mi, alla pedemontana lombarda per la spesa di svariati miliardi di euro, fino al vergognoso costo dell’alta velocità al Nord di 67 milioni di euro a km, la stessa che in Francia è costata 10 e in Spagna 9. Alta velocità italiana che si ferma a metà dello Stivale, fatta con i soldi stanziati per farla arrivare a Lecce sulla dorsale adriatica a Palermo su quella tirrenica. Tutti ci chiediamo come mai il Sud non si ribelli unito a fronte di tale vergogna, Antonio Gramsci ne spiegò le ragioni nel suo “Il Risorgimento”, eccole, valide ancora oggi: “Il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco “urbano” (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmi e di imposte ed era tenuto “disciplinato” con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini… Misure poliziesche-politiche con i favori personali al ceto degli “intellettuali” o “paglietta”, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permesso di saccheggio impunito delle amministrazioni locali…cioè di incorporamento “a titolo personale” degli elementi più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con particolari privilegi giudiziari, burocratici etc. Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece lo strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata.” Che altro aggiungere alle esaustive parole di Gramsci? Solo una, la mafia, mai combattuta dallo Stato, in quanto anch’essa accessorio di polizia segreta utile alla spoliazione del territorio meridionale e al successivo trasferimento di capitali da investire al Nord.

LE DUE ITALIE ANCHE PER I TAMPONI. IL SUD SOTTO LA MEDIA NAZIONALE. L’obiettivo dei 400mila al giorno è ancora lontano e le procedure sono ancora lente e farraginose. Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Milioni di mascherine sfilano per strade delle città italiane in ossequio all’ultimo Dpcm adottato per fronteggiare l’emergenza coronavirus dopo quasi 10 settimane di ricrescita dei contagi giornalieri. Ma sull’efficacia della protezione, indossata all’aperto, la comunità scientifica si è più volte divisa. Lo stesso Andrea Crisanti – non certo annoverabile nel partito dei negazionisti – ha recentemente spiegato a Sky Tg24 che la stessa, da sola, non è sufficiente per risolvere il problema.

NUMERO MAGGIORE. Il microbiologo da mesi sostiene, infatti, che l’unica vera arma contro il Covid19 sia estendere il numero di tamponi effettuati fino a portarlo a quota 400mila ogni 24 ore. L’auspicio si scontra, però, con la realtà quotidiana dei test realizzati, che fanno segnare un record quando si avvicinano alle 130mila unità (come accaduto ieri). Un dato che, fra l’altro, risente dei mezzi e dell’efficienza dei singoli sistemi sanitari regionali, col risultato che il Paese – per quanto riguarda l’aggressione al virus – si presenta più che mai a macchia di leopardo. La questione non è di poco conto: aumentare la quantità di tamponi significa non solo intercettare per tempo contagi e potenziali focolai ma anche valutare l’andamento e l’incidenza dell’epidemia in termini statistici. A oggi gli unici dati “reali”, a parte i decessi, sono quelli che derivano dalle ospedalizzazioni (4.473 secondo l’ultimo bollettino) e – all’interno di queste – dalle terapie intensive (387). Va da sé che questi numeri hanno un peso maggiore o minore nella valutazione della gravità della pandemia in Italia a seconda della quantità di persone attualmente positive. Le oltre 70mila registrate ieri sono, quasi certamente, solo una frazione di un volume più ampio, i cui contorni possono essere definiti solo allargando il campione di soggetti testati. Semplificando: se in Italia ci fossero 10 ricoverati a fronte di 1000 positivi la situazione sarebbe meno grave rispetto a un rapporto di 10 a 100.

IL REPORT E I RITARDI. Ma sul punto siamo ancora indietro, specie in alcune zone del Paese. Lo dimostra l’ultimo istant report sul Covid19 realizzato dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università cattolica del Sacro Cuore. A oggi, spiega lo studio, la media nazionale di tamponi effettuati ogni mille abitanti è pari a 10,13. Fra le regioni che superano questo valore non ce n’è nemmeno una del Mezzogiorno. In testa troviamo il Veneto con 17,67; seguono Pa di Trento (17,55), Friuli Venezia Giulia (16,07), Pa di Bolzano (14,64), Umbria (12,68), Toscana (12,5), Emilia Romagna (12,27), Liguria (12,13) e Lazio (12,05). Se si eccettuano Lombardia (appena sotto il coefficiente mediano con 10,12), Abruzzo, Piemonte Valle d’Aosta e Marche, i valori sotto la media nazionale sono interamente appannaggio di Sud e Isole. La peggiore è la Puglia (5,32), poi Calabria (5,54) e Sicilia (6,39). La Campania, che sta facendo registrare continui boom di contagi, non fa meglio (7,17). Le regioni dunque, sottolinea il documento allegato al report, “continuano a differenziarsi in termini di strategia di ricerca del virus attraverso i tamponi, anche se il trend nazionale è in aumento dalle scorse settimane”. Sullo sfondo dell’andamento altalenante dei tamponi è la questione dei costi. La stessa Altems ha calcolato che dal 24 febbraio ai primi di settembre la spesa sostenuta dal Sistema sanitario per l’individuazione dei casi di Covid è stata pari a oltre 300 milioni di euro. Ipotizzando una media di 35 euro per tampone – il prezzo in realtà varia di regione in regione – la stessa Scuola ha calcolato quanto viene investito in ciascun distretto territoriale nell’attività di ricerca del virus. In testa alla classifica questa volta troviamo la Lombardia dove, nella settimana dal 30 settembre al 6 ottobre, sono stati spesi circa 4 milioni e 500mila euro. Seguono il Veneto (poco meno di 3 milioni), il Lazio (più di 2 milioni e 500 mila) e l’Emilia Romagna (quasi 2 milioni e 400mila). In coda c’è la Valle d’Aosta – anche per una questione legata all’esiguità della popolazione – ma subito dopo troviamo due regioni del Sud: Molise (neanche 70mila euro) e Basilicata (poco più di 139mila e 500). Nel panorama del Mezzogiorno la regione dove si è speso di più nello stesso periodo è la Campania (oltre un milione e mezzo di euro). Un’inchiesta dell’associazione Altroconsumo offre, invece, un quadro interessante sui cosiddetti “tamponi volontari” eseguiti da persone che sospettano di essere entrate in contatto con potenziali contagiati o accusano sintomi riconducibili al Covid. Per accorciare i tempi di attesa del Ssn questi individui si rivolgono spesso a laboratori privati, nei quali i costi risultano spesso elevati. L’indagine ha riguardato 154 strutture di questo tipo situate in sei regioni. In Lombardia il prezzo richiesto può andare dai 70 ai 152 euro, in Veneto dai 65 ai 102. Dalla Campania – unico territorio meridionale entrato nel campo d’analisi – non sono arrivati dati utili allo studio per quanto riguarda i tamponi. Tuttavia per l’alternativo test sierologico possono essere chiesti dai 25 ai 60 euro. Costi elevati un po’ ovunque quindi. Ma sull’efficienza delle strutture anche in questo caso emergono importanti differenze fra Nord e Sud. “Più di tre volte su dieci l’appuntamento è addirittura per il giorno stesso – afferma Altroconsumo -. Non mancano però le eccezioni: in Campania e in Lazio, per esempio, nella prima metà di settembre non era possibile eseguire il tampone privatamente”.

IL VERO TIMORE. I dati ancora bassi relativi all’attività di testing preoccupano in vista dell’incipiente stagione delle influenze che rischia di mandare in tilt il Ssn. «Abbiamo speso miliardi per il bonus bici e i banchi, invece di investirli per creare un sistema sanitario di sorveglianza– si è lamentato di recente Crisanti a Repubblica – a fine agosto ho presentato un piano per quadruplicare i tamponi al governo che lo ha sottoposto al Cts. Poi non ne ho saputo più nulla»

La sanità iniqua smascherata anche dal virus: per i pazienti del Nord ci sono sempre più soldi. Complice il sistema della “spesa storica” che lo penalizza, il Sud continua a ricevere risorse insufficienti dallo Stato. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. I numeri del turismo sanitario dal Sud verso il Nord raccontano da anni la “malattia” del sistema sanitario del Mezzogiorno con cui i suoi cittadini sono costretti quotidianamente a fare i conti per assicurarsi le cure. La pandemia ha mostrato all’intero Paese la gravità della situazione, certificando che il diritto alla salute si declina su base territoriale. La prima ondata è stata “contenuta” nel meridione, ma la seconda si annuncia molto più minacciosa, come dimostra il boom dei contagi in Campania e il tasso di ospedalizzazione dei pazienti Covid al Sud rispetto alla media. Mettendo alla prova un sistema già in forte sofferenza. E che da anni è costretto a fare i conti con una dotazione di risorse da parte dello Stato inferiore rispetto al resto del Paese, come dimostra anche la ripartizione del Fondo sanitario nazionale di quest’anno.

I NUMERI DEL DIVARIO. Qualche numero: per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 lo Stato spenderà complessivamente 1.826 euro pro capite, contro i 1.918 riservati a un emiliano e i 1.877 a un veneto. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827. La Calabria veste i panni della “Cenerentola”, con appena 1.800 euro per ogni suo cittadino contro i 1.916 per ciascun friulano, i 1.935 di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 della Toscana. Come accade ormai da oltre 15 anni, il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, complice il meccanismo della spesa storica. Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi del fondo sanitario 2020, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Il quadro della spesa pro capite fotografa chiaramente le disparità: per la salute e le cure di un pugliese lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite, mentre la Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi – 1.880 euro per ogni sua cittadino – per la sua sanità che pur non ha dato una bella prova di sé durante l’emergenza Coronavirus. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Ancora: il Friuli Venezia Giulia, che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino; il Piemonte, che pure negli ultimi anni come ha certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Infine, la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite.

L’INCREMENTO. Negli ultimi 10 anni, poi, sempre le regioni del Nord hanno registrato un incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale maggiore rispetto alle altre: tra il 2010 e il 2020, infatti, la quota della Lombardia è cresciuta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, al contrario, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei regioni settentrinali hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%, mentre altrettante regioni del Sud, che erano già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solamente dell’1,75%, cioè oltre mezzo punto percentuale in meno. Fatti i conti, quindi, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. E chi volesse giustificare questo stato di cose con una migliore performance nella gestione delle risorse da parte delle Regioni del Nord troverebbe una facile smentita nei conti del settore sanitario che tra il 2018 e il 2019 registrano un peggioramento del disavanzo del 10 per cento: dai 990 milioni di euro del 2018 si è infatti passati a poco meno di 1,1 miliardi di euro nell’esercizio appena concluso.

LE RESPONSABILITÀ. Un peggioramento che, come ha certificato la Corte dei conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, è da ricondurre «in prevalenza alle Regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019». «“Un risultato – si legge ancora nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata». Le regioni in Piano, sostanzialmente quasi tutte quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri, mentre quelle a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le differenze tra le Regioni emergono anche dal numero del personale impiegato nella sanità: la Campania conta 5,8 milioni di residenti e può contare soltanto su 42mila operatori sanitari; in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, i dipendenti a tempo indeterminato impegnati negli ospedali supera di poco le 35mila unità, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, in Emilia Romagna (4,4 milioni) sono invece oltre 57mila mentre in Lombardia si arriva quasi alla soglia delle 100mila unità.

IL DIRITTO ALLA SALUTE NON È UGUALE PER TUTTI. Anche in pandemia il Nord prende più soldi per gli ospedali. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2020. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino. Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito, ma lo Stato italiano non spende la stessa cifra per la cura dei suoi cittadini. Per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 spenderà complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e i 1.877 ad un veneto. È questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale dell’anno in corso. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spetta appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana. Chi sperava in una inversione di rotta almeno dopo una pandemia che ha stravolto le nostre vite e i nostri sistemi sanitari resterà deluso. Il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. È un dato di fatto certificato che le Regioni settentrionali continuano a ricevere maggiori fondi, è lo scippo della spesa storia che prosegue. Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi del fondo sanitario 2020, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino.

La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia ancora il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%.

Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

Si dirà, le Regioni del Nord ricevono più soldi perché le spendono meglio. Falso mito. Tra il 2018 e il 2019, in Italia si è registrato un peggioramento del disavanzo nei conti del settore sanitario del 10 per cento: dai 990 milioni del 2018 si è passati a poco meno di 1,1 miliardi nell’esercizio appena concluso. Un peggioramento – certifica la Corte dei Conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica – da ricondurre “in prevalenza alle regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019”. I giudici contabili stanno parlando proprio delle Regioni del Nord, lo chiariscono in un passaggio successivo: “Un risultato – si legge nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata”.

Le regioni a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le regioni in Piano, cioè sostanzialmente quasi tutti quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri. Le differenze sono palesi anche sul numero di dipendenti a disposizione: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari. 

L'Altravoce dell'Italia. Le due Italie. SUDISMI - Direbbero perfino che la terra è piatta pur di non ammettere i miliardi sottratti al Sud. Pietro Massimo Busetta l'1 ottobre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ieri audizione in Commissione Federalismo fiscale del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Francesco Boccia. La sua relazione si può riassumere nella determinazione di calcolare i livelli essenziali di prestazione prima di procedere a qualunque allargamento delle autonomie differenziate. Oltre che aspettare, prima di operare, l’equiparazione infrastrutturale. Buone notizie quindi, perché se un marziano venisse dallo spazio si renderebbe immediatamente conto che i Paesi sono due: per infrastrutturazione, per servizi scolastici, per Università , per occupazione, per servizi sociali. Si contestano i dati del furto, ormai diffusi in tutto il Paese, perché vi sono i fondi del Recovery Plan, una quantità più rilevante dati dall’Unione proprio perché il Paese ha questi territori arretrati, che devono essere distribuiti. Ma c’è un ladro che si aggira nel Paese. Ormai è riconosciuto anche dallo stesso protagonista che è reo confesso. Prova a difendersi dicendo che si è vero che ha rubato, ma non quanto qualcuno direbbe, che ha rubato meno, ma è confesso. Parliamo dei 60 miliardi che ogni anno verrebbero sottratti al Sud se nascere a Reggio Calabria fosse indifferente rispetto a nascere a Reggio Emilia. Se invece passasse il principio che ognuno si trattiene il reddito che produce questo furto non ci sarebbe. Ma in quel caso i brianzoli, i bergamaschi o i comaschi dovrebbero stare attenti. In quel caso, anche la ricca Cortina potrebbe sostenere che i suoi studenti hanno diritto ad essere presi in auto la mattina da un autista privato, perché il loro reddito prodotto lo consente e pazienza se nei borghi montani si dovrebbero chiudere alcune scuole. La Svimez ed il nostro quotidiano, sulla base dei dati dei conti territoriali, rilevano che se si calcola quanto viene speso al Sud ed al Centro Nord si rileva una differenza di 60 miliardi sottratti al Mezzogiorno e dati in sovrappiù all’altra parte del Paese. Il calcolo viene fatto sulla base della spesa procapite effettuata includendo aziende tipo Ferrovie dello stato, Anas, Fincantieri, Poste italiane. Quello che viene chiamato settore pubblico allargato. Ovviamente le potenti lobbies nordiste, che vedono in tale affermazione un rischio per una distribuzione dei fondi, che non li veda prevalere come sempre è accaduto, si mobilitano. Soprattutto dopo un’intervista al presidente della Svimez, Adriano Giannola, che contestava lo scippo e individuava una qualche possibilità che ci fosse un criterio di riequilibrio. Apriti cielo, parte all’attacco un professore ordinario di diritto tributario a Trento, Andrea Giovanardi, e poi arrivano le truppe pesanti. Il laboratorio diretto da Carlo Cottarelli con un articolo firmato da Gianpaolo Galli, già direttore del centro studi Confindustria per anni e poi deputato al Parlamento per il PD. Quale il tema? Per riassumerlo vero è che vi sono queste differenze ma il calcolo è errato per tre motivi. D’altra parte se i numeri li torturi prima o poi ti diranno quello che vuoi far dire loro. È lì tabelle, grafici, per dimostrare che la terra è piatta, che l’uomo non è mai andato sulla luna, che i vaccini non hanno effetti e che le due torri gemelle sono state abbattute dal Pentagono. Le contestazioni: la prima che l’ammontare delle pensioni non deve essere inserito perché esse sono state pagate dai contribuiti dei lavoratori. Ed il fatto che per anni molta parte delle pensioni sia stata pagata con la fiscalità generale, considerato che il sistema è stato prima solo retributivo ed adesso misto? Non conta nulla, non incide in questo calcolo per gli illustri ricercatori. Il secondo tema riguarda la contestazione sull’inserimento di società come le Ferrovie dello stato o dell’Anas o delle Poste. Il tema è che queste ed altre sono società che seguono le regole del mercato e quindi investono laddove il mercato esiste. Giustamente quindi non si fa il ponte sullo stretto di Messina che servirebbe a trasportare quattro ceste di arance, che possono tranquillamente viaggiare con i ferry boat! Ma la dimensione di piattaforma logistica del Mediterraneo del Paese ed il collegamento tramite Augusta a Suez? Irrilevante! Non pervenuta. Lo sviluppo di un territorio grande più di un terzo del Paese che viene lasciato nel sottosviluppo, con 100.000 persone che ogni anno emigrano con un danno di 20 miliardi, più di quanti poi ne arrivano con i fondi strutturali con tutte le difficoltà di spese che esse comportano? Non è rilevante. Terzo ed ultimo elemento: in ogni caso il costo della vita al Sud è più basso. Quindi se diamo 50 milioni per costruire la linea di alta velocità con essi al Nord si possono costruire un chilometro mentre al Sud se ne costruiscono due? E se hanno un reddito pro capite che è un terzo di quello brianzolo? In realtà a parità di potere d’acquisto una famiglia napoletana riesce con un solo reddito per famiglia, pari a un terzo di quello del Nord, a mantenere molte più persone, considerato che il valore dell’euro duosicilie è molto più pesante dell’euro brianzolo. Siamo alla arrampicata sugli specchi. Dispiace che tali ragionamenti vengano condotti da coloro che sono conosciuti come ricercatori attenti. Ma si sa “ a guerra è guerra e quando viene, viene per tutti”. Adesso Boccia mette un punto fermo sulla necessità, prima di procedere, che tutti abbiano i Lep, e per recuperarli di utilizzare i fondi del Recovery Plan. Ma siamo ancora alle prime scaramucce. Ne vedremo delle belle.

SUDISMI - L’operazione verità che nessuno vuole vedere: neanche i governatori del Sud che reggono il gioco di Bonaccini. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2020. SI SONO scatenati. Articoli, video su YouTube, interventi, comparsate in televisione per dimostrare che è tutto falso. Parlo del dibattito in corso sullo “scippo” che ogni anno si consuma nei confronti del Sud. Tutto falso! Gli asili nido? A Reggio Calabria non li vogliono. Le ferrovie? I meridionali preferiscono utilizzare i bus o andare a piedi. E poi il mantra che ormai è diventato virale: «La realtà è che hanno avuto un mare di soldi che giacciono, non spesi. E quando li utilizzano servono a foraggiare la criminalità organizzata. Se il Nord non avesse il peso morto del Sud volerebbe e sarebbe comparabile alla Baviera. La colpa è loro, perché se avessero una classe dirigente non sarebbero nelle condizioni in cui sono».

MILLE PERCHÉ. A parte la considerazione che se è vero che la mancanza di classe dirigente, quella che ha come obiettivo il bene comune, e anzi la presenza di una classe dominante estrattiva, che pensa ai propri clientes, è un problema fondamentale, è altrettanto vero che la soluzione non può essere quella di affermare che se ci fosse non ci sarebbe il problema, perché è come dire che se lo zoppo non fosse zoppo potrebbe vincere le Olimpiadi. Bisogna invece fornirgli delle protesi per farlo correre. Ma la domanda che ci si pone è perché il Nord ha paura dell’operazione verità e perché invece i governatori del Sud non ne fanno un cavallo di battaglia per chiedere, se non il risarcimento (cosa estremamente complicata e inattuabile, considerata la cifra che si aggira, a seconda di come si vogliono fare i calcoli, da 300 a 600 miliardi) una diversa aggiudicazione delle risorse, e invece continuano a tollerare che, grazie alla Conferenza delle Regioni, si continui con la spesa storica? Perché di fronte a un ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che afferma in maniera tranquilla che il ponte sullo stretto di Messina, quello che dovrebbe permettere all’alta velocità ferroviaria di arrivare fino in Sicilia e quindi collegare Suez e Hong Kong al nostro Paese, non si farà per i prossimi cinque anni, non ci sono reazioni serie? Perché si consente alla ministra Paola De Micheli di contrabbandare un’alta velocità/capacità farlocca, come se i meridionali avessero l’anello al naso e non capissero che quando si parla di alta velocità a 160 chilometri orari ci stanno prendendo in giro? 

IL RISCHIO UE. Lo strano è che non si vedono nemmeno posizioni avvertite e progressiste nel Nord, che accettino quello che è evidente a chiunque guardi la realtà italiana senza pregiudizi. Come fa la Ue, che prima con Le Maitre, minaccia di togliere le risorse all’Italia se continua a spenderle in maniera sostitutiva delle risorse ordinarie e ora con il Recovery plan destina all’Italia una cifra maggiore, proprio perché le condizioni del Sud sono precarie.  «Se non verrà mantenuto un adeguato livello d’investimenti pubblici nel Mezzogiorno, l’Italia rischia un taglio dei fondi strutturali». È l’allarme della Commissione Ue, che ha inviato una lettera al governo «indicando le cifre più che preoccupanti sugli investimenti al Sud, che sono in calo e non rispettano i livelli previsti per non violare la regola Ue dell’addizionalità».

IL TAVOLO DEL GIOCO. È per la paura di perdere finanziamenti, e quindi di dover rinunciare all’ennesima corsia su una qualche autostrada del Nord o di dover diminuire gli scuola bus per darne qualcuno anche a Canicattì? Possibile che tutta la classe colta, vera classe dirigente del Paese, si trinceri dietro l’arrampicata sugli specchi di Andrea Giovanardi, che arriva a sostenere che «livelli essenziali non vuol dire uniformi» e che quindi è corretto che in parti diverse del Paese i cittadini abbiano alcuni servizi di serie A e altri di serie B, nella scuola , nella sanità, nel traporto. Oppure che Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, andati in avanscoperta, e poi il candido Carlo Cottarelli affermino che lo scippo c’è ma anzi no, e le pensioni non vanno calcolate e che le ferrovie se investono a Milano mica li possiamo obbligare a investire a Napoli e che poi vivere a Palermo costa meno che vivere a Brescia o a Bergamo. Come mai non si accetta, come fece persino Calderoli, che i livelli essenziali di prestazioni sono un must irrinunciabile per tutto il Paese? E Confindustria e i sindacati? Nessuno che si strappi le vesti e dica che le risorse del Next Generation Ue vanno investite prevalentemente al Sud perché è lì che servono. Altro che il 34 %, minimo sindacale. Perché questa difesa dell’indifendibile, perché continuare a dire come il lupo che l’acqua può anche sporcarla chi sta in basso al ruscello? E dall’altra parte, se una “Operazione verità” è stata fatta come mai gli Emiliano, presidente di una regione di 4 milioni di abitanti, i De Luca che ne ha 6 milioni e i Musumeci con 5 milioni, che da soli rappresentano un quarto del Paese, di fronte a un’ingiustizia così palese, invece di continuare a fare la corte a un Bonaccini che fa il gioco delle tre carte, nel quale alla fine vince sempre il banco, ciò il triangolo emiliano- veneto -lombardo, non fanno saltare il tavolo del gioco?

IL SILENZIO TOMBALE. Il Vangelo dice che se non parleranno le persone per gridare la verità, parleranno le pietre. Ma qui la sensazione è che non parli nessuno e che ciò che doveva essere dirompente rispetto al sistema, e cioè che anche un euro venisse sottratto al Sud per darlo al Nord, sia stato assimilato come un veleno inevitabile, che continua a distruggere un corpo malato. E che in realtà il Mezzogiorno non sia più capace neanche di indignarsi. E invece di sbandierare i dati dello scippo si continuino a chiedere piccole mancette e non pretendere quello che ci tocca e ci è dovuto come cittadini di questa Italia.

Spesa statale, la beffa del Mezzogiorno: 499 miliardi in meno in 20 anni. Marco Esposito Lunedì 27 Luglio 2020 su Il Mattino.it. Recuperare i divari Nord-Sud. L'impegno, vecchio come il mondo verrebbe da dire, ha preso sfumature meno vaghe da quando, complice la crisi della pandemia, l'Italia è diventata primo beneficiario in Europa delle risorse del Recovery fund. Ci sono soldi veri da spendere in modo oculato e il Mezzogiorno è senza dubbio l'area italiana a maggiore potenziale di crescita, così come è stata trent'anni fa la Germania Est per i tedeschi. Però il Sud, si afferma spesso e talvolta anche tra i meridionali, è una pentola bucata, un pozzo senza fondo che assorbe risorse a vuoto, un territorio che ha goduto per decenni di leggi di favore con i risultati mediocri che sono sotto gli occhi di tutti.

Due false informazioni, due fake news si direbbe oggi. Entrambe dimostrabilmente false. La prima utilizzando i valori ufficiali dei Conti pubblici territoriali. La seconda elencando le norme scritte in favore del Mezzogiorno - tante, questo è vero - ma rimaste inattuate. Sui soldi è presto detto. Il Sud non è affatto una terra inondata di risorse spese male. Sia chiaro: di soldi spesi male ce ne sono stati in passato e ve ne sono ancora, al Sud non diversamente che al Nord, come dimostrano le inchieste giudiziarie e le condanne. Ma sulla quantità di risorse siamo ben lontani dall'equità. Tuttavia sui numeri si fa non poca confusione, per cui è l'occasione di fare chiarezza. A inizio 2020 il Rapporto annuale dell'Eurispes, in particolare, ha calcolato in 840 miliardi la somma di spesa pubblica che il Sud avrebbe dovuto ricevere dal 2000 al 2017 se ci fosse stato perfetto equilibrio territoriale in base agli abitanti. Una denuncia forte (e documentata) che però ha ricevuto l'accusa di essere una bufala da parte dei cacciatori di fake news di Pagella Politica. Come stanno in realtà le cose? La base dati è unica e si chiama Conti pubblici territoriali e in effetti se si confronta la spesa media procapite per i cittadini del Centronord e quelli del Mezzogiorno il divario è molto forte, di quasi 4mila euro. Per l'esattezza, in base ai valori più aggiornati e relativi al 2018, 16.612 euro al Centronord e 12.706 nel Mezzogiorno con una media di 15.282. Quindi se tutti fossimo trattati in modo matematicamente uguale, il cittadino meridionale dovrebbe salire a 15.282 euro, cioè beneficiare di una spesa pubblica di oltre 2.500 euro superiore. E visto che i meridionali sono più di 20 milioni, il totale sottratto al principio d'equità in un solo anno fa circa 50 miliardi, ovvero gli 840 miliardi per l'intera serie storica calcolati da Eurispes fino al 2017. Ma è giusto - ci si deve chiedere per onestà intellettuale - che tutta la spesa pubblica sia ripartita con equità territoriale? C'è una voce importante, peraltro la principale nel bilancio statale, nella quale il conteggio è strettamente individuale: la pensione. Se due fratelli gemelli hanno vite professionali diverse - uno fa carriera e diventa docente universitario e l'altro fa l'insegnante alle medie - ci aspettiamo che abbiano stipendi diversi e troviamo del tutto naturale che prendano pensioni diverse. Ecco, al Centronord grazie a un'economia più florida ci sono più persone che iniziano a lavorare prima e che hanno redditi elevati, per cui visto che i soldi attirano soldi, le pensioni sono di solito più generose. Lo Stato, in tale caso, fa da cassa comune tramite l'Inps e limita la solidarietà all'erogazione delle pensioni minime e di quelle sociali. La spesa per le pensioni da sola giustifica la metà del divario Nord-Sud e va depurata dal conteggio.

Cosa dicono i numeri netti? Li trovate in pagina. Intanto sono aggiornati rispetto a quelli Eurispes e arrivano al 2018. E poi sono ripuliti sia della spesa previdenziale, sia della cassa integrazione, la quale anch'essa va soprattutto al Nord perché per restare senza lavoro devi prima averne uno, sia degli interessi sul debito che dipendono dai risparmi (ovviamente superiori al Nord). Il risultato è forse meno roboante ma è tecnicamente inattaccabile: anche pulendo i valori delle spese inevitabili, in tutti gli anni considerati lo Stato spende mediamente più al Centronord che nel Mezzogiorno e l'importo perso dai meridionali rispetto alla media va da un minimo di 11 miliardi nel 2000 (il primo anno della serie storica) a un massimo di 34 miliardi nel 2008. La somma dei diciannove anni (2000-2018) porta a 499 miliardi, con una media di 26 miliardi all'anno di minore spesa pubblica per servizi sociali, sanità, trasporto, scuola, investimenti. Se si entra nel dettaglio delle tipologie di spesa, il Mezzogiorno cade nella voce acquisti di beni e servizi. Quando c'è da pagare stipendi pubblici, infatti, lo Stato si comporta in modo equanime. C'è una sola (vistosa) eccezione: la sanità, settore nel quale il Mezzogiorno è trattato decisamente peggio. Ma in generale, per enti locali, scuola, sicurezza, giustizia le spese per il personale al Sud sono in linea con la media e talvolta superiori. A frenare il Mezzogiorno è l'acquisto di beni e servizi per far funzionare la macchina pubblica: i dipendenti pubblici meridionali sono poco produttivi perché operano in strutture meno dotate.

Ma perché ciò è accaduto nonostante le tante norme di favore? Questo è l'altro corno del problema. Carlo Azeglio Ciampi, da ministro del Tesoro del governo Prodi, a partire dal 1996 ha colto l'importanza di una spesa pubblica concentrata nel Mezzogiorno e, proprio per capire come spende la macchina statale, Ciampi volle un sistema specifico di contabilità, diventato poi i Conti pubblici territoriali. Più volte si è provato a rendere cogenti le regole di equità. Per esempio nella finanziaria 2005 e poi nella finanziaria 2007 si è stabilito (una volta al comma 17, la seconda al comma 873) che le imprese pubbliche devono spendere almeno il 30% degli investimenti ordinari nel Mezzogiorno. Ma la legge è rimasta inapplicata perché la principale società pubblica per investimenti, le Ferrovie dello Stato, in quegli anni era impegnata nella realizzazione dell'alta velocità ferroviaria, come noto realizzata quasi tutta al Centronord. Infatti le Fs nel 2005 investirono al Sud appena il 15%, compresi gli interventi straordinari, mentre nel 2007 la quota fu del 20%. Ma ovviamente non ci fu alcuna sanzione perché l'azienda di stato non fece altro che rispettare i contratti di programma. Non andò molto meglio nel 2009. Roberto Calderoli preparò un sistema di decreti di attuazione del federalismo fiscale ben congegnato e che rispettava il principio d'equità. In particolare per superare di divari di infrastrutture tra Sud e Nord era prevista una ricognizione dell'esistente, che però non è neppure partita. Clamoroso, infine, il ritardo nella definizione dei Lep, sigla che sta per «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (Costituzione, articolo 117). Tocca al Parlamento fissare l'asticella dei diritti, ma dal 2001 non è mai stato fatto con il risultato paradossale che quando nel 2014 si è dovuto determinare il fabbisogno standard di un determinato territorio (operazione effettuata per i Comuni) si è deciso che in assenza del servizio non c'era il fabbisogno. Fino all'assurdo degli asili nido zero, corretto solo (e parzialmente) a partire dal 2020. Il 2020 dovrebbe essere anche il primo anno di attuazione della cosiddetta «legge del 34%» ovvero la norma che impone di destinare il 34% degli investimento ordinari al Mezzogiorno, sulla base del banale principio che al Sud vive il 34% degli italiani. La legge c'è dal 2017 ma nonostante la sua ovvietà, è rimasta inapplicata con i ministri del Sud Claudio De Vincenti e poi Barbara Lezzi. Ora ci sta provando Peppe Provenzano. Ma perché è così difficile applicare persino le regole ovvie? Semplice. Perché è più facile (e per nulla costoso) convincere i meridionali che se le cose non vanno è colpa di una mediocre classe dirigente (che anche c'è, sia chiaro) piuttosto che impegnarsi a far funzionare le cose per davvero, come se fossimo tutti tedeschi, anche ad Est. Pardon, tutti italiani, anche al Sud. 

Il rischio povertà al Sud e le politiche coloniali dello Stato italiano. Michele Di Pace il 27.09.2020  su Il Movimento 24 agosto. Di Roberto Cantoni – Referente M24A-ET Spagna. Uno spettro di aggira per l’Europa: lo spettro della povertà. A guardare meglio, in realtà, non si aggira per tutta l’Europa, ma soltanto per alcune sue aree ben specifiche: segnatamente, il Sud Italia. La notizia è assurta agli onori – o meglio, ai disonori - di cronaca in luglio, in seguito alla pubblicazione del Rapporto 2020 dell’Eurostat. Da tale rapporto risulta che, nella poco onorevole classifica delle zone UE col maggior tasso di popolazione a rischio di povertà, la Campania occupa il gradino più alto del podio, con un 41,4%, seguita dalla Sicilia (40,7%) e, in ottava posizione, dalla Calabria (32,7%). Aggiungendo al rischio-povertà anche il dato sul rischio di esclusione sociale, la Campania arrivava al 53,6%, mentre la Sicilia al 51,6%). Cioè, oltre metà della popolazione delle due regioni. Come spiega il rapporto, “Il numero o la quota di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale combina tre criteri distinti che coprono le persone che si trovano in almeno una delle seguenti situazioni:

- a rischio di povertà - persone con un reddito disponibile mediano equivalente (dopo i trasferimenti sociali) al di sotto della soglia di rischio di povertà;

- persone che soffrono di gravi privazioni materiali - persone che non possono permettersi almeno quattro su nove oggetti materiali considerati desiderabili (o addirittura necessari) dalla maggior parte delle persone per avere una qualità di vita adeguata;

- persone che vivono in una famiglia a bassissima intensità di lavoro, dove gli adulti in età lavorativa non hanno lavorato più del 20% del loro potenziale totale nei 12 mesi precedenti.”

Questo dato va considerato insieme a quello sulla disoccupazione di lungo-termine, endemica delle nostre zone, tutte caratterizzate da percentuali superiori al 50%. Tuttavia, se si vanno a scorporare i dati sulle fasce d’età, si vede che la disoccupazione giovanile è una vera e propria piaga nel Meridione, con tutte le regioni con tassi superiori al 25%, cioè un giovane su quattro (al di sopra dell’Umbria, soltanto il Piemonte è nelle stesse condizioni in Italia). Altro dato interessante riguarda le famiglie a bassissima intensità di lavoro: la Sicilia, per dirne una, ha una percentuale quasi otto volte maggiore della provincia di Bolzano. E, almeno in teoria, sarebbero parte dello stesso paese. Idem per il PIL pro-capite, con tutte le regioni del Sud caratterizzate da PIL di oltre il 25% al di sotto della media europea (con la parziale eccezione dell’Abruzzo, tra il 10 e il 25%). In tutte le regioni del Nord, al contrario, il PIL pro-capite è pari o superiore alla media europea. E ancora: tra il 2008 e il 2018, una delle regioni con la maggior crescita del numero di lavoratori nel settore scientifico-tecnologico è stata la Lombardia (+300.000 unità), mentre la Calabria è stata una delle otto regioni europee in cui i lavoratori in questi settori sono diminuiti. Ora, l’Unione Europea è piuttosto prodiga di fondi per le regioni in condizioni socioeconomiche disagiate, e ha una politica di coesione territoriale ben definita, che porta avanti con serietà. È evidente, quindi, che il problema è più a valle: al livello nazionale. Certo, c’è da dire che, se il Sud fosse uno stato a sé, avrebbe diritto, oltre ai fondi strutturali che ricevono tutti i paesi membri, anche al Fondo di coesione, che finanzia progetti nei paesi in cui il reddito nazionale lordo (RNL) pro-capite è inferiore al 90% della media dell’UE. Il paradosso è che il contributo del Centro-Nord al RNL rende l’Italia un pese relativamente agiato, almeno per le statistiche. È come la storia dei polli di Trilussa: quella secondo cui, se una persona ha due polli e un’altra nessuno, per la statistica hanno un pollo a testa, e quindi stanno relativamente bene. La media nazionale finisce per sfavorire il Sud, che invece, secondo la maggior parte dei parametri socioeconomici, è in condizioni simili a Bulgaria, Romania e repubbliche baltiche. Al livello europeo, purtroppo, fino a poco fa si è dato per scontato che il governo italiano si adoperasse nella funzione di ridistribuzione dei fondi nazionali, nel senso di favorire la perequazione. Ciò non avviene, e se ne sono accorti recentemente anche a Bruxelles, (qui un intervento del referente per la Lombardia di M24A-ET Massimo Mastruzzo in proposito) dove la Commissione ha minacciato l’Italia di tagli ai fondi strutturali in mancanza di un intervento massiccio al Sud, usando però la spesa pubblica nazionale, e non i fondi europei, che – ha ricordato la Commissione – sono aggregativi, non sostitutivi di quelli nazionali. Ricordiamo, tra l’altro, che l’Eurispes nel suo rapporto 2020 ha certificato la sottrazione al Sud di 840 miliardi di euro in 17 anni. 840 miliardi di euro: cioè oltre 49 miliardi di euro all’anno. Soldi che sono andati indebitamente al Centro-Nord. C’è quindi un problema spaventoso di gestione della spesa pubblica: ed è un problema che genera i dati illustrati nel rapporto della Commissione Europea. Il Sud è trattato dal governo nazionale come un territorio coloniale, sotto qualunque punto di vista. I paralleli con le colonie africane di Francia e Regno Unito del XX secolo sono illuminanti e calzanti. Dobbiamo, da meridionali, prenderne coscienza e agire di conseguenza, decolonizzandoci prima mentalmente e poi economicamente. Occorre agire nei confronti dello Stato italiano facendo perno sull’unico parametro cui è sensibile: i fondi europei. Per farlo, abbiamo però bisogno dell’aiuto di un organismo che abbia più potere coercitivo dell’Italia: l’Unione Europea. Forse chiedere ai meridionali di vedere la Commissione europea come un’istituzione amica è eccessivo, ma sicuramente, pur con tutte le sue tare, lo è di più del governo italiano degli ultimi decenni. Per questo motivo credo che, come Movimento, dovremmo fare pressione perché la Commissione passi dalle parole ai fatti nei suoi procedimenti contro lo Stato italiano, obbligandolo a capovolgere la politica coloniale seguita finora, e a restituire al Sud almeno il maltolto degli ultimi 17 anni. Finché ciò non avverrà, potranno continuare a eleggere presidenti della repubblica meridionali, ma la sostanza della nostra subalternità socioeconomica non cambierà. Il reddito disponibile delle famiglie è determinato sommando tutti i redditi monetari (a prescindere dalla fonte da cui siano percepiti, compresi i redditi da lavoro, gli investimenti e le prestazioni sociali) di ciascun componente della famiglia ai redditi percepiti a livello di famiglia e detraendo le imposte e i contributi sociali versati.

ECONOMIA, INFRASTRUTTURE E TRASPORTI. CHI SI RIVEDE, LA POLITICA RISCOPRE LA QUESTIONE MERIDIONALE. STAI A VEDERE CHE E’ PER MERITO DI QUEI QUATTRO URLATORI MERIDIONALISTI? Raffaele Vescera l'01.10.2020 su Il Movimento 24 agosto. Dopo decenni di negazionismo, di autofustigazione nel ripetere che “è tutta colpa dei meridionali”, i politici del Sud scoprono l’acqua calda e riconoscono che esiste una Questione meridionale, data da uno Stato che nega ai cittadini del Sud i diritti elementari. Lavoro, infrastrutture, salute, istruzione, tutto in meno al Sud, nella misura di 61 miliardi l’anno di investimenti, dovuti al Mezzogiorno e “trasferiti” al Nord, come se niente fudesse, nel silenzio generale dei partiti e dei media, saldamente detenuti nelle mani del Partito Unico del Nord. Non che i politici meridionali riconoscano la totalità del furto, se così fosse dovrebbero stracciarsi le vesti per i tanti anni di ignavia nel migliore dei casi, di vergognoso collaborazionismo nel peggiore, praticato in cambio di privilegi economici e giudiziari. Tuttavia  dal negazionismo sono passati a un’ammissione, timida nella maggioranza dei  casi, decisa in pochi altri. E’ così che, mettendo da parte l’antimeridionale lega e suoi alleati, dopo le parole del leader M5s Di Maio che negava l’esistenza della Questione meridionale in nome di un movimento non territoriale ma nazionale, sono sempre di più le voci di parlamentari pentastellati che ne riconoscono l’esistenza. Così la portavoce del M5s Conny Giordano scrive che “Il Recovery Fund è un'opportunità storica per il Sud. Grazie ai soldi del Recovery Fund abbiamo l'occasione storica per colmare il gap tra Nord e Sud d'Italia. Abbiamo fatto passare in Commissione un parere che concede la priorità allo sviluppo strutturale del Mezzogiorno d'Italia. Dobbiamo individuare tutti i criteri che assicurino un maggiore afflusso di risorse nei territori storicamente svantaggiati.” Benissimo, meglio avrebbe fatto ad aggiungere che i fondi europei non devono essere sostitutivi ma aggiuntivi a quelli dello Stato negati al Sud, secondo logica e  volontà della stessa Commissione europea, se si vuole sanare il vergognoso squilibrio Nord-Sud, frutto di 160 anni di trattamento coloniale del Mezzogiorno. Ed è così che i parlamentari meridionali del Pd, nelle commissioni congiunte trasporti e ambiente della Camera, scrivono che “Il ritardo economico del Mezzogiorno è inaccettabile e ingiustificabile perché non consente a un terzo della popolazione italiana di godere appieno di diritti, opportunità e prospettive che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini. Ed è oltremodo ingiustificabile perché le ricchezze culturali, ambientali, di capacità produttive inespresse presenti nel Mezzogiorno possono e devono essere utilizzate per il rilancio dell'economia dell'intero Paese”. E così aggiungono: “per affrontare il tema del gap infrastrutturale Nord – Sud, con proposte operative, devono essere previste già nei prossimi finanziamenti nazionali ed europei, dal Recovery Fund ai contratti Rfi e Mit. Tra queste, innanzitutto l’alta Velocità al Sud, da Salerno a Reggio Calabria e poi fino a Palermo con l'attraversamento stabile dello Stretto di Messina, realizzando una infrastruttura che ponga fine all'isolamento della rete dei trasporti siciliani da quella del resto del Paese. Oggi abbiamo registrato un fatto molto positivo avendo ottenuto sull'impostazione del nostro testo, la condivisione di tutti i gruppi parlamentari, di maggioranza e opposizione”. Bene, ignorano totalmente l’alta velocità ferroviaria dell’asse adriatico, da  Bologna a Lecce, ma riconoscono la necessità dell’Alta velocità tirrenica da Salerno a Reggio e poi fino a  Palermo, con “attraversamento stabile” dello Stretto, dicono, ma senza avere il coraggio di nominare la parola “ponte”, un struttura già progettata e immediatamente fattibile. Di grazia, diteci come superare lo Stretto? In antesignano traghetto, ambientalista bicicletta o fantascientifico tunnel? Vediamo chi la spara più grossa dopo la ministra De Micheli. Che i parlamentari del Sud comincino a  prendere coscienza, sino a formare un intergruppo meridionale è un dato positivo, tuttavia non possiamo ignorare la forza sovrastante del Partito Unico del Nord che ricorre ad ogni mezzo per contrastare l’equità territoriale nella distribuzione delle risorse, nazionali ed europee, sino a fare il gioco delle tre carte, come fanno certi stracotti economisti alla Cottarelli, i quali arrivano a sostenere che il Sud ha avuto fin troppo dall’Italia? Ah, sì, signori miei, e i 110 miliardi dell’Alta velocità ferroviaria, di cui 50 miliardi destinati per fare le ferrovie Av al Sud, chi li ha mangiati se non il Nord che si è preso tutto, distribuendo in tangenti buona parte dei soldi? E le strade statali, gli ospedali, le scuole, i tribunali e altre opere mancanti al Sud forse non spettava allo Stato farle? E’ per questa ragione che occorre una forza politica “decisamente” meridionalista, che pur riconoscendo il diritto all’equità per tutto il territorio nazionale, ove essa sia negata come in alcune zone interne, si batta per cancellare la più grande ingiustizia italiana, la disparità Nord-Sud. Intanto possiamo ascrivere alle nostre “urla nel deserto” l’iniziale presa di coscienza dei politici meridionali. Noi del Movimento 24 Agosto per l’Equità territoriale non ci fermeremo, continueremo a urlare la verità. A partire dal 6 ottobre in Piazza Monte Citorio a Roma, per poi arrivare a Bruxelles.  Dopotutto, “basta sollevare un pugno di sabbia nel deserto, per modificarlo”, dice il filosofo. Noi di pugni ne abbiamo molti da sollevare.

Provenzano contro chi nega lo scippo al Sud: i numeri parlano da soli e la matematica non è un’opinione. La relazione del ministro: «Al Mezzogiorno spetta almeno il 34% delle risorse del Recovery Fund». Lia Romagno  il 29 settembre su Il Quotidiano del Sud. Le «ricostruzioni» che negano lo squilibrio nella ripartizione della spesa pubblica a beneficio del Nord, e la ventennale penalizzazione del Mezzogiorno, «difettano di matematica», mettono in dubbio «dati ufficiali», mentre la «vecchia teoria dei residui fiscali», poi, «è da rigettare alla radice». Ma soprattutto, conducono a un errore strategico, perché è indubbio che «ogni 10 euro investiti al Sud, 4 tornano al Centro Nord in termini di attivazione di domanda di beni e servizi». Con quattro passaggi della sua relazione sulle priorità per il Recovery Plan davanti alle commissioni riunite del Senato, Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, ha liquidato l’analisi dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Quattro punti di un discorso ben più articolato che ha smontato quello che nelle sintesi giornalistiche è diventato il “falso mito”, la favola della sottrazione di risorse al Sud, mettendo in discussione l’indagine della Svimez elaborata sulla base dei Conti pubblici territoriali curata dall’Agenzia per la Coesione territoriale. «I dati sono ufficiali – ha affermato Provenzano – ci raccontano di uno squilibrio, di uno svantaggio, soprattutto nella spesa pro capite per investimenti tra le aree che va colmato». «Soprattutto in giorni in cui vedo nuove ricostruzioni dei giornali che negano addirittura lo squilibrio e la penalizzazione che nel corso di questi anni le regioni meridionali hanno invece subito nella spesa in conto capitale» il ministro ha ribadito che «che c’è un gap che dobbiamo colmare anche in termini di investimenti». Secondo il ministro, «queste ricostruzioni, non solo difettano di una visione politica capace di capire quanto investire nelle aree meno sviluppate sia essenziale a liberare un potenziale di sviluppo anche nel resto del del paese, ma difettano proprio di matematica e il tentativo di rispolverare la vecchia teoria dei residui fiscali è da rigettare alla radice, perché questo concetto se applicato ai territori è del tutto discutibile anche sul piano scientifico, e comunque riduce il rapporto Nord e Sud, e tra le aree del Paese, a una contabilità misera di cui dovremmo fare a meno». Mentre la storia del nostro Paese, confortata dall’analisi economica, ha evidenziato, mostra l’interdipendenza tra le diverse aree del Paese, sia sul piano economico e commerciale: «La Banca di Italia, ma anche la Svimez, ha ricordato come un investimento nelle aree meno sviluppate è capace di attivare reddito e lavoro in misura maggiore per tutto il Paese. Sappiamo che per ogni 10 euro investiti al Sud 4 tornano al Centro Nord in termini di attivazione di domanda di beni e servizi». Intanto, il Sud entro la fine dell’anno rischia di perdere 600-800mila posti di lavoro. La fiscalità di vantaggio, con la riduzione strutturale del cuneo fiscale del 30% per le imprese private del Sud – su cui, ha riferito il ministro, è in corso «un negoziato molto difficile con la Commissione europea» – ha proprio lo scopo di scongiurare la «voragine occupazionale» e rilanciare gli investimenti. L’occasione per ripartire arriva dall’Europa, che proprio il risanamento delle fratture territoriali, ha messo al centro della strategia per il rilancio e superare la crisi con più sviluppo ed equità. Ora, tra Recovery Fund e fondi europei, le risorse aggiuntive attivabili sia per il Paese sia per il Mezzogiorno «raggiungono quote mai realizzate», ha spiegato il ministro: oltre ai «65, quasi 70 miliardi di aiuti», «avremo complessivamente una quota di 43 miliardi di fondi strutturali europei per il ciclo 2021-2027», cui vanno aggiunti il cofinanziamento nazionale e regionale che dovrebbe attivare una quota di risorse per i programmi operativi nazionali e regionali pari a 80 miliardi. «Queste risorse riguardano in particolare, per i fondi strutturali, soprattutto le aree meno sviluppate: di questi 80 miliardi circa 52 miliardi sarebbero destinati, secondo il riparto attuale, al Mezzogiorno», ha aggiunto Provenzano, sottolineando, poi che «per il ciclo di programmazione 2021-2027, considerando almeno anche il 34% della parte di aiuti del Recovery Fund, avremo circa un punto e mezzo di Pil all’anno di investimenti maggiori aggiuntivi nel Mezzogiorno». Almeno il 34% perché, ha ribadito, ci sono settori, «come quello per il completamento dell’alta velocità di rete, in cui i fabbisogni di investimento sono anche maggiori». Ora la sfida, ha detto il ministro sta nel definire obiettivi e fabbisogni di investimento ben precisi, puntare su uno sviluppo che garantisca i «diritti di cittadinanza», non disperdere le risorse in un progetto sponda in cui infilare tutti i progetti finora irrealizzati. E recuperare il deficit di credibilità che ha reso «difficile rispondere alle obiezioni dei Paesi frugali, non del tutto infondate, sulla nostra capacità di messa a terra degli investimenti. Ora – ha concluso Provenzano – abbiamo un’opportunità storica».

Federalismo fiscale, nel dibattito politico assume il ruolo delle bomboniere nella credenza. Della “storia incredibile e vera dell’attuazione perversa" si occupa con garbo e dovizia di dettagli il giornalista Marco Esposito nel suo libro Zero al Sud. Alessandro Cannavale il 21 Settembre 2020 su Basilicata 24. Nel dibattito politico degli ultimi anni, il federalismo fiscale assume il ruolo delle bomboniere di famiglia nella credenza. Nessuno – quasi – osa metterne in discussione la presenza. Della “storia incredibile e vera dell’attuazione perversa del federalismo fiscale”, come promette il sottotitolo in prima pagina, si occupa con garbo e dovizia di dettagli il giornalista Marco Esposito, responsabile Economia del “Mattino”. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) ha, come noto, rivisto la ripartizione delle competenze tra Stato ed enti locali, fondandosi su tre articoli decisivi (117, 119 e 120). Il carburante del dibattito politico che ha sospinto i partiti – da destra a sinistra – a dare ascolto alle sirene del federalismo, attuando quella riforma così sostanziale del testo costituzionale, è stato offerto dalla crescente demonizzazione dell’intervento pubblico, unitamente al crescente “disegno leghista di concentrare le risorse disponibili sui propri territori di elezione, premiando in primo luogo i propri cittadini; e quindi riducendo gli interventi nel Mezzogiorno”. Esposito affronta il nodo delle cosiddette narrazioni, come quella sul “residuo fiscale”, a più riprese affrontata dal Presidente di Svimez, Adriano Giannola, o quella sugli “sprechi del Sud”. Per fugare i dubbi, Esposito ricorda quanto sia falso che la spesa pubblica sia omogenea sul territorio nazionale, visto che, citando i Conti pubblici territoriali del 2015, pubblicati nel 2017, “la spesa pubblica complessiva pro capite in Italia era di 15.801 euro nel Centronord e di 12.222 euro nel Mezzogiorno”. Lo Stato, lo sanno tutti ormai (si spera), spende al Sud meno del 30% delle risorse, a fronte di una popolazione del 34.4%. Dove ha condotto l’applicazione del federalismo fiscale, dalle sue origini ai giorni nostri? Di questo parla “Zero al Sud”. Lo fa combattendo da un lato la deficitaria informazione su un tema tanto delicato come la ripartizione nazionale delle risorse per i servizi fruiti dai cittadini italiani, dall’altro la marea di luoghi comuni che sono diffusi tra i meridionali stessi, inficiando ogni nascente possibilità di iniziativa concreta. Se al lettore, temi come il federalismo e la sua attuazione possano sembrare da addetti ai lavori, il saggio di Esposito, edito da Rubbettino, mette in campo una secca e urgente smentita. Dal modo in cui il federalismo si è andato attuando, sono scaturiti livelli discutibili dei servizi essenziali per tutti i cittadini italiani. Di cosa parliamo? Di cose che ci sono più vicine di quanto crediamo: degli asili nido, ad esempio, ma anche degli altri servizi, che sono tutt’altro che astratte elucubrazioni. Stiamo parlando della qualità delle nostre vite di cittadini, sui nostri territori. Il libro ricapitola quasi venti anni dell’intricato percorso federalista, passando per la cruciale approvazione della Legge 42/09, che aveva ribadito la necessità di stabilire i Livelli Essenziali delle Prestazioni e i cosiddetti “obiettivi di servizio”, per le amministrazioni locali. Quella Legge fu firmata da Berlusconi, Tremonti, Bossi e dal Ministro per i rapporti con le Regioni di allora, Raffaele Fitto. Il fondo di perequazione, stabilito dall’articolo 13 di quella legge, si trovò di fronte al limite della “neutralità finanziaria per il bilancio dello stato”, cioè “dalla presente legge […] non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Quindi, quel testo sanciva che le risorse aggiuntive per i comuni in stato di bisogno di perequazione finanziaria dovessero e potessero giungere solo dai comuni più abbienti, in modo orizzontale e non più verticale. Minando l’attuabilità della perequazione stessa. Cosa scaturì da tutto questo? Ne parla con dovizia di dettagli Marco Esposito, narrando le discussioni delle varie commissioni parlamentari di cui l’epilogo fu il seguente: “Si considerò essenziale e quindi meritevole solo l’asilo nido dove c’era e superfluo, se non inutile, dove non c’era”. Se hai è giusto che tu mantenga il tuo status; se non hai, invece, peccato per te. Con amarezza, il testo ci ricorda che fu debole la risposta e la partecipazione dei parlamentari meridionali, nei vari contesti in cui si discussero questi temi, come si sforza di documentare Esposito, nelle pagine di “Zero al Sud”. Come chiarisce l’autore, “in cinque anni di lavori, nei verbali della Bicamerale risultava solo una manciata di interventi di parlamentari dell’Italia meridionale, perlopiù concentrati nel primo mese di lavori della Bicamerale, dicembre 2013”. Forse ora, dopo queste brevi battute, emerge chiaro a cosa faccia riferimento il titolo, Zero al Sud: in Italia, l’attuazione del federalismo fiscale andava sancendo la consuetudine secondo cui “per riconoscere i livelli alti in alcuni territori bisognava mantenere bassi quelli nei territori più in difficoltà”. L’assenza della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (o LEP) conduce l’Italia a distorsioni che Esposito a buon diritto definisce gravissime, “come considerare “fabbisogno standard” la vacanza estiva per i ragazzi delle scuole in cui il servizio sia attuato, come a Bologna, e di giudicare inutile la mensa scolastica là dove il servizio era inesistente, come a Reggio Calabria”.  Nel 2017 entrava infine in funzione quello che Esposito battezza “federalismo fiscale disuguale”, capace di moltiplicare persino gli “zeri”, per molti comuni, dagli asili nido all’istruzione, ai servizi sociali, al trasporto locale. Nel libro, è riportata una tabella che merita qualche attenta considerazione da parte di tutti gli italiani che credano nella Costituzione. Qualche auspicabile riflessione in più, da parte dei meridionali. Essa infatti sancisce che l’attribuzione delle risorse tra Nordest e Sudovest, ad esempio – sia che si ricorra al fabbisogno standard che alla spesa storica – sia in rapporti pari a 80 a 45 e 86 a 32, rispettivamente; tanto, pur con tutta la gravità del divario Nord- Sud che persiste da sempre. Ecco perché è stata davvero importante la recente presa di posizione dell’Unione Europea sulle modalità in cui verranno distribuite le risorse comunitarie che giungeranno nel nostro Paese. Alla luce di queste premesse, risultano più dolorose le parole del presidente di Svimez, Adriano Giannola, secondo cui “Il Sud potrebbe recriminare per l’eccessivo danno subìto a causa delle scelte del Nord: sono stati sottratti 60 miliardi ogni anno da 10 anni”. Sono fioccati tentativi di smentita e il dibattito sui media è aperto. Conoscere le premesse di questo dibattito diventa più facile, leggendo il libro di Marco Esposito.

Ospite di Bruno Vespa nel programma “Porta a Porta”, il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca si è detto pronto ad un stretta nelle misure anti-Covid. Domingo Palma il 29 settembre 2020 su zerottonove.it. Allarme e preoccupazione ma anche rigore e fermezza. Questo è quanto emerge dalle parole del Presidente della Regione Vincenzo De Luca ospite di Bruno Vespa nel programma televisivo “Porta a Porta”. Il neo-riconfermato Governatore si è espresso sulla situazione Covid-19 in Regione. “Sono molto allarmato – ha dichiarato De Luca – credo che dobbiamo aprire gli occhi e dire con chiarezza ai cittadini che siamo già nella seconda ondata dell’epidemia. Ricordo che la Campania è la Regione che ha la più alta densità abitativa d’Italia e il 60% dei positivi oggi sono nelle Asl Napoli 1 e 2 e a Caserta cioè quelle a maggiore congestione abitativa“. “Se vogliamo convivere con il virus per altri 10 mesi, quando avremo disponibilità del vaccino se ci va bene, il controllo del territorio dev’essere rigoroso e capillare. Io rilevo che da 2-3 mesi le Forze dell’Ordine da questo punto di vista sono scomparse, non trovo più una pattuglia dedicata al lavoro di controllo anti Covid. Se pensiamo di convivere con il Covid in queste condizioni per altri 10 mesi dobbiamo dire chiaramente agli italiani che tra un mese dobbiamo chiudere tutto. La Campania viene depredata ogni anno di 300 milioni di euro, perché nel riparto del fondo sanitario nazionale si applica solo un criterio, quello dell’età anagrafica, e siamo la popolazione più giovane. Ma c’è un secondo criterio che andava applicato, che era quello della deprivazione sociale, cioè il livello di reddito, la disoccupazione. Siamo usciti da 10 anni di commissariamento della sanità facendo un miracolo e scontando il fatto che in 10 anni di commissariamento abbiamo perduto 13.500 dipendenti della sanità. Sfido chiunque a gestire un sistema sanitario in queste condizioni“.

Recovery Fund, De Luca: «Se ci danno 300 milioni l’anno va bene». Da supersud.it il 29 settembre 2020. “Sul recovery fund discuteremo con amicizia e troveremo una soluzione, l’importante e’ che ci diano 300 milioni l’anno poi siamo d’accordo su tutto”. Lo ha detto con un sorriso il governatore della Campania Vincenzo De Luca a Porta a Porta dove era ospite insieme al collega veneto Luca Zaia. I due hanno discusso anche della ripresa del dibattito sull’autonomia differenziata: “Mi piace – ha detto De Luca – chiarendo dei presupposti come la difesa senza equivoci dell’unita’ nazionale, il rispetto dell’articolo 119 della Costituzione che prescrive una norma perequativa tra regioni con maggiore base fiscale e regioni che ne hanno meno. E poi l’assunzione piena dell’obbligo costituzionale di riequilbrio tra nord e sud. Noi abbiamo chiesto di avere maggiore autonomia a partire dal superamento della spesa storica, bisogna fare operazione verita’ per sapere quante risorse vanno al sud e quante al nord, perche’ con la spesa storica il sud molto penalizzato a partire dalla sanita’, in cui la Campania nel fondo sanitario riceve meno di tutte le altre Regioni e viene depredata di trecento milioni di euro l’anno”. Sulla sanita’, De Luca ha sottolineato che “abbiamo raddoppiato i livelli essenziali di assistenza facendo un risanamento finanziario, ma scontiamo la perdita di 13.500 dipendenti nel settore. Quindi se ci sono elementi di sprechi e clientela li spazziamo via ma siamo prointi ad affrontare sfida efficienza nei confronti di chiunque”.

Ma come può il Sud fidarsi del Nord dopo tutti i soprusi che ha subito? Pietro Masimo Musetta il 30 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se vai in montagna in cordata ti devi fidare ciecamente di chi sta sopra di te. Se pensi che in un qualunque momento chi sta sopra può tagliarti la corda e farti precipitare allora devi evitare di andare. Purtroppo il Sud si è reso conto in molte occasioni che del Nord non ci si può fidare. Ma non solo della Lega che per molti anni ha fatto del “ dai al terrone” il mantra su cui impostare la propria politica. Ma anche delle uscite dei Sala e dei Gori in sintonia con i Bonaccini con lo slogan facciamo ripartire la locomotiva. In un accordo, nella conferenza delle regioni, che piuttosto che politico è diventato territoriale, con Lombardia e Veneto, per emarginare e contenere le esigenze del Sud. Il tema si ripropone da parecchi anni ed ha riguardato tutti i settori. Dalle banche meridionali, che sono state massacrate, come nel caso del Banco di Napoli, le cui cosiddette sofferenze hanno portato all’azzeramento del valore del Banco di Napoli e quindi all’eliminazione del patrimonio della Fondazione che lo possedeva. Tranne poi scoprire che le sofferenze erano garantite e sono state recuperate quasi integralmente. Ma il tema ha riguardato tutto il sistema bancario meridionale dalla Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele al Banco di Sicilia che invece di essere salvato andava a salvare la Banca di Roma. Anche nell’Università il discorso continua ad essere analogo per cui i criteri stabiliti sono tali per cui gli atenei del Sud stanno sempre più diventando dei super licei, mentre la ricerca e i soldi per farla vanno tutti agli atenei del Nord, per dei parametri tutti da rivedere. Perché tale approccio penalizzante avvenga è necessario qualcuno che operativamente agisca ma anche che vi sia un clima favorevole al quale pensano i media, monopolio del Nord sia nel settore della carta stampata che in quello televisivo. E che rappresentano interessi molto precisi e che danno lo spazio che serve al momento opportuno ai centri di ricerca e studi che fanno uscire dai numeri quello che vogliono. Per cui si dimostra che il Sud ha avuto un mare di soldi che non si capisce dove sono finiti, evidentemente, si sottintende, rubati dai malavitosi meridionali. Considerato che opere pubbliche non se ne vedono, si parli di alta velocità ferroviaria o di autostrade o di cantieri navali o di porti. Se ne è accorta che il gioco è truccato anche l’Unione europea, che non riesce a vedere gli effetti che si aspettava dall’utilizzo dei fondi strutturali. E che ha svelato l’arcano. Non hanno avuto effetti adeguati poiché hanno sostituito in parte le risorse ordinarie per cui era naturale che non avessero effetti perché non sono stati aggiuntivi ma sostitutivi. Le conseguenze di tale scippo si sono già viste politicamente con la nascita del movimento cinque stelle al grido dei meridionali “o mi sviluppi o mi mantieni” . E dopo la delusione lo sbandamento e la ricerca di movimenti autonomisti o separatisti. Ma se ne é accorta anche la destra che adesso comincia a cavalcare il progetto Sud, per cui i più accesi fautori del ponte sullo stretto di Messina diventano Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Forza Italia. Non solo la vera classe dirigente del Paese, come invece è accaduto in Germania, non capisce che senza mettere a regime il Mezzogiorno il nostro Paese non sarà capace di recuperare il divario rispetto alle altre grandi economie europee, ma tenta in tutti i modi di accaparrarsi tutte le risorse, rischiando rivolgimenti sociali che potrebbero portare a sconvolgimenti non prevedibili. Nell’assenza e spesso con la complicità di sindacati e imprese. Per cui diventano nemici da abbattere coloro come la Svimez, che analizzano i dati dimostrando quello che è visibile a chiunque abbia voglia di vedere. Abituati ad un Mezzogiorno non reattivo ci si stupisce della contestazione dell’autonomia differenziata, ma anche alla pretesa incredibile di avere una parte considerevole del recovery plan. Abituati a considerare il Sud colonia perfetta per allocarci gli hot spot per i migranti, per le produzioni inquinanti, che continuano a restare in attività dietro il ricatto o la salute o il lavoro, o per seppellire rifiuti tossici, non riescono a capire le inattese reazioni di una società civile, che superando le rappresentanze elette, sempre molto prone alle dinamiche dei partiti di appartenenza, comincia a far capire alla gente che si è discriminati rispetto alla spesa pubblica. L’approccio che il Nord ha nei confronti del Sud si è visto in modo plastico, quando si è fatto in modo che gli studenti ed i lavoratori emigrati scappassero dal Nord, in modo da alleggerire le terapie intensive, senza pensare che il trasferimento di un numeroso gruppo di meridionali , studenti e lavoratori, nelle località di origine avrebbe trasportato con essi anche il virus, come puntualmente è avvenuto. c. Capisco che è difficile passare dall’abitudine di fare l’asso pigliatutto a condividere le risorse, ma prima il Nord si abitua e meglio è per tutto il Paese. L’alternativa farebbe male a tutti.

ISTRUZIONE, SANITÀ, AMBIENTE E TERRITORIO. MA COME SI FA A PARLARE DI PARITÀ NORD-SUD. Non c’è bisogno neanche dei Lep per fare semplici elaborazioni. Fabrizio Galimberti il 29 settembre su Il Quotidiano del Sud. L’insistenza di questo giornale sulla maladistribuzione delle risorse pubbliche fra Mezzogiorno e resto del Paese ha cominciato a percolare nella coscienza nazionale. La "questione meridionale" non è più solo argomento di ponderosi saggi e pacati (non sempre) dibattiti; si è vestita di cifre, di miliardi, di addizioni e sottrazioni, e così facendo ha toccato il portafoglio, cioè a dire un nervo scoperto. Ecco che la "cifra magica" al centro del dibattito – i circa 60 miliardi di euro all’anno ‘sottratti’ al Sud – cominciano, come era da prevedere, a innescare accese contestazioni. Naturalmente, sia i proponenti della saldezza di quella cifra che i denigratori portano ognuno acqua al proprio mulino, con diverse giustificazioni e definizioni della spesa pubblica da ripartire fra le regioni italiane: aggiungi questo, togli quest’altro, tieni conto del costo della vita, ridefinisci il perimetro e i parametri della spesa… Confermando, insomma, l’antica battuta, secondo cui se si torturano i dati abbastanza a lungo gli si può far confessare qualsiasi cosa…Un recente studio dell’Osservatorio CPI (Conti Pubblici Italiani) ha contestato i famosi "60 miliardi", cominciando col dire che «Innanzitutto, l’analisi è basata sui dati di spese ed entrate di fonte CPT (Conti Pubblici Territoriali a cura dell’Agenzia della Coesione) la cui somma per regioni è molto diversa dai totali nazionali ISTAT, un punto (di notevole gravità) che è già stato messo in evidenza dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio». Salvo poi, nella riga seguente, a dire che la ragione della differenza sta nel fatto che i CPT considerano il Settore Pubblico Allargato (SPA), che include, oltre alle Amministrazioni pubbliche (PA) di cui ai calcoli dell’Istat, anche le aziende pubbliche, dalle grandi alle piccole (municipalizzate). Quindi il fatto che la somma per regioni di fonte CPT è molto diversa dai totali nazionali ISTAT non è un punto di ‘notevole gravità’, ma il semplice risultato di un diverso universo di riferimento. A proposito, chi si voglia prendere in carico un’analisi delle differenze fra i conti PA e i conti CPT, può rivolgersi al sito della Agenzia per la Coesione Territoriale, dove è possibile scaricare l’intera banca dati dei conti e una ponderosa guida metodologica.

Non si può accusare l’Agenzia di mancare di trasparenza…E in effetti, nelle Conclusioni, lo studio dell’Osservatorio CPI conclude – appunto – che la cifra dei 60 miliardi ‘sottratti’ ogni anno dal Nord al Sud «è vera soltanto se si considera l’intera P.A. allargata». Ma…, e qui veniamo alla sostanza delle controdeduzioni: quella cifra non tiene «conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni)». Cominciamo dalle partecipate (cioè le imprese pubbliche). Dai tempi della famosa ‘Programmazione’ di Giorgio Ruffolo, alle imprese pubbliche sono stati assegnati compiti di redistribuzione territoriale degli investimenti e della presenza in loco, nell’ospedale da campo di questi tempi e di questo Paese. Compiti ribaditi anche recentemente da norme e leggi che assegnano alle grandi imprese pubbliche percentuali di spesa per gli investimenti nel Mezzogiorno. Ma l’Osservatorio afferma che «considerare tutta la P.A. allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica». Non si capisce allora perché queste imprese si portino appresso l’aggettivo ‘pubbliche’. Poi, per quanto riguarda le municipalizzate, queste forniscono servizi pubblici, anche se sono fuori dal perimetro della PA, ed è quindi legittimo includerle nei conti SPA. Veniamo alle pensioni. L’inclusione delle pensioni nella spesa per Regioni – si dice – non ha senso dato che lo Stato non può usare le pensioni a scopo redistributivo: queste dipendono dai contributi versati (beh, in parte – come ha argomentato Giuliano Cazzola, una buona parte delle pensioni pagate viene dalla fiscalità generale e non dai contributi versati – col sudore della fronte – da imprese e lavoratori). C’è del vero in questo argomento, ma l’argomento è a doppio taglio. Ci sono più pensioni pagate al Nord perché in passato ci sono stati (e ci sono ancora) maggiori salari e più occupazione al Nord. Ma più occupazione e più salari dipendono dal fatto che lo Stato, malgrado la famosa "coesione territoriale" sia sempre stata presente nei programmi di tutti i Governi, non ha fatto abbastanza per ridurre la piaga del dualismo Nord-Sud. L’inclusione delle pensioni nella ripartizione territoriale della spesa si giustifica come un eco di questo fallimento, un triste testimone della minorità da sempre assegnata allo sviluppo del Mezzogiorno, che soffre da sempre di una inadeguata dotazione infrastrutturale. Per quanto riguarda la spesa per interessi (che è compresa nei conti CPT), la sua inclusione non altera sostanzialmente i calcoli. Uno studio della Banca d’Italia sulla distribuzione territoriale della ricchezza finanziaria (costituita in gran parte dai titoli pubblici) suggerisce che la quota del Mezzogiorno sul totale è all’incirca eguale alla quota degli abitanti sul totale Italia. Veniamo, infine, alla questione del livello dei prezzi. Secondo l’Osservatorio, il fatto di ignorare il più basso costo della vita al Sud «si traduce in ingenti trasferimenti da parte delle amministrazioni pubbliche dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno». Ora, questo più basso costo della vita (che la Banca d’Italia ha quantificato in circa il 10%, tenendo conto dei fitti effettivi) vuol dire che lo stipendio di un dipendente pubblico – che, a parità di mansioni, è ovviamente identico in tutte le zone del Paese – "vale" di più nel Mezzogiorno. Qui si innestano sottili questioni di metodo e di concetto. Ora che abbiamo imparato a distinguere fra Pil e benessere, è legittimo dire che un dato stipendio ‘vale’ di più, se altri elementi del benessere – qualità dei servizi pubblici, sicurezza, mobilità… – scarseggiano? E in ogni caso, il livello dei prezzi di cui si parla è quello del costo della vita. Ma la spesa non è fatta solo di stipendi: è fatta anche di investimenti, di acquisti di beni e servizi (il costo di una macchina per la risonanza magnetica o di una uniforme per un poliziotto è davvero più basso al Sud?). Non abbiamo i dati per una "parità di potere di acquisto" per tutte le sfaccettature della spesa pubblica. Ci sono molte pesanti evidenze della minorità del Mezzogiorno nella distribuzione territoriale della spesa; evidenze che potrebbero essere quantificate se il Governo procedesse davvero al calcolo dei "Livelli essenziali di prestazioni" (Lep) previsti dalla legge 42/2009, e mai messi in opera. Ma non c’è bisogno dei Lep per fare semplici elaborazioni, già più volte presentate su questo giornale, sulla spesa pubblica per abitante in tema di istruzione, sanità, ambiente e territorio…Cifre su cui pensioni o interessi o imprese pubbliche non incidono significativamente, ma che danno la misura di quanto il Sud sia stato penalizzato da molti anni a questa parte.

TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE. Dopo le “Operazioni verità”, il “Manifesto per l’Italia” e l’appello per gli Stati generali dell’economia la battaglia condotta del nostro giornale continua. Claudio Marincola il 13 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. «L’unica battaglia che si è persa in partenza è quella che non si è mai combattuta». A qualcuno sembrerà esagerato scomodare addirittura il comandante Che Guevara per raccontare le campagne di questo giornale. Se diciamo però che aprire l’involucro delle mistificazioni e rovesciare le tante falsità spacciate per verità non è stato facile, credeteci. Per troppo tempo al Sud sono state sottratte risorse, investimenti produttivi, spesa pubblica. Un artificio contabile, un gioco da prestigiatori e, oplà, i conti tornavano. Una foresta pietrificata di pregiudizi, decenni di affabulazioni da smascherare.

OPERAZIONE VERITÀ SCIPPO SMASCHERATO. Sul Mezzogiorno, per anni, la fabbrica all’ingrosso della manipolazione ha prodotto fake. Numeri contraffatti diffusi come granitiche certezze. Presunti vizi antropologici diventati luoghi comuni, caricature geografiche. Siamo partiti dai numeri. Dai 61,5 miliardi l’anno. Con il trapano della Spesa storica lo Stato ha continuato a regalare al Nord, finanziando ogni genere di assistenzialismo. Abbiamo raccontato, cifre alla mano, come la Regione Piemonte spenda per i suoi servizi generale cinque volte più della Campania pur avendo un milione e mezzo di abitanti in meno. Da sola più di quanto sommano insieme Campania, Puglia e Calabria. Da queste colonne s’è sollevata, in britannica solitudine, la campagna fatta propria da questo governo e inserita nella legge di bilancio: l’iniqua distribuzione che ha privato il Sud di risorse destinando quote ben inferiori alla soglia del 34%, la quota di popolazione residente. Scippo raccontato frame dopo frame, come in un film. Titolo: “Operazione verità”. La banca del buco che ha scavato sottotraccia per anni – abbiamo scritto – nelle pieghe del bilancio italiano. Risultato: al Nord 735, 4 miliardi, il 71,7% della spesa pubblica totale totale, al Sud solo 290,9 miliardi. Uno scarto rispetto alla quota dovuta del 6%, pari, appunto, a 61,5 miliardi. Che vuole dire meno mense, meno servizi pubblici, asili zero o quasi, etc., etc.

IL MANIFESTO PER L’ITALIA E LA LETTERA DI CONTE. La lotta per ridurre le disuguaglianze vale al Nord come al Sud. Questo concetto, valido anche in Europa, lo abbiamo chiaro, ed è con questo spirito che nel settembre 2019 è stato sottoscritto il Manifesto per l’Italia (LEGGI), uno stimolo per politici, sindacalisti, ricercatori, studenti per far ripartire il Paese. Senza tuttavia mai perdere di vista la bussola: il Mezzogiorno, area geografica dal perimetro ben delimitato, il luogo in cui si è perpetrato un “delitto all’italiana” gettando le basi culturali ed economiche della mancata crescita nazionale. A rimetterci è stato infatti l’intero Paese, se è vero come è vero che già prima del Covid-19 Nord e Sud d’Italia erano gli unici territori europei a non aver raggiunto i livelli pre-crisi del 2008. Per l’esattezza: il nostro Meridione 10 punti sotto. Il 12 settembre la lettera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Caro direttore, accolgo con favore la dichiarazione di intenti del Manifesto, serve una fase nuova, ho condiviso con von der Leyen i contenuti dell’agenda riformatrice…». La favola di un Sud pigro e sprecone – generata da una classe dirigente inadeguata e corrotta – ha fatto da carburante per alimentare la macchina dello scippo perfetto. Ed ecco in che modo gli aiuti di Stato sono finiti in larga parte alla locomotiva d’Italia, la Lombardia che ora riesce a malapena a trainare se stessa. Dalla metà del 2017 la regione del presidente Fontana – un governatore che a volte sfiora forme di masochismo e si fa male da solo – ha incassato ben 3,5 miliardi di euro contro i 600 milioni della Campania. “Aiutini” di Stato andati anche a Veneto (1,5); Piemonte (1,3); Emilia-Romagna (1,3); Lazio (1,1); Toscana (1,0); Trentino-Alto Adige (1,0).

LE MANI DEL NORD SUI FONDI EUROPEI. Sono i numeri di un’Italia rovesciata. Con il Mezzogiorno che invece di aumentare la spesa degli investimenti pubblici la vedeva ridurre dello 0,5% rispetto all’anno precedente (Fonte Cresme). Il rischio di uno scenario da deriva greca, un Sud dove il reddito pro-capite è la metà o quasi del Nord, un sistema Paese che non tira più, il fantasma della Troika che avanza. Appena due mesi prima che si scoprisse la diffusione del virus a Cologno una nostra inchiesta sui carrozzoni suonava profetica: Il 42 per cento delle risorse sanitarie incassate dalle Regioni del Nord, il 20 per cento dalle regioni del Centro e il 23 per cento da quelle del Sud. Dati della Corte dei conti, diffusi in tempo non sospetti, in cui si diceva tra l’altro che la quota di riparto del fondo sanitario nazionale era cresciuta in Lombardia del 1.07 per cento contro lo 0,75 per cento della Calabria, lo 0,42 per cento della Basilicata e lo 0,45 per cento del Molise. In pieno lockdown c’è stato anche chi, qualche tecnico del Mef, ha pensato di sfruttare la catastrofe del contagio per dare alla Lombardia i finanziamenti dei fondi europei destinati al Sud. La catastrofe della catastrofe. Una “rapina di Stato” in tempo di pace.

RI-FATE PRESTO IL DECRETO ILLIQUIDITÀ. Con il protagonismo dei governatori si è scoperto l’inganno dell’autonomia differenziata. La sanità pubblica svuotata, i presidi territoriali dismessi, i vantaggi concessi al privato. I viaggi della speranza dei cittadini del Mezzogiorno per gonfiare le tasche dei privati. Il modello-Formigoni che stiamo ancora pagando a caro prezzo. In questo clima è partita la campagna “Ri-fate presto”. Un conto alla rovescia contro la burocrazia e contro “l’esproprio” del decreto di lancio. L’assurdo di uno Stato che invece di risarcire il danno arrecato ne approfitta per entrare nel capitale sociale delle aziende con Invitalia e Cdp. L’assenza di una cabina di regia, le responsabilità del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri. Il fallimento del decreto “illiquidità”, l’incapacità di fornire prestiti agli italiani e alle imprese in difficoltà. Il “tappo” delle banche ammesso ancora ieri da Bankitalia, la rabbia degli italiani e di quanti saranno costretti ad abbassare la saracinesca. Il ruolo della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario presieduta dalla deputata Carla Ruocco. Il caso limite degli “appestati”, i tanti italiani finiti per avventura o per disgrazia nella famigerata Centrale rischi della Banca d’Italia, Condannati “a morte” magari solo per una rata scaduta.

L’APPELLO PER GLI STATI GENERALI. Difficile in questi giorni liberarsi dall’impaccio del reale e sognare una ripartenza di slancio. La crisi da Covid ha messo a dura prova le difese immunitarie di un Paese già in sofferenza. La liquidità che arriva con il contagocce, le aziende che chiudono, il terrore di una seconda ondata, le nuove stime negative della Federal Reserve. Da qui l’urgenza di abbattere le burocrazie ministeriali e bancarie e dotarsi di un piano strategico di lungo respiro. È partito da queste considerazioni l’appello lanciato dal Quotidiano del Sud per la convocazione degli Stati generali dell’economia, l’esigenza di gestire in modo ottimale ed efficiente il fiume di denaro che arriverà dall’Unione europea. Un appello raccolto dal premier Conte, osteggiato da falchi, gufi e altri volatili in libera uscita, da gabbia o da voliera. E la battaglia continua.

EQUITÀ: UNA SCELTA ETICO-POLITICA A VANTAGGIO (NON SOLO) DEL MERIDIONE. Raffaele Vescera il 12.06.2020 su Movimento 24 agosto. Di Roberto Cantoni. Il meridionalismo fa più bene o male alle istanze meridionaliste? La domanda può sembrare senza senso, ma la riflessione nasce da una critica spesso formulata da parte di pensatori e pensatrici di sinistra a movimenti come il nostro che, seppur teso all’equità territoriale in tutto il territorio italiano, nasce come geograficamente ancorato a una realtà macroregionale ben precisa. Semplificando all’osso, per i pensatori di sinistra di estrazione marxista, la cosiddetta politica “della singola questione”, cioè quella che si concentra su un tema in particolare – sia questo inerente al genere (movimenti femministi), all’etnia (movimenti antirazzisti), al territorio (movimenti regionalisti), all’ecologia  (movimenti ambientalisti), alla sessualità (movimenti anti-omofobia) – fa perdere di vista la lotta principale, che è quella di classe, che vede opposti gli interessi del capitale a quelli dei lavoratori, di qualunque etnia, provenienza e genere siano. Le altre lotte possono essere sussunte in quella di classe. Quella della politica della singola questione è una miopia, continuano i critici, che non fa che indebolire la classe degli sfruttati, dividendoli in sottoclassi antagoniste che potrebbero invece associarsi per combattere gli interessi del capitale. E mentre la sinistra si frammenta sulle singole questioni, scindendosi fino all’inverosimile (celebre la satira di Guzzanti-Bertinotti sulla ‘viralità’ della nuova sinistra), la destra, che per sua natura è meno pluralista e più monolitica, se non si consolida, almeno non si frammenta, e di conseguenza risulta percettivamente più coesa, più convincente, e, in breve, vince le elezioni in mezzo mondo. Che poi è la tendenza generale degli ultimi anni. È la tesi, per esempio, del geografo marxista statunitense David Harvey. La domanda che Harvey ci potrebbe porre è quindi: e se calcando la mano sul meridionalismo ci perdessimo dei possibili alleati politici? Alleati che potremmo trovare, per esempio, in movimenti e partiti cui sta a cuore, come a noi, la questione dell’equità territoriale, ma che non ne fanno il principale cavallo di battaglia della loro linea politica? Non è, insomma, che concentrarsi sugli sfruttati del Meridione ci tagli fuori dalla possibilità di ricevere il sostegno degli sfruttati di altri territori? Non è una tesi nuova. Gramsci sosteneva, per esempio, che fosse possibile un’alleanza tra contadini nel Sud e operai del Nord, in nome di una società socialista. Ma erano gli anni Venti del secolo scorso. Cent’anni dopo, possiamo dire che quest’alleanza non si è verificata: in parte è stata una conseguenza della strategia di quella che Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani negli anni ’70 chiamarono ‘razza padrona’: mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri. In parte, è stato perché le premesse su cui si basava l’idea gramsciana in questo caso erano deboli. Troppo lontani gli interessi immediati di contadini e operai, troppo diverse le loro mentalità (anche se va riconosciuto che il figlio del contadino meridionale emigrava diventando operaio al Nord, quindi i confini tra i due gruppi non sono così netti come si potrebbe credere). Contadini meridionali troppo conservatori, quindi. Ironico, sei si pensa che il brigantaggio, stroncato dall’esercito piemontese, nacque proprio come lotta di classe. Ma quelle velleità di lotta erano state appunto annullate nel post-Conquista, o erano confluite in altre istanze rivendicative, non di classe ma di potere, ben radicate localmente. L’occasione persa di una possibile alleanza contadini-operai, e la presa d’atto del conservatorismo politico della classe agricola meridionale, portarono gradualmente la sinistra meridionale a distaccarsi dai suoi sfruttati, e ad assumere la narrativa operaista settentrionale come dominante. La rivoluzione si sarebbe fatta a partire dalle fabbriche, non dalle campagne. Questa narrativa si è poi espansa nei decenni, includendo pian piano istanze anticolonialiste, antisessiste e, a volte, anche antispeciste (o ecosistemiche). Ma, con buona pace di Gramsci, Salvemini e compagnia, quello della subalternità politica del Sud è rimasto un tabù, a sinistra, e lo è tuttora. In alcuni ambienti della sinistra massimalista meridionale riesce più accettabile battersi per le lotte basche, palestinesi e curde, che per la fine della subalternità del Sud al Centro-Nord o, per citare Nicola Zitara, del colonialismo interno italiano. Ma torniamo al punto: si perde o si guadagna, in termini strategici, puntando su una politica che abbia come cardine il Meridione? Dipende da come si struttura il discorso politico. Finita l’epoca dell’utopia gramsciana, occorre ricordare due punti: il primo sono i tantissimi meridionali che vivono al Centro-Nord; il secondo è che l’iniquità territoriale c’è anche in quelle zone. Se il Sud è la periferia d’Italia, laddove il Nord ne è il centro, il Nord rurale è la periferia del Nord centrale. Di conseguenza, le nostre rivendicazioni devono essere inclusive, e avere un obiettivo di ampia portata, il più universale possibile. È una scelta etico-politica, che il nostro movimento ha compiuto puntando sull’equità territoriale come obiettivo primario, e coniugando così gli interessi del Sud, territorio che subisce una forte iniquità territoriale, con quelli di altre zone del territorio italiano. “Ovunque qualcuno sia discriminato, lì c'è lavoro per M24A-ET. Non è una questione geografica, ma pratica (e morale)”, riporta la pagina di presentazione del Movimento. Il posizionamento è chiaro. La questione non è più, quindi, soltanto quella del Meridione, ma si tratta di una rivendicazione più ampia, potenzialmente in grado di coinvolgere anche realtà non meridionali. Una rivendicazione che però non può e non deve prescindere dalla storia politica del territorio italiano. 

RAZZISMO CONTRO IL SUD E DIRITTI NEGATI. Raffaele Vescera il 06.06.2020 di Roberto Oliveri del Castillo, su Movimento 24 agosto. Il senso del 2 giugno, tra razzismo strisciante e diritti negati. Le celebrazioni della Festa della Repubblica cadono quest’anno in un momento molto delicato. Fuori dalla retorica, esse coincidono con il termine della mobilità tra regioni bloccata dal marzo scorso per l’emergenza Covid19, e nel pieno delle polemiche innescate dalle dichiarazioni del sindaco di Milano Sala, ed altri politici del Nord,  in risposta alle richieste provenienti da alcuni presidenti di regione del Sud, che chiedevano controlli e attestazioni di negatività al  Covid19 per consentire gli ingressi ai turisti provenienti da nord. A questa richiesta, che appare di puro buon senso, il sindaco Sala ha risposto con un minaccioso “Ce ne ricorderemo”  (“Patente di immunità chiesta ai milanesi? Ce ne ricorderemo”, Corriere della Sera, 27 maggio 2020). In tema di ricordi, anche noi ne abbiamo qualcuno. Ad esempio ci ricordiamo ancora come furono trattate Napoli e Bari all’epoca del colera, per una epidemia che fece a Napoli 24 morti e poco più di 200 ricoverati nel 1973. Ebbene, si scatenò una vera e propria psicosi, incrementata e fomentata dagli articoli dei maggiori quotidiani  dell’epoca. L’assessore regionale alla Sanità della Lombardia, diramò una nota in cui raccomandava a chiunque provenisse da “zone infette” di presentarsi agli uffici sanitari comunali per controlli; a Sanremo, una famiglia di napoletani fu rifiutata dall’albergatore perché gli ospiti presenti (pare tedeschi, milanesi e torinesi) non erano disposti a condividere l’albergo con i malcapitati napoletani; l’incontro di calcio Genoa-Napoli di Coppa Italia fu vietato per evitare l’arrivo in Liguria di tifosi napoletani al seguito della squadra, “per evitare pericoli di diffusione del colera”; la Lega Calcio dispose l’inversione del campo, ma di giocare a Napoli si rifiutarono i giocatori del Genoa, per gli stessi pericoli di infezione; per gli stessi motivi i giocatori del Verona si rifiutarono di scendere  a giocare a Bari, dove si registrava un altro piccolo focolaio infettivo. “Rifiuti giusti”, dirà il Corriere della Sera del 16 settembre 1973. Nonostante  i numeri veramente esigui dell’epidemia di colera, subito isolata e sconfitta grazie al lavoro di quella che già all’epoca era una eccellenza nazionale come l’Ospedale Monaldi, il blocco subito da Napoli si protrasse per diversi mesi. Non si registrarono, tuttavia, commenti indignati, strali contro il razzismo più o meno strisciante, invocazioni contro sentimenti antinapoletani o altro. Invece in questi mesi abbiamo perso il conto di quanto giornalismo-straccio abbia scaricato sul Sud ogni genere di invettiva, quasi come se il Covid19 al Nord l’avesse portato qualche napoletano o qualche calabrese. Come non ricordare ad esempio la domanda posta da Barbara Palombelli (Stasera Italia del 20 marzo 2020): “Il 90% dei morti è nelle regioni del nord. Cosa può esserci di diverso? persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?”. Quindi a noi ci avrebbero salvato disoccupazione e nullafacenza. O ancora, sempre in risposta alle perplessità avanzate dal presidente della regione Campania De Luca ed alla prospettiva di chiudere la Campania agli arrivi da nord in caso di contagio ancora in atto,  alla trasmissione di Rete4 “Fuori dal coro”, Vittorio Feltri rivolto a Mario Giordano, che gli chiedeva se pensava di andare in Campania, “Perché mai dovremmo andare in Campania? A fare cosa?  I posteggiatori abusivi?” per poi aggiungere: “I meridionali sono inferiori”. Innumerevoli poi i servizi giornalistici finalizzati a scoprire violazioni delle indicazioni antiassembramento a Napoli, con la giornalista RAI Serena Bortone (Agorà 15 aprile 2020) che chiede all’inviata milanese (ma a proposito, la RAI non ha una sede a Napoli? perché inviare una giornalista milanese? a spese di chi? misteri…) “tu che hai uno sguardo nordico sul nostro amato sud, puoi dirci se Napoli è vuota o no?”. L’inviata risponde “siamo qui da mezz’ora e fin’ora cera  un passaggio di auto abbastanza forte nonostante sia una zona pedonale”. Ebbene, la scaltra giornalista era al limite tra una zona carrabile e la zona pedonale del Vomero (via Scarlatti), e comunque le immagini ritraevano durante tutto il servizio giusto un paio di vetture. Ma il massimo lo raggiunge dopo pochi secondi, quando è costretta a dire “Niente, non siamo fortunati, in questo momento non c’è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio di auto intenso”. Certo, ci crediamo. Ma il pregiudizio antinapoletano può colpire involontariamente chiunque, anche una giornalista napoletana come Myrta Merlino, che  a “L’aria che tira” su La7, dirà sull’ospedale Cotugno, “Per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli. La storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”, costringendola poi alle scuse per le successive polemiche. Il servizio parlava del fatto che per tutto il periodo dell’epidemia nell’ospedale napoletano attrezzato per il Covid19, non si era registrato alcun contagio tra il personale medico e paramedico, come rimarcato da testate straniere (SkyNews UK). Qualche riflessione su questo tipo di giornalismo scandalistico e discriminatorio, e sull’atteggiamento di certa politica, ai limiti del razzismo,  va pur fatta. E la riflessione va fatta partire, a mio avviso da lontano, dai primi anni ’90 del secolo scorso, grosso modo con l’esplosione del  “leghismo”, quando nel dibattito politico fanno irruzione concetti di critica smodata a presunte  politiche assistenzialiste alle regioni del Sud, con le risorse del ricco Nord produttivo, invalse soprattutto dagli anni ’50 del secolo scorso fino agli anni ‘90. Su tali argomenti il “leghismo” ha costruito le sue fortune politiche sin dalla nascita, al grido di “Roma ladrona”, “Sud parassita”, “indipendenza del Nord” e così via, quasi che tutti i mali dell’Italia che produce fossero sintetizzati nella parola “Sud”, e che l’unica soluzione fosse staccarsene, o meglio minacciare il distacco per ottenere vantaggi di tipo politico ed economico. Ma in fondo, i fatti sono realmente come vengono esposti da questa facile vulgata di provincia? Esiste sul serio questo Sud improduttivo che consuma le risorse del Nord? O invece, scavando un po' nel passato e nel presente, troviamo che è vero il contrario, ovvero che storicamente il Nord ha ampiamente saccheggiato  le risorse del Sud, le sue energie migliori, ed ha continuato per decenni a destinare percentuali minime di bilancio alle infrastrutture del Sud a vantaggio del Nord, più omogeneo alla nuova classe dirigente sabauda? Ed a tutt’oggi,  continua o meno, con la complicità delle organizzazioni criminali e di una classe politica meridionale collusa e corrotta, ad utilizzare il nostro Meridione come una colonia d’oltremare, una terra da riempire di spazzatura spesso pericolosa come una enorme discarica, per traffici illegali, o con industrie obsolete ed inquinanti come l’ex Ilva, lasciandoci in una costante situazione di sudditanza? E infine, quello che sta accadendo intorno al calcio, con cori razzisti e discriminatori in molti stadi del centronord sempre contro Napoli e i napoletani, visti come simbolo di “Sud”, di “diversità”, di “minorità socioculturale”, con agguati organizzati da centinaia di teppisti contro una carovana di tifosi napoletani con famiglie al seguito, è ancora qualificabile come follie di pochi facinorosi, oppure è ormai reale sintomo di una società malata di razzismo e di odio discriminatorio nei confronti del “diverso”, di colui che appartiene ad altra collocazione geografica, il meridionale per antonomasia? Le cronache di questi mesi sono l’ennesima riprova che probabilmente la malattia non può essere confinata al mondo del calcio, ed ha invece contaminato ed eroso le radici stesse della nostra convivenza civile, come dimostrano le polemiche dei mesi dell’emergenza Covid19. Proviamo allora a riflettere su quanto questo razzismo strisciante, carsico,  che esplode e viene in emersione ciclicamente in occasione di incontri di calcio (dove le tifoserie avversarie si coalizzano addirittura insultandone una terza estranea,  o organizzando addirittura agguati armati nei confronti di famiglie inermi che si recano allo stadio) come in occasione di emergenze nazionali, quanto sia profondo, e quanto radicato nella nostra società, poiché quanto più queste radici affondano nella storia, tanto più sarà difficile estirparlo e bruciarlo come si conviene ad una gramigna che soffoca la pianta buona. Volendo affrontare la questione con qualche base attendibile dal punto di vista storico, si dovrà quindi mettere necessariamente in discussione qualche certezza storica, in realtà priva di fondamento, e rimettere al contempo in discussione quanto la vulgata risorgimentale ha  sapientemente instillato in 150 anni di celebrazioni di una unità nazionale densa di retorica ma a ben vedere priva di fondamento. Una unità nazionale che,a fare attenzione, appare essere stata imposta dalla dinastia sabauda – contro la volontà dello stesso Cavour - per propri scopi di potere e arricchimento personale, con il ricorso alla forza, a due popoli quello del nord e quello del sud,  che non avevano alcuna intenzione di essere uniti, e con il ricorso ad un vero e proprio genocidio della popolazione meridionale gestito dalle sfere militari piemontesi, col beneplacito del Re Vittorio Emanuele II e  del Conte di Cavour, dal famigerato gen. Enrico Cialdini e i suoi sottoposti. Ma ciò che non molti sanno, soprattutto perchè in questi 150 anni sapientemente censurato ed espunto dai  libri di storia ed emerso solo in saggi storici di autori non di regime, sono i giudizi e le affermazioni di stampo razzista, spesso provenienti da riconosciuti “padri della Patria”, che costituiscono l’antecedente culturale diretto delle attuali vergognose cronache a margine di molte partite di calcio. Il primo ad esprimersi in termini inequivocabilmente razzisti sull’unione tra nord Italia e stati del Sud fu Massimo D’Azeglio, che in un lettera privata scrisse: “La fusione con i Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso” (cit. da Giordano Bruno Guerri, Il sangue del sud – antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio, Mondadori). Ma D’Azeglio è solo uno degli esempi di eroi del Risorgimento che in privato dimostrava di detestare i meridionali e in un certo senso svela quali logiche e quali inconfessabili motivi hanno portato i piemontesi all’annessione del Regno di Napoli. Cavour e Farini, suo ministro degli interni nel 1860, avevano fitte corrispondenze dove il secondo scriveva al primo: “Che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro (che all’epoca comprendeva le province di Caserta e Frosinone, ndr.). Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a confronto di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. Anche nei resoconti giornalistici il Sud viene considerato una terra da annettere e civilizzare piuttosto che una regione che entrava alla pari in un nuovo stato, sicuramente più simile ad una colonia d’oltremare che ad un territorio di pari dignità. E l’emblema di questa presunta arretratezza ed inciviltà risiedeva nella vecchia capitale, vista come una terra caratterizzata da “incapacità, corruzione, inerzia, abitata da un popolo ignorante, ozioso, instabile” come scrive un parlamentare impegnato, come Costantino Nigra, nella campagna contro il brigantaggio, e addirittura un parlamentare di sinistra come Aurelio Saffi, deputato di un collegio lucano, definì il Sud “un lascito della barbarie alla civiltà del XIX secolo”. Il famoso luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, scriverà al Generale: “ (il Sud) è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandare in Africa a farsi civile”. Il presidente del Consiglio unitario dopo Cavour, Bettino Ricasoli, definì Napoli, fino a pochi mesi prima una delle prime e più brillanti capitali d’Europa, “una cloaca massima dove tutti gli uomini più  onesti sono destinati a perire”. E i pochi meridionali che facevano parte dei primi governi unitari non furono da meno quanto a pregiudizio antiborbonico e antimeridionale, essendo ormai di cultura piemontese e schierati con lo stato sabaudo dal quale traevano vantaggi politici e benefici economici come l’economista napoletano Scialoja e l’abbruzzese Spaventa, ed avendo ormai da anni reciso i legami con le terre d’origine. La realtà è che la spedizione dei Mille e tutto il clima politico e sociale precedente lo sbarco di Marsala, aveva creato l’attesa di una svolta epocale e un alba di nuovi diritti, soprattutto nelle classi meno abbienti;  i contadini, da sempre sfruttati dal regime baronale, credevano che con Garibaldi finalmente si sarebbe affrontato il tema della distribuzione delle terre, da sempre respinto dai grandi latifondisti. E tuttavia, nei momenti critici come in caso di carestie, la ricchezza del regno borbonico e la sua vocazione paternalistica consentiva interventi a sostegno delle popolazioni con distribuzioni di farina e pane, cosa che invece non si verificò più con i nuovi regnanti. Inoltre, le promesse di terre fatte da Garibaldi furono subito smentite dai Savoia, che cercarono il consenso dei vecchi ceti nobiliari e della nuova borghesia imprenditoriale sempre a scapito dei contadini. Ciò determinò l’emarginazione del vecchio Generale che di fatto si ritirò a Caprera dopo l’incontro diTeano proprio per il naufragare degli ideali unitari e nel vedere la guerra al brigantaggio condotta con criteri cruenti e colonialistici.  Su quella che si avviava a diventare una vera e propria guerra civile il vecchio Generale ravvisava “una questione sociale, che non si poteva risolvere col ferro e col fuoco, di cui erano responsabili il Governo e la borghesia, e che in gran parte dovuta allo scioglimento dell’esercito borbonico senza che lo stesso fosse assorbito nel nuovo esercito nazionale”(cfr. E.Perino, Vita di G. Garibaldi, 1882, p.796). Già nel 1861, quando i focolai di rivolta erano diffusi in tutto il territorio dell’ex Regno di Napoli, Cavour nominò luogotenente generale per le zone annesse il principe Eugenio di Carignano, al quale veniva affidato il compito di normalizzare la situazione dell’ordine pubblico nelle zone del Sud, con una lettera dal tenore inequivoco: “Il Paese e il Parlamento reclamano a gran voce che si adotti un sistema di rigore e di fermezza che si imponga alla razza volubile e corrotta del Regno di Napoli”. Non c’è da meravigliarsi, se queste erano le disposizione governative, se la guerra al brigantaggio assunse accenti da vera e propria crociata quando morto Cavour, e salito al potere Ricasoli, di idee ancora più estreme, il compito di sovrintendere all’ordine pubblico fu dato al famigerato generale Enrico Cialdini. A costui non solo si deve la distruzione,con l’uccisione deliberata di gran parte dei suoi abitanti, compresi donne vecchi e bambini, dei due paesi simbolo di quella che a tutti gli effetti può essere chiamata “la guerra civile risorgimentale”, ovvero Pontelandolfo e Casalduni, ma si devono anche le cifre delle sue attività solo nelle province napoletane: circa 9.000 fucilazioni, oltre 7.000 prigionieri, 6 paesi distrutti, oltre 13.000 prigionieri deportati, 1.400 paesi posti in stato d’assedio. Non sono numeri da lotta alla criminalità, ma numeri da guerra civile nei confronti di popolazioni colonizzate malvolentieri e tutt’altro che aderenti con liberi plebisciti (per lo più taroccati) ad un nuovo stato unitario su basi paritarie. Tra il luglio e l’agosto 1861 Abruzzo, Molise, Sannio, Ciociaria, rappresentano i luoghi più sconvolti da insorgenza, ribellioni, massacri di massa. Solo a Napoli, e solo nel mese di Luglio 1861, il gen. Cialdini aveva fatto fucilare quasi 600 oppositori, oltre a centinaia di incarcerazioni sommarie. Tra questi i briganti veri e propri erano una minima parte, per il resto vi erano soggetti che per la storiografia ufficiale viene ascritta al brigantaggio, mentre per la versione borbonica erano semplici oppositori del regime sabaudo e pubblici critici della monarchia piemontese.  Tra gli arrestati figura addirittura il Cardinale Sisto Riario Sforza e il suo vicario, lasciati in carcere qualche giorno e poi portati in nave a Genova. La ribellione armata in quei giorni montava, Castellammare era tornata sotto il controllo borbonico, e la stessa Napoli era in procinto di essere assediata da truppe legittimiste borboniche. Cialdini chiese aiuto (di nuovo, dopo quanto era avvenuto durante lo sbarco di Marsala, evidentemente secondo precisi accordi presi da Cavour) al commodoro inglese che era di stanza in zona, e ben 400 soldati inglesi sbarcati dalla nave da guerra Exmouth (a proposito, ma che ci facevano nel porto di Napoli?) aiutarono i piemontesi a respingere gli assalti. Poco dopo altre sette navi britanniche giunsero con compiti di supporto e se necessario, di intervento armato, ovvero bombardare gli insorti. In quei giorni Pontelandolfo era tornata sotto controllo borbonico con l’intero paese che aveva festeggiato il ritorno delle insegne di Francesco II. Cialdini fece muovere le truppe del generale de Sonnaz da Campobasso, tra queste un drappello di una quarantina di soldati agli ordini del tenente Cesare Augusto Bracci che  doveva restare nei dintorni di Pontelandolfo, in attesa dei rinforzi, senza addentrarsi nell’abitato, affatto sicuro. Invece l’incauto Bracci entrò nel paese e fu circondato da una folla di contadini armati. Decise così di fare rotta verso Casalduni, ma la strada era controllata da reparti dell’esercito borbonico sbandati, agli ordini del sergente Angelo Pica, detto “Picuozzo”, lo scontro fu inevitabile e i piemontesi (l’esercito si sarebbe potuto chiamare italiano solo se fossero stati implementati i reparti borbonici, ma non essendovi soldati napoletani, l’esercito continuava in sostanza ad essere quello piemontese) ebbero la peggio, alcuni soldati savoiardi morirono, e gli altri furono disarmati efatti prigionieri.  Condotti a Casalduni, il sergente Pica voleva liberarli dopo averli interrogati, trovandoli non colpevoli delle precedenti razzie nella zona, ma la folla ne decretò la fucilazione come rappresaglia per le violenze commesse dai soldati piemontesi in quei mesi nella zona, quando le soldataglie razziavano, uccidevano, violentavano civili inermi nel tentativo di avere notizie e informazioni sulle bande di briganti della zona, che tali erano le modalità della raccolta di informazioni in questa vera e propria guerra civile. La rappresaglia decisa da Cialdini fu quella che si percepisce tra le pagine non dei manuali di storia, che non ne parlano, ma nelle pagine di saggistica specifica, di siti internet alternativi (tutti citati da G.B.GUERRI, Il sangue del Sud, cit.)  e non censurate dalla retorica di Stato. I due paesi furono distrutti ed incendiati di li il 14 agosto 1861 con tutti i loro abitanti (Pontelandolfo ne contava 5.000, Casalduni 3000: oggi sono ridotti a meno della metà). Le cronache ufficiali parlano di circa 160 morti. Quelle ufficiose di almeno 900 morti ed un numero imprecisato di dispersi, tanto che il deputato milanese Giuseppe Ferrari in Parlamento si espresse così rivolto a Cavour, dopo aver fatto un viaggio nei due paesi distrutti, rievocando l’orrore visto direttamente a Casalduni: “A destra e a sinistra le mura erano vuote e annerite, dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati…edifici puntellati  minacciavano di cadere a ogni istante…”, e a poche anime che ancora vagavano come fantasmi si vedeva in faccia l’orrore vissuto delle razzie dei piemontesi che depredavano le case prima di incendiare e uccidere al grido di “Piastre! Piastre!” mentre cercavano gioielli e preziosi, addirittura strappandoli di dosso alle donne prima di violentare ed uccidere. “Di fronte ad un uditorio dal quale provenivano anche risate e sghignazzi, Ferrari concluse: “Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so come esprimermi” (cfr. “ Il sangue del sud”, G.B. Guerri, cit. , pag. 150, 151). A fronte di dati difficilmente discutibili date le stesse cronache di soldati piemontesi (basta leggere i resoconti dell’eccidio redatti da Carlo Mangolfo, un bersagliere di Sondrio citato da Giordano Bruno GUERRI nel suo ultimo saggio citato sopra) ci sono ancora ricostruzioni  di storici filo- piemontesi tese a minimizzare i fatti e gli eventi di quell’agosto di sangue del 1861, per lo più  prive di fondamento storiografico o basate su letture di parte, oltre che infarcite di luoghi comuni giustificazionisti con la “lotta al brigantaggio”, in cui “bisogna tenere conto del contesto” e “dell’uccisione di 41 soldati del Regio Esercito” (cfr. “Il doppio massacro di Pontelandolfo”, Sergio Boschiero, in Storia in rete del 12.6.2018, pag. 62 e ss., o ancora “Borbonia felix…o infelix?”, altro articolo folcloristico e irridente, Pierluigi Romeo di Colloredo, ivi, pag. 18 e ss.). In questa pseudo saggistica filo-piemontese , dove si giustifica tutto, si mette  quasi in burla il Regno delle Due Sicilie, si legittima l’operato di Cialdini e Negri (il comandante sul campo che si occupò della rappresaglia verso i due paesi),  dove si afferma che “le violenze c’erano da entrambe le parti”, e che c’era la legalità da una parte e i terribili briganti dall’altra,  (con ciò da una parte negando la realtà di una vera e propria guerra civile che infiammò il decennio tra il 1860 e e il 1870, e dall’altra legittimando il concetto di rappresaglia nei confronti di inermi popolazioni civili, che costituisce a tutti gli effetti  un crimine contro l’umanità come hanno dimostrato i processi instaurati solo 80 anni dopo contro i nazisti (Fosse Ardeatine, Marzabotto, etc.), stranamente si tace un aspetto. Ma alla fin fine, perché? Perché queste trame diplomatiche, questi accordi internazionali tra Regno sabaudo, Francia, Inghilterra, questa ansia di procedere alla unificazione delle terre  italiane, questi movimenti di truppe senza bandiera e senza uniforme, quando le popolazioni che si volevano unificare erano così arretrate, barbare, povere, incolte, e piene di difetti, tali da essere più africane che italiane? Per gli ideali di unità, di Patria, di italianità? o non c’erano dietro ben definiti interessi economici che condividevano I Savoia con Francia e Inghilterra, magari paludati e occultati da grandi ideali patriottici? Ci sarebbe materia per un'altra ben più lunga riflessione, che non è il caso di infliggere al paziente lettore di queste note. Sta di fatto che spesso i più biechi interessi economici vengono veicolati nella popolazione con ben più allettanti principi e ideali, basti pensare alla dottrina Wilson e all’autodeterminazione dei popoli, che se da una parte si poneva come argine al totalitarismo, dall’altra consentiva la rivendicazione di autonomie anche violente per il crogiulo di popoli costituito dall’Europa soprattutto nell’Est, o in tempi più recenti ai processi di integrazione europea basata solo su criteri di matrice economica. Ebbene, forse la risposta sta, come sempre, nelle analisi economiche piuttosto che negli ideali dei patrioti. Citando uno studio di Francesco Saverio Nitti, non certo uno studioso “neoborbonico” contemporaneo, G.B. GUERRI riporta dati economici inequivocabili. Nel 1860 la riserva aurea del Regno di Sardegna ammontava a 27 milioni di lire, il Granducato di Toscana aveva da parte 85, 2 milioni di lire, Romagna Marche ed Umbria 55,2, mentre le riserve auree del regno delle Due Sicilie ammontavano alla astronomica cifra di 445, 2 milioni.  Ecco spiegato, forse, il motivo di tanto fervente ardore ideale nel Re sabaudo, e perché invece uomini politici più avveduti come lo stesso Cavour, a fronte delle differenze sociali e culturali, auspicavano invece soluzioni federaliste, purtroppo non considerate né da Vittorio Emanuele II per ingordigia, né da Francesco II per incapacità e miopia politica, non volendosi inimicare il Papa. L’annessione si rivelò, quindi, un grande affare per il Piemonte, e mentre da una parte il Sud era letteralmente depredato delle sue ricchezze, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche all’avanguardia tecnologica,  dall’altra parte lo stesso Sud era ridotto a colonia di smistamento dei prodotti industriali del nord Italia, ed in più, oltre ai danni, la beffa delle cronache folkloristiche sulla presunta inferiorità civile e morale dei meridionali, quasi a giustificare il sacco che stava avvenendo. Se oltre a questo aggiungiamo che la spesa per le terre nell’ex regno di Napoli raggiungeva percentuali minime di bilancio rispetto a quanto era speso al Nord, con la complicità di una classe dirigente meridionale parassitaria, collusa e cialtrona, ben descritta da Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”,  il quadro di insieme di quella che già allora era definita “la questione meridionale” appare completo. Ce n’è abbastanza per cominciare a rivendicare, magari proprio per il 14 agosto, la data per il ricordo delle vittime del genocidio della gente meridionale che si opponeva all’invasore piemontese e che tradì tutti gli ideali di svolta sociale e di rivendicazioni libertarie che venivano evocate in quel periodo, procedendo ad una annessione colonialistica basata sul saccheggio e sul sangue dei vinti. E sarebbe l’ora che le sonnacchiose e inerti classi politiche meridionali trovassero un minimo di coraggio ed orgoglio identitario per far finalmente riscrivere una pagina di storia negletta e soffocata da una retorica di regime ormai insopportabile e appestata dal tanfo mefitico della menzogna. Con ciò non si vuol certo difendere un regime reazionario, autoritario e sanguinoso come quello borbonico sotto il Re Ferdinando II, o dire che tutto era perfetto  nel Regno delle Due Sicilie come fosse una Città del Sole, (come vuol fare apparire in modo poco storico e molto folkloristico  l’articolo “Borbonia felix o …infelix?” lo storico  Pierluigi Romeo di Colloredo sulle tesi neoborboniche, in Storia in rete, cit., pag. 18 e ss.). Si vuol solo dire che gli ideali di libertà, riforme economiche, diritti civili, utilizzati nella propaganda filo-sabauda e che tanti convinse a sposare la causa “unionista” si è rivelato un autentico specchietto per le allodole, e la dimostrazione di ciò si ebbe con la saldatura tra la classe dirigente piemontese e le classi abbienti soprattutto siciliane, a danno dei ceti contadini e produttivi del Sud, e ancora di più, sotto il profilo militare, con la battaglia d’Aspromonte tra piemontesi e garibaldini, dove Garibaldi fu bloccato nel proposito di spingersi fino a Roma, e arrestato per impedirgli altri colpi di mano. “Loro hanno creduto”, si potrebbe dire parafrasando il famoso romanzo di Anna Banti, a proposito dei patrioti meridionali che tra il 1848 e il 1860 pensavano di instaurare un regime di riforme e di libertà al Sud grazie ai Savoia, mentre invece consentirono ad un regime autoritario di sostituirsi ad un altro, come si vede anche nel bel film di Mario Martone. Quindi non tanto deprecare un’unità che, come si è visto, in realtà si voleva solo per interessi economici,  ma deprecare e stigmatizzare il modo attraverso il quale si è giunti a tale unità, a colpi di cannone e di stragi piuttosto che di riforme sociali e diritti civili,  che consentissero di rendere omogenei due territori e due popoli tanto diversi per storia, cultura, costumi, lingua. Partendo da tale consapevolezza, non è escluso che possa ripartire con maggiore serietà anche una più incisiva battaglia per debellare il razzismo negli stadi italiani, esemplificato dai cori discriminatori e razzisti, sospendendo le partite e chiudendo settori di stadi allorquando queste vergogne avvengano. Gli anni tra le due guerre mondiali e dal secondo dopoguerra ad oggi, con spese in bilancio caratterizzate sempre da fondi destinati in gran parte al centro nord, ed al sud erogati con criteri emergenziali e di stampo assistenzialistico, che hanno finito per ingrassare criminalità organizzata e ceto amministrativo parassitario meridionale, costruendo generazioni di politici di respiro strettamente localistico, è fenomeno tutt’ora particolarmente evidente con l’assenza di interventi strutturali seri e credibili per la vita delle comunità locali (le vicende kafkiane del Palagiustizia di Bari, atteso da 20 anni, o dell’ILVA di Taranto, per restare in Puglia, sono emblematiche del  gattopardismo nostrano  e  connotano da decenni la vita pubblica meridionale). In tutto questo, non c’è risvolto della vita quotidiana nel quale questo odioso cripto-razzismo non faccia a volte biecamente capolino, come in occasione della vicenda della annunciata nascita di un distaccamento della Scuola Superiore Normale di Pisa a Napoli, d’intesa con l’Università Federico II. Il progetto, dopo aver avuto tutti gli assensi dei due Atenei coinvolti e del competente Ministero, è stata fatta naufragare dal sindaco leghista di Pisa, insorto all’idea che Pisa e Napoli potessero unirsi in un progetto formativo di alta qualità. Le dichiarazioni rese alla stampa sanno tanto della frase di Massimo D’Azeglio sui napoletani, e costituiscono una brutta pagina per l’autonomia dell’Università: “Non ci sarà nessuna Normale al Sud. La scuola d’eccellenza è e resta pisana e rimane nella nostra città. Abbiamo fatto una battaglia per Pisa e la dimostrazione che quando le amministrazioni locali insieme ai deputati eletti lavorano per il territorio i risultati arrivano”. Il sindaco leghista di Pisa, Conti, può andare fiero di sé. Pisa è salva, anche se non si sa da cosa. Forse questo oscuro funzionario di partito non sa, tutto chiuso nell’angusto spazio di piazza dei Miracoli, che l’Università di Napoli, primo Ateneo laico d’Italia, vanta ben più blasonate join-venture, come quella con la californiana Apple, che da quest’anno ha aperto con il Politecnico partenopeo la Apple Developer Academy per 400 sviluppatori, e forse nemmeno sa che la Scuola Superiore Normale a Napoli si farà lo stesso, anche senza il connubio con il rinomato Istituto pisano. Si chiamerà Scuola Superiore Normale Meridionale e siamo certi che darà nuova linfa alle energie intellettuali del nostro Sud in un’ottica nazionale ed internazionale, e potrebbe costituire l’occasione, anche grazie alle vicende politiche contingenti  (che hanno portato l’ex rettore della Federico II Gaetano Manfredi a diventare ministro per la ricerca scientifica e l’università) a rimettere al centro del dibattito gli Atenei meridionali, troppo spesso bistrattati ed ignorati dai media anche nei tratti di eccellenza che pure ci sono. Una rivalutazione che passa anche per maggiori flussi di finanziamenti e una maggiore, si spera, attenzione alla qualità dell’insegnamento ed alla qualità dei docenti, magari cominciando a sospendere gli indagati per gravi reati (“Bari, docente universitario accusato di violenza sessuale resta in servizio”, Giuliano Foschini, la Repubblica, 25 maggio 2019). Quindi, in definitiva, se deve avere un senso la festa del 2 giugno, questo senso non può che partire dal recupero effettivo dell’art. 3 della Costituzione, e della necessaria effettiva parità tra tutti i cittadini, a prescindere dal territorio dello Stato a cui appartengono; parità di diritti e di prestazioni essenziali, che potrà essere assicurata solo quando l’accesso alla sanità, alla scuola, alla giustizia, all’università, al credito, all’attività d’impresa non sarà più negato ad interi territori, costretti alla migrazione al nord o all’estero per accedere a quelle prestazioni. Fino a che tali diritti e prestazioni essenziali saranno precluse a larga parte del sud, finchè politica e media continueranno a praticare il discredito del sud come mezzo di persuasione di massa, non ci saranno molti motivi per festeggiare la festa della Repubblica. Fino a quel momento, l’ unica distinzione tra le forze antagoniste nella società non sara’ tra destra e sinistra, o tra cattolici e laici, o tra moderati ed estremisti. L’unica  distinzione sara’quella che già nel 1946 (Cristo si è fermato ad Eboli, L’orologio) aveva intuito un intellettuale del calibro di Carlo Levi, ovvero tra  Luigini e Contadini, con tali termini intendendo i primi gli appartenenti al ceto degli sfruttatori, di quelli che si approfittano dei deboli, di quelli che impediscono agli altri pari diritti e pari dignità, qualunque sia la funzione in concreto svolta e a qualunque latitudine appartengano, e i secondi gli sfruttati, anch’essi trasversali al tempo ed allo spazio, destinatari di una patria minore e senza l’accesso ai diritti fondamentali come alle prestazioni essenziali (per una approfondita analisi del dibattito, e sull’autonomia differenziata, cfr. M. Esposito, Zero al sud, Rubbettino). Quando la politica, finalmente equa, non porrà più le premesse per il mantenimento di due società distinte all’interno della stessa nazione e dello stesso popolo e la Storia, finalmente con la S maiuscola, verrà scritta rispettando gli accadimenti reali e non paludati dalla retorica monarchica prima e fascista poi, solo allora l’art. 3 della Costituzione potrà dirsi applicato nella sua integrità senza discriminazioni territoriali all’interno dell’unica Repubblica Italiana, frutto della resistenza al nazifascismo; allora e solo allora  il 2 giugno finalmente avrà la dignità che gli spetta di diritto.

·         La Questione Settentrionale.

Scusate l’errore: ai Comuni del Sud i fabbisogni vanno incrementati del 67% La controllata del Mef ridefinisce i criteri. Vuol dire 650 milioni in più per la spesa sociale e in gran parte a favore dei Comuni meridionali: Cancellato dopo anni l’obbrobrio di “zero servizi”. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 27 ottobre 2020. C’è voluta una lunga campagna di smascheramento per sgretolare omissioni, manipolazioni, pregiudizi bilaterali. Ma ora è scritto nero su bianco. E ad ammetterlo sono gli stessi che per anni si sono rifugiati dietro tecnicismi e vertiginose negazioni: i fabbisogni standard dei comuni delle regioni del Sud dovranno crescere del 67 %. Lo ha stabilito la Commissione tecnica del Sose, (Soluzioni per il sistema economico, società controllata dal ministero dell’Economia per l’88% e per le restanti quote dalla Banca d’Italia). La decisione avrà due effetti immediati: rovescerà i criteri adottati finora nelle valutazioni delle funzioni e dei servizi forniti dagli enti territoriali di prossimità, cioè i Comuni e al tempo stesso determinerà la ripartizione del fondo di solidarietà 2021 per i comuni delle regioni a statuto ordinario. Tradotto vuol dire 650 milioni in più per la spesa sociale e in gran parte a favore dei comuni del Sud.  Ma anche i comuni delle regioni del centro vedranno un incremento del 12 %, mentre i comuni delle regioni del Nord/ovest un decremento del 1,6% e i comuni delle regioni del Nord-Est un decremento dei fabbisogni del 6%. Viene dunque rovesciato quel principio che se un territorio non offre un servizio vuol dire che non serve. Un criterio a lungo utilizzato per negare al Mezzogiorno le risorse necessarie a garantire il cosiddetto minimo sindacale.

NASCE L’INDICE COVID DI AGGRAVIO SANITARIO. Una svolta epocale? In un certo senso sì. Se non fosse che già altre volte agli annunci sono seguite docce gelate o entrate a gamba tesa. Uno studio, sempre del Sose, ha messo a fuoco “l’indice di aggravio sanitario” determinato dalla pandemia. Un complesso rapporto che prende in considerazione vari parametri, ospedalizzati, posti letto, numero medi di casi di contagio, con una lunga serie di variabili. L’obiettivo finale è quantificare l’impatto che la prima ondata ha avuto sul tessuto sociale e sul reddito di aziende, persone fisiche, dipendenti in relazione alle spese dei comuni italiani. A livello nazionale la riduzione media è del 18,69%. Pe rle aziende è del 5,43%. Dati parziali e già da rivedere purtroppo in seguito alla seconda ondata. È un fatto però che la Commissione Tecnica abbia approvato u nuovi fabbisogni e che verranno utilizzati per determinare il Fondo di solidarietà comunale per l’anno 2021. Per anni, in attesa dei Lep, ci si è nascosti dietro calcoli “sballati”. La determinazione dei fabbisogni standard nasce per misurare le necessità degli enti locali a garantire servizi adeguati ai cittadini. Il confronto tra fabbisogni standard e capacità fiscale serve poi a commisurare l’entità delle perequazione. Peccato che non è andata cosi. Con il meccanismo della spesa storica – come più volte denunciato da questo giornale – si è finanziato solo l’esistente. Se in un Comune – per  fare l’esempio più noto  – l’asilo  c’era allora vuol dire che era essenziale e dunque  meritevole di finanziamento. E se non c’era? Pazienza. Zero finanziamenti. Un obbrobrio storico. Uno scippo in palese violazione di qualsiasi principio costituzionale.

UNIFORMARE I SERVIZI SUL TERRITORIO NAZIONALE. Da cosa nasce il ricalcolo? I nuovi fabbisogni prevedono l’adozione di nuove metodologie in particolare per le funzioni sociale e ambiente e territorio. Ciò comporta  variazioni soprattutto per la funzione sociale dove vi è stato un vero e proprio stravolgimento rispetto alle stime precedenti. Per la Sose – una Spa finita in questi giorni nell’occhio del ciclone per i presunti incarichi d’oro, collaborazioni da 247 mila euro l’anno a un pensionato co.co.co e per le acrobazie dell’ad Vincenzo Atella, un docente dell’università Tor Vergata,   che si sarebbe auto-nominato direttore generale – si tratta di una vera e propria inversione di tendenza. I filo conduttore che ha guidato le scelte della commissione per la funzione sociale è stato quello di prevedere una uniformazione del livello dei servizi, in tutto il territorio delle regioni a statuto ordinario. In alcuni punti il report della Ctfs sembra scoprire l’acqua calda. Ad esempio, quando, in base all’analisi dei dati desunti dal questionario e dai differenti livelli di spesa per il Settore sociale, riconosce le sostanziali  differenze  nell’erogazione dei servizi lungo l’intero territorio nazionale. In molti comuni l’intensità i – ma meglio sarebbe dire l’inesistenza dei servizi – è così bassa da apparire del tutto inadeguata a quanto richiesto per la tutela dei diritti civili e sociali. Ciò ha spinto la CTFS a definire “regole di normalizzazione” prendendo come  riferimento “il livello di servizi e i costi delle realtà più virtuose”. Per rendere più credibili e robusti i risultati, si è per la prima volta innovato il meccanismo metodologico scegliendo non più una sola provincia come riferimento ensì un gruppo di province “benchmark” ritenute particolarmente efficienti per aver offerto nel triennio di analisi un livello di servizi superiore alla media nazionale a fronte di una spesa inferiore alla media.

RISARCIMENTO TARDIVO. Queste scelte hanno determinato l’incremento delle risorse necessarie per poter garantire i fabbisogni standard dei comuni per poter erogare i servizi relativi alla funzione sociale, risorse che sono state stimate in un maggior fabbisogno, a regime, di circa 650 milioni di euro in più rispetto alla spesa storica di riferimento della funzione sociale. L’individuazione di un livello uniforme del servizio, individuando dei gruppi di comuni benchmark di riferimento (aggregati per provincia) ha determinato una forte variazione dei fabbisogni standard. In alcuni comuni del Sud l’assegnazione del fabbisogno raddoppia la spesa storica. Un risarcimento tardivo (meglio tardi che mai).

Sud e Nord, questione di fondi.  Giuseppe Coco su Il Corriere della Sera il 9/10/2020. La correlazione empirica tra crescita di un paese e evoluzione del sistema della finanza evidente. Ma gli economisti si dividono sulla sua interpretazione. Alcuni ritengono che il principale nesso di causalità vada dalla finanza alla crescita, altri nella prevalenza del nesso opposto. La finanza evoluta sarebbe il prodotto della crescita più che la sua conseguenza. In realtà esistono entrambi i nessi causali e certamente la finanza importante come precondizione per la crescita. In uno Stato unitario come il nostro quindi la fornitura di opportunità di finanziamento anche a imprenditori delle aree più svantaggiate deve essere un obiettivo di politica economica. Purtroppo questo obiettivo stato spesso travisato. In effetti esso non significa che il sistema bancario debba rispettare una qualche distribuzione territoriale del credito, e nemmeno che tutti i progetti di investimento debbano essere finanziati ovviamente. Significa che bisogna solo creare le migliori condizioni di finanziamento per gli imprenditori compatibili con la solidità degli intermediari. Ci sono una serie di ragioni per cui un mercato senza correzioni probabilmente non assicura questa condizioni nel Mezzogiorno. L’assenza di grandi banche meridionali rende più difficile l’accesso al credito (si veda la letteratura sulla distanza funzionale tra testa e sportelli delle banche di Zazzaro e Ferri per es.). In anni più recenti il credito bancario peraltro diventa sempre meno importante per finanziare lo sviluppo. Le restrizioni e i requisiti prudenziali sempre più stringenti sul credito rischioso assieme alla normativa antiusura, restringe i margini di manovra delle banche nel finanziare imprese innovative necessariamente più rischiose. La nuova finanza passa attraverso intermediari più evoluti. Si tratta dei fondi di private equity. La forma tipica di questi investimenti l’acquisizione di quote di capitale di rischio delle imprese. Un tipico fondo di private equity identifica imprese ad alto potenziale di crescita in settori fortemente innovativi (o che applicano tecnologie innovative in settori tradizionali) e ne finanzia la partenza o lo sviluppo, anche intervenendo nel governo dell’impresa. Trattandosi di una forma di investimento rischiosa e costosa in termini di acquisizione di informazione, consulenza e monitoraggio dell’impresa, anche per le professionalità evolute che richiede, riservata a imprese che possono dare rendimenti molto elevati. Ma queste sono anche le imprese che in maniera crescente faranno la differenza per la crescita dei territori. Fino al 2018 la quasi totalità degli intermediari di private equity era collocata al Nord. Anno su anno i finanziamenti a imprese meridionali si attestavano sul 2/3% del totale. Nel 2018, per iniziativa dell’allora ministro De Vincenti entrato in attività il cd Fondo Imprese Sud. Finanziato con fondi del FSC, questo fondo poteva finanziare solo la crescita di imprese con testa e sede nel Mezzogiorno, col vincolo di dover investire con soci privati. La successiva Finanziaria ne modificava la destinazione di fondi (dalla crescita d’impresa al finanziamento di startup innovative) e lo spostava sotto il cappello del Fondo Nazionale Innovazione presso Cassa Depositi e Prestiti. Purtroppo la transizione societaria da Invitalia ha comportato un ritardo di più di un anno nell’utilizzo dei finanziamenti, ma questo fondo oggi finalmente sta investendo velocemente le sue risorse su imprese innovative e brillanti, contribuendo a creare le condizioni per una imprenditoria di successo al Sud. Contemporaneamente il ministro per il Sud ha opportunamente reinserito nell’ultima Finanziaria una norma che rifinanzia il Fondo Imprese Sud con le caratteristiche e la vocazione originaria riaffidandolo con modalità identiche ad Invitalia. Il Fondo sarebbe in fase di partenza e colmerebbe un vuoto importante che potrebbe creare un tessuto di medie imprese utili a passare la tempesta anche a imprese minori nei territori di riferimento. Nel complesso la politica, o almeno la parte pi intelligente, stata sensibile a una esigenza di finanza evoluta per il Mezzogiorno. Si tenga presente che per le risorse riservate al Sud nel Fondo Nazionale Innovazione, sono al momento il 15% del totale. importante che il resto delle risorse non venga pensato come riservato al Nord. Alla stessa maniera importante che questa finanza non venga utilizzata per esigenze di ciclo politico. La progettazione dei fondi e la loro organizzazione fortunatamente al momento una garanzia che entrambe queste esigenze siano soddisfatte. 

Ecco la lobby che gonfia le casse della triade. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 25 settembre 2020. E’ la Terza Camera della Repubblica. Gestisce le risorse, ha voce in capitolo su tutto, anche su materie che sarebbero di esclusiva competenza dello Stato. Un oggetto misterioso che da 37 anni vive e convive  all’ombra del potere e costituisce essa stessa una sorta di contropotere. La sede nazionale è in via della Stamperia, al centro di Roma. Palazzo Chigi è a poche centinaia di metri ma le porte comunicanti non mancano.  Quando nacque, ufficialmente nel 1983, in pochi la presero sul serio e forse nessuno, neanche i fondatori, avrebbe immaginato il peso che poi avrebbe avuto in seguito. L’ultima formulazione conosciuta, riveduta e corretta, è “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Province autonome di Trento e Bolzano”.   E adesso, che l’avete scoperta, immaginateli, i presidenti, notabili di ieri e di oggi, immolati alla causa del federalismo, nella Sala delle riunioni. Un antico palazzo rinascimentale edificato da un cardinale. Tra affreschi, stucchi e antiche colonne si  decidono i destini delle nostre regioni, la quantità di asili nido, i ticket, il costo dei biglietti dell’autobus.  Destini che da tempo si ripetono con le stesse modalità e sempre nella stessa direzione. A chi tanto e chi niente, seguendo criteri imprescindibili e, casualmente, sempre a tutto vantaggio della triade: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, con incursioni toscane e piemontesi. In realtà, quando i fondatori si riunirono scelsero Pomezia, cittadina poco nota dell’hinterland romano. Più Centrosud che Centro. Più periferia che Roma. Era il 15 gennaio del 1981, quando alla stregua di carbonari, in una zona commerciale semi-disabitata e scarsamente illuminata, i presidenti delle regioni italiane si incontrarono all’Hotel Selene. Non pensavano certo che quella loro creatura sarebbe diventata un giorno l’appendice misconosciuta del Parlamento. Tutt’al più immaginarono di dar vita ad una conferenza consultiva, un organismo che avrebbe coordinato e semplificato i rapporti tra enti e governo.

