Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
L’ACCOGLIENZA
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come Vittorio Feltri.
Le oche starnazzanti.
La Questione Settentrionale.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
Il Sud Sbancato.
La Televisione che attacca il Sud.
A chi credere. Il Sud Italia ti accorcia o ti allunga la vita?
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti.
Un mondo di confini spinati.
Quei razzisti come i Sammarinesi.
Quei razzisti come gli Svedesi.
Quei razzisti come i Norvegesi.
Quei razzisti come i Danesi.
Quei razzisti come i Tedeschi.
Quei razzisti come gli Spagnoli.
Quei razzisti come gli Svizzeri.
Quei razzisti come i Francesi.
Quei razzisti dei Paesi Bassi.
Quei razzisti come i Belgi.
Quei razzisti come gli Ungheresi.
Quei razzisti come i Rumeni.
Quei razzisti come i Kosovari.
Quei razzisti come i Greci.
Quei razzisti come i Giapponesi.
Quei razzisti come i Cinesi.
Quei razzisti come i Vietnamiti.
Quei razzisti come i Nord Coreani.
Quei razzisti come i Russi.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come gli Argentini.
Quei razzisti come i Cubani.
Quei razzisti come gli Austriaci.
Quei razzisti come i Turchi.
Quei razzisti come gli Israeliani.
Quei razzisti come i Libanesi.
Quei razzisti come gli Iraniani.
Quei razzisti come gli Arabi.
Quei razzisti come i Dubaiani.
Quei razzisti come i Qatarioti.
Quei razzisti come i Brasiliani.
Quei razzisti come gli Inglesi.
Quei razzisti come gli Statunitensi.
Quei razzisti come gli Australiani.
Quei razzisti come i Sudafricani.
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Genocidi dimenticati: Gli zingari.
Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.
Il genocidio silenzioso dei Dogon.
Shoah ed Antisemitismo.
Paragonare le foibe alla Shoah?
Il Giorno del Ricordo.
Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.
Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Immigrazione ed emigrazione.
Espatriati. In Fuga dall’Italia.
Il trattato di Dublino, spiegato.
La Sanatoria dell’Invasione.
Quelli che…lo Ius Soli.
La Cittadinanza col Trucco.
Il Soggiorno col trucco.
L’Africa pignorata.
La Tratta dei Profughi.
Porti Aperti.
Gli affari dell’accoglienza.
Morire di Accoglienza.
I famelici…
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli…che Porti Chiusi.
Le “altre Lampedusa”.
Le Colpe in Libia.
Le colpe in Tunisia.
Le colpe in Algeria.
Le colpe in Siria.
L’ACCOGLIENZA
PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Quei razzisti come Vittorio Feltri.
Il caso del "gran rifiuto" natalizio. La Campania regala presepi a tutta Italia ma la Regione Lombardia lo rifiuta: ora è fermo a Bergamo. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Si potrebbe immaginare come una scena di defilippiana memoria quella intercorsa a distanza tra la Regione Campania e la Regione Lombardia. La prima avrebbe infatti offerto in dono alla seconda il simbolo natalizio dell’artigianato locale per manifestare solidarietà in questo momento così difficile, che però sarebbe stato rifiutato con uno scambio di imbarazzi tra le segreterie dell’assessorato al turismo delle due regioni. E dunque: “Te piace ‘o presepio?”, “No nun m’piace”. L’iniziativa lanciata dalla Regione Campania per promuovere il turismo solidale a sostegno dell’artigianato locale si chiama ‘Viaggio in Italia del presepe napoletano’. Un presepio, fedele all’antica arte napoletana, è partito da Palazzo Frizzoni, sede istituzionale del comune di Bergamo. Inizia proprio dalla città italiana più duramente colpita nella prima fase della pandemia da Covid-19, il viaggio in Italia del presepio napoletano. Ad accogliere il dono della Regione Campania, il sindaco Giorgio Gori, che ha dichiarato: “A nome dell’amministrazione comunale di Bergamo desidero ringraziare il presidente Vincenzo De Luca, l’assessore Felice Casucci e tutta la giunta regionale della Campania per la donazione alla città di Bergamo. Il gesto, molto significativo, offre la possibilità di apprezzare la bellezza di un’opera artigianale ricca di storia che valorizza il patrimonio culturale napoletano e le antiche tradizioni folcloristiche. Un gesto che unisce i territori ed esprime un messaggio di speranza in un momento di grande difficoltà collettiva”. In viaggio i primi nove manufatti artigianali, realizzati da altrettante botteghe, che stanno raggiungendo in queste ore, dopo la sede lombarda, i luoghi espositivi indicati dalle amministrazioni pubbliche Italiane: palazzo Rospigliosi nel Comune di Zagarolo per la Regione Lazio, palazzo Guadagni Strozzi a Firenze per la Toscana, il Santuario regionale di San Francesco di Paola per la regione della Calabria, il Museo Sigismondo Castromediamo di Lecce per la regione della Puglia, la Chiesa dei Martiri di Torino per la il Piemonte, la sede della Regione Emilia Romagna, il Salone nobile di Palazzo Sceriman di Venezia per la Regione Veneto, la sede dell’assessorato Regionale della Sicilia. “La festività natalizia, con il suo carico simbolico rappresentato dalla natività, rinnova un forte bisogno di unità e coesione, un messaggio di speranza in un momento difficilissimo per la nazione, ma anche un gesto concreto che inaugura un paradigma di dialogo istituzionale fondato sulla straordinaria bellezza del nostro patrimonio artistico e artigianale come fonte di attrattività turistica”. Così l’assessore della Regione Campania alla Semplificazione amministrativa e al Turismo, Felice Casucci. Radici, cultura e lavoro, recita la deliberazione della giunta regionale della Campania, sono il cuore di questo progetto. Il ‘Viaggio in Italia del presepio napoletano’ inaugura un nuovo grand tour delle cose, ancor prima della mobilità delle persone” ha ribadito Casucci, che incalza: “I manufatti resi disponibili in favore di regioni e province autonome italiane saranno a carattere permanente, in modo che potranno essere esposti anche per periodi più lunghi rispetto alle sole festività natalizie, tenendo in considerazione la previsione futura di flussi turistici prevalentemente interni e di prossimità”. Le regioni hanno accettato il dono e lo stanno esponendo nei luoghi deputati. Ma in Regione Lombardia qualcosa non è andata, tanto che il presepe è rimasto a Bergamo e non a Milano dove doveva stare. Per l’assessore regionale al Turismo, Moda e Marketing territoriale di Regione Lombardia, Lara Magoni, si tratterebbe di un malinteso e non di un gran rifiuto: “Ho chiamato l’assessore al Turismo della Regione Campania, Felice Casucci, non appena mi è stata offerta la meravigliosa opportunità di ospitare in Regione Lombardia il presepe, come omaggio dalla Regione Campania – ha scritto in una nota – Un pensiero molto apprezzato, di affetto e di unione, soprattutto dopo un anno tragico come quello che la nostra Italia e la nostra Lombardia hanno vissuto. Urge quindi una precisazione: l’assessore campano, Felice Casucci, con una nota del 7 dicembre scorso, inviata a tutti gli assessori al Turismo d’Italia, aveva chiesto agli assessori regionali di potergli indicare dei luoghi a vocazione turistica, nei quali poter destinare i manufatti della tradizione napoletana”. “Dopo aver fatto una verifica di natura tecnica che ha evidenziato come la procedura campana – prosegue Lara Magoni – prevedesse un’assegnazione a partire dal 18 dicembre, tempo quindi non utile per un’iniziativa regionale, sono stata io stessa a ringraziare l’assessore Casucci per l’idea, rappresentandogli tutta la questione legata ai tempi stretti. Da assessore lombardo e da bergamasca gli ho poi suggerito di valutare Bergamo per questo meraviglioso dono: abbiamo entrambi convenuto infatti che fosse particolarmente significativo portare nella città simbolo del Covid il presepe, come messaggio di speranza e simbolo di rinascita per la nostra Bergamo”. Ma tra i corridoi di Palazzo Santa Lucia si vocifera che le cose non siano andate proprio così. Forse che, oltre al diverso colore politico, al governatore lombardo non siano piaciuti i numerosi attacchi di De Luca?
L'ultima "sparata". Ciocca, l’eurodeputato leghista che vuole vaccinare prima i lombardi: “Economicamente valgono più di un laziale”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Il vaccino anti-Covid? Va distribuito prima ai lombardi per un fattore di tipo economico perché “se si ammala un lombardo vale di più» e questo “è un dato di fatto: un cittadino lombardo vale di più economicamente rispetto a un cittadino laziale perché paga più tasse”. Parola di Angelo Ciocca, europarlamentare della Lega non nuovo a gesti o dichiarazioni clamorose. L’esponente del Carroccio ha spiegato la sua teoria durante la trasmissione di Antenna 3 ‘Lombardia Nera’ con una premessa che, viste le parole seguenti, sembra essere stata dimentica presto. Ciocca dice infatti che “sulla salute non si può fare politica”, salvo poi cambiare idea e farci "economia". L’europarlamentare salviniano infatti prosegue il suo ragionamento evidenziano come non sia pensabile che la Lombardia “che ha il doppio degli abitanti del Lazio possa ricevere meno vaccini. Poi bisogna valutare quanto l’importanza economica del territorio. La Lombardia, è un dato di fatto, è il motore di tutto il Paese”. Per questo, è il ragionamento di Coicca, “se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia”. Ciocca, come detto, non è nuovo a dichiarazioni o comportamento sopra le righe. Nell’ottobre 2018 si rese protagonista di una protesta eclatante contro il Commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici, calpestando pubblicamente con una scarpa ‘made in Italy’ la lettera scritta dal commissario in cui bocciava la manovra del governo giallo-verde. Per Ciocca anche problemi giudiziari: nel 2019 è stato condannato a un anno e 6 mesi (con sospensione condizionale della pena e la non menzione) nell’ambito del processo penale conseguito allo scandalo della cosiddetta “Rimborsopoli” della Regione Lombardia.
Mirella Serri per “la Stampa” il 12 novembre 2020. Chi sono i «figurinaires»? Coperti di stracci e a piedi nudi, questi bambini che vengono dalla Campania, dalla Basilicata e dalla Sicilia, come documenta all' inizio del secolo scorso La Stampa, vagano per le strade di Parigi vendendo statuine. L'inchiesta del quotidiano torinese viene ripresa con grande scalpore il 2 giugno 1901 da Le petit parisien. Il giornale francese denuncia che su 100 di questi piccolini, portati oltralpe dai manigoldi che li comprano dalle famiglie, circa 60 muoiono di malattie e di stenti. Questo e altri articoli sugli italiani all' estero, pubblicati nell' arco di circa 150 anni sulla stampa straniera, adesso escono in volume a cura di Andrea Pipino, In cerca di fortuna. L'emigrazione italiana dall' Ottocento a oggi sulla stampa di tutto il mondo, per le edizioni di Internazionale Storia (pp. 192, 14). Nel libro sono riunite le cronache degli episodi più tragici della nostra emigrazione, dal linciaggio di 11 connazionali a New Orleans al disastro della miniera di Marcinelle. Dai testi giornalistici appare anche uno scorcio insolito: come ci vedevano e come ci vedono gli altri? Il volume documenta gli aspetti meno noti di un razzismo assai poco evidente, che viaggia sotto pelle, ma pervasivo, quotidiano e sempre presente. Ne furono vittime i «cafoni» con le valige di cartone e ci ricorda i pregiudizi con cui guardiamo la realtà dell' odierna emigrazione in Italia. A chi venne imputato, senza nessuna argomentazione scientifica, il primo caso di colera a Chicago? Agli «italians», i quali abitano in «topaie e se ne stanno seduti in cortili sudici e con l' aria che odora di marcio»: il Chicago Tribune di fine Ottocento picchia duro, dimenticando che le miserabili condizioni di vita sono da addebitare alle scarsissime retribuzioni, e sbeffeggia pure il buon umore e l' atteggiamento «spensierato» dei nostri connazionali. L'untore che viene dal Sud, l' italiano così diverso, trasmette virus di varia natura, etica, politica e sociale: gli svizzeri ne sono convinti almeno dal 1931, quando hanno elaborato una legge per limitare l' invasione. «L' opinione pubblica e le autorità temevano che la popolazione potesse assimilare la mentalità degli immigrati e che il Paese potesse perdere parzialmente la sua cultura e la sua ideologia politica», così il Journal de Genève rievoca nel 1964 lontani provvedimenti legislativi il cui spirito e i cui timori però condivide pienamente. Il rifiuto degli stranieri in quanto portatori di infezioni di tutti i tipi è assai diffuso nella prima metà del Novecento: in Australia si teme che «l' insozzante marea mediterranea distrugga quella che prometteva di essere una nazione eletta», rileva lo Smith' s Weekly; in Brasile la presenza degli italiani comporterà gravi problemi sociali, osserva il Federação, anche se gli emigrati si trovano a vivere in condizioni di benessere. L' elenco dei misfatti e della corruzione con cui gli italiani contagiano i popoli all' estero è assai ampio, ma nei Paesi più democratici queste accuse suscitano anche anticorpi e reazioni. Ecco dunque la North American Review, nel giugno 1896, sostenere che «gli italiani non appartengono a una classe di immigrati indesiderabile... Se vengono assunti da padroni senza scrupoli, allora va combattuto il sistema dei padroni». Oppure ecco la Popular Science Monthly denunciare il traffico di manodopera che arricchisce i datori di lavoro statunitensi. La polemica contro la discriminazione e contro il rifiuto dei «diversi» comincia così a farsi sentire nella seconda metà del secolo scorso. Ma il cambiamento richiede tempi lunghi. In Germania Der Spiegel, ancora nel 1964, maschera con difficoltà il disprezzo: gli italiani sono la disperazione dei doganieri poiché trasportano notevoli quantità di elettrodomestici e tornano a casa addirittura al volante di trattori. Sono grandi consumatori di brillantina e di escort: a Colonia il viale della prostituzione, Eigelstein, è conosciuto come Corso Italia, cosa che dimostra la loro scarsa integrazione «nella vita sociale dei tedeschi» (e non viceversa la scarsa disponibilità dei tedeschi alle relazioni con gli stranieri). «Mangiaspaghetti o beduini» vengono soprannominati gli italiani, scrive ancora il settimanale tedesco. E loro rispondono per le rime, ricordando ai teutonici che «le guerre le iniziano sempre ma non le vincono mai e che rinchiudono i nemici in campo di concentramento». Sono però in crescita le testate straniere che, influenzate dai mutamenti della pubblica opinione, correggono l' orientamento: un tempo in Canada gli italiani erano «i rubalavoro», scrive Mclean' s nel 1964, ora sono «la gioia dei loro datori di lavoro, disponibili e infaticabili». Nel 1970 gli svizzeri respingono con un referendum la proposta di limitare il numero degli stranieri: «Un progetto sgradito anche all' establishment economico», avverte la Gazette de Lausanne. I francesi chiamavano i nostri connazionali «ritals», ovvero «pezzenti» e «fannulloni», ma nel 1992 Le Monde ne esaltava «il talento particolare per le attività imprenditoriali». Insomma, come dimostra il caso degli italiani all' estero, la lotta contro i pregiudizi razziali ha il passo della tartaruga, il razzismo ha radici forti e robuste e a consolidarlo e farlo rifiorire ci pensa la propaganda politica più accanita contro l' integrazione e l' accoglienza.
Assessore alla cultura di Padova offende: “Qui c’è una cultura civica molto forte, non come a Napoli”. Rossella Grasso su Il Riformista il 28 Ottobre 2020. “Qui non siamo a Napoli. Qui esiste una cultura civica molto forte. Qui c’è un forte senso di comunità. C’è la forte consapevolezza che la salute è un bene comune e che, come tale, bisogna averne rispetto”. Con queste parole Andrea Colasio assessore alla Cultura del Comune di Padova commentando le proteste contro le strette è finito nella bufera social e non. L’assessore alla cultura, 63 anni, ex parlamentare dell’Ulivo ed esponente del Pd Veneto per la sua infelice uscita è stato travolto dalle polemiche. L’assessore voleva dire che malgrado l’emergenza coronavirus, i teatri, i cinema e i ristoranti potrebbero stare aperti come avviene in Trentino Alto Adige. Ma “qui non siamo a Napoli”, ha infelicemente detto. E si è scatenata l’ira di molti. “Ho già inviato al sindaco di Padova, Sergio Giordani, la richiesta di espulsione dalla giunta dell’assessore Colasio per le sue frasi inequivocabilmente razziste e discriminatorie verso l’intero popolo napoletano”, ha detto Gennaro De Crescenzo, fondatore del Movimento Neoborbonico. Poi la replica dalla sua omologa napoletana: “Ho letto su alcuni giornali on Line con incredulità e sconcerto le parole gravissime pronunciate dal mio collega di Padova, l’Assessore alla Cultura Andrea Colasio – ha detto l’assessore alla Cultura Eleonora De Majo – Basta! Davvero non se ne può più! Queste battute che sarebbero fuori luogo anche pronunciate al bancone di un bar, quando sono invece oggetto di una dichiarazione pubblica di un esponente istituzionale che si occupa addirittura di cultura in una importante città italiana, dimostrano plasticamente quanto il razzismo, gli stereotipi carichi di pregiudizio e la sottocultura antimeridionale , siano sentimenti incrostati nelle viscere del nostro paese”. “La città merita delle scuse – ha continuato De Majo – Napoli, non ci sarebbe neanche bisogno di ribadirlo, ha dimostrato in questi mesi, come tutte le altre città italiane, un enorme senso di responsabilità ed una straordinaria capacità di cura della comunità. Una responsabilità che qui ha pesato più che altrove, perché abbiamo un reddito procapite medio che è quasi la metà di molte città del settentrione. Nonostante ciò Napoli è stata la città delle mani tese e dei ‘panari’ pieni di cibo calati ai balconi durante il lockdown per offrire a chi non aveva niente, qualcosa da mangiare. È stata la città in cui d’estate si sono organizzati più di trecento eventi culturali piccoli e grandi, tra centro e periferia, tutti nel massimo rispetto delle prescrizioni e nella massima tutela della saluta pubblica. Bisognerebbe ricordarsi ogni tanto che il senso civico è anche e soprattutto la solidarietà, la cura, l’attenzione verso il prossimo. Mentre il Paese è in ginocchio e si moltiplicano le manifestazioni di protesta per chiedere misure di sostegno rapide, efficaci e contestuali alle chiusure, le amministrazioni cittadine, i sindaci, gli assessori, stanno collaborando tra loro da mesi, da Nord a Sud, trasversalmente agli schieramenti politici di provenienza, per chiedere al governo strumenti per fronteggiare la crisi, in un clima di produttiva relazione istituzionale. Ecco perché le parole dell’assessore Colasio risultano ancora più deprecabili e fuori luogo ed ecco perché richiedono una immediata smentita”. L’assessore poi ha iniziato a cercare delle scuse plausibili e una giustificazione alle sue parole. Ma rispondergli sono stati in tanti, anche alcuni consiglieri napoletani tra cui Diego Venanzoni del gruppo “La città”: “A volte mi chiedo cosa spinge alcuni uomini politici più o meno impegnati (in questo caso meno) ad esondare con affermazioni che rasentano la follia e che, inevitabilmente, caro signor Colasio (assessore al Comune di Padova) celano in malo modo una vena di razzismo che evidentemente non riesce a smaltire. Poi se le sue origini siano meridionali, come afferma, la cosa riveste ancora più preoccupazione. Ma veniamo ai fatti come si fa ad affermare che a Padova (città che amo dove, peraltro, risiede mio fratello) non si è Napoli e, dunque, lì. Caro assessore (speriamo presto ex) lei rappresenta una città e si permette il lusso di regalare queste perle (trite e ritrite) e poi, quale excusatio non petita accusatio manifesta, chiede anche di non essere considerato un razzista? Guardi non consumerò altro inchiostro per ricordarle i tanti nomi della cultura partenopea che hanno fatto grande il nostro Paese perché come si dice in lingua napoletana ‘a lavà a capa ‘o ciuccio se perde l’acqua e ‘o sapone’. Mi ascolti venga a Napoli per farsi un bagno di cultura e di senso civico, ne ha proprio bisogno mi creda!”
Da "corriere.it" il 27 ottobre 2020. Piccolo inciampo grammaticale per il governatore del Veneto, Luca Zaia, nel corso della consueta conferenza stampa per fare il punto della situazione sull’emergenza Covid. Il presidente della Regione si è lanciato in un periodo ipotetico, ma ha subito perso il filo della concordanza verbale: «Dovesse, fosse, fosse stato... no lo devo dire col condizionale giusto!»
Da repubblica.it l'1 novembre 2020. Maurizio Crozza veste di nuovo i panni di Luca Zaia, nella nuova puntata di “Fratelli di Crozza” in onda il venerdì in prima serata sul Nove. Solo qualche giorno fa il presidente della Regione Veneto, nell'abituale conferenza stampa sugli aggiornamenti in merito alla situazione Coronavirus, si era inceppato sui verbi: il comico ha preso spunto da lì per realizzare un'imitazione in cui Zaia non azzecca un congiuntivo o un condizionale. "Per noi il sacrificio che han fatto i veneti dovesse essere stato… fosse dovuto stante… avendo statuto fando… Lo voglio dir bene col condizionale giusto, cioè col congiuntivo, cioè col congiunzionale. Ghe la devo far, è che l'italiano c'ha un verbo dentro ogni frase, è una lingua ostica", dice Crozza-Zaia.
Scuola, al liceo Manzoni di Milano iscrizione solo se abiti in centro e con la media del 9. Enrico Paoli su Libero Quotidiano il 25 ottobre 2020. Selezionare per distanziare, la filosofia di fondo. Il merito come metodo, magari sin troppo rigido. Magari. Fatto sta che, a partire dal prossimo anno scolastico, per essere ammessi al liceo Manzoni, uno dei più gettonati del capoluogo lombardo, sarà necessario avere almeno la media del nove e la residenza in centro. Sono questi due dei requisiti per essere ammessi alla scuola media superiore. Il motivo, come riportato nei criteri di ammissione per la prima dell'anno scolastico 2021/2022, è dettato dall'emergenza Coronavirus. Da un lato gli spazi sono pochi e quindi si potranno fare solo otto classi, spiegano dall'istituto, dall'altro gli studenti che già ci sono, soprattutto quelli che sono ora in prima, avranno bisogno di essere «riorientati» e quindi «è bene cercare di accogliere nelle classi prime quegli studenti che, ragionevolmente, è prevedibile siano molto motivati e non bisognosi di un eventuale riorientamento». Due quindi i requisiti per potersi iscrivere in uno dei licei più blasonati della città: uno meritocratico (ovvero la media del 10 o del 9 in seconda media in italiano, matematica e inglese) e uno territoriale. Sulla base di questi fattori sarà data la precedenza ai ragazzi con voti alti, residenti in zona 1, ovvero in pieno centro. A seguire le zone più vicine. Il Consiglio di istituto ha approvato le nuove norme con 15 voti favorevoli e 4 contrari ma a non tutti gli studenti, com' era facilmente prevedibile, la novità è piaciuta. E cosi ieri pomeriggio gli studenti del liceo, dopo l'ultimo giorno di scuola in presenza, dato che da lunedì riprenderà per tutte le superiori la didattica a distanza, hanno organizzato un picchetto informativo e di protesta. «Troviamo inammissibile», hanno spiegato sui social del Collettivo politico Manzoni, «che una scuola pubblica, che dovrebbe essere accessibile a tutti e a tutte, ponga così spudoratamente un limite alle iscrizioni». Va detto che il meccanismo del numero chiuso, in alcune facoltà universitarie, esiste da tempo. Nonostante l'avversione degli studenti, il buonsenso gli ha indotti a «evitare» un corteo, proprio per non creare assembramenti. I ragazzi si sono messi distanziati lungo il corridoio della presidenza e una delegazione è stata ricevuta dal vicepreside. «Il tema del sovraffollamento, che ormai non può più essere ignorato», hanno spiegato, «rimane solo ed esclusivamente di facciata, grazie ad una mossa strategica pensata per portare il nostro Liceo ad essere sempre più vicino all'ideale scuola dell'eccellenza». ma «non vogliamo una scuola elitaria che vede i suoi studenti e le sue studentesse come semplici trofei di cui potersi vantare, lasciando indietro chi non ha avuto la possibilità di ricevere un'istruzione che concedesse una media dell'8 o chi ha bisogno di più tempo, di maggiore esperienza, chi crede non siano i voti a determinare le proprie capacità». Il portavoce nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha espresso la sua solidarietà agli studenti. Da lunedì, intanto, si riparte con la didattica a distanza in tutte le scuole superiori della Lombardia. Al liceo Beccaria un gruppo di ragazzi si è presentato con tute e cappuccio bianchi perché «ci sentiamo fantasmi, nessuno ci ha consultato».
Razzismo e Disastri Ambientali.
Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.
Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.
Per i media prezzolati e razzisti.
Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.
Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.
“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 24 ottobre 2020. Chissà cosa avrebbero pensato gli scrittori Corrado Alvaro e Giuseppe Berto, l'uno calabrese di nascita e l'altro di adozione, del cortometraggio di Gabriele Muccino, Calabria terra mia, presentato alla Festa del Cinema di Roma e dedicato alle bellezze della Punta dello Stivale. Chissà se avrebbero ritrovato, l'uno, il fascino mitologico di quella terra, animata da realismo magico, e l'altro il suo carattere selvaggio, schivo e assetato di infinito, che portò lo scrittore veneto, migrante all'incontrario, a sceglierla come posto di ristoro per il suo male di vivere. Forse non avrebbero trovato nulla di tutto ciò, ma avrebbero condiviso le critiche che, da parte di intellettuali e utenti social, sono state mosse al corto, sostenuto da Regione Calabria, con un finanziamento di 1 milione e 700mila euro. E avrebbero ammesso che, anziché l'immagine di un luogo reale che non deluda poi i turisti, come vorrebbe l'intento promozionale della pellicola, viene fuori il ritratto di un posto inesistente, proiettato in un passato ormai perduto o in una dimensione idilliaca, edulcorata e pertanto falsa. Una Calabria ipotetica ma bugiarda; una Calabria non fotografata nella sua bellezza, ma al più photoshoppata. In effetti, guardando il corto interpretato da Raoul Bova e la sua compagna Rocío, è facile trovare stucchevoli le scene dei loro pranzi d'amore al tavolino, coi calabresi in bretelle e coppole a bighellonare e i vecchietti a giocare a carte, mente una musica in modalità Il Padrino fa da sottofondo; e viene spontaneo considerare una somma di cliché l'asinello nei campi e le clementine estive, le masserie con le tende ricamate e gli agrumi sbucciati, le distese di grano e le spiagge bagnate da acque cristalline. In modo altrettanto immediato ti appare basica e banale la sceneggiatura con frasi tipo «Siamo il mare, siamo il sole, siamo la vita che ci fa sentire bene» e con qualche clamoroso strafalcione: «Dove vuoi che ti porto?», dice Bova, dimenticandosi, come un Di Maio qualunque, che si dovrebbe dire «dove vuoi che ti porti?». Va' dove ti "porto" il cuore... Ed è anche normale che, da parte dei detrattori, si elenchino i mali calabresi furbamente nascosti così come le bellezze vere e ignorate nel corto: la Calabria filosofica di Pitagora, Telesio e Campanella, la Calabria religiosa di San Francesco da Paola e San Giovanni in Fiore; la Calabria naturale degli "elefanti" in pietra e la Calabria tecnologica della "Silicon Valley" tra Cosenza e Rende. È tutto vero, ma chi muove queste critiche dimentica che pur sempre di spot si tratta, che per vendere un prodotto bisogna un po' deformare la realtà, scegliere solo alcuni aspetti ed enfatizzarli a costo di farne una cartolina, e insieme creare un racconto da fiction che funga da sogno: si vende la Calabria che vorremmo, non la Calabria che già abbiamo. Alimentare la dimensione onirica, non è questa la missione del cinema? Per farlo, bisogna rinunciare alla complessità, alla narrazione troppo approfondita, sennò sarebbe un documentario culturale, ma anche alla chiave troppo investigativa, sennò sarebbe un'inchiesta di denuncia delle brutture, dalla criminalità organizzata alle infrastrutture mancanti fino alle strutture ricettive inadeguate. Non puoi chiedere il certificato di autenticità a un corto, peraltro girato da un regista romano, con un attore romano e una spagnola. Per quanto ci riguarda, una cosa però l'avremmo cambiata di sicuro: al posto di Bova, avremmo scelto uno di Bovalino. Un autoctono che parlasse in calabrese e sbagliasse meno i congiuntivi.
La solita bufala della regia mafiosa delle rivolte del Sud. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 28 ottobre 2020. Solo Roberto Saviano ha avuto il coraggio di spiegare che le mafie hanno tutto da guadagnare dal lockdown: «I camorristi acquistano aziende e locali che stanno fallendo». A marzo – quando i numeri di Alzano e Nembro spaventavano già oltre ogni misura – e si parlava di zone rosse e di impedire ogni mobilità tra regioni, a Luigi de Magistris, sindaco di Napoli scappò detto: «Se il contagio fosse partito dalla Campania e non dalla Lombardia, il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista a qualsiasi meridionale». Che uno può leggerlo pure come il solito vittimismo dei meridionali, che un po’ ci inzuppano il pane, ma una qualche verità c’è. Anche perché era bastato – qualche giorno prima – che dei padri di famiglia riempissero un paio di carrelli della spesa a un supermercato di Palermo e fossero andati via sfondando le casse senza pagare – e là il ministro dell’interno Lamorgese si era lasciata andare a scenari apocalittici di rivolte sociali imminenti. Perché c’è questa cosa qua che va detta – se tirano un petardo a Torino o a Milano è una cosa, ma se lo stesso petardo lo tirano a Napoli o a Palermo è un’altra. È una cosa antica, mica di adesso, antica almeno quanto l’Unità d’Italia – che una sua forzosità la ebbe, possiamo dirlo senza sembrare dei follower di Pino Aprile? Sì, c’erano stati i picciotti a Calatafimi a battersi con le camicie rosse e una lunga tradizione di libertà aveva innervato generazioni di patrioti risorgimentali siciliani e meridionali. Ma la forzosità c’era stata, e un certo dispregio delle classi politiche e intellettuali del Nord verso il Sud era rimasto. Avevano esportato la democrazia al Sud – più o meno era questa l’idea. Quando, appena sei anni dopo l’Unità, Palermo – delusa e amareggiata – insorge guidata da repubblicani e garibaldini contro il nuovo Regno, le tasse e la coscrizione obbligatoria, che erano le uniche cose nuove che erano arrivate, re Vittorio ordina a Ricasoli a mezzo un telegramma di fuoco che la rivolta sia troncata: «Il me semble nécessaire une sévère leçon à ces malfaiteurs qui viennent de troubler l’ordre et la tranquillité publique… J’espère donc que vous n’aurez aucune pitié de certe canaille». Malfaiteurs, canaille. Pure in francese, che manco in italiano si degnò di dirlo re Vittorio, come a rimarcare una distanza anche linguistica. Mafiosi – fu detto pure questo nelle cronache del tempo, e come no. E pensare che i capi della rivolta avevano pure seguito Garibaldi nell’avventura di Aspromonte. Non è che le cose siano cambiate tanto, da allora. Ogni volta che una protesta popolare, sociale si manifesta nel Meridione – c’è come un tic nervoso, una reazione coatta, un gesto incontrollato: è la mafia. O è la ndrangheta, o è la camorra. La camorra è stata subito tirata in ballo pochi giorni fa per le proteste di Napoli – e non da un qualche impressionabile opinionista ma da Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, insomma uno che queste cose le mangia a colazione e cena: «C’è la regia camorrista». La regia eh, mica solo la manovalanza. Così, è toccato a Roberto Saviano, che pur non guidando alcuna Commissione antimafia o alcuna Procura una sua qualche conoscenza delle cose l’ha accumulata negli anni, dire che no, «i camorristi guadagnano dal lockdown: fanno prestiti, acquistano aziende e ristoranti che stanno fallendo». E quindi non hanno nessun interesse a fare casino e proteste per trovare un qualche rimedio, anzi. Una lenta agonia e si sfregano le mani. È questo che è toccato fare a Napoli: rompere l’incantesimo malefico che ha addormentato tutto. In cui la parola d’ordine sinora era stata: Non disturbate il manovratore. Un lento piano inclinato, in cui tutti i provvedimenti governativi non riescono a colmare il disagio che intanto cresce. È come se per l’epidemia, per quanti tamponi tu faccia e per quanti asintomatici trovi e li metti in quarantena, ce ne sono sempre di più – e non riesci a fermarla. E così è per l’epidemia economica: per quante casse integrazioni ti inventi, per quanti bonus, per quanti sostegni e ristori – c’è sempre una categoria che rimane fuori e scivola verso la povertà. La povertà: la Caritas ha anch’essa i suoi bollettini quotidiani e riportano i piatti di pasta che vengono forniti quotidianamente alle mense gratuite. E crescono di numero. Napoli ha sorpreso tutti, proprio perché tutti siamo sotto l’incantesimo malefico: siamo spaventati, siamo stanchi. E all’improvviso migliaia e migliaia di persone scendono in strada e in piazza – con la mascherina, provando a stare distanziati, e non sono No- Mask, non sono fuori di testa “Qui non c’è coviddi” – e dicono che così stanno morendo, stanno morendo le loro attività, si vanno licenziando i dipendenti, sta spegnendosi la vita sociale di una città. Poi c’è stata Catania, poi c’è stata Milano, poi c’è stata Torino. Napoli ha tolto il tappo: il conflitto è contagioso. Ma non è solo un grido di dolore che è salito dal Sud e ha trovato eco al Nord. Le manifestazioni di Napoli sono state un grande sussulto di democrazia. Il più importante sussulto di democrazia, dall’inizio della pandemia. Ci sono stati cassonetti bruciati – è vero. Ci sono state aggressioni – è vero. Non hanno fatto bene, queste cose, alla manifestazione – è vero pure questo. I primi a saperlo sono proprio i napoletani che sono scesi in piazza e hanno continuato a farlo. Le manifestazioni di Napoli hanno rotto la paura e la depressione. Non sono ‘ per principio’ contro il governo: Napoli chiede provvedimenti, suggerisce iniziative, sollecita interventi. Non vuole la rivoluzione – mammamia. Vuole essere partecipe, vuole essere presa in considerazione, vuole dire la sua. Perché è della sua pelle che si va decretando. Questo è il messaggio “universale” che viene da Napoli – perché “vada tutto bene” bisogna coinvolgere le persone nelle decisioni, bisogna ascoltarle, bisogna capire le difficoltà che si vivono. Il contagio sta rendendo ancora più “liquida” la società – se i luoghi della decisione politica si ritraggono, questo è il pericolo vero per la democrazia.
«Calabria terra mia», lo spot firmato Muccino che fa infuriare i calabresi. Il Corriere della Sera il 23/10/2020. L’idea voleva essere quella di rappresentare una Calabria senza stereotipi per valorizzare il territorio e le ricchezze culturali e storiche. Dal corto del regista Gabriele Muccino, commissionato dalla Regione per un costo di 1,7 milioni di euro viene invece fuori una realtà d’altri tempi, scatenando un vespaio di polemiche. «Noi abbiamo commissionato un corto per emozionare e incuriosire chi ha voglia di visitare la Calabria. È un video per sprovincializzare e sdoganare il nostro territorio dai soliti cliché» spiega l’assessore regionale al turismo Fausto Orsomarso. In realtà negli otto minuti del cortometraggio vengono riproposti vecchi stereotipi con coppole, bretelle e scene che ricordano il «Padrino». «Io lo boccio, anche se mi sono piaciute le immagini e il suono. È stata rappresentata una Calabria che non c’è più» attacca lo scrittore Mimmo Gangemi. «Sono senza parole. Manca la ricerca di una terra che tenta di innovarsi. È una follia allo stato puro» aggiunge Florindo Rubettino, titolare dell’omonima casa editrice. Nel cortometraggio i protagonisti, Raoul Bova e la compagna Rocio Munoz Morales, raccontano una storia d’amore dove lui, calabrese d’origine, porta lei a visitare i luoghi della sua infanzia. Il tutto ambientato in uno scenario fatto di sterminate coltivazioni di agrumi e bergamotto e con il mare che fa da sfondo. «Le critiche allo spot non mi preoccupano - replica da parte sua il regista - fa parte del gioco, dovevo solo emozionare, non potevo far vedere di più».
Il cortometraggio di Muccino per rompere gli stereotipi, ha prodotto l’eterogenesi dei fini…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 25 Ottobre 2020. La Calabria è in rivolta. Nessuno degli innumerevoli e atavici problemi della Regione è causa del fermento: politici, intellettuali, giornalisti, buona parte dei calabresi, hanno dichiarato guerra al regista Gabriele Muccino, ritenuto responsabile di lesa calabresità, poiché, realizzando un cortometraggio commissionatogli dalla Regione anziché migliorarne l’immagine l’ha ulteriormente incrinata. A marzo, la presidente Jole Santelli, purtroppo morta dieci giorni fa, aveva dichiarato che uno dei punti più importanti del proprio programma sarebbe stato quello di far sparire gli stereotipi, le rappresentazioni fasulle e folkloristiche, che gravano sulla Calabria, e ne impediscono lo sviluppo economico, in prospettiva soprattutto turistica. Una nuova narrazione della Calabria, la mission: per raccontare una terra diversa da quella infissa nell’immaginario collettivo. Si puntava molto sul messaggio filmico, e molto anche in termini economici si era speso sull’opera di Muccino: un corto che infondesse curiosità, voglia di conoscere. E il corto è arrivato, il 20 ottobre è stato presentato in prima mondiale al festival del cinema di Roma. Il giorno dopo è stato diffuso sul web da un assessore della Giunta calabrese. Nel passare di poche ore si è scatenata una schiera enorme, e trasversale, di critiche. Veramente in pochi hanno provato a difendere l’opera di Muccino. 1.700.000 euro per 6 minuti di girato, quanto mediamente si spende in Italia per un film, quanto molti registi di qualità vorrebbero avere per realizzare un lungometraggio, magari di successo. E a guardarlo, il corto di Muccino, interpretato da Raoul Bova e Rocio Munoz Morales, effettivamente, per chi la Calabria la conosce si resta spaesati, per chi non la conosce si vedrà davanti il cliché di una terra arretrata in cui l’asino sia ancora un mezzo di locomozione, tutti siano impegnati a giocare a carte o a oziare, indossando vestiti anni cinquanta e calcando sul capo, in piena estate, coppole di lana. E tutti siano onorati della visita della bella straniera che l’oriundo porta a casa per mostrarle quanto bella sia la sua terra. In un trionfo di colori artefatti, clementine di plastica, lo stereotipo invece di sparire si materializza, il luogo comune imperversa. La Calabria ne esce avvilita, al di là delle intenzioni di chi ha costruito il corto. Soprattutto, l’effetto è controproducente rispetto al proposito del committente: eliminare lo stereotipo. 1.700.000 euro spesi, secondo i calabresi, male. L’impressione della beffa. La sensazione di essere trattati come bravi selvaggi a cui si concedano le carezze. E i calabresi è vero, sono permalosi, esagerano spesso con orgogli stupidi. Però, anche se non passa nel racconto attuale che si fa della Calabria, rinchiuso, spesso per colpa dei calabresi stessi, fra la cronaca nera e la nera cronaca. La Calabria è pur sempre figlia di una storia millenaria, di una cultura antica: per quanto sepolte, annacquate, non è il caso di trattare i calabresi come un popolo bambino. Un minimo di cautela. Solo un minimo. Che magari il problema della Calabria fosse davvero, solo, un problema di immagine. La Calabria ha problemi reali e nemmeno se venissero Coppola o Scorsese a girare spot, i problemi sarebbero risolti. Però anche il racconto sbagliato è un problema, e se si è pagati per aggiustare il tiro ai luoghi comuni, se non ci si impegna al massimo, dopo, ci si può trovare contro 2.000.000 di calabresi, che avranno molti difetti, come tutti gli abitanti del mondo, ma non sono.
Coppola, bretelle e asinello: questa non è la Calabria, caro Gabriele Muccino. Edoardo Sylos Labini su culturaidentita.it il 24 Ottobre 2020. Vive ancora forte dentro ognuno di noi il ricordo di Jole Santelli, la 51enne Presidente della Regione Calabria scomparsa prematuramente qualche giorno fa. Malgrado la grave malattia, Jole ha continuato coraggiosamente a combattere e a lavorare per la sua amata terra. Così il corto presentato al Festival del Cinema di Roma, Calabria terra mia, è sembrato il giusto omaggio ad una donna che lascia un vuoto nel governo della regione. Sul red carpet hanno sfilato gli attori protagonisti, Raul Bova con la compagna Rocio Munoz Morales e Gabriele Muccino, il regista di quest’opera di circa 8 minuti (compresi i quasi tre dei titoli di coda) costata 1 milione e ottocentomila euro. Insomma, per spendere così tanto in cinque minuti di girato ce ne vuole (malgrado il trionfo di droni che ci restituiscono paesaggi di mare mozzafiato, ma nulla più). Per non parlare della carrellata di clichè e di stereotipi che, leggendo i commenti sui social, hanno lasciato basiti molti calabresi. Tra clementine e bergamotti, soppressate e finocchietto, il corto inizia con una bella mano di Raul sulla coscia della bellissima Rocio, con un voce off che recita: “La tua terra ti parla con tante voci”. Loro, fighi pazzeschi, arrivano in jeep tra abitanti con bretelle, coppola e l’asinello che nemmeno più Little Italy dipinge così. Capiamo che Muccino oramai è un regista americano, però un po’ di conoscenza più profonda della Calabria, visto l’investimento economico, non avrebbe guastato. La fotografia da cartolina ci restituisce un mare splendido, ma ad un certo punto diventa ripetitiva come le effusioni tra i due bonazzi; inoltre non troviamo un’inquadratura per un sito archeologico, per un monumento, per uno degli importanti palazzi regionali. Non ci sono nemmeno i Bronzi: saranno fuggiti via come nell’autoironico spot girato sempre per la Regione Calabria nel 2011. Dove sono le mille identità che fanno della regione una terra unica, dalla Magna Grecia all’influenza normanna, da quella angioina, ebrea, arbëreshë? La Calabria, fuori dai luoghi comuni, è una terra da scoprire soprattutto per chi non ci è nato. Insomma, le buone intenzioni della Santelli non sono state onorate da uno dei più importanti registi del mainstream italiano. E molti calabresi a quanto pare non l’hanno presa bene. Le risorse per chi si occupa di cultura sul territorio a quanto pare ci sono. Ora starà all’assessore Spirlì , Presidente ad interim, dare un’adeguata risposta a chi si impegna per il rilancio culturale di questa straordinaria terra.
Da blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2020. Su Facebook un’attivista M5S ha scritto un post in cui festeggia per la morte della governatrice della Calabria Jole Santelli, scomparsa a soli 51 anni. “Evviva!!! Una mafiosa di meno!!!”, questo il post dell’attivista M5S riguardo la morte di Jole Santelli. Un post che è stato poi rimosso, mentre la pagine dell’attivista è stata oscurata da Facebook dopo le diverse segnalazioni fatte da molti utenti. Il post poi si concludeva con la frase: “Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio, ecc.ecc.”. A sollevare il caso è Monica Pietropaolo, attivista di Fratelli d’Italia e presidente del Circolo Giorgia Meloni presso il V Municipio di Roma. Il post in questione invece porta la firma di una attivista 5 stelle che su Facebook si presenta come “la prima attivista genovese dai tempi degli ‘Amici di Beppe Grillo’”. Il post è stato rimosso ma lo ha condiviso sulla sua pagina Fb la Pietropaolo, che all’agenzia Dire spiega: “Io non riesco a capire la cattiveria dimostrata da questa appartenente a M5s di Genova. Cattiveria totalmente gratuita e inutile, anche perché la Santelli non ha mai avuto a che fare con i mafiosi né tantomeno avuto mai procedimenti penali a suo carico. Detto questo io sono sempre per il discorso che il nemico politico si batte nelle urne e non si deve mai esultare per la morte di nessuno. Che esso sia del tuo stesso seme politico o d’altro”. “Premesso ciò – prosegue – se fossi nei rappresentanti politici del Movimento 5 stelle prenderei immediatamente le distanze e produrrei le scuse per colpa di questo soggetto che ritengo ignobile. Ma essendo loro di caratura politica sinistroide sono sicurissima che ciò non accadrà. Gioire per la morte di un essere umano è ignobile!”.
Ci va di mezzo anche l’Agesci. L’attivista M5S sul suo profilo tra le informazioni ha scritto “lavora presso Agesci gruppo Genova 14”. E così molti utenti stanno scrivendo proprio all’Agesci di Genova. L’Agesci gruppo Genova su Facebook si vede quindi costretta a fare questa precisazione: “Da questa mattina la Comunità Capi riceve tramite i canali social ingiurie e manifestazioni di sdegno e repulsione per alcuni post pubblicati da questa perona, la quale sul suo profilo – nonostante i nostri inviti a rimuoverlo – mantiene la dicitura ‘lavora presso Agesci gruppo Genova 14’. Questa persona nulla ha a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto pubblicamente prende le distanze sia dalle ideologie espresse dalla persona in oggetto sia dai contenuti da essa pubblicati”. (Fonte Facebook e Stretto Web).
L'odio dei 5 Stelle contro Jole Santelli, il post di Paola Castellaro: "Evvai, una mafiosa di meno". L'odio non si ferma nemmeno davanti alla morte, come dimostra Paola Castellaro, attivista 5 Stelle, con un post contro Jole Santelli a poche ore dalla sua scomparsa. Francesca Galici, Venerdì 16/10/2020 su Il Giornale. L'odio del web non si smentisce mai, nemmeno davanti alla morte. La scomparsa del governatore della Calabria, Jole Santelli, ha scatenato gli istinti più bassi di molti utenti del web che, si sono spinti ben oltre con commenti inutili e fuori luogo. Dalle pagine di satira fino ad attivisti politici, i messaggi contro la Santelli non si contano. Tra questi c'è un post di Paola Castellaro, che dopo aver pubblicato la sua gioia per la morte di una donna, è stata sommersa dalle critiche, al punto che non si è limitata a cancellare il commento, ha preferito sospendere il suo profilo di Facebook. "Evvai!!! Una mafiosa di meno!!! Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio ecc. ecc.", ha scritto Paola Castellaro. Parole violente e cattive come non mai, che fotografano una situazione fuori controllo nel nostro Paese. La donna si vantava di essere un'attivista del Movimento 5 Stelle, anzi, "la prima attivista genovese dai tempi degli 'Amici di Beppe Grillo'". Il suo attivismo politico è certificato anche da una candidatura alle amministrative del 2017 nel consiglio comunale con il Luca Pirondini per il Movimento 5 Stelle. Forse consapevole dell'errore commesso, o forse per evitare di continuare a essere sottoposta alla gogna mediatica per quanto scritto, Paola Castellaro ha preferito eliminare il suo profilo Facebook. Ma il web non perdona, rimane sempre una traccia di quanto scritto, tanto più quando si tratta di affermazioni di questo tenore. Inevitabile la polemica contro di lei, tanto che molti utenti adesso chiedono che vengano presi provvedimenti. "In merito a Paola Castellaro. Vi prego segnalate queste sue esternazioni alla scuola dove lavora. Mi sono presa la briga di cercare informazioni e ho scoperto che dovrebbe lavorare al liceo Parini di Genova", scrive Maura che si appella agli altri utenti: "Per cortesia spendere 5 minuti del vostro tempo per far sì che anche le parole d'odio e la cattiveria sui social possano aver conseguenze nella vita reale, andando oltre il credo politico". A dissociarsi dalla signora è anche il gruppo scout Agesci - Genova 14, che la Castellaro ha indicato come una delle sue sedi lavorative nel profilo Facebook. Per questa ragione, il distaccamento scoutistico ha ricevuto neumerosi insulti e inviti a prendere le distanze dalla Castellaro. "Questa persona non ha nulla a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto, pubblicamente, prende le distanze sia delle ideologie espresse dalla persona in oggetto, sia dai contenuti da essa pubblicati", si legge nel messaggio.
Jakob Fuglsang, il ciclista danese favorito al Giro deride gli italiani: "In Sicilia c'è spazzatura ovunque, sotto Firenze è Africa". Poi la "precisazione". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. "In Sicilia c'è spazzatura ovunque, sotto Firenze è Africa". Autore di queste "perle" è il ciclista danese Jakob Fuglsang, uno dei favoriti del giro d'Italia. Il 35enne, in una rubrica che scrive periodicamente per un giornale del suo Paese, ha riservato all'Italia e agli italiani parole sgradevoli, del tipo "Non capisco perché non ci sia il ponte tra Sicilia e Calabria, forse la mafia ha interesse che non venga costruito". Contattato dalla Gazzetta, Fuglsang ha provato a difendersi: "Non è così, non ho mai detto quelle cose. Le traduzioni con Google Translate, credetemi, non sono così affidabili. Io amo l’Italia e quella traduzione non rispecchia il mio pensiero". Il ciclista ha fatto sapere anche di aver parlato con il giornalista che raccoglie il testo: "Gli ho detto che non è possibile che vengano travisate così le mie parole", poi ha aggiunto: "Ho detto, quello sì, che ho notato diversi cani per strada che andavano in giro a cercare da mangiare per strada perché in certi punti c’era un po’ di spazzatura. Qualcuno ha anche attraversato la strada durante le tappe. Niente di più. Io amo l’Italia".
Ciro Scognamiglio per gazzetta.it il 15 ottobre 2020. La rubrica che Jakob Fuglsang tiene per un giornale danese fa ancora discutere, dopo le punzecchiature a Vincenzo Nibali ("Non mi saluta, forse è geloso di me") e un chiarimento privato tra i due. Stavolta però le frasi tradotte in inglese e rimbalzate al Giro contro il Sud Italia in particolare sono state gravissime, da stigmatizzare senza riserve. Estratti: "In Sicilia c’è spazzatura ovunque"; "Come dicono tutti gli italiani del Nord, tutto sotto Firenze è Africa"; "Non capisco perché non ci sia il ponte tra Sicilia e Calabria, forse la mafia ha interesse che non venga costruito". In serata, la Gazzetta ha contattato il 35enne danese dell’Astana in merito. Ecco le sue precisazioni: "Non è così, non ho mai detto quelle cose. Le traduzioni con Google Translate, credetemi, non sono così affidabili. Io amo l’Italia e quella traduzione non rispecchia il mio pensiero". Jakob fa questa rubrica per il giornale BT come una sorta di diario: "Ho parlato con il giornalista che raccoglie il testo e gli ho detto che non è possibile che vengano travisate così le mie parole. Ho detto, quello sì, che ho notato diversi cani per strada che andavano in giro a cercare da mangiare per strada perché in certi punti c’era un po’ di spazzatura. Qualcuno ha anche attraversato la strada durante le tappe. Niente di più. Io amo l’Italia, è la prima volta che sono stato in Sicilia e in tanti posti del Sud e mi sono piaciuti. La tappa lungo la costa pugliese è stata fantastica. Tanti posti bellissimi. Mi dispiace molto che ci sia stato questo equivoco".