IL VERBALE DEL 1981 “MAI CONTRO LA REPUBBLICA”. Nel verbale della prima riunione, poco meno di un documento storico,  un pezzo raro, custodito dallo Svimez come una reliquia, l’allora  presidente della Regione Liguria, il giurista Giovanni Persico, iscritto al Partito repubblicano e scomparso a 90 anni 5 anni fa,  volle fare una premessa: «È importante prevedere una organizzazione unificata,  uffici e strutture, per la documentazione e la ricerca che curi i rapporti tecnici con gli uffici amministrativi: ma la somma delle Regioni che è la Repubblica non può contrapporsi alla stessa Repubblica». Parole che oggi suonano come visionarie. Si pensi al gigantesco contenzioso con lo Stato, un’idrovora che si nutre di ricorsi e di burocrazia e paralizza sia enti che  ministeri. E si pensi al confronto/scontro quotidiano tra i governatori e il governo durante l’assedio della pandemia. Per evitare che la Conferenza diventasse un palcoscenico si propose che la presidenza avesse un unico potere:  convocare le assemblee e decidere l’ordine del giorno.  La definitiva istituzione, arrivata due anni dopo, nel 1983, ne ribadì lo spirito cooperativo.  Una conferenza come organo di raccordo per favorire il principio della leale collaborazione e favorire la concertazione. Non certo quello che poi sarebbe diventata, il centro decisionale della parte più sviluppato del Paese con una più o meno rigida separazione di funzioni. D’allora, dicevamo, molto è cambiato.  La spinta regionalista non si è tradotta in una Camera delle Regioni. Il referendum del 4 dicembre 2016, che avrebbe dato vita al Senato delle regioni, fu bocciato. Cosi che a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione sono cambiati gli assetti tra i diversi livelli di governo, la riforma è rimasta a metà e la Conferenza è stata riconosciuta a tutti gli effetti anche dalla Corte costituzionale. «I criteri con i quali vengono distribuite le risorse però non sono cambiati – punta il dito il professor Adriano Giannola, presidente della Svimez – i fondi della sanità, ad esempio, continuano ad essere ripartiti in base all’età della popolazione. Cosi che la Campania, una delle regioni più povere e più giovani d’Europa, continua a ricevere meno risorse. E questo discorso vale in genere per tutto il Mezzogiorno». Non è l’unica anomalia. «Se quel referendum voluto da Matteo Renzi avesse avuto un esito diverso, per il Sud la fregatura ci sarebbe stata comunque. In pochi rilevarono, e tra questi Massimo D’Alema che ne parlò una volta e poi basta, che i senatori sarebbero stati rappresentati in base alla popolazione. E dunque avremmo avuto anche allora più lombardi, piemontesi e veneti che calabresi o pugliesi».

LO STRAPOTERE DELLA TRIADE E GLI EQUILIBRI DI SALVINI. La Conferenza Stato-Regioni, presieduta dal ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia (Pd) si occupa impropriamente della ripartizione dei fondi per la sanità, fondi che costituiscono il 75% del bilancio delle regioni e la cui competenza generale resta a carico dello Stato. Gestisce le materie di attribuzione per ciascuna regione. Fatalmente economia, lavoro e sanità finiscono sempre agli stessi, cioè nell’orbita della triade. Ciononostante, non più tardi di ieri, il capo leghista Matteo Salvini, ha chiesto «nuovi equilibri nella Conferenza Stato-Regioni». il governatore veneto Luca Zaia, un minuto dopo ha rivendicato l’autonomia. Sarà un caso ma nella nuova segreteria del Carroccio è riapparsa come d’incanto l’ex ministro degli Affari regionali, Erika Stefani, la stessa che durante il suo mandato spacciò il Mezzogiorno come il paradiso dell’assistenzialismo prendendo per buoni solo i numeri della Ragioneria centrale dello Stato (il 22,5% del totale) e tralasciando quelli della spesa regionalizzata del settore pubblico (il 77,5%). Un’esperta nel gioco delle tre carte, insomma. L’assalto alla diligenza è pronto. La Lega vuole tornare al vecchio amore: autonomia e secessione. L’ultima casamatta è la Conferenza Stato-Regioni, destinata ad assumere sempre più rilevanza dopo la vittoria del Sì al referendum che ha tagliato la rappresentanza parlamentare. Per il gioco dei pesi e contrappesi crescerà invece il ruolo ipertrofico dei Super governatori. Forse qualcuno dovrebbe ricordare che le varie competenze degli enti regionali – politiche finanziarie, erogazione dei servizi pubblici; promozione di accordi di programma; processi di ricostruzione; consulenze socioassistenziali e gestione delle risorse Tpl – dovrebbero confluire in un solo obiettivo: la riduzione del disagio sociale: la creazione posti di lavoro, la lotta alla disuguaglianza e la perequazione infrastrutturale, (art.22 della legge Calderoli).  Temi ormai scomparsi dall’ordine del giorno della Conferenza. Con buona pace del ministro Boccia.

POVERI AL SUD E SPRECONI AL NORD. I soldi del Recovery Fund li mette l’Europa ma l’interlocutore non può essere la Conferenza Stato-Regioni. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 23 settembre 2020. La Regione Piemonte spende per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania che è così bene amministrata da avere il primato europeo del rischio povertà. La Regione Emilia Romagna ha la stessa popolazione della Puglia ma spende il doppio per i suoi servizi generali. Serve una interlocuzione politica e tecnica centrale di livello e vanno messi in riga i capetti delle regioni del Nord e del Sud. MA DAVVERO credete che il futuro di questo Paese possa essere nelle mani di chi ha amministrato una regione che ha conseguito il primato europeo del rischio di povertà? Se più di uno su due dei cittadini della Campania è a rischio povertà vuol dire che questo territorio sta messo peggio delle aree più svantaggiate di Grecia, Romania, Bulgaria, Spagna! Vi rendete conto di che cosa stiamo dicendo? Dove sono finiti i 7,5 miliardi l’anno del reddito di cittadinanza e i proclami del super ministro degli Esteri grillino, Luigi di Maio, di abolizione della povertà? Ma vi rendete conto che la Regione Piemonte spende per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania che è ridotta così e addirittura spende da sola di più di quanto spendono tutte insieme le Regioni Campania, Puglia e Calabria? Vi rendete conto che la Regione Emilia-Romagna dell’efficientissimo Bonaccini ha la stessa popolazione della Puglia ma spende esattamente il doppio per suoi servizi generali? Vogliamo parlare poi dei miliardi al vento bruciati dai carrozzoni burocratici e dallo stuolo di municipalizzate, società in house e appendici clientelari varie delle Regioni Lombardia e Emilia-Romagna? Lasciando per un momento da parte la vergogna di una spesa sociale e infrastrutturale che toglie indebitamente sviluppo al Sud e regala assistenzialismo al Nord, la spesa pro capite per scuola e sanità oscilla della metà da un capo all’altro del Paese, ma davvero davvero pensate che si possa affidare nelle mani dei “capi bastone” regionali del più grande sprechificio nazionale il futuro del Paese e la gestione del Recovery Fund? L’Europa si è rifatta viva ieri per chiedere ai singoli Paesi che cosa metteranno nelle loro leggi di bilancio. Per chiedere di fare bene i conti, quelli delle spese e quelli delle entrate, tenendo a mente le previsioni del Recovery Fund. Siamo al monitoraggio sistemico giorno per giorno. Questo impone all’Italia, più che altrove, di attrezzarsi con una interlocuzione politica e tecnica centrale di livello, concludente, che esprime la visione strategica del Paese e gli obiettivi operativi con il massimo della concretezza. I soldi li mette l’Europa e l’interlocutore dell’Europa non può più essere, come è stato di fatto fino a oggi, la Conferenza Stato-Regioni. A fare le riunioni, a definire il programma 2021/2027 ci vanno loro. Ognuno per conto suo. Ognuno facendo male per conto suo. I risultati raggiunti fino ad ora sono così scadenti che dovrebbero escluderci a priori. Il punto è che se chiedi alla De Micheli che cosa è il programma 21/27 c’è il rischio concreto che ti risponda che è un ambo. Il punto è che in Italia, nella sede della Conferenza Stato-Regioni in via della Stamperia a Roma, passa tutto, si definisce o si bollina tutto. Si decide la spesa pubblica territoriale in tutte le sue voci, qui non altrove c’è la governance reale di quanto si dà e a chi per scuola, ospedali, treni, mobilità. Sempre qui si contrattano le leggi di bilancio e gli obiettivi della Nadef. Qui si fa e si disfa tutto e ciò è inaccettabile perché fino a oggi questi poteri anomali e il modo in cui sono gestiti hanno prodotto la peggiore crescita europea in termini quantitativi e qualitativi perché non solo siamo gli ultimi ma anche i più diseguali. No, noi non crediamo in un Paese che vende il sogno della abolizione della povertà attraverso sussidi assistenziali e che affida il suo futuro nelle mani di capetti esigenti di baracconi clientelari che ragionano come se il loro territorio sia uno Stato, non un pezzo di una nazione. I governatori degli Stati americani tassano e spendono loro, hanno la responsabilità diretta del bilancio. Questi spendono solo e non hanno nessuna responsabilità diretta. Soprattutto i capi delle cosiddette regioni ricche spendono alla grande e scavano nel bilancio di tutti per soddisfare le loro clientele mettendole sul conto di chi ha meno. Se non si spezza questa spirale perversa tutta l’Italia diventerà Sud e il mondo avrà trovato la sua capitale mondiale della povertà. Mettiamoli al loro posto i presidenti delle regioni, si occupino dei loro territori e la smettano di saccheggiare il bilancio pubblico per soddisfare le mille clientele delle mille liste che hanno sostenuto i capi dei potentati regionali. Questa è la prova decisiva del governo Conte. L’Italia deve uscire dal suo federalismo ingiusto e deve recuperare un’idea unitaria di Paese con un piano di opere materiali e immateriali definito e gestito dal centro con una sola priorità. La riunificazione infrastrutturale del Paese e almeno il 50% delle risorse europee attribuite al Mezzogiorno. Questo serve all’Italia prima ancora che al Mezzogiorno. Questa dopo venti anni di distrazione è l’unica possibilità che ha il Paese di tornare a misurarsi con i suoi problemi reali.

Regioni, spese senza più freni. E la sprecopoli abita al Nord. La sola macchina burocratica piemontese, con i suoi 911 milioni l’anno, costa più di quelle di Calabria, Puglia e Campania messe insieme. Nord al top anche per le partecipate in perdita. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2020. La macchina burocratica e istituzionale della Regione Piemonte è tra le più costose d’Italia, i numeri sono praticamente da record: 911 milioni all’anno per stipendi di consiglieri e dipendenti, gestione immobili, segreteria generale, servizi generali, per citare alcune delle principali voci di spesa. Certo, Lombardia (742 milioni), Emilia Romagna (528 milioni) e Veneto (482 milioni) non sono da meno, ma considerando anche la popolazione di ogni regione il Piemonte ha una spesa superiore.

LE SPESE. Se poi questi numeri, estratti dai bilanci di previsione 2019-2021 di ciascun ente, vengono paragonati a quelle delle Regioni del Sud, il divario diventa imbarazzante: la Puglia, ad esempio, per i “Servizi istituzionali, generali e di gestione” spende 256 milioni, la Campania 207 milioni, la Calabria poco più, 302 milioni. Sommando i costi dei tre Enti meridionali la cifra che scaturisce (765 milioni) è di gran lunga inferiore a quella del solo Piemonte, di poco più alta rispetto a quella della Lombardia. L’Emilia Romagna ha la stessa popolazione della Puglia ma spende il doppio. In Italia, complessivamente, solamente gli stipendi dei consiglieri, assessori e presidenti delle Regioni costano alle casse pubbliche circa 800 milioni di euro e rappresenta una delle voci più onerose per i bilanci, terza dopo il costo del personale (2,8 miliardi) e le generali “spese per servizi” (1,3 miliardi), ed esclusi i trasferimenti. Andando a spulciare i bilanci delle singole Regioni arriva la conferma di un costo eccessivo dei carrozzoni chiamati Regioni. Un problema che riguarda tutta l’Italia, ma è il Nord a spendere di più per il funzionamento della macchina burocratica. Entrando più nel dettaglio, per il funzionamento degli “organi istituzionali” c’è un buon divario: 75 milioni il costo messo in bilancio dalla Lombardia, 70 milioni dal Piemonte, 52 milioni, invece, dalla Puglia, 60,8 dal Veneto e 66 dalla Campania.

IL CASO PIEMONTE. Insomma, i dati dei bilanci parlano da soli. I numeri della Regione Piemonte, poi, sono impressionanti. La bellezza di 70 milioni è stata spesa nel 2019 per il funzionamento degli organi istituzionali. Se mettiamo insieme tutte le voci che vanno a completare la cosiddetta “Missione 1” superiamo gli oltre 911 milioni. Insomma, vicini al miliardo di euro soltanto per garantire quotidianamente i servizi istituzionali (70 milioni), i lavori della segreteria generale, la gestione delle risorse umane, gli altri servizi generali, quelli informativi – altra spesa enorme, 65 milioni – e infine la gestione dei beni demaniali.

IL PIANETA PARTECIPATE. Il Nord è anche la terra delle società partecipate inutili e spendaccione: il record spetta alla Lombardia, dove le società accumulano debiti per 26,5 miliardi. Sul podio salgono altre due regioni del Nord, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna: rispettivamente: 12,71 e 8,89 miliardi. Una legge statale, la Madia, ha provato a mettere ordine nel settore e a ridurre i costi, obbligando le Regioni a dismettere le partecipazioni o le società stesse che producono solo passivi. Eppure, nonostante i record negativi delle partecipate del Nord, il trend sembra proprio non cambiare. Basti pensare che, come evidenzia la Corte dei conti, nel 2018 «solamente in riferimento alle società a partecipazione maggioritaria della Regione Toscana il risultato economico complessivo risulta negativo per circa 7 milioni di euro. Rispetto all’esercizio 2017, quando la perdita di pertinenza regionale si assestava su 3,6milioni di euro, si rileva, quindi, un peggioramento». Insomma, anziché migliorare queste società continuano a produrre maggiori perdite. E a chi prova a spiegare questi continui passivi nei bilanci con una congiuntura economica sfavorevole, la Corte dei conti replica così: «In molti settori, (termale, creditizio e fieristico), la crisi assume un carattere strutturale e non congiunturale». Società nate per produrre debiti.

LA CLASSIFICA. In tutta Italia sono 7.090, di cui attive 5.766, e danno lavoro a 327.807 persone, ma producono più debiti (104 miliardi) che crediti (53 miliardi). Si occupano di attività diverse (rifiuti, trasporti, acqua) e, soprattutto, gestiscono un fiume di danaro, con risultati spesso non lusinghieri, soprattutto al Nord. Lo dicono i numeri: le prime 12 società in profondo rosso sono quasi tutte al Nord, più precisamente 10 al Nord e 2 al Centro, nessuna al Sud. Insomma, le partecipate del Nord realizzano più debiti di quelle del Sud (Campania e Sicilia con 3,87 e 3,24 miliardi sono quelle con più “copponi”) e danno anche più lavoro: nei 962 organismi della Lombardia sono impiegati 59.924 dipendenti, in Emilia Romagna 557 enti danno occupazione a 30.342 persone, in Veneto sono 29.296 gli impiegati; di contro, in Campania i dipendenti sono 16.805, in Puglia 10.199, in Calabria 4.391, in Basilicata 668, solo la Sicilia (Regione, però, a statuto speciale) si avvicina ai numeri delle Regioni del Nord con 23.512 dipendenti. La Lombardia è la regione con più società partecipate: 962, quasi il 17% del totale. E stacca non di poco l’Emilia Romagna, seconda con 557 enti.

IL PAESE ARLECCHINO CHE SI NUTRE DI FAKE. Chi lavora per consegnare l'Italia a un destino greco. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2020. Questo giornale ne ha fatto una bandiera dal suo primo giorno di uscita. Nessuno potrà mai convincerci che i diritti di cittadinanza sono garantiti quando se nasci a Reggio Calabria ricevi 19 euro di spesa pubblica per gli asili nido, se vieni al mondo a Altamura, nella Murgia pugliese, di euro “addirittura” te ne toccano zero mentre appena esci dalla culla in Brianza hai la fortuna di trovare ai tuoi piedi un assegno di tremila euro. Abbiamo denunciato questa vergogna italiana e gli amministratori coraggiosi di alcuni Comuni del Sud si sono rivolti al Tar del Lazio e hanno avuto ragione. La risposta del Governo “all’ordinanza istruttoria” dei giudici amministrativi è stata quella di mettersi subito in regola. Oggi i 3.300 bambini di Altamura non ricevono più zero euro per gli asili nido, ma 688 mila euro. La strada della parificazione dei diritti è ancora lunga, ma il primo passo è stato compiuto e lo rivendichiamo come un risultato di questo giornale. Tutto ciò è stato possibile perché i Comuni non sono usciti dalla trappola della spesa storica che privilegia i ricchi ai danni dei poveri, ma almeno il Fondo di perequazione previsto dalla legge Calderoli sul federalismo fiscale lo hanno fatto. Nella Conferenza Stato-Regioni, la “terza Camera” dello Stato, i galli delle Regioni del Nord e del Sud alzano tutti la cresta e trattano lo Stato italiano come la gallina che deve fare ogni giorno l’uovo dei loro desideri, quindi non uno ma venti, si rifiutano ostinatamente di varare anche i Fondi di perequazione sociale e infrastrutturale. Siamo alla vergogna delle vergogne. Non si tratta di chiedere risarcimenti ma di attuare l’ineludibile operazione verità e sulla base di questa costruire il Progetto Paese che si identifica con la riunificazione delle due Italie. Credetemi: non possiamo andare avanti con il miope egoismo dei Governatori della Sinistra Padronale tosco-emiliana in combutta con quelli della Destra a trazione leghista lombardo-veneta e lo sceriffo campano che prima ha chiuso la sua regione per tutelare la sicurezza senza che il Covid vi fosse e che ora che il Covid c’è davvero ha spaventato così tanto i suoi concittadini che le file per fare il tampone rischiano di trasformarsi in un grande focolaio a cielo aperto. Liberiamo il Paese da questi gendarmi che vanno peraltro ognuno per i fatti suoi.

Oggi apriamo il giornale con un’esclusiva di Giuliano Cazzola che documenta, dati alla mano della relazione annuale della Corte dei Conti, il pesantissimo effetto redistributivo che ha la spesa previdenziale perché le pensioni più pregiate sono, come è noto, al Nord e perché permane il “premio” del calcolo retributivo per quote importanti di ogni storia lavorativa. Ora sappiamo che con quota 100 paghi 673 euro di contributi e ricevi 2033 euro. La più grande fake che si può commettere parlando di spesa pubblica territoriale è togliere il peso di questo smaccato privilegio dal computo. Non importa se lo si fa per servilismo nei confronti di chi si permette di liquidare la questione sostenendo che le pensioni si pagano con i contributi (questa sì che è una fake) e, quindi, vanno dove c’è più lavoro ben retribuito o se lo si fa per guadagnarsi patenti di neutralità dicendo il falso. Ovviamente dopo avere detto che sono “falsi” i dati dei Conti Pubblici Territoriali si può dire che sono “falsi” anche quelli della Corte dei Conti. Così, però, non si costruisce il dialogo tra Nord e Sud che noi vogliamo per capire come stanno davvero le cose e fare ripartire l’Italia più coesa e finalmente riunificata, ma si lavora per consegnare il Paese tutto a un destino greco. Nessun interesse e nessuna forma di narcisismo possono consentire di sporcare l’operazione verità.

Pensioni, paghi 673 euro e ne incassi 2033: il calcolo retributivo che arricchisce il Nord. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 9 ottobre 2020. È incomprensibile l’interesse suscitato dall’annuncio di Giuseppe Conte al Festival dell’economia di Trento: il governo non ha intenzione di prorogare quota 100 dopo la scadenza del 31 dicembre 2021. Non c’è proprio nulla di nuovo. Quota 100 è una misura voluta fin dall’inizio a carattere sperimentale e derogatorio per un triennio, che avrebbe dovuto fare da ponte con un intervento più organico.

QUOTA 100. Sarebbe, tuttavia, il caso di spiegare all’opinione pubblica che “quota 100’’ non ha mancato soltanto l’obiettivo di sostituire gli anziani in uscita con l’assunzione di giovani (come ormai è riconosciuto da tutti gli osservatori), ma non ha convinto neppure i destinatari di questo provvedimento (va ricordato, però, che quanti maturano i requisiti previsti entro la fine del 2021 si portano appresso la possibilità di esercitare successivamente il diritto al pensionamento anticipato) il cui numero, nel 2019, è risultato inferiore alle previsioni (confermate per il 50% nel pubblico impiego; solo per il 15% nel settore privato). La questione della spesa pensionistica è entrata di prepotenza (per il suo rilievo) anche nel dibattito sulla ripartizione della spesa tra Nord e Sud, dopo la “denuncia’’ della sottrazione di 60 miliardi alle regioni meridionali. Alcuni economisti – pur ammettendo ciò che è risaputo e cioè che le pensioni più pregiate (in particolare quelle di anzianità) sono erogate al Nord a ex lavoratori maschi – hanno sostenuto che è sbagliato includere la spesa pensionistica nel computo, perché i trattamenti di cui si tratta sono coperti dai contributi. Sul Quotidiano del Sud abbiamo dimostrato che questo sinallagma pensioni/contributi non esiste neppure al Nord, perché i trattamenti corrisposti alle generazioni del baby boom (quelle che sono andate in quiescenza negli ultimi anni e che ci andranno in quelli prossimi) hanno fruito del “premio’’ garantito dal calcolo retributivo per quote importanti della loro storia lavorativa.

LA CORTE DEI CONTI. La Corte dei conti – si vedano i grafici di questa pagina – ha dimostrato che l’introduzione di quota 100 (notoriamente più diffusa nelle regioni settentrionali e tra i lavoratori maschi: si calcola una donna ogni sei uomini) ha amplificato (mettendo a confronto il pannello A con quello contrassegnato B) il divario tra la pensione erogata e i contributi versati. Ovviamente tale divario si amplia lungo tutto il periodo in cui la prestazione viene percepita, incluso il conteggio della reversibilità ai superstiti. Sempre la Corte dei Conti, infatti, ha messo in campo anche dei numeri. Considerando 100 euro di retribuzione pensionabile in regime retributivo, corrispondenti a un trattamento di 62 euro, e tenendo conto di una speranza di vita di 25 anni, il lavoratore in ipotesi (con 62 anni e 38 di contributi) beneficerà di trattamenti complessivi pari a 1.550 euro nel 2044 quando cesserà la pensione diretta; il superstite beneficerà poi, sotto forma di pensione indiretta, per ulteriori 13 anni di 37 euro di assegno annuo con il che i benefici pensionistici complessivi dell’assicurato in questione assommeranno a 2.033 euro. A fronte di ciò il grafico mostra che a fine 2018 i contributi sociali cumulativamente versati tra il 1981 e il 2011, cioè quelli validi per la sola quota retributiva di cui ci si sta qui occupando, erano pari a 673 euro.

L’ALLARME. Intanto è scoppiato l’allarme: «Le previsioni della spesa pensionistica continuano a scontare il sensibile aumento del numero di soggetti che accedono al pensionamento anticipato, con  “Quota 100” e le altre opzioni. Secondo la previsione a legislazione vigente, una crescita della spesa per pensioni più contenuta rispetto a quella dell’economia contribuirà a far scendere il rapporto tra tale spesa e Pil, dal 17,1% del 2020 al 16,2% nel 2023. Cionondimeno, la spesa per pensioni a legislazione vigente nel 2023 risulterà più alta di 0,8 punti percentuali in rapporto al Pil in confronto al 2019».  Così è scritto nel Nadef. Insomma, le politiche previdenziali del Conte 1 presentano la nota spese al Conte 2. Qualche sindacalista è arrivato a sostenere che il governo si è sbagliato (sic!) a fornire il dato all’Unione europea, dimenticando che le statistiche si fanno sulla base di indicatori concordati e comuni.

L’EQUIVOCO. È la solita mania di equivocare tra le spese previdenziali e quelle assistenziali, in nome di una separazione tra i due comparti che è già stata compiuta nel 1984 e perfezionata nel 1998, prima dell’ingresso nel club dell’euro. Ne deriva che la spesa pensionistica è una sola e che è finanziata attraverso i contributi e i trasferimenti. Pretendere di ‘‘sterilizzare’’ quanto è posto a carico del fisco perché l’ammontare dei contributi non basta a coprire il costo del sistema, più che una partita di giro costituirebbe un falso in bilancio, in stile greco. Tutto ciò premesso, la questione si sposta sul come uscire dal regime delle deroghe sperimentali alle regole della riforma Fornero, perché, senza adeguate modifiche, esse tornerebbero in vigore “più gagliarde’’ di prima, con lo “scherzo da prete’’ di uno “scalone’’ (da 62 a 67 anni) per quei soggetti che non avessero i requisiti per il pensionamento ordinario di anzianità. A risolvere il problema sono in azione le confederazioni sindacali in un clima di “cordiale intesa’’ con il ministro Nunzia Catalfo. Perché “uscire in avanti’’ quando è più facile e confortevole farlo “all’indietro’’?

SINDACATI IN ERRORE. In soldoni, la proposta di Cgil, Cisl e Uil “supera’’ la riforma Fornero, riportando il sistema pensionistico alla belle époque del secolo scorso. Si andrebbe in quiescenza con almeno 62 anni di età (e 20 di anzianità contributiva) oppure con 41 anni di versamenti a qualunque età (evitiamo di elencare la gamma di ulteriori sconti che sarebbero previsti come contribuzione figurativa per la maternità, i lavori usuranti e disagiati e quant’altro). I dirigenti sindacali non sono degli sprovveduti, tanto che accompagnano queste loro proposte con un ragionamento, fondato sul piano tecnico, ma sbagliato su quello politico. Nelle future pensioni – affermano – sarà crescente la quota da calcolare col metodo contributivo. In tali casi il relativo montante verrà moltiplicato per un coefficiente ragguagliato all’età, in applicazione del quale sarà incentivato il posticipo e disincentivato l’anticipo. Ma è proprio questo l’errore; perché non ha senso, al cospetto degli scenari demografici attesi e del ritardo delle nuove generazioni nell’ingresso nel mercato del lavoro, premiare la durata della pensione (anticipandone la decorrenza) a scapito dell’adeguatezza del trattamento. I sindacati – anche se chiedono una pensione di garanzia per i giovani (è singolare volerli tutelare da pensionati, visto che non riescono a farlo da lavoratori) – rimangono prigionieri della condizione dei baby boomers (maschi e settentrionali): i soli che possono continuare a trarre beneficio da siffatti requisiti.

A riposo in anticipo e sistemi premiali: le pensioni “regalate” abitano al Nord. Su 12 miliardi spesi per i trattamenti di anzianità la parte sostenuta dalla collettività è in media intorno al 28%. Giuliano Cazzola il 18 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nel dibattito aperto sull’allocazione delle risorse che il governo ha “prenotato" in conto Recovery Fund si è aperta una certa dialettica tra le priorità territoriali dei progetti e degli interventi. L’argomento non è affatto secondario, perché se è vero che il “motore’’ dell’economia sta nelle regioni del Nord (per questo motivo deve continuare a funzionare nel migliore dei modi possibili nell’interesse di tutto il Paese) è altrettanto vero che il salto di qualità che l’Italia deve compiere, grazie alle risorse rese disponibili da parte della Ue, riguarda un impegno per un effettivo riequilibrio e per una maggiore coesione territoriale.

IL DIVARIO. Nel dibattito è stata chiamata in causa la spesa pensionistica previdenziale e assistenziale. Alcuni economisti hanno riconosciuto che la quota maggiore della spesa per le pensioni è erogata al Nord, anche in rapporto al netto prevalere dei trattamenti di anzianità sostenuti da robuste e continuative storie contributive che consentono alle generazioni del baby boom di andare in quiescenza intorno ai 60-61 anni con prestazioni che, mediamente, sono di importo doppio rispetto a quello riservato alla vecchiaia. Ovviamente non c’è nessun inganno: l’assetto del sistema pensionistico non è che la fotografia del mercato del lavoro, non di quello attuale, ma di quello di ieri. E quindi quanti hanno fruito – sia pure con fatica, sottoponendosi allo sradicamento dell’immigrazione interna, iniziando precocemente l’attività lavorativa, sopportando condizioni di lavoro assai critiche e integrazione sociale complicata (“Non si affitta ai meridionali!’’) – si trovano a vivere una quiescenza più serena (ma non troppo) sul piano economico, avendo davanti a sé un’attesa di vita in aumento, come mai prima nella storia dell’umanità. I “nordisti’’ non negano il divario previdenziale con un Sud in cui prevalgono le prestazioni assistenziali (a carico della fiscalità generale e quindi dei contribuenti che pagano le imposte), ma rivendicano di trovarsi in questa situazione in conseguenza dei maggiori contributi versati. E pertanto di non avvalersi di alcun “privilegio’’.

LO SBILANCIAMENTO. E’ un ragionamento che fila, ma ci sono degli aspetti che è utile chiarire. Coloro che si sono guadagnati il diritto di usufruire del “pezzo pregiato’’ del sistema pensionistico, hanno potuto avvantaggiarsi pure del suo risvolto “premiale’’. Mi spiego meglio avvalendomi della tabella pubblicata in basso, relativa ai flussi del primo semestre 2020 in confronto con quelli del 2019. Come si può vedere il numero maggiore di pensioni erogate ha nel proprio montante contributivo una quota importante sottoposta al calcolo retributivo. Fino al 1° gennaio 2012, poi, la stragrande maggioranza delle pensioni era liquidata in regime retributivo. Ma è vero che le pensioni di anzianità – tesoretto dei lavoratori maschi del Nord – sono coperte dalla contribuzione anche quando sono calcolate secondo il metodo retributivo o misto? Uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca ha dimostrato che i veri protagonisti dello “sbilanciamento” tra pensioni contributive e retributive sono i trattamenti di anzianità, ovvero proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, a ogni piè sospinto. Considerando, come nello studio, le pensioni di anzianità maturate (in media a 58,5 anni di età) da 486mila lavoratori dipendenti privati tra il 2008 e il 2012, per un importo medio di quasi 2mila euro lordi mensili, la spesa per questa platea è stata di 12 miliardi di euro. La parte non giustificata da contributi versati è in media pari al 28% e si concentra prevalentemente (in quota del 37% dei pensionati) nelle fasce con più di 2.500 euro mensili, che accumulano il 63% dello squilibrio totale.

IMPORTI INGIUSTIFICATI. Lo studio, pertanto, calcola che sui 12 miliardi di spesa circa 3,5 miliardi siano “non giustificati” dai versamenti contributivi. Lo squilibrio diminuisce nel caso di pensionamento di vecchiaia (al 15% medio) per effetto della più ridotta attesa di vita. Aggiungendo anche le pensioni di anzianità (2008-2012) dei dipendenti pubblici, (il cui squilibrio tra calcolo contributivo e retributivo è valutato in 2,5 miliardi) la parte “non giustificata” sale nell’insieme a 6 miliardi. Il bello, però, deve ancora venire. Più aumenta l’importo dell’assegno (oltre 44mila euro l’anno) più si riduce la parte “non giustificata”, perché sul valore dell’assegno opera la rimodulazione al ribasso dei trattamenti più alti fino a ridursi al 5% per pensioni intorno ai 12mila euro lordi mensili. Il grafico in alto evidenzia questo stato di fatto.

Quei privilegi differenziati che come la bussola indicano sempre il Nord. Adriano Giannola il 18 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Una nota  vagamente  “tecnica” penso sia lo strumento  migliore per illustrare uno degli aspetti del  tema della perequazione che l’ operazione verità ha portato alla luce del sole in tutta la sua macroscopica urgenza grazie al contributo di documentazione dei Conti Pubblici Territoriali. L’ evidenza dei mitici 60 e passa miliardi all’anno per il periodo 2000-2018 è un dato  da analizzare con  il massimo  scrupolo perché è solo a valle di analisi accurate che si possono proporre le necessarie e   rapide  correzioni  e, soprattutto, individuare  un percorso  operativo che  consenta di  ripristinare  il rispetto della legge e  della Costituzione. Si tratta, in parole povere,  di liquidare il tradizionale  metodo  fin qui in uso  del  rinvio a messianiche attese  (LEP,  fabbisogni standard in regime di costi standard prevista dalla Costituzione e dalla legge 42/2009  sui quali va fatta finalmente una sintesi). Il Paese non può continuare  in queste  sceneggiate rituali della commissione Stato-Regioni  che,  al motto  ad  impossibilia nemo tenetur ,  legittima  la  “provvisoria”  spesa storica rivelatasi  un formidabile,  inerziale meccanismo  di sistematiche  sperequazioni territoriali.  Se non si comprende che tutto ciò fa molto male non solo al Sud ma – alla lunga-  anche alle  nostre  locomotive in ultradecennale affanno e si continua a equivocare su presunte richieste  di risarcimenti, magari per contanti, senza voler capire che il “risarcimento” a vantaggio dell’ intero Paese è  quello di ristabilire regole certe: quelle  scritte e  approvate dal Parlamento in applicazione della Costituzione. Proprio in omaggio a questo spirito è  più che  legittima la pretesa di verificare se e quanto corretto sia  misurare la sperequazione  sulla base di un  nesso logico  “indiziario”  fondato su  una ragionevole  aspettativa di coerenza tra  quota della spesa e  quota della popolazione  nei diversi territori. Una  ipotesi di lavoro  che impone, dunque,  una  più  che mai  scrupolosa verifica. È  perciò  benvenuto  ogni  serio  contributo in merito. Non  pare rispondere a questo  auspicio il problematico argomentare del prof. Giovanardi  recentemente apparso sul Foglio che elenca  ben  sei motivi  per definire una “favola” la contabilità  dei dati dei CPT  ritenendo così di  delegittimare l’ operazione verità. L’esposizione dei sei errori  non fa  onore  alla  scienza del valido  scienziato  nella misura in cui propone  considerazioni di buon senso strumentalmente adattate alla bisogna,  senza quantificazioni di sorta, neanche indiziarie. Né incanta  l’ insistere sul le itmotif del “diritto alla restituzione” esplicitamente accampato  sui mitici residui fiscali per i quali – se non  se ne  è ancora reso conto – alla inconsistenza giuridica  si accompagna  la crescente  inconsistenza  quantitativa. In una recente – più conciliante –  occasione  il  prof.  giustifica il diritto  alla  restituzione  sostenendo che la sua  più sincera disponibilità  ad “aiutare il Mezzogiorno” si scontra con il fatto che il Sud  non cresce, anzi  (in linea con  una certa econometria  à la carte)  “muore di aiuti  e  di  vana  filantropia”. L’unico  serio  motivo “tecnico”  addotto per  argomentare criticamente non certo per  porre in dubbio la contabilità dei 60 miliardi  concerne la  spesa per  la previdenza che, a suo dire,  andrebbe  totalmente esclusa dal novero della spesa pubblica. Davvero  curiosa  l’ultratempestiva  sollecita adesione  di Marco Esposito a questa tesi, “… perché è le pensioni sono una forma di reddito differito e lo Stato non può decidere a chi pagarle indipendentemente dai contributi versati”…  aggiungendo  che “… scomputare la previdenza dimezza la cifra …. che diventa 30 e non 60 miliardi” . Non che 30 miliardi all’anno siano pochi, ma è un fatto che risulta incomprensibile con quali criteri si possa fare questo calcolo e come si possa abbandonare l’unica cifra certa che sono i 60 miliardi certificati da CPT e sui quali gli argomenti sociologici fin qui addotti che non hanno nessuna forza documentale. Il tema  del come, quanto  e  se la previdenza sia  rilevante  o no  nell’ operazione verità  e  come vada contabilizzata  è certo serio  e la versione del prof.  Accolta da Esposito  merita  considerazione  anche perché  altri ben attrezzati tecnici informati dei fatti non sono per nulla inclini a sottoscriverla. Una prima considerazione è  che  le pensioni sono liquidate attingendo al  serbatoio  delle contribuzioni dei futuri pensionati  oltre che  dallo stock esistente dei contributi versati (e in via di liquidazione) da quelli che via, via sono entrati nel mondo dei pensionati. Il fatto di attingere ai contributi versati  non significa che quella previdenziale non sia da computare come spesa pubblica ma, semmai, di considerare con cura il meccanismo per il quale  chi  eroga le pensioni attinge alle disponibilità  correnti  (diciamo prende a prestito dai futuri pensionati  oltre ad usare i contributi  versati in via di  esaurimento dei pensionati).  Si tratta del metodo  “a ripartizione”  per il quale pago oggi  prelevando dallo stock cumulato e in via di accumulazione per corrispondere  le pensioni a soggetti che non alimentano più  lo stock. La prima osservazione è che nel 2017 (Sesto Rapporto 2019) il saldo tra pagamenti ed incassi  contributivi  vede un deficit per le pensioni di 68 miliardi  a tutto titolo da considerare  spesa pubblica,  perché  posti a  carico della fiscalità generale.  Cioè il “fondo”  si è rivelato  insufficiente. Ma un altro motivo fa  sì che è più che legittimo considerare  spesa pubblica  una  parte  significativa  delle pensioni pagate anche se non eccedono  il monte contributi. Si dimentica infatti  di prendere in considerazione  quella quota di prestazione che  in passato e ancor oggi  corrisponde alla “rendita”  della quale fruiscono i percettori di pensioni (sia di anzianità che  di vecchiaia) definite nel loro ammontare con  il metodo retributivo  e non con quello contributivo.  Il che assicura  il godimento (si fa  per dire) di  una pensione superiore a quella che sarebbe erogata facendo meramente riferimento ai contributi versati.  Attualmente questo  aspetto è  assolutamente prevalente  e rilevante  per quello che riguarda  lo stock di pensionati  e  tale si conferma nonostante  la modifica introdotta  dalla  “riforma Dini” (1995)  e poi nel 2012  del governo Monti che traghetteranno  solo dopo il 2036 a un sistema contributivo integrale.  Il prof Giovanardi lo sa o no? Dubito che non ne sia perfettamente consapevole. Giuliano Cazzola che al tema ha dedicato profonde analisi si chiede  se ” le pensioni di anzianità – tesoretto dei lavoratori maschi del Nord – sono coperte  dalla contribuzione anche quando sono calcolate secondo il metodo retributivo o misto” e rinvia  a uno studio di  Fabrizio e Stefano Patriarca  per  concludere  che  “i veri protagonisti  dello «sbilanciamento» tra pensioni contributive e retributive sono i  trattamenti di anzianità… proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, ad ogni piè sospinto”.  Nel quadriennio 2008-2012  risulta che  quota  non giustificata da contributi versati  le  pensioni di anzianità “… maturate (in media a 58,5 anni)  da 486mila lavoratori dipendenti  privati  è in media pari al 28%  su   12 miliardi di spesa”.

I  percettori di pensione  che  hanno un introito superiore al teorico flusso “garantito”  dai contributi versati  sono per questa  quota  eccedente opzionalmente  a  carico della fiscalità generale. Dunque  lo Stato, fino al limite della capienza ” prende a prestito ” quanto necessario  senza pagare interessi dai futuri pensionati  (fino a capienza del fondo contributi)  per  erogare  le prestazioni  da  corrispondere ai pensionati inclusi ve di  quel’ ammontare in eccesso  che  non hanno contribuito a determinare.  Tutto ciò coinvolge  le pensioni di anzianità  e quelle di vecchiaia con una distinzione da sottolineare e che per molteplici ragioni  ha un chiaro  significato:  quelle di anzianità sono corrisposte a  una platea “più giovane”  (il sopra citato “tesoretto dei lavoratori maschi del Nord”)  che quindi godrà più a lungo  un più ricco  bonus che eccede il calcolo contributivo. Questa platea, grazie alle condizioni del mercato del lavoro di riferimento  ha iniziato il percorso e quindi  maturato  in tempi più rapidi i requisiti conseguendo pensioni più elevate sia per la continuità che per la rapida entrata nel mercato del lavoro. Ben diverso  ma  sempre a carico della fiscalità generale  è il privilegio riservato  alle  pensioni  di vecchiaia  (dove comunque il Nord prevale nettamente sul Sud) considerevolmente meno ricche riferibili a  una  platea relativamente più anziana proprio in conseguenza  delle maggiori difficoltà di  realizzare  un percorso contributivo legato alle  problematiche  caratteristiche  del  “loro”  mercato del lavoro. Ovvio che la “anzianità” premia il Centro-Nord con, di  conseguenza,  una  sistematica differente incidenza  sulla fiscalità generale  riconducibile al “bonus” di cui sopra  ed ai diversi tempi di fruizione. Ovvio  che  il metodo retributivo svanirà  all’ orizzonte (in virtù delle  riforma del 1995 e poi del 2012)  più rapidamente nel caso della  vecchiaia, più lentamente per la più giovane platea  dei percettori  di quelle di anzianità  che, in aggiunta, gode di ammontati decisamente  più elevati  (e quindi più onerose per la fiscalità generale visto che  il  retributivo  commisura la pensione  alle ultime retribuzioni che  – specie nel caso dell’ anzianità –  è  ben diverso e più elevato dalle retribuzioni di ingresso). Una avvertenza è  d’obbligo. L’ impatto  della previdenza  nel determinare squilibri  ha una valenza del tutto particolare perché  inscindibile  dalle specifiche  condizioni del mercato del lavoro, a loro  volta  condizionate dalla dinamica dell’economia. In questo caso  quindi  le distorsioni e i connessi rilievi sugli  aspetti redistributivi  non  evidenziano  certo  una “negazione  di diritti di cittadinanza”  come  avviene esplicitamente  nel caso dei diritti alla  mobilità, salute e formazione che,   nell’esperienza del nostro sbilenco federalismo, sono frutto della  non applicazione di regole che esistono. Nella previdenza, al contrario,  gli squilibri  nascono  proprio  dall’applicazione precisa e puntuale  di  regole, riforme, che  si calano sui territori  con il loro carico implicito di vantaggi e svantaggi. Evidentemente lo sviluppo dei territori  è  segnato dalle  condizioni sia all’ingresso che  all’ uscita  dei mercati del lavoro locali,  non fosse altro perché  da esse dipenderà la facilità di  accedere  o meno  a una  pensione  e se essa sarà  di anzianità o di vecchiaia. Nell’esperienza italiana occorre ovviamente fare mente locale sulla pessima evoluzione di performance di un  Paese  che,  fino a  che era su un sentiero significativo di crescita,  poteva  scaricare sulla fiscalità generale  il finanziamento di  “privilegi” differenziati. Oggi, a valle di  oltre venti annidi stagnazione e crisi  le differenze  previdenziali  a carico della fiscalità generale rappresentano  un’ oggettiva  sottrazione  di risorse  proprio rispetto all’obiettivo di  promuovere  lo sviluppo  dei territori,  a fare infrastrutture per connettere il Paese e recuperare la leadership nel Mediterraneo,  ridurre le disuguaglianze e   far crescere la coesione.  Guarda caso proprio gli obiettivi ai  quali con durezza ci richiama l’ Europa. 

ANDREA BASSI per Il Messaggero il 9 settembre 2020. Il dossier, per lungo tempo, era stato insabbiato. Ora il progetto dell'Autonomia differenziata chiesta dalle Regioni del Nord, è tornato nell'agenda del governo e a ottobre, dopo le elezioni regionali, potrebbe essere presentato in Parlamento. Nonostante i tentativi di correzione rispetto a quella che era stata ribattezzata «la secessione dei ricchi», resta alto il rischio che le regioni con maggiori risorse possano lasciare ancora più indietro quelle che già oggi sono in affanno, ossia le Regioni del Sud. Il ministro degli Affari Regionali, Francesco Boccia, ha messo a punto una nuova bozza della legge quadro dentro la quale dovrebbero muoversi le intese con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Nell'ultima versione del testo, si torna a parlare per il finanziamento delle funzioni che dovrebbero essere trasferite di «compartecipazione al gettito erariale maturato nel territorio regionale». Cosa significa? Che lo Stato cederebbe un pezzo dell'Iva o dell'Irpef per pagare il costo delle funzioni trasferite dallo Stato centrale alla Regione. Il costo delle funzioni, questa volta, verrebbe stabilito attraverso il meccanismo dei fabbisogni standard e non più sulla base del costo storico, come prevedevano le intese dell'era giallo-verde. Ma resta il fatto che se anno dopo anno, il costo del servizio resta immutato e il gettito fiscale aumenta, quel surplus rimarrebbe nelle casse della Regione e non andrebbe più in quelle dello Stato centrale. Che il punto sia estremamente delicato lo dimostra anche la «clausola di salvaguardia» inserita nella bozza della legge quadro. In sostanza, dice questa clausola, se sul fronte dei conti pubblici le cose vanno male per lo Stato, allora si potrà chiedere alle Regioni che hanno ottenuto l'autonomia di partecipare al risanamento. Un principio di equità che nemmeno dovrebbe essere messo in discussione e che, invece, viene affidato a una disposizione di rango primario e a patto che le stesse misure vengano contestualmente imposte a tutte le altre regioni a statuto ordinario. Grande assente della proposta del governo, invece, è ancora una volta Roma, di nuovo dimenticata. L'autonomia regionale avviene per «sottrazione» di risorse alla Capitale, senza che il governo, ancora una volta, si preoccupi del destino della città. Il decentramento di funzioni amministrative, oggi svolte dai ministeri romani, avrà inevitabilmente un impatto, sul quale al momento all'interno del governo non c'è nessuna riflessione o discussione. L'altro tema sul quale si era molto dibattuto, è il ruolo del Parlamento nell'emendare le intese tra governo e Regioni. Nel precedente tentativo del governo giallo-verde, le intese erano state blindate, il Parlamento avrebbe potuto approvare o rigettare gli accordi ma senza poterli modificare. Le cose, in realtà, cambiano poco anche con la nuova legge quadro. Il Parlamento potrà pronunciarsi sulle pre-intese tra governo e Regioni. Avrà 60 giorni per fare delle osservazioni che potranno o meno essere recepite. Passato questo termine, governo e Regioni potranno firmare gli accordi che, a quel punto, potranno essere approvati o rigettati dal Parlamento. Alcuni passi avanti rispetto al passato sono comunque stati fatti. Il principale riguarda la circostanza che le funzioni non potranno essere trasferite fino a quando non saranno pronti i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Asili, trasporti, mense, insomma, devono avere un analogo livello su tutto il territorio nazionale. È un passo avanti decisivo rispetto alla vecchia impostazione in cui di Lep non si parlava affatto. Nei tre articoli della bozza, poi, è prevista anche la nascita di un fondo di perequazione infrastrutturale. Entro il 30 giugno del 2021, dovrebbe essere fatta una rilevazione del deficit infrastrutturale nelle Regioni meridionali. Poi entro sei mesi andrebbero presentati dei progetti per colmare questo deficit, da finanziare destinando una percentuale (che nella bozza della legge quadro non è ancora indicata) delle risorse statali per le infrastrutture. È ovvio che la valenza di questa norma (che potrebbe essere spostata direttamente in legge di bilancio), dipenderà proprio da quella percentuale. Che dovrà superare il minimo sindacale del 34%.

Rispunta la secessione dei ricchi. Ma ora i paletti sono invalicabili. Torna l’autonomia differenziata con la strana alleanza fra sinistra emiliana e leghisti lombardo-veneti. Pietro Massimo Busetta il 10 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tornano le problematiche accantonate con il lockdown. Tra queste l’autonomia differenziata è già al centro del dibattito. Forti della pressione delle regioni, in una strana mescolanza tra quelle di sinistra come l’Emilia Romagna e quelle leghiste come la Lombardia ed il Veneto. Ma ormai è abbastanza assodato che vi sia un accordo tacito tra la sinistra emiliana con le punte di Milano e Bergamo e la gestione leghista di Lombardia e Veneto, a cui presto si aggiungeranno le altre regioni del Nord. Il tema di fondo riguarda l’esigenza e la volontà da parte delle regioni ricche di tenersi il loro surplus fiscale. Come fossero degli Stati autonomi vogliono utilizzare le risorse che producono, in maniera da poter consentire ai propri concittadini degli standard di welfare, che lo Stato non potrebbe consentire se dovesse trovare le risorse per tutti. Asili nido ? Scuolabus? Sanità ? Scuola? Perché non dare servizi sempre più completi se la Regione ha un surplus fiscale che lo consentirebbe? Dopo anni di propaganda leghista su un Sud sprecone e parassita che aspira ad un reddito senza lavoro, ritornare indietro ai concetti di solidarietà e di diritti di cittadinanza uguali per tutti non ë complicato ma impossibile. E quindi Francesco Boccia non potrà che riprendere il vecchio progetto e cercare di renderlo più equo possibile, avendo chiaro però che la pressione delle forze politiche, con poche eccezioni, anche all’interno del PD, é verso una regola: ognuno si tiene le risorse che produce. Quella che é stata definita la secessione dei ricchi, quella che é stata contestata con dati inequivocabili di risorse pro capite assolutamente sperequate tra una parte e l’altra del Paese, alla fine avrà una sua legittimazione normativa, visto che ad oggi la distribuzione delle risorse ha aspetti di incostituzionalità. Già se vi saranno i correttivi relativi ai livelli essenziali di prestazioni, i cosiddetti Lep, e se la riforma non andrà avanti fino a quando tali livelli, come peraltro era previsto, non saranno calcolati, se ciò avverrà sarà un gran risultato. Suona strano che tutto questo possa avvenire malgrado la presa di coscienza di molte regioni meridionali, ed il dibattito ampio che ha coinvolto enti di ricerca, come la Svimez, tanti ricercatori e molte delle università meridionali, che hanno concluso che l’autonomia differenziata in realtà porta a tanti staterelli. E malgrado che l’esperienza Covid abbia mostrato l’esigenza di una linea di comando unica, visto i danni che le decisioni di singole Regioni hanno portato al bene comune, con decisioni su distanziamenti, mezzi pubblici, chiusura di Universitá che hanno avuto ripercussioni su le altre regioni estremamente rilevanti. Peraltro si vuole portare l’accordo in Parlamento in una forma blindata, che non consenta molte modifiche perché é chiaro a molti che se si apre un dibattito e più parlamentari del Sud, in genere disattenti e concentrati sulle loro esigenze spicciole, realizzano gli effetti di una tale riforma potrebbe avvenire che si blocchi tutto. Anche se la forza di “moral suasion” ed il potere dei partiti non é da sottovalutare. Se dovesse passare diventerebbe normale ciò per cui si é gridati allo scandalo e cioè che alcuni servizi siano differenziati per aree, per cui le realtà più ricche li avrebbero di un livello diverso e superiore rispetto a quelle più marginali e periferiche. L’effetto sarà quello di alcuni comuni del Trentino che hanno i marciapiedi di marmo ed altri comuni del Sud che non hanno nemmeno i marciapiedi in cemento. Ma al di là degli effetti rispetto alle popolazioni delle singole regioni, alcune delle quali saranno molto soddisfatte ed altre invece molto meno, è evidente rispetto gli effetti che produrrà una tale normativa rispetto al sistema Paese. Le regioni del Sud avranno un processo di sviluppo più lento, cosa che inciderà sull’evoluzione dei territori in termini socio culturali. Per cui per esempio meno investimenti nella scuola porteranno il permanere della dispersione scolastica, una qualità più scadente dei territori e delle città ad un più difficile sviluppo turistico. In generale il processo di messa a regime di un terzo del territorio e della popolazione del Paese sarà più lento con conseguenze sullo sviluppo turistico, già molto contenuto, e di quello manifatturiero perché é evidente che una realtà con servizi meno efficienti avrà più difficoltà ad attrarre investimenti dall’esterno dell’area. Insomma tutto il contrario di quello che ha fatto la ricca Germania con la ex DDR, per la quale ha previsto un prelievo fiscale apposito per accelerare lo sviluppo di quelle aree, cosa che ormai é quasi avvenuta, e che ha portato la Germania a primeggiare in Europa e nel Mondo. Sono scelte: ogni Paese fa le sue. Noi possiamo continuare ad utilizzare il Sud come area per le produzioni inquinanti, non valorizzare la piattaforma logistica del Mediterraneo, non investendo adeguatamente nelle infrastrutture ferroviarie di alta capacità e velocità, magari privilegiando in tal modo Genova o Trieste , ma prevalentemente Rotterdam ed Aversa. Possiamo diventare terzi o quarti per presenze turistiche, superate da Spagna e Francia, pur avendo Pompei ed Ercolano, due vulcani attivi, Stromboli ed Etna, i parchi archeologici più belli del Mediterraneo come Paestum, Selinunte ed Agrigento, i bronzi di Riace in una città sporchissima; possiamo fare tutto questo ma dobbiamo pure sapere che il problema non sarà di Reggio Calabria o Agrigento, ma che quello che perde in presenze turistiche il Mezzogiorno lo perde il Paese, che presto sarà costretto a intervenire con il numero chiuso a Venezia e Firenze. Mentre le realtà bulimiche del lodigiano, del bresciano o del bergamasco soffriranno sempre di più per un inquinamento dovuto ad una concentrazione di manifatturiero che alla popolazione potrà portare poco. Perché al massimo in una famiglia potranno lavorare marito moglie e i figli, ma se serviranno altri occupati si dovranno far venire dal Sud, dalla Polonia o dalla Romania se non dalla lontana Cina. Sembra una logica facile da comprendere ed invece il nostro Paese, in una visione campanilistica e provinciale, non riesce ancora ad avere chiaro che se non cresce lo stivale esso si tira dietro tutti. E che l’ipotesi di staccarsi e lasciare alcuni territori annegare non é praticabile, perché le reazioni, strutturate o alla Masaniello, costringeranno il Paese a fare i conti con un disagio diffuso ed amplificato da una mobilità che sbatte in faccia le differenze tra i marciapiedi di marmo e la mancanza di essi.

Il Nord smascherato dai numeri certificati nega al Sud gli stessi diritti di cittadinanza. Provate a spiegare perché un bambino nato a Reggio Calabria debba avere meno servizi, meno tutele, meno possibilità di un coetaneo nato a Reggio Emilia. Pietro Massimo Busetta il 9 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud.  Sessanta miliardi in meno al Sud, ogni anno. Questo l’importo che viene sottratto ai cittadini italiani/meridionali con la spesa storica. Questo il dato che va assolutamente contestato da parte delle lobbies degli interessi della sinistra tosco emiliana con le propaggini dei comuni di Milano e Bergamo e della destra leghista lombardo veneta. I centri studi, gli studiosi, gli accademici, la commissione appositamente costituita da Zaia, avranno modo di analizzare la cifra e la logica di tale impostazione. Malgrado lo stato della sanità, della scuola, delle infrastrutture stradali e ferroviarie, conseguenza anche del minore importo destinato di risorse nazionali, bisogna a tutti i costi dimostrare che tale evidenza è falsa, che in realtà il Mezzogiorno è stato invece sovra assistito, che le risorse sono state non abbondanti, ma assolutamente enormi e che il Sud è solo un enorme pozzo, che assorbe ed inghiotte fondi che il generoso Nord concede. Che in realtà è solo una palla al piede di quell’Italia operosa e lavoratrice, che ha sempre dato e che ora è stanca di continuare a farlo. Anche se i dati sono quelli della Corte dei Conti, dell’Istat e non di un centro studi periferico, bisogna trovare il modo di contestarli. Povero agnello che sporca l’acqua del lupo, che sta in alto. E che vorrebbe dimostrare che normalmente l’acqua scende verso il basso. Troppo comoda è stata la possibilità di avere una colonia, che per tanti anni è servita da mercato di consumo, che ha dato risorse formate quando servivano, la cui dimensione demografica può essere giocata sui tavoli internazionali per poter dire che siamo un grande Paese, con 60 milioni di abitanti, e che quindi è giusto dare l’Expo internazionale a Milano, le Olimpiadi invernali a Cortina/Milano, l’agenzia del farmaco persa ma richiesta da Milano, il tribunale dei brevetti a Milano e l’agenzia dell’innovazione a Torino. La forza di fuoco dei quotidiani, dei media, dei ricercatori asserviti, delle istituzioni nazionali silenti rispetto a tali problematiche, dei dati medi che nascondono i due Paesi è talmente ampia che non sarà certo il Quotidiano del Sud a svegliare coscienze e politici. Anche se ormai il gruppo di chi vuole vederci chiaro diventa un po’ più ampio ed alcuni, prima silenti e distratti, cominciano a svegliarsi, la reazione sarà tale da andare avanti ancora per qualche anno. In attesa che le pietre, che finora sono state zitte, parlino. Con lo stato delle ferrovie, della scuola, della sanità al Sud, con lo spopolamento dei territori, con un mercato di consumo sempre più contenuto. Ma sopratutto con una sempre maggiore marginalità di un Paese, che non valorizza la sua posizione di piattaforma logistica del Mediterraneo, che perde i grandi traffici marittimi a favore di Rotterdam ed Anversa, che perde il primato per presenze turistiche in Europa, che non riesce a crescere ai ritmi degli altri partner europei, che continua a non capire che mettere a regime un terzo del territorio non è un favore che viene fatto ai “cafoni” meridionali ma una strada obbligata per tutto il Paese. Per contestare le evidenze che negli ultimi mesi sono diventate le basi per qualunque discorso sul Sud bisogna negare che vi siamo gli stessi diritti di cittadinanza. Ed affermare che ognuno debba gestire le risorse che produce. Se la base di partenza diventa questa non vi è alcuna sottrazione di risorse. È infatti noto che ogni anno risorse prodotte nel Nord del Paese vengono destinate al Sud. Che il saldo è certamente tale per cui l’affermazione che il Sud sia assistito è corretta. Un ragionamento che sarebbe valido se fatto tra Stati diversi, che diventa pretestuoso se fatto tra Regioni e che metterebbe in discussione i principi fondanti della Costituzione. In particolare l’articolo tre che al primo comma stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di razza, di lingua, di condizioni personali e sociali. Accettato il principio che le risorse vengono utilizzate da chi produce dovremmo dare servizi migliori alle aree ricche delle città, che hanno un reddito pro capite più elevato a scapito delle periferie dove, normalmente abitano i più poveri. È quello che si è fatto con il Mezzogiorno negli ultimi anni e che si voleva statuire con la richiesta di autonomie differenziate, fatte approvare con dei referendum ai lombardi ed ai veneti con il mantra “non vogliamo più mantenere il Sud”. Il principio se attuato prevederebbe che malgrado i doveri di ogni cittadino sia come contribuente che rispetto alla sicurezza del Paese siano uguali, in realtà poi abbia diritti diversi se nato a Reggio Emilia rispetto a Reggio Calabria, per cui in un caso ha diritto agli asili nido ed ai scuolabus gratuiti, nell’altro invece no. In realtà se confrontiamo i diritti degli svedesi e degli italiani rispetto allo Stato sociale ci accorgiamo che in Svezia essi sono molto più ampi che in Italia. Il concetto era di fare in modo che si ripetesse tale situazione in Italia, per esempio tra Emilia Romagna e Sicilia. Se ai “cafoni” meridionali avessimo chiesto perché andavano a combattere sul Carso ed a difendere aree che parlavano dialetti diversi la risposta sarebbe stata “vado a difendere i confini del mio Paese”. Aree che avevano un clima diverso dal suo di origine ma che avevano la stessa bandiera e lo stesso inno. Se adesso si vuole mettere in discussione l’Unità nazionale lo si può fare. La Cecoslovacchia si è divisa in due parti. La ricca Repubblica Ceca e la povera Slovacchia, entrambi appartenenti all’Unione, vanno avanti con incremento di reddito che vedono la già povera Slovacchia avere tassi di crescita più elevati. Mentre la Germania in una visione ampia ha deciso la riunificazione tra le due parti, diventando la potenza economica industriale più importante dell’Europa, assistendo per decenni l’ex DDR, in una visione di rafforzamento del Paese che ha dato già oggi i suoi risultati. Le strade possono essere diverse, ma nessuno pensi di comportarsi come se i Paesi fossero due e poi giocarsi sui tavoli internazionali una dimensione demografica importante. Lo ha fatto fino adesso il Nord, ma il treno ha fischiato, ed anche l’Europa ci ricorda che così non si può andare avanti.

STUDENTI IN FUGA DALLE CITTÀ SETTENTRIONALI. Si svuotano gli appartamenti al Nord, ora conviene investire al Sud. Luca La Mantia il 7 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Storie di anni a spartirsi stanze e spazi comuni, di convivenze forzate dalla necessità, di liti per il lavandino pieno o per i turni in bagno. Di festini improvvisati fra quattro mura, di sogni e di nostalgie, di moke che sbuffano fumo di caffè bruciato mentre gli occhi corrono sui libri. Di lavori occasionali per pagarsi l’affitto, una serata in compagnia e per riempire frigo e dispensa di junk food; giusto per andare avanti sino al prossimo ritorno a casa, per Natale e per Pasqua, quando le valigie torneranno cariche di parmigiane, lasagne e vasetti di pesto e ragù, stipati nei freezer. È una vera e propria generazione quella degli studenti fuori sede Il dato che emerge da un’analisi dell’Ufficio studi di Immobiliare.it secondo cui l’epidemia sta letteralmente svuotando le città universitarie più quotate, in particolare quelle del Nord. La conseguenza è un boom dell’offerta di stanze singole e posti letto in affitto nel 2020, con picchi che sfiorano il più 300% rispetto al 2019. È il caso di Milano, la metropoli maggiormente colpita dal fenomeno, dove l’incremento raggiunge il 290%. Segue la Bologna dell’Alma Mater, con un più 270% di vani sfitti. A Padova in un anno l’offerta è quasi triplicata (+ 180%) e lo stesso vale per Firenze + 175%). Raddoppiata, invece, a Roma + 130%), Torino (+ 108%) e Napoli (+ 100%), appena fuori dalla Top 5. Le altre città del Mezzogiorno che figurano nella classifica sono Bari (+60%), Palermo (+ 43%) e Catania (+ 30%). I locatori meno interessati sono quelli di Pisa (+ 12%), mentre la media nazionale segna un + 143%. «Didattica a distanza, smart working e South working hanno fatto registrare quest’anno un boom dell’offerta di stanze e posti letto che in alcuni casi, come a Milano, risulta quasi quadruplicata rispetto al 2019 – ha spiegato l’Ad di Immobiliare.it Carlo  Giordano –  Studenti e lavoratori che sceglievano soluzioni abitative transitorie, come quelle di una stanza singola o di un posto letto in una doppia, hanno preferito in molti casi abbandonare momentaneamente le città». La crescita dell’offerta ha frenato quella del caro prezzi, rimasti sostanzialmente invariati. Anche perché nel 2020 non si è rilevata alcuna impennata sui costi di questa tipologia di locazioni. La città più salata resta Milano, dove la media del canone mensile richiesto è di 565 euro per una singola e di 345 euro per un posto letto in doppia. Al secondo posto – a debita distanza – c’è Roma; nella Capitale la media del prezzo richiesto è di 438 euro per una stanza e di 287 euro per un letto. Seguono  Bologna  e  Firenze  dove per affittare una singola sono necessari circa 400 euro. Sotto la soglia dei 400 euro si trovano poi  Venezia  – dove per una singola si chiedono  in media 358 euro  –  Napoli (338 euro la singola) e Torino (330 euro).  La maggior convenienza delle città del Sud può offrire interessanti prospettive di investimento e, quindi, di rilancio del Meridione. Se ne parla in un’altra analisi di Immobiliare.it nella quale si sottolinea che con la progressiva messa a sistema del lavoro agile potrebbe venir meno la necessità di trasferirsi stabilmente nelle altre macroregioni. Piuttosto che mettere in conto 3/4mila euro al metro quadro, richiesti ad esempio a Milano per comprare casa – sostiene il portale – si potrebbe optare per le località del Mezzogiorno, dove il prezzo spesso non supera i mille euro al metro quadro e addirittura, nelle realtà più economiche, non raggiunge i 750 euro. Senza dimenticare, conclude l’articolo, le politiche di quei comuni meridionali che promuovono il ripopolamento vendendo immobili “a cifre simboliche o che addirittura  pagano chi si trasferisce in un piccolo centro con pochi abitanti”.

CE L'HANNO FATTA: SIAMO ULTIMI IN EUROPA. Tutti i disastri della Conferenza Stato-Regioni: ecco perchè va abolita. Roberto Napoletano l'11 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Con una politica miope la governance lombardo-emiliana ha fatto in modo che Sud e Nord dell’Italia siano i due unici territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007-2008 e che il Pil pro-capite dell’Italia sia sotto la media europea. I “NOCCHIERI intraprendenti” lombardo-emiliani hanno portato a sbattere la nave italiana sugli scogli con una forza d’urto che non ha pari in Europa superando perfino la Grecia. Sono stati venti anni di mare sempre più tempestoso, i nocchieri hanno sbagliato tutto con sempre maggiore convinzione, cercavano approdi sicuri solo per loro e i loro cari, facevano la morale agli altri e continuavano a riempire le stive di ogni genere di vettovaglia e mercanzia che sottraevano agli altri a cui facevano la morale.

Non hanno deposto l’arroganza, vogliono continuare come pazzi a farci sbattere, si rifiutano di prendere atto dei disastri che hanno prodotto, non intendono cambiare la rotta. Anzi. Hanno ripreso a fare soffiare il vento del Nord. Puntano senza neppure capirlo all’eutanasia dell’Italia facendo del Nord il nuovo Sud dell’Europa e del Sud un’area di sottosviluppo del mondo. Siamo sinceri: abbiamo paura. Avere azzerato gli investimenti pubblici produttivi nel Mezzogiorno per “regalare” 600 miliardi (molta assistenza) al Nord negli ultimi dieci anni, ha fatto dell’Italia un Paese con un reddito pro capite nazionale che è precipitato sotto la media europea e dove un terzo della popolazione a sua volta ha un reddito pari alla metà degli altri due terzi. A furia di estrarre dal bilancio pubblico italiano sottraendo alle aree deboli le risorse necessarie per fare infrastrutture di sviluppo e distribuendole alle aree forti per aumentare la rendita sanitaria privata e mille privilegi assistenziali-clientelari, ci si ritrova con il Piemonte sotto la media europea, Marche e Umbria già Sud da quel dì, Toscana due punti sopra, Friuli Venezia Giulia e tutto il Nord lì lì sull’orlo del burrone per raggiungere il Piemonte sotto la soglia fatidica, il Sud d’Italia fuori dall’Europa a livelli da continente africano. Questa politica miope dell’irresponsabilità appartiene alla Sinistra Padronale tosco-emiliana e alla Destra leghista lombardo-veneta che hanno da sempre saldamente nelle loro mani congiunte il controllo della Conferenza Stato-Regioni e, suo tramite, la governance reale della spesa pubblica. Questa politica miope ha fatto in modo che Sud e Nord dell’Italia sono i due unici territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007/2008 ma anche quelli che hanno perso cumulati quasi 4 punti di Pil dal 2001 a oggi (3,9% per la precisione), si collocano addirittura del 6,18% sotto la media europea e si avviano a conseguire la peggiore performance in Europa nell’anno della Grande Depressione mondiale da Covid “umiliando” perfino la Grecia. Di fronte a questo scempio, bisogna avere almeno il coraggio di dire le cose come stanno. La Conferenza Stato-Regioni va abolita. Il luogo decisionale dell’iniquità più miope che abbia mai conosciuto un Paese occidentale va eliminato ad horas senza riguardi. La perequazione dei diritti di cittadinanza per la spesa sociale (scuola e sanità) e quella per la spesa infrastrutturale va fatta direttamente dallo Stato centrale. Che si deve dotare di una squadra di prim’ordine, composta badando esclusivamente alla competenza e alla esperienza, e adottare un criterio rigoroso nella ripartizione territoriale della spesa che assomigli a quello del proporzionale puro se no il vento del Nord e dei suoi irresponsabili nocchieri continuerà a impoverire il Sud e a fare assistenzialismo al Nord violando la Costituzione e portando l’Italia intera ai margini dell’Europa. Parallelamente va disegnato e attuato un progetto organico di interventi con un modello che metta insieme Alta velocità ferroviaria, porti, retroporti, Ponte sullo Stretto e fiscalità di vantaggio chiamandolo per quello che è: progetto Italia, non progetto Mezzogiorno. Non si scherza più perché questa volta indulgere alla solita regola ottusa dei ricchi che espropriano i poveri significa l’eutanasia dell’Italia. È l’ultimo obiettivo che gli è rimasto da raggiungere con la loro gioiosa macchina da guerra. Se non li si ferma in tempo, si placheranno solo quando tutto sarà raso al suolo in una spirale di egoismi senza freni. Siccome da soli non si fermeranno mai bisogna togliergli il giochetto dalle mani. Per un po’ sbraiteranno, ma non fanno più paura a nessuno. Dopo qualche anno ringrazieranno. Perché capiranno la differenza tra un’idea generosa di Paese che si muove unito costruendo il suo futuro e un’idea egoista che racconta la favola del Nord produttivo senza rendersi conto che è diventato Sud da quel dì perché si è tagliato le gambe da solo. Questo non lo ammetteranno mai, sarebbe troppo, ma ringrazieranno le classi dirigenti europee e italiane che li avranno fatti ragionare.

Il disastro della politica che omaggia il Nord: il Pil pro capite sprofonda sotto la media Ue. Adriano Giannola, Presidente Svimez, l'11 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. invano – si provava a mettere in guardia i nocchieri che la scialuppa tricolore stava scendendo, in omaggio all’ormai risibile questione settentrionale, con inesorabile, rara maestria nel gorgo con la prospettiva di infrangersi sul fondale roccioso della realtà. È ora ufficiale la notizia (Eurostat) che nel prepandemico 2019 il Pil pro capite italiano, espresso in euro 2010, ha toccato quota 26.860, attestandosi su un livello inferiore alla media Ue del 6,18% (-1769,3 euro), e (udite, udite) ha accusato un calo del 3,9% (-1090 euro) rispetto al 2001. Che questo esito fosse ineluttabile era chiaro da anni, ma non era politicamente corretto parlarne senza essere accusati di essere una “Cassandra sfascista”, tanto più se il fastidioso flebile richiamo veniva dal ghetto meridionale ove i nocchieri avevano confinato circa venti milioni di persone in regime di cittadinanza limitata.

LA LINEA D’OMBRA. Il postino della Ue non ha avuto bisogno di suonare due volte per notificare che il Bel Paese da orgoglioso “contributore netto” passa a “prenditore netto”. Abbiamo superato la linea d’ombra, uno spartiacque che dovrebbe far seriamente riflettere lombardi, emiliani, veneti, per non dire liguri, friulani, piemontesi e toscani che non potranno più fingere di non sapere e non vedere o, come si dice a Napoli, non potranno continuare a fare gli scemi per non andare alla guerra. Che siamo in guerra lo si dice da anni; che la stavamo perdendo era evidente, non fosse altro per il fatto che con buona pace delle locomotive, il “vento del Nord” nel 2019 era ancora in debito rispetto al Pil del 2007 di 3 punti percentuali, per non parlare degli oltre 8 punti resi dal Sud. Ritardi che ora si moltiplicano a valle del corto circuito della pandemia e che – pur considerata la ripresa del 2021 – aumenta a dismisura il ritardo dall’Europa. A complemento del dato nazionale la tabella in basso mostra come già nel 2017,oltre a Marche e Umbria già arruolate, Piemonte, Toscana e Friuli erano buone candidate a entrare nel gregge delle regioni della coesione e tutte le regioni, a partire da Lombardia ed Emilia Romagna, patiscono vistosi arretramenti nei ranghi delle 280 regioni europee.

IL PD NON VEDE OLTRE. L’attesa, o meglio l’auspicio di una seria presa d’atto del disastro annunciato e di una franca disponibilità di fare punto e a capo, è andata finora completamente delusa. Certo – dismessa la iniziale baldanzosa tracotanza – il ridotto del Lombardo-Veneto-Emiliano oggi implora di non dimenticare il Nord, non tanto per bocca della frastornata Lega (partito “neo-nazionale” né carne né pesce) bensì per bocca del solipsistico Pd a trazione emiliana ancora ebbro della vittoria – sardine, nume tutelare di non si sa quale progetto di usurato localismo mitteleuropeo oggi in oggettiva sintonia con una incomprensibile Confindustria. Preoccupante che il Pd nazionale si accodi, non riesca a vedere molto oltre i campanili, succube dell’assioma che l’Italia è il ridotto Lombardo-Veneto-Emiliano.

IL PROGETTO-SISTEMA. Ragionare per assiomi – per definizione indimostrabili – è già pericoloso. Diabolico sarebbe insistere su questo mal posto, che in oltre venti anni ha provocato danni incalcolabili. Ricordiamo sempre che all’alba del 20 luglio a Bruxelles l’Italia ha vinto solo una battaglia; ha ottenuto un mandato dall’Unione che chiede un drastico cambiamento di rotta, non per la manutenzione del motore bensì per un’operazione capace di attivare da Sud quel secondo motore indispensabile per riagganciare il Mediterraneo all’Europa. Che questa transizione si accompagni a una macroscopica operazione perequativa nell’uso delle risorse non è una novità; caso mai dovrebbe essere l’occasione di un confronto oggi reso possibile proprio perché la disponibilità delle risorse consente di intervenire sulle scandalose evidenze documentate dall’operazione verità senza avviare una strisciante guerra civile.

Spetta perciò all’Unione europea garantire il rispetto di condizionalità perentorie: investimenti su progetti finalizzati a ridurre le disuguaglianze e a garantire sviluppo sostenibile; spetta al governo avere il coraggio di avere coraggio e di impegnarsi su un progetto-sistema che non può continuare a esorcizzare il tema del dualismo alimentando vizi e storture che hanno fatto di noi il grande malato d’Europa.

L’INQUALIFICABILE SCIPPO AL SUD CHE MANDA IN ROVINA L’INTERO PAESE. Un’ingiustizia, certificata da Corte dei Conti e Parlamento, che sottrae al Mezzogiorno i servizi essenziali. Vincenzo Damiani l'11 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. L’Italia resta spaccata in due e lo Stato continua a fare figli e figliastri. Un’evidenza certificata da fonti autorevoli: dalla Corte dei conti alla Svimez, passando dal Parlamento stesso e dalla recente indagine promossa dalla presidente della commissione Finanze. I numeri sono sotto gli occhi di chi vuol vedere, il primo è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che nel solo 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale al Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo ai cittadini del Sud.

SCARTO INIQUO. Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti pubblici territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico. Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4%, in crescita dello 0,4% rispetto al triennio precedente, fra quanto il Sud avrebbe dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto ha avuto in realtà. I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2% degli italiani, portano a casa appena il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Tendenza invertita dal Centro- Nord che riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe: il 65,7% della popolazione accede al 72,1% delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno; per uno del Sud appena 13.144.

GLI INVESTIMENTI. La situazione non cambia se guardiamo a quanto spende lo Stato per gli investimenti, cioè la spesa in conto capitale: se negli anni Settanta allo sviluppo del Sud veniva destinato lo 0,85% del Pil, nel periodo 2011-2015 tutto si è ridotto allo 0,15%. Altro che Alta velocità, infrastrutture moderne, ponti sullo Stretto: di questo passo continuerà a essere difficile rattoppare una strada provinciale del Sud.

FONDI DI COESIONE. Come se non bastasse, lo scippo è proseguito sui soldi che spettano di diritto al Mezzogiorno, quello del Fondo coesione: in questi anni i fondi europei sono stati la pezza sui buchi creai dai governi nazionali. Una pezza che in teoria dovrebbe essere “aggiuntiva” rispetto agli investimenti nazionali, ma negli ultimi 13 anni è successo esattamente il contrario: l’Italia ha tagliato i fondi di Sviluppo e coesione, destinati per l’85 per cento al Sud, e ha dirottato le relative risorse su altre voci di spesa. Ecco i numeri, elaborati sui dati della Ragioneria generale dello Stato. L’importo complessivo destinato dalla Finanziaria per il 2007 al Fondo sviluppo e coesione per la programmazione 2007- 2013 ammontava a 63,273 miliardi. Oltre un terzo, 22,3 miliardi, è stato dirottato con una successiva delibera Cipe sul risanamento dei conti pubblici durante la crisi dei debiti sovrani. A crisi arginata, nel periodo di programmazione 2014- 2020, i 68,8 miliardi del Fondo hanno subito una decurtazione di 9,5 miliardi, che sono andati a coprire altri provvedimenti legislativi. A conti fatti, 31,8 miliardi di tagli in 13, di cui oltre 27 (l’85%) pagati dal Mezzogiorno.

GLI AIUTI DI STATO. E non è finita qui: a completare l’opera l’impiego degli aiuti di Stato, risorse destinate dall’Amministrazione centrale alle imprese, nel rispetto delle norme europee. Da agosto 2017, la Lombardia ha ricevuto 3,5 miliardi di euro in aiuti di Stato, quasi sei volte i 600 milioni incassati dalla Calabria. A primo impatto, il dato generale risulta equilibrato: le risorse concesse vanno infatti per il 38,3% a imprese delle regioni Meridionali e per il 61,7% ad aziende del Centro Nord. Ma approfondendo la questione, ecco che salta fuori qualcosa che non va: basta scomputare dal totale il denaro proveniente dai fondi europei, per trovarsi davanti tutto un altro film. Il Centro Nord si accaparra il 73,2% degli aiuti, al Sud va appena il 26,8%. Ben al di sotto della quota di garanzia del 34%. Nel Mezzogiorno solo tre regioni su otto ricevono risorse uguali o superiori al miliardo di euro: la Campania (2,2 miliardi), la Sicilia (1,7 miliardi) e la Puglia (1,6 miliardi). L’Abruzzo, regione il cui tessuto economico è stato messo in difficoltà anche dagli eventi sismici degli ultimi anni, si fermato a 600 milioni.

BANKITALIA. Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, recentemente ha ribadito due concetti fondamentali per la ripresa: giustizia sociale e riduzione delle disuguaglianze. Non è entrato nel merito dei temi, ma è evidente che l’unica manovra economica che abbia un senso è quella che mette al centro il rilancio del Sud, per azzerare le diseguaglianze con il Nord. Il primo punto che Visco ha posto è il recupero del ritardo accumulato nelle infrastrutture: sia quelle tradizionali, da rinnovare e rendere funzionali, sia quelle ad alto contenuto innovativo, come le reti di telecomunicazione. Ecco, all’Italia serve correggere questa stortura. Come? Riportando gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del Pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi.

LA RETE STRADALE. Nel Mezzogiorno si contano anche meno autostrade, a discapito di cittadini e del tessuto produttivo nazionale: al Sud ogni impresa può contare su meno di 20 km di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest, con la Puglia fanalino di coda con appena 7,9 km per azienda. Partiamo dalle autostrade: a fronte di una media nazionale di 23 km ogni 1.000 kmq, al Sud si scende a 20 km/1.000 kmq, con la Basilicata ferma a 3 km/1.000 kmq e il Molise a 8 km/1.000 kmq.

LA SANITÀ. Persino in un settore delicato come la sanità, il Sud è storicamente penalizzato: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno, infatti, visto aumentare la loro quota, in media del 2,36%; mentre per altrettante regioni del Mezzogiorno la fetta è lievitata solo dell’1,75%, cioè oltre mezzo punto percentuale in meno. Sembra poca roba, ma tradotto in euro significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Infatti, mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati solo 685 milioni in più. Lo squilibrio ha permesso alle Regioni del Nord, non in Piano, di investire e assumere: le Regioni settentrionali, nel 2018, hanno speso 14 miliardi e 190 milioni per gli stipendi del personale sanitario a tempo indeterminato, nel 2019 c’è stato un incremento sino a 14 miliardi e 475 milioni. Le Regioni del Sud, invece, per i contratti di medici, infermieri, operatori sanitari a tempo indeterminato hanno potuto spendere meno della metà, cioè 6 miliardi e 726 milioni nel 2018, divenuti 6 miliardi e 805 milioni nel 2019. Gli aiuti e i soldi vanno quasi sempre al Nord, è un dato di fatto.

COVID E PRESTITI. Persino durante l’emergenza Covid-19 è stato così: lo ha denunciato a maggio la Federazione autonomi bancari italiani (Fabi) che ha svolto uno studio su come e a chi sono stati elargiti i prestiti garantiti dallo Stato da 25 a 800mila euro sino a quel periodo. Bene, il 50,7% era ad appannaggio di quattro regioni del Nord dove, però, era attivo solo il 38% di partite Iva e pmi italiane. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si erano assicurate oltre la metà dei finanziamenti con paracadute pubblico, ma in quelle zone del Paese opera, in proporzione, un numero di imprese e professionisti nettamente inferiore alla quota di crediti in arrivo grazie al decreto liquidità. Nel resto del Paese, opera il 62% di soggetti economici, ma la quota di prestiti a fine maggio si era fermata al 49,3%. Nulla di nuovo, d’altronde ogni giorno il Sud “perde” circa 170 milioni: a tanto ammonta, su base giornaliera, il bottino da 62,3 miliardi che ogni anno, dati del Sistema dei conti pubblici territoriali alla mano, viene sottratto al Sud e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale.

LA QUESTIONE SETTENTRIONALE CHE L’ITALIA NON VUOLE VEDERE. L'editoriale di Roberto Napoletano il 10 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Così si è riusciti nel capolavoro di fare vincere clientelismo e criminalità organizzata in territori sempre più estesi del Nord e di ridurre il reddito pro capite delle donne e degli uomini del Sud alla metà di quello del resto del Paese. Privando il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” e l’economia nazionale di una dimensione di impresa diffusa sui suoi territori e degna di un grande Paese. Il punto di forza dell’Italia di oggi è un Presidente del Consiglio libero dal condizionamento di questi interessi deteriori che sono quelli degli egoismi miopi del Nord che stanno conducendo l’Italia fuori dal novero dei Paesi industrializzati. La vera questione settentrionale sono i 600 miliardi malcontati indebitamente sottratti dalle Regioni del Nord alle risorse pubbliche di spesa sociale e di sviluppo dovute alle Regioni del Sud negli ultimi dieci anni. La vera questione settentrionale è l’azzeramento (0,15% del Pil) degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno d’Italia per consentire alla Regione Piemonte di spendere per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania riuscendo nel capolavoro di fare vincere clientelismo e criminalità organizzata in territori sempre più estesi del Nord e di ridurre il reddito pro capite delle donne e degli uomini del Sud alla metà di quello del resto del Paese. Privando così il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” che sono i consumi interni di venti milioni di persone e l’economia nazionale di una dimensione di impresa diffusa sui suoi territori e degna di un grande Paese industrializzato. La vera questione settentrionale sono gli spifferi lombardo-emiliani sull’imminente lockdown fatti filtrare dalla conferenza Stato-Regioni nei giorni caldi del Covid 19 che hanno determinato la fuga di notte dal Nord al Sud di studenti e lavoratori meridionali e hanno costretto la classe politica di governo e delle Regioni meridionali a chiudere economie regionali che potevano rimanere aperte. Sorvoliamo sul tam tam sanitario lombardo-emiliano che accusa le Regioni più indecentemente foraggiate dal bilancio pubblico italiano di avere voluto “scaricare” nelle regioni meridionali parte della loro emergenza sanitaria. Non ce la facevano con tutti i soldi in più che ingiustificatamente ricevono e volevano trasferire parte del problema su chi ingiustificatamente riceve molto meno di loro. La vera questione settentrionale è la caduta totale, rovinosa, delle grandi famiglie del capitalismo privato del Nord drogato da questa massa di denaro pubblico “rubata” per decenni al Sud che ha dato alla testa a molti e ha fatto smarrire il gusto della fatica e di competere nell’arena globale. La vera questione settentrionale è la perdita di un’idea di Paese come fu negli anni del Dopoguerra e che fu patrimonio comune del trentino De Gasperi e dei grandi lombardi come Vanoni e Bassetti. Ma davvero davvero vogliamo andare avanti con i Bonaccini che scappano dai loro doveri istituzionali di fare il fondo perequativo per la spesa sociale e per le infrastrutture di modo che il saccheggio continui indisturbato fino a radere al suolo l’economia del Nord e del Sud e che si preoccupano solo di proteggere il loro orticello di indebiti finanziamenti pubblici? Che cosa deve accadere perché i Bonaccini, i Gori, le Gualmini si rendano conto che il vero interesse del Nord, dell’Emilia-Romagna e della Lombardia, è la fiscalità di vantaggio e un piano di opere da attuare in quattro anni per fare ripartire il mercato interno del Sud e ridare al Nord la sua gallina dalle uova d’oro? È possibile che lo abbiano capito l’Europa tutta, la Bce, la Bei, la Banca d’Italia e non lo abbiano capito i big della Sinistra Padronale? Che cosa di terribile è accaduto perché persone di spessore come Bonaccini, Gori, Gualmini parlino e si comportino come il peggiore Bossi e ripetano il peggiore urlo padano secessionista nelle sue varie salse leghiste? Ma vi rendete conto di quanto pesa il silenzio della impresa privata e delle sue organizzazioni di rappresentanza che avrebbero dovuto chiedere loro, pretendere loro, e poi plaudire, la fiscalità di vantaggio nelle aree svantaggiate? In queste ore sarebbero dovute andare tutte insieme dal Capo del governo a ringraziarlo e a comunicargli: questi sono i nuovi investimenti che andremo a fare noi nel Mezzogiorno, questi sono quelli che siamo in grado di attrarre dall’estero. Che cosa possiamo fare noi per aiutare la comunicazione nel mondo che il nuovo mercato degli investimenti in Europa è il nostro Mezzogiorno oltre a dare il buon esempio? Invece no, senti addirittura dire nei conciliaboli privati: a noi non ce ne frega niente! Ma dove siamo finiti? Di che razza di capitalismo stiamo parlando? Lo diciamo con la consueta franchezza: crediamo che il punto di forza dell’Italia di oggi sia un presidente del Consiglio libero dai condizionamenti di questi interessi deteriori che sono quelli degli egoismi miopi del Nord che stanno conducendo l’Italia intera fuori dal novero dei Paesi industrializzati. Lo si accusa di essere un temporeggiatore ignorando che nella politica ci sono momenti in cui bisogna accelerare e altri in cui bisogna rallentare perché le cose vanno fatte nel momento giusto per farle. Sulla fiscalità di vantaggio Conte si è rivelato una teste d’ariete e così è stato anche per l’abuso d’ufficio e la responsabilità erariale, ancora prima quando si è trattato di buttare giù il muro della iniqua distribuzione della spesa pubblica e questo giornale era assolutamente solo, dopo le nostre inchieste e gli autorevoli interventi di Conte sul tema sono venuti dietro tutti. Così è stato e sempre più sarà per il pacchetto organico di interventi al Sud – alta velocità ferroviaria porti e retroporti – e sarà anche, auspichiamo, per il Ponte sullo Stretto. Oggi si parla di tunnel marino, poi si farà il Ponte perché abbiamo un Presidente del Consiglio che sa coinvolgere la sua base grillina e sa leggere i numeri. Al momento giusto il temporeggiatore tornerà a essere testa d’ariete. Ovviamente vigileremo.

Benvenuti al Sud: qui la vita si allunga. Al Nord l’aspettativa si sta accorciando. Nel Meridione si può arrivare  in media a 82 anni  ma in certe zone della Sicilia si va oltre. Carlo Porcaro il 25 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Al Sud è stata bloccata l’ondata del virus e si vive di più. Al Nord il Covid ha assunto i contorni della tragedia e si vive mediamente di meno. A fotografare la longevità degli italiani è l’Istat alla luce della pandemia, i cui effetti sono ancora in corso. Lo “scatto” è impietoso per chi ha già sofferto molto la cattiva gestione sanitaria del coronavirus. È infatti calata di 2 anni, da 84 a 82, l’aspettativa di vita nelle province del Nord Italia, in particolar modo in quelle colpite dal Covid-19, soprattutto nel Nord-ovest e lungo la dorsale appenninica. Si può vivere fino a 82 anni in media nel Meridione, ma in alcune province della Sicilia il post-Covid ha fatto persino salire la media e si “campa” di più.

I DATI. Sono i dati emersi dal Report dell’Istat focalizzato sugli “scenari di mortalità da Covid-19”, secondo cui invece «l’intensità nel cambiamento della speranza di vita alla nascita appare decisamente minore, e nella maggior parte dei casi trascurabile, in corrispondenza di buona parte delle province del Centro e del Sud. Per alcune di esse – ha registrato l’Istituto di statistica – si ha persino modo di registrare un miglioramento, ad esempio per talune province della Sicilia». I problemi più preoccupanti riguardano gli anziani, già deboli di loro, vittime preferite dal virus. Le stime sulla speranza di vita degli over 65enni si sono abbassate molto. In particolare, in tutte le province del Nord e parte di quelle del Centro un individuo al 65° compleanno poteva aspettarsi di vivere, in epoca pre-Covid, per altri 21 anni (mediamente), mentre con gli effetti di mortalità dovuti alla pandemia, tale durata – facendo riferimento allo scenario intermedio “moderato” – scenderebbe a circa 19. E il Mezzogiorno? Le Province meridionali «non sembrano tuttavia registrare variazioni di rilievo», il che significa che la situazione è rimasta di fatto invariata o leggermente migliorata. Stare chiusi in casa è servito a salvare la pelle, oggi e domani insomma.

LA CLASSIFICA. Bergamo e Cremona segnano una  riduzione della speranza di vita alla nascita che risulta superiore ai 5 anni; riduzione che a Bergamo arriva a raggiungere i sei anni allorché la si misura al 65° compleanno. Per cogliere meglio il significato delle variazioni osservate, «può essere utile collocare i livelli della speranza di vita localmente ipotizzati attraverso gli scenari disegnati per il 2020 nel quadro delle dinamiche rilevate, nel corso degli anni, per quegli stessi indicatori». Per alcuni territori si torna indietro di circa 20 anni, mentre al Sud la longevità è la stessa di prima. «La marcata incidenza della mortalità in corrispondenza della popolazione in età più avanzata porta con sé, là dove è presente, anche un significativo allentamento di quel fenomeno, noto come invecchiamento demografico, che identifica la crescita della componente anziana e che tradizionalmente era stato visto – almeno sino ad ora e stante le dinamiche demografiche da tempo in atto – come qualcosa di ineluttabile. Non a caso – si legge nel Report dell’Istat – la simulazione per il 2020 in assenza di Covid-19, mette chiaramente in luce come la quota di ultra 65enni sul totale dei residenti fosse destinata ad aumentare di altri 0,3 punti percentuali a livello nazionale, segnalando un incremento in pressoché tutte le Province».

PATRIMONIO DEMOGRAFICO. Il “patrimonio demografico” di ogni Provincia, inteso come il totale di anni-vita che competono ai suoi residenti in base alle aspettative di vita (e di riflesso alle condizioni di mortalità) di un dato periodo. In questo senso, «se si tiene conto dei cambiamenti nella speranza di vita alle diverse età prospettati dai diversi scenari si ha modo di cogliere come, ad esempio nello scenario moderato, alle condizioni di mortalità (di speranza di vita) ipotizzate vi siano alcune Province in cui si registra una riduzione del patrimonio demografico anche nell’ordine del 5-10%. Ciò è quanto accade per le Province di Bergamo, Cremona, Lodi, Piacenza, Brescia, Lecco, Parma e Pavia, mentre nel Centro e nel Sud, ad eccezione della Puglia, Calabria e Sardegna, si registrano variazioni del patrimonio demografico sostanzialmente nulle o in molti casi positive. In generale, va ricordato che la popolazione italiana di età tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi quindici anni. Lo ha detto Bankitalia nella sua ultima relazione annuale. «Le nostre proiezioni demografiche non sono favorevoli, anche tenendo conto del contributo dell’immigrazione, stimato da Eurostat in circa 200.000 persone in media all’anno», annunciò il governatore Ignazio Visco.

SUDISMI - Geo-paradosso e alta incapacità: isolati i porti del Sud vicini a Suez. Il Paese non si è attrezzato per sfruttare la posizione geografica che ne fa una piattaforma logistica nel Mediterraneo. Pietro Massimo Busetta il 24 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quattro cose da fare subito! Così la campagna che ha iniziato il nostro quotidiano ieri. La prima cosa da fare sarebbe di partire con gli investimenti pubblici. In particolare fare un elenco di quelli che si possono realizzare, partendo dall’alta velocità al Sud. Sembrerebbe tale priorità dettata solo da una voglia di perequare il territorio e dare gli stessi diritti di cittadinanza a tutti, anche nel diritto al trasporto. Ma in realtà questo diritto in Italia non lo hanno tutti allo stesso livello. Se uno abita sulle Dolomiti ha una possibilità di movimento inferiore rispetto a chi abita a Milano e nessuno pensa di costruire una linea di alta velocità ferroviaria per raggiungere da lì un grande centro, anche se con il decreto rilancio sono stati destinati 2 miliardi per la Bergamo -San Candido, per quelle Olimpiadi, che dovevano essere a costo zero per il Paese.

TEMPI DI PERCORRENZA. Quindi se qualcuno avesse in Calabria tempi di percorrenza per raggiungere un grande centro superiori a chi abita in Toscana non sarebbe scandaloso. Invece la logica é un’altra ed é solo economica: il nostro Paese ha la fortuna di essere a forma di uno stivale che si protende verso l’Africa, con la Sicilia che é a 100 chilometri dalla Tunisia. Tanto che nei giorni limpidi da Pantelleria si sorgono le coste tunisine. E lo sanno bene i Nord africani che arrivano in surf o in barchini improvvisati. L’unico che sembra non saperlo é il nostro Governo e la nostra classe dirigente che consente a Mario Monti, complici tutti i partiti che lo appoggiavano, di cancellare il collegamento stabile tra Sicilia e Calabria, che doveva servire a fare arrivare quell’alta capacità/ velocità ferroviaria che congiungendosi con la linea in funzione che parte da Salerno avrebbe potuto collegare Berlino ad Augusta e quindi a Hong Kong tramite la piattaforma italica. Ed il Paese negli ultimi cinquant’anni non si é attrezzato per sfruttare la posizione geografica che ne fa una piattaforma logistica nel Mediterraneo, proiettata verso Suez. Quindi ci troviamo a due passi da Canale di Suez raddoppiato ma non ne utilizziamo il vantaggio. Nel frattempo il Mondo va a velocità supersonica. Qualche giorno fa La HMM Algeciras, la più grande nave portacontainer al mondo, ha concluso il suo viaggio inaugurale a Londra.

LA HMM ALGECIRAS. Partita il 26 aprile dal porto di Qingdao nella provincia dello Shandong, in Cina orientale, lunga 399,9 metri, ha una larghezza massima di 61,03 metri e una superficie di oltre 24.000 metri quadrati, circa le dimensioni di tre campi e mezzo di calcio regolamentari. La HMM Algeciras può trasportare circa 200 container in più rispetto alla precedente nave portacontainer più grande. A pieno carico, tutti i 24.000 container, se posti in fila, raggiungerebbero una lunghezza totale di 150 chilometri. La nave prima di raggiungere Londra ha navigato verso Busan con 4.560 TEU di prodotti chimici, meccanici ed elettrici e prodotti alimentari non di base. I porti nella rotazione della nave portacontainer sono stati anche Ningbo, Shanghai, Yantian, il canale di Suez, Rotterdam, Amburgo e Anversa. Ha viaggiato ad una velocità massima di 12,9 nodi e una velocità media di 10,9 nodi. Questa la notizia che riportano le agenzie del 16 giugno scorso. Tutti i numeri sono impressionanti: dalla lunghezza dei container messi uno dietro l’altro, alla dimensione di tre campi di calcio della tolda, alla velocitá.

I TRAFFICI. Ma quello che é veramente impressionante é che nel Mediterraneo lungo le coste del Nord Africa si concentra attualmente il 19% del traffico mondiale. Per capire di cosa stiamo parlando i numeri sono importanti. Nei porti che si affacciano sul Mediterraneo transitano ogni anno 2 miliardi di tonnellate di merci: i primi 30 scali nel 2015 hanno movimentato 48 milioni di teu. L’incremento di questi trasporti negli ultimi 20 anni è stato esponenziale (+ 425%) se si tiene conto che nel 1995 erano stati 9,1 milioni. Ed il nostro Paese si é trovato impreparato ad intercettare tali traffici, dimostrando la mancanza di visione che abbiamo avuto.

L’ASSURDO. Invece di potenziare i porti più vicini a Suez, come Augusta, Catania, Palermo, Gioia Tauro, Taranto, Bari, Napoli abbiamo lasciato che gli altri da Atene a Tangeri si attrezzassero. Noi abbiamo lasciato Augusta con il suo inquinamento, aspettando la verità e le bonifiche da oltre mezzo secolo. Situazione molto simile a Taranto come abbiamo appreso dalle cronache sulla ex Ilva. Un Mezzogiorno che é servito da discarica per le produzioni inquinanti, e che poi é stato abbandonato a se stesso. E adesso ci ritroviamo a dover correre per recuperare il ritardo accumulato; il rischio é di rimanere emarginati dai grandi traffici internazionali pur essendo geograficamente centrali. E di perdere migliaia di posti di lavoro che invece sono stai creati nei retro porti di Anversa o Rotterdam.

URGENZA NON PERCEPITA. Questo é il motivo dell’alta velocità/ capacità al Sud. Ma non mi pare che questa urgenza sia stata percepita se ancora Leu o i 5 stelle disquisiscono su ponte si, ponte no, come se il problema fossero quei tre chilometri di mare e non di completare la lunga linea ferrata per arrivare ad Augusta, davanti al canale di Suez, ed intercettare una parte dei traffici. Mentre l’Europa, che sa bene quanto sia rischioso ed inquinante, da un punto di vista ambientale, far viaggiare questi giganti per lunghi tratti, ci raccomanda di far presto, magari mettendoci a disposizione le risorse per completare la rete. Speriamo che il nostro Paese riuscirà a recuperare il tempo perduto ed a far partire il progetto che ci farebbe diventare i protagonisti del Mediterraneo e non continuare a rimanere ai margini dei traffici, periferia del mondo.

IL CASO DELLE ZES. E riuscire dopo gli Stati generali ad avere una visione per l’Italia 2030. O continueremo a pensare alle prossime elezioni o alle parole in libertà di Di Battista? Dobbiamo essere ottimisti certo, ma anche pretendere risposte concrete. Peraltro le Zes potrebbero costituire delle realtà di retroporto, dove procedere alla trasformazione dei prodotti che arrivano dalla vicina Cina, niente di diverso di quello che fanno a Rotterdam, creando migliaia di posti di lavoro. La logistica é uno dei driver che sempre Adriano Giannola e la Svimez hanno individuato come uno dei pilastri sui quali fondare lo sviluppo del nostro Paese con la valorizzazione della piattaforma logistica che il fato ci ha donato insieme alle coste ed al mare. Ma come dice qualcuno tutto quello che non si paga si pensa non abbia valore .

Per salvare il Meridione il ministro Provenzano deve abbattere il feudo. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 24 Giugno 2020. I piani per il Sud si rinnovano ciclicamente, con una cadenza sinistra simile alle epidemie o alle carestie. Niente di buono è mai successo se le condizioni di sottosviluppo, i problemi, continuino a permanere, immutabili, quasi fosse davvero il destino il padrone del gioco meridionale. Ora è il ministro Provenzano che si propone di disarticolare il fato. Aree interne, restanza e ritorno dei giovani, le linee guida del suo rilancio. Cose giuste, imprescindibili, per chi vuol cambiare le cose, ma perfettamente inutili senza il verificarsi di una precondizione. E la mafia è un ostacolo enorme allo sviluppo, ma non è la causa è il prodotto del mancato sviluppo, che in un circolo vizioso si nutre di fallimenti e a sua volta ne origina di nuovi. Il Sud ha un sistema produttivo striminzito, embrionale, quello privato non ha le risorse per fare da solo e ha bisogno di un forte intervento pubblico per partire, e l’intervento pubblico è saldamente in mano a una classe dirigente che trova la sua esistenza, sopravvivenza, nel mancato sviluppo. È il feudo il grande, intonso, problema del Sud. Fino a quando non si scardinerà il feudo nessuno sviluppo sarà in grado di sovvertire le sorti del Meridione. Le aree interne si sono spopolate perché le classi dirigenti hanno operato perché si spopolassero, e i giovani sono stati costretti a partire per sfuggire, non sottomettersi, non scendere a patti con una razza padrona. In questo sistema perverso, in fondo, le mafie hanno giocato il ruolo che era loro consono, soffocare il ribellismo, o farlo confluire in un percorso criminale, soffocare e assoggettare l’intraprendenza privata, in un meccanismo, tra mafie e classe dirigente, che quando non è stato di complicità, è stato di reciproca convenienza, di convergenza di interessi. La magistratura per lungo tempo ha assistito, per tanto tempo ha poi perseguito il versante mafioso del problema, e spesso prediligendo la parte stracciona del crimine. E anche quando l’intervento è diventato massiccio, è mancata l’azione politica, la costruzione di una classe dirigente capace, libera. Le forze centrali della politica hanno lasciato sussistere in loco casati che si susseguono di generazione in generazione, con una logica del ricambio che è quella dei figli al posto dei padri, e poi dei nipoti. E non è una questione di colori. Un blocco unico, solo apparentemente variegato continua a governare. Tutto è saldamente in mano al feudo, chi si integra, è integrato, resta, gli altri si devono arrangiare, nel senso di partire. E continuerà a esserci un piano per il Sud di tipo epidemico, fino a quando, la politica, non deciderà di scardinare il feudo, di aprire le porte del potere politico, istituzionale, imprenditoriale ai figli di nessuno. Fino a quando ciò non si verificherà, i borghi resteranno deserti e i giovani continueranno a riempire valigie.

Italia, allunga il passo e torna a essere unita. Analisi e riflessioni post pandemia in «Il male del Nord» di Pino Aprile. La divisione del Paese in due parti, una che ha tutto e l’altra niente, nella spesa pubblica sottrae al Sud 61 miliardi l’anno. Lino Patruno il 21 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. E infine venne il virus a dimostrare che «il re è nudo». Tutti a chiedersi come mai la Lombardia, la regione più potente d’Italia, sia stata la peggiore nella lotta alla pandemia. Non solo compromettendo se stessa, ma compromettendo il resto del Paese. E come la vocina della bambina nella novella di Andersen, quella del Covid ha rivelato gli inganni sui quali quella sensazione di intangibilità e immunità si reggeva. Parliamoci chiaro: sono stati tanti gli errori commessi fra Bergamo e Milano, che se fossero stati fatti altrove avrebbero portato allo stesso disastro. Il fatto è che non sono stati commessi altrove, ma proprio lì dove meno ce li si aspettava. Anzi è andata molto meglio dove più ce li si aspettava. Ma a loro non poteva succedere. E allora? Ha una spiegazione meno legata al caso «Il male del Nord», titolo dell’ultimo libro di Pino Aprile (Pienogiorno ed., pag. 171, euro 16,90) uscito mentre ancòra lassù si contano i morti quotidiani e altrove no. È vero che con un governatore come Fontana e un assessore come Gallera si può addirittura dire che il male sia andato fin troppo bene. È vero che se lasci diffondere il contagio negli ospedali e nelle residenze per anziani non è che il virus faccia finta di niente. È vero che se dici «Milano non si ferma», meno che mai si ferma la diffusione degli ammalati. È vero che se fai svolgere la partita (con pubblico) Atalanta-Valencia te la vai proprio a cercare. È vero che se non istituisci immediatamente le «zone rosse» di blocco totale, la pandemia va e viene come vuole. Ma ecco, perché le «zone rosse» solo a tempo scaduto? E perché la leggerezza e la protervia di tutto il resto? Perché appunto il re era nudo, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo. Non sfortunate coincidenze, ma inevitabili conseguenze di un modo di essere. Una ingordigia economica che ha fatto tenere aperte il 70 per cento delle aziende trasformate in focolai poi indomabili (i «danè»). Una indisciplina civica figlia di un’arroganza da ricchezza e di una concezione sfrontata di autonomia. Un sistema sanitario pubblico talmente smantellato per far fare soldi ai privati che al momento opportuno non ci sono state più terapie intensive sufficienti. Tutto quanto fosse camuffato dai suoni e dalle luci della Milano città europea è miseramente e dolorosamente esploso alla prova dei fatti. Insomma non è fallita solo una sanità lombarda. È fallita una presunta locomotiva talmente sfiatata che il Paese è sempre ultimo nelle classifiche del reddito. Ma questa locomotiva non arraffa sempre carburante senza che ciò non costi qualcosa al resto d’Italia. Carburante come spesa pubblica che sottrae al Sud 61 miliardi l’anno che vanno agli altri. Costa la divisione in due Italie, una che ha tutto l’altra niente. Costa una sperequazione che non fa crescere l’intera Italia, non solo il Sud. Una mancanza di equità non solo territoriale, ma umana e sociale in cui la parte meglio attrezzata, la più ricca, la maggiormente servita e finanziata, quella alla quale va tutto non capisce il suo male, appunto. Un male di congestione, inquinamento, accaparramento, abbondanza, scandali, cattiva amministrazione. Memorabile in tal senso il discorso di Fontana: da noi la bistecca spetta al padre che lavora, niente ai figli. Insegniamogli la civiltà mediterranea che tutto divide. Finché, in un giorno di marzo dell’anno bisestile 2020, tutto diventa un boomerang per mano di un virus. Il libro di Aprile non è solo un instant book su ciò che è avvenuto (anche se il giornalista-scrittore pugliese lo scrive al passato come un memoriale che resti nella storia: avvenne, ci fu). È un libro che parte dallo scandalo di un Paese ingiusto per arrivare alla urgenza di un Paese più giusto. Partendo da Sud, che così non è il problema del Paese, ma è la soluzione. E Sud in cui col virus doveva succedere e invece non è successo. Anche se la notoria vis polemica di Aprile si chiede (per la verità senza che la polemica sia campata in aria) cosa avrebbero detto a parti inverse. Un Muro di Berlino avrebbero eretto contro i meridionali peste d’Italia. Contro i colerosi. E dove, invece, con meno mezzi e meno uomini, si è fatto molto meglio di dove mezzi e uomini li sottraggono agli altri senza nulla restituire. Compresi, stavolta, tamponi e reagenti. Aprile non fa la fantacronaca di un disastro. Ridicolizza il pregiudizio contro il Sud. Smonta il giudizio sul Nord. Dice chiaro e tondo che se l’Italia non cambia non solo resta ultima, ma si spezza (a costo di essere tacciato di separatismo). Suggerisce che solo partendo da Sud c’è un futuro per tutti, dalle terre dimenticate alle terre di mezzo. Sud come un affare. Si è finora lasciato credere che il male del Paese fosse appunto il povero Sud. E invece si scopre il male del Nord. Frigge dirlo, ma questo virus non sarà stato del tutto inutile (e infame).

Pino Aprile, dopo Terroni, Giù al Sud, e saggi seguenti in cui metteva a nudo l’iniquità italiana, ne “Il male del Nord” toglie anche le mutande a questa malfatta nazione fondata sulla disparità territoriale, e lo fa con un’avvertenza: se l’Italia non cambia, è destinata a spezzarsi. Il Sud non può più tollerare il modello del “Prima il Nord”.

 “IL MALE DEL NORD” DI PINO APRILE? IL RE E’ NUDO E QUALCUNO GLI VEDE IL LATO B. Raffaele Vescera il 18.06.2020 su Movimento24 agosto.it. Rompere un pregiudizio è più difficile che spezzare un atomo, diceva il grande Einstein, che l’atomo lo spezzò per davvero, mentre infuriava il pregiudizio contro gli ebrei, popolo cui apparteneva e che pagò con milioni di morti innocenti la follia di tale preconcetto razziale. Prevenzione razziale che, se in Europa infuriava contro gli ebrei, in America dove Einstein si era rifugiato infuriava contro i neri, trattati men che bestie dagli ottusi razzisti yankee, dei quali il Ku Klux Klan, estremista e assassino, era solo la punta dell’iceberg.

Il tutto mentre in Italia infuriava e ancora infuria il pregiudizio contro i meridionali, “terroni, merdacce, esseri inferiori, topi di fogna da sterminare con le eruzioni vulcaniche”, nella vulgata leghista. Più semplicemente “indolenti, scansafatiche, mandolinari, inadatti” in quella perbenista “democratica”. Ma il pregiudizio, si sa, è funzionale a spogliare i popoli delle loro ricchezze e a utilizzarli come braccia da lavoro a basso costo, neri che siano o “mezzi neri” com’erano classificati i meridionali. A tal fine si impegnano veri e propri plotoni di esecuzione “intellettuali”, giornalisti, filosofi, storici che, falsificando informazione, sapere e storia, devono diffondere nel popolo inconsapevole il comodo pregiudizio di superiorità della propria razza sulla presunta razza inferiore. Ci riescono puntando sullo spirito da “caporali” piuttosto che da uomini, ampiamente imperante. E Pino Aprile, che tutti conosciamo come giornalista e scrittore, principale demolitore del pregiudizio antimeridionale, nel suo appena uscito e già bestseller, “Il male del Nord”, pubblicato dal nuovo editore “Pienogiorno”, facendo un’analisi spietata delle cause che affondano questo paese, definisce la “Questione meridionale” come una questione razzista, con tutte le conseguenze che discendono da tale trattamento riservato agli “inferiori”. Insulti, derisione, spallucce, ammiccamenti, sì ma più di tutto impoverimento del Sud, disoccupazione, mancanza di servizi e quant’altro deve convincere il meridionale ad emigrare al nord per lavorare, pur se disprezzato, per poi rifarsi con le successive generazioni una verginità “padana”, magari leghista, per essere accettato nell’ambiente in cui vive. Nord in cui, per scelta politica della cattiva unità d’Italia, è stata concentrata l’industria e la finanza italiana, a danno ed esclusione dell’intero Paese, determinando urbanizzazione forzata e inquinamento d’ogni genere, lasciando nell’abbandono altri territori in cui si poteva sviluppare un’economia sostenibile. E’ nelle aree di massima concentrazione che si è maggiormente diffuso il virus nel mondo, piuttosto che in quelle scarsamente antropizzate, mostrando il fallimento del modello capitalistico ultraliberista, creatore di tali diseguaglianze e iniquità. Fallimento che fa emergere la necessità del cambiamento: ripartire da Sud per salvare questo Paese disunito, ultimo in Europa per crescita economica, in virtù della esclusione di oltre un terzo della sua popolazione dai piani di sviluppo e dalla possibilità di crescita economica, danno che si ripercuote sull’intera economia nazionale. L’Italia è un uomo che cammina con una sola gamba, usando l’altra come carne da macello, è un treno munito di una locomotiva che non può correre perché deve trainare vagoni malandati. Locomotiva man mano sfiatata, come ci segnala Pino Aprile, enumerandoci la svendita alle multinazionali straniere delle grandi aziende del Nord, un Nord che ormai vive in modo parassitario “assorbendo le risorse del Paese, senza nulla restituire”, secondo la definizione del ministro per il Mezzogiorno Provenzano. I grandi cambiamenti sociali, avverte Pino Aprile, non procedono con casualità ma per sbalzi e catastrofi. E, a quanto pare, la catastrofica epidemia da covid convince strati sempre più ampi di cittadini della necessità di cambiare l’attuale modello di sviluppo fondato sulla disuguaglianza territoriale. Catastrofe epidemica più che altro evidente in Lombardia, cuore del Nord, dove ha trovato condizioni ideali per riprodursi. Non solo per via delle cattive condizioni ambientali, ma anche e soprattutto a causa delle pessime condizioni politiche. Non data certo da oggi la cattiva amministrazione della sanità lombarda, definita eufemisticamente “eccellenza” e “top”, certo non lo è stata nella sciagurata privatizzazione della sanità pubblica, non lo è stata nella distribuzione di tangenti che vede che vede il “celeste” Formigoni condannato ad anni di galera, non lo è nella creazione dell’ospedale in fiera con 21 milioni di euro spesi per 25 posti letto, come non lo è nella mancata creazione di zone rosse e nello scaricare i malati di covid nelle case di riposo degli anziani, facendone strage. Ora il re è nudo, ma lo era già dagli anni delle Tangentopoli uno, due e seguenti, lo era negli anni della corruzione miliardaria sulla costruzione dell’alta velocità ferroviaria, al Nord costata 67 milioni al Km, a fronte dei 10 milioni in Francia, lo era negli sprechi miliardari dell’expo e di altre infrastrutture utili più a far mangiare i “prenditori” che a far muovere i lombardi. Eppure, la forza mediatica, concentrata al Nord, ha lasciato credere che il male del Paese fosse il povero Sud, pur rovinato dalle mafie, con le quali pezzi dello Stato e finanza del Nord andavano a braccetto. 

L’EMERGENZA NAZIONALE E’ IL SUD, ALTRO CHE “QUESTIONE SETTENTRIONALE”. Raffaele Vescera il 22.06.2020  Movimento24 agosto.it.. Di Enzo Lionetti. Negli ultimi 17 anni, lo Stato italiano ha tolto 840 miliardi di euro dalle regioni meridionali e li ha assegnati al Nord ricco e opulento. Nell'ultima legge finanziaria pre-covid, per le Olimpiadi di Milano-Cortina è stato stanziato 1 miliardo di euro e per la seconda linea metropolitana di Torino sono stati stanziati 800 milioni di euro. E' sempre in corso di approvazione lo stanziamento per il TAV Torino - Lione che ammonta a 10-12 miliardi di euro. Senza dimenticare l'autostrada BREBEMI e la Pedemontana Veneta. E come non citare il famoso caso storico del MOSE di Venezia, voragine dello Stato italiano che costa dai 4 ai 6 miliardi di euro, affidati in maniera grottesca ad un Consorzio privato, senza un minimo di procedura di evidenza pubblica. Gli stanziamenti per la sanità pubblica e per i servizi di assistenza sociale sono da decenni a favore del Nord Italia. Al capitalismo del Nord Italia piace vincere facile. Con i soldi dello Stato italiano si produce e si guadagna. E questo modello di riferimento, che ha funzionato e per questo è stato replicato nel corso del tempo in maniera sempre più crescente, ha visto la complicità di partiti come la Democrazia Cristiana, come il Partito Comunista negli anni sessanta e settanta, con il Partito Socialista negli anni ottanta dello scorso secolo. L'evoluzione del modello è arrivata con la discesa in campo di Berlusconi e della Lega Nord, simboli di un capitalismo arrembante e di una barbarie culturale e politica, a cui il salotto buono di Piazzetta Cuccia a Milano e di Viale dell'Astronomia a Roma non hanno saputo resistere. In molti casi non hanno voluto resistere. Il modello della Questione settentrionale fondato sul razzismo nei confronti della Popolazione meridionale per affermare le ragioni della supposta superiorità del sistema industriale settentrionale, alla ricerca di continue fonti di approvvigionamento pubblico per mantenere la propria sopravvivenza, ha determinato un tale sconquasso di proporzioni inimmaginabili, portando il PIL dell’Italia a valori miseri nei confronti dei competitor mondiali, lasciando una parte del Paese nell’arretratezza economica. Questo modello non ha più ragion d’essere, non ce lo possiamo permettere, il sistema Italia non se lo può permettere più. Non ha senso un’Italia duale, non ha senso infrastrutturare una sola parte dell’Italia già di per sé ricca, con iniziative ridondanti ed a bassissimo se non nullo effetto moltiplicatore, anzi foriero di un consumo di suolo e di un’industrializzazione selvaggia che ha determinato e determinerà sempre più condizioni di disequilibrio ambientale, di inefficienza e di forti tensioni. La Questione meridionale si pone come elemento di forte attualità in quanto applicazione del principio di Equità sancito in Costituzione. I padri costituenti hanno lasciato un’eredità disattesa, violentata da logiche partitocratiche saldate da un becero capitalismo, che occorre riprendere e valorizzare, perché frutto di un lungo ragionamento in Assemblea Costituente che cementò le istanze territoriali alle giuste rivendicazioni sociali e culturali. Un lavoro lungo ben 16 mesi, da giugno 1946 a dicembre 1947, in cui una volontà di riscatto, di rinascita, di rivendicazioni morali e culturali, diede vita ad un favoloso equilibrio istituzionale e di elementi programmatici per il futuro del Paese. La Questione Meridionale è il vero anello di congiunzione tra l’esigenza di apprestare un futuro sviluppo equilibrato ed armonico tra aree territoriali, di riconquistare un ruolo nel panorama internazionale e di dare opportunità di libera espressione imprenditoriale, sociale e culturale ad un territorio, la parte meridionale della penisola italiana ed insulare, fin troppo bistrattata artatamente ed in maniera beffarda da un sistema politico-imprenditoriale egoista. Vediamo i risultati che la Questione settentrionale ha portato. Sulla base di questi risultati analizziamo la convenienza a ripercorrere un processo di decisioni pubbliche che vede il Nord in prima fila ed il Sud “a traino” del sistema imprenditoriale nordcentrico. Il risultato è fallimentare, è inadeguato, è inefficiente, è insulso e retrogrado.

Nel ventesimo secolo ha potuto avere spazio per un annicchilimento della classe dirigente politica e sociale.

Nel ventunesimo secolo gli spazi di manovra si sono ridotti ampiamente, la mobilitazione culturale e sociale, oltre che ampi strati di sistema imprenditoriale, pongono la Questione Meridionale come unica ed irrinunciabile strategia di azzeramento del divario Nord/Sud, di recupero di una dignità offesa e di valorizzazione delle risorse presenti nel Meridione d’Italia.

Solo con forti investimenti in infrastrutture necessarie al Meridione, il moltiplicatore degli investimenti pubblici può esercitare la sua funzione di propagazione di effetti positivi nel sistema economico e sociale, in quanto va ad aumentare l’efficienza e la produttività unitamente all’innalzamento dei livelli di prestazione sociale che uno Stato moderno ed efficiente deve perseguire, nel solco degli auspici dei nostri Padri Costituenti e prefigurati da grandi Economisti come Salvemini o Caffè. Solo con una forte azione statale di contrasto all’inefficienza e di ampio controllo della spesa pubblica, possono determinarsi le condizioni idonee allo sviluppo dei territori meridionali, grazie ad un rinnovato spirito collettivo di Giustizia e Legalità che sta pervadendo il tessuto connettivo sociale e culturale meridionale, purtroppo sulla scorta di tragedie collettive come quelle di Falcone e Borsellino o con l’opera di egregi ed inossidabili uomini di Stato come Nicola Gratteri e Nino Di Matteo. O con l’abbattimento delle Vele di Scampia, simbolo di una politica miope di ghettizzazione di ampi strati sociali in quartieri monstre che il grande Pasolini aveva già denunciato. Il Sud ha voltato pagina. Le Vele di Scampia sono state demolite. La nuova Questione Meridionale è l’emergenza nazionale e l’occasione di riscatto di un intero Popolo, che vuole continuare ad essere unito ma nel rispetto delle reciproche prerogative di sviluppo ed equità. Lungamente dimenticato e sacrificato sugli altari di un neo colonialismo capitalistico, bistrattato ed oltraggiato per mano di scribacchini e per bocca da insulsi politicanti entrambi pagati con le tasse di tutti gli Italiani, il Sud si appresta a vivere il momento più decisivo della sua Storia. La sua lunga tradizione di Popolo pacifico ed operoso, culminata nel periodo dorato ottocentesco del Regno delle Due Sicilie che lo ha portato a divenire la terza potenza economica europea, dove a Pietrarsa e Mongiana, rispettivamente Campania e Calabria, erano presenti i due più importanti stabilimenti siderurgici dell'intera penisola e tra i più grandi in Europa, con migliaia di addetti, che distanziavano notevolmente gli addetti di Genova della nascente Ansaldo. Meccanica pesante e di precisione, costruzioni ferroviarie e industria energetica erano già allora uno dei settori più importanti dell'economia meridionale. L'unità d'Italia ha provveduto a distruggere il sistema economico della parte meridionale della penisola italiana, nel nome di una precisa volontà politica di distruggere tutto ciò che era riconducibile alla famiglia reale dei Borbone, visti come antagonisti della famiglia reale dei Savoia e quindi da annientare non solo fisicamente ma anche e soprattutto culturalmente. La Questione Meridionale parte in quegli anni, suggellata dal radicale lombardo Antonio Billia, per confezionare la più grande fake news di tutti i tempi, ovvero dipingere il Regno delle Due Sicilie come il male assoluto ed il luogo dell'arretratezza economica e sociale, il luogo del malaffare e della dissolutezza, il luogo della pedante burocrazia borbonica. Il Mezzogiorno, nell'accezione costituzionale repubblicana, è stato visto come luogo di scambio, ovvero assistenza versus consenso politico, in cui le industrie di costruzione del Nord hanno fatto affari d'oro con la Cassa del Mezzogiorno, sottopagando gli operai con subappalti da miseria, finanziando le Mafie, la Camorra e la 'Ndrangheta per ottenere chissà quali protezioni, ma sempre a spese dello Stato con revisione dei prezzi e varianti in corso d'opera che hanno portato a costi esorbitanti le opere pubbliche meridionali. Ma l'elemento distintivo del capitalismo italiano, prettamente radicato a Nord, è caratterizzato da un elemento distintivo pregnante, il ricorso al contributo dello Stato italiano che si è sempre prestato nel concedere indennizzi, elargizioni e grandi appalti pubblici. L'industrializzazione del Nord Italia avvenuta con il Piano Marshall ed in seguito con la grande opera di infrastrutturazione del territorio, ha generato una redditività enorme nelle famiglie capitalistiche, alle spalle di uno Stato italiano sempre pronto ad approvare leggi di favore e concedere posizioni di vantaggio alle regione settentrionali. Questo succede anche oggi. Lo Stato italiano pensa solo al Nord concedendo benefici e contributi senza un minimo di rendiconto sociale nei confronti dell'intera nazione italiana.

·         Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

Le grandi aziende che lavorano nel Sud Italia hanno la sede legale al Nord e lì pagano le tasse.

Le grandi aziende del Nord Italia hanno la sede legale nei paradisi fiscali e lì pagano le tasse.

Gianluca Zapponini per formiche.net il 6 aprile 2020. Un brand italiano che sposta la sede legale (ma la produzione resta ben piantata qui) in un Paese dove si pagano meno tasse, magari in Olanda. Film già visto. Fca, su tutti, ma anche Mediaset, Cementir, Luxottica e Ferrero, quest’ultima però in Lussemburgo. Ora tocca a Campari e l’Italia paga il conto di certa indifferenza tutta politica. Gli azionisti dello storico marchio italiano nato nel 1860 (in primis la famiglia Garavoglia, tramite la cassaforte Lagfin che detiene il 51% del capitale) e che oggi fattura 1,8 miliardi e fa base a Sesto san Giovanni, alla fine di marzo hanno dato il via libera definitivo allo spostamento della sede legale nei Paesi Bassi, mentre quella fiscale rimarrà in Italia. Libero mercato, si dirà. Forse, ma a rimetterci però è quasi sempre l’Italia e il suo Pil. Perché spostare la sede legale vuol dire versare tasse in un nuovo Paese. E con la holding di solito si muove anche un certo indotto: consulenza, audit, avvocati… con il risultato che il nostro Paese perde entrate non certo trascurabili, nonostante i ricavi vengano generati sempre qui, negli stabilimenti italiani. Lo ha sottolineato anche il premier Giuseppe Conte, in una recente intervista, nel quale oltre a criticare l’atteggiamento di certi Paesi (Olanda, proprio lei, in testa) verso l’uso degli eurobond, attaccava proprio la natura di paradiso fiscale del Paese dei tulipani. “L’Olanda è anche tra i Paesi che si avvantaggiano molto del contributo delle imprese italiane. Perché molte grandi imprese che pure hanno i principali stabilimenti in Italia e ricavano i maggiori profitti nel nostro Paese poi beneficiano della legislazione fiscale olandese, molto più conveniente”, ha detto Conte. E non è stato da meno l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che in una recente intervista a Formiche.net, ha definito l’Olanda un Paese che importa holding. Ma cosa può fare il governo italiano dinnanzi a tutto questo? Perché se è vero che da una parte il nostro esecutivo si sta prodigando giustamente, attraverso il Golden power, per impedire che le imprese che decidono di rimanere vengano acquisite, non si può dire avvenga lo stesso per impedire che le stesse aziende se ne vadano all’estero con le loro gambe. Un filtro in entrata, insomma, ma non in uscita. Un esperto qualificato spiega a Formiche.net cosa c’è dietro la scelta di certe aziende. Tutto ruota intorno ai diversi trattati stipulati dall’Italia in passato al fine di evitare a un’azienda di dover pagare le tasse in due Paesi differenti ma che hanno stipulato l’accordo. Quello con l’Olanda è datato 1990. “Lo spostamento delle sedi legali in Olanda e Lussemburgo è qualcosa che accade da molto tempo. La scusa, in parte vera, sono spesso le norme locali per gestire meglio le società. Ma per l’Italia c’è un danno: questi spostamenti, cambi di sede non sono indolore”, spiega. “Il punto è che se è vero che il Fisco è attento in queste situazioni, e spesso fa accertamenti, non dimentichiamoci di quelli fatti su Fca stessa, in questo momento in cui l’Olanda sembra fare la furba sugli eurobond, deve esserlo ancora di più. Perché è vero che se io delocalizzo porto fuori solo la holding. Ma è anche vero che questo vuol dire non pagare più le tasse in Italia. È un aspetto di cui tener conto. Ricordiamoci che l’Olanda può beneficiare di tutto ciò perché siamo in un mercato comunitario, altrimenti lo Stato Italiano non consentirebbe a un’azienda di spostarsi così. Occorre verificare, controllare, stare insomma ancora più attenti ai movimenti di chi decide di mettere la sede legale in altri Paesi”, spiega ancora l’esperto. E pensare che l’Italia “potrebbe anche denunciare quel trattato. Si può”. In ogni caso vale la pena chiedersi il perché di tale inerzia politica nel tentare di arginare simili operazioni in uscita, che certo non bene fanno al nostro Pil.

Cade il muro del segreto bancario: all'estero ci sono 85 miliardi di euro intestati a italiani. Grazie a un accordo internazionale l'Agenzia delle Entrare entra in possesso dei dati su oltre un milione di conti intestati a italiani in cento paesi tra cui anche tanti paradisi fiscali: "Forse è davvero l'inizio della fine dell'evasione fiscale internazionale". Paolo Biondani il 5 luglio 2019 su L'Espresso. Una montagna di soldi che finora era nascosta dalle nebbie del segreto bancario: più di 85 miliardi di euro. Tesori custoditi in decine di paradisi fiscali, che per la prima volta hanno dovuto comunicare tutti i dati alle autorità fiscali italiane. Il primo risultato, ancora provvisorio, è una maxi-lista di oltre un milione e centomila conti esteri. Tutti intestati a cittadini italiani. Ed è solo un bilancio parziale. Perché le cifre continuano a crescere. Il fisco italiano sta ricevendo da mesi enormi flussi di informazioni dall’estero. Una situazione mai vista prima, che gli esperti di reati tributari considerano la base di una svolta storica. Per l’evasione fiscale internazionale, come riassume a “L’Espresso” il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, «forse è davvero l’inizio della fine». Tutto parte da una sequenza di accordi promossi dall’Ocse, la più importante organizzazione economica internazionale. Che è riuscita a varare a livello globale una procedura standard per lo «scambio automatico di informazioni fiscali». Significa che non c’è più bisogno di mandare istanze all’estero, esibire prove, avviare lunghe e complicate rogatorie giudiziarie o richieste di assistenza fiscale contro il presunto evasore. Lo scambio è automatico. Continuo. Generalizzato. E sorvegliato dall’Ocse. Grazie a questa specie di Onu dell’economia, oltre cento paesi di tutto il mondo si sono impegnati a trasmettere anche a Roma tutti i dati sulle ricchezze degli italiani all’estero: conti bancari, gestioni patrimoniali, altri investimenti di qualsiasi tipo. La prima serie di dati pubblicati in questo articolo (finora inediti) riguarda una cinquantina di paesi che hanno applicato per primi la procedura dell’Ocse già tra il 2017 e il primo semestre del 2018, comunicando le liste dei tesori e tesoretti registrati dalle banche estere, nell’anno precedente, a nome di cittadini italiani: oltre un milione e 100 mila conti esteri, appunto, che custodivano più di 85 miliardi. Nel settembre 2018 lo scambio automatico si è allargato ad altre 47 nazioni. Compresi quegli Stati-cassaforte, come Svizzera e Montecarlo, ma anche Panama, Hong Kong, Singapore, Emirati Arabi e altri rinomati paradisi fiscali, che da sempre attraggono il grosso dei soldi degli italiani all’estero, come dimostrano le cifre raccolte con i vari condoni e scudi fiscali degli anni scorsi. Di certo, rispetto agli 85 miliardi schedati all’inizio del 2018, con la seconda ondata le informazioni trasmesse a Roma sono più che raddoppiate. Quindi il fisco italiano oggi possiede tutti i dati su alcuni milioni di conti esteri. Ed entro la fine del 2019 la procedura dell’Ocse dovrebbe estendersi a più di cento nazioni, con un’altra dozzina di paesi in via di adesione. Lo scambio di informazioni, di regola, si realizza in settembre, quando le autorità estere finiscono di registrare tutte le ricchezze dell’anno precedente. In Svizzera, ad esempio, è l’autorità di controllo dei mercati finanziari (Finma), che ha anche funzioni di vigilanza contro il riciclaggio di denaro sporco, a raccogliere i dati da tutte le banche elvetiche. La prima lista trasmessa a Roma contiene, ad esempio, i nomi di circa 120 mila clienti italiani del colosso Ubs. A Milano il procuratore Francesco Greco avverte che si tratta di «dati grezzi, che vanno incrociati e analizzati: sono solo la base di partenza per un’attività d’indagine o di verifica fiscale». Nella lista dell’Ubs, in particolare, ci sono gli italiani che lavorano (o fanno affari) in Svizzera e dichiarano regolarmente il loro conto elvetico; diversi familiari che in realtà risultano cointestatari di un unico deposito; e i soggetti che hanno già sanato i capitali esteri con la cosiddetta “voluntary disclosure”. Nel caso dell’Ubs, quindi, le indagini fiscali si stanno concentrando su circa 40 mila possibili evasori, per verificare se nel frattempo abbiano denunciato i loro conti svizzeri e pagato le tasse dovute, sia pure in ritardo. Altrimenti, si annunciano grossi guai, che di solito si materializzano con un questionario inviato dall’Agenzia delle entrate: caro signor contribuente, per caso ha dimenticato di dichiarare quei soldi all’estero? Le liste trasmesse a Roma dalle autorità straniere sono documenti informatici con migliaia di cifre e nomi, con i dati cruciali catalogati secondo lo standard dell’Ocse: numero di conto, saldo dell’anno precedente, identità del beneficiario economico. Cioè del titolare effettivo, anche se protetto da esotiche società offshore, fiduciarie, trust o altri schermi legali. Il fisco italiano, in pratica, riceve le stesse informazioni che deve procurarsi la banca estera per aprire il conto. E questo oggi succede per decine di Stati, compresi paradisi fiscali finora impenetrabili, dalle Isole Vergini Britanniche alle Bermuda, da San Marino al Lichtenstein, dalle Bahamas alle Antille olandesi. La nostra Agenzia delle entrate, ovviamente, è tenuta a ricambiare la cortesia: ogni anno, entro settembre, la direzione di Roma deve trasmettere a tutti gli altri Stati gli elenchi dei conti bancari e altre ricchezze detenute in Italia dai loro cittadini. Uno studio pubblicato dall’Ocse nel giugno scorso ha quantificato, per la prima volta, gli enormi benefici fiscali di questa procedura globale di comunicazione reciproca dei dati: un patto internazionale che sta salvando i bilanci e la sovranità fiscale degli stati nazionali. Questa svolta nella lotta all’evasione è un effetto della crisi economica esplosa nel 2008, che ha colpito tutto il mondo, costringendo anche le nazioni più ricche a reagire. Da allora gli accordi sempre più allargati di scambio automatico, come spiega lo studio, hanno permesso di identificare «almeno mezzo milione di individui che nascondevano ricchezze nei paradisi offshore». E hanno così garantito agli stati nazionali, stremati dalla crisi, «entrate fiscali aggiuntive per circa 95 miliardi di euro». In Italia proprio l’adesione a questa procedura internazionale, secondo gli esperti, ha fatto aumentare il gettito della voluntary disclosure: una vera e propria autodenuncia dei capitali esteri, prevista e regolata dall’Ocse, a differenza dei vecchi scudi fiscali varati dai governi di Berlusconi e Tremonti (con l’appoggio della Lega), che invece consentivano agli evasori di casa nostra di restare anonimi e sanare tutto pagando solo il 5 per cento. E magari nascondere i soldi scudati nelle cassette di sicurezza. Lo studio documenta che tra il 2000 e 2008, negli anni del boom del capitalismo finanziario, i ricchi e potenti del mondo hanno trasferito fortune immense nei paradisi fiscali. Gli economisti dell’Ocse hanno quantificato il totale dei depositi bancari registrati in 38 paesi caratterizzati da tasse bassissime o nulle: nel giugno 2008, le ricchezze occultate solo in quei centri offshore avevano raggiunto il livello stratosferico di 1.600 miliardi di dollari. Tra il 2009 e il giugno 2018, gli stessi paradisi fiscali hanno perduto un terzo di quei tesori: meno 551 miliardi di dollari. Il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, presentando lo studio, ha rivendicato «un livello di trasparenza fiscale senza precedenti, che rappresenta solo il primo risultato di un processo che continua», con l’obiettivo che «non sia più possibile nascondere ricchezze in nessuna parte del mondo». Per ora, a conti fatti, solo quei 38 paradisi fiscali continuano a custodire più di mille miliardi di dollari. Soldi rubati ai cittadini che pagano le tasse anche per gli evasori. Le pressioni internazionali stanno facendo calare i tesori offshore anche in quest’ultimo semestre: dal novembre 2018 gli stati nazionali hanno recuperato entrate fiscali per altri due miliardi di dollari. Molti ricchissimi evasori restano però impuniti. La via di fuga più banale è spostare i soldi in altri paesi “black list”, che rifiutano di fornire dati fiscali e in qualche caso perfino di collaborare con le indagini internazionali contro mafia e terrorismo. Lasciare le solide banche di nazioni come la Svizzera, però, può essere rischioso. L’avvocato ed ex magistrato elvetico Paolo Bernasconi ha raccontato a L’Espresso la disavventura di un plotone di ricchi evasori italiani, terrorizzati dai nuovi accordi fiscali, che hanno spostato i soldi in un emirato arabo: «Pochi mesi dopo, la banca esotica è fallita e loro hanno perso tutto». Un sistema più sicuro è lasciare il tesoro in un paese dell’Ocse, ma intestare il conto a prestanome o fiduciari disponibili a coprire il vero titolare. A costo di rischiare l’arresto per riciclaggio. Il limite maggiore degli accordi internazionali è però la politica unilaterale degli Stati Uniti. La prima potenza economica mondiale ha un proprio sistema di controllo fiscale, chiamato Facta, che obbliga le banche straniere a comunicare tutti i conti esteri dei cittadini americani. Un sistema molto rigoroso, che funziona da anni a vantaggio del fisco statunitense. Ma a differenza degli accordi dell’Ocse, non è reciproco: dagli Usa arrivano negli altri paesi solo informazioni limitate e parziali. Con risultati paradossali: di fatto tra i paradisi più impenetrabili oggi spiccano stati americani come Nevada e Delaware. Dove ha le sue tesorerie societarie anche il presidente Donald Trump. Altri paesi accettano le regole dell’Ocse, ma solo a parole: in alcuni centri offshore, come Dubai o le isole Cook, è ancora possibile aprire società totalmente anonime: il titolare non deve registrarsi. Quindi in Italia i dati sui conti arrivano, ma il vero beneficiario resta sconosciuto. E un altro problema è l’effettiva collaborazione delle banche estere. A Milano la Procura e la Guardia di Finanza hanno lanciato una nuova strategia di contrasto all’evasione internazionale, che parte proprio dai dati raccolti con lo scambio automatico e con la voluntary disclosure: molte banche estere risultano aver concesso prestiti e mutui a migliaia di clienti italiani. Quindi avrebbero dovuto pagare le tasse sulle commissioni e interessi incamerati grazie a quegli affari in Italia. Gli inquirenti milanesi hanno così iniziato a spedire questionari agli istituti interessati, cominciando da Svizzera e Montecarlo. Le grandi banche elvetiche, come Ubs e Credit Suisse, sono state le prime a riconoscere il debito, impegnandosi a pagare il dovuto al fisco italiano. Poi la strategia si è allargata: gli inquirenti milanesi hanno inviato moduli analoghi a un totale di 220 banche estere, da San Marino al Liechtenstein, dalle Bahamas alle Isole Vergini. E dopo il primo questionario, ne è partito un secondo, con la sintesi dei risultati di mesi di indagini tenute segrete: come avete fatto a trovare tutti quei clienti italiani? Avete per caso utilizzato una struttura riservata di funzionari o consulenti incaricati di operare in Italia in totale segretezza? E da cosa sono garantiti i vostri prestiti? Dai soldi nascosti da quegli italiani in altri paradisi offshore? Per molte banche, è stato uno choc: i legali hanno spiegato alle direzioni centrali che a Milano si rischiava l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio dei soldi degli evasori. Credit Suisse, che si era vista sequestrare addirittura le istruzioni per sfuggire alla Guardia di Finanza ( «Il manuale del perfetto evasore», rivelato da L’Espresso nel febbraio 2016 ), ha patteggiato una condanna come persona giuridica e risarcito oltre cento milioni al fisco italiano. A San Marino e Montecarlo, altre banche hanno gridato alla persecuzione giudiziaria, invocando addirittura interventi diplomatici contro i questionari milanesi. La Guardia di Finanza intanto ha chiuso anche l’indagine su Ubs, a sua volta indagata per riciclaggio, che si è impegnata a risarcire 111 milioni. Il banco di prova dell’effettiva collaborazione svizzera è proprio l’inchiesta sui colossi bancari. Ubs dovrebbe comunicare i nomi degli italiani che nascondono all’estero almeno due miliardi gestiti attraverso prestiti di comodo o altre operazioni di copertura. Con l’indagine su Credit Suisse, invece, la Guardia di Finanza ha già identificato 3.297 titolari italiani di finte polizze assicurative alle Bermuda, che finora hanno risarcito all’Agenzia delle entrate 197 milioni di euro. Ma gran parte dei beneficiari sono ancora protetti dal segreto bancario in teoria caduto: sono 9.953 italiani che hanno affidato a Credit Suisse la bellezza di 6 miliardi e 676 milioni di euro. Mai dichiarati al fisco.

Ogni anno sei miliardi di euro di tasse italiane volano nei paradisi fiscali della Ue. Lussemburgo, Irlanda e altri stati europei sottraggono al nostro fisco una cifra monstre. Gloria Riva l'11 luglio 2019 su L'Espresso. Venti miliardi di euro. Sono i profitti che le grandi aziende multinazionali guadagnano sul suolo italiano, ma ogni anno fanno volare all’estero, nei paradisi fiscali. Se quei quattrini fossero tassati in patria, frutterebbero alle casse dello Stato italiano oltre 6 miliardi all’anno. Una cifra che basterebbe a rispondere alla richiesta di correzione dei conti pubblici italiani espressa dalla Commissione europea. Invece no, gran parte di questo tesoro (17 miliardi e 170 milioni, per la precisione) finisce in altri paesi europei: nell’ordine, Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta. A cui si aggiungono i paradisi fiscali tradizionali: dalla Svizzera, che incamera quasi due miliardi (1,98) all’anno, alle isole esotiche come Cayman e Vergini, che ricevono un altro miliardo sempre di questi profitti con la targa italiana. Ma il grosso resta qui, all’interno dell’Unione europea: una specie di furto fra paesi vicini, chiamato elusione fiscale, di fatto tollerato dalla Commissione di Bruxelles, che nonostante qualche richiamo formale (e molte polemiche) non ha alcun potere di far cambiare rotta ai sei paesi che sono diventati paradisi fiscali interni alla Ue. Perché le politiche fiscali restano una materia di esclusiva competenza nazionale. Le perdite maggiori colpiscono, ancor più dell’Italia, tutti i più grandi paesi europei. I profitti societari drenati all’estero ammontano a 54 miliardi di euro per la Gran Bretagna, 48,4 per la Germania e 28,2 per la Francia. Il mancato gettito fiscale vale 10,85 miliardi all’anno per Londra, 14,3 per Berlino, 9,44 miliardi per Parigi. Non è una problematica strettamente europea, ma una questione mondiale, se si considera che le multinazionali americane riescono a nascondere al fisco statunitense l’equivalente di oltre 125 miliardi di euro all’anno. Mentre le industrie che operano in Cina fanno sparire altri 47,6 miliardi. Ma a stupire è l’elusione interna alla Ue: i sei paradisi fiscali europei vengono scelti come “porto sicuro” da metà delle aziende che operano nei paesi aderenti all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Su un totale di 395,85 miliardi di utili trasferiti nei paradisi fiscali, infatti, ben 207 finiscono in quella mezza dozzina di paesi europei. Se si considerano i dati di tutto il mondo, compresi i paesi non aderenti all’Ocse, i profitti spostati all’estero raggiungono il tetto di 544 miliardi di euro. E ben 257 miliardi finiscono in quei sei paradisi europei. Ogni anno. Numeri da capogiro, emersi con il paper scientifico “The missing profits of Nations” (I profitti perduti delle nazioni), pubblicato dal “National bureau of economic research” degli Stati Uniti, considerato il più autorevole centro di ricerca economica mondiale. Un lavoro firmato dallo studioso francese Gabriel Zucman, già autore del libro “La ricchezza nascosta delle nazioni” e professore a Berkeley, insieme a Ludvig Wier e Thomas Torslov dell’università di Copenhagen. I tre economisti, sfruttando una serie di dati innovativi, sono riusciti a ricostruire quanti profitti le multinazionali nascondono nei paradisi fiscali e come riescono a evitare le tasse nei paesi d’origine. «Finora, per calcolare l’elusione delle big company, si era utilizzato un sistema indiretto, che intercettava il 17 per cento dei profitti volati all’estero», spiega Zucman a L’Espresso: «Ora invece, incrociando le cifre delle controllate estere con altri dati, come le bilance dei pagamenti fra nazioni, il prodotto interno lordo e i volumi d’affari delle grandi società, siamo in grado di calcolare il profit shifting complessivo, cioè il totale dei profitti spostati in paesi a bassa tassazione». L’ammontare a livello mondiale è enorme: 616 miliardi di dollari, pari a circa 550 miliardi di euro. Una cifra immensa anche rispetto agli utili globali. I profitti realizzati dalle multinazionali attraverso le controllate estere ammontano infatti a 1.700 miliardi di dollari: «Stimiamo che il 40 per cento del totale finisca ogni anno nei paradisi fiscali», riassume l’economista. Il grafico riassume gli effetti delle strategie di elusione tributaria delle multinazionali: ogni anno circa 20 miliardi di utili prodotti in Italia vengono trasferiti nei paradisi fiscali soprattutto europei. Roma perde così oltre 6 miliardi di tasse all’anno. Come? I sistemi-base sono tre e si basano sui rapporti tra società controllate: la multinazionale può aggiustare i prezzi (transfer pricing), organizzare prestiti o cedere marchi e brevetti all’interno dello stesso gruppo, per abbassare gli utili nei paesi ad alta tassazione. E spostarli nei paradisi fiscali. In Italia le multinazionali versano al fisco circa 32 miliardi, ma secondo lo studio mancano all’appello altri 6 miliardi e 270 milioni. Tasse perdute dall’Italia. Che spariscono non in paradisi lontani, ma in gran parte nella stessa Ue. «Se si escludono gli Stati Uniti, l’elusione è una battaglia interna all’Europa», spiegano gli economisti: «Ogni cento euro di profitti spostati fuori da un singolo paese europeo, ottanta finiscono nei paradisi fiscali della stessa Ue». In totale, secondo il paper, le multinazionali trasferiscono in Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta circa 290 miliardi di dollari all’anno: il 35 per cento proviene da altri Stati europei a tassazione più alta, il 30 per cento da nazioni in via di sviluppo, il restante 25 dagli Stati Uniti. Quei sei paradisi europei offrono alle aziende una tassazione bassissima: meno del cinque per cento. Ma grazie alle masse di profitti spostati, riescono a incassare, in proporzione, più dei paesi normali: «Malta, ad esempio, raccoglie l’otto per cento del proprio reddito nazionale dalle imposte sulle società, il Lussemburgo il sette per cento, l’Irlanda oltre il cinque. Mentre Stati Uniti, Germania e Italia incassano meno del tre per cento». Per le aziende, stimano i tre economisti, il vantaggio è gigantesco: per ogni euro pagato in tasse nei paradisi fiscali, ne risparmiano cinque nei paesi normali. Il problema della grande elusione è aggravato dall’avvento dell’economia digitale: le multinazionali di Internet gestiscono tutto dai paradisi fiscali, ignorando le tasse nazionali. Un nervo scoperto per l’intera Ue, che ha visto fallire il progetto di “web tax europea”. Affossata proprio dai sei paradisi europei, più la Svezia. Ancora più sconfortante è la mancanza di rimedi. «Le autorità nazionali non hanno una strategia contro i paradisi fiscali: riescono a contrastare solo i trasferimenti di profitti verso altri paesi normali», avverte il professor Torslov. «La Francia ad esempio è riuscita a riportare in patria capitali spostati in Germania, ma non in Lussemburgo o alle Bermuda. E il 75 per cento dei casi di transfer pricing scoperti dal governo danese riguardano altri paesi ad alta tassazione. Il nostro paper dimostra proprio che la grande elusione fiscale non sembra essere stata in alcun modo scalfita».

Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta. Dalle tangenti del Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con più di 250 milioni nascosti dal fisco da imprenditori del nordest Paolo Biondani e Leo Sisti il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Si chiama “lista De Boccard”. Dal computer del professionista svizzero Bruno De Boccard, sequestrato dai magistrati della Procura di Venezia, è emerso un elenco di dozzine di imprenditori, soprattutto veneti, protagonisti di una colossale evasione fiscale, celata all’ombra del super condono targato Berlusconi del 2009-2010. Un fiume di denaro di “oltre 250 milioni di euro”, finora mai completamente ricostruito, dove si mescolano le tangenti ai politici e i fondi neri degli stessi clienti. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti autostradali, in grandi alberghi o studi di commercialisti. Lo rivela L’Espresso in edicola domenica 28 aprile e  in anteprima online su Espresso+ . L’indagine della Guardia di Finanza, nata sulla scia dello scandalo del Mose di Venezia, ha già portato al sequestro di oltre 12 milioni di euro. E ha fatto scoprire un traffico di tangenti per 1,5 milioni nascoste prima in Svizzera e poi in Croazia da una prestanome di Giancarlo Galan, ex governatore veneto e ministro di Forza Italia, già condannato per le maxicorruzioni del Mose. Questa nuova indagine ha fatto emergere anche una serie di documenti informatici con i dati di centinaia di società offshore utilizzate da politici e imprenditori per nascondere nei paradisi fiscali più di 250 milioni di euro. Molti casi di evasione sono stati però cancellati dalla prescrizione o dallo scudo fiscale. Secondo L’Espresso, il “re delle valigie” Giovanni Roncato ha ammesso di aver rimpatriato, grazie proprio allo scudo, 13,5 milioni di euro, detenuti all’estero e accumulati in passato “in seguito a minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa…la Mala del Brenta…nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona”. Ed ecco partire il carosello del denaro, affidato a “malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova Ovest”. Si chiama Alba Asset Inc, la offshore spuntata nei file di De Boccard, creati insieme al suo boss, il nobile italo-elvetico Filippo San Germano d’Aglié, nipote della regina del Belgio. Un altro nome eccellente che compare nell’inchiesta ribattezzata Padova Papers, germinazione dei più famosi Panama Papers, è quello di René Caovilla, titolare di un famoso marchio di scarpe, e boutique in tutto il mondo. Anche lui, al quale faceva capo la offshore Serena Investors, riporta L’Espresso, si è avvalso dello scudo fiscale, facendo rientrare in Italia 2,2 milioni di euro, “somme non regolarizzate affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera”. Anche tre commercialisti di uno affermato studio di Padova, giù emersi nelle vicende del Mose, entrano qui in scena come presunti organizzatori del riciclaggio di denaro nero: Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. Tutti collegati al duo San Germano-De Boccard, punti di riferimento di proprietari di hotel, fabbriche di scarpe, imprese di costruzioni e, ancora, big delle calzature. Come Damiano Pipinato, che attiva lo spostamento dei soldi attraverso proprio Guido Penso: “Lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori…Io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova”. Il dottor Penso non contava il denaro, si fidava, si accontentava della cifra indicata da Pipinato e “rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato”. Pipinato ha confessato di aver esportato all’estero 33 milioni di euro: 25 in Svizzera, 8 a Dubai.

In Veneto si fa, ma non si dice. Lo rivela “Il Corriere della Sera”. Scoperti dalla Guardia di finanza in Veneto oltre 2.300 falsi poveri che usufruivano dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario. Il controllo è stato svolto, per ora, in cinque Ussl sulle 22 esistenti nella regione, con un bacino d'utenza di circa 1.200.000 assistiti residenti in 183 comuni delle province di Venezia, Belluno, Padova, Treviso e Vicenza. I finanzieri proseguiranno gli accertamenti per verificare altre 8 mila posizioni di persone fisiche dichiaratesi «disoccupate». Il report di analisi, condotto su 30 mila prestazioni in esenzione per «disoccupazione e reddito» nel biennio 2009-2010, ha evidenziato appunto 2.300 prestazioni elargite nei confronti di cittadini con redditi superiori alla soglia prevista per godere del beneficio e 10 mila prestazioni rese nei confronti di assistiti rivelatisi non disoccupati, nei confronti dei quali le fiamme gialle compiranno ulteriori accertamenti per escludere ulteriori condotte fraudolente.

Ma di non solo truffe si ciba il ricco nord-est. Vi è anche l’evasione fiscale. In Veneto sparisce il 22,4% del reddito. E lo racconta “La Repubblica”. Un Paese unito nel nome dell'evasione fiscale: nascondere una parte o la totalità del reddito agli occhi dello Stato è un' attività diffusa su tutto il territorio italiano. Ma gli evasori non sono tutti uguali: c' è chi si accontenta di truffare il fisco solo in parte, e chi mette via ogni remora pur di accumulare entrate senza versare le tasse. Al Nord come al Sud, anzi al Nord un po' di più. Contrariamente a quanto si pensa per via della maggiore diffusione dell'economia sommersa, il picco dell'evasione si raggiunge nel Settentrione. La regione che sottrae più ricchezza ai fini dell'Irpef è il Veneto, che nasconde in media il 22,4 per cento dei suoi redditi, la più virtuosa è la Sardegna dove l'evasione si contiene al 13,7%. Fra i due estremi, c'è il ritratto di un Paese che si attrezza in mille modi per ingannare il fisco quando il contribuente non versa la ritenuta alla fonte: dalle prestazioni professionali in nero agli scontrini mai emessi. A differenziare il fenomeno in base al territorio ci ha pensato lo Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, in uno studio che calcola le percentuali del reddito dichiarato rispetto a quello disponibile nel 2008 (al netto delle prestazioni sociali e delle quote esenti, più diffuse al Sud). Il Paese in complesso ne esce male anche se, contrariamente ai luoghi comuni, la quota di reddito nascosto è più alta al Centro-Nord, con il 19,3 per cento, che al Sud (il 18). Al Veneto (22,4), nella classifica dei meno virtuosi, seguono le Marche (22 per cento di ricchezza evasa). Ma a parte un intermezzo fra il terzo e quarto posto - Basilicata (21%) e Calabria (20,6 per cento, pari merito con l'Emilia Romagna) - è l'Italia del Centro Nord a dominare la parte alta della graduatoria. Lombardia e Sicilia, regioni con notevoli differenze nel livello di vita, evadono quote simili (17,6 per cento la prima, 17,2 la seconda). Quanto a virtuosismo, alza la media settentrionale solo la Liguria (14,7 per cento di reddito evaso). L'andamento non cambia di molto se si considerano le percentuali di reddito dichiarato rispetto al Pil: il Mezzogiorno dichiara il 51,2 per cento rispetto al 49,5 del Centro-Nord. E non sembra che nel breve periodo le posizioni possano invertirsi visto che - secondo una indagine di Contribuenti.it - nei primi mesi del 2010 l'evasione era data in aumento soprattutto in Lombardia e in Veneto. Commenta lo Svimez: «Non cadiamo nella tentazione di etichettare il Centro Nord come terra di evasori fiscali - si legge nello studio -. Ma questi dati mostrano comunque che non si può attribuire questa stessa etichetta al Mezzogiorno: la realtà è che l'Italia non ha raggiunto l'unità economica, ma è unificata dall'evasione». Secondo i ricercatori dell'associazione una precisazione però va fatta: «Le informazioni della Guardia di Finanza - che non riguardano tutti i contribuenti, ma solo quelli sottoposti a controllo fiscale - indicano che nel Mezzogiorno ci sono più evasori che nascondono importi modesti». Al Centro Nord si verifica il caso opposto: «Al limitato numero di evasori corrisponde una massa imponibile non dichiarata rilevante». In sostanza, conclude lo studio Svimez «si può figurare un'evasione per sopravvivenza al Sud ed una evasione per accumulazione di ricchezza al Nord».

A tal riguardo Antonio Melli dice la sua Su “La Vera Cronaca”: Il Veneto leghista campione di evasione fiscale. Se li sentite parlare con quelle voci stridule ed inequivocabili, non pensereste mai che dietro quelle urla folkloristiche si nasconde una realtà completamente opposta al senso politico ingabbiato in esse. Parlano soprattutto della Padania, antica terra laboriosa dove il senso civico bene si amalgama con l'onestà sociale. Salvo poi a scoprire che in questo territorio si annida un'evasione fiscale che non conosce vergogna e che fa del Veneto una regione dove la pratica dell'illegalità fa quasi parte del Dna di molti dei suoi abitanti. Parlano i numeri. É Venezia la culla dell’evasione in Veneto dall’alto dei suoi 384 milioni maturati nei primi quattro mesi dell’anno. La provincia veneziana è seguita a distanza da Vicenza, con 250 milioni, Verona con 222 e Padova con 59. Fanalino di coda Belluno con 13. Città che risulta essere "virtuosa" anche per quanto riguarda l’Iva, il lavoro nero e i lavoratori irregolari. Il quadro del resto del Veneto è invece alquanto pesante: complessivamente da gennaio ad aprile l’ammontare dell’evasione è stato di 1 miliardo e 34 milioni di euro. Pesante anche "l’ammanco" dell’Iva: 242 milioni e mezzo di euro in quattro mesi, sempre con Venezia in vetta alla classifica con quasi 93 milioni, seguita da Vicenza con 51 e Padova con 49. Anche in questo caso Belluno ha fatto registrare la cifra più bassa, 1 milione e mezzo di euro. Ma non c’è solo l’ evasione. La Guardia di finanza ha anche scoperto 975 lavoratori in "nero" o irregolari, sempre nel periodo che va da gennaio ad aprile 2010. Quello del lavoro nero è un fenomeno che presenta caratteri diversi e differenze numeriche macroscopiche da provincia a provincia. La provincia con più violazioni è quella di Treviso, dove sono stati scoperti 352 lavoratori del tutto "in nero" o irregolari; poi seguono Verona (149), Venezia (130), Vicenza (119) e Rovigo (115). Ma c’è anche chi è virtuoso, come Belluno dove le posizioni irregolari sono risultate essere appena 16. Sul fronte imprese e professionisti, quelli risultati completamente sconosciuti al Fisco sono stati 288; il maggior numero è stato scoperto a Venezia (83), Verona (57) e Vicenza (47). Detto questo, non vediamo proprio quali basi etiche la Lega Nord ed i suoi adepti vogliono suggerirci per adempiere alle loro richieste di federalismo fiscale, senza attendere i giusti tempi per un'approfondita analisi dei processi che esso andrebbe ad innescare. Forse sarebbe meglio che continuassero a preoccuparsi di combattere gli immigrati clandestini che, seppur a costo di lacerazioni culturali senza precedenti nella storia del nostro Paese, rappresentano per loro il terreno ideale su cui continuare a consolidare il loro potere politico. Perchè è solo a quello che essi mirano.

E poi per ripicca contro il Sud c’è chi diventa leghista. Interessante, però è il pensiero di Emanuele Bellato su “Il Popolo Veneto”. Si è scritto tanto dello scandalo che ha travolto la Lega Nord, alcune volte con competenza ed onestà intellettuale, ma il più delle volte propinando il solito corollario di inutilità e gossip. Comunque il quadro che emerge dalle indiscrezioni sull’inchiesta è sicuramente squallido: si parla di un vorticoso giro di soldi e di investimenti all’estero, di versamenti ai famigliari del Senatùr e al cosiddetto Sindacato Padano di Rosy Mauro. Proprio per questi motivi l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, è indagato per riciclaggio, appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato. Inoltre la magistratura indaga sui rapporti del tesoriere Belsito e la ‘ndrangheta. Non mancano nemmeno le intercettazioni ad inchiodare i “furbetti”, e poi le “gole profonde”: da Nadia Dagrada, segretaria amministrativa del Carroccio ad Alessandro Marmello, autista del giovane rampollo di casa Bossi (soprannominato “Trota”), che hanno già “vuotato il sacco”. Le dimissioni di Bossi senior e junior (quest’ultime tardive) più che un esempio da imitare rivelano una certa fragilità nel sostenere una causa ed una posizione troppo scomoda. Se l’informazione fa più o meno bene il suo dovere, lo stesso non può dirsi per i partiti dell’arco parlamentare. PDL, PD, UDC nell’attaccare ferocemente l’avversario in difficoltà hanno ritrovato una verginità che non gli appartiene. Viene in mente il detto: “il bue che dice cornuto all’asino”. Nel frattempo, la santa trinità - Alfano, Bersani, Casini - nell’indifferenza più totale, ha approfittato per approntare una riforma elettorale fondata, come ha giustamente criticato Vendola, “sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo” e cosa ancor peggiore ha dato il via libera alla manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, avallando di fatto il licenziamento discriminatorio sotto mentite spoglie. Il PD si ritaglia un ruolo addirittura grottesco nell’autoassegnarsi una vittoria inesistente. In Toscana hanno persino stampato dei manifesti “tragicomici” con su scritto “Vince il lavoro, vince il PD”. Il trionfalismo regna sovrano anche nelle vuote dichiarazioni del segretario Bersani e nelle mail inviate dal gruppo dei DeputatiPD.it. Questo il testo: “Grazie al Pd evitato colpo di mano sull'articolo 18. […] Sono state apportate correzioni che avvicinano la regolamentazione italiana dei licenziamenti senza giusta causa a quanto avviene in altri paesi europei. Aspettiamo di vedere le norme che verranno presentate in Parlamento ma, da quanto hanno detto il presidente Monti e il Ministro Fornero, è stato recepito il modello tedesco che prevede la possibilità di reintegrazione dei lavoratori per ogni caso di ingiusto licenziamento, anche per ragioni economiche”. A smentire i tanti “Pinocchio” del PD è lo stesso Monti che sul reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa dichiara: “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. E’ dura ammetterlo, ma questi tecnici stanno riuscendo nell’impresa mancata da Berlusconi, ovvero schiavizzare i lavoratori, privarli dei diritti fondamentali, o più semplicemente umiliarli. E poco importa se Confindustria si lamenta, è nel gioco delle parti. Ma ritorniamo a parlare della Lega. Adesso tutti sembrano accorgersi delle anomalie del Carroccio. Tutti si indignano per i favoritismi al “Trota”. Finanche dentro alla Lega i “maroniani” o “barbari sognanti” scalpitano in cerca di notorietà al grido di “pulizia, pulizia, pulizia”. Ma dove erano questi signori fino a ieri? Esistono decine di libri sulle malefatte della Lega. Tra i più significativi, vale la pena di citare alcuni titoli: “Un Po di contraddizioni. Il libro verde della Lega” a cura di Roberto Busso, Stefano Catone, Andrea Civati, Giuseppe Civati e Marcello Volpato; “Inganno Padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, 2010) di Fabio Bonasera e Davide Romano con prefazione di Furio Colombo; “Razza Padana” (Bur, 2008) di Adalberto Signore e Alessandro Trocino; “Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Dichiarazioni e scandali di un partito” (Newton Compton, 2010) di Eleonora Bianchini; “Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo” (Laruffa, 2011) di Luigi Pandolfi; “Avanti Po” (Il Saggiatore, 2010) di Paolo Stefanini; “Dossier Bossi-Lega Nord” (Kaos, 2011) di Michele de Lucia; “LegaLand. Miti e realtà del Nord Est” (Manifestolibri, 2010) di Sebastiano Canetta ed Ernesto Milanesi; “Metastasi” (Chiare Lettere, 2010) di Gianluigi Nuzzi; “Lo spaccone. L'incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega” (Editori Riuniti, 2004) di Rossi Giampieto e Simone Spina; “Umberto Magno. La vera storia del'imperatore della Padania” (Aliberti, 2010) di Leonardo Facco. In tutti questi libri si parla delle contraddizioni del partito padano, degli sperperi di denaro pubblico, delle collusioni con la malavita organizzata, della tangente Enimont, del fallimento della banca Crediteuronord, degli investimenti esteri: dal villaggio in Croazia alla Tanzania, del clientelismo, dei doppi e tripli incarichi, passando per le provocazioni xenofobe e razziste. Ma il libro più profetico ed illuminante è indubbiamente: “Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio” (Oscar Mondadori 1994) di Gianfranco Miglio. Si tratta di un libro datato, ormai introvabile se non in qualche bancarella dell’usato, mai più ristampato dalla casa editrice di proprietà della famiglia Berlusconi forse per compiacere il leader del Carroccio, quando l’alleanza tra il Cavaliere e il Senatùr sembrava inossidabile. In questo volumetto, dedicato “ai miei amici leghisti della base”, il giurista e politologo lombardo tratteggia un ritratto impietoso di Bossi, tacciandolo come primitivo, imbroglione, geloso. Il professor Miglio, a dispetto di chi tuttora lo vuole inserire nel Pantheon degli ideologi della Lega o gli dedica poli scolastici, senza aver mai letto un suo libro, scriveva del leader leghista: “Chi ha avuto rapporti continuati con lui (Bossi), sa che il suo primo e fondamentale difetto è la mancanza di sincerità. Beninteso: in politica esistono delle occasioni (fortunatamente rare) in cui il dovere di dire la verità si attenua; ma Bossi mente sempre, e anche gratuitamente: molte volte si vantò con me, divertendosi, di avere imbrogliato un avversario, o anche un compagno di strada. Può darsi che questa brutta abitudine sia un retaggio degli anni difficili, in cui la “lotta per la vita” fu per lui particolarmente dura, e lo costrinse a sviluppare la furbizia, che egli considera quindi una virtù”. (pp.37, 38) Continuando nella lettura si viene a conoscenza che il metodo di selezione della classe dirigente, vedi il “cerchio magico” o il tesoriere, non è un difetto attribuibile alla recente malattia ed alla presunta perdita di lucidità: “Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Anche perché qui si è rivelato un altro suo difetto incoercibile: la gelosia. Bossi è sempre stato morbosamente geloso di chi ottenesse, fra i “leghisti”, una simpatia e un credito eguali, se non addirittura superiori, a quelli a lui tributati. (pag.40) […] E naturalmente, avendo adottato un criterio selettivo “a rovescio” di quel genere, il segretario non solo impedì a molte persone qualificate di entrare nella Lega, ma riuscì a circondarsi di una squadra di “colonnelli”, tutti (si fa per dire) meno “dotati” di lui: magari, presi uno per uno, brava gente (e in attesa dell’occasione favorevole per mostrare la loro autonomia), ma consapevoli di dovere la loro fortuna politica esclusivamente alla fiducia del capo, e quindi pronti a ripetere come pappagalli le sue parole d’ordine. (pag.41) Miglio nutriva seri dubbi anche sulle reali aspirazioni federaliste dei vertici leghisti (...Il “federalismo” era per il segretario e per i suoi accoliti uno strumento per la conquista del potere, una specie di “piede di porco” con il quale scardinare le difese degli avversari - pag.48), ma questa è un’altra storia. Concentriamoci piuttosto sulla questione morale. Forte era la delusione dell’inventore di Bossi, o se non altro della persona che più ha contribuito a dare pensiero e spessore ad un partito animato solo dal sentimento della protesta. Miglio stese “sette comandamenti” per la Lega lombarda, con la relativa interpretazione. Il punto 5 ordinava: “Là dove, e quando, i leghisti prenderanno responsabilità di amministrazione e di gestione, esercitare su di loro un controllo morale. Espellere senza pietà i disonesti, gli incapaci e coloro i quali rompono la solidarietà del gruppo. A questo fine, far firmare a ogni leghista, che assume un pubblico incarico, una lettera in bianco di dimissioni. Dare la massima pubblicità a queste operazioni di controllo”. Commento: “Questa regola diventò sempre più importante man mano che i rappresentanti del movimento entrarono nelle pubbliche amministrazioni. L’espediente della lettera di dimissioni in bianco era da parte mia un’ingenuità. Piuttosto avrei dovuto raccomandare il rigore morale nella gestione (soprattutto finanziaria) delle strutture della Lega sul territorio. Con il passare del tempo, mi accorsi infatti che il controllo economico delle organizzazioni periferiche era potenzialmente un punto molto debole”. (pp.19, 20) Era già tutto scritto, dunque c’è poco da stupirsi, sia da una parte che dall’altra della barricata. Inutile dipingere Bossi come il “Caro Leader” di nordcoreana memoria vittima di un complotto, o consideralo solo ora come il “male assoluto”. I campanelli d’allarme suonavano già da un pezzo ma nessuno ha voluto ascoltarli. Speriamo almeno che sia altrettanto profetico il futuro immaginato dal vituperato professor Miglio: “La politica non la si fa certo con le belle maniere e con i ‘minuetti’; ma quando saremo emersi da questa vicenda, ci renderemo conto che il bullo di Cassano Magnano ha rappresentato il momento più clamoroso - ma anche il più triviale - della crisi. Un’esperienza che un Paese serio non dovrebbe ripetere più”. (pag.71)

Appare strano che si diventi leghisti per differenziarsi dai meridionali, pur avendo se non di più, almeno gli stessi difetti. A parlare di mafia nel Nord Est italiano si fa peccato, però…..ne parla Lorenzo Frigerio ed “Il Fatto Quotidiano”. La presenza della criminalità mafiosa in Veneto fu ufficialmente ammessa soltanto nel corso dell'ultimo decennio. Fino ad allora si sostenne che la regione fosse tutt'al più affetta da fisiologici problemi di criminalità locale. Agli inizi degli anni Ottanta, la vertiginosa ascesa della "mala del Brenta" e la contemporanea scoperta dei traffici di armi e droga e delle operazioni di riciclaggio delle cosche furono le drammatiche realtà in cui si imbatterono improvvisamente le forze dell'ordine e l'opinione pubblica.

La Grande balla al Tg4, Napoletano: «Il Sud è stato di fatto escluso dal decreto liquidità». Roberto Napoletano il 16 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud.

Nuova crisi, vecchio rimedio. I soldi? Sempre e solo al Nord. La proposta indecente dei tecnici del Governo. Ivana Giannone il 19 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nuova crisi economica, vecchi rimedi. Come accadde dal 2009 in poi, anche oggi con l’emergenza Coronavirus in corso, il Governo ha bisogno di risorse da investire qua e là per salvare il salvabile. Questa volta non serviranno a ripianare i conti pubblici, che grazie alla sospensione del patto di stabilità non dovrebbero essere un problema, ma a investire nelle zone più colpite. Con quali soldi? Con quelli destinati al Mezzogiorno. La proposta arriva dal Dipe, il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica che fa capo a Palazzo Chigi. In un documento dal titolo “L’Italia e il Covid-19” (aprile 2020), che il Quotidiano del Sud è riuscito a visionare, si propone la «sospensione del riparto delle risorse dei programmi di spesa». Tradotto: la messa in pausa della cosiddetta clausola del 34% che destina alle regioni meridionali una quota di investimenti pari alla popolazione residente. Un colpo di mano che rischierebbe di mettere una pietra sopra su una disposizione approvata a fine 2016, ma ancora largamente inattuata. Sospendere, poi, fino a quando? Questo il Dipe non lo dice. L’emendamento proposto cita testualmente: «Il riparto delle risorse dei programmi di spesa di cui al comma 2 è sospeso sino al …….».

Puntini sospensivi. Che potrebbero valere mesi, o più probabilmente anni, di quello che questo giornale ha sempre definito “scippo” e che questa volta troverebbe una nuova giustificazione nell’emergenza che però, è bene ricordarlo, colpisce tutto il Paese, specie i territori che già prima scontavano povertà e disoccupazione. Due rilievi possono aiutare a capire cosa significherebbe dirottare altrove gli investimenti destinati al Sud. Secondo una stima della Svimez, già prima dell’inizio dell’emergenza Covid-19, il Mezzogiorno faceva i conti una pesante recessione: il pil meridionale era circa dieci punti al di sotto dei livelli pre-crisi del 2009. Secondo dato: il lockdown dovrebbe far calare il prodotto interno lordo del Mezzogiorno di circa altri 8 punti. A fine anno quindi il Sud potrebbe contare circa 20 punti di pil in meno rispetto al 2007. Tutto questo ovviamente al netto della proposta del Dipe. Senza investimenti o con una quota significativamente ridotta, i numeri potrebbero essere ben altri.

Le giustificazioni si sprecano: «A seguito dell’esplosione della crisi sanitaria e delle sue conseguenze economiche nel Paese – si legge nella relazione illustrativa allegata alla proposta – si rende necessario operare una sospensione del criterio di riparto delle risorse dei programmi di spesa in conto capitale finalizzati alla crescita o al sostegno degli investimenti, consentendo all’Autorità Politica la valutazione delle zone ove concentrare la maggior quantità di risorse per investimenti in considerazione del mutato scenario sociale e produttivo». Leggi: i soldi vanno dirottati in quello che fino a un paio di mesi fa era il cuore produttivo del Paese, con buona pace di quelle regioni che quest’estate non potranno contare più neanche sulle entrate garantite dal turismo.

E non finisce qui. Proprio come già accaduto nel 2010, quando il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, si propone una sforbiciata anche ai Fondi di sviluppo e coesione, le risorse che almeno in teoria sarebbero destinate al riequilibrio territoriale. L’attuale ripartizione affida l’80% dei fondi al Sud e il 20% al Centro-Nord. Percentuali che ora si vorrebbero rivedere, anche se il documento non specifica in quale misura, rimandando tutto al “coinvolgimento delle Regioni e degli Enti locali”. Le risorse prese in considerazione sono quelle relative alla programmazione 2014-2020, in particolare i 4,87 miliardi di euro che oggi risultano ancora «liberi da utilizzi». Un set di proposte indecenti che non è passato inosservato dalle parti di Montecitorio. «È imprescindibile che il Governo mantenga, ribadendola con forza, una linea politica per lo sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali che da un lato favorisca una pronta ripartenza del proprio tessuto produttivo e dall’altro permetta il recupero progressivo dei divari economici e infrastrutturali con il resto del Paese», scrivono i deputati meridionali del Partito Democratico. «A tal fine consideriamo i seguenti punti come componenti fondamentali e non derogabili di questa strategia: 1. mantenere il vincolo di destinazione territoriale delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) congiuntamente a quelle degli altri Fondi strutturali, al fine di promuovere le politiche per lo sviluppo della coesione sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e infrastrutturali tra le regioni; 2. considerare le risorse di cui al punto 1) aggiuntive rispetto a qualsiasi altro strumento di finanziamento ordinario e/o straordinario, non derogando così al criterio dell’addizionalità previsto per i fondi strutturali dell’Unione Europea; 3. rispettare la cosiddetta “clausola del 34%” che prevede la distribuzione degli stanziamenti in conto capitale delle Amministrazioni Pubbliche in proporzione alla popolazione nelle varie regioni italiane». Ora tocca al ministro dell’Economia, il democratico Roberto Gualtieri, e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte battere un colpo.

Il virus rischia di togliere i fondi europei alla Calabria: soldi alle regioni colpite. Massimo Clausi il 19 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Altro che Mes. Il vero acronimo che dovrebbe preoccupare i calabresi è CRII+ (Coronavirus Response Investment Initiative Plus). Si tratta di un pacchetto di misure finalizzate a fronteggiare l’emergenza coronavirus in tutta Europa. L’elefantiaco procedimento legislativo di Bruxelles sul tema non si è ancora concluso, ma in linea di massima il pacchetto prevede una straordinaria flessibilità dei fondi affinché tutto il sostegno finanziario non utilizzato a titolo dei Fondi strutturali e di investimento europei possa essere pienamente mobilitato. Nello specifico la flessibilità è garantita mediante: possibilità di trasferimento tra i 3 fondi della politica di coesione (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo di coesione); trasferimenti tra le diverse categorie di regioni; e flessibilità per quanto riguarda la concentrazione tematica. Naturalmente è il secondo punto quello che più interessa alla Calabria ovvero lo spostamento dei fondi di Coesione (pensati per colmare i gap socio-economici fra le regioni) a regioni diverse da quelle definite “convergenza” come la Calabria. In base a questo pacchetto i fondi non utilizzati dalle regioni più “deboli” possono essere trasferiti ad altre regioni per contrastare gli effetti della pandemia. Attualmente gli Stati membri possono trasferire tra le regioni fino al 3% dei fondi stanziati. Nella proposta odierna non vi è più alcun limite, poiché l’impatto del coronavirus non rispetta la consueta categorizzazione delle regioni più o meno sviluppate prevista dalla politica di coesione. Ciò significa che la Lombardia, dove il virus ha colpito più che altrove, può prendersi i fondi della Calabria. Al fine di garantire una continua attenzione alle regioni meno sviluppate, gli Stati membri dovrebbero valutare in primo luogo altre possibilità di trasferimento dei finanziamenti prima di prendere in considerazione il trasferimento dai bilanci delle regioni meno sviluppate a quelli delle regioni più sviluppate. In altre parole, i trasferimenti non dovrebbero ostacolare gli investimenti essenziali nella regione di origine o impedire il completamento delle operazioni selezionate in precedenza. Inoltre, i trasferimenti possono essere richiesti dagli Stati membri solo per operazioni connesse al coronavirus nel contesto della relativa crisi. Va ricordato che l’obiettivo della politica di coesione è ridurre il ritardo delle regioni meno favorite. Tale principio è sancito dal trattato e dovrebbe essere rispettato anche nelle circostanze attuali. Questo in linea di principio. In Italia però bisogna sempre prendere tutto con le molle perchè già abbiamo avuto un’esperienza simile con i fondi Pac “dirottati” sulle quote latte lombarde. Questa possibilità che i fondi comunitari non impegnati possano essere trasferiti ad altre regioni interessa molto la Calabria che ha diversi investimenti ancora fermi al palo. La tabella che potete leggere in pagina è contenuta fra i documenti allegati al bilancio di previsione 2020 che sarà discusso nel prossimo consiglio regionale. Secondo i conti del Dipartimento Bilancio della Regione, la quota delle risorse a fronte delle quali non si registrano obbligazioni giuridicamente vincolanti ammonta ad almeno 3 miliardi di euro nel pluriennale 2020-2023. A questi vanno aggiunti anche i quattrini della programmazione 2016/2020 calata in un quadro economico che oggi è totalmente mutato per gli effetti del coronavirus. Da qui la proposta del consigliere regionale del Pd, Carlo Guccione, di approvare insieme al bilancio un piano strategico per far ripartire gli investimenti pubblici e impegnare quante più risorse possibile per evitare futuri scherzi da parte del Governo e della Ue. La maggioranza, dal canto suo, vuole riproporre una commissione consiliare che i occupi di fondi comunitari proprio per evitare che queste risorse prendano altre strade. Non sappiamo quale delle due proposte sia confacente alla situazione, ma quel che è certo è che bisogna iniziare a discutere della futura programmazione per far ripartire la Calabria. Al momento si registra solo l’atto di indirizzo della giunta, su proposta dell’assessore Fausto Orsomarso (approvato con Delibera di Giunta Regionale del 01.04.2020) in cui vengono stanziati 150 milioni, che verranno gestiti da Fincalabra, per prestiti alle imprese calabresi. Un primo passo, che a breve verrà concretizzato, ma il dibattito non può che essere più ampio se non vogliamo rischiare un altro scippo al Sud.

VOGLIONO FAR PAGARE AL SUD SPRECHI E MALAGESTIONE DEL NORD. Pino Aprile 20 Aprile 2020.

FONDI COESIONE E 34% A RISCHIO. MINISTRO PROVENZANO, E SOTTOSEGRETARIO TURCO: NO. “L’Italia è finita”, sembrò un titolo esagerato, ad alcuni: racconta quello che sta succedendo, e perché, anche se uscito due anni fa. Preveggenza? Figurati: lo diceva già Indro Montanelli molti anni prima. Il destino dell’Italia si gioca in questi giorni, forse, in queste ore: dipenderà da come finisce lo scontro fra chi pensa di “tornare a prima del Covid-19”, ovvero al Paese diviso fra chi si arroga tutti i diritti e i meriti (ma la gestione dell’epidemia ha dimostrato quanto sia presuntuoso e falso), e chi è ritenuto titolare di minori diritti (lo si vorrebbe persino sancire costituzionalmente, con l’Autonomia differenziata) per la sua pochezza e incapacità (ma la gestione dell’epidemia ha dimostrato quanto sia presuntuoso e falso, pur se lo insegnano da cattedre in “Tutta colpa del Sud” generosamente elargite). Il modo in cui si vorrebbe tornare a “prima del Covid-19” è lo stesso che ha creato l’Italia duale: una parte che rastrella risorse (e non “restituisce”, come ha detto il ministro al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano e confermano economisti non schierati) e una parte tenuta in stato coloniale, cui sottrarre risorse e diritti.

L’APPELLO L CAPO DEL GOVERNO: LA RIPARTENZA SIA MERIDIONALE. Le proposte allo studio del governo sono le peggiori possibili: rubare i fondi per lo sviluppo e la coesione, FSC, destinati al Sud e darli a chi è stato capace di buttare da 21 a 50 milioni (non si sa ancora), per attrezzare in un mese una dozzina di posti letto di terapia intensiva, mentre gli incapaci e ladri, a Napoli, in 30 ore, costruivano un ospedale (non solo tirando su tramezzi in un edificio esistente), per 72 posti letto, spendendo 7 milioni. E vorrebbero pure sospendere la clausola, appena imposta, del 34 per cento della spesa pubblica al Sud, almeno proporzionale alla popolazione! Questo, mentre centinaia di cittadini (primi firmatari, decine di docenti universitari, intellettuali, imprenditori) lanciano una lettera dal Sud al capo del governo, per dire che la ripartenza dalla tragedia non può che essere meridionale, perché le circostanze lo consentono, senza rischiare, e perché l’Italia è giunta al punto di rottura: o si avvia il recupero del divario Nord-Sud (frutto di scellerate scelte politiche e discriminatore a danno del Mezzogiorno, in un secolo e mezzo), o il Paese non reggerà alla brutalità di questo ennesimo strappo e si spezzerà.

LA PAROLA D’ORDINE: “FOTTERE IL SUD”. A livello di governo e dintorni, ormai c’è chi dice, esplicitamente, che “bisogna fottere il Sud” (la disperazione degli incapaci e ladri fa cadere le finzioni ed emergere la vera natura delle cose). E i trombettieri di regime coloniale annunciano la secessione possibile del Nord, se non potrà ancora saccheggiare il Sud, mentre si dice stufo di mantenerlo (e sono pure bugiardi, visto che ormai anche la Gazzetta di Paperopoli, non i giornali del Nord, non la Tv di Stato, salvo eroiche eccezioni, vedi Report, pubblica che l’ente di Stato Conti Pubblici Territoriali, gli studi della Svimez, le ricerche dell’Eurispes, eccetera eccetera eccetera, dimostrano che ogni anno son sottratti al Sud, dalle risorse che gli spetterebbero, almeno 61-62 miliardi. Quindi: chi mantiene chi?

Più volte, il giornale portavoce della Confindustria, il Sole24ore, nelle settimane scorse, aveva riportato “voci” chiaramente ispirate da ambienti ministeriali, senza dire quali, secondo cui “era allo studio” l’idea di “riprogrammare” i fondi per lo sviluppo e la coesione, eliminando il vincolo della destinazione. Che voleva semplicemente dire: i soldi del Sud, ce li prendiamo al Nord, e chissene pure del vincolo del 34 per cento (infatti il ministro ai Trasporti, purtroppo Paola de Micheli, Pd, nella ripartizione di parte dei fondi per il rinnovo dei parchi degli automezzi per il trasporto urbano, assegnò tutto alle città del Nord, meno una del Sud: l’equità di lorsignori). La mossa di oggi, quindi, viene da lontano.

"GLI ERPIVORI: NEL 1948 DE GASPERI DIROTTO' I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA'? Annamaria Pisapia il 23 aprile 2020 su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicopensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque (ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto (la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall'ospedale di Padova e di Brescia come "primi" ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l'emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce com“ nord, motore propulsivo". Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l'unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l'America annunciò l'avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell'Europa. Il piano prevedeva l'impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l'Italia, il Sud era l'area maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall'evento bellica. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l'87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su "Il Popolo" del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori" (consumatori parassiti di fondi Erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si battè affinché gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: "a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il Pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita "La Cassa per il Mezzogiorno" (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto, mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente".

IL MINISTRO DEL MEZZOGIORNO E IL SOTTOSEGRETARIO ALLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA: IL SOLDI DEL SUD NON SI TOCCANO. C’è da dire che, nel pieno del casino suscitato dalla divulgazione della proposta giunta sul tavolo di governo, ci sono due esponenti di peso del governo che sono venuti allo scoperto: il ministro al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega alla programmazione economica, Mario Turco. Provenzano, a cui ho chiesto cosa dobbiamo aspettarci, ha risposto: «Quelle proposte non sono le mie. Non sono state nemmeno discusse nel governo. Ma la clausola della sospensione del 34 per cento non passa, non può passare; io la sto già applicando. Quando ai fondi FSC, sviluppo e coesione, ho già detto pubblicamente che sono già stati programmati e non è previsto il loro trasferimento». Ricordo che questo, il ministro lo scrisse già replicando al Sole24ore. Ma… se il governo dovesse decidere diversamente? «Prima di essere chiamato a fare il ministro, ero vice direttore dello Svimez, e il mio compito fu documentare la fine che facevano i fondi destinati al Sud, invece di essere investiti a Sud. Ora quei fondi dipendono dal mio ministero. E non intendo sprecare questa occasione di rilancio a partire da Sud». E il sottosegretario Turco, ha diffuso una nota in cui si legge: “Anche se l’Italia è alle prese con l’emergenza coronavirus, non subiranno alcuna modifica le norme per il Mezzogiorno”. Spiega che il documento “L’Italia e la risposta al covid-19” è solo “una bozza di lavoro propedeutico ad uno studio del Dipartimento per la programmazione ed il coordinamento della politica economica”, non ancora sottoposta “perché incompleta, al vaglio dell’autorità politica”. Sulla determinazione del ministro Provenzano e del sottosegretario Turco, non ci sarebbero dubbi, a giudicare dalle loro parole (che, se non risultassero coerenti con le azioni, si ritorcerebbero contro). Ma il documento è stato prodotto e qualcuno lo ha fatto arrivare alla stampa, spiazzando non solo il ministro Provenzano e il sottosegretario Turco (in quota uno al Pd, l’altro ai cinquestelle), ma forse lo stesso Conte. Un capitolo di quel documento più esplicito non potrebbe essere: “Proposta di sospensione della clausola del 34%”; e altrettanto per i fondi FSC. Qualcuno lo ha scritto e prima che il governo ne discutesse, divulgato (meglio così, a questo punto, qualunque sia stata l’intenzione, se far passare la cosa per già fatta o per stroncarla). Provenzano dice: non passa, e nella nota del sottosegretario Turco, lo di dice due colte: “le soluzioni alla crisi economica connesse con il coronavirus non vanno ricercate modificando le norme a tutela del Mezzogiorno”, e quindi “è impensabile sospendere la clausola che destina il 34% delle risorse dei Fondi Ordinari per la spesa in conto capitale al Sud. Così come il criterio di ripartizione dei fondi Fsc”: tutte misure “per garantire una maggiore equità territoriale” (parole sante…, le ultime due, per fatto quasi personale).

SE ANCOR UNA VOLTA LA FURIA PREDATORIA DEL NORD DOVESSE PREVALERE, L’ITALIA SI SPEZZEREBBE. Lo scontro si preannuncia duro, quindi. Abbiamo tutti il dovere di operare e sperare che ci si possa salvare insieme, perché in una gara planetaria, meglio essere più grandi che più piccoli; ma se più grandi e divisi, in un conflitto irrisolvibile, allora, meglio piccoli coesi e forti, senza dover a che fare con il peggior nemico in casa. Le grandi tragedie sono occasione di verità e di scelte definitive; sono i momenti in cui si decide se continuare nel modo che ha portato al disastro o cambiare totalmente indirizzo. L’Italia è migliore di come ce l’hanno descritta e ce la descrivono: un Nord onesto, efficiente e generoso con il Sud disonesto, incapace e sprecone. Questo racconto, su cui è stata costruita una economia, non regge più; e quella economia non è più possibile, appartiene al tempo delle colonie; il Sud s’è scetato: o un Paese che sia lo stesso per tutti nei diritti, o non ci sarà più (la finzione di) un Paese, ma due.

PER LA LOMBARDIA, RAZZISTA E’ IL SUD (E LORO CI DAREBBERO 100 MILIARDI L’ANNO). Lino Patruno del direttivo nazionale M24A-ET. Proprio non la vogliono capire. Neanche un docente universitario e filosofo come Carlo Lottieri, bresciano. Il quale sul <Giornale> di Milano si lancia in una difesa della Lombardia a suo parere, e non solo suo al Nord, oggetto di razzismo da parte del resto d’Italia per i problemi della sua sanità (così magari capiscono cosa è il razzismo che riservano da sempre al Sud). Poi però si avventura in tesi sulle quali lui e gli altri farebbero bene a non insistere: il cosiddetto <residuo fiscale>. Sostiene con coraggio pari alla avventatezza che il Nord passa al Sud ogni anno 100 miliardi (e la Lombardia in particolare 54 miliardi). Anche a quella Campania la quale chiude le frontiere ai lombardi ma poi passa all’incasso. E’ la stessa faccia ineffabile con la quale Fontana e Zaia meditavano l’autonomia rafforzata. Facendo un autogol clamoroso. Perché allora si è scoperto (con le cifre ufficiali dei Conti pubblici territoriali) che:

- non c’è alcun residuo fiscale del Nord verso il Sud

- ogni anno lo Stato spende per ogni cittadino meridionale circa 4 mila euro in meno rispetto a un cittadino settentrionale

- dal 2009 sono stati sottratti al Sud 61 miliardi all’anno

- con un diverso conteggio questi miliardi dal 2000 al 2017 sono stati 840 (Eurispes)

- i posti fissi che secondo Ottieri i campani e i meridionali vorrebbero con i soldi del Nord, sono più numerosi al Nord che al Sud (dati Istat).

Consiglio finale ad Ottieri: studi di più.

La grande balla, il nuovo libro di Roberto Napoletano: «Il Nord vive sulle spalle del Sud». Redazione de ilgolfo24.it il 6 Marzo 2020. Si intitola “La grande balla” ed è il nuovo libro di Roberto Napoletano, frequentatore di Ischia, “Giornalista dell’Anno” nel 1990 al Premio Internazionale di Giornalismo, già direttore de Il Sole 24 ore. Con dati e statistiche ufficiali alla mano, l’autore racconta lo scippo di 61 miliardi che ogni anno il Nord effettua ai danni del Sud. E capovolge lo stereotipo del meridione d’Italia assistito che, al contrario, è stato abbandonato. Un’inchiesta esplosiva sulle vere cause, e le vere responsabilità, di un’Italia divisa in due, che si fa la guerra invece di unire le forze. La questione meridionale come non l’avete mai vista. È quanto assicura Roberto Napoletano, che torna in libreria con un saggio rigoroso e inedito sul divario tra Nord e Sud. Il titolo “La grande balla”, edito dalla Nave di Teseo. Secondo la ricostruzione dell’autore, «la regione Veneto fa pagare allo stato italiano non ai contribuenti veneti, per la sua sanità, lo stipendio a sedicimila dipendenti in più, non medici, di quanti ne fa pagare la sempre vituperata regione Campania che ha un milione di abitanti in più». «Sapete che l’Emilia Romagna e la Puglia, a quasi parità di popolazione, ricevono la prima tre miliardi in più e la seconda tre miliardi in meno per la sanità? Che a fare il deficit sanitario – si legge in un estratto del libro –  sono tre regioni a statuto ordinario del Nord non del Sud, per la precisione Piemonte, Liguria, Toscana, parola della corte dei conti?». «Vi siete mai chiesti chi ha il primato dei dipendenti pubblici in Italia? Penserete in automatico ai mille carrozzoni comunali e regionali dei mille Sud italiani, vero? No, sbagliato! – scrive Napoletano – Il Nordest, che comprende Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli, vince alla grande: ha cinque dipendenti pubblici ogni cento abitanti contro i 4,4 del solito diffamato Mezzogiorno e, addirittura, alla pari con Roma, senza avere neppure uno dei ministeri, delle authority, delle ambasciate che ‘popolano’ la Capitale di una nazione. Se dubitate dei numeri o il confronto non vi aggrada prendetevela con l’ISTAT che è la firma statistica dell’Italia nel mondo». Domande articolate, per certi versi con risposte sorprendenti e del tutto inedite, quelle che vengono fuori nel volume, appena edito da La nave di Teseo: quanti cittadini sanno che 61 miliardi dovuti al Sud vengono ogni anno regalati al Nord? Per Napoletano «si tratta del più grande furto di stato mai conosciuto nella storia recente della Repubblica italiana. I numeri di questa operazione verità fanno tremare vene e polsi, e permettono legittimamente di chiedersi se l’Italia esista ancora». Nord assistito, Sud dimenticato “La grande balla” di Roberto Napoletano intende portare il lettore a intraprendere un lungo viaggio nelle piccole grandi patrie dell’assistenzialismo, che – secondo l’autore – non sono al Sud, ma tutte al Nord. «La politica si è abituata da vent’anni a togliere investimenti al Sud per soddisfare le pretese dei questuanti di turno, sistemare gli amici degli amici nel coacervo di enti pubblici proliferati con la spesa facile. Tutti collocati nelle ricche regioni del Nord». Non dimentichiamo che il giornalista, per anni è stato direttore del Sole 24 Ore e, quindi, ha avuto modo di conoscere il sistema economico italiano dall’ interno.

·         I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La conferenza stampa del governatore. De Luca contro le Regioni del Nord: “Campania per il massimo rigore, pronti alla battaglia per impedire il furto di risorse al sud”. Redazione su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Vincenzo De Luca è per la linea del massimo rigore. Sempre. Il Presidente della Campania nella consueta diretta del venerdì lancia come al solito accuse e strali. Al governo, soprattutto, chiede rigore in questa fase dell’emergenza coronavirus. Se la Campania si è salvata, ha detto sottolineando che la Regione è quella con la densità abitativa più alta d’Italia, è stato per le decisioni prese dalla Regione stessa, prima dell’esecutivo. E non per il dpcm delle Zone Rosse, Arancioni o Gialle. “Fesserie”, le ha definite. E quindi è infastidito dall’informazione che vuole le Regioni premere contro il governo per ottenere più riaperture. “Secondo i media c’è un assedio delle Regioni nei confronti del Governo per chiedere provvedimenti meno rigorosi. La Regione Campania chiede provvedimenti più rigorosi, non meno. Mi auguro che anche il sistema informativo trasmetta notizie rispondenti alla realtà”. Insomma, De Luca auspica che il governo non ceda alle richieste di aperture, in occasione delle festività natalizie, sulle pressioni delle Regioni del Nord. “Siamo talmente abituati a considerare ‘le Regioni’ soltanto le due, tre o quattro del Centro Nord – ha aggiunto De Luca – che scambiamo le posizioni di tre o quattro Regioni come le posizioni delle Regioni d’Italia. Non è così. La Campania sostiene una linea di rigore, è contraria al rilassamento, all’apertura della mobilità, a queste manfrine alle quali stiamo assistendo su Comuni grandi o piccoli, su che dobbiamo fare a Natale, alla vigilia, a Capodanno”.

RECOVERY FUND – Un passaggio, che sottolinea ancora uno sfondo tra Regioni del Nord e del Sud, anche sul Recovery Fund, il fondo europeo da 750 miliardi miliardi di euro sbloccato dall’accordo dei ventisette. “Sullo sfondo c’è un problema che riguarda noi meridionali: e cioè le ipotesi del Governo configurano l’ennesimo furto nei confronti delle Regioni del Sud – ha aggiunto De Luca – I 209 milioni stanziati dall’Europa arrivano per recuperare il divario del sud rispetto al nord, mentre il Governo invece di dare il 66% al sud e il 34% al nord,  ipotizza di fare tutto il contrario. Dobbiamo prepararci a una battaglia politica chiara e forte per impedire che questo ennesimo furto a danno del Sud sia consumato nell’indifferenza del Paese e, quello che è peggio, delle Regioni meridionali stesse”. E quindi ha anticipato come “nei prossimi giorni vedremo di proporre un incontro con altre regioni del sud per mettere in campo una risposta istituzionale forte, anche per verificare se i parecchi ministri campani diano cenni di esistenza oppure no”. Un’altra stoccata al governo e in particolare ai ministri campani come quello degli Esteri Luigi Di Maio, agli Affari Europei Vincenzo Amendola, all’Università Gaetano Manfredi, allo Sport Vincenzo Spadafora, all’Ambiente Sergio Costa.

Il dibattito sul Recovery Fund. Recovery Fund, l’Europa è contro il divario tra Nord e Sud. Luigi Famiglietti su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. L’Italia ha ottenuto i 209 miliardi del Recovery Fund innanzitutto perché la Commissione ha riconosciuto come il divario Nord-Sud sia un punto critico per l’economia nazionale e, quindi, ha posto lo sviluppo del Mezzogiorno come prima condizione per l’utilizzo dei fondi. Nella bozza del Piano di resilienza portata in Consiglio dei ministri dal premier Giuseppe Conte si fa riferimento alla clausola del 34% come tetto per l’utilizzo dei fondi al Sud. In realtà, tale clausola, ancora non rispettata, è stata introdotta nel nostro ordinamento per fare in modo che, rispetto agli investimenti in conto capitale interni al Paese, almeno il 34% riguardi il Sud. Tale quota rappresenta la percentuale di popolazione meridionale rispetto al dato complessivo nazionale. Perciò c’è stata una levata di scudi degli istituti meridionalisti. In particolare, il presidente di Svimez, Adriano Giannola, ritiene che, in base alle linee-guida del Recovery Fund, debba essere riconosciuto al Sud almeno il 60% delle risorse a disposizione dell’Italia proprio perché il divario con il Nord è stato riconosciuto tra i più ampi tra i Paesi europei. Il Governo precisa che i fondi destinati al Sud nei prossimi anni saranno più che sufficienti in quanto va considerato anche il Piano Sud 2030 e la programmazione dei fondi strutturali 2021/2027. Mai come in questa occasione, tuttavia, il problema non sta tanto nella quantità dei fondi messi a disposizione del Sud, quanto nella qualità dei progetti anche rispetto agli effetti che produrranno. Diventa fondamentale curare non solo il supporto alla progettazione, ma soprattutto il monitoraggio sul corretto utilizzo delle risorse. Bisognerà coniugare al futuro questo intervento straordinario che non a caso si chiama Next Generation. L’Europa ci chiede nuove politiche di sviluppo basate sull’innovazione digitale, sulla transizione ambientale e sull’eliminazione del divario Nord-Sud sia dal punto di vista infrastrutturale che nella fruizione dei cosiddetti diritti di cittadinanza: istruzione, sanità e mobilità. Nel Rapporto del G30 Mario Draghi spiega bene come per lo sviluppo servano uno sguardo lungo e progetti ad alto rendimento tali da giustificare l’investimento pubblico e garantire la crescita e la diminuzione del debito. Tuttavia, stando alla bozza del Piano italiano circolata nei giorni scorsi, sembrerebbe che ben pochi tra i progetti indicati possano garantire quei rendimenti elevati auspicati da Draghi. Intanto, buona parte dei crediti europei servirà a coprire programmi di spesa già esistenti, come nel caso della ferrovia Napoli-Bari, per liberare risorse nazionali già impegnate ed evitare un significativo aumento del debito pubblico. Rispetto ai nuovi investimenti, nella bozza circolata, si parla, per esempio, del potenziamento dei porti di Trieste e di Genova e non si fa cenno ai porti meridionali e alla funzione del Sud come grande piattaforma logistica integrata proprio quando, nel nuovo contesto internazionale, per l’Europa diventa fondamentale guardare al Mediterraneo. È scomparso dal dibattito il ponte sullo stretto di Messina che pure sarebbe utilissimo per estendere la rete alta capacità/alta velocità alla Calabria e alla Sicilia. L’Italia non eccelle nell’utilizzo dei fondi europei e le regioni del Sud hanno il dovere di fare autocritica per la gestione delle risorse comunitarie. Tuttavia la soluzione non può stare nella nomina dell’ennesima task-force nazionale che andrebbe a sovrapporsi all’Agenzia per la Coesione e alle strutture ministeriali. Il ministro Giuseppe Provenzano e il direttore di Svimez Luca Bianchi, in una pubblicazione del 2010 dal titolo Ma il cielo è sempre più su?, di fronte alla scarsa efficienza delle Regioni e delle amministrazioni centrali avevano suggerito una terza via: concordare con Bruxelles poche priorità da finanziare, definire obiettivi da raggiungere chiari e verificabili e accettare un sistema di valutazione indipendente, europeo. Già Carlo Trigilia, nel 2009, aveva invocato una Maastricht per il Mezzogiorno con un intervento su Il Mattino e considerazioni simili erano state espresse nel rapporto predisposto da Fabrizio Barca per la Commissione europea in vista della definizione della nuova politica di coesione per il post 2013. Quindi, per sfruttare al meglio i fondi europei stanziati per le prossime generazioni e provare a ridurre il divario Nord-Sud in un disegno unitario con una logica di sviluppo nazionale, bisogna ripensare il sistema di governance delle politiche pubbliche attraverso l’imposizione di vincoli esterni assai più stringenti che nel passato: occorre un rafforzamento della capacità di indirizzo e controllo da parte della Commissione europea sia nella fase di progettazione che in quella di monitoraggio della spesa.

TUTTI CON DE LUCA PER SCONGIURARE «IL FURTO AI DANNI DEL SUD». Giovedì 17 dicembre, ore 17. Il Sud s'è desto. La sommossa istituzionale contro la ripartizione dei fondi europei a fondo perduto diventa sempre più concreta. Michele Inserra su Il Quotidiano del Sud il 17 dicembre 2020. Giovedì 17 dicembre, ore 17. Il Sud s’è desto. Questa volta si fa sul serio, almeno così sembra dai buoni propositi. Lo sceriffo si è svegliato, detta la linea per il Mezzogiorno, si mette di traverso, contesta il governo e il suo partito, il Partito democratico, che supporta e sostiene il percorso politico dell’esecutivo nazionale. Così su invito del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, oggi si ritrovano i presidenti delle regioni meridionali per confrontarsi sul riparto nazionale dei fondi previsti nell’ambito del programma “Next Generation” che, secondo le ipotesi di governo, destina al Sud la misera quota del 34%: Marco Marsilio (Abruzzo), Vito Bardi (Basilicata), Nino Spirlì (Calabria), Donato Toma (Molise), Michele Emiliano (Puglia), Christian Solinas (Sardegna) e Nello Musumeci (Sicilia). De Luca sollecita i colleghi a fare fronte comune al di là dei partiti, per scongiurare “un vero e proprio furto ai danni del Sud” e contrastare le “inaccettabili ed estemporanee ipotesi di governance tecnocratica e centralistica”. Fanno benissimo adesso i governatori del Sud a “sposare” la campagna di questo giornale, condotta in assoluta solitudine e avallata dalle principali istituzioni economiche, statistiche e contabili della Repubblica italiana. Un sussulto di dignità per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni affinché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola. Un cammino comune quello intrapreso dai governatori che ha ne Il Quotidiano del Sud-L’Altra voce dell’Italia la sua casa naturale per promuovere un atto istituzionale formale. La sommossa istituzionale contro la ripartizione dei fondi europei diventa sempre più concreta. Era l’ora, dopo un soporifero letargo delle istituzioni meridionali. «Gli Stati membri potranno beneficiare di un contributo finanziario sotto forma di un sostegno non rimborsabile. L’importo massimo per Stato membro sarà stabilito in base a un criterio di ripartizione definito. Tali importi saranno calcolati in base alla popolazione, all’inverso del prodotto interno lordo (Pil) pro capite e al relativo tasso di disoccupazione di ciascuno Stato membro». Alle pagine 8 e 9 della proposta di regolamento, il parlamento europeo fissa i paletti sui criteri di ripartizione delle risorse a fondo perduto del Recovery Plan. Sono tre gli indicatori: popolazione, tasso di disoccupazione e Pil pro capite. Dovranno essere destinate maggiori risorse a quei territori con più residenti, con maggiore disoccupazione e prodotto interno lordo inferiore. Seguendo i criteri Ue, il governo Conte deve investire per il Nord Italia il 21,20% dei 65,4 miliardi a fondo perduto previsti dal Piano nazionale ripresa e resilienza; il 12,81% deve andare al Centro e il 65,99% al Sud, ben oltre, quindi, il 34% previsto dal piano dell’Esecutivo nazionale. Quasi il doppio. Anziché 22,23 miliardi, quindi, al Sud dovrebbero andare 43,15 miliardi, una differenza di 20,9 miliardi; mentre al Centro-Nord, anziché 43,16 miliardi dovrebbero essere destinati 22,24 miliardi, secondo i criteri dell’Unione Europea. Un «vero e proprio furto in danno del Sud e delle sue Regioni» di fronte al quale «si rende urgente e necessaria un’iniziativa forte delle Regioni meridionali che devono ritrovare una comunità di visione e di azione, al di là delle rispettive collocazioni di schieramento politico» ha scritto De Luca nella lettera di invito ai colleghi. Un programma «imponente – spiega il governatore campano – che prevede l’impegno di ben 209 miliardi di euro, di cui 193 miliardi del solo Piano di Ripresa e Resilienza (Pnrr) , a loro volta divisi in 65,4 miliardi a fondo perduto e 127,6 miliardi a titolo di prestito da rimborsare. Risorse che l’Europa rende disponibili per un rilancio economico finalizzato, in primo luogo, a colmare il divario tra aree più sviluppate ed aree con Pil molto al di sotto della media europea e con più alto tasso di disoccupazione. Del resto, se l’Italia è il Paese cui è destinata la maggiore quota di risorse è proprio perché comprende una consistente area con tali requisiti di debolezza: il Mezzogiorno». Di tutto ciò, sottolinea De Luca, «non vi è traccia del dibattito politico di queste settimane, tutto incentrato su inaccettabili ed estemporanee ipotesi di governance tecnocratica e centralistica. Anzi, vi è di peggio. I criteri europei di riparto delle risorse sono totalmente occultati in tutti i documenti ufficiali. Da ultimo, è circolato un Piano del governo che capovolge i criteri europei e ripropone la banale distribuzione delle risorse fra Centro-Nord e Sud secondo un criterio esclusivamente demografico, cioè il contrario dei principi di coesione sociale e territoriale sanciti nel Trattato di funzionamento dell’Unione e nella nostra Costituzione». Ecco perché, secondo De Luca, «si prepara un vero e proprio furto in danno del Sud e delle sue Regioni. Solo per la parte a fondo perduto del Pnrr tale furto assomma a ben 20,92 miliardi di euro. Peraltro – prosegue De Luca – anche la ripartizione delle risorse nelle 6 missioni proposte dal Governo è davvero sconcertante. Basti pensare alla mortificazione di settori importanti, in particolare per il Sud, come la sanità, il turismo ed i servizi idrici. Si rende, pertanto, urgente e necessaria un’iniziativa forte delle Regioni meridionali, che devono ritrovare una comunità di visione e di azione, al di là delle rispettive collocazioni di schieramento politico. Se non avvertissimo con forza questa responsabilità comune non svolgeremmo il ruolo che le nostre comunità si attendono da noi tutti». Da qui la proposta, rivolta dal presidente della regione Campania ai governatori di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, di un incontro da remoto «per discutere insieme di questi temi e per definire le più opportune iniziative in ambito nazionale ed europeo». Plauso all’iniziativa Doriana Buonavita, segretaria generale della Cisl Campania. «Ci aspettiamo una forte sinergia fra tutte le regioni del Sud, che possano superare le legittime divisioni sul piano politico e trovare alleanze profonde, anche per dare un forte contributo nel ridisegnare politiche nuove per il Mezzogiorno e per il Paese». L’iniziativa intrapresa da De Luca è riuscita anche ad incassare il sostegno di Forza Italia nel consiglio regionale campano. «Ribadiamo al presidente De Luca – ha detto il capogruppo consiliare degli azzurri, Annarita Patriarca – la disponibilità da parte di Forza Italia a collaborare e a dare il nostro apporto in termini di progetti e azioni politiche. Questa è una battaglia comune, dell’intero Meridione, e per tale motivo siamo disposti ad affiancare il governatore affinché la Campania sia alla testa delle regioni del Sud per impedire quello che si configura come un furto ai danni del Sud». «Il Recovery fund è una occasione irripetibile per il Mezzogiorno di vedere ridotto il gap con le regioni del Nord – ha aggiunto – Per questo, non dobbiamo spaventarci di ingaggiare una battaglia per far arrivare al Sud il 70% dei fondi, e non il 34% come deciso dal Governo Conte, contravvenendo alle stesse disposizioni della Commissione europea». Gli fa eco l’europarlamentare forzista, Fulvio Martusciello. «La decisione del Governo di concedere al Sud solo il 34% dei 209 miliardi destinati al nostro Paese, contrariamente a quanto stabilito dalla Commissione Europea, cioè di assegnare al Mezzogiorno il 70% delle risorse del Recovery fund, è l’ennesima mortificazione che riceve il nostro Sud, dal Governo Conte – ha detto – questo ennesimo furto va bloccato. Bisogna invertire questa decisione inaccettabile del Governo e far in modo che il 70% dei fondi vadano al Sud non al Nord. La Campania e tutte le regioni del Mezzogiorno hanno bisogno di questi fondi. Ci batteremo fino alla fine coinvolgendo tutti i parlamentari affinché il Governo cambi questa sua assurda decisione». Fa la voce grossa anche Stefano Caldoro, il candidato alla presidenza sconfitto da De Luca alle scorse elezioni regionali. «Le risorse europee vanno destinate in maniera massiccia ed intelligente al Sud perché qui ci sono più margini di crescita per l’economia e perché i trasferimenti statali di spesa corrente, negli anni, hanno penalizzato le regioni meridionali – ha detto il capo dell’opposizione in Consiglio regionale della Campania». I motori sono caldi. Si parte, a difesa del Mezzogiorno.

Lega, il potere di Fontana e quelle carriere decise ai tavolini di un bar di Varese. La Repubblica il 20/10/2020. Un sistema di relazioni e affari nato nel cuore del leghismo, la città di Varese, e cresciuto fino a conquistare il governo della regione più ricca d'Italia. Di quel potere, Attilio Fontana è oggi il volto e la rappresentazione, e ieri sera la puntata di Report su Rai 3 ne ha raccontato la trama. Intessuta di conflitti di interessi, regie occulte dietro le nomine, carriere decise non nei luoghi istituzionali della politica ma ai tavolini di un bar.  

Caianiello decide, Fontana nomina. Sono quelli dell'Haus Garden Cafè, un pub di Gallarate diventato nel tempo l'ufficio di Nino Caianiello e il centro della politica del centrodestra in Lombardia. Caianiello, detto il "mullah", il "ras delle nomine", ma anche "mister dieci per cento" per la "decima" che pretendeva dai politici che piazzava nelle amministrazioni locali e nelle municipalizzate, viene arrestato per corruzione il 7 maggio 2019 nell'inchiesta "Mensa dei poveri". Report lo ha intervistato sui suoi rapporti con Attilio Fontana e sulla genesi di alcune nomine nella giunta che oggi governa la Lombardia. Sollecitato dal giornalista Giorgio Mottola, Caianiello definisce Fontana un "front office", un politico che mette la faccia su decisioni di altri. "Hai visto che i tuoi.. i tuoi consigli li hi seguiti quasi tutti.." dice Fontana a Caianiello, intercettato, dopo aver definito la lista dei suoi assessori. "Non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.." risponde Ninuzzo, come lo chiamava il governatore. "Non è male, non è male la giunta secondo me" dice ancora Fontana. "Assolutamente.. no.. no è messa bene..", asseconda Caianiello che - nonostante una precedente condanna per concussione nel 2016 - per vent'anni è rimasto il padrone del centrodestra in Lombardia. "Io ho vissuto più la gestione politica del partito - spiega Caianiello a Report -. Mentre Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così". Il "mullah" spiega come sono nate le nomine di due tra gli assessori più influenti in Regione, Raffaele Cattaneo (all'Ambiente) e Giulio Gallera (alla Sanità), confermando quanto emerso dalle intercettazioni di "Mensa dei poveri". "Attilio disse: "vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l'incarico all'ambiente"". E su Gallera: "Sapevo che c'era questa legittima aspettativa da parte di Gallera. Io dico: per me Gallera va bene". "Risponde un po' agli ordini Fontana?" chiede Mottola. "Non ordini, agli accordi". "Attilio Fontana è un po' un front office?". "E' un front office".  

Il sindaco Fontana e il terreno della figlia. Lo scandalo dei camici in piena pandemia, con l'affare da 250mila euro affidato alla società della moglie e del cognato Andrea Dini, è ancora lontano. Report racconta come molti anni prima la giunta comunale di Varese, guidata da Attilio Fontana, abbia modificato la destinazione d'uso - da area a verde a edificabile - di un terreno di 4000 metri quadrati ereditato nel 2012 dalla figlia del sindaco, Maria Cristina Fontana. La trasmissione riporta la testimonianza di un ex dirigente del comune di Varese e del consigliere comunale del Pd Andrea Civati. "All'epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde - dice il funzionario -. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili". "Dai verbali del consiglio comunale - aggiunge Civati - non risulta una dichiarazione sul conflitto d'interessi del sindaco Fontana".   

Le consulenze dagli ospedali della Regione. Molti anni dopo, l'avvocato Maria Cristina Fontana risulta beneficiaria di alcuni incarichi legali dalle azienda sanitarie lombarde, i cui vertici sono stati nominati dalla Regione Lombardia e in alcuni casi sono di esplicita fede leghista. Tre incarichi nel 2017 arrivano dall'Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni, cinque arrivano nel 2018 e altri tre nel 2019, mentre un'altra consulenza arriva dall'ospedale Sacco di Milano. Per i contratti del 2019, l'azienda ospedaliera introduce una voce sui conflitti d'interessi. Ma in relazione all'avvocato Fontana non ne vengono indicati. E poi nell'aprile 2020, in piena pandemia, l'Asst Nord Milano aggiorna l'elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali. Tra i professionisti c'è sempre Maria Chiara Fontana.

Il maneggio abusivo alla moglie di Giorgetti. Un'altra storia, tutta varesina e tutta leghista, riguarda la moglie di Giancarlo Giorgetti e un maneggio all'interno dell'ippodromo della città. A parlare è sempre un ex dirigente del comune di Varese. "In questo ippodromo c'era effettivamente un maneggio abusivo - dice il funzionario -. Vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti". Si tratta di Laura Ferrari, che nel 2008 ha patteggiato una condanna per truffa. Appassionata di equitazione, riceve mezzo milione di euro da Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. Ma i corsi non sono mai stati fatti. A difendere la moglie di Giorgetti, l'avvocato Attilio Fontana. Durante la sua giunta, nel 2014, le sorelle Ferrari ottengono dalla società che gestisce l'ippodromo la gestione del centro della pista con il loro maneggio. Il contratto è un comodato d'uso gratuito: la moglie e la cognata di Giorgetti non pagano nulla. Poi nel 2018 cambia l'amministrazione e al maneggio arrivano i vigili. Chiedono le autorizzazioni comunali, ma i documenti non si trovano. "Quell'attività non era autorizzata - ha ricostruito  Civati - ed è stata elevata una sanzione". Per quattro anni, moglie e cognata di Giorgetti utilizzano lo spazio all'interno dell'ippodromo di Varese, trasferiscono le loro stalle private, organizzano corsi di equitazione, vengono sponsorizzate dal Comune. Ma grazie al contratto di comodato d'uso, non pagano un euro.  

Daniele Capezzone per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Attilio Fontana, il presidente leghista della Regione Lombardia, è di nuovo in trincea. Per un verso, per la nuova ondata Covid; per altro verso, per gli attacchi mediatici che lo mettono nel mirino con accuse sempre più gravi e - parrebbe - fantasiose, addirittura con evocazioni di influenze dalla 'ndrangheta. Ma è la recrudescenza del coronavirus a preoccuparlo: «Avevo iniziato a girare la Lombardia per presentare il nostro piano di rilancio, e avevo trovato ovunque, anche nelle categorie più colpite dalle difficoltà economiche, una gran voglia di reagire e di ripartire, di rimettersi in gioco. La cosa mi entusiasmava, avevo il morale a mille. E invece è arrivata questa seconda botta, un' accelerazione fortissima in appena due o tre giorni». Il governatore lombardo, a partire da qui, ha accettato una conversazione a tutto campo con La Verità.

Allora presidente, davvero si sarebbe fatto condizionare nientemeno che dalla 'ndrangheta per le sue scelte in materia di sanità? Stasera una trasmissione Rai lancerà questa accusa, secondo le indiscrezioni già circolate nei giorni scorsi...

«Queste sono illazioni vergognose fatte per suggestioni incomprensibili ed inaccettabili. Mi riservo comunque di agire sia in sede penale che in sede civile».

Ma, a maggior ragione se fossimo alla rimasticatura di materiale giudiziario già esaminato e da cui non è venuto fuori nulla su di lei, secondo lei come nascono accuse mediatiche di questa pesantezza nei suoi confronti dalla trasmissione Report? Siamo a una campagna con un livello di gravità con pochi precedenti...

«Ah non so, forse perché hanno già cavalcato il cosiddetto caso dei camici. Per citare Stalin, pensano di affondare il coltello nel ventre. Ma non trovano un ventre molle, trovano l' acciaio».

E allora parliamo dei camici. Ci aiuti a fare chiarezza. Alla fine l' azienda di suo cognato ha fatto una donazione alla Regione, i lombardi non hanno pagato un euro, e lei aveva dato disponibilità a mettere dei soldi di tasca sua. La cosa può piacere o no, ma è materia penale?

«Mio cognato aveva fatto altre donazioni in quel periodo. Quando ho capito che la fornitura era onerosa, gli ho chiesto di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e ho cercato di corrispondergli il 50 per cento del mancato incasso. Il prezzo era il più basso fra quelli in quel momento pagati. Mio cognato ha accettato e quindi la Regione non ha pagato nulla. Ed è proprio lui che ad oggi ci ha rimesso».

Proseguiamo con le accuse. Da ultimo, sono state evocate consulenze per sua figlia. Di che si tratta?

«Di questo non parlo: parla mia figlia, che ha già inviato delle risposte che per ora la trasmissione non ha preso in considerazione... Aveva degli incarichi assolutamente trasparenti da un' assicurazione che poi era anche un' assicurazione di un' Asst».

Possibile che per colpire lei e la Lega si tenti una specie di assalto alla Lombardia?

«Lei capisce che l' operazione prevede due obiettivi appetitosi: provare a mettere nel mirino la Lega e tentare di prendere la Lombardia. Anche perché con il voto democratico in Lombardia non riescono a vincere, e allora tentano altre strade».

Al di là delle cose giudiziarie, lei vede un accanimento particolare verso la sua regione? Lo dico in modo ancora più esplicito: quando a marzo e ad aprile la prima regione italiana era in difficoltà, ha percepito qualche compiacimento di troppo da parte di alcuni a Roma e non solo? Lo dico in termini calcistici: se il più forte giocatore della squadra sta male, gli altri compagni dovrebbero preoccuparsi, non le pare?

«Non è che si sia solo percepito. Alcuni, giornalisti e politici, lo hanno proprio esplicitato, pronunciando parole pesanti».

Senta, hanno crocifisso lei e Bertolaso per l' ospedale in Fiera. Dicevano che non serviva più, che era una cattedrale nel deserto. Qualcuno l' ha chiamata per scusarsi e dire che avevano torto?

«Assolutamente no, non mi ha chiamato nessuno. Né per scusarsi per avermi dato del razzista quando chiedevo semplicemente di sottoporre a controlli chiunque fosse di ritorno dalla Cina. Né per avermi attaccato in modo assurdo perché in un video indossai una mascherina. Né per la storia dell' ospedale in Fiera. Devo anche dirle che se alcuni chiamassero, li riterrei in malafede, dopo tutto quello che hanno detto. La cosa più giusta l' ha detta uno dei finanziatori privati che hanno reso possibile quella realizzazione: siamo orgogliosi di aver preparato un' opera che speriamo non debba essere utilizzata per un' emergenza».

Quanti cittadini non lombardi vengono ogni anno a curarsi in Lombardia per motivi ordinari, Covid a parte?

«Prima del Covid erano 165-170.000».

Lei è pronto, se altre regioni saranno nei guai a causa del coronavirus, a ospitare i loro pazienti?

«Sì, se ce ne sarà bisogno e se saremo in condizione di farlo, cioè se non saremo a nostra volta sotto pressione».

Nel weekend il commissario Domenico Arcuri e il ministro Francesco Boccia hanno attaccato le regioni, sostenendo che molti ritardi siano colpa dei governatori. Scaricabarile o c' è del vero?

«Peggio che scaricabarile. Noi abbiamo sempre fornito in tempo i nostri dati. Sento anche che ci viene rimproverato di avere respiratori inutilizzati. Noi non ne abbiamo nessuno inutilizzato, tranne venti, ma solo perché non hanno la certificazione. Li teniamo da parte e li utilizzeremo solo se ci sarà un' urgenza drammatica».

Perché il governo ha atteso ottobre per far partire il nuovo bando sulle terapie intensive?

«Non lo so proprio. Bisognerebbe chiederlo a loro».

Vi hanno dato risorse in più per il trasporto pubblico locale?

«La risposta è semplice: no».

Su questo piano, come ve la caverete per potenziare il numero dei mezzi in circolazione?

«Noi stiamo cercando comunque di dare una risposta.

Però voglio dire, anche a difesa dei sindaci, che se hai una metro, non è possibile aumentare le corse oltre una certa misura. E quanto agli accordi con i bus privati, servono risorse per farli. Non solo il governo non ha dato soldi in più, ma a livello locale ci si ritrova con soldi in meno dalla bigliettazione per evidenti ragioni».

Non le pare che il governo, da maggio a oggi, abbia perso tempo? Anziché colpevolizzare i ragazzi o le famiglie che si sono fatte tra luglio e agosto una settimana di vacanza, non potevano pensare a tutte queste cose? Che hanno fatto questa estate, oltre che predicare? Dicevano che poteva arrivare una seconda ondata, ma non hanno fatto nulla per prepararsi, mi pare.

(Sorride). «Se mi chiede che hanno fatto, le dico: non lo so Non mi faccia dire altro, non voglio alcun tipo di polemica. Ho promesso di essere collaborativo».

Come siete messi con i vaccini influenzali?

«Mi permetta di fare chiarezza, perché ho letto tante polemiche urlate, insensate e strumentali. Come Regione, abbiamo acquistato 2.9 milioni di dosi, di cui solo 100.000 sub iudice, perché attendono la certificazione Aifa. Sono numeri più che doppi rispetto all' anno scorso: anche in considerazione del fatto che quest' anno molte più persone vogliono vaccinarsi. Segnalo che altre regioni confinanti, dall' Emilia Romagna al Veneto, hanno acquistato percentualmente gli stessi numeri».

Ci spiega la ratio delle restrizioni che scatteranno in Lombardia? Non teme di avere esagerato?

«Guardi che, con l' accelerazione e la crescita esponenziale dei casi che c' è stata negli ultimi giorni, semmai ho dovuto fare una mediazione rispetto alle richieste ancora più dure che venivano dal Comitato tecnico scientifico».

Non teme il colpo di grazia a bar, ristoranti e commercio? Chi li risarcisce questi imprenditori? Anche prima delle ultime misure nazionali, Confcommercio già stimava in tutta Italia un rischio di chiusura di 270-000 esercizi da qui a fine anno, un' ecatombe. Darete battaglia su questo punto rispetto al governo?

«Noi come Regione, in ogni occasione, ad ogni Dpcm governativo, presentando le nostre richieste o le nostre subordinate, abbiamo sempre chiesto un ristoro economico per le imprese dei settori oggetto delle misure restrittive. Ma vedo che non c' è stata risposta adeguata. Per questo continueremo a chiederlo in ogni occasione».

Consulenze negli ospedali della Regione alla figlia di Fontana, un altro conflitto di interessi per il governatore. Sono tre incarichi di consulenza per attività giudiziaria, ottenuti tra il 2018 e il 2019 presso le asst di Milano. Maria Cristina Fontana le ha avute da quando è subentrata al posto del padre nello studio legale di famiglia, a Varese. Sandro De Riccardis e Luca De Vito su su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Una serie di consulenze legali incassate dalla figlia di Attilio Fontana dalle aziende sanitarie della Lombardia, i cui vertici sono stati nominati proprio dalla giunta regionale guidata dal governatore lombardo. Un nuovo conflitto di interessi per Fontana, dopo il caso della fornitura di camici da parte del cognato Andrea Dini (Fontana è indagato per frode in pubbliche forniture), e la nomina dell'ex socio di studio Luca Marsico nel Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici del Pirellone, che era costata al governatore un'indagine per abuso d'ufficio, poi archiviata. A imbarazzare ora il numero uno della Regione Lombardia sono tre incarichi assegnati a Maria Cristina Fontana, primogenita del governatore, subentrata al posto del padre alla guida dello studio legale di famiglia, uno dei più noti a Varese. La prima consulenza è stata assegnata con la delibera numero 526 del 6 settembre 2018 dall'Azienda socio sanitaria Nord Milano per un importo di 6.383,65 euro. Un secondo incarico parte il 20 settembre dello stesso anno: una consulenza di cui non si conosce il costo perché la spesa è coperta dall'assicurazione dell'ente sanitario. Una terza consulenza viene assegnata con una delibera del 31 gennaio 2019 dall'ospedale Sacco: 5.836,48 euro per occuparsi della "costituzione nel giudizio promosso davanti al tribunale di Milano" per la difesa dell'ente in una causa di lavoro. Ma c'è di più. Il rapporto con l'Azienda socio sanitaria Nord Milano diventa ancora più stretto, anche per il 2020, visto che il 29 aprile la stessa Asst, guidata dal direttore generale Elisabetta Fabbrini, delibera l'elenco dei professionisti legali cui affidarsi. Anche qui Maria Cristina Fontana risulta presente in due elenchi, quello degli avvocati da chiamare in caso di "medical malpractice" (ovvero casi di negligenze mediche) e quello dei legali esperti in "diritto fallimentare e procedure concorsuali". A rendere più delicata la faccenda, il fatto che le nomine dei dirigenti della sanità sono fatte proprio dalla giunta regionale: nel caso del Sacco Alessandro Visconti, nominato al vertice dell'azienda ospedaliera in quota Lega, mentre Fabbrini alla guida della Asst nord è stata nominata in quota Forza Italia. "Non si tratta di consulenze, ma di incarichi in procedimenti giudiziari - ha detto all'Ansa Maria Cristina Fontana - Inoltre, dal 2015 (in epoca ben antecedente all'elezione di mio padre) sono fiduciaria di una compagnia di assicurazione privata che fra i suoi assicurati ha anche Asst Nord Milano. Nell'ambito del rapporto lavorativo con la compagnia assicurativa, ho svolto degli incarichi di difesa della Asst a spese della stessa compagnia". Il nome di Visconti compare negli atti dell'inchiesta "Mensa dei poveri" sugli appalti pilotati nella sanità lombarda dal "burattinaio" delle nomine di Forza Italia Nino Caianiello. Ne parla proprio Attilio Fontana nel suo esame, da testimone, di fronte ai magistrati. I pm chiedono se la nomina di Alessandro Visconti alla guida del Sacco-Fatebenefratelli sia in quota Lega. "All'inizio del mio mandato - risponde Fontana - l'unico criterio seguito per la nomina dei dg delle Ats e delle Asst è stato esclusivamente quello delle professionalità e non di appartenenza politica", per il dottor Visconti, "non escludo che sia un simpatizzante della Lega". Ma qualche anno prima, dopo le nomine del 2014, è stato proprio Visconti ad ammettere la sua militanza leghista. " "Dal 1995 dono alla Lega il mio tempo, il mio impegno e in certi casi dei contributi in denaro: per tredici anni sono stato assessore a Sumirago, ho passato le domeniche nei gazebo, alle feste della Lega ho aiutato in cucina. Ho sempre sostenuto che i partiti più che sui soldi pubblici debbano contare sui finanziamenti della gente".  

Mogli, camici e cavalli dei paesi tuoi. Report Rai PUNTATA DEL 19/10/2020 Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara, Federico Marconi, Giovanni De Faveri. Dietro allo scandalo dei camici del cognato di Fontana Report ha scoperto un sistema di potere che da anni avvolgerebbe la Regione Lombardia: appalti truccati, nomine pilotate e infiltrazione della ‘ndrangheta. Con interviste e documenti esclusivi l’inchiesta fa luce su nuovi e inediti conflitti di interesse del governatore Fontana. Viene ricostruita inoltre la presunta rete di corruzione messa in piedi tra Varese e Milano da una delle eminenze grigie più potenti della Lombardia: un politico di altissimo profilo, detto il Mullah, legato a Marcello Dell’Utri e consigliere di Attilio Fontana nella formazione della giunta regionale. In questo scenario la ‘ndrangheta avrebbe trovato terreno fertile. Deciderebbe giunte comunali, nomina sindaci e non sente più alcun bisogno di nascondersi.

MOGLI, CAMICI E CAVALLI DEI PAESI TUOI di Giorgio Mottola collaborazione Giovanni De Faveri - Norma Ferrara – Federico Marconi Immagini di Alfredo Farina – Davide Fonda – Andrea Lilli – Fabio Martinelli Montaggio e Grafica Giorgio Vallati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Intorno a questo grano si sta consumando un’insensata guerra, che rischia di comprometterne il recupero, ed è un peccato, perché è un grano tutto italiano e ha anche delle proprietà benefiche. Questo è quello che emergerebbe da uno studio che vi mostreremo in via del tutto esclusiva questa sera. Però, dopo esser tornati sui nostri passi. Nell’aprile scorso, in piena emergenza virus, Report ha scoperto che la Regione Lombardia aveva affidato senza gara, attraverso una procedura negoziata, una fornitura di camici, 75 mila, del valore di mezzo milione di euro alla Dama, una società che faceva riferimento alla moglie del governatore Fontana e a suo cognato. Incalzato dalle domande del nostro Giorgio Mottola, Dini aveva risposto “È avvenuto tutto a mia insaputa. Appena ne sono venuto a conoscenza, ho trasformato quel contratto in donazione”. Stessa versione del governatore Fontana. Insomma, a sua insaputa da governatore e anche da marito. Tuttavia, i magistrati, invece, sospettano che quel contratto di fornitura si è trasformato in donazione solo dopo che Report aveva cominciato a fare domande in Regione. Per questo ha indagato il governatore Fontana, per frode nella pubblica fornitura, perché non ha informato chi di dovere del conflitto di interessi. Indagato anche il suo manager, Filippo Bongiovanni, che è il direttore della stazione appaltante, Area. Perché è indagato? Per turbata libera scelta del contraente, perché ha assegnato la fornitura pur sapendo del conflitto di interessi. È indagato anche il cognato, Dini, per frode nell'adempimento della pubblica fornitura, perché, rispetto a quanto stabilito dal contratto mancano all’appello oltre 25 mila camici. In un sms, poi, anche la moglie di Fontana scrive al fratello e dice: cerca di recuperare più camici possibili. A svelare il velo dell’ipocrisia è stato chi beneficenza la fa sul serio: Emanuela Crivellaro. È la presidente di un’associazione, una Onlus che assiste bambini malati. Lei si presenta nell’ufficio di Dini proprio mentre sta chiudendo il contratto con la Regione. E gli dice: “Mi presti un po’ di camici? Mi dai un po' di camici, me li regali, che li distribuisco negli ospedali che hanno bisogno?”. Cosa ha risposto Dini? Lo sentiremo dalla sua voce, quella che è diventata la super testimone della procura di Milano ha deciso di raccontarci la sua storia dopo che il governatore Fontana ha cercato di chiarire la sua posizione in un infuocato consiglio regionale di mezza estate. Il nostro Giorgio Mottola.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 A seguito di una inchiesta di “Report” annunciata con toni scandalistici si è molto parlato della vicenda fornitura camici, divulgata dalla più faziosa informazione con il refrain ripetuto all’inverosimile: “Dama l’azienda del cognato del presidente cui partecipa al 10 per cento sua moglie Roberta”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’estate Attilio Fontana era stato chiamato a dar conto della fornitura di camici da mezzo milione di euro assegnata al cognato ma il governatore piuttosto che dare chiarimenti ha preferito attaccare duramente “Report”. E molti punti della vicenda sono quindi rimasti oscuri.

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA No, guardi, no no è una donazione, ci sono tutti i documenti.

GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, in realtà, leggendo le carte, sembra in realtà una… Non è una donazione. È un appalto, in realtà. Cioè, lei ha venduto dei camici.

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Effettivamente, i miei quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se n’è occupato ha male interpretato la cosa, ma poi dopo io sono tornato, me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione.

GIORGIO MOTTOLA L’hanno fatto a sua insaputa, insomma…

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Sì. Appena l’ho saputo ho detto no, no, in Lombardia assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche Attilio Fontana con un post assicura che fin dall’inizio si trattava di una donazione. Ma a smentire la loro versione c’è un importante testimone. Mentre stava chiudendo l’affare con la Regione il cognato del governatore incontra Emanuela Crivellaro, presidente della fondazione benefica “Il Ponte del Sorriso” in quei giorni era alla ricerca di mascherine e camici da donare agli ospedali lombardi e per questo si era rivolta anche ad Andrea Dini.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” Me ne ha dati 300 e mi ha detto poi vedrò di dartene altri. Poi non ne sono arrivati più neanche uno. Io più volte l’ho sollecitato e lui mi ha risposto non posso perché sono sotto contratto con la Regione. Cioè, contratto esclusivo. Ho detto: guarda che anche l’ospedale è disposto a comprarli ma, non… lui ha detto che non poteva venderceli perché aveva un contratto con la Regione. Quindi…

GIORGIO MOTTOLA E qui siamo a metà aprile.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E qui siamo… no. Al 10 aprile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque contratto e non donazione. Ma come faceva Andrea Dini a sapere che avrebbe avuto un contratto con la Regione già il 10 aprile? L’esito della procedura negoziata è stato reso noto infatti solo sei giorni dopo, il 16 aprile. Come faceva a saperlo? Alla Crivellaro Andrea Dini racconta di avere un gancio diretto in Regione Lombardia.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E lui mi ha detto che era in trattativa con la Regione. E io gli ho detto: ah, sì tra l’altro so che è Cattaneo… insomma, o ce lo siamo detti a vicenda, a me pare di averlo tirato fuori io: è Cattaneo? E lui mi ha risposto sì, è proprio il mio riferimento.

GIORGIO MOTTOLA In Regione?

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” In Regione, è proprio il mio riferimento in Regione.

GIORGIO MOTTOLA Cattaneo, l’assessore?

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” L’assessore Cattaneo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Raffaele Cattaneo è uno degli uomini più fedeli del presidente della Lombardia. Esponente di Comunione e liberazione, a sorpresa due anni fa è stato nominato da Fontana assessore all’Ambiente sebbene alle regionali non avesse ottenuto preferenze sufficienti a farsi eleggere consigliere.

GIORGIO MOTTOLA Come mai lei ha fatto da intermediario tra il cognato di Fontana e la Regione Lombardia?

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma perché io sono stato incaricato di far fronte all’emergenza di dispositivi di protezione individuali, quindi mascherine, camici.

GIORGIO MOTTOLA Lei sapeva che Dini fosse il cognato di Fontana?

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sapevo che Dini fosse il cognato di Fontana, sì. Non lo conoscevo, non lo conosco di persona, lo conoscevo di fama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi l’assessore Cattaneo era a conoscenza del conflitto, ma non lo denuncia.

GIORGIO MOTTOLA Bastava segnalare che fosse il cognato del presidente Fontana.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì, certo. Certo.

GIORGIO MOTTOLA Questa segnalazione non è mai stata fatta.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma non è vero, non è vero. Cosa dove essere fatto. Quale, insomma, quale…

GIORGIO MOTTOLA Ci sono delle leggi sui conflitti di interessi.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì appunto, ma questi…

GIORGIO MOTTOLA Cioè la società non è solo del cognato, ma anche della moglie di Fontana.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Però vede, in una istituzione, come lei ben sa ci sono responsabilità diverse. La mia responsabilità è stata quella di coordinare una task force che si occupava di garantire la disponibilità di Dpi (Dispositivi di protezione individuale ndr).

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come ha fatto Dini a entrare in contatto con un assessore della Giunta regionale? La risposta l’hanno trovata gli investigatori nel suo telefono. Esattamente tre settimane prima della procedura negoziata, il 27 marzo Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana, e proprietaria del 10 percento di Dama spa, scrive al fratello: “Prova a chiamare assessore Cattaneo di Varese. Sembra siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini”, che sarebbe Davide Caparini, assessore al Bilancio nella giunta regionale presieduta da Fontana. Poi Roberta Dini aggiunge: “Ho avvisato la moglie di Cattaneo, che conosco un po’, vuol dare una mano”. Di tutto questo Attilio Fontana assicura di non averne saputo nulla, almeno fino a una certa data.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Dei rapporti negoziali Aria-Dama nulla ho saputo fino al 12 maggio scorso, data in cui mi si riferiva che era stata concordata una rilevante fornitura di camici a titolo oneroso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 12 maggio è la data cruciale di tutta la vicenda. Il giorno prima, l’11 maggio, dalla redazione di Report abbiamo mandato alla segreteria di Fontana questa richiesta di intervista con alcune domande che facevano genericamente riferimento al ruolo dei privati nell’emergenza sanitaria. Secondo quanto ritengono i pm, sarebbe questa nostra mail a far scattare il campanello d’allarme nell’ufficio del presidente Fontana, che ordina al cognato di restituire i soldi e trasformare la commessa in una donazione.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Ma poiché il male, così come il bene è negli occhi di chi guarda, ho chiesto a mio cognato di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e strumentalizzazioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque, a differenza di quello che Fontana e il cognato ci hanno raccontato all’inizio, l’idea della donazione è venuta solo in un secondo momento. E tra l’altro, l’idea non sembra entusiasmare troppo né Dini, né la moglie di Fontana. Scrive, infatti, Roberta Dini al fratello: “Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può”. E suggerisce di farsi restituire una parte dei camici già donati: “Stamattina consegnati 6mila camici. Almeno quelli possono essere resi”. Ed è forse per questa ragione che Attilio Fontana prova a rimborsare di tasca sua il cognato con un bonifico da 250 mila euro.

ATTILIO FONTANA Si è trattata di una decisione spontanea e volontaria, e dovuta al rammarico nel constatare che il mio legame di affinità aveva solo arrecato svantaggio a un’azienda legata alla mia famiglia. E così quel gesto è diventato sospetto, se non addirittura losco. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A sospettare in realtà sarebbe stata la sua stessa banca, che ha bloccato il bonifico da 250 mila euro segnalandolo come operazione sospetta. Quei soldi infatti vengono da un conto svizzero di Fontana che porta direttamente nei Caraibi, alle Bahamas, dove la famiglia del presidente ha avuto per anni un trust anonimo da 5 milioni di euro, la Montmellon Valley.

GIORGIO MOTTOLA Ma chi c’è dietro Montmellon Valley?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Uno studio di avvocati di Panama che si chiama “Morgan y Morgan”, antagonista di Mossak Fonseca, famoso per i Panama Papers, che operano proprio per creare, gestire strutture offshore. Quindi strutture che garantiscono gli anonimati bancari e societari dentro i quali ci sono un sacco di soldi.

GIORGIO MOTTOLA E che tipo di reputazione ha “Morgan y Morgan”?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO È come Mossak Fonseca, che reputazione devono avere? Cioè gestore di strutture offshore che servono per riciclare. Insomma, questo è.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Attilio Fontana, che aveva una delega per gestire il trust, sostiene che i 5 milioni di euro fossero i risparmi della madre dentista e del padre dipendente della mutua. La società anonima alle Bahamas viene chiusa dopo la morte della signora Fontana nel 2015. GIORGIO MOTTOLA Dopo il 2015 Fontana chiude il trust alle Bahamas.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Proprio nel 2015 entra in vigore in Italia la normativa per la cosiddetta voluntary disclosure che consentiva a chi occultava denaro all’estero di poterlo regolarizzare pagando, come sempre succede, imposte pari a due cocomeri e un peperone. Era l’ultima spiaggia. Perché poi entravano in vigore delle normative penali che rendevano impossibile detenere denaro proveniente da delitto anche in Svizzera.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come mai tutte queste bugie? Che cosa nasconde questa vicenda?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi quello che nasconde lo nascondete voi nella vostra testa.

GIORGIO MOTTOLA Però lei nascondeva anche dei soldi all’estero in paradisi fiscali, presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Io nascondevo?! Stia attento a quello che dice, stia molto attento. Io ho dichiarato. Io ho dichiarato, quindi lei deve stare attento a quello che dice perché io per questa cosa io la querelerò.

GIORGIO MOTTOLA Però come mai?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, non c’è come mai. Non c’è nessun come mai.

GIORGIO MOTTOLA No, però le chiedo. No, perché lei ha anche mentito sui conti offshore, eh Presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ma che offshore. Lei dovrebbe conoscere meglio...

GIORGIO MOTTOLA Però lei che le conosce bene, ce lo spieghi meglio lei.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No no. Ve lo spiegherà il magistrato. Ci vediamo… Ci vediamo…

GIORGIO MOTTOLA Anche sui conti offshore ha detto delle bugie, perché ha detto che non erano movimentati, ha detto che non c’erano state movimentazioni, invece nel 2005.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Lei non conosce niente e continua parlare.

GIORGIO MOTTOLA E ci aiuti a capire, come ha fatto sua madre e suo padre, un dentista e un dipendente della mutua…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando la società alle Bahamas viene chiusa, i cinque milioni di euro finiscono, almeno in parte, su un conto svizzero dell’Ubs. Il conto è di proprietà di Fontana ma intestato all’ “Unione Fiduciaria”. È da qui che sarebbe dovuto partire il bonifico da 250mila euro per il cognato.

GIORGIO MOTTOLA Presidente non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle…

 ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, lei mi sta assalendo. E quindi, eh…

GIORGIO MOTTOLA Non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle come mai ha fatto partire questo bonifico da 250mila euro da un conto schermato in Svizzera. Risponda solo a questa domanda. Cioè perché ha provato a partire i soldi da un conto schermato per suo cognato, perché non lo ha fatto partire da un conto italiano?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Perché non ne avevo 250 mila sul conto italiano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il gruzzoletto l’ha tenuto in Svizzera, cinque milioni di euro che emergono solo nel 2015, quando Fontana decide di aderire alla Voluntary Disclosure. Dice: “Sono i risparmi di una vita dei miei genitori”. Madre dentista, padre dipendente della mutua. Però, insomma, noi di Report abbiamo avuto modo di leggere la relazione che ha accompagnato la sua adesione alla Voluntary Disclosure. Intanto emerge che lui autodenuncia il fatto di non aver denunciato alcuni dei suoi investimenti, dal 2009 al 2013, sui conti all’estero, e poi sono stati sanati - come ha detto il nostro Gian Gaetano Bellavia - con un cocomero e due peperoni, se uno li confronta con i cinque milioni di euro. Ma lo spirito della Voluntary Disclosure era anche quello di far emergere le attività con cui erano stati accumulati i capitali occultati all’estero. Nella relazione che ha potuto leggere Report, nella casella che riguarda la relazione di accompagnamento di adesione alla Voluntary fatta dal governatore Fontana, quella casella è vuota. Non si sa, almeno se è l’unico modello, perché non sappiamo se quello è l’unico modello, se qualcuno dell’Agenzia delle Entrate nel tempo abbia poi chiesto al governatore: da dove vengono, da quali attività provengono quei soldi? È una domanda che è rimasta senza risposta, per quello che ci riguarda. Mentre invece è chiaro che il governatore Fontana proviene da Varese. Da Varese proviene anche il suo predecessore, Roberto Maroni. E anche Bossi, e anche i dirigenti più importanti della Lega. Perché Varese è la roccaforte del potere leghista. Un potere che intimorisce al punto che, se un funzionario pubblico vuole denunciare un semplice conflitto di interessi, è costretto a farlo con la faccia mascherata. Andando a ritroso, alle origini di quel potere, si scopre che il conflitto di interesse non è tanto inteso come la violazione di una norma, ma una predisposizione dell’animo umano.

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Ho notato in alcune circostanze un uso improprio dei beni della collettività, dei soldi pubblici e dell’incarico pubblico.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono le vicende che lei ha riscontrato?

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Noi abbiamo verificato l’esistenza di un cambio di destinazione d’uso per un terreno di famiglia, se non ricordo male intestato alla figlia, che poi è diventato qualche mese prima, terreno edificabile. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed ecco il terreno dei Fontana: 4000 metri quadrati in una delle zone più pregiate di Varese. La figlia del governatore, Maria Cristina Fontana, lo ha ereditato nel 2012 insieme alla villa di famiglia da 15 vani immersa nel verde. All’epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca Attilio Fontana ha dichiarato che aveva un conflitto di interessi su quei terreni?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Dai verbali del consiglio comunale non risulta una dichiarazione in questo senso del sindaco Fontana.

GIORGIO MOTTOLA Quindi, in consiglio comunale nessuno sapeva che quello fosse il terreno della figlia?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD No, no, nessuno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie al cambio di destinazione d’uso il valore del terreno si modifica di quasi dieci volte. E dai documenti che abbiamo ritrovato, il giorno in cui il consiglio comunale approva le modifiche al piano regolatore, Attilio Fontana risulta presente e partecipa al voto senza segnalare il suo conflitto d’interesse. Il copione si ripete identico anche quando un consigliere di minoranza presenta un emendamento per bloccare i permessi a costruire sul terreno della figlia.

GIORGIO MOTTOLA Lei presenta quell’emendamento per bloccare il cambio di destinazione d’uso?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Esattamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Fontana non dichiara il suo conflitto di interesse neppure quando con il suo voto contribuisce a bocciare l’emendamento della minoranza ad hoc sul terreno. L’area della figlia diventa ufficialmente edificabile.

GIORGIO MOTTOLA E lei questo lo ha segnalato?

EX DIRIGENTE COMUNE DI VARESE Questa come tante altre cose sono state segnalate in Procura, in due esposti. Uno a Varese, e l’altro a Milano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A distanza di anni, la Procura di Varese ha aperto un’indagine a carico di Attilio Fontana per abuso di ufficio. Ma le accuse sono state subito archiviate, come annuncia lo stesso Fontana con una conferenza stampa.

ATTILIO FONTANA – Da TGR55 - intervista di Matteo Inzaghi del 10/10/2017 Sono molto contento anche perché l’unica cosa che ho avuto sempre come riferimento è stata la legalità e il rispetto delle norme. Sono perfettamente cosciente di chi sia l’autore della lettera anonima e lui sa che io lo so.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Intanto Maria Cristina Fontana ha iniziato a seguire le orme paterne. Avvocato in carriera, ha ereditato le quote dello studio legale del padre e iniziato ad assumere incarichi legali anche per la Regione Lombardia. In particolare, per l’Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo.

GIORGIO MOTTOLA Queste sue consulenze si intensificano proprio nel momento in cui suo padre diventa presidente della Regione Lombardia dal 2018.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questa è un’affermazione molto grave e molto falsa, per cui se la ripete assumerà le responsabilità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma i documenti che abbiamo trovato sembrano smentirla. Per conto dell’Azienda sanitaria Nord Milano, Maria Cristina Fontana svolge tre incarichi nel 2017 e poi a partire dal settembre 2018, vale a dire poco dopo la nomina del padre, ne fa cinque. E altri tre nel 2019, a cui va aggiunto un altro incarico legale da 5800 euro all’ospedale Sacco. GIORGIO MOTTOLA Guardi noi abbiamo controllato e si intensificano dal 2018.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questo non è assolutamente vero. Comunque lei non si deve permettere di telefonare così, anche perché sto lavorando.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei documenti inediti del 2019, le tabelle dell’Asst Nord Milano aggiungono una voce sui conflitti di interesse dei consulenti legali. E in corrispondenza del nome di Maria Cristina Fontana, viene specificato che non c’è nessun conflitto di interesse da segnalare. Nell’aprile 2020, invece, in piena emergenza Covid, la dirigenza dell’ospedale trova il tempo di riunirsi ed estendere l’elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali per l’Asst Nord Milano. Il provvedimento riguarda anche Maria Cristina Fontana, che grazie a quella deliberazione, sembra allargare il campo di azione in cui può effettuare incarichi legali. A firmare il documento sono massimi dirigenti dell’Asst Nord Milano, nominati dalla giunta Fontana appena un anno prima.

GIORGIO MOTTOLA Ma come mai proprio nel pieno dell’emergenza Covid le è stato ampliato l’ambito in cui può fare consulenze per L’Asst Nord Milano.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Senta, lei non ha nessuna autorità, quindi non le devo nessuna spiegazione. Cortesemente se mi lascia lavorare. Ripeto cosa che magari lei non sa cosa voglia dire.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma a Varese, durante l’amministrazione Fontana, c’è un’altra “questione di famiglia”. Stavolta però riguarda i familiari di un altro altissimo dirigente nazionale della Lega. Un conflitto di interessi pubblico e sotto gli occhi di tutti, di cui però finora nessuno ha mai parlato. È andato avanti per quattro anni e ha avuto come teatro l’ippodromo comunale di Varese.

EX DIRIGENTE – COMUNE VARESE In questo ippodromo c’era effettivamente un maneggio abusivo. Questo maneggio, cosa strana, vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie di Giorgetti si chiama Laura Ferrari e insieme alla sorella si occupa da anni di equitazione. Passione che già qualche anno le fu fatale. Laura Ferrari nel 2008 ha infatti patteggiato una condanna per truffa: aveva ricevuto mezzo milione di euro dalla Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. I soldi sono arrivati, ma i corsi non sono mai stati fatti. L’avvocato scelto all’epoca dalla moglie di Giorgetti fu il principe del foro di Varese, Attilio Fontana. E proprio durante l’amministrazione Fontana, Laura Ferrari e sua sorella ottengono dalla società privata che ha in concessione l’ippodromo comunale di occupare il centro della pista con il loro maneggio.

DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 PRESENTATRICE Partiamo da Laura, e così, raccontaci un po’ che cosa accade, che cosa succede all’interno del vostro centro ippico.

LAURA FERRARI Allora la nostra è una scuola di equitazione e quindi è rivolta principalmente a bambini e abbiamo anche adulti.

GIORGIO MOTTOLA Con la loro associazione “Pony Club Le Bettole” impiantano nell’ippodromo box per i cavalli, un tendone per svolgere le attività anche d’inverno e organizzano corsi a pagamento, sponsorizzati dentro le scuole con brochure ufficiali del Comune di Varese.

DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 LAURA FERRARI Questo ci consente di avere anche una buona pubblicità in tutto il comune di Varese, diciamo che è un bacino abbastanza, grande, importante.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, dai documenti ufficiali che abbiamo ritrovato non siamo riusciti a comprendere quanto la moglie di Giorgetti pagasse di affitto. Per usare l’ippodromo come stalla per i loro cavalli e per i corsi di equitazione a pagamento. GIORGIO MOTTOLA La moglie di Giorgetti per quell’ippodromo quanto pagava d’affitto?

ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Noi non lo sappiamo perché l’amministrazione comunale semplicemente dà in concessione a una società la gestione di tutto l’ippodromo, che è appunto il concessionario, che poi gestisce le sue attività, i suoi ricavi autonomamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo chiesto alla società concessionaria dell’ippodromo e ci ha spiegato che il rapporto con l’associazione “Pony Club le Bettole” era regolato da un contratto di comodato d’uso gratuito. Vale a dire che la moglie e la cognata di Giorgetti, per tutti gli anni in cui hanno occupato l’ippodromo, non hanno pagato nemmeno un euro. Le attività della loro associazione vanno avanti fino al 2018. Solo due anni fa, quando l’amministrazione non è più in mano alla Lega, scatta un controllo dei vigili. Chiedono alla cognata di Giorgetti di presentare la Scia, vale a dire le autorizzazioni comunali per il maneggio, ma la presidente dell’associazione risponde di non essere in grado di esibirla.

GIORGIO MOTTOLA Quell’attività di maneggio dell’associazione della moglie di Giorgetti era abusiva?

ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Secondo la ricostruzione dell’amministrazione, quell’attività non era autorizzata, e per questo è stata elevata una sanzione.

GIORGIO MOTTOLA Pronto Laura Ferrari?

LAURA FERRARI – PONY CLUB LE BETTOLE Si?

GIORGIO MOTTOLA Salve, sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.

LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE No, adesso io non posso parlare grazie.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sulla sua associazione.

LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE Grazie. Non posso, non posso, salve. Salve, salve.

GIORGIO MOTTOLA Perché c’è arrivata notizia che occupaste abusivamente l’ippodromo di Varese. Pronto?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie e la cognata di Giorgetti hanno presentato un ricorso contro la sanzione inflitta dal Comune. E ora la questione pende davanti al giudice di Pace. Ma che qualcosa non andasse forse non era un segreto di Stato.

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Tutti sapevano, nessuno ha fatto nulla, compreso il comandante dei vigili, compreso il prefetto, compreso il Comune.

GIORGIO MOTTOLA Come fa a sapere che gli altri erano al corrente?

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Perché ho parlato con il prefetto, dottor Zanzi, lo stesso Prefetto su diversi argomenti ma anche su questo, mi ha detto che era già a conoscenza. Io ho detto testuali parole al prefetto: “dottor Zanzi, secondo lei cosa avremmo dovuto fare, cosa avrei dovuto fare, girare la faccia dall’altra parte”?

GIORGIO MOTTOLA Salve senatore sono Giorgio Mottola di Report Rai3.

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Però i giornalisti li facciamo tutti dopo.

GIORGIO MOTTOLA Però vorremmo farle soltanto una domanda perché ci risulta che sua moglie e sua cognata abbiano occupato abusivamente l’ippodromo di Varese per diversi anni mentre Fontana era sindaco.

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma figurati, dai su.

GIORGIO MOTTOLA C’è stata anche una denuncia in procura, una denuncia in prefettura. E alla persona che la ha denunciato questa cosa è stato risposto che tutti sapevano tutto.

VOCE ALTRO SOGGETTO Andiamo di là un attimo a parlare?

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma che… è tutto regolare…

GIORGIO MOTTOLA Eh no, sembra abusivo…Non mi spinga però!

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma perché la devi chiedere a me questa roba qua?

GIORGIO MOTTOLA Perché si tratta di sua moglie e sua… Che sta facendo? Con la pancia? SICUREZZA? Mi sta spingendo!

GIORGIO MOTTOLA È lei che mi sta spingendo con la pancia. Facciamo pancia contro pancia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pancia contro pancia. Per fortuna che il nostro Giorgio è attrezzato. Però è stato bravo a ricostruire la mappa di un potere che si muove a proprio agio nell’ambito del conflitto d’interessi. A partire da quel voto che, in consiglio comunale, ha cambiato la destinazione di alcuni terreni e che hanno di fatto moltiplicato il valore dei beni immobiliari delle proprietà di famiglia. Su quei fatti sono stati presentati due esposti. Uno presso il tribunale di Varese che si è concluso con una archiviazione. Abbiamo letto, noi di Report, le motivazioni ed emerge un particolare singolare: i magistrati hanno preso in considerazione il primo voto, quello che era sulla modifica dell’intero piano regolatore della città e hanno chiesto l’archiviazione perché “Il consiglio comunale” compreso Fontana “si è espresso cumulativamente”. Mentre le indagini, però, in maniera singolare, non hanno preso in considerazione il secondo voto, quello che riguarda un emendamento specifico, presentato dal consigliere di opposizione Civati, che avrebbe di fatto bloccato i permessi a costruire sui terreni della figlia. Lì Fontana ha partecipato al voto nei duplici panni di padre e sindaco della città e ha contribuito a bocciare l’emendamento. Questo, non si sa perché, non è stato preso in considerazione. Non sappiamo neanche che fine poi abbia fatto l’altro esposto, quello presentato presso la procura di Milano. Mentre, invece, sull’ipotetico conflitto di interessi che riguarda i rapporti dell’avvocato figlia del governatore con l’Azienda Sanitaria Milano Nord, ci scrive, ci fa sapere che i suoi sono stati “incarichi a spese della compagnia assicuratrice della quale è fiduciaria dal 2015”. Scrive anche che le sue aree di competenza “non sono aumentate ma sono state” – in qualche modo – “rimodulate”. Però né lei né i responsabili dell’azienda sanitaria milanese hanno detto nulla su un ipotetico, possibile conflitto di interessi che riguarda la parentela fra lei e il governatore, cioè con colui che di fatto nomina i dirigenti che le affidano gli incarichi. Per quello che riguarda, invece, l’altro conflitto scoperto da Report, quello di casa Giorgetti, che cosa è successo? È successo che nel 2014 moglie e cognata di Giorgetti, con una associazione, si infilano nell’ippodromo comunale di Varese. Gli spalanca le porte un privato, sostanzialmente. Loro lì che cosa fanno? Infilano le loro stalle private, fanno dei corsi di equitazione, a pagamento, che vengono anche sponsorizzati da brochure del Comune. Tutto questo possono farlo senza pagare un euro, questo perché il concessionario privato ha firmato con loro un contratto di comodato gratuito. Tutto regolare. Fino a quando, dopo un po’ di anni, cambiata la giunta, il colore della giunta, arriva un’ispezione dei vigili. E secondo i vigili c’è un’irregolarità. Quel maneggio non aveva l’autorizzazione per svolgere le attività. L’associazione che fa riferimento alla moglie di Giorgetti ci scrive “Noi però siamo una Onlus, non abbiamo bisogno di autorizzazioni”. Vedremo. Vorrei vedere se al suo posto ci fosse stata un’altra associazione, di un’altra signora, se avrebbe potuto godere di 4 anni dell’ippodromo gratuitamente. Pare che fosse il segreto di Pulcinella, come ha detto il funzionario pubblico che ha denunciato tutto questo. Però il prefetto Zanzi che, tirato in ballo lui stesso, ha detto: no, a me nessuno ha mai detto niente. Comunque si ha la percezione che probabilmente la rete avrebbe continuato a coprire se fosse rimasto lo stesso colore politico. Come anche nel caso, per esempio, della moglie di Fontana, che non ha avuto bisogno di chi parlare direttamente con il marito per la fornitura dei camici, lo ha fatto con la moglie dell’assessore Cattaneo. Chi è che ha scelto l’assessore Cattaneo? E Gallera, per esempio, che è assessore della Sanità in un momento così delicato, chi l’ha scelto? Chi vota pensa che chi viene eletto vada in assemblea a rappresentarlo. In realtà è più facile che sia il terminale di una ragnatela. Chi è il consigliere occulto di Fontana? L’uomo che tesse la ragnatela? Lo vedremo. È uno che… “Non si muove foglia senza che Nino non voglia”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Del sistema di potere che governa la Regione Lombardia riusciamo a vedere solo la facciata esterna. Ma nel chiuso delle stanze e nella quiete delle telefonate riservate si affollano figure oscure e consiglieri occulti in grado di condizionare alcune delle scelte più importanti di Attilio Fontana. Ricostruzione intercettazione

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Presidente, volevo farti gli auguri di buona Pasqua.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Auguri anche a te caro Ninuzzo, tutto bene?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ninuzzo, come lo chiama Fontana, è Nino Caianiello, per quasi vent’anni capo occulto di Forza Italia a Varese ed eminenza grigia del centrodestra Lombardo. Sebbene non ricopra alcun incarico ufficiale è stato per anni molto vicino all’attuale governatore.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ho avuto tante occasioni di incontrare, di lavorare e di confrontarmi con Nino che anche nei momenti di difficoltà Nino ha saputo sempre trovare una soluzione ed è sempre stato assolutamente coerente con quello che ha detto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nome di Nino Caianiello ai più non dice nulla. Ma per vent’anni è stato uno degli uomini più potenti della Lombardia. Molto legato a Marcello Dell’Utri, non c’è nomina o incarico pubblico tra la Provincia di Varese e la Regione che non sia stato discusso prima con lui. Per la sua fama di tagliatore di teste si è conquistato il soprannome di Mullah.

ANTONIO RAZZI IN VIDEO Caro Clerici, vedi che sono con Nino e ti do un bel consiglio da amico, fatti li cazzi tuoi.

NINO CAIANIELLO Hai capito o no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nino Caianiello è circonfuso da una misteriosa aura di potere. Nel 2016 ha subito una condanna definitiva per concussione e da allora è scomparso dai radar. Assente nelle foto ufficiali della politica, ha continuato tuttavia a partecipare a tutti i tavoli che contano compreso quello per la composizione della giunta nel 2018. Sulla scelta degli assessori regionali, Caianiello sembra aver avuto una grossa voce in capitolo. Ricostruzione Intercettazione

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Hai visto che i tuoi… i tuoi consigli li ho seguiti quasi tutti, nel senso che….

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Non te ne… non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non è male, non è male la giunta secondo me.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Assolutamente… no… no è messa bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per capire quali siano stati i consigli dati a Fontana, siamo andati a chiederlo direttamente al Mullah.

GIORGIO MOTTOLA Pronto salve Nino Caianiello?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo fare una chiacchierata con lei.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Eccomi qua. Ultimo piano.

GIORGIO MOTTOLA Ok, d’accordo, grazie.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la prima volta, dopo il suo arresto, Nino Caianiello accetta di parlare davanti a una telecamera.

GIORGIO MOTTOLA Leggendo le telefonate fra lei e Fontana, sembra che il presidente sia lei, che i ruoli siano in qualche modo invertiti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Per motivi diversi, perché io ho vissuto più la gestione politica del partito. Mentre invece Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così.

GIORGIO MOTTOLA Risponde un po’ agli ordini, Fontana?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non ordini, agli accordi.

GIORGIO MOTTOLA Attilio Fontana è un po’ un front office?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È un front office.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dalle telefonate sembra che i consigli di Caianiello a Fontana abbiano riguardato in particolare la nomina ad assessore di Raffaele Cattaneo, l’assessore chiave per far ottenere il contratto dei camici alla ditta del cognato e della moglie. Ma soprattutto Caianiello sembra ispirare la nomina di Giulio Gallera, a cui il presidente Fontana darà il delicato assessorato alla sanità.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Attilio disse vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l’incarico all’ambiente.

GIORGIO MOTTOLA Lei con Fontana parla anche di Gallera.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì, parlo di Gallera perché sapevo che c’era questa legittima aspettativa da parte di Gallera.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei dà in qualche modo lei dà il suo benestare.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io dico per me Gallera va bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella tra Fontana e Caianiello non era soltanto un rapporto tra alleati di coalizione. Quando il futuro governatore nel 2018 deve mettere in piedi per le regionali la sua lista personale è al Mullah che si rivolge.

GIORGIO MOTTOLA Lei è stato uno degli organizzatori della lista civica di Fontana?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io diedi una mano.

GIORGIO MOTTOLA Lei era un po’ il deus ex macchina di questa…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io fui coinvolto da Matteo Bianchi e gli diedi una mano. Tant’è che alcune persone…

GIORGIO MOTTOLA Matteo Bianchi è il segretario provinciale della Lega.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Segretario provinciale della Lega. Gli demmo una mano nell’organizzare la lista.

GIORGIO MOTTOLA La lista. La lista per il presidente.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA La lista per trovare i candidati. La lista del presidente Fontana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se da una parte dispensava consigli a Fontana su nomine e incarichi, dall’altra Caianiello tesseva anche un’altra ragnatela occulta di potere in cui finivano mazzette e corruzione. La sua tela avviluppava molti comuni della provincia di Varese e avvolgeva persino il cuore della regione Lombardia. La procura di Milano ha individuato il Mullah come il regista della nuova Tangentopoli lombarda.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Non si muove foglia che Nino non voglia o che Nino non sappia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E nella sua ragnatela c’era anche l’ex sindaco e dirigente di Forza Italia, Danilo Rivolta, per anni uno degli uomini più fedeli di Nino Caianiello. Trascorreva le giornate con il Mullah nel suo quartier generale, l’Hausgarden. Un bar di Gallarate, ribattezzato l’ambulatorio per la fila di gente che ogni giorno si formava nel locale per parlare, omaggiare e chiedere favori a Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Da me arrivava di tutto lì. Io ho ricevuto dal Pd alla Lega a… c’è stato di tutto e di più lì quindi. Poliziotti, carabinieri, guardia di finanza. Io ho ricevuto di tutto.

GIORGIO MOTTOLA Poliziotti, finanzieri veniva a chiederle favori?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA E mica li chiedevo io a loro.

GIORGIO MOTTOLA Chi veniva all’ambulatorio?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ah veniva di tutto. Io ho visto passare di tutto, guardi, dall’operaio al dirigente sanitario.

GIORGIO MOTTOLA Per chiedere che cosa?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Le più svariate cose. Chi un posto di lavoro, chi una sistemazione, chi la sorella, chi un posto in giunta, chi un appalto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ambulatorio, per favorire un appalto, piazzare un incarico o sollecitare una variante urbanistica, Caianiello intascava anche le mazzette. Intercettazione ambientale Manca solo il,uno , mille e son quelli del... dell’ultimo giro… m’ha combinato un casino quel deficiente.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO L’ho sempre saputo io. Sempre.

GIORGIO MOTTOLA Tutti pagavano la mazzetta.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO La decima. Le percentuali non le conoscevo. Però io politicamente lo ammiravo.

GIORGIO MOTTOLA Lei lo ammirava nonostante sapeva che prendesse le mazzette?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si, perché, comunque aveva messo in piedi un sistema, gliel’ho detto, che funzionava. Non era tanto legittimo però diciamo che l’hanno lasciato andare avanti per tanti anni questo sistema.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Le cifre delle cosiddette tangenti che si sono sentite e viste nel ‘92… oggi queste cose non esistono.

GIORGIO MOTTOLA Sono cifre molto più basse.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non esiste assolutamente. Gli stessi professionisti fanno fatica. A…

GIORGIO MOTTOLA A sborsare.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA A tirare fuori i soldi e tutto il resto. E tanti, per esempio, si giustificavano a fronte dì dicendo, noi non riusciamo a muoverci in un modo o nell’altro.

GIORGIO MOTTOLA E quindi davano di meno rispetto a quello pattuito.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Uno diceva noi il sette percento non riusciamo a darlo, diamo il quattro percento, dicevamo vabbè fai se tu dici che è cosi è così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Caianiello ammette di aver preso mazzette, tuttavia li chiama contributi e giura che servivano solo a finanziare la macchina del partito e le campagne elettorali.