Sud, la recensione del libro di Marco Esposito che passa in rassegna i luoghi comuni sul Mezzogiorno. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 09 ottobre 2020. I meridionali non rispettano le regole, è più forte di loro: non ce la fanno proprio. E per di più non pagano le tasse. Il loro sport preferito è l'evasione fiscale. Il Mezzogiorno non decolla, nonostante l'intervento straordinario dello Stato. Gli abitanti del Sud migrano al Nord per curarsi poiché la gestione della loro sanità è contraddistinta da sprechi e ruberie. La massima ambizione di chi nasce nella parte inferiore dello Stivale è il posto pubblico e, una volta ottenuto, ci si dedica all'assenteismo, ché tanto lo stipendio è assicurato. Se solo non ci fosse il Meridione, che campa sulle spalle del Settentrione, l'Italia sarebbe più ricca. Non soltanto il Sud non è in grado di guadagnare, ma non è neppure capace di spendere le risorse che riceve in dono: i fondi europei, ad esempio, vengono restituiti al mittente. Del resto, i politici meridionali sono un branco di inetti. La popolazione del Mezzogiorno non fa che lamentarsi, vittimizzarsi, piangersi addosso. Prima di essere lapidata per quanto ho appena scritto preciso che questi e altri postulati sono riportati e smontati uno ad uno nel libro di Marco Esposito Fake Sud, perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede d'Italia, edito da Piemme. Ricorrendo ad una parola tanto in voga da essere abusata, ossia "fake", che significa "finto", l'autore nella sua opera ben documentata passa in rassegna una carrellata di "luoghi comuni", alcuni addirittura atavici, riguardo il Mezzogiorno e chi ci abita. Si tratta di preconcetti così sedimentati che ognuno di noi di fatto li ripete senza metterli in dubbio ed è avvezzo ad ascoltarli rimbombare nelle orecchie. In tal modo queste false credenze non soltanto hanno distorto la visione che coloro che dimorano nel Settentrione hanno di coloro che dimorano nel Meridione, bensì pure la visione che questi ultimi hanno di loro stessi. Un pregiudizio non è mica una cosa da niente: esso può addirittura bloccare lo sviluppo, tanto più se i tabù in questione sono copiosi. La loro funzione nel tempo è stata quella di mascherare sia le inefficienze sia lo scarso interesse delle istituzione nei confronti del Sud, considerato quale serbatoio di voti, da garantirsi mediante facili promesse o attraverso la prassi, consolidata in certe aree del nostro Paese, di trasformare i diritti in favori. Dunque l'arretratezza delle regioni meridionali è stata imputata alla loro posizione geografica, che le isolerebbe rispetto al resto del continente. Ennesima balla, in quanto il trovarsi al centro del Mediterraneo può rappresentare una formidabile opportunità, magari estendendo verso sud l'alta velocità, investendo in infrastrutture, rendendo più agili i trasporti. Cose che non sono mai avvenute. E la colpa non è tutta del cittadino meridionale sporco, brutto, cattivo e indolente. Egli è stato sempre ingannato, preso per i fondelli, illuso. Si è aggrappato ora a questo partito e ora a quest' altro, ma non ha mai visto la sua condizione mutare in meglio. Pensiamo all'ultima gigantesca fregatura: il Movimento Cinquestelle, il quale ha istituito un ministero del Sud che per il Sud non ha compiuto un bel niente. I pentastellati hanno assicurato posti di lavoro, eppure la disoccupazione, già endemica in alcune province, si è aggravata. E i beneficiari del reddito di cittadinanza in questi anni non hanno ricevuto neppure una proposta di lavoro, eppure avrebbero dovuto ottenerne addirittura tre nel giro di qualche mese. Questo ci raccontava l'ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio, poi migrato agli Esteri, non all'estero purtroppo. Sono tali lusinghe e promissioni continuamente infrante a fiaccare l'animo di noi terroni. Pardon, Esposito ritiene che "terrone" sia un'offesa. Non sono dello stesso avviso. Investiamo orgoglio in dosi massicce in polemicucce di lana caprina e trascuriamo poi di difendere i nostri diritti essenziali. Ignoro se queste che sto per introdurre siano bufale o meno, ma ai miei concittadini rimprovero l'assenza di intraprendenza, la rinuncia alla ribellione, l'accettazione passiva della realtà. Noi calabresi, ad esempio, proprio come i siciliani, abbiamo subìto per secoli incessanti invasioni, piegandoci nostro malgrado al potente di turno, e tutto questo un po' ce lo portiamo inciso nel nostro dna. Non siamo insorti. Non osiamo farlo neppure ora. Ci siamo dimostrati sempre in qualche modo favorevoli alla sottomissione. E poi ci crogioliamo troppo sui doni che ci ha elargito Madre Natura: il clima, il mare, i monti, fauna e flora uniche. Tuttavia, non sfruttiamo a dovere ciò che possediamo e questo è un peccato: equivale a disperderlo, a sprecarlo. Dopo le tante frottole che circolano sul Meridione, ci sono quelle - ancora più pericolose forse - che il Meridione fa circolare riguardo se stesso, come quella che lo vorrebbe terra di straordinarie ricchezze depredate con l'Unità d'Italia dagli invasori piemontesi che avrebbero impoverito quei luoghi. Il guaio del Sud è che c'è sempre qualcuno a cui dare la colpa del proprio malessere, contro cui puntare il dito, ché tanto così è più facile. E ciò conduce a permanere in uno stato di tragico immobilismo: «Se gli errori sono altrui, allora io non posso fare nulla per cambiare lo status quo». È uno schema da distruggere. Poiché il Meridione ha solo un modo di risollevarsi: premendo il peso sulle proprie ginocchia al fine di mettersi in piedi. Sarebbe opportuno che Nord e Sud deponessero i reciproci pregiudizi (nonché le armi) e facessero uno sforzo per conoscersi davvero, poiché - e ancora non ce lo siamo ficcato in testa - siamo parte di una stessa Nazione, di un medesimo organismo. Se una parte annaspa, neppure l'altra sta mica tanto bene.
Vittorio Feltri sul Meridione: "Cosa amo, cosa non funziona e perché dovrò sempre difendermi dai cretini". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Caro Daniele, intanto complimenti: scrive in modo delizioso e compie osservazioni sensate per cui si rassegni a esser criticato, persino insultato. Ormai nel nostro Paese chi fotografa la realtà con un linguaggio opportuno, che non è mai politicamente corretto, passa per essere razzista o almeno antimeridionale. I meridionalisti di una volta, ne cito due su tutti, Gaetano Salvemini e Corrado Alvaro, la pensavano già come lei, persona intelligente e sensibile. La povertà oramai è diventata una vocazione in alcune regioni, viene difesa e vantata come fosse motivo di orgoglio. In una circostanza in tivù ho affermato che i cittadini del Sud in alcuni casi non soffrono di un complesso di inferiorità, bensì sono inferiori. Il mio non era un discorso antropologico, ma si riferiva al peso economico, organizzativo e sociale. Un territorio che esprime addirittura quattro mafie, siciliana, calabrese, napoletana e pugliese, deve essere indotto a modificarsi: cambiare abitudini, dedicarsi alla produzione di ricchezza, migliorare le condizioni ambientali. Per realizzare tale programma servono infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo, da cui dipende poi la qualità della vita. Il Meridione dispone di notevoli cervelli, copiose eccellenze e molte potenziali risorse. Tuttavia, se la politica sia locale che nazionale non è capace di sfruttare i propri beni, non possiamo applaudirla. L'inferiorità del Sud rispetto al Nord si misura attraverso il reddito pro-capite: in Lombardia 36 mila euro, in Campania 19 mila. Una differenza abissale che pone in risalto l'inadeguatezza della classe dirigente ad affrontare e risolvere i problemi che affliggono i meridionali. Naturalmente le mie frasi di senso comune hanno irritato la maggioranza dei suoi conterranei, i quali mi hanno ricoperto di improperi, convinti che il mio intento fosse quello di offenderli e non quello di stimolarli a reagire. Io sono innamorato del Molise dove ho vissuto a lungo, ne conosco la popolazione sannita, e a Guardialfiera, dove da ragazzo mi recavo, ho fatto di recente una donazione finalizzata a restaurare la campana più antica del pianeta. Ovviamente ho ricevuto affettuosi ringraziamenti dagli amici, però hanno prevalso i rimproveri di altra gente per via delle mie dichiarazioni sulla arretratezza del Mezzogiorno. Così va il mondo. Stimato Daniele, finché varranno di più le parole (male interpretate) dei fatti, lei ed io dovremo sempre proteggerci dai cretini, una maggioranza schiacciante. Le do un consiglio: venga a Milano, che digerisce tutti, perfino me. Un'ultima annotazione che vuole essere spiritosa. Spesso napoletani e calabresi mi dicono che loro, comunque, hanno tante bellezze naturali, tra cui il mare. Vero. Ma mica le hanno fatte loro. Gliele ha regalate il Padreterno, forse dispiaciuto poiché non se le godono né le adoperano come dovrebbero.
In Italia troppi parassiti, ma se non lavora nessuno chi ci salverà dalla crisi? Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 13 agosto 2020. Ho scritto più volte che dieci milioni di italiani ne mantengono cinquanta. Non è propriamente uno scoop. È la triste, per quanto denegata, realtà di un paese che tra i molti impedimenti alla crescita registra appunto questo: che quelli che lavorano sono pochi, e si dissanguano per mantenere i troppi che non lavorano. Ebbene, soprattutto da sinistra (e soprattutto da sud) ti rinfacciano che non è vero perché gli occupati in Italia in realtà non sono dieci ma venti milioni e rotti. Ora, a parte il fatto che venti su sessanta sono comunque pochi, c'è il dettaglio che il dato formale sull'occupazione non dice niente circa quello sostanziale: occupati, va bene (cioè stipendiati), ma lavorano? Non è uno scoop nemmeno quest' altro: la metà e oltre degli occupati non è occupata per nulla: è improduttiva, come sa chiunque. Sono ineccepibilmente "occupati" i dipendenti che godono legittimamente di aspettative, distacchi e permessi retribuiti: ma lavorano? Sono indiscutibilmente occupati i seimila (o novemila?) dipendenti del Comune di Palermo: ma ipotizzare che contribuiscano effettivamente, tutti quanti, sul fronte positivo dell'economia nazionale è forse azzardato. I venti milioni di "occupati" comprendono poi, per esempio, ventimila forestali siciliani (la Calabria è più inibita: ottomila): in Canada sono la metà della metà, ma è sicuramente perché lì c'è meno foresta. Ancora, sono inoppugnabilmente "occupati" gli undicimila dipendenti della Rai, che indubbiamente appartengono ai venti milioni di cui sopra: e non vorrai mica dirmi che questi undicimila non si guadagnano fino all'ultimo centesimo i novecento milioni di euro che gli paghiamo. E sono tutti perfettamente "occupati" i tre milioni di dipendenti che fanno funzionare in modo così egregio le nostre amministrazioni pubbliche. Che cosa faccio, continuo? Che le generazioni di parassiti (solitamente l'accesso allo status è dinastico) perdano completamente le staffe quando si ricordano quelle verità elementari è del tutto comprensibile, ma non è una buona ragione per dimenticarsene e semmai è una buona ragione per continuare a rinfacciarle. Specie se dobbiamo sopportare l'insulto di una Costituzione che vuole questa balorda Repubblica fondata sul lavoro.
Professore di Lecce vince il Global Teacher Award: è il primo italiano a ricevere il premio. La Repubblica il 26 ottobre 2020. Daniele Manni insegna imprenditorialità e informatica all'Istituto "Galilei-Costa-Scarambone": aiuta studentesse e studenti a ideare micro e piccole imprese innovative che lanciano sul mercato nuovi prodotti e servizi. Il professor Daniele Manni, docente di imprenditorialità e informatica all'Istituto "Galilei-Costa-Scarambone" di Lecce, è il primo docente italiano a vincere il prestigioso ed internazionale "Global Teacher Award". A darne notizia è la ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina che si dice "orgogliosa". Il 22 novembre, in India, avrà luogo la cerimonia di consegna del riconoscimento. Già a settembre il professor Manni è stato sul podio degli "Innovation and Entrepreneurship Teaching Excellence Awards", arrivando 3°. Da anni al "Galilei-Costa-Scarambone" le studentesse e gli studenti vengono aiutati ad ideare micro e piccole imprese innovative che lanciano sul mercato nuovi prodotti e servizi. "Complimenti dunque al prof. Manni, alla dirigente scolastica Addolorata Mazzotta e a tutto l'Istituto per il prezioso lavoro portato avanti e i traguardi raggiunti", conclude la ministra.
Carlo, un italiano per la prima volta tra i dieci prof migliori del mondo. Pubblicato giovedì, 01 ottobre 2020 da Caterina Pasolini su La Repubblica.it. Mazzone, insegnante di informatica a Benevento, ha sfidato 12mila docenti di 140 paesi arrivando nella decina finale ai Global teacher prize. In palio, dalla Varkey Foundation, un milione di dollari da usare per progetti legati alla scuola. Un professore di italiano tra i dieci migliori professori del mondo. Carlo Mazzone, 55 anni di Ceppaloni, docente di informatica a Benevento, è il primo italiano a riuscire ad arrivare nella decina di finalisti che cercheranno di aggiudicarsi il Global Teacher prize. Il premio, giunto alla sesta edizione, in collaborazione con l'Unesco, e creato dalla Varkey Foundation, ha visto quest'anno sfidarsi 12mila insegnanti di 140 paesi per aggiudicarsi il milione di dollari in palio che dovranno essere spesi in progetti per la scuola. "Io vorrei usare quei soldi per aiutare gli studenti a diventare imprenditori di loro stessi, per combattere l'abbandono scolastico che al sud è drammatico. Perché per ogni ragazzo che abbandona gli studi, si perde un pezzo di futuro", dice Mazzone che da giovane era considerato la pecora nera di casa. Figlio e fratello di docenti, insegnanti, presidi, amanti di greco e latino, lui disdegnava le materie umanistiche. Voleva fare lo scienziato, amava l'elettronica, tanto da iscriversi di nascosto a radio Elettra leggendosi i fascicoli di nascosto, come giornalietti proibiti. Mancando volumi sulla sua materia, sui computer, negli anni ha cominciato a scriverli basandosi sulla sua esperienza prima nelle aziende e poi in classe, organizzando le lezioni in pratiche sfide tra gruppi di alunni per creare progetti. E molti sono stati premiati in concorsi europei. Fra i top 10 con Carlo Mazzone anche gli insegnanti Jamie Frost (Inghilterra), Mokhudu Cynthia Machaba (Sudafrica), Leah Juelke (Stati Uniti) e Yun Jeong-hyun (Corea del Sud). La premiazione via web causa Covid avverrà il 3 dicembre a Londra dal Natural History Museum, verrà anche annunciato anche un riconoscimento ad un eroe, che si è spinto oltre per far sì che i giovani continuino ad imparare durante la pandemia. "Il Global Teacher Prize è stato infatti creato per mettere in luce l’importante ruolo svolto dagli insegnanti nella società. Rendendo note migliaia di storie di eroi che hanno trasformato la vita dei più giovani, il premio mira a mettere in primo piano l’eccezionale lavoro degli insegnanti in tutto il mondo, quest'anno, più che mai, abbiamo visto gli insegnanti andare oltre per far sì che i giovani continuassero a imparare in tutto il mondo", ha sottolineato Sunny Varkey, imprenditore e filantropo che ha creato il premio. Sulla stessa linea l'Unesco. Le congratulazioni al professore di Ceppaloni le ha espresse Stefania Giannini, vicedirettore generale dell'Unesco, per il settore educazione. "Spero che la sua storia, scelta tra i tanti talentuosi e motivati docenti, ispiri chi vuole intraprendere la professione e metta in luce l'incredibile lavoro svolto quotidianamente dagli insegnanti in Italia e nel mondo. Il Global Teacher Prize aiuta a porre la voce degli insegnanti al centro della nostra missione, ovvero promuovere opportunità di insegnamento inclusive per i bambini e i ragazzi di tutto il mondo. Da quando è emersa la pandemia di coronavirus, 1,5 miliardi di studenti sono stati colpiti dalla chiusura di scuole e università. Non tutti allo stesso modo. I governi devono imparare da queste lezioni e agire con decisione per garantire che tutti i bambini ricevano un'istruzione di qualità nell'era del Covid e non solo".
Ma l'orrore non ha la bussola. Renato Moro Venerdì 2 Ottobre 2020 su quotidianodipuglia.it. Quando il giudice lesse la sentenza di condanna dei responsabili della morte di Renata Fonte, l'assessora uccisa a Nardò nella notte del 31 marzo di 36 anni fa, il faccendiere Antonio Spagnolo (mandante del delitto) sbottò in aula: «Ho capitato come Gesù!». Quelle parole fecero ridere giudici, avvocati e giornalisti, ma tutto finì lì perché la mancanza dei social e la scarsa attenzione dei telegiornali nazionali negarono un moltiplicatore a quello strafalcione. Oggi non sarebbe così. Oggi anche il mandante del delitto Fonte finirebbe nel parco degli insulti senza passare dal via. E soprattutto oggi il popolo dei social - o, meglio, quella parte di esso abituato a ragionare con i piedi - troverebbe il modo di legare quel verbo sbagliato alla latitudine che ha visto nascere e crescere l'imputato: ignorante, spietato, ambizioso fino a uccidere e figlio di un Sud che viaggia con una velocità tutta sua non solo nell'economia e nella sanità, ma anche nel bisogno di legalità e persino nella grammatica. È così. In questa Italia affetta da diplopia congenita c'è sempre una linea che divide tutto, anche l'indivisibile, ed è la linea immaginaria che separa un Sud liquido, e quindi espandibile al bisogno, da un Nord con i confini chiari e fissati col cemento. La tragica sorte di Eleonora Manta e Massimo De Santis e il conseguente arresto dell'assassino reo confesso offrono l'ennesimo esempio. Dalla sera di quel maledetto 21 settembre spesso ci si è avventurati un una lettura dei fatti che sa di vecchio, che puzza di umidità e muffa per quanto tempo quella lettura è rimasta - e sembra rimanerci ancora - nei cassetti della peggiore sociologia. Il principio, forzando un po' i concetti, sarebbe che se uccidi a Trezzano sul Naviglio o a Trento la colpa è in te, nella famiglia, nella scuola, nel prete che ti ha violentato a dieci anni o nello zio del cuginetto che ti baciava con troppa passione; se invece uccidi a Casarano o Rossano Calabro la colpa è in te, ma anche fuori da te e dal tuo mondo. Soprattutto colpa del Sud, forse delle «case bianche sferzate dallo scirocco sparse lungo poderi ticchiolati di ulivi e fichidindia» (Omar Di Monopoli ieri sul Fatto Quotidiano, c'è da chiedersi dove veda ancora degli ulivi), delle vecchie vestite di nero o magari della salsa fatta in casa, ma venuta acida. Così - tornando a ciò che scrive Di Monopoli -, la Casarano che è stata e sta tornando ad essere una capitale italiana del calzaturiero, che istruisce fino alla maturità i ragazzi di mezzo Salento e che si pone come centro commerciale e produttivo di un territorio vasto quasi quanto il Molise, diventa un «villaggio dimenticato da Dio»». Ciliegine sulla torta la doppia vita dell'assassino che ci ricorda «la polvere nascosta sotto l'ovattata quiete di certi luoghi del Sud»» (Marco Travaglio nel post che su Facebook presenta l'articolo di Omar Di Monopoli) e quella «Terra del male» con cui il redattore ha voluto titolare. Ora, sia chiaro che Di Monopoli è scrittore intelligente e leggibilissimo e che le sue letture non sono certo ferme al “Cristo fermatosi ad Eboli”, ma è pur vero che nell'interpretazione di questi fatti forse si sta un pochino esagerando. Antonio De Marco ha ucciso quei due poveri e innocenti fidanzati in un condominio di Lecce, ma avrebbe potuto farlo in un quartiere di Treviso o nel centro di Bologna. È quello che aveva e ha dentro che interessa. Il percorso che lo ha portato a uccidere che deve essere studiato, non se e perché Dio ha cancellato Casarano dalla sua agenda. Sta accadendo ciò che accadde con la famosa villetta dei Misseri ad Avetrana, dove fu uccisa Sarah Scazzi. Una casa di periferia come tante altre, col giardino davanti e il garage accanto, che potrebbe sorgere a Padova come ad Arezzo, ma quella - proprio quella - divenne il simbolo di un Sud assolato e sonnacchioso (era agosto) che chiude le imposte e gli occhi al passaggio di una ragazzina quindicenne e cerca di coprire i responsabili della sua morte. Non fu colpa di Avetrana, fu semplicemente colpa delle persone che Sarah incontrò il pomeriggio in cui scomparve. E Misseri, zio Michele, è solo un uomo senza scrupoli che ha nascosto il cadavere della nipote e coperto moglie e figlia assassine. Avrebbe potuto farlo a Genova, ma vuoi mettere quel dialetto e quella mattanza di congiuntivi che sembrano legarlo a doppio filo a un Sud ignorante, sgrammaticato e geneticamente delinquente? Siamo alla fiera dei luoghi comuni. Il fatto è che il degrado sociale, la fuga nell'illegalità e la scarsa disponibilità a collaborare con la Giustizia non sono connotazioni prettamente meridionali. Nell'omicidio di Yara Gambirasio, avvenuto a Bergamo, ci sono più tentativi di depistaggio di quanti possa averne messi in atto ad Avetrana la ditta Misseri. Erika e Omar uccisero la mamma e il fratellino di lei a Novi Ligure, in Piemonte. L'unica differenza con Casarano è che lì non si eccelle nella produzione delle scarpe, ma del cioccolato. Olindo e Rosa massacrarono quattro vicini di casa a Erba, nella ricca Lombardia. Prima ancora, 45 anni fa, i tre aguzzini che violentarono e seviziarono Donatella Colasanti e Rosaria Lopez (quest'ultima uccisa) venivano da uno dei più ricchi quartieri di Roma. L'elenco potrebbe continuare, ma sarebbe un esercizio inutile. Leggere dentro un assassino è diritto di tutti. Ma occorrerebbe partire da un punto fermo: per sprofondare negli abissi della mente non è richiesto il certificato di residenza.
In metro a Milano con maglietta "Odio Napoli". L'edicolante napoletano non lo serve e lui lo aggredisce. Le Iene News l'1 settembre 2020. La storia è stata raccontata su Facebook ed è diventata virale: un uomo avrebbe cercato di comprare un biglietto nella metropolitana di Milano indossando la maglietta razzista. L’edicolante si sarebbe rifiutato di servirlo e sarebbe scattata l’aggressione. Un uomo va in edicola nella metro alla fermata di Molino Dorino, a Milano, con addosso la maglia “Odio Napoli” che potete vedere nella foto qui sopra. L’edicolante però è napoletano, si rifiuta di servirlo, e si scatena un parapiglia. Questa incredibile vicenda è stata raccontata su Facebook dallo stesso edicolante, Carlo: stando al suo racconto i fatti sarebbero accaduti lunedì pomeriggio, alla periferia sud ovest del capoluogo lombardo. L’uomo con la maglietta razzista avrebbe voluto acquistare un biglietto d’ingresso per la metro. L’uomo, cappellino in testa e maglietta nera con la scritta gialla a caratteri cubitali, appena si è accorto che il negoziante proveniva proprio dalla quella città tanto odiata, e che si rifiutava di servirlo per colpa di quella stessa maglietta, avrebbe iniziato ad inveire contro di lui, arrivando a scagliargli addosso giornali e intonando cori da stadio contro la città partenopea. Alla fine, come ha raccontato lo stesso edicolante e come avrebbero notato gli addetti al servizio di sorveglianza della metro, si sarebbe allontanato in compagnia di due bambini “divertiti” dalla scena. L’edicolante però ha voluto lanciare un messaggio positivo sui social: “Ci tengo molto a precisare una cosa per me molto importante. Spero che questa cosa non generi altro odio ma faccia capire che i pregiudizi stanno rovinando il mondo. Deve passare un concetto e un messaggio chiaro: io ho tanti amici milanesi a cui voglio bene e che stimo tantissimo e alcuni sono anche meglio di qualche napoletano sicuramente. Non possiamo andare avanti con stereotipi e pregiudizi". Tante volte noi de Le Iene ci siamo occupati di razzismo, come quando vi abbiamo raccontato degli insulti allo stadio contro il calciatore Balotelli o delle dichiarazioni del critico d’arte Philippe Daverio contro i siciliani: episodi gravi che non ci stanchiamo di condannare.
Da leggo.it. «Odio Napoli». Scritto sulla maglietta e cantato in faccia all'edicolante. Quest'ultimo, Carlo, non ha battuto ciglio e nonostante lo snack lanciato addosso dallo sconosciuto ha mantenuto la calma: «Mi sono rifiutato di servirlo perché indossava quella scritta e ho detto a quell'uomo di rivolgersi a un altro collega. Come risposta mi ha cantato cori contro la mia città lanciandomi uno snack...». La storia è stata raccontata su Facebook da Carlo che lavora a Milano, più precisamente nell'edicola di Molino Dorino proprio dove le telecamere di sorveglianza hanno ripreso la scena. Con la stessa calma con la quale ha reagito alla provocazione, Carlo ha invitato l'"hater" di strada a un confronto pacifico e civile: «Mi dispiace per come la pensi ma sono qui per parlarne insieme e magari spiegarti che, nella vita, non bisogna generalizzare. Magari pubblicheremo insieme una foto a pace fatta...».
"Odio Napoli", parla il ragazzo: "All'edicolante ho detto napoletano di m***a per rabbia". Giulio Melis su Le Iene News il 2 settembre 2020. Ecco il video esclusivo delle telecamere di sorveglianza e la versione del ragazzo che indossando la maglietta ‘Odio Napoli’ ha scatenato un caso scontrandosi nella metro di Milano con un edicolante partenopeo. Ci ha contattato: “È un odio sportivo, e anche se fosse stata contro i napoletani questo non è razzismo”. “Alla fine gli ho detto "napoletano di merda" per rabbia perché ha fatto una cosa grave. Ma non l’ho aggredito: gli ho solo tirato due biscotti contro la vetrina delle sigarette”. Marco (il nome è di fantasia) ci ha contattato per darci la sua versione del caso che vi abbiamo raccontato ieri del ragazzo che si è presentato in un negozio all’interno della metropolitana di Milano all’altezza della stazione di Molino Dorino, parte sud ovest della città, con addosso una maglietta con la scritta “Odio Napoli” scontrandosi con un edicolante partenopeo. Marco è quel ragazzo che vedete qui sopra nel video, che vi mostriamo in esclusiva, girato dalle telecamere di sorveglianza (clicca qui per l’articolo di ieri). “Ero con i miei fratellini. Vado sempre lì ogni settimana a prendere le sigarette e li conosco bene, soprattutto un suo collega. Questo edicolante, napoletano, mi ha detto: "Io con quella maglia non ti servo". Pensavo scherzasse, ero già andato lì anche con quella maglietta. Poi mi sono un po’ incazzato e ho lanciato due biscotti contro la vetrina delle sigarette. Andandomene mi sono sentito dire: "O coglione, che cazzo fai!", gli ho risposto "ma vai, vai, napoletano di merda". L’ho detto per rabbia, non perché è napoletano, è perché era il tema della maglietta. Quello che ha fatto lui è molto grave, io sono un cliente, porto i soldi e penso che abbia il dovere di servirmi al di là delle sue opinioni su una cosa che ha il cliente”. Già, ma perché indossava quella maglietta con la scritta razzista “Odio Napoli”? “È un odio sportivo, io sono tifoso dell’Inter e odio la squadra di Napoli, come la Juventus e il Milan”, prosegue Marco al telefono raccontandoci anche di aver ricevuto una denuncia, di cui però non vuole parlare, durante una trasferta per seguire la propria squadra. “Non sono razzista, ho amici napoletani che se la ridono della maglia. Ma mettiamo fosse anche contro i napoletani, il razzismo è altro. Magari ora, vista la situazione, per un po’ di giorni non metterò più questa maglietta”. Marco ci dice anche di non escludere di adire per vie legali: “Ho parlato con mio cugino avvocato che mi ha spiegato che ho pienamente ragione: lui non poteva non servirmi”. Queste sono la versione e le idee di Marco. A noi quella maglietta proprio non va giù, anche perché "odio" è sempre una brutta parola che non si dovrebbe usare mai: siamo andati a parlare anche con l’edicolante.