GIORGIO MOTTOLA Lei li chiama contributi, i magistrati le hanno chiamate tangenti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È per quello che sono le tangenti io pagherò nelle sedi opportune. Per fare una manifestazione politica devi pagare la sala, devi fare i manifesti, devi pagare il microfono, se prendi i fiori perché arriva Maria Stella Gelmini anziché un deputato per fare un omaggio, queste cose costano. GIORGIO MOTTOLA Si però lì il giro dei soldi sembrava molto più ampio rispetto alla sala, i fiori……

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA No! GIORGIO MOTTOLA …non era soltanto per le spese minime.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Noi abbiamo fatto le campagne elettorali e le campagne elettorali sono costate. E la campagna elettorale era per il partito e per il candidato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tanto il candidato lo decide lui. E gli sarà anche riconoscente. Perché Nino Caianiello, che per la prima volta ha svelato il suo ruolo di consigliere occulto nella formazione della giunta Fontana, rappresenta la cruna di quell’ago del potere dove devi passare, devi infilarti se vuoi candidarti o semplicemente se vuoi un favore. Davanti al bar dove lui accoglieva la gente, si formavano lunghe file, per questo si chiamava, veniva definito “l’ambulatorio”, anche perché Caianiello si prendeva cura di tutti quelli che bussavano alla sua porta, a partire dagli uomini delle forze dell’ordine, lo abbiamo sentito, anche a chi voleva candidarsi. E anche Fontana gli ha chiesto consigli. Non solo ha piazzato l’assessore Cattaneo e l’assessore Gallera, ma ha seguito quasi tutti i consigli nella formazione della giunta. È per questo che Caianiello si sente autorizzato a dire: guardate che Fontana è un semplice gestore della politica, non la fa lui. La politica si fa altrove da quel palazzo di vetro che è la Regione. Che di trasparente ha ben poco, ormai, se è vero che Caianiello, come dice la magistratura, è il regista della nuova tangentopoli lombarda. Lui si lamenta un po’ perché le percentuali sono passate dal 7 al 4 per cento, tempi magri anche per chi riceve le mazzette. Ma lui le chiama “contributi alla politica”. Sembra di ascoltare un vecchio refrain. Ma si può definire politica, questa, quando c’è chi paga per ottenere in cambio un favore che quasi mai coincide con l’interesse pubblico? È l’erosione lenta della legalità, e di questo passo poi è scontato che alla porta di Caianiello possa arrivare a bussare anche il diavolo senza aver bisogno di mascherarsi.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha fatto un patto con il diavolo a Lonate?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Diciamo di sì.

GIORGIO MOTTOLA Per farsi eleggere sindaco di Lonate ha accettato un accordo con la ‘ndrangheta.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO È vero. Si finisce in questa nuvola in cui si perdono un po’ le dimensioni. Ti sembra di salire in alto, in alto, in alto e si accettano certe cose.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2014 Danilo Rivolta è stato eletto sindaco di Lonate Pozzolo, comune di 11 mila abitanti che sorge a ridosso dell’aeroporto internazionale di Malpensa. Qui, nel cuore della provincia di Varese da tempo spadroneggia una delle locali di ‘ndrangheta più potenti e sanguinose di tutta la Lombardia. Negli ultimi 20 anni, gli abitanti di Lonate hanno assistito a incendi, esecuzioni per strada e cadaveri carbonizzati.

ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non ho alcun timore a definirlo, una sorta di laboratorio, laboratorio di ‘ndrangheta al Nord.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ombra dell’aeroporto di Malpensa la ‘ndrangheta fa affari d’oro con il business dei parcheggi e dell’edilizia. Non controlla solo politici, professionisti e imprenditori. Negli anni ha infiltrato il tessuto sociale.

ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non mi è mai capitato, Presidente, e come è noto ho lavorato per anni in Calabria, che in un processo noi abbiamo avuto 17 testimoni, su 17 testimoni 12 sono falsi. Ecco neanche in Calabria succede questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L ‘ndrangheta qui come nel resto della Lombardia, gestisce un consistente pacchetto di voti che a ogni elezione porta in dote al candidato che è più in grado di soddisfare le loro esigenze.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha incontrato esponenti di famiglie calabresi di Lonate per fare questo accordo? DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Prima viene un rappresentante della famiglia De Novara che chiede di potersi candidare. Io gli dissi Franco pensaci bene forse meglio magari mettere un rappresentante giovane, sai…

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei sapeva che Franco De Novara fosse vicino agli ambienti della ‘ndrangheta insomma.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Sì lo avevo letto. Concordammo poi alla fine di mettere la figlia Francesca in lista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Franco De Novara, all’anagrafe Salvatore, è un imprenditore attivo nel settore del movimento terra e dell’edilizia. Risulta imparentato con i boss della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Alle elezioni la figlia Francesca è tra le più votate e grazie alle sue preferenze Rivolta riesce a vincere di misura.

GIORGIO MOTTOLA Per la sua elezione a sindaco i voti della ‘ndrangheta si rivelano alla fine decisivi. DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si rivelano decisivi sì.

GIORGIO MOTTOLA E quando scopre di aver vinto grazie ai voti dei calabresi, che cosa pensa?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Cominciano i problemi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il suo primo atto da sindaco è la nomina ad assessore di Francesca De Novara, sposata con Cataldo Malena, braccio destro dell’allora capo della cosca di Lonate Pozzolo.

GIORGIO MOTTOLA Lei subisce pressioni mentre è sindaco dalle famiglie calabresi?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ho avuto delle richieste strane. Loro chiedevano in un certo senso legittimamente per quello che avevano fatto però non potevo garantire spudoratamente così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Lonate le famiglie originarie della Calabria occupano un intero quartiere con le loro villette. È qui che incontriamo Franco De Novara.

GIORGIO MOTTOLA Diciamo che il suo nome è un po’ chiacchierato.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Il mio nome? A me non mi risulta.

GIORGIO MOTTOLA Nella vicenda anche del sindaco Danilo Rivolta. Mi ha detto insomma degli accordi che avete fatto nel 2014.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Noi abbiamo fatto accordi?

GIORGIO MOTTOLA Eh. Lui dice che all’epoca faceste un accordo per portare i voti dei calabresi.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma lascia stare…dai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Accanto a De Novara, notiamo un volto che ci sembra subito familiare.

GIORGIO MOTTOLA Lei è Francesca, giusto?

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io sono Francesca.

GIORGIO MOTTOLA Ah ecco, l’assessore.

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Eh…

GIORGIO MOTTOLA Lei si è candidata in lista? Francesca.

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io mi sono candidata in lista perché Danilo Rivolta mi ha rotto i coglioni fino a casa per farmi candidare perché aveva bisogno delle quote rosa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque stando ai De Novara, si sarebbero ritrovati nella giunta comunale di Lonate Pozzolo non perché l’avrebbero chiesto ma perché pregati da Danilo Rivolta.

GIORGIO MOTTOLA Inizialmente era lei Franco che voleva candidarsi con lui?

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Io sono 40 anni che lavoro, io sono venuto in Lombardia con la valigia di cartone. Vedi come sono nero? Diglielo a Rivolta.

GIORGIO MOTTOLA Ma si parla anche di rapporti. FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma quali rapporti?

GIORGIO MOTTOLA Con le cosche della ‘ndrangheta qui a Lonate.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Quali rapporti? Qua si lavora, qua sei vuoi mangiare, devi lavorare.

GIORGIO MOTTOLA Alfonso Murano era suo parente, no?

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Se c’era Alfonso Murano mo’ ti… ti picchiava.

GIORGIO MOTTOLA No, non mi dica così. Perché mi dovrebbe picchiare.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Non dire ‘ste minchiate. GIORGIO MOTTOLA Anche suo marito Francesca è in carcere per ndrangheta.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma dico io come cazzo ti permetti tu di andare in giro per le case a suonare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alfonso Murano è lo zio di Francesca De Novara, ma particolare non trascurabile, era anche uno dei massimi capi della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Una sera di febbraio del 2006 è stato ucciso in un agguato. Sarebbe stato senz’altro orgoglioso di vedere otto anni dopo sua nipote Francesca occupare un posto in giunta nel comune che controllava. Ma nell’ascesa politica dei calabresi, avrebbe avuto un ruolo importante anche un altro politico sconosciuto ai più.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Non li ho incontrati direttamente, è stato fatto il tramite.

GIORGIO MOTTOLA Chi è stato questo tramite?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Corrisponde al nome di Peppino Falvo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo in Lombardia è conosciuto come il re dei Caf di Milano e provincia. È stato il coordinatore regionale dei Cristiano Popolari, il partito meteora fondato da Mario Baccini, ma nel momento del bisogno è corso in sostegno elettorale a tutto il centrodestra, da Forza Italia a più recentemente la Lega di Salvini.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Peppino se decideva di portare “X” persone a una manifestazione ci metteva il battito di una farfalla, ecco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le doti di Peppino nel riempire di sue claque le assemblee politiche sono di dominio pubblico. Il capolavoro lo compie nella prima convention dei Cristiano Popolari. Quando Falvo riempie la sala di gente che non aveva idea di dove si trovasse.

INTERVISTE DI MARCO BILLECI – 03/12/2012

UOMO M’hanno portato qua, non so cosa dobbiamo fare.

MARCO BILLECI Chi lo ha portato, scusi?

UOMO Siamo venuti con un pullman.

MARCO BILLECI Un pullman da dove?

UOMO Da Lonate Pozzolo.

MARCO BILLECI Perché ha deciso di essere qua oggi?

DONNA Non lo so.

MARCO BILLECI Come non lo sa, è arrivata in pullman?

DONNA Sì, in pullman.

MARCO BILLECI Da?

DONNA Da Lonate.

UOMO 2 Io sono un carissimo amico di Falvo.

MARCO BILLECI Chi è, scusi?

UOMO 2 Falvo.

MARCO BILLECI Eh, mi dica chi è Falvo.

UOMO 2 È un calabrese che, è un mio carissimo amico.

GIORGIO MOTTOLA Falvo era l’intermediario fra le famiglie calabresi, gli ambienti di ‘ndrangheta e la politica?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Diciamo che era un collegamento, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo ruolo opaco di cerniera tra politica e ‘ndrangheta, Peppino Falvo è finito sotto indagine a Milano. Incontriamo il re dei Caf proprio davanti a uno dei suoi sportelli.

GIORGIO MOTTOLA Lei sembra lì l’intermediario tra la politica e la ‘ndrangheta.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente, lo decideranno i magistrati, tranquillo.

GIORGIO MOTTOLA Rivolta dice che nel 2014 lei si è presentato a casa sua con Franco De Novara.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti stretti con Franco De Novara.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Non può negare. PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Ci sarà la magistratura, tranquillo, non ci sono problemi. GIORGIO MOTTOLA Però lei nega di avere avuto anche rapporti con i De Novara?

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No assolutamente, li conosco.

GIORGIO MOTTOLA E sa anche che Francesca era la nipote del boss che è stato ucciso?

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No, questo non lo sapevo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo nega tutto, ma l’accordo tra Rivolta e le famiglie calabresi sarebbe stato suggellato anche da un livello politico superiore: Nino Caianiello, l’uomo che non si muove foglia a Varese che lui non voglia.

GIORGIO MOTTOLA Nino Caianiello, cosa sapeva del suo accordo con la ‘ndrangheta?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ogni accordo lui lo avallava, ogni lista lui doveva controllarla. Ogni lista doveva convalidarla.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai incontrato i De Novara?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, li ho incontrati nell’ufficio a Gallarate di Peppino Falvo.

GIORGIO MOTTOLA Falvo fece da intermediario fra lei e De Novara?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E Falvo mi rappresentò la necessità di poter dare delle garanzie che a livello locale i rappresentanti di Forza Italia non riuscivano a dare ai De Novara sul fatto che non sarebbero stati trattati male ma che comunque c’era una continuità del rapporto con Rivolta. GIORGIO MOTTOLA Però lei, diciamo, immaginava che fossero vicini agli ambienti di ‘ndrangheta?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Che erano sul filo sì, questo sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lonate non è solo un microcosmo. È lo specchio di quello che accade anche a Milano e nel resto della Lombardia. Quanto la presenza della ‘ndrangheta sia pervasiva lo spiega un boss di Lonate in un’intercettazione. Intercettazione

CATALDO CASOPPERO La ‘ndrnangheta, ogni paese c’è una ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA Se si fa politica si può non avere rapporti con la ‘ndrangheta?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ritengo che siano pochi i comuni che non hanno questo tipo di influenza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così quando Danilo Rivolta viene arrestato ed è costretto a dimettersi, il copione rimane lo stesso. Alle ultime elezioni comunali di Lonate, nel 2019, la ‘ndrangheta si è limitata a cambiare cavallo, puntando su Enzo Misiano, il capo locale di Fratelli d’Italia che prova a minare il monopolio politico di Nino Caianiello. Intercettazione

ENZO MISIANO – EX SEGRETARIO FRATELLI D’ITALIA LONATE POZZOLOFERNO Cioè qualunque cosa fa, devo chiamare Caianiello. Ed io gli ho detto guarda chiama chi vuoi cioè non è un problema mio, non è il mio referente. Io non devo chiamare nessuno. Se tu devi chiamare Caianiello, chiama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al suo arresto Enzo Misiano è stato il referente locale di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. Ma il suo primo lavoro era autista e tuttofare del boss della cosca Giuseppe Spagnolo. Alle comunali di Lonate del 2019, Enzo Misiano convoglia i voti della ‘ndrangheta sulla lista di Ausilia Angelino, candidata sindaco del centrodestra e della Lega.

GIORGIO MOTTOLA Da quello che risulta, la ‘ndrangheta ha sostenuto dei candidati nella sua lista?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, se ha sostenuto me io su queste cose qui assolutamente non condivido. Perché io non sapevo nulla e di conseguenza ognuno si prenda la responsabilità personale.

GIORGIO MOTTOLA Ma Enzo Misiano però lo conosceva?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Enzo Misiano certo lo conoscevo, come lo conoscevano tutti.

GIORGIO MOTTOLA E lo frequentava quindi.

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Lavora in Comune. Lo conosce anche l’attuale sindaco.

GIORGIO MOTTOLA Prende le distanze da Enzo Misiano?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Ma stiamo scherzando. Adesso che sono saltati fuori i fatti prendo le distanze non solo da Misiano, ma da tutti. Mi dispiace. Perché io non li conosco, nessuno.

GIORGIO MOTTOLA Forse doveva fare più attenzione nella composizione della lista, probabilmente, no?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Innanzitutto, io su questo non desidero, glielo dico sinceramente, che venga messa in onda perché a me non interessa…

GIORGIO MOTTOLA Perché no? Lei era candidata sindaco mi scusi, non è che è un fatto privato è un fatto pubblico.

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, perché lei sta… allora poi… basta…

GIORGIO MOTTOLA E’ normale che un politico incontri figure border line, vicine alla ‘ndrangheta?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Questa gente vota. Allora o stabiliamo che chi è in odore o è fra virgolette di…non votano e quindi non li contattiamo. Questi vanno, votano.

GIORGIO MOTTOLA Cioè lei dice votano, quindi anche se sono ‘ndranghetisti ma votano qualcuno deve andarli a prendere poi quei voti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, e come si fa? Si vince anche per un voto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E poco importa se quel voto rischia di essere puzzolente. Lo ammette candidamente Nino Caianiello. D’altra parte, se lo smentisse, sarebbe come sminuire un po’ quel ruolo di playmaker della politica del centro destra in Lombardia. Alla corte del consigliere occulto di Fontana si sono presentati il candidato sindaco, i familiari di ‘ndranghetisti, tutti a braccetto con il facilitatore, l’uomo, il re dei Caf in Lombardia, l’uomo che riusciva a riempire, in caso di necessità, le sale per un convegno politico e portare consenso: Peppino Falvo. Poi, poco importa se chi si trascinava dietro non sapesse neppure che cosa stesse facendo lì dentro. L’importante è intercettare il loro voto, meglio ancora, anzi, se è un voto inconsapevole. Nella distrazione si riesce meglio magari a far eleggere i familiari di ‘ndranghetisti o, addirittura, l’ex autista di un boss. E tutti benedetti dalla politica. La ‘ndrangheta è in tutte le città, l’abbiamo sentito da chi ci vive dentro. E si presenta anche senza più bisogno di mascherarsi, di travestirsi. Questo da una parte. Dall’altra, invece, abbiamo funzionari dello Stato che per denunciare un semplice conflitto di interessi sono costretti a farlo a volto coperto. C’è migliore rappresentazione del degrado della politica? Chissà come Franca Valeri avrebbe oggi descritto la sua Milano. 

Vassalli, valvassori e valvassini. Report Rai PUNTATA DEL 26/10/2020 di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara e Federico Marconi. Report torna a occuparsi della Lombardia, dove Tangentopoli sembra non essere mai finita. Per entrare nel giro che conta degli appalti pubblici, come confermano anche alcune inchieste giudiziarie, bisogna pagare: in esclusiva a Report imprenditori, politici e amministratori locali raccontano come la corruzione in Lombardia sia diffusa dai piccoli comuni fino agli scranni del consiglio regionale. Parlano di finanziamenti occulti alla politica, mazzette sugli incarichi pubblici, bandi sistematicamente truccati. Report svela il lato oscuro della politica lombarda, avvolta da una ragnatela di imprenditori spregiudicati legati alla 'ndrangheta, faccendieri che pilotano le nomine ed eminenze grigie che, dietro alla Lega, avrebbero fatto man bassa di incarichi e consulenze. Un malaffare che avrebbe condizionato le scelte sulla sanità e in particolare sui test sierologici nel pieno dell'emergenza Covid-19, causando ritardi e aumento dei contagi. 

“VASSALLI, VALVASSORI E VALVASSINI” Di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara- Federico Marconi Riprese di Alfredo Farina- Davide Fonda Immagini di Andrea Lilli- Fabio Martinelli Montaggio di Giorgio Vallati.

GIORGIO MOTTOLA Il partito che ha provato a boicottarla di più a ostacolare i test sierologici è stata la Lega?

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Sì, di fatto sì, da parte della Lega abbiamo proprio notato questo isolamento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per fermare il sindaco di Robbio, il segretario della Lega Lombarda manda messaggi agli amministratori del suo partito. In questo, che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, scrive: “Ho parlato con Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”.

GIORGIO MOTTOLA Lei dice addirittura in questo messaggio che ha parlato con Salvini, quindi la questione era molto importante.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Guardi io Salvini lo sento tutti i giorni, francamente mi sta chiedendo una roba di marzo.

GIORGIO MOTTOLA Ma in Lombardia soltanto voi leghisti avete provato a ostacolare in modo così forte i test sierologici rapidi. Perché? Forse perché stavate difendendo Diasorin? Difendevate gli interessi di Diasorin?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, allora, se dici una cosa così, io ti querelo. Ma querelo te, querelo te.

GIORGIO MOTTOLA Guardi che io le sto facendo una domanda. Con chi stava parlando?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Informati, studia, perché non sai una beata minchia.

GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi perché la Lega si è accanita così tanto sui test sierologici rapidi.

UOMO DELLA SICUREZZA C’è un evento, c’è un evento… GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi solo questo. E’ un parlamentare, è un onorevole, e la vicenda… sono morte 35mila persone, anche perché non hanno potuto fare i tamponi. Perché soprattutto con voi della Lega, vi siete accaniti così tanto contro i test sierologici rapidi.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Anche qui formuli una domanda sbagliata. Non siamo noi della Lega, ma sono le linee guida del ministro Speranza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in realtà Emilia Romagna e Veneto nello stesso periodo avevano già iniziato i test sierologici. Grimoldi, invece, in un altro messaggio definisce Francese, che li stava facendo, “quella merda di Robbio”. E l’effetto degli interventi del deputato sembra farsi sentire subito: “mi taccio”, risponde infatti l’amministratore leghista, ma avverte: “occhio che prima o poi verrà fuori che ha ragione lui”. Quasi tutte le amministrazioni leghiste non proseguono con i test sierologici nei loro comuni e alla maggior parte dei lombardi non resta che aspettare Diasorin.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lunedì abbiamo mandato in onda le dichiarazioni di Nino Caianiello, considerato il nuovo regista della nuova tangentopoli lombarda. Ecco. Lui ha ammesso ai microfoni del nostro Giorgio Mottola, di essere stato il consigliere occulto nella formazione della giunta regionale a guida Fontana. Lui che ha anche formato la lista civica che ha supportato il governatore. Ha ammesso di aver incassato tangenti e ha ammesso anche di aver ricevuto alla sua corte, familiari di ‘ndranghetisti che poi lo hanno anche supportato nel corso degli anni in varie elezioni perché la ‘ndrangheta ha detto candidamente “vota”. Ecco tutto questo ci ha sottoposto ad un tiro incrociato durante la settimana: il Governatore Fontana ci ha accusato, con i suoi assessori, ci hanno accusato di aver fatto una falsa rappresentazione dei fatti, una costruzione artefatta, un vile complotto. Insomma, ecco, secondo loro il problema alla fine siamo noi che quei fatti li abbiamo raccontati. Noi avevamo solo la presunzione di sollevare una questione morale che invece è rimasta in sottofondo come un fastidioso rumore. Ecco, per fortuna la procura di Milano la pensa diversamente: i magistrati Furno, Scudieri e Bonardi sono stati quelli che hanno scoperto questo sistema corruttivo nell’inchiesta “Mensa dei Poveri”. E poche ore fa la DDA ha inviato i suoi investigatori ad acquisire il materiale originale della nostra inchiesta. Questo perché le dichiarazioni di Nino Caianiello, sono l’istantanea, la fotografia della Tangentopoli 4.0, che supera quel sistema anche banale fatto di mazzette. È un sistema molto più sofisticato: è un sistema che prevede intanto la scelta del candidato, poi quello di affiancargli un professionista e tutto questo per formare un cerchio magico che è teso a drenare denaro pubblico e a esercitare un potere. Anche una gestione spregiudicata del potere che incide anche su quello che è un valore estremo: la salute. È una questione di vita e di morte. Ecco insomma, un sistema che ha reminiscenze feudali. Il nostro Giorgio Mottola

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Milano è stata l’epicentro dell’inchiesta giudiziaria più sconvolgente della storia recente: Tangentopoli. Ma più di un quarto di secolo dopo, in città e nel resto della Regione la corruzione sembra essersi soltanto evoluta.

GIORGIO MOTTOLA La sensazione è che Tangentopoli non sia mai finita.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Io dico che secondo me non finirà mai.

GIORGIO MOTTOLA Perché tangentopoli, secondo lei, non finirà mai?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Perché la politica ha un costo. Questo paese ha una serie di gangli che inevitabilmente anche attraverso la burocrazia la si alimenta. E poi il problema non è chi riceve in questo Paese, è chi propone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi per farsi strada negli appalti a Milano e in provincia bisogna pagare. Lo sa bene Daniele D’Alfonso, giovane imprenditore milanese che fa di tutto per entrare nel giro che conta.

DANIELE D’ALFONSO – INTERCETTAZIONE Faccio una figura della Madonna, c’ho mezza Forza Italia cazzo questa sera. Tutti quelli di Varese. I numeri uno di Forza Italia e di Varese sono lì. Faccio una figura, faccio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per D’Alfonso i politici del comune di Milano e della Regione Lombardia sono una vera e propria ossessione. Paga loro feste in discoteca, le vacanze, le campagne elettorali e, secondo la procura di Milano, paga anche un fiume di tangenti. Per questo qualche mese fa, D’Alfonso è stato arrestato, ma ai magistrati finora non ha mai confessato nulla.

GIORGIO MOTTOLA Perché cercavi così spasmodicamente rapporti con la politica?

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Beh, perché volevo lavorare sempre di più. Se vado da solo, ci sono dieci Daniele che fanno il lavoro…

GIORGIO MOTTOLA …che fanno la tua stessa cosa.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo.

GIORGIO MOTTOLA Non è pazzesco che si debbano usare i politici per fare questa roba?

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Se vuoi lavorare a Milano è così. Perché è pazzesco puoi anche stare in giro a cercare altri lavoretti, provare a tribolare.

GIORGIO MOTTOLA Però nel giro grande senza i politici non ci entri.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo, per i lavori un po’ grossi come quello che ho preso io. Io ho preso… Quando mi hanno arrestato avevo 18 milioni di lavori firmati tra privato e pubblico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per entrare nel giro che conta Daniele D’Alfonso prova ad agganciarsi al treno di Nino Caianiello, assumendo, il suo pupillo: Pietro Tatarella, consigliere comunale di Forza Italia e astro nascente della corrente del Mullah.

PIETRO TATARELLA – EX CONSIGLIERE COMUNALE MILANO (CONSIGLIERE COMUNALE DI MILANO DAL 2011 AL 2019) Nino hai un grande pregio che è quello di saper sempre puntare sui giovani e anche andando controcorrente. Un difetto però ce l’hai: gli spaghetti come me li fai mangiare tu proprio, non si riescono a digerire. Stai senza pensieri. Ciao.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma evidentemente senza pensieri non sono stati a lungo visto che poi li hanno arrestati tutti. A partire dal consigliere Tatarella, a cui ogni mese D’Alfonso versa 5000 euro per procacciargli contatti e lavori.

GIORGIO MOTTOLA Gli hai dato veramente un botto di soldi a Tatarella…

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Mi ha presentato dei gruppi grossi!

GIORGIO MOTTOLA Ti ha presentato anche tanti politici.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Eh sì, certo, dieci anni siamo stati insieme.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è così che D’Alfonso riesce a ottenere appalti anche con l’Amsa, l’azienda dei rifiuti del comune di Milano, per il quale la sua ditta si occupa di spazzamento neve e soprattutto smaltimento di rifiuti speciali.

GIORGIO MOTTOLA Sarebbe stato più complicato senza Tatarella entrare in quel giro.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo, è ovvio. Non sarei proprio entrato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Daniele D’Alfonso non ha rapporti solo con la politica. La sua ditta ha legami molto stretti con alcune aziende della ‘ndrangheta lombarda. In particolare, con una società di movimento terra di Buccinasco che fa riferimento al capomafia Giosafatto Molluso. Per conto di Molluso e del figlio Giuseppe, D’Alfonso ha assunto ex appartenenti alle cosche e portato a termine lavori edili.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Siamo amici da una vita.

GIORGIO MOTTOLA Hai degli amici belli pericolosi, però.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE A me non hanno mai messo una mano addosso, te lo direi. Non mi hanno mai toccato.

GIORGIO MOTTOLA E dovevi lasciargli anche qualcosa?

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE No niente, no mai dato un euro, mai chiesto un euro.

GIORGIO MOTTOLA Però è pazzesco, gli ‘ndranghetisti non ti hanno mai chiesto soldi, i politici sì.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pietro Tatarella non è l’unico ad aver ricevuto denaro da Daniele D’Alfonso. Soldi in nero sono arrivati anche al gruppo di Fratelli d’Italia in Regione Lombardia e a diversi consiglieri regionali di Forza Italia, molto vicini a Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Io ho conosciuto Daniele D’Alfonso tramite Pietro Tatarella.

GIORGIO MOTTOLA E voleva una mano?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E voleva una mano. Sì. Perché lui per esempio a me chiese: dice io non riesco a lavorare in provincia di Varese. Perché voglio partecipare ai bandi ma non mi invitano.

GIORGIO MOTTOLA E venne a chiedere da lei la chiave d’ingresso.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Lo misi in contatto con un amministratore della società. E dissi: invitatelo, no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nonostante la cattiva reputazione, il portafoglio di D’Alfonso torna utile per le regionali del 2018. Caianiello mette infatti in contatto l’imprenditore milanese con alcuni dei suoi candidati.

GIORGIO MOTTOLA E D’Alfonso le espresse l’intenzione di finanziare la campagna elettorale di Forza Italia per le regionali?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Ma D’Alfonso si sapeva che dava una mano alla campagna elettorale. Lui stesso propose, dice, io poi ricambierò … per ricambiare devi dare solo i contributi quando ci sono le campagne elettorali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle elezioni regionali del 2018 che decreteranno il successo di Fontana e del centrodestra, Daniele D’Alfonso si scatena. Sperando di essere entrato finalmente nel giro che conta inizia a sborsare in nero decine di migliaia di euro per la campagna elettorale.

GIORGIO MOTTOLA Il 2018 per te diventa una specie di pesca per trovare altri politici che possono darti una mano alle elezioni regionali.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Si, è così se vuoi lavorare. Cioè allora, cosa vuoi fare? Devi morire di fame o devi lavorare? Io ho 60 famiglie da mantenere, cosa faccio?

GIORGIO MOTTOLA Quindi per te le elezioni regionali sono un momento in cui puoi andare lì e trovare… DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE È 15 anni che li conosco, è quindici anni che ho rapporti privati…

GIORGIO MOTTOLA Che paghi qui, paghi là.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Che se io ho una campagna elettorale da dare una mano, devo dare una mano alla campagna elettorale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i candidati che D’Alfonso sostiene con più soldi in nero c’è Fabio Altitonante. Delfino di Caianiello, riesce a farsi eleggere consigliere regionale ed ottiene da Fontana la nomina a sottosegretario della giunta regionale con la pesantissima delega alla rigenerazione dell’area Expo.

GIORGIO MOTTOLA 20mila euro ad Altitonante sono… diciamo…

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Sono venuti dopo però…

GIORGIO MOTTOLA Però sono di riconoscimento per quello che aveva fatto prima.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Sono questioni di rapporti. Che ti dico di no? Cioè è vero. Sarei un pazzo a dirti non è vero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per i soldi presi da D’Alfonso, Fabio Altitonante è stato arrestato. Costretto a dimettersi da sottosegretario della giunta Fontana, ha conservato lo scranno nel consiglio regionale. Ma nonostante l’arresto e l’imminente processo quest’estate si è anche candidato sindaco in un piccolo comune abruzzese, Montorio al Vomano.

GIORGIO MOTTOLA Posso fare qualche domanda?

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Chi sei?

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report, Rai3.

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Ah.

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle: lei si dimette da sottosegretario alla Regione Lombardia e si viene a candidare a sindaco qui, non le sembra un enorme controsenso?

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Mi hanno chiesto se con la mia esperienza potevo supportarli in questa rinascita del paese.

GIORGIO MOTTOLA È accusato di aver intascato 25 mila euro.

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA No, io sono accusato di traffico di influenze.

GIORGIO MOTTOLA Perfetto, però sempre 25mila euro sono. Comunque.

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Traffico… no, però non sono mazzette, tutt’ora sono consigliere regionale della Lombardia. Ho appena votato un bilancio da 25 miliardi di euro in consiglio regionale.

GIORGIO MOTTOLA Come giustifica quei 25mila euro dati da D’Alfonso?

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Io non sono mai entrato nel merito. Io credo nella giustizia, ci sarà un processo e sono certo che ne uscirò pulito.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Glielo auguriamo perché sarebbe una bellissima notizia anche per tutti i cittadini lombardi. Altitonante però è stato arrestato, si è dimesso da sottosegretario della giunta, ha conservato però il suo posto da consigliere e anche lo stipendio. Nelle more del processo, ha ritenuto opportuno candidarsi a sindaco. Pare che in Abruzzo non possano fare a meno della sua esperienza. A questa altezza hanno fissato l’asticella dell’etica o se volete semplicemente quella dell’opportunità. Nella campagna elettorale dell’ex sottosegretario alla giunta ha contribuito, ha avuto un ruolo anche D’Alfonso con i suoi 25mila euro. Ecco lui ha pagato, D’Alfonso, gettoni - così chiama le mazzette come se i politici fossero dei jukebox – anche all’altro delfino Pietro Tatarella, l’altro delfino di Caianiello. Gli erano indigesti gli spaghetti che cucinava il suo mentore però digeriva meglio invece i cinque mila euro in nero che ogni mese gli dava D’Alfonso. Ma proprio grazie a questo rapporto che D’Alfonso aveva creato con Caianiello, che era riuscito a incamerare diciotto milioni di euro di lavori. Dentro ci era finito dentro anche un boss con la sua ditta. “Però” dice D’Alfonso “a me non hanno mai torto un capello né chiesto un euro a differenza dei politici”. Ma quello che abbiamo raccontato è ancora a un livello basico del sistema molto più sofisticato che aveva messo in piedi Caianiello, fatto da professionisti fedeli e anche riconoscenti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei comuni e nelle società pubbliche della provincia di Varese e di mezza Lombardia ogni singolo incarico, ogni consulenza affidata a un avvocato, a un commercialista, a un ingegnere, a un tecnico o uno studio professionale doveva avere il benestare di Nino Caianiello.

GIORGIO MOTTOLA Tutte le nomine, tutti gli incarichi, tutte le consulenze date da enti pubblici sono oggetto di una spartizione…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Beh, c’è un accordo politico… perché poi, chi li nomina?

GIORGIO MOTTOLA Tutti i bandi sono truccati, praticamente.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ci sono degli amministratori che poi fanno delle scelte. Gli amministratori che fanno riferimento alla propria area politica, propongono i propri.

GIORGIO MOTTOLA Quindi vengono scelte persone di fiducia dei partiti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Se io concordavo con i partiti “va bene, allora ognuno fornisce il proprio nome, c’è lo spazio per tutto il resto”, ognuno sapeva, per propria quota, che il mio candidato si chiamava Giovanni e gli altri proponevano Nicola e ognuno se ne faceva carico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in questo spoil system a cui avrebbero partecipato tutti partiti, quando il professionista riceveva l’incarico in quota Caianiello, gli toccava pagare anche una tassa occulta.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Avevo degli amici professionisti che me l’avevano confessato loro che…

GIORGIO MOTTOLA Che pagavano la mazzetta.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Che retrocedevano, sì. Ad esempio un professionista mi ha raccontato che veniva chiamato dal commercialista di turno che rappresentava la partecipata e diceva “guarda ti ho mandato in pagamento la fattura, sai cosa devi fare”. Lui capiva e andava, prelevava i contanti e portava dove doveva portare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel sistema Caianiello, chi veniva nominato da un’amministrazione pubblica era tenuto a retrocedere una percentuale sul compenso che riceveva per l’incarico. L’accordo veniva esplicitato al professionista immediatamente prima della nomina.

GIORGIO MOTTOLA Chi otteneva una nomina, un incarico, una consulenza in percentuale sul proprio compenso quanto doveva retrocedere?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Il professionista quando veniva nominato in un consiglio di amministrazione, in un ente pubblico e tutto il resto gli dicevamo “bene, quando farete il… prenderete ‘st’incarico, sapete che dovete versare, se potete, se potete, il 10 per cento”.

GIORGIO MOTTOLA Questa però, formalmente, Caianiello, si chiama mazzetta.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Mazzetta riconosciuta al sottoscritto, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E se la mazzetta deriva dall’incarico dato a un professionista di fiducia per far lievitare i finanziamenti occulti basta moltiplicare gli incarichi, i lavori e le consulenze.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Ma lui mi ha costretto a inventarmi dei lavori a Lonate per collocare professionisti per fare. Una roba. Ma guardi che a pensarci cose da pazzi. Cioè, uno non ci arriva mai. GIORGIO MOTTOLA Cioè si inventava l’incarico solo per dare i soldi a quel professionista.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Sì.

GIORGIO MOTTOLA Perché poi il professionista doveva girare i soldi a Caianiello.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Sì. GIORGIO MOTTOLA Ma quanto erano le percentuali?

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Il 5%… parliamo dal 5% al 10%, dipende.

GIORGIO MOTTOLA Dal 5% al 10%.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E a volte i contributi alle spese venivano consegnati cash direttamente a Caianiello, come hanno documentato le registrazioni degli investigatori.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Questa persona venne, mi portò il quid, che era intorno ai 500 euro, e tutto il resto, dicendo: questa è la decima per l’incarico e tutto il resto.

GIORGIO MOTTOLA Lei però se li è presi.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io li presi e poi li ho riversati nelle spese della gestione corrente del partito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in provincia di Varese alla spartizione di nomine e appalti non partecipavano solo gli uomini e il partito di Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma questa è una cosa, mi permetto di dirle, che in modo diverso, o comunque magari anche uguale, lo fanno tutti i professionisti, non solo quelli che venivano, facevano riferimento all’area di Forza Italia. GIORGIO MOTTOLA Anche gli altri professionisti pagavano la decima agli altri partiti…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Secondo me sì. Anche perché, come si fa a reggere un partito? Quando si faceva una nomina del collegio sindacale, i membri del collegio sindacale di solito erano tre: uno della Lega, uno di Forza Italia e uno del Pd. E questi professionisti solo a Forza Italia riconoscono queste cose?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comune di Gallarate è stata la roccaforte del sistema Caianiello. Qui il Mullah aveva uno dei suoi uomini di fiducia: il segretario di Forza Italia Alberto Bilardo. Arrestato per aver preso mazzette, ai magistrati ha raccontato un altro pezzo della storia: “nella Lega – ha spiegato durante un interrogatorio - non c’è una sola persona che prende soldi direttamente ma c’è una suddivisione degli incarichi, ad esempio, quando Mascetti prende un incarico poi fa lavorare altri professionisti”. Il riferimento è ad Andrea Mascetti, uno degli esponenti più misteriosi e più potenti della Lega in Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA Ai magistrati ha detto che anche la Lega aveva un sistema simile a quello che avevate voi.

ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) Quello che c’è scritto e che ho detto io nelle carte è sicuramente vero. È a prova di smentita.

GIORGIO MOTTOLA Rispetto ad Andrea Mascetti, Mascetti si è accaparrato…

ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) È un serio e capace professionista.

GIORGIO MOTTOLA Assolutamente, che si è accaparrato tutti quanti gli incarichi della consulenza della provincia di Varese.

ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) Perché è di una preminenza assoluta. Assoluta. Perché è il riferimento sicuramente di tutta la provincia di Varese e anche oltre. Io capisco e mi piacerebbe tantissimo poterle raccontare qual è la mia opinione su queste cose… ma le racconterei anche qualcosa di più, ma non posso farlo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma qualcosa in più su Andrea Mascetti e su come funzionava il sistema di spartizione sul fronte Lega lo scopriamo grazie a un altro esponente del centrodestra di Gallarate, ex assessore all’Urbanistica in comune e compagna di Danilo Rivolta.

ORIETTA LICCATI – EX ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI GALLARATE (VA) La Lega dava solo incarichi a Mascetti.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Studio Mascetti, attenzione!

ORIETTA LICCATI – EX ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI GALLARATE (VA) Studio Mascetti. Tutti, quindi praticamente Forza Italia li dava a loro e questo li dava a Mascetti. Per quanto riguarda l’A336 Ospedale Unico dove lì c’è un altro casino che verrà fuori, tutti gli incarichi sono stati dati a Mascetti per conto Lega. Poi lei dice, retrocede la Lega? Non lo so cosa fanno a casa loro, però sono stati imposti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra il 2016 e il 2019 nel solo comune di Gallarate Andrea Mascetti ha avuto incarichi per oltre 85mila euro. Ma la sua rete di consulenze sembra estendersi anche in molti altri comuni della provincia, come sa bene Nino Caianiello.

GIORGIO MOTTOLA Per conto della Lega in provincia di Varese chi si accaparrava la maggior parte degli incarichi?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA So dove vuole arrivare. Lo studio legale che veniva dato come riferimento leghista in provincia di Varese viene vagheggiato nello studio dell’avvocato Mascetti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La rete di consulenze dell’avvocato Mascetti che siamo riusciti a ricostruire comprende una decina di comuni nella sola provincia di Varese e altrettanti nel resto delle province lombarde. Andrea Mascetti è uno degli avvocati più rinomati di Varese, agli inizi della sua carriera ha collaborato con lo studio di Attilio Fontana e da allora non si sono più separati. Quando è stato eletto presidente della Lombardia, uno dei suoi primi atti è stato nominare Mascetti suo consulente per gli affari legali a 50.000 euro all’anno.

GIORGIO MOTTOLA Andrea Mascetti è un uomo di Attilio Fontana?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Io direi che Attilio Fontana è un uomo di Andrea Mascetti. Andrea Mascetti è sempre stato una potenza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Monica Rizzi, ex assessore regionale in Lombardia, è una dirigente storica della Lega Nord. Vicinissima a Umberto Bossi, ha osservato da vicino l’ascesa politica di Andrea Mascetti, che in Lega entra negli anni ’90 ma non ricopre mai né incarichi pubblici né dentro al partito.

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Lui non faceva parte del nazionale, non faceva parte del federale però si sapeva che esisteva, un po’ un’eminenza grigia che girava.

GIORGIO MOTTOLA Da dove deriva tutto questo potere di Mascetti?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Beh, lui ha questa associazione sua che ha indirizzato molto le politiche culturali, eccetera, all’interno della Lega.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’associazione di Andrea Mascetti si chiama Terra Insubre, un’associazione culturale che rivendica le origini celtiche della Lombardia, pubblica una rivista trimestrale e organizza convegni e iniziative in giro per la Lombardia, strizzando l’occhio al secessionismo della vecchia Lega.

ANDREA MASCETTI - AVVOCATO Abbiamo certamente raggiunto un obiettivo, quello di far conoscere l’Insubria a livello popolare. Prima era qualcosa di relegato agli studiosi di storia, alcuni ambienti accademici o economici. Oggi molte persone sono consapevoli di essere in qualche modo insubri.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io ho anche aderito a quella associazione.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha aderito a Terra Insubre?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io ero riuscito a diventar socio di Terra insubre.

GIORGIO MOTTOLA E un napoletano come lei che ci fa in un’associazione che si chiama Terra insubre?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Lì in quella sede c’erano le opportunità per poter fare determinati incontri, lì incontravi gran parte del mondo leghista, ecco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quale fosse lo spirito di questi incontri ce lo racconta un leghista che è stato per 20 anni membro delegato all’assemblea di Terra insubre.

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui è stato bravo perché si è inventato questa associazione culturale e da lì ha creato un sistema che io l’ho definito una CL della Lega, una compagnia delle opere della Lega.

GIORGIO MOTTOLA Perché? MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Prima ha cominciato a creare dei gruppi di professionisti e se li è fidelizzati.

GIORGIO MOTTOLA Terra insubre serve soprattutto a fare relazioni tra i professionisti?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE È un centro di lobby

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in questa presunta lobby sembra che ci fosse un grande interesse innanzitutto per il settore sanitario.

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui aveva creato un gruppo di sanità forte a Varese che contava un centinaio di medici e con questo è entrato negli ospedali.

GIORGIO MOTTOLA Mascetti è uno in grado di condizionare le nomine dei direttore sanitari?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Si, si è stato sicuramente…

GIORGIO MOTTOLA E direttori generali nelle ASST?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Sì, sì.

GIORGIO MOTTOLA Lui che cosa ottiene in cambio?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui intanto prende le consulenze come avvocato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E di consulenze per gli ospedali lombardi Andrea Mascetti ne ha fatte diverse negli ultimi anni. Una da 47mila per l’azienda sanitaria di Melegnano. 36 mila per l’ospedale di Monza, 22 mila Bergamo Ovest, 10mila euro azienda sanitaria 7 Laghi, 23 mila Asl di Varese e altri 50 mila quella di Como. Ma per Andrea Mascetti e Terra Insubre non sono stati sempre tempi d’oro. All’epoca della Lega Nord di Umberto Bossi, l’associazione dell’avvocato varesotto era infatti finita nel libro nero.

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA I rapporti di Umberto Bossi con Terra Insubre erano pari a zero, proprio non se l’è mai filata per nulla. Ha effettivamente detto è un covo di fascisti.

GIORGIO MOTTOLA Bossi ha definito Terra Insubre un covo di fascisti?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Sì, un covo di fascisti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è una foto inedita di Andrea Mascetti da giovane. Con una mano regge il tricolore e con l’altra fa il saluto fascista. Il passato da estremista di destra dell’avvocato varesotto è condiviso da un altro illustre frequentatore di Terra Insubre.

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA E se poi pensiamo che un Savoini che aveva il duce in busto in ufficio in Lega viene da lì.

GIORGIO MOTTOLA Savoini viene da Terra Insubre?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Sì, era in Terra Insubre.

GIORGIO MOTTOLA Savoini e Mascetti hanno un rapporto molto stretto?

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Sì sì. Io Savoini devo averlo conosciuto le prime volte penso tramite Terra Insubre.

GIORGIO MOTTOLA Li vedevi insieme?

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Si, si. Anche per l’identità.

GIORGIO MOTTOLA Neofascista?

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Ahahah.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Savoini è l’ex portavoce di Matteo Salvini. Come vi avevamo mostrato l’anno scorso, aveva l’ufficio alla Padania tappezzato di simboli nazisti e foto di SS. Lo scorso anno, durante un incontro d’affari al Metropol di Mosca, Savoini avrebbe contrattato con alcuni emissari russi una compravendita di petrolio che doveva servire a far arrivare alla Lega di Salvini oltre 65 milioni di euro in nero. Nelle conversazioni registrate al Metropol di Mosca spunta anche il nome di Andrea Mascetti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché spunta il nome del super legale Andrea Mascetti? Il super legale della Lega? È il 18 ottobre del 2018. Mosca, all’hotel Metropol è in atto una trattativa per una partita di gasolio. Ecco. Secondo i magistrati della procura di Milano, che indagano per corruzione internazionale, quella trattativa avrebbe dovuto portare 65 milioni di dollari in nero nelle casse della Lega per finanziare la campagna elettorale delle europee. Noi lo diciamo chiaramente: quei soldi non sono mai stati trovati. Però a condurre quella trattativa c’è Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini. Dialoga con dei russi, in mezzo c’è anche un esponente di un partito politico fondato dall’ultranazionalista, il filosofo Dugin, vicino a Putin. E parlano di questa compravendita di petrolio che sarebbe dovuto avvenire anche attraverso dei mediatori. Ora. C’è un uomo affianco a Savoini che indica anche la banca idonea per fare questo tipo di operazione: Banca Intesa. Perché dice: noi abbiamo all’interno di quella banca uno che sedeva nel comitato direttivo. Si chiama Andrea Mascetti, con lui possiamo parlare. Ora, Andrea Mascetti, all’epoca Mascetti sedeva nel comitato direttivo di Banca Intesa e siede ancora oggi in quel comitato, è anche nel cda di Banca Svizzera, Banca Intesa Svizzera. Lui dice: quando ho letto queste dichiarazioni mi è venuto da sorridere perché insomma non mi aspettavo mi tirassero in ballo in una vicenda nella quale io non c’entro assolutamente nulla. Però con Savoini lui ha condiviso un percorso, ha condiviso delle ideologie, ha condiviso anche l’appartenenza a Terra Insubre. Terra Insubre è questa associazione culturale che secondo un ex membro avrebbe l’ambizione di essere un po’ la versione leghista di Comunione e Liberazione, di fare lobby. Che è molto attenta anche alla parte della sanità, agli affari della sanità e addirittura Mascetti, secondo lui, sarebbe in grado anche di influenzare le nomine per ricevere poi in cambio delle consulenze. Ora; noi lo premettiamo subito: Mascetti è un professionista di grande qualità però, insomma ha scalato posizioni importanti; è riuscito ad arrivare anche a capo di quella che è la fondazione più ricca e importante del paese. Ha fatto tutto da solo? Se vai in giro a fare già questa semplice domanda, trovi degli interlocutori terrorizzati.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Mascetti è sempre stato molto legato a Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA Fin dall’inizio.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Fin dall’inizio si, si. Cioè non è che abbia avuto un percorso diverso da quello di Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA Procedono insieme, insomma, il percorso. Più quota politica prende Giorgetti.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD La risposta è la domanda che mi hai fatto all’inizio.

GIORGIO MOTTOLA Cioè che il suo potere dipende da Giorgetti.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Non è che viene dal cielo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il rapporto tra i due risale molto nel tempo. Nella foto di gruppo in cui Mascetti e altri camerati fanno il saluto romano, c’è anche Giancarlo Giorgetti, all’epoca militante del Movimento Sociale Italiano. Quando la Lega va al Governo con i 5 Stelle e Giorgetti diventa sottosegretario alla presidenza del Consiglio, non sembra essersi dimenticato dell’amico. Mascetti viene nominato consigliere di amministrazione di una delle più importanti aziende di Stato, l’Italgas.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo farle un’altra domanda sui suoi rapporti con Andrea Mascetti.

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA È un mio amico, certo.

GIORGIO MOTTOLA Molto stretto però.

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Certo.

GIORGIO MOTTOLA Andrea Mascetti in tutti i comuni, in tutte le partecipate lombarde ha incarichi. Come mai?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA E perché lo vieni a chiedere a me?

GIORGIO MOTTOLA Forse perché anche l’incarico all’Italgas.

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ma figurati.

GIORGIO MOTTOLA É stato favorito da lei, no?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ah, questo…

GIORGIO MOTTOLA Chiedo, chiedo…

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Assolutamente falso.

GIORGIO MOTTOLA Lei non ha mai fatto il nome di Mascetti per incarichi pubblici?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Assolutamente falso.

GIORGIO MOTTOLA Però lei fa parte anche di Terra Insubre giusto?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA È un’associazione e come tanti altri anche io certo.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Giorgetti è quello che ha gestito tutte le nomine quando c’era Bossi, tutte.

GIORGIO MOTTOLA Le nomine delle banche dice…

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Delle banche… Era l’uomo dei soldi e delle nomine. Sempre Stato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quando Bossi esce di scena e cade il veto su Terra Insubre, Mascetti ottiene la sua prima nomina cruciale nel settore bancario, entrando a far parte degli organi di indirizzo della Fondazione Cariplo: la più importante e ricca fondazione bancaria del paese, azionista di Banca Intesa.

GIORGIO MOTTOLA Che in Fondazione Cariplo… c’è una sua mano rispetto all’incarico che ha avuto Mascetti?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ma voi pensate, ma io… che cosa cazzo c’entro io con queste cosa qua. Che voi pensate che io faccio tutte queste cose? Adesso basta, grazie. Comunque chiedete a lui perché i suoi incarichi li prende lui, mica li prendo io.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Varese i membri della diramazione locale di Fondazione Cariplo vengono decisi formalmente dalla Provincia e nell’ultima tornata di nomine Andrea Mascetti era nella terna dei consiglieri indicati. Con chi ha trattato la sua riconferma?

NINO CAINIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Ci fu un incontro per fondazione Cariplo, la Lega chiese di poter ottenere i tre posti che la provincia avrebbe nominato in quota Lega. Dissi per me va bene. A condizione che in cambio prendo un assessore in più o un posto in consiglio di amministrazione in meno.

GIORGIO MOTTOLA Con chi fece questo incontro sulla Fondazione Cariplo?

NINO CAINIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Con Matteo Bianchi e con Mascetti. C’era forse anche Gambini.

ANDREA MASCETTI AVVOCATO Fondazione Cariplo da tantissimi anni interviene su molte aree di interesse che sono l’ecologia, la ricerca scientifica, l’assistenza sociale, i servizi sociali alla persona e la cultura. Quindi per noi intervenire sui territori è proprio una missione che è dentro di noi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Fondazione Cariplo gestisce un budget di 250 milioni di euro all’anno che vengono distribuiti tra donazione e contributi a enti di ricerca, fondazioni benefiche e associazioni. Su una parte di questi soldi, Andrea Mascetti ha voce in capitolo, in quanto membro della Commissione Centrale di beneficienza di Cariplo. Quando abbiamo chiesto a un membro della commissione informazioni sulle attività di Mascetti in Fondazione, al solo sentirne il nome si è spaventata e ha preteso l’anonimato.

GIORGIO MOTTOLA Quando io le ho detto di Andrea Mascetti lei mi ha detto una cosa e mi ha fatto…

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Che c’è da averne paura. Si.

GIORGIO MOTTOLA Di Andrea Mascetti?

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Dei mondi con cui Andrea Mascetti credo sia in contatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quando Mascetti è in Cariplo la Fondazione ha finanziato progetti alla associazione Terra Insubre per quasi 100mila euro. E altri soldi sono poi arrivati dalla diramazione locale di Cariplo a Varese, la Fondazione Comunitaria del Varesotto, in cui Mascetti è consigliere.

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Fondazione Varesotto. Lì i conflitti di potere sono… tantissimi oltre anche a qualche problema di trasparenza negli investimenti fatti da quella fondazione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alcune delle iniziative finanziate dalla Fondazione Comunitaria del Varesotto sono state proprio quelle di Terra Insubre: 5000 euro per un progetto sui celti in Lombardia, 6600 sull’alimentazione dei Celti, 1500 sempre sulla presenza dei celti nel varesotto, 6600 euro per un progetto sul dialetto lombardo e 11 mila per la festa di Terra Insubre. E dalla fondazione non sono mancati finanziamenti neanche alla Corte dei Brut, l’associazione dell’estremista di destra Rainaldo Graziani, alle cui iniziative partecipano Gianluca Savoini e il filosofo legato a Putin, Alexander Dugin.

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO È la logica classica della Lega. Su tutti i posti che si aprono noi dobbiamo esserci e portarli a casa. Poi dall’interno della Lega, si ridistribuiscono secondo equilibri… che è la logica feudale. Prima riconosco chi è il nemico e mi oppongo e porto a casa quello che posso. Poi del malloppo che ho portato a casa io che sono il vassallo distribuisco ai valvassori e ai valvassini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mascetti, con noi ha preferito non parlare. Però ci ha scritto. Nega ingerenze da parte dell’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giorgetti per quello che riguarda le sue nomine. Quella nella fondazione Cariplo – scrive - è stata decisa da 40 consiglieri. Banca Intesa invece l’ha indicato come consigliere indipendente per le sue indiscusse qualità professionali. Su quanto aveva invece affermato Caianiello, in merito alla spartizione delle nomine all’interno della Fondazione Varesotto, Mascetti ci ricorda che quei nomi sono, il suo nome è nella terna espressa dall’allora presidente della provincia di Varese in quota centro sinistra. Poi, in merito ai finanziamenti e alle donazioni alla sua associazione Terra Insubre, Cariplo ci scrive che non ci sono conflitti di interesse che riguardano Mascetti. Mascetti stesso ci ricorda: guardate io l’ho fondata quella associazione, ma oggi sono socio ordinario. Mentre in merito alla nomina nel cda di Italgas ci scrive che è arrivata su proposta di Assogestioni che rappresenta i fondi internazionali. Nega poi di aver avuto, Mascetti, ruoli per quello che riguarda le nomine di dirigenti negli istituti sanitari o negli istituti di altra natura. Ci scrive infine che a lui interessa fare cultura, non politica e che non ha da tempo alcun ruolo attivo nella Lega. Ora, noi, fino a prova contraria, gli crediamo. Tuttavia abbiamo ritrovato delle email all’interno del database del consorzio di giornalismo investigativo OCCRP, indirizzate al senatore Armando Siri, dalle quali si evincerebbe una realtà un po' diversa da come Mascetti ce l’ha raccontata: un ruolo nella Lega di Salvini nei mesi precedenti alle elezioni, Mascetti lo avrebbe avuto. Tra il 2017 e il 2018 è stato il supervisore del programma culturale della Lega; gli avrebbe anche dato una mano l’ex vice direttore del Foglio Alessandro Giuli, un nostro collega. Un programma culturale un po' esoterico, che avrebbe alla base, al centro la sacralità di un simbolo: il sole delle alpi. Poi il 29 settembre del 2017 Mascetti a Varese fa da link tra Salvini e un esponente di un movimento dell’estrema destra, Generazione Identitaria, che in Francia organizza anche campi paramilitari. Emerge anche che Mascetti invia degli spunti per la campagna elettorale provenienti da alcuni dirigenti della Fondazione Cariplo. E a chi li invia questi spunti? Li invia alla responsabile della segreteria del governatore Fontana, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini. Ora, al di là del ruolo che ha avuto Mascetti, insomma che cosa emerge da questa storia? Che la politica è un po’ come un magnete: pretende che tutto graviti intorno a lei. È un po’ la logica del vassallo, del valvassore e valvassino, insomma. E a questo principio non c’è deroga neppure quando in ballo c’è un valore alto come la salute pubblica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel periodo più nero dell’emergenza Covid, quando le bare dei morti di Bergamo venivano portate via dai camion dell’esercito, in Regione Lombardia era quasi impossibile sottoporsi a un tampone. E così alcuni sindaci coraggiosi hanno deciso di fare da soli.

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Non venivano fatti i tamponi alle persone, la gente veniva lasciata in casa da sola, avevamo famiglie intere con sintomi, famiglie intere disperate perché si continuavano a contagiare l’uno con l’altro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Roberto Francese è il sindaco di Robbio, cittadina immersa nelle risaie della provincia di Pavia. Lo scorso marzo il primo cittadino ha deciso di rimediare alla mancanza dei tamponi con una campagna di test sierologici aperta a tutta la popolazione.

GIORGIO MOTTOLA Alla fine quanti test è riuscito a fare qui a Robbio?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Ma qui ne abbiam fatti, solo i cittadini di Robbio, 4500. Quindi praticamente a tutti.

GIORGIO MOTTOLA Al comune quanto è costato?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Zero perché è partita una gara di solidarietà. Molti hanno pagato anche per chi non poteva.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così se all’inizio i positivi erano solo 20, a Robbio grazie ai test sierologici ne vengono scoperti altri 400, senza pesare su ospedali e casse pubbliche.

GIORGIO MOTTOLA Per un’iniziativa di questo tipo avrà avuto il pieno plauso da parte della Regione?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Eh, purtroppo la Regione ha mandato diverse pec e e-mail dove comunque ci diceva di non andare avanti perché non eravamo autorizzati.

GIORGIO MOTTOLA E per quale ragione?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Ci hanno risposto che non si poteva prelevare il sangue.

GIORGIO MOTTOLA Cioè la regione Lombardia ha di fatto vietato, in quel periodo, i test sierologici sul territorio?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Di fatto sì. Molti, come Cisliano, dalla sera alla mattina hanno dovuto dire a migliaia di persone di stare a casa loro perché, comunque, questi divieti erano perentori, tassativi e poco interpretabili.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cisliano è uno dei comuni della provincia di Milano che ha seguito l’esempio di Robbio, organizzando in proprio, a costo zero per le casse del Municipio, una campagna di test sierologici di massa. Ma neanche qui l’iniziativa è stata presa bene dalla regione.

LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Alla fine mi è arrivata una diffida. Quindi più chiaro di così non si poteva essere.

GIORGIO MOTTOLA Da chi?

LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Da parte di Ats che ci ha bloccato per una serie di ragioni. Io li ho chiamati cavilli burocratici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al comune di Robbio è arrivata la stessa mail. Ve la mostriamo in esclusiva. Il direttore sanitario dell’Ats di Pavia definisce l’iniziativa inopportuna e quindi il sindaco è pregato di soprassedere agli accertamenti programmati. In un’altra mail, è ancora più esplicito e specifica che l’Ats di Pavia non dà l’autorizzazione alla ricerca di anticorpi antivirus avviata dal sindaco nel comune di Robbio.

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Noi abbiam detto guardate non spendendo un euro di soldi pubblici andiamo avanti comunque seguendo i protocolli sanitari nazionali. Se quelli regionali son diversi spiegateci il perché. Non ci han più risposto e noi siamo andati avanti fino alla fine.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In diverse mail le aziende sanitarie lombarde spiegano che bisogna attendere i test ufficiali della regione. Vale a dire il test sierologico che il Policlinico San Matteo di Pavia stava mettendo a punto con Diasorin. La società italiana di biotecnologia che aveva da poco chiuso un contratto in esclusiva con la Lombardia. Ma quando i sindaci si muovono per fare i test ai propri cittadini, il test di Diasorin non era ancora pronto. E non lo sarebbe stato prima di un mese.

LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Non si capiva perché bisognava aspettare la certificazione di un test di Diasorin quando c’erano già dei test certificati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 3 marzo, sei giorni prima che fosse ufficiale la scelta di Diasorin, il Policlinico San Matteo, riceve una mail da Technogenetics. Una società di biotecnologie che all’epoca aveva a disposizione test sierologici già certificati e già usati in Veneto e in Emilia Romagna. Vista l’emergenza Technogenetics li mette a disposizione del San Matteo.

GIORGIO MOTTOLA E che cosa le è stato risposto dal San Matteo?

SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Nulla.

GIORGIO MOTTOLA Nulla?

SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Nulla, neanche ricezione del messaggio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene i test di Technogenetics fossero già pronti a inizio marzo, la Regione Lombardia non li prende neanche in considerazione e, senza fare una gara d’appalto, acquista per 2 milioni di euro 500.000 test da Diasorin che però saranno disponibili solo a fine aprile. E visto che quei test si basavano su una tecnologia sviluppata inizialmente dal San Matteo, Diasorin lascia alla Regione royalties pari all’1 percento.

SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Chi sta in questo settore sa benissimo che non si parla meno del 10 per cento in questi casi in termini di royalties; bastava fare una gara e a quel punto probabilmente il San Matteo avrebbe spuntato sicuramente delle condizioni migliori facendo l’interesse pubblico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mesi dopo la Procura di Pavia ha aperto un fascicolo sull’appalto a Diasorin. La Guardia di finanza a sorpresa si è presentata anche a casa di Andrea Gambini ex segretario della Lega a Varese, che però non risulta indagato, ma soprattutto direttore dell’Istituto Insubrico per la vita. I cui uffici sorgono in questo parco in provincia di Varese accanto a quelli di Diasorin. Diasorin infatti è uno dei più importanti clienti dell’ Istituto Insubrico per la vita. Negli ultimi tre anni ha versato nelle sue casse oltre 700mila euro e lo scorso anno, con un versamento da 1 milione 100 mila euro ha rappresentato da sola oltre il 90 per cento del fatturato di Servire srl, una partecipata dell’Istituto Insubrico, che conta solo 7 dipendenti ed è presieduta sempre da Andrea Gambini.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda rispetto all’attività dell’Istituto Insubrico e Servire S.R.L.?

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Tutto pubblico.

GIORGIO MOTTOLA L’Istituto Insubrico ha avuto poi un ruolo rispetto a Diasorin?

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Può vedere le fatture elettroniche tutte depositate all’agenzia delle entrate. Né l’Istituto Insubrico, né io, né niente abbiamo fatto niente di particolare, infatti non risulto indagato. Quindi, per me la cosa finisce qui. GIORGIO MOTTOLA Ha subito delle perquisizioni

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Buona giornata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la testimonianza di ex dirigenti apicali della Lega, l’ascesa politica e manageriale di Andrea Gambini sarebbe legata a doppio filo alla figura di Andrea Mascetti.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD È quello che è stato in questi giorni perquisito per la storia della Diasorin, Andrea Gambini, per esempio.

GIORGIO MOTTOLA Anche Andrea Gambini è vicino a lui?

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Eh, è stato lui a volerlo capogruppo e commissario della sezione di Varese della Lega. È stato lui a metterlo prima vicepresidente della lega e poi al Besta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a poco tempo fa, Andrea Mascetti, è stato vice presidente dell’Istituto Insubrico e con Andrea Gambini, oltre al passato in Cariplo, ha condiviso fino al 2017 le quote di una società che si occupa di genetica e ha sede in Svizzera, la Suisse Regenerative.. Ma due anni fa Gambini ha ricevuto dalla giunta Fontana un’altra nomina in campo scientifico: presidente dell’Istituto Besta, uno dei più importanti centri di ricerca neurologica d’Europa, per il quale abbiamo scoperto che Andrea Mascetti svolge consulenze legali. Quella di Andrea Gambini sembra davvero una fulgida carriera soprattutto se si considera che, leggendo il suo curriculum, il suo ultimo lavoro non assegnato dalla politica, è stato addetto alle vendite di questa farmacia a Tradate, in provincia di Varese.

GIORGIO MOTTOLA Solo una domanda.

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Mi costringe a chiamare i carabinieri che è fuori da tre giorni.

GIORGIO MOTTOLA Si ma una sola domanda, come ha fatto da semplice farmacista a diventare dirigente di alcuni…

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Non sono un semplice farmacista.

GIORGIO MOTTOLA Sì, lei ha lavorato in farmacia prima di diventare un dirigente del Besta.

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Legga il curriculum. Non ho autorizzata l’intervista.

GIORGIO MOTTOLA Ma quali sono i suoi rapporti con Mascetti? È vero che Mascetti, aspetti!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’inchiesta Diasorin, Alessandro Venturi, presidente del San Matteo indagato per l’appalto dei test, ha affidato la sua difesa legale a un avvocato dello studio Mascetti. Ma nella vicenda dei test è buona parte del mondo leghista lombardo che sembra aver giocato un ruolo. Quando i sindaci ribelli disobbediscono al divieto delle aziende sanitarie e proseguono lo screening, scendono in campo i pezzi da novanta.

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Addirittura due deputati della Lega in quei giorni anziché pensare a capire perché in Regione Lombardia non venivano fatti i test, la gente non veniva ricoverata, la gente veniva lasciata a casa a morire, si sono impegnati per fare diverse pagine di interpellanza parlamentare al ministro della Salute Speranza, dicendo che quello che veniva fatto nei comuni come Robbio e gli altri non era giusto e andava monitorato ed eventualmente fermato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’interpellanza ha come primo firmatario Paolo Grimoldi, deputato e segretario della Lega Lombarda. Non si limita agli atti ufficiali in Parlamento. Ai sindaci leghisti arrivano infatti molte pressioni anche da altri dirigenti del partito.

GIORGIO MOTTOLA Il partito che ha provato a boicottarla di più a ostacolare i test sierologici è stata la Lega?

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Sì, di fatto sì, da parte della Lega abbiamo proprio notato questo isolamento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per fermare il sindaco di Robbio, il segretario della Lega Lombarda manda messaggi agli amministratori del suo partito. In questo, che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, scrive: “Ho parlato con Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”. PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Non mi ricordo perché mando tanti messaggi dopodiché il sindaco di Robbio, non mi pare che… Dov’è Robbio?

GIORGIO MOTTOLA Lei ci ha fatto un’interpellanza quindi la geografia almeno dovrebbe conoscerla.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Io firmo le interpellanze degli altri, dubito che io sia primo firmatario.

GIORGIO MOTTOLA Lei dice addirittura in questo messaggio.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Si.

GIORGIO MOTTOLA Che ha parlato con Salvini, quindi la questione era molto importante.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Guardi io Salvini lo sento tutti i giorni, francamente mi sta chiedendo una roba di marzo, ma...

GIORGIO MOTTOLA Ma in Lombardia soltanto voi leghisti avete provato a ostacolare in modo così forte i test sierologici rapidi. Perché? Forse perché stavate difendendo Diasorin? Difendevate gli interessi di Diasorin?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, allora se dici una cosa così io ti querelo, ma querelo te.

GIORGIO MOTTOLA Io le sto facendo una domanda. Solo i consiglieri e i parlamentari della Lega si sono accaniti così tanto con i test sierologici rapidi.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Scusa non ti rispondo più perché sei un maleducato e continui a cambiare la formulazione della domanda perché ti ho già dimostrato che hai torto marcio.

GIORGIO MOTTOLA Lei non sta rispondendo per questo riformulo.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No sei tu che non stai rispondendo. Mi hai chiesto del sindaco di Robbio della Lega, cioè mi hai anche detto una cosa sbagliata perché mi formuli le domande senza sapere l’a b c.

GIORGIO MOTTOLA Con chi stava parlando allora?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Informati e studia perché non sai una beata minchia!

GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi perché la Lega si è accanita così tanto sui test sierologici rapidi? Mi spieghi questo, mi spieghi solo questo.

VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA C’è un evento, c’è un evento scusa, c’è un evento

GIORGIO MOTTOLA No però! É un parlamentare, è un onorevole e la vicenda… Sono morte 35 mila persone anche perché non hanno potuto fare i tamponi. Perché, soprattutto voi della Lega, vi siete accaniti così tanto contro i test sierologici rapidi?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Anche qua formuli una domanda sbagliata.

GIORGIO MOTTOLA E la riformuliamo.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Non siamo noi della Lega ma sono le linee guida del ministro Speranza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in realtà Emilia Romagna e Veneto nello stesso periodo avevano già iniziato i test sierologici. Grimoldi, invece, in un altro messaggio definisce Francese, che li stava facendo, “quella merda di Robbio”. E l’effetto degli interventi del deputato sembra farsi sentire subito: “mi taccio”, risponde infatti l’amministratore leghista, ma avverte: “occhio che prima o poi verrà fuori che ha ragione lui”. Quasi tutte le amministrazioni leghiste non proseguono con i test sierologici nei loro comuni e alla maggior parte dei lombardi non resta che aspettare Diasorin.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Va bene, mi dai il nome, tu hai il nome di questo?

GIORGIO MOTTOLA Giorgio Mottola, Report, Rai3.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Perfetto perché tu ogni volta che associ me a Diasorin io ti querelo.

GIORGIO MOTTOLA Ma può chiedere scusa per il fatto che ha vietato…

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, tu chiedi scusa per le domande assolutamente infondate che fai.

GIORGIO MOTTOLA … per aver vietato, per aver ostacolato così tanto i test rapidi che potevano consentire di scoprire tanti positivi in quel momento?

VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA Dobbiamo iniziare l’evento

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Però scusa dobbiamo iniziare l’evento.

GIORGIO MOTTOLA Mi dica solo questo, chiede scusa o no? Ha sbagliato o no a ostacolare i test rapidi? Mi dica.

VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA Deve iniziare un evento per favore

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non parlano. Viene da chiedersi perché il gotha della Lega chiede lo stop dei test sierologici agli amministratori della Lombardia, quelli del centro-destra. Ecco. Siamo in piena emergenza, a marzo. Non c’è la possibilità di fare i tamponi; alcuni sindaci prendono l’iniziativa, fanno i test sierologici alla popolazione. Quello di Robbio per esempio dopo alcuni giorni passa da 20 positivi a ben 400. Si scatena la reazione del segretario della Lega Nord in Lombardia, Paolo Grimoldi ecco manda, invia un sms minaccioso a tutti gli amministratori della Lega “ho parlato con Salvini” dice “se seguite l’esempio del sindaco di Robbio, siete fuori dal partito”. Un amministratore gli risponde, dice vabbè “non possiamo però fare la guerra ai sindaci che promuovono i test sierologici sul territorio, perché la gente e tutto il mondo della sanità chiede quei test”. Ma l’anomalia degli sms coinvolge anche il presidente del San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi. È indagato anche lui in questa vicenda; si avvale per la tutela legale, dello studio Mascetti. Perché è colui che ha in qualche modo dialogato esclusivamente con Diasorin. Non ha neppure risposto al telefono al competitor Technogenetics. Nel pieno delle indagini, gli investigatori scoprono che il professor Venturi ha cancellato dal telefono tutte le sue chat su WhatsApp. Questo “con l’obiettivo” scrivono, “di celare informazioni estremamente rilevanti e compromettenti” per quello che riguarda lui, ma anche altri soggetti. Quali? Per questo, La Guardia di Finanza ha sequestrato i telefonini del governatore Attilio Fontana e anche quelli della responsabile della sua segreteria, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini. Adesso noi non sappiamo se riusciranno a recuperare quelle chat e cosa emergerà, se emergerà da quelle chat. Certo è che, se dovessero emergere delle responsabilità, degli interessi su questa vicenda, sarebbe veramente triste, triste, triste che l’avidità umana sovrasti un bene come quello della salute dei cittadini.

Infrastrutture, 20 anni di spesa iniqua. Nord batte Sud 139 a 51: Suicidio Italia. Il Paese ha del tutto abbandonato il giacimento di crescita potenziale che si trova sotto il Garigliano. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 14 dicembre 2020. «Datemi una leva e vi solleverò il mondo», disse Archimede. Più modestamente, quella parte d’Italia in cui visse Archimede potrebbe dire: «Datemi le infrastrutture e solleverò il tasso di crescita». Chissà se il solito proverbio cinese – «Se volete creare ricchezza costruite una strada» – data da prima o da dopo Archimede, ma ambedue i detti esprimono lo stesso concetto: le infrastrutture sono una precondizione per la crescita. Il recente rapporto della Svimez si china, in uno dei più pregnanti capitoli, sul divario infrastrutturale fra Nord e Sud del Paese. La tabella sulla “Dotazione di infrastrutture terrestri” presenta un confronto fra quelle dotazioni nell’Europa a 15 e l’Italia, declinata, quest’ultima, per regioni meridionali e per grandi ripartizioni territoriali. Le infrastrutture terrestri (quantificate in rapporto alla popolazione) riguardano i trasporti, essenzialmente strade e ferrovie.

LA FOTOGRAFIA. La tabella fotografa la situazione a due date: 1990 e 2017. Gli indici non sono assoluti, ma relativi: cioè a dire, nelle due date l’Europa a 15 viene fatta eguale a 100, e l’Italia e le regioni sono parametrate ai valori medi europei. Come si vede, per le autostrade nel 1990 l’Italia era sulla media europea, e il Mezzogiorno, se pure con un indice inferiore a quello del Centro-Nord, non sfigurava. Ma con l’andar del tempo il “doppio dualismo” di cui abbiamo già parlato – Italia/Europa e Centro-Nord/Mezzogiorno – ha colpito ancora. La posizione relativa dell’Italia è scesa di molto, a quota 72, ma è scesa ancora di più quella del Sud rispetto al Nord (in queste analisi useremo indifferentemente “Nord” per “Centro-Nord” (C/N) e “Sud” per “Mezzogiorno”). Per quanto riguarda le ferrovie, l’Italia anche qui era sulla media europea per l’elettrificazione nel 1990, ma, come i polli di Trilussa, quel valore medio di 101 era composto di un 118 per il C/N e di un 71 per il Sud. Comunque, passando al 2017, l’Italia è scesa rispetto all’Europa (dualismo esterno…) ed è continuato, seppure un po’ ridotto, il dualismo interno. Là dove il confronto si fa più interessante (o desolante) sta nel comparto ferroviario dell’Alta Velocità (AV). Nel 1990 l’Italia del C/N aveva un indice perfino superiore a quello europeo (121), ma, a livello della penisola intera, l’indice scendeva a 77, grazie allo 0 (zero) del Mezzogiorno. Da allora le cose sono migliorate per l’Italia e nel 2017 l’indice, rispetto all’Europa, sale da 77 a 93, ma il C/N batte il Mezzogiorno 125 a 34. Le infrastrutture fisiche, comunque, non sono solo quelle dei trasporti. Se guardiamo all’intero comparto delle opere pubbliche, abbiamo dati più recenti, aggiornati al 2019. Il grafico spazia su mezzo secolo, dal 1970 al 2019, e le cifre (in volume, milioni di euro a prezzi costanti del 2010) descrivono, anche qui, desolanti traiettorie. Un’osservazione si impone: fin verso il 1990, i fondi spesi per le opere pubbliche, al Nord e al Sud, non erano molto differenti (anzi, in euro per abitante, erano più elevati al Sud). Ma dal 1990 in poi si assiste a una divaricazione; e, guarda caso, è proprio quello il momento in cui inizia la stagnazione italiana e va crescendo il divario con l’Europa. È come se l’Italia avesse rinunciato a sfruttare quel giacimento di crescita potenziale che si trova sotto al Garigliano e così facendo, governo e Parlamento avessero trasformato il Mezzogiorno in una palla al piede della crescita italiana.

HARAKIRI ECONOMICO. Gli ultimi dati, al 2019, danno, per il Sud – un’area dove vive il 34% della popolazione – un livello di spesa in opere pubbliche pari al 19% del totale. Un’interessante analisi degli stadi di avanzamento per gli investimenti pubblici conclude che «le opere non prioritarie (cioè non sottoposte ad approvazione del Cipe) presentano uno stato di avanzamento relativamente migliore, un aspetto che evidenzia il “peso” del Cipe (con tutti i vari passaggi impliciti, tra Ministeri e Corte dei conti) sul processo decisionale e di avanzamento programmatico». Torna, insomma, il problema dei lacci e lacciuoli, delle competenze concorrenti, dei passaggi burocratici, delle minuzie regolamentari che tanto hanno fatto per impastoiare la crescita della penisola. Una meritoria elaborazione della Svimez costruisce un indice sintetico della dotazione infrastrutturale complessiva, che viene elaborato per le singole ragioni meridionali, oltre che per le ripartizioni (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Isole). Il proverbio cinese citato all’inizio (“Se volete creare ricchezza, costruite una strada”) si potrebbe declinare in “Se volete creare ricchezza, costruite una strada, una ferrovia, un porto, un aeroporto, un interporto, un terminale intermodale…”. E tutte queste reti e questi nodi sono stati collassati in un indice impietoso (vedi tabella): facendo l’Italia = 100, il Centro/Nord è a quota 139,6 e il Mezzogiorno a 51,1. Questa non è solo un’ingiustizia; è anche un suicidio economico per l’Italia tutta.

La propaganda di Stato umilia il Sud: dal Governo solo promesse e inganni. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. In passato il bombardamento di annunci poco veritieri da parte di chi ricopriva ruoli importanti nel governo del Paese erano meno virulenti e, quasi sempre, trovavano una immediata denuncia da parte di coloro che erano alla opposizione o ricoprivano ruoli chiave nel mondo del sindacato o in quello della informazione.

PROPAGANDA DI STATO. Da almeno due anni assistiamo a sistematiche dichiarazioni, a quasi giornalieri annunci che, a mio avviso, si configurano come una vera “propaganda di Stato” e come tale sarebbe opportuno invocare la stessa norma prevista per la “pubblicità ingannevole”; sì, quella norma che colpisce chi, con un messaggio falsato e distorto, esalta delle qualità che il prodotto non possiede, ingannando il consumatore. Secondo l’ordinamento giuridico  italiano la pubblicità ingannevole è «qualsiasi  pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente» (Decreto legislativo 145/2007). Ebbene, per motivare il mio sconcerto e per poter giustificare questo riferimento alla “pubblicità ingannevole” riporto alcune dichiarazioni prodotte da personalità che attualmente ricoprono delle cariche di elevata responsabilità come, solo a titolo di esempio, la ministra De Micheli, il ministro Gualtieri o, addirittura, il presidente del Consiglio.

L’ELENCO DEGLI INGANNI. Entro la fine del 2020 disporremo di un vaccino contro il Covid 19. Poi scopriamo che nel migliore dei casi il vaccino sarà disponibile nel secondo semestre del 2021. Il Trasporto pubblico locale è sicuro. Poi scopriamo che è sul banco degli imputati per essere sospettato di alimentare in modo virulento il Covid; poi scopriamo che i mezzi di trasporto usati hanno ancora una occupazione fino all’80 per cento, numero che deriva da criteri di omologazione dei mezzi per i quali l’80 per cento di occupazione degli spazi consente la presenza di 5 persone per metro quadrato, mentre i servizi ferroviari di lunga distanza Freccia Bianca e Freccia Rossa rimangono con tassi di occupazione pari al 50 per cento, mettendo in crisi sia Italo che Trenitalia e generando la più grande forma di discriminazione nell’erogazione dei livelli di servizio ferroviario che la Repubblica italiana ricordi. Il Programma Italia Veloce, che contiene un elenco di opere infrastrutturali, ha un costo globale di circa 200 miliardi di euro, di cui 130 sono già disponibili. Poi abbiamo appreso che le disponibilità non superavano, nell’arco del triennio 2020-2022 i 6 miliardi di euro. Entro la fine del corrente anno potremo disporre di un venti per cento della quota che è stata destinata all’Italia dal Recovery Fund. Poi abbiamo scoperto che il Recovery Fund era semplicemente una aspirazione e che per difficoltà nei negoziati tra il Consiglio e il Parlamento europeo non sarebbe stato possibile disporre del Recovery Fund prima della seconda metà del 2021; sempre se il Parlamento europeo riuscirà ad approvare tale proposta. Abbiamo stanziato e resi disponibili per gli investimenti nell’anno 2020 ben 19,7 miliardi di euro. Poi scopriamo, come ho già ricordato in un precedente blog, che tali risorse dopo dieci mesi non sono ancora state rese disponibili e ancora che la quota assegnata alle infrastrutture ammonta a 6.091 milioni di euro e che inoltre nel triennio 2020- 2022 sono erogabili solamente 1.730 milioni di euro (356 milioni nel 2020, 668 milioni nel 2021 e 774 milioni nel 2022). Il terzo trimestre del 2020 ha visto una forte crescita del Prodotto interno lordo e, addirittura, entro il 2021, massimo il 2022 torneremo ai valori del Pil prima del Covid 19. Poi, però, scopriamo che tra l’inizio e la fine del 2020 la Piccole e Medie Imprese potrebbero perdere un milione di posti di lavoro. Arcelor Mittal ha pagato tutte le imprese dell’indotto del centro siderurgico di Taranto ed è in fase conclusiva l’ingresso di Invitalia nella Società. Poi scopriamo che Arcelor Mittal non ha ancora chiuso nessun accordo con Invitalia e che ha chiesto la Cassa integrazione speciale per altre 13 settimane, ha chiesto una proroga di una Cassa integrazione speciale (Cigs) che dura dal mese di luglio del 2019. E per quanto riguarda i pagamenti delle imprese dell’indotto abbiamo appreso che i pagamenti di tali attività sono piuttosto critici e che i tempi di attesa superano i 150 giorni. Entro il 30 dicembre 2019 sarà disponibile il nuovo Regolamento unico del codice dei contratti nel comparto delle opere pubbliche. Poi scopriamo che pur se tale provvedimento, secondo il decreto Sblocca cantieri, sarebbe stato disponibile entro dicembre 2019, in realtà il nuovo Regolamento probabilmente vedrà la luce non prima della fine del 2020. Questo nonostante, come ripeto spesso, i lavori pubblici siano fermi al palo da almeno cinque anni a causa di un Codice appalti assolutamente folle e indifendibile. Il governo si impegna a realizzare e ad inserire nel Recovery Plan l’alta velocità ferroviaria da Salerno fino a Reggio Calabria-Messina e Palermo e come tale non ci sono più pregiudiziali per la realizzazione del ponte sullo Stretto; sarebbe infatti un non senso realizzare un asse ferroviario veloce senza prevedere un collegamento stabile. Poi scopriamo che il ministro dell’Economia e delle finanze rilascia questa dichiarazione: «Siccome dubito che costruiremo il ponte di Messina nei prossimi cinque anni, per me il dibattito può continuare ma non dovrà essere collegato al Recovery Plan». Ogni futura iniziativa programmatica legata agli investimenti in infrastrutture contemplerà risorse finanziarie destinate al Mezzogiorno pari alla quota del 34% e, in particolare, nel Recovery Plan in corso di definizione tale soglia potrà addirittura superare il 40 – 45 per cento. Poi scopriamo, anche alla luce delle linee guida per la definizione del Recovery Plan prodotte dal governo, che per il Centro Nord sono pronte opere per oltre 70 miliardi di euro, mentre per il Mezzogiorno l’importo non supera i 6 miliardi di euro.

CREDIBILITÀ MINATA. Potrei continuare nella triste elencazione di annunci che, mese dopo mese, incrinano la credibilità di chi attualmente è preposto alla gestione del Paese, e non è la mia una boutade quella di ricercare davvero un garante, un certificatore sistematico delle dichiarazioni, ormai giornaliere, su interpretazioni della realtà e su prospettazioni di un futuro prossimo che poi, nei fatti, diventa sempre più un futuro lontano o, addirittura, il nulla. In particolare sarebbe bene che almeno per il Sud il governo evitasse questo comportamento offensivo per una realtà territoriale che partecipa alla formazione del Pil del Paese, ma che utilizza limitati benefici diretti o indiretti dalla sua crescita. Voglio solo ricordare, per pura e banale informazione, che i cittadini del Sud hanno difeso sempre la realizzazione dei valichi come il Brennero e il Frejus, perché convinti che tali opere fossero il cordone ombelicale che legava l’intero Paese all’Europa. Finora, però, non ho letto una sola frase a difesa della realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina da parte di chi vive nel Centro Nord: eppure il ponte è, a tutti gli effetti, un cordone ombelicale essenziale per l’economia del Paese, è il terzo grado di libertà che oggi l’isola, per quanto concerne la mobilità, non possiede, è la condizione per cui si motivi davvero una rete ferroviaria efficiente e veloce nell’isola. Sì, lo so, i miei sono sfoghi inutili perché il ministro Gualtieri ha detto no.

Divario Nord-Sud, anche gli industriali corrono a due velocità. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. C’è poco da fare, tenere insieme il Nord e il Sud dell’Italia è una missione quasi impossibile. Ne sanno qualcosa quei partiti che sfondano nelle regioni settentrionali e non al Mezzogiorno (vedi la Lega) oppure viceversa (vedi il Movimento 5 Stelle). Questa difficoltà sembra comune anche agli imprenditori, stando a quanto emerge dalle recenti dichiarazioni di Carlo Bonomi, presidente nazionale di Confindustria, e di Maurizio Manfellotto, numero uno degli industriali napoletani. Del primo è ben nota l’avversione per il “Sussidistan”, cioè quella giungla di bonus, sussidi e denaro a pioggia in cui l’Italia rischia di trasformarsi, a cominciare dal Sud. Il secondo ha appena presentato programma e squadra di governo, chiarendo come il rilancio del Mezzogiorno costituisca «un pilastro fondamentale per la crescita dell’intero Paese». Il dualismo sembra evidente e richiama alla memoria le dinamiche interne a molti partiti. Prendiamo il caso della Lega: vuoi per la mancanza di una classe dirigente già solida e strutturata, vuoi per le origini antimeridionaliste, alle ultime regionali il partito di Salvini ha registrato una battuta d’arresto al Sud. Segno della difficoltà di accreditarsi come forza politica nazionale con un programma nazionale. Ma la Lega non è l’unica compagine a vivere una simile contraddizione. Il M5S, per esempio, riscuote più consensi al Sud che non al Nord. E lo stesso Partito democratico, al suo interno, accoglie diverse declinazioni del regionalismo. Anche Confindustria sembra trovare difficoltà nell’individuare una strategia condivisa. L’obiettivo sembrava più alla portata quando al vertice dell’associazione c’erano meridionali come Antonio D’Amato e Vincenzo Boccia e, soprattutto, quando il Covid non aveva ancora messo in crisi l’economia. Ora che il gruppo degli industriali è a trazione nordista, le divergenze sembrano esplodere soprattutto su alcuni temi. Il primo? Gli aiuti dello Stato. Bonomi, per esempio, è contrario ai bonus a pioggia. Questa avversione non si percepisce nel programma presentato da Manfellotto, dove manca il rifiuto degli aiuti statali e si ribadisce l’importanza tanto della riserva di spesa del 34% a favore del Mezzogiorno quanto delle risorse straordinarie messe a disposizione dall’Europa tramite il Recovery Fund. Altro tema cruciale è quello della legalità. In occasione dell’assemblea degli industriali di Cremona, Bonomi è stato chiaro: «Se non si risolve il tema della legalità, non arriveranno gli investimenti al Sud». Nel merito, l’affermazione è discutibile perché dà l’idea che le infiltrazioni criminali nell’economia affliggano solo il Mezzogiorno e non anche il Nord; in più, il problema dell’illegalità si supera proprio attraverso gli investimenti, cioè creando occasioni di lavoro e di sviluppo, non solo assecondando le spinte repressive. Al netto di queste considerazioni, però, è singolare il fatto che Manfellotto, nel testo di presentazione del suo programma, citi solo incidentalmente il tema della legalità, limitandosi a sottolineare l’urgenza di riforme che garantiscano la trasparenza degli appalti pubblici e contrastino l’evasione fiscale. Insomma, le contraddizioni sono evidenti e rischiano, oltre che di screditare la comunità economica, di ostacolare la definizione di una politica nazionale che tuteli il Nord, pur sempre locomotiva del Paese, e nello stesso tempo dia una spinta forte al Sud, senza l’apporto del quale l’Italia intera resterà ferma al palo. E questo nessuno se lo può permettere.

Schiena lucida e schiavitù. Cioè il Sud. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 20 Luglio 2020. - “Ti scriverò” disse lui. Lei si sedette sul bordo del letto e i suoi sei figli, di sposa bambina, le si cinsero intorno come un cerchio di fate. Lui spinse dentro gli ultimi panni e chiuse a forza la lampo della valigia di plastica morbida, maleodorante di petrolio. “Ti scriverò”, disse ancora, e andò via a testa bassa. Lei si sciolse la corona corvina, i lunghi capelli coprirono le spalle e il petto e gli occhi scaricarono un temporale di lacrime.- L’emigrazione era un lutto, e le corone o le trecce delle spose e madri del Sud si scioglievano solo per il dolore. In quel Sud, l’ultima operazione di poche ore fa, fra Calabria e Basilicata, ha contato 52 misure cautelari per contrastare il caporalato che ha per vittime esseri umani che arrivano da un Sud che sta più giù di questo. E noi che nel Sud ci viviamo, lo sappiamo dei tuguri e degli accampamenti in cui i migranti vengono costretti, ci vediamo superati a ogni ora dai furgoni carichi all’inverosimile di lavoratori stranieri. Li incontriamo i ragazzi indiani, le volte che ci svegliamo all’alba, correre più che camminare per raggiungere i loro luoghi di pena, avvolti nei turbanti colorati che li salvano dalle macchine, schivati all’ultimo, e al tramonto scorgiamo il bianco degli occhi dei ragazzi di colore che finiscono la fatica su vecchie bici che si mangiano il margine di carreggiate striminzite, ai bordi di disastrate statali. Il Sud è una terra di schiavi, in cui le tendopoli di Rosarno sono la regola e i sogni di Riace vengono fatti sparire al sorgere del sole. Il Sud sono le schiene lucide, piegate a raccogliere ortaggi, le mani allungate all’inverosimile a raggiungere frutti. Delizie che arriveranno su tavole lontane, profumate per celare la puzza che le produce. Il Sud è una terra di nuovi schiavi, giunti a sostituire quelli scappati. Una storia che si ripete, che nessuno ha davvero voglia di interrompere. Basta farsi un giro fra i campi, fra le tende, tendere agguati, all’alba e al tramonto, lungo le strade.  -A sei anni capii la partenza, il distacco. Smisi di essere bambino e soffrii tanto da non volerlo fare più. “Ti scriverò” disse mio padre andando via, con quei suoi ricci in testa da marocchino. Era ottobre e per dicembre avevo imparato a leggere. La lettera che arrivò a Natale la rubai di nascosto e la lessi sotto il nespolo dell’orto. Seppi cos’era la lontananza, la nostalgia, la solitudine, la condizione di un emigrato -.

Lo scippo al Sud non si ferma più: dirottati al Nord altri 64,5 miliardi. Fabrizio Galimberti il 2 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Da un anno e mezzo questo giornale batte, come la goccia che scava la pietra, su un fatto semplice e iniquo: lo Stato italiano, che dovrebbe favorire la coesione sociale e alleviare il disagio delle regioni meno sviluppate, ha pervicacemente fatto il contrario. La spesa pubblica è andata spargendosi nel territorio in modo da favorire le regioni più ricche e sfavorire quelle più povere. Senza scomodare il Vangelo, basta guardare all’Articolo 2 della Costituzione, che statuisce come «La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

QUALE SOLIDARIETÀ. Come può esistere solidarietà quando in una metà della penisola (il Meridione) il reddito per abitante è poco più della metà rispetto a quello del Centro-Nord? E c’è da chiedersi perché sia rimasta lettera morta la disposizione di cui all’articolo 119, secondo cui lo Stato «istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». E non basta: «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». Ma le regioni ricche non hanno mai voluto i fondi perequativi. Per forzare la situazione furono creati i Lep, i Livelli essenziali di prestazioni. Se si vuole dare “pari dignità” ai cittadini, bisogna che i servizi pubblici assicurino a tutti un minimo essenziale (per esempio, in termini di letti di ospedale, addetti ai servizi sanitari, metri quadrati di spazio scolastico, posti in asili nido… il tutto espresso per 100mila abitanti).

LO SCANDALO DEI LEP. Torna a onore del legislatore di aver legiferato, almeno dieci anni fa, questi Lep; e torna a disonore di Parlamenti e governi il fatto di non averli mai realmente introdotti da dieci anni a questa parte. A livello di Comuni c’è un pallido e parziale rimedio all’assenza dei Lep, il Fondo di perequazione. Ma a livello regionale non c’è niente. E, in assenza dei Lep, si è continuato a usare la “spesa storica” per erogare le risorse: prendendo cioè a base di partenza una situazione iniqua, si continua ad allargare il solco fra Nord e Sud. Si crea un circolo vizioso: le minori risorse destinate al Sud indeboliscono l’economia e questa debolezza lascia spazio a corruzione e criminalità organizzata. Questi secolari difetti vengono presi ad argomento per giustificare la minore spesa pubblica per il Mezzogiorno: tanto, poi quei soldi sono spesi male… Per uscire da questa triste situazione bisogna cominciare col definire i Lep: questa è la base dell’edificio per una vera coesione territoriale. Ecco una prima linea di azione per il Piano di riforme che l’Europa chiede all’Italia. Naturalmente, è normale che l’economia e il benessere delle diverse aree del Paese siano diversi, riflettendo la dotazione di risorse naturali, il diverso capitale umano e fisico, i diversi fattori culturali che determinano il grado di sviluppo economico. Non si potrà mai avere un totale livellamento fra regioni ricche e meno ricche, un certo grado di dislivello è fisiologico e perfino desiderabile. Ma quando le differenze sono troppo grandi, è ugualmente desiderabile che lo Stato intervenga per assicurare un maggiore grado di coesione.

DIVARIO ALLARGATO. Il problema, che è venuto alla luce con le analisi dei Conti pubblici territoriali (Cpt), sta nel fatto che l’intervento dello Stato è andato in senso esattamente contrario: come detto sopra, ha esacerbato le differenze, invece di ridurle. Tutto questo è stato ripetutamente cifrato, ricorrendo alle meritorie analisi dei Cpt. Quando i dati erano disponibili solo fino al 2017, questo giornale aveva cifrato in circa 60 miliardi le risorse sottratte al Mezzogiorno; una “sottrazione”, questa, che deriva da un semplice calcolo: basta confrontare le spese pubbliche del Settore pubblico allargato che vanno al Mezzogiorno con quelle che “dovrebbero” andare al Mezzogiorno se le spese fossero ripartite in base all’elementare criterio della quota della popolazione rispetto al totale nazionale.

CALCOLI CERTIFICATI. Ma questo non è successo, ed è stato così violato il più elementare parametro della redistribuzione territoriale. Quel semplice confronto faceva emergere, per il 2017, un ammanco di 61,3 miliardi di euro. Ora sono disponibili le stime per il 2018 e, come si vede dal grafico, la “sottrazione” è aumentata a 64,5 miliardi. E questo per un solo anno: come si vede, ogni 12 mesi le risorse sono sottratte al Mezzogiorno all’incirca allo stesso ritmo, al passo di quel “furto istituzionalizzato” che è il criterio della spesa storica. E il criterio usato per cifrare l’ammanco è generoso: in linea di principio, proprio per soddisfare le esigenze di riequilibrio territoriale, la spesa pubblica dovrebbe andare alle aree disagiate più che in proporzione alla quota di popolazione. A proposito di spesa pubblica, va precisata la ragione per cui l’Agenzia per la Coesione territoriale (un ente pubblico che ha la missione di assicurare la «pari dignità dei cittadini attraverso lo sviluppo e la coesione in tutti i territori del nostro Paese» e che costruisce i Cpt) ha scelto la spesa del Settore pubblico allargato (Spa). Questo comprende, oltre alla Pubblica amministrazione (Pa, cioè Stato, Comuni, Province, Regioni ed Enti di previdenza), anche le grandi e piccole imprese pubbliche, incluse le municipalizzate. La ragione di questa scelta sta nel fatto che lo Stato, per lenire le diseguaglianze territoriali, ha fra i suoi strumenti anche le imprese pubbliche e in passato sono stati fatti provvedimenti che imponevano, per esempio, una distribuzione territoriale degli investimenti di quelle imprese al fine di attenuare le diseguaglianze. La definizione della spesa del Spa include le partite finanziarie, dato che, ad esempio, anche i prestiti sono parte di un’erogazione volta ad aiutare i territori. È stato insomma documentato, con cifre provenienti da istituzioni ufficiali – dall’Istat all’Agenzia per la coesione, dalla Corte dei conti alla Ragioneria generale – come dietro alla minorità del Sud non vi siano solo indubbie insufficienze della classe dirigente, ma vi sia stata una devastante e ingiusta sottrazione di risorse da parte di quel bilancio pubblico che avrebbe dovuto invece porsi come primo obiettivo la redistribuzione in favore delle aree più disagiate.

IL FATTORE CRESCITA. Non si tratta solo di una questione di equità. Si tratta anche, e principalmente, di una questione di crescita. Il Mezzogiorno è un giacimento di crescita potenziale per un Paese che non cresce.  E il Mezzogiorno non cresce anche, e magari soprattutto, per le documentate scandalose disparità nella dotazione infrastrutturale del Sud rispetto al resto dell’Italia (fra le infrastrutture non contiamo solo le opere pubbliche, pur essenziali, ma anche i servizi pubblici nella loro dimensione di dotazione di risorse fisiche e umane). L’Italia – bisogna ricordarlo – è un Paese che, rispetto ad altri, ha più bisogno di (buona) spesa pubblica: per addensamento demografico, conformazione orografica, dissesto idrogeologico, inquinamento, conservazione dell’immenso patrimonio archeologico/artistico, dualismo territoriale, criminalità organizzata… Tutti problemi, questi, che non abbisognano, per essere risolti, di “reddito di cittadinanza” o di “quota 100”: abbisognano di investimenti e ancora investimenti. E il Mezzogiorno più che del resto del Paese. L’Italia non crescerà se non vengono dati al Meridione i mezzi per sollevarsi da questa storica e iniqua minorità. Il mercato interno del Sud è la gallina dalle uova d’oro del Nord. La priorità agli investimenti nel Mezzogiorno è una soluzione win-win per l’Italia intera.

Feltri straparla sul Sud ma lo sa che in 17 anni il Mezzogiorno ha regalato al Nord 840 miliardi? Antonio Tisci giovedì 23 aprile 2020 su Il Secolo D'Italia. 840 miliardi di euro in 17 anni, questa la somma che è stata sottratta al Sud per essere destinata alle altre aree d’Italia, lo hanno denunciato lo Svimez e Eurispes nelle loro ultime relazioni. 46,7 miliardi di euro ogni anno che si sarebbero dovuti usare per realizzare opere pubbliche, università, strade, ferrovie nel Mezzogiorno e che avrebbero costituito uno strumento moltiplicatore per l’occupazione di cui avrebbe beneficiato l’intera nazione. A queste somme vanno aggiunte le quote dei fondi FAS utilizzate fuori dal Mezzogiorno, con i soldi per il Sud è stato ripianato il disavanzo delle Ferrovie dello Stato, sono state realizzati i trasporti sul lago di Garda e di Como, è stato realizzato l’aeroporto di Vicenza, sono stati coperti gli sconti della benzina per le regioni vicino alla frontiera settentrionale, i contratti di servizio con Trenitalia per l’alta velocità (che al Sud non arriva), l’alta velocità Milano-Verona e Milano-Genova, la Metropolitana di Bologna, il tunnel del Frejus, la pedemontana Lecco-Bergamo e il MOSE di Venezia, infine, anche le risorse per il Jobs Act di Renzi sono state prese dai fondi FAS. Senza voler contare tutta la vicenda legata al Banco di Napoli con risorse sottratte all’economia meridionale e destinati ad implementare il fondo Atlante destinato ad operazioni a favore delle banche del Nord che hanno privato il Sud di qualsiasi istituto di Credito. Insomma, per anni i fondi destinati al Mezzogiorno sono stati utilizzati in larga parte per il Nord e non per gli scopi per i quali gli stessi venivano dati all’Italia. Oggi, mentre tutti i meridionali sono distratti dalle sciocche quanto vacue parole di Vittorio Feltri, il governo si accinge, secondo le parole del ministro Provenzano, non solo a ridurre ulteriormente le quote di investimento per il Mezzogiorno dei fondi ordinari ma anche ad utilizzare il fondi strutturali per le misure per la ripartenza su tutto il territorio nazionale. Un vero è proprio scippo ai danni del Mezzogiorno che si vedrebbe negata la possibilità di accedere alle proprie risorse per poter immaginare la ripartenza dopo la chiusura imposta dal governo Conte. E’ necessario ribadire con forza che non soltanto quota 34% deve essere mantenuta e deve essere estesa a tutto il settore pubblico allargato (compreso le partecipate e le imprese pubbliche) ma deve essere investita tutta la somma dei fondi strutturali nelle regioni meridionali. La maggiore libertà di azione nella spesa di questi fondi, infatti, non deve essere l’occasione per sottrarne ulteriormente al mezzogiorno ma deve essere l’occasione per dare alle regioni meridionali la libertà di spendere come meglio credono i soldi che dall’Europa vengono loro destinati, una libertà di azione, non una modifica di territorialità nella spesa che sarebbe francamente insopportabile. Il Sud ha la grande occasione di diventare il motore dello sviluppo per l’Italia e per l’Europa intera, interesse nazionale sarebbe investire nella zona d’Europa che ha maggiormente dimostrato capacità di resistere all’epidemia di Covid anche in considerazione della centralità che il Mediterraneo sta tornando a rivestire negli scambi globali. Dicono che questo sia il governo con il maggior numero di ministri meridionali della storia ma la differenza tra classe politica e classe dirigente è una antica lezione di Gramsci che non è possibile dimenticare e che, se la sottrazione delle risorse dovesse avvenire nelle intenzioni del governo, dovrebbe vedere la ferma presa di posizione di tutti i parlamentari e le forze sociali del Mezzogiorno. La questione meridionale è quanto mai attuale e una classe dirigente meridionale non può rimanere silente rispetto a quanto sta per avvenire e tutto ciò non soltanto per un interesse localista ma perché è interesse nazionale sviluppare il Mezzogiorno allo stesso livello delle altre aree della nazione.

Recovery Fund, il premier Conte dà la priorità al Mezzogiorno per ricevere i fondi dell'Europa. Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. Giuseppe Conte deve decidere gli interventi del Recovery plan. Lo farà in un vertice questa sera. Alla vigilia ha dato ai ministri due indicazioni: arrivare con le bozze dei progetti e dedicare un'attenzione particolare al Sud. "Perché lo sviluppo del Mezzogiorno deve essere una priorità. Se si rilancia il Sud, riducendo il divario con il Nord, ripartirà meglio e con più velocità l'intero Paese". Il Mezzogiorno, insomma, diventa il primo capitolo del Recovery plan che verrà presentato dal governo alla Commissione europea a metà ottobre. Anche se i soldi l'Europa ce li ha dati per aiutare le zone più colpite dal coronavirus che in Italia sono state quelle del Nord. Da Bruxelles, scrive il Messaggero, arriva un'indicazione precisa: almeno 70 miliardi dovranno andare a colmare gli squilibri territoriali. Nel Recovery plan non ci sarà spazio però solo per il Sud. Lucia Azzolina, ministra dell'Istruzione, ritiene che "la scuola può fare un salto di qualità grazie ai soldi del Recovery Fund, con stanziamenti per l'edilizia scolastica e per ridurre il numero degli alunni per classe". E Stefano Patuanelli, responsabile dello Sviluppo, indica tra gli interventi da finanziare "l'innovazione e la digitalizzazione delle imprese e il rafforzamento del pacchetto 4.0 per arrivare alla detassazione totale di quello che viene investito in azienda". Il tutto verrà deciso nella cabina di regia del Recovery plan che altro non è che il Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae), con sede a palazzo Chigi e presieduto da Conte.

 Vincenzo De Luca: «Sarebbe uno scandalo intollerabile perseverare con criteri da rapina al Sud». Carlo Porcaro il 31 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non usa mezze misure, come suo consueto, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca in merito alla futura distribuzione dei fondi derivanti dal Recovery Fund. «Per dieci anni la Campania è stata penalizzata, al di là di ogni decenza istituzionale e di ogni ragionevolezza. Sarebbe uno scandalo non tollerabile, perseverare con criteri da rapina verso il Sud e la Campania perfino per l’assegnazione di risorse aggiuntive e straordinarie», ha detto. «Rapina al Sud» e «scandalo non tollerabile» i due concetti principali espressi dal governatore campano adesso ricandidato, fortemente intenzionato ad abbracciare una battaglia anche col suo partito, il Partito democratico, ed il governo se non verranno rivisti i criteri della spesa storica. Gli stessi che non si volevano applicare all’autonomia e gli fecero dire: «Il progetto del governo e del ministro Boccia è di partire dai livelli essenziali delle prestazioni, cioè da un punto di equità, che è quello che chiede la Regione Campania: stesse risorse per tutte le regioni e poi un fondo di perequazione per recuperare il divario tra Nord e Sud».

CONFERENZA? NO, E' DIFFERENZA STATO-REGIONI. Perchè bisogna abolirla e rifare il Servizio Sanitario Nazionale. Roberto Napoletano il 31 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bisogna rifare la prima Cassa del Mezzogiorno, quella di 300 ingegneri che apriva e chiudeva i cantieri, che non rubò una lira e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Allora vedrete che il Sud avrà i suoi bandi internazionali e i suoi treni veloci. Altrimenti sono solo chiacchiere. Vorremmo occuparci di quello che accade non di quello che si dice accadrà. Soprattutto, cerchiamo di spiegare perché accade l’esatto contrario di quello che si dice e come fare per uscire non a parole da questa contraddizione. Assistiamo a una nobile gara tra il ministro della Sanità, Speranza, che stimiamo, e il ministro delle Infrastrutture, De Micheli, che non ne ha indovinata una e non stimiamo, a chi fa prima a annunciare che il Sud avrà finalmente più risorse pubbliche per la sua sanità e per gli investimenti infrastrutturali, che le cose cambieranno, che tutto è pronto perché si volti pagina rispetto al passato. Non è vero, purtroppo. Perché il mostro spesa storica non ha perso in rapacità e rischia di spostare un altro miliardo dal Sud al Nord per la sanità e se non cambiano le regole i cantieri si apriranno al centronord entro un anno e se tutto va bene tra quattro anni al Sud. Tutto nasce da un’anomalia solo italiana che si chiama Conferenza Stato-Regioni. Ha avuto il sopravvento perché ai governi italiani alle prese con i famosi vincoli europei di bilancio è convenuto: fate voi, decidete voi, e loro hanno fatto e deciso come volevano loro, spesso non rispettando i vincoli sempre a favore di alcuni e a spese di altri. Il controllo della spesa pubblica sociale e infrastrutturale è finito nelle mani di un oligopolio di potentati regionali, anzi meglio in quelle del duopolio lombardo e emiliano-romagnolo che ha gestito di fatto la ripartizione delle risorse e lo ha fatto a suo uso e consumo. Uno speciale ministero composto di due Regioni ha fatto il bello e il cattivo tempo. Praticamente la Regione Lombardia fa i calcoli per tutti e l’unico punto di mediazione è con l’Emilia-Romagna. I funzionari delle altre Regioni neppure vanno più perché non hanno strumenti per opporsi e non sono messi politicamente nelle condizioni di farlo. Non si è mai neppure pensato di fare un servizio studi per le regioni composto da enti indipendenti che inserisse nei parametri di valutazione i valori della cosiddetta deprivazione sociale. Per carità, si dovesse mai tenere conto nella ripartizione dei trasferimenti del tasso di disoccupazione o del tasso di povertà di questa o quella regione! Benché raccomandato più volte da vari governi di questo non si è nemmeno parlato, si è sempre scelto senza discutere che a guidare fosse il criterio della età per cui le regioni del Nord dove ci sono più anziani e dove le speranze di vita sono superiori fanno bottino pieno e la Campania, ad esempio, che è piena di giovani senza lavoro e senza reddito e di poveri si arrangi, si prenda i tagli, e non disturbi il manovratore. Dite che, forse, ci vorrebbe una commissione di scienziati indipendenti? No, vi sbagliate! I soldi sono quelli che sono e, quindi, non si cambia nulla: l’Emilia-Romagna si conferma un modello di sottrazione di risorse altrui, ma molto attento al territorio e alla sua popolazione con tassi riconosciuti di efficienza. Il modello lombardo di sottrazione di risorse altrui si conferma capace di fare quattrini, soprattutto a Milano, con alti tassi di specializzazione e di ricerca, ma molto meno presente nei territori e troppo poco attento agli ospedali pubblici. Entrambi i modelli hanno una priorità: portare l’acqua al proprio mulino e evitare che regioni come la Campania e la Puglia abbiano le risorse per attrezzarsi meglio e ridurre di conseguenza il turismo sanitario di cui loro sono beneficiarie nette. Per queste ragioni, a prescindere dai primati indiscutibili emiliani e lombardi, non si è mai fatto il fondo di perequazione sanitario e tanto meno quello infrastrutturale, entrambi previsti dalla legge del federalismo fiscale approvata e mai attuata violando i diritti costituzionali di cittadinanza. Sono arrivate in compenso le mille Basilee per le università di modo che gli atenei del Sud pagassero pegno come gli ospedali e le scuole. Con questo quadro può succedere solo che le regioni del Sud perdano un altro miliardo in più nella ripartizione dei fondi sanitari, che si aprano i cantieri al Nord e si continuino a buttare i soldi in studi di fattibilità al Sud. Servono decisioni coraggiose.

Primo. Abolire la Conferenza Stato-Regioni.

Secondo. Ricostituire il servizio sanitario nazionale che rispetti i diritti di tutti e favorisca l’efficienza complessiva del Paese.

Terzo. Rifare la prima Cassa del Mezzogiorno, quella fatta di 300 ingegneri che apriva e chiudeva i cantieri, non rubò una lira, e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Allora vedrete che il Sud avrà i suoi bandi di gara internazionali, i suoi concessionari e i suoi treni veloci. Se si vuole fare sul serio, si fa così. Se no si prosegue con gli annunci delle interviste ministeriali e si continua a spargere benzina intorno ai mille focolai della polveriera sociale italiana. Prima o poi ci scappa l’incendio.

STRANGOLI IL SUD, UCCIDI L'ITALIA. LO SCIPPO IGNORATO: PRIGIONIERI DEI GIOCHETTI DELLA CONFERENZA STATO-REGIONI. Roberto Napoletano il 30 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se si continua con gli annunci, i cantieri fantasma e la forza inerziale di Sua Maestà Spesa Storica si impedisce al Paese di affrontare e risolvere il suo primo problema competitivo. Va cambiata la macchina centrale e regionale e i governatori del Sud devono chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Questo giornale in assoluta solitudine e prima di tutti dal suo giorno di uscita ha denunciato lo scandalo ventennale di una distorsione abnorme nella distribuzione territoriale della spesa pubblica. Siamo arrivati al punto che il Mezzogiorno è stato abolito nella spesa per infrastrutture di sviluppo. È stata ridotta allo 0,15% del prodotto interno lordo. Sono stati aboliti i diritti di cittadinanza della popolazione meridionale nella sanità, nella scuola e nei trasporti. Abbiamo documentato (dati 2016 RGS-CPT) che al 34,3% della comunità meridionale dal 2009 a oggi è toccato il 28,3% della spesa pubblica allargata che riguarda Stato, enti locali, soggetti pubblici economici. Al 65,7% della popolazione del centronord è andato il 71,7% delle erogazioni della spesa pubblica allargata. Lo squilibrio ovviamente continua ad aggravarsi. Insomma, c’è un 6% e passa sottratto al Sud e indebitamente regalato al Nord. Vale oltre 60 miliardi l’anno, sì avete capito bene, 60 e passa miliardi in meno ogni anno di finanziamenti per costruire ospedali, rifare le scuole, collegare le città con treni veloci, manutenere le strade, attrezzare le aree portuali e così via. In una parola 60 miliardi di sviluppo negato al Sud per fare un po’ di sviluppo e molto assistenzialismo al Nord. Lo abbiamo chiamato scippo e ne abbiamo denunciato la sua consacrazione giuridica con la legge Calderoli (2009) sul federalismo fiscale che costituisce l’edizione più moderna del gioco delle tre carte. Si è detto: non possono esistere cittadini di serie A e cittadini di serie B e, quindi, bisogna fissare i livelli essenziali di prestazione e i fabbisogni standard e varare il fondo di perequazione. Questo dice la legge che aggiunge, però, siccome ci vorrà un po’ di tempo per farlo, nel frattempo usiamo il criterio della spesa storica in base al quale il ricco diventa sempre più ricco e il povero sempre più povero. Per cui carta vince carta perde, le prime tre carte dell’equità sono finite nel cestino e la carta dei ricchi ha fatto piazza pulita delle altre. Questa scelta miope ha danneggiato pesantemente le aree interne del Nord, ma ha messo fuori mercato un terzo del Paese privandolo di treni veloci, fibra digitale, molto altro, e condannandolo alla povertà. Una vergogna e una scelta miope. La denuncia del nostro giornale è stata subito sottoscritta dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, certificata dai Conti Pubblici Territoriali della Repubblica italiana, dalla Corte dei Conti che chiede invano ogni anno di superare l’anomalia della spesa storica, e dalla indagine della commissione finanze nata dalle nostre inchieste e gestita con maestria dalla presidente Carla Ruocco. Lo scippo decennale è potuto avvenire grazie alla forza di un’alleanza di interessi tra la Sinistra Padronale del Nord e la Destra lombardo-veneta e al silenzio complice di troppi esponenti della classe politica e dirigente del Mezzogiorno. A mio avviso i governatori delle regioni meridionali devono fare una sola cosa: chiedere tutti insieme l’intervento della Corte Costituzionale ma in Italia purtroppo c’è sempre un’elezione che fa rinviare l’appuntamento con la storia. La presa di coscienza comune dei Governatori del Sud resta comunque un passo gigantesco in avanti e anche lo sforzo in atto di Conte e di ministri come Provenzano e Boccia per mettere al primo punto del Recovery plan la fiscalità di vantaggio e l’alta velocità ferroviaria al Sud è da apprezzare. Il punto è che mancano i fatti. Perché con i giochetti della ministra De Micheli i cantieri si aprono al Nord e al Sud si continuano a finanziare gli studi di fattibilità. Perché con i giochetti della Conferenza Stato-Regioni si è introdotta la “nuova premialità dei ricchi” per cui il Nord prenderà ancora di più del Sud nella sanità di quanto prendeva prima dimostrando che la lezione del Covid non ha insegnato nulla. Questi sono i fatti che sono l’esatto opposto delle numerose interviste ministeriali che annunciano ogni giorno di dare più soldi al Sud che nessuno ha visto e nessuno potrà vedere senza cambiamenti profondi nella macchina pubblica centrale e regionale e una condivisione della parte più illuminata della classe dirigente del Nord. Se viceversa si continua con gli annunci, i cantieri fantasma e la forza inerziale di Sua Maestà Spesa Storica non solo si fa il male del Sud, ma si “uccide” l’Italia perché si impedisce al Paese di affrontare e risolvere il suo primo problema competitivo. Peraltro si va anche contro le richieste dell’Europa e della Banca Centrale europea e si mettono perfino a rischio i fondi europei. Un gioco pericoloso.

NON SI PUÒ PIÙ PROCEDERE IN ORDINE SPARSO. RECOVERY: FISCALITÀ DI VANTAGGIO E RIEQUILIBRIO DELLA SPESA TERRITORIALE LE PRIORITÀ. Robero Napoletano il 29 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nonostante gli aut aut degli “olandesi emiliani” di casa nostra, l’Italia si salva se si salva il suo Mezzogiorno, non se si continuano a rapinare le risorse del bilancio pubblico nazionale e del Fondo di coesione europeo destinato al Sud per finanziare il privilegio assistenziale del Nord. Non è più consentito alla classe politica meridionale di non agire unita riducendosi a scendiletto del potere tosco-emiliano di sinistra e lombardo-veneto della destra pur di continuare a litigare tra di loro. Piovono dal cielo 209 miliardi. Non abbiamo mai avuto tanti soldi. Ogni partito fa la sua proposta. Ogni ministro. Anche quelli che aprono bocca senza mai pensare. Ogni sindaco. Ogni Presidente di Regione. Facciamo questo. Facciamo quello. Facciamo la rivoluzione digitale. Apriamo un negozio di pizze e fichi. Rifacciamo tutti gli ospedali del Sud e diamo più soldi alla sanità del Nord. E chi più ne ha più ne metta. La verità è che il Paese stava fallendo e rischia ancora di fallire per cause pandemiche sopravvenute e colpe sue che vengono da lontano. La verità è che l’Europa franco tedesca non disinteressatamente sta facendo di tutto per tenerci in vita perché ha paura della pesantezza del botto che potremmo fare e vuole finalmente provare a fare l’Europa. La verità è che la Cancelliera Merkel ha dovuto fare ragionare olandesi e austriaci mettendo mano al portafoglio in nome di un’idea europea solidaristica che chiede all’Italia di investire sul suo Mezzogiorno e risolvere il problema del riequilibrio territoriale senza sapere che nulla può (nemmeno lei) contro il muro di privilegi che “olandesi e austriaci di casa nostra” difendono alla morte. La verità è che assistiamo sgomenti a una narrazione propagandistica di una valanga di soldi che sta rotolando sulle nostre teste fino al punto di schiacciarci. Fino al punto di spezzare il filo che ci consente di danzare sull’orlo del baratro senza caderci dentro. A tutti questi signori che fanno propaganda consigliamo la lettura meno amena ma decisamente più veritiera del noiosissimo ddl sull’assestamento di bilancio dove c’è scritto in italiano che abbiamo un saldo netto da finanziare con un tetto massimo di 390 miliardi. Ai quali vanno aggiunti i 250 miliardi di titoli in scadenza che vanno rinnovati e fanno salire a oltre 600 miliardi il monte titoli italiani da finanziare per fare fronte agli effetti della crisi che ha determinato un colpo da 51 miliardi di finanza pubblica tra minori entrate e maggiori spese. Tutta roba scritta, sia chiaro, in un disegno di legge governativo. A fronte di tutto ciò in versione Mark Rutte in salsa emiliano-romagnolo dall’alto dei suoi successi elettorali e forte delle chiavi di comando della cassaforte della Sinistra Padronale, Bonaccini intima al sottosegretario Fraccaro della Presidenza del Consiglio di non permettersi di toccare l’impianto dei trasferimenti pubblici alle sanità regionali e, cosa giusta, che non si fa una legge di assestamento di bilancio senza passare dalla conferenza Stato-Regioni da lui presieduta. A un Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che mette sul tavolo in modo sacrosanto le ragioni non più eludibili di un riequilibrio dei trasferimenti che penalizza in modo abnorme il cittadino pugliese rispetto a quello emiliano-romagnolo, per non parlare del cittadino campano al confronto con quello lombardo, la risposta secca è: puoi dare qualcosa in più al Sud ma guai se tocchi l’impianto dei trasferimenti alla sanità. Che noi traduciamo: la sanità dei ricchi. L’avvertimento è chiaro: puoi fare quello che vuoi ma guai se tocchi l’impianto del privilegio che nega i diritti di cittadinanza sanitaria, ma anche scolastica e ancora di più infrastrutturale, al Sud e li regala indebitamente al cubo al Nord con i soldi del Sud. Siccome il bravissimo Bonaccini non può non sapere che questo giochetto che vale 60 miliardi l’anno è incostituzionale perché è figlio di una legge sul federalismo fiscale (Calderoli, 2009) mai attuata perché non si sono fatti i fabbisogni standard, i livelli essenziali e perfino il fondo di perequazione e non può non sapere che la cassa europea ha il vincolo dell’obiettivo strategico del riequilibrio territoriale la situazione si fa davvero delicata e ricalca alla perfezione l’ottuso interessato egoismo che ha segnato il “frugale” comportamento di olandesi e austriaci intenti solo a scroccare quattrini. Siccome in autunno la luna di miele finirà e anche se le tensioni sui mercati saranno ancora una volta attutite dagli acquisti della Bce sarà chiara a tutti la bomba sociale di milioni di disoccupati che rischia di esplodere nel 2021, le forze illuminate del Pd hanno il dovere di fare capire ai padroni della Sinistra Padronale che non si può continuare a scherzare con gli studi di fattibilità per l’alta velocità ferroviaria al Sud e i cantieri veri che tornano a riaprirsi al Nord. Deve essere il Nord illuminato a chiedere la fiscalità di vantaggio e la riunificazione infrastrutturale delle due Italie. Questo ci chiede l’Europa. Questo ci chiede la Bce. Questo serve all’Italia. Conte, Provenzano e Boccia hanno in mano la partita del futuro dell’Italia. Quando tutti torneremo con i piedi per terra, molto presto, si capirà che non si hanno i soldi per fare tutto e che, questa volta, l’Italia si salva se si salva il suo Mezzogiorno non se si continuano a rapinare le risorse del bilancio pubblico nazionale e del Fondo di coesione europeo destinato al Sud per finanziare il privilegio assistenziale del Nord. Questa operazione verità deve servire a riunire il Paese in casa e a costruire una credibilità nuova in Europa e nel mondo. Dipende solo da noi perché in questo caso il problema riguarda noi non l’Europa. Se la classe politica e dirigente del Mezzogiorno uscisse dal letargo almeno ventennale e chiedesse alla Corte Costituzionale italiana di intervenire farebbe un quarto del suo dovere. Se siamo ridotti così, però, è proprio perché questa classe politica non ha mai saputo agire unita preferendo ridursi a scendiletto del potere tosco-emiliano di sinistra e lombardo-veneto della destra pur di potere continuare a litigare al loro interno. Questo mercimonio al ribasso della dignità loro e nostra non è più consentito.

Sanità, il piano scellerato per sottrarre risorse al Sud: a rischio un altro miliardo. E intanto è iniziata la battaglia per la ripartizione delle risorse del Recovery Fund. Il Nord non vuole perdere i privilegi. Lia Romagno il 31 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. È anche sulla sanità che si misura la tutela dei diritti di cittadinanza che un Paese è in grado di assicurare ai propri cittadini. E se guardiamo al nostro di Paese non servono i conti della spesa statale per dire che il diritto alla salute “distingue” i cittadini del Sud da quelli del Nord. Lo provano gli ospedali poco attrezzati, con strutture spesso fatiscenti, che accolgono i pazienti nelle regioni meridionali, l’esiguo numero di medici e infermieri che ne popolano le corsie, i macchinari obsoleti, le liste d’attesa. E i numeri del turismo sanitario che ogni anno registrano le partenze di calabresi, pugliesi, siciliani, lucani e campani in cerca di cure migliori negli ospedali del Nord, a vantaggio di una sanità che crea profitti per i privati, mentre nel Mezzogiorno apre “buchi” nei bilanci degli enti locali. Ma i numeri contano e in questo caso spiegano le ragioni di una sanità “malata” al Sud, che risiedono nel riparto dei fondo sanitario nazionale sulla base della spesa storica che da anni fa sì che, a parità di popolazione, il Nord riceva più soldi per le sue strutture ospedaliere. E nel futuro non andrà meglio, dal momento che il nuovo sistema di valutazione e verifica dei Lea (Livelli essenziali di assistenza), approvato nel dicembre del 2018 e che entra in vigore quest’anno, rischia di penalizzare ulteriormente le regioni meridionali. Nessuna sorpresa, quindi, nello scoprire che nel documento circolato qualche settimana fa che “abbozzava” la ripartizione dei 37 miliardi del Mes – su cui nella maggioranza ancora restano alte le resistenze del Movimento 5 Stelle – ancora una volta veniva cristallizzata la sperequazione delle dotazione delle risorse a beneficio delle regioni settentrionali e la sopravvivenza di un sistema sanitario che distingue tra serie A e serie B. Alle risorse comunitarie del Recovery Fund – e alle pressioni delle istituzioni europee affinché i Paesi intervengano sui rispettivi divari territoriali – è affidata la possibilità di un riequilibrio e di dotare il Mezzogiorno di una sanità efficiente, ma nelle prime riunioni della cabina di regia sono già emersi orientamenti egoistici e miopi: chiedendo che il trasferimenti dei dei fondi avvengano secondo i criteri in uso, il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini – che è anche presidente della Conferenza delle Regioni – ha già chiesto più soldi per il Nord.

LO SCIPPO DELLA SPESA STORICA. Da oltre 15 anni il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. E nel 2020 non è andata diversamente, dal momento che il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito lo stesso spartito di sempre. Così, su 113,3 di dotazione complessiva, alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, sono stati riservati 7,49 miliardi mentre all’Emilia Romagna, con 4,4 milioni, 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. E se si considera il Veneto, con i suoi 4,9 milioni di abitanti, la sproporzione resta, visto che la Regione governata da Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione guidata da Emiliano. Considerando la spesa pro-capite, ne discende che per curare un cittadino pugliese lo Stato spende 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. Qualche altro numero per illustrare la scena: restando al Sud, la Campania, avrà 10,6 miliardi, 1.827 euro per ciascuno dei suoi 5,8 milioni di residenti che possono far affidamento su 42mila operatori sanitari impiegati a tempo indeterminato; la Calabria 3,6 miliardi e 1.800 euro per cittadino (ha quasi due milioni di abitanti che possono contare su un personale che conta 18mila unità). Guardando al Nord, alla Lombardia e al Piemonte andranno, rispettivamente, 18,8 miliardi (1.880 euro pro capite per i 10 milioni di residenti curati da 95mila tra medici e infermieri) e 8,33 miliardi (4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. E un staff sanitario di 53mila persone). Dal 2012 al 2017, poi, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno visto aumentare la loro quota del fondo del 2,36%, ricevendo quindi dallo Stato poco meno di un miliardo in più (944 milioni), rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria per le quali l’aumento è stato pari soltanto dell’1,75%.

LA RIFORMA DEI LEA PENALIZZA IL MEZZOGIORNO. Alla luce di questi numeri, il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea rischia di penalizzare ulteriormente le regioni meridionali, che potrebbero ritrovarsi con minori trasferimenti da parte dello Stato. Sono previsti, infatti, criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e per quelli del Sud, dopo decenni di tagli, è difficile superare l’esame. Come mostra una simulazione svolta dal Comitato Lea, organo del ministero della Salute: solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse e le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud, ovvero Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna. Ad ottenere la promozione sarebbero soltanto Puglia e Abruzzo. Superare l’esame con la “sufficienza” vuol dire poter contare su una premialità del 3% nel riparto del fondo sanitario, al netto delle entrate proprie, che per le regioni del Sud equivale a circa un miliardo di euro.

LE RISORSE DEL MES. Lo scippo al Sud sulla base della spesa storica rischierebbe di perpetrarsi anche sulla ripartizione tra le regioni dei fondi del Mes, stando alla bozza che, secondo quanto si è raccontato, sarebbe servita per ingolosire i governatori del Veneto e Lombardia, provati dall’emergenza Covid 19, spingendoli a far pressione sulla Lega e a scioglierne le resistenze. Alla Lombardia e al Veneto, infatti, andrebbero oltre 9 dei 37 miliardi riservati all’Italia, un quarto di tutta la torta: il 16,64% alla prima, l’8,14% alla seconda. In particolare, alla Lombardia, che prima del Covid era considerata una eccellenza sanitaria nazionale, andrebbero 6 miliardi e 158 milioni: più risorse di quante ne spetterebbero a Puglia, Calabria, Basilicata, Marche, Umbria e Molise messe insieme.

STATO DI SALUTE AL SUD E INIQUITA’ SANITARIA. Michele Di Pace - Ambrogio Carpentieri il 30.07.2020 su movimento24agosto.it. Sono stati analizzati i dati di Health Search e Osservatorio Salute negli anni 2016-2018 relativamente ad alcuni indicatori sullo stato di salute dei cittadini tra il Sud e il Nord del Paese.

ASPETTI DEMOGRAFICI (tasso di fecondità totale e speranza di vita alla nascita), MORTALITA', STILI DI VITA e PREVENZIONE (quota di fumatori tra la popolazione di età 14 anni e oltre e trend, prevalenza di persone di età 18 anni e oltre in condizione di sovrappeso, prevalenza di persone di età 18 anni e oltre obese, coloro che dichiarano di non praticare sport, copertura vaccinale antinfluenzale negli ultra-sessantacinquenni), SALUTE MENTALE (consumo di farmaci antidepressivi e trend), SALUTE MATERNO-INFANTILE (proporzione di parti con taglio cesareo), ASPETTI ECONOMICI (spesa sanitaria pubblica pro-capite), ASSISTENZA OSPEDALIERA (percentuale di pazienti di età 65 anni e oltre operati entro 2 giorni per frattura del collo del femore) esaminandone la variabilità territoriale in un’ottica di valutazione dell’efficacia dei singoli SSR e di equità a livello nazionale.

Le condizioni di salute degli italiani si mantengono buone in termini di sopravvivenza, ma non migliorano le condizioni patologiche per le quali è forte il ruolo della prevenzione e degli stili di vita. In particolare, andamenti non positivi si riscontrano per alcune patologie tumorali causate dalle abitudini al fumo, dalla condizione di obesità e dalla scarsa adesione ai programmi di screening. Un altro elemento di criticità riguarda la qualità degli anni di vita degli anziani, vissuti in cattive condizioni di salute.

Infatti per gli aspetti demografici il tasso di fecondità totale rimane alto per Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, pur inferiore al livello di sostituzione (circa 2,1 figli per donna) che consentirebbe il ricambio generazionale, mentre è basso per Sardegna ma anche Molise, Basilicata e Puglia. Inoltre la speranza di vita alla nascita risulta più alta in Toscana e Veneto per gli uomini e ancora Veneto per le donne seguite da Emilia Romagna, Lombardia mentre è il più basso in Campania sia per uomini che donne seguita da Sicilia.

I dati di mortalità (per 10000) risultano elevati per la Campania rispetto alla media nazionale seguiti dalla Sicilia mentre sono bassi per le donne in Molise e gli uomini in Toscana.

Seguire corretti stili di vita è un eufemismo per il Sud dove si fuma molto in Campania anche se in diminuzione, si è in sovrappeso in Basilicata e obesi in Puglia mentre in Sicilia si segue poco sport rispetto ai pochi fumatori in Calabria con trend in aumento, pochi in sovrappeso in Piemonte e obesi in Toscana e molto sportivi in Veneto.

La copertura vaccinale contro la influenza, nel campo della prevenzione, si mantiene nella media su tutto il territorio nazionale ed è basso solo in Sardegna.

Il consumo di farmaci antidepressivi è molto elevato in Toscana con trend in aumento e alto in Emilia-Romagna mentre è inferiore alla media in Campania seguita da Puglia, Molise, Basilicata e Sicilia.

La proporzione di parti con taglio cesareo, indice di salute materno-infantile, è molto basso, quindi positivo, in Veneto, Emilia-Romagna, Toscana ed alto nelle regioni del Sud in particolar modo in Campania.

Il valore dell'indicatore relativo alla spesa pubblica pro-capite è alto rispetto alla media in Sardegna e Molise, più basso in Campania seguita da Calabria e Sicilia.

Infine la assistenza ospedaliera rappresentata dalla percentuale di pazienti di età 65 anni e oltre operati entro 2 giorni per frattura del collo del femore è ottima in Toscana, buona in Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte, nella media per le altre regioni e scarsa in Molise seguita da Calabria. Ambrogio Carpentieri - Commissione Sanità ET M24A

LA MOBILITA’ SANITARIA DA SUD VERSO NORD, FORMA DI SFRUTTAMENTO ECONOMICO DEI MERIDIONALI. Michele Di Pace - Pasquale Biscari il 29.07.2020 su movimento24agosto.it.