Con la maglia “Odio Napoli, chi è l’edicolante napoletano: “I pregiudizi rovinano il mondo”. Da Salvatore Russo il 31 agosto 2020 su vesuviolive.it. 15 euro per oltraggiare la città di Napoli. Tanto costa la maglietta con la scritta “Odio Napoli” indossata da un giovane nella metro di Milano, stazione Molino Dorino. Non è passato inosservato alle telecamere di sicurezza che mostrano la sua reazione aggressiva quando l’edicolante napoletano si rifiuta di vendergli un biglietto, ferito per una frase che colpisce direttamente la sua provenienza territoriale. Razzismo è forse la parola più adatta per descrivere il senso di quelle parole intonate nelle curve di mezza italia, marchiate su una T-shirt facilmente acquistabile presso rivenditori fisici e online per tifosi. Dietro il verbo “odiare” si cela tutto ciò che dovrebbe suscitare sdegno, nonostante le poco convincenti argomentazioni sugli sfottò da stadio che tutto consentirebbero. Trattasi di denigrazione rispetto all’idea che si ha del popolo napoletano, considerato ancora come arretrato perché incivile e tendenzialmente predisposto al crimine. Almeno per una parte d’Italia. L’oggetto dell’offesa è chiaramente la città di Napoli e non la squadra di calcio. Concetto molto simile a quando si canta “Vesuvio lavali, Napoli colera” e via di seguito. L’edicolante è Carlo Volpicelli, 29enne nato a Napoli e cresciuto a Casoria. Studia nella città partenopea prima di emigrare verso nord in direzione Milano a 19 anni. Lavora come dipendente in quell’edicola e dal 2019 la gestisce in compagnia di un socio. «Il ragazzo non è nuovo a queste cose, è già passato altre volte con questa maglietta. Gli ho sempre detto di non indossarla, perché io non ce l’avrei fatta a servirlo così – sottolinea Carlo -. Tante altre volte era vestito in maniera normale e ho svolto il mio servizio regolarmente. Ma oggi alla vista di quella maglia non ce l’ho fatta». Il giovane accompagnato da due bambini si avvicina alla cassa, Carlo decide di non vendergli il biglietto e per risolvere la faccenda si sposta per consentire al suo collega di ultimare l’operazione, ma qui scatta la reazione scomposta dell’uomo che gli scaraventa addosso degli snack. «Ogni giorno combatto contro i pregiudizi, qui a Milano ci sono tanti milanesi intelligenti che comprendono e non ne hanno. Con la speranza che questa cosa non generi altro odio ma faccia capire che i pregiudizi stanno rovinando il mondo. Deve passare un concetto, io ho tanti amici milanesi che voglio bene e che stimo, non bisogna fare nemmeno noi di un’erba un fascio, altrimenti – sottolinea l’edicolante napoletano – restiamo piccoli come questo individuo. Se questa persona dovesse sentire il bisogno di chiarirsi con me sono disponibile, sono qui e pronto a parlarci».
«Mafia» per indicare il dialetto siciliano. Polemica su libro delle elementari. Salvo Fallica il 10/10/2020 su Il Corriere della Sera. La protesta del Pd dell’Isola sul volume «Leggere è» della Mondadori: «Offesi da un libro destinato alle scuole. Va ritirato immediatamente». In Sicilia esplode una polemica su un libro di testo scolastico, che associa la regione alla mafia. A sollevare la questione è un intervento del Pd regionale che ha stigmatizzato con fermezza: «No al binomio mafia-Sicilia. È vergognoso che l’Isola ed i siciliani vengano offesi in un libro destinato alle scuole». E viene chiesto il ritiro del testo con susseguenti scuse ai siciliani. Ma qual è l’origine del caso? Qual è il testo divenuto oggetto di polemica? La questione è stata sollevata da Antonio Ferrante, presidente della direzione regionale del Pd e da Aurora Ferreri, componente della direzione regionale. In una nota congiunta affermano: «In un testo scolastico edito da Mondadori per le scuole, Leggere è, alla voce lingue e dialetti viene letteralmente riportata la dicitura “mafia (siciliano)”. È vergognoso che la Sicilia e i siciliani vengano offesi in un testo scolastico, peraltro con un accostamento che di dialettale non ha proprio nulla». Ed argomentano: «Una casa editrice storica e autorevole come la Mondadori dovrebbe sapere che non è ancora certa l’etimologia della parola mafia e che, in ogni caso, da nessuna parte viene considerato un termine dialettale. Ma anche qualora così fosse, sarebbe altrettanto grave che venga scelto per rappresentare la Sicilia un termine che è sinonimo di dolore, morte e criminalità».
L’etimologia. Va detto che il testo in questione è un libro importante sul piano della didattica, costruito con una moderna visione pedagogica, multidisciplinare, che interseca aspetti linguistici e storici, filologici e filosofici. In una pagina dedicata alle «Origini dell’italiano» viene specificato che è una lingua che deriva dal latino. Poi vengono elencate una serie di termini che derivano dal greco, dall’arabo, dalle lingue germaniche, da lingue parlate in Spagna e da «lingue e dialetti parlati in città o regioni italiane». Segue un elenco di alcune parole alle quali vengono accostate delle lingue delle diverse aree della penisola. Alla parola mafia viene accostato tra parentesi «siciliano». Ed è da questo passaggio che è scaturito il caso. Ferrante e Ferreni nel loro intervento critico hanno anche fatto un passaggio sulla incerta origine etimologica della parola. Come è noto si tratta di un fenomeno storico sulla cui genesi vi sono interpretazioni storiografiche divergenti, ed altrettante ve ne sono sull’origine del termine. Santi Correnti, ad esempio, ha sostenuto che il termine mafia deriverebbe non dall’arabo ma probabilmente dal dialetto toscano. Una disputa molto complessa.
Gli altri esempi. Ma per Ferranti e Ferreri la questione prescinde dall’aspetto etimologico e sottolineano che «non si può rappresentare la Sicilia con un termine che è sinonimo di dolore, morte e criminalità». La questione è molto delicata perché la Sicilia ha faticato tanto per liberarsi dal binomio mafia-Isola. Anche perché è proprio in Sicilia che è nata la lotta alla mafia, ed è nell’Isola che tanti magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, del giornalismo, della cultura e della società civile hanno sacrificato la loro vita per permettere allo Stato di non perdere la guerra contro i mafiosi. E se negli ultimi lustri lo Stato sgomina tanti clan è perché positivi passi importanti sono stati compiuti. In questa ottica così complessa ogni cosa che richiama lo stereotipo del binomio mafia-Sicilia produce polemiche. Il testo in questione fa riferimento ad altre lingue e dialetti. Al napoletano è associato il termine «scugnizzo», mentre al lombardo viene accostato il più poetico «rugiada» oppure il gustoso «panettone», al genovese il termine «scoglio» (solo per fare alcuni esempi). Ferrante e Ferreri concludono il loro intervento in maniera molto critica: «Chiediamo alla casa editrice di ritirare immediatamente dal commercio il libro e, contestualmente, di porgere le proprie scuse ai siciliani. In caso contrario metteremo in campo tutte le azioni necessarie perché la Sicilia merita di essere conosciuta dai bambini per le sue bellezze e la sua storia prima che per una piaga che purtroppo non è circoscritta solo all'interno dei confini della nostra isola».
Le scuse di Mondadori. Sul punto Mondadori Education afferma in una nota che «quanto segnalato si riferisce a un’edizione del 2019. La nuova versione dell’opera, pubblicata a inizio 2020 e in commercio con il titolo “Parole in cerchio”, già recepisce una variazione di quell’esempio specifico. E sulla piattaforma Hub Scuola è inoltre disponibile la versione digitale aggiornata anche del testo del 2019. La casa editrice si scusa con chiunque si sia sentito urtato da tale contenuto».
Miloš, il pugile nato in Italia che non può andare in nazionale. Perché non è Suarez. È una promessa della boxe, è nato a Roma e ci ha sempre vissuto. Con il papà serbo e la mamma romena. Poverissimi. Chi lo ha visto sul ring dice che merita la maglia azzurra. Ma non può indossarla, perché per legge non è italiano. Tommaso Giagni su L'espresso l'1 ottobre 2020. È talmente bravo che meriterebbe di essere in nazionale. Un pugile tecnico, pulito, con una preziosa continuità d’allenamento e un enorme potenziale. Sono gli altri a dirlo, lui di sé parla poco e anzi parla poco in assoluto. Non che abbia problemi a esprimersi: conosce bene tre lingue perché suo padre è serbo, sua madre è romena e lui in Italia ha compiuto tutto il percorso scolastico. L’inglese sarebbe la quarta lingua ma non gli piace studiarlo. Capita che si distragga, si applichi poco, non lo nasconde: “Penso sempre al pugilato. Adesso devo combattere un po’, qualche match per scaricarmi, così poi torno a concentrarmi sulla scuola”. In Italia, a Roma, ci è anche nato.
Da milano.repubblica.it il 9 ottobre 2020. Il sindaco di Pavia, Mario Fabrizio Fracassi, scrive al presidente della Repubblica per chiedere "la concessione della cittadinanza per eminenti servizi resi al Paese alla giovane atleta Danielle Frédérique Madam, vittima di recenti aggressioni verbali". Atleta ventitreenne, originaria del Camerun ma residente in Italia dove vive da 16 anni, Danielle Frédérique Madam aveva commentato polemicamente sui social network il tentativo di concedere la cittadinanza "lampo" al calciatore Luis Suarez. Mentre lei non ha ancora potuto ottenerla. La ragazza è stata attaccata sui social per le sue dichiarazioni ma un uomo è arrivato anche a contestarla apertamente, di presenza, nel bar dove Frédérique Madam lavora a Pavia: "Sabato un uomo sui 45 anni è entrato, ha consumato, pagato, e poi mi ha guardato, evidentemente mi ha riconosciuta e ha esclamato: 'Tu non sei italiana, a cosa ti serve diventare italiana? Tu non diventerai mai italiana'". Nasce così l'iniziativa del sindaco leghista: "Pavia è con te", dice Mario Fabrizio Fracassi. "Signor Presidente - scrive il sindaco nella missiva a Sergio Mattarella - porgendoLe i miei saluti e quelli di Pavia... Le rivolgo queste brevi righe per porre alla Sua attenzione il caso di Danielle Frédérique Madam, giovane atleta ventitreenne, originaria del Camerun ma da 16 anni in Italia (ancorché da 4 residente), e pur tuttavia non ancora in possesso della cittadinanza italiana". Fracassi ricorda che Danielle "è sportiva di assoluto valore e può già vantare tre titoli nazionali di lancio del peso nelle categorie giovanili, oltre a un attaccamento spiccato e più volte manifestato nei confronti dei colori azzurri". Da qui la richiesta della cittadinanza italiana, "in virtù degli eminenti servizi resi al Paese e per l'eccezionale interesse dello Stato che ne discende".
Michele Serra per "la Repubblica" il 10 ottobre 2020. Non c'è solo un giudice a Berlino. C'è anche un sindaco a Pavia. Si chiama Fabrizio Fracassi, ha definito "un imbecille" e "una bestia" il suo concittadino, purtroppo anonimo, che è entrato in un bar della città per dire a Danielle Madam, ventitré anni, origini africane, studi in Italia, università in Italia, lavoro in Italia (barista), campionessa di lancio del peso in odore di maglia azzurra: tu non sei italiana, tu non sarai mai italiana. Il sindaco di Pavia ha scritto al presidente Mattarella perché si trovi la maniera di dare la cittadinanza italiana a Danielle. La difende, e difendendo lei illumina la causa di molte decine di migliaia di italiani di fatto che non possono esserlo anche di nome. Invisibili che parlano la nostra lingua sicuramente meglio dell'imbecille che è entrato in quel bar, e servono la collettività come parecchi "italiani veri" non hanno la voglia o la capacità di fare. L'imbecille in questione, per esempio, che disturba e intimorisce una giovane barista mentre lavora, e tende la corda dell'intolleranza, e guasta la già difficile serenità di una società, la nostra, già piena di grane, di problemi, di paure. Capita che quel sindaco sia leghista, ed è nella logica delle cose provare un leggero stupore. Ma ben maggiore dello stupore è la soddisfazione di sapere che la coscienza civica, della quale qualunque sindaco dev' essere il primo responsabile, viene prima dei pregiudizi. Compresi i miei, che non avrei scommesso un centesimo sul fatto che avrei avuto voglia di stringere la mano a un sindaco leghista. E mi sbagliavo. E come è bello sbagliare, quando a vincere è una buona ragione.
Coronavirus, il bigliettino lasciato sul tavolo del ristorante cinese: "La puttana di tua mamma, ci avete portato il Covid". Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. Hanno mangiato con la formula “All you can eat” per un conto da 180 euro. Ma, al momento di pagare, sette ragazzi sono scappati dal ristorante cinese-giapponese “Majide” di Ciriè, in provincia di Torino. Prima di fuggire di corsa senza pagare in mezzo agli altri clienti hanno lasciato sul tavolo un biglietto scritto a mano sul foglio di un block notes con su scritto: “La puttana di tua mamma, cinesi di merda ci avete portato in covid”. Il fatto è avvenuto martedì sera. Subito è scatta una denuncia contro i sette ragazzi da parte del proprietario del locale. Il ristoratore si è presentato dai carabinieri di Ciriè e ha raccontato l'accaduto che "suona come un’offesa a tutta la comunità cinese", scrive la Stampa. Il proprietario del ristorante ha poi detto ai carabinieri che quel gruppo di giovani non aveva mai frequentato prima il locale. Si sper per le indagini in un aiuto che potrebbe arrivare dalle telecamere che sorvegliano la zona.
Prima gli italiani, solo perché quelli dopo sono “negri”. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Il taglio razzista dello slogan “prima gli italiani” si vede bene pensando a coloro che vengono dopo, cioè gli immigrati, e ai loro titoli morali e civili opposti a quelli dei cittadini nostri. Perché “prima gli italiani” dovrà pur supporre una giustificazione ulteriore e presentabile rispetto a quella di chiamarsi – che so? – Matteo o Giorgia: giusto? E dunque il criterio della graduatoria qual è? Prima che cosa, insomma? Vediamo un po’. Prima i pensionati baby? Prima gli innumeri imboscati nei ministeri? Prima gli eserciti di forestali? Prima la folla di finti invalidi? Prima i percettori del reddito di cittadinanza che perpetua il diritto al divano? Prima, insomma, l’Italia parassitaria, indebitamente assistita, improduttiva, illegale, che ci tiene ai margini del mondo avanzato? Hai presente qual è la guarnizione tradizionale di quello slogan, no? Dice: “Chi viene qui da noi deve lavorare, deve rispettare le nostre leggi, deve pagare le tasse”. Già. Lavorare come i cinquanta milioni di italiani che non lavorano essendo mantenuti dal lavoro dei dieci residui. Rispettare le leggi come normalmente sono rispettate in Italia, e cioè al livello di illegalità più elevato dell’Occidente. E pagare le tasse, infine: che notoriamente è un adempimento spontaneo e diffusissimo tra noialtri. In questo bel quadro, si ammetterà, “prima gli italiani” suona maluccio. Forse non sarebbe indiscutibile nemmeno se il nostro decoro civile fosse specchiato, ma un senso dopotutto l’avrebbe: visto che qui è tutto nel perimetro legge, tutto distribuito secondo il merito di ciascuno, tutto ben regolato nel riconoscimento dei giusti diritti e nella sanzione dei privilegi ingiusti, allora l’immigrato si adegui e rimanga su questa rotaia di perfezione sociale. Altrimenti, ciccia. Il guaio è appunto che le cose stanno ben diversamente, ed è un Paese strutturalmente illegale e furbesco quello che pretende da un diseredato africano il contegno di un milionario svedese. E allora “prima gli italiani” significa soltanto che quegli altri vengono dopo perché sono negri.
Andrea Marinelli per il “Corriere della Sera” il 5 agosto 2020. Qual è il Paese che vi sta più antipatico in Europa, quello a cui non vorreste dare nessun aiuto finanziario durante una crisi economica? È una delle domande che un sondaggio effettuato da YouGov per conto dello European university institute di Fiesole ha posto a 21 mila cittadini di 14 Paesi europei, Regno Unito compreso. Per l'Italia la risposta è (quasi) scontata: la Germania - c'è una forbice di 13 punti percentuali fra chi aiuterebbe i tedeschi e chi non lo farebbe mai - e il Regno Unito (dove il margine si riduce però a 2 punti). Fra i 14 Paesi interpellati, gli unici che non ci tenderebbero la mano sono i finlandesi, che sono anche i meno generosi del continente e non aiuterebbero quasi nessuno. Persino gli olandesi, nonostante l'estenuante trattativa sul Recovery fund, non avrebbero dubbi nei nostri confronti: ben sette Stati, invece, non potrebbero contare sull'aiuto dei Paesi Bassi. In generale, oltre ai finlandesi, i meno disponibili sono i cittadini ungheresi (non offrirebbero soldi a 12 Paesi), poi francesi e greci. Ecco, se c'è una certezza, in Europa, è che i greci non darebbero un euro ai tedeschi: il margine è di 36 punti, il più alto del continente. Un'antipatia che non risale solo alla drammatica crisi greca, ma anche allo spionaggio portato avanti dalla Germania negli anni 2000 e al maxi risarcimento da 279 miliardi di euro che Atene pretende da Berlino per l'occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale. I più generosi sono i romeni, i polacchi e i danesi - aiuterebbero tutti i Paesi europei - seguiti da Spagna, Germania e Lituania che fornirebbero soldi a tutti tranne che al Regno Unito. Sarà la Brexit, oppure un raro slancio di unità e orgoglio continentale, ma i più antipatici sembrano essere proprio i sudditi di sua maestà: oltre ai «grandi benefattori», potrebbero contare soltanto sulla solidarietà degli svedesi. Loro, invece, aiuterebbero tutti: tanto perfida, insomma, non dev' essere questa Albione.
I “corona” hanno sempre da ridire: dopo che hanno impestato l’Italia, hanno sempre la faccia tosta di offendere.
Da ansa.it il 23 luglio 2020. "Abbiamo preso decisioni in anticipo di 20 giorni rispetto ad altre regioni. Quando noi chiudevamo altrove si facevano iniziative pubbliche, si diceva “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”, “Brescia non si ferma”, poi si sono fermati a contare migliaia di morti, migliaia non centinaia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, parlando dell'emergenza Covid19 nel corso della sua visita di oggi all'ospedale di Sapri (Salerno). De Luca ha duramente attaccato la gestione dell'emergenza covid19 nelle regioni del Nord Italia. "Solo nella provincia di Bergamo - ha detto - ci sono stati 2.000 morti fra gli anziani delle residenze assistenziali. In tutta la Campania i morti nelle Rsa sono stati 14. E' stato difficile mettere in quarantena il Vallo di Diano. A Milano discutono ancora se la zona rossa doveva farla Governo o Regione. Noi intanto abbiamo chiuso e salvato la vita di centinaia di persone. Abbiamo dato una prova importante, ovviamente parte essenziale del risultato è rappresentato dalla tenuta del nostro personale, qui abbiamo ospedali di assoluta eccellenza, non c'è bisogno di andare a Milano, Bologna, Verona, Pavia".
Quando il giovane Feltri dava i nomi ai bambini del brefotrofio di Bergamo. Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera il 14/10/2020. All’inizio degli anni Sessanta, prima di darsi alla cronaca, il giornalista ha vinto un concorso in Provincia e lavorato al brefotrofio dell’ospedale cittadino: «Tenevo a quei piccoli, iniziai a dare cognomi normali come Belotti e Finazzi». Aveva iniziato da poco a collaborare con i giornali, ma non poteva certo prevedere la sua carriera nella carta stampata. E quindi nel frattempo faceva anche altro. All’inizio degli anni Sessanta Vittorio Feltri è stato per un paio d’anni dipendente dell’Istituto provinciale di assistenza materna e infantile, cioè il brefotrofio di Bergamo, che si trovava nel complesso di via Statuto dell’allora Ospedale Maggiore. E fra i suoi incarichi c’era anche quello di dare i nomi ai bambini abbandonati.
Vittorio Feltri, che ci faceva al brefotrofio?
«Ero poco più che ventenne, scribacchiavo sull’Eco di Bergamo, ma su insistenza di mia madre che voleva che trovassi un posto sicuro per tutta la vita, partecipai a un concorso dell’amministrazione provinciale. E nonostante non ne avessi nessuna voglia, mi capitò la sventura di vincerlo: quarto su una settantina di partecipanti. Dopo un anno in sede, in Provincia, venni spedito al brefotrofio, che era contiguo all’allora Ospedale Maggiore (nella palazzina che oggi è del comando provinciale della Guardia di finanza, ndr). Venivano portati lì i bambini che non venivano riconosciuti dalle madri. Ce n’erano tanti, si chiamavano “esposti all’abbandono”».
Con quale incarico?
«A quei bambini bisognava pur dare un nome e un cognome, e a quello pensavo io. Il nome a volte veniva concordato con le madri, altre volte si guardavano i santi del calendario. Per i cognomi la cosa funzionava che ogni anno era collegato a una lettera, quindi tutti i cognomi dovevano avere quella iniziale. Io me li inventavo o li prendevo da un elenco. Sono stato anche rimproverato perché non volevo dare quei cognomi terrificanti da trovatello come Diotallevi o Diotaiuti che si sarebbero trasformati in un marchio per tutta la vita».
E come aveva deciso di procedere?
«Cominciai a dare dei cognomi normali, come Belotti o Finazzi, e quando i dirigenti lo scoprirono si arrabbiarono. Avrei dovuto anche controllare gli orari di entrata e uscita dei dipendenti ma non lo facevo mai, una volta presi a calci il timbra cartellini e venni trasferito alla sede centrale a occuparmi delle rette del manicomio. Si dice spesso che nel pubblico non funziona niente, ma all’epoca andava tutto bene, l’unico che non faceva un accidente ero io».
Com’erano le madri?
«Alcune vivevano in brefotrofio per un certo periodo, poi tutte ricevevano per un certo periodo una piccola somma. Tra i miei incarichi c’era anche quello di consegnare loro i contributi e in quelle occasioni parlavamo un po’. C’erano tante poverine che non capivano nemmeno come avessero fatto a restare incinte, e alcune avevano avuto anche tre o quattro figli. Noi cercavamo di tenere insieme queste famiglie disastrate e a volte ci riuscivamo».
Che posto era?
«Non era poi così orrendo come si potrebbe pensare: era molto pulito, funzionava tutto a meraviglia e si faceva un lavoro eccellente. Io a quei bambini ci tenevo, personalmente, andavo spesso a trovarli. La mia prima moglie morì poco dopo il parto, lasciandomi con due gemelle, spesso non sapevo dove lasciarle e me le portavo al brefotrofio. Lì c’erano serventi, puericultrici e qualche maestrina per i più grandi. Una di quelle maestrine l’ho poi sposata ed è ancora mia moglie da 52 anni».
Coronavirus, Vittorio Feltri: "Le ore passate a cercare i nomi dei morti", una lettera a Bergamo. Libero Quotidiano il 23 luglio 2020. Con rispetto parlando, sono bergamasco. E ho sofferto le pene dell'inferno allorché la mia città è stata divorata dal Covid-19: migliaia di morti soffocati, cataste di bare portate chissà dove da autocarri dell'esercito, poiché il cimitero del posto, uno splendido monumento, era completamente esaurito e non ci stava più nemmeno una salma. Leggevo il quotidiano locale, L'Eco di Bergamo, e trasalivo a ogni pagina sfogliata. Il numero delle necrologie superava di gran lunga quello delle notizie correnti. Io sono nato e cresciuto dentro le mura veneziane, lì ho studiato e mi sono formato, praticamente mi conoscono tutti. Constatare che tanti amici di infanzia e di adolescenza andavano all'altro mondo mi ha distrutto nell'animo orobico. Anche la famiglia di mia moglie (da 52 anni) è stata falcidiata dal virus, contare i defunti tra i parenti non è un esercizio esaltante. Insomma ho vissuto tre mesi ed oltre di depressione cosmica. Pareva che la strage non finisse mai. Ogni giorno telefonavo a mio fratello Ariel e lo interrogavo sull'andamento della epidemia; i dati che mi forniva erano i peggiori d'Italia, come quelli di Brescia che amo visto che in un passato remoto mi ha fornito fidanzate meravigliose e generose. Trascorrevo metà del mio tempo lavorativo alla ricerca dei nomi delle persone che erano trapassate. Un incubo. Quanta gente non c'è più, e quanto dolore ho provato e provo. Temevo che l'ecatombe proseguisse chissà fino a quando. E invece i miei concittadini oggi hanno gli ospedali vuoti. Il Corona è stato sconfitto, i medici di casa nostra sono stati bravi come l'Atalanta. Hanno combattuto e vinto la battaglia. Che sollievo, amici lettori! Pur risiedendo a Milano apprendo ogni dì che Bergamo e Brescia, abitate da fratelli coltelli che in fondo, e pure in cima, si stimano, stanno risorgendo in fretta. Sarà perché hanno la vocazione di lavoratori indefessi, i miei conterranei non hanno ceduto alla disperazione. Si sono rimboccati le maniche e hanno ricominciato a risalire alla grande. I due centri urbani sono rifioriti, sempre più belli e puliti, invitano a darsi da fare. Da queste parti fervono le solite attività, i fatturati crescono e rientrano nella normalità ante virus. I negozi hanno riaperto, prima timidamente e prudentemente, ora con disinvoltura. Purtroppo i bar e i ristoranti tardano a decollare, in quanto il popolo nutre ancora molti timori a socializzare, tuttavia è solo questione di tempo: tra un po' le vecchie abitudini ludiche si affermeranno di nuovo. La paura di ammalarsi svanirà, e Bergamo e Brescia, che si sono finalmente abbracciate per divenire capitali della cultura, saranno più vispe che mai. Abbiamo tutti bisogno di qualche iniezione di ottimismo. Smettiamo di vedere nero l'orizzonte. Facciamo una passeggiata sugli spalti più belli del mondo: se il cielo è limpido, come accade spesso, si parerà davanti ai nostri occhi il Monte Rosa, così vicino che ci parrà di toccarlo con mano. Cara Bergamo, mi hai allevato, mi hai donato il tuo affetto e io ti sono grato, sono tuo figlio. Se stai male, sto male con te. Se stai bene, sono felice. Verrò presto ad abbracciarti, a visitare i tuoi vicoli medievali, ad ammirare le tue architetture sobrie, forse entrerò nella basilica di Santa Maria Maggiore, un priore della quale, monsignor Meli, mi ha insegnato il poco che so, adoperando parimenti il bergamasco e il latino.
Carabinieri Piacenza, il post shock del giornalista bergamasco: «Sono tutti meridionali predisposti a delinquere». Antonio Folle il 23 luglio 2020 su Il Mattino. «Sei meridionali su sei. Ora qui nessuno dice che essere meridionale significa essere delinquente, ci mancherebbe. Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al sud». Questo è un passo del post choc lanciato sui social network da Daniele Martinelli, giornalista bergamasco che ha così commentato i fatti di Piacenza e l'arresto di sei carabinieri accusati di aver formato una vera e propria associazione a delinquere. Un post che in pochissime ore ha scatenato un vero e proprio putiferio, con migliaia di commenti negativi da parte di utenti indignati per considerazioni razziste nei confronti dei meridionali, tanto da costringere il giornalista a rimuovere il post. E come in moltissimi casi del genere la "toppa" è peggiore del buco. Se nel primo post Martinelli si è lanciato in considerazioni dai tipici accenti lombrosiani e antimeridionali, infatti, nel secondo post ha ribadito che nelle forze dell'ordine spesso si annidano meridionali a caccia dello stipendio fisso. «Urge una riforma radicale del metodo di selezione - ha scritto - dei candidati a quello che sembra un rifugio soprattutto per Meridionali in cerca di stipendio fisso, più che una vocazione alla legalità e al patriottismo». È del tutto evidente che al giornalista d'inchiesta - come si autodefinisce sul suo sito -, ex inviato speciale del blog di Beppe Grillo ed ex collaboratore dello staff comunicazione dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle, sia sfuggito che nell'Arma dei Carabinieri, nella Polizia di Stato e nella Guardia di Finanza militano migliaia di meridionali che ogni giorno fanno onore alla propria divisa. Gli insulti rivolti a Martinelli non si sono fermati nemmeno dopo che il giornalista ha "corretto" il tiro. Anzi, in molti lo hanno accusato di non avere avuto il coraggio di sostenere le sue idee e di aver cercato facile visibilità attraverso un post sui social. Un atteggiamento che ricorda molto da vicino la vicenda del consigliere comunale di Pavia Niccolò Fraschini che, a fine febbraio scorso, in un post delirante affermava: «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». Salvo poi, ovviamente, ritirare il post e ritrattare le accuse infamanti che avevano suscitato rabbia e sdegno anche tra gli esponenti della sua stessa maggioranza nel consiglio comunale pavese. Salvo d'Acquisto, solo per citare un nome illustre, era un Carabiniere meridionale e napoletano.
Carabinieri Piacenza, il giornalista Martinelli commenta: “Predisposizione a delinquere propria di chi nasce al Sud”. Da Chiara Di Tommaso il 23 luglio 2020 su vesuviolive.it. Ha scosso il mondo delle forze dell’ordine quanto scoperto in una caserma di carabinieri a Piacenza. Una vera e propria associazione a delinquere era stata messa in piedi da sei carabinieri che gestivano anche lo spaccio di droga della zona. Addirittura durante il lockdown, i carabinieri hanno accompagnato gli spacciatori a Milano per rifornirsi. Peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, alcune delle ipotesi di reato. Al momento sono stati resi noti i nomi dei carabinieri ma non la loro città di provenienza. Qualcuno ha deciso di cavalcare l’onda anti-meridionalista per attaccare il sud. Si tratta di Daniele Martinelli, giornalista professionista facente parte nel 2013 del gruppo comunicazione del Movimento 5 stelle alla Camera dei deputati. L’uomo che ha anche un blog ed è originario di Romano di Lombardia (in provincia di Bergamo), ha infatti scritto sul suo profilo Facebook: “6 carabinieri arrestati a Piacenza accusati di tortura e di aver estorto oltre che favorito lo spaccio di sostanze. L’elenco di militari dell’Arma che finisce nei guai per maltrattamenti e vessazioni si fa troppo lungo. Urge una riforma radicale del metodo di selezione dei candidati a quello che sembra un rifugio soprattutto per Meridionali in cerca di stipendio fisso, più che una vocazione alla legalità e al patriottismo“.
A chi lo attacca di razzismo e di discriminazione territoriale, Martinelli replica in un commento in cui viene messo in luce ancora di più il suo pensiero antimeridionalista: “Ecco l’elenco dei 6 carabinieri arrestati a Piacenza:
Giuseppe Montella, napoletano, boss dello spaccio e delle botte.
Angelo Esposito, napoletano.
Giacomo Falanga, napoletano.
Daniele Spagnolo, pugliese.
Salvatore Cappellano, siciliano.
Marco Orlando, siciliano, comandante della caserma di Piacenza ai domiciliari.
6 meridionali su 6. Ora qui nessuno dice che essere meridionale significa essere delinquente, ci mancherebbe.
Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male, è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al Sud. Del resto la camorra, la Sacra corona unita, la Ndrangheta o la mafia con i loro metodi di sangue e violenza, non sono propriamente associabili alle mentalità tipiche del Piemonte, della Lombardia o del Veneto. Nessun valtellinese ha mai sciolto un bimbo nell’acido. Il siciliano Spatuzza sì. Ecco, sono questi i rudi metodi di un Sud arretrato dal quale proviene la stragrande maggioranza di delinquenti che sporcano il prestigio delle istituzioni e di quella maggioranza di gente per bene e onesta che indossa la divisa con onore. Ecco, non è tollerabile che dopo i casi Cucchi, Rasman, Uva, Aldrovandi, Ros-Ganzer, G8 di Genova (2001), Marrazzo (2009), violenze sessuali a Firenze (2017), i 27 militari violenti delle caserme della Lunigiana, ci sia ancora chi dica “ne risponderanno personalmente”. Va riformato il metodo di selezione dei candidati e inaspriti i controlli. Perché non è tollerabile che nessuno delle dirigenze intermedie fino ai vertici dell’Arma, non sappia o non abbia saputo. Non è tollerabile che inchieste così escano grazie a qualcuno che spiffera e che vince l’omertà. Guarda caso anche questa brutta bestia tipica del Sud e che è l’humus di tutte le mafie e di tutte le sopraffazioni”.
Parole incommentabili che vengono smentite dai fatti. Una nuova stazione mobile è ora operativa a Piacenza. A guidarla è il capitano Giancarmine Carusone, 34enne originario di Caserta e che proviene dal comando di una Compagnia in provincia di Messina. Un meridionale. Mentre il comandante generale dell’arma dei carabinieri, Giovanni Nistri, nella sua formazione ha frequentano la Scuola Militare Nunziatella di Napoli nel quadriennio 1970 – 1974. Altra eccellenza del Sud.
Sentimento anti-lombardo? Realtà per 4 italiani su 10. Renato Mannheimer su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Ma davvero, in occasione della pandemia Covid 19, è maturato nel paese una sorta di sentimento “antilombardo”, un mix tra rancore, risentimento e anche un tantino di soddisfazione per il fatto che la regione abbia sofferto più di altre? In certi servizi giornalistici si sono sentite frasi pronunciate da diversi cittadini come: “I lombardi se lo meritano ad avere più contagi: sino ad oggi avevano pensato solo a fare i soldi”. Oppure “Con tutte le arie che si dava dicendo di essere un esempio per l’Italia, sono quasi contento che alla Lombardia gli sia capitato quello che gli è capitato. Mi dispiace per i morti, ma..” E molte altre considerazioni di questo genere. Secondo alcuni osservatori, si tratterebbe di un atteggiamento molto diffuso. Ma nessuno lo ha fino a oggi misurato scientificamente. Un recente sondaggio dell’istituto EumetraMR (realizzato intervistando un campione rappresentativo della popolazione adulta dell’intero Paese) ci mostra come, in realtà, la percezione dell’esistenza di un sentimento antilombardo sia piuttosto presente nel Paese. Secondo il 42% degli italiani, si tratta di un atteggiamento “molto” o “abbastanza” diffuso. Anche se, come vedremo la maggior parte dichiara che si tratta di un modo di pensare “degli altri”, non di se stesso. Resta il fatto che, secondo tanti, la propensione antilombarda esiste davvero. Non si tratta, beninteso, della maggioranza degli intervistati, ma di una porzione assai significativa di questi ultimi, secondo cui questo sentimento è davvero presente tra molti italiani. La percezione dell’esistenza di un mood antilombardo è sostenuta in particolare dai più giovani, ma si tratta una convinzione trasversale, riscontrabile in tutte le categorie demografiche e sociali. E anche in quelle politiche, con una lieve accentuazione tra i votanti per Forza Italia. L’idea che esista davvero un orientamento critico nei confronti della Lombardia è relativamente più diffusa proprio tra gli abitanti di questa regione. Poco più della metà lamenta il fatto che i Lombardi siano stati poco compresi proprio quando sono stati in difficoltà, se non addirittura trattati in modo ostile. Come si è detto, al di là della percezione generale dell’esistenza di un atteggiamento negativo nei confronti della Lombardia, se si domanda se questo stato d’animo è condiviso personalmente dall’intervistato, ci troviamo di fronte a un coro di dinieghi. Solo il 10% del campione intervistato dichiara di nutrire egli stesso una avversione verso la Lombardia. I restanti affermano invece che gli antilombardi sono “gli altri”, ma che loro stessi non lo sono. È una risposta prevedibile: difficilmente si riconosce di possedere un sentimento negativo. Ma il fatto stesso di dichiarare, perdipiù come abbiamo visto in proporzioni molto diffuse, che esso è presente tra la popolazione, indica che, nella realtà, esiste davvero. E non in piccola misura.
Atalanta: tifoso del Napoli provoca Gasperini, dirigente nerazzurro lo insulta: è bufera. Il collaboratore del club al supporter partenopeo: "Testa di cazzo, terrone del cazzo." La Procura federale indaga. Sportmediaset.mediaset.it l'11 luglio 2020. È bufera attorno a un dirigente dell'Atalanta per i pesanti insulti, anche di natura razzista, rivolti a un tifoso del Napoli che aveva provocato Gasperini al suo arrivo a Torino. Il supporter dei partenopei, avvicinandosi al tecnico nerazzurro appena sceso dal bus della squadra, lo ha apostrofato in maniera provocatoria: "Dopo 10 anni ve la giocate la partita o gliela regalate come al solito? Forza Napoli!", si sente in un video circolato molto sui social. Il chiaro riferimento alla sfida con la Juventus ha fatto imbufalire Gasperini, che prima ha tentato di allontanarsi e poi ha risposto "Vai a fare un giro". Mentre il tifoso si allontanava, però, un accompagnatore della Dea è passato agli insulti: "Testa di c..., terrone del c...", si sente chiaramente. Insulti che hanno provocato indignazione e, in alcuni casi, anche vera e propria rabbia sui social. L'accaduto non è passato inosservato nemmeno per la Procura federale, che, rende noto l'Ansa, si è già attivata aprendo un procedimento nei confronti di un dirigente individuato nel team manager Mirco Moioli e nei confronti del club per responsabilità oggettiva. Sulla vicenda, che verrà ricostruita grazie anche ai video pubblicati in rete, potrebbe essere contestata la violazione agli artt. 4 e 28 del Codice di giustizia sportiva.
Tifoso del Napoli provoca Gasperini, staff dell'Atalanta lo insulta: "Terrone del cazzo." Feroce battibecco tra un tifoso del Napoli che provoca Gasperini e un membro dello staff dell'Atalanta, che lo insulta. Antonio Prisco, Sabato 11/07/2020 su Il Giornale. Accuse e insulti tra un tifoso del Napoli e lo staff dell’Atalanta, poco ore prima della partita con la Juventus: un supporter azzurro ha avvicinato l’allenatore Gasperini alla stazione di Treviglio. ''Mister, dopo 10 anni ve la giocate la partita o gliela regalate come al solito? Forza Napoli!'', facendo andare su tutte le furie un membro dello staff nerazzurro, che ha risposto: "Testa di cazzo, terrone del cazzo". Un pò di nervosismo in casa Atalanta alla partenza della trasferta per Torino, dove stasera è in programma il big match della 32esima giornata di campionato. Un episodio destinato a far discutere, quello accaduto qualche ora fa a Treviglio, stazione nei pressi del centro sportivo di Zingonia con ripetute accuse e insulti tra un tifoso del Napoli e lo staff bergamasco.
L'episodio. Mentre l'Atalanta era in partenza per Torino dove stasera affronterà la Juventus, la comitiva nerazzurra è stata intercettata alla stazione di Treviglio, nella bassa bergamasca, dove era in attesa del Frecciarossa per raggiungere il capoluogo piemontese, da un tifoso del Napoli che ha rivolto a Gian Piero Gasperini una domanda polemica: "Mister, dopo 10 anni ve la giocate la partita o gliela regalate come al solito? Forza Napoli!". Chiaro il riferimento ai precedenti poco favorevoli degli ultimi anni degli orobici contro i bianconeri, che addirittura non vincono a Torino dal lontano 1989 quando espugnarono per 1-0 il vecchio Comunale grazie ad una rete dell'argentino Caniggia. Il tecnico della Dea, appena sceso dal bus, nonostante il fastidio per l'insinuazione, prima ha tentato di dribblare la domanda per poi reagire con una risposta eloquente: ''Fatti un giro, pedala coglione.''. A quel punto però in appoggio all'allenatore di Grugliasco, è arrivato un membro dello staff atalantino, il team manager Mirco Moioli, che ha utilizzato ben altre parole, invitando il sostenitore azzurro ad allontanarsi e sottolineando il tutto con la frase ''Testa di cazzo, terrone del cazzo" e completando l'espressione con una bestemmia irripetibile. Fino a questo momento dal club nerazzurro non è arrivato nessuno commento sull'accaduto, un episodio di sicuro spiacevole e da stigmatizzare nonostante la comprensibile tensione della vigilia. Intanto il video è diventato virale sui social in queste ultime ore e sui social è partito il solito tam tam a riguardo, proprio nella notte che potrebbe lanciare l'Atalanta nella lotta scudetto. Complice la terza sconfitta consecutiva della Lazio, gli uomini di Gasperini si porterebbero a soli punti dalla Juve.
"Stesso stipendio a Milano e Reggio Calabria? Sbagliato, il costo della vita è diverso": polemica sulle parole del sindaco Sala. Pubblicato sabato, 11 luglio 2020 da La Repubblica.it. Stipendi diversi per chi lavora al Nord e per chi lavora al Sud? Una polemica sull'asse Milano-Reggio Calabria che nasce dalle parole del sindaco di Milano Beppe Sala. Che due giorni fa, durante una diretta Facebook sulla pagina di InOltre-Alternativa progressista (pagina dei giovani democratici), parla di costo della vita e di difficoltà dei giovani con una frase netta, nonostante le premesse sulla difficoltà del discorso: "E' chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso". "Secondo il sindaco di Milano Beppe Sala i dipendenti pubblici del Sud dovrebbero essere meno pagati di quelli che lavorano al Nord. Il sindaco progressista propone, in sostanza, la reintroduzione delle gabbie salariali. A parità di mansioni, secondo Sala, un lavoratore di Reggio Calabria dovrebbe avere una retribuzione minore rispetto ad un lavoratore di Milano. Non ci meraviglia che da sinistra vengano proposte ricette economiche che coincidono con quelle che la grande finanza internazionale cerca di imporre all'Italia", attacca su Facebook la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro. "Chissà - continua - se quella di Sala è una posizione condivisa dal governo, chissà cosa ne pensano i Cinque Stelle. Il tema della riduzione del costo del lavoro è un argomento da affrontare se si vuole favorire il rilancio occupazionale al Sud, ma è necessario pensare a strumenti di incentivazione per le imprese. Non certo ipotizzare, come fa Sala, di intervenire sulle retribuzioni dei lavoratori che vivono in regioni che già soffrono un gravissimo ritardo infrastrutturale e dei servizi. Il sindaco Sala - aggiunge - racconti ad un lavoratore calabrese che si trova davanti alla necessità di farsi curare fuori regione, o che deve accudire un familiare con disabilità, che merita di avere uno stipendio più basso perché vive in una regione in cui la vita costa meno".
Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro. "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.
La verità è che al Sud la vita costa di più. Angelo Bruscino, Imprenditore impegnato nella Green Economy, giornalista e scrittore, su Huffingtonpost.it il 13/07/2020. Caro sindaco di Milano, la verità è che al Sud la vita costa di più. Costa di più, perché abbiamo una pressione fiscale maggiore in cambio di servizi inesistenti. Costa di più, perché il tempo per aprire una impresa è il triplo che a Milano. Costa di più, perché la burocrazia è un costo occulto per cittadini e imprese. Costa di più, perché la nostra aspettativa di vita media è più bassa, ci ammaliamo di più e dobbiamo andare al Nord a farci curare, di tasca nostra. Costa di più, perché i processi sono infiniti. Costa di più, perché non abbiamo l’Alta velocità ma l’altra velocità. Costa di più, perché non abbiamo metrò, ma strade fatiscenti: andiamo al lavoro in auto, mica in Tav, con tutti i costi ambientali che ciò comporta. Costa di più, perché le scuole crollano, mancano gli asili e chi può manda i figli a studiare alla Bocconi a spese proprie. Costa di più, perché da Palermo a Messina o da Salerno a Reggio Calabria è una odissea. Costa di più, perché i prodotti che consumiamo vengono dal Nord, a eccezione di frutta, verdura e pesce, le uniche cose che costano di meno perché le produciamo! Dimenticando che i redditi degli impiegati pubblici servono proprio ad acquistare i beni del Nord, così che Lei possa dire: “Milano non si ferma”.
Stipendi Nord-Sud, De Magistris contro Sala: “Una visione alla Bossi”. Notizie.it il 14/07/2020. Luigi De Magistris ha criticato Beppe Sala per le sue affermazioni sulla differenza di stipendio tra Nord e Sud, paragonandolo a Umberto Bossi. Non smettono di far discutere le affermazioni del sindaco di Milano Beppe Sala in merito alla differenza di stipendi tra dipendenti pubblici del Nord e del Sud Italia, con il primo cittadino che ha sostenuto l’opportunità di adeguare i salari al costo della vita della regione in cui si risiede in modo che tutti abbiano lo stesso potere d’acquisto. Non è d’accordo con questa opinione il suo omologo napoletano Luigi De Magistris, che nel criticare le posizioni del collega meneghino lo ha paragonato all’ex segretario leghista Umberto Bossi. Intervistato da Radio 24, il primo cittadino partenopeo ha affermato come quella di avere stipendi differenziati per i dipendenti pubblici del Nord e del Sud sia una visione politica degna di Bossi, a suo dire largamente diffusa tra la popolazione del settentrione d’Italia: “Stipendi diversi per i dipendenti pubblici tra Nord e Sud Italia? Siamo amici io e Beppe Sala e abbiamo un ottimo rapporto. Ma non condivido per nulla questa proposta. È una visione di Bossi e mi dispiace che sia anche sua. So che è un pensiero, non voglio dire dominante, ma molto diffuso al Nord. Ma non è quello l’approccio, soprattutto in questo momento, bisogna dare prova di grande coesione. Gli stipendi sono già molto spesso diversi tra Nord e Sud. Il Sud ha dimostrato grande solidarietà e di saper reggere molto le sorti sanitarie del Paese e non amiamo l’assistenzialismo”. De Magistris afferma poi di non avere intenzione di tornare alle cosiddette gabbie salariali, il sistema che adeguava gli stipendi al costo della vita in 14 diverse zone d’Italia rimasto in vigore dal 1954 al 1969 e che venne abbandonato a seguito delle proteste dei sindacati che lo consideravano una norma discriminatoria: “Noi dobbiamo liberare energie chiedere allo Stato di fare la sua parte, ma essere autonomi. Vorrei un’Italia che ripartisse dalle autonomie delle città e dei territori, ma non con le gabbie salariali. Quella è una visione di Bossi e mi dispiace che sia anche di Sala. Non è così che riparte il Paese”.
REPUBBLICA ITALIANA UNA È INDIVISIBILE? SOLO A PAROLE, MA FORSE NEMMENO QUELLE. Massimo Mastruzzo il 12.07.2020 su Movimento 24 Agosto. Beppe Sala, da "Milano non si ferma" a "ce ne ricorderemo" a "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" il passo è stato breve. Quando Sala, che come tutti i sindaci ha giurato sulla costituzione, ritira fuori le gabbie salariali, un sistema di calcolo dei salari che mette in relazione le retribuzioni con determinati parametri territoriali, in fondo non fa altro che ratificare la disomogeneità territoriale attualmente presente in Italia. Difatti in Calabria, Regione ufficialmente facente parte della Repubblica italiana, pur pagando il SSN, se hai un problema di salute serio spesso devi farti curare in un'altra Regione; non hai gli stessi asili nido pubblici per i tuoi figli, ne tanto meno gli stessi mezzi pubblici, in compenso per il diritto alla mobilità paghi il triplo per l'assicurazione dell'auto; non hai diritto all'Alta Velocità, nonostante tu abbia contribuito alla realizzazione della stessa. Dopodiché che questa disomogeneità sia assolutamente incostituzionale, vedi la mancata applicazione dell'art 3 della costituzione, o che , ad esempio, l'alta velocità nel nord si è costruita anche con i contributi di quei cittadini, che proprio per la differenza di quei parametri territoriali, non ne possono usufruire perché non godono degli stessi diritti dei loro connazionali, sembra essere un concetto che politicamente non interessa più, o forse non è mai interessato a nessuno. Nonostante le buone intenzioni dei Padri costituenti di questa Repubblica, sembra che oltre quelle buone intenzioni non si è riusciti, o non si è voluto andare. La realtà purtroppo è che questa Repubblica non è mai stata considerata "una e indivisibile". Questo si evince semplicemente osservando come, anche da esponenti della sinistra progressista nazionale, invece che puntare a riequilibrare i diritti, si sottolinei quanto sia giusto guadagnare meno in virtù del meno che si ha. Comprendere che questo possa essere talmente accettato da considerarlo la normalità dovrebbe farci capire che questa Italia, così com'è, non potrà mai competere in Europa con nazioni come la Francia dove, ad esempio, se accetti di lavorare in zone disagiate hai uno stipendio più alto. Il paradosso è che poi se realtà politiche come M24A-ET sottolineano questa incostituzionale disomogeneità territoriale vengono additate di essere divisive. Si, pretendere l'Equità Territoriale, secondo quanto previsto dalla costituzione, viene indicato come un concetto divisivo, mantenere invece lo status quo, appare incredibilmente la soluzione che accomuna tutti i partiti nazionali.
Da "ilmessaggero.it" il 23 giugno 2020. Doveva essere un invito promozionale per visitare Lamezia Terme. Invece si è trasformata in una pubblicità irriguardosa verso i calabresi e la Calabria descritta come «terra di mafia, terremoti, priva di turisti, di città "iconiche" come Venezia e Roma e anche di fan su Instagram». E' così che la compagnia aerea Easyjet ha pensato bene di descrivere questa regione del sud Italia suscitando non poche polemiche. Tanto da provocare, subito dopo la bufera social, una ancora più sconcertante marcia indietro con la cancellazione del post e una nuova (stavolta irreprensibile) descrizione. Ma andiamo con ordine. Sul sito di EasyJet alla voce "Ispirami" la compagnia aerea aveva dedicato un apposito spazio a Lamezia Terme: «Per un assaggio autentico della vivace vita italiana - si legge - visita la Calabria. Questa regione soffre di un evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti e la mancanza di città iconiche come Roma o Venezia capaci di attrarre i fan di Instagram. Ma se cerchi un piccolo assaggio della dolce vita senza troppi turisti, allora sei nel posto giusto. Raggiungi le città costiere della costa tirrenica per spiagge sensazionali e mai affollate. Arrampicati fino alla città di montagna di Morano Calabro per panorami mozzafiato e case bizzarre costruite su cime, che dovrai vedere per credere. Potrai essere tra i pochi turisti a conoscere e apprezzare veramente i tre spettacolari parchi nazionali di questa regione». Un quadro, insomma, sommario, carico di luoghi comuni e pregiudizi di cui se ne sarebbe potuto fare volentieri a meno. Il post ha scatenato una vera e propria bufera in rete. «Easyjet chieda scusa, alla Calabria e all'Italia. Non c'è altro da aggiungere», ha scritto in un tweet il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano. Mentre il deputato calabrese di Fratelli d'Italia Wanda Ferro ha chiesto alla Regione di sospendere i rapporti con la compagnia aerea. «Descrivere la Calabria - afferma Ferro in una nota - come una terra di mafia e di terremoti dalla quale i turisti stanno alla larga, e i pochi che arrivano possono ammirare solo delle case bizzarre, è di una gravità senza precedenti. Il danno all'immagine della Calabria da parte di Easyjet è evidente, e rischia di avere ingiuste ripercussioni sulle attività turistiche.» La compagnia aerea ha così deciso di cambiare totalmente descrizione: «Lamezia Terme si trova nel cuore del Mediterraneo. Grazie alle sue attraenti inenature, spiagge incontaminate, meravigliosi paesaggi montani e aplini è una destinazione perfetta per le vostre vacanze. E' un posto favoloso che vale la pena visitare in qulsiasi peridoo dell'anno». Insomma come arrampicarsi sugli specchi. «La compagnia Easyjet si scusa con tutti calabresi e la Regione Calabria per la descrizione contenuta nella scheda informativa all'interno del sitò». Così la società in una nota, in cui spiega che 'l'intento originale del testo era sottolineare quanto la Calabria sia sottovalutata all'estero da un punto di vista turisticò. La Calabria è 'una terra per noi molto importante, che amiamo e che promuoviamo da sempre con numerosi voli su Lamezia Terme. Ne è una dimostrazione anche il fatto che il primo volo del 15 giugno - che coincide con il ripristino delle operazioni post lockdown - è stato quello verso l'aeroporto di Lamezia Termè. Dopo l'accaduto, "abbiamo provveduto immediatamente a rimuovere il testo in questione e avviato un'indagine interna per capire l'accaduto e fare in modo che non accada mai più"».