1°- Studio dei Fattori Primari. Seguiranno : 2° - Studio dei Fattori Secondari, Criticità, Eccellenze; 3° - Correttivi, Proposte e Considerazioni finali. Il problema della Mobilità Sanitaria in Italia è da sempre l’emblema delle disuguaglianze regionali e del colonialismo economico imposti alle regioni del Meridione. Oggi si può dire che questa criticità sia diventata il primo paradigma responsabile dello squilibrio nella Struttura Sociologica della Sanità. Lo è in quanto ne mina la qualità sociale, la qualità organizzativa e la qualità erogata attraverso le prestazioni sanitarie. Sia pure esistesse fin dal secolo scorso, la Mobilità Sanitaria ha manifestato tutta la sua criticità con la Riforma del Titolo V° della Costituzione (ottobre 2001) e con l’art 117 che afferma il Principio della Sussidiarietà Verticale; un criterio di ripartizione delle funzioni amministrative tra organi di governo, che inverte il riparto delle competenze e riconosce in capo alle Regioni il compito di legiferare in tema di Sanità. La gestione della Salute viene di fatto affidata alle Regioni e il tutto con una marcata scelta federalista che lascia allo Stato Centrale la competenza sulle cosiddette “Leggi Quadro di Cornice”. Allo Stato viene riconosciuta in modo esclusivo la competenza sui Livelli Essenziali dell’Assistenza (LEA) e delle Prestazioni Sanitarie (LEP), con livelli minimi al di sotto dei quali non è possibile andare; il tutto finalizzato a garantire l’uniformità delle prestazioni sull’intero territorio nazionale. Da questo momento legislativo, le Regioni del Sud coi servizi sanitari già ai limiti dei minimi costituzionali, hanno subito tagli al personale ( numero chiuso a Medicina, mancato turnover degli operatori) e ai posti letto ospedalieri (rapporto posti letto per numero abitanti), ancora più consistenti di quelli operati in passato da ministri e governi disorganici. La Fondazione Gimbe nella sua attività di monitoraggio indipendente delle emergenze globali ha accertato e documentato in circa 40 miliardi di euro i fondi sottratti alla Sanità del Sud e fatti affluire al Nord solo negli ultimi dieci anni. In nome di una ingiustificata Spesa Storica, costantemente pretesa e applicata a favore della Sanità Privata e affaristica del Nord, si è creato un divario ipertrofico tra le Strutture Sanitarie. Un divario alimentato dallo spostamento di pazienti verso le Regioni del Nord a cui le Regioni del Mezzogiorno pagano, a un prezzo maggiorato, i DRG dei migranti della salute (circa 4,5 miliardi l’anno). Si tratta di una criticità cronica che, nel tempo, ha generato un disparità sul territorio nazionale nel godimento del servizi sanitari da parte del cittadino utente. Una criticità nazionale perdurante che ha gravato e grava sui cittadini del Meridione che vedono sempre più ridotta la loro aspettativa di vita nei confronti dei cittadini del Settentrione. Una disparità diventata ancora più manifesta oggi, a causa dell’attuale pandemia da Covid19, che ha evidenziato la gestione sanitaria fallimentare nelle Regioni del Nord. Nonostante le maggiori entrate, queste, si sono trovate impreparate a reggere l’onda d’urto del virus per aver privilegiato una sanità imprenditoriale privata, di èlite, di liberismo spinto e di profitto, a una sanità pubblica di servizio per l’Emergenza - Pronto Soccorso e per le Terapie Intensive - Rianimatorie. Quantunque penalizzato dalle risorse sottratte, dalle nequizie di sedicenti governatori di regione e dalle invettive di una stampa asservita, il Sud ha dimostrato di reggere molto meglio la virulenza del Covid19, ivi compresi i flussi di studenti e lavoratori fatti arrivare, a ondate, dalle regioni del Nord nella prima fase disordinata della pandemia. Tutti questi fattori hanno avuto l’amara conseguenza di evidenziare maggiormente il fenomeno migratorio della salute denominato “della speranza”. I pazienti che migrano nelle strutture sanitarie del Settentrione per una presunta aspettativa di assistenza sanitaria qualificata, in realtà, si vedono ancora più utilizzati e sfruttati a fini di un mero guadagno economico barattato sulla loro pelle. E non sono neppure da trascurare le ripercussioni che tale squilibrio esercita sulla economia sociale. Nell’ultimo rapporto Kelony si evidenzia come, il rischio di una crescente esasperazione causata dalla insufficiente soddisfazione delle popolazioni, possa portare a forme di rivolta senza precedenti. In questo rapporto viene ipotizzata persino una sorta di “dittatura sanitaria” a cui potrebbe seguire una rivolta sociale con conseguenti interventi repressivi da parte di Stati autoritari. Destabilizzare, impaurire, terrorizzare è sempre servito a garantire la sicurezza delle oligarchie finanziarie e a conservare i loro privilegi a discapito delle fasce sociali deboli. Se qualcosa di simile dovesse accadere, perderebbe del tutto i suoi effetti la legge quadro 328/ del 2000, nata per regolamentare l’Assistenza finalizzata agli interventi socio sanitari. Non verrebbe più garantito un aiuto concreto alle persone non autosufficienti, ai minori, agli anziani e alle famiglie in difficoltà all’interno del loro nucleo familiare. Ancora più di queste ne soffrirebbero le strutture speciali come le RSA e gli altri Centri Assistenziali. C’è da dire, inoltre, come nuove situazioni di precarietà e instabilità politica, neppure tante remote, porterebbero a veri disastri sociali ed economici qualora i mezzi della generosa Recovery Fund appena elargiti dall’Europa e mai visti prima di adesso, non andassero nella direzione giusta. Bisogna augurarsi davvero che si metta fine alle egemonie ideologiche partitiche e si dia luogo a un impegno comune nello spendere subito e bene i tanti miliardi che arriveranno, sia pure con un certo ritardo. Intanto restano e continuano a esistere i “cammini della speranza” che ogni anno costano alle Regioni del Sud l’esborso di oltre quattro miliardi di euro. Sicuramente ci vorrà del tempo per fermare e invertire il cammino di queste migrazioni. Non sarà semplice correggere le disuguaglianze che hanno generato i migranti della salute e dirottarli verso le strutture del Sud dove, come vedremo nel prossimo studio, se ne contano tante di eccellenze sanitarie distribuite sul territorio. Al fine di evitare malcontenti e insoddisfazioni nel tessuto sociale ed economico della Nazione diventa, dunque, necessario procedere con le riforme raccomandate anche dall’Europa e approntare un Piano di Spesa equo ed efficace che risollevi il Sud e vada incontro alle esigenze dei cittadini, degli indigenti, dei lavoratori cassa integrati, degli esercenti del terziario, del manifatturiero e dei piccoli e grandi imprenditori dei settori primari agricolo e industriale.

Sanità, bugie sul Nord virtuoso: il buco fatto da Piemonte e Liguria. Il falso mito che le Regioni settentrionali ricevano più fondi dallo Stato perché li spendono meglio. Invece il disavanzo è proprio creato da queste. Perché un calabrese deve ricevere 1800 euro l’anno e un piemontese 1935 o un toscano 1917? Vincenzo Damiani l'1 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Per la salute e le cure sanitarie dei propri cittadini, lo Stato italiano fa figli e figliastri. Per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 spenderà complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e i 1.877 ad un veneto. È questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale dell’anno in corso. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spetta appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana. Chi sperava in una inversione di rotta almeno dopo una pandemia che ha stravolto le nostre vite e i nostri sistemi sanitari resterà deluso. Il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. E nel 2021 potrebbe persino incassarne ancora di più, la doppia beffa si potrebbe concretizzare a fine anno. Anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni del Sud per la loro sanità rischiano seriamente di ritrovarsi con meno fondi trasferiti dallo Stato. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza), che entra in vigore da quest’anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse. Le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo Report sul coordinamento della Finanza pubblica. Superare il giudizio del Comitato Lea non è fine a sé stesso: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce alle Regioni lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie. Per intenderci, parliamo di svariati milioni di euro, complessivamente per il Mezzogiorno circa un miliardo di euro. Insomma, superare “l’esame Lea” significa poter ricevere soldi. Peccato, però, che prima di “inasprire” i criteri per valutare la qualità delle cure, nessuno si sia preoccupato di mettere fine allo “scippo” che il Mezzogiorno subisce da almeno 15 anni anche nel settore sanitario. Depauperate delle risorse economiche, le Regioni del Sud oggi si ritrovano con meno personale, meno soldi da spendere e macchinari più obsoleti. E adesso, rischiano di perdere un’altra barca di soldi. Da una prima simulazione di valutazione dei Lea svolta sui dati già consolidati del 2017, quasi tutto il Sud risulta inadempiente, ma appare evidente che non avendo messo il Mezzogiorno nelle condizioni di recuperare il gap dal Nord, inasprire i criteri di valutazione finisce per danneggiarlo due volte. È un dato di fatto certificato che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. Anche nel 2020, infatti, il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito logiche inique: meno risorse a parità di popolazione. È lo scippo della spesa storica che prosegue, qualche esempio? Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Figli e figliastri, dicevamo. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia ancora il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Si dirà, le Regioni del Nord ricevono più soldi perché le spendono meglio. Falso mito. Tra il 2018 e il 2019, in Italia si è registrato un peggioramento del disavanzo nei conti del settore sanitario del 10 per cento: dai 990 milioni del 2018 si è passati a poco meno di 1,1 miliardi nell’esercizio appena concluso. Un peggioramento – certifica la Corte dei Conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica – da ricondurre “in prevalenza alle regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019”. I giudici contabili stanno parlando proprio delle Regioni del Nord, lo chiariscono in un passaggio successivo: “Un risultato – si legge nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata”. L’esame dei dati è tratto dai conti economici consolidati. Le regioni a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le regioni in Piano, cioè sostanzialmente quasi tutti quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri. Le differenze sono palesi anche sul numero di dipendenti a disposizione: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità.

La cicala e la formica. Giulia Carcasi il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud.

Trenta gradi all’ombra. Sbracata sotto la tettoia de ‘na foglia, ‘na cicala cantava a voce alta. Quer canto, monotono e continuo, infastidiva ‘na formica che s’affannava a fa provviste pe’ l’inverno e, barcollando, trasportava sulla schina ‘na briciola grossa quanto ‘na collina.

«Pe’ cortesia. Puoi sta un minuto zitta?» chiese alla cicala.

Ma quella de canta’ nun smise affatto: «Si nun canto mo che è estate, quanno lo faccio?».

«C’ho mal de testa» la pregò la formica. «Solo un minuto, damme tregua. Smettila co’ ‘sto fri fri».

«Fri fri?!?» sbottò a ride’ la cicala, sfottendo la formica «Come sei antica! Sei rimasta alla preistoria. ‘Na volta noi cicale facevamo fri fri, ma ormai semo internazionali, parlamo inglese come lingua madre, l’avemo imparato dai turisti al camping» e sottolineando la differenza de pronuncia disse «Io non dico mica “fri fri”, ma “free free”, che vor di’ “libera, libera”…».

«A me me pare uguale…» commentò la formica tra sé e sé.

«Ma che ne voi capi’ te che nun fai manco ‘n verso…» l’offese la cicala «Raccatta le molliche, va’, ch’é mejo…».

Fino a quer punto s’era spinta l’ingratitudine! Da che mondo è mondo, le cicale, a furia de canta n’intera estate, se ritrovano d’inverno a mani vote e, si nun morono de fame, è proprio grazie alle fatiche costanti e silenziose delle formiche, che generosamente condividono er cibo della loro dispensa. Ner tempo nun solo la riconoscenza era scomparsa, ma le frivolette ce battevano pure de cassa e l’aiuto pareva dovuto.

Mentre la formica s’allontanava risentita, la cicala sapeva d’esse stata indelicata, ma nun voleva abbassa’ le antenne e, anziché chiede scusa, rincarò la dose: «Cara mia, lo sai perché te la piji a male? Perché te piacerebbe esse’ come me. La tua se chiama invidia. Te nun lo sai cos’è la vita. Sai solo sgobba tutto er giorno. Nun c’hai da fa altro. D’altronde la natura mica t’ha dato le qualità ch’ha dato a me. Canta’ nun sai canta, le ali nun ce l’hai…».

«Vedi de falla finita» l’avvertì la formica. «E st’inverno nun veni’ a frignare alla mia porta. Anzi, pardon, a freegnare. I tempi so’ cambiati, nun te ne sei accorta? Quest’anno nun se trovano più tante molliche a terra. Esse generosi è diventato un mestieraccio e, a forza d’offese, pure su un cuore morbido se fa er callo.»

La cicala capì d’avella detta grossa: «Ascolta. Poggia ‘nattimo sta briciola». La formica se tolse quer carico dalle spalle e se fermò a sentilla. «Io nun so vive come te,» le spiegò la cicala «ma nun te crede che so felice de canta tutto er giorno. Certe vorte ce s’annoia pure. Tu ce sai sta ar buio, io devo anna’ sempre a sbatte’ contro la luce. È tarmente breve la vita nostra che, si me fermo a pensa’, m’assale l’angoscia…»

Allora anche la formica se rabbuiò. «E a me chi m’assicura che nun me capita un colpo secco de ‘na scarpa in testa o ‘na spruzzata d’insetticida? E che me so’ goduta? La vita è pe’ tutti n’incognita.»

C’hai ragione pure te» ammise la cicala. «Si tu me dai ‘na mano a porta’ sta mollica, si famo mezzo e mezzo de fatica come famo mezzo e mezzo de raccolto, tu forse nun t’annoieresti tanto, c’avresti meno angoscia, e io c’avrei er tempo d’assaporà la vita. È vero, nun so canta’ e nun c’ho l’ali, ma nun sai quanto me piacerebbe sta ‘na settimana in ferie a nun fa niente, a riposa’ la schina, a fa ‘na camminata a vanvera, a fa du’ chiacchiere co quarche amica» disse la formica. «Pe’ ‘na settima vorrei falla pure io la cicala».

A buon intenditor poche parole. E pe’ la prima volta ne la storia, ‘na cicala e ‘na formica se caricarono, una da un lato e una dall’altro, ‘na briciola.

La lepre e la tartaruga. Giulia Carcasi il 2 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud.

Te puoi sforza’ quanto te pare, ma certe doti o ce l’hai o nun ce l’hai: nun se imparano.

La lepre c’era nata veloce e s’era meritata er titolo de scheggia der bosco. A vedella pareva ‘n conijo un po’ più grosso, ma mentre quello c’aveva l’espressione domestica de chi s’acquatta dentro a ‘n nascondiglio, la lepre nell’occhi selvatici c’aveva ‘n guizzo. Faceva certi salti che pure i grilli je facevano i complimenti.

Un giorno nacque ‘na tartaruga col complesso de superiorità: a tutte quelle della sua specie spettava ‘na vita lunga e lenta, ma a lei nun je bastava. “Mamma, papà, guardate come so’ svelta!” se metteva ar centro dell’attenzioni, muovendo a più non posso le sue zampe a rallentatore. Era più rapida la terra a gira’ attorno al sole.

“Ammappa!” fingevano de stupisse i genitori pe’ falla contenta, “se continui de ‘sto passo a te la lepre te fa ‘n baffo”.

Dall’apprezzamenti familiari era passata a pretende’ pure quelli dell’altri animali. E un po’ pe’ compassione un po’ perché ai matti je se dà ragione, “Come sei brava!” je ripetevano in coro “Sei ‘n siluro!”. A forza de bucie era diventata così viziata da nun accetta’ più critiche: si quarcuno s’azzardava a faje nota’ che in un giorno faceva a stento mezzo metro e nun se po’ certo definì un record, la tartaruga dava in escandescenze. “Nun t’avvelenà, nun ne vale la pena” la consolavano allora i genitori credendo de fa’ er suo bene “Pe’ un meschino che te dice ‘na cattiveria, nun puoi mette’ in dubbio un talento che tutti te riconoscono…”.

La presunzione si spinse ar punto che la tartaruga un giorno se presentò alla lepre. “Te sfido a chi arriva prima a quell’albero. Scommetti che te batto?”

“È ‘no scherzo?” je rispose quella.

“Nun te crede” l’avvertì la tartaruga “Parto piano, ma so’ un diesel”. E in uno stato di esaltazione aggiunse “Si nun te la senti, lo capisco… C’hai paura de fa ‘na figuraccia e rovinatte la piazza?”

A ‘na simile provocazione la lepre pensò che era troppo: “Paura io de te?!?” e accettò la gara.

Stabilirono un orario, un punto de partenza e un punto d’arrivo.

Al “Via!” la tartaruga scattò subito, ma, pur affannandosi, pareva ferma.

Incontrastata la lepre avanzava, ma sentiva che stava svendendo quer talento che j’aveva dato la natura: se corre pe’ scappa’ da li cani o dalle schioppettate dei cacciatori, se corre pe’ senti’ sul muso la libertà der vento, la carezza dei fili der prato, ma corre pe’ ‘na sfida nun ha senso. Se la vita è ‘na sfida, è solo co’ se stessi e no coll’altri, figurarsi co ‘na tartaruga. Vincere sarebbe stata ‘na sconfitta. Così, arrivata a ‘n passo dar traguardo, se fermò e, senza tajiarlo, se mise lì ad aspettare per ore e ore.

La tartaruga, quanno finalmente la raggiunse, esclamò “T’ho ripreso!” e pe’ l’emozione nun stava più ner carapace. Ma se sgonfiò ben presto, vedendo che la lepre, scansandosi, la faceva passare avanti e je diceva “Prego!”.

La corazzata tajò comunque er traguardo, ma fu ‘na misera conquista, che nun la rese soddisfatta.

A chi je chiede come quer giorno annarono le cose, la tartaruga, vantandosi, racconta ‘na menzogna: “Er segreto è la costanza! Chi va piano va sano e va lontano”. Alle lepre je scappa da ride ogni vorta che la voce arriva alle sue lunghe orecchie. Si je chiedessero de rifa’ la sfida, farebbe vince la tartaruga n’artra vorta, che tanto sempre e comunque ‘na tartaruga resta. 

Sanità, uno scippo senza fine: al Sud sottratto un altro miliardo. Vincenzo Damiani il 24 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La doppia beffa si potrebbe concretizzare tra pochi mesi, a fine anno. Anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni del Sud per la loro sanità rischiano seriamente di ritrovarsi con meno fondi trasferiti dallo Stato. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza), che entra in vigore da quest’anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse. Le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo Report sul coordinamento della Finanza pubblica. Attenzione, superare il giudizio del Comitato Lea non è fine a sé stesso: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce alle Regioni lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie. E pensare che il ministro Speranza aveva promesso più risorse per la Sanità del Sud. Per intenderci, parliamo di svariati milioni di euro: oltre 200 per la Campania, ad esempio, complessivamente per il Mezzogiorno circa un miliardo di euro. Insomma, superare “l’esame Lea” significa poter ricevere soldi. Peccato, però, che prima di “inasprire” i criteri per valutare la qualità delle cure, nessuno si sia preoccupato di mettere fine allo “scippo” che il Mezzogiorno subisce da almeno 15 anni anche – e non solo – nel settore sanitario. Depauperate delle risorse economiche, le Regioni del Sud oggi si ritrovano con meno personale, meno soldi da spendere e macchinari più obsoleti. E adesso, rischiano di perdere un’altra barca di soldi. Sì perché, come dicevamo, da fine 2020, sarà in vigore il nuovo sistema di garanzia dei Lea, approvato nel dicembre 2018 in Conferenza Stato-Regioni. La nuova metodologia valuta distintamente le tre aree di assistenza e attribuisce loro un valore compreso in un range 0-100. La garanzia di erogazione dei Lea si intende raggiunta qualora, entro ciascun livello, sia raggiunto un punteggio pari o superiore a 60. Il punteggio di ogni area è determinato dalla media pesata di 22 indicatori, così suddivisi: 6 per l’area della prevenzione (copertura vaccinale pediatrica a 24 mesi per esavalente e MPR, controllo animali e alimenti, stili di vita, screening oncologici); 9 per l’attività distrettuale (tasso di ospedalizzazione di adulti per diabete, Bpco e scompenso cardiaco e tasso di ospedalizzazione di minori per asma e gastroenterite, intervallo chiamata-arrivo mezzi di soccorso, tempi d’attesa, consumo di antibiotici, percentuale re-ricoveri in psichiatria, numero decessi da tumore assistiti da cure palliative, anziani non autosufficienti nelle RSA); 6 per l’attività ospedaliera (tasso di ospedalizzazione standardizzato rispetto alla popolazione residente, interventi per tumore maligno al seno eseguiti in reparti con volumi di attività superiore a 150 interventi annui, ricoveri a rischio inappropriatezza, quota di colecistectomie con degenza inferiore ai 3 giorni, over 65 operati di frattura al femore entro 2 giorni; parti cesarei in strutture con più e meno di 1000 parti l’anno). Da una prima simulazione svolta sui dati del 2017, quasi tutto il Sud risulta inadempiente, ma appare evidente che non avendo messo il Mezzogiorno nelle condizioni di recuperare il gap dal Nord, inasprire i criteri di valutazione finisce per danneggiarlo due volte. E’ un dato di fatto certificato che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. Anche nel 2020, infatti, il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito logiche inique: meno risorse a parità di popolazione. E’ lo scippo della spesa storia che prosegue, qualche esempio? Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Figli e figliastri. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia ancora il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Le differenze sono palesi anche sul numero di dipendenti a disposizione: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità . Parlare di liste di attesa e mobilità passiva a fronte di questi numeri diventa quasi superfluo: provate a immaginare una partita di calcio dove una squadra schiera regolarmente 11 giocatori e l’altra invece 5, 6 al massimo 7. Come crediate possa finire? La risposta è abbastanza scontata. Come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 22mila lavoratori in più? Ecco perché criteri di valutazione più severi finiranno per danneggiare due volte il Mezzogiorno.

BERLUSCONI INVOCA UN NUOVO PIANO MARSHALL PER IL SUD? E' PER PORTARE ALTRI SOLDI AL NORD. GLI "ERPIVORI", QUANDO DE GASPERI RUBO' AL SUD I RISARCIMENTI AMERICANI DEL DOPOGUERRA. Di Annamaria Pisapia, vicepresidente nazionale M24A. Su "Il Popolo" del 25 luglio 1948, Don Luigi Sturzo si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori", cioè consumatori parassiti di fondi ERP,(european recovery program). Gli ERP, meglio conosciuti come Piano Marshall, erano i fondi destinati dal governo americano per la ricostruzione e il rilancio delle aree maggiormente devastate dall'evento bellico della seconda guerra mondiale. Don Luigi Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si batteva affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno, che era l'area maggiormente colpita, rispetto al nord, pressando i ministri in tal senso. Purtroppo il governo, presieduto da De Gasperi, ritenne di dirottarli in misura dell'87% al nord e solo del 13% al Sud favorendo il rilancio delle industrie settentrionali. Il ministro dell'agricoltura Segni inviò una lettera a Don Sturzo il 22 luglio 1948 in cui diceva: " A POCO A POCO, INDUSTRIA E NORD STANNO TENTANDO DI ACCAPARRARSI TUTTO. IO NEGOZIO, SINO ALLE ESTREME CONSEGUENZE, MA LA LOTTA E' IMPARI, SOLO, COLL'OTTIMO RONCHI; CONTRO QUASI TUTTI GLI ALTRI". (ALS 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Era nell'idea del governo e degli industriali del nord di puntare sull'emigrazione a basso costo del Sud per il decollo dell'economia italiana(nord). Così, di 1 miliardo e trecentomilioni di dollari, al Sud arrivarono le briciole. Purtroppo anche quelle briciole Don Sturzo dovette difenderle con i denti contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. E come era ovvio il pil di zone come il Veneto, fino ad allora povero, schizzò a +22% e al Sud diminuì del 10%. Ma con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , per istituire "La Cassa per il Mezzogiorno". Così, mentre i soldi dei fondi ERP se ne andarono in silenzio al nord, la "Cassa per il Mezzogiorno" venne annunciata con tanto di grancassa. Insomma, la prepotenza del nord fece in modo che i fondi ERP risultassero un risarcimento che gli era dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Inutile dire che il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Sud.

"GLI ERPIVORI: NEL 1948 DE GASPERI DIROTTO' I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA'? Di Annamaria Pisapia, vicepresidente nazionale M24A. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicopensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque (ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto (la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall'ospedale di Padova e di Brescia come "primi" ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l'emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce com“ nord, motore propulsivo". Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l'unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l'America annunciò l'avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell'Europa. Il piano prevedeva l'impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l'Italia, il Sud era l'area maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall'evento bellica. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l'87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su "Il Popolo" del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori" (consumatori parassiti di fondi Erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si battè affinché gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: "a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il Pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita "La Cassa per il Mezzogiorno" (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente".

Mes, De Luca furioso rilancia i temi dello scippo al Sud e della Grande Balla. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 30 giugno 2020. «Per dieci anni la Campania è stata penalizzata al di là di ogni decenza istituzionale e di ogni ragionevolezza. Sarebbe uno scandalo non tollerabile, perseverare con criteri da rapina verso il Sud e la Campania perfino per l’assegnazione di risorse aggiuntive e straordinarie. Siamo pronti ad accettare la sfida dell’efficienza nei confronti di chiunque ma ci tuteleremo in ogni caso in tutte le sedi», compreso rivolgendosi «al Capo dello Stato oltre che alla Corte Costituzionale, nel caso in cui dovesse essere formalizzata tale ipotesi». VIncenzo De Luca, governatore della Campania, rilancia con decisione, in alcune dichiarazioni quella che è una battaglia che il Quotidiano del Sud l’Altravoce dell’Italia ha intrapreso fin dal suo primo numero: porre fine allo scippo ai danni del Mezzogiorno in base al quale miliardi di euro, con il trucco della spesa storica, vengono fatti confluire verso le regioni del Nord a discapito delle regioni del Sud. Una operazione che inevitabilmente fa il paio con la grande balla, denunciata dal direttore Roberto Napoletano, secondo la quale il Sud vivrebbe sulle spalle del Nord. Una falsità dimostrata dai numeri della finanza pubblica e certificata dagli enti istituzionali della Repubblica e non certo da consulenti di parte. L’occasione per tornare sull’argomento a De Luca l’ha data la simulazione, pubblicata dal Corriere della Sera, in base alla quale è stata disegnata una mappa delle assegnazioni dei possibili fondi del Mes tra le regioni Italiane qualora il Governo vi facesse ricorso. Lo schema assegna le risorse in base agli attuali criteri di spesa, quindi la spesa storica, e porta come risultato l’ennesimo squilibrio a vantaggio del Nord e discapito del Sud ossia l’ennesima incarnazione dello Scippo al Sud. Le somme del Mes, sempre se il governo vi farà ricorso, hanno un unico vincolo ossia devono essere destinate alla sanità con specifico riferimento ad investimenti e spese dirette e indirette collegate alla pandemia da coronavirus Covid-19 e da spendere nel 2020 e nel 2021 per un ammontare complessivo di circa 36 miliardi di euro. Fondo immensi fondamentali per rimettere in piedi un settore, quello sanitario, fatto letteralmente a pezzi nel corso degli ultimi quindici anni al Sud molto più che al Nord. Con la scusa dei piani di rientro e delle spese poco chiare, infatti, in tutto il Mezzogiorno, e non solo in Campania, sono stati progressivamente tagliati ospedali, punti nascite, poliambulatori, assunzioni di medici e di infermieri, riducendo la sanità del Sud ad una piccola porzione della sua struttura originaria. Tagli effettuati badando esclusivamente ai bilanci spessa senza considerare l’importanza della presenza di un ospedale in un’area montana o la necessarietà di prevedere la presenza del giusto numero di addetti (infermieri, medici e personale amministrativo) nei vari reparti progressivamente ridimensionati o addirittura chiusi. Ma De Luca si infuria perché quel criterio da oltre un anno denunciato dal Quotidiano Del Sud (LEGGI TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE) si basa ricalcandolo pedissequamente sull’attuale criterio di riparto tra le Regioni del fondo sanitario nazionale basato sul principio che bisogna ignorare il numero totale degli abitanti presenti in regione in luogo delle incidenze di giovani e anziani sul totale della popolazione causando in questo modo una forte riduzione delle somme trasferite al Sud a tutto vantaggio, ancora una volta, del Nord. Appare palese, a questo punto, che per far ripartire l’Italia serve veramente cambiare i presupposti di partenza, rompere il diabolico meccanismo per cui chi è più ricco ottiene più fondi e chi è più povero ne ottiene sempre meno e ricordarsi che un cittadino italiano è tale in qualunque luogo della Repubblica risieda e, pertanto, alcuni servizi, e la sanità è indubbiamente il principale tra questi, non devono assolutamente soffrire decurtazioni in base a latitudine e longitudine. La crisi del coronavirus può veramente essere l’occasione per fare quell’Italia unita che in 160 anni non è stata fatta.

TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE. Dopo le “Operazioni verità”, il “Manifesto per l’Italia” e l’appello per gli Stati generali dell’economia la battaglia condotta del nostro giornale continua. Claudio Marincola Il Quotidiano del Sud il 13 giugno 2020. «L’unica battaglia che si è persa in partenza è quella che non si è mai combattuta». A qualcuno sembrerà esagerato scomodare addirittura il comandante Che Guevara per raccontare le campagne di questo giornale. Se diciamo però che aprire l’involucro delle mistificazioni e rovesciare le tante falsità spacciate per verità non è stato facile, credeteci. Per troppo tempo al Sud sono state sottratte risorse, investimenti produttivi, spesa pubblica. Un artificio contabile, un gioco da prestigiatori e, oplà, i conti tornavano. Una foresta pietrificata di pregiudizi, decenni di affabulazioni da smascherare.

OPERAZIONE VERITÀ SCIPPO SMASCHERATO. Sul Mezzogiorno, per anni, la fabbrica all’ingrosso della manipolazione ha prodotto fake. Numeri contraffatti diffusi come granitiche certezze. Presunti vizi antropologici diventati luoghi comuni, caricature geografiche. Siamo partiti dai numeri. Dai 61,5 miliardi l’anno. Con il trapano della Spesa storica lo Stato ha continuato a regalare al Nord, finanziando ogni genere di assistenzialismo. Abbiamo raccontato, cifre alla mano, come la Regione Piemonte spenda per i suoi servizi generale cinque volte più della Campania pur avendo un milione e mezzo di abitanti in meno. Da sola più di quanto sommano insieme Campania, Puglia e Calabria. Da queste colonne s’è sollevata, in britannica solitudine, la campagna fatta propria da questo governo e inserita nella legge di bilancio: l’iniqua distribuzione che ha privato il Sud di risorse destinando quote ben inferiori alla soglia del 34%, la quota di popolazione residente. Scippo raccontato frame dopo frame, come in un film. Titolo: “Operazione verità”. La banca del buco che ha scavato sottotraccia per anni – abbiamo scritto – nelle pieghe del bilancio italiano. Risultato: al Nord 735, 4 miliardi, il 71,7% della spesa pubblica totale totale, al Sud solo 290,9 miliardi. Uno scarto rispetto alla quota dovuta del 6%, pari, appunto, a 61,5 miliardi. Che vuole dire meno mense, meno servizi pubblici, asili zero o quasi, etc., etc.

IL MANIFESTO PER L’ITALIA E LA LETTERA DI CONTE. La lotta per ridurre le disuguaglianze vale al Nord come al Sud. Questo concetto, valido anche in Europa, lo abbiamo chiaro, ed è con questo spirito che nel settembre 2019 è stato sottoscritto il Manifesto per l’Italia (LEGGI), uno stimolo per politici, sindacalisti, ricercatori, studenti per far ripartire il Paese. Senza tuttavia mai perdere di vista la bussola: il Mezzogiorno, area geografica dal perimetro ben delimitato, il luogo in cui si è perpetrato un “delitto all’italiana” gettando le basi culturali ed economiche della mancata crescita nazionale. A rimetterci è stato infatti l’intero Paese, se è vero come è vero che già prima del Covid-19 Nord e Sud d’Italia erano gli unici territori europei a non aver raggiunto i livelli pre-crisi del 2008. Per l’esattezza: il nostro Meridione 10 punti sotto. Il 12 settembre la lettera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Caro direttore, accolgo con favore la dichiarazione di intenti del Manifesto, serve una fase nuova, ho condiviso con von der Leyen i contenuti dell’agenda riformatrice…». La favola di un Sud pigro e sprecone – generata da una classe dirigente inadeguata e corrotta – ha fatto da carburante per alimentare la macchina dello scippo perfetto. Ed ecco in che modo gli aiuti di Stato sono finiti in larga parte alla locomotiva d’Italia, la Lombardia che ora riesce a malapena a trainare se stessa. Dalla metà del 2017 la regione del presidente Fontana – un governatore che a volte sfiora forme di masochismo e si fa male da solo – ha incassato ben 3,5 miliardi di euro contro i 600 milioni della Campania. “Aiutini” di Stato andati anche a Veneto (1,5); Piemonte (1,3); Emilia-Romagna (1,3); Lazio (1,1); Toscana (1,0); Trentino-Alto Adige (1,0).

LE MANI DEL NORD SUI FONDI EUROPEI. Sono i numeri di un’Italia rovesciata. Con il Mezzogiorno che invece di aumentare la spesa degli investimenti pubblici la vedeva ridurre dello 0,5% rispetto all’anno precedente (Fonte Cresme). Il rischio di uno scenario da deriva greca, un Sud dove il reddito pro-capite è la metà o quasi del Nord, un sistema Paese che non tira più, il fantasma della Troika che avanza. Appena due mesi prima che si scoprisse la diffusione del virus a Cologno una nostra inchiesta sui carrozzoni suonava profetica: Il 42 per cento delle risorse sanitarie incassate dalle Regioni del Nord, il 20 per cento dalle regioni del Centro e il 23 per cento da quelle del Sud. Dati della Corte dei conti, diffusi in tempo non sospetti, in cui si diceva tra l’altro che la quota di riparto del fondo sanitario nazionale era cresciuta in Lombardia del 1.07 per cento contro lo 0,75 per cento della Calabria, lo 0,42 per cento della Basilicata e lo 0,45 per cento del Molise. In pieno lockdown c’è stato anche chi, qualche tecnico del Mef, ha pensato di sfruttare la catastrofe del contagio per dare alla Lombardia i finanziamenti dei fondi europei destinati al Sud. La catastrofe della catastrofe. Una “rapina di Stato” in tempo di pace.

RI-FATE PRESTO IL DECRETO ILLIQUIDITÀ. Con il protagonismo dei governatori si è scoperto l’inganno dell’autonomia differenziata. La sanità pubblica svuotata, i presidi territoriali dismessi, i vantaggi concessi al privato. I viaggi della speranza dei cittadini del Mezzogiorno per gonfiare le tasche dei privati. Il modello-Formigoni che stiamo ancora pagando a caro prezzo. In questo clima è partita la campagna “Ri-fate presto”. Un conto alla rovescia contro la burocrazia e contro “l’esproprio” del decreto di lancio. L’assurdo di uno Stato che invece di risarcire il danno arrecato ne approfitta per entrare nel capitale sociale delle aziende con Invitalia e Cdp. L’assenza di una cabina di regia, le responsabilità del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri. Il fallimento del decreto “illiquidità”, l’incapacità di fornire prestiti agli italiani e alle imprese in difficoltà. Il “tappo” delle banche ammesso ancora ieri da Bankitalia, la rabbia degli italiani e di quanti saranno costretti ad abbassare la saracinesca. Il ruolo della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario presieduta dalla deputata Carla Ruocco. Il caso limite degli “appestati”, i tanti italiani finiti per avventura o per disgrazia nella famigerata Centrale rischi della Banca d’Italia, Condannati “a morte” magari solo per una rata scaduta.

L’APPELLO PER GLI STATI GENERALI. Difficile in questi giorni liberarsi dall’impaccio del reale e sognare una ripartenza di slancio. La crisi da Covid ha messo a dura prova le difese immunitarie di un Paese già in sofferenza. La liquidità che arriva con il contagocce, le aziende che chiudono, il terrore di una seconda ondata, le nuove stime negative della Federal Reserve. Da qui l’urgenza di abbattere le burocrazie ministeriali e bancarie e dotarsi di un piano strategico di lungo respiro. È partito da queste considerazioni l’appello lanciato dal Quotidiano del Sud per la convocazione degli Stati generali dell’economia, l’esigenza di gestire in modo ottimale ed efficiente il fiume di denaro che arriverà dall’Unione europea. Un appello raccolto dal premier Conte, osteggiato da falchi, gufi e altri volatili in libera uscita, da gabbia o da voliera. E la battaglia continua.

Quando il Governo Letta penalizzò le Università del Sud per favorire quelle del Nord. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 6 maggio 2020. La sottrazione di risorse alle Università povere (quelle del Sud) per favorire le università ricche (quelle del Nord, che non sono affatto le migliori) ha determinato la migrazione di studenti (e di risorse finanziarie) dal Sud al Nord. Una vergogna infinita e uno scandalo ignorato. Sentire che tanti nostri studenti universitari, e i propri familiari, in questi giorni si lamentano di dover pagare affitti mentre le università sono praticamente chiuse, mi fa proprio male e mi costringe a riferire quello di cui pochi sono a conoscenza. Fu un provvedimento del governo di Enrico Letta e della ministra dell’Istruzione di allora, Maria Grazia Carrozza, a penalizzare fortemente le università del Sud con una sorta di decreto ammazza università meridionali che ha dato soldi alle università ricche e li ha sottratti a quelle povere. Badate bene, non a quelle migliori, a quelle più ricche. Lo scrive peraltro l’amico Pino Aprile nel suo ultimo testo “L’Italia è finita”, come sempre una miniera di informazioni. Tanto che l’economista barese Gianfranco Viesti – ricordo che è anche cittadino onorario della città di Vieste – ne scrisse un libro di denuncia: “La laurea negata”, arrivando a dire che tanto valeva farle chiudere. Un decreto che andò a peggiorare le già antimeridionali norme dei precedenti ministri Profumo e Gelmini. Ora uno studente meridionale su due (8 su 10 in Basilicata) sceglie un università del Nord e questo comporta l’ennesimo esborso di miliardi che passano da Sud a Nord, quasi non bastasse la tristissima e abominevole emigrazione sanitaria. Questa politica di sottrazione di fondi e di risorse al Sud è stata condotta senza interruzione e indifferentemente da governi di tutti i colori, destra, centro e sinistra. Ma pochi di noi se ne sono accorti, perché la politica ormai è diventata il regno degli incapaci e degli ignoranti. La manipolazione politica-mediatica al servizio dei poteri finanziari e politici nord-centrici, quotidiana da almeno 35 anni (vedere i dati riportati dagli studiosi di processi comunicativi Cristante e Cremonesini) ci ha invece fatto credere che sia tutto normale. Non lo è affatto! Nonostante tutto, nonostante la continua e discriminante sottrazione di fondi, molte delle nostre università restano ad alti livelli. Vorrei inoltre ricordare che la prima, grande università italiana è stata la Federico II di Napoli da cui fino al 1861 uscivano la maggior parte dei laureati in Italia. Infatti la Federico II è nata nel 1224, mentre le tanto decantate “Politecnico di Milano” e la super propagandata “Bocconi” sono sorte rispettivamente nel 1863 e nel 1902. Non vi cito neppure poi quelle sorte durante la lunga parentesi leghista e nordista che abbiamo attraversato e da cui non siamo ancora usciti.

Recensioni - 23 Maggio 2018 “La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria” di Gianfranco Viesti. Recensione a: Gianfranco Viesti, La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 154, 12 euro (scheda libro). Scritto da Francesco Corti 28 maggio 2018. Un libro tascabile, come recita il nome della collana dell’editore Laterza che lo ha pubblicato, è la caratteristica principale dell’ultimo saggio di Gianfranco Viesti La laurea negata. Un testo che, nelle intenzioni rese subito esplicite dall’autore, ha, in primo luogo, l’obiettivo di essere divulgativo, di dare al vasto pubblico, quello lontano dalle università, alcune risposte a domande e interrogativi che spesso accompagnano il dibattito mediatico sul mondo accademico e sul suo rapporto con il mondo del lavoro e dell’amministrazione pubblica. Viesti presenta una rassegna dettagliata e precisa dei principali problemi che investono l’università italiana, riprendendo alcuni stereotipi ad essa connessi, dalla bassa qualità dei docenti alla scarsa competizione con le università all’estero. Per ognuno di questi temi, l’autore offre una presentazione sintetica ma, allo stesso tempo, esaustiva e soddisfacente, che stimola approfondimenti e nuove riflessioni. L’obiettivo principale del libro è chiaro: rompere i tabù e i luoghi comuni intorno all’università italiana, offrire un quadro d’insieme sulle evoluzioni più recenti del sistema accademico italiano e provare a lanciare alcuni stimoli per un tavolo di discussione sulle sfide a venire. Per fare questo, Viesti inizia la sua analisi offrendo una prospettiva storica, che muove da un’iniziale presentazione delle problematiche strutturali del sistema di educazione terziaria in Italia per poi concentrarsi, sulle più recenti evoluzioni. Il dato generale rilevato è allarmante. A partire dal 2010, anno della riforma Gelmini, e inizio della parabola discendente degli investimenti pubblici dell’Italia nell’università, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Contrariamente ad altri Paesi dell’Unione Europea, Germania in primis, che, invece, hanno aumentato la spesa per le università, l’Italia ha assistito ad una riduzione drastica del personale docente, attraverso il blocco del turnover e quindi delle assunzioni di giovani ricercatori, i quali hanno rinunciato a proseguire il percorso accademico in Italia o hanno rinunciato alla prospettiva accademica in via definitiva. Al taglio strutturale delle risorse, si è accompagnato un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Questo disinvestimento nell’università ha evidentemente determinato, come conseguenze, maggiori difficoltà da parte delle famiglie a mantenere il percorso di studi dei figli, e conseguentemente una contrazione delle immatricolazioni.

Risparmiare sull’istruzione. Questa riduzione delle iscrizioni è stata ovviamente diversificata a seconda del settore disciplinare, con le materie di area umanistica che hanno osservato un calo ben superiore al 20% della media nazionale, e a seconda della provenienza geografica, con un effetto ben più marcato al Sud Italia rispetto al Nord. La mancanza di un sistema di infrastrutture e trasporti adeguato, specialmente nel Meridione e la conseguente necessità di trasferirsi per poter studiare, ha portato le famiglie che hanno potuto permetterselo a mandare i propri figli nelle università del Nord, considerate di migliore qualità e con maggiori possibilità di trovare un lavoro successivamente alla laurea. Anche in questo caso, spiega bene Viesti, la retorica delle università di serie A e di serie B non ha indubbiamente aiutato a contenere quello che, oggi, si è trasformato in un vero e proprio fenomeno di migrazione dal Sud al Nord Italia. L’esito è stato la creazione di un gruppo ristretto di università di “eccellenza” in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre il resto delle università italiane (prevalentemente del Centro, del Sud e delle Isole, ma anche del Nord “periferico”) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse. La retorica dell’eccellenza, supportata da quella che Viesti chiama «una densa cortina di indicatori ed algoritmi», non ha però aiutato ad individuare i problemi strutturali presenti nelle regioni meno sviluppate e svantaggiate del paese. Al contrario, essa è stata utilizzata come giustificazione per l’attuazione di ulteriori disinvestimenti. Il tutto sotto il motto “meritocrazia virtuosismo valutazione”, che è stato fatto proprio dal vero nuovo giudice e deus ex machina della politica universitaria italiana: l’ANVUR. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, commenta Viesti, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. I suoi commissari sono scelti nominativamente dal Ministro e non sono rappresentativi di tutte le componenti del sistema universitario. Il potere dell’ANVUR nella valutazione è pressoché totale tanto da poter ignorare, come già accaduto in passato, anche il parere dello stesso Parlamento. Solo il ministro ha il potere di controllarne l’operato ma, spesso, questo non succede. Per questo si lascia che un’agenzia decida, attraverso una serie di indicatori che si dicono essere “oggettivi”, la valutazione delle performance degli atenei e la destinazione dei finanziamenti. Taglio degli investimenti, de-responsabilizzazione politica e delegazione della valutazione delle performance degli atenei ad un gruppo ristretto di tecnici sono fattori che hanno determinato un cambio strutturale all’interno del mondo accademico italiano. A questo cambiamento nelle forme di finanziamento, nei meccanismi di governance e di controllo, come sottolinea bene Viesti, si è accompagnato anche un cambio di paradigma, a livello normativo. Insieme agli attori, si potrebbe dire, sono cambiate anche le idee. A partire dal 2008, infatti, nel clima delle riforme dettate dalle necessità di maggiore austerità, l’Italia si è sempre di più avvicinata ad un modello neo-liberale di finanziamento del sistema universitario, molto simile all’esempio anglosassone. Commenta Viesti: «L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati” (n.d.r. l’ANVUR), in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico». Troppi studenti, troppi professori, assunzioni facili, troppi costi, bassi standard internazionali, poca voglia di studiare, poco merito: questi sono stati gli argomenti che hanno accompagno la nuova retorica del merito, con la quale poi si sono giustificati, come necessari, i tagli indistinti ai finanziamenti. Indicatori “oggettivi” per premiare il “merito” e fermare gli “sprechi”: quale migliore argomento in tempi di austerità e crisi?

Il modello di università a cui dovremmo ambire secondo Viesti. Eppure, come mostra bene Viesti, nel suo saggio, le performance del sistema universitario italiano non sono al di sotto di quelle degli altri stati membri dell’UE, sia in termini di numero pubblicazioni sia in termini di qualità della ricerca. Addirittura se confrontati a parità di condizioni di partenza, l’università italiana avrebbe un potenziale anche maggiore. Il che sorprende se pensiamo che l’investimento italiano nel settore dell’educazione terziaria è di gran lunga inferiore agli altri stati membri dell’UE. Per dare un’idea, nel 2015 il finanziamento pubblico in Italia è stato di 7 miliardi, contro i 28,7 della Germania, dei 23,7 della Francia e dei 9,8 del Regno Unito, che prevalentemente si basa su un sistema di risorse private. Ancora, rapportando la spesa pubblica alla popolazione, si vede che nei Paesi Scandinavi la spesa media annua per l’educazione terziaria per abitante è di 600 euro, 350 in Germania e Francia, 150 nel regno unito e solo 110 in Italia. Se dunque la realtà dell’università non corrisponde all’immagine che se ne è voluto dare, cadono anche le giustificazioni retoriche che hanno accompagnato i tagli di questi ultimi anni. A meno che, chiaramente non si ritenga che, nonostante, tutta l’università non sia importante.  Su questo aspetto, non è mancata la retorica di chi ha voluto sottolineare l’assenza di un collegamento con il mondo del lavoro, l’incapacità delle università italiane di fornire ai propri studenti strumenti, capacità e competenze oltre che nozioni. Anche su questo punto, Viesti offre una prospettiva alternativa, che non nega il problema esistente relativamente al passaggio tra mondo dell’università e quello del lavoro, ma inserisce il dibattito in una cornice più complessa e meno semplicistica. Ad esempio, portando i dati riguardo l’indice di occupazione dei neo-laureati, che è di gran lunga maggiore rispetto ai non laureati, a prescindere dal tipo di settore disciplinare. Ma la riflessione del professore di economia, non si limita ad una semplice analisi dei costi benefici. L’argomentazione va ben oltre e si inserisce in un quadro più ampio di visione della politica e della società. Abbracciare, come è stato fatto in questi anni, un approccio all’università basato sui tagli e sull’investimento in presunti centri di eccellenza significa, infatti, perdere di vista la funzione politica dell’università, come motore di progresso sociale, emancipazione di luoghi e spazi geografici, creazione di idee e novità e culla di coscienza critica e partecipazione democratica. Ed è proprio questa riduzione dell’università ad una logica di mercato, ad un’analisi dei costi e benefici che Viesti critica. Non dovrebbe essere questo, infatti, il modello di università cui vorremmo ambire, secondo l’autore, che per questo, alla fine del suo saggio, prova ad offrirci un quadro alternativo e inizia ad abbozzare anche alcune prime risposte.

Scritto da Francesco Corti. Nato nel 1992. Dottorando in Studi Politici presso l'Università degli Studi di Milano, dove si occupa di Unione Europea e politiche sociali. Fa parte del team di ricerca "REScEU: Reconciling economic and social Europe" e della FEPS YAN. Ha lavorato al Parlamento Europeo e continua, tuttora, come prestatore di servizi.

“LA LAUREA NEGATA. LE POLITICHE CONTRO L’ISTRUZIONE UNIVERSITARIA”. Di Gianfranco Viesti su letture.org.

Prof. Gianfranco Viesti, Lei è autore del libro La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria edito da Laterza: qual è lo stato dell’università italiana?

«L’università italiana aveva problemi di quantità e di qualità. Era molto più piccola, in comparazione con gli altri paesi avanzati. Mostrava criticità nel suo funzionamento. Le riforme l’hanno portata in una direzione estremamente discutibile: l’hanno fatta diventare di dimensione inferiore, ma non di migliore qualità. Nel giro di pochi anni l’Italia ha percorso a grandi passi all’indietro il cammino verso un maggiore livello di istruzione superiore della sua popolazione. L’università italiana, per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola: di circa un quinto. La riduzione è stata molto maggiore di quanto non sia avvenuto negli altri comparti dell’intervento pubblico. Né ha paragoni negli altri Paesi colpiti dalla crisi. Va comparato con aumenti anche sensibili registrati altrove, a partire dalla Germania. Il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Per tagliare così tanto la spesa si è ridotto il numero dei docenti (che rappresentano la principale voce di costo delle università) attraverso un prolungato blocco del turnover, cioè del ricambio del personale andato in pensione. I docenti sono diminuiti di quasi quindicimila (e il personale tecnico-amministrativo si è pure notevolmente ridotto). Le porte dell’università sono state chiuse a tutta una leva di giovani ricercatori. Una parte di essi si è dovuta accontentare di posizioni precarie, sottopagate e senza prospettive chiare di carriera. Un’altra parte ha preso la via dell’estero: ha avuto accesso ai sistemi universitari degli altri paesi, soprattutto europei, cui abbiamo regalato un “capitale umano” formato e di qualità. L’età media dei docenti, senza ricambio, è cresciuta molto. Al taglio draconiano delle risorse pubbliche è corrisposto un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Ciò ha acuito le difficoltà economiche delle famiglie; non poche hanno rinunciato all’istruzione universitaria per i propri figli. Anche le immatricolazioni – già molto inferiori a quelle degli altri paesi europei – sono diminuite di circa un quinto rispetto ai livelli massimi del passato. Hanno rinunciato all’università più degli altri i diplomati degli istituti tecnici e professionali; quelli provenienti da famiglie a reddito più modesto; quelli del Mezzogiorno. I tagli non sono stati uguali per tutti: e il sistema, oltre che più piccolo è divenuto molto più differenziato al suo interno. Si sono ridotti molto di più gli insegnamenti di area umanistica. Si è teso a creare una netta suddivisione fra atenei di serie A, relativamente protetti, e atenei di serie B, su cui si sono concentrati i tagli. Si è creato un piccolo gruppo di università di serie A in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; il grosso delle università italiane (del Nord “periferico”, del Centro e del Sud continentale) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse; gli atenei di Sicilia e Sardegna sono stati ridotti ai minimi termini. Si è deciso di disinvestire, per la prima volta nella storia unitaria, nella formazione superiore proprio nelle aree del paese in cui i livelli di istruzione sono più bassi (bassissimi in comparazione europea), e il ruolo delle università più importante. Sono state messe in atto una serie di misure che hanno favorito la migrazione degli studenti dal Mezzogiorno verso il resto del paese. Si è provato a mascherare questa scelta dietro una densa cortina di indicatori ed algoritmi, e dietro i ripetuti, onnipresenti, richiami al merito e all’eccellenza. In realtà si è operata una scelta politica esplicita, frutto della convinzione che sia bene concentrare le risorse sulle aree più forti del paese. La vita delle università e degli universitari è venuta sempre più ad essere dominata da un insieme minuzioso di regole e prescrizioni emanate dal Ministero, e, ancor più dall’Anvur. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. Composta da Commissari scelti nominativamente dal Ministro, non rappresenta le diverse componenti del sistema universitario; non si cura di raccogliere e suscitare consenso intorno alle sue decisioni. È depositaria della verità: conosce tutti i problemi, e soprattutto tutte le soluzioni; e le mette in atto attraverso poteri coercitivi. Il sogno del riformatore illiberale: un gruppo di saggi, di “prescelti” che finalmente illumina la via, e costringe un sistema anarchico e irresponsabile a seguirla. In barba al Parlamento e al dibattito pubblico, l’Anvur ha fatto e fa una parte molto importante della politica della ricerca nel nostro paese. Stabilisce cosa è ricerca di qualità e non; quali sono i campi e le metodologie di indagine opportune e quali meno; e a tutto applica rigidi indicatori numerici. Vicende che potrebbero assumere anche connotanti divertenti, nelle loro dimensioni orwelliane, se non stessero plasmando a rigida indicazione di un ristretto numero di sapienti le dimensioni di istituzioni, che dovrebbero godere di autonomia ed essere fucina di saperi critici e confronto di opinioni».

Perché l’università è importante?

«In primo luogo perché il minore livello di istruzione della popolazione, e in particolare la scarsa diffusione degli studi universitari, è certamente uno dei fattori che ha ostacolato e ostacola il complessivo sviluppo economico del nostro paese. Quantomeno per mantenere il proprio posizionamento nel quadro internazionale del futuro, all’Italia serviranno nei prossimi lustri molti più laureati. Soprattutto considerando che la percentuale di laureati fra gli occupati italiani è oggi molto inferiore a quella degli altri paesi europei (circa la metà rispetto a Regno Unito, Francia, Spagna); lo stesso accade fra i manager e gli stessi imprenditori. Averli non garantisce di per sé la prosperità futura. È necessario che siano dei “buoni” laureati: con un elevato bagaglio di conoscenze, ma soprattutto con un processo formativo che consenta loro di acquisirne continuamente di nuove. È necessario che essi siano assunti dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche con contratti che garantiscano loro prospettive di impiego e di carriera, con stipendi che premino le loro capacità. Va favorita la loro possibilità di auto-impiego e di avvio di nuove imprese, attraverso lo sviluppo di canali finanziari specializzati e la riduzione degli ostacoli che essi trovano sul loro cammino. Una politica per l’istruzione richiede una buona politica industriale e dell’innovazione per produrre forti risultati economici. La disponibilità di molti buoni laureati è condizione necessaria ma non sufficiente. Ma, appunto, è necessaria. Ed è un investimento profittevole per la collettività. I calcoli dell’OCSE producono risultati indiscutibili: la circostanza che un cittadino italiano arrivi alla laurea invece che fermarsi al diploma determina un beneficio monetario pubblico intorno ai duecentomila dollari, sei volte superiore al costo pubblico dei suoi studi. L’accesso all’università è, e sarà sempre di più, una opportunità essenziale di realizzazione personale. Specie per chi proviene da famiglie senza rilevanti patrimoni o redditi elevati; per le donne; per chi nasce nelle regioni più deboli. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa: le disparità economiche e sociali si trasmettono molto dai genitori ai figli. La formazione universitaria continua a rappresentare un motore di mobilità: fra i laureati italiani solo tre su dieci hanno almeno un genitore laureato; solo due su dieci a Bari o a Cagliari; ancora meno in Basilicata: sono le percentuali più basse fra tutti i paesi avanzati. Offre la possibilità a chi proviene da condizioni economiche e sociali più modeste di modificare la propria collocazione sociale; di impedire, per quanto possibile, che le caratteristiche delle famiglie e dell’ambiente d’origine determinino lo status economico e sociale. Ci si riesce solo in parte: le probabilità di frequentare l’università resta ad esempio decisamente più alta per chi proviene da famiglie a maggior reddito. Motivo per estendere l’istruzione superiore a fasce più ampie di giovani, specie promuovendo strumenti che rendano concreto il diritto allo studio per chi ha minori possibilità economiche. Ma l’importanza dell’università non si ferma ai benefici per chi la frequenta. Come la scuola, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo civile e sociale di un paese. Avere più laureati produce effetti positivi per l’intera collettività. Una popolazione con un maggiore livello di istruzione è in grado di badare meglio alla propria salute: è maggiore la consapevolezza dell’importanza della prevenzione, e del costo di comportamenti a rischio. Questo consente, oltre che un migliore benessere individuale, notevoli risparmi per i sistemi sanitari pubblici. Le tavole di mortalità per livello di istruzione mostrano che mediamente un laureato (maschio) ha una aspettativa di vita di 5,2 anni superiore rispetto ad un italiano con al più la licenza media. L’istruzione produce cittadini più attivi e responsabili, con una maggiore partecipazione alla vita politica e culturale: la presenza di università in una regione è collegata ad un atteggiamento favorevole ai valori democratici dei suoi cittadini. L’innalzamento del livello medio di scolarizzazione della popolazione implica una consistente riduzione della probabilità di commettere reati sia contro la persona che contro il patrimonio; l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere perché ne riduce il guadagno aggiuntivo, aumenta le opportunità di socializzazione e rende meno probabili gli effetti imitativi devianti diffusi in comunità deprivate. Anche in Italia, gli ambiti sociali e le aree geografiche in cui è minore il livello di istruzione sono quelli in cui vi è maggiore diffusione della criminalità».

Quali politiche universitarie sono state adottate nel nostro Paese?

«L’Italia ha compiuto, a partire dal 2008, una delle scelte che più peseranno sul suo futuro: quella di comprimere e distorcere il proprio sistema universitario pubblico. Il processo è stato avviato prima delle politiche di austerità e dell’enfasi sulle “riforme strutturali”. Ma dal clima politico-culturale cui si è accennato ha tratto forte alimento. La volontà politica del Ministro Tremonti di colpire finanziariamente le università ha incontrato gli interessi di alcuni atenei a definire un sistema su più livelli di qualità, in cui essi fossero al vertice. Le parole d’ordine neo-liberali, derivate in particolare dall’esperienza del Regno Unito, sono penetrate anche in ambienti del centro-sinistra “moderno”. L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati”, in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico. Il sistema è stato radicalmente trasformato da una valanga di norme. Il Parlamento ha approvato una legge di riforma (la “Gelmini” del 2010) di portata piuttosto ampia, ai tempi del governo Berlusconi. Ma i suoi effetti sono stati amplificati e precisati da un vasto insieme di provvedimenti successivi. Cambiato il governo, non sono mutate per nulla le scelte politiche; anzi un filo coerente si è dipanato attraverso l’azione di esecutivi apparentemente di indirizzo ben diverso: da Berlusconi a Monti, a Letta, con forte slancio con Renzi. Come se questi governi avessero idee identiche sul presente e sul futuro di una istituzione così complessa e articolata come l’università. Come se non ci fossero più differenze sui grandi temi che le politiche universitarie coinvolgono: l’universalismo dei diritti, costi e benefici dei servizi pubblici, lo sviluppo territoriale, gli indirizzi per la ricerca. Condividendo un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio. Un pensiero che corrisponde a una narrazione sommaria: l’università italiana, come si vede dalle classifiche internazionali, è scadente e i suoi professori non sono promossi per merito; lavorano poco e in modo antiquato: fanno poca ricerca sugli standard internazionali; gli studenti sono troppi, e molti fra di essi sono pigri, “fuori corso” e vogliono studiare sotto casa. Non vale quanto costa allo Stato. È un prodotto dell’Italia del passato, della Prima Repubblica, della spesa pubblica e delle assunzioni facili. Occorre allora praticare la valutazione e premiare il merito; selezionare diversamente i docenti e incentivare gli studenti a muoversi e a frequentare gli atenei migliori; è necessario sostenere i corsi di laurea moderni e utili, legati direttamente al mondo del lavoro. Disboscare la rete delle università; concentrare le risorse finanziarie su alcune, di eccellenza e fare in modo che le altre costino molto meno alla collettività. Una comunicazione che a strizza l’occhio all’Italia preoccupata dalla crisi e attenta al proprio particolare. “Risparmio”, per tutelare il portafoglio del contribuente; “merito” al posto della spesa pubblica a pioggia del passato, per combattere i corrotti e i fannulloni; indicatori “oggettivi” e tecnici al posto di scelte politiche; la tutela degli interessi dei territori più forti. L’attuazione di questo pensiero è stato affidata ad una piccola élite: alcuni dei Ministri che si sono succeduti, specie quelli provenienti dalle fila delle università; alcuni dirigenti apicali del Ministero; alcuni consulenti della Presidenza del Consiglio; alcuni docenti chiamati a guidare la nuova Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, l’Anvur. Come sta avvenendo per altre importanti politiche pubbliche (ad esempio i criteri di finanziamento degli enti locali), l’effettivo potere decisionale è stato di fatto sottratto alle rappresentanze parlamentari e concentrato nelle mani di pochi esperti. Essi, apparentemente, sono immuni dai condizionamenti deteriori della politica, sanno quel che serve al paese, operano in base a criteri oggettivi di efficienza e di merito. In realtà, sono orientati dalle proprie convinzioni politico-ideologiche, in ossequio alle quali costruiscono gli indicatori e le norme: che presentano però sempre come scelte tecniche, mascherandone i criteri di scelta e le conseguenze politiche».

Di quali riforme ha bisogno l’università italiana?

«Non si sfugge: serve un investimento pubblico molto più grande sull’università italiana; che ci avvicini progressivamente alla situazione degli altri paesi europei e inverta le tendenze delle politiche degli ultimi anni. Bisogna investire risorse pubbliche molto maggiori in primo luogo sul diritto allo studio, e in generale sui servizi per gli studenti per accrescere progressivamente i tassi di passaggio dalle superiori all’università, specie per i ragazzi e le ragazze di estrazione sociale più modesta e provenienti dai territori più deboli; per accompagnarli meglio nel loro percorso di studio, abbattere gli abbandoni e aumentare così il livello complessivo di istruzione. È necessario ricondurre la tassazione universitaria ad una funzione ancillare rispetto al finanziamento statale, ben delimitata e governata da principi condivisi: tetti invalicabili rispetto al finanziamento pubblico e interventi di esenzione validi per l’intero paese. Porsi questi obiettivi significa anche investire sulle città: intervenire sulla qualità della vita urbana, sui trasporti, sulla produzione e fruizione di cultura per i ragazzi. Investimenti proficui: città con più studenti non sono solo più vive e più belle: ma sono anche incubatori di idee, progetti, imprese. In secondo luogo l’investimento va mirato sui giovani studiosi: umiliati, vilipesi, tenuti al margine, spinti a fuggire. La politica degli ultimi anni ha chiuso le porte agli atenei e li ha resi un mondo sempre più anziano. È necessario un grande investimento per immettere progressivamente nelle università una nuova leva di studiosi, dare certezze a chi è precario, offrire una chance a chi è all’estero e accoglienza a giovani stranieri. Attraverso processi selettivi trasparenti, non bizantini né particolaristici; in cui siano valutate complessivamente capacità e conoscenze, abilità nell’insegnamento e qualità dei percorsi di ricerca dei candidati e non solo applicati algoritmi tanto complicati quanto distorsivi. Non servono regole dettagliate calate dell’alto: ma pochi principi e direttivi e una grande trasparenza. Un tema, quello del reclutamento, decisivo per ricreare fiducia nelle università e sulle università; e per renderle, grazie ad una nuova grande e qualificate leva di studiosi, un’infrastruttura culturale e scientifica di qualità sempre maggiore. L’investimento va fatto in tutto il paese. Anche in questo campo l’Italia deve guardare con attenzione molto più al modello tedesco che alle sirene del neoliberismo anglosassone. Un paese forte ha un sistema universitario diffuso e di buona qualità, presente sui territori, ricco di opportunità di collaborazione e con un’ampia mobilità, in tutte le direzioni, di docenti e ricercatori. Fra i frutti più avvelenati delle politiche degli ultimi anni vi sono certamente la grande incertezza della disponibilità di risorse, con la conseguente impossibilità di programmare; una sotterranea guerra fra sedi per spartirsi qualche briciola del finanziamento; l’attenzione al proprio particolare perdendo di vista l’interessa generale e del paese. Per raggiungere questo obiettivo, il sistema di finanziamento va semplificato e reso stabile. Il fondo di finanziamento ordinario potrebbe essere integralmente costruito sul costo standard, così come opportunamente, recentemente, riformulato dal Parlamento. Individuando così le risorse per ogni ateneo; e nella loro somma il fabbisogno complessivo di base del sistema da soddisfare. Meccanismo che, essendo parametrato al numero di studenti, stimola non poco le università a disegnare offerta formativa e servizi sempre migliori. La cosiddetta quota premiale, con i suoi meccanismi discrezionali e distorsivi andrebbe semplicemente abolita. Si dovrebbe saggiamente riconoscere di aver realizzato una lunga sperimentazione, ma con esiti molto negativi, e cambiare verso introducendo nel sistema altri schemi e meccanismi di governo, di incentivo e di premio per il miglioramento della qualità».

Gianfranco Viesti è Professore Ordinario di Economia Applicata presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro

 (LaPresse il 27 maggio 2020) - Il 50,7% dei prestiti garantiti dallo Stato, fino a 25.000 euro e fino a 800.000 euro, è appannaggio delle quattro grandi regioni del Nord dove, però, è attivo “solo” il 38% di partite Iva e pmi italiane. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si assicurano oltre la metà dei finanziamenti con paracadute pubblico, ma in quelle zone del Paese opera, in proporzione, un numero di imprese e professionisti nettamente inferiore alla quota di crediti in arrivo grazie al decreto liquidità; nel resto del Paese, opera il 62% di soggetti economici, ma la quota di prestiti si ferma al 49,3%. È quanto emerge da un’elaborazione realizzata dalla Fabi, secondo la quale, su complessivi 17,1 miliardi di euro di prestiti richiesti in Italia fino al 25 maggio, sfruttando il Fondo centrale di garanzia, in Lombardia le domande ammontano a 3,9 miliardi pari al 22,5% del totale, ma le imprese e le partite Iva, rispetto all’intero territorio nazionale, sono il 15,7%; in Veneto le domande valgono 1,9 miliardi ovvero l’11,5% del totale, mentre la quota di pmi e partite Iva si ferma al 7,9%; situazione simile a quella dell’Emilia-Romagna, con 1,7 miliardi di richieste, pari al 10,1% del totale, da confrontare con il 7,4% di imprese e partite Iva operanti sul territorio regionale; in Piemonte, unico caso fra le quattro maggiori regioni settentrionali, c’è un sostanziale equilibrio considerando che le domande valgono 1,1 miliardi, pari al 6,5% del totale nazionale e la quota di pmi e partite Iva si attesta al 7%. Dall’analisi della Fabi, dunque, emerge "un evidente divario tra la ripartizione, su base regionale, dei prestiti protetti dallo Stato col decreto “liquidità” e la distribuzione territoriale di partite Iva e piccole medie imprese. Ne consegue che alcune zone del Paese, di fatto, sono significativamente premiate e altre, specie al Sud, pesantemente penalizzate. Nel resto d’Italia, con l’eccezione di Marche e Umbria, il rapporto tra prestiti richiesti e percentuale di imprese è sempre in “deficit”, la quota di finanziamenti, in sostanza, è inferiore alla quota di pmi e partite Iva presenti rispetto al totale nazionale: nel Lazio le domande di prestiti valgono il 9,4% del totale (1,6 miliardi), le pmi e partite Iva rappresentano il 10,9% del bacino nazionale; in Toscana si raffronta il 6,2% delle richieste di finanziamento (1,1 miliardi) con il 6,2% di soggetti economici operanti; in Campania, i prestiti arrivano al 7,7% (1,3 miliardi) e le pmi/partite Iva al 9,8%; in Puglia, il confronto è tra il 4,8% di finanziamenti (812 milioni) e il 6,3% di operatori economici; in Sicilia il 5,0% di prestiti (848 milioni) va rapportato al 7,7% di pmi/partite Iva; in Abruzzo, le domande ammontano al 2,1% del totale (353 milioni), ma imprenditori e professionisti pesano per il 2,4%; in Calabria, il 3,1% di pmi e partite Iva italiane ha presentato richieste per l’1,6% del totale; in Liguria il 3,1% di pmi e partite Iva italiane ha presentato richieste per l’1,6% del totale; in Sardegna si raffrontano l’1,5% delle richieste di finanziamento (262 milioni) con il 2,8% di soggetti economici operanti; in Basilicata lo 0,7% di prestiti (114 milioni) va rapportato all’1% di pmi/partite Iva; in Trentino-Alto Adige, le domande ammontano all’1,3% del totale (221 milioni), ma imprenditori e professionisti pesano per l’1,8%; nel Molise le domande di prestiti valgono lo 0,4% del totale (64 milioni), le pmi e partite Iva rappresentano lo 0,6% del bacino nazionale; in Val d’Aosta, le domande ammontano allo 0,1% del totale (19 milioni), ma imprenditori e professionisti pesano per lo 0,2%". Proporzione quasi rispettata in Friuli-Venezia Giulia - sottolinea Fabi - i prestiti richiesti ammontano all’1,8% del totale (307 milioni), percentuale leggermente più alta della quota di pmi e partite Iva rispetto all’intero bacino nazionale (1,7%). Due le eccezioni ovvero le situazioni “favorevoli” lontane dal Nord: quella della regione Marche, dove la quota di finanziamenti è pari al 3,6% del totale (618 milioni), mentre le pmi e le partite Iva sono il 2,8%; e quella della regione Umbria, dove i prestiti valgono l’1,6% (277 milioni), mentre gli operatori economici sono l’1,5%. "Alcune banche, per loro convenienze, stanno penalizzando determinati territori e ne stanno favorendo altri: il risultato è che in specifiche aree del Paese, soprattutto del Sud, si sta allargando il rischio usura per le imprese, perché chi non ottiene finanziamenti in banca finisce molto probabilmente in mano alla criminalità organizzata. Sarebbe interessante conoscere i dati relativi ai tempi di erogazione da parte dei singoli gruppi bancari". Lo ha dichiarato il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, intervistato durante la trasmissione Tg2 Italia su Rai2, commentando il nuovo studio della Fabi sui prestiti a imprese e partite Iva garantiti dallo Stato. Secondo Sileoni "non c’è proporzione tra l’ammontare dei prestiti e il numero di partite Iva e pmi, ciò perché da parte di alcuni istituti c’è molta attenzione verso i territori settentrionali".

Gli aiuti al Nord con i soldi del Sud: lo scippo continua anche in piena crisi. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2020. Anche la sanità penalizzata per lo scippo al Sud. C’è quel 0,15% che dovrebbe essere cancellato e invece il tentativo è ancora quello di sottrarre soldi al Sud: dai finanziamenti per l’emergenza Covid che stanno finendo quasi esclusivamente nelle casse delle più grandi aziende del Nord, alla ridistribuzione e reimpiego dei Fondi coesione per pagare la Cig al Nord. C’è un’Italia che dovrebbe ripartire e rapidamente, dovrebbe farlo guardando allo sviluppo del Sud e invece proseguono gli scippi. Servirebbe una manovra che prenda le mosse da un punto fermo: ridare al Sud quello che gli è stato sottratto negli ultimi 20 anni.

FARE GIUSTIZIA. Per risollevare il Paese servirebbe un atto politico che rimetta le cose a posto, rendendo “giustizia” a un Mezzogiorno rimasto senza investimenti. All’Italia intera servirebbe correggere questa stortura, riportare gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del Pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi. Occorre riequilibrare la spesa pubblica che toglie ai poveri (il Sud) per dare ai ricchi (il Nord): basti pensare ai 62 miliardi dirottati verso le Regioni del Centro-Nord Italia. E se la cifra di 62 miliardi di euro riesce a inquietarvi, beh, pensate che la situazione è addirittura peggiorata: tra il 2016 e il 2017, infatti, il Mezzogiorno ha perso quasi un altro miliardo di euro l’anno.

IL DECLINO. Insomma, serve una manovra finalmente equa, che ridia ai cittadini del Sud la stessa qualità di servizi di cui gode chi vive al Nord. Perché è facile immaginare cosa voglia dire, ad esempio, 62 miliardi in meno: sanità meno efficiente, meno treni, meno bus, meno asili, scuole più insicure. In breve: meno diritti e opportunità. Al Mezzogiorno servono strade e ferrovie moderne. Ma non sulla carta, non solo sui progetti annunciati. La sintesi del declino della spesa infrastrutturale in Italia, e al Sud in particolare, sta nel tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2018, pari a -2% a livello nazionale: -4,6% al Sud e -0,9% nel Centro-Nord. Gli investimenti infrastrutturali nel Sud negli anni ’70 erano quasi la metà di quelli globali, mentre negli anni più recenti sono calati a quasi un sesto del totale nazionale. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro. Nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro. La conseguenza è che nel ranking regionale infrastrutturale della Ue a 28, la regione del Mezzogiorno più “competitiva” è la Campania, a metà graduatoria (134ª su 263), seguita da Abruzzo (161°), Molise (163°), Puglia (171ª), Calabria (194ª), Basilicata (201ª), Sicilia (207ª) e Sardegna (225ª). Basterebbe questa graduatoria a raccontare il gap infrastrutturale che il Sud ha accumulato negli anni non solo rispetto al Nord, ma nei confronti del resto d’Europa.

IL DISIMPEGNO. Al Sud, a parte la realizzazione di alcune tratte autostradali con terze corsie e l’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria, l’incremento di autostrade è stato molto limitato e si è concentrato tutto o quasi in Sicilia. «Il segnale del disimpegno degli investimenti pubblici in questo ambito – recita l’ultimo rapporto Svimez – sta nel peggioramento della dotazione relativa di autostrade nel Mezzogiorno. Rispetto alla media europea a 15 (posta uguale a 100), la dotazione di autostrade del Sud è passata dal 1990 al 2015 da 105,2 a 80,7». Per quel che riguarda la dotazione di linee ferroviarie, molto carente al Sud è lo sviluppo dell’Alta Velocità (AV), con soli 181 chilometri di linee, pari all’11,4% dei 1.583 chilometri della rete nazionale; nel Centro-Nord la rete è di 1.402 chilometri, pari all’88,6% del totale. Nel confronto con la Ue (rete AV ponderata sulla popolazione dei soli Stati membri dotati), l’indice di dotazione dell’Italia nel 2015 è pari a 116, con il Centro-Nord a 156,5 e il Mezzogiorno appena a 38,6. D’altronde basta guardare la cartina delle direttrici dell’Alta velocità – esistenti o ancora da realizzare – per accorgersi che l’Italia delle ferrovie – non solo quella, per carità- è spaccata in due: su tutta la linea adriatica, da Bari sino a Bologna, c’è il vuoto, così come dalla Puglia alla Sicilia. Mentre al Nord è fitta la “ragnatela” di linee che si intrecciano e uniscono ogni angolo dell’Italia settentrionale.

OCCASIONI PERSE. Se al Sud c’è solo il 16% dell’Alta velocità è merito di decenni di mancati investimenti. Si spiega così il fatto che le linee sono elettrificate per l’80% al Nord e per il 50% al Sud; oppure che al Sud circolano meno treni che nella sola Lombardia. I porti del Mezzogiorno, pur vantando numero e lunghezza degli accosti nettamente superiori a quelli del Centro-Nord, presentano una dotazione estremamente modesta, con un indice sintetico pari a 58,9, dovuto alla forte carenza di capacità di movimentazione e stoccaggio delle merci. Relativamente migliore risulta l’indice sintetico degli aeroporti (69,4), ma anche in questo comparto si scontano carenze qualitative dell’offerta (distanza dai centri urbani, aree di parcheggio aeromobili e superficie delle piste).

Basta scempi, svegliati Sud. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Mezzogiorno e regala al Nord è l’origine del declino italiano. Ora lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. E tutti i Governatori del Sud tacciono. Come sempre. Roberto Napoletano il 30 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tutti tacciono. Come hanno fatto negli ultimi venti anni. Hanno sempre qualche emergenza di cui occuparsi. Spicciano pratiche. Hanno una conference call dietro l’altra (prima incontravano gente). Zitti e muti. I soldi loro vanno da un’altra parte, ma loro non se ne accorgono. Se glielo spieghi, ti guardano strano. Preferiscono il silenzio. Dopo diranno che non hanno capito. Si spartiranno le briciole – se ci sono – che i ricchi lasceranno cadere dai tavoli imbanditi con le pietanze rubate ai poveri. Che sono loro. Quelli che stanno zitti quando dovrebbero urlare e strepitano o piagnucolano quando non serve a nulla. Allora, prendiamone nel gruppo uno a caso. Ci rivolgiamo al Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, e mettiamo tutto per iscritto a futura memoria. Non sappiamo con quale lanciafiamme sta facendo strage di virus contagiosi e non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscerle che ha dimostrato polso e testa nel contrastare questo brutto mostro. Ora, però, ci dobbiamo occupare dei morti di debiti e di fame non più di quelli da Coronavirus. Le facciamo presente che se avere chiuso un occhio con 60 e passa miliardi di spesa pubblica dovuti al Sud e regalati al Nord ogni anno negli ultimi dieci anni è stato grave, stare zitti oggi di fronte al nuovo scempio significa accettare in silenzio la sparizione del Mezzogiorno e di quel che resta della sua economia. La fervida mente dei burocrati del Tesoro ha approfittato della debolezza politica del ministro “politico” Gualtieri e ha fabbricato il più poderoso “decreto di illiquidità” concepito da un Paese occidentale alle prese con la Grande Depressione Mondiale. Se per avere 25 mila euro ti devi fermare davanti a 12 stazioni della morte e non vedi il becco di un quattrino, per i finanziamenti fino a 800 mila euro e poi fino a 5 milioni non ci sono neppure le istruzioni per chiederli. Il tasso di fragilità delle imprese meridionali è quattro volte superiore a quello delle imprese del Nord. Non hanno avuto nulla e quando arriverà qualcosina avranno già chiuso per sempre. A fronte di tutto ciò si arriva a concepire lo scempio di una dote straordinaria di 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti – a sostegno dell’economia l’anno scorso ha mobilitato 36,4 miliardi di risorse – per prendere partecipazioni temporanee nel capitale di imprese private ovviamente in crisi ovviamente al Nord. Basta prendersi in giro. La Cassa Depositi e Prestiti tedesca (Kfw) è il braccio armato fuori bilancio della Cancelleria Merkel e ha inondato di liquidità le piccole e medie imprese del suo Paese con passaggi bancari velocissimi. Finanzia grandi infrastrutture e grandi eccellenze tecnologiche. Noi alla nostra Cdp non chiediamo di inondare di liquidità le imprese italiane, a partire da quelle meridionali più vicine al default, ma la vogliamo azionista di Stato delle imprese decotte del Nord per la bellezza di 50 miliardi. Proprio quelli che servirebbero per l’unificazione infrastrutturale del Paese tra Nord e Sud a partire dai treni veloci. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Sud e regala al Nord – è l’origine del declino italiano – lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. Mi raccomando Governatore De Luca – lo dico provocatoriamente a lei ma vale per tutti i suoi colleghi e per chiunque abbia un po’ di sale in zucca della classe dirigente meridionale – non disturbiamo il manovratore e occupiamoci di distanze in casa e al bar. Gli acquisti della Banca Centrale Europea consentono a lei e all’allegra brigata di distrarsi ma non così a lungo. Qui gli acquisti sono poderosi non illimitati come in America, in Giappone, in Inghilterra e, per di più, la Lagarde a differenza di Draghi non sa parlare ai mercati. Consiglierei a tutti da Roma in giù di svegliarsi e di farsi sentire. Se questo tempo in più che il governo si è preso servirà per fare meglio, allora questo tempo è benedetto. Se servirà, complice l’imperdonabile silenzio del Mezzogiorno, a partorire il solito topolino, che si preoccupa di tenere in vita (male) solo un pezzo di Paese, allora sarà la fine del mondo. Errare è umano. Perseverare nell’errore è diabolico. Produce effetti non più controllabili.

BASTA REGALI CON I SOLDI DEL SUD. Hanno costruito al Nord tutte le infrastrutture con i soldi del Sud, ora approfittano della pandemia per regalare 50 miliardi alla Cdp e salvare le aziende decotte del Nord. Che cosa aspettano i Governatori del Sud a ribellarsi? Ultima chance per Gualtieri e Rivera: riequilibrate liquidità e spesa pubblica infrastrutturale. Roberto Napoletano su  Il Quotidiano del Sud il 29 aprile 2020. Non abbiamo più voglia di scherzare. Hanno regalato al Nord tutte le infrastrutture con i soldi del Sud per venti anni. Ora, approfittando della Pandemia globale, vogliono regalare 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti per dare alle aziende private decotte del Nord un socio di capitale che si chiama Stato e copre per sempre le loro nefandezze. Ancora una volta vogliono farlo con i soldi del Sud. Basta! Ministro Gualtieri, direttore del Tesoro Rivera, ve lo diciamo con chiarezza, la stagione degli scippi in tempi di pace è maleodorante, ma in tempi di guerra fa ribrezzo. Questo giornale non vi darà tregua da qui al decreto, vi controllerà a vista. Scruteremo riga per riga il testo. Andremo a vedere i bilanci a uno a uno delle aziende che finiranno nella lista dei regali pubblici. A chi appartengono? Dove si trovano? Chi le sponsorizza e perché? Scoperchieremo il pentolone senza riguardi per nessuno. Non vi daremo tregua, prima e dopo, perché la misura è colma. Non avete sbagliato un colpo per il peggiore sottogoverno nelle nomine nei Cda delle società pubbliche inventando mestieri e facendo strame di ogni regola di competenza. Non siete riusciti a togliere alle banche un solo vincolo, come la segnalazione alla centrale rischi, che taglia dall’accesso al credito la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese meridionali. Non riuscite a erogare contributi a fondo perduto perché avete escogitato (vero, dottor Rivera?) ogni genere di bizantinismo burocratico per cui i soldi a molte piccole imprese arriveranno quando avranno chiuso per sempre. Mentre voi occultate con mani sapienti ogni tipo di liquidità possibile tra Sace, Mediocredito, INPS, banche senza tutela penale, in Lombardia stanno “rimpatriando” dalla Svizzera i soldi della ‘Ndrangheta nel bresciano e si moltiplicano i faccendieri che danno le fideiussioni alle aziende che non hanno le garanzie che voi volete per avere prestiti e mutui. E così, di interposizione fittizia in interposizione fittizia, gli uomini dell’area grigia mettono un piede sempre più largo in un’economia reale che ha bisogno per colpe non sue di quella liquidità che una miope classe burocratica e una servile classe di governo impediscono loro di avere. Vergognatevi! Al Paese oggi, non domani, serve liquidità. Non azionisti pubblici amici degli amici che continuano a rapinare il soccorso pubblico dovuto al Mezzogiorno per foraggiare amministrazioni regionali assistenzialiste del Nord e un capitalismo privato del Nord che da tempo non sa più vivere di mercato. Al massimo, si affidino a Cdp strumenti di partecipazione tipo bond convertibili che finanziano l’impresa ma non entrano nel capitale. Non avremmo francamente mai creduto che i Gualtieri e i Rivera ci potessero regalare la società finanziaria comunista per cui, grazie al risparmio postale fortissimo al Sud, si diventa soci di capitale delle imprese decotte del Nord. Se non sbloccate entro una settimana la liquidità necessaria, che Paesi come Germania, Francia, Svizzera, hanno già trasferito da un mese a chi ne ha bisogno, ci sarà la rottura del patto sociale che garantisce la pace in tempi di guerra, ma se addirittura non date la liquidità oggi e architettate i vecchi trucchetti per togliere domani al povero e dare al ricco succede il finimondo. Avete un’ultima, residua, possibilità per riscattarvi. Siamo davanti a un evento straordinario? Sì, e ci sia allora un riequilibrio strutturale nella ripartizione di liquidità a fondo perduto e di spesa pubblica infrastrutturale di questo Paese tra Nord e Sud. Governatore De Luca, lo stesso lanciafiamme che ha usato nei confronti dei suoi concittadini per chiuderli in casa, vogliamo usarlo per garantire alla comunità e alla economia della sua regione i soldi che sono dovuti per la ripartenza? Vuole continuare a stare zitto e a subire, lei e gli altri Governatori del Sud, lo scippo da 60 miliardi l’anno di risorse pubbliche dovuti alle regioni meridionali per le loro sanità, le loro scuole e i loro trasporti, e regalati invece a un Nord che continua a tenere in scacco l’intero Paese? Perché non fa in pubblico qualcuno dei suoi numeri televisivi che lo hanno reso così popolare per difendere diritti che incidono sulla carne viva delle donne e degli uomini meridionali? Noi attenderemo tutti al varco perché questa volta sono in gioco la vita e la morte delle persone, la vita e la morte dell’economia. Questo giornale è nato per fare l’operazione verità sui conti pubblici e ci è pure riuscito, figuriamoci se ci tiriamo indietro in un momento come questo. Il Sud, presidente De Luca, deve riaprire prima del Nord, deve dimostrare di esserne capace, e deve avere le risorse che gli spettano. Commissario Arcuri, le fabbriche delle mascherine sono in Lombardia, vero, i soldi vanno in Lombardia, vero? Esiste un piano epidemiologico della Lombardia? No. Esiste un piano di tamponi? No. Esiste un piano di presidi sul territorio per affrontare nuove emergenze in Lombardia? No. Legga il grido di allarme che Carmela Rozza lancia dalle colonne di questo giornale. Siamo consapevoli che senza una sanità lombarda sotto controllo rischia il sistema produttivo lombardo e si tengono sotto scacco la società e l’economia di un Mezzogiorno che ha avuto comportamenti esemplari e continua a pagare un conto pesantissimo che non è suo? Che cosa si aspetta a commissariare la sua sanità regionale? Nessun Paese può vivere con una sola locomotiva peraltro “infettata” di provvigioni e prebende pubbliche senza limiti che hanno diffuso il male dell’assistenzialismo al Nord, sottratto linfa vitale al Sud, indebolito l’intero Paese. Presidente Conte, lei ha tenuto la rotta in momenti durissimi in casa e in Europa e è un uomo del Sud, non consenta a tecnocrati che pure avevamo apprezzato nelle trattative internazionali di mettere sotto scacco la politica per continuare a fare i soliti giochetti tra Nord e Sud. Non sappiamo come dirlo, ma non è aria.

Produzione delle mascherine, un affare appaltato al Nord ai danni del Sud. Claudio Marincola il 29 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le mascherine? C’è il rischio che diventeranno come la polenta o il Lambrusco. Specialità del Nord. Di origine controllata, made in Lombardia. Dei 50 milioni 195mila euro previsti dal decreto Cura Italia per riconvertire le aziende e spingerle a produrre dispositivi di protezione, ben 9 milioni 856.515 sono andati infatti a imprese lombarde. Prima del Codiv-19 producevano altro. Alla Basilicata, per dire, ne sono andati solo 960.700 mila, alla Sardegna 567mila, alla Calabria 1 milione 431mila, al Lazio 1.224.455mila. Insomma, la parte del leone, come al solito, l’ha fatta la nostra locomotiva. Finita in panne, come sappiamo, ma pronta a ripartire di slancio.

LA LEZIONE NON È SERVITA. Il grafico è disponibile sul sito di Invitalia.it: il 20% del budget complessivo è andato alla Lombardia. Alimenta il sospetto che l’esperienza drammatica che stiamo vivendo non abbia cambiato niente. La lezione del coronavirus, insomma, non è servita. Tutto, anche la produzione di dispositivi di protezione, continuerà a concentrarsi entro lo stesso perimetro industriale, sovrapponibile, guarda caso, alla diffusione del contagio. E agli altri? Le briciole. Le domande presentate e accolte dall’Ufficio del super commissario all’emergenza Domenico Arcuri sono state in totale 107. Con l’unica eccezione della Campania, che se n’è vista accogliere 13, il“ ”visto si finanzi” è andato a Lombardia, 17; Toscana, 14; Emilia-Romagna, 11; Marche e Puglia, 8; Abruzzo e Umbria, 5; Sicilia, 3; Basilicata, Sardegna e Piemonte, 2, Liguria, 1. Settanta domande hanno riguardato la riconversione, 37 l’ampliamento dei locali. Di mascherine ne servono diverse decine di milioni al giorno. Un business non da poco. E la truffa è sempre in agguato. Si va da aziende improbabili, pronte a sfruttare il momento, alle mascherine con il marchio Ce, che, però, non vuol dire certificate in Europa ma China export. Produrle al Nord vorrà dire intasare un’area già congestionata. Senza dire che al Mezzogiorno un po’ di posti di lavoro in più, diciamolo, non avrebbero fatto male. Sono scesi in campo i colossi: Armani e il gruppo Prada-Montone, inizialmente a scopo benefico. A ruota gli altri: Fippi Spa di Rho; Malex di Correggio; Nuova Sapi di Casalgrande; Md Massaflex di Massa Carra, che fino a ieri produceva materassi. E si è mosso anche il mondo della Legacoop, con 12 cooperative dedicate, In Veneto, tra le prime a riconvertirsi alla produzione di mascherine la veronese Quid.

MASCHERINE DI STATO. A CHI? Ancora da definire resta la questione delle macchine che serviranno per la produzione. Lo Stato ne ha acquistate 51. Le prime 17 verranno consegnate in comodato d’uso a 4 aziende di cui ancora non è noto il nome. Quando il Paese diventerà autosufficiente – sempre troppo tardi, purtroppo – il Mezzogiorno continuerà probabilmente a dipendere in gran parte dal Nord. E non viceversa. Occasione persa o solito strapotere? Ci sarebbe anche da dire che le aziende riconvertite sull’onda dell’emergenza lasceranno ai concorrenti consistenti quote di mercato. Più dispositivi facciali per difendersi dal virus malefico vuol dire meno capi di abbigliamento o meno altro che si produceva prima. Non era meglio, una volta tanto, puntare sul Sud, isole comprese?

LA PROPOSTA DEI DOCENTI SARDI. Da questa considerazione è partita forse la proposta del giurista Giuseppe Valditara, dell’Università di Torino e coordinatore di Lettera 150, un gruppo di docenti che si sta battendo per rallentare la corsa alla riapertura e uscire in sicurezza dal lockdown. La drammatica carenza di tamponi e reagenti e la chiusura dei mercati internazionali a seguito dei divieti di esportazione rendono sempre più urgente la necessità di pensare a una “produzione statale” di presidi strategici, come appunto le mascherine. E cosa propongono il professore e i suoi colleghi? «Di localizzare la produzione in aree naturalmente protette come Sardegna e Sicilia», anche perché così si potrebbero «rivitalizzare aree economicamente depresse oltre a garantire l’autosufficienza del Paese». Già. È cosi difficile?

Buoni spesa, firmata l’ordinanza per i 400 milioni ai Comuni: come funziona e chi ne avrà diritto. Redazione de Il Riformista il 30 Marzo 2020. Il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli ha firmato l’ordinanza che prevede lo stanziamento di 400 milioni ai comuni per provvedere alla distribuzione di aiuti alimentari a chi ne avesse bisogno. Una quota pari all’80% del totale per complessivi 320 milioni – si legge in una nota del Dipartimento – è ripartita in proporzione alla popolazione residente di ciascun comune. Il restante 20% per complessivi 80 milioni è ripartita in base alla distanza tra il valore del reddito pro capite di ciascun comune e il valore medio nazionale ponderata per la rispettiva popolazione. In ogni caso il contributo minimo spettante a ciascun comune non potrà risultare inferiore a 600 euro. Nel testo non viene specificato l’importo dei buoni spesa che verranno distribuiti ma, secondo quanto stabilito dall’ordinanza, sarà l’ufficio dei servizi sociali di ogni Comune a individuare la platea dei beneficiari. Inoltre la priorità sarà data a coloro che non sono già destinatari di altre misure di sostegno economico, come il reddito di cittadinanza. Durante la consueta conferenza stampa tenuta ieri sui numeri del contagio da Coronavirus, Borrelli aveva anticipato che “la gestione dei buoni spesa sarà a cura dei servizi sociali e i Comuni potranno avvalersi degli enti del terzo settore e di unità di protezione civile per l’acquisto delle derrate. L’ordinanza sarà immediatamente operativa”. 

Salvini ennesima gaffe, altro che 6€: per i più bisognosi qualche centinaio di euro per la spesa. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. Forse sperava di essere anche lui tra i beneficiari del nuovo sussidio annunciato dal governo che destina 400 milioni ai Comuni per fornire buoni spesa o beni alimentari di prima necessità a coloro ne hanno bisogno. Solo così si spiega l’errore marchiano del leader della Lega Matteo Salvini che ieri ha commentato così il nuovo decreto. “I 400 milioni di euro annunciati dal governo per aiutare le famiglie tramite i Comuni significano circa 7 euro a testa. Caspita, non sarà un po’ troppo? Forse pensavano all’uovo di Pasqua, ma agli Italiani serve ben altro!”. Una stima, poi corretta a 6 euro, ricavata dividendo lo stanziamento per tutta la popolazione italiana. Ma il calcolo, ovviamente, è errato. Il provvedimento, come annunciato dal presidente del Consiglio Conte e dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, risponde alla domanda sociale di quelle famiglie che, a causa dei provvedimenti conseguenti all’emergenza sanitaria, si trovano ora in gravi difficoltà economiche. Una domanda concentrata soprattutto al Sud e, infatti, la distribuzione delle risorse non sarà uguale in tutto il territorio. Non sono ancora stati stabiliti con precisione i criteri che porteranno all’attribuzione del sussidio: lo farà un’ordinanza della Protezione civile che incrocerà i dati di reddito pro capite, popolazione e indicatori Istat sulla povertà e sul disagio sociale. Pur non potendo stimare la platea dei beneficiare, una cosa è certa: i buoni non andranno a tutti gli italiani, come sostenuto da Salvini. L’ex vicepremier, infatti, ha ricavato la stima dei circa 7 euro, oggi ritrattati a 6, dividendo sic et simplicter, i 400 milioni per l’intera popolazione italiana, circa 60 milioni. Proviamo, invece a fare una stima basata sul numero dei poveri nel nostro Paese. Secondo gli ultimi dati Istat, il numero delle persone che versano in povertà assoluta, ovvero che dispongono di un reddito inferiore al costo dei servizi e dei beni essenziali, è di 5 milioni. Se la platea dei beneficiari dovesse coincidere con questo dato, a ciascun cittadino sarebbe destinato un importo di circa 80 euro. In una famiglia di 4 persone il buono alimentare arriverebbe a circa 320 euro. Ma facciamo una seconda ipotesi, tenendo in considerazione il numero dei poveri relativi, ovvero di quelle persone hanno un reddito pari o inferiore alla soglia di povertà, che si stima al 60% del reddito medio del Paese. Questa platea è quasi doppia rispetto alla prima, e comprende, secondo gli ultimi dati, almeno 9 milioni di cittadini. Il sussidio, quindi, raggiungerebbe i 44 euro pro capite, arrivando così a raggiungere i 170 euro circa per un nucleo di quattro persone.

Coronavirus, arrivano i buoni spesa: cosa sono e come richiederli. La Protezione Civile ha stanziato 400 milioni destinati ai Comuni da utilizzare per distribuire generi alimentari a chi ne ha bisogno. Fabio Franchini, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Quattrocento milioni e 180mila euro. Tanto ha stanziato la Protezione Civile, con un'ordinanza speciale firmata dal capo Angelo Borrelli, in favore dei Comuni italiani, invitandoli a servirsi del finanziamento per destinare e distribuire generi alimentari a chi ne ha bisogno. Un maxi-bonus che va così a creare i cosiddetti buoni spesa e che per l'80% del suo totale, ovvero per 320 milioni, è ripartito tra gli enti in base alla popolazione, mentre il restante 20%, cioè 80 milioni di euro, è redistribuito in base alla differenza tra reddito pro capite e reddito medio nazionale. Nel testo del documento ufficiale del provvedimento si legge che il contributo per ciascun comune dello Stivale non può essere inferiore a 600 euro: è questo il caso che interessa la scarsa cinquantina di comuni italiani di ridotte-ridottissime dimensioni. Come Morterone, in provincia di Lecco, o Zerba, in quella di Piacenza: alle rispettive amministrazioni sono destinati 600 euro. Si tratta di una sorta di "voucher"– il cui importo non è stato specificato - utilizzabile per l'acquisto di beni alimentari o di prima necessità, ma – stando a quanto si legge – "il riparto di fondi per nucleo familiare è assegnato una tantum pari a 300 euro". I 400 milioni messi a disposizione dalla Protezione Civile si vanno a sommare ai 4,3 miliardi di euro previsti dal Fondo di Solidarietà. Chi ne può usufruire, ovvero qual è la platea dei beneficiari? La priorità spetta a chi non è già destinatario di un altro sostegno pubblico, come il redito di cittadinanza o il sussidio di disoccupazione. A tal proposito, sarà decisivo il lavoro dell'ufficio dei servizi sociali di ogni comune del Paese. La regione più finanziata risulta essere la Lombardia, con 55,9 milioni di euro, seguita dalla Campania con 50,7 e dalla Sicilia con 43,5. In fondo alla “classifica”, Basilicata (4,5), Molise (2,4) e Valle d'Aosta, 680mila euro. Venendo ai comuni? 15 milioni di euro alla capitale Roma, seguita da Napoli (7,6), Milano (7,2), Palermo (5,1), Torino (4,6), Genova (3). A Vo' Euganeo (Padova) e Codogno (Lodi), i due primi focolai italiani dell'epidemia anzi pandemia di coronavirus, vanno rispettivamente 42mila e 169 mila euro.

IL BONUS SPESA REGIONE PER REGIONE

Abruzzo 9,4 milioni

Basilicata 4,5

Calabria 17,2

Campania 50,7

Emilia-Romagna 24,2

Friuli Venezia Giulia 6,6

Lazio 37

Liguria 8,7

Lombardia 55,9

Marche 9,4

Molise 2,4

Piemonte 24

Puglia 33,1

Sardegna 12,6

Sicilia 43,5

Toscana 21,4

Trentino Alto Adige 5,7 (2,8 provincia di Bolzano, 2,9 provincia di Trento)

Umbria 5,5

Valle d'Aosta 0,68

Veneto 27,7

Il 40 per cento dei buoni pasto finirà in tasca agli immigrati. Antonella Aldrighetti, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. La solidarietà del governo giallorosso ancora una volta strizza l'occhio ai cittadini extracomunitari iscritti nelle anagrafi comunali. Infatti stando agli ultimi dati diffusi dai Caf (Centri di assistenza fiscale) la popolazione più in linea con i requisiti per incassare il voucher per la spesa alimentare è proprio quella straniera, che secondo stime prudenti è tra il 30 e il 40% di tutti gli aventi diritto, scremando chi percepisce reddito o pensione di cittadinanza senza essere italiano. Per semplificare le procedure per richiedere il voucher le grandi città (Milano, Bologna, Torino, Roma, Bari, Napoli, e Reggio Calabria), si sono affidate a uno strumento tanto semplice quanto facile da usare in modo fraudolento: l'autocertificazione. Ciascun iscritto all'anagrafe, compresi i richiedenti asilo, potrà compilare a partire da questa mattina un modulo e inviarlo via posta elettronica o fax, specificare le proprie credenziali al numero di telefono dedicato e precisare se vorrà ricevere il voucher su un conto corrente bancario o postale riportando l'Iban oppure la stessa cifra in buoni spesa indirizzati al proprio domicilio. Ogni Comune che accetterà l'autocertificazione ha promesso controlli a campione. Ma per coloro che sceglieranno i buoni spesa sarà facile aggirare eventuali controlli: chi vorrà barare sui requisiti sociali e incassare il bonus non rischierà prelievi forzosi sul conto bancario. Quanto ai controlli a campione, saranno possibili solo se l'Inps consentirà verifiche veloci e capillari su tutti i percettori di voucher. Lunedì il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha voluto anticipare di un giorno la procedura per richiedere i buoni spesa. E il sito del Comune è stato preso d'assalto: 11 mila le richieste di aiuto, pari a 4 al minuto. E per uscire dall'impasse è stato deciso di bloccare le iscrizioni fino a lunedì 6 aprile. In questi giorni che restano si avvierà la verifica. «Evitiamo che qualche sciacallo provi a intrufolarsi» la chiosa di Orlando. E tra le strade possibili per l'erogazione dei soldi: buoni pasto, carta prepagata, convenzione con catene di supermercati. Già perché in ultima istanza se i primi voucher saranno erogati a metà aprile ce ne potrebbe essere un'altra ondata alla fine del prossimo mese e di uguale entità.

Emergenza alimentare: scopri quanta parte dei 400 milioni per buoni spesa andrà nel tuo Comune. Arrivano i fondi per acquistare e distribuire subito beni di prima necessità nei comuni, dando priorità agli indigenti che non hanno altro sostegno pubblico. Nicoletta Cottone su Il Sole 24 ore il 30 marzo 2020. Arrivano ai comuni i fondi per gli indigenti messi in ginocchio dall'emergenza coronavirus. Quattrocento milioni per comprare immediatamente beni di prima necessità e distribuirli tramite le associazioni di volontariato agli indigenti che non hanno altro sostegno pubblico. L'ordinanza n. 658 della Protezione civile segnala che il ministero dell'Interno entro il 31 marzo 2020 disporrà il pagamento di 400 milioni di euro, ripartiti per 386.945.839,14 in favore delle regioni a statuto ordinario, delle regioni Sicilia e Sardegna e per 13.054.160,86 euro in favore di Friuli Venezia Giulia, Valle d'Aosta e delle province autonome di Trento e Bolzano. Saranno contabilizzate nei bilanci degli enti a titolo di misure urgenti di solidarietà alimentare. Qui è possibile scoprire, Comune per Comune, come vengono ripartiti gli aiuti. La misura era stata annunciata dal premier Giuseppe Conte e dal ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. Conte aveva anche chiesto alle catene della grande distribuzione di applicare uno sconto aggiuntivo del 5 o del 10 per cento.

I criteri di ripartizione fra i Comuni. Le risorse sono state ripartite fra i comuni seguendo tre criteri concordati con l'Anci:

1) l'80% del totale - pari a 320 milioni - ripartito in proporzione alla popolazione residente di ogni comune;

2) il 20% - pari a 80 milioni - ripartito in base alla distanza fra il valore del reddito pro capite di ciascun comune e il valore medio nazionale, ponderata per la rispettiva popolazione;

3) il contributo assegnato a ciascun comune non può essere inferiore a 600 euro. Viene raddoppiato il budget assegnato ai comuni della zona rossa individuata dal Dpcm del 1° marzo: in Lombardia sono Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini, mentre in Veneto c'è Vo'. La quota prevista per i comuni con popolazione oltre i 100mila abitanti viene decurtata in proporzione, per assicurare il rispetto dei criteri individuati per ke zone rosse e i piccoli comuni.

Le donazioni. I comuni possono anche aprire dei conti correnti per donazioni da destinare alle misure urgenti di solidarietà alimentare. L'ordinanza ricorda che in base all'articolo 66 del decreto legge 18/2020 per le erogazioni liberali in denaro o in natura spetta una detrazione d'imposta del 30%, per un importo non superiore a 30mila euro. Gli acquisti si fanno presso gli esercizi commerciali contenuti in un elenco stilato da ogni comune e pubblicato sul sito istituzionale.

Dai buoni spesa ai prodotti di prima necessità. Le risorse assegnate dall'ordinanza e le eventuali donazioni potranno essere destinate dai comuni ad acquisire buoni spesa utilizzabili per generi alimentari di prima necessità. I comuni potranno anche acquistare direttamente generi alimentari e beni di prima necessità. E potranno avvalersi per l'acquisto e la distribuzione di beni di enti del terzo settore.Inoltre nell'individuazione dei fabbisogni alimentari e nella distribuzione dei beni i comuni possono anche coordinarsi con gli enti che si occupano della distribuzione alimentare del programma operativo del Fead, il Fondo di aiuti europei agli indigenti. L'ordinanza chiarisce che per le attività di distribuzione alimentare non ci saranno restrizioni agli spostamenti del personale e dei volontari del terzo settore. L'ufficio servizi sociali di ogni comune avrà il compito di individuare la platea dei beneficiari e il contributo tra i nuclei più esposti agli effetti economici derivanti dall'emergenza Covid-19 e tra i cittadini che versano nel maggior stato di bisogno. Obiettivo soddisfare le necessità più urgenti ed essenziali, dando priorità a chi non ha altro sostegno pubblico.

Coronavirus, come vengono ripartiti i 400 milioni ai Comuni. I sindaci: "Pochi soldi". Sky tg24 il 30 marzo 2020. Dai 15 milioni destinati a Roma ai 600 euro per una quarantina di piccolissimi Comuni. A Campania, Sicilia e Lazio la maggior parte dei fondi per buoni spesa e acquisti di prima necessità. L'Anci: "Sufficienti solo per prima metà aprile, stanziare un miliardo". Dai 15 milioni destinati a Roma ai 600 euro da versare ai micro-Comuni. Ecco come verranno ripartiti i 400 milioni di euro, secondo l’ordinanza firmata domenica sera dal capo della protezione civile Angelo Borrelli, con i quali i sindaci potranno fronteggiare l'emergenza Coronavirus distribuendo buoni spesa o generi alimentari e di prima necessità a chi ne abbia bisogno.  Ma i comuni chiedono di più. Sono favorevoli al pacchetto di misure predisposto dal governo per fronteggiare i bisogni dei meno abbienti ma molti sindaci sono dubbiosi sull'esiguità delle risorse messe in campo.

I criteri di ripartizione ai Comuni. L'80% dei fondi - 320 milioni - è distribuito in proporzione alla popolazione residente in ogni singolo Comune. Ciò significa che le città con più abitanti avranno più risorse. Il restante 20% (80 milioni) verranno distribuiti in base alla distanza tra il valore del reddito pro-capite di ciascuno degli oltre 8mila Comuni italiani, calcolato sulla base della dichiarazione dei redditi del 2017, e il valore medio nazionale "ponderata per la rispettiva popolazione". Ciò vuol dire che avranno ulteriori risorse i Comuni che hanno più persone in condizioni di difficoltà economica. In ogni caso, dice ancora l'ordinanza, il contributo minimo spettante ad ogni comune "non può risultare inferiore a 600 euro". Una quota, quest'ultima, che, se necessario, verrà decurtata da quella spettante alle amministrazioni con popolazione superiore ai 100mila abitanti.

Come saranno distribuiti gli aiuti ai cittadini. I 400 milioni potranno essere utilizzati dai Comuni in due modi: o attraverso dei buoni spesa per l'acquisto di generi alimentari presso una serie di esercizi commerciali contenuti in un elenco pubblicato da ogni amministrazione, oppure per comprare direttamente generi alimentari i prodotti di prima necessità. Sul valore dei buoni spesa è ancora in corso tra i tecnici dell'Anci la definizione dei criteri che dovranno poi definire sia l'importo sia la quantità assegnabile ad ogni nucleo familiare. A distribuire i pacchi spesa, come ha detto Borrelli, saranno invece i volontari appartenenti al terzo settore.

Gli aiuti alle città. In base ai criteri stabiliti, oltre ai 15 milioni a Roma, andranno 7,6 milioni a Napoli, 7,2 milioni a Milano, 5,1 milioni a Palermo, 4,6 milioni a Torino, 3 milioni a Genova. Sono previsti dei piccoli stanziamenti di 600 euro a testa per una quarantina di piccolissimi Comuni. Bari potrà distribuire 1,9 milioni, Firenze 2 milioni, Reggio Calabria 1,3 milioni, Venezia 1,3 milioni, Catanzaro 622mila euro, Caserta 445mila euro, Foggia 1,1 milioni, Lecce 566mila euro, Piacenza 548mila euro, Nuoro 230mila euro, Cagliari 814mila euro, Pesaro 503mila euro, Potenza 398mila, Matera 394mila, Isernia 148mila, Campobasso 303mila. A Bergamo, città duramente colpita dall'epidemia, andranno 642mila euro.

Dalle zone rosse alle città turistiche. Tra i capoluoghi, Il Comune di Vo', primo focolaio dell'epidemia, potrà aiutare chi è in difficoltà con 42mila euro, Codogno con 169mila euro, Alzano Lombardo, città che aveva chiesto di essere inclusa nella zona rossa, avrà 72mila euro. A Fondi e Nerola, le cittadine più colpite nel Lazio, 357mila e 13mila euro ciascuna. A Dinami, in provincia di Vibo Valentia, che in base alla dichiarazione dei redditi del 2017 è il paese più povero d'Italia, vanno 20.400 euro. Al Comune più piccolo d'Italia con i suoi 33 abitanti, Morterone, in provincia di Lecco, 600 euro. A Zerba (Piacenza), paesino che in base ai dati Istat è popolato da persone anziane, vanno 600 euro. A Castel Volturno, in Campania, 276mila euro. Scorrendo tra le mete turistiche più ricercate, emerge che Cortina potrà distribuire buoni spesa e generi alimentari per 30.600 euro, Capri per 37.800 euro, Taormina per 73mila euro; Arzachena, sotto il cui comune ricade Porto Cervo, per 100mila euro; Portofino per 2000 euro.

Gli aiuti su base regionale. Su base regionale è la Lombardia a ricevere la quota maggiore di risorse, 55 milioni; alla Campania ne vanno 50; alla Sicilia 43,4; al Lazio 36; alla Puglia 33; al Veneto 27,4; all'Emilia Romagna 24,2; al Piemonte 24; alla Toscana 21; alla Calabria 17; alla Sardegna 12; alle Marche 9,3; alla Liguria 8,7. Per il bilanciamento tra reddito pro capite e numero di abitanti, la Campania e la Sicilia ricevono risorse superiori al Lazio, pur avendo un numero inferiore di abitanti (5,9 milioni il Lazio, 5,8 milioni la Campania, 5 milioni la Sicilia).

La protesta dei sindaci. Nelle file dell'Anci, l'associazione nazionale dei comuni italiani, c'è apprezzamento per la centralità assegnata ai sindaci, ma anche tanta preoccupazione per la gestione concreta dell'erogazione delle risorse sui territori. Sul disagio economico poi insiste anche l'allarme della Commissione Antimafia, che parla di un combinato disposto "su cui le mafie sono pronte ad approfittare". "Quattrocento milioni possano bastare soltanto fino alla prima metà di aprile, bisogna pensare invece ai mesi che verranno, e la cifra di 1 miliardo può essere una prima risposta efficace per gli 8mila comuni italiani", spiega il vicepresidente dell'Anci Roberto Pella. Questo perché "le famiglie sono molto provate e il numero delle richieste è destinato ad essere molto alto".

Fondi ai Comuni per aiuti alimentari, ecco come vengono divisi i 400 milioni. Quindici a Roma, oltre 7 a Napoli e Milano, 5 a Palermo, fino ai micro-stanziamenti da 600 euro a testa per i piccolissimi centri. Redazione ANSAROMA il  30 marzo 2020. Quindici milioni a Roma, 7,6 a Napoli, 7,2 a Milano, 5,1 milioni a Palermo, 4,6 a Torino, 3 milioni a Genova. Fino ai micro-stanziamenti da 600 euro a testa per una quarantina di piccolissimi Comuni. Così vengono ripartiti i 400 milioni di euro con i quali i sindaci potranno fronteggiare l'emergenza Coronavirus distribuendo buoni spesa o generi alimentari e di prima necessità a chi ne abbia bisogno. Alla capitale, che è città più popolosa d'Italia, va la quota più grande. Ma l'ordinanza firmata questa sera dal capo della protezione civile Angelo Borrelli riequilibra i fondi anche in base al reddito medio dei residenti e non dimentica i centri con poche decine di abitanti, stabilendo che in mancanza di risorse i 600 euro a loro destinati - la cifra minima stanziata - vengano sottratti alle grandi città. Su base regionale è la Lombardia a ricevere la quota maggiore di risorse, 55 milioni; alla Campania vanno 50 milioni; alla Sicilia 43,4 mln; al Lazio 36 mln; alla Puglia 33 mln; al Veneto 27,4 mln; all'Emilia Romagna 24,2 mln; al Piemonte 24 mln; alla Toscana 21 mln; alla Calabria 17 mln; alla Sardegna 12 mln; alle Marche 9,3 mln; alla Liguria 8,7 mln. Per il bilanciamento tra reddito pro capite e numero di abitanti, la Campania e la Sicilia ricevono risorse superiori al Lazio, pur avendo un numero inferiore di abitanti (5,9 milioni il Lazio, 5,8 milioni la Campania, 5 milioni la Sicilia). Tra i capoluoghi, Bari potrà distribuire 1,9 milioni, Firenze 2 milioni, Reggio Calabria 1,3 milioni, Venezia 1,3 mln, Catanzaro 622mila euro, Caserta 445mila euro, Foggia 1,1 mln, Lecce 566mila euro, Piacenza 548mila euro, Nuoro 230mila euro, Cagliari 814mila euro, Pesaro 503mila euro, Potenza 398mila, Matera 394mila, Isernia 148mila, Campobasso 303mila. A Bergamo, città duramente colpita dall'epidemia, andranno 642mila euro. Il Comune di Vo', primo focolaio dell'epidemia, potrà aiutare chi è in difficoltà con 42mila euro, Codogno con 169mila euro, Alzano Lombardo, città che aveva chiesto di essere inclusa nella zona rossa, avrà 72mila euro. A Fondi e Nerola, le cittadine più colpite nel Lazio, 357mila e 13mila euro ciascuna. A Dinami, in provincia di Vibo Valentia, che in base alla dichiarazione dei redditi del 2017 è il paese più povero d'Italia, vanno 20.400 euro. Al Comune più piccolo d'Italia con i suoi 33 abitanti, Morterone, in provincia di Lecco, 600 euro. A Zerba (Piacenza), paesino che in base ai dati Istat è popolato da persone anziane, vanno 600 euro. A Castel Volturno, in Campania, 276mila euro. Scorrendo tra le mete turistiche più ricercate, emerge che Cortina potrà distribuire buoni spesa e generi alimentari per 30,600 euro, Capri per 37,800 euro, Taormina per 73mila euro; Arzachena, sotto il cui comune ricade Porto Cervo, per 100mila euro; Portofino per 2000 euro.(ANSA).

Coronavirus e aiuti di Stato: alla Lombardia 200 milioni, a Campania, Sicilia e Puglia 300. Sandro Iacometti 26 marzo 2020 Libero Quotidiano. Piccolo quiz. In Lombardia, ad oggi, ci sono stati 32mila casi positivi al Coronavirus, in Emilia Romagna 10mila, in Veneto 6mila. In Sicilia, invece, i contagiati sono stati 994, in Puglia 1.093 e in Campania 1.199. Indovinate un po' dove sono andati i soldi del governo? Non è tutto, perché non si tratta di quattrini destinati all' emergenza sanitaria, ma al finanziamento della cassa integrazione per le aziende in crisi. Allora, al quiz bisognerebbe aggiungere altri dati. Come ad esempio quelli sul Pil delle tre regioni del Nord, che insieme (dati Eurostat 2018) superano il 40% dell' intero prodotto interno lordo del Paese, mentre le tre del Sud non arrivano neanche al 16%. Possibile che il danno economico provocato dal virus sulle due aree dello Stivale sia comparabile? Non si sono fatti questa domanda il ministro dell' Economia, Roberto Gualtieri, e quella del Lavoro Nunzia Catalfo, né si sono preoccupati di verificare il grado di diffusione dell' epidemia. Per distribuire gli 1,3 miliardi messi a disposizione dal governo per la cig in deroga i due si sono limitati a chiedere all' Inps l' elenco dei lavoratori non coperti da ammortizzatori ordinari. «Finalità elettorali» - Ed è così che la Sicilia si è trovata in tasca 108 milioni, la Puglia 106 e la Campania 101. La Lombardia, che ha il doppio degli abitanti, il record di contagiati e morti e produce da sola il 22% del Pil italiano si è dovuta accontentare di 198 milioni, mentre l' Emilia Romagna ne ha ricevuti 110. Un vero e proprio schiaffo quello arrivato al Veneto. Per la patria delle piccole e medie imprese, il regno delle eccellenze italiane, la regione che traina l' export del Paese, la dote stabilita dal governo per aiutare le imprese è stata di soli 99 milioni. Spiccioli che hanno fatto andare su tutte le furie l' assessore allo Sviluppo della regione, Roberto Marcato. «Forse fino ad oggi ho vissuto da un' altra parte. Da noi il 97% delle aziende ha meno di 10 dipendenti e siamo una delle regioni più colpite d' Italia», spiega a Libero, «vedere che nella distribuzione degli ammortizzatori sociali in deroga siamo sotto Puglia, Sicilia e Campania è una grande delusione. Mi aspettavo che di fronte all' emergenza la politica potesse cambiare approccio, scegliere per una volta in base a criteri oggettivi, senza pregiudizi e senza finalità elettorali, invece ci troviamo ancora di fronte alle vecchie logiche. Le stesse che sono dietro le parole pronunciate un paio di giorni fa dal ministro Provenzano, che invocava finanziamenti al Sud, anche per aiutare i lavoratori in nero. Ma stiamo scherzando?».

“Operazione verità” sui fondi sottratti al Sud. (ITALPRESS 25 marzo 2020) – La proposta è sul tavolo. La Commissione europea ha autorizzato l’Italia ad usare i fondi di coesione e sviluppo per l’emergenza sanitaria. E’ certo che i fondi saranno usati principalmente per venire in soccorso della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, le regioni più colpite dall’emergenza coronavirus. Ma quanti sanno che già si è attinto a piene mani ai fondi di coesione nella lunga stagione dell’austerità, crisi finanziaria del 2008-09 e crisi sovrana 2011-12? Nessuno si può sottrarre alla solidarietà nazionale, è bene però che si sappia che in passato è già successo per somme notevoli. Chi dice che il Mezzogiorno non è capace di usare i fondi di coesione deve riconoscere che una parte rilevantissima di queste somme è stata usata per finanziare le esigenze dei cittadini del Nord. Se ne parla nel libro “La Grande Balla” di Roberto Napoletano, che aveva anticipato molti temi divenuti di attualità oggi con la grande crisi del Coronavirus. “Quanti di voi sanno che, dal 2008 al 2012, le cosiddette misure di stabilizzazione della finanza pubblica del governo della Repubblica italiana sono state assunte tagliando brutalmente 22,3 miliardi di euro interamente destinati al Mezzogiorno dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC)? Avreste mai creduto – scrive Napoletano – che il costo dell’austerità per un paese in balia della speculazione finanziaria e di una pesante crisi di credibilità potesse essere messo tutto sul conto delle popolazioni meridionali? Che si avesse l’ardire di proteggere i ricchi con risorse straordinarie per la cassa integrazione a loro volta sottratte dalla quota di cofinanziamento dei fondi strutturali europei 2007/2013 anch’essi destinati dall’Europa non all’Italia ma alle sue regioni meridionali?”. “I fondi ordinari per il Sud sono diventati negli anni di predefault il bancomat dello stato e quelli cosiddetti straordinari la cassa sociale per le crisi industriali del Nord. E’ avvenuto con tre distinte delibere (112/2008, 1/2011, 6/2012) del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) approvate con l’esclusiva motivazione di maggiori esigenze di controllo della finanza pubblica”, sottolinea l’autore del libro, che aggiunge: “Si sono tolti in rapida sequenza 22,3 miliardi alla spesa per incentivi e investimenti pubblici destinati alle regioni meridionali per soddisfare ragioni generali di rigore (che riguardano il Nord e il Sud del paese) lasciando che circolasse la favola del Mezzogiorno incapace di utilizzare le risorse ordinarie e comunitarie disponibili (in realtà decimate) e continuando a trasferire decine e decine di miliardi non dovuti di spesa pubblica sociale alle regioni ricche con il trucco della spesa storica ugualmente sottratti alle regioni meridionali”.

Bufera sul Carroccio. La Lega in Europa ha provato a bloccare gli aiuti per l’emergenza Coronavirus all’Italia. Redazione de Il Riformista il 27 Marzo 2020. Mentre in Italia da giorni hanno ormai spaccato il fronte comune chiesto anche dal Presidente della Repubblica Mattarella per gestire l’emergenza Coronavirus, la Lega ora porta anche in Europa le sue battaglie, rischiando incredibilmente di danneggiare il suo Paese. È quanto accaduto ieri al Parlamento Europeo, dove il gruppo di Matteo Salvini ha rischiato di far arenare la proposta della Commissione UE che portava allo sblocco di 37 miliardi di fondi europei, di cui 9 diretti all’Italia, per contrastare la pandemia di Covid-19 e per sospendere le norme sull’utilizzo delle bande orarie da parte delle compagnie aeree. A sollevare il caso è stato l’eurodeputato del Pd Brando Benifei. “La Lega da sempre è contro l’Italia e contro il suo interesse nazionale, lo sappiamo. Ma oggi ha superato un nuovo limite, quasi non ci si può credere – scrive il rappresentate italiano all’Europarlamento – Ancora una volta i leghisti hanno portato avanti un gioco sporco, per propri interessi di propaganda, sulla pelle degli italiani: contro il volere di tutti i gruppi politici europei, loro soltanto hanno presentato emendamenti che se approvati avrebbero bloccato la procedura d’urgenza, mettendo così a rischio l’arrivo rapido di risorse europee per l’Italia. Sono soldi necessari per fronteggiare le conseguenze del virus, per acquistare equipaggiamento per i nostri medici, mascherine, respiratori. Per fornire capitale alle piccole e medie imprese e per sostenere programmi di sostegno all’occupazione”, conclude Benifei. Sulla stessa linea anche Rosa D’Amato, europarlamentare del Movimento 5 Stelle: “Gli europarlamentari della Lega sono degli irresponsabili. Hanno presentato degli emendamenti alla proposta di finanziamenti europei nella lotta contro il Coronavirus che, se approvati, ritarderebbero almeno di alcune settimane l’erogazione dei fondi”, aveva detto la D’Amato. “La palla, infatti, ripasserebbe al Consiglio. Siamo i primi a pretendere dall’Europa che faccia di più e meglio, ma l’Italia ha bisogno di questi fondi subito, i cittadini non possono aspettare”. Una votazione da record, tra l’altro: sono stati ben 687 gli eletti che hanno partecipato alla prima votazione speciale della plenaria per le misure urgenti sul Covid-19.

In serata quindi l’Europarlamento ha bocciato a stragrande maggioranza gli emendamenti, a firma tra l’altro anche dalla Lega, sulle proposte della Commissione Europea.

Paola Zanca per "il Fatto quotidiano” il 31 marzo 2020. L' antico adagio "fatta la legge, trovato l' inganno" non lo ammazza nessuno: neanche il coronavirus. E la legge, in questo caso, è il decreto del presidente del Consiglio dei ministri firmato il 22 marzo: quello che elenca le attività che possono continuare a produrre nonostante la chiusura imposta dall' epidemia. Ottantadue codici Ateco, secondo l' ultima lista modificata mercoledì scorso, che indicano quali comparti produttivi hanno il permesso di non fermarsi. Attività essenziali - l' agroalimentare, l' energia, il chimico, i trasporti - che devono andare necessariamente avanti. Ma a cui - tra una deroga e un cavillo - si aggiunge un' altra grossa fetta di imprese che chiudere non può, o non vuole: migliaia, soltanto nelle province di Bergamo e Brescia. Quelle che da sole, nonostante il dato cominci fortunatamente a essere in calo, contano quasi la metà dei Covid positivi in Lombardia. Come quelli dei contagi, anche i numeri delle comunicazioni arrivate via Pec alle prefetture di Brescia e Bergano vanno ancora analizzati nel dettaglio. Ma la mole di mail ricevute è il segnale che l' instancabile voglia di lavorare che ha fatto grande la provincia lombarda non ha intenzione di farsi fermare da quel decreto firmato a Roma: il "Chiudi Italia" - almeno qui - esce piuttosto ammaccato. Cominciamo da Bergamo, tristemente nota come la capitale del Covid-19. Fino a ieri, 1800 aziende hanno chiesto deroghe al decreto firmato da Giuseppe Conte. Significa che per loro, il blocco scattato il 25 marzo non è ancora operativo. Lavorano, nell' attesa che la Finanza e i carabinieri arrivino a notificare una eventuale sospensione. Hanno autocertificato che possono restare aperti perché svolgono attività riconducibili a filiere essenziali: "Funziona al contrario", dice il segretario provinciale della Cgil Gianni Peracchi, costretto ad ammettere che "il polso della situazione non ce l' ha nessuno". Verifiche, loro, non ne possono fare, nonostante l' accordo lo preveda: la prefettura, così come a Brescia, non gli ha ancora fornito l' elenco delle autocertificazioni arrivate. Nell' attesa, il sindacato ha segnalato già due violazioni. Una è una ditta che continuava a restare aperta nonostante producesse utensili in legno e pennelli, l' altro un produttore di carta che si era iscritto alla filiera alimentare, nonostante riguardasse una parte infinitesimale del suo mercato. Il nodo vero è proprio qui: come si decide se una azienda che lavora anche per uno dei settori essenziali può tenere attivo l' intero ciclo produttivo? Un caso è quello di Camozzi Group, colosso bresciano della manifattura e dell' automazione con 18 siti produttivi e 2600 dipendenti. Tra le tante cose, fabbrica ed esporta componenti di respiratori polmonari, certo. Ma fonde alluminio e ghisa, si occupa di tessile, di carpenteria, di meccanica pesante. E, a oggi, sono tutti al lavoro. Tant' è che nell' home page del loro sito rassicurano i clienti: "Informiamo che la produzione delle aziende appartenenti al Gruppo Camozzi sta funzionando regolarmente e tutti i servizi e assistenza sono garantiti ai nostri clienti a livello internazionale". Interpellata sul punto, la proprietà non ha voluto rilasciare ulteriori dichiarazioni. Ma la risposta, va detto, è nei fatti: in prefettura si limitano a verificare che una impresa abbia il codice Ateco autorizzato dal decreto. Che poi di codici, un' azienda, possa averne associati molti altri, non è un problema loro. "Ci sono aziende che hanno auto-dichiarato la 'parzialità' della produzione - spiega Francesco Bertoli, segretario provinciale della Cgil a Brescia - Certo è possibile che qualcuno faccia un passo in più". Lo spiega meglio, in una lettera pubblicata sui social, la moglie di un dipendente (tutti rigorosamente anonimi, che l' aria che tira non è buona) di una fabbrica di Lumezzane, il comune in provincia di Brescia che esporta rubinetti e posate in tutto il mondo. "Cari imprenditori lumezzanesi - la sintesi del messaggio - il governo decide la chiusura delle fabbriche non essenziali e voi che fate? Con la scusa che una piccolissima parte delle vostre aziende produce parti di apparecchiature medicali, continuate a produrre anche tutto ciò che realizzate abitualmente: vi chiedete cosa state chiedendo ai vostri lavoratori?". I numeri, a Brescia, sono più pesanti di quelli di Bergamo: le Pec arrivate in prefettura sono 2980. Ma è plausibile che al loro interno ci siano anche aziende che hanno inviato la comunicazione per scrupolo o per errore. Bertoli, per dire, è più stupito dal numero di imprese del settore della difesa e dell' aerospaziale che hanno chiesto l' autorizzazione a riaprire: 317 solo a Brescia. Poi certo, la faccenda è controversa. E non è detto che chi resta aperto non abbia i dispositivi di sicurezza necessari. E, come spiega Dario, delegato della Cgil in un' azienda chimica del Bergamasco, "fermare tutto potrebbe significare la distruzione di un tessuto produttivo con ripercussioni molto forti in termini di condizioni di vita di tutti i lavoratori". Non sarà un bel domani, se già ora le richieste di cassa integrazione hanno subìto un boom appena è giunta notizia che sarà l' Inps a pagare direttamente le mensilità, senza bisogno che l' imprenditore le anticipi.

De Luca: “Forniture Consip saltate, su 400 ventilatori richiesti la metà donati da Alfredo Romeo”. Redazione de Il Riformista il 3 Aprile 2020. La principale criticità nell’emergenza coronavirus in Campania resta quella delle forniture. Lo ha dichiarato il presidente della Regione Vincenzo De Luca nel suo punto sulla crisi trasmesso sui social. “Le forniture che dovevano arrivare da Consip sono saltate. Senza l’impegno delle Regioni l’Italia oggi sarebbe sprofondata“. Sono queste le parole del Governatore in merito alle apparecchiature e ai dispositivi necessari per affrontare la crisi. Durante la diretta il governatore ha annunciato lo stato dell’arte sui vari dispositivi. “Su 400 ventilatori polmonari la Protezione Civile ce ne ha consegnati 41 di cui 36 provenienti dall’ente e 5 da donazioni“. De Luca ha poi annunciato che “Arrivano oggi in Campania per una donazione della società di Alfredo Romeo 192 apparecchiature per la sub intensiva e 6 ventilatori polmonari“. Praticamente la Romeo Gestioni ha contribuito, con la sua donazione, a circa la metà del fabbisogno annunciato dal governatore. “Voglio ringraziare di cuore il dott. Romeo per questa donazione che ha fatto alla Regione Campania“. De Luca ha proseguito il suo discorso senza voler entrare nel dibattito tra lo Stato e le Regioni. “Un impegno – ha però osservato De Luca – aveva lo Stato dal punto di vista operativo: quello di garantire un flusso permanente, continuo, adeguato, programmato, nel trasferimento di forniture ai territori“. E invece, ha continuato il governatore, “tutte le forniture dalla Consip sono saltate e ancora oggi dobbiamo fare la guerra per avere un carico di mascherine, per avere i dpi per i medici, per avere i ventilatori polmonari, per avere attrezzature adatte per la terapia subintensiva e quant’altro“. Le forniture restano dunque la principale criticità dell’emergenza secondo il governatore. “Per i caschi per l’ossigenazione – ha continuato il Presidente campano – ne abbiamo chiesti cinquemila, non ne abbiamo neanche uno. Per i tamponi premiamo ogni mattina per avere una dotazione adeguata. Per le mascherine stiamo abbastanza tranquilli ma ce la siamo visti da soli, ordinando un milione di mascherine chirurgiche a una fabbrica di Nola“. Già nel videomessaggio della settimana scorsa il governatore aveva ringraziato e sottolineato il ruolo dei privati nel reperimento di apparecchiature per fronteggiare il coronavirus.

Bari, Emiliano requisisce ad azienda macchine per tamponi destinate al Veneto. «Per ora stop esecuzione». Il governatore manda i Carabinieri: vanno consegnate alla Regione. La Masmec: le daremo a Foggia. Massimiliano Scagliarini il 3 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La data del provvedimento è 1° aprile, e qualcuno ha pensato a uno scherzo. Invece è tutto vero. Mercoledì il governatore Michele Emiliano ha firmato una ordinanza di requisizione di attrezzature sanitarie. Anche se il decreto del 18 marzo, all’articolo 6, consente questa possibilità solo alla Protezione civile nazionale. Il presidente della Regione è andato avanti, ritenendosi soggetto attuatore dell’emergenza ed ha ordinato al Comando regione Carabinieri Puglia di prelevare due sistemi automatici per le analisi dei tamponi dallo stabilimento della ditta Masmec e di consegnarli al capo del dipartimento Salute della Regione. Masmec è la società di Bari che ha realizzato una macchina per l’estrazione del Rna (la prima fase nella procedura per l’esame del tampone salivare), donandone il primo esemplare al Policlinico, con cui ha messo a punto il protocollo per le analisi. Una macchina da 40mila euro che funziona bene e che consente di velocizzare il procedimento per le analisi, e di cui la Regione ha chiesto altri due esemplari. Ma la Masmec, che ha anche stipulato un accordo con la Menarini per la fornitura dei reagenti, ha spiegato di dover consegnare le due macchine successive al Veneto e che per la Puglia sarebbe stato necessario attendere fino a fine aprile. E così Emiliano ha preparato una ordinanza e ha ordinato «la requisizione in proprietà di 2 strumentazioni tecniche complete (piattaforme automatiche e reagenti necessari) realizzate per la diagnosi della positività negatività al Coronavirus». «Una sola strumentazione - ha argomentato - non è affatto sufficiente a colmare il delta amplissimo tra le analisi realizzabili in Puglia e quelle realizzabili in altre regioni», perché la capacità della Puglia non arriva a 1.000 tamponi al giorno, mentre in Veneto hanno «evidentemente disponibilità di macchine e reagenti in numero tale da realizzare più di 6.000 analisi al giorno», grazie alla «totale deregulation normativa della distribuzione sul territorio nazionale di dette macchine e reagenti». Emiliano ha anche scritto che Masmec ha realizzato la macchina «su impulso del Presidente della Regione»: insomma, l’idea di quel dispositivo è sua. Ma il patron della Masmec, l’ingegner Michele Vinci, contattato al telefono, appare sinceramente sorpreso. È la «Gazzetta» a dirgli dell’ordinanza di requisizione e Vinci garantisce che non ce n’è bisogno: «Fino a un quarto d’ora fa - racconta - stavo parlando con il dottor Parisi dell’Istituto zooprofilattico di Foggia cui noi consegneremo due macchine». Ed Emiliano? «Lui ieri era preoccupato perché non gliele davamo. Io non l’ho sentito oggi, ma so che ha parlato molto bene della Masmec». Le due macchine, insomma, resteranno in Puglia: «Ne stiamo producendo quattro - dice Vinci -, la Regione aveva bisogno di due, per cui noi adesso stiamo lavorando in maniera tale da soddisfare questa esigenza». Se sarà così, dicono dalla Regione, l’ordinanza non verrà notificata.

LA PRECISAZIONE DI EMILIANO - «La requisizione non è avvenuta perché di fronte alle legittime esigenze della Puglia la ditta Menarini e la ditta Masmec si sono subito adoperate per trovare l’adeguata soluzione, che è in via di individuazione. E dunque - precisa il governatore - l’esecuzione del provvedimento non è ancora avvenuta perché si sta trovando un accordo. Per tale ragione non era stata data ancora notizia del provvedimento». 