Per Easyjet la Calabria è regione di mafia e terremoti. Monta la polemica e la compagnia aerea si scusa. Gianluca Prestia il 23 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Questa regione soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti”. In molti, probabilmente, avranno letto due volte tale frase, pensando di non averlo fatto attentamente ma avevano invece compreso perfettamente. Non è un refuso, né uno scherzo. È tutto vero ciò che ha scritto la compagnia aerea low cost Easyjet nel suo sito ufficiale. Incredibile ma vero verrebbe da esclamare, vero come le polemiche che stanno iniziando a montare e che, c’è da scommettere, arriveranno a far diventare l’episodio a livello nazionale. Cosa abbia spinto la società ad esprimersi in quei termini verso la Calabria e la sua gente non è ancora chiaro. Una errata traduzione oppure un’azione voluta, quindi dolosa (E quindi di pessimo gusto)? Ma leggiamo il messaggio integrale: “Per un assaggio autentico della vivace vita italiana, niente di meglio della Calabria. Questa regione soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti e la mancanza di città iconiche come Roma o Venezia capaci di attrarre i fan di Instagram. Ma se cerchi un piccolo assaggio della dolce vita, senza troppi turisti, allora sei nel posto giusto. Raggiungi le città costiere della costa tirrenica per spiagge sensazionali e mai affollate. Arrampicati fino alla città di montagna di Morano Calabro per panorami mozzafiato e case bizzarre costruite su cime, che dovrai vedere per credere. Potrai essere tra i pochi turisti a conoscere e apprezzare veramente i tre spettacolari parchi nazionali di questa regione”. Tutto questo campeggia, come detto, nel sito ufficiale della compagnia aerea su una pagina che è stata successivamente rimossa. Un secondo post, ma dai toni completamente diversi, lo si trova ad un altro indirizzo (LEGGI) ed ha sostituito la pagina al centro delle polemiche. Insomma, da Easyjet non ci sono ancora comunicazioni sui motivi che l’hanno spinta a scrivere quel messaggio vergognoso nei confronti di una regione dalla storia millenaria e del suo popolo, che spesso in circostanze come queste ricorre come pochi altri all’arma dell’ironia della quale il portale “Lo Statale Jonico” è maestro: “Grazie agli amici di EasyJet per la splendida descrizione, ma ci teniamo a precisare – per amore di onestà – che abbiamo anche dei difetti”. Chapeau! Arrivano le scuse ufficiali della compagnia aerea: «EasyJet si scusa apertamente con tutti i calabresi e la Regione Calabria per la descrizione contenuta nella scheda informativa all’interno del sito. L’intento originale del testo – si legge in una nota – era sottolineare quanto la Calabria sia sottovalutata all’estero da un punto di vista turistico. La Calabria è una terra per noi molto importante, che amiamo e che promuoviamo da sempre con numerosi voli su Lamezia Terme. Ne è una dimostrazione anche il fatto che il primo volo del 15 giugno, che coincide con il ripristino delle operazioni post lockdown, è stato quello verso l’aeroporto di Lamezia Terme. Abbiamo provveduto immediatamente a rimuovere il testo in questione e avviato un’indagine interna per capire l’accaduto e fare in modo che non accada mai più».
«Calabria terra di mafia e terremoti». Levata di scudi contro EasyJet: «Offesi tutti gli italiani». Il Quotidiano del Sud il 23 giugno 2020. Fa ancora discutere la “gaffe” della compagnia aerea EasyJet che nelle scorse ore ha pubblicato sul proprio sito internet un contenuto dal presunto fine promozionale in cui definiva la Calabria una regione che «soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti». Il messaggio è stato rimosso nella mattinata di oggi e neppure le scuse pubbliche hanno messo al riparo la compagnia aerea dalle accuse della politica italiana. Una levata di scudi più che mai trasversale. «EasyJet chieda scusa, alla Calabria e all’Italia. Non c’è altro da aggiungere». Così in un tweet il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano. «Offese inaccettabili contro la Calabria e l’Italia quelle contenute sul sito di EasyJet – scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni – Alla compagnia, che ha annunciato la rimozione della vergognosa scheda, chiediamo le scuse nei confronti dell’Italia intera». Per Matteo Salvini «è incredibile e inaccettabile che sul sito di una compagnia aerea come EasyJet sia apparsa una descrizione infamante della Calabria. I calabresi e tutti gli italiani meritano rispetto assoluto: pretendiamo chiarimenti e scuse immediate!». «La pseudo operazione di marketing sulla Calabria realizzata da EasyJet – commenta la presidente di Regione Jole Santelli – è offensiva, miope e ha un chiaro sapore razzista. Si potevano usare tante parole per descrivere la meraviglia e la straordinarietà di una regione unica al mondo, ma la compagnia inglese ha scelto le più becere e le più consunte, realizzando una pubblicità ingannevole che non è altro che una sommatoria di inqualificabili pregiudizi. Per questo ho immediatamente scritto una lettera di protesta alla compagnia. I calabresi meritano rispetto e una miglior considerazione da parte di tutti. Prendiamo comunque atto delle scuse pubbliche di EasyJet, che ha già provveduto a modificare il testo. A pensarci bene – conclude la governatrice – il modo migliore per rimediare a una gaffe senza precedenti sarebbe quello di incrementare in modo considerevole i voli per la Calabria, in modo da permettere alle migliaia e migliaia di passeggeri di EasyJet di scoprire le infinite meraviglie della nostra terra. Non abbiamo Roma e non abbiamo Venezia, certo, ma non ci lamentiamo affatto. La Calabria è una meraviglia che merita solo di essere ammirata». Per l’europarlamentare del Pd Pina Picierno “la Calabria, culla di civiltà per secoli, offre paesaggi mozzafiato ed è ricca di storia e cultura. Se i turisti sono stati scoraggiati dal venire in questa terra non è certo perché mancano città come Roma ma semmai per le poche infrastrutture che hanno reso difficili i collegamenti. Chi si è occupato della “promozione” di questo sito di sicuro non l’ha mai visitata e non ha mai potuto apprezzare l’accoglienza dei calabresi e le bellezze paesaggistiche di questa terra. È incredibile come una compagnia aerea così importante abbia affidato la sua comunicazione a persone con così tanti pregiudizi e luoghi comuni. Vergogna». «La descrizione fatta da EasyJet della Calabria era una vergogna assoluta, bene ha fatto la compagnia aerea a chiedere immediatamente scusa, rimuovere lo scritto e avviare una indagine interna – dichiara il commissario del Partito Democratico della Calabria Stefano Graziano – Da campano che ha imparato ad amare le bellezze di questa terra consiglio a turisti italiani e esteri di non cadere nei facili stereotipi e di visitarla. La Calabria è terra di storie, eccellenze e un mare bellissimo». «La descrizione della Calabria da parte di EasyJet – scrive l’europarlamentare calabrese del M5S Laura Ferrara – è vergognosa. Offende la mia terra e la mia gente, crea un danno d’immagine e scoraggia evidentemente i turisti a visitare la nostra terra, che è e deve essere nota per il suo ricco e meraviglioso patrimonio paesaggistico ed enogastronomico, per le sue antiche tradizioni e per l’accoglienza ineguagliabile che i cittadini calabresi riservano ai turisti e agli ospiti tutti». La parlamentare calabrese di Fdi Wanda Ferro arriva a chiedere la sospensione del rapporto tra la Regione e la compagnia aerea: «La descrizione della Calabria pubblicata sul sito della compagnia britannica è talmente distante dalla realtà e offensiva da non potere essere semplicemente frutto della superficialità, dell’ignoranza o degli incubi di chi ha redatto il testo. Il danno all’immagine della Calabria da parte di EasyJet è evidente, e rischia di avere ingiuste ripercussioni sulle attività turistiche. Per questo andrebbe sospeso immediatamente ogni eventuale rapporto della Regione con la compagnia aerea e andrebbero valutate possibili azioni risarcitorie». Intanto il Codacons annuncia di aver depositato una denuncia nei confronti di EasyJet ipotizzando il reato di diffamazione e di aver chiesto all’Antitrust di provvedere all’immediato sequestro del sito web della compagnia aerea britannica.
Quei cliché sulla Calabria non li ha inventati Easyjet ma quell’asse perverso tra toghe e giornali…Davide Varì su Il Dubbio il 23 giugno 2020. Bufera sulla compagnia area Easyjet che dipinge la Calabria come terra di ndrangheta e terremoti. Ma quei clichè sono stati costruiti da inchieste mediatico-giudiziarie sgonfiate alle prime udienze. La governatrice Santelli parla di razzismo, i parlamentari – da destra a sinistra – pretendono pubbliche scuse e i social trasudano rabbia e indignazione. Insomma, la rozza campagna della compagnia area Easyjet, che ha descritto la Calabria come terra di ‘ndrangheta e terremoti, è stata crocifissa e l’azienda costretta alle scuse. Eppure è troppo comodo prendersela solo con la compagnia area, che pure ha usato cliché davvero banali e beceri. Il fatto è che in questi anni tv, radio e giornali non hanno fatto altro che dipingere la Calabria come una terra nelle mani della ndrangheta, facendo passare il suo mare cristallino come il più inquinato d’Italia. E non importa se la grandissima parte dei calabresi non abbiano nulla a che fare con le mafie; e né importa che le analisi delle acque di balneazione delle agenzie governative dicano da anni che il mare calabrese è “eccellente”. No, nulla di tutto questo è decisivo perché nell’immaginario collettivo – costruito con caparbietà attraverso fake e populismo mediatico-giudiziario – la Calabria è e resta “terra di ‘ndrangheta e inquinamento”. Ma accusare Easyjet significa assolvere se stessi e chi in questi anni ha veicolato quell’immagine cupa e fasulla della Calabria. Non senza qualche tornaconto in termini di carriera e visibilità: parliamo di giornalisti che svolgono la professione limitandosi a frequentare le sale d’aspetto delle procure in attesa di qualche ordinanza da copiare e incollare. E di qualche magistrato che ha portato avanti inchieste decisamente temerarie, naufragate alla prima udienza. “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”, cantava Fabrizio De Andrè.
Tony Iwobi sugli antirazzisti italiani: "Sono feroci razzisti. Mi chiamavano negro-verde solo perché leghista". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Nato in Nigeria ma bergamasco di adozione, il senatore Tony Iwobi, 63 anni, da 42 in Italia, è l'unico uomo di colore che rappresenta il popolo italiano il quale lo ha eletto e lo ama, poiché egli è uomo sobrio, pragmatico e semplice. Contrariamente a quanto si possa immaginare, il suo nome non compariva in nessuna lista di quella sinistra che si proclama ferocemente antirazzista, bensì è stata la Lega di Matteo Salvini, tacciata di avere in odio i neri, a ritenere che questo signore di buona volontà, lavoratore indefesso, cittadino modello, potesse dare un valido contributo al Paese. Quando gli chiedi se gli abitanti della penisola siano segregazionisti e intolleranti verso chi ha pelle bruna, Iwobi sorride. Poi esordisce: «Sono stanco di sentire parlare in modo ignobile e strumentale di razzismo». E, a proposito dell'omicidio dell'afroamericano George Floyd, afferma: «L'uccisione di una persona è un reato atroce, a prescindere dalla pigmentazione. Tale crimine deve essere condannato ma non può essere trasformato in un motivo per seminare il terrore e fare altri morti. Sotto le mentite spoglie della battaglia antirazzista si stanno compiendo delitti terribili ovunque. È ora di dire basta». Il senatore ci spiega di avere avuto modo di leggere alcuni dati da lui giudicati «fortemente significativi»: «In base alle statistiche risulta che negli Stati Uniti non sono i bianchi ad ammazzare i neri né questi ultimi ad ammazzare i primi, piuttosto sono soprattutto i neri a trucidare altri individui neri».
IL CONTAGIO. Tuttavia, il timore che le proteste brutali in corso negli Usa da settimane possano essere solo l'incipit di disordini ancora più devastanti nel prossimo futuro sussiste. Ed è facile che il contagio si estenda qui, cosa che di fatto è già avvenuta, come dimostra la febbre che pure in Europa induce alla distruzione delle statue di Winston Churchill, Giulio Cesare, Indro Montanelli, sulla base di un revisionismo storico da mentecatti e asini patentati, mirante ad amputarci della parte più profonda di noi stessi: le nostre radici, il nostro passato, ciò che determina chi siamo e chi saremo. «Quale gigantesca idiozia abbattere certi monumenti!», esclama il nigeriano orobico. «Non ho dubbi che l'obiettivo fondamentale dei manifestanti in America come in Europa sia quello di creare confusione. Essi condannano senza conoscere, ma se non conosci come puoi giudicare?», osserva Tony. E qualora gli capitasse di imbattersi nei ragazzi del movimento Black Lives Matter Italia, il senatore sa bene cosa consiglierebbe loro: «Ragionate con il vostro cervello. Conduce al fallimento la convinzione di debellare la violenza con altra violenza». Ma insomma il razzismo esiste o non esiste nel Belpaese? Secondo Iwobi, il popolo italiano non è affetto da questa malattia che diagnosticano i progressisti. «Semmai la gente è arrabbiata e delusa. Il malcontento è crescente, il disagio sociale pure. Quando gli italiani si oppongono ad altri sbarchi illegali non lo fanno perché ce l'hanno su con gli africani, o perché li considerano inferiori, ma perché essi si sentono abbandonati da un governo che sembra battersi con maggiore passione per chi deve arrivare piuttosto che per chi si trova già qui». Sotto la spinta della crisi economica innescata dal periodo di isolamento tale disperato senso di sfiducia degli italiani potrebbe diventare esplosivo.
IN GINOCCHIO. Chiamare "razzismo" gli effetti di una gestione sconsiderata del fenomeno migratorio è disonesto. «Da lustri la sinistra tira fuori fascismo e roba simile per screditare gli avversari politici e metterli in difficoltà. I progressisti incriminano di razzismo chiunque non la pensi come loro sull'immigrazione. Incluso me», commenta Tony ridendo. «Ognuno ha il sacrosanto diritto di emigrare in modo corretto, senza essere costretto ad attraversare il tunnel della morte. Andrebbe ripristinata e favorita l'immigrazione legale e non incentivata quella clandestina chiudendo un occhio, anzi due». Cosa farebbe Tony se Laura Boldrini si inginocchiasse davanti a lui poiché nero? «La ignorerei», risponde secco. E dopo un breve silenzio: «Non sono mai stato vittima di razzismo da parte dei cittadini, però nel contesto politico ho patito insulti che mi hanno fatto male. I cosiddetti "antirazzisti", quando sono stato eletto, mi chiamavano "zio Tom", o "negro da cortile", o "negro-verde", "manichin", in quanto leghista da oltre vent'anni. E tuttora lo fanno», conclude il senatore.
Quaranten(n)a - Quello che gli italiani dicono ai neri. Valerio Giacoia su Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. Christopher oggi ha quarant’anni anni e le sue cicatrici portano indietro nel tempo, sulla strada degli altiforni dell’Emilia Romagna. Nigeriano, sapeva bene che ai neri spettava il cerchio più duro: colare la ghisa a milletrecento gradi, quando questa schizza ovunque segnando il corpo come fosse marchio a fuoco sul bestiame. Toccava a loro anche scendere nell’anello più basso della fonderia scavando carboni, un po’ come ai neri d’Africa lavare piatti nei sotterranei dei ristoranti di lusso di mezzo mondo. “Non potevi lamentarti, perché rischiavi di non rinnovare quello straccio di contratto, con cui riuscivo a comprare il pane e mandare un po’ di soldi a mia madre”. Da quindici anni in Italia, moglie italiana, tre figli piccoli, Chris racconta di un quotidiano da osservato speciale in un paese dove è vero che la polizia non ti toglie il respiro con un ginocchio fino a soffocarti, che non ti spara alle spalle, che non ti pesta a sangue anche soltanto per un sospetto, ma dove capita che la tua bambina venga additata dai compagni delle elementari per la sua pelle e i suoi riccissimi capelli. “Nelle famiglie, è lì che qualcosa non funziona ”. Come quando molti anni fa con la sua prima ragazza, italiana di Ravenna, decisero di presentarsi a casa di lei e quella sera a Chris non andò meglio che al plurilaureato dottor Sidney Poitier in Indovina chi viene a cena, girato però nel 1967, quando i leader più carismatici delle Pantere Nere urlavano pubblicamente che l’America aveva dichiarato guerra ai neri. Anzi, andò molto peggio che nella commedia di Tennessee Williams: “La madre di lei mi vide sulla porta e scoppiò a piangere. Quando tornammo a casa nostra, chiamò per chiedere a sua figlia se fosse ancora viva”. Questa era la storia, e si tratta di quasi quindici anni fa. Questa è la storia, oggi. Nel pieno delle proteste negli Usa per la morte di George Floyd, quello che gli italiani dicono (e non dicono) ai neri, non fa molta differenza con un mondo dove il razzismo è sistemico. Lì si materializza nelle violenze della polizia, nelle evidenti diseguaglianze scoperchiate anche dalla pandemia, qui serpeggia in un silenzio che puzza di ipocrisia. Tempo fa la moglie di Christopher rispose all’annuncio di un’azienda che cercava venditori di cialde del caffè; la titolare rispose poi che quel “no” non era dipeso dal curriculum, ma da “questioni di opportunità”. La verità è che i razzisti spuntano spesso tra coloro con i quali dividiamo il pane. “La cosa più triste è che occorre dimostrare ogni giorno di non essere quello che dice Salvini in tv – si rammarica Christopher – e questo significa sorridere sempre, essere sempre educato, magari non protestare se qualcuno ti passa davanti nella fila alla posta, e tu vuoi evitare casini”. Anche Amelie, giornalista di origini calabresi che vive a Londra da moltissimi anni e che ha sposato un black, come lo chiama, di sangue britannico da generazioni, è abituata a evitare storie. In Inghilterra non ha mai avuto problemi, in Italia quando si trattò di presentarlo in famiglia le zie paterne ne fecero una malattia. Per le feste canoniche lei, Cliff e le due bambine furono ufficialmente banditi: “A noi non hai pensato – le dissero – sapevi che non ci avrebbe fatto piacere”. E quando d’estate le piccole incontravano i loro coetanei alle Terme di Guardia Piemontese, nel Cosentino, questi le guardavano come fossero “strani animaletti”, ricorda Amelie con una punta anche di tenerezza, “e per i genitori l’idea che potessero essere miei figlie naturali, figli di una bianca, calabrese, non era contemplabile”. L’Italia del razzismo sottile, e l’Italia dove gli insulti come “negro di merda” si sprecano. Non tanto negli stadi di calcio della serie A, che quasi non fa notizia ormai, bensì sui campetti della categoria dei Pulcini. Il sito “Cronache di ordinario razzismo” (cronachediordinariorazzismo.org) tiene dal 2011 uno sbalorditivo ed eroico elenco di episodi, spessissimo legati al mondo dello sport minorile e della scuola. Le cronache sono impressionanti, e sono centinaia: aggressioni a bambini al grido di “sei nero, ora ti facciamo diventare bianco”, “ti sta bene che sei caduta, i negri devono stare a terra”, pestaggi, discriminazioni, tetti al numero degli iscritti stranieri nelle scuole, umiliazioni. Secondo Emmanuel Edson, intellettuale del Camerun che vive a Milano da vent’anni, il problema è anche la percezione che gli africani d’Italia hanno di se stessi che ingigantisce quello stereotipo discriminatorio diffuso, a suo dire, anche a sinistra: “Il nero stesso ha inconsciamente interiorizzato quel senso di inferiorità, e anche quando rivendica la sua uguaglianza è difficile riuscire a difendersi e uscirne vittorioso, perché nel fondo c’è un passato che lo spinge giù”. Occorrerà attendere un’altra generazione per riscattarsi, ma a patto che ci si associ seriamente, lontano dalle logiche politiche italiane, spiega Edson, che sta ultimando un testo teatrale visionario, dove in un futuro non molto lontano vede sindaco di Milano una donna, e nera: “Molti gridano contro il razzismo, ma non conoscono la nostra letteratura, al contrario di ciò che accade in Francia, dove il 10 per cento dei professori nei licei sa parlare di colonialismo perché viene da quella storia, dunque forma le coscienze dei più giovani”. E noi italiani? Noi italiani siamo (anche) quelli dell’ultima fotografia scattata da Eurispes nel Rapporto 2020: secondo la maggioranza non esiste un reale problema di razzismo e xenofobia, e addirittura il 15,6 per cento nega l’esistenza della Shoah. Nessuna meraviglia, visto che qui ancora c’è chi interpreta Faccetta nera come una canzoncina goliardica.
ANTONIO RAPISARDA per Libero Quotidiano il 15 giugno 2020. In questa caccia su scala mondiale alle "statue" - versione 2.0 dell' Inquisizione in salsa progressista, ridestata dal movimento Black lives matter - non potevano non approfittarne per tornare alla carica anche i secessionisti sud-tirolesi. Se nel Mezzogiorno, come abbiamo raccontato su Libero, ad essere presi di mira sono i busti di Giuseppe Garibaldi, accusato di essere stato un «mercenario terrorista» anti-meridionale, nell' estremo Nord a finire nel mirino degli iconoclasti, per l' ennesima volta, è il monumento degli Alpini di Brunico: uno dei simboli dell' italianità della regione, costruito nel 1938 per ricordare il ruolo del corpo dell' esercito nella guerra d' Etiopia e più volte vittima di attentati, sfregi e richieste di rimozione. L'accusa di queste ore? In parallelo con il fanatismo anti-razzista che sta andando in scena dagli Usa alla Gran Bretagna dopo l' omicidio George Floyd, il monumento - anche nella sua ultima "versione" dedicata semplicemente alla memoria di tutti gli alpini - è indicato arbitrariamente dai secessionisti come un inno razzista e colonialista. «Anche in Alto Adige ci sono numerosi monumenti e nomi di strade e caserme che ricordano l' oppressione e l'assassinio della popolazione africana nera in Etiopia. Tra questi ci sono cimeli fascisti come il rilievo di Mussolini a Bolzano e il monumento agli Alpini a Brunico». La proposta? «Rimuovere finalmente tali glorificazioni scolpite nella pietra». Queste le parole dei membri del Süd-Tiroler Freiheit - il partito radicale che rivendica la libertà del Sud-Tirolo dall' Italia- che esprimono così il loro principio di "rivalutazione storica": la scusa, cioè, con cui in mezzo mondo sta andando avanti la crociata politicamente corretta contro la storia.
Escalation Nella proposta di risoluzione al consiglio provinciale di Bolzano, il partito fondato da Eva Klotz chiede non solo la dismissione del monumento agli Alpini a Brunico ma - come già avvenuto più volte in questi ultimi anni con la toponomastica delle montagne e delle località - anche la rimozione dei nomi di strade e caserme che sono associati al Ventennio fascista o semplicemente all' Italia. Si tratta di un' escalation a tutti gli effetti: per far capire il "clima" che si respira in Alto Adige, solo qualche giorno fa, proprio alla vigilia della festa della Repubblica del 2 giugno, ci avevano pensato gli schützen ad esempio a spostare provocatoriamente il confine dell' Italia a Sud al motto di «l' Italia non fa bene all' Alto Adige. L' Italia è un danno per tutte le persone che ci vivono». La risposta della destra altoatesina in difesa del monumento agli Alpini e non solo non si è fatta attendere. «È pura demenza solo avvicinare l' idea pura di pace degli alpini al razzismo», sbotta Alessandro Urzì, consigliere regionale di Fratelli d' Italia che da parte sua definisce i secessionisti tirolesi «i talebani di casa nostra che cercano pateticamente di sfruttare l' onda innescata dalle proteste per la morte di George Floyd». Secondo il consigliere di FdI la richiesta di rimozione del monumento all' alpino è una speculazione, un' offesa al valore delle Penne nere: «La storia non si modifica a colpi di piccone - continua -. Con questo e con la dinamite ci hanno provato a cambiarla i terroristi e gli islamisti». Proprio per questo l' assimilazione alpini-razzismo viene rispedita al mittente: «Non ci provino a speculare accostando l' Italia e gli italiani al razzismo. Si facciano un serio esame di coscienza sulla loro vocazione all' insulto dei simboli e dell' identità italiana: questo sì che è razzismo». Se in Alto Adige la questione Floyd viene utilizzata per riattivare la propaganda anti-nazionale, a Londra gli identitari iniziano ad organizzarsi a difesa delle statue dall' attacco degli anti-razzisti. È successo ieri quando gruppi nazionalisti e diversi tifosi delle squadre di calcio londinesi si sono riuniti nelle strade - al Cenotafio a Whiteall come davanti la statua di Winston Churchill in Parliament Square - a protezione dei simboli della propria storia nazionale.
Il razzismo antimeridionale di Vittorio Feltri non è nuovo: anche Giorgio Bocca e Indro Montanelli manco scherzavano… Ignazio Coppola il 23 aprile 2020 su inuovivespri.it. La storia del razzismo contro il Sud Italia e i suoi abitanti – di cui Vittorio Feltri è solo uno dei tanti ‘protagonisti’ – comincia nel 1860. Inizia con i Savoia, con l’odio e l’astio dei generali e dei politici piemontesi, prosegue con i positivisti di fine ‘800 (Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri) e arriva fino ai nostri giorni. Basta andare a rileggersi cosa hanno detto e scritto dei meridionali Giorgio Bocca e Indro Montanelli…La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica viene oggi drammaticamente riproposta dalle farneticanti affermazioni razziali dei deliri antimeridionali del “giornalista” Vittorio Feltri, che raccoglie l’eredità di tanti suoi illustri colleghi giornalisti del Nord, come, tra gli altri, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, di cui parleremo più avanti, che verso i meridionali hanno sempre avuto parole di disprezzo e di repulsione. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia.
ACREDINE VERSO IL SUD – Le parole di Feltri di questi giorni non sono solo il frutto di una demenza senile razziale, ma sono il punto di arrivo di un’acredine e di una ipocrisia nei confronti del Sud che trova appunto le sue radici nelle bugie e nelle falsità che, a dosi massicce, ci sono state propinate, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua infatti ad ignorare che, alla base di una mala unità d’Italia, vi fu, come del resto continua ad esserci – retaggio del passato – un’ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato ed allora capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza, scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Feltri docet. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie, tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.
CIALDINI: “QUESTA E’ AFRICA!” – Ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva: “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di Cialdini, criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. Ed ancora , a ulteriore testimonianza di questi propugnatori del razzismo antimeridionale, quanto scriveva all’alba dell’Unità d’Italia il generale conte Luigi Menabrea comandante del genio del corpo d’armata piemontese di stanza nell’ex Regno delle Due Sicilie, alla baronessa Olimpia Savio Rossi dal comando di Castellone di Gaeta il 26 dicembre del 1860: “I meridionali sono simili agli ottentotti (si riferiva ai Boscimani la popolazione che abitava l’Africa meridionale), nonostante il loro bel paese e le loro grandi memorie. L’abbassamento del senso morale e della dignità personale della popolazione sono le cose che colpiscono di più. Sotto gli stracci disgustosi che coprono le contadine non si riconosce più questa belle razza italiana, che sembra finire nel territorio romano”. Il conte piemontese Luigi Menabrea sarà poi dal 1867 al 1869 presidente del Consiglio dei Ministri del nuovo regno d’Italia e, non perdendo la sua propensione razzista nei confronti dei meridionali, si distinguerà nella spasmodica ricerca, nella sua qualità di capo del Governo, di territori fuori dall’Italia, in Patagonia (Argentina) prima e nell’isola di Socotra (Portogallo) in cui deportare – essendo le carceri italiane strapiene – miglia e miglia di prigionieri meridionali. Per fortuna il criminale disegno di Menabrea e del governo sabaudo non andò a buon fine per la decisa opposizione dell’Argentina e del Portogallo, che eccepirono problemi di sovranità che giustamente rivendicavano sui propri territori.
GOVONE: “LA SICILIA? BARBARI!” – E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia, un militare che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani: anch’egli non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in Parlamento: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, scrittore e ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”.
LOMBROSO, FERRI, NICEFORO – Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero – a spese del Sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti . l’Unità d’Italia. Grazie anche a questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano – afferma Gramsci – che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell'Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. Infatti, negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Lo scrittore ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio scrive un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 160 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori”quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista di Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze: quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo, in un suo libro del 1898, L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa – sostiene ancora Gramsci – in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. O dei posteggiatori abusivi come delira oggi Vittorio Feltri.
“NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI” – Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: “Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. O, ancora: “Non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura con Vittorio Feltri e i suoi sodali, ancora sino ai nostri giorni. Fra i detrattori dei Siciliani e dei meridionali, visti, nel loro insieme, come un popolo di “terroni” e di “mafiosi”, non sono poi mancati “ giornalisti famosi come dicevamo all’inizio, i “compianti” Indro Montanelli e Giorgio Bocca, che più di una volta ebbero a sottolineare la condizione di inferiorità delle popolazioni meridionali rispetto a quelle del Nord. Nel 1960, al tempo della guerra d’Algeria, in una intervista rilasciata al giornalista francese Weber per “Le Figaro Litteraire” (la notizia fu riportata dal quotidiano “L’Ora” di Palermo del 25 ottobre del 1990) Montanelli disse testualmente: MONTANELLI: “VOI AVETE L’ALGERIA, NOI LA SICILIA” – “Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia, ma voi non siete costretti a dire che gli algerini sono francesi, mentre noi, circostanza aggravante, siamo costretti ad accordare ai siciliani la qualifica di italiani”. Molti siciliani insorsero deplorando quella frase oltraggiosa, da cui si ricavava che Montanelli considerava gli Algerini un popolo di serie B e i Francesi un popolo di serie A, così come i Siciliani rispetto agli Italiani. In un articolo di risposta a quella intervista un magistrato di Caltanissetta (Salvatore Riggio) si domandava: “Ma che cosa ci facevano i Francesi in casa algerina? I Francesi non erano forse gli sfruttatori, gli oppressori, i colonizzatori, gli illegittimi occupanti mediante violenza bellica dell’Algeria? Gli Algerini non avevano il sacrosanto diritto di cacciare dalla loro Terra i colonizzatori francesi e reclamare la propria indipendenza? Secondo l’ottica razzista del Montanelli parrebbe di no, perché secondo lui forse la Provvidenza Divina aveva assegnato agli Algerini come angeli custodi i Francesi e secondo la stessa ottica la medesima Provvidenza Divina avrebbe designato i «Fratelli d’Italia» al di là dello Stretto custodi dei Siciliani, considerati dal Montanelli «Esseri» distinti dagli «Italiani» perché posti nella scala di una presunta gerarchia in un gradino inferiore”. Il magistrato citava poi un altro episodio analogo in cui Montanelli (era il 1967) se la prendeva con tutti gli avvocati siciliani accusandoli indiscriminatamente in massa di avere connivenze e collusioni con la delinquenza. Gli avvocati siciliani reagirono proponendo una querela per diffamazione contro di lui. “Ma dove voleva arrivare questo signore?”, si domandava il magistrato. “Voleva forse proporre anche la fornitura di avvocati nordisti per la difesa dei delinquenti siciliani, così come i nordisti ci forniscono giornalmente i loro prodotti per la nostra vita dato che ormai il Sud e la Sicilia in particolare sono stati ridotti soltanto a vaste aree di mercato di consumo interno?”. Ma non finisce qui. L’autore dell’articolo (apparso sulla rivista Il Domani) ricordava che nel 1970 Montanelli aveva scritto che, alla Sicilia, mancava da sempre una coscienza civile e sul Corriere della Sera del 9 Gennaio 1971 scriveva che in Sicilia non v’era traccia di pensiero illuministico. Gli rimproverava poi di non conoscere la storia, l’arte, il pensiero, la letteratura della Sicilia, e persino la geografia, avendo scritto che “il 26 Maggio 1860 tre ufficiali della flotta inglese erano sbarcati a Misilmeri” (Montanelli e Nozza, Garibaldi, 1963, pag. 372), mentre Misilmeri non è sul il mare. Il magistrato poi citava anche il caso di Moravia, che sull’Espresso del 3 Ottobre 1982 a pag. 37 in un articolo intitolato “Siciliano = mafioso?” ad un certo punto aveva scritto: “Il Siciliano in quanto tale, anche il galantuomo, è tendenzialmente mafioso”. Con tutto ciò, concludeva il magistrato, nel 1986 i “sicilioti” di Agrigento (affetti dalla sindrome di Stoccolma) assegnarono a Moravia il Premio Pirandello per la narrativa e il 28 novembre 1990 un’Associazione Culturale di Caltanissetta conferiva a Montanelli il Premio Internazionale Castello di Pietrarossa per la sezione giornalismo. “Cupidigia di servilismo”,così titolava l’articolo il magistrato. E presi da questa cupidigia di servilismo e affetti dalla sindrome di Stoccolma che, alla fine, i palermitani di corta memoria hanno addirittura dedicato a questo illustre giornalista – loro costante denigratore – addirittura una strada: appunto via Indro Montanelli, sita in una traversa della Via Tasca Lanza. E giunti a questo punto, speriamo per l’avvenire che il sindaco Leoluca Orlando o chi gli succederà non si convincano a dedicare come per Indro Montanelli una strada a un razzista seriale antimeridionale come Vittorio Feltri.
La memoria di Montanelli - L’Italia e il sud «spiantato». Giuseppe De Tomaso il 21 Aprile 2009 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Metà disilluso metà disincantato, lo scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) sosteneva che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria. Indro Montanelli, di cui domani ricorre il centenario della nascita, citava spesso questa frase del suo maestro Ojetti. Vi ravvisava la triste fine che, post mortem, non avrebbe risparmiato neppure un Grande come lui, Indro, che del giornalismo aveva scalato tutti i gradini gerarchici, fino a raggiungere quello di pontefice massimo. «So di aver scritto sull’acqua», confessò Montanelli, sconsolato e rassegnato, un mese prima di passare a miglior vita. Ecco. Montanelli possedeva un fiuto da cane da tartufo. Fatta eccezione per Silvio Berlusconi, la cui stagione politica - secondo la Grande Penna - avrebbe coinciso con i tempi di una meteora, non già di una stella immortale, super-Indro aveva azzeccato quasi tutte le previsioni sul Belpaese e sulla politica italiana. Quasi tutte. Un altro pronostico l’«infallibile» Indro lo sbaglierà a proposito di se stesso. Montanelli ha scritto sull’acqua? Non scherziamo. Non passa giorno senza che un giornale pubblichi un suo pezzo, un brano dei suoi diari inediti, una riflessione di chi lo ha davvero visto da vicino. Persino la tv, elettrodomestico non particolarmente amato dall’anti-tecnologico Indro, ha rispolverato stralci di trasmissioni di 50 anni addietro, pellicole in cui il re della parola scritta troneggiava anche nelle vesti di sacerdote della parola parlata. Ironia e autoironia. Classe ed eleganza. I suoi Incontri televisivi con i protagonisti di tutti i campi (da Moravia a Dino De Laurentiis) non erano la versione di serie B dei più celebri Incontri che furoreggiavano nelle librerie. Erano giornalismo di serie A, come assicurava il marchio di fabbrica. Comunque. A otto anni dalla sua scomparsa, l’Italia non ha dimenticato Indro Montanelli, nei cui confronti, perlomeno finora, non si è comportata da terra di contemporanei. Anzi. La domanda «Cosa avrebbe detto Indro se stesse in mezzo a noi?» è più gettonata di un disco degli Anni Sessanta, segno che l’uomo di Fucecchio ha lasciato un folto numero di orfani. Breve parentesi su antenati e posteri. Pur essendo un toscano milanesizzato, Montanelli non era insensibile ai problemi del Mezzogiorno. Il suo faro, nell’analisi della questione meridionale, era lo storico e politico lucano Giustino Fortunato (1848-1932). L’incontro con Don Giustino rimarrà scolpito nella mente del giovane inviato. «Lei ha visto i nostri calanchi, quelle distese di terra gialla e arida, senza macchie di verde? Sa perché sono così? Perché i pastori ci portano a pascolare le loro capre che non dànno tempo di crescere nemmeno a un filo d’erba. E sa perché i pastori gli lasciano distruggere erba e arbusti? Perché non credono in Dio. Chi non crede in Dio non crede nel domani. E chi non crede nel domani non pianta alberi. Ecco, ragazzo mio, la “questione” meridionale». Così parlò il simbolo della letteratura meridionalistica. Così ne resterà abbagliato il principe della carta stampata. Come dare torto a Don Giustino? Chiusa parentesi. Forse la fortuna postuma di Montanelli dipende dal suo percorso politico: cominciato a destra e finito, perlomeno sul piano elettorale, a sinistra. Per cui, la destra cita e ricita il Montanelli anticomunista che lascia il Corriere, da lui giudicato troppo debole verso progressisti e radical chic, per fondare Il Giornale dei moderati; mentre la sinistra cita e ricita il Montanelli antiberlusconiano che fonda la Voce e nell’urna vota per Prodi e D’Alema. Insomma, ciascuno tifa o tiferebbe per il suo Montanelli. Può darsi. Può darsi che la straordinaria produzione giornalistica del Nostro dia a tutti la possibilità di scegliere il Montanelli più congeniale alla sua visione delle cose. Ma, secondo noi, questa spiegazione dice e non dice. Anzi dice poco o punto. Il segreto della longevità postuma di Montanelli è uno: il suo rispetto per il Lettore. Sì, perché il Lettore è un animale strano. Può sembrare più distratto di un coniuge fedifrago, ma è più attento di uno scienziato davanti al microscopio. Guai a spacciargli merce taroccata. Il Lettore, anche se non sùbito, inevitabilmente se ne accorge, ed emette la propria sentenza (Raus, direbbe Umberto Bossi). Montanelli, invece, ha sempre rispettato il Lettore (che se ne è accorto), dicendo quello che pensava e pensando quello che diceva. Alla fine, anche i suoi nemici, anche coloro che non sempre condividevano le sue idee, hanno dovuto riconoscere che gli abiti politico-culturali di Cil-Indro profumavano di bucato. Il che costituiva e costituisce un riconoscimento più importante del laticlavio a vita, non a caso rifiutato da Montanelli. Conclusione. Non sempre i Grandi Maestri hanno prodotto Grandi Allievi. A volte hanno causato più danni di una guerra. Con Montanelli ciò non è accaduto, perché per i tipi come lui l’esempio era la più alta forma di autorità. E se oggi celebriamo il grande giornalista che, se non si fosse trasferito nell’Aldilà, avrebbe festeggiato il secolo di vita con Rita Levi Montalcini, è perché il suo esempio di persona libera vale più di una scrittura ineguagliabile e di una carriera irraggiungibile.
Indro Montanelli: noi italiani orfani di storia. Dino Messina il 15 marzo 2011 su Il Corriere della Sera. “Ma te sei matto”, mi disse quando rifiutai di fermarmi a cena per rientrare subito a Milano in redazione: “Guarda che nessuno è insostituibile”. Sagge parole di Indro Montanelli, che in questa intervista di fine agosto 1997, fatta per lanciare una iniziativa editoriale, mi spiegò la sua concezione della storia, i suoi maestri, i suoi riferimenti. La ripropongo oggi poiché dal 17 marzo il Corriere distribuisce la “Storia d’Italia” montanelliana, cominciando con “L’Italia del Risorgimento” in omaggio alla festa del 150° che cade proprio quel giorno. Alcuni dei volumi furono interamente opera di Montanelli, altri scritti con Roberto Gervaso o con Mario Cervi. Ma l’impronta rimase sempre quella del maestro.
CORTINA – “Chi è il curatore dell’Atlante storico che sarà distribuito dal Corriere?”. Geoffrey Barraclough. “Ah, non mi meraviglia affatto che sia un inglese. Per il mio ciclo di Storia d’Italia, valga quel che valga, io non ho letto autori italiani. Per la Storia di Roma, gli autori di riferimento sono stati il tedesco Theodor Mommsen e naturalmente il francese Jerome Carcopino. Per i Secoli bui e l’Alto Medioevo mi ispirai al bavarese Ferdinand Gregorovius, per l’Italia dei Comuni al britannico Anderson, per la storia dei papi a Ludwig von Pastor…”. A lezione di storia da Indro Montanelli, il maestro di giornalismo che di questa disciplina ha fatto la sua seconda professione, da quando, giovane laureato dell’università di Firenze, andò a studiare a Grenoble e alla Sorbona di Parigi, quindi si trasferì a Cambridge per seguire i corsi di Edward Carr, il grande specialista della Rivoluzione russa, autore tra l’altro del saggio What is history? Che cos’è la storia? E’ la domanda che rivolgiamo a Montanelli, in un pomeriggio di pioggia a Cortina. Il clima ideale per starsene in salotto a parlare di una passione che ha alimentato tutta la sua vita e a ricordare i vecchi maestri. Che, come si vede, non sono tutti italiani. “Ce ha un registratore?”, esordisce Montanelli, “perchè ne ho da dire”. Allora cominciamo. “Tra tutti i popoli occidentali, siamo quelli che meno conoscono la propria storia. E ciò dipende dal fatto che forse non siamo un popolo ma un agglomerato. E qui non si sa bene quale sia la causa e quale l’effetto: se cioè non siamo un popolo perchè conosciamo poco la nostra storia o viceversa. Una volta dissi a Ugo Ojetti, che per tanti versi è stato uno dei miei modelli: “Perchè non raccogli le tue cose viste? Tu hai il dovere di farlo”. Lui mi rispose: “Figlio mio, ti accorgerai anche tu che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati nè posteri. Perciò, senza memoria”. Ma torniamo alla storiografia italiana. “Quel che è mancato è stato l’anello di congiunzione tra il pubblico e l’accademia. I nostri testi di scuola sono illeggibili, così anche per le sinossi ho dovuto ricorrere a quelle inglesi. E per quanto riguarda il resto, beh, vuole sapere davvero quel che penso? I nostri storici non sanno raccontare, non hanno nemmeno la lingua per farlo, fanno una confusione voluta fra divulgazione e volgarizzazione. Dove sono i nostri Mack Smith, i nostri Carr? Se una cultura non pensa a diffondersi diventa parassitaria, serve soltanto a se stessa e alla corporazione”. Il suo giudizio così severo vale anche per Croce, Chabod, Salvemini? “Certo, vale anche per loro, perchè non hanno saputo raccontare la storia, ma soltanto la loro interpretazione, non hanno avuto l’umiltà di esporre i fatti, li hanno sempre presupposti”. Davvero tutti condannati gli storici italiani? “Intendiamoci, ci sono le eccezioni, e quali eccezioni. Per esempio lo storico dell’antichità Guglielmo Ferrero, che fu costretto ad andare a insegnare in Belgio perchè aveva il difetto di saper raccontare i fatti. Poi Gioacchino Volpe, Roberto Ridolfi e, naturalmente, Rosario Romeo. La sua biografia di Cavour è notevole”. Perchè dalle eccezioni positive ha escluso Renzo De Felice, il grande storico del fascismo? “Quando fondai il Giornale, volli subito tra i miei collaboratori Romeo e De Felice. Fummo in prima fila per difendere lo storico del fascismo dagli attacchi vergognosi cui era sottoposto. Ma questo è un altro discorso. Quel che voglio dire è che De Felice era uno storico di documenti, nella sua opera monumentale ha raccolto il meglio, ma non sapeva raccontare e soprattutto dalla sua biografia manca la cosa essenziale, il personaggio Mussolini”. Forse per uno storico l’ossessione della completezza è un limite? “Lytton Strachey, il biografo della regina Vittoria, in un saggio sulle qualità dello storico, indicava anche quel pizzico di ignoranza che impedisce di attardarsi eccessivamente sul particolare, aiuta a prendere le distanze. Ma vorrei tornare a Mussolini, per dire quanto il fascismo si indentificasse con lui. Una volta accompagnai Bontempelli a trovare Pirandello. Ascoltavo i due che criticavano il fascismo e, timidamente, intervenni: “Se, come voi sostenete, è un regime senza consistenza, allora cadrà presto”. Pirandello mi rispose: “Non cadrà mai, perchè è un vecchio tubo vuoto che ognuno può riempire come vuole”. “Dopo qualche tempo ebbi la conferma di quel che intendeva Pirandello. Collaboravo a Firenze al giornale diretto da Berto Ricci, l’Universale, che intendeva il fascismo come uno strumento per dare ai giovani una coscienza civile. Un giorno Mussolini, che è stato giornalista per tutta la vita, convocò la nostra redazione e si rivolse a me con voce solenne: “Ho letto il vostro articolo contro il razzismo, vi elogio. Il razzismo è roba da biondi”. Peccato che i miei capelli da giovane tendessero al biondo, forse Mussolini non se n’era accorto, o forse disse quella frase proprio perchè lo aveva notato. Dopo qualche giorno il duce convocò la redazione di Cantiere, che intendeva il fascismo come lo strumento per creare una nuova economia di Stato, di cui le corporazioni dovevano essere il primo passo. Tra i collaboratori c’era Pietro Ingrao. Mussolini diede ragione anche a loro. Ecco che cos’era il fascismo, un tubo vuoto che ognuno riempiva a suo piacimento”. I ricordi di storia vissuta si accavallano alle lezioni apprese dai libri, il metodo acquisito nella lunga militanza giornalistica diventa strumento per meglio capire il nostro passato. Ecco un’altra lezione di storia, nata da un incontro con Giustino Fortunato, il meridionalista liberale lucano. “Sull’Universale mi occupavo molto della questione del Mezzogiorno. In un articolo scrissi che il fascismo era la scorciatoia per riunificare l’Italia e a sostegno della mia tesi fornii alcune cifre. Un giorno ricevetti un biglietto: “Caro signore, ho letto i suoi articoli. Mi complimento per i dati, ma non sono d’accordo sulle conclusioni”. Quel biglietto era firmato Giustino Fortunato. Saltai su un treno per Napoli. Era una domenica. Salii le scale di un vecchio palazzo e mi venne ad aprire lui. Era il notabile meridionale al meglio, lo sguardo vivace, i fitti capelli bianchi. Mi disse: “Capisco che lei abbia di questi sogni, ma lei confonde il problema. Lei pensa che il problema del Meridione sia il Meridione stesso, ma sbaglia. Il problema del Meridione sono i meridionali”. E mi fece entrare in una grande stanza tappezzata di libri. Era la biblioteca di sua sorella. Io leggevo i nomi di santi e di mistici sui dorsi di quei volumi rilegati e non capivo dove voleva arrivare Fortunato, che a bruciapelo mi chiese: “Ha mai sentito parlare di un mistico meridionale?”. No, risposi. E lui: “Chi non crede in Dio vive soltanto del presente, non ha fiducia nel futuro. L’immagine del Meridione è nei calanchi aridi, non coltivati, abbandonati alle capre”. Montanelli continua a sostenere che gli italiani sono un popolo di contemporanei, che non hanno fiducia nel futuro e nemmeno interesse al proprio passato. Un giudizio in parte contraddetto dal successo che ha avuto la sua storia d’Italia. Quando le venne l’idea di scriverla? “Fu Dino Buzzati, scrittore straordinario ma anche grande giornalista, a propormi negli anni Cinquanta di scrivere per la Domenica del Corriere una storia di Roma. Io non sono un topo di archivio, il mio pregio è di saper scegliere i testi dei grandi ricercatori e mediare tra la cultura alta e il pubblico, che è uno dei compiti del giornalismo. Questo feci. Il successo fu tale che scoprii quanto desiderio gli italiani avessero di storia, di una storia vera, raccontata in una lingua accessibile a tutti. E’ un esercizio di umiltà cui mi sono applicato. La capacità me l’ha data il giornalismo”. E’ più difficile raccontare la storia del passato o quella del presente? “Senza dubbio quella del presente, anche se io continuo a provarci. Tra poco uscirà L’Italia dell’Ulivo scritta con Mario Cervi. Ma anche per il passato remoto la completezza e l’obiettività sono impossibili, altrimenti basterebbe un solo libro di storia. L’obiettività non esiste, è soltanto una tecnica, nella quale gli anglosassoni sono maestri, come mi spiegò il mio amico Webb Miller, giornalista della United Press che era stato con me a Parigi e in Finlandia. Lui mi passava le sue note che per me erano utilissime e un giorno gli dissi: ti ringrazio perchè devo anche a te, alla tua obiettività se ho fatto bene. Lui mi rispose che l’obiettività non esiste e me ne diede la prova. L’indomani saremmo andati in aereo a Stoccolma. Una volta arrivati, stendemmo due resoconti di quel breve viaggio e li confrontammo. Avevamo descritto la stessa esperienza non soltanto con parole diverse ma raccontando particolari differenti. Però c’è una tecnica che dà il senso dell’obiettività. E il mio amico Webb, che poi sarebbe morto suicida perchè non riusciva a smettere con l’alcol, mi dimostrò anche che si possono dire cose diverse con le stesse parole. Noi possiamo sostenere che Giulio Cesare fu un grande mariuolo ma fu un generale e uno statista. Poi possiamo dire che Giulio Cesare era un grande statista ma un mascalzone che non pagava i debiti. Nel primo caso abbiamo affermato che Cesare era uno statista, nel secondo che era un mascalzone”. Ma se l’obiettività non esiste, conclude Montanelli, “come è possibile farsi una propria visione della storia? L’unico consiglio che posso dare è leggere tante storie”.