Coronavirus, la beffa: i ventilatori donati agli ospedali della Puglia requisiti dal commissario Arcuri. Le Dogane applicano una norma del decreto Conte: le forniture vengono gestite dalla protezione civile. E i doni della imprese potrebbero finire anche al Nord. Massimiliano Scagliarini l'1 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La gara di solidarietà sta riguardando tanta gente. Grandi aziende, ma anche piccole imprese e anche singoli cittadini. Chi può, prova a dare un segno tangibile di vicinanza. E magari investe alcune decine di migliaia di euro per acquistare materiale destinato agli ospedali, a partire dagli indispensabili ventilatori polmonari che si producono - soprattutto - in Cina. E che da un paio di settimane, ormai, vengono fermati alla dogana su disposizione del commissario di governo, Domenico Arcuri: la legge gli consente di requisirle. Sta accadendo anche ad un imprenditore del Tarantino che aveva acquistato, con soldi propri, un lotto di materiale sanitario da destinare agli ospedali pugliesi. Da alcuni giorni il carico è fermo a Ciampino, dove l’Agenzia delle Dogane ha dato attuazione a quanto richiesto da Arcuri (l’uomo che Conte ha incaricato di occuparsi delle forniture sanitarie): può passare solo ciò che è destinato ad ospedali pubblici, tutto il resto deve essere fermato e - se il commissario lo richiede - deve essere consegnato alla Protezione civile. Quella della requisizione è una facoltà prevista dai decreti sull’emergenza. Al legittimo proprietario della merce verrà rimborsato il prezzo pagato per l’acquisto. Ma poi è la Protezione civile a stabilire dove andranno a finire i preziosi ventilatori (a Ciampino, insieme a quelli ordinati dall’imprenditore pugliese, ce ne sono fermi molti altri), e nessuno potrà sapere che fine farà la merce requisita. Se (almeno) finirà lì dove era destinata, o se verrà invece dirottata verso un ospedale del Nord. Ma del resto le difficoltà della Protezione civile a far arrivare le forniture richieste dagli ospedali sono note. Ieri la Regione, dopo almeno un mese di tentativi, è riuscita a farsi consegnare 35mila mascherine «ffp3» ordinate il 22 marzo attraverso un’azienda locale: la merce, partita dalla Cina in aereo, ha fatto il giro del mondo (Sud Africa e Olanda, in aereo, poi in treno fino a Milano, quindi un camion fino a Bari). Altri ordini fatti per quasi 30 milioni di euro, molti dei quali garantiti con lettere di credito, non sono mai arrivati. Anche alcune forniture della stessa Regione si sono perse alle dogane, stavolta quelle dei Paesi extraeuropei in cui hanno fatto scalo i voli diretti dalla Cina. Ieri la Protezione civile ha consegnato alla Regione 1.080 kit per accesso vascolare, 8.778 tubi endotracheali, 84 monitor multiparametrici fissi, 176 monitor multiparametrici portatili, e 15 ventilatori polmonari, dopo che nella tarda serata di lunedì un aereo da carico messo a disposizione da Leonardo aveva scaricato a Bari 30.400 mascherine chirurgiche, 500 tute di protezione e 3.730 mascherine ffp2, mentre domenica un volo della Guardia costiera ha portato 42mila mascherine chirurgiche. Due voli che non hanno coperto nemmeno un singolo giorno di fabbisogno del sistema di assistenza pugliese, per non parlare degli appena 31 ventilatori totali a fronte dei 400 necessari: dei 15 consegnati ieri, peraltro, qualcuno potrebbe provenire dai lotti requisiti. E c’è un giallo anche sui numeri complessivi: secondo la Protezione civile il materiale consegnato alla Puglia ammonta a 1.272.000 pezzi, la Regione ne contabilizza 236mila in meno (dovrebbe trattarsi di mascherine). E di questo totale, 400mila sono le famigerate mascherine Montrasio, che in ospedale sono inutili e che infatti la Lombardia ha mandato indietro: secondo i medici sono più utili da utilizzare al posto dei panni Swiffer. [m.s.]

Coronavirus, "respiratori e mascherine da Calabria al Nord": le denunce. Pubblicato da adnkronos.com il 20/03/2020. "È inquietante, inammissibile e pericolosissimo, specie in questa fase di aumento dei contagi da nuovo coronavirus, che non siano arrivati i dispositivi di protezione individuale e i ventilatori polmonari ordinati da aziende del Servizio sanitario della Calabria. Secondo la denuncia pubblica del commissario dell'Asp di Cosenza, Giuseppe Zuccatelli, questi materiali sarebbero stati tutti 'dirottati' verso le regioni del Nord". Lo affermano, in una nota, i parlamentari del Movimento 5 Stelle Francesco Sapia, Bianca Laura Granato, Giuseppe d'Ippolito e Paolo Parentela, che precisano: "Qui non si tratta di cedere a polemiche, ma di stabilire se le aziende pubbliche della salute che operano in Calabria debbano, come sacrosanto, essere messe nelle condizioni di garantire la prevenzione oppure no, il che sarebbe terribile". "C'è - proseguono gli stessi parlamentari - un evidente problema politico da chiarire con il ministro della Salute, che dovrebbe preoccupare anche la nuova giunta regionale. L'emergenza Covid-19 è nazionale, le regioni meridionali, e in particolare la Calabria, sono le più sguarnite sul piano dell'assistenza sanitaria. Perciò è fondamentale - rimarcano i 5 Stelle - che adesso, e non con ulteriori rinvii, giungano in Calabria i ventilatori polmonari e i dispositivi di protezione necessari ad affrontare la situazione, atteso che, secondo le stime disponibili, nei prossimi giorni si attende il picco dei contagi, che in Calabria potrebbero schizzare ad oltre 500 per la fine di marzo, con tutte le gravi conseguenze in termini di stress delle strutture sanitarie pubbliche e dei vari operatori, i quali continuano a lavorare con rischio e gravi difficoltà quotidiane". "Al ministro della Salute - concludono i parlamentari del Movimento 5 Stelle - chiediamo di attivarsi immediatamente, intanto presso il capo della Protezione civile nazionale, per risolvere con urgenza questo problema della ripartizione sui territori italiani, in relazione alle specifiche necessità e al di fuori della logica della contesa tra 'poveri', degli strumenti indispensabili in tutti i presidi e reparti". "Comprendiamo le proporzioni drammatiche dell’emergenza sanitaria al Nord, ma non può essere sottovalutata la necessità di contenere la diffusione del coronavirus nelle regioni meridionali e in particolare in Calabria, dove il sistema sanitario non è in grado di reggere una eventuale esplosione dell’epidemia", afferma invece la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro in merito alla vicenda delle mascherine destinate alla Calabria requisite ed inviate in Lombardia. "Per questo abbiamo il dovere di proteggere soprattutto il personale medico e sanitario - ricorda Ferro - già numericamente insufficiente, ed evitare che il contagio si diffonda nelle corsie degli ospedali, come purtroppo si è verificato nel reparto di dialisi dell’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. Non è accettabile che la Protezione civile requisisca alla fonte mascherine e dispositivi di protezione individuale destinate agli ospedali calabresi, come confermato dal commissario delle aziende ospedaliere catanzaresi e cosentine Zuccatelli". "Una pratica che, secondo quanto riferito da Zuccatelli, riguarderebbe anche le attrezzature come i ventilatori e i respiratori, necessarie all’allestimento delle nuove postazioni di terapia intensiva e sub-intensiva. Intanto a Catanzaro – afferma Wanda Ferro in una nota - il personale infermieristico si è visto consegnare le inutili mascherine, simili a stracci per la polvere, ritirate dagli ospedali della Lombardia perché assolutamente non idonee. La Lombardia sta rappresentando un vero e proprio fronte della guerra contro il coronavirus, e la Calabria ha dato una prova di solidarietà accogliendo nelle proprie strutture i primi pazienti in arrivo da Cremona e da Bergamo. Non possiamo però permetterci di restare impreparati di fronte ad un aggravarsi dei contagi, soprattutto dopo il rientro di migliaia di cittadini dal Nord, e dobbiamo essere messi in condizione di attrezzare i nuovi reparti e soprattutto di salvaguardare chi dovrà prendersi cura dei pazienti".
Coronavirus Reggio Calabria, parla il commissario Gom: «Ecco quando sarà il picco. Respiratori? Requisiti e mandati al Nord». Viaggio nel nuovo edificio Covid 19 che curerà i pazienti positivi al Coronavirus. Tutte le misure approntate dal Grande ospedale metropolitano che si è preparato all’emergenza con grande anticipo. Consolato Minniti su Il Reggino il 22 Marzo 2020. La finestra alla fine del corridoio affaccia sul nuovo pronto soccorso e mostra, poco distante, l’istantanea più eloquente di questi giorni di emergenza: due tende, l’una vicina all’altra e, fuori, una fila ordinata di persone, tutte rigorosamente distanti fra loro. Hanno guanti e mascherine, i volti tiratissimi. Negli occhi c’è la paura di poter avere dentro di sé il mostro che sta spaventando il mondo intero. Alcuni sono asintomatici, ma hanno avuto contatti sospetti. Altri hanno già febbre e raffreddore. Per loro manca solo la conferma ufficiale. C’è chi tiene gli occhi fissi sullo smartphone e comunica con amici e parenti. Qualcuno, invece, ha uno sguardo perso nel vuoto, come se stesse vivendo un sogno dal quale appare difficile svegliarsi. Volgiamo lo sguardo alle nostre spalle ed una corsia lunga e silenziosa si staglia davanti. Qui, fino a qualche settimana fa, c’erano i reparti delle varie chirurgie. Pazienti e familiari a centinaia ogni giorno. Un viavai frenetico fra consulenze, esami e diagnosi. Sospiri, lacrime, sorrisi e preoccupazioni. Tutto tace. Ma è un silenzio solo apparente. Perché questo sarà il luogo in cui aprirà l’edificio Covid-19, struttura interamente dedicata alla cura dei pazienti positivi al Coronavirus. In questo nostro viaggio abbiamo avuto due guide d’eccezione: il commissario straordinario del Gom, Iole Fantozzi, e il direttore sanitario di presidio, Antonino Verduci.
L’inizio dell’emergenza. «Abbiamo lavorato molto sulla prevenzione – spiega Iole Fantozzi – perché era scontato che potesse succedere anche qui l’emergenza. Già dai primi di febbraio avevamo differenziato i percorsi di triage per sospetti Covid, dai triage regolari. Il primo caso ha seguito questa procedura ed è stato ricoverato in Malattie infettive, una volta accertata la positività».
Ancor prima che entrassero in vigore i provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri, il Gom reggino aveva istituito un tavolo di crisi, coinvolgendo l’Asp «perché tutto il territorio deve essere coinvolto nell’evitare che tutti i pazienti arrivino in maniera indifferenziata al Gom perché essendo un ospedale che fornisce intensità di cure superiore rispetto agli ospedali territoriali, preferiremmo ricevere i casi più gravi, così da non saturare le terapie intensive e rinviare agli spoke territoriali i casi che possono essere gestiti con un’intensità di cura diversa», rimarca il commissario.
L’edificio Covid 19. «Abbiamo allestito un edificio interamente Covid», sottolinea Fantozzi. Ed i numeri le danno ragione. «Abbiamo aumentato i posti della terapia intensiva, passando da 14 a 18, anche 20 se riusciamo ad avere i respiratori che avevamo acquistato ma che ci sono stati requisiti dalla Protezione civile e quindi attendiamo una nuova distribuzione, dopo quella al nord che è in un momento peggiore rispetto a noi. Abbiamo aumentato di 20 posti la pneumologia, di 23 posti le malattie infettive e creato un apposito pronto soccorso Covid, una Obi covid ed una Radiologia Covid dedicata. Ci siamo preoccupati, in questo stesso edificio, di creare due postazioni con dialisi con osmosi portatile e una postazione di Obi per i pazienti pediatrici. Il tutto all’interno di un’area dove in prossimità abbiamo il reparto di Malattie infettive e due tende di triage una per l’attesa e una per l’esecuzione del tampone per chi sospetta di essersi infettato». In totale, dunque, l’edificio Covid-19 può contare su 87 posti letto che, aggiunti a quelli già presenti, arrivano a circa 140. Ma c’è di più. «Abbiamo ridotto tutte le chirurgie d’elezione. Così le visite non urgenti e quindi le prestazioni che portavano pazienti e visitatori all’interno dell’ospedale. Abbiamo isolato una parte del blocco operatorio, quattro delle nostre sale operatorie, per trasformarle in terapia intensiva in modo da aumentare subito i posti per persone con ventilazione assistita o con doppia patologia connessa a tempo-dipendenza in caso di urgenza».
Passaggio dal “Morelli” al “Gom”. Il commissario straordinario ricorda come si sia fatto «un modello previsionale per acquisto di farmaci e per finire le operazioni che avevamo in corso. Siamo stati costretti di spostare pneumologia dal “Morelli” al Gom per curare i pazienti affetti da polmonite da Covid. La direzione sanitaria di presidio si è allertata subito ed ha dato una grande mano negli spostamenti».
I dispositivi di protezione. Come rimarcato anche dal dottor Verduci, tanto è stato fatto per fare in modo che il personale fosse in grado di operare con i dispositivi idonei e che imparasse tutte le tecniche di vestizione e svestizione fondamentali per evitare il contagio. «Abbiamo acquistato i dispositivi da tempo. Noi consegniamo dei kit completi per i dipendenti ad ogni turno». Ma le precazioni sono sufficienti? «In ospedale è tutto in regola perché avevamo fatto le scorte e gli approvvigionamenti per tempo. Ci sono strumentalizzazioni, così come accade in tutta Italia. La riprova è data da un paziente ricoverato per un ictus che ha sviluppato il Covid nel corso del ricovero. Se i dipendenti non fossero stati protetti avremmo trovato positività di medici e infermieri. E invece nessuno si è contagiato. Le regole di igiene e i dispositivi hanno evitato i contagi».
Il ruolo dell’Asp. Ma cosa succede se il numero di pazienti dovesse crescere a dismisura? «Abbiamo recuperato infermieri allestendo un ospedale isolato dal primo, stiamo ricoverando fino a saturazione di tutti i posti. A quel punto c’è un accordo con l’Asp per cui utilizzeremo i loro ospedali periferici. Noi terremo i casi più gravi. Qualora i posti dovessero diventare non sufficienti, le altre strutture dovranno curare i casi meno preoccupanti», ricorda Iole Fantozzi. Quanto al possibile picco, Iole Fantozzi, pur andando cauta, spiega: «Ci aspettiamo un periodo di picco connesso all’esodo di quanti lavoravano al Nord e sono scappati nelle more dell’ultimo Dpcm. Tra questa settimana e la prossima ci aspettiamo il picco epidemiologico».
Le richieste. La richiesta di Iole Fantozzi alla politica è chiara: «Ci servono i medici specializzati ad affrontare le emergenze, infermieri e oss perché noi abbiamo approntato i luoghi ma senza persone non c’è cura che possa essere effettuata. Facciamo appello affinché la Regione e il Dipartimento si sbrighino nell’attività di reclutamento dei medici specialisti e che le persone rispondano per il reclutamento specifico su Covid».
I respiratori requisiti. «Noi – conclude – avevamo provato ad approvvigionarci con 14 ventilatori polmonari, ma sono stati requisiti dalla Protezione civile che li ha dirottati al Nord dove l’emergenza era maggiore. Ma a noi serve questo materiale per la ventilazione polmonare».
I Fondi europei destinati al Meridione andranno al Nord. Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale: "Si chiede al Sud di dare quello che ancora non ha avuto, e chissà se mai lo avrà". di Redazione basilicata24.it il 12 marzo 2020. “Quello che temevamo è successo: al Sud, per l’emergenza sanitaria, si chiede ancora una volta una prova di solidarietà sulla ripartizione dei Fondi UE, dirottando a Nord (secondo anticipazioni del Sole24ore) circa dieci miliardi delle risorse destinate a impedire il crollo del Mezzogiorno. È inammissibile, non è un atto di solidarietà nei confronti del Nord, ma un peso che ancora una volta ricade sulle spalle di chi ha più bisogno e ha già meno.” E’ quanto sostiene il Movimento 24 Agosto – Equità Territoriale, in una nota diffusa alla stampa. I fondi destinati al Sud dall’UE  –  è scritto nella nota – non possono essere il contrappeso di un’emergenza che riguarda tutto il Paese, e per il quale l’Italia potrà già sforare il deficit per 25 miliardi. Il Meridione non ha strutture, non ha servizi, non ha possibilità di garantire a se stesso la “sopravvivenza” sanitaria, già in situazioni normali, figuriamoci in una situazione di emergenza globale come quella che stiamo vivendo. Si chiede al Sud di dare quello che ancora non ha avuto, e chissà se mai lo avrà. Ci sono ben altri cespiti – conclude – da cui si può attingere per l’emergenza, fra cui grandi opere che producono solo sprechi e corruzione.
“Sud, fondi Ue per emergenza”, polemica su proposta Provenzano. Raffaella Pessina giovedì 26 Marzo 2020 su qds.it. M5s: “Scippo per la Sicilia, proposta inaccettabile”, anche gli alleati di governo insorgono. Romanio (Eurispes): “Su liquidità intervengano piuttosto banche e fisco. Servono interventi adeguati su tasse ed agevolazioni”. Non è piaciuta al Movimento Cinquestelle l’idea del ministro per il Sud Giuseppe Provenzano di riprogrammare i fondi europei per reperire risorse e parla di proposta irricevibile. Il deputato regionale pentastellato Luigi Sunseri tuona contro il ministro definendolo un “ministro del Nord, altro che per il Sud”. “Non capisco- si chiede Sunseri – Provenzano è ancora il ministro per il Sud? Come può chiedere di attingere ai fondi europei delle regioni del Mezzogiorno, e in particolar modo della Sicilia, per finanziare gli interventi dell’emergenza in corso?”. Sunseri ha detto che la proposta del ministro di riprogrammare i fondi europei (Por e Pon) non spesi è “inaccettabile, un vero scippo alla Sicilia, un’iniziativa che potrebbe costare cara a tutto il Sud”, e propone una ricetta diversa. “la Sicilia ha estremo bisogno di investimenti pubblici, la Regione Siciliana si deve attivare per riprogrammare e spendere il prima possibile le risorse, perché domani è già tardi”. Ma il deputato regionale non si è fermato alle dichiarazioni, ha scritto una lettera proprio a Provenzano “per fargli meglio comprendere la situazione della Sicilia nella gestione dei fondi comunitari. La Commissione europea, nelle sue ultime note, è chiarissima: si possono già riprogrammare le risorse, assegnate e non spese, reindirizzandole verso gli investimenti necessari al sistema sanitario, alla piccola imprenditoria, e al sociale, per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Questa riprogrammazione la può fare l’amministrazione titolare del piano, e nel nostro caso è la Regione, re-impiegando le risorse nel territorio regionale e quindi non snaturando la natura stessa dei Por”. Sunseri afferma che la Commissione europea ha già concesso all’Italia “di rimodulare con procedure straordinarie la spesa dei fondi europei e di utilizzare queste ingenti somme nei confronti di imprese, lavoro, comuni e salute e non comprende come la Regione potrebbe rinunciare alla possibilità di spendere le risorse stanziate da qui al 2023 per l’emergenza sanitaria e per le imprese siciliane”. Scendendo nel dettaglio Sunseri spiega che i vari obiettivi (Ricerca e Sviluppo, Inclusione sociale e Competitività di piccole e medie imprese) possono destinare in deroga le proprie somme ad investimenti nella sanità.”Diamo soldi per investimenti ai Comuni per far ripartire l’economia locale – ha aggiunto – aiutiamo le aziende a rilanciarsi. Non togliamo risorse alla Sicilia con la promessa di ridarle nella prossima programmazione. Non siamo nelle condizioni di poter attendere”. Sulla stessa linea Saverio Romano, Presidente Osservatorio Mezzogiorno dell’Eurispes. “Il tentativo del Governo nazionale di utilizzare anche i fondi comunitari delle regioni del Sud, ossia le risorse destinate dall’Unione europea per progetti strutturali e non ancora impiegate, è da stigmatizzare fortemente”. Romano ritiene fuori discussione la necessità di reperire liquidità a sostegno dell’occupazione, delle categorie produttive, delle imprese, delle famiglie e del sistema Paese, ma ritiene illogico privare il Meridione dell’unica opportunità per risollevarsi dalla crisi finanziaria che poi verrà aggravata dalla pandemia. Romano è critico sulla ipotesi di rimodulare i fondi strutturali regionali per sovvenzionare la crisi odierna. “Significa condannare il Mezzogiorno e in modo inevitabile al sottosviluppo, alla marginalità e alla povertà per i prossimi decenni. Servono provvedimenti adeguati su tasse e agevolazioni, risposte in tempi brevi e tangibili sul credito al sistema imprenditoriale e soluzioni che diano ristoro alle categorie più esposte come quella delle partite Iva, dei liberi professionisti, degli imprenditori, del commercio, della piccola e media impresa, del terziario. Sono quei soggetti che, con il blocco economico, dovranno sopportare i maggiori oneri, in special modo se operano al Sud".

·         Il Sud Sbancato.

MEZZOGIORNO BANCO-ROTTO: Il sistema bancario del Sud non c’è più, è stato espropriato dalle banche del Nord. La soluzione adottata per far fronte ai problemi legati al territorio è stata quella di azzerare il sistema, sostituendolo con operatori esterni. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Pubblichiamo la premessa del libro “Mezzogiorno banco-rotto” scritto da Pietro Massimo Busetta e Rainer Masera. Presso i romani coloro che commerciavano in denaro, banchieri o cambia-valute, stavano dinanzi ad un banco che veniva chiamato mensa argentaria, sul quale disponevano il denaro necessario per gli affari della giornata. Da tale uso derivano i termini Banchiere e Banca rotta, che poi passarono anche nel linguaggio inglese e francese grazie ai fiorentini (…) Tale terminologia deriva, quindi, dal Medioevo: quando un commerciante o un banchiere dichiarava Bancarotta (…) In realtà il banco che si è rotto, del titolo, è quello del Mezzogiorno (…) Il tema di fondo, attorno al quale ruotano i lavori che sono stati raccolti in questo volume, riguarda la domanda se serva un sistema bancario articolato in realtà piccole, medie e grandi, o piuttosto sia più efficiente una concentrazione in strutture grandi (…) La teoria che le maggiori dimensioni siano sempre le più efficienti trova sostenitori ma anche detrattori. Peraltro le esperienze sul campo dei vari paesi sono molto diversificate. Ed anche la teoria che le economie di scala debbano riverberarsi positivamente sui costi di intermediazione è tutta da dimostrare (…) In tale dibattito si inserisce il tema dei controlli che l’Organo di Vigilanza ormai, con sempre maggiori oneri, continua ad imporre, con richieste simili alle piccole come alle grandi strutture bancarie, penalizzando in tal modo le realtà minori o less significant. In questo volume vi sono cinque contributi, scritti da sette Autori che hanno grande competenza nel settore del credito (…) Piero Alessandrini e Luca Papi, partendo da un’analisi sugli effetti della recente crisi finanziaria, iniziata nel 2007, sul sistema bancario, sia sotto l’aspetto strutturale, che in rapporto alla qualità del credito, cercano di delineare le possibili prospettive per il sistema bancario ed in particolare pongono l’attenzione sugli effetti che l’innovazione tecnologica e la regolamentazione bancaria avranno sulle banche locali e less significant. Pietro Busetta e Salvatore Sacco, propongono una riflessione sull’atteggiamento con cui la classe dirigente nazionale ha costantemente affrontato l’irrisolta problematica del dualismo, che, nella vicenda del sistema bancario del Mezzogiorno, trova il suo acme e la sua metafora. Infatti, a fronte degli enormi problemi che, inevitabilmente, per le banche espressione di quel territorio comportava l’operare in quelle aree (compresi, talvolta, i collegamenti perversi con la criminalità organizzata), la soluzione adottata è stata quella dell’azzeramento di quel sistema, sostituendolo con operatori esterni (…) Il lavoro propone un confronto con quanto avvenuto a seguito delle due grandi crisi strutturali del sistema bancario nazionale (1992-95 e 2007-2010), in termini di soluzioni adottate e di costi per la collettività (e per il Mezzogiorno in particolare). Vengono evidenziate anche le differenze dell’impatto sui sistemi bancari nazionali di altri paesi europei, anche in funzione dell’azione delle diverse autorità competenti, del progressivo appesantimento della regolamentazione comunitaria e sovranazionale, registratosi negli ultimi due decenni. Giovanni Ferri si interroga sugli effetti degli interventi di ristrutturazione del sistema bancario, intercorsi negli ultimi 30 anni, sul processo di convergenza del Mezzogiorno. Particolare rilevanza assumono nel suo lavoro i temi dell’allontanamento dei centri decisionali, gravoso per il Mezzogiorno in termini di perdita di capitale umano, oltre che del mutamento della struttura proprietaria e quindi dei soggetti di riferimento; non più gli stakeholder ma gli shareholder, determinando la fine della funzione sociale della banca nel proprio territorio di riferimento . Viene evidenziato come tale approccio non sia in linea con quanto avvenuto in realtà confrontabili come il Sud della Spagna o la Germania Est (…) Adriano Giannola pone l’attenzione sulle problematicità che comporta l’attuale struttura del sistema creditizio italiano, che finiscono con l’accentuare, nel contesto nazionale, alcune distorsioni presenti a livello sovrannazionale. Infatti, proponendo una misurazione dell’impatto della cosiddetta “austerità espansiva” sul sistema economico nel suo complesso, evidenzia come il mercato creditizio interno abbia svolto una rilevante funzione pro ciclica, aggravando ulteriormente la situazione complessiva del contesto economico italiano (…) Infine, Rainer Masera, nel suo contributo, cerca di individuare le similarità o le divergenze nella regolamentazione e nella operatività, delle banche di comunità degli Usa e dell’Eurozona (…) È necessario per Masera, che i policy maker rivalutino criticamente il loro operato, che, ricercando oggettive ed astratte economie di scala, rischia di generare diseconomie di regolamentazione, con gravi effetti distorsivi sulla concorrenza. In sintesi scopo di questo volume è quello di alimentare un dibattito sul sistema bancario nazionale, che, contrariamente a quello che è avvenuto in altri Paesi industrializzati, in Italia ha visto prevalerne alcune, senza un vero dibattito. (…) Quindi doppio problema, quello dimensionale e quello localizzativo, che ha portato le piccole e medie imprese a non avere più quel credito che a loro serve, attraverso l’accentuazione delle perniciose pratiche di razionamento. Ed il tema che si affronta in diversi lavori è quello che le realtà più piccole potrebbero avere più bisogno delle cosiddette banche di contiguità, che per le loro dimensioni, meglio dialogano con strutture più contenute e con i loro centri decisionali vicini. Senza contare il fatto che spesso alcune realtà imprenditoriali, per il sommerso che hanno, mal vengono rappresentate dai dati ufficiali dei bilanci (…). Fatti che incidono sulla redditività di qualsiasi attività e che, probabilmente, solo una banca di contiguità può tenere adeguatamente presente. L’obiettivo che si vuole perseguire con questo lavoro è quello di mettere in discussione alcuni assunti che sembrano, anche se non dimostrati, assurgere a verità incontrastate,…

IL SUD SBANCATO: CAUSE E RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA AL SERVIZIO DELLA FINANZA DEL NORD. Michele Eugenio Di Carlo il 04.09.2020 su movimento24agosto.it. Negli ultimi trent’anni il sistema bancario del Sud è stato praticamente smantellato e acquisito in gran parte da istituti del Nord. E’ un altro segno inequivocabile dello strabismo con cui le politiche governative hanno inteso garantire un’inesistente Questione settentrionale di fattura leghista al fine di annullare l’esistente e sempre più preoccupante Questione meridionale, tanto che il tasso di disuguaglianza del Mezzogiorno nel confronto con il resto d’Italia e d’Europa è arrivato a livelli tali che chi ha governato negli ultimi trent’anni non dovrebbe fare altro che pentirsi e chiedere scusa. Giova nuovamente segnalare il punto di quasi non ritorno in cui politiche discriminatorie hanno portato il Mezzogiorno: esodo forzato di milioni di cittadini costretti ad emigrare con perdita di un enorme capitale umano, fattore principale nei processi di crescita e di sviluppo; desertificazione di intere aree interne che hanno perso servizi e infrastrutture fondamentali; disoccupazione giovanile in alcune aree al 60% con un processo di invecchiamento della popolazione che non riserva nessuna possibilità di futuro; carenze ormai croniche di infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, aeroportuali, portuali, penalizzanti lo sviluppo in tutti i settori; nuove tecnologia applicate all’economia, alla cultura, ai servizi spesso inesistenti, altre volte inadeguate; perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche, fattore che alimenta populismi e genera disagio sociale.

Quali le cause che hanno reso cieche le politiche governative degli ultimi trent’anni e del tutto inutili i partiti nazionali del PUN (partito unico del nord)?

Innanzitutto il trasferimento del potere decisorio reale dalla politica alla finanza con politiche che hanno privilegiato gli interessi privati di grandi gruppi finanziari, spesso multinazionali, a scapito di quel “bene comune” (ambiente, salute, occupazione e qualità del lavoro, diritti, partecipazione, assistenza, solidarietà, servizi sociali, cultura, ricerca e formazione), che la politica aveva saputo conservare e alimentare fino agli anni Ottanta. La foga delle privatizzazioni, ad esempio: una vera tendenza verso le politiche ultraliberiste reaganiane e thatcheriane che ha sottratto al controllo dello Stato italiano importanti e vitali settori, messi a disposizione di gruppi finanziari che hanno seguito la logica utilitaristica del libero mercato nell’ambito della finanziarizzazione dell’economia, spesso solo virtuale, e basata su transazioni finanziarie che spostano senza limiti e senza controllo capitali da una parte all’altra del mondo. In altre parole, questi gruppi hanno assunto, anche grazie al devastante sistema del finanziamento ai partiti, un controllo importante nell’ambito delle decisioni politiche ed economiche, sostituendosi alla politica, rendendo nulle le pretese sindacali, azzerando i diritti delle classi lavoratrici e, in generale, dei cittadini comuni appartenenti alla classe media. La crisi finanziaria che ci portiamo dietro dal 2008, e che penalizza particolarmente il Mezzogiorno, iniziata con il fallimento della Lehman Brothers a seguito della bolla immobiliare legata ai prestiti dei mutui subprime,  è il frutto dell’invasione della finanza nella politica con partiti ridotti ad un ruolo gregario, al comando dei quali spesso vengono ormai messe personalità vuote di capacità progettualità e manovrati da media asserviti che li creano e li distruggono a seconda degli interessi di chi controlla realmente il potere. É sotto questi aspetti complessi e articolati che bisogna analizzare il crollo che ha portato allo smantellamento del sistema bancario del sud Italia. Un crollo che presenta fasi ben precise che sono state illustrate puntualmente, in relazione agli ultimi decenni, dal giornalista del  “Mattino” di Napoli Marco Esposito, nel testo “Separiamoci” (Separiamoci. Il Sud può fare da sé, Milano, Magenes, 2019, 3ª ediz.). Nel 1990, con la legge del piemontese Giuliano Amato inizia il processo di trasformazione del sistema creditizio italiano in soggetto di diritto privato, spingendo con incentivi fiscali le banche, enti di diritto pubblico, «a separare la propria attività in due: una fondazione e una banca società per azioni, con la prima proprietaria al 100% della seconda». Se nella prima fase la legge obbliga le fondazioni a mantenere il controllo delle banche, nella seconda impone l’obbligo di scendere al di sotto del 50% con il risultato finale che le banche passano ad un sistema che permette la scalata del più forte. Dopo il referendum del 1993, la nomina dei vertici delle fondazioni passa dal Governo agli Enti Locali e Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, consente che i grandi gruppi finanziari del Nord assorbano anche i colossi creditizi del Sud, come ad esempio il Banco di Napoli. Ed ecco che «le fondazioni bancarie erogano fondi e sostengono servizi per il 93% al Centro-nord e per il 7% al Sud». Nel mentre i gruppi bancari del Nord acquisiscono una alla volta le banche meridionali e quelle romane, l’’elenco delle fondazioni, all’origine banchi e casse di risparmio risalenti anche al Cinquecento, che cedono il controllo negli anni Novanta a Istituti del Nord è «impressionante». Gli istituti acquisiti dalla sola Banca Popolare dell’Emilia-Romagna tra il 1994 e il 2000 sono i seguenti: Banca del Monte di Foggia, Cassa Rurale di Sicignano negli Alburni, Banca Popolare del Materano, Banca Popolare di Lanciano e Sulmona, Banca Popolare di Crotone, Credito Commerciale Tirreno, Banca Popolare della Val D'agri, Banca Popolare del Sinni, Banca Popolare di Castrovillari e Corigliano Calabro, Banca Popolare di Salerno, Carispaq-Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila, Banca Popolare dell’Irpinia. Ma l’elenco non sarebbe completo se non si tenesse conto della perdita dei seguenti altri istituti: Banca Sannitica, Banca del Salento, Banca Popolare di Napoli, Banca della Provincia di Napoli, Credito Commerciale Tirreno, Banca Mediterranea. Appena qualche giorno fa, Marco Esposito sulle pagine del “Mattino” del 21 agosto, in un articolo titolato “Fondazioni bancarie, trent’anni di egoismi: Nord batte Sud 20-1”, precisa ancora meglio la questione delle fondazioni bancarie, ripercorrendo le tappe della loro evoluzione degli ultimi decenni e precisando che gli 88 enti che sostengono l’arte, la cultura, la sanità, la ricerca, la solidarietà, erogano i propri fondi con una percentuale sempre più sbilanciata a favore del Nord; infatti dei 40 miliardi assegnati in 28 anni, mai il Sud ha superato la soglia del 5% per sostenere la propria cultura, sanità, ricerca, arte. Si ripropone nuovamente la tesi che il divario del Mezzogiorno dal resto del paese non è più un caso a sé, ma da analizzare e risolvere nel contesto in cui agiscono potenti multinazionali e lobby finanziarie inseriti pienamente nei gangli vitati della politica, al fine di condizionarne le scelte. Pubblicato sul quotidiano l'Attacco il 4 settembre 2020.

LA DISTRUZIONE DELLE BANCHE MERIDIONALI. CONCENTRAZIONE BANCARIA ED ELIMINAZIONE DEI PLAYERS BANCARI DEL SUD ITALIA: DAL BANCO DI NAPOLI AL BANCO DI SICILIA. Michele Di Pace il 15.09.2020 su movimento24agosto.it. Di Luca Lozupone.

Il quadro normativo. A partire dal 1990 per effetto di pressioni internazionali, e dal 2005 anche di Banca d’Italia, è stato avviato un energico processo di concentrazione bancaria. La legge Amato del 1990, infatti, recepiva le Direttive europee ed equiparava gli istituti creditizi pubblici con quelli privati e favoriva l’adozione, per le imprese sotto il controllo pubblico, di forme societarie privatistiche. Le banche vengono incentivate a diventare società per azioni. Per quanto riguarda il credito a medio-lungo termine venne resa possibile la riunificazione in una sola società dell’attività di intermediazione mobiliare svolta in precedenza da istituti diversi. Rendendosi necessaria una separazione tra gestione e controllo delle banche, le partecipazioni bancarie vennero affidate a determinati enti, le fondazioni, da cui venne scorporata l’attività bancaria, conferita a società per azioni di cui le fondazioni stesse possedevano inizialmente l’intero capitale: una forma dunque di privatizzazione “formale” delle banche. Con la Legge 474 del 1994 si disciplinò poi la privatizzazione “sostanziale”, cioè la dismissione delle partecipazioni in capo alle fondazioni, incentivata attraverso vantaggi fiscali. Il Testo Unico del 1994 delle leggi in materia bancaria e creditizia sancisce l’attività bancaria come attività imprenditoriale: le banche possono operare senza limitazione di operazioni, servizi, scadenze nella raccolta ed impiego dei fondi, e possono emettere obbligazioni e strumenti di deposito. Le parole d’ordine diventano “imprenditorialità e libero mercato”. Cade la distinzione tra le banche di deposito e istituti speciali di credito, presente fino ad allora nel sistema italiano. Sotto la vigilanza della Banca d’Italia è consentita la commistione dell’azionariato di banche e industrie. A partire da questo momento tutte le banche diventano contendibili e inizia il processo frenetico di fusioni ed acquisizioni a tutt’oggi non concluso. Se nel 1995 la quota di mercato detenuta dalle prime cinque banche è del 32,36%, alla fine del 2017 passa al 43,3% (sul totale degli attivi totali del sistema bancario italiano).

EFFETTI DELLA DEREGULATION BANCARIA AL SUD ITALIA: IL CASO BANCO DI NAPOLI. Dopo l’approvazione del Testo Unico bancario l’IRI cede le quote maggioritarie dei due istituti bancari del Sud Italia: il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia definiti dal Ministero del Tesoro come in “sostanziale fallimento”. Nel 1997 il ministero del Tesoro cede il 60% del capitale del Banco di Napoli alla BN Holding, detenuta al 51% dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) e al restante 49% dalla BNL. Nel 2000 la holding verrà acquisita da San Paolo-Imi. La modalità di questa privatizzazione destarono subito la netta contrarietà dell’allora presidente della fondazione del Banco di Napoli, Gustavo Minervini. Infatti nel 1996 il ministero del Tesoro azzera il capitale sociale e ricapitalizza il Banco, senza riconoscere alcun corrispettivo relativo al diritto di opzione dei vecchi soci tra cui la Fondazione del Banco di Napoli. Quindi nel 1997 la Fondazione è stata costretta a vendere ex-lege il Banco per 61 miliardi di lire alla Bnl e Ina (entrambi ancora di proprietà del ministero del Tesoro), che l’hanno poi rivenduta nel 2000 a San Paolo-Imi per 3.600 miliardi. L’autore Rispoli Farina nel suo libro “Il caso Banco di Napoli” descrive l’accaduto come una precisa volontà “espropriativa” della principale banca del Sud Italia, espropriata appunto per salvare una banca italiana come la Banca Nazionale del Lavoro. Infatti l’enorme plusvalenza permise il salvataggio della Bnl che prima di allora era in perdita. A rendere l’operazione di privatizzazione del Banco di Napoli ancora più sospetta è il passaggio a valore di bilancio e pro soluto dei crediti deteriorati alla SGA (società di gestione delle attività), quale bad bank. Ricapitolando il Banco paga SGA a valore di bilancio per liberarsi dei suoi crediti deteriorati e, in caso di minusvalenze, si impegna a ripianare le perdite della SGA. Quindi era stato predisposto un ulteriore strumento di garanzia a favore dei futuri acquirenti del Banco di Napoli che sarebbero stati sollevati dalle eventuali perdite generate dalla SGA. È da notare che gli utili maturati dalla Società per la Gestione delle Attività (SGA) sono stati acquisiti dal Tesoro e destinati al fondo Atlante II. Questi capitali sono stati utilizzati dallo Stato italiano per intervenire nelle crisi di Mps, banche venete che nulla hanno a che vedere con il territorio in cui operò il Banco di Napoli. Purtroppo il saldo attivo della SGA non è mai stato calcolato, e questo ha sicure responsabilità politiche, e quindi è impossibile ad oggi ristorare i soci, cioè la Fondazione Banco di Napoli.

LA PRIVATIZZAZIONE DEL BANCO DI SICILIA. Come per il Banco di Napoli, anche per il Banco di Sicilia e Sicilcassa la legge Amato del 1990 ed il Testo Unico Bancario del 1994, uniti alla confusione portata dallo scandalo “Tangentopoli”, sono l’occasione per la sottrazione di importanti istituti di credito alle regioni del Sud Italia. All’inizio degli anni novanta la linea della Banca d’Italia appare chiara: togliere alla Regione siciliana il controllo del Banco di Sicilia. Infatti la regione esprime tre componenti su cinque del Comitato esecutivo del Banco. Il piano della Banca d’Italia è la sua fusione con la Banca di Roma. Sarà aiutata in questo dal membro del consiglio di amministrazione espresso dall’Istituto di vigilanza. Nel 1994 gli azionisti del Banco di Sicilia sono tre: Fondazione con il 60%, Tesoro e la Regione siciliana con il 20% del capitale ciascuno. Lo Stato italiano attraverso il Tesoro scende in campo per realizzare il piano di Banca d’Italia: con 600 miliardi di lire di ricapitalizzazione punta ad acquisire la maggioranza delle azioni. La fondazione però, guidata da Carlo Dominici, chiede invece che prima venga determinato il valore del Banco e poi si passi alla ricapitalizzazione. Dominici riesce a prevalere. Per la valutazione del patrimonio viene incaricata Sofipa, società di Mediocredito a sua volta controllato dal Tesoro. Per Sofipa il valore del Banco di Sicilia ammonta a 3. 400 miliardi di lire. Ciò significa che con 600 miliardi di lire il Tesoro non potrebbe acquisire il controllo del Banco. Ma questa valutazione non viene tenuta in conto, anche perché risulta essere superiore alla stima dei periti del Tribunale in sede di costituzione del Banco di Sicilia spa. Viene quindi incaricata la Giuberga Worburg che valuta il Banco 1.200 miliardi. Cifra che corrisponde esattamente al capitale sociale. Più che una valutazione sembra una svalutazione. Nel 1996 esplode il caso Sicilcassa che registra perdite per 4mila miliardi di lire. L’occasione viene sfruttata da Roma (Banca d’Italia e Tesoro) per spingere il Banco di Sicilia ad acquisire Sicilcassa, che era in stato comatoso. Il ministro del Tesoro è Ciampi, Mario Draghi è il direttore del Ministero del Tesoro e Vincenzo Fazio è il governatore della Banca d’Italia. Probabilmente l’obiettivo è quello di rendere il rilancio del Banco impossibile e quindi non in grado di resistere ad un’acquisizione di un gruppo di fuori regione, quale sarà in seguito la Banca di Roma. Quindi utilizzando la legge Sindona lo Stato inietta 3 mila e 600 miliardi di lire per ricapitalizzare il Banco di Sicilia-Sicilcassa attraverso Mediocredito Centrale che detiene ora il 40% delle azioni. Finalmente lo Stato italiano ha la maggioranza delle azioni del Banco (forse era questa la vera ragione dietro la spinta dello Stato ad acquisire la fallimentare Sicilcassa). Il Banco può essere ora definitivamente spolpato e consegnato alla Banca di Roma. L’ultimo passaggio avviene nel 2002. La rete bancaria del Banco di Sicilia viene fatta confluire nella Banca di Roma mentre la holding che ne detiene le azioni prende il nome di Capitalia. La Regione siciliana e la Fondazione Banco di Sicilia, che detenevano ancora il 39% del capitale del Banco si ritrovano ora azionisti di minoranza della holding Capitalia. Quindi il Banco risanato con i soldi statali contribuirà agli utili della Banca di Roma, che diventerà Capitalia e poi Unicredit. In conclusione la partecipazione al Banco di Sicilia è costata alla Regione siciliana 600 miliardi di lire in aumenti di capitale per una banca che ha spostato il suo centro decisionale prima a Roma e poi a Milano. Questo evento avrebbe meritato ben altra attenzione pubblica e mediatica.

LA DISTRUZIONE DEL SISTEMA BANCARIO AL SUD (PARTE II): LA BANCA POPOLARE DI BARI. Michele Di Pace il 23.09.2020 su movimento24agosto.it. Di Luca Lozupone. “La decisione di realizzare un’acquisizione resta sempre del vertice delle banche, la Vigilanza non può imporla”. È quanto affermato dalla vicedirettrice della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli, nel corso di un’audizione alla Camera dei Deputati il 9 gennaio 2020. Intercettazioni telefoniche e l’analisi dei fatti raccontano però una storia diversa. La domanda era il perchè Banca d’Italia avesse autorizzato alla Banca Popolare di Bari (BPB) di acquisire la Cassa di Risparmio di Teramo, mossa che provocherà la crisi irreversibile della banca pugliese. Non è la prima volta che Banca d’Italia finisce sul tavolo degli imputati in merito alla carente vigilanza bancaria negli ultimi anni. Veneto Banca, Banca Popolare di Vicenza e Monte dei Paschi di Siena sono gli esempi più lampanti. Si ricorda che, con l’introduzione dell’Euro, la Vigilanza bancaria è l’unico compito rimasto in capo a Banca d’Italia. La Popolare di Bari è stata una banca guidata, fin dalla sua fondazione nel 1960, dalla famiglia Jacobini e gestita secondo il modello di impresa familiare. Nel corso degli anni aveva accresciuto la propria penetrazione commerciale espandendosi in Italia meridionale e centrale anche grazie all’acquisizione di piccole banche locali e di sportelli di altre banche. Nell’aprile 2009, però, dopo che BPB acquisisce la Cassa di Risparmio di Orvieto la Banca d’Italia le richiede di astenersi da iniziative di ulteriore sviluppo. La ragione è che deve irrobustire il proprio assetto organizzativo e di controllo. O forse non si vuole una banca meridionale indipendente ed attiva che faccia concorrenza ai giganti tosco-padani. È proprio per venire incontro ai rilievi della Vigilanza che nel luglio 2013 viene nominato Luca Sabetta Chief Risk Officer con il compito di verificare, ed in caso bloccare, tutte le operazioni della Banca. A novembre di quell’anno si verifica un evento che avrebbe cambiato per sempre la storia della Popolare: subentra infatti ad un prestito di 480 milioni di euro che la Banca d’Italia aveva concesso alla Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas), la quale non era in condizioni ottimali essendo in amministrazione straordinaria (l’anticamera del fallimento) da 18 mesi. In pratica Tercas non sarebbe mai stata in grado di ripagare il prestito di quasi mezzo miliardo di euro e l’intera operazione appariva da subito come un favore di BPB a Banca d’Italia.

BANCA D’ITALIA BLOCCA L’ESPANSIONE DELLA POPOLARE BARI. ANZI NO, PER TERCAS SI PUÒ FARE UN’ECCEZIONE. La cosa stranissima ed inquietante è che BPB continua ad avere il vincolo alla non espansione da parte della Vigilanza. Infatti per effetto di questo stesso vincolo non ebbero esito un suo progetto di integrazione con un’altra popolare nel 2010 e l’acquisizione di una partecipazione qualificata in una finanziaria nel 2011 (fonte: Banca d’Italia – Domande e risposte sulla crisi della Banca Popolare di Bari). Quindi integrazione con un’altra banca popolare no, acquisizione di una banca in amministrazione straordinaria, prossima al fallimento, sì. Stranissimo ed inquietante. “La decisione di realizzare un’acquisizione resta sempre del vertice delle banche, la Vigilanza non può imporla” raccontava in sede istituzionale l’alta dirigente di Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli. Non sembra questo il caso. Le condizioni contabili e patrimoniali di Tercas appaiono subito drammatiche. “Abbiamo cominciato a ricevere dei rapporti riservati sulla situazione di questa banca [Tercas] perché quello che trovo qui è una situazione drammatica. Questi vanno cacciati tutti” disse l’allora amministratore delegato Vincenzo De Bustis al c.r.o. Sabetta riferendosi ai dirigenti della banca abruzzese. Il 25 novembre 2013 Sabetta riceve una presentazione in power point sulla situazione di Tercas in cui spiccano i 3,46 miliardi di euro di crediti deteriorati. La posizione di Sabetta, in qualità di capo del rischio, è quella di non approvare l’aquisizione. La BPB non hai i mezzi per integrare una Banca così problematica. Ma qui avviene il colpo di scena. Il 13 dicembre del 2013, infatti, De Bustis convoca Sabetta dicendogli che il Responsabile del Dipartimento di Vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, ravvisava un conflitto di interessi tra Sabetta e egli stesso poiché Sabetta e De Bustis avevano lavorato insieme in altre banche (Banca del Salento-Banca 121 e Monte dei Paschi di Siena). Barbagallo indicava quindi la necessità di una immediata risoluzione del conflitto di interessi. Sabetta aveva effettivamente lavorato con De Bustis, ma dodici anni prima ed in contesti diversi. Secondo un’intercettazione telefonica della Procura della Repubblica di Bari pubblicata sul sito fanpage.it sempre quel 13 dicembre De Bustis dice a Sabetta: “No, no, mo’ prima devo dire ‘sta cosa a te. No, in questa circostanza c’è un po’ di protezione in Banca d’Italia, no? Però non voglio creare casini a loro con... per un... proprio quisquilia, capito?” Ora sappiamo che De Bustis considera 4,36 miliardi di crediti deteriorati “quisquilia” e che Banca d’Italia guida l’operazione. Presumibilmente l’obiettivo della Vigilanza e del Governo era quello di costringere BPB a trasformarsi in società per azioni, azzerando il capitale dei soci dei soci, così come abbiamo visto nella distruzione del Banco di Napoli e Banca di Sicilia, per poi regalarla ad un gruppo bancario “nazionale” cioè tosco-padano. Piano che si sta velocemente realizzando. Quindi, senza Sabetta, l’acquisizione di Tercas può procedere spedita. Nel luglio 2014 Banca d’Italia autorizza l’operazione con un contributo di 330 milioni di euro del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, comunque insufficienti rispetto alla mole dei crediti deteriorati. Dobbiamo aspettare però il luglio 2016 affinché l’operazione vada in porto a causa della cattiva abitudine del governo italiano di concedere aiuti senza la preventiva autorizzazione della Commissione Europea. Infatti i 330 milioni di Euro erano stati considerati “aiuti di Stato” e pertanto bloccati. Con l’acquisizione di Tercas la situazione di BPB diventa sempre più preoccupante. Gli NPL (non performing loans) passano dal 14,8 al 21,8 percento nel corso del solo 2014 (fonte: Banca d’Italia). Anche l’aumento di capitale per 553 milioni di euro (fonte: Banca d’Italia) effettuato nel biennio 2014-2015 tra nuove azioni e emissioni di obbligazioni subordinate, il cui valore è andato ora distrutto, non saranno sufficienti a puntellare il capitale. Si tratta di sottoscrizione di capitale di rischio e di strumenti finanziari ibridi (cioè che in caso di necessità l’emittente può trasformarli da debito in capitale) da parte di ignari correntisti che vi investivano i risparmi di una vita. Colpisce, anche in questo caso, l’assordante silenzio della Vigilanza.

I PROBLEMI AUMENTANO. I revisori contabili (almeno loro) iniziano a mettere in risalto le criticità della Popolare. Nella relazione al bilancio del 2017, il primo che consolida le poste di Tercas, PwC riporta una sezione sugli “aspetti chiave della revisione contabile”. In essa vengono fatte minuziose considerazioni sulla valutazione dei crediti verso la clientela, recuperabilità delle imposte anticipate, riduzione di valore degli avviamenti. La relazione scrive anche dell’esplicita responsabilità degli amministratori per la valutazione dell’utilizzo del presupposto della continuità aziendale. È un vero e proprio campanello d’allarme. Probabilmente PwC lo fa anche per difendersi. Carmelo Barbagallo, il capo della Vigilanza tanto solerte nell’estromettere Sabella (“per conflitto di interessi”) che aveva ravvisato criticità nell’acquisizione di Tercas, tace. Tace l’intera Banca d’Italia, guidata da Ignazio Visco, che pure ha come unico compito quello della Vigilanza bancaria. Anzi alla fine del 2017 a Visco viene rinnovato dal governo Gentiloni il mandato della durata di sei anni di Governatore della Banca d’Italia. Evidentemente la bravura non passa inosservata. Banca d’Italia continua a non far pervenire segni di vita neanche quando il bilancio 2018 della Popolare registra una perdita record di 420 milioni di euro e PwC nella sua relazione al bilancio scrive di “incertezza significativa relativa alla continuità aziendale” e che “gli amministratori ritengono di poter confermare la sussistenza della continuità aziendale”. Seguono, come per il 2017, pagine intere relative alle “procedure di revisione in risposta agli aspetti chiave”, in cui PwC elenca tutti i controlli effettuati sulle poste contabili maggiormente critiche. Il revisore elenca i controlli effettuati per difendersi nel caso di problemi, ritenuti evidentemente imminenti. Infatti al revisore spettano i controlli, ma è la Vigilanza che deve prendere decisioni sulla base di quegli stessi controlli. Infatti Banca d’Italia ha dal 2015 il potere di rimuovere i vertici di BPB (art. 53-bis, comma 1, lett. e) del Testo Unico Bancario). Questo potere può essere esercitato anche nei confronti di esponenti che soddisfino i requisiti di idoneità previsti dalla normativa (art. 26 del TUB), ma che evidentemente non sono dei validi amministratori. Nel silenzio di Banca d’Italia De Bustis, che aveva lasciato BPB nel 2015, incredibilmente vi ritorna alla fine del 2018 come amministratore delegato. Carica che viene confermata nel luglio 2019. Nel frattempo il dissesto della Popolare aveva attirato l’attenzione della Procura della Repubblica di Bari che apre un fascicolo. Nel luglio 2019 il presidente Jacobini si dimette, ma a sostituirlo è il nipote Gianvito Giannelli. Secondo l’audio pubblicato su fanpage.it è proprio Giannelli che ancora il 10 dicembre 2019 (a pochi giorni dal commissariamento della Popolare) tranquillizza dirigenti e dipendenti spiegando che non c’è da temere il commissariamento perché “ci appoggia il mondo politico, e ci appoggia anche la Vigilanza”. Ottimismo condiviso da De Bustis che anche lui fatica a comprendere il non interventismo di Banca d’Italia. Infatti interviene a quella stessa assemblea dicendo: “Bontà loro, e per ragioni strategiche altissime, qualcuno ha deciso che la Banca debba sopravvivere”.

EPILOGO. Il 13 dicembre 2019 arriva infine quello che molti temevano: la BPB entra in una irreversibile crisi di liquidità e pertanto viene commissariata da Banca d’Italia con la nomina di Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari. Nel salvataggio interviene il Fondo interbancario di tutela dei depositi per 1,17 miliardi di euro e Mediocredito Centrale (Mcc, di proprietà del Ministero dell’Economia e Finanze attraverso Invitalia) per 430 milioni di euro. Il buco provocato dalla Popolare di Bari ammonta quindi a 1,6 miliardi di euro. Il Fitd, dopo aver ripianato le perdite e ricostruito il capitale, cederà le azioni a Mcc al prezzo di un euro. Mcc avrà alla fine il 97% del capitale mentre il 3% rimanente è stato assegnato agli attuali soci. Il 29 giugno 2020 l’assemblea straordinaria della Banca ha approvato l’aumento di capitale e la sua trasformazione in SpA, probabilmente fin dall’inizio vero obiettivo dell’operazione Tercas. Infatti in una SpA gli azionisti non possono opporsi all’ingresso di nuovi investitori, e la Banca diventa quindi contendibile. Nel giro di 18 mesi la ex-BPB, risanata e dotata di capitali freschi, si teme, sarà pronta per essere consegnata ad un gruppo bancario dell’asse Toscana Nord-Ovest.

ANALOGIE TRA BANCO DI NAPOLI, BANCA DI SICILIA E POPOLARE BARI. La fine del Banco di Napoli, Banca di Sicilia e Banca Popolare di Bari presenta delle caratteristiche comuni che possono essere riassunte qui di seguito:

Induzione da parte di Banca d’Italia di una banca di medie dimensioni verso scelte strategiche sbagliate (acquisizione di Sicilcassa per Banca di Sicilia e Tercas per la Popolare di Bari mentre per il Banco di Napoli si passa direttamente al punto successivo);

Azzeramento del valore delle azioni di soci o azionisti;

Iniezione di denaro pubblico (attraverso il Fitd, Mcc o Mef);

Svendita della Banca meridionale ora risanata e ricapitalizzata ad un gruppo bancario dell’area Toscana Nord-Ovest (Banco di Napoli a Bnl prima Banca Intesa poi, Banca di Sicilia a Unicredit, Banca Popolare di Bari a Monte dei Paschi di Siena?).

CONSIDERAZIONI FINALI. Notizie di questi giorni danno già adesso un’indicazione della strada che la ex Popolare seguirà nei prossimi mesi ed anni. Infatti il 15 settembre 2020 l’azionista statale Mcc ha nominato il bolognese Giampiero Bergami direttore generale. Bergami è stato fino all’agosto scorso vicedirettore di Banca Monte dei Paschi di Siena e proprio nel 2021 lo Stato (rappresentato dal Mef che ora ne detiene il 68%) dovrà uscire dal capitale della Banca senese, secondo gli accordi dell’Italia con la Commissione Europea. È naturale quindi pensare che la ex-Popolare, risanata e ricapitalizzata con soldi pubblici, e cioè di tutti, sarà svenduta a Mps, una banca moribonda e dissestata, caratterizzata da innumerevoli problemi di carattere gestionale, finanziario ed esistenziale. A chi sta a cuore Bari, la Puglia ed il Sud Italia non può e non deve rassegnarsi alla perdita di una Banca che è parte integrante del nostro territorio, della nostra vita e del nostro successo. La ex-Popolare di Bari deve avere la possibilità di restare indipendente e di contribuire al progresso economico dei territori in cui opera. Stupiscono il silenzio del sindaco di Bari Antonio Decaro, del presidente di regione Michele Emiliano, quasi che la Banca Popolare di Bari non faccia parte della nostra terra, del nostro lavoro e delle nostre aspirazioni. Vorrei che questo articolo abbia la più ampia risonanza possibile e che tutti noi facessimo qualcosa, per esempio contattando i parlamentari che ci rappresentano (di tutti i partiti e di tutti gli schieramenti) che hanno il potere di bloccare l’ennesimo furto bancario ai danni di una parte del Paese. Vorrei che a questa battaglia di civiltà si unissero i nostri amici veneti, a cui hanno sottratto nel corso degli anni Banca Antonveneta, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza, secondo dinamiche già viste in questa ed in altre sedi. Siamo in tanti ma non lo sappiamo.

·         La Televisione che attacca il Sud.

LA TELEVISIONE CHE ATTACCA IL SUD NON FA IL BENE DELL’ITALIA. Michele Eugenio Di Carlo il  09.04.2020 su movimento24agosto.it. La comunicazione politica dai toni populistici, divisivi, ultimativi, definita dagli esperti di marketing politico “liquida”, tesa in maniera spasmodica alla continua ricerca di un consenso elettorale effimero, facendo leva più sull’emotività che sulla razionalità, si è fortemente insinuata nell’ambito dei social, ma si è anche avvalsa di una potente rete di media nazionali tramite i normali canali di divulgazione televisiva e alcuni dei maggiori giornali italiani, che hanno contribuito anche ad alimentare non pochi luoghi comuni e pregiudizi che presentano il Mezzogiorno con un’ottica distorta. Da quest’ultimo punto di vista, non solo l’informazione politico-mediatica “liquida” ha fatto scuola, anche il sistema pubblico dell’informazione ha contribuito decisamente a far percepire il Mezzogiorno come un’area dalle problematiche irrisolvibili. Infatti, i docenti universitari di sociologia dei processi comunicativi Stefano Cristante e Valentina Cremonesini, in un testo pubblicato nel 2015 (La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo), hanno reso noto i loro studi statistici: il TG1 della RAI, negli ultimi 35 anni, ha dedicato solo il 9% delle notizie al Mezzogiorno e quasi solo per parlarne male: cronaca nera, criminalità, malasanità, meteo. Tralasciando le statistiche di giornali e tv di proprietà privata che mettono quotidianamente in cattiva luce il Mezzogiorno, colpisce nello studio dei due studiosi che anche il Corriere della Sera e la Repubblica abbiamo dedicato spazi esigui al Sud, passando dai 2000 articoli del ventennio 1980-2000 ai 500 del decennio 2000-2010, occupandosi quasi solo di metterne in rilievo i mali e ignorandone sistematicamente gli estesi e avanzati processi culturali nel mondo dell’arte, della musica, del cinema, della cultura in generale. C’è una convergenza perfetta, e sospetta, tra il potere politico-finanziario nord-centrico e i media negli ultimi 35 anni. Tornando alla comunicazione politica “liquida”, è indubbia la preoccupazione che essa genera visto che occupa una fascia importante dell’informazione che conta, peraltro quasi totalmente accentrata nelle mani di poteri politici-finanziari di parte sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista geografico e territoriale, creando nelle popolazioni con una vera e propria operazione di distrazione di massa continue ansie, paure, incertezze, odio verso nemici spesso immaginari e nei confronti della parte debole e abbandonata del paese: il Mezzogiorno. Buona parte della televisione italiana ha da anni inaugurato una comunicazione dominata dalla presenza di una ventina di commentatori a vario titolo onnipresenti (politici, intellettuali, giornalisti, sociologi, economisti), che impongono con un linguaggio urlato, supponente, arrogante le posizioni politiche, culturali, economiche pretese da chi finanzia, gestisce e produce il talk show televisivo. Talk show che ha, tra gli altri, il fine di produrre profitti attraverso le sponsorizzazioni. Ed ecco che commentatori politici e non, dai curriculum dilatati e spesso improbabili, vengono messi su di un piedistallo e diventano famosi, al prezzo di assolvere l’unico ruolo per il quale sono stati selezionati: dare sempre e comunque ragione al conduttore, urlando e sbraitando selvaggiamente contro chiunque dissenta dalla scontata e spesso squallida linea redazionale, trovando sempre il conforto e il supporto di un pubblico plaudente a comando che alimenta la percezione in telespettatori, spesso sprovveduti, che quello sia il modo onesto e persino serio di affrontare problematiche spesso inventate di sana pianta. E’ così che molti cittadini italiani hanno assorbito odio e paranoie, convincendosi attraverso il supporto di statistiche spesso non certificate che la delinquenza sia aumentata, che gli stupri siano compiuti da un’etnia particolare, che i clandestini siano il primo problema in Italia, che vi sia in atto una sostituzione etnica e religiosa, che le case popolari siano assegnate a profughi ed extracomunitari, che chi affoga in mare se la sia cercata, che il Sud è la palla al piede dell’Italia e, in questi tempi di emergenza sanitaria, che i meridionali non rispettino le regole, mentre viene continuamente evidenziato che le carenze strutturali della sanità meridionale sono sempre e solo questione di mafia, di amministratori incapaci, di mentalità sottosviluppata della gente. Da quest’ultimo punto di vista appare non solo preoccupante, ma persino raccapricciante, che nessuna di queste trasmissioni televisive abbia commentato il recente rapporto dell’Eurispes che attesta in maniera inconfutabile che al Mezzogiorno d’Italia dal 2000 al 2017 sono stati sottratti 840 miliardi. Mai che, oltre alle gravi responsabilità di una classe politica meridionale incapace di governare il proprio territorio, vengano rivelate le responsabilità precise di governi nazionali, di destra e di sinistra, che hanno deciso con scelte politiche chiare di non ridurre il divario Nord-Sud e di non affrontare di petto la questione mafia, alimentando e aggravando i fenomeni di degrado, di abbandono, di miseria, l’emigrazione e lo spopolamento di intere aree territoriali. Ma come siamo arrivati ad una televisione del genere? Una televisione in cui i conduttori e gli ospiti fissi esercitano spesso un ruolo decisivo nell’influenzare l’opinione pubblica al servizio di interessi particolari (finanziari, politici, promozionali), esulando dalla funzione di intrattenere il pubblico dando un’informazione corretta e certificata con dati chiari. Una televisione che non va assolutamente sottovalutata perché, seppur spesso non avente un grande seguito, taluni talk show vengono continuamente rilanciati sui social da referenti politici di riferimento e da sponsor raggiungendo decine di milioni di persone e riuscendo a rappresentare nella percezione comune una realtà distorta, spesso fingendo di colpire le élite mentre ne sono lo strumento, amplificando la voce di personaggi da macchietta per confutare e confondere quella di veri intellettuali ed esperti, facendo persino passare le vittime come delinquenti beneficiati e i delinquenti come vittime. Di fronte allo scempio informativo e al disastro culturale imposto da queste trasmissioni dal potere politico-mediatico fortissimo possiamo solo agire sugli sponsor, invitandoli a non consegnare i loro messaggi promozionali e pubblicitari a pagamento a chi non osserva le regole di una corretta informazione e a chi spesso diffonde messaggi etici e valoriali non condivisi dalle stesse aziende. Noi del Mezzogiorno lo possiamo far a maggior ragione e con più convinzione, visto che almeno l’80 % dei beni, dei prodotti e dei servizi pubblicizzati ha sede legale al Nord.

Coronavirus, Napoli: l'ombra della camorra dietro alcuni aiuti. Le Iene News il 22 aprile 2020. Giulio Golia ci mostra il dramma di chi vive nei quartieri poveri di Napoli. Dalle Vele di Scampia ai Quartieri Spagnoli fino al Rione Sanità c’è chi non sa che cosa mettere in tavola, chi ha perso il lavoro e chi non vuole scendere a compromessi perché alcuni aiuti che arrivano sembrano in odore di camorra. “Non si muore solo di coronavirus, ma anche di fame”. È il grido disperato che arriva da Napoli in queste settimane di chiusure per la pandemia. Giulio Golia è tornato alle Vele di Scampia. “Lo Stato non ci aiuta. Si sono scordati di noi”, dice una donna dalla finestra appena ci vede. “A noi ci fa vivere la camorra non lo Stato”, sostiene un altro residente mostrandoci come sono scoppiate anche le fogne. “Da quando è morta la camorra siamo letteralmente nella merda”. “Hanno detto che ci davano 600 euro, ma quando arrivano questi soldi?”, si chiede un altro residente dal balcone. Nei vicoli di Napoli la crisi si presenta con un’altra faccia. “Con quella buona di chi ti vuole aiutare, magari facendoti la spesa”, spiega Catello Maresca, sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia. Dove non arriva la solidarietà (e ce n'è tanta, pulita, e fatta con il cuore), in alcuni casi ci pensa anche la camorra a consegnare i pacchi di prima necessità. “Chi li prende un domani dovrà sottostare alle loro richieste perché hanno un debito di vita”, spiega Maresca. Alle Vele ci dicono che oggi vengono aiutati solo da associazioni benefiche e non tutte potrrebbero essere limpide. “Quando ti arriva il pacco non vai a guardare la fedina penale di chi te lo porta. Lo accetti perché c’è la gente che non può mangiare”, ci dice un residente. “Dire che non esiste la criminalità organizzata è indice dell’opposto. Ci sono dinamiche ormai rodate, difficili anche da denunciare”, spiega Maresca. “Non ce la facciamo più, vogliamo uscire. Ci dicono di aver stanziato i soldi, ma dove stanno?”, si chiede una donna. Ci spostiamo ai Quartieri Spagnoli, dove la situazione non sembra diversa. “Se non ci fanno andare a lavorare scendo con la mazza in mano”. Qui le conseguenze del coronavirus sono palpabili. “Se non c’era la nonna, non si mangiava”, ci dice un altro. Perché molti vivono con i genitori anziani e grazie alle loro pensioni riescono almeno a fare la spesa. “La gente non riesce a mettere il piatto a tavola, la cassa integrazione non arriva, chi lavorava a nero non ha più una lira”, spiega un altro. Molti hanno smesso di lavorare dall’8 marzo scorso. E ora dopo più di un mese anche i risparmi iniziano a finire. Ma qui qualcuno sta portando i pacchi solidarietà e a volte la provenienza non è chiara. “Vogliamo chiamarla camorra? Chiamiamola camorra. Non so che cosa sia, ma ringraziamo Dio che qualcuno ci pensa”. Lo stesso pensiero di un altro papà: “Purtroppo c’è sempre un ritorno, io per far mangiare mio figlio che cosa dovrei fare? Poi il ritorno quando arriva, arriva. Ora devo prendere quello che c’è da prendere”. Ma c’è anche chi vuole farcela da solo. “Non voglio ridurmi a prendere il pacco di pasta. Siamo tornati al tempo della guerra? E poi c’è la luce, il gas, il padrone di casa. E poi ci sono i debiti…”, spiega un residente. Siamo nel Rione Sanità, la terza zona di Napoli che visita Giulio Golia. C’è anche chi sta aspettando il terzo figlio: “Lavoravo a nero. L’azienda ha chiuso, noi siamo per strada. Chi mi dà i soldi per le visite di mia moglie e per il mangiare ai miei figli”. Qui un centro di solidarietà bella è la basilica gestita da don Antonio Loffredo: tanto associazioni aiutano con il cuore in mano, senza altri fini. Da questa base partono aiuti economici e per la spesa. “Noi suoniamo al campanello e lasciamo il pacco davanti al portone senza vedere i volti di chi lo riceverà”, spiega un volontario. “Lo facciamo per non togliere la dignità alle persone”.

Camorra e coronavirus: la risposta di Giulio Golia. Le Iene News il 23 aprile 2020. Dopo il servizio andato in onda martedì 21 aprile, Giulio Golia risponde ad alcune critiche nel nome della "città in cui sono nato, che amo e continuerò sempre ad amare: Napoli". Buongiorno a tutti, ci tengo a fare alcune precisazioni sul servizio andato in onda sulle possibili infiltrazioni della criminalità organizzata nel meccanismo di solidarietà. Lo faccio perché mi state scrivendo in tantissimi, alcuni anche con toni un po’ troppo violenti (forse è un po’ eccessivo minacciarmi di morte per un servizio, no?) perché avrei mostrato un aspetto non veritiero della città in cui sono nato, che amo e continuerò sempre ad amare: Napoli. Ho ricevuto anche tanti messaggi da parte delle decine e decine di associazioni per bene che stanno portando avanti iniziative meravigliose e utilissime alla comunità, iniziative come la spesa solidale, il carrello sospeso, reti di donazioni di privati per distribuire ai più bisognosi i beni di prima necessità. Mi si accusa soprattutto di non aver mostrato questo lato di Napoli, il suo grande cuore, l’enorme rete che si è attivata. Beh, a dire il vero, l’abbiamo fatto. Abbiamo ripetuto più volte che la rete di solidarietà è immensa, abbiamo parlato con i volontari del Rione Sanità, e li abbiamo accompagnati a consegnare i pacchi. Ma qui il discorso era un altro, e peraltro non riguarda solo Napoli. La solidarietà non può durare in eterno e non arriva dappertutto. E quello che abbiamo voluto fare è lanciare un allarme alle istituzioni: la camorra, così come la mafia e la ‘ndrangheta, si sta insinuando in questo vuoto. E non possiamo chiedere che a colmarlo sia il grande cuore del popolo napoletano con le tante e straordinarie iniziative di solidarietà. Perché quel vuoto deve colmarlo lo Stato, prima che lo facciano le iniziative criminali. Questo sta già avvenendo in alcune zone, e rischia di prendere piede in misura maggiore più avanti nel tempo se le misure del governo non saranno adeguate e soprattuto rapide. E non lo diciamo solo noi, lo dicono anche tre grandissimi magistrati, cioè il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, il Procuratore Capo di Catanzaro Nicola Gratteri e il Sostituto Procuratore della DDA di Napoli Catello Maresca, e un prete di frontiera che vive il territorio e lo conosce: Don Maurizio Patriciello di Caivano. Nessuno ha detto, come qualcuno di quelli che mi ha scritto ha insinuato, che tutte le associazioni che stanno operando sul territorio siano fatte da camorristi, anzi. Ma non si può fare finta che il fenomeno non esista, anche perché non riguarda solo il primo livello di solidarietà, e cioè i beni di prima necessità, ma anche gli aiuti alle piccole e medie imprese che sono in seria difficoltà e hanno bisogno di liquidità. Non avremmo dovuto parlarne? Penso che invece si debba fare, e con forza guardarlo in faccia il problema, per poterlo soffocare sul nascere. Napoli certo che ha un grande cuore, che combatte e sta cambiando la città, ma purtroppo non basta per cancellare del tutto “l’altro”, meno bello, che continua a esistere. Ed è qui che deve intervenire lo Stato, prima che sia troppo tardi.

“La mafia e l'antistato arrivano dove lo Stato non si muove”. Le Iene News il 29 aprile 2020. Giulio Golia torna a Napoli per parlarci del lato buono di questa emergenza. Sono tantissimi i volontari impegnati in prima linea per donare alimenti a chi non arriva a fine mese, ma se lo Stato non si muove, dove la beneficenza non può arrivare è concreto il rischio che possa infilarsi la mafia, come ci raccontano tre magistrati: il procuratore nazionale antimafia De Raho, il procuratore capo di Catanzaro Gratteri, e l’ex sostituto procuratore della Dda Maresca. “La mafia si muove dove c’è il bisogno e le persone non riescono a mettere il piatto a tavola. La solidarietà è enorme, ma purtroppo, per definizione, limitata. Se lo Stato non si muove, arriverà prima l’antistato”. A dirlo è Luigi De Magistris, sindaco di Napoli. Il suo pensiero è lo stesso che abbiamo provato a raccontarvi la scorsa settimana. Con Giulio Golia vi abbiamo parlato del grave pericolo della criminalità organizzata che può sfruttare un momento difficile come questo per arricchirsi (clicca qui per il servizio). Un pericolo che si insinuerebbe laddove la rete di solidarietà, che a Napoli sta facendo i salti mortali, non riesce ad arrivare. “Si presenta con la faccia buona di chi ti fa la spesa”, dice Catello Maresca, ex sostituto procuratore della Dda di Napoli. “Su questo rafforza quel sostegno sociale che le consente di crescere e operare”, aggiunge il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. È come se “tira la corda, ma non la spezza”, chiosa Nicola Grattieri, procuratore capo di Catanzaro. Nel primo servizio di Giulio Golia vi abbiamo mostrato la difficoltà dei quartieri più a rischio per lanciare un appello allo Stato. “Ogni giorno di ritardo apre possibilità alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta, di approfittarne”, sostiene De Raho. Ma a Napoli, anziché questo messaggio dal nostro servizio ne sarebbe passato un altro. “Per Le Iene quello che c’è dietro alla beneficenza fatta a Napoli è grazie alla camorra”, dice uno dei tanti volontari impegnati in prima linea. Una conclusione dettata forse anche da un errore del nostro sito, che poi abbiamo corretto, dove si veniva fatta una generalizzazione sugli aiuti. In questo fraintendimento si è scatenato il putiferio. Anche gli stessi volontari se la sono presa con Giulio Golia. “Sei stato veramente una iena. Sei un figlio rinnegato di Napoli perché hai raccontato solo il lato peggiore”, dice uno di loro. Sono volati insulti, accuse pesantissime e perfino minacce. Così abbiamo cercato un punto d’incontro per chiarirci, e raggiungiamo un ragazzo che ci ha criticato con un video sui social a Ischia. Ma dopo 20 minuti di urla e minacce di querela al procuratore gettiamo la spugna. “Se lo Stato non si muove, la camorra approfitterà di tutto come ha sempre fatto”, dice un passante. Ed è proprio questo il punto della questione che abbiamo affrontato nel servizio per cercare di alzare l’attenzione per chiedere allo Stato di intervenire. “Ultimamente in televisione Napoli viene attaccata e criticata continuamente. A un certo punto non ce la facciamo più”, aggiunge una donna. Durante questo confronto arriva almeno una buona notizia: “Apriremo uno sportello di ascolto per tutti i problemi che possono avere famiglie, artigiani, piccoli negozianti”, annuncia la presidente della Fondazione Banco di Napoli, Rossella Paliotto. “Lo Stato ancora non ha fatto arrivare la cassa integrazione di marzo e a oggi le aziende non riescono a fare le pratiche presso le banche. E queste non sono nella condizione di erogare le somme. Sono passati due mesi e non è arrivato niente di niente, nemmeno un euro. In questa situazione si muove l’antistato, punto”. L’impegno della Fondazione Banco di Napoli, delle associazioni, e dei tanti singoli che si sono dati fare, corre insieme a quello del Comune. “Siamo arrivati ai poverissimi, 27mila famiglie circa”, spiega il sindaco Luigi De Magistris. “E poi a qualche migliaio di persone con il banco alimentare di mutuo soccorso”. Un impegno però che non può andare avanti ancora per molto se lo Stato non si muove. “La solidarietà con le sue risorse ha un tempo limitato. Se lo Stato non fa il suo dovere per consentire alle persone di mantenere la loro dignità, entra in campo l’antistato. Ora stiamo camminando su questo filo”.

UNA RISPOSTA A GOLIA. Un volontario: “Rabbia e bugie. Alle signore nel servizio delle Iene abbiamo consegnato pacchi con lo Sgarrupato”. Sergio Valentino su Identitainsorgenti.com mercoledì 22 aprile 2020. Fa male. Fa male constatare come, per invidia o gelosia, si continui a denigrare Napoli e il Meridione. Ma fa ancora più male che a consentirlo e favorirlo mettendolo in pratica, sia proprio un figlio di questa terra, per la precisione uno di Torre del Greco, Giulio Golia, che dovrebbe anzi impegnarsi nello sforzo di non consentire che si continui a perpetrare il delitto di lesa maestà di un territorio che fu Capitale di bellezza e di cultura. E che in questi mesi ha dato prova di resilienza assoluta. Sciacallaggio mediatico. Non c’è una definizione più idonea, benché non siano pochi, e non certo così morbidi, gli epiteti che vengono alla mente dopo aver visto al servizio delle Iene andato in onda ieri sera, 21 aprile, su Italia 1, relativo ad un fondamentale impegno da parte della sola malavita organizzata per aiutare i cittadini napoletani in ristrettezze economiche, come sottolineanto nei titoli e nel lancio del servizio, prima ancora che lo vedessimo. La collera  però saliva man mano che il servizio andava avanti. Chi scrive, infatti, è in questo momento impegnato nella distribuzione di generi di prima necessità procurati grazie alla beneficenza di tanti incluse molte associazioni e aziende. Nessuno nega che la longa manus della camorra cerchi di infilare i suoi tentacoli ovunque, e anche il presidente della Seconda Municipalità, Francesco Chirico, aveva nei giorni scorsi messo in allerta gli organi preposti e denunciato su Facebook la paventata possibilità che questo potesse accadere. Ma al tempo stesso aveva sottolineato l’impegno di chi, come noi dello Sgarrupato e altre realtà laiche e religiose su tutto il territorio non solo locale, ma cittadino, si sta applicando con tutte le proprie energie, riuscendo, da ormai più di un mese, a raggiungere tutte le situazioni più difficili attraverso un passaparola e un ottimo sistema di comunicazione e collaborazione. Ma è chiaro che qui non c’entra tanto la camorra come tale. C’entra, piuttosto, il bisogno, la necessità, l’urgenza, da parte di una determinata e ben guidata politica del Nord, a screditare Napoli e tutto il Meridione con ogni meccanismo possibile e una macchina del fango che dura da oltre un secolo e mezzo, ma che in questo momento si sta esacerbando nel tentativo di coprire, in ogni maniera possibile, le manchevolezze e le responsabilità di intere schiere di politici, presidenti di Regione e direttori sanitari che hanno reso possibile una vera e propria carneficina di migliaia di persone in tutta l’area centro-settentrionale italiana!

Paesi, città e centri abitati trasformati in lazzaretti, e case di riposo per anziani che si sono trasformate in centri di smistamento e di contagio tra infettati e vecchietti ignari, passati in pochissimo tempo dal letto alla bara! Per non dire del tentativo di trasferire il virus al Sud attraverso quella assurda fuga di notizie che aveva portato alla diaspora verso i territori meridionali di tutti coloro che erano in alta Italia per lavoro o per studio! Illazioni? Non direi, visto che ancora oggi c’è chi ripete, cercando di apparire convincente, che è grazie all’impegno delle regioni settentrionali se il virus non si è propagato al Sud. Eh, già, perché il bello, ciò che né Salvini ne gli altri sono riusciti a mandare giù, è che al Sud il contagio si sia mantenuto “così basso”! Potranno dire quello che vogliono in relazione ai meriti e alle situazioni, ma i numeri parlano, carta canta, e il ritornello che ripete è che il Sud sregolato e disobbediente, il Sud che non obbedisce alle regole, quello della Napoli caotica e della Pignasecca affollata di gente (tutte fandonie smentite dalle stesse forze dell’ordine, a cominciare dal Comandante dei Vigili Urbani, Ciro Esposito) sta dimostrando civiltà e rispetto, e continua a seguire file distanziate ed ordinate per effettuare la spesa. E lassù, al Nord, questo non sta bene, e allora cosa fanno? Cambiano il tiro, e spostano il dito per puntarlo verso l’ormai classico cliché della malavita organizzata e della camorra che si sostituisce allo Stato! Ma questa volta siamo noi a dire che non ci stiamo a questo gioco prefabbricato, a questa macchinazione ben incartata da quelli delle Iene con l’avallo e la complicità di amichetti evidentemente davvero legati alla malavita, visto che le riprese sono state effettuate in posti specifici e che le persone intervistate dai balconi noi dello Sgarrupato le conosciamo bene e personalmente, perché da alcune di quelle signore, che ce le avevano chieste, le buste con le confezioni di spesa solidale le abbiamo portate personalmente, e questo veleno in corpo e questa cattiveria non ce la meritiamo, e non ci meritiamo le sputazzate in faccia di tutta Italia e la vanificazione dei nostri sforzi e dell’impegno profuso sul territorio, noi come tutti i volontari di ogni quartiere e di ogni Città che si stanno impegnando nel medesimo modo a supportare la popolazione per superare tutti insieme il difficile momento che stiamo vivendo! Mai come ora la rete di collaborazione tra associazioni, centri sociali e chiesa stanno producendo frutti ben visibili, e se c’è qualcuno che si sta sostituendo allo Stato troppo attaccato ai tempi lunghi della burocrazia sono proprio i benefattori e le aziende che collaborano con noi, perché noi siamo solo le braccia, ma senza il corpo di tanta generosità noi non potremmo fare un accidenti! Purtroppo non siamo in grado di risolvere i problemi pressanti, come la difficoltà di pagare il fitto o le bollette, per quelle occorrono interventi autoritari di chi è preposto all’amministrazione con manovre che ottengano una sicurezza economica e lavorativa onesta quando l’emergenza sarà terminata e ognuno dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe per andare avanti: noi possiamo solo tentare di soddisfare la fame fisica e aiutare nuclei familiari in difficoltà a mettere il piatto a  tavola e tenere alto l’umore dei bambini e la salute degli anziani. Però non prestiamo a strozzo, non fittiamo e non prestiamo, no: noi rispondiamo gratuitamente agli appelli di aiuto e corriamo là dove ci viene richiesta una mano, e forse è proprio grazie a noi che questa volta la camorra non riesce ad infilarsi come vorrebbe, e come vorrebbero lasciare intendere quelli delle Iene! Noi non ci arrendiamo ai vostri intrallazzi, e non passeremo nell’ombra per lasciare la luce a chi deve fare le passerelle politiche con l’aiuto della manovalanza di dubbia integrità morale! Come cantano i 99 Posse, non ci avrete mai come volete voi: un buon cavallo si vede sulle lunghe distanze, e noi abbiamo ancora molte energie e tanto di buono da offrire, perché più voi ci calpestate, più noi ci rialziamo e combattiamo, ed anche questa volta sarà la costanza e l’impegno a dimostrare che valiamo, perché sappiamo di valere e lo dimostreremo ancora una volta al termine di questo lungo calvario procurato dalla pandemia, quando ci risolleveremo dalla polvere come sempre più forti di prima, nonostante i vostri meschini sforzi di sopraffazione! Perdonerete la mia veemenza, ma vi assicuro che la rabbia è davvero forte. A chi segue ciò che si sta operando sul territorio, lasciamo le valutazioni. La camorra c’è, ed è indiscutibile, ma non è giusto voler dare voce solo a una parte del discorso, e lasciare un accenno a tanto impegno di volontari e a tante opere di bene, basandosi su ciò che viene detto da esperti di legalità in chiave generica e da poche voci confuse raccolte tra i vicoli o a Scampia. Un vero servizio giornalistico deve essere effettuato a 360 gradi, o è giusto e normale pensare che si tratti di un affare pilotato dall’alto. Una sola cosa vorrei dire per concludere, e la dico rivolgendomi a Giulio Golia, che ha firmato il servizio recandosi sul posto per ascoltare ciò che voleva ascoltare, e che gli era stato detto di far dire: tu sei nato qui, sei un “terrone” come noi: fa male constatare ancora una volta quanto ti sia lasciato coinvolgere da questa offesa diffamante per la tua terra, e senza vagliare fino in fondo la verità ed ascoltare ogni voce di questa battaglia sociale che si combatte quotidianamente su un territorio già martoriato… Ti sei venduto, e hai concesso ancora una volta che il Nord sputasse in faccia al Sud. Ma quello che non hai compreso, e che temo non comprenderai mai, è che hanno sputato in faccia anche a te. Te lo sei fatto questo conto? Sergio Valentino

Delirio Iene, super magistrati e El Chapo contro Napoli: “La solidarietà è camorra”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 22 Aprile 2020. A Napoli le Iene e i super magistrati vedono solo la camorra. Ci sono i clan dietro la consegna delle spesa alle famiglie bisognose. Poco importa se da settimane associazioni di volontariato, chiesa e semplici cittadini si fanno in quattro per cercare di assistere tutte quelle persone in grande difficoltà per l’emergenza coronavirus. Una rete solidale enorme quella messa in piedi a Napoli, così come in altre città d’Italia. Per Giulio Golia no. L’inviato delle Iene, tra l’altro di origine partenopea, torna spesso nella sua città con obiettivi mirati. Questa volta il servizio doveva raccontare la mano oscura della camorra dietro la solidarietà. E così è stato. Supportato dalle dichiarazioni dei tre magistrati Nicola Gratteri, Catello Maresca e Federico Cafiero de Raho, che da settimane denunciano la presenza della criminalità organizzata in questo tipo di iniziative, Golia è andato a Scampia, nei Quartieri Spagnoli e nel Rione Sanità con un unico grattacapo. “Qui dicono che c’è la camorra che consegna la spesa, è vero?”. E fa nulla se la maggior parte delle persone intervistate, dalle famiglie dei bassi agli abitanti delle Vele a padre Antonio Loffredo, sottolineano la grande rete solidale che si è attivata in queste settimane, ricordando anche le preziose pensioni dei nonni che mantengono famiglie addirittura di 5-6 persone. Per le Iene, supportate sempre dalle dichiarazioni allarmanti dei vari Gratteri e Catello Maresca, esiste solo la camorra. Bisogna raccontare solo questo anche se non ci sono prove, testimonianze dirette. Perché l’inciucio sulla criminalità organizzata, che a Napoli esiste ma, per fortuna, esiste anche tanto altro, è l’unica cosa che riesce bene. Sono quegli stereotipi che non moriranno mai perché vengono continuamente alimentati da racconti enfatizzanti, quasi cinematografici, che fanno comodo a certa stampa nazionale e internazionale. E lo sa bene Golia che addirittura, in apertura di servizio, paragona la solidarietà della camorra napoletana con quella delle organizzazioni dei narcotrafficanti messicani, dalla famiglia del Chapo Guzman al cartello del Golfo, in “prima linea” per donare generi alimentari e altro con tanto di logo dei superboss su buste e cartoni. A Napoli, ma sarà stato poco attento Golia, non abbiamo avuto il piacere di vedere buste della spesa con il loghetto o i simboli riconducibili al clan Mazzarella, ai Contini o alle famiglie criminali di Scampia. Un servizio incompleto quelle delle Iene, purtroppo. “In Messico questa è una cosa normale” spiega Gratteri “perché il Chapo era considerato Dio. Costruiva ospedali, strade e scuole, comprava così il popolo delle Favelas dove la vita dell’uomo equivale a quella della di una gallina”. Un paragone forzato, pretestuoso, che oscura quanto di buono fanno ogni giorno la maggior parte dei napoletani. Perché basta far dire a Catello Maresca che “la camorra non si muove mai per beneficenza, istituisce un debito di vita che si sconta con la vita” per andare in giro e provare a estorcere dalla bocca dei cittadini quello che si vuole. Ma il coro delle persone intervistate, caro Golia, era sempre lo stesso: “Lo Stato si è dimenticato di noi, siamo rovinati, non moriremo di coronavirus ma di fame“. C’è chi aggiunge che non vale la pena nemmeno darsi alla micro-criminalità perché “oggi in carcere si muore“. Ma l’attenzione delle telecamere delle Iene finisce però su un uomo che urla da un balcone delle Vele che “la camorra a noi ci fa campare”. Concetto ribadito da un altro residente della zona, alla prese con un problema al sistema fognario che il comune di Napoli tarda a risolvere. L’uomo precisa: “Per me è meglio la camorra che lo Stato, perché cacciava i soldi e risolveva i problemi come questo qui delle fogne. Da quando è morta la camorra stiamo pieni di merda”. Altri abitanti delle Vele ribadiscono: “Le associazioni e la Chiesa portano i pacchi, non la camorra, non esiste proprio, è finita”. Ma Golia insiste, ricorda la rete solidale di associazioni e persone perbene ma sottolinea che “inevitabilmente qualcosa sfugge”. Parole che delegittimano il lavoro dei tanti volontari che rischiano il contagio pur di garantire assistenza e beni di prima necessità a chi in questo periodo sta soffrendo. Ma lo spettacolo deve andare avanti e quindi, anche senza prove, l’ennesimo servizio stereotipato è stato portato a casa. Complimenti.

La bomba di solidarietà, parlano i ragazzi volontari di Napoli: “Non è tutto camorra”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 25 Aprile 2020. Rosanna, Fiorella, Francesco e tanti altri ragazzi di Napoli non fanno parte di associazioni né comitati. Sono semplici volontari che, insieme ad un gruppo di persone, stanno assistendo, in modo diverso, le numerose famiglie in difficoltà durante questa emergenza coronavirus. Napoli da oltre un mese si è mobilitata, mostrando quella generosità che da sempre emerge nei momenti difficili e sta dimostrando di essere più forte di quei luoghi comuni e quei racconti sensazionalistici che mirano sempre e solo a raccontare la faccia sporca della città. Perché a Napoli è esplosa “una bomba di solidarietà” racconta Rosanna Laudanno, studentessa e consigliera della II Municipalità che comprende i quartieri di Avvocata, Montecalvario, Mercato, Pendino, Porto, S. Giuseppe. “Non è nemmeno più una questione di Stato e anti-Stato, qui si parla di una figura che si è messa in mezzo, autonomamente, fatta di persone, studenti, che va dalla periferia di Napoli al centro”. Dopo il servizio delle Iene e dell’inviato Giulio Golia, “bisognava far vedere un’altra faccia della città, quella della solidarietà, che oggi a Napoli è scoppiata. C’è tanto lavoro di persone normali, forse questo spaventa: la normalità di una città che si sta dando tanto da fare”. “E’ nato tutto all’improvviso -spiega – con un appello lanciato sui social che questa volta sono stati utilizzati in modo corretto, chiamando una serie di persone, soprattutto i giovani, a contribuire a questa distribuzione di beni primari, come medicinali e spese, alle persone più anziane. Si è creato un gruppo di 10 persone che lavorano sul territorio a titolo gratuito e con l’obiettivo di rendersi utili per il quartiere”. Con Rosanna c’è un’altra giovane studentessa, Fiorella La Marca, anche lei volontaria: “Siamo persone che neanche si conoscevano ma, accomunati dallo stesso intento, abbiamo condiviso qualcosa di bello in un momento di così grande difficoltà”. Le volontarie di Salvator Rosa hanno assistito numerose persone che vivono da sole: “Abbiamo ricevuto richieste da napoletani che vivono fuori e che hanno qui mamme, papà, fratelli, zii che vivono da soli. Quello che abbiamo fatto è non lasciarli abbandonati a loro stessi. Purtroppo è facile legare Napoli solo alla criminalità organizzata”. Nella zona delle Case Nuove, lungo via Vespucci e via Marina, c’è Francesco Russo, un “normale cittadino” che si è messo a disposizione, insieme ad un gruppo di amici, in questo momento di difficoltà. “Abbiamo lavorato duramente in questi 30 giorni, a volte dormendo anche 2-3 ore ma ero soddisfatto perché mi faceva stare bene quello che stavo facendo”. Francesco racconta che “dal 20 marzo al 10 aprile abbiamo consegnato spese a 1450 famiglie napoletane”. “Davamo appuntamento nello spiazzale dell’ospedale Loreto Mare alle tante persone che ci contattavano, perché tutto questo non si racconta? Ho contatti con numerose tv nazionali per la triste vicende dei miei tre parenti scomparsi in Messico anni fa e mai più ritrovati. All’epoca volevano tutti intervistarmi, oggi invece, nonostante i tanti messaggi inviati, nessuno mi ha calcolato”. Ma come è nato tutto questo? “E’ iniziato tutto su Instagram dove in un gruppo tra amici del quartiere facemmo una piccola colletta comprando beni di prima necessità e distribuendoli alle famiglie che ne avevano bisogno. Poi molti imprenditori, gente per bene, si sono fatti avanti anche grazie ai video da noi pubblicati e hanno donato alimenti e altri generi primari”. Associare Napoli sempre e solo alla camorra “fa notizia però bisogna anche sottolineare le tante eccellenze che abbiamo: dal professore Ascierto all’ospedale costruito in tempi record. Tutto questo fa male, bisogna anche documentare con prove e non solo con le chiacchiere. Non sono ancora riuscito a trovare una connessione tra Messico, Napoli e la beneficenza”.

De Crescenzo: "Qualcuno fermi Feltri, è istigazione all'odio razziale. Denuncia e mail agli sponsor". Il noto professore ha replicato alle dichiarazioni del direttore di Libero che ha definito i "meridionali inferiori nella maggior parte dei casi". Redazione di areanapoli.it il 21 aprile 2020. Gennaro De Crescenzo, napoletano, laurea in lettere, docente di italiano e storia, giornalista, saggista, specializzato in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli e fondatore nel 1993 del Movimento Neoborbonico, ha attaccato duramente il direttore di Libero, il giornalista Vittorio Feltri il quale ai microfoni di Rete 4, pochi minuti fa, ha dichiarato: "I meridionali sono inferiori in molti casi. Si arrabbiano? Chissenefrega". Ecco quanto scritto da De Crescenzo: "BASTA CON FELTRI: QUALCUNO FERMI QUESTO PERSONAGGIO. È ISTIGAZIONE ALL'ODIO RAZZIALE. SERVONO MIGLIAIA DI MAIL AGLI SPONSOR DI RETEQUATTRO ("Fuori dal coro" 21/4/20) e una denuncia penale, visto che l'Ordine dei Giornalisti non fa nulla". Poi ha aggiunto: "Feltri ha poi detto: "Cosa andremmo a fare in Campania? I posteggiatori abusivi? È invidia contro la Lombardia, sono complessi di inferiorità anche se IN GRAN PARTE DEI CASI I MERIDIONALI SONO INFERIORI". Il tutto tra battutine e risatine del conduttore Mario Giordano e dell'ospite. Riusciamo a far arrivare agli sponsor migliaia di lettere? Io gli ho scritto. "Fino a quando sponsorizzerete programmi come Fuori dal Coro con ospiti razzisti come Feltri che sputa fango sui meridionali "che in gran parte dei casi sono inferiori" io non posso più acquistare i vostri prodotti. Saluti rammaricati dal Sud". 

Feltri e i meridionali inferiori. Dipocheparole il 22 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. In questo simpatico spezzone di Fuori dal Coro di Mario Giordano possiamo ammirare (si fa per dire) Vittorio Feltri mentre tenta per l’ennesima volta di scatenare contro di sé una shitstorm prendendosela con uno dei suoi bersagli preferiti: i meridionali: “Molta gente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché ha un complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, credo semplicemente che i meridionali in molti casi siano inferiori”. Subito dopo potete ammirare come Giordano finga alla grandissima un po’ di indignazione come da copione dopo la frase di Feltri mentre in realtà nella sua testa sta esultando come Tardelli dopo il goal alla Germania nel 1982 perché Feltri ha fatto il suo solito spettacolino che farà arrabbiare metà del suo pubblico e divertire l’altra metà. Poi addirittura dice: “Ma se cambiano canale è un guaio!”.

Feltri attacca i meridionali, Ziliani: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha commentato le parole di Feltri sui suoi profili ufficiali social. Redazione areanapoli.it il 22 aprile 2020. Vittorio Feltri è intervenuto nel corso della trasmissione "Fuori dal Coro" utilizzando delle discutibili parole contro i meridionali. Il direttore di Libero è un fiume in piena e continua a non digerire la possibile scelta di De Luca di chiudere i confini della Campania. "Al Sud stanno gioendo per le disgrazie del Nord. Non dovrebbero odiarci così tanto, visto che ben 14mila meridionali ogni anno si curano nelle strutture lombarde. Hanno un sentimento di rabbia e invidia nei nostri confronti perché subiscono una sorta di complesso d'inferiorità. Io però non credo ai complessi d'inferiorità, credo che in molti casi i meridionali siano inferiori". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha risposto così a Vittorio Feltri sui suoi profili ufficiali social: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti. Oltre che esseri umani". Angelo Forgione, giornalista e scrittore napoletano, ha commentato così il pensiero di Feltri: "L'ODG capisca che quella di #Feltri, da tempo, non è libertà di opinione ma istigazione all'odio che non può essere più tollerata. Le trasmissioni deputate a creare scompiglio si nascondono dietro il suo sfacciato razzismo e lo strumentalizzano per compiere sinistri disegni".

Vittorio Feltri a Fuori dal coro: “Meridionali inferiori, subiscono il complesso”. Antonio Scali il 22 Aprile 2020 su TPI. Ieri, 21 aprile 2020 il direttore di Libero Vittorio Feltri è stato ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano. Che Feltri non sia uno che le mandi a dire e che ami le polemiche non è certo una novità, ma stavolta forse ha fatto un passo oltre, suscitando critiche unanimi. Ripercorriamo cosa è accaduto. Giordano gli ha chiesto se nei confronti della drammatica situazione in Lombardia a causa del Coronavirus ci sia stato “un po’ di accanimento“, una sorta di “godimento per i primi della classe che stanno male”. Una domanda provocatoria alla quale Feltri ha risposto senza tanti giri di parole: secondo il direttore di Libero, infatti, è evidente che ci siano persone che stanno godendo per la situazione della Lombardia. “Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del Coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che naturalmente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità“, ha spiegato Feltri. Il giornalista ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori“. Ecco il video tratto dalla puntata di ieri di Fuori dal coro: Una frase che ha messo in imbarazzo persino Giordano, conduttore della trasmissione, che ha bonariamente rimproverato il collega: “Adesso me li fa arrabbiare davvero”. Feltri ha poi risposto: “E chi se ne frega se si arrabbiano, secondo me si arrabbiano tutti i giorni. Mi insultano e mi augurano di morire ma io dico quello che penso”. La vera preoccupazione di Giordano però non sembra essere l’indignazione per le parole appena ascoltate contro i meridionali quanto l’auditel: “Se mi cambiano canale è un guaio”. A quel punto il direttore di Libero lo ha rassicurato dicendo: “Non preoccuparti, per queste cose non cambiano canale. Stanno lì di più per odiarmi maggiormente”. Feltri purtroppo non è nuovo ad uscite del genere nei confronti del Sud. Parlando sempre del Coronavirus, infatti, il giornalista in un recente articolo su Libero aveva parlato di “brutta fine meritata” per i meridionali. Le parole di ieri a Fuori dal coro hanno indignato molte persone, che adesso chiedono la sua definitiva radiazione dall’albo dei giornalisti.

Ilaria Roncone per giornalettismo.com il 22 aprile 2020. Ieri sera a Porta a Porta è andato in onda un incontro-scontro che in molti attendevano con impazienza. Lo testimonia il web, con l’hashtag De Luca – governatore della Campania – che è rimasto in trend topic per tutta la serata. Bruno Vespa ha invitato a parlare della situazione italiana e delle Regioni di provenienza il governatore Vincenzo De Luca e il suo omonimo della Lombardia, Attilio Fontana. De Luca ha parlato in maniera chiara e cristallina facendo riferimento al fatto che una regione con mille nuovi casi al giorno non può aprire come se nulla fosse. De Luca ha iniziato a farsi notare per il suo modo di comunicare diretto ed espressivo. Quello dei lanciafiamme a chi fa feste di laurea, per intenderci. Non è stato da meno nella serata di ieri quando, ospite a Porta a Porta, ha affermato davanti a Vespa e Fontana che non si devono dire più banalità. «Noi ci dobbiamo avviare alla vita ordinaria usando la ragione. Nessuno vuole mettere le barriere in New Jersey o i cavalli di Frisia da nessuna parte». Il cavalli di Frisia altro non sono che ostacoli difensivi utilizzati ai tempi del Medioevo. Il concetto è chiaro: no alle barriere fisiche, ma serve buon senso. Nei giorni scorsi molti governatori hanno parlato per la propria regione in merito alle riapertura, compresi De Luca e Fontana. Al riapriamo tutti del lombardo si era opposto il campano, affermando che se la Lombardia avesse riaperto senza condizioni i confini della Campania si sarebbero chiusi. De Luca ha chiarito: «Si dice semplicemente che occorre una posizione di prudenza. Cominciamo a scongelare la situazione, ma manteniamo anche dei controlli». Il principio deve valere per chi va da Milano a Napoli ma anche per chi va da Napoli a Milano, chiarisce De Luca. Riapertura con cognizione di causa, quindi: «Chi va in giro senza nessun motivo serio deve essere bloccato e sanzionato. Questo è tutto, almeno per alcune settimane». Chiaro e conciso, con riferimento diretto alla Lombardia di Fontana: «Se in alcune regioni non c’è quasi più il contagio ma in altre regioni abbiamo ogni giorno mille nuovi contagi credo che un elemento di prudenza debba essere mantenuto. Questo è tutto». Un intervento ragionevole al quale è difficile ribattere, posto che economia e vita sociale devono riprendere in maniera graduale e controllata.

Dagospia il 22 aprile 2020. Da La Zanzara – Radio 24. “C’è un livore nei confronti della Lombardia che si manifesta con una rivalsa nei confronti del Nord che è più ricco e versa soldi a Roma a tutto spiano, e poi è abbastanza chiaro che spesso nel Meridione soffrano di un complesso di inferiorità. Io invece non penso che soffrano di un complesso di inferiorità, penso che siano inferiori”. Lo dice Vittorio Feltri a La Zanzara su Radio 24 parlando delle polemiche tra alcune regioni sulla Fase 2 per la riapertura dell’Italia. In che senso sono inferiori?: “Tutta la loro economia è un disastro. Da un secolo tentano disperatamente di risollevarsi e non ci riescono, e c’è un gap che non riescono a colmare. Mi sembra la fotografia della realtà”. E Vincenzo De Luca?: “Mi sta molto simpatico. Dal suo punto di vista non potrebbe fare diversamente, e tenta di tenere alto l’orgoglio campano”. “Il Sud è inferiore – dice ancora – perché sono inferiori i dati. Il 25 per cento del Pil lo produce la Lombardia, non mi sembra che altrettanto si possa dire della Campania. Ci sono più malati e contagiati perché i focolai sono scoppiati lì, tutto qui”. Sono incazzati al Sud con te: “Ma chissenefrega, facciano quello che vogliono. Il Sud ha tutte le possibilità per risollevarsi basta che copino quello che succede al Nord, lavorare un po' di più sarebbe opportuno. E comunque c’è da ricordare che 14mila napoletani ogni anno vengono a curarsi a Milano” .

Coronavirus, Vittorio Feltri contro i meridionali: "Inferiori". L'Ordine valuta il danno di immagine. Lo scrittore Maurizio De Giovanni e il giornalista Sandro Ruotolo hanno deciso di agire in sede civile e penale per istigazione all'odio. Concetta Vecchio il 22 aprile 2020 su La Repubblica. Su Twitter è diventato il caso del giorno. L'Ordine dei giornalisti valuta una denuncia  "per danno d'immagine". Lo scrittore Maurizio De Giovanni e il senatore Sandro Ruotolo hanno deciso di agire in sede civile e penale, ipotizzando una violazione della legge Mancino, che sanziona le manifestazioni di odio. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, pur non citandolo, gli ha dedicato 'Je so' pazzo di Pino Daniele, "in particolare la fine di quella canzone, che per me è poesia" e intanto pensa ad azioni legali. Il Meridione insorge contro il direttore di Libero Vittorio Feltri, che l'altra sera, durante una puntata della trasmissione "Fuori dal coro", condotta su Rete 4 da Mario Giordano, ha detto: "Perché mai dovremmo andare in Campania? A fare i parcheggiatori abusivi? I meridionali in molti casi sono inferiori". Giordano gli aveva chiesto un parere sull'annuncio del governatore campano Vincenzo De Luca, che intende chiudere i confini regionali se le regioni del Nord dovessero ripartire anzitempo.

Feltri: "Ho simpatia per De Luca, ma vorrei chiedergli se li chiude in entrata o anche in uscita? Perché a me risulta che ogni anno 14 mila campani si recano a Milano per farsi curare, perché le strutture sanitarie lombarde sono più rassicuranti di quelle campane. Io credo che nessuno di noi abbia voglia di trasferirsi in Campania"

Giordano: "Adesso mi fai arrabbiare quelli della Campania, direttore!"

Feltri: "Io non ce l'ho con  la Campania! Sto solo dicendo che io, te e altri perché dovremmo trasferirci in Campania, a fare che cosa? I parcheggiatori abusivi?"

Il conduttore quindi gli ha domandato se c''è stato un po' di accanimento nei confronti della Lombardia.

Giordano: "Se la sono presa con i primi della classe che stanno un po' male? C'è chi ha goduto?"

Feltri: "E' evidente. E' così. Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che è nutrita di invidia e di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso d'inferiorità. Io non credo ai complessi d'inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori".

Giordano: "Direttore, adesso me li fai arrabbiare davvero! Non puoi dirlo questo!"

Feltri: "Chissenefrega se si arrabbiano!"

Giordano: "Se mi cambiano canale è un guaio, però!"

Feltri: "Non cambiano canale, mi guardano invece e mi odiano di più".

Nel corso della giornata la provocazione di Feltri è diventata rapidamente un caso politico. "Il Sud per voi è solo un votificio, da cui attingere dopo un trentennio di insulti", ha detto Erasmo Palazzotto (Leu), presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Michela Rostan, Italia Viva, vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera, ha affermato che Feltri deve essere sanzionato duramente dall'Ordine dei Giornalisti. "I suoi continui attacchi volgari ai meridionali non hanno nulla a che vedere con la libertà di esprimere le proprie opinioni. Sono una vera e propria istigazione all'odio razziale".

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha commentato così: "Da romana, con origini sarde e siciliane non potrei ovviamente mai condividere le parole di Vittorio Feltri, ma lo conosco abbastanza bene da sapere che una persona della sua cultura e intelligenza non possa aver sostenuto la tesi di una presunta inferiorità antropologica dei meridionali. Sono certa che si riferisse alle condizioni di disparità economica tra nord e sud, come lui stesso ha avuto modo di chiarire, e che però la scelta dei termini sia stata sbagliata". 

Cara Meloni sei pure tu una “Terrona”!

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 28 aprile 2020. Abbiamo avuto l' ennesima conferma che Giuseppe Conte tira avanti sulla strada proibizionistica infischiandosene della Costituzione e riducendo in modo drastico la libertà dei cittadini. Non c' è verso di riportarlo sulla retta via e quindi è vano brontolare. Il suo ultimo discorso televisivo, lungo, noioso e inconcludente, ci ha comunque mostrato che egli intende fare di testa sua, trascurando il Parlamento, peraltro felice di farsi trascurare, non essendo in grado di gestire questo straccio di democrazia. Il Partito democratico e il Movimento 5 stelle si adattano alla dittatura foggiana poiché sospettano che altrimenti il governo cada, la legislatura si concluda e deputati e senatori siano costretti ad andare a casa col pericolo di non essere più eletti. Il concetto è chiaro: conviene maggiormente fare gli schiavetti del premier piuttosto che perdere l' indennità di carica ed essere obbligati a cercarsi un lavoro. Quale occupazione possono trovare individui capaci di tutto e buoni a nulla? Intanto però l' Italia va a ramengo, i disoccupati aumentano a vista d' occhio, le professioni liberali sono in crisi drammatica, gli imprenditori minuscoli, medi e grandi annaspano e rischiano di abbassare le serrande. La situazione in questa circostanza non è solo grave ma pure seria, lo hanno intuito tutti tranne l'avvocato della cause perse insediatosi immeritatamente a Palazzo Chigi. Purtroppo Sergio Mattarella, persona perbene, non si azzarda a compiere il passo decisivo ovvero dare il benservito a Giuseppe, forse non sa che pesci pigliare, visto che pure le sardine non sono istituzionalmente commestibili, ma solamente risibili. Avrebbe facoltà di rivolgersi all' opposizione se ce ne fosse una abile a sparigliare i giochi. In realtà, perfino Matteo Salvini procede a tre cilindri e non riesce a darsi una mossa che non sia falsa. È timoroso, incerto, ha smarrito le energie che lo avevano condotto ai vertici, mettendo a soqquadro i palazzi del potere, che egli ha consegnato gratis ad ex amici e nuovi nemici. In pratica è stato espulso dal campo con il cartellino rosso di Nicola Zingaretti fra gli applausi di Luigi Di Maio e soci senz' arte. Seguita a comparire in televisione però non incide se non quando si tratta di dire che io sono un coglione perché, senza volerlo, avrei offeso i meridionali, affermando che alcuni di essi sono inferiori economicamente, non certo intellettualmente, rispetto ai settentrionali. Come se fosse un mistero che al Sud primeggiano le attività mafiose per la semplice ragione che la 'ndrangheta e similari associazioni sono più organizzate ed efficienti dello Stato, il quale pertanto non riesce a batterle. Comprendo che al capo della Lega premano i voti delle regioni da Roma in giù, mentre a me sta più a cuore la descrizione della realtà patria. Facciamo mestieri diversi e non invidio il suo. Tuttavia, un minimo di rispetto da lui me lo aspettavo. Pazienza, in politica pesano i suffragi più di chi li conta. A questo punto morto devo constatare che l' unico personaggio all' altezza di contrastare gli affossatori del Paese è Giorgia Meloni, la quale è una terrona superiore ai padani: combatte, sale nei sondaggi, mette all' angolo Lilli Gruber, ormai avviata a diventare direttore del Corrierino dei piccoli, e ci sarà da ridere. Insomma ci affidiamo a questa ragazza di talento nella speranza che riesca a dare una svegliata a Salvini, un grande leader di ieri che auspichiamo lo ridiventi domani. Egli è un treno e non può avere l' andatura di un monopattino. Coraggio. Fuori le palle.

Scrivono De Giovanni e Ruotolo: "A Feltri occorre ricordare i due fondamentali articoli della Costituzione, l'articolo 3 ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale") e l'articolo 2 ("La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo"), quale che sia la Regione o zona geografica che vivono. Feltri farebbe bene a studiare la storia del nostro Paese, anche prima dell'Unità d'Italia, e così potrà scoprire quanto poco inferiori siano i campani e i meridionali in genere". Il coordinatore napoletano di Forza Italia Stanislao Lanzotti ha chiesto a Mediaset di sospenderlo. Nessuna reazione, al momento, da parte dell'azienda.

Feltri, che ha quasi mezzo milione di follower, ha poi pubblicato un tweet: "Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L'antropologia non c'entra con il portafogli. Noto che ancora una volta le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno".

"In che modo, esattamente, è stata strumentalizzata la sua frase?" gli ha ribattuto un'utente.

Ilaria Floris per adnkronos.com il 24 aprile 2020. "Non è che io ho un fatto un test di intelligenza in tutta Italia, anche perché non sarei attrezzato per farlo: mi sono limitato a dare un'occhiata ai dati Istat. E i dati Istat dicono che la Lombardia ha un reddito procapite di 37mila e rotti euro, mentre la Campania 19mila. Quindi mi sembra evidente che la Campania sia economicamente inferiore, non è contestabile". Così Vittorio Feltri commenta all'Adnkronos il video appello dei vip meridionali, postato oggi sui social dall'ideatrice Nunzia De Girolamo come risposta alle sue dichiarazioni sul sud Italia, che il giornalista ha definito "inferiore". "Loro hanno interpretato la cosa per andarmi contro, per polemica, perché sono antipatico - osserva Feltri - e hanno pensato che io misurassi il livello dei loro cervelli anziché quello del loro portafogli, e si sono arrabbiati. Se tu citi una frase decontestualizzata dal discorso generale puoi attribuire alla frase qualsiasi significato. La realtà però è quella che dico io". La sanità lombarda "anche se in questo momento vituperata, è superiore a quella del sud, tanto è vero che ogni anno 14mila campani vengono a farsi curare a Milano. Come mai, per turismo o per essere curati?", affonda Feltri. E sui numerosi esposti presentati nei suoi confronti, da quello dell'Agcom a quello dell'Ordine dei Giornalisti, fino alla denuncia del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, risponde così: "Facciano quello che vogliono, se sarò accusato avrò modo di difendermi molto agevolmente. Dopodiché, se mi vogliono perseguitare lo facciano pure".

Vittorio Feltri risponde alla lettera di Giovanni Nostro: "Meridionali inferiori ai settentrionali? Era solo un riferimento economico". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 aprile 2020. Caro Giovanni Nostro, ti ringrazio della lettera garbata inviatami. Tuttavia non condivido ognuna delle tue argomentazioni, poiché io nel dire in tv, ospite di Mario Giordano (Fuori dal coro), che i meridionali sono inferiori ai settentrionali non mi riferivo affatto alle loro qualità morali e intellettuali, bensì al fattore economico, nettamente svantaggioso rispetto al Settentrione. Ovviamente la diversità di reddito fra le due zone del Paese provoca problemi facili da appurare e difficili da risolvere. In sostanza, le mie dichiarazioni fraintese si riferivano ai portafogli e non certo ai cervelli, quindi nulla di antropologico e tutto finanziario. Pure il più tonto dei polentoni è consapevole che Benedetto Croce, Giovanni Verga, Gabriele D'Annunzio, Corrado Alvaro e Leonardo Sciascia (cito i primi nomi che mi sovvengono) non fossero delle teste di rapa, bensì personalità eccelse espresse non dalla Valle Brembana, piuttosto dal glorioso Meridione. Sta di fatto che il reddito pro capite della Campania ammonta a 19 mila euro (ISTAT), mentre quello della Lombardia è il doppio, 37 mila euro. Devo fingere di ignorare codesti dati e proclamare che a Napoli vi sono più risorse che a Milano? La realtà non è mai offensiva né ingannatrice, per cui non comprendo il motivo che induce tanta gente a prendersela con me, accusandomi di ogni nefandezza, soltanto perché mi sono limitato a sottolineare la verità. La mia esternazione pertanto non è stata infelice, semmai male interpretata da chi non riflette su quanto ascolta e su quanto legge. Qui al nord sono stati commessi molti errori, però le morti registrate negli ultimi due mesi da queste parti non sono state causate da disattenzioni degli apparati sanitari e amministrativi, bensì dal virus che ha colto chiunque di sorpresa, inclusi i virologi, molti dei quali ne sanno di meno degli infermieri, anche perché frequentano maggiormente gli studi televisivi dei laboratori scientifici. Tu, Giovanni, ami la tua gente, come io amo la mia benché spesso la critichi in quanto mi appaia in talune circostanze un po' ottusa. Per essere uomini provveduti non basta nascere a Milano o a Napoli. La categoria degli stolti è universale e si sviluppa ad ogni latitudine, nonostante talvolta ci siano cretini più cretini di altri. Dare a me dell'antimeridionale significa trascurare la mia storia e il mio operato. I vari giornali che ho diretto nel mio percorso sono sempre stati imbottiti da geniali terroni (sinonimo scherzoso) che mi hanno aiutato nelle imprese da me avviate. Non ho mai nutrito sentimenti improntati a razzismo. Non avrei potuto in quanto, peraltro, sono cresciuto in Molise, Terra del Sacramento (leggete Francesco Jovine), ovvero a Guardialfiera (provincia di Campobasso), dove ho trascorso gli anni più felici della mia esistenza. E ora ti svelo una notizia che ho sempre taciuto per riservatezza. Recentemente, un mio amico di quel paesino delizioso mi ha informato che la campana più antica del mondo si è guastata e necessita di restauro. Peccato che i guardiesi, non certo ricchi, non avessero i 15 mila euro indispensabili per restaurarla. Ispirato da un senso di gratitudine per i miei compaesani, ho inviato al parroco un bonifico pari alla menzionata cifra. Mi hanno promesso la cittadinanza onoraria, però l'ho rifiutata. Il Molise e i molisani sono nel mio cuore e mi interessa il loro affetto, non la riconoscenza. Quando mi tacciate di antimeridionalismo non mi arrabbio, vi compatisco. Disconoscete tutto di me e se dichiaro che in Bassitalia girano meno soldi che in Lombardia mi insultate. Vergognatevi. Non posso chiedere venia per quanto ho asserito né mi preme ricevere scuse poiché chi ha ragione non ha niente da temere. Gli increduli telefonino al parroco di Guardialfiera e verifichino se ho mentito.

Il desiderio nascosto di Feltri: “Vorrei vivere al Vomero”, ma la sua retorica ha stancato. Emilia Missione de Il Riformista il 26 Aprile 2020. Può capitare a tutti di sbagliare. L’importante, in fondo, è comprendere l’errore per non ripeterlo. Succede anche con i direttori di giornale di una certa esperienza che, in diretta tv, si lasciano andare a tesi ormai vetuste anche per gli sfottò da stadio: “I meridionali sono inferiori“. Ma la cosa importante, si diceva, è correggere il tiro. Come, “ahinoi!”, non ha fatto Vittorio Feltri, l’autore della brutta figura (come altro chiamarla?) di cui sopra. Oggi, sul suo Libero, scrive una finta excusatio, tanto ironica quanto retorica. “Non è vero -mi sono sbagliato – che la Campania e varie altre regioni del Mezzogiorno sono più sfortunate della opulenta Lombardia. Al contrario, a Napoli e dintorni, per citare un esempio, gronda ricchezza da tutte le parti. Non esiste lavoro nero, la miseria è solo un ricordo del passato remoto, oggi non c’è partenopeo che non viva da nababbo e non abbia un reddito di alto livello, la camorra è un fenomeno folcloristico enfatizzato dalla stampa, non vi è alcuno non in grado di mantenere la famiglia agevolmente, la città è ordinata e i cittadini disciplinati, le tasse vengono pagate con puntualità”. “Milano e Brescia – prosegue rubando lo spunto a Matilde Serao – al confronto delle comunità vesuviane sono un casino, pullulano di poveracci che si arrabattano per recuperare una manciatella di euro, abitano in catapecchie, in due stanze alloggiano in dieci persone. Insomma, un disastro che rende i residenti in Lombardia simili agli appartenenti alle tribù rom”. E poi eccolo, nero su bianco, l’emergere del desiderio represso: “Nel mio piccolo aspiro a trasferirmi al Vomero al fine di respirare un po’ di aria pura, concedermi una pizza ogni tanto per rinfrancarmi il corpo e lo spirito. Sono impaziente di migrare in Campania o a Potenza allo scopo di sollevarmi dalla fame orobica, aggravata dal virus. Confido di ottenere un posto nel ruolo di posteggiatore abusivo o contrabbandiere, meglio ancora: spero di essere assoldato, magari contando sulla raccomandazione di un’anima pia, da qualche cosca che mi dia la gioia di prendere in locazione un bilocale alle Vele che sono in vetta alle mie aspirazioni. Se poi mi fosse offerta l’occasione di recitare in un film tipo Gomorra, toccherei il cielo con un dito”. Forse aveva davvero ragione Freud, quando diceva che a chiusure psicologiche radicate, spesso corrispondono pulsioni  altrettanto forti ma di senso contrario. Forse, sotto quel cumulo di cliché da questione meridionale e di offese da bar dello sport, anche il direttore bergamasco aspira a saggiare un po’ di quella visione della vita, tutta partenopea, fatta di bellezza e contraddizione, pragmatismo e apertura mentale. E quando si potrà finalmente tornare a viaggiare, l’augurio è di vederlo davvero passeggiare tra le vie del Vomero. Soddisfare tutte le altre ambizioni, sarà difficile. Per recitare in Gomorra servono doti che, nonostante l’inclinazione naturale a una teatralità grottesca, il direttore di Libero non sembra avere.

Da leggo.it il 22 aprile 2020. «Io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori» ha detto il direttore di Libero, Vittorio Feltri, in tv (Fuori dal coro, Rete 4, conduttore Mario Giordano). allungando la sua serie di considerazioni sul Sud Italia particolarmente corposa in questi giorni. Al punto da spingere l'Usigrai a scendere in campo. «Credo che non sia più sufficiente lamentarsi sui social e nei convegni di alcuni comportamenti. Ma sia l'ora dei fatti. Quindi questa mattina ho inviato un esposto al Consiglio di disciplina dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia sull'ennesima uscita offensiva di Vittorio Feltri contro i cittadini del sud Italia». Lo annuncia sui suoi profili social Vittorio Di Trapani, segretario dell'Usigrai. Nel testo dell'esposto, allegato al post, si segnalano alcuni episodi relativi a Feltri: «Il 21 aprile il giornalista Feltri - ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano - ha detto: "Io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori". Questo episodio segue la pubblicazione il 19 aprile sul quotidiano Libero di un editoriale, nel quale Feltri scrive: "Attenzione, manutengoli ingordi, a non tirare troppo la corda poiché correte il pericolo di rompere il giochino che fino ad ora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata". Di Trapani cita il precedente esposto firmato da Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo in merito ai seguenti episodi: "Il 5 aprile 2019, in merito alla formazione del governo guidato da Giuseppe Conte, in un editoriale pubblicato su Libero Vittorio Feltri scrive: Zoo di terroni ostili al Nord che li mantiene tuttì; in data 19/06/2019, in merito alle condizioni di salute Andrea Camilleri, sempre sul quotidiano Libero Feltri ha scritto: L'unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni. "A giudizio di chi vi scrive - conclude il segretario dell'Usigrai - tali episodi si configurano come violazioni delle norme deontologiche cui sono tenuti ad attenersi gli iscritti all'Ordine dei Giornalisti. Nel caso, vi prego di valutare anche la circostanza della reiterazione di tali comportamenti".

Agcom. Esposto all'Agcom da parte del senatore Sandro Ruotolo e dello scrittore Maurizio De Giovanni su quanto accaduto «nel corso della trasmissione di Rete4 'Fuori dal coro' in onda martedì 21 aprile (ieri, ndr). Il giornalista Vittorio Feltri - ospite della trasmissione - ha detto: 'Io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiorì. Il conduttore della trasmissione, Mario Giordano, non ha preso le distanze da queste affermazioni, limitandosi, sorridendo, a dire: "Eh addirittura, adesso me li fai arrabbiare davvero. No direttore, non puoi dirlo questo". Il dialogo prosegue così: Feltri: "E chi se ne frega, si arrabbino. Ma chi se ne frega se si arrabbiano. Secondo me si arrabbiano tutti i giorni, mi insultano, mi augurano di morire". Giordano: "Eh, ma se cambiano canale è un guaio. Direttore, se mi cambiano canale è un guaio però". Vi chiediamo di valutare se in questo episodio e nel comportamento delle persone citate - è l'epilogo dell'esposto all'Autorità del senatore del gruppo misto Sandro Ruotolo e dello scrittore Maurizio De Giovanni - si configurino violazioni della delibera AgCom n. 157/19/Cons in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all'hate speech».

Vittorio Feltri nel 2015 era il candidato Presidente della Repubblica di Salvini e Meloni. Antonio Scarpata il 22/04/2020 su Notizie.it.  C'è chi non ricorda e chi preferisce non ricordare: nel 2015 Salvini e Meloni candidarono Vittorio Feltri al Quirinale. Oggi tacciono (o prendono tempo). È il 22 marzo 2020. Siamo nel bel mezzo di una pandemia che in poche settimane ha già causato centinaia di migliaia di morti. E chissà quante altre vite strapperà via. L’economia mondiale è in ginocchio, l’incertezza si fa avanti, spocchiosa e avida, togliendoci spesso molto più di quanto non faccia già il virus. Ed è anche in questa situazione, che il buon Giacomino Poretti definirebbe a ben donde “kafkiana”, che ci ritroviamo ancora una volta a sorprenderci di quanto straordinaria riesca ad essere la vita. Già. La vita che, per rincuorarci di quanto accade là fuori, ci sorprende di nuovo con uno dei suoi doni. È vero: là fuori si muore, ci sarà anche la fame. Ma almeno, nell’inferno generale, abbiamo Feltri e le sue lezioni di vita. La verità è che, qualche esistenza fa, dobbiamo averla combinata proprio grossa. Altrimenti tutto questo non si spiega. Ora dunque che dovrei fare? Mettermi a elencare tutte le volte che il signor Feltri si è prodigato nel manifestarci il suo amore? Sarebbe un inutile spreco di tempo, di caratteri, di energia. Ma certo, sarò anche il classico inferiore meridionale che a Milano, in tempi normali, si può incontrare ovunque. Ma davvero non ne vale la pena. Tanto lo sappiamo, Vittorio è sorgente inesauribile. Di sue massime ne abbiamo sentite. E ne sentiremo ancora e ancora. In fondo, anche il più ipocrita dei terroni ammetterebbe di essersi, un pochino, (colpevolmente) abituato. Dunque perché infierire su Feltri? Sparare sulla Croce Rossa non fa onore a nessuno. La quarantena ci priva, ogni giorno che passa, di molte cose. Alcune però le restituisce, questo è certo. Spesso nel modo più brutale. Tra queste anche un po’ di memoria storica, che se non esageri male non fa mai. E proprio mentre l’amore di Vittorio trionfa, mentre sentenzia onnipotente la fine che noi sudditi meridionali meritiamo di fare, la mente mi saluta e torna improvvisamente indietro. Al 2015. Ed è lì, in quel vecchio gennaio, che la magia si spezza. Proprio lì il romanticismo tramonta e dà spazio agli altri due illuminati. Giorgia e Matteo si avvicinano sornioni ai microfoni. Fanno sul serio, è evidente. Qualche secondo di silenzio, poi lo schiaffo: “Vittorio Feltri è il nostro candidato al Quirinale. Un candidato ideale, perché non è un cieco servitore di Bruxelles, dell’Europa, delle banche, della finanza, dell’euro. Osa criticare l’immigrazione clandestina e quindi ci sta simpatico. L’Italia ha bisogno di una persona così”. Cinque anni dopo Giorgia e Matteo tacciono (o prendono tempo). Eppure non sono pochi quelli che, in Terronia, si sono affidati a loro. Loro che promettevano di tutelare i prodotti delle loro terre, la pesca nel loro mare, i confini delle loro spiagge dall’arrivo dei cattivi dalla pelle nera. La lezione di vita di Feltri, in fondo, è tutta qui. L’infamia non si nasconde mai, resta fedele a se stessa. È la dannata memoria a breve termine, spesso, a renderla invisibile.

Frasi di Feltri contro il Sud, edicolanti calabresi rifiutano di vendere Libero. Il Quotidiano del Sud il 23 aprile 2020. Monta la protesta in qualche edicola della Calabria contro Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. In alcune edicole, infatti (sono segnalati casi a Montalto Uffugo, Castrovillari e Filadelfia), dai rispettivi titolari è stato esposto un cartello in cui si informano i clienti che non troveranno in vendita le copie di Libero. La protesta nasce a seguito delle frasi rilasciate da Feltri contro il Sud in una trasmissione televisiva, frasi stigmatizzare anche dalla presidente della Regione Calabria Jole Santelli.

Dagospia il 23 aprile 2020. DALL’ACCOUNT TWITTER DI VITTORIO FELTRI: Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L’antropologia non c’entra con il portafogli. Noto ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno.

To.Ro. per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. Per l’ennesima volta Vittorio Feltri alza il livello lisergico del giornalismo italiano: pronuncia la millesima offesa ridicola e delirante verso una citta, una popolazione, un’etnia, un orientamento sessuale o una minoranza generica. E riparte il solito bailamme automatizzato: indignazioni, hashtag, denunce, prese di posizione, invocazione dell’Ordine dei giornalisti e richieste di radiazione. Conta davvero cosa abbia detto Feltri? Chi abbia offeso stavolta? Quanto sia stupido e surreale il livello delle sue argomentazioni? Tant’e: ospite di Fuori dal coro, la trasmissione di Mario Giordano, il direttore di Libero ha prodotto questo illuminante ragionamento: “Perche mai dovremmo andare in Campania? A fare i parcheggiatori abusivi? I meridionali in molti casi sono inferiori”. Bene, applausi, genio. Feltri vive di questo: di attenzione. E un generatore casuale di indignazione collettiva: dice qualcosa di palesemente idiota e offensivo cosi tutti possono parlare male di lui. C’e soltanto una cosa piu ridicola del riflesso condizionato di chi ancora prende sul serio le flatulenze di Feltri. Le misere giustificazioni di Feltri stesso, il giorno dopo: “Ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno”. Direttore, per carità.

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 24 aprile 2020. “Io credo che i meridionali in molte cose siano inferiori”, la parole pronunciate da Vittorio Feltri a Fuori dal coro su Rete 4, dopo l’attacco alla regione Campania e al presidente De Luca, sono finite al centro della scena suscitando polemiche e indignazione. Su Twitter è diventato un caso da qualche giorno, vip e politici hanno condannato le dichiarazioni del direttore di Libero, l’Ordine dei giornalisti sta valutando una denuncia “per danno d’immagine” mentre lo scrittore Maurizio De Giovanni e il senatore Sandro Ruotolo hanno deciso di agire in sede civile e penale, ipotizzando una violazione della legge Mancino che sanziona le manifestazioni di odio. Il padrone di casa Mario Giordano, pur rivendicando il suo rapporto con Feltri, si è dissociato con un tweet: “Visto che qualcuno me lo chiede ribadisco ciò che avevo già detto in trasmissione (per essere più chiaro): sarò sempre contento di ospitare Feltri e di lasciarlo libero di dire ciò che crede, ma non condivido il suo pensiero sui meridionali. E’ lontano anni luce da ciò che penso“. Giordano ha poi argomentato su Youtube rafforzando le sue scuse: “Voglio benissimo a tutti i meridionali e sono convinto che anche Vittorio Feltri voglia bene a tutti i meridionali. L’Italia è una sola, non esistono divisioni. Credo che Vittorio Feltri volesse dire altro, mi sono dissociato dalle cose che ha detto. Forse non sono stato abbastanza chiaro e mi dispiace. Amo tutta l’Italia, è una roba che non sta ne in cielo ne in terra. Chiedo scusa per la frase di Feltri e chiedo scusa per non avere avuto una reazione più forte. Abbiamo comunque trattato tanti altri argomenti in merito al Coronavirus, non vorrei che questa cosa detta da Feltri facesse passare in seconda piano tutto il nostro lavoro e battaglia che conduciamo da tempo con la nostra trasmissione. Abbiamo sollevato e portato alla luce di tanti problemi. Feltri è un grandissimo giornalista, ma ha detto una cosa fuori dal mondo.” Il direttore di Libero è tornato sull’argomento sempre sui social, non migliorando la sua posizione: “Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L’antropologia non c’entra con il portafogli. Noto ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno”. Intanto sui social da ieri circolano le immagini di numerose edicole che hanno scelto di non rendere più disponibile il quotidiano diretto da Feltri, a queste si sarebbe aggiunta anche una libreria di Reggio Calabria che avrebbe deciso di boicottare la vendita dei suoi libri. Giordano ha fatto sapere che si discuterà di quanto accaduto, fornendo probabilmente nuove scuse, nella prossima puntata di Fuori dal Coro. Il talk show era stato visto da 1.5 milioni con il 6,8% di share, in Campania la puntata incriminata aveva ottenuto “solo” 100 mila telespettatori.

Caso Feltri, il sindaco di Nicotera querela il giornalista mentre le edicole si rifiutano di vendere Libero. Gianluca Prestia il 24 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Le dichiarazioni rilasciate dal giornalista Vittorio Feltri che ha definito i meridionali degli esseri inferiori, sono indegne di un paese civile, razziste, volgari e semplicemente vergognose ancorché inaccettabili». Lo ha affermato il sindaco di Nicotera, Giuseppe Marasco, annunciando che la Giunta ha deliberato di dare mandato ai legali dell’Ente per presentare come Comune formale querela contro il direttore di Libero e un esposto all’Ordine dei giornalisti «che non può accettare tra i suoi ranghi gente del genere. «Feltri compie un primo colossale errore quando asserisce che i cittadini del Sud Italia, abbiano esultato alla notizia delle difficoltà delle regioni settentrionali legate all’emergenza coronavirus. Falso perché io stesso ricordo sui social le tante attestazioni di vicinanza della gente nei riguardi dei loro fratelli settentrionali così come ricordo i tanti che sono partiti, nel pieno della pandemia, per dare una mano». E le parole di Feltri hanno provocato anche la dura reazione di numerosi edicolanti. Da Montalto a Castrovillari a Filadelfia, nel Vibonese. In quest’ultimo centro a prendere posizione è stato Vincenzo Provenzano che ha affisso all’entrata della sua attività un messaggio: a caratteri maiuscoli: «In questa edicola da oggi, 23 aprile 2020, non è più in vendita il quotidiano “Libero”. Essendo meridionali inferiori, non siamo in grado di comprendere gli arguti articoli di questa testata giornalista indipendente. Ci voglia scusare il direttore (scritto volutamente in minuscolo, ndr) Feltri». E sulla locandina ha affermato: «Quel messaggio? È stato istintivo ma allo stesso tempo ragionato. Può sembrare un paradosso ma non lo è». Trattiene la rabbia quasi a stento, Provenzano – che ricopre, tra l’altro, il ruolo di presidente provinciale Fit (federazione italiana dei Tabaccai) – le cui motivazioni sono molto chiare: «Ieri mattina, alla vista del giornale ho avvertito un sentimento di rabbia perché mi sono risuonate all’orecchio le parole di Feltri. Allora ho scritto quella frase, l’ho stampata ed affissa all’entrata della mia attività. Ieri ho accettato le copie, ma le ho messe in disparte, perché ormai mi erano state recapitate ma ho fatto già comunicazione affinché da domani non me ne portino più. Questa persona ha calpestato la dignità non solo dei meridionali ma di tutti gli italiani perbene e danneggiato la categoria dei giornalisti. Leggevo che molti stanno procedendo a querelare Feltri, credo sia inevitabile, d’altronde ciò che ha detto è gravissimo e vergognoso. Mi spiace solo per quei cronisti perbene che lavorano in questo giornale e finiscono con l’essere identificati con lui».

Da tuttonapoli.net il 27 aprile 2020. “La lettura non è la principale attività al Sud”. Così ha parlato Vittorio Feltri ai microfoni di La7 durante la trasmissione 'Non è L'Arena: "Non vendono Libero al Sud? Anche prima si vendeva poco, non leggono molto i giornali del Nord ed in verità neanche quelli del Sud. La lettura non è la principale attività al Sud" ha dichiarato il direttore di Libero.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 27 aprile 2020. Vorrei girare la frittata. Sono stato linciato perché ho dichiarato in tv che i meridionali hanno meno opportunità di lavoro rispetto ai settentrionali, quindi, dal punto di vista economico, sono inferiori ai settentrionali. Visti gli esiti della mia banale e ovvia osservazione, per nulla offensiva bensì oggettiva, lungi da me l' idea di pentirmi (non saprei di cosa), vorrei ribaltare i termini del mio vituperato discorso. Non è vero - mi sono sbagliato - che la Campania e varie altre regioni del Mezzogiorno sono più sfortunate della opulenta Lombardia. Al contrario, a Napoli e dintorni, per citare un esempio, gronda ricchezza da tutte le parti. Non esiste lavoro nero, la miseria è solo un ricordo del passato remoto, oggi non c' è partenopeo che non viva da nababbo e non abbia un reddito di alto livello, la camorra è un fenomeno folcloristico enfatizzato dalla stampa, non vi è alcuno non in grado di mantenere la famiglia agevolmente, la città è ordinata e i cittadini disciplinati, le tasse vengono pagate con puntualità. Milano e Brescia al confronto delle comunità vesuviane sono un casino, pullulano di poveracci che si arrabattano per recuperare una manciatella di euro, abitano in catapecchie, in due stanze alloggiano in dieci persone. Insomma, un disastro che rende i residenti in Lombardia simili agli appartenenti alle tribù rom. Nel mio piccolo aspiro a trasferirmi al Vomero al fine di respirare un po' di aria pura, concedermi una pizza ogni tanto per rinfrancarmi il corpo e lo spirito. Sono impaziente di migrare in Campania o a Potenza allo scopo di sollevarmi dalla fame orobica, aggravata dal virus. Confido di ottenere un posto nel ruolo di posteggiatore abusivo o contrabbandiere, meglio ancora: spero di essere assoldato, magari contando sulla raccomandazione di un' anima pia, da qualche cosca che mi dia la gioia di prendere in locazione un bilocale alle Vele che sono in vetta alle mie aspirazioni. Se poi mi fosse offerta l' occasione di recitare in un film tipo Gomorra, toccherei il cielo con un dito. Tutto questo dimostra la superiorità del Sud e la inferiorità (economica, civile e sociale) delle terre padane e alpine. Noi polentoni siamo degli straccioni, e io faccio ammenda per aver parlato di inferiorità dei meridionali. Perdonatemi, il sistema produttivo del nostro Mezzogiorno rappresenta un modello eccelso ed efficiente.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 27 aprile 2020. L’Italia è un Paese stravagante e talvolta imbecille. Da quando ha adottato con spirito religioso il politicamente corretto con l'intento di onorare tutte le categorie di umani, non si capisce più niente. Parlare, così come scrivere, è diventato un esercizio pericoloso, comporta addirittura il rischio di finire in tribunale e di ricevere una condanna. È ormai vietato definire coloro che hanno la pelle scura "negri", termine caricato abusivamente di significati offensivi, e non se ne comprende la ragione, visto che dalle nostre parti, a differenza che negli Stati Uniti, le persone di colore non sono mal state maltrattate, nel senso che non è esistito II Ku Klux klan, nota associazione segreta dedita alla persecuzione degli afroamericani. Non Importa. Per imitare i nostri alleati degli States abbiamo assunto, non richiesti di giungere a tanto, le loro stesse responsabilità per guanto riguarda le violenze perpetrate al danni degli individui che presentano una pigmentazione di tonalità cioccolato. Una decisione quasi comica considerato che qui nessuno si è sognato di sopprimere uno del Senegal e dintorni. Vabbè, transeat. È un fatto che pure i nomadi non si possono chiamare zingari poiché c'è il rischio si offendano. Costoro sono rom, e non si afferra cosa diavolo tale vocabolo voglia dire, però non puoi appellarli diversamente altrimenti sono cazzi tuoi. La circostanza che i rom spesso commettano reati gravi (il furto è la loro specialità) costituisce un dettaglio su cui occorre sorvolare. Contano di più le parole degli atti materiali.

Andiamo avanti. Se qualcuno a me bergamasco dà del polentone, non è un dramma, giustamente, eppure, se io do del terrone a uno del Mezzogiorno, apriti cielo: viene giù il mondo. Mi denunciano, ml insultano, mi sommergono di Ingiurie. Perché? O osservi il politicamente corretto oppure sei un razzista, per Io più di merda. In questo campo vanto una vasta esperienza. Ma fin qui c'è solo da ridere, ammesso che ti consentano di non prendere sul serio certe manie linguistiche invero incomprensibili. Tuttavia, se qualcuno, parecchi, si accanisce contro di te in quanto sei vecchio, sui social e non solo, nessuno storce il naso. La Costituzione recita che ogni cittadino ha gli stessi diritti e va rispettato nel medesimo modo, nonostante ciò se hai superato i 60/65 anni ti riempiono di contumelie, mandando affanculo la religione del politicamente corretto. In questo periodo di virus dominante, inoltre, perfino il governo reputa chi ha oltrepassato una certa età merce avariata, indegna di essere equiparata alla specie dei giovani, al guaii sarà concesso di uscire di casa, mentre i nonni dovranno sopportare per mesi, forse di più, gli arresti domiciliari. La ratio? I guaglioni hanno diritto di disporre della propria vita come aggrada loro. I vegliardi se ne stiano tappati tra le mura domestiche e non rompano i coglioni. Infatti, qualora si ammalassero e morissero, pazienza; però se venissero ricoverati, peserebbero sulle casse della sanità Questo si, è razzismo, eppure bonario, quindi va tollerato, anzi non va neppure catalogato alla voce razzismo, bensì a quella del buonsenso. Tra pochi giorni ripartiranno le attività economiche, ma le scuole resteranno chiuse, come vuole il duce di Foggia. Cosicché le famiglie dove metteranno i bambini? Li affideranno ai nonni, i quali all'improvviso saranno rivalutati ed equiparati a esseri umani non Inferiori.

I VIP DEL SUD CONTRO FELTRI: "NON SIAMO INFERIORI". Da adnkronos.com il 24 aprile 2020. Un videomanifesto di orgoglio del Sud, dove tantissimi volti noti del sud dell'Italia "ci mettono la faccia" per rivendicare la loro appartenenza al meridione e affermare con forza di "non essere inferiori". E la risposta dei tanti personaggi noti alle dichiarazioni di Vittorio Feltri ideata da Nunzia De Gerolamo che, in una sola ora sui social, sta già diventando virale. "Ora basta, siamo stanchi di ripeterlo. Chi è nato al sud è felice ed orgoglioso di esserci nato e cresciuto. Io sono felice, orgogliosa e non mi sento inferiore a nessuno", dice all'inizio del video la De Girolamo, dando poi 'la parola' ai vip che si avvicendano nel video. "Sono del sud, e non mi sento inferiore", dice Gigi D'Alessio". "Camilleri, Tommaso Campanella, De Filippo, Benedetto Croce, De Crescenzo, Franco Rosi sono tutti meridionali -dice Marisa Laurito- ma anche al nord ci sono quelli bravi. Siamo tutti italiani, tranne gli infeltriti". "Profondamente orgogliosa di amare così tanto il sud che per me è come una pietra preziosa", aggiunge Rita Dalla Chiesa. "Caro Vittorio, tu hai un problema - dice l'attore Francesco Paolantoni- ma noi che siamo del sud e abbiamo un cuore grande, ti stiamo vicino". All'appello-video della De Girolamo hanno aderito: Biagio Izzo, Rita Dalla Chiesa, Maurizio De Giovanni, Gigi D'Alessio, Beppe Convertini, Marisa Laurito, Mariano Bruno, Claudio Amendola, Raimondo Todaro, Angelo Russo, Gigi Finizio, Maurizio Casagrande, Sal Da Vinci, Manuela Arcuri, Sergio Friscia, Francesco Paolantoni.

Gigi D'Alessio su Facebook il 24 aprile 2020: Sono meridionale e sono orgoglioso di esserlo. Spero che dopo questo episodio si possa smettere di dare spazio e dare voce ad un uomo che ormai ha perso la sua lucidità e offende solo per qualche punto di share. Mi auguro che chi ha facoltà di scegliere gli ospiti delle trasmissioni televisive non continui questa corsa al ribasso dell'intelligenza e della dignità.

Saverio Capobianco per davidemaggio.it il 24 aprile 2020. Le polemiche sulle parole pronunciate da Vittorio Feltri contro i meridionali continuano a tenere a banco, sui social (ieri Giordano si è dissociato dalle affermazioni del giornalista) come in tv. Ieri è toccato ad Al Bano – ospite di Dritto e Rovescio – dire la sua sulla vicenda. Il cantante di Cellino San Marco ha esordito contestando l’anacronistico vizio di contrapporre Nord e Sud e di giudicare le persone in base alla loro provenienza territoriale. “Io sono italiano, dal Sud mi sono spostato al Nord, al Nord ho coronato tutti i miei sogni, il Nord è dentro di me. Non mi sento come qualcuno dice inferiore, ma neanche superiore. Cretini ci stanno in un luogo e cretini ci stanno nell’altro luogo, intellettuali in un luogo e intellettuali nell’altro… ma stiamo ancora a parlare di Sud e di Nord?“ ha chiesto rassegnato Al Bano, sottolineando come Meridione e Settentrione siano solo “punti geografici” e che l’intelligenza non sia appannaggio solo del popolo dell’uno o dell’altro. Il riferimento al contestato discorso di Feltri – che ha parlato di inferiorità dei meridionali – è parso evidente. E ancor più lo è stato quando il cantante si è sbottonato definitivamente e ha lanciato la stoccata finale al giornalista: “Poi se qualcuno vuole fare gli scoop dicendo "lì sono inferiori e qua superiori" fa una figura da cacca, proprio… lui la fa!”.

Stefano De Martino, tweet a sorpresa contro Vittorio Feltri: «Qualcuno è rimasto fermo al 1800. Io voglio guardare avanti». Il Mattino Venerdì 24 Aprile 2020. La teoria, esposta da Vittorio Feltri durante la trasmissione “Fuori dal coro”, secondo cui i meridionali sarebbero inferiori ha naturalmente scatenato una pioggia di critiche e giudizi negativi, compresa la minaccia di azioni legali. Al coro dei contestatori si aggiunge Stefano De Martino, marito di Belen Rodriguez. Un cinguettio sul suo account Twitter infatti non fa il nome di Feltri, ma sicuramente riferimento alla discussa vicenda. L’ex ballerino di “Amici”, trasferitosi a Milano ma di origini napoletane ha scritto: “Io mi ricordo poche cose della storia a scuola ma mi stava antipatico Metternich, un cancelliere austriaco dell'800 che per disprezzare l'Italia disse “L'Italia è solo un'espressione geografica”, volendo intendere che, essendo divisa in tanti piccoli stati e staterelli, sempre occupati a litigare fra loro, non poteva avere nessuna considerazione. Ora a sentire certe dichiarazioni, mi sembra che più di qualcuno sia rimasto fermo al 1800. Io sinceramente voglio guardare avanti”. Un tweet a sorpresa da parte di Stefano, che di solito su questi temi si espone poco, molto apprezzato e ricondiviso dai suoi follower.

Per la prima volta, sotto la spinta di Vittorio Di Trapani (Usigrai) e per la pronta reazione del presidente Odg, Carlo Verna, si parla non solo di un deferimento disciplinare di Vittorio Feltri, colpevole di affondi particolarmente offensivi verso i meridionali, ma anche di azioni legali in sede civile e penale. E l’Ordine ha anche puntato il dito contro Mario Giordano e quei conduttori tv che calpestano la Carta dei diritti e dei doveri dei giornalisti, la deontologia fondamentale.

Il presidente dell’Ordine dei giornalisti: “Azione legale contro Feltri per difendere la categoria”. Marta Vigneri su TPI il 23 aprile 2020. Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti (Odg), Carlo Verna, è intervenuto durante una puntata di Radio Punto Nuovo, una emittente campana, per commentare l’infelice uscita di Vittorio Feltri contro i meridionali al programma “Fuori dal Coro”. “Nella riunione appena terminata abbiamo deciso di rivolgerci ad un legale per tutelare l’intera categoria dei giornalisti che nulla hanno a che vedere con i comportamenti di Feltri. Intanto ci siamo relazionati con AGCOM e stiamo diffidando i conduttori da incaute ospitate qualora non si dissocino da certe espressioni” ha dichiarato Verna nel corso della puntata andata in onda ieri, mercoledì 22 aprile, sottolineando come il comportamento del direttore di Libero stia danneggiando l’immagine della categoria giornalisti. “Stiamo immaginando di intraprendere un’azione legale nei confronti di questo signore. Non ho il potere di espellere nessuno, perché c’è un giudice che fa certe valutazioni, visto che il tesserino non gli serve per l’età ed è direttore editoriale”, ha dichiarato Verna. “Quasi ogni 15 giorni arrivano segnalazioni, ma comunque non possiamo restare fermi. Il consiglio di disciplina farà la sua parte. Per quanto ci riguarda dobbiamo esternare la massima dissociazione da questi comportamenti. Più di una causa per danni d’immagine da parte di Feltri, più di interpellare l’AGCOM con sanzioni salate, più di ricordare ai conduttori che rischiano di essere complici se non si dissociano, altri poteri non ne abbiamo”, ha concluso il presidente dell’Odg, che alla luce degli ultimi articoli di Libero contro i meridionali, aveva già indirizzato, martedì 21 aprile, una lettera di “scuse” al sindaco di Napoli Luigi De Magistris in nome della categoria. Dal canto suo Feltri, il quale aveva dichiarato su Rete 4 che “i meridionali sono inferiori”, ha difeso le sue affermazioni sui social. In alcuni recenti tweet il direttore di Libero ha chiarito che le sue parole si riferivano all’oggettiva superiorità di reddito dei settentrionali rispetto ai meridionali, che nulla ha a che vedere con quella intellettuale. Ma questo non è bastato a placare le critiche di migliaia di persone, che hanno espresso la propria indignazione non solo sul web. Alcuni edicolanti hanno già deciso di interrompere la vendita del quotidiano diretto da Feltri nei propri esercizi. “Ingiusto arricchire i razzisti che ci mancano di rispetto”, ha dichiarato oggi la proprietaria di una libreria-edicola in provincia di Cosenza, invitando Feltri a leggere l’articolo tre della Costituzione. “Essendo meridionali inferiori non siamo in grado di comprendere gli arguti articoli di questa testata giornalistica indipendente”, si legge nella foto di un cartello affisso fuori da un’edicola, che circola in queste ore sui social.

Feltri e le offese ai meridionali in TV, l’AGCOM avvia un procedimento sanzionatorio.  Francesco Di Lieto  il 24 Aprile 2020 su Ciavula.it. Il Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha rilevato, a seguito del monitoraggio degli uffici relativo alla trasmissione “Fuori dal Coro”, alcuni elementi critici nella puntata andata in onda su Rete4 il 21 aprile 2020. Il Consiglio ha ritenuto che specifici passaggi, nelle modalità di conduzione dell’intervista al Direttore di un quotidiano nazionale, costituiscano una violazione dei principi e degli obblighi del Regolamento di contrasto all’“hatespeech” di cui alla Delibera 157/19/CONS. In particolare, nel corso di un’intervista nella quale sono stati espressi giudizi sommari e ingiustificati volti a riproporre stereotipi relativi alla provenienza territoriale dei cittadini italiani, il comportamento del conduttore, ad avviso dell’Autorità, non ha assicurato il rispetto dei principi e delle disposizioni cui devono adeguarsi i fornitori di servizi media audiovisivi e radiofonici soggetti alla giurisdizione italiana nei programmi di informazione e intrattenimento, per assicurare il rispetto della dignità umana e il principio di non discriminazione e contrasto alle espressioni di odio, come definite alla lett. n) dell’art. 1 della Delibera 157/19/CONS. Le violazioni riscontrate – peraltro oggetto di una comunicazione anche da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti, nel rispetto della separazione di responsabilità e di funzioni – sono state valutate dall’Autorità particolarmente gravi, anche in ragione della circostanza che gli episodi di ripetuta discriminazione e valutazione stereotipata nei confronti di gruppi di cittadini sono avvenuti nell’ambito di un dialogo tra due giornalisti tenuti, per altro verso, al rispetto delle norme e attribuzioni dell’Ordine, richiamate dallo stesso art. 2, comma 2, del Regolamento. In conclusione, in considerazione della circostanza che la trasmissione è già stata oggetto di accertamento della violazione del Regolamento nel mese di marzo ai sensi dell’art. 7 comma 1 della delibera 157/19/CONS, per infrazioni contestate già nel luglio 2019, e che in quella sede si è convenuto sulla necessità di continuare a monitorarne l’andamento, l’Autorità ha giudicato la violazione sistematica e particolarmente grave e ha avviato pertanto nei confronti della Società RTI un procedimento sanzionatorio ai sensi dell’art.7 comma 2 del Regolamento. 

Il giornalista: "Mi riferivo alla situazione economica, non era un attacco". Renato Franco per corriere.it l'1 luglio 2020. L’Agcom ha diffidato Mediaset per la puntata di Fuori dal coro andata in onda lo scorso 21 aprile su Rete4, già finita al centro delle polemiche per le dichiarazioni di Vittorio Feltri sui meridionali («sono inferiori»). Il Consiglio dell’Autorità, spiega una nota, «ha accertato la violazione del regolamento di contrasto all’hate speech» (ovvero l’incitamento all’odio ); in particolare, l’Agcom «ha rilevato che il conduttore della trasmissione, Mario Giordano, non si è adeguatamente dissociato dalle dichiarazioni di Feltri sui meridionali considerati inferiori e, tenendo conto della «ripetitività e della gravità dell’insieme degli episodi già contestati all’emittente per la medesima trasmissione», ha diffidato Mediaset «a non reiterare le condotte contestate». «Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che è nutrita di un sentimento di invidia e di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità — aveva detto Feltri, che ha da pochi giorni dato l’addio all’Ordine dei giornalisti — . Io non credo ai complessi di inferiorità. Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori».

Le sanzioni. Non è l’unica contestazione: Mediaset avrebbe violato il Regolamento di contrasto all’hate speech anche in relazione alle dichiarazioni di Iva Zanicchi nella puntata di Fuori dal Coro del 16 giugno. In quell’occasione la cantante aveva preso di mira gli immigrati: «Questi giovani africani che vengono qua, qualcuno poverino forse farà pure tenerezza, non vedi che non hanno rispetto? Sono prepotenti, pretendono, vogliono. Cosa fanno? Vanno in città, spacciano, se possono stuprano». L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni si è dunque riservata un’analisi complessiva dell’intero ciclo della trasmissione al fine di individuare un’eventuale natura sistematica di violazione. Il Consiglio dell’Autorità ha anche diffidato Radio 105 a non reiterare nella trasmissione Lo Zoo di 105 «espressioni dal contenuto fortemente denigratorio rispetto a categorie oggetto di stereotipi in quanto estranee all’eccezione della satira e in violazione del regolamento di contrasto all’hate speech».

Mario Giordano per “la Verità” il 3 novembre 2020. Caro Belpietro, scusami se ti importuno per un fatto personale, ma ci tenevo a dirti che sono stato censurato. No: stavolta non sono stati i poteri forti dell'economia e della politica, che ci hanno provato tante volte con noi (e tu lo sai bene): stavolta è stato l'Ordine dei giornalisti. Il Consiglio di disciplina della Lombardia, infatti, l'altro giorno ha deciso di impartirmi una bella «censura», una sanzione che già dal nome la dice lunga sulla sua assurdità.  L'Ordine dei giornalisti che, in teoria, dovrebbe battersi per la libertà di espressione, in ogni sua forma e modalità, scende invece in campo per dispensare censure, mettendo il bavaglio a chi esce dal sentiero del politicamente corretto. La mia colpa, infatti, sarebbe quella di aver dato spazio nella trasmissione che conduco su Rete4 a Vittorio Feltri. Il reato gravissimo che si configura, quasi una novità assoluta per il diritto internazionale, è quello di «incauta ospitata». Mentre lo scrivo rido per non piangere. Lo so, caro Belpietro, che considerati i rapporti che intercorrono fra voi due ultimamente, anche tu vorresti condannarmi per avere invitato Feltri. Ma, avendo lavorato con te per tanti anni e avendo la fortuna di stare al tuo fianco in questo giornale, so anche che ami la libertà al di sopra di ogni cosa. E che dunque troverai assurdo tanto quanto me il fatto che il nostro disordinato Ordine arrivi al paradosso di censurare un iscritto (nel caso me medesimo, per l'appunto) non per un suo pensiero ma per il pensiero di un altro. Ti pare? Già l'Ordine dei giornalisti che censura un giornalista è una follia. Ma l'Ordine dei giornalisti che censura un giornalista soltanto perché ha osato dare la parola a un altro giornalista (iscritto per anni all'Ordine dei giornalisti e direttore di molti giornalisti) è roba da chiamare subito l'ambulanza, sperando nella rapida riapertura dei manicomi. La frase per cui sono stato punito è quella pronunciata da Feltri durante una trasmissione del 21 aprile scorso. Si era in piena polemica tra sud e nord, Vincenzo De Luca contro la Lombardia, etc e io, oltre alla colpa di invitare il fondatore di Libero, mi sono macchiato pure del reato di incauta domanda. Infatti ho osato porgli una questione di stretta attualità, cosa evidentemente ritenuta riprovevole dai giudici dell'Ordine. Nella sua risposta, infatti, Vittorio si è lasciato scappare la frase contestata: «Io non credo», ha detto, «ai complessi di inferiorità, credo che i meridionali in molti casi siano inferiori». In seguito ha spiegato che intendeva parlare della inferiorità economica, senza alcun riferimento, ovviamente, all'antropologia. Ma tant' è: quella espressione isolata e fatta rimbalzare su tutti i social ha scatenato un'onda di polemiche, tanto che io stesso mi sono affrettato a chiedere scusa in tutti i modi (con video sui social e con ripetuti messaggi in tv), nel caso qualcuno si fosse sentito offeso. In un mondo normale la vicenda si sarebbe chiusa qui. Capita a chi fa il nostro mestiere che una frase non esca bene o venga male interpretata, e che susciti reazioni che non immaginavamo. Ci si spiega, si chiede scusa e stop. Invece in questo clima da regimetto contro ogni voce dissenziente dal cloroformio unico (vedi legge Zan) si è pensato bene di approfittarne per dare una botta in testa a chi cerca di essere, almeno un po', fuori dal coro. E qui viene il bello, caro Maurizio. Perché, durante la trasmissione, quando Feltri ha pronunciato la famosa frase, io ho preso immediatamente le distanze. «Mi fai arrabbiare i telespettatori», gli ho ripetuto due volte. E poi ho concluso: «Questo non lo puoi dire». Però per l'Ordine dei giornalisti la frase «questo non lo puoi dire» non era una dissociazione abbastanza netta per il fatto che l'ho detto «sorridendo» e «ammiccando». Giuro. Parole testuali della decisione di censura. Quindi provo a ricapitolare: vengo condannato dall'Ordine dei giornalisti non per un mio pensiero, ma per il pensiero di un altro, dal quale io mi sono dissociato ma, a parere dei censori, in modo non abbastanza duro. Ma cosa avrei dovuto fare? Più che interromperlo con un «questo non lo puoi dire»? Avrei dovuto sputargli in un occhio? Spaccare la telecamera? Insultarlo in diretta? Chiedere l'intervento dei caschi blu dell'Onu? Aspetto spiegazioni dalla prossima sentenza creativa. Da questa ti segnalo solo un ulteriore passaggio. Durante il «processo» (un'udienza simile a quella dei tribunali del popolo) uno dei pubblici accusatori mi ha chiesto se io, prima di invitarlo, sapevo che Feltri è un «soggetto a rischio». Domanda demenziale cui ho avuto il torto di rispondere con sincerità: Feltri non è un «soggetto a rischio» ma esprime opinioni forti da sempre, è per questo che in tv funziona, è per questo che lo chiamiamo. Ovviamente hanno usato la mia sincerità come corda per impiccarmi. Chiaro, no? Sapendo che Feltri esprime opinioni forti non dovevo invitarlo. O, almeno, impedirgli di parlare. Dal che deduco l'idea di giornalismo che sorregge l'Ordine dei giornalisti: una minestrina riscaldata in cui tutti ripetano a pappagallo le parole d'ordine del politicamente corretto. Guai a uscire dal seminato. Guai ad andare controcorrente. Guai ad avere opinioni forti. Per l'amor del cielo, Feltri può piacere o no, e come ognuno di noi ha tanti pregi e pure qualche difetto. Ma accidenti: ha fondato giornali, li ha diretti con successo, ha segnato con i suoi titoli la storia del Paese e di questa professione, ha assunto e dato lavoro a centinaia di cronisti (compreso il sottoscritto). Possibile che l'Ordine dei giornalisti consideri una colpa invitarlo in tv? Vanno in onda, a ogni ora del giorno, terroristi, delinquenti, fannulloni, falsari, abbiamo assistito a interviste a mafiosi e camorristi, non parliamo di corrotti e prostitute che imperversano dappertutto. Possibile che io venga censurato per aver ospitato Feltri? Scusami direttore se ti ho ammorbato con una questione personale, ma alla fine credo che non sia soltanto personale. Viviamo in un brutto clima e tu ne sei stato testimone, pagandolo più volte sulla tua pelle, direttamente. Una volta non era così. Una volta eravamo più liberi di parlare, di esprimerci, anche di sbagliare e chiedere scusa, senza avere i censori che ti condannano soltanto perché usi la parola «zingaro» o «clandestino». O perché sostieni che per fare un figlio ci vogliono mamma e papà. O perché inviti qualcuno che non piace alla gente che piace. E mi fa orrore che l'Ordine dei giornalisti che dovrebbe tutelare la nostra libertà sia diventato invece un organo di questa orrenda censura. Pensavo poco fa che, dopo il matrimonio e la nascita dei figli, ho sempre considerato come giorno più bello della mia vita quello in cui ho ottenuto il tesserino bordeaux da professionista. Ricordo che telefonai a mio padre piangendo di gioia. Ne sono sempre andato orgoglioso. Ma ora mi domando se abbia ancora un senso. In questi ultimi tempi molti dei ragazzi della mia trasmissione che vanno in giro a raccontare pezzi di realtà dimenticati da tutti sono stati aggrediti, minacciati, insultati. Mai una volta ho sentito una persona dell'Ordine spendere una parola per difenderli. Ora però scendono in campo per censurarmi per aver ospitato Feltri. E quel tesserino viene voglia di stracciarlo anche a me.

E ti pareva che i simili non solidarizzassero...

Scontro tra Annalisa Chirico e Luca Telese sul Sud: «Moralmente inferiore». Duro scambio di battute tra i due giornalisti ospiti a «Non è l’Arena». CorriereTv il 26 aprile 2020. Scontro tra Annalisa Chirico e Luca Telese sul Sud, dopo le dichiarazioni di Vittorio Feltri, a «Non è l’Arena». Chirico ha sostenuto che «un popolo debole economicamente, rischia di essere moralmente inferiore», scatenando la reazione di Telese e del conduttore Massimo Giletti: «Non lo permetto».

Chirico, giornalista pugliese: “Meridionali economicamente inferiori lo diventano anche moralmente. Sono anche più pigri”. Da Chiara Di Tommaso il 27 Aprile 2020 su vesuviolive.it. Ancora un attacco ai meridionali. Questa volta arriva da Annalisa Chirico, una giornalista pugliese che, nel corso del programma Non è l’Arena condotto da Massimo Giletti, è intervenuta sulle parole di Vittorio Feltri cercando di difenderlo. Ma il tentativo è apparso più che goffo e ha scatenato la reazione dei presenti, in primis di Luca Telese. Per la giornalista Chirico i meridionali non sono solo economicamente inferiori ma questo comporta anche esserlo moralmente. Dichiarazioni che hanno scatenato una dura presa di posizione da parte di Telese e una reazione sui social e di tutti i meridionali che si sono sentiti offesi. Queste le parole della giornalista del Foglio: “Feltri ha il diritto di esprimere le sue opinioni. A me piace il dibattito, un agorà pubblica dove ci sono anche le opinioni più dissacranti. Ma credo che Feltri ponesse un tema vero, poi forse un po’ ha smorzato, cioè che un popolo che economicamente è più debole, più lento, alla lunga rischia di essere anche moralmente inferiore. Ora mi spiego”. Dichiarazioni che hanno scatenato subito una dura presa di posizione da parte di Telese che ha interrotto la giornalista.

“Sei pugliese, ma vergognati! Stai dicendo le peggio cose, ma siamo scherzando?”.

La Chirico però non ha ritrattato e ha spiegato, peggiorando la situazione, cosa intendesse: “Io sono pugliese, sono l’unica meridionale in questa stanza e in questo studio. Il senso del discorso è questo: c’è una parte d’Italia dove per morale intendo la laboriosità di un popolo, l’intraprendenza, la voglia di fare e vengono al Nord a lavorare…”.

Interviene Giletti: “I mie operai la maggior parte sono meridionali, sono gente in gamba che si fa un mazzo così. Il problema è della classe dirigente, delle regioni, non di un popolo che merita rispetto”.

Ma la Chirico insiste nello spiegare la sua idea di meridionali moralmente inferiori: “Se la gente che vive in quelle regioni fa fatica a trovare un lavoro, vive di reddito di cittadinanza, deve chiedere il favore al politico anche per andare in ospedale e avere le cure adeguate, quella gente perde fiducia nelle istituzioni, nella classe dirigente e diventa più fiacca anche nel morale”.

A questo punto Telese sbotta: “Ma che stiamo dicendo? Inferiore lo dicono i nazisti. Ricacciati in bocca quella parola”.

Ma la giornalista non ci sta a ritrattare: “Non mi ricaccio nessuna parola in bocca perché rivendico il diritto di poter parlare liberamente e di parlare di come c’è una parte d’Italia che fa fatica economicamente e per questo rischia di perdere anche la voglia di fare e risultare più pigra“.

Ancora una volta il dibattito su come l’emergenza coronavirus è affrontata in Italia si sposta su uno scontro Nord-Sud che sta sfuggendo di mano anche a molti giornalisti. A differenza di quanto successe con Giordano che non interruppe Feltri, questa volta le dichiarazioni della Chirico sono state subito bloccate dal conduttore e dagli ospiti in studio. Segno che qualcosa sta cambiando.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 aprile 2020. Caro Dago, te la faccio breve breve. Vittorio Feltri – uno che conosco come le mie tasche per avere scritto a lungo su due giornali da lui diretti – è semplicemente “uno che ci fa”. Misura le spacconate e le bravate, una dopo l’altra, perché sa che di quelle si nutre la civiltà massmediatica. Lascia andare, come fosse una bomba a scoppio ritardato, l’affermazione che i meridionali sono “inferiori” e per una settimana almeno ecco che c’è chi manda appelli accorati a difesa dei meridionali, chi vuole Vittorio morto, chi fa riferimento ai sacri valori della Costituzione, chi si appicca al petto la medaglia di meridionale, chi vuole deferire Vittorio e persino Mario Giordano a non so quale supremo Tribunale. Dio che sciocchezze. Te ne sta parlando uno che non si vanta affatto di essere meridionale e che dalla sua città di origine (Catania) è fuggito a gambe levate nel gennaio 1970. Uno che se glielo chiedono che cos’è, risponde di essere italiano. Uno che ha nel sangue i libri di Leonardo Sciascia, Luigi Pirandello, Vitaliano Brancati e tanti altri. Diciamo semplicemente che non è facile essere meridionali, e diciamo pure che il nord ha conosciuto lo sviluppo che ha conosciuto a forza di meridionali immigrati che avevano due coglioni grossi così. Tutte cose che Vittorio sa a puntino, anche se la prossima volta che capiterà l’occasione ne sparerà un’altra delle sue. Anzi non vede l’ora. Perché è così che funzionano i massmedia, bellezza. Vittorio avesse scritto un poema superiore alla “Divina Commedia”, sui giornali si sarebbe guadagnato tutt’al più un trafiletto. Abbiamo tali e tanti problemi, lasciamo stare le logomachie. Uno di questi problemi è che ci sono due Italie, l’una che finisce a Roma e l’altra che comincia a Roma e questo dopo 150 anni di presunta Unità d’Italia. E’ questa la discussione drammatica cui dobbiamo apprestarci e senza che nessuno abbia le spiegazioni bell’e pronte. E’ questa la discussione che dobbiamo tenere aperta nella mente e nel cuore di noi cittadini italiani del terzo millennio. Ciao Vittorio, ciao direttore, ti voglio bene.

Anna Lauritano per it.blastingnews.com il 24 aprile 2020. Sta facendo molto discutere la frase pronunciata da Vittorio Feltri nel corso della puntata di "Fuori dal coro" del 21 aprile. "I meridionali sono inferiori", ha dichiarato senza mezzi termini il direttore di 'Libero', scatenando la reazione del mondo giornalistico, del popolo del web e non solo, che ora minacciano di adire le vie legali. Già nella giornata di ieri, 22 aprile, Feltri ha provato a giustificare le sue esternazioni alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" in onda su Radio 24, spiegando al conduttore Giuseppe Cruciani di aver fatto riferimento solo ad un divario economico tra nord e sud. La precisazione, però, non è servita a placare le polemiche e in sua difesa è intervenuto oggi proprio Cruciani, nel corso della nuova puntata de "La Zanzara". Secondo il giornalista e conduttore radiofonico, le parole di Feltri sarebbero state fraintese e non avrebbe alcun senso portare la vicenda in tribunale. Nel corso della sua trasmissione Cruciani è intervenuto in difesa di Feltri dopo le esternazioni nei confronti dei meridionali. "Viva la libertà di espressione", ha esordito il conduttore radiofonico, aggiungendo che le parole del direttore di Libero sono state fraintese. Secondo lui i meridionali non sono un'entità e non c'è niente di scandaloso nelle esternazioni di Feltri, che avrebbe semplicemente sottolineato "un'indubbia inferiorità economica" del sud rispetto al nord. "Siete ridicoli. Può anche aver esagerato dicendo queste cose. Io non ci credo - ha affermato Cruciani - lui intendeva inferiori economicamente e non dal punto di vista antropologico". Le opinioni di Feltri sui meridionali hanno scatenato diverse polemiche in tutta Italia e non sono mancate le minacce di azioni legali. Lo scrittore Maurizio De Giovanni e il senatore Sandro Ruotolo hanno dato mandato al loro legale per agire in sede civile e penale contro Feltri per "istigazione all'odio"; anche l'Ordine dei giornalisti, sta valutando cosa fare, ritenendo che il comportamento del direttore di Libero rischia di danneggiare l'immagine dell'intera categoria. Cruciani, invece, non è arretrato di un millimetro nella difesa di Feltri, ritenendo assurdo portare la vicenda in tribunale e sostenendo che le minacce di azioni legali contro Feltri siano senza alcun fondamento. "Ma lo vogliono denunciare per che cosa? Per attentato ai meridionali?" ha ironizzato il conduttore, mandando nuovamente in onda il chiarimento avvenuto ieri ai microfoni di Radio 24. A replicare a Cruciani ci ha pensato David Parenzo, il co-conduttore del programma radiofonico La Zanzara. "Le frasi di Feltri sono assolutamente vergognose e voi che lo difendete siete scandalosi. Dovrebbe chiedere scusa a tutti i meridionali per quello che ha detto", ha commentato Parenzo, accusando Cruciani di aver coccolato come al solito il direttore di Libero. "Servono provvedimenti e l'Ordine dei Giornalisti fa bene ad intervenire", ha concluso il co-conduttore.

Da liberoquotidiano.it il 27 aprile 2020. "Il razzista sei tu, sei razzista con Vittorio Feltri". A Non è l'Arena si parla della polemica sui meridionali innescata dalle parole del direttore di Libero, e Alessandro Sallusti lo difende a spada tratta, travolgendo con una arringa infuocata Luca Telese. "Feltri intendeva dire che i meridionali sono inferiori economicamente, e i numeri del Pil sono lì a dimostrarlo - incalza il direttore del Giornale, in collegamento con Massimo Giletti -. Sai chi è Feltri? Io l'ho conosciuto. Passa per essere ateo, ma il suo miglior amico è un prete. Sai cos'ha scritto di lui Marcello Veneziani, uomo del Sud? 'Gli rinfaccio tutto tranne essere razzista, non mi ha mai censurato'". E a Telese non resta che balbettare.

Il pericoloso virus della censura. Che il mio collega e amico Mario Giordano giochi (con successo) a fare il mattacchione su Rete 4 è un fatto. Che il mio maestro Vittorio Feltri abbia rotto (con altrettanto successo) i freni inibitori è altrettanto vero. Alessandro Sallusti, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale.  Che il mio collega e amico Mario Giordano giochi (con successo) a fare il mattacchione su Rete 4 è un fatto. Che il mio maestro Vittorio Feltri abbia rotto (con altrettanto successo) i freni inibitori, arrivando a dire in tv, ospite di Giordano, a proposito della guerra sul Coronavirus tra Lombardia e Campania, che «i meridionali in molti casi sono inferiori», è altrettanto vero. Che molti italiani, meridionali e non, ascoltando quelle parole, si siano offesi è vero e legittimo; che altrettanti meridionali e non abbiano sorriso e riso divertiti è indiscutibile, ne conosco più d'uno. Ma che tale Vittorio Di Trapani, segretario del sindacato dei giornalisti Rai, detto Usigrai, e l'immancabile neo senatore pd Sandro Ruotolo chiedano di processare il direttore di Libero e il conduttore di Fuori dal Coro e di espellerli dall'Ordine dei giornalisti è la prova che in Italia come diceva Ennio Flaiano - la situazione è grave, ma non è seria. Parlandone solo per un secondo seriamente, trovo che le bizzarre parole di Feltri escano dai canoni e dalla correttezza professionale molto ma molto meno comunque meno pericolosamente - dei faziosi servizi filogovernativi che ogni giorno ci scodellano Tg1 e Tg3, cosa che, questa sì, dovrebbe turbare ma così non è - la sensibilità dell'Usigrai. E trovo che Sandro Ruotolo, in quanto senatore del Pd, quindi di maggioranza, prima di processare gli altri dovrebbe affrontare lui il tribunale della storia per l'incapacità del suo partito di rimettere in moto e in sicurezza l'Italia azzoppata dal Coronavirus. Nel febbraio del 1960 Indro Montanelli, in una intervista a Le Figaro, ebbe a dire: «Ah! La Sicilia! Voi avete l'Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani». In risposta, la Sicilia venne tappezzata di manifesti a forma di necrologio: «Per le ingiurie lanciate contro l'intero popolo siciliano sarà rifiutata la vendita di giornali contenenti articoli di Indro Montanelli». E la cosa finì lì. Belli quei tempi, i tempi alla don Camillo e Peppone, liberi cazzotti e libere goliardate. Oggi ci ritroviamo con Ruotolo e Di Trapani, esposti, codici etici, giudici e tribunali. Ma piantatela lì, lasciate che siano i lettori e i telespettatori a decidere, come allora fecero i siciliani con Montanelli, se continuare o no a seguire gli sketch di Giordano e Feltri. Si chiama libertà e, tranquilli, le app-spie sul telecomando il Pd ancora non le ha previste.

IL CORO DEGLI AMICI DI MERENDA: FELTRI RAZZISTA? MA QUANDO MAI. Raffaele Vescera il 24.04.2020 su Movimento 24 agosto. La piena confessione pubblica del pregiudizio razziale nutrito contro i meridionali, resa da Feltri, cui è seguita una inaspettata e fortissima reazione degli offesi, ha scatenato il panico nel campo dei compagni di merenda dell’indifendibile direttore di Libero il quale, persi i freni dell’ipocrisia, se n’è uscito con l’affermazione che i meridionali sono “inferiori”. Affermazione “ingenerosa”, “inopportuna”, “fraintesa” “sbagliata” “sfuggita dai denti” “voleva dire altro” “è campanilismo”, come ha detto la presidente calabrese Santelli a capo di una giunta paraleghista,  insieme ad altre interessate riduzioni del significato chiarissimo della sfregiante affermazione. Di tutto pur di non definirla per quella che realmente è: razzista. Un razzismo, manifesto o ipocritamente mascherato, condiviso dall’intero sistema del “prima il Nord”. Feltri, spaventato e sorpreso dalla potente reazione a suon di denunce penali per istigazione all’odio razziale, dice che no, voleva significare ben altro, lui parlava di “inferiorità economica”, non antropologica, perché lui ama la canzone napoletana (sic!). Ma le parole sono pietre, in questo caso macigni che testimoniano in modo inequivocabile l’intenzione di definire i meridionali inferiori, tout court. Smarcati e smarriti, i sostenitori di Feltri, a partire dal duo neomelodico Meloni-Salvini, che ha recentemente proposto Vittorio Feltri alla carica, udite udite, di presidente della Repubblica, vanno in panico, provocato dal timore che l’amico Feltri, svelando la verità sul fascioleghista pensiero, potesse far perdere loro milioni di voti. A partire dalla signora Meloni che, dicendosi lei stessa di origini meridionali, non potrebbe mai condividere il senso razziale delle parole di Feltri da lei conosciuto come uomo di “grande cultura” (sic!) che certamente intendeva dire “inferiorità economica”. Ricordiamo alla Meloni che Feltri si vanta di avere un busto di Mussolini sulla scrivania. Sarà questa la ragione della corrispondenza di amorosi sensi? E, visto che domani si celebra il 25 aprile, ricordiamo alla Meloni le parole del loro mai rinnegato duce che, al primo bombardamento alleato su Napoli, chiedendosi se i partenopei stessero ancora suonando i mandolini, si disse lieto che la città avesse notti così severe. Così, secondo Mussolini “la razza sarebbe diventata più dura e la guerra avrebbe fatto dei napoletani un popolo nordico.” Il razzismo, o la lotta “di razza”, è un elemento fondante dell’ideologia fascista, confermato nelle nefaste leggi razziali del 1938.  E questa è storia. E poi che dire della dissociazione da Feltri di Salvini, condannato lui stesso per razzismo per i cori vergognosi contro i napoletani alla festa della lega nord, napoletani che secondo il capo leghista puzzavano più dei cani? E che dire poi dei suoi compari leghisti, Calderoli anch’egli condannato per razzismo, e Borghezio, Bossi, Centinaio,  invocanti l’eruzione del Vesuvio per sterminare i meridionali, definiti volta per volta “topi da derattizzare” “merdacce mediterranee” “terroni di merda” e altre amene dichiarazioni d’affetto? Che dire delle parole “i medici calabresi valgono meno e vanno pagati meno” pronunciate in Tv dalla signora Ceccardi, europarlamentare leghista, ora proposta da Salvini quale candidata a presidente della Toscana? Normali insulti razziali che, non provocando il quarantotto di adesso, non sono stati mai condannati da Salvini. Ora l’aria è cambiata, il Sud s’è scetato, e l’aria s’è fatta tosta per i suoi nemici, la scalata al potere della peggio politica italiana ha bisogno di voti, allora alé, fanno di necessità virtù e per finta apprezzano  i meridionali.

Lettera di Massimiliano Parente a Dagospia il 24 aprile 2020. Caro Dago, sono amico di Vittorio Feltri ormai da molti anni, e i miei amici di sinistra mi dicono «Ma come fai a essere amico di Vittorio Feltri?». Io rispondo sempre «Non sapete cosa vi perdete», e comunque si facciano i cazzi loro. Tra l’altro casomai dovrebbero chiedersi come faccia Feltri a essere amico mio, che sono bisessuale, ateo, scientifico fino al midollo, odiato sia dalla sinistra che dalla destra. Un lettore ieri mi ha scritto che non leggerà più i miei libri perché ne ho scritto uno con Feltri, e io gli ho detto chissenefrega, sei tu che non mi piaci ai miei libri non loro a te, leggiti la Murgia. Non sempre siamo d’accordo, io e Vittorio. Nell’ultima telefonata abbiamo discusso su Matteo Salvini, che per lui è il meno peggio e per me sono tutti uno peggio dell’altro, forse Salvini peggio di tutti perché gli altri sono il nulla ma lui è il nulla che bacia il cuore immacolato di Maria tra un selfie dove addenta un panino e l’altro dove si traveste da poliziotto, quando non viene a suonarti al citofono per accusarti di spaccio, un politico con un guardaroba da vomito e con una culturina da ultras da stadio che rispetto a lui perfino Zingaretti sembra un professore anziché il mio commercialista. Ma la polemica sui meridionali non la capisco. Come ha fatto notare Giuseppe Cruciani, era ovvio che Vittorio intendesse inferiori economicamente, e lì non c’è dubbio. Gli si obietta che molti meridionali nel dopoguerra sono andati a lavorare al Nord, appunto, perché al Nord c’era lavoro, mentre il Sud si regge ancora sulla mafia. Quella mafia che Roberto Saviano denunciò di essere arrivata al Nord, anche qui appunto, esportata dal Sud. Oltretutto si è scandalizzato Parenzo, cartina tornasole del fatto che abbia ragione Feltri. Senza contare che Feltri, tra l’altro, è la persona più liberale che io conosca. Con lui parliamo spesso contro l’idiozia delle religioni (cosa fondamentale per essere davvero miei amici), gli ho presentato il mio compagno e la mia compagna, ci ha invitati spesso insieme a cena e sempre offrendo lui perché non sono mai riuscito a offrirgli neppure un caffè, e per il resto non ha nessuno schema mentale o ideologico che hanno molti altri, di destra o di sinistra che siano. La prima volta che glielo dissi, che ho un fidanzato, una fidanzata, e diverse amanti (all’epoca, oggi mi sono rotto i coglioni anche del sesso, al massimo vado da una prostituta, costa meno di una donna), mi rispose: «Pensa che fortuna, e io che sono solo etero e devo accontentarmi solo delle donne». Con lui puoi parlare di tutto, e lui parla di tutto in privato e anche in pubblico, facendo irritare i benpensanti perché non hanno capito che, esistenzialmente, non gliene frega niente di un cazzo, e dice quello che vuole, e come direttore, io ne sono la prova, ti dà anche la libertà che vuoi. Quando difende gli omosessuali e le unioni civili nessuno dice niente, quando dice «frocio» come dicono anche gli omosessuali tra di loro scatta l’indignazione. Ti racconto anche un aneddoto che non sa nessuno, è privato ma significativo. Quando Feltri passò da Libero al Giornale, si portò dietro un gruppo di suoi giornalisti fidati, più uno scrittore, me, non certo di destra, e lasciandomi carta bianca come ha sempre fatto. All’epoca la mia collaborazione con Libero, in forma cessione diritti d’autore, era di sedicimila euro l’anno. Quando mi chiamò il direttore amministrativo del Giornale, Gianni di Giore, mi chiese quanto volevo. Io pensai di alzare la posta e proposi venticinquemila. Dopo due ore Di Giore mi richiamò: «Il direttore non è d’accordo». «Capisco», dissi rassegnato. «E quindi quanto mi date?». «Dice che sei troppo bravo, ti propone quarantacinquemila». Non mi è mai successo nella vita, figuriamoci a Roma, dove vivo, dove casomai ti propongono collaborazioni dove non ti pagano proprio o il minimo indispensabile. Unica cosa che non capisco di Vittorio è perché non manda affanculo l’ordine dei giornalisti. Una volta, per un articolo che io scrissi su Libero o sul Giornale, non ricordo, partì anche una mozione dell’Ordine contro di me per espellermi, senza accorgersi che non sono iscritto all’Ordine, non sono neppure un pubblicista, sono uno scrittore che riceve solo compensi di diritti d’autore. Ma credo che quella di Vittorio sia una questione di principio. Potrebbe andarsene quando vuole, è il direttore più pagato d’Italia da decenni, ma forse continuare a restare nell’Ordine, senza che l’Ordine riesca a cacciarlo, perché è il suo modo di mandarli affanculo ogni giorno. Baci, Massimiliano Parente

I meridionali non sono inferiori, ma Feltri va difeso. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Vedremo se un giudice riterrà Vittorio Feltri responsabile di qualche delitto per aver dichiarato di credere «che i meridionali, in molti casi, siano inferiori». Non gli faccio un piacere riportando fedelmente la frase che lui, successivamente, nel prevedibile canaio che ne è venuto, ha rivendicato con la precisazione secondo cui i meridionali sarebbero «economicamente» inferiori. L’ha pronunciata, e tant’è: ciascuno ha il diritto di sdegnarsene; come ciascuno, al contrario, ha il diritto di prendere le parti di Feltri quando lamenta che le sue affermazioni «vengono strumentalizzate in modo indegno». Ma se un giudice condannerà Vittorio Feltri facendo appello alla cosiddetta legge Mancino, secondo le istigazioni di alcuni parlamentari e sulla scorta dei suggerimenti in tutta fretta messi a disposizione dal presidente dell’Ordine dei giornalisti, avremo una sentenza magari legittima e tuttavia pronunciata applicando una normativa molto pericolosamente illiberale e profondamente ingiusta. Perché quella legge non punisce unicamente gli atti di discriminazione razziale o etnica, o di incitazione a commetterne: ma anche la sola diffusione di idee fondate su pretese di superiorità razziale o etnica. Idee pessime, che ripugnano a qualsiasi coscienza civile e certamente anche a quella di Vittorio Feltri, ma idee: che è giustissimo contrastare nei luoghi del dibattito pubblico, ma che è sbagliatissimo processare e condannare in un’aula di tribunale. Peggio, poi, è che a un’altra specie di processo si voglia giungere su iniziativa dell’Ordine dei giornalisti, questo apparato di diretta derivazione fascista che ha legittimato i costumi più immondi e screditanti di una categoria – quella dei giornalisti, appunto – non solo assai poco illustre, vista la quantità di ignoranti e molto spesso pressoché analfabeti che la compongono, ma abituata a distruggere impunemente l’onore e la reputazione delle persone senza che questa pratica trovi freno nella giustizia che sistematicamente la protegge (ricordiamo che in questo caro Paese il diritto alla reputazione personale “recede”, cioè va a farsi benedire, davanti al cosiddetto diritto di cronaca). Il giornalismo corporato, infatti, lamenta che la propria immagine sarebbe stata danneggiata dalle dichiarazioni di Vittorio Feltri, evidentemente sul presupposto che si può far parte di quell’Ordine a patto che si abbiano le idee giuste e che nel manifestarle si adottino le maniere ammesse dal giornalismo patentato. È inutile dire che Vittorio Feltri non ha bisogno di questa difesa. Che infatti non si rivolge a lui né a quel che ha detto: ma al principio per cui in un Paese civile la libertà di esprimere un’idea non si coarta con un processo, né si subordina alle valutazioni di un burocrate che si incarica di sanzionare l’idea illegittima. Un principio cui dovrebbero tenere tutti, anche quelli che detestano Feltri di tutto cuore.

NON SOLO FELTRI: IL NORD SI ARROCCA, ANCHE NEL SISTEMA DEI MEDIA. E REPUBBLICA SCIOPERA. Giancarlo Pugliese, Circolo M24A-ET “Marche” il 24.04.2020 su movimento24agosto.it. No. Decisamente non è un buon momento per l’informazione italiana. Il caso-Feltri? Non è quello il punto. C’è uno strano fenomeno che sta avvenendo nei media italiani. In un momento del tutto inedito nella storia repubblicana, con un Paese alle prese con un’emergenza sanitaria senza precedenti dai tempi della Spagnola, da più parti si stanno osservando, con sempre maggiore frequenza e virulenza, quotidiani attacchi verso il Sud. Nei modi più subdoli , non di rado con plateale sprezzo del ridicolo. E non solo su Tele-Lega, meglio nota come Rete4, ma anche sul Servizio Pubblico. Ce n’è abbastanza per interrogarsi profondamente sulle ragioni di tutto questo. Ma intanto, mentre l'Italia sta, forse per la prima volta, seriamente pensando di boicottare Vittorio Feltri, proprio ieri il suo figliolo Mattia Feltri ha assunto il ruolo di nuovo direttore del seguito Huffington Post, al posto di Lucia Annunziata, dimessasi al momento del passaggio di proprietà in Gedi. Per carità, mai sia detto che le “colpe” dei padri debbano ricadere sui figli. Ma siamo sicuri che quelle siano considerare “colpe”? A questo proposito, in un silenzio che non promette nulla di buono, il mondo dell’informazione è interessato da cambiamenti che invece meriterebbero le maggiori attenzioni del pubblico. Si sta infatti delineando una pericolosa concentrazione di potere nei media italiani. L’Huffington Post fa parte del Gruppo Gedi, nato nel 2016 dalla fusione tra il Gruppo Espresso-Repubblica (controllato dai De Benedetti) e la Italiana Editrice (vicina alla famiglia Agnelli) facente capo alla Stampa e a numerose testate locali. Pochi giorni fa, dopo un lungo iter, il controllo della maggioranza delle azioni del Gruppo è passato di mano dai De Benedetti agli Agnelli, ramo Elkann. I risultati si notano subito: Verdelli, direttore di Repubblica, viene defenestrato dopo poco più di un anno dal suo subentro a Mario Calabresi, e proprio nel giorno in cui "scadevano" le minacce di morte ricevute, che ne avevano imposto la protezione sotto scorta. Gli subentra l'ex direttore della Stampa, Maurizio Molinari. Non a caso, ieri, venerdì 24 Aprile, vigilia della Liberazione, la Repubblica non è uscita. Peraltro, nel giorno più importante della settimana, quello di edizione del seguìto inserto "Il Venerdì". Un fatto più unico che raro nella oltre quarantennale storia della testata.  Il Comitato dei giornalisti del quotidiano, nel comunicato emesso ieri, non fa molti giri di parole:  “la Redazione non può non rilevare come la scelta dell’editore cada in un momento mai visto prima per il Paese e per tutto il pianeta, aggrediti da una pandemia che sta seminando dolore e morte e sta chiamando tutti noi a uno sforzo straordinario. E proprio nel giorno indicato come data della morte del direttore Verdelli dagli anonimi che ormai da mesi lo minacciano, tanto da spingere il Viminale ad assegnargli una scorta. Una tempistica quanto meno imbarazzante.” Sullo sfondo, una chiara preoccupazione in merito non solo a eventuali “piani di ristrutturazione aziendale”, ma anche alle garanzie di indipendenza del giornale. Un allarme cui anche noi del Movimento 24 Agosto riteniamo sia opportuno tenere puntati i fari. Allo stesso modo in cui, tornando alla premessa, non ci sfugge un malcelato tentativo, che è ormai ben più di un’ipotesi: quello di deviare l’attenzione da problemi e responsabilità evidenziate dalle regioni del Nord nella gestione della pandemia. Evidenze gravi, gravissime. Rese impossibili da eludere dalla drammatica impietosità dei numeri. E che, fra inchieste della Magistratura e gli appelli, sempre più condivisi, a commissariare la sanità lombarda, potrebbero arrecare gravi danni ai referenti politici del potere nord-centrico, pregiudicandone la tenuta. Il punto, dunque, non è il Feltri che accetta di farsi mandare consapevolmente allo sbaraglio per svolgere una parte, con fin troppa solerzia, in questo giochino banale e terra-terra. Il punto è un altro. La percezione è che, in un momento come questo, il sistema mediatico "filonordico" si stia  arroccando pericolosamente. Con grande dispendio di uomini e mezzi. E questo ci preoccupa non poco.

A che serve far sentire la propria voce? Serve, serve...Pino Aprile il 23 aprile 2020 su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale. Il Tg3, nella prima edizione raggiungibile del telegiornale, si è scusato, ieri, per la offensiva frase del servizio sulla gambizzazione avvenuta a Ostia, un atto criminale che non avrebbe fatto notizia a Napoli, Palermo, Reggio Calabria, secondo il collega della Rai. La cosa ha suscitato ovvia indignazione e le nostre proteste: i circoli del nostro Movimento per l'Equità Territoriale si sono mossi, inviando lettere di segnalazione e protesta alla Rai. Molti dei nostri iscritti hanno fatto altrettanto, pur vivendo e lavorando all'estero (ma seguono i tiggì Rai). Il Tg3 ha preso atto della scivolata (sono giornalista, una parola infelice può scappare a tutti) e si è doverosamente scusato, riconoscendo l'errore (Enrico Mentana, forse dovrebbe riflettere su questo: nessuno è “diminuito” se gli capita di sbagliare e lo dice; al contrario, è negare l'evidenza e replicare stizziti che fa perdere stima e autorevolezza). Quindi, male ha fatto il collega a pronunciare quella frase, bene hanno fatto i nostri iscritti a non farla passare, bene ha fatto il Tg3 ad ammettere che può succedere ed è successo. Questa è civiltà.

TUTTI GLI INSULTI “ITALIANI” CONTRO IL SUD. Di Giovanni Palmulli su movimento24agosto.it il 23.04.2020. Martedì 21 aprile, il TG3 delle 14.00 mandava in onda un servizio su una gambizzazione avvenuta ad Ostia (Roma) che esordiva così: “A Napoli, Palermo o Reggio Calabria forse una gambizzazione non fa notizia, ma ad Ostia si!”. Immediatamente venivamo allertati da decine di segnalazioni ed altrettanto immediatamente partivamo con il redigere una lettera di protesta al TG3 corredata dalle firme di iscritti e simpatizzanti. Già ieri mattina, raccolte centinaia di firme, la lettera veniva inviata al destinatario. E ieri sera, in coda al TG delle 19.00 la bella sorpresa: l’annunciatrice si scusava per quel servizio male impostato e in cui sicuramente era stato detto quel che non si voleva dire ottenendo l’effetto contrario. Diceva che erano pervenute tante mail di protesta da parte di cittadini e ascoltatori e quindi chiedeva scusa. Possiamo così dire che abbiamo così vinto una piccola battaglia, ma siamo ben coscienti che la guerra, per noi appena iniziata, è ancora lunga, molto lunga e viene da lontano. A partire dal 21 febbraio, giorno in cui il Coronavirus è apparso ufficialmente in Italia e nei TG, c’è stato un attacco continuo e crescente al Sud, un attacco vecchio di 160 anni, ma allo stesso tempo nuovo in quanto, già dall’esordio di questo mostruoso 2020, ha subito una forte e ben orchestrata accelerazione. Da quel giorno infatti le carognate mediatiche contro il Sud, si sono susseguite a ritmo sempre più incalzante. Eccone un breve e molto incompleto elenco:

22/02 – I tifosi bresciani, in piena epidemia, cantano allo stadio dove giocava il Napoli “Terun, terun, La rovina dell’Italia siete voi!” con i media che riportano il fatto senza sanzioni o indignazione.

Stesso giorno, esordisce Feltri: “Invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera!”

E Mentana rincara la dose: “Il virus è devastante perché colpisce le zone produttive del paese!”

E a Milano appare uno striscione: “NAPOLETANI CORONAVIRUS” (evidentemente era quello il loro auspicio quando ancora non sapevano di essere loro il focolaio dell’epidemia).

23/02 – Il Nord attacca: “Il Molise mette al bando lombardi e veneti!” (e infatti il governo annullò il provvedimento del Molise).

25/02 – Da una parte i TG lodano la Cina per aver sigillato subito il focolaio e dall’altra si dà dell’invasata alla signora di Ischia che chiedeva ai turisti lombardoveneti di non sbarcare sull’isola.

26/02 – Vittorio Sgarbi afferma che i presidenti delle regioni del Nord non devono chiudersi dando al Sud un’occasione d’oro per avvantaggiarsi.

28/02 - Rita dalla Chiesa lancia una fatwa contro l’intera isola d’Ischia: “Amici del Nord, ci sono tanti di quei posti belli in Italia che possiamo vivere anche se non andiamo ad Ischia. Ricordiamocelo soprattutto per le vacanze estive!” Un ricatto bello e buono, una rappresaglia esplicita chiesta agli “amici del Nord”.

01/03 – Paolo Liguori (direttore di Studio Aperto) afferma: “Senza la Lombardia la Sicilia può finire solo in Africa!”

04/03 – Un Feltri gongolante per l’arrivo del virus anche al Sud titola: “L’infezione crea l’unità d’Italia! Il virus alla conquista del Sud!”

Intanto l’8 marzo c’è la grande fuga dal Nord, ma il ministro Boccia afferma: “Nessuna quarantena per chi torna al Sud!” e impugna la delibera della regione Puglia.

15/03 – Ancora Rita della Chiesa afferma: “Sono nata a Casoria (NA), nata e scappata, perché sono di Parma!”

18/03 – Entra in scena il professor Galli che si scaglia contro il collega Ascierto di Napoli: “Non avete scoperto nulla. Quel protocollo è stato testato già al Nord!”

19/03 – Calenda: “Le regioni del Sud sono inefficienti nella gestione del Servizio Sanitario!”

Stesso giorno Striscia la Notizia, tramite la voce di Gerry Scotti, irride al prof. Ascierto e dà ragione al prof. Galli.

20/03 – Gerry Scotti si scusa e dice: “Il testo è stato scritto dagli autori. Ascierto è stato un signore. Galli voleva fare il primo della classe.”

Nello stesso giorno Barbara Palombelli afferma: “Il virus si è diffuso al Nord perché lì ci sono più cittadini ligi e abituati a lavorare!”

Il Fatto Quotidiano sbatte in prima pagina i presunti 249 assenteisti negli ospedali di Napoli.

Lucia Annunziata, nonostante da Napoli arrivi la smentita, riprende la notizia portando il numero a 300.

21/03 – Servizio dalla Pignasecca, quartiere di Napoli ad alta densità abitativa, nel quale, tramite immagini piatte, si cerca di dimostrare che a Napoli non si rispetta il divieto di uscire. Nel contempo non si è visto un servizio, dico uno, su un qualunque centro commerciale del Nord dove gli affollamenti erano di sicuro maggiori e con la stessa motivazione della spesa.

23/03 – Mattino 5: “Il Sud impari dal Nord per l’emergenza!”

26/03 - Myrta Merlino: “Ieri sono stata a Napoli e c’erano assembramenti pazzeschi!”

29/03 – Feltri: “I meridionali accusano i settentrionali di essere gli untori, ma dimenticano di essere venuti spontaneamente il Lombardia. Potevano restare dalle loro parti…”

02/04 – Mentana: “Meridionali ridicoli e piagnoni. Imparate l’italiano!”

03/04 – Libero: “Traffico di pastiere e gente in strada. Ha ragione De Luca. Lanciafiamme!”

03/04 – Senaldi: “Il Corona colpisce l’italia per punirci di aver votato 5S. Ma Dio deve essere un po’ strabico perché sta falcidiando le terre che meno si sono fatte abbindolare ovvero il Nord!”

03/04 – Mattino 5 parla dell’indisciplina di Napoli e per rafforzare l’affermazione mostra una strada affollata … di Genova.

04/04 – La giornalista lamenta il fatto che la gente di Napoli va a fare la spesa (!) e passa di negozio in negozio, fruttivendolo, salumiere ecc.

08/04 – Myrta Merlino: “Non ce lo aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli!”

08/04 – Tiziana Panella: “I meridionali sono stati fortunati a non aver avuto la stessa ondata di contagi del Nord!”

14/04 – ANSA – “Boom di multati per Pasqua in lockdown, 14000 sanzioni”. Il tutto mentre scorrono immagini di Napoli. Il servizio viene poi ripreso da tutti i TG nazionali.

15/04 – Agorà – Serena Bortone: “Voglio sapere se Napoli è vuota o no, se si rispettano le regole o no! Peraltro – rivolgendosi alla inviata Elena Biggioggero – tu sei milanese, hai uno sguardo nordico…”

Elena Biggioggero, in evidente difficoltà, risponde: “In questo momento si stanno comportando… (voleva dire ‘bene’ ma non se l’è sentita di dirlo) cioè, in realtà non c’è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso!” (due camioncini di consegne merci e un autobus).

16/04 – Si scusano entrambe, ma la Bortone in maniera molto sofferta: “Qualche parola sbagliata può scappare…” (guarda caso sempre a nostro danno…)

17/04 – Beppe Severgnini: “Verso la Lombardia sento astio e crudeltà. Forse è odio verso i primi della classe…”

18/04 – TG1 – Prima di far partire un servizio sugli applausi che la gente di Barra e Ponticelli ha riservato alla Polizia intervenuta a sanificare le strade, l’annunciatrice ricorda (a completo sproposito) che in precedenti occasioni la gente buttava mobili sulla Polizia dai balconi.

18/04 – Ancora la Palombelli a Stasera Italia chiede a Sgarbi: “De Luca vuole chiudere la Campania. Riflesso giusto o impazzimento generale?” Risponde Vittorio Sgarbi: “De Luca conosce i napoletani quindi tende a credere che non saranno rispettosi di nessuna regola!”

18/04 – Il Giornale: “Il muro di Napoli. Manicomio De Luca” e nell’articolo di Lottieri: “Una Campania che decide da sé e che alza le proprie frontiere non è compatibile con il generoso assegno che essa incassa annualmente!” (altro ricatto).

18/04 – Senaldi invitato (?) a Stasera Italia: “Ovvio che al Sud non si pongono il problema riaperture. Non hanno nulla da riaprire!”

19/04 – Feltri: “Al Nord vogliono andare a lavorare, non scendere in strada a suonare il mandolino”. E ancora: “GREGARI, NEMICI, STORNELLATORI, non esagerate, c’è aria di rivolta al Nord contro la dittatura Roman-Foggiana. Attenzione, MANUTENGOLI INGORDI, non tirate troppo la corda del giochino che vi ha consentito di succhiare denaro dalle tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande. Voi senza di noi andate a ramengo! Datevi una regolata o farete una brutta fine, peraltro meritata!”

19/04: Porro: “L’Italia può fare a meno della Campania!”

20/04 – Gallera: “Il Sud lo abbiamo salvato noi da Milano! Se noi non ci fossimo opposti con rigidità al governo, il Sud il 7 marzo non sarebbe stato chiuso!”

21/04 – Feltri: “Il Sud gioisce che i settentrionali siano stati massacrati dal virus!” E ancora: “La Lombardia vuole riaprire perché vive del lavoro dei suoi cittadini, non di sussidi e lavoro nero!” E poi il gravissimo affondo finale: “Io non credo ai complessi di inferiorità, ma credo che i meridionali in molti casi siano inferiori!” E tutto questo mentre il conduttore “fuori dal coro”, Mario Giordano, se la ride.

21/04 – Feltri: “In Lombardia ripartenza scaglionata. In Campania ripartenza scoglionata!”

22/04 – Le jene – Giulio Golia confeziona un servizio al fine di dimostrare, contro ogni evidenza, che i cestini della solidarietà e i pacchi alimentari siano in realtà di provenienza camorristica.

22/04 – Feltri: “Senza la Lombardia in Campania si morirebbe di fame!”

Ora, considerando che il COVID per il 90% ha colpito al Nord, non si capisce il perché di tanta attenzione al Sud. Non si capisce… Beh, pensandoci bene, si capisce eccome! Tutta questa sfilza di citazioni di personaggi presenti di continuo su TG e programmi di intrattenimento su tutte le reti, nessuna esclusa, è soltanto la messa in pratica di una strategia tendente a far passare l’idea di un Sud incapace, corrotto, e gestito da organizzazioni criminali e camorriste, e pertanto non meritevole di alcun sostegno, tantomeno finanziario, da parte dello Stato. 'Serve a dirottare verso il Nord, con l'avallo dell'opinione pubblica, i fondi che arriveranno'. Nord a favore del quale, viceversa, c’è stata una caterva di servizi sulla sua generosità, operosità, efficienza ed eroismo. Un Nord quindi meritevole di quei fondi a scapito di un Sud brutto, sporco e cattivo. DISCREDITARE PER GESTIRE!

Siamo di fronte ad una ORGANIZZAZIONE MEDIATICA CRIMINALE che vuole distruggere una parte d’Italia per favorirne l’altra. Distruggere il tessuto economico e sociale distruggendone l’immagine. Bisogna capire che ogni parola cattiva contro di noi significa la chiusura di una attività economica. Quando il TG ti dice che le gambizzazioni al Sud non fanno neanche più notizia, sono tutte presenze turistiche che vengono meno al Sud e confluiscono al Nord. Quando ti dicono che ai quartieri spagnoli comanda la camorra, c’è una pizzeria, un B&B che chiude e che apre al Nord!

E allora ecco come si spiega il bombardamento mediatico a tappeto cui stiamo assistendo in questi giorni. Si, è vero che abbiamo ottenuto le scuse di Gerry Scotti, di Serena Bortone ed Elena Biggioggero, e ieri sera del TG3, ma loro vogliono applicare la tattica del bombardamento a tappeto per far impazzire la nostra contraerea delle proteste, in modo che non dobbiamo più sapere da che parte sparare. Ma noi dobbiamo individuare il centro pensante, nevralgico, la cabina di regia di questa macchina del fango ben oliata che permette a un lestofante reiterato come Feltri e a tutti i suoi accoliti, di avere sempre un palcoscenico dal quale parlare e spargere veleno. Certo, in alcuni casi, potrebbe trattarsi di pregiudizi inconsci e automatici da parte di alcuni giornalisti e divulgatori, ma anche in questo caso il pregiudizio è anch’esso frutto di questa macchina del fango che, ricordiamolo, non lavora da oggi, ma è all’opera addirittura da prima della cosiddetta unità d’Italia e che sicuramente ha contribuito a realizzarla e nella maniera peggiore. Oggi sembra addirittura che la democrazia sia vigente solo quando parlano loro per massacrarci (ed infatti nessuno gli si oppone), mentre viene sospesa e diventa dittatura quando parliamo noi per difenderci. Infatti Zaia, una delle menti dell’Autonomia differenziata, dice: “Se la Campania chiude i confini, è Sud contro Nord e non viceversa. Fanno autonomia!” Quindi prepariamoci ad alzare il tiro. Dobbiamo colpire la centrale operativa che organizza questo bombardamento. Colpire e distruggere i cannoni potrebbe non bastare!

Grillo come Feltri ma tutti zitti. Redazione La Rampa il 24 Aprile 2020. Il web ha memoria lunga. Utilizzarlo con bulimia può esporre a rischi seri. Quando meno lo si aspetta, argomenti e parole usate in un tempo non sospetto, possono ripresentarsi a mo’ di boomerang e smontare, nello spazio effimero di un attimo, una critica sulla quale magari si stanno capitalizzando insperate fortune mediatiche. L’antologia degli sbugiardamenti è lunghissima e trabocca di nomi pesanti: della politica, dello sport, del jet set. Oggi a fare i conti col rimbalzo della rete sono Beppe Grillo e i suoi accoliti grillini. D’accordo, la coerenza non è il loro forte e, se c’è una cosa della quale proprio non gliene può fregar di meno, è perdere la faccia. Lo dimostra una sfilza di incredibili capriole su Tav, Tap, Mes, #MaicolPD e via dicendo. Da qualche giorno le truppe del comico genovese, rilanciano le infelici parole di Vittorio Feltri, la nota firma del giornalismo italiano, sul conto di campani e meridionali. Per la verità l’ex direttore de ‘Il Giornale’ è preso di mira, a giusta ragione, da un fronte largo e variegato. Cecchini professionisti dello spessore di Maurizio De Giovanni, hanno imbracciato la tastiera a difesa dei vessilli partenopei e sudisti, tradendo anche il malcelato fine, il vero obiettivo delle loro invettive, di attribuire efficacia retroattiva all’endorsement con cui Meloni e Salvini, anni addietro, ipotizzavano una candidatura al Colle del giornalista bergamasco. Le schiere pentastellate non sono da meno. Hanno iscritto d’ufficio Feltri ai ranghi del partito di Salvini. Il leader della Lega ha voglia di affannarsi in queste ore il per marcare le distanze dal fumantino Direttore: vano esercizio. Di Maio e company, specialisti della giustizia sommaria, non ammettono ragioni e utilizzano, senza distinzioni, la medesima gogna per Feltri e per Salvini. La bocca si devono sciacquare prima di esprimere giudizi sui napoletani, ripetono come una litania, confidando nella brama di linciaggio della rete. Poi però, come una cambiale dimenticata, spunta un video di Grillo in cui si afferma che i napoletani sono disonesti e che, per trovarne uno privo di questo requisito, occorre una modificazione genetica. Ed è in quel preciso istante che i grillini, che la faccia l’hanno perso da tempo, si accorgono di aver smarrito anche la parola…

Nord contro Sud, la secessione dei ricchi sarebbe più odiosa di quella degli immuni. Marco Demarco de Il Riformista il 22 Aprile 2020. Sarebbe veramente il colmo se, dopo aver denunciato la secessione dei ricchi, il Mezzogiorno mettesse in campo la secessione degli immuni. Sarebbe come se, dopo aver criticato Veneto e Lombardia per il regionalismo differenziato, tra l’altro costituzionalmente protetto, il Sud proponesse, tra le vie di uscita dalla crisi, la differenziazione da coronavirus. E dopo aver messo in croce i leghisti del Nord, perché indifferenti a ogni forma di solidarietà nazionale, lanciasse, nel momento di maggior bisogno, un sonoro e vigliacco “si salvi chi può”. Per giunta accompagnato da discutibili rimandi morali e da catastrofiche profezie legate allo shopping e agli aperitivi sui navigli. Eppure, è esattamente quello che sta succedendo. O, se non proprio quello che sta succedendo, ciò che gli altri, e tra questi i Fontana e gli Zaia, stanno capendo. A titolo di esempio, provo a mettere in fila tre prese di posizione venute dal Sud in questi ultimi giorni . Vincenzo De Luca, in piena emergenza: “Se il Nord apre, noi chiudiamo le frontiere della Campania”. Roberto Saviano, mentre ancora si contano i morti: “La Lombardia ha collassato perché ha distrutto il suo tessuto sociale, e questo non lo ha fatto il virus, è successo prima”. Il costituzionalista Massimo Villone, certo di aver già trovato il colpevole del sistema lombardo appena messo sotto processo da Saviano: “Fontana ha già messo a terra 12mila bare…”. Proprio così: ha messo a terra, come fa un becchino. Più dei concetti, forse traditi da parole inappropriate sfuggite al controllo, a colpire sono i toni e i tempi delle dichiarazioni. Saviano scrive addirittura che il Caso – scritto con la maiuscola, inteso come destino – “è stato ed è parte della vita dei meridionali” i quali, pagando di persona, “non sono mai riusciti a farlo sparire dalle proprie vite”. Vuol dire che come a noi sono capitati i terremoti e il colera, ora è giusto – nel senso di proporzionato – che il virus colpisca i settentrionali? Non oso crederlo. Anzi, voglio sperare di aver capito male. Ma mi colpisce il commento di Vittorio Feltri, ieri su Libero, proprio a proposito delle polemiche in corso. “I meridionali – ha scritto mandandoci tutti violentemente a quel paese – interpretano questa congiuntura come un giudizio universale, pensano che la giustizia divina ha regolato conti in sospeso da anni”. Il fato di Saviano, appunto. Mi preoccupa, poi, che a differenza di Fontana (“Caro De Luca, noi non abbiamo chiuso le frontiere ai 14mila campani che ogni anno vengono a curarsi in Lombardia”) il governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, un altro leghista, usi argomenti molto più minacciosi. “Ogni anno – dice – versiamo più di quanto riceviamo in servizi, e quest’anno è nostra intenzione trattenere i mille e duecento milioni che solitamente versiamo a Roma”. E se anche la Lombardia e il Veneto si mettessero su questa stessa strada? Se proprio ora che i centri studi delle grandi banche ci avvertono di un possibile calo del 35% della domanda turistica al Sud, i veneti e i lombardi insistessero nel ricordarci che sono loro a pagare buona parte delle tasse italiane? Certo, anche quelle di Fedriga sono solo parole. Ma se al Sud risuonano come odiose e provocatorie, bisognerebbe almeno chiedersi come mai ci meravigliamo dell’effetto che provocano al Nord quelle pronunciate dai nostri rappresentanti istituzionali e dai nostri intellettuali. È comunque un buon segno che De Luca e Fontana ieri abbiano deciso di confrontarsi in tv, arbitro Bruno Vespa.

Da “AdnKronos” il 22 aprile 2020. (…) Ironico, come suo solito, lo scrittore Ottavio Cappellani: "Povero Feltri, io lo compatisco. Non ha avuto una vita facile" ha detto all’Adnkronos. "Rimasto vedovo in giovane età - aggiunge - pensa che il reddito sia tutto quello che conta nella vita. Conduce una vita triste e squallida tra Milano e Bergamo, l’unico svago sono le stupide giacche con le quali si sente eleganti mentre sembra un 'wannabe' uno che vorrebbe essere elegante ma non ce la fa". "Non gli direi mai che è un essere inferiore - conclude Cappellani-perché obiettivamente lo è, e queste sono cose che non si dicono. Non puoi dire a un cafone che è un cafone. Lo dici con lo sguardo ai tuoi simili. Il cafone resta cafone anche se glielo dici...".

L’Istantanea – Le uscite di Feltri e gli obiettivi di chi lo spinge oltre i confini della misura. Antonello Caporale il 22 aprile 2020 su Il Fatto Quotidiano. Non so perché Vittorio Feltri abbia scelto – oramai purtroppo da tempo – un degrado linguistico così acuto da apparire preoccupante. Forse è una forma di sadismo verbale, forse qualcosa di più grave. Ad ogni modo, sarebbero fatti suoi se altri non cercassero, piuttosto scelleratamente, di portarlo oltre i confini della misura. Ieri sera Mario Giordano, nella sua trasmissione su Retequattro, ha scelto che fosse proprio lui a commentare il confronto nord-sud e Feltri lo ha accontentato. La rivalsa dei meridionali contro il nord, oggi in difficoltà per via del Covid, nasce da “un senso di invidia e di inferiorità”. Poi ha aggiunto: “I meridionali sono inferiori”. Più grave di questa affermazione di per sé incommentabile, mi pare la chiosa di Giordano: “No direttore, adesso me li fai arrabbiare davvero… Cambiano canale, è un guaio”. Ecco il guaio: cambiano canale, lo share ne risente, la pubblicità cala. Per me comunque resta un mistero perché i talk show di Retequattro debbano somigliare a un pub a fine serata.

Ps: annoto che Feltri, al tempo dell’elezione del presidente della Repubblica, è stato persino candidato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni al Quirinale. Ma si trattava certamente di uno scherzo. 

Il Coronavirus smaschera falsi miti e stereotipi sul Sud scatenando il razzismo delle TV: Feltri è solo la punta dell’iceberg, gli altri sono persino più subdoli. Gli attacchi di Feltri, le risatine di Giordano e i servizi di Giletti, Report e delle “grandi TV d’inchiesta” screditano il Sud e il popolo meridionale che invece affronta il Coronavirus meglio del decantato Nord: è la strada più semplice anzichè approfondire le porcherie della sanità padana. Rocco Fabio Musolino su strettoweb.com il 22 Aprile 2020. Avrà accettato il collegamento televisivo dimenticandosi prima di prendere la pillola della pressione il signor Vittorio Feltri, che dall’agitazione ne ha sparate di tutti i colori. Questa volta però il limite è stato oltrepassato. Non possono e non devono passare inosservate le ormai famose e orribili parole pronunciate ieri sera nella trasmissione ‘Fuori dal Coro’ in onda su Rete4. Il direttore di Libero, rispondendo ad una provocazione di Vincenzo De Luca, governatore della Campania, ha attaccato il Sud affermando: “molta gente è nutrita da un sentimento di invidia, rabbia nei nostri confronti (abitanti del Nord, ndr) perché subisce una sorta di complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, ma credo che i meridionali, in molti casi, siano inferiori”. Oltre a queste clamorose dichiarazioni, sorprende ancor di più la reazione del conduttore Mario Giordano, che non solo non ha preso le distanze da quegli ingiustificati attacchi ma – ridacchiando sotto i baffi – si è preoccupato dell’audience che avrebbe avuto il suo programma dopo quelle frasi piene di odio: “no direttore, così me li fai arrabbiare davvero, non puoi dirlo questo. Se mi cambiano canale è un guaio”, ha affermato sorridendo il giornalista Mediaset. In un periodo di difficoltà legato al Coronavirus, in cui ogni spot pubblicitario bombarda la mente degli ascoltatori con l’hashtag #andràtuttobene e si invita la popolazione a restare unita e ad aiutare il prossimo, i cittadini meridionali sono costretti pure a guardarsi le spalle da attacchi provenienti dalle Tv nazionali. E’ questo ultimo caso si somma al servizio del giornalista Fabrizio Feo, nativo di Salerno (un meridionale come noi, pazzesco!), trasmesso nel corso dal Tg3: “a Napoli, Palermo o Reggio Calabria una gambizzazione non farebbe nemmeno notizia. Ma ad Ostia, sì”. E’ la frase esatta utilizzata dall’inviato per raccontare degli spari contro un parente del clan Spada, accaduti in provincia di Roma. E che dire poi di Massimo Giletti ogni sera preoccupato a Non è l’Arena di raccontare degli scandali sulla sanità che riguardano la Calabria mentre invece la Calabria è la Regione che sta affrontando meglio la pandemia di Covid-19 a fronte dei disastri del Nord? Immancabili anche le “inchieste” di Report, ancora una volta sulla Calabria mentre in Lombardia sono morti centinaia di medici e infermieri contagiati negli ospedali! Ecco perchè alla fine Feltri è solo la punta dell’iceberg: è stato il più esplicito, ma il razzismo subdolo di molti altri fa ancora più male. Perchè continua ad alimentare stereotipi che il Coronavirus ha smascherato. Tutta questa gente dovrebbe premurarsi piuttosto di focalizzare la propria attenzione sugli scandali organizzativi della tanto decantata sanità della Lombardia o dell’Emilia Romagna, dove a farne le spese sono stati i poveri cittadini deceduti in queste settimane per colpa del Covid-19 e della cattiva organizzazione. E non certo sul Sud dove la pandemia è stata limitata proprio grazie all’efficienza degli ospedali e al grande senso di responsabilità della popolazione. Attaccare il Sud è diventato sin troppo facile e questi stereotipi adesso hanno stancato tutti. Nessuno è più disposto a reggere il vostro gioco, cari Feltri, Giordano, Giletti e via discorrendo. Il Coronavirus ha semplicemente smascherato la falsa gloriosa reputazione di cui gode la sanità del Nord, tanto decantata da questi nobili signori come terra di eccellenze e grandi valori, luogo in cui oggi purtroppo si paga lo scotto più caro per gli evidenti errori della classe politica e manageriale. E dove finisco i demeriti del Settentrione, iniziano quelli del Meridione, ricordato dalla stampa nazionale solo quando si deve parlare di mafia e di ‘ndrangheta. Perché l’egocentrico Giordano non manda i suoi inviati all’ospedale di Palermo, dove un signore di Bergamo, in coma per 8 giorni, dato per spacciato, è stato rimesso in sesto dai medici siciliani? Oppure dedica un approfondimento sui due pazienti lombardi usciti sani e salvi dall’ospedale di Catanzaro? Purtroppo bisogna ascoltare la Tv estera per sottolineare il grande lavoro che stanno facendo gli esperti del Cotugno di Napoli o dello Spallanzani di Roma, o venire a conoscenza che a Londra il luminare vicino a Boris Johnson è un calabrese laureatosi a Reggio Calabria. Con questo non si vuole far credere che nelle regioni del Sud non esistano gli sprechi o la mala organizzazione, ma bisogna essere anche intellettualmente onesti nel riconoscere che si tratta di un discorso estendibile a tutta Italia ed è servito il Coronavirus per aiutarci a capirlo. “A me risulta che tutti gli anni 14mila campani siano venuti a Milano per farsi curare nelle strutture sanitarie lombarde che sono più rassicuranti”, è un altro attacco scagliato da Feltri nella totale compiacenza dell’amichetto Giordano, è questo un falso mito da dover sfatare. Quanti sono, invece, i pazienti, anche padani doc, che vengono rifiutati dagli ospedali “dell’eccellenza lombarda”, perché sono più difficili da curare e quelle strutture non vogliono correre il rischio di veder crollare le statistiche sulla sopravvivenza dei loro pazienti? E’ facile ottenere alte percentuali con questi “trucchetti”, volti esclusivamente a vantarsi di essere i migliori. Eppure in Calabria l’esempio del neo-governatore Jole Santelli, malata di tumore da diversi anni, nonostante fosse parlamentare e residente a Roma, ha deciso di curarsi Paola, nella Provincia di Cosenza. E’ stato grazie al lavoro dei medici del luogo se le sue condizioni di salute sono migliorate, spingendola a candidarsi alle elezioni regionali e a prepararla ad affrontare una sfida che la proietta a un impegno istituzionale così importante per almeno 5 anni senza alcun tentennamento. E’ evidente che la situazione di emergenza sanitaria abbia invertito le carte, adesso è il Sud a doversi allungare per dare una mano ai pazienti del Nord. Quindi appare meschino e vergognoso che le Tv nazionali continuino a parlare della presunta inefficienza degli ospedali siciliani, calabresi, pugliesi o campani, anziché occuparsi dei palesi disastri di Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna o Marche dove sono morti oltre 180 tra medici e infermieri ed ogni giorno si apprende di contagi all’interno del personale sanitario (decine di migliaia di operatori!). Nel cuore del Sud, invece, funzionano anche gli ospedali di Provincia come il GOM di Reggio Calabria, dove invece soltanto 6 operatori sono risultati positivi al Coronavirus in tutte queste settimane su 1.700 addetti alla struttura. Un numero talmente tanto basso che questa mattina StrettoWeb ha rivolto un appello al sindaco Giuseppe Falcomatà affinché domani consegni il San Giorgio d’Oro alla struttura ospedaliera reggina. E’ l’ora di dire basta a tutti questi atroci soprusi, di permettere a questa gente di definirci “esseri inferiori” o addirittura “mantenungoli ingordi“, di far passare il Sud come parte becera dell’Italia. Perché qui, esattamente come al Nord, esiste gente perbene che si sveglia la mattina presto e torna a casa la sera tardi per portare da mangiare ai propri figli. E se davvero tra di noi esiste un mantenungolo ingordo, quelli sono proprio questi signori che vivono coi soldi dei finanziamenti pubblici alla stampa, per sparare scemenze sui propri giornali e all’interno delle proprie trasmissioni prendendosi pure il lusso di offendere i meridionali. Giornalisti che si sono mostrati ancora una volta scuri e tristi come il cielo di Milano. Chissà quante volte si saranno recati in Sicilia o in Calabria per trascorrere le proprie vacanze estive o abbiano mangiato al ristorante le prelibatezza di uno chef pugliese o lucano. Facciano un profondo esame di coscienza sulle problematiche del Nord, anziché screditare una terra e un popolo sempre pronto a donare amore ed accoglienza. Magari se vi trovaste di passaggio qui dallo Stretto, saremmo pure disponibili ad offrirvi un caffè di benvenuto, a patto che dopo non vi alteri la pressione…

Da ilfattoquotidiano.it il 23 aprile 2020. La lettera di Totò e Peppino stavolta ‘porta la firma’ de I Sansoni. Il loro video, manco a dirlo, sta spopolando. Il tema? Vittorio Feltri e la sua uscita “i meridionali sono inferiori” per la quale l’Odg ha dato mandato a un legale che valuterà il “danno d’immagine alla categoria”. Affermazione che ha fatto infuriare molti e alla quale altri hanno reagito usando l’ironia. “Senti, scrivi un’email“, iniziano i due fratelli siciliani, Federico e Fabrizio Sansone, che hanno conquistato il web con i loro video. “Carissimo pezzo di m…“, “No, dobbiamo scrivere una mail pacata…“. Così inizia il video da un milione e mezzo di views e quasi 5000 commenti.

Dagospia il 23 aprile 2020. Post di Marina La Rosa su Facebook. Nel secondo dopoguerra c’è stato un grande flusso migratorio di meridionali verso il nord del paese. Era quello un momento delicato ma l’Italia ha avuto una forte ripresa ricordata poi come il miracolo economico. Il nostro paese ha potuto contare su una grande manodopera proveniente per la maggior parte dal sud del paese e non c’erano inferiori e superiori. Si stava uniti nella ricostruzione del paese. Ed è quello che si dovrebbe fare anche adesso. Oggi tuttavia voglio esprimermi con verità (cosa che purtroppo o per fortuna mi ha sempre contraddistinto) e quindi con il mio linguaggio, quello più vero, quello che viene dalle viscere delle mie origini, sento il bisogno come fosse un’urgenza o un vomito che non si può trattenere, di rivolgermi a te, scrittore nonché giornalista Vittorio Feltri e dirti semplicemente…SUCA

Antonio Giangrande: Contro il Razzismo dei Padani non si risponde con le offese. Già il sig. Feltri ha detto che se ne fotte. E' rimarchevole il fatto che lui quello che pensa lo dice. Ci mette la faccia. Sono più subdoli e vigliacchi chi lo pensa ma lo fa dire a Feltri. Allora usiamo un altro metodo: promuoviamo una campagna di boicottaggio delle Tv di Mediaset. Senza spettatori, niente spazi promozionali per le reti Padane. Ergo: niente inviti per i razzisti antimeridionalisti. Consumiamo meridionale, guardiamo i nostri Network 

Lucio Presta su Facebook il 24 aprile 2020. E dopo i sorrisi complici con il direttore Feltri e la frase sghignazzando “direttore no che così mi si arrabbiano “ ci siamo tolti ogni dubbio su Mario Giordano, anche lui è del ramo d’impresa INGUARDABILI di VideoNews. Nessuna delle persone con le quali collaboro andrà in quel programma. #iosonomeridionale

E… nun ce vonno stà. Luciano Scateni su lavocedellevoci.it il 23 Aprile 2020. Prosegue imperterrita, quanto ingannatrice, la campagna pubblicitaria del Network di Berlusconi. Strumentalizzando lo scandaloso andazzo di notizie false che circolano con ogni mezzo, Mediaset trasmette ossessivamente lo slogan sul giornalismo professionalmente corretto e credibile, che sarebbe quello di Canale 5, Rete 4, Italia 1, ovvero dei megafoni che amplificano platealmente o sotto mentite spoglie il pensiero unico della destra.  TG, talk show, format per la distrazione di massa, da mane a sera, sono in campagna elettorale al servizio di Forza Italia e degli alleati Lega-Fratelli d’Italia, per tempi e contenuti di insopportabile faziosità. Due soggetti, forse tre se nel conto entra anche il flirt televisivo della D’Urso con chi la retribuisce lautamente, meritano la citazione, perché attori di una commedia dell’orrore giornalistico. Per non fare nomi: Mario Giordano e Vittorio Feltri, il quale, in corso di trasmissione di “Fuori dal coro” ha detto, apparentemente da sobrio: “Non credo nei complessi di inferiorità, credo che i meridionali, in molti casi, siano inferiori”. Il sindacato dei giornalisti Usigrai e l’ordine dei giornalisti della Campania hanno inviato un esposto all’ordine della Lombardia a cui appartiene Feltri, che dovrà anche rispondere in tribunale all’azione giudiziaria, in sede civile e penale, promossa dal senatore Sandro Ruotolo e dallo scrittore De Giovanni. La contestazione: “Definire inferiori i cittadini del Sud è indecente, non è libertà di opinione. Parlino Berlusconi, Salvini e Meloni e prendano le distanze e l’indignato commento di giornalisti e politici”. Giordano si è dissociato con un goffo tentativo di placare le acque, ma non si è scusato: “Feltri, lo sapete tutti, è un grandissimo giornalista”. Finchè a denigrare il Sud è uno come Feltri, che peggiora vistosamente invecchiando, nessuna sorpresa, ma se si pone su uno stesso piano il Tg3, è lecita la considerazione su come lo dirige la Paterniti, sull’inquinare l’indiscutibile linearità di una testata storica. La denuncia è del sindaco di Palermo Leoluca Orlando: “Un servizio andato in onda ha denigrato il sud, con cadute di stile di stampo razzista”. Queste la frase incriminate: “A Napoli, Palermo o Reggio Calabria, una gambizzazione, colpi d’arma da fuoco agli arti inferiore, non farebbe nemmeno notizia. Ma ad Ostia sì…” Si è scusata la Paterniti, ma basta? Se nella sua redazione c’è chi la pensa come l’autore del servizio sotto accusa, qualcosa non quadra nel confronto sulla linea editoriale. La cattiva Germania, sistematicamente nel mirino ad alzo zero della Lega, risponde a Salvini con un gesto collettivo di solidarietà ad alto tasso di visibilità e di monito per Paesi sovranisti, qual è la piccola Olanda. Una significativa rappresentanza di parlamentari con alla testa Marian Wendt, manifesta solidarietà per l’Italia a Berlino, davanti all’ambasciata del nostro Paese. La Wendt sostiene che le risorse europee destinate all’Italia (540miliardi) siano insufficienti, che debbano essere raddoppiate. Partecipa tra gli altri Martin Schulz, favorevole agli eurobond. Dalle carceri testimonianze di solidarietà per chi combatte il Covid-19. Agenti, personale civile e detenuti del carcere di Ivrea hanno raccolto alcune migliaia di euro da consegnare all’ospedale della città “Per dare una mano a medici e infermieri impegnati nella battaglia contro il coronavirus”. Non è un episodio isolato.

GILETTI, DEL DEBBIO…: COLPE AL SUD, DIRITTI AL NORD. Pino Aprile il 15 Gennaio 2020.

LA TELEVISIONE DELL’ITALIA DIVISA: IL RAZZISMO DI FATTO È LA VERA QUESTIONE MERIDIONALE. “Mi sono rotto le palle di questo tipo di politica!”, urla il prode Massimo Giletti in faccia al presidente del Consiglio comunale di Catanzaro, Marco Polimeni, persona perbene, accusato di nulla, che prova a dire la sua sulla “rimborsopoli” calabrese con soldi pubblici (uno sport nazionale: pensate a quanto è avvenuto in Val d’Aosta, in Liguria, in Lombardia, e quasi ovunque: basterebbe ricordare cosa hanno comprato il Trota e la Minetti con quei soldi). E noi ci siamo rotti le palle di questa parodia del giornalismo e dell’uso mirato che si fa della apparente indignazione del conduttor scortese. Se Giletti (e l’originale che forse lui cerca di superare nel peggio, Paolo Del Debbio) abbaia così contro un politico pulito, cosa farà mai a chi qualche macchia ce l’ha? Ce lo ricordiamo, i lineamenti stravolti dallo sdegno (ha una sensibilità selettiva, ma altissima), gridare “Pagliaccio!” a un politico siciliano (non ricordo se per i forestali o gli stipendi dei consiglieri regionali: tanto, la Sicilia, per certa tv italiana, a quello si riduce, più le sorelle di Mezzojuso).

L’INDIGNAZIONE… TERRITORIALE. Ora se tanto mi dà tanto, il disgusto di cotanto conduttor civile dev’essere sfociato nel vomito in diretta quando avrà dovuto intervistare Matteo Salvini, segretario del partito che ha fatto sparire 49 milioni di soldi pubblici, da “restituire” in ottant’anni (per noi, Equitalia); uno condannato per razzismo e per oltraggio a pubblico ufficiale, ma nonostante ciò ha fatto il ministro dell’Interno. E invece, il conduttore diviene cortesissimo, si spalma; le foto dei due insieme, sorridenti. E così proteso, attento, cortesissimo, lo abbiamo visto intervistare Berlusconi, allora interdetto dai pubblici uffici e incandidabile per condanna ricevuta. E figuratevi cosa avrà fatto contro un Giancarlo Galan, già presidente del Veneto, finito in galera per milionarie mazzette del Mose! La pressione alta da indignazione civile dovrebbe aver rischiato di strozzare il povero Giletti! Per fortuna ha evitato di indignarsi o ha saputo controllarsi tanto bene che non se ne è accorto nessuno. Forse, troppo occupato con i forestali terroni, Massimo il censore non ha avuto tempo di dedicarsi alla trascurabile vicenda veneta (o all’altra delle banche sfondate dagli probi amministratori padani; o…). E pensate per Roberto Formigoni, già presidente lombardo finito pure lui in galera per tangenti! Lì, dev’essere stato il medico a ordinare a Giletti di tenersi lontano dall’argomento, per salvarsi la vita (uno con una tale sensibilità civile, vi immaginate cosa avrebbe potuto succedergli, se si fosse occupato dei latrocini padani, manco fossero porcate da furbetti del cartellino di Sicilia?).

MENTRE GLI SCANDALI SPAVENTOSI A NORD (MOSE, EXPO, TAV, PEDEMONTANE…) LASCIANO LE COSCIENZE TRANQUILLE. Per questioni sanitarie (e perché, se no?) si sarà mantenuto alla larga dagli scandali dell’Expo, con retate di centinaia di furboni (altro che furbetti) alla volta, tanto da rischiare di mettere in crisi la ricettività carceraria (pensate se avesse saputo che la mafia non è solo a Mezzojuso, e per l’Expo sono state beccate più società a rischio mafia, che in mezzo secolo sulla Salerno-Reggio Calabria). La debolezza delle carotidi (?) deve aver indotto il nostro eroe dello schermo ad alzo rasoterra, a non immergersi nelle porcate e nelle ruberie del Mose, della Tav, delle autostrade appena fatte e ancora in fattura che cadono a pezzi a latitudini più alte della Terronia. A proposito di “rimborsopoli”: immaginate cosa avrebbe dovuto strillare Giletti a Edoardo Rixi, già capogruppo della Lega alla Regione Liguria, condannato a 3 anni e 5 mesi per le “spese pazze”, quando (nonostante il processo) fu nominato vice-ministro del governo giallo-verde. E cosa ad Armando Siri, fatto sottosegretario nonostante la condanna per bancarotta fraudolenta, poi costretto alle dimissioni perché implicato nell’indagine sui rapporti di un ex deputato di Forza Italia in affari con il prestanome del boss latitante Matteo Messina Denaro.

IL FORMAT: IL SUD SUL BANCO DEGLI IMPUTATI. E invece no, con il Nord non funziona. Ormai è un format: si prende un terrone da rimprovero (o pure intonso, come Polimeni, in assenza di quelli che intonsi non sono, ma comunque calabresi), lo si mette sul banco degli imputati e lo si massacra in diretta, con l’occhio all’audience. Del Debbio ha portato questo schema a livelli da delirio, concentrando nel suo serraglio plotoni di esecuzione di solida formazione leghista o affine; ma Massimo ormai mangia la coda al suo presumibile maestro di caricatura del giornalismo. Il format è di fatto razzista, persino al di là delle intenzioni di chi lo usa, come testimoniato dalla ricerca su 30 anni di informazione della tv di Stato (e figuratevi le altre!) sul Sud: solo il 9 per cento del tempo totale dedicato al Mezzogiorno, e per oltre il 90 per cento, quel misero 9 è criminalità e malasanità. Quando vedremo Giletti, i Del Debbio & C. con i lineamenti deformati dallo sdegno per il treno che non arriva a Matera nel 2020, le 14 ore per fare 300 km in treno in Sicilia; la spesa sanitaria ridotta per i meridionali; i 2 posti letto ogni mille abitanti al Sud contro gli 8 al Nord; i quasi 400 euro pro-capite per assistenza familiare a Trieste e gli 8 a Vibo Valentia…? Per quella degenerazione culturale che ha radici profondissime (la campagna diffamatoria che precedette l’unità e quella susseguente per giustificare i crimini compiuti per farla), il Sud non ha diritti, solo colpe; l’assenza dei primi lascia indifferenti e la ricerca e l’esasperazione delle seconde, sino a farne una caratteristica etnica, giustifica l’assenza dei primi (non se li meritano quelli lì…); al Nord il contrario. Questa è la vera Questione meridionale: il razzismo inconsapevole (o conclamato, nei casi peggiori) che divide l’Italia in due, quella che ha diritto a tutto e colpevole di nulla e quella che non ha diritto a niente e colpevole di tutto. Il culmine della serata è stato quando Giletti ha accusato il suo interlocutore calabrese di avere un suggeritore, urlandogli di far allargare l’inquadratura, perché si vedesse il burattinaio. Peccato che l’operatore che inquadrava non era del consigliere calabrese, ma di Giletti, che avrebbe potuto chiedergli di allargare il campo. Stando a quanto replicava il poverocristo calabro, a rivolgergli la parola è stato proprio l’operatore di Giletti! C’è chi sospetta che la scena fosse stata preparata. Comunque stiano le cose, a Giletti la faccia feroce vien bene solo quando guarda a Sud e a scandali da cortile: le migliaia di euro rubati da politicanti di mezza tacca, i morti di fame tenuti in vita con i sussidi mascherati da forestale, la mafia che ce l’ha con le sorelle di Mezzojuso… La mafia socia delle aziende del Nord (processo Aemilia, oltre duecento condanne…); le tangenti più alte di sempre (Mose), i presidenti di Regione in galera per mazzette milionarie o i 49 milioni svaniti della Lega (circa un centinaio di miliardi delle vecchie lire, neh!?)… mica è roba terrona. In un’altra vita ho conosciuto un Massimo Giletti: o non è lui, o ha saputo nascondere bene quel che era, o invecchia male!

Fontana risponde a De Luca: “14 mila campani si curano in Lombardia”. Irene Barbato su internapoli.it il 20 Aprile 2020. Non si placa la polemica dopo le esternazioni del Governatore Vincenzo De Luca. Il Presidente della Regione sarebbe pronto a chiudere la Campania poichè è preoccupato dai residenti delle regioni del nord. Oggi Il Governatore della Lombardia Attilio Fontana lo ha risposto attraverso un post su Facebook: “Caro governatore Vincenzo De Luca, sappia che qualunque cosa accada noi non chiuderemo mai la porta ai 160mila italiani, tra cui circa 14mila campani, che ogni anno scelgono di venire in Lombardia per farsi curare“. Nei giorni scorsi anche il Presidente del Veneto Luca Zaia ha commentato: “Non penso che tutti i veneti che vanno in vacanza in Campania siano contenti. Non credo che il presidente De Luca stia facendo un grande servizio alla sua Regione”.

LE PAROLE DI DE LUCA. “Gli esperti ci dicono che in tante parti di Italia siamo ancora alla Fase 1, poi sento alcuni miei colleghi che vogliono ripartire tutto. Invece io credo che ci voglia un maggiore senso di responsabilità. Lombardia, Veneto e Piemonte hanno una situazione che non è ancora tranquilla. Lombardia e Veneto, soprattutto, sono in alto mare e vogliono aprire. Così facendo, però, si rischia di mettere in pericolo tutta l’Italia. Per questo saremo costretti a chiudere i confini. La cosa più drammatica sarebbe riaprire tutto e dopo due settimane tornare a chiudere: a quel punto l’Italia non reggerebbe più. Le riaperture dovranno essere sempre accompagnate da un piano di sicurezza sanitaria che è imprescindibile. La ripresa sarà su due piani: economico e sanitario” , ha detto venerdì scorso De Luca.

Dal “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. A “Libero” devono aver perso la memoria. Ieri il direttore Vittorio Feltri si è lanciato in un editoriale per tentare di convincere i lettori che il suo quotidiano sia estraneo ad Antonio Angelucci, deputato berlusconiano proprietario di diverse cliniche private oltreché di giornali (Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria ecc.). E se l'è presa con la 5 Stelle Barbara Lezzi, rea di aver insinuato, ribattendo al direttore Pietro Senaldi, “che l'editore del foglio che leggete (Libero, appunto, ndr) sia Antonio Angelucci, mentre la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola”. Certo. Angelucci è talmente estraneo a Libero che sul sito della Tosinvest, il gruppo di famiglia, si legge: “... proprietaria della testata giornalistica Opinioni Nuove - Libero Quotidiano”. Sul finire dell'editoriale, già che c'è, Feltri si concede il lusso di un pizzino sui palinsesti televisivi: non essendogli piaciuto come Veronica Gentili (Stasera Italia, Rete4) ha gestito l'ospitata della Lezzi contro Senaldi (non l’ha uccisa su due piedi, a distanza), prima la insulta e poi chiede “che la rete berlusconiana possa rimediare”. Magari cacciandola? Nel caso, Veronica non provi neanche a chiedere un lavoro ad Angelucci: lui con Libero non c'entra niente.

Lezzi: “L’on. Angelucci è colui che fa insultare i Meridionali dai suoi Senaldi e Senalducci”. Alfredo Di Costanzoil 19 aprile 2020 su iltabloid.it. Così Barbara Lezzi sulla sua pagina Facebook: L’ on. Antonio Angelucci è colui che fa insultare i Meridionali dai suoi Senaldi e Senalducci tacciandoli di essere nullafacenti e mantenuti mentre intasca finanziamenti pubblici, dal 2003 al 2017, per la bellezza di 53 milioni di Euro. Poco più di 3 milioni l’anno. Poco meno di 260 mila Euro al mese. Una scena pietosa ieri sera resa ancora più squallida dalla conduttrice. Senaldi attacca gratuitamente i cittadini del Mezzogiorno d’Italia. Una provocazione inutile in quel contesto ma che io non lascio passare. Detesto le ingiustizie e ancor di più detesto chi succhia dalle casse pubbliche e poi fa il liberale dei miei stivali con la pelle degli altri. Il grande e coraggioso Senaldi si cimenta in un piagnisteo da premio Oscar chiedendo aiuto alla conduttrice, Veronica Gentili: “gne gne gne, non mi hai difeso.” Guardate il video, dice davvero così. E lì la Gentili a scusarsi quasi prostrata senza minimamente prendere in considerazione, magari per un retaggio di una lontana buona educazione, di chiedere scusa al 34% della popolazione del Paese che era stata bellamente infamata dal suo gradito ospite. Non paghi entrambi, hanno ribadito, in chiusura, le scuse per mio conto (io non mi scuso affatto) ad Angelucci sol perché avevo parlato della sua grigia reputazione. Questo mi ha molto infastidita non per il merito che qualifica lo spessore (infinitamente basso) dei due giornalisti che confondono la sacra libertà d’opinione con la libertà di insulto ma perché non mi ha permesso di rispondere all’altro giornalista “molto indipendente” che ha accusato il m5s di non volere le grandi industrie come, ad esempio, l’ex Ilva. Beh, Barisoni, caro il mio competente giornalista economico, se le multinazionali devono venire in Italia a farsi i fatti loro scudate da una bella immunità penale e amministrativa, in me avranno sempre un nemico. Ma chiunque voglia far crescere il nostro Paese nel rispetto della legge e della salute dei miei concittadini è il benvenuto. Chiaro? Spero di sì. Per il resto, sugli interessi passivi che non contano, sulla politica monetaria contrapposta agli eurobond come se la prima potesse durare per sempre, sulla lezioncina con la quale voleva svelarmi il gran segreto che gli eurobond sono prestiti ( il MES che lei vorrebbe cosa sarebbe, Barisoni?) magari avremo qualche altra occasione per discuterne, sempre se riuscirà a liberarsi dal desiderio che la muove più per contraddirmi che per fare informazione. Perché le Barisonate “competenti” sono la ragione per cui finora abbiamo ingoiato austerità e trattati capestro. A Maria Giovanna Maglie che pettegola in mia assenza glielo regaliamo un velo pietoso, anzi penoso? Ma sì, perché negarlo.

Carlo Tarallo per Dagospia il 22 aprile 2020. “Follow the money”, dice il saggio. Segui il denaro e arriverai alla verità. In questo caso, se si vuole andare oltre le sparate cabarettistiche che in queste settimane alcuni giornalisti e politici del Nord stanno mettendo in scena contro le regioni meridionali, che fino ad ora hanno contrastato con maggiore efficacia l’epidemia da coronavirus, bisogna ricordare bene cosa è il “turismo sanitario”. Comprendere il meccanismo è semplicissimo, come bere un bicchiere di vino (anche due) e andare in tv a sparare contro i “meridionali inferiori”. Il tema è questo. Il Servizio sanitario nazionale è articolato su base regionale, per cui ogni cittadino ha diritto a prestazioni gratuite, ovviamente nei limiti dei ticket così via, su tutto il territorio nazionale, ma chi paga è la Regione di residenza. Quindi il signor Gennaro Esposito, residente a Napoli, ha diritto a farsi curare in Calabria, in Trentino o in Lombardia, ma i costi saranno a carico della Regione Campania. Cosa accade, dunque: ogni anno, per effetto di questa migrazione sanitaria, il saldo è negativo, per la Regione Campania,per circa 320 milioni di euro. Soldi che ogni anno la Campania paga alle regioni del Nord dove vanno a farsi curare i pazienti campani. Ogni anno, dalle regioni del Sud partono centinaia di migliaia di malati che vanno a farsi curare al Nord, portando con sé un vero e proprio fiume di denaro. Secondo il Sole24Ore, le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro in relazione a questo fenomeno (dati 2017) sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni). Se si aggiunge a tutto ciò l’indotto rappresentato dai familiari dei pazienti, che spendono soldi per vitto, alloggio, spostamenti, annessi e connessi, la cifra aumenta ancora. Naturalmente, la scelta di andare a curarsi al Nord è dettata dalle croniche inefficienze della sanità meridionale, in particolare riguardo alle lunghissime liste d’attesa, ma c’è anche un fattore per così dire “emotivo”, che spinge i meridionali a fidarsi di più della sanità settentrionale. Anzi, per meglio dire, spingeva. Con l’epidemia coronavirus che ha flagellato il Nord, infatti, questo fiume di denaro è destinato a ridursi e di molto: innanzitutto, per i prossimi mesi i cittadini del Sud avranno oggettive difficoltà a raggiungere le strutture sanitarie del Nord; in secondo luogo, ci sarà un’inevitabile preoccupazione dovuta al coronavirus; in terzo luogo, la sanità settentrionale dal punto di vista dell’immagine esce male da questa emergenza, mentre quella meridionale sta dimostrando di poter raggiungere risultati di eccellenza. Meno turisti della salute, meno soldi che vanno dalle regioni del Sud a quelle del Nord, quindi. Questo è quanto, il resto è cabaret. 

IL BUSINESS DELLA SANITA’. LA NEGAZIONE DEL SUD. Michele Di Pace il 27.09.2020 su Movimento 24 agosto. Di Ambrogio Carpentieri. Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna vendono una sanità che assorbe risorse pubbliche del Sud a centinaia di milioni di euro, spingendo il Sud a funzionare sempre peggio cosicchè il Nord possa guadagnare sempre di più. I cervelli migliori emigrano insieme ai clienti. La riforma del titolo V della Costituzione e il federalismo fiscale hanno indotto le Regioni non virtuose a pagare un prezzo alto. E non si tratta di maggiori capacità o migliore organizzazione ma soprattutto di marketing. I mass media italiani e i giornalisti compiacenti sono nelle mani dei giganti della finanza ed è acclarato la loro appartenenza alle lobby del Nord. “Nelle aree regionali maggiormente colpite dal Covid19, quali Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi, si è assistito ad una straordinaria capacità degli ospedali di passare da un sistema competitivo ad una cooperazione positiva e solo così, in uno sforzo comune, si è potuto evitare il collasso del sistema ospedaliero. In particolare, in regione Lombardia gli ospedali sono stati in grado di passare dai circa 850 posti letto in terapia intensiva di febbraio agli oltre 1500 di fine aprile. Uno sforzo immane che si è ottenuto grazie alla capacità dei manager ospedalieri (pubblici e privati) di ridisegnare il proprio assetto organizzativo. Nessun’altra Regione ha ottenuto risultati paragonabili.(sussidiario.net)”. “I dati ufficiali sulla diffusione del virus in Lombardia, fondamentali per valutare la riapertura dei confini a fine maggio, sono verosimilmente sottostimati» ribadisce il presidente Gimbe. “La Lombardia, la più colpita dall’epidemia, non è pronta per quattro motivi. Uno: la percentuale di positivi al giorno è più alta di quella che viene comunicata. Due: il numero dei positivi è sottostimato perché manca ancora un tamponamento massiccio. Tre: i nuovi casi giornalieri, per 100 mila abitanti, sono il triplo della media nazionale, ma sono i meno noti. Quattro: la Lombardia sovrastima i guariti perché li comunica insieme ai dimessi di cui non è noto lo status di guarigione, clinica o virologica.” Il Nord, che sfrutta l'arte della manipolazione mediatica, è capace di un marketing più incisivo, che trae vantaggio dal pregiudizio: tutti credono che la sanità al Sud non funziona ed è pericolosa! A partire dal 2018 sono stati riscontrati 96 casi di infezione da batterio killer presso l'Ospedale della donna e del bambino di Verona. Il Citrobacter era presente nel rubinetto del lavandino usato dal personale della Terapia intensiva neonatale per prendere l'acqua e darla ai bambini, mescolata anche con il latte. Per questo motivo sono morti quattro bambini e altri nove hanno subito danni cerebrali permanenti. Il TGR Veneto sottolineava che si tratta di un batterio solitamente innocuo e definiva l’Ospedale “una colonna portante della sanità regionale”.

Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.

Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.

In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.

Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:

Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;

Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.

Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.

In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.

Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.

Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.

Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:

la presunta efficienza crea morte nei loro territori;

la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa  fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

Radiografie e Tac, affare d'oro per la sanità lombarda. Vincenzo Damiani il 7 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud.  In Lombardia il sorpasso del privato sanitario sul pubblico è già avvenuto e si registra in una branca nemmeno secondaria, quella della diagnostica strumentale e per immagini: già nel 2015 il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato ha inciso per il 52% sul valore totale delle prestazioni (fonte: Opendata della Regione Lombardia). Parliamo di Tac, ecografie, risonanze, endoscopia, insomma una grossa fetta degli esami a cui si sottopongono, quotidianamente, migliaia di persone.

IL SORPASSO. Ma il sopravvento del privato sul pubblico è attestato da altri dati e altre fonti autorevoli che andiamo a presentare. Ad esempio: l’Osservatorio Assolombarda Bocconi, analizzando quanto accaduto nel decennio tra il 1997 e il 2006, consegna alla Lombardia anche il record di crescita degli ospedali privati. Nel 1997 erano 55, nel 2006 sono diventati 73, +18, una variazione che non ha eguali nel resto dell’Italia. L’unica regione che mostra un andamento simile è la Sicilia (che sale da 49 a 61, +12), ma complessivamente nel resto del Paese c’è addirittura una contrazione: nel Lazio, ad esempio, si riducono di 15 unità, la Campania perde 4 ospedali privati, complessivamente in tutto il Paese si passa da 537 strutture ospedaliere private a 563, +26. Abbiamo parlato di esami medici e ospedali, ora vediamo quanto accade sui costi: secondo quanto certifica il ministero della Salute (anno 2016) in Lombardia su 1.931 euro di spesa sanitaria pro capite totale il 27,9% è incassato dalle strutture private (ospedali, ambulatori, laboratori), cioè 538 euro. Nessun’altra regione come la Lombardia: il Lazio si avvicina (24,6%) ma resta distante, in Calabria dei 1.749 euro pro capite ai privati ne vanno 265 (15,1%), in Basilicata la fetta scende addirittura all’11,8% (219 euro su 1.854), in Campania si attesta al 20,6%, in Sicilia al 20,7% e in Puglia al 21.4%.

RICOVERI E AMBULATORI. Lo sbilanciamento lombardo a favore del privato è fotografato da altri numeri ancora, ad esempio quello dei ricoveri relativi all’anno 2017: su 1.441.657 ricoveri totali, il privato ne ha eseguiti 494.501, il 35% circa, il pubblico 947.157, pari al 65%. Nel complesso, i ricoveri hanno generato un valore di 5,4 miliardi di euro e la Lombardia ha versato a titolo di rimborso ai privati circa 2,1 miliardi, cioè il 40% dei 5,4 miliardi. Ricapitolando: nel 2017 le strutture private hanno garantito il 35% dei ricoveri, ma hanno incassato il 40% di quanto il sistema sanitario lombardo ha generato. Come è possibile? C’è solo una spiegazione: i servizi offerti dai privati costano di più rispetto alle prestazioni del pubblico. Stesso discorso, anche se in maniera meno evidente, per visite ambulatoriali ed esami: nel 2017, su 160 milioni di prestazioni, il 42% è stato svolto in centri privati (66 milioni); le strutture, però, hanno incassato il 43% del valore totale di visite ed esami, 1,24 miliardi su 2,8 miliardi complessivi (fonte Regione Lombardia).

LA DIAGNOSTICA. Se ci spostiamo sul campo della diagnostica strumentale e per immagini, il sorpasso del privato sul pubblico c’è già stato nel 2015: infatti, se consideriamo il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato sul valore totale delle prestazioni pubbliche e private dello stesso ambito, il privato incide per il 52% (Fonte: Opendata della Regione Lombardia). Scendendo più nel dettaglio e nel locale, a Milano e provincia sono presenti 57 strutture di ricovero ordinario e day hospital, 26 sono pubbliche, 31 a gestione privata (54,4%), a Bergamo 14 su 23 sono private (60,9%), a Brescia 14 su 28. In Lombardia gli Irccs privati sono circa il triplo dei pubblici (14 contro 5, fonte ministero della Salute). Nel 2018, in una struttura privata che non lavorava con il servizio sanitario, una risonanza magnetica muscoloscheletrica (ginocchio, spalla, mano, anca, piede) costava ai cittadini circa 90 euro.

RIMBORSI E DIVARIO. Qual è il rimborso che la Lombardia garantiva nel 2018 ai suoi centri privati convenzionati? Circa 169 euro, l’89% in più. Il gruppo San Donato – GSD è il principale gruppo privato d’Italia e in Lombardia, solo a Milano e provincia le strutture di ricovero e cura sono 7, delle quali 3 sono istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs). Nel 2017, in termini di valorizzazione dei ricoveri, il gruppo San Donato ha raggiunto il 35% del totale privato, mentre complessivamente, calcolando anche il pubblico, ha superato il 14% della valorizzazione dei ricoveri. Questa è la fotografia della sanità lombarda che in media ogni anno può contare su circa 19 miliardi di soldi pubblici. Nel 2019, la Regione Lombardia – che ha il doppio della popolazione della Puglia – ha speso quasi il triplo della regione amministrata da Emiliano. Circa 19,3 miliardi per 10 milioni di residenti, contro i 7,7 pugliesi per 4,2 milioni di abitanti. I dati sono estrapolati dai bilanci di previsione 2019-2021 delle singole Regioni. Alla voce “Tutela della salute”, nel suo bilancio la Puglia (4,1 milioni di residenti) nel 2019 iscrive la somma 7,7 miliardi. L’Emilia Romagna (popolazione 4,4 milioni), invece, quasi 10,2, ben 2,5 in più nonostante uno scarto residuale di abitanti; il Veneto (4,9 milioni) spende 10,1 miliardi; la Lombardia che ha poco più del doppio della popolazione della Puglia (10 milioni di residenti) addirittura spende quasi il triplo, 19,3 miliardi. Insomma, una “tutela della salute” a macchia di leopardo: in alcune zone è più garantita, in altre meno grazie a una distribuzione del fondo nazionale non propriamente equo. D’altronde, è accertato dalla Corte dei conti che dal 2012 al 2017 nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei Regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, in media, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%. Tradotto, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni di euro in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Così è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati soltanto 685 milioni in più. Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% da quelle del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali.

Da Bergamo a Chieti, le cliniche assoldano i più bravi. Il cardiochirurgo lombardo: "Su 532 persone operate, 150 sono pugliesi". La Regione Puglia spende ogni anno 200 milioni per le cure in trasferta. Antonello Cassano l'11 aprile 2016 su La Repubblica. A metà strada tra le star e i guru. Sono i grandi professionisti della medicina, specialisti in branche importanti come l’oncologia o la cardiochirurgia, camici bianchi dalle mani d’oro che con la loro fama e il loro talento riescono a far spostare masse importanti di pazienti dalla Puglia verso altre regioni. Anche di questo si nutre la mobilità passiva pugliese, flusso in uscita di pazienti che ogni anno costa alle casse della Regione Puglia più di 200 milioni di euro. Secondo il Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero in Italia, nel 2014 i ricoveri fatti fuori dalla Puglia sono stati 39.615, pari all’8,1 per cento dei ricoveri totali erogati. Dove vanno principalmente i pugliesi per farsi curare? Lombardia (8.308 ricoveri), Emilia Romagna (7.641), Lazio (4.791). Non si tratta di semplice turismo sanitario, ma di una reale ricerca dell’eccellenza nelle cure. Ed è qui che intervengono i grandi professionisti del settore. Molti di questi sono pugliesi, si sono formati nelle nostre università, poi hanno lavorato all’estero per qualche anno e sono tornati in Italia. Anni di lavoro tra i corridoi degli ospedali pubblici di Bari o Lecce, poi il salto nelle cliniche private o private convenzionate. In questo modo riescono a creare un bacino di pazienti considerevole, diventando “appetibili” per le grandi cliniche del Nord. E quando decidono di trasferirsi per lavoro negli Irccs o nelle cliniche del Centro- Nord, “portano via” un gran numero di pazienti pugliesi. Il fenomeno è esteso. Nel centro nazionale di alta tecnologia dell’università di Chieti-Pescara, diretta dal professore Leonardo Mastropasqua (originario di Barletta), arrivano pazienti da tutta Italia. «Nella mia clinica facciamo 5800 operazioni all’anno, dalla cornea alla retina — conferma Mastropasqua — e il 60 per cento dei ricoveri è effettuato su pazienti provenienti da fuori regione, molti pugliesi, attratti anche perché sono miei conterranei». Qualche centinaio di chilometri più a nord, precisamente a Bergamo, c’è l’Irccs privato Humanitas. Ed è qui che, dopo anni di lavoro in Puglia, è arrivato Giampiero Esposito, cardiochirurgo salentino di fama internazionale. I suoi pazienti non lo hanno abbandonato. Solo lo scorso anno su 528 ricoveri totali effettuati da Esposito, 130 riguardavano pazienti pugliesi: «Ma devo dire la verità — ammette Esposito — mi dispiace molto vedere intere famiglie spostarsi insieme ai pazienti in cerca di cure». Basta scendere un po’ più a sud, in Emilia Romagna, per trovare altri pazienti pugliesi. Succede alla Casa di cura San Lorenzino di Cesena. Qui ogni anno centinaia di pugliesi, spesso giovani sportivi, vengono a sottoporsi alle cure di Antonio Rizzo, chirurgo ortopedico di origini salentine. «Molti pazienti pugliesi che hanno problemi seri come la rottura del crociato — dice Rizzo, che ha lavorato nel privato convenzionato pugliese — vengono qui da noi. L’anno scorso lo hanno fatto in duecento circa». Ma quello dei grandi chirurghi pugliesi che “portano via” pazienti dalla Puglia è solo uno dei motivi che alimentano il fenomeno della mobilità passiva. Ora la Regione sta provando a organizzare una strategia difensiva. L’idea è quella di consentire ai più grandi ospedali di eccellenza di riportare i pugliesi a curarsi nella loro regione anche attraverso premialità extra tetto. Un’idea che trova sostegno pure tra i banchi dell’opposizione. È quello che pensa Luigi Manca, consigliere regionale dei Conservatori e Riformisti: «Su questo fenomeno bisogna lavorare molto, anche attraverso un aumento del tetto di spesa delle cliniche private accreditate pugliesi. Solo così si possono sostenere le punte di eccellenza della nostra sanità».

Mobilità Sanitaria, ecco come la Campania “foraggia” le casse delle Regioni settentrionali. Rocco Corvaglia il 22 Aprile 2020 su anteprima24.it. Ieri sera è andato in onda, negli studi della nota trasmissione televisiva “Porta a Porta“, il dibattito tra il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana e il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Un “duello” atteso al pari di una finale di Champions League, tra i due personaggi politici che – per ragioni opposte – hanno saputo catalizzare l’attenzione pubblica in questo periodo di emergenza sanitaria. Ora, è proprio da una dichiarazione di Attilio Fontana che vogliamo partire. Qualche giorno fa, in risposta a una provocazione di De Luca, Fontana sentenziava tronfio: “Noi non chiuderemo le porte ai campani che si curano nei nostri ospedali“. Bene. Anzi, benissimo ci verrebbe da dire. Lo slancio umanitario di un governatore leghista è sempre meritevole di considerazione. Ma – cosa volete? – nell’ascoltare questa dichiarazione il tarlo del dubbio si è impossessato di noi. Pertanto, abbiamo deciso di porci qualche domanda. Banalmente: ha la Lombardia un qualche interesse economico ad accogliere i cittadini campani nelle proprie strutture sanitarie? Ecco, la risposta non la forniamo noi, ma il rapporto elaborato dalla “Fondazione GIMBE” che si occupa da anni di monitorare lo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale. Il Rapporto della Fondazione Gimbe (anno 2017) affronta il tema della Mobilità Sanitaria nazionale (in sostanza, quanti pazienti si spostano da una regione all’altra per usufruire di prestazioni sanitarie): “Dal punto di vista economico, la mobilità attiva rappresenta per le Regioni una voce di credito, mentre quella passiva una voce di debito; ogni anno la Regione che eroga la prestazione viene rimborsata da quella di residenza del cittadino“. Di fatto, le prestazioni sanitarie offerte dalle regioni che accolgono pazienti da altre regioni vengono rimborsate dalle regioni nelle quali questi ultimi risiedono. Se un cittadino campano si cura in Lombardia, alla Regione Campania toccherà l’onere del rimborso. Nel 2017 il valore della mobilità sanitaria ammonta a € 4.578,5 milioni (oltre 4.5 miliardi di euro). Nella tabella di seguito i valori in termini di crediti, debiti e saldi per le 19 Regioni e 2 Province autonome per l’anno 2017 (fonte Fondazione GIBEM): Come si evince dalla Tabella, la Campania presenta il peggior saldo con un passivo di oltre 320 milioni di euro, mentre la Lombardia presenta un attivo per oltre 800 milioni di euro.

Di seguito una tabella che mostra la Mobilità Sanitaria Attiva, che identifica le prestazioni erogate da ciascuna Regione per cittadini non residenti: in termini di performance esprime il cosiddetto “indice di attrazione” e in termini economici identifica i crediti esigibili da ciascuna Regione:

Di converso una tabella che mostra la Mobilità sanitaria passiva, che identifica le prestazioni erogate ai cittadini al di fuori della Regione di residenza: in termini di performance esprime il cosiddetto “indice di fuga” e in termini economici identifica i debiti di ciascuna Regione: “Il valore della mobilità sanitaria regionale nel 2017 supera i € 4.578,5 milioni, una percentuale apparentemente contenuta (4%) della spesa sanitaria totale (€ 113.131 milioni), ma che assume particolare rilevanza per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, per l’impatto sull’equilibrio finanziario di alcune Regioni, sia in saldo positivo (es. Lombardia + € 784 milioni), sia in saldo negativo (es. Calabria -€ 281 milioni; Campania -€ 318); in secondo luogo, per la dispersione di risorse pubbliche e private nelle Regioni con offerta carente di servizi“, queste alcune delle conclusioni del Rapporto della Fondazione GIMBE.

Senza voler incorrere in banali semplificazioni (appare evidente che se vi è mobilità sanitaria ciò lo si deve, anche e soprattutto, alla diversità – in termini di qualità – di prestazioni sanitarie offerte), il tema è proprio quello di un riequilibrio complessivo della qualità del nostro Sistema Sanitario Nazionale su tutto il territorio nazionale.

Se, come scriveva Barbara Gobbi dalle colonne del Il Sole 24 Ore “l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata – mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania”, è chiaro che il sistema non può reggere e che forse le parole di Fontana non erano animate solo da francescano spirito di solidarietà. 

La Calabria è la Beirut dell’assistenza socio sanitaria. Ettore Jorio, Università della Calabria, il 7 gennaio 2020 su quotidianosanita.it. Speranza cercasi in Calabria. Una ce l'ha regalata la DDA di Catanzaro. L'altra è insita nel cognome dell'attuale ministro della salute e, soprattutto, fondata sulla sua storia politica e la sua sensibilità sul tema. Io ci credo, nonostante le debolezze dimostrate nel lasciare in vigenza un provvedimento dagli effetti macabri. La Calabria ha chiuso il proprio bilancio, quello del 2019. È più maledetto dei precedenti. Come ogni documento «contabile» che si rispetti anche quello politico-istituzionale calabrese rintraccia nei suoi saldi finali il valore del risultato. Il prodotto finale è certamente da bancarotta, verosimilmente fraudolenta. A fronte delle «rimanenze finali», invero mai state così precarie e pericolose per la popolazione, c'è necessità di effettuare velocemente, nell'anno appena iniziato, un importante «reso ai fornitori»: il decreto legge Grillo, convertito nella legge 60/2019. Uno strumento legislativo che, a memoria d'uomo, non ha modo di rintracciare uguale perniciosità sociale, da restituire pertanto al mittente. Esso ha generato un autentico disastro per i calabresi, solo perché capricciosamente voluto dalla allora ministra alla salute che, si spera, abbia a suo tempo agito inconsapevolmente.

Le colpe e i rimedi elusi. L'anno appena trascorso è iniziato male e finito peggio, così come meritava. I calabresi (gente onesta e sofferente, compromessa dai ben noti!) sono finiti nel solito mirino della solita peggiore ignominia, solo perché considerati come soggetti appartenenti alla patria della 'ndrangheta e alla regione infiltrata nelle istituzioni e nei ceti dominanti. Un bel regalo per i nostri giovani costretti a lavorare altrove. Una responsabilità grave, la nostra, quella di non aver saputo generare, negli anni che furono e che sono, gli anticorpi giusti per porvi rimedio. Per imporre quel freno sociale e istituzionale che il fenomeno avrebbero meritato, man mano che andava ad assumere l'attuale dimensione. Certamente un adempimento collettivo molto difficile da concretizzare a causa dell'efficienza «aziendale» del nemico e delle megarisorse a disposizione della 'ndrangheta. Basta, infatti, constatare il proliferarsi ovunque di una siffatta organizzazione delinquenziale, tale da rendere permeabile con la sua vis mafiosa qualsivoglia organismo pubblico/privato e tutti i segmenti che costituiscono il Mercato. Da qui, la certezza che la 'ndrangheta rappresenta un problema nazionale (e non solo) con la conseguenza che le politiche governative devono essere improntate alla depurazione del sistema, cominciando dalla Calabria, con la previsione di importanti investimenti strutturali, sia in termini di bonifica che di prevenzione.

Il catalogo dei princìpi. Meno male che quest'anno c'è stato il giudice Nicola Gratteri e il gruppo dei bravi magistrati che gli collaborano alla DDA di Catanzaro a lasciare la speranza sotto l'albero di Natale dei calabresi. Essi non si sono resi solo autori di una importante retata ma hanno somministrato a tutti noi una lezione dalla quale assumere il «catalogo» dei nuovi principi e dei rinnovati canoni cui deve ispirarsi la società civile. Non solo. Anche quelli cui deve attenersi il sistema istituzionale ed essere improntato l'andamento della Pubblica amministrazione nostrana. In proposito, spero proprio - da calabrese desideroso di investire sul futuro della propria regione - che i candidati alle elezioni del prossimo 26 gennaio ne sappiano approfittare, assumendo le nuove regole ad ispirazione, prima da parte di tutti i competitor, della campagna elettorale e, poi per gli eletti, dell'esercizio del mandato legislativo regionale!

Toccano alla politica i presupposti per la rinascita. Ritornando alle «giacenze di magazzino», a risorgere dovrebbe essere soprattutto la sanità che, dalle nostre parti, oltre ad essere terreno fertile per le consorterie di ogni genere e grado, è fonte di disperazione, di morti colpevoli, di spreco di danaro pubblico, del peggiore clientelismo ma soprattutto di insicurezza sociale. Ivi, fanno gola i 320 milioni di euro di mobilità passiva, che la Calabria regala al centro-nord (Lombardia in primis), in favore della quale, pare, lavorino personaggi che eccellono molto di più nell'esercizio della mediazione commerciale retribuita dai destinatari che in quello delle arti mediche. Ivi, oggi più che mai attraggono gli incarichi extraregionali e le conduzioni straordinarie delle aziende della salute (Asp, Ao e Aou), caratterizzate da decenni da una malagestio da manuale e dall'assenza assoluta dei controlli aziendali, regionali e commissariali. A tal proposito, risulta da dieci anni inutile e costosissima la presenza degli advisor, nei confronti dei quali si fa davvero fatica a giustificare l'inerzia di chi dovrebbe mandarli a casa. Insomma in Calabria, tra sprechi vergognosi e incapacità, si registra una inefficienza da scandalizzare chiunque. Basterebbe pensare che da queste parti vengono ancora tollerate aziende sanitarie territoriali senza bilancio da anni, altre sciolte per 'ndrangheta, aziende ospedaliere che, pare, non esercitino il pronto soccorso e chiudano nei week-end. Tutto questo nonostante dieci anni di commissariamento ad acta, che si sta svendendo la pelle dei calabresi anche attraverso pratiche occupazionali orride e gestite nel peggiore cinismo verso il fabbisogno epidemiologico e sociale, che (audite!) mai nessuno ha rilevato.

Peccato non aver usato la scopa della Befana per spazzare via il decreto Grillo. A tutto questo ha ampiamente contribuito il decreto salva-Calabria, vero campione di sadismo certificato, che a distanza di otto/nove mesi impone la conta dei saldi, con le partite in dare che non provano alcun apporto migliorativo e quelle in avere che registrano danni irreversibili alle persone e al sistema, destinati sensibilmente a crescere! Insomma, un provvedimento così cinico e un risultato così aberrante sarebbero stati ovunque improponibili e assolutamente non tollerati dalla società civile, certamente produttivi di dimostrazioni pubbliche ad elevatissima partecipazione sociale. Avrebbero meritato altro che sardine! In Calabria nulla, nonostante l'incredibile prodotto generato a sfavore dell'utenza, finanche demolitivo di quel poco che c'era. Neppure nei programmi dei candidati alle elezioni regionali del 26 gennaio prossimo c'è la proposta della benché minima soluzione. Tutto scorre come se qui ci fosse l'assistenza sanitaria della Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana ecc.Per non parlare dell'assistenza sociale ulteriormente affossata da un improvvido e improvvisato regolamento approvato dalla Giunta regionale uscente che metterà al tappeto imprese del settore, che a fatica sbarcano il lunario aziendale, e famiglie con persone disabili e caratterizzate da fragilità psico-fisiche.

La Calabria è la Beirut dell'assistenza socio sanitaria. L'inventario di fine anno. Tre aziende ospedaliere della quali, per il momento, soltanto una con una manager ufficiale concretamente preposta alla direzione di una Ao (Cosenza) e due mandate avanti alla bene meglio da esponenti della burocrazia interna, che hanno campicchiato tra una dimissione e l'altra. Un'azienda ospedaliera universitaria senza testa né coda ovverosia senza manager e impegnata in un molto creativo percorso di integrazione, "interpretativo" di una procedura di fusione che non c'è con l'azienda ospedaliera operante nel territorio cittadino di Catanzaro. Cinque aziende territoriali provinciali delle quali nessuna gestita sino ad oggi da manager nominati, atteso che ci vorrà ancora qualche giorno perché si insedino quelli individuati a circa un anno dalla loro previsione normativa. Due aziende territoriali (l'Asp di Reggio Calabria e quella di Catanzaro) sciolte per infiltrazione/condizionamento mafioso, ex artt. 143 e 146 Tuel ed entrambe "fantasiosamente" dichiarate in dissesto, ex art. 244 Tuel e seguenti, con qualcun'altra destinata più che verosimilmente a seguire la medesima (assurda) sorte. Una novità in assoluto in diritto, quest'ultima, intendendo per tale il superamento (incostituzionale) di quell'autonomia riconosciuta alla Regione dalla Carta, atteso che le aziende sanitarie in default obbligano le Regioni di appartenenza al risanamento dei loro bilanci, a partire dalla copertura delle loro perdite annue sino ad arrivare al ripianamento dei deficit patrimoniali prodotti. Un dovere ineludibile e una prassi peraltro evidenziabile dal pagamento del rateo annuo di circa 31 milioni di euro del mutuo a suo tempo contratto a fronte del debito pregresso contabilizzato al 2009 dal Commissariamento di protezione civile all'epoca attivo. E ancora. I danni sono tendenzialmente in crescita per incapacità gestionale di preposti a generare la programmazione del cambiamento. L'attuale improvvisata governance commissariale sta facendo, infatti, di peggio di quanto si faceva prima del suo insediamento, che rappresentava il massimo del deterioramento progressivo del servizio. L'ultima vicenda è il segno evidente dell'assenza totale di una saggia pianificazione degli investimenti che sottolinea la mancanza di una idea complessiva di organizzazione della salute che si ha il dovere costituzionale di rendere ivi efficiente ed efficace come altrove. A fronte di programmazione di spesa delle risorse ex art. 20 legge 67/1988, finalizzate all'acquisizione di tecnologie rafforzative delle eccellenze operanti in Calabria (tra tutte, in contrapposizione ad una programmazione aziendale tendente a consolidare quelle già rese dall'AO di Cosenza, gli stop: all'acquisizione di una risonanza magnetica di tipo 3Tesla da rendere disponibile alla neuroradiologia interventistica di assoluto riconosciuto pregio nazionale; all'acquisto del robot chirurgico Leonardo da Vinci da «consegnare» alla urologia e alla chirurgia toracica di altrettanto indiscusso valore professionale, attività peraltro segnatamente impattanti positivamente avverso l'enorme mobilità passiva di settore che impoverisce annualmente il Ssr), si è pensato di disperdere le relative risorse distribuendole a pioggia nei diversi presidi spock e di conseguenze renderle di fatto improduttive di erogazione qualificata di assistenza. 

Tante le aspettative, sino ad oggi deluse. Speranza cercasi in Calabria. Una ce l'ha regalata la DDA di Catanzaro. L'altra è insita nel cognome dell'attuale ministro della salute e, soprattutto, fondata sulla sua storia politica e la sua sensibilità sul tema. Io ci credo, nonostante le debolezze dimostrate nel lasciare in vigenza un provvedimento dagli effetti macabri. L'augurio è anche quello che la Calabria riesca a trovare un/una Presidente della Regione capace di esercitare la riscossa e materializzare il rinascimento di una terra che ha ormai capitalizzato un credito di civiltà così alto da apparire difficile da essere riscosso nonché il risarcimento dei drammi sopportati da una società generalmente impoverita.

TURISMO SANITARIO. I PAZIENTI CON LA VALIGIA SPOSTANO 4,6 MILIARDI DI EURO DA SUD A NORD. Barbara Gobbi per amp.ilsole24ore.com il 31 Luglio 2019. Le Regioni del Nord come una calamita per il Sud Italia. La mobilità sanitaria, il fenomeno dei pazienti con la valigia in cerca di assistenza migliore che muove ogni anno circa un milione di malati più i familiari, si traduce in un fiume di denaro pari nel 2017 a 4,6 miliardi di euro, certificati dalla Conferenza delle Regioni nei mesi scorsi previa compensazione dei saldi. E il flusso ha una direzione chiara: l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata - mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania. Un quadro che racchiude sfaccettature fisiologiche ma anche patologiche, imputabili alle liste d’attesa o alla scarsa qualità dell'assistenza nelle Regioni di partenza, da cui riesce a “fuggire” per curarsi solo chi può permetterselo. A fare il punto è la Fondazione Gimbe: «Abbiamo analizzato – spiega il presidente Nino Cartabellotta – esclusivamente i dati economici della mobilità sanitaria aggregati in crediti, debiti e relativi saldi, in attesa di ottenere il prospetto dei flussi integrali trasmessi dalle Regioni al ministero della Salute, che permetterebbero di analizzare la distribuzione delle tipologie di prestazioni erogate in mobilità, la differente capacità di attrazione del pubblico e del privato e la Regione di residenza dei cittadini si curano fuori casa». Elementi fondamentali per scovare il «lato oscuro» della mobilità sanitaria e su cui non a caso indagherà il Patto per la salute in via di definizione tra governo e Regioni. Perché il fenomeno è la cartina di tornasole di un'Italia delle cure spaccata in due, dove troppo spesso si emigra in assenza di alternative valide nella propria realtà. E «in tempi di regionalismo differenziato – avvisa Cartabellotta – il report Gimbe non solo dimostra che il flusso di denaro scorre prevalentemente da Sud a Nord, ma che anche se la bozza di Patto per la Salute prevede misure per migliorare la governance, difficilmente la fuga in avanti delle tre Regioni che cumulano l'88% del saldo attivo potrà ridurre l'impatto di un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche».

Sei Regioni vantano crediti superiori a 200 milioni di euro (mobilità attiva): in testa Lombardia (25,5%) ed Emilia Romagna (12,6%) che insieme contribuiscono ad oltre 1/3 della mobilità attiva. Un ulteriore 29,2% viene attratto da Veneto (8,6%), Lazio (7,8%), Toscana (7,5%) e Piemonte (5,2%). Il rimanente 32,7% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre 15 Regioni, oltre che all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (217,4 milioni di euro) e all'Associazione dei Cavalieri di Malta (39,7 milioni).

Le 6 Regioni con maggiore indice di fuga (mobilità passiva) generano debiti per oltre 300 milioni: in testa Lazio (13,2%) e Campania (10,3%) che insieme contribuiscono a circa 1/4 della mobilità passiva; un ulteriore 28,5% riguarda Lombardia (7,9%), Puglia (7,4%), Calabria (6,7%), Sicilia (6,5%).

Il restante 48% si distribuisce nelle altre 15 Regioni. Le differenze Nord-Sud risultano più sfumate quando si guarda al passivo: gli indici di fuga, alti in quasi tutte le Regioni del Sud, sono rilevanti anche al Nord grazie alla facilità di spostamento dei cittadini. In Lombardia si arriva a -362,3 milioni di euro, in Piemonte a -284,9 milioni, in Emilia Romagna a -276 milioni, in Veneto a -256,6 milioni e in Toscana a -205,3 milioni.

Le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni)

INIQUITÀ E MOBILITÀ SANITARIA. Ambrogio Carpentieri, Antonio Milici, Giuseppe (Josè) Galiero, Marcello Fulgione, Francesco Carbone, Antonio Marsiglia, Elio de Lorenzis, Pippo Satriano, Commissione Sanità ET-M24A, il 02.05.2020 su Movimento 24 Agosto. La mobilità sanitaria annuale dovuta a cittadini meridionali che vanno a curarsi al Nord ha spostato soprattutto nelle casse di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna 4,6miliardi di euro che vanno a sommarsi ai 4 miliardi di euro che annualmente sono sottratti al Sud per una iniqua distribuzione dei fondi. Di conseguenza, pur avendo una Sanità di eccellenza, le Regioni meridionali sono costrette ad offrire una assistenza in mancanza di 100.000 medici e operatori sanitari e nella situazione carente di 2 posti letto contro gli 8 posti letto per 1000 abitanti negli ospedali del Nord. Eppure i Centri di Eccellenza del Sud sono particolarmente attivi. Basti pensare agli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e privati come:

Oncologia: Istituto nazionale tumori Fondazione G. Pascale – Napoli

Gastroenterologia: Ente ospedaliero S. De Bellis – Castellana Grotte (BA)

Oncologia: Istituto Tumori Giovanni Paolo II - Bari

Oncologia: CROB Centro di riferimento oncologico della Basilicata – Rionero in Vulture (PZ)

Neuroscienze: Centro Neurolesi Bonino Pulejo – Messina

Neuroscienze: Istituto neurologico mediterraneo Neuromed – Pozzilli (IS)

Diagnostica: SDN Istituto di ricerca diagnostica e nucleare – Napoli

Genetica: Ospedale Casa sollievo della sofferenza – San Giovanni Rotondo (FG)

Insufficienze terminali d'organo: ISMETT Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione – Palermo

Ritardo mentale: Oasi di Maria santissima – Troina (EN)

In Italia esistono 49 Irccs di cui 21 pubblici e 28 privati. Solo 5+5 sono localizzati al Sud e nessuno in Sardegna, Abruzzo e Calabria. In tali casi è auspicabile un polo oculistico in Sardegna, un polo pediatrico in Calabria e un centro per le malattie immunitarie in Abruzzo. Da evidenziare anche la mancanza della Facoltà di Medicina e chirurgia presso la Università della Basilicata. Ma i centri di Eccellenza non si limitano agli Irccs trattandosi di Ospedali specializzati in grado di affrontare prestazioni ad alta complessità che richiedono sicurezza e realizzano una condizione favorevole all'efficacia dei risultati. Basti pensare per esempio al Monaldi ad indirizzo cardio-pneumologico o al Cotugno di Napoli ad indirizzo infettivologico o il DCA di Chiaromonte (PZ) per i disturbi del comportamento alimentare e del peso. Il concetto di EvidencedBasedMedicine oramai è surclassato dal ValueBM dove per Valore si intende non certo una entità astratta o una parola in codice per indicare tagli finanziari ma rappresenta l'unità di misura più concreta e innovativa per guidare le strategie organizzative e le politiche sanitarie del terzo millennio, perchè mette in relazione diretta i risultati ottenuti dall'assistenza sanitaria (efficacia, sicurezza) con le risorse utilizzate (efficienza). (Gimbe) La organizzazione sanitaria, secondo cui tali Centri dovrebbero lavorare con i Presidi ospedalieri della “periferia” fondamentali per la cura e assistenza in prossimità dei cittadini, è la modalità della rete articolata in hub e spoke. Le Reti nascono quando nei sistemi aumentano le interazioni e si aprono opportunità per rendere più conveniente la collaborazione rispetto alla competizione. Tale modello organizzativo si è reso indispensabile in sanità per la crescente complessità dei percorsi di cura che difficilmente possono trovare risposte in un'unica struttura. Favorisce un accesso equo e tempestivo del malato diffuso su tutto il territorio, concentra esperienze professionali e tecnologie nelle sedi opportune, migliora la circolazione del know how con il riconoscimento delle vere dalle false innovazioni, è in grado di monitorare la qualità delle prestazioni erogate, rende possibile al paziente una scelta informata e consapevole dei Centri di Riferimento. La iniquità sanitaria particolarmente vissuta al Sud, secondo quanto disse Francesco II partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861 al comandante Vincenzo Criscuolo: “Ai Napoletani non lasceranno neanche gli occhi per piangere”, va contrastata non in termini di profitto (che danni incommensurabili ha fatto al Nord) ma in termini di partecipazione alla creazione di salute.

LA SCHEDA O IL FUCILE. Di Salvatore Domenico Bevilacqua M24A Spagna. Pubblicato da Michele Di Pace il 02.05.2020 su Movimento 24 Agosto. Il 3 di aprile del 1964 davanti ad una folla ammutolita Malcom X incitava tutta la fratellanza afroamericana con il mítico discorso La scheda o il Fucile. Il fulcro dell’oratoria era una analisi sulla possibile rivolta della nazione negra e le conseguenze della stessa. Malcom X citava gli altri attivisti afroamericani e affermava che nonostante avessero differenze sostanziali nel come la comunità dovesse identificarsi nella società, il momento richiedeva unità . Non importa se siete colti o analfabeti, se abitate in zone eleganti o nel ghetto, siete anche voi in questo inferno, proprio come me. Siamo tutti nelle stesse condizioni e tutti dovremo vivere nello stesso inferno che ha organizzato per noi lo stesso uomo. Quell'uomo è il bianco e tutti noi abbiamo sofferto qui, in questo paese, l'oppressione politica, lo sfruttamento economico, la degradazione sociale ad opera dell'uomo bianco. Il dire queste cose non significa che siamo contro i bianchi come tali, ma contro lo sfruttamento, contro la degradazione e contro l'oppressione. (Malcom X) Esiste una incredibile analogia, nel 1964 il discorso veniva rivolto a una comunità di 22000000 di persone, tante quante siamo oggi noi TERRONI. Esiste un passaggio di quel mítico discorso che urlato oggi da un palco alla nostra platea calzerebbe a pennello: “A questo punto vorrei fermarmi per sottolineare una cosa. Cercate di capire che quando volete ottenere ciò che vi appartiene, chiunque vi privi di tale diritto è un criminale. Quando volete ottenere ciò che è vostro, siete nel pieno diritto di esigerlo e chiunque cerca di privarvene infrange la legge ed è un criminale.” (Malcom X). Oramai tutti sappiamo che lo stato ogni anno ci da meno di quello che ci spetta, ci toglie invece di darci, lo dicono quelli della SVIMEZ,EURISPES, giornalisti, ricercatori, attivisti, etc… ogni anno 65 miliardi di euro che ci servirebbero per i nostri figli, i nostri padri ci vengono tolti. La nostra terra viene volontariamente abbandonata per farcela abbandonare, ma noi siamo in tanti e loro lo sanno, siamo 22000000 di persone, tre volte il Portogallo, tanti come la Svezia, Danimarca e Norvegia assieme, 3 volte l’Olanda e non abbiamo neanche treni che ci uniscono in tempi decenti, strade che ci facciano incontrare e lo sapete perchè? Ci vogliono divisi!!!!! Uniti facciamo paura!!!! Sorelle e Fratelli meridionali il cambio è lento e alle volte doloroso per quelli che veramente lo cercano e per questo che in questo viaggio dobbiamo imbarcarci tutti assieme e cercare il valore e la forza nella compagna e compagno di fianco a noi. Quello che in cui possiamo fare unicamente affidamento è la nostra fratellanza ,la nostra nazione. Nessuno ci dirà mai che il viaggio sarà corto, lungo o doloroso, però sappiamo che il camino sarà illuminato, perché il popolo sarà la luce del camino. Per fare un popolo ci vuole il tempo e quello ne abbiamo di più che tanti altri, sono quasi 1000 anni che viviamo assieme. Per fare un popolo ci vuole il sangue e di sangue ne abbiamo versato tanto e oggi più che mai sappiamo che non fu invano. Il sangue è quello che ci vogliono togliere lentamente, separando figli dai padri, fratelli dalle sorelle, amici dagli amici ,amori dagli amori, perché il sangue serve da sfruttare in un'altra parte di questa penisola. Non si tratta più di una lotta di classe, non si tratta più di rivendicare diritti social, si tratta di una oppressione ad un intero popolo, il nostro. Catalani, Baschi, Scozzesi riescono ad ottenere risultati nelle lotte ai propri diritti sociali, perché? Perchè lo rivendicano come popolo ,lo rivendicano tutti assieme. Dobbiamo finalmente capire che assieme siamo un popolo ,separati siamo la regione più povera d'Europa, assieme siamo 22000000 di persone, soli siamo povera gente. Salvatore Domenico Bevilacqua M24A Spagna

Coronavirus, Feltri: «Santelli dice che se non si riapre arriva la 'ndrangheta? Non se ne è mai andata». Il Quotidiano del Sud il 2 maggio 2020. Lo scorso giovedì 30 aprile la governatrice della Calabria Jole Santelli aveva sottolineato in collegamento con “La Vita in diretta” su Rai 1 la necessità di partire al più presto con la fase 2, per scongiurare un’avanzata della criminalità organizzata. Una difesa della discussa ordinanza firmata qualche ora prima), in netto contrasto con le disposizioni del governo nazionale sul contenimento del contagio da coronavirus. Tra le reazioni si registra quella di Vittorio Feltri, che ha commentato così su Twitter le parole della presidente di Regione: Jole Santelli, governatrice della Calabria avverte: “se restiamo fermi arriva la ‘Ndrangheta”. Non si preoccupi: é già arrivata, anzi non se ne è mai andata. 10:49 - 2 mag 2020. Risale a pochi giorni fa la polemica che ha visto protagonista il giornalista lombardo a causa delle sue parole contro i meridionali che scatenarono la reazione indignata di tanti cittadini calabresi.

CARO FELTRI, TI RACCONTO LA NOSTRA STORIA E TI INVITO IN CALABRIA PER DIMOSTRARTI CHI È DAVVERO INFERIORE. Di Francesco Patrizio Lapietra. Pubblicato da Raffaele Vescera il 30.04.2020 su Movimento 24 Agosto. Dopo aver sentito le ignobili e gratuite offese al popolo meridionale, non me la sono sentita a far finta di nulla e tacere. È d’obbligo mettere mano alla tastiera del pc e urlare tutta la mia indignazione quando, per la ennesima volta, Vittorio Feltri si permettere di offendere il mio popolo. Andando ai fatti, il giornalista Feltri, ospite della trasmissione televisiva su Rete 4 Fuori dal coro, dopo aver prima rinfacciato che 14mila malati oncologici campani vengono curati in Lombardia, si lancia in una esternazione lombrosiana dicendo che «i meridionali, in molti casi, sono inferiori a quelli del nord», il tutto alla presenza di un giornalista, Mario Giordano, a tratti compiacente, che con il sorriso sulle labbra si è solo limitato ad accennare un minimo di rimprovero di circostanza al suo collega. Feltri, non pago di quanto avesse detto, quando Giordano gli rammenta che qualche meridionale avrebbe potuto prendersela a male per le espressioni utilizzate, questi infierisce dicendo «chi se ne frega». Mi sono domandato se fosse stato giusto adottare indifferenza nei confronti dell’offesa perpetrata ai danni di noi meridionali in diretta nazionale. La risposta che mi sono data è che non si può e non si deve più chinare il capo. Il sottoscritto è un meridionale, fiero ed orgoglioso di esserlo, il quale ha studiato e si è formato nella sua terra superando le difficoltà, non poche, che ogni giorno ci vengono dal nostro Sud depauperato e umiliato. Premesso che, come ho detto tante altre volte, il Sud oggi è impoverito dalla criminalità organizzata e dalla mala gestione politica che va di pari passo con il malaffare, è altrettanto doveroso non dimenticare chi siamo stati, cosa abbiamo fatto e capire il perché della arretratezza odierna.

CHI SONO DAVVERO I MERIDIONALI. Visto che il Feltri è molto perspicace nel capire le cose, vorrei ricordargli quando e quanto i meridionali erano inferiori. Un tempo, se non vado errato su taluni testi è riportato che, esisteva una certa Magna Graecia, culla di cultura filosofica, arte, letteratura, scienza medica. Nell’attuale zona del Catanzarese, pare vi fosse una popolazione denominata “italioti” e che, da questi derivi il nome della nostra penisola. Nell’attuale Crotone (Kroton) si dice che predicasse un certo Pitagora, dicono che sia stato un matematico e un filosofo scopritore di alcune cose che ancora oggi sono utili alla umanità. Alcuni hanno, tra l’altro, l’ardire di dire che i l’Impero Romano conquistò la Grecia (e la Magna Graecia) con la forza delle armi ma, Roma – popolo di guerrieri e pastori – imparò e trasfuse a sé tutto dalla cultura greca. La Democrazia, quella nata da Pericle in avanti, è frutto della inferiorità delle popolazioni meridionali della Magna Grecia. Per arrivare ad una storia un po’ meno remota, il nostro popolo era assai inferiore, arretrato, povero ed incolto.

Ecco, allora, quanto noi terroni eravamo inferiori, su alcune cose: prima cattedra di astronomia in Italia (1735), prima cattedra di economia al mondo; primo cimitero in Italia per inumare i poveri (1763); primo codice marittimo al modo (1781); primo intervento di profilassi anti tubercolosi in Italia (1782); prima assegnazione di case popolari in Italia (1789- San leuco, Caserta); prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (1789); prima scuola di ballo in Italia (1812); primo istituto per sordomuti in Italia (1835); primo tratto ferroviario in Italia (1839- Napoli, Portici); Napoli prima illuminazione a gas in una città italiana, terza in Europa dopo Londra e Parigi (1839); prima fabbrica metalmeccanica in Italia per numero di assunti (1839 Pietrarsa); primo centro sismologico in Italia (1840) e primo sismografo (1856); primo telegrafo elettrico (1852); prima luce elettrica (1852 Capodimonte); più grande industria navale in Italia (1860); prima della unificazione il mezzogiorno era il primo in Italia per numero di orfanotrofi e ospizi, collegi, centri di formazione, conservatori musicali, nel 1860 il sud varò il primo piano regolatore in Italia e, Napoli fu la prima città al mondo a portare l’acqua corrente nelle case; Mongiana, in Calabria, era il primo complesso siderurgico in Italia; nel 1860 si aveva ala più alta percentuale di medici per numero di abitanti e il più basso tasso di analfabetismo , mortalità infantile in Italia, indici di benessere e di sviluppo.

Ragionando in termini economici, il sud aveva la migliore finanza pubblica in Italia, con la più alta rendita dei titolo di Stato pari al 120% (1860 Borsa di Parigi) e, il minor carico tributario erariale in Europa.

Non dobbiamo dimenticarci che il meridione, all’atto dell’annessione possedeva il 65,7% di tutte le monete circolanti in Italia, più di tutti gli altri Stati pre unitari messi insieme (fonte tratta dal saggio “Nord e Sud” di Francesco Saverio Nitti).

Premesso che in alcun modo deve essere messa in discussione l’Unità della nostra Nazione, non si può e non si deve infangare il meridione con aggettivi non degni di un paese civile.

La storia chi ha consegnato pensieri abominevoli che per forza di cose ci hanno resi volutamente, inferiori, basti pensare a quanto affermato da Carlo Bombrini (Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882) il quale asserì che «i meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Una ferita altrettanto indimenticabile fu quanto detto dal Generale e Senatore del Regno Enrico Cialdini, che con impavido disprezzo cosi affermò:«Li voglio tutti morti! questi terroni sono tutti africani e contadini. A morte i nemici del Piemonte, dei Savoia, dei Bersaglieri e del mondo intero. Non vogliamo testimoni, diremo che sono stati briganti».

ANCHE IN QUESTO PERIODO DI PANDEMIA dal meridione, è iniziata la sperimentazione del farmaco anti artrite contro la polmonite da Covid-19 che, ha prodotto ottimi risultati ed è stato inserito nei protocolli farmaceutici. A dare inizio a questa sperimentazione è stato l’acume e la scienza del Dottore Paolo Ascierto, direttore dell’unità di oncologia e terapie innovative dell’istituto tumori Pascale di Napoli. Il Dottore Ascierto dopo i primi interventi in lacune dirette televisive per la sua scoperta che ha salvato, certamente, molte vite, ora i media di “regime” non ne fanno più accenno.

POSSIBILE DANNO ALL’ORDINE DEI GIORNALISTI. Ritornando al caso Feltri, pare che nelle ultime ore il presidente dell’ordine dei giornalisti abbia deciso di procedere legalmente contro questi per valutare il danno di immagine all’Ordine stesso. Pare, che lo stesso Ordine stia puntando il dito anche contro Giordano, puntualizzando che questi avesse l’obbligo di intervenire nel momento dello sproloquio riprendendo Feltri. Sembra che anche il presidente dell’ordine della Lombardia, voglia trasmettere al consiglio di disciplina quanto accaduto. Nei prossimi giorni sapremo cosa succederà, professionalmente, a Feltri. Immediata, invece, è stata la reazione di molti edicolanti del sud che hanno deciso di non vendere il giornale Libero diretto da Feltri, in alcuni casi le edicole hanno affisso delle vere e proprie locandine in cui si dice che i meridionali essendo inferiori non sono in grado di comprendere gli articoli contenenti nello stesso giornale. Noi giovani generazioni, siamo consci della nostra storia, di cui ne andiamo orgogliosi perché, chi non conosce il proprio passato e non ne fa tesoro non potrà mai capire il presente ed il futuro. Nessuno deve arrogarsi il diritto di reputarci inferiori perché non lo siamo mai stati e né mai lo saremo. Siamo solo consapevoli di una cosa, che alcune, pochissime, menti del Nord che, purtroppo, godono di una penna e di una cassa di risonanza ignorando la storia del loro Paese infangano ed offendono gli altri. Se c’è qualcuno che è in debito con qualcun’altro, di certo quel qualcuno non siamo noi meridionali perché, abbiamo pagato (24 milioni di emigrati) e paghiamo (80mila nuove emigrazioni l’anno di laureati) un prezzo salatissimo. Sono del parere che alle offese si risponde con gentilezza e con la propria storia.

LA STORIA DEVE ESSERE MAESTRA DI VITA per non ricadere in errore, in questo caso, noi meridionali non dimenticheremo mai da dove proveniamo e chi erano i nostri avi. Sarò lieto, dopo aver chiesto venia (ovviamente), di invitare personalmente il Dottore Feltri a far visita alla nostra Calabria cosi da potersi rendere conto chi tra lui e la storia, la cultura, l’arte del mezzogiorno sia realmente l’inferiore…in molti casi.

Dichiarazioni Feltri, Wanda Ferro: “Tra delirio e falso storico”. I due pazienti di Bergamo guariti a Catanzaro sono stati un momento di commozione e verità. Redazione catanzaroinforma.it il 22 Aprile 2020. «Le considerazioni di Vittorio Feltri sulla presunta inferiorità dei meridionali non meritano commento, tanto sono stupide e deliranti, così come le farneticazioni secondo cui qualcuno avrebbe gioito per l’ecatombe causata dal coronavirus in Lombardia. Non è neppure il caso di ribadire quante siano le eccellenze calabresi – e meridionali – nei più svariati campi delle professioni, della cultura, delle arti, della ricerca, del giornalismo: non abbiamo complessi di inferiorità che ci spingono a rivendicare il riconoscimento del nostro valore». E’ quanto afferma il deputato di Fratelli d’Italia Wanda Ferro, che prosegue: «Meritano invece una replica, anche perché rappresentano una narrazione molto diffusa, le considerazioni secondo le quali i meridionali scelgono di curarsi nelle strutture sanitarie del Nord perché più “rassicuranti”, come dice Feltri, o comunque più valide o efficienti. Questo è solo un racconto parziale della realtà, perché è vero che molti pazienti calabresi, ad esempio, sono costretti a rivolgersi alle strutture del nord per farsi curare, ma questo non avviene certo per la mancanza di medici di grande competenza e professionalità – sanno tutti che moltissimi dei luminari che guidano le strutture di eccellenza del nord sono meridionali – o per  la situazione disastrata di alcune strutture sanitarie depredate dalle inefficienze, dal malaffare e dalla ‘ndrangheta, che continuano ad arricchire giustamente i reportage televisivi. Ma anche quella è solo una parte della realtà, perché in Calabria ci sono tantissime strutture d’eccellenza, nella sanità pubblica e in quella privata, con dotazioni strutturali efficienti, a volte all’avanguardia, e che soprattutto possono contare su risorse professionali di straordinario valore. La guarigione dal coronavirus di due pazienti lombardi curati a Catanzaro è stato un momento emozionante, ma in fondo solo una delle infinite pagine di buona sanità che i medici e gli operatori sanitari che hanno scelto di restare in Calabria continuano a scrivere ogni giorno, anche operando in condizioni difficili. Il vero problema  è proprio il circolo vizioso dell’emigrazione sanitaria, che sottrae al Sud risorse che potrebbero essere investite nel potenziamento delle strutture, e che invece continua a ingrossare i bilanci delle regioni del Nord con risorse che vengono così investite nei sistemi sanitari che continueranno così a richiamare pazienti meridionali e così via. Il bisogno di salute del Sud, quindi, è usato come un bancomat dalle regioni settentrionali, che per decenni hanno costruito e retto i propri sistemi di eccellenza proprio sulla mobilità sanitaria interregionale. Che la sanità meridionale non sia capace di dare cure di elevato livello è un falso storico, un racconto che serve proprio ad alimentare il sentimento di sfiducia nei cittadini, che si trasforma in un fiume di risorse che in maniera ormai strutturale passa da Sud a Nord, depauperando i sistemi sanitari delle regioni meridionali per consentire a quelli settentrionali di dotarsi delle strutture a cinque stelle di cui parla Feltri. E’ giusto raccontare il marcio che si annida in tanti gangli della sanità meridionale, ma è giusto dire che quella è solo una parte del racconto, e non può essere il pretesto per sfuggire alla responsabilità dei governi nazionali dopo anni di tagli alle risorse e commissariamenti che non hanno raggiunto l’obiettivo di migliorare i livelli di assistenza, e soprattutto per sottrarsi al dovere di destinare al Sud gli stessi investimenti che vengono da sempre indirizzati, copiosi, al Nord. Per fare della sanità meridionale una realtà “rassicurante” e spezzare finalmente la catena della migrazione sanitaria».

Non è l'Arena, le Sardine contro Massimo Giletti: "Trasmissione contro il Sud e in difesa della Lombardia". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Le Sardine sono sempre ben liete di comparire in tv - soprattutto in un periodo in cui sono irrilevanti politicamente - non importa che sia una puntata di Amici di Maria De Filippi o di Non è l’arena. Alla trasmissione della domenica sera di La7 ha preso parte Jasmine Cristallo, una delle esponenti di punta del movimento ittico, che però non è parso molto grato a Massimo Giletti per l'ospitata in prima serata. “Non avremmo voluto essere interrotti su Tina Anselmi - frignano le Sardine sui social - partigiana e primo ministro donna che sulla sanità molto ha fatto. Né avremmo voluto ascoltare una trasmissione contro gli ospedali del Sud, tacendo invece le responsabilità della Lombardia. Ma questo è Giletti”. La prossima volta allora i pesciolini possono gentilmente declinare l’invito, se non aggrada loro la discussione prevista in trasmissione. 

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio. Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Nunzia De Girolamo a Non è l'arena: "Se metti le mani nella sanità muori. Calci nel sedere a chi non sa usare i soldi". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. "Se ci metti le mani, muori". Nunzia De Girolamo è drastica: a Non è l'Arena da Massimo Giletti si para ancora di sanità al Sud e l'ex ministra puntualizza: "Si tratta di un settore pieno di interessi, non trasparente. Se parli, vieni punito e quando fai inchiesta improvvisamente si svegliano". Poi però il Sud non ha preso il 34% degli investimenti pubblici, ha preso il 24% per anni, quando non il 19%, e questo è un altro discorso, "Ma come fai a chiedere più soldi se li sprechi o li rubi?", le chiede Alessandro Cecchi Paone, in collegamento video. "No, i soldi devono arrivare perché i cittadini non possono pagare per la loro classe dirigente. E chi non li sa usare va preso a calci nel sedere".

Sanità in Puglia, lo scandalo dell'Ospedale di Mottola. La7 30/03/2020. Nell'Italia in emergenza per il Coronavirus a Mottola, vicino Taranto, c'è un Ospedale nuovo che è praticamente chiuso. Danilo Lupo è andato a scoprirlo. Giampiero Barulli, il Sindaco di Mottola: "E' una vergogna italiana!".

Tgnobaonline 31-03-2020. Ospedale di Mottola attaccato da La 7, ma la Asl svela falso scoop. Un ospedale nuovissimo, chiuso e inutilizzato per l’emergenza coronavirus, parliamo dell’Umberto primo di Mottola finito nel tritacarne mediatico

Servizio di Francesco Iato.  Riprese e montaggio di Pasquale D'Attoma. Intervista a Stefano Rossi, direttore generale Asl Taranto.

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio.

Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Numeri. Caro Giletti, così ci siamo. Roberto Napoletano il 6 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bravo Giletti, il suo viaggio nel Sud a Non è l’Arena questa volta ci è piaciuto. Ai nostri occhi si è riscattato perché ha coperto con onestà il buco nero informativo della sua trasmissione che questo giornale ha denunciato perché insopportabile. Che a un cittadino calabrese lo Stato italiano elargisca 15,9 euro per investimenti in attrezzature sanitarie contro gli 89,9 che riceve un cittadino della Valle d’Aosta è uno scandalo morale, prima ancora che economico, perché lede i diritti di cittadinanza inviolabili della Repubblica italiana. A prescindere dal fatto, sia chiaro, che gli amministratori della Valle d’Aosta si sono dimessi perché indagati per associazione politico elettorale mafiosa e che il Comune di Saint Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta. Giletti ha mostrato le tabelle del Quotidiano del Sud che sono poi quelle dei Conti Pubblici Territoriali e ha detto con assoluta chiarezza che il capitolo degli investimenti sanitari dopo lo tsunami Coronavirus dovrà essere riscritto perché non equo. Non era scontato. Queste parole gli fanno onore e sono quelle che avremmo voluto sentire già due domeniche fa. Ogni volta che il conduttore di Non è l’Arena denuncerà gli sprechi e il malaffare calabrese nella sanità pubblica e privata ci avrà sempre al suo fianco. Perché questo giornale, come ho scritto la settimana scorsa, non ha e non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi pubblici e al coacervo di interessi massonici e amministrativi che a volte hanno spartito con essa il bottino e a volte ne hanno bloccato l’impiego per calcoli inverecondi. Questa vergogna deve essere esplorata e denunciata senza riguardi per nessuno perché la sanità è un bene pubblico e le vittime sono le donne e gli uomini del Mezzogiorno. Saremo sempre in prima linea nel sostenere a tutto campo l’azione di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori dall’Italia, e non ci stancheremo mai di ringraziarlo. C’è un punto rimasto in sospeso che aiuta a capire come sono andate davvero le cose, caro Giletti. È vero che i commissariamenti delle regioni del Sud hanno comportato un taglio dei trasferimenti per colpe loro, come hai opportunamente sottolineato, ma sono scattati per bilanci regionali in rosso per importi rilevanti che non hanno però paragone con quanto prima, durante e dopo è stato tolto alle stesse regioni del Sud per regalarlo alle regioni del Nord. Dal 2000 al 2017 su 47 miliardi di investimenti complessivi 27,4 sono andati al Nord, poco più di un terzo al Sud (10,5). Per la sanità italiana, un cittadino della Calabria ha ricevuto cinque volte di meno di un cittadino emiliano-romagnolo. A seguito dei giusti commissariamenti frutto di sprechi e inefficienze le Regioni del Mezzogiorno taglieggiate pesantemente per quasi un ventennio nella distribuzione delle risorse pubbliche hanno dovuto mandare a casa un altro 10% di personale. Ho scritto la Grande Balla perché questa ineludibile operazione verità che riguarda la sanità come la scuola, gli asili nido come i treni veloci, fosse chiara a tutti. Questa distorsione incostituzionale della spesa pubblica è tra l’altro all’origine dell’abnorme crescita della rendita sanitaria privata lombarda a discapito degli ospedali pubblici lombardi e del Mezzogiorno. Ogni battaglia sacrosanta di moralizzazione e di ricostruzione economica e sociale del Paese può partire solo da questi numeri. Che parlano perché hanno un cuore e un’anima. 

VERGOGNA. Questo giornale sostiene l’azione a tutto campo di un grande uomo di Stato come Gratteri contro il malaffare in Calabria, in Italia e fuori dall’Italia ma denuncia un racconto sul Sud che nasconde il taglieggiamento degli investimenti pubblici per la sanità. Al Mezzogiorno va un terzo rispetto al Nord e lo Stato spende per  un calabrese 15,9 euro e per un valdostano 89,9 euro. Robero Napoletano il 30 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. DAL 2000 al 2017 ogni cittadino calabrese ha ricevuto pro capite 15,9 euro per investimenti fissi in sanità dal bilancio della Repubblica italiana. Ogni cittadino piemontese tre volte tanto (44,1), chi è nato in Emilia-Romagna cinque volte di più (84,4), ai cittadini veneti la dote personale (61,3) è pari a quattro volte la spesa pubblica attribuita a un abitante di Vibo Valentia o di Reggio Calabria. Campani e pugliesi si devono accontentare della metà esatta di quanto ricevono i lombardi e di un terzo di quello che incassano i veneti. Al colmo dell’equità in Valle d’Aosta dove il Governatore si è dimesso perché indagato per scambio elettorale politico mafioso e il Comune di Saint-Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta ogni cittadino riceve 89,9 euro: i suoi diritti di cittadinanza sanitaria pubblica sono di quasi sei volte superiori a quelli dei concittadini calabresi e valgono quattro volte di più di quelli dei suoi concittadini campani e pugliesi. Questo certificano i Conti Pubblici Territoriali della Repubblica italiana voluti da Carlo Azeglio Ciampi per cercare almeno di capire a che cosa avrebbe condotto, anno dopo anno, la scelta di abolire il servizio sanitario nazionale e la nascita dei venti staterelli in guerra tra di loro chiamati Regioni. Che cosa si intende, mi chiederete, quando si parla di investimenti fissi in sanità? Per capirci, sono attrezzature scientifiche e sanitarie, macchinari, respiratori, posti letto di terapia intensiva, unità ospedaliere pubbliche. Tutto ciò che abbiamo scoperto mancare drammaticamente come dimostra l’ecatombe di vite umane da Coronavirus di questi giorni. Ci permettiamo, altresì, di ricordare che, parola della Corte dei Conti, il peggioramento dei conti della sanità pubblica italiana è interamente attribuibile a Regioni a statuto ordinario del Nord, a partire dal Piemonte. Scusate se sono andato lungo, ma era solo per esprimervi compiutamente il senso di ribrezzo che ha determinato in me assistere a un’ora e mezza di processo televisivo alla sanità del Mezzogiorno, ai suoi medici, ai suoi ospedali (Non è l’Arena di Massimo Giletti, La7) senza che si desse conto mai di uno solo dei numeri del taglieggiamento dei fondi per gli ospedali pubblici del Sud a favore dei prenditori della rendita sanitaria privata del Nord. Questo giornale non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi della sanità pubblica e al coacervo di interessi criminali, massonici e amministrativi a essa collegati ed è in prima linea nel sostenere l’azione a tutto campo di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori Italia (grazie Procuratore), ma non può nascondere il sentimento di vergogna per un racconto omissivo che appartiene a uno scenario scolastico di informazione leggerissima già mal digeribile nei tempi di pace. Non si rinuncia al più becero sensazionalismo saltellando sulle macerie italiane. La grande guerra è cominciata, ma ci sono alcuni “colonnelli della politica” e i loro “portavoce” che non hanno capito niente. Giocano alla guerra senza sapere che siamo in guerra per davvero non per finta. Sono i padroni delle telerisse. Non hanno rispetto nemmeno dei morti. Sono accecati da loro stessi, l’ego sconfinato del nulla. Dio ce ne scampi.

Dall’estero elogi al Cotugno: “E’ l’ospedale migliore d’Italia contro il coronavirus”. Redazione de Il Riformista il 1 Aprile 2020. E’ il Cotugno l’ospedale modello in Italia per la lotta al coronavirus. L’elogio arriva dalla stampa inglese e nello specifico da Sky News britannico che in un lungo e dettagliato servizio sull’emergenza pandemia covid-19 sottolinea il duro lavoro di tutto il personale sanitario dell’ospedale che rientra nell’azienda dei Colli insieme al Mondali e al Cto. “Questo ospedale è un’eccezione nel sud del paese” spiega l’inviato Stuart Ramsay, l’unico dove non ci sono medici e infermieri contagiati. “Mentre il diffondersi dell’epidemia ha colto tutti di sorpresa nel nord e il personale medico si è trovato senza protezioni, le cose in questo ospedale sono andate diversamente. Siamo stati portati, completamente vestiti di tute e occhiali di protezione, in una delle loro Unità Intensive. Qui siamo ad un livello completamente differente rispetto a tutto quanto visto finora”. Sky News spiega come nel “nord Italia in centinaia del personale sanitario si sono ammalati combattendo la pandemia del coronavirus e dozzine hanno perso la vita”. Al sud invece hanno avuto tempo per prepararsi. Il Cotugno, che ora tratta solo pazienti malati di covid-19, “era già il più avanzato, ma adesso ci rendiamo conto che tenere al sicuro il personale sanitario è possibile. Quello che ci dicono è che tutti e nessuno si possono infettare, non solo gli anziani. Ci sono molti giovani pazienti giovani in trattamento ed è interessante notare che i più colpiti sono della classe sociale media. Chiedo perché? La risposta è ovvia: lavorano. Quello che ci preme sottolineare è che le severe regole di separazione tra materiale infetto e pulito vengono seguite da tutti, ma le guardie di sicurezza nei corridoi di connessione lo ricordano in caso qualcuno lo dimentichi”. E poi ancora: “Le guardie di sicurezza sorvegliano i corridoi. Entrando, passiamo sotto un macchinario di disinfezione che sembra lo scanner di un aeroporto, ma che ti pulisce completamente. Lo staff che assiste i pazienti indossa maschere super avanzate simili a maschere antigas diverse da quelle normalmente indossate negli altri ospedali. Sono rivestiti da una tuta ermetica che fa in modo che medici ed infermieri siano davvero isolati. Incredibilmente, almeno per ora, nessun membro dello staff si è infettato, sembra che quindi questo sia possibile, basta avere le giuste forniture e seguire i giusti protocolli”. Protocolli rispettati anche nell’assistere i pazienti: “Avvertiamo un improvviso cambiamento. Un infermiere ci passa disperatamente veloce accanto con una siringa, Un paziente all’interno di una camera è improvvisamente peggiorato. Possiamo vedere che prepara un’iniezione fuori dalla stanza del trattamento. Non entra mai nella stanza ma comunica attraverso una finestra collegata col paziente. Questi non escono mai dalle loro stanze durante la crisi, e questo è uno. Quando è pronta, la medicina passa attraverso una porta a compartimento. Ricordate: non è mai entrato nella camera, non ha toccato niente e nessuno, ma immediatamente si toglie guanti e camice. l’attenzione ai dettagli è costante”.

La napoletana Myrta Merlino: “E’ incredibile, non mi sarei mai aspettata un’eccellenza come il Cotugno” . Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. La conduttrice de “L’aria che tira” su La7 si è lasciata andare a una considerazione infelice sull’eccellenza dell’ospedale Cotugno, rimarcata la scorsa settimana anche da Sky News britannico. Nel corso della trasmissione andata in onda questa mattina, martedì 7 aprile, la Merlino, durante un collegamento con il direttore del giornale Alessandro Sallusti si è lasciata andare a una dichiarazione del genere: “Poi a Napoli… per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli… la storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”. Il solito luogo comune arriva al termine di un discorso sull’impreparazione degli ospedali della Lombardia, messi in ginocchio dal boom di contagi di coronavirus, compresi medici e infermieri. “Il vero tema – ha argomentato la Merlino – è questo: quando il Covid-19 arriva, un ospedale deve avere la capacità di creare una sorta di chiusura ermetica. Questo è mancato in una fase iniziale. E’ anche il motivo per cui a Napoli, invece… Ecco, per me è incredibile: non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli, ma la storia del Cotugno ci ha sorpreso, perché hanno creato una situazione quasi da astronave rispetto all’elemento Covid”.

Pandemia di coronavirus, se le eccellenze le trovi nella sanità del sud. L’equipe del professor Paolo Ascierto (al centro) dell’Istituto Pascale di Napoli, il primo a sperimentare l’efficacia di un farmaco anti-artritico contro il Covid-19. Carlo Porcaro il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Lo storytelling del Coronavirus svela un’Italia rovesciata. Le storie crude, dai reparti Covid degli ospedali, raccontano la caduta contemporanea di due miti: il primato della sanità lombarda, l’inefficienza di quella meridionale. È stato il Sud ad aiutare il Nord, a praticare con i fatti quella solidarietà nazionale tanto auspicata dal Quirinale in questa drammatica emergenza. Tre le ragioni sostanziali di questo capovolgimento destinato a riscrivere gli equilibri geopolitici e le relative narrazioni: il vantaggio di essersi organizzati per tempo in attesa dello tsunami; le straordinarie eccellenze mediche presenti in molte strutture del Mezzogiorno; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. I numeri parlano chiaro, andrebbero forse scanditi ad alta voce: su circa 17mila morti, il Sud isole comprese ne ha fatti registrare 850 vale a dire appena il 5 per cento; i contagiati a livello nazionale sono oltre i 95mila, ma da Roma in giù (insieme a Sicilia e Sardegna) se ne sono contati circa 10mila il che significa poco più del 10 per cento del totale. Il sistema, seppur con meno risorse e mezzi della parte settentrionale del Paese, non solo ha retto ma si è persino distinto. Allungando la mano a chi soffriva ed aveva bisogno di aiuto immediato. Tanti i casi da citare, a dimostrazione che non conta la provenienza geografica quanto la qualità associata alla passione.

IL CASO. In queste settimane la Cross, Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario per il coordinamento dei soccorsi sanitari urgenti, ha attivato la rete tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud. Ieri, per fare un primo esempio, è uscito dalla rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo uno dei due bergamaschi che erano stati trasportati a Palermo in aereo nei giorni scorsi per mancanza dei posti in terapia intensiva al nord; l’altro paziente arrivato dalla città lombarda si trova ricoverato ancora in rianimazione. Poi sono stati estubati e sono in via di guarigione i due pazienti lombardi, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, ricoverati nelle scorse settimane in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro: vi erano arrivati a bordo di un aereo militare atterrato nel vicino aeroporto di Lamezia Terme. Ora sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. “È stato un atto di grande generosità – ha commentato il direttore della struttura Giuseppe Zuccatelli – da parte della Calabria. È ora di smettere di dipingere questa regione in termini negativi”. Non è finita qui. È guarito il primo paziente Covid atterrato in Puglia da Bergamo la notte del 20 marzo scorso a bordo di un aereo C-130J della 46esima Brigata Aerea di Pisa con una barella ad alto biocontenimento: a darne notizia sono stati direttamente i medici dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari), dove l’uomo, 56 anni, era stato ricoverato con una insufficienza respiratoria severa, a seguito della richiesta dell’azienda ospedaliera Giovanni XXIII di Bergamo. Il paziente adesso è stato dichiarato fuori pericolo dopo essere stato sottoposto a due tamponi risultati negativi. In Campania, infine, dall’ospedale di Boscotrecase alle pendici del Vesuvio sono stati dimessi ben 11 pazienti affetti da Coronavirus, alcuni dei quali anziani. A Napoli, la Regione sta facendo costruire con uno stanziamento di oltre 7 milioni di euro un ospedale da campo con 72 nuovi posti di terapia intensiva.

LA POLEMICA. Incredibile. Letteralmente da non credere, la risposta del Sud all’emergenza secondo alcuni giornalisti e opinionisti. Il caso che in queste ore ha fatto indignare riguarda la giornalista napoletana Myrta Merlino su La7. Quest’ultima, in diretta tv si è detta meravigliata (“che sorpresa”, la sua espressione) che l’ospedale Cotugno di Napoli fosse stato un’eccellenza nazionale e internazionale con il suo zero contagiati. Una meraviglia del tutto fuori luogo per chi dovrebbe conoscere in maniera approfondita le caratteristiche di un territorio che, tra mille difficoltà e senza le risorse di altre parti d’Italia, riesce ad esprimere le migliori intelligenze in tanti settori. Poi, una volta tornata a casa, la conduttrice di ‘L’aria che tira’ ha provato a chiarire il suo pensiero. “So benissimo che a Napoli ci sono moltissime eccellenze, ma le eccellenze che abbiamo non cancellano i nostri problemi e non mi va di essere ipocrita. Io però amo Napoli, viva Napoli, è la mia città”. In studio si è scusata, ma il dado era ormai tratto. In una fase in cui si discetta tanto di fake news e corretta informazione, non si dovrebbero cavalcare luoghi comuni né si dovrebbero alimentare pregiudizi evidentemente inconsci. Basterebbe fare la cronaca. Di ritardi ed inefficienze, dove emergono, e di eccellenze e primati dove si palesano. La cronaca di queste settimane, come sopra elencato, ha parlato di una Napoli pronta e di un Sud efficiente. Non si tratta di una questione di appartenenza campanilistica. L’Italia, e la sua opinion-leadership, è decisamente nord-centrica e tende a tutelare gli interessi del Nord. La classe dirigente meridionale, per lo più grillina dopo le elezioni di due anni fa, non sa farsi rispettare a livello centrale ed ha fatto consolidare l’idea di un Meridione piagnone seduto sul divano a godersi il reddito di cittadinanza. Il vento però è cambiato, è nato un variegato movimento di pensiero – va detto, anche grazie ai social – che finalmente respinge al mittente le “scivolate” mediatiche e si libera dalla condizione di colonizzazione mentale. Ognuno faccia la sua parte.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

Report copre Consip e attacca la sanità, ma Napoli esulta per nuovo centro Covid. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Non poteva essere meno opportuno il servizio di Report. La trasmissione di RaiTre, infatti, ha mostrato lunedì sera un servizio in cui ha pesantemente attaccato la sanità campana e in particolare l’Asl Napoli 1 Centro diretta dall’ingegner Ciro Verdoliva. In particolare nel video un anonimo parla addirittura di “omicidio colposo di massa” per il fatto che medici e operatori sanitari non avrebbero mascherine e i cosiddetti DPI. Il servizio prima fa vedere le tende inutilizzate al San Giovanni Bosco (che non è ospedale Covid) e al San Gennaro (che non ha pronto soccorso…) e poi parla di mascherine e DPI che non sarebbero adeguati. Forse i colleghi di Report non sono aggiornati sul fatto che, come sottolineato dal governatore De Luca, “le forniture di Consip sono saltate” per cui la regione sta facendo da se per quel che può in una situazione di emergenza non solo nazionale ma mondiale. Infatti il governatore ha annunciato di aver chiesto 400 ventilatori ma di averne ricevuti solo 41 dalla Protezione Civile (il 10%), mentre il 50% sono stati donati da un privato, Alfredo Romeo (editore di questo giornale ndr). Il giornalista poi si è avventurato negli ospedali ormai chiusi da anni di Napoli e della Campania facendo diventare il servizio la classica inchiesta di Report sugli sprechi che forse in questo momento si poteva anche evitare. Intanto il video di Report è uscito proprio nel momento in cui Napoli è esplosa letteralmente in un tifo da stadio. Infatti negli stessi minuti della messa in onda della trasmissione di RaiTre, all’Ospedale del Mare sono arrivati gli oltre 50 automezzi che trasportavano i moduli per il nuovo centro Covid che l’Asl Napoli 1 Centro sta realizzando a tempo di record. Il tutto per incrementare i posti in terapia intensiva e sub intensiva e costruire i tre monoblocchi per oltre una settantina di posti. Una risposta che più concreta non si può ad accuse strumentali e inopportune nel momento in cui, come sottolineato anche da Giulio Cavalli su queste pagine, “non è il momento delle polemiche ma di salvarci tutti”.

Coronavirus, Palombelli: “Al Nord più diffuso perché ligi al dovere”. Asia Angaroni il 21/03/2020 su Notizie.it. Sono le regioni del Nord Italia a essere più colpite dall'allarme Coronavirus: Barbara Palombelli ha dato una spiegazione, ma molti non hanno gradito. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte: è il Nord Italia a essere più coinvolto dall’emergenza Covid-19. Secondo gli esperti, sono le polveri sottili ad accelerare la diffusione dell’infezione, in particolare nella Pianura Padana. Intervenuta sull’allarme Coronavirus al Nord, Barbara Palombelli ne ha dato una sua interpretazione. In molti, tuttavia, pare non abbiano gradito il suo commento. Spiazzati i cittadini del Sud, che ora fanno appello al marito Francesco Rutelli, affinché prenda le distanze dalle moglie. “Il 90% dei morti è al Nord perché sono tutti ligi e vanno a lavorare”. Con queste parole Barbara Palombelli, nel corso della sua trasmissione Stasera Italia, in onda su Rete 4, ha spiegato qual è per lei il motivo per cui siano più numerosi al Nord Italia i contagi e i morti causati dal Covid-19. Sicuramente la celebre presentatrice, moglie dell’ex sindaco di Roma, si riferiva alla facile trasmissione del virus legata al maggior numero di persone che si muove da una città all’altra. Le cifre, nelle grandi metropoli del Nord, risultano più consistenti. Essendoci più gente che si muove, la rapidità e la facilità del contagio rischiano di salire esponenzialmente. Tuttavia, il Sud non ci sta e attacca: “Non ci sono giustificazioni: è un’infamia“. Per alcuni, simili parole esigevano delle “scuse immediate” da parte della Palombelli. E ancora: “Uno scivolone, anche se intollerabile, può capitare”. Ma a dare l’esempio, secondo il giudizio di alcuni, deve essere il marito Francesco Rutelli. A detta di alcuni, infatti, in nome del suo ruolo istituzionale e del suo passato politico, dovrebbe discostarsi dalle affermazioni della moglie, prendendo le difese del Sud.

Barbara Palombelli, polemica sul coronavirus: "Più morti al nord perché più ligi? E il Sud insorge. Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Barbara Palombelli nel mirino dei social. La conduttrice di Stasera Italia è finita al centro della polemica a causa di una frase sul coronavirus. "Il 90 per cento dei morti è nelle regioni del nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?" ha chiesto la Palombelli ai suoi ospiti nello studio di Rete Quattro. Una frase che ha immediatamente fatto indignare gli utenti del web che si sono scagliati così: "Un esempio di razzismo, in piena emergenza coronavirus. Seconda la Palombelli, il coronavirus ha fatto più morti al Nord perché lì 'sono più ligi e vanno a lavorare'", è uno dei commenti più leggeri che su Twitter si sono susseguiti. Eppure il contesto era totalmente diverso e la frase estrapolata e interpretata in malo modo.

L’assurda tesi anti Sud della Palombelli: “Al Nord più contagiati perché vanno a lavorare”. «Come il 90% dei morti da coronavirus in Italia si è registrato al nord?”. Barbara Palombelli, giornalista e conduttrice del programma d’informazione, ‘Stasera Italia’ (Rete 4), porge la domanda al sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, una delle aree più colpite dal coronavirus. Ma prima di passare la parola al sindaco, Palombelli aggiunge: “Vi sono delle motivazioni particolari? Ci sono delle persone più ligie che vanno sempre a lavorare?”. Redazione de Il Riformista 21 Marzo 2020

Barbara Palombelli nella bufera per battuta sul Sud: «Più casi di coronavirus al Nord perché tutti lavorano?» Il Mattino Sabato 21 Marzo 2020. Barbara Palombelli nella bufera sui social per una domanda sul coronavirus. «È venuto fuori che il 90% dei morti» per coronavirus «è nelle regioni del Nord. Che cosa ci può essere stato di più? Comportamenti di persone più ligie che vanno tutti a lavorare?». Così Barbara Palombelli parlando dell'emergenza coronavirus in Italia durante la trasmissione Stasera Italia su Rete4. La domanda che la conduttrice del programma ha rivolto ai suoi ospiti ha innescato una bufera sui social. «Cara Barbara Palombelli, che brutta caduta di stile. In un momento così difficile per l'Italia intera, lei cosa fa? Squallide insinuazioni»; «Per cotanta bassezza intellettuale provo solo tanta pena»; «Scivolone assurdo di Barbara Palombelli, considerazione spicciola e gretta. Andiamo anche noi terun a lavurà»; «Ma davvero? Ma questa gente non è mai stata a sud di Assago? Ma che credono che noi viviamo sugli alberi? Io non ho parole!!! #barbarapalombelli si vergogni!», sono alcuni dei commenti che si leggono su twitter.

Simioli: "Ascierto l'ha fatta grossa: il vaccino per il Covid-19! Voglio dire una cosa a Gerry Scotti". Francesco Manno il 22 marzo 2020 su areanapoli.it. Gianni Simioli, speaker di Radio Marte e di Rtl 102.5, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social. Lo speaker di Radio Marte e Rtl 102.5, Gianni Simioli, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Facebook. Ecco quanto si legge: "Caro Dott. Gerry Scotti, di seguito le giro le ultimissime sulla cura Ascierto. E’ lo stesso Ascierto che lei ha deriso e ridicolizzato a Striscia la notizia: si deve vergognare! Lo so, poi ha spiegato a una radio locale che lei legge un copione e che la “colpa” del suo “errore di valutazione“ è tutta da addebitare a chi scrive i testi del programma. Ma lei veramente pensa che siamo i meridionali napoletani che le ha raccontato qualcuno? Signor Gerry Scotti io non sono nessuno, non valgo ciò che vale lei per le aziende del sud che la pagano, spero profumatamente, per dire che è buonissimo questo o quel prodotto di Napoli o del meridione d’Italia (pur di conquistare i mercati del nord), eppure sono in grado di rifiutarmi di leggere una promozione che trovo distante kilometri dalla mia etica, filosofia o sentimento di vita". Gianni Simioli ha poi aggiunto: "È arrivata un’altra notizia da accogliere con ottimismo e un orgoglioso sorriso. Mentre la penisola si divide tra i runner che non rinunciano alla corsetta e la Palombelli che non si da ragione delle basse percentuali di contagio al Sud, qui, a Napoli, c’è un pazzo visionario, spinto da un’intera regione, che non si ferma. Si, sempre Lui, il Dottor Ascierto. Questa volta ha deciso di farla grossa: il vaccino per il Covid19! È di queste ore una sua intervista, registrata ai microfoni di SKY, nella quale è riassunta una speranza di tutto il paese. Il Dottore ha infatti dichiarato: “La Takis è un’azienda che lavora con noi per dei vaccini su alcuni melanoma che studiamo. In collaborazione con il Pascale e il Cotugno sperimenteranno anche un vaccino per il Coronavirus. Proprio qui al Cotugno, e questa è certamente una buona notizia. Non sarà una cosa di domani ma l’impressione è che con cauto ottimismo e lavoro ce la faremo, noi andiamo avanti”. Questa è la risposta di Napoli e di Ascierto a giorni di mala stampa e fake news su di Lui e sulla sanità campana. Questa è la risposta che unirà l’Italia di coloro che da Nord a Sud lottano e sperano di festeggiare presto, insieme, l’uscita dal periodo più buio della nostra storia. E ci arriveremo, credetemi. Non so quando ma così sarà. E sarà una grande festa per tutti. Anche per Striscia la Notizia, Barbara Palombelli e ilFatto Quotidiano. Si, esatto, perché noi siamo l’Italia che lotta, vince, ama ed include tutti. Anche chi non lo meriterebbe".

Luca Marconi per corriere.it il 22 marzo 2020. «Diffamazione aggravata», per un servizio televisivo «gravemente lesivo» nei confronti del direttore della Struttura complessa Melanoma e Terapie intensive del Pascale di Napoli, Paolo Ascierto, il «promotore» dello studio Aifa , l’Agenzia italiana del farmaco, sul Tocilizumab, il farmaco per le complicanze da artrite reumatoide che agisce anche sulle polmoniti da covid-19, liberando quota parte delle terapie intensive di cui oggi si ha tanto bisogno: è quel che contestano i vertici dell’istituto Pascale a Striscia la Notizia, intervenuta a suo modo per raccontare l’attacco polemico subìto da Ascierto a “Carta Bianca”, da parte dell’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Nel servizio ancora online Striscia riprende l’intervento di Galli, ma affidandosi ai commenti di Gerry Scotti («il professore Galli ha scoperto che l’alunno Ascierto ha copiato») per poi recuperare un vecchio meme con un incolpevole Emilio Fede che conclude: «Che figura ...». Ma ecco il comunicato del Pascale: «Con riferimento al programma televisivo “Striscia la notizia” del 17 marzo 2020, nel corso del quale è andato in onda un servizio che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto avvenuto tra il prof. Paolo Ascierto del Pascale di Napoli e il prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, si precisa quanto segue: l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto esprimono innanzitutto la più viva gratitudine verso tutti coloro che in questi giorni hanno manifestato la loro solidarietà e vicinanza nei confronti al prof. Ascierto». «Ritengono il servizio di “Striscia la notizia”, montato ad arte, gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi. Per tali motivi, la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto hanno dato mandato all’avv. prof. Andrea R. Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del conduttore della trasmissione, di quanti hanno curato il servizio e del Direttore Responsabile».

Dal profilo Facebook di Barbara Palombelli il 23 marzo 2020: Venerdì sera, si parlava dei bergamaschi e del loro senso del dovere e del lavoro... di andare a lavorare anche con la febbre. Con il sindaco Gori e gli ospiti in collegamento ci si chiedeva come mai proprio Bergamo fosse la città martire, se le aziende aperte fossero state, insieme alla partita giocata col Valencia, responsabili di questo dramma... qualcuno ha capito male e ha montato una immaginaria tempesta... non è il momento delle polemiche, non risponderò a nessuno.

Da liberoquotidiano.it il 23 marzo 2020. Barbara Palombelli  con un post duro su Facebook annuncia che passerà alle vie legali. Tutto parte dalla sua trasmissione, Stasera Italia in onda tutte le sere su Retequattro, in collegamento con diversi ospiti tra cui il sindaco di Bergamo Giorgio Gori,  commentando la drammatica situazione della città bergamasca, piegata dal Coronavirus, la giornalista specificava: “Il 90% dei morti è nelle regioni del Nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?. Considerazione che ha causato una pioggia di insulti e critiche. “La libertà di opinione è sacra. La diffamazione via web è un reato. Tutti i post e gli autori contenenti ingiurie, calunnie e diffamazioni vengono e verranno identificati e chiamati a rispondere in sede civile di quanto hanno scritto“. Così la moglie di Francesco Rutelli sul suo profilo Facebook. “I miei avvocati sono al lavoro. Estrapolare una frase da un contesto in cui si parlava esclusivamente della tragedia di Bergamo, travisandone il contenuto, è un’operazione scorretta. Di tutto il resto si occuperanno polizia postale, magistratura e avvocati.” 

 “Ascierto non ha saputo replicare a Galli”, niente scuse di Striscia la Notizia. Redazione de Il Riformista il 22 Marzo 2020. Niente scuse e nessun passo indietro da parte di “Striscia la Notizia” dopo la querela presentata dall’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal professor Paolo Ascierto in seguito al servizio andato in onda la scorso 17 marzo che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra l’oncologo campano e il profersso Massimo Galli, dell’Istituto Sacco di Milano. La trasmissione di Canale 5 in una nota fornisce alcune precisazioni sul tipo di servizio andato in onda, dove accusava Ascierto di aver “copiato” il trattamento del farmaco anti-artrite Tocilizumab dai cinesi accusandolo di una “pessima figura”. “In merito alla notizia della querela presentata dalla Direzione dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal prof. Paolo Ascierto nei confronti di Striscia la notizia, vogliamo precisare, come già specificato nei giorni scorsi, che non era nostra intenzione entrare nel merito del curriculum e della storia professionale dei due esperti. Né, a maggior ragione, valutare i protocolli sanitari in atto per attribuire il primato della scoperta a uno o all’altro o a nessuno dei due. Il nostro servizio si è semplicemente limitato a riproporre il confronto televisivo tra i due medici, andato in onda nel programma di Bianca Berlinguer, durante il quale il dottor Ascierto non è stato in grado di controbattere in modo efficace alle contestazioni del professor Galli. La missione di Striscia la notizia è da sempre quella di fare satira televisiva ed è quello che continuerà a fare. Cogliamo l’occasione per ringraziare medici, infermieri, operatori sanitari e tutte le figure coinvolte per lo straordinario lavoro che stanno svolgendo”. La controparte ha invece ritenuto il servizio” montato ad arte e gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi”.

Perchè Striscia la Notizia dimentica le parole di Galli e si accanisce con Ascierto? Data cruciale.... Il noto giornale satirico dovrebbe ricordare le parole del famoso infettivologo dell'ospedale "Sacco" di Milano: una previsione totalmente sbagliata.  Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 marzo 2020. E' di oggi la notizia che la Direzione generale dell'Istituto nazionale tumori Irccs Fondazione Pascale e il professor Paolo Ascierto hanno dato mandato all'avvocato Andrea Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del direttore responsabile e del conduttore di Striscia la Notizia e di quanti hanno curato il servizio trasmesso il 17 marzo che ha richiamato la trasmissione "Carta Bianca" di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra Ascierto e il professor Massimo Galli sul tema della sperimentazione del farmaco Tocilizumab su pazienti affetti da coronavirus. L'Istituto Pascale e il professor Ascierto "ritengono il servizio su richiamato di Striscia la notizia, montato ad arte, gravemente lesivo dell'onore e della reputazione di Paolo Ascierto e dell'Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi". Al di là di ogni possibile polemica e satira, una domanda sorge spontanea senza alcun tono polemico: perchè Striscia la Notizia che definisce "figuraccia" quella del Prof. Ascierto (ovviamente in maniera forzata e del tutto fuori luogo anche se è un giornale satirico), non va a ripescare le parole del Prof. Galli? Quali? C'è una data cruciale, ovvero il giorno 10 febbraio. Quel giorno, in un convegno Medico a Milano, il noto infettivologo dichiarò: "In Cina è in netta crescita per quanto riguarda la zona di Wuhan, anche se negli ultimi due giorni l’incremento è stato proporzionalmente inferiore rispetto ai giorni precedenti. Quindi dobbiamo attendere una o due settimane per capire dove si andrà a parare e sarà molto importante considerare le epidemie satelliti, ovvero la presenza del virus in altre grandi aree urbane della Cina. Rispetto a quanto ci si poteva attendere, la diffusione a livello internazionale di questo virus è stata molto inferiore rispetto a quanto è capitato ad esempio per la SARS nel 2003. Questo vuol dire che le misure di limitazione dei viaggi  assunte abbastanza presto hanno consentito di contenere il fenomeno e questo vale soprattutto per il nostro Paese dove abbiamo solo tre casi importati. Si tratta – ha proseguito – di due cittadini cinesi e uno italiano, persone che si sono infettate poco prima di partire dalla Cina e da Wuhan nel caso specifico. La malattia da noi difficilmente potrà diffondersi: l’esiguità del numero dei casi riscontrati fino ad ora e la modalità con cui si sono manifestati in persone che si sono infettate poco prima di partire da Wuhan, ci dà la dimensione del contenimento complessivo della problematica". Forse è più questa una brutta figura? Forse... Del resto, errare è umano. Restiamo umani.

Striscia la Notizia nei guai: la fake news su Reggio Calabria. Linda l'01/04/2020 su Notizie.it. Striscia la Notizia smentita dall'ospedale di Reggio Calabria: la fake news denunciata dalla struttura sanitaria. Tutti sono ormai a conoscenza del grande gesto compiuto da Fedez e Chiara Ferragni nel raccogliere fondi per il San Raffaele di Milano. La loro iniziativa ha del resto spinto molte persone ad aprire altre sottoscrizioni destinate a diverse strutture ospedaliere di tutta Italia. Proprio in questo frangente anche Striscia la Notizia ha voluto realizzare un servizio per aiutare gli italiani a scegliere delle campagne solidali serie e che non siano delle truffe. Prima di fare la propria donazione, ognuno deve quindi assicurarsi che l’attività sia svolta su siti web ufficiali e confermati. In tale contesto, anche l’ospedale di Reggio Calabria ha deciso di aprire una campagna solidale sul sito GoFundMe. Tuttavia qualche giorno fa Striscia la Notizia ha fatto notare al suo pubblico come sulla piattaforma non risultasse ancora tale struttura nell’accettazione della campagna. Il tg satirico di Antonio Ricci ha invece precisato come il San Raffaele di Milano abbia dato la propria autorizzazione. Stando dunque al programma di Canale 5, il rischio era che il denaro raccolto potesse finire sul conto corretto del soggetto creatore della campagna e non all’ospedale vero e proprio. La replica non è tuttavia tardata ad arrivare. La notizia è stata infatti smentita direttamente dei colleghi del tg satirico di Mediaset. Nelle ultime ore il GOM ha di fatto firmato una delibera con cui ha autorizzato ufficialmente la donazione della raccolta fondi dei cittadini calabresi. È stato infine messo in chiaro come nel servizio di Striscia la Notizia sia stata data sostanzialmente una fake news.

Enrico Mentana, un "anche" di troppo? Criticato da alcuni napoletani, replica: "Ridicoli piagnoni, imparate l'italiano". Libero Quotidiano il 02 aprile 2020. Enrico Mentana nella bufera. A far discutere è un post pubblicato dal direttore del Tg La7 sul suo profilo Facebook. Qui il giornalista condivide un articolo dal titolo: “Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta al coronavirus: il Cotugno”. A rimarcare il pezzo, il suo commento: "A Napoli c’è anche un’eccellenza“. E così, per l'"anche", è stato preso di mira da non pochi utenti: sono più di 9mila i commenti lasciati e ai quali Mentana non evita di rispondere. “Ridicoli piagnoni che vi attaccate a un semplice anche, imparate l’italiano - scrive -. Amo Napoli più di voi evidentemente”. Una frase che ha gettato benzina sul fuoco, alimentando ancora di più la polemica in corso: "'Anche', è proprio più forte di voi. Intanto qui nessuno ci pensa e l'eccellente personale sanitario fa i salti mortali per assistere con i pochissimi mezzi messi a disposizione chi ha la "fortuna" di poter essere curato. L'eccellenza qui c'è sempre!" scrive una ragazza mentre qualcuno le fa eco: " ... “anche”...Non cambierà mai. E non parlo di lei, direttore. Ma della discriminazione generale verso il Sud. Insomma, tutti contro Mentana.

Per i media inglesi il Cotugno è un modello per l’Italia. Per Mentana: “A Napoli c’è anche un’eccellenza”. Da Chiara Di Tommaso l'1 aprile 2020 su Vesuvio Live. Il Cotugno di Napoli è un’ospedale modello per tutta l’Italia, una mosca bianca. A dirlo è un servizio, ricco di elogi, fatto da Skynews, una delle fonti più autorevoli nel campo dell’informazione. Sotto la lente di ingrandimento finisce un dato significativo: quello dei medici e infermieri che non sono stati contagiati dal coronavirus nell’Ospedale napoletano. Un dato in controtendenza rispetto a quello di tutta Italia dove si registrano oltre 8 mila contagi nel personale sanitario. Ma in un articolo di Open, questa notizia viene leggermente cambiata. Come? Semplicemente nel titolo:

“Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta contro il Coronavirus: il Cotugno”.

Il ma a inizio frase indica un certo atteggiamento avversativo a una notizia che è invece solo positiva. Una scelta ben precisa perché come sostiene la Treccani, “Il caso più noto e studiato è quello del ma che, oltre a essere usato come congiunzione coordinativa con valore avversativo, ha una serie di usi pragmatici, che segnalano cioè un atteggiamento del parlante rispetto all’enunciato stesso o all’enunciazione. In questi casi il ma è solitamente collocato in apertura di frase. Un primo esempio è rappresentato da frasi esclamative abrupte in cui il ma segnala la contrarietà del parlante (ma tu guarda!, ma bravo!, ma no!). Il ma può essere inoltre usato a inizio di frase con un valore parafrasabile all’incirca come «nonostante sia vero quanto detto (o presupposto) finora, più importante ancora è quello che segue …». Lo si incontra nello scritto dopo una pausa forte (marcata da un punto o punto e virgola) o a inizio assoluto di testo, per segnare il passaggio ad altro argomento o per rinviare enfaticamente a un argomento noto”.

Peccato che l’intero articolo racconti solo dell’elogio di Sky News al Cotugno e manchi del tutto il riferimento a un altro argomento, appunto avversartivo. Resta quindi un titolo fuorviante che genera solo commenti negativi. Anche il fondatore di Open, Enrico Mentana, posta questa notizia sul suo profilo Facebook riportando, in parte, il titolo dell’articolo.

“A Napoli c’è anche un’eccellenza”

Qui è la parola ‘anche’ ad aver suscitato più di una reazione nei lettori. In tantissimi infatti sotto al post criticano la scelta del giornalista di aver usato quella congiunzione.

Scrive Raffaele: “Che significa “a Napoli c’ è anche un eccellenza”? lo ritengo abbastanza offensivo da un professionista come lei. Ha perso tutta la mia stima”.

Mentre Tiziana commenta: “L”anche” poteva essere evitato… mettendolo sta affermando che il resto non è eccellenza o, addirittura, induce a pensare che il resto è al di sotto dei livelli standard (per non dire, alla napoletana, il resto è munnezz)”.

Ma c’è anche chi pensa che questa sia stata solo una mossa per ottenere più like, come Paolo che scrive: “Quell’ “anche” è molto triste, so che l’ha messo per far sollevare un ennesima polemica, ma offende tanti che in questo momento, fuuri dal Cotugno, si stanno facendo in quattro contro il Virus. Rettifichi il titolo, non approfitti di questo momento di grande emotività per racimolare qualche commento o like in più”.

La gaffe l'inviata di Agorà: "Non siamo fortunati, non c'è nessuno". Delusione per l'inviata Rai a Napoli per testimoniare il rispetto del decreto coronavirus: voleva documentare le violazioni ma la strada è deserta. Le sue parole scatenano l'indignazione sui social. Paola Francioni, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Da oltre un mese la televisione italiana è diventata quasi monotematica. L'argomento principale, trattato in ogni sua sfaccettatura, è il coronavirus. Difficilmente potrebbe essere diversamente, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale che sta facendo decine di migliaia di morti. I programmi televisivi delle reti nazionali si occupano prevalentemente di questo: sono stati soppressi momentaneamente tutti gli spazi di intrattenimento, relegati nella maggior parte dei casi a repliche di programmi già editi. Gli editori hanno preferito mettere momentaneamente da parte l'attualità leggera per concentrare le energie sul racconto del coronavirus. In questa spasmodica caccia alla notizia si è inserito anche Agorà, che negli ultimi giorni sta facendo discutere animatamente la rete. Il programma di informazione che va in onda al mattino su Rai3 è spesso elogiato la qualità del suo lavoro e dei suoi servizi ma in queste giornate così complesse i social hanno qualcosa da ridire sulle modalità con le quali la trasmissione ha deciso di informare. La polemica più accesa è scoppiata oggi e la protagonista è un'inviata del programma in collegamento da Napoli. La città Partenopea è spesso presa come esempio della scarsa attitudine degli italiani di rispettare le regole imposte dal governo. In un momento in cui si chiede il massimo rispetto delle distanze di sicurezza e in cui si chiede ai cittadini di limitare le loro uscire per contenere il contagio da coronavirus, sono molte le testimonianze contrarie che giungono da Napoli. In rete girano i video delle strade brulicanti di pedoni e di auto, sui social rimbalzano le immagini provenienti da ogni angolo della città che vorrebbero documentare una sorta di "allergia" alle regole da parte del sud. Forse in quest'ottica voleva inserirsi il servizio di Agorà di questa mattina, quando l'inviata si è recata in una delle principali arterie commerciali di Napoli per riprendere e testimoniare con la sua viva voce l'elevata circolazione dei mezzi nella città campana. Eppure, alle 8.37, alle sue spalle non circolavano che pochissime auto, nulla a che vedere con i racconti che provengono dalla città campana. "Io ti voglio far vedere quest'immagine. Noi siamo in una zona che sarebbe pedonale, siamo qui da circa mezz'ora. C'è in realtà un passaggio di auto abbastanza numerose, abbiamo visto furgoncini", racconta la giornalista ma, alle sue spalle, si vedono pochissime auto in transito. A quel punto, l'inviata pronuncia una frase che ha fatto indignare ben più di qualche telespettatore: "Non siamo fortunati in realtà, in questo momento si stanno comportando... Non c'è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c'era un passaggio intenso." Il fatto che la giornalista consideri una circostanza sfortunata quella di non poter rilevare con le telecamere un elevato passaggio veicolare, sinonimo di possibile trasgressione del decreto contro il coronavirus, sarebbe una circostanza sfortunata. Non la pensano così i napoletani, che sui social hanno fatto sentire la loro voce: "Ore 8.30, la giornalista in diretta dice che a Napoli c'è troppa gente per strada ma la telecamera inquadra una via Scarlatti deserta. Lei: 'Non siamo stati fortunati, fino a pochi minuti fa qui c'era un traffico intenso'... Come fate a non vergognarvi?", "Mi spiace non se ne parli, ma nel mio piccolo vorrei sottolineare quanto in basso stia scavando #agorai: l'inviata, in barba a ogni regola di distanziamento, tocca l'ospite; 'Non siamo fortunati, i napoletani si stanno comportando bene'. Mi vergogno per loro." Questi sono solo alcuni dei commenti che si trovano su Twitter, dove per altro si fa anche notare come l'inviata, trasgredendo una delle regole base imposte dal decreto contro il coronavirus, mette una mano sulla spalla di un suo ospite e non rispetta il distanziamento sociale. Solo poche ore fa il programma era stato criticato per aver mandato in onda un concitato inseguimento a un anziano runner con un drone della polizia, utilizzando come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie.

“A Napoli traffico intenso”: in strada non c’è nessuno e la giornalista tocca l’uomo. Da Francesco Pipitone il 15 Aprile 2020 su VesuvioLive. Questa mattina è andata in onda, come al solito, il programma di informazione Agorà in onda su Rai Tre. In collegamento da via Luca Giordano al Vomero c’era la giornalista Elena Biggioggero, che ha intervistato Luigi Sparano, segretario della sezione napoletana della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale. In realtà la Biggioggero fa domande molto interessanti a Sparano, il quale mette in luce problematiche estremamente importanti per quanto riguarda la gestione del pericolo della diffusione del contagio da coronavirus. Napoli, viene evidenziato, è una città in cui ci sono molti nuclei familiari numerosi, dunque il contagio avviene spesso tra le mura domestiche. Situazione che si fa più grave nei quartieri più popolari, dove le esigenze economiche spingono alla convivenza tra più persone, in particolar modo con gli anziani. Il problema sorge quando la conduttrice, Serena Bortone, si collega alle polemiche dei giorni scorsi sulla presunta eccessiva presenza di persone in strada domandando ad Elena Biggioggero se fosse vero o meno: “Siccome sono state fatte un po’ di polemiche – Napoli vuota, strade occupate eccetera – da testimone – per altro tu sei milanese, per questo hai uno sguardo nordico sul nostro amato Sud… non toccarlo, non vi avvicinate… – voglio sapere se Napoli è vuota oppure no, se si rispettano le regole oppure no”. A quel punto la giornalista fa girare il cameraman per fargli inquadrare la strada, che però in quel momento è vuota: “Guarda Serena, io ti voglio far vedere questa immagine. Noi stiamo in una zona che sarebbe pedonale. Siamo qua da circa una mezz’ora. C’è un passaggio di auto, insomma, abbastanza numerose; abbiamo visto furgoncini, sarebbe una zona commerciale in cui il commercio è interrotto perché i negozi sono chiusi. Ecco, non siamo fortunati in realtà perché in questo momento non c’è nessuno ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso”. Serena Bortone replica: “No perché ieri ci siamo sentiti con Elena e mi ha detto che Napoli era deserta. Quindi se poi qualcuno si sposta, insomma…”. In realtà via Luca Giordano è sì pedonale, ma soltanto in parte, come sa bene qualsiasi napoletano. Elena Biggioggero ha dunque fornito un’informazione sostanzialmente sbagliata, poiché fa intendere che nonostante la pedonalizzazione ci sia un passaggio intenso di auto. Secondo, quando la giornalista fa inquadrare la strada, viene ripresa la parte dove le auto possono passare e se ne vede transitare soltanto una, poi un autobus. Durante il collegamento furgoncini non se ne vedono, soltanto un mezzo dell’Asia per la raccolta dei rifiuti, e tra l’altro se anche fossero passati dei furgoncini molto probabilmente poteva trattarsi di lavoratori che consegnavano merci, chissà. Giornalisticamente l’informazione che ha dato è irrilevante poiché nulla faceva intendere una illiceità del passaggio – presunto – dei furgoncini. Ma la parte “migliore” l’abbiamo vista quando la Biggioggero ha messo la mano sulla spalla del dottor Sparano passandogli molto vicino, sfiorandolo addirittura, ed entrambi non avevano la mascherina posizionata sul volto. Serena Bertone infatti l’ha avvertita: “…non toccarlo, non vi avvicinate…”.

Ennesima figuraccia Rai. Napoli Est applaude la polizia, Tg1 vergogna: “Ma da voi non è ben accetta”. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Sorprendersi perché i residenti del Bronx di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli, applaudono la polizia intervenuta con mezzi speciali per sanificare le strade durante l’emergenza coronavirus. La Rai ci ricasca ancora e a pochi giorni dall’inviata della trasmissione Agorà, che dal nord è stata spedita a Napoli per dichiarare in diretta televisiva di essere stata sfortunata a non beccare auto o persone in strada, porta a casa un’altra figuraccia con un servizio andato in onda venerdì sera, 17 aprile, al Tg1. “Qua di solito la polizia non è ben accetta” chiede il giornalista a un residente del Bronx dopo aver ripreso l’accoglienza calorosa riservata dagli abitanti delle case popolari omaggiate qualche anno fa da due dipinti dello street artist Jorit. Un pregiudizio gratuito che resta tale a prescindere nella concezione di chi viene spedito a raccontare quello che accade nel capoluogo partenopeo senza conoscere a fondo la realtà stessa che dovrebbe documentare. Per l’opinione pubblica nel Bronx c’è solo la camorra, così come a Scampia, nel Rione Traiano, nel rione Conocal a Ponticelli o nel centro storico a Forcella. Tutte le persone oneste che vi abitano sono destinate a portarsi dietro questa etichetta e a finire, in chiave negativa, in un servizio del Tg1 nonostante gli applausi alla polizia.

·         A chi credere. Il Sud Italia ti accorcia o ti allunga la vita?

Il tempo scorre a ritmi irregolari. E in montagna si invecchia prima. Il tempo accelera a mano a mano che ci si allontana da un oggetto con grande massa. Per questo in cima a un monte, quando si è più lontani dal centro della terra, gli orologi corrono più velocemente. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Di una cosa siamo certi: in montagna si invecchia più che al mare. E questo nonostante si dica che la salsedine e il sole rovinino la pelle, mentre l’aria fresca faccia bene. Si invecchia più velocemente sui monti perché lì il tempo scorre più velocemente che al mare. E non perché in vetta ci si diverta di più, ma perché gli orologi, tutti gli orologi, ticchettano più velocemente. Come possiamo essere certi di un fatto così strabiliante e apparentemente contrario alla nostra intuizione? Un’intuizione vecchia cent’anni di un certo Albert Einstein aprì una straordinaria rivoluzione nella scienza e nel pensiero in generale. Contraddicendo nientepopodimeno che Newton, Einstein capì che il tempo non è qualcosa di assoluto e che gli orologi non battono tutti alla stessa velocità. Lo capì già quando presentò al mondo la teoria della relatività ristretta: se mi muovo il mio orologio va più veloce rispetto allo stesso se rimanessi fermo. Incredibile. Un decennio più tardi, con la teoria della relatività generale, aggiunse che il tempo rallenta a mano a mano che ci si avvicina ad un oggetto con grande massa: maggiore è l’attrazione gravitazionale subita, più lento scorre il tempo. Ecco spiegato allora perché ad una altitudine elevata il tempo scorre più velocemente che al livello del mare: in montagna sono più lontano dal centro della Terra, sento meno la sua attrazione gravitazionale, quindi l’orologio corre più rapidamente. E io invecchio prima. Per quanto eleganti, geniali e risolutive fossero le sue teorie, anche Einstein ha fatto errori nella carriera di fisico più famoso di tutti i tempi e dunque la sua parola non è abbastanza per essere sicuri di fatti così controintuitivi. Nel 1971 un fisico ed un astronomo presero quindi alcuni orologi tra i più precisi dell’epoca, orologi atomici grandi quanto comodini. Ne lasciarono alcuni a Washington, mentre altri li portarono come bagagli (un po’ ingombranti) su aerei di linea con i quali fecero il giro del Mondo, una volta verso Est e una volta verso Ovest. Quando, tornati a Washington, confrontarono gli orologi viaggiatori con quelli casalinghi, trovarono che i primi indicavano un tempo maggiore dei secondi. Non erano più sincronizzati. E la differenza era in accordo con quanto predetto da Einstein: quando ci si muove veloci, o se si va in montagna, il tempo scorre più velocemente. Nei 50 anni successivi, esperimenti del genere sono stati ripetuti e confermati diverse volte. Con la precisione raggiunta dagli orologi attuali, che tra l’altro non sono più grandi come comodini, possiamo misurare sperimentalmente la differenza dello scorrere del tempo tra orologi distanti poche decine di centimetri l’uno dall’altro! In altre parole, sappiamo determinare sperimentalmente quanto i vostri capelli siano più vecchi dei vostri piedi. Ovviamente di poco, molto poco, un nanosecondo ogni anno, quindi non è una buona idea vivere facendo la verticale per mantenere la mente giovane. Sono differenze delle quali non possiamo renderci conto. Ma se l’uomo riuscisse a distinguere differenze di tempo così piccole, come percepirebbe lo scorrere diverso del tempo? Per semplicità, immaginiamo di riuscire a distinguere differenze di tempo di un diecimilionesimo di secondo ogni anno (mille volte più del nanosecondo del paragrafo precedente). Questo non basterebbe a distinguere la differenza tra testa e piedi, ma sarebbe sufficiente per distinguere per esempio quella che c’è tra le pendici e la cima del Monte Bianco (quasi 5 Km di dislivello). Alleniamoci a dovere e cominciamo a scalare la cima, tenendo al polso il nostro nuovissimo orologio atomico. Cosa succederebbe? Sentiremmo il ticchettio piano piano accelerare? La risposta è negativa. L’orologio non è altro che lo strumento di misura del tempo. E se il tempo cambia il ritmo via via che saliamo il Monte Bianco, anche la nostra percezione del ticchettio dell’orologio cambia con esso. Questo vale anche per i processi fisici come l’invecchiamento o il pensiero: per noi non cambierebbe nulla. Ci sembrerebbe come se tutto stesse continuando allo stesso ritmo. Solo una volta tornati a valle dopo aver raggiunto la vetta ci accorgeremmo che qualcosa è cambiato. Confrontando il nostro orologio con quello del barista con cui avevamo parlato prima di partire, scopriremmo che il nostro tempo è scivolato via più velocemente che al bar. E ci accorgeremmo di essere invecchiati un po’ di più di lui. In tutti gli esperimenti che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti, infatti, gli orologi in gioco sono stati sincronizzati insieme nello stesso posto, portati in posti diversi o a velocità diverse, e poi riportati insieme per essere confrontati. Con l'introduzione della Relatività Generale, il tempo perde i connotati di assolutezza che aveva assunto con le idee newtoniane. L'Universo non balla tutto sullo stesso ritmo cadenzato e preciso. Ogni punto dello spazio e ogni momento ha il suo scorrere del tempo che è mutevole, cambia in maniera intimamente legata all'interazione gravitazionale di quel punto in quel momento. Con esso danzano a ritmi diversi le stelle, i buchi neri e noi stessi.

Napoli. Ascierto primo oncologo del mondo, il Pascale miglior centro sul melanoma. Redazione su Il Riformista il 7 Settembre 2020. E’ Napoli, con l’Istituto dei tumori Pascale, il primo centro internazionale per la lotta al melanoma. A dirlo è la classifica stilata dal sito americano Expertscape.com che mette al primo posto nel mondo, su 65mila esperti, Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto dei tumori partenopeo. Il Covid gli ha dato sicuramente una popolarità inaspettata. La felice intuizione di usare un farmaco anti artrite per curare le complicanze della polmonite da coronavirus gli è valsa la fama mediatica. Paolo Ascierto, tuttavia, è un oncologo di caratura mondiale. Già cavaliere e commendatore della Repubblica da diversi anni, il suo nome figura nei maggiori board internazionali. Nessuna sorpresa, dunque, dinanzi alla notizia che lo vede sul podio mondiale degli oncologi per la cura del melanoma. L’analisi di Expertscape, ideata dai ricercatori della Università della North Carolina, si basa sulla produzione scientifica dei clinici nei vari settori della medicina, tenendo in considerazione soprattutto le pubblicazioni dell’ultimo decennio, valutando la qualità della rivista e la posizione come autore nell’articolo. Ascierto ha un Impact Factor e un H-Index, i due parametri utilizzati per “misurare” la produzione scientifica, molto alti, pari rispettivamente a oltre 3500 e 68. E a proposito di squadra molto valida, nella classifica nazionale di Expertscape, non a caso figurano ai primi posti, due suoi collaboratori: Ester Simeone e Antonio Grimaldi. Il ricercatore napoletano è, inoltre, componente dei gruppi di lavoro che stilano le linee guida di ASCO (American Society of Clinical Oncology) ed ESMO (European Society of Clinical Oncolgy) sul melanoma ed è coordinatore delle linee guida su questa neoplasia di AIOM (Associazione italiana di oncologia medica). “Nell’ultimo decennio – dice il direttore scientifico del polo oncologico, Gerardo Botti – al Pascale sono state condotte più di 120 sperimentazioni sul melanoma, per un totale di oltre 3.500 pazienti coinvolti – Un Istituto che conferma il suo ruolo di leader internazionale coinvolto nelle principali sperimentazioni cliniche e traslazionali, nonché nella definizione delle più importanti linee guida nel settore”. Inevitabile la soddisfazione anche del direttore generale dell’Irccs partenopeo, Attilio Bianchi.

Carla Massi per "Il Messaggero"  il 4 agosto 2020. «Chi nasce in Campania e in Sicilia ha una speranza di vita alla nascita fino a quattro anni inferiore rispetto a chi nasce in Trentino o nelle Marche». Poche parole ma chiare quelle di Walter Ricciardi docente di Igiene all'università Cattolica di Roma e Direttore dell'Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni. Parole che disegnano una situazione nella quale si intrecciano fattori economici, sociali, utilizzo delle risorse e salute pubblica. E che, in tempi non troppo lontani, potrebbe diventare ancora più fragile e disequilibrata rispetto al resto del Paese. Anche questo versante della diseguaglianza all'interno del Paese è sottolineato dai 29 promotori del manifesto Ricostruire l'Italia.

Con il Sud. Mentre le malattie e i fattori di rischio rendono più o meno omogenea l'Italia, le disponibilità per prevenzione e cura segnano i confini e penalizzano le Regioni che devono combattere con i piani di rientro. Tanto che, tra gli addetti ai lavori, i vincoli di bilancio e gli abbattimenti del deficit sono diventati penalizzanti per la salute pubblica come lo sono il fumo, l'alcol e l'obesità. Nell'ultimo Rapporto Istat viene, inoltre, focalizzato un punto che regala un'ulteriore chiave di lettura sul rapporto fondi sanitari e condizioni della popolazione: «Le percezioni soggettive peggiori delle proprie condizioni - si legge - sono prevalenti fra i residenti delle regioni del Mezzogiorno, in particolare Calabria e Sicilia, mentre in Trentino e in Toscana si concentrano quelle migliori. Anche in questo caso le Regioni con i più diffusi problemi di salute rientrano tra quelle sottoposte a piani di rientro e si posizionano, con l'eccezione del Lazio, nelle ultime posizioni della graduatoria». L'analisi dell'Istat avanza anche l'ipotesi, solo qualche anno fa neppure adombrata, che lo svantaggio delle Regioni con difficoltà economiche non abbia nulla a che fare con la cronicità e la sopravvivenza. Anche se è indubbio che «gli interventi messi in campo per ridurre il deficit, nel medio e lungo termine, limitano la capacità di assistere la popolazione in maniera adeguata». La speranza potrebbe venire, anche se il Sud già protesta, dal Patto della Salute 2019-2021 che ha ridefinito il nuovo livello del fabbisogno sanitario fissando il Fondo a 116.474 milioni di euro per il 2020 e 117.974 milioni di euro per il 2021. I dati del finanziamento effettivo della spesa sanitaria fotografano però impietosamente l'attuale divario: in valori pro capite si va dai circa 2 mila euro (o oltre) delle Regioni del Nord ai 1.783 della Campania e ai 1.705 della Calabria.

LA VERIFICA. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea (Livelli essenziali di assistenza), che entra in vigore da quest' anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l'efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea del ministero della Salute solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse.

Le bocciate sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo report sul coordinamento della Finanza pubblica. Superare il giudizio del Comitato Lea è decisivo: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie. Per gli analisti sanitari il definanziamento al Sud e, spesso, l'uso errato delle risorse porta a spiegare l'abissale differenza, per esempio nelle cure e nell'assistenza, che rivelano i tassi di alcune malattie. Una per tutte, il tumore. «Sono ancora troppe le differenze nel nostro territorio - denuncia Giordano Beretta presidente dell'Associazione oncologi medici - dall'adesione alle cure alle coperture degli screening. Nelle Regioni cosiddette virtuose si può contare sulla disponibilità di nuove terapie efficaci o di test in grado di analizzare il profilo molecolare del tumore. Fermiamoci solo agli screening per capirci. L'attivazione dei test sul tumore alla mammella in Lombardia è al 100 per cento e l'adesione delle donne, tra 50 e 69 anni, è pari al 60 per cento. Al Sud, invece, in alcune zone, l'attivazione è pari al 20 per cento. Risultato, nel primo caso 60 donne su cento sono protette mentre nel secondo solo 20 su cento».

Performance Sanitaria, migliori al Sud: Puglia, Abruzzo e Basilicata. Gelormini su Affari Italiani Giovedì, 29 marzo 2018. Sanità. Sul podio Emilia Romagna, Marche e Veneto. Giù Sicilia e Molise. Puglia, Abruzzo e Basilicata migliori al Sud. Emiliano soddisfatto. Nel 2017 ben 13 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi per motivi economici, per le lunghe liste di attesa o perché non si fidano del sistema sanitario della loro regione. Oltre 320 mila “viaggi della speranza” dal Sud con bilanci in rosso per ben 1,2 miliardi di euro. Cresce la “democrazia sanitaria”: 357 milioni di euro pari ad un incremento del 15% rispetto al 2016. Litigare nel comparto sanitario è costato quasi 500 mila euro al giorno. Il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio: "Razionalizzare la mobilità senza prima valorizzare le strutture sanitarie al Sud minerebbe il diritto alla salute principalmente dei cittadini meridionali". é quanto emerge dall’IPS, l’Indice di Performance Sanitaria realizzato dall’Istituto Demoskopika. E' l’Emilia Romagna, la regione in testa per efficienza del sistema sanitario italiano, strappando la prima posizione al Piemonte, mentre Sicilia e Molise si collocano in coda tra le realtà “più malate” del paese. In totale sono sei le realtà territoriali definite “sane”, nove le aree “influenzate” e cinque le regioni “malate”. Crolla il Piemonte che precipita di ben 10 posizioni rispetto all’anno precedente, collocandosi nell’area delle regioni “influenzate”. Entrano, inoltre, nell’area delle realtà sanitarie d’eccellenza, Marche, Veneto, Toscana e Umbria. Al Sud la migliore perfomance spetta alla Puglia, all’Abruzzo e alla Basilicata che migliorano la loro “condizione”, rispetto all’anno precedente, lasciando l’area dei sistemi sanitari locali più sofferenti. La Calabria abbandona, per la prima volta, l’ultima posizione tra le realtà “malate” collocandosi immediatamente al di sopra di Sicilia e Molise. Nel 2017, inoltre, ben 13,5 milioni di italiani, pari al 22,3%, hanno rinunciato a curarsi per motivi economici, per le lunghe liste di attesa e perché, non fidandosi del sistema sanitario della regione di residenza, non hanno potuto affrontare i costi della migrazione sanitaria ritenuti troppo esosi. Un comportamento ancora significativamente preoccupante nonostante una rilevante contrazione rispetto al 2016 pari all’11,8%. Lo confermano i dati dell'IPS, l’Indice di Performance Sanitaria realizzato dall’Istituto Demoskopika sulla base di otto indicatori: soddisfazione sui servizi sanitari, mobilità attiva, mobilità passiva, risultato d’esercizio, disagio economico delle famiglie per spese sanitarie out of pocket, spese legali per liti da contenzioso e da sentenze sfavorevoli, costi della politica e speranza di vita. "Lo studio - commenta il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio - conferma alcune dicotomie persistenti nell’analisi dei sistemi sanitari locali. Da un lato il permanere di una divario tra Nord e Sud, nonostante qualche miglioramento rilevato in alcune realtà meridionali e, dall’altro, la difficoltà evidente di erogare un’offerta sanitaria appropriata nel rispetto dei vincoli dell’efficienza condizionata dalle risorse scarse disponibili. Non va sottovalutato, inoltre, il recente orientamento della Conferenza delle Regioni di contenere la mobilità sanitaria che potrebbe alimentare il divario esistente tra le diverse offerte sanitarie locali". "Ulteriori tagli alla mobilità sanitaria, infatti - precisa Raffaele Rio -  immolati alla causa della razionalizzazione delle risorse e a interventi di riequilibrio, principalmente in alcune specifiche situazioni territoriali, potrebbero ripercuotersi sul diritto di scelta del luogo di cura, penalizzando fortemente le realtà del Mezzogiorno e minando al cuore il diritto alla salute dei cittadini residenti in quelle aree". "In questo quadro - aggiunge Rio - la nostra analisi punta a misurare efficienza, efficacia e soddisfazione quali dimensioni della perfomance sanitaria per misurare l’andamento del comparto a livello locale prioritariamente nell’ottica dell’equità del sistema, della qualità dell’offerta erogata ai cittadini e dei miglioramenti allo stato di salute attribuibili alle azioni prodotte. Un tentativo senza alcuna pretesa di esaustività considerata l’assoluta esigenza di realizzare un attento e costante monitoraggio dei sistemi regionali, assolutamente diversi da realtà a realtà. In questa direzione - conclude Raffaele Rio - l’analisi di Demoskopika, giunta al sua terza edizione, punta ad offrire agli amministratori un indice sintetico di confronto tra sistemi e ai cittadini uno strumento agevole per valutare se e in che modo la programmazione sanitaria locale riesce a  rispondere ai bisogni di salute della popolazione nelle singole realtà regionali". “Lo avevo detto che le cose della sanità pugliese erano in leggero ma evidente miglioramento", ha commentato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, sottolineando i dati che fanno della Puglia la regione del Sud con la migliore perfomance, "La Puglia ha migliorato la sua "condizione" rispetto all'anno precedente, lasciando l'area dei sistemi sanitari locali più sofferenti". "Bene così, continuiamo ad andare avanti nel percorso di costruzione della buona sanità che abbiamo intrapreso sin dal 2015 - ha aggiunto il Governatore - l'obiettivo resta quello di potenziare ancora i nostri sistemi sanitari, rendendoli sempre più efficaci e migliorando le prestazioni". "Siamo insomma sulla buona strada anche se c’è ancora molto da fare. Essere usciti dalla zona retrocessione e riuscire a collocarci a metà classifica è davvero uno straordinario risultato". "Ma per portare la Puglia ad essere tra le migliori regioni del Paese per quanto riguarda la sanità, dobbiamo impegnarci tutti. Io vi assicuro - ha concluso Emiliano - che la cura verso i cittadini pugliesi è e continuerà ad essere una delle priorità politiche del nostro mandato insieme con il lavoro che dobbiamo fare affinché i risultati ottenuti siano percepiti in maniera tangibile da tutti i pugliesi”.  Comportamenti: oltre 13 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per motivi economici, lunghe liste d’attesa e sfiducia nel sistema sanitario.  Una famiglia su tre (34,3%) in Italia ha rinunciato a curarsi nel 2017. È quanto emerso dal sondaggio realizzato annualmente dall’Istituto Demoskopika ad un campione rappresentativo di cittadini. Tra i fattori principali figurano i “motivi economici” e le “lunghe liste di attesa” rispettivamente nel 10,9% e nel 9,8% dei casi. E, ancora, l’8,9% del campione intervistato ha dichiarato di non curarsi “in attesa di una risoluzione spontanea del problema” o, addirittura, per “paura delle cure” come nel 2,9% dei comportamenti rilevati. L’impossibilità ad occuparsi della propria salute o di quella di qualche suo familiare perché “curarsi fuori costa troppo, non fidandosi del sistema sanitario della regione in cui vive”, inoltre, ha rappresentato un valido deterrente per l’1,6% dei cittadini, con un picco nelle realtà regionali del Sud pari al doppio (3,1%). La paura delle cure, infine, con il 2,9% dei casi rilevati, chiude le motivazioni della rinuncia a curarsi nel 2017. Classifica “IPS 2018”: sei i sistemi sanitari più “sani”. Sud si conferma “malato” ma con qualche miglioramento. è un testa a testa tra realtà del Nord e del Centro, la competizione sulla migliore perfomance dei sistemi sanitari regionali. A “condizionare” i cambiamenti nell’area “sana” della classifica dell’Indice di perfomance sanitaria dell’Istituto Demoskopika per il 2017 rispetto all’anno precedente, i miglioramenti rilevanti prioritariamente di Veneto, Marche, Umbria, Emilia Romagna e Toscana.  A guidare la graduatoria, in particolare, l’Emilia Romagna che con un punteggio pari a 646,6 conquista la vetta, spodestando il Piemonte che, con 497,4 punti, ha registrato una retrocessione di ben 10 posizioni rispetto all’anno precedente collocandosi nell’area delle regioni con un sistema sanitario “influenzato”. Seguono, tra i migliori sistemi sanitari locali, le Marche (624 punti) che, con un saldo in avanti di 5 posizioni rispetto al 2016, ottiene la seconda posizione immediatamente seguita sul podio dal Veneto con 601,9 che con un rilevante balzo in avanti di ben 7 posizioni lascia l’area delle realtà sanitaria “influenzate” conquistando l’obiettivo di sistema “sano”. Nel cluster delle migliori, ci sono anche Toscana con 591 punti, Umbria con 581,7 punti e Lombardia con 580,4 punti. Nel gruppo, ben più consistente, delle regioni “influenzate” si collocano ben nove realtà: Friuli Venezia Giulia (552,7 punti), Trentino Alto Adige (527,4 punti), Lazio (519,8 punti), Liguria (504,6 punti), Piemonte (497,4 punti), Puglia (494,8 punti), Valle d’Aosta (467,9 punti), Abruzzo (431,3 punti) e Basilicata (405,8 punti). Sono tutte del Sud, infine, le rimanenti regioni che contraddistinguono l’area dell’inefficienza sanitaria, dei sistemi sanitari etichettati “malati” nel ranking di Demoskopika: Campania (395,5 punti), Sardegna (384,4 punti), Calabria (348,7 punti), Sicilia (332,7 punti) e Molise (309,9 punti). Soddisfazione: i sistemi più apprezzati in Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Veneto.  Circa 4  italiani su 10 (36,7%) dichiarano di essere soddisfatti dei servizi sanitari legati ai vari aspetti del ricovero: assistenza medica, assistenza infermieristica e servizi igienici. Un andamento in crescita del 2,5% rispetto all’anno precedente. L’indicatore conferma un divario più che significativo tra le diverse realtà regionali. I più “appagati” vivono in Valle d’Aosta che ha ottenuto il massimo del risultato (100 punti) immediatamente seguito dal Trentino Alto Adige (90,8 punti). A seguire con una distanza significativa, Veneto (70,9 punti), Emilia Romagna (66,5 punti), Umbria (64,6 punti), Piemonte (58,5 punti), Liguria (54,4 punti), Friuli Venezia Giulia (45,4 punti), Marche (43 punti), Lazio (34, 7 punti), Toscana (33 punti) e Sardegna (32,5 punti), realtà in cui il livello medio di soddisfazione per i servizi ospedalieri, rilevata dall’Istat tra coloro che hanno subìto almeno un ricovero nei tre mesi precedenti l’intervista, oscilla tra il 50% ed il 30%. In coda alla graduatoria per il minor livello di soddisfazione, pari mediamente al 20%, si collocano le rimanete sette realtà regionali: Campania, Abruzzo, Molise, Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata.

Mobilità sanitaria attiva: Molise in testa, Sardegna in coda. Per Molise e Sardegna confermati i primati positivo e negativo relativi alla mobilità sanitaria attiva in Italia. In particolare, analizzando gli ultimi dati disponibili relativi al 2016, è il Molise, con 100 punti, a mantenere la prima posizione della graduatoria parziale relativa alla mobilità attiva, l’indice di “attrazione” che indica la percentuale, in una determinata regione, dei ricoveri di pazienti residenti in altre regioni sul totale dei ricoveri registrati nella regione stessa, e che in Molise, per l’appunto, è pari al 28%. Sul versante opposto, si colloca la Sardegna con un rapporto tra i ricoveri in regione dei non residenti sul totale dei ricoveri erogati pari all’1,5%. In valori assoluti, sono principalmente cinque le regioni che attraggono il maggior numero di pazienti non residenti: Lombardia (163 mila ricoveri extraregionali), Emilia Romagna (109 mila ricoveri extraregionali), Lazio (78 mila ricoveri extraregionali), Toscana (69 mila ricoveri extraregionali) e Veneto (61 mila ricoveri extraregionali).

Mobilità sanitaria passiva: oltre 320 mila “viaggi della speranza” dal Sud. I meridionali confermano la loro diffidenza a curarsi nelle loro realtà di regionali. In particolare, con un indice medio di “fuga”, pari al 10,4%, che misura, in una determinata regione, la percentuale dei residenti ricoverati presso strutture sanitarie di altre regioni sul totale dei ricoveri sia intra che extra regionali, il Sud si colloca in fondo per attrattività sanitaria dopo le realtà regionali del Centro con un indice di fuga pari all’8,9% e del Nord (6,8%). Ciò significa che, nei 12 mesi del 2016, la migrazione sanitaria dalle realtà regionali del meridione può essere quantificabile in oltre 321 mila ricoveri. Come per la mobilità attiva, anche per la mobilità passiva, lo studio di Demoskopika ha generato una classifica parziale che vede collocate, nelle “posizioni estreme”, il Molise in cima per “diffidenza” con un indice di mobilità passiva pari 27,2%; sul versante opposto, i più “fedeli” al loro sistema sanitario si confermano i lombardi. La Lombardia, infatti, con appena il 4,7%, registra il rapporto minore di ricoveri fuori regione dei residenti sul totale dei ricoveri totalizzando il massimo del punteggio (100 punti). Un quadro del “turismo sanitario” che alimenta crediti per alcuni sistemi sanitari penalizzando, in termini di debiti maturati, tutto il meridione ad eccezione del Molise. E, analizzando la situazione nel dettaglio, si parte dalla Lombardia, quale sistema più virtuoso che, nel 2017, ha attratto circa 163 mila ricoveri generando un credito, al netto dei debiti, pari a 808 milioni di euro  per finire alla Calabria, quale sistema più penalizzato, che a fronte di poco meno di 60 mila ricoveri fuori regione, ha maturato un debito pari a oltre 319 milioni di euro. Spese legali: “litigare” costa 480 mila euro al giorno. Nel solo 2017, le spese legali per liti, da contenzioso e da sentenze sfavorevoli, sostenute dal comparto sanitario italiano ammontano a 175 milioni di euro, circa 480 mila euro al giorno. Sono le strutture sanitarie meridionali ad essere più litigiose concentrando oltre il 60% delle spese legali complessive, pari a ben 104 milioni di euro, seguire da quelle del Centro con 45,4 milioni di euro (26%) e del Nord con una spesa generata per 25,3 milioni di euro (14,5%). Sono Molise e Calabria a guidare la graduatoria dei sistemi sanitari pubblico più “avezzi” a contenziosi e sentenze sfavorevoli rispettivamente con una spesa pro-capite di 28,4 euro e 7,7 euro determinando esborsi in valore rispettivamente pari a 8,8 milioni di euro e 15,2 milioni di euro. Un dato ancora più rilevante se si considera che la spesa pro-capite italiana è di poco inferiore ai 3 euro. A seguire, nella parte più bassa della classifica dei più “litigiosi”, la Toscana con 6,8 euro di spesa pro-capite (25,4 milioni di euro), la Basilicata con 6,3 euro pro-capite (3,6 milioni di euro) e la Sicilia con 5,4 euro pro-capite (27,4 milioni di euro). Sul versante opposto, i meno litigiosi si sono rilevati i sistemi sanitari di Piemonte e Trentino Alto Adige con appena 0,5 euro di spesa pro-capite rispettivamente con 2 milioni di euro e 572 mila euro di spese legali.

Efficienza sanitaria: Marche, Umbria e Basilicata le più virtuose. Sono 9 su 20, i sistemi sanitari regionali capaci di ottimizzare le risorse finanziarie disponibili per garantire l’efficienza del comparto. In particolare, accanto ad un risultato d’esercizio in rosso complessivamente per oltre 1 miliardo di euro nel 2017, le realtà più “sane” si sono contraddistinte, al contrario, per un attivo pari a poco più di 52 milioni di euro. Una perfomance più evidente se si concentra l’attenzione sui singoli sistemi sanitari. E, infatti, spostando l’analisi a livello territoriale, si palesa maggiormente lo squilibrio economico strutturale in alcuni contesti regionali, nonostante lo strumento del piano di rientro.  E così, nel 2016 il risultato d’esercizio desumibile dal conto economico degli enti sanitari locali premia prioritariamente le Marche con un avanzo pari a 9,3 euro pro capite (14,4 milioni di euro), l’Umbria con un avanzo pari a 6,2 euro pro capite (5,5 milioni di euro) mentre relega nelle posizioni “meno virtuose” il Trentino Alto Adige con un disavanzo del sistema sanitario pari a 216,8 euro pro capite (230 milioni di euro, di cui è bene precisare solo 1,8 milioni di euro ascrivibili alla Provincia autonoma di Trento e la quota rimanente rilevante pari a 227,8 milioni di euro alla Provincia autonoma di Bolzano ), la Sardegna con un disavanzo del sistema sanitario pari a 193,5 euro pro capite (21,6 milioni di euro), la Valle d’Aosta con un disavanzo del sistema sanitario pari a 169,6 euro pro capite (321 milioni di euro) e il Molise con un disavanzo del sistema sanitario pari a 134,6 euro pro capite (42 milioni di euro).

Efficacia sanitaria: in Trentino Alto Adige si vive più a lungo.  Lo studio di Demoskopika utilizza la speranza di vita, data dal numero medio di anni che una persona può aspettarsi di vivere al momento della sua nascita, quale indicatore per misurare l’efficacia dei sistemi sanitari regionali: più alta è la speranza di vita in una regione, maggiore è il contributo al miglioramento delle condizioni di salute dei cittadini prodotto dall’erogazione dei servizi sanitari in quel determinato territorio. Nel dettaglio, a guadagnare il podio della classifica parziale della speranza di vita, quale dimensione della perfomance sanitaria individuata da Demoskopika, si collocano il Trentino Alto Adige che con una speranza di vita media più elevata rispetto al resto d’Italia pari a 83,6 anni ottiene il punteggio massimo. Seguono Marche (91,6 punti), Umbria e Veneto a pari merito con 89,2 punti. Quattro le realtà regionali, infine, ad essere caratterizzate da una vita media più bassa: la Campania con una speranza di vita pari a 81,1 anni produce la perfomance peggiore, seguono Sicilia (30,4 punti), Valle d’Aosta (32 punti) e Calabria (49,2 punti).

Costi politica: spesi oltre 357 milioni di euro per la “democrazia sanitaria”, +14,8% rispetto al 2016. Mantenere il management delle aziende ospedaliere, delle aziende sanitarie e delle strutture sanitarie, più in generale, è costato oltre 357 milioni di euro nel 2017 con un incremento significativo, pari al 14,8% rispetto all’anno precedente (311 milioni di euro). A livello locale, a emettere più mandati di pagamento, in termini pro-capite, per indennità, rimborsi, ritenute erariali e contributi previdenziali per gli organi istituzionali sono state le strutture sanitarie della Sicilia con 11,6 euro di spesa pro-capite pari a complessivi 58,4 milioni di euro. Seguono a distanza le “democrazie sanitarie” della Lombardia con 9,5 euro di spesa pro-capite (94,7 milioni di euro) e del Trentino Alto Adige con 8,5 euro di spesa pro-capite (9 milioni di euro). Al contrario, a spiccare per maggiore “parsimonia” nell’impiego del management sanitario, le Marche con 1,4 euro di spesa pro-capite (2,1 milioni di euro), il Molise con 1,8 euro di spesa pro-capite (560 mila euro) e la Campania con 2 euro di spesa pro-capite (11,4 milioni di euro). Disagio economico: colpite oltre 1,5 milioni di famiglie italiane. L’indicatore “famiglie impoverite” esprime, in termini percentuali, la quota di famiglie in condizioni di disagio economico per le spese sanitarie out of pocket (farmaci, case di cura, visite specialistiche, cure odontoiatriche, etc.). Esso aggrega sia i fenomeni dell’impoverimento sia quello delle nuove rinunce alle spese sanitarie. A finire nell’area del disagio economico, a causa delle spese sanitarie out of pocket, sono soprattutto le famiglie in Molise con una quota del 10% quantificabile in circa 13 mila nuclei familiari. Seguono la Campania con una quota del 9,9% pari a ben 225 mila famiglie,  la Calabria e la Sardegna entrambe con una quota del 9,2% coinvolgendo nel processo di impoverimento rispettivamente 67 mila e 74 mila nuclei familiari. Capovolgendo la classifica, sono Marche e Trentino Alto Adige a meritare il ranking migliore in questa graduatoria parziale dell’Indice di Performance Sanitaria (IPS 2017) di Demoskopika, con una quota percentuale, per entrambe le realtà, di appena il 2,7% di nuclei familiari in condizioni di disagio economico per le spese sanitarie out of pocket che ha coinvolto rispettivamente 17 mila e 12 mila nuclei familiari.

NON SOLO MALASANITÀ AL SUD. 5 ECCELLENZE CHE FUNZIONANO.  Dario Portaccio il 20 Giugno 2019 su buonenotizie.it. Molto spesso si sente parlare di malasanità al Sud. Così tanto spesso da renderla un ovvio (e dannoso) modus pensandi. Certo, vero è che casi di questo genere ve ne sono. Basti pensare alle 570 denunce nel periodo 2009-2012 contro il personale ospedaliero e sanitario, la maggior parte delle quali riguardanti la Calabria e la Sicilia. Per non parlare delle statistiche, che evidenziano che chi vive al Sud ha un’aspettativa di vita di 4 anni inferiore rispetto al Nord Italia a causa delle scarse cure e dell’altrettanta scarsa prevenzione. A questo si aggiunge l’elevata migrazione dei pazienti dal Sud al Nord (i cosiddetti “viaggi della speranza”) per curarsi in cliniche (forse) un po’ più all’avanguardia rispetto a quelle del Meridione. E, ancora, la corruzione diffusa negli ospedali pubblici del Sud, oltre ai tagli della spesa pubblica ospedaliera in vista del riordino degli stessi.

Puglia. Il Sud che stupisce. Eppure, ci sono tanti casi di cui non siamo a conoscenza. Casi (che non sono un “caso”) che prendono il nome di buona sanità. Quello che si scopre è che le eccellenze in campo sanitario provengono anche da quei luoghi e da quelle regioni che spesso sono additate come classici esempi di malasanità, come la Puglia, prima tappa di questo nostro viaggio. Secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2017 i malati pugliesi si sono curati in loco, riducendo così i viaggi fuori regione; almeno questo accade nell’ambito della rete oncologica. Ne abbiamo parlato qui.

Campania: in viaggio fra centri di eccellenza. Il nostro viaggio prevede una sosta a Napoli: l’Istituto Nazionale Tumori di Napoli IRCCS “Fondazione G. Pascale” è stato infatti insignito del titolo di Centro di eccellenza da parte della società europea ENETs, acronimo di European Neuroendocrine Tumor Society, per via degli elevati standard di qualità conseguiti e per l’ampia casistica trattata di tumori neuroendocrini. Inoltre, presso tale centro sono previsti due incontri mensili multidisciplinari, volti a mettere in comunicazione le conoscenze e le competenze di una molteplicità di specialisti di ambiti eterogenei e curare così la patologia da cui è affetto il paziente sotto più punti di vista, fino ad arrivare ad adottare cure personalizzate. Leggi qui altri casi di buona sanità in Campania.

Calabria. Il 24 novembre 2018 la sala operatoria dell’Ospedale “Santissima Annunziata” di Cosenza diretta dal Dottor Ninni Urso è stata coprotagonista – insieme alle maggiori eccellenze mondiali – del 28° Congresso Internazionale di Chirurgia dell’apparato digerente tenutosi a Roma. L’equipe, infatti, ha realizzato due interventi di chirurgia bariatrica trasmessi in videoconferenza a Roma, volti a ridurre il livello di grasso corporeo nei soggetti obesi.

Sicilia. E ora raggiungiamo la Sicilia, l’isola di Montalbano e delle terapie sperimentali, che interessano il Presidio Ospedaliero “Villa Sofia-Cervello”. A seguito di un severo percorso di valutazione, il Bureau Veritas, infatti, ha concesso l’ambita certificazione ISO 9001 per le sperimentazioni cliniche riconoscendo l’efficacia delle procedure di sperimentazione relative al trattamento delle neoplasie.

La penultima tappa del viaggio ha come luogo privilegiato Taormina, dove è stato impiantato il pacemaker più piccolo al mondo. Sempre a Taormina e, più precisamente, presso l’Ospedale “San Vincenzo” l’Unità Operativa Complessa (U.O.C) di Otorinolaringoiatria e Chirurgia cervico-facciale guidata dal Primario Prof. Antonio Politi è stata annoverata nel team costituito da 120 medici specialisti di fama internazionale. L’equipe mondiale ha come obiettivo lo studio di un innovativo metodo di trattamento dei tumori testa/collo e si è riunita a Israele nel mese di marzo. Per via dell’eccellenza costituita da questo reparto si verificano addirittura dei ricoveri di pazienti provenienti da altre regioni italiane, invertendo il turismo sanitario Nord vs Sud. In questo ospedale, inoltre, si è deciso di istituire ogni mese un giorno dedicato allo svolgimento gratuito di esami e privo di vincoli burocratici.

Migrazioni “atipiche”. Accanto a questo nostro viaggio nel Sud vi sono storie di migrazioni al contrario di persone che dal Nord si recano nel Meridione per curarsi. È il caso di una paziente,Manuela Manenti, che da Milano ha deciso di curarsi presso l’ospedale “Sant’Anna” di Catanzaro. Dove, oltre ad aver trovato la cura al suo problema cardiaco, ha trovato una qualità tanto preziosa quanto rara, soprattutto in ambito medico: umanità. Ed eccoci arrivati alla fine (per il momento) di questo breve viaggio. Insieme all’immancabile leggerezza di Perseo, planando sulle cose dall’alto, parafrasando Calvino, senza avere macigni sul cuore. Per non essere sommersi dall’insostenibile peso delle cattive notizie.

Sanità: al Nord il 42% del fondo nazionale, al Sud il 23%. Dove vogliamo arrivare?  Calabria News 20 Gennaio 2020. Il tema della qualità, efficacia ed effiecienza del sistema sanitario nazionale anima da sempre il dibattito e, ovviamente, non solo quello politico. Oggi vi proponiamo l’editoriale del direttore de “Il Quotidiano del Sud”, Roberto Napoletano che da molti mesi, ormai, sta conducendo un’operazione “verità” circa le risorse economiche che lo Stato impegna per garantire i servizi sanitari essenziali, scoprendo e, quindi, svelando le differenze marcate che insistono nella ripartizione delle somme che l’apposito fondo nazionale della sanità destina alle diverse aree del nostro Paese. Dati che, come ben sanno gli addetti ai lavori del Meridione, spazzano il campo dalle “bufale” e dai luoghi comuni (spesso utilizzati per interessi politici) che vorrebbero una sanità del Sud sprecona ed inefficiente. Ma è davvero così? Ecco come Roberto Napoletano smonta questa macroscopica balla. “Che cosa può consentire che un cittadino campano riceva per la sanità pubblica 1.729 euro, un cittadino ligure 2.062 e uno trentino 2.206 per non parlare di Bolzano dove gli euro sono 2.363? Quale ragione divina, terrena, logico-deduttiva può stabilire che al Nord vada il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità e all’intero Mezzogiorno poco più della metà e, cioè, il 23%? Perché l’Emilia-Romagna ha ricevuto in tredici anni 3 miliardi in più, a sostanziale parità di popolazione, rispetto alla Puglia? È vero o no che, pur partendo da una situazione di vantaggio tanto indubbia quanto ingiustificata, sei Regioni del Nord hanno visto aumentare in cinque anni la loro quota di finanziamenti pubblici mediamente del 2,36% con un ritmo di crescita di due/terzi di punto in più delle Regioni meridionali? Abbiate pazienza: ma che Paese è quello che abolisce di fatto il servizio sanitario nazionale, adotta criteri di ripartizione dei trasferimenti che aiutano smaccatamente le Regioni in partenza più ricche e meno bisognose? Che arriva, addirittura, a concepire che questo indebito privilegio iniziale cresca automaticamente negli anni aumentando lo squilibrio tra territori “fabbricando” cittadini di serie A e cittadini di serie B e facendo tutto ciò, per di più, in debito? Per capirci: caricando, cioè, sulle spalle di tutti gli italiani anche quelli sacrificati il “magna magna” del finanziamento pubblico ai privati della sanità dei ricchi elargito con criteri di comodo e fuori da ogni regola di equità e di efficienza. Come si spiegherebbe, altrimenti, che a peggiorare i conti, aumentando il “rosso” nei bilanci della sanità italiana, sono proprio le Regioni del Nord? Il “Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica” approvato lo scorso maggio dalla Corte dei conti è inequivoco: l’aggravamento “va ricondotto soprattutto alle Regioni a statuto ordinario del Nord, che passano da un avanzo di 38,1 milioni del 2017 a un disavanzo di circa 89 milioni”. I numeri sono sotto gli occhi di tutti: il Piemonte ha avuto un risultato negativo di 51,7 milioni; la Liguria ha coperto il disavanzo di 56,1 milioni con risorse iscritte nel bilancio 2019 per 60 milioni e perfino la Toscana, il cui sistema sanitario viene elogiato come esempio virtuoso, nel 2018 ha prodotto un passivo di 32 milioni circa. Al Nord, ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti nel comparto sanità: medici e infermieri, ma anche tecnici di laboratorio, amministrativi, operatori socio sanitari. Al Sud la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti sempre ogni mille abitanti. Con punte di squilibrio che fanno accapponare la pelle come nel caso del Veneto, la Regione del “doge” Zaia che non fa altro che lamentarsi, dove i dipendenti sanitari non medici sono 16mila in più di quelli della Campania nonostante un milione di abitanti in meno. Tutto ciò, sia chiaro, delinea una responsabilità enorme della classe dirigente meridionale che non ha saputo difendere i suoi diritti e che ha reagito a volte tardi e male all’esigenza di riorganizzarsi, ma qualsiasi valutazione presente e futura deve partire da questi numeri-verità e dalla straordinaria forza delle tante eccellenze sanitarie meridionali costrette a fare le nozze con i fichi secchi. Nulla può più consentire che ci siano territori meridionali sempre più vasti e diffusi in cui è pericoloso ammalarsi perché hanno chiuso gli ospedali e non sono state date le risorse minime per avviare una riorganizzazione dei servizi e alternative all’altezza. Sono vergogne italiane non più tollerabili. Soprattutto, se si pensa che quelle stesse risorse negate al Sud sono state regalate al Nord per fare nuovi debiti e nuovi buchi. Disgustoso”.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

Benvenuti al Sud: qui la vita si allunga. Al Nord l’aspettativa si sta accorciando. Nel Meridione si può arrivare  in media a 82 anni  ma in certe zone della Sicilia si va oltre. Carlo Porcaro il 25 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Al Sud è stata bloccata l’ondata del virus e si vive di più. Al Nord il Covid ha assunto i contorni della tragedia e si vive mediamente di meno. A fotografare la longevità degli italiani è l’Istat alla luce della pandemia, i cui effetti sono ancora in corso. Lo “scatto” è impietoso per chi ha già sofferto molto la cattiva gestione sanitaria del coronavirus. È infatti calata di 2 anni, da 84 a 82, l’aspettativa di vita nelle province del Nord Italia, in particolar modo in quelle colpite dal Covid-19, soprattutto nel Nord-ovest e lungo la dorsale appenninica. Si può vivere fino a 82 anni in media nel Meridione, ma in alcune province della Sicilia il post-Covid ha fatto persino salire la media e si “campa” di più.

I DATI. Sono i dati emersi dal Report dell’Istat focalizzato sugli “scenari di mortalità da Covid-19”, secondo cui invece «l’intensità nel cambiamento della speranza di vita alla nascita appare decisamente minore, e nella maggior parte dei casi trascurabile, in corrispondenza di buona parte delle province del Centro e del Sud. Per alcune di esse – ha registrato l’Istituto di statistica – si ha persino modo di registrare un miglioramento, ad esempio per talune province della Sicilia». I problemi più preoccupanti riguardano gli anziani, già deboli di loro, vittime preferite dal virus. Le stime sulla speranza di vita degli over 65enni si sono abbassate molto. In particolare, in tutte le province del Nord e parte di quelle del Centro un individuo al 65° compleanno poteva aspettarsi di vivere, in epoca pre-Covid, per altri 21 anni (mediamente), mentre con gli effetti di mortalità dovuti alla pandemia, tale durata – facendo riferimento allo scenario intermedio “moderato” – scenderebbe a circa 19. E il Mezzogiorno? Le Province meridionali «non sembrano tuttavia registrare variazioni di rilievo», il che significa che la situazione è rimasta di fatto invariata o leggermente migliorata. Stare chiusi in casa è servito a salvare la pelle, oggi e domani insomma.

LA CLASSIFICA. Bergamo e Cremona segnano una  riduzione della speranza di vita alla nascita che risulta superiore ai 5 anni; riduzione che a Bergamo arriva a raggiungere i sei anni allorché la si misura al 65° compleanno. Per cogliere meglio il significato delle variazioni osservate, «può essere utile collocare i livelli della speranza di vita localmente ipotizzati attraverso gli scenari disegnati per il 2020 nel quadro delle dinamiche rilevate, nel corso degli anni, per quegli stessi indicatori». Per alcuni territori si torna indietro di circa 20 anni, mentre al Sud la longevità è la stessa di prima. «La marcata incidenza della mortalità in corrispondenza della popolazione in età più avanzata porta con sé, là dove è presente, anche un significativo allentamento di quel fenomeno, noto come invecchiamento demografico, che identifica la crescita della componente anziana e che tradizionalmente era stato visto – almeno sino ad ora e stante le dinamiche demografiche da tempo in atto – come qualcosa di ineluttabile. Non a caso – si legge nel Report dell’Istat – la simulazione per il 2020 in assenza di Covid-19, mette chiaramente in luce come la quota di ultra 65enni sul totale dei residenti fosse destinata ad aumentare di altri 0,3 punti percentuali a livello nazionale, segnalando un incremento in pressoché tutte le Province».

PATRIMONIO DEMOGRAFICO. Il “patrimonio demografico” di ogni Provincia, inteso come il totale di anni-vita che competono ai suoi residenti in base alle aspettative di vita (e di riflesso alle condizioni di mortalità) di un dato periodo. In questo senso, «se si tiene conto dei cambiamenti nella speranza di vita alle diverse età prospettati dai diversi scenari si ha modo di cogliere come, ad esempio nello scenario moderato, alle condizioni di mortalità (di speranza di vita) ipotizzate vi siano alcune Province in cui si registra una riduzione del patrimonio demografico anche nell’ordine del 5-10%. Ciò è quanto accade per le Province di Bergamo, Cremona, Lodi, Piacenza, Brescia, Lecco, Parma e Pavia, mentre nel Centro e nel Sud, ad eccezione della Puglia, Calabria e Sardegna, si registrano variazioni del patrimonio demografico sostanzialmente nulle o in molti casi positive. In generale, va ricordato che la popolazione italiana di età tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi quindici anni. Lo ha detto Bankitalia nella sua ultima relazione annuale. «Le nostre proiezioni demografiche non sono favorevoli, anche tenendo conto del contributo dell’immigrazione, stimato da Eurostat in circa 200.000 persone in media all’anno», annunciò il governatore Ignazio Visco.