Commedia All'Italiana. Esistono ancora i Settentrionali? Roberto Marino il 31 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. I maligni dicono che questa rivalità sia iniziata quando Vittorio Emanuele II e Garibaldi non avevano neanche fatto in tempo a girare i cavalli dopo la storica stretta di mano a Teano. È lì che è nato tutto: nordisti e sudisti, muro contro muro, fino a finire a “polentoni” contro “terroni”. Per la verità sono stati loro a cominciare: mille camicie rosse mandate allo sbaraglio, nascondendo la mano e le ambizioni sabaude del grande Piemonte, non sono una cosa da niente. E gli italiani? Ferite e lacerazioni non si risolvono con meno di due secoli. Il servizio di leva, le fabbriche e la televisione ci hanno provato a creare un popolo che avesse qualcosa in più in comune che la spartizione di una fettuccia di terra a spigolo nel Mediterraneo. E se un minimo di condivisione della lingua lo si deve alla Rai, il resto è rimasto più o meno com’era, pregiudizi, discriminazioni e insulti compresi. Poi da 30 anni in qua, sono arrivati quelli del Carroccio a rimestare le differenze e a scavare crepe, gettando sulla Questione meridionale anche una patetica e inquietante ombra razzista. Ma è teatro, solo teatro. Perché poi la Storia si prende le rivincite e rimette sempre le cose a posto. «Si è sempre meridionali di qualcuno», dice il professor Bellavista chiuso a lume di candela in ascensore con sciur Cazzaniga. E così 180 anni di pregiudizi incartati con la peggiore retorica padana, finiscono per diventare anacronistici. A forza di prendersela con i terroni, l’identità nordica è andata a farsi benedire. A Milano il cognome più diffuso sull’elenco del telefono è Hua, non proprio meneghino; e nella francofona Valle d’Aosta prevalgono quelli calabresi. Il mondo cambia sotto i nostri occhi e non aspetta nessuno, neanche quelli dei prati di Pontida con le ampolle dell’acqua del Po. Tra minacce di secessione, esibizioni di superiorità, presunzioni e ricchezze cumulate nell’ingiustizia delle spartizioni dei bilanci statali, il Nord si è ritrovato dentro l’incubo incredibile del coronavirus. I numeri sono dalla parte loro, ma l’identità? Esistono ancora i settentrionali? Certo che ci sono, ma sono minoranza. Quanti sono i torinesi, i milanesi, i veneziani, i genovesi di sangue puro da generazioni e generazioni? Pochi, una comunità sopraffatta in casa, malgrado tutte le misure e gli esorcismi per tenere a distanza gli «africani dello Stivale». Il Nord ha vinto tutte le battaglie ma ha perso la guerra con «gli inferiori». Ne sono consapevoli soprattutto i passeggeri e i guidatori del Carroccio. Cinema, teatro, televisione, letteratura parlano più dei vinti che dei vincitori. E così il riccone di provincia veneto o lombardo deve sorbirsi gli effetti e i prodotti di una cultura bollata come minore, insignificante, impalpabile. Rosicano, e come se rosicano. Gli alfieri della Lega più volte hanno stuzzicato l’argomento: basta con il terrone Camilleri o De Giovanni o Saviano. «Basta con queste storie che parlano una lingua che si fa fatica a capire». Bisogna pure comprenderli, poverini. Ma è andata così. I vinti si sono riscattati con i vincitori. Gli hanno lasciato le cifre del conto in banca e delle carte di credito. I numeri delle statistiche economiche, il ruolo di locomotiva dello sviluppo, i servizi più efficienti. L’agiatezza non sempre produce idee culturali, soprattutto quando è finalizzata a un edonismo fine a se stesso, senza neanche la spinta a chiedersi come e perché. Essere primi e accomodati nel benessere non produce sempre voglia di capire, crescere, raccontare. Il Nord è quasi sparito dalle storie, pur avendo i cinema, le librerie, i teatri e gli indici di lettura migliori. Il vecchio Sud ha rimontato il distacco sull’analfabetismo, ha saputo stringere i denti e imparare da chi ha accolto i suoi figli con la valigia di cartone. Si sono integrati, hanno orecchiato le cadenze e gli accenti. Fino a diventare una comunità che guarda al resto del paese. qualche volta, dall’alto in basso. Negli stadi di Torino, Bergamo, Verona, Brescia i cori contro i tifosi meridionali arrivano anche da altri sudisti trapiantati al Nord. La voglia di identità fa questi scherzi. La rivincita dei padani. Creare dai terroni i nuovi polentoni. Due Italie in una e non più una in due. Quando scompariranno dialetti, tradizioni, differenze, avremo forse gli «italiani», un Paese più omogeneo, ma chi ha detto che sarà anche migliore?
L'Italia è finita di Pino Aprile. Dopo lo straordinario successo di Terroni, Pino Aprile firma un libro infuocato, che irrompe con forza nel dibattito politico. Autorevoli studi e indagini dicono che, tra una manciata di anni, l'Italia, e forse l'Europa, non esisteranno più. Almeno come le conosciamo ora. Si spezzeranno per il fallimento della loro economia e non reggeranno alla spinta disgregatrice dei mercati finanziari. D'altronde, già oggi l'Italia non è più la stessa: grandi aziende, grattacieli, squadre di calcio appartengono a capitali stranieri. E unita, in realtà, l'Italia non lo è mai stata. Piuttosto, è il risultato di un'operazione scellerata di saccheggio e conquista, che ha distrutto il Sud. È questa la crepa, mai sanata, che si allargherà fino a inghiottire tutto l'edificio dell'Italia unita? O forse nelle tensioni e nelle divisioni gli italiani danno il meglio e lo smembramento sarà la nostra salvezza?
“L’ITALIA E’ FINITA. E FORSE E’ MEGLIO COSI’”: NUOVE VERITA’ NEL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE. Gennaro De Crescenzo su neoborbonici.it. “L’ITALIA E’ FINITA. E FORSE E’ MEGLIO COSI’”: NUOVE IMPORTANTI VERITA’ NEL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE. Pino Aprile analizza (da giornalista vero e spesso da storico vero) i fatti del passato e del presente del Sud (e anche dell’Italia e del mondo) e propone una sua soluzione dei problemi. “Tutto qui”, potremmo dire ma altro che “tutto qui”, se pensiamo che quelle analisi e quelle soluzioni molto spesso nessuno le ha fatte o prospettate e che si tratta (pur partendo dal passato) di analisi e soluzioni nuove. Dico da sempre che nel mondo del meridionalismo si dovrebbe parlare di epoca pre e post-terroni per quante persone, da quel lontano 2010, sono state sensibilizzate su temi spesso sconosciuti. Il successo di Pino Aprile è in gran parte legato allo schema utilizzato nel suo best-seller, negli altri libri sul tema (da “Giù al Sud” al recente e importante “Carnefici”) e nel nuovo libro pubblicato qualche settimana fa: “L’Italia è finita. E forse è meglio così”. Pino Aprile non ha “la” soluzione per risolvere i problemi del Sud (si chiama “questione meridionale” e intere generazioni di politici e/o meridionalisti non sono riusciti a risolverla). Pino cerca “una” soluzione e la cerca alla luce di studi continui e di esperienze “sul campo”, nel confronto quotidiano che ha con i suoi lettori sui social come con le centinaia di conferenze in giro per l’Italia e per il resto del mondo (conosco poche persone in grado di percorrere tanti chilometri all’anno come Pino). I "nemici" di Aprile, allora (pochi, pochissimi , se rapportati agli incredibili numeri degli "amici" raccolti in questi anni), o non leggono i libri di Aprile (un'occhiata al web e alle copertine, un pizzico di pregiudizi, una buona dose di invidia o un poco di antico antimeridionalismo e siamo pronti!) oppure sono distratti: fanno evidentemente finta di lamentarsi per l'assenza delle fonti (eppure è facile: le mette all'interno del testo e non nelle note!) solo per l'incapacità di contrastarne le tesi (frutto in gran parte di ricerche personali o di quelle fonti, accademici alternativi "in primis"). Fanno evidentemente finta di contestare la validità di tante tesi senza entrare mai nel merito (spesso si tratta di opinionisti più o meno famosi che non sanno neanche dove sia il Sud) e senza mai proporre tesi alternative o, anzi, riproponendo tesi che hanno ridotto il Sud come sappiamo in 150 anni di colonizzazione e di questioni meridionali mai risolte e sempre più gravi con colpe che di certo non possono essere di Pino Aprile (non ha mai curato neanche l’amministrazione del suo condominio e non ha mai neanche cercato -pur avendo avuto non poche offerte- di diventare il “leader” dell’ennesimo partito meridionalista o della corrente meridionalista di qualche partito nazionale).
“Da un secolo e mezzo, i meridionalisti muoiono senza veder la fine della questione meridionale, nata in Italia, con l'annessione violenza del Regno delle Due Sicilie al regno sabaudo. L'Italia unita mi piace, ma alla pari; e la questione meridionale mi dispiace più di quanto mi piaccia l'Italia unita. Non voglio morire senza averne vista la fine (ho 68 anni e siamo longevi in famiglia, fatevene una ragione). Per cui: o finisce la questione meridionale o finisce l'Italia unita. E io ci voglio essere”. Qualcuno potrebbe mai contestare questa affermazione a meno che non sia un ministro o il figlo di un ministro italiano in carica o in “ex carica” dal 1860 ad oggi? Qualcuno potrebbe mai dire che non è vero che dal Sud “prima dell’unità non emigrava nessuno e che il Sud aveva i due terzi dei soldi di tutta Italia” o che in Italia esiste “una parte che insulta e si ritiene superiore e una parte che viene insultata e non reagisce più, perché dai e dai, si è convinta di esser inferiore”? E’ una falsità scrivere che “in Italia esiste una parte in cui costruiscono sempre più ospedali in cui accogliere malati costretti a emigrare, per curarsi e una parte in cui chiudono sempre più ospedali, onde costringere i malati a emigrare per curarsi; una parte in cui si pagano meno tasse e si hanno più servizi e una parte in cui si pagano più tasse per avere meno servizi e scadenti”? A meno che non siate direttori di nomina politica di un giornale o opinionisti più o meno “ufficiali” (e loro “seguaci” ignavi, ignari o più o meno consapevoli) o politici con responsabilità dirette o indirette (pure la passività è una colpa), qualcuno in buona fede potrebbe mai definire falsa la tesi secondo la quale “chiamare questo ‘un Paese’ è una presa in giro, una truffa che può durare solo finché non lo si sa o si finge di non sapere”? Del resto gli studi (anche internazionali) e i segnali (anche elettorali) che dimostrano la tesi di Aprile (la fine dell’Italia) non sono affatto pochi e solo chi non vuole leggerli, per pigrizia o per complicità, può far finta di nulla. Del resto la domanda è facile e la risposta dovrebbe essere altrettanto facile (un sì o un no): “è vero o no che la politica ‘unitaria’ ha scavato un solco quasi incolmabile fra le due macro-regioni, per concentrare ricchezza e infrastrutture solo in una delle due”? E’ vero o no che “l'Italia è il Paese occidentale che ha le più grandi disuguaglianze”? Non perdete tempo a cercare e ad affibbiare a Pino Aprile le definizioni più negative e (secondo voi) offensive (“terronico, terronista, neoborbonico, nostalgico, secessionista” ecc. ecc.) e dimostrate, se potete, che non è vero che “l’Italia ha il divario più duraturo del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito, diritti, salute, vita media...)”. Non accontentavi dei titoloni dettati dai governi di turno (“disoccupazione in calo, crisi finita” ecc.). Non accontentavi neanche delle statistiche nazionali che fanno di tutto per “coprire” i dati regionali e rassegnatevi all’idea che il Sud Italia è la zona più povera d’Europa e, purtroppo, Pino Aprile ha ragione… E sono in tanti, sempre di più, a porsi una domanda drammatica: “perché devo stare con chi mi ha derubato, mi deruba, mi insulta e mi ricorda a ogni passo che non mi vuole, dopo avermi costretto a unirmi a lui a mano armata?”. E qui non si tratta di essere anti-italiani e di spingere verso eventuali secessioni: la secessione è in atto da 150 anni e, come diciamo spesso, è in quella percentuale drammatica che riguarda i nostri giovani meridionali (che hanno la metà dei diritti, del lavoro, dei servizi, delle infrastrutture, delle occasioni e delle speranze di quelli del resto dell’Italia e dell’Europa). Qui si tratta di rendersi semplicemente conto di come sono andate le cose e di come continuano ad andare con la consapevolezza che “gli italiani si sentivano ed erano tali più quando, nel solco di storia, cultura e religione comuni, si ammiravano ed emulavano, in concorrenza, a volte armata, per le loro ricche diversità”. Ancora più chiara un’altra sintesi: “Il Paese si rompe, perché non lo si volle unire, ma assimilare. L'operazione non è riuscita”. Ai limiti del mondo pirandelliano, poi, è chi contesta ad Aprile (e magari ai neoborbonici) un dato inconfutabile: “in tutti i Paesi ci sono zone più ricche e più povere e lo Stato spende in queste ultime, più di quanto riceva”. E se “l’Italia è finita” è colpa di Pino Aprile che ci ha scritto un libro oppure di una Lega (sempre e comunque) Nord che governa da decenni e che nel suo statuto ha tra gli obiettivi la creazione della Padania (ed è quasi riuscita a crearla con la complicità periodica degli altri partiti)? E’ colpa di un libro o della prossima e bene avviata “secessione” del Veneto (e poi di Lombardia ed Emilia Romagna) finalizzata a distruggere quel patto di solidarietà nazionale a puri scopi economico-fiscali? E’ anti-italiano Aprile o chi offende il Sud ogni giorno con i suoi giornali (“Ci tocca mantenere un meridionale”, titolava Libero poche ore fa) o chi finge di ignorare quello che le regioni del Nord stanno facendo (con successo e anche in queste ore)? “Qual è il nuovo disegno del mondo? Quale il nostro posto, quello dell'Italia?”. Quello che emerge da questo libro non è una certezza ma una domanda, legittima, sacrosanta e che dovrebbe aprire dibattiti veri e possibilmente democratici. E se la vita media al Sud è diminuita di 4 anni rispetto al Nord (e a Napoli di 8) è colpa di Pino Aprile, dei meridionali che decidono di morire prima o di chi ha governato questo Paese? “L'alternativa è costruire un Paese veramente uno, ma il Nord non vuole e il Sud non ha più tempo di aspettare. E non si capisce perché il derubato dovrebbe ancora fidarsi del ladro” (e la frase dovrebbe campeggiare su strade e piazze del meridione d’Italia). “L'ingegneria istituzionale non risolve da sola; è utile solo in presenza di consapevolezza e volontà diffuse e condivise” è la risposta di Aprile a chi invoca anche da queste parti macroregioni o altri assetti istituzionali ed è una risposta che non possiamo non condividere sottolineando anche un altro aspetto evidenziato nel libro: sotto la spinta “emotiva” delle bandiere venete o lombarde qualcuno potrebbe pensare di “accettare la sfida” e di chiedere la stessa “autonomia” ma potrebbe cadere nella ennesima trappola: questo sistema oggettivamente nord-centrico, per continuare a “utilizzare” il Sud, potrebbe concedergli “autonomia” ma mai una vera “indipendenza”... Del resto è difficile per chiunque contestare il confronto tra i dati veicolati dai soliti Giletti o Del Debbio o Feltri di turno e quelli reali (idem per le questioni storiche con il supporto, magari, dei nuovi studi di accademici onesti e coraggiosi come Daniele, Malanima, Fenoaltea o Tanzi). Del resto è difficile minimizzare l’importanza di movimenti come quello neoborbonico (raccontato con i recenti articoli di Limes) o dei tanti che si battono per la verità storica diventando (lo ammise lo stesso Galli della Loggia tempo fa) “maggioritari” e creando non poche inquietudini sui fronti accademico/ufficiali impegnati in strenui e stressanti tour con convegni (tra di loro) per spiegare a se stessi e ai loro poveri alunni chi è Pino Aprile o chi sono i neoborbonici (guardandosi bene, ovviamente, dall’invitare sia il primo che i secondi). Non era facile affrontare temi che Aprile aveva già affrontato arrivando con un messaggio forte e chiaro sia ai lettori (magari post-terronici) “che sanno” e anche a quelli che “non sanno” e Aprile lo ha fatto con grande abilità (il libro è articolato e massiccio ma si legge con velocità e con piacere) guardando le cose da una prospettiva diversa da quella utilizzata nei libri precedenti (anche solo un occhio allo stile e ai contenuti dei finali dei capitoli vi fa capire perché Pino Aprile ha il successo che in tanti non hanno). Questa volta, tra l’altro, il Sud (dall’unità alle sue conseguenze passando per la Cassa per il Mezzogiorno fino ai drammatici dati attuali ignorati dagli intellettuali ufficiali troppo impegnati magari a combattere i “giorni della memoria“) non è l’unico protagonista del libro insieme a tante analisi e a tante tesi sulla nuova Europa e il nuovo mondo che stiamo vivendo e che forse vivremo. “L'Italia che proprio non riesce a essere unita, parrebbe avere tutto da guadagnare, rompendosi. Meglio, peggio? E che ne so: è una possibilità, è l'adeguamento al futuro e potrebbe darci sorprese. Per il Sud, peggio dell'ultimo secolo e mezzo, e soprattutto dei primi due decenni e degli ultimi due è difficile”. Una tesi, una possibilità, una sfida, una scommessa… Chiamatela come volete ma se ancora amate il Sud e, in fondo, l’Italia, non potete fare finta di non aver letto queste parole e non potete non leggere questo libro. Gennaro De Crescenzo
Per ogni guaio italiano ve n’è uno peggiore in Calabria. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 14 Gennaio 2020. Accade di contrapporre il male altrui al proprio, lo si fa per incoraggiarsi. È un fatto umano dai connotati pericolosi se da vizio dell’uomo si trasforma in metodo sociale: una società individua un suo pezzo sofferente, lo addita per sentirsi migliore. Inidoneità, ignoranza, furbizia, egoismo, anche un pizzico di razzismo ne sono causa. Pensando alla Calabria, la sua classificazione tra il peggio è effetto anche dell’autorazzismo: si è accettato il ruolo della pecora nera, assistendo e contribuendo alla costruzione di una rappresentazione della realtà. Si è partiti con i risolini e le chiacchiere degli stessi calabresi che riguardavano piccole porzioni del proprio territorio, dai riottosi, ribelli e irredimibili africoti di Stajana letteratura, si è passati alla razza dannata, sanlucota, platiese, locridea. Si è arrivati a una Calabria totalmente irredimibile, con un morbo che ha preso a seguire i calabresi in fuoriuscita. I meridionali in genere e i calabresi in particolare: non sono più ciò che sono, solo quello che appaiono. E la sostituzione della rappresentazione al reale non serve alla vittima né a chi si consola del suo male. A elencarli tutti, i mali calabresi o meridionali, servirebbero parecchi saggi, il Sud ha bisogno di verità, brutale, gli serve una classe intellettuale che ne apra le piaghe senza pietà, e poi una classe dirigente che, una a una, provi a curarle. E poi serve un popolo che sostenga l’una e spinga in punta di lama l’altra. Al momento mancano tutti. La Calabria, per esempio, non è più un luogo fisico, abitato da uomini. È una narrazione fatta da fuori, con complicità interne, che quotidianamente riempie i mezzi di informazione. Per consolare gli altri e affossare se stessa. È il modo giusto per non aiutarla. Ma questa Italia è un Paese che s’ostina a tenere i sudici sul banco degli imputati, additando ogni loro vizio, come solo loro vizio e non il sintomo di un’infezione che tocca tutti, un’Italia che cinicamente accetta la loro messa all’angolo non fa un favore a se stessa. E pure se è vero, se si deve parlare di mala sanità si tira in ballo la Calabria, la si tira in ballo per la mala politica, per la scuola cattiva, per il dileggio dell’ambiente. Per ogni guaio italiano vi è uno peggiore che alligna in Calabria. E poi da lì parte il mostro dei mostri, la ‘ndrangheta, che più la si combatte e più cresce e più invade il mondo. Le narrazioni non sono neutre, hanno il potere di spodestare la realtà dal suo posto e atterrare definitivamente un contesto. La Calabria questo è, il Sud questo sta diventando, oltre ad averli i drammi: la consolazione dei mali, che sono anche altrui, che sono di tutti.
Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio.
Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.
Numeri. Caro Giletti, così ci siamo. Roberto Napoletano il 6 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bravo Giletti, il suo viaggio nel Sud a Non è l’Arena questa volta ci è piaciuto. Ai nostri occhi si è riscattato perché ha coperto con onestà il buco nero informativo della sua trasmissione che questo giornale ha denunciato perché insopportabile. Che a un cittadino calabrese lo Stato italiano elargisca 15,9 euro per investimenti in attrezzature sanitarie contro gli 89,9 che riceve un cittadino della Valle d’Aosta è uno scandalo morale, prima ancora che economico, perché lede i diritti di cittadinanza inviolabili della Repubblica italiana. A prescindere dal fatto, sia chiaro, che gli amministratori della Valle d’Aosta si sono dimessi perché indagati per associazione politico elettorale mafiosa e che il Comune di Saint Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta. Giletti ha mostrato le tabelle del Quotidiano del Sud che sono poi quelle dei Conti Pubblici Territoriali e ha detto con assoluta chiarezza che il capitolo degli investimenti sanitari dopo lo tsunami Coronavirus dovrà essere riscritto perché non equo. Non era scontato. Queste parole gli fanno onore e sono quelle che avremmo voluto sentire già due domeniche fa. Ogni volta che il conduttore di Non è l’Arena denuncerà gli sprechi e il malaffare calabrese nella sanità pubblica e privata ci avrà sempre al suo fianco. Perché questo giornale, come ho scritto la settimana scorsa, non ha e non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi pubblici e al coacervo di interessi massonici e amministrativi che a volte hanno spartito con essa il bottino e a volte ne hanno bloccato l’impiego per calcoli inverecondi. Questa vergogna deve essere esplorata e denunciata senza riguardi per nessuno perché la sanità è un bene pubblico e le vittime sono le donne e gli uomini del Mezzogiorno. Saremo sempre in prima linea nel sostenere a tutto campo l’azione di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori dall’Italia, e non ci stancheremo mai di ringraziarlo. C’è un punto rimasto in sospeso che aiuta a capire come sono andate davvero le cose, caro Giletti. È vero che i commissariamenti delle regioni del Sud hanno comportato un taglio dei trasferimenti per colpe loro, come hai opportunamente sottolineato, ma sono scattati per bilanci regionali in rosso per importi rilevanti che non hanno però paragone con quanto prima, durante e dopo è stato tolto alle stesse regioni del Sud per regalarlo alle regioni del Nord. Dal 2000 al 2017 su 47 miliardi di investimenti complessivi 27,4 sono andati al Nord, poco più di un terzo al Sud (10,5). Per la sanità italiana, un cittadino della Calabria ha ricevuto cinque volte di meno di un cittadino emiliano-romagnolo. A seguito dei giusti commissariamenti frutto di sprechi e inefficienze le Regioni del Mezzogiorno taglieggiate pesantemente per quasi un ventennio nella distribuzione delle risorse pubbliche hanno dovuto mandare a casa un altro 10% di personale. Ho scritto la Grande Balla perché questa ineludibile operazione verità che riguarda la sanità come la scuola, gli asili nido come i treni veloci, fosse chiara a tutti. Questa distorsione incostituzionale della spesa pubblica è tra l’altro all’origine dell’abnorme crescita della rendita sanitaria privata lombarda a discapito degli ospedali pubblici lombardi e del Mezzogiorno. Ogni battaglia sacrosanta di moralizzazione e di ricostruzione economica e sociale del Paese può partire solo da questi numeri. Che parlano perché hanno un cuore e un’anima.
Settentrionali vs Meridionali. La parafrasi di un atteggiamento razzista da una parte e coglionista dall'altra.
Ogni volta che aprono bocca i padani non parlano mai (o solo) dei cazzi loro.
Su ogni argomento stanno sempre lì a comparare loro ai meridionali.
Riguardo al tema del Coronavirus.
Il Nord untore ha prima infettato il Sud e poi l'ha rinchiuso in casa da sano, affamandolo.
Il Nord ha dato prova di inefficienza ed incompetenza. Ciononostante, stanno lì a chiedersi ed a trovare il cavillo calunnioso sul perchè il Sud non deborda di morti, stante, secondo loro, l'arretratezza della sanità e della società meridionale, restia a rispettare le norme di contenimento.
La litania dei "Corona" settentrionali con la moglie cozza: Quanta è bella mia moglie; ma quanta è brutta la loro.
La risposta dei "Terroni" meridionali con la moglie bella ed affascinante: Quanta è brutta mia moglie; è più bella la loro.
Non riesco a trovare nessun settentrionale che riveli la realtà dei fatti e parli male della Padania. Che dica: che racchia di femmina!
Si riscontra solo: quanto è bella, progredita, onesta, ricca che paga le tasse.
Non riesco a trovare alcun meridionale che metta in evidenza i difetti e le mancanze del Nord ed indichi le eccellenze del Sud e che, nel paragone, dica: che bonazza di femmina!
Si riscontra solo: quanto è brutta, arretrata, mafiosa, povera ed evasora fiscale.
Non so chi mandare a fanculo: i razzisti o i coglioni!!
La mobilità resta un elemento cruciale per la valutare la "fase 2". Coronavirus, uno studio: "L'epidemia ha corso lungo ferrovie e autostrade". Primocanale.it sabato 11 aprile 2020. I collegamenti tra Liguria e Toscana, le vie di comunicazione a raggiera della Pianura Padana, la Via Emilia: in Italia l'epidemia di Covid-19 ha mosso velocemente i suoi primi passi seguendo i percorsi delle principali infrastrutture di trasporto, ovvero ferrovie e autostrade. Per questo la mobilità resta un elemento cruciale da valutare attentamente anche in vista della cosiddetta fase 2. Lo spiega Marino Gatto, professore di ecologia del Politecnico di Milano e primo autore di uno studio in via di pubblicazione sulla rivista dell'Accademia americana delle scienze (Pnas) che ricostruisce la mappa del contagio nel nostro Paese. Lo studio è stato realizzato da ricercatori italiani che lavorano presso il Politecnico di Milano, l'Università Ca' Foscari di Venezia, l'Università di Zurigo, il Politecnico federale di Losanna (Epfl) e l'Università di Padova. Come risultato ha prodotto "il primo modello di contagio per l'Italia che tiene conto sia dell'evoluzione temporale dell'infezione nelle popolazioni locali che della loro evoluzione spaziale", spiega Gatto. "Sappiamo che il virus si propaga per contatto diretto tra le persone e le vie di trasporto hanno sicuramente favorito la diffusione del contagio dai primi focolai", precisa l'esperto. Lo studio ha preso in considerazione sia l'evoluzione temporale dell'infezione nelle popolazioni locali che la loro distribuzione geografica, integrando gli spostamenti degli individui per raggiungere il luogo di lavoro, con una risoluzione a livello provinciale. Sono stati usati censimenti Istat per stimare la mobilità prima dell'epidemia e uno studio indipendente che ha sfruttato la geolocalizzazione dei cellulari per capire di quanto si è ridotta la mobilità con le restrizioni imposte. L'animazione così prodotta mostra l'Italia del contagio che si accende di rosso, delineando zone ben precise. "Il maggiore focolaio si è sviluppato in Lombardia, che non a caso è tra le regioni meglio connesse col resto d'Italia e del mondo", afferma Gatto. "Nella Pianura Padana, dove le vie di trasporto sono a raggiera, il virus si è diffuso delineando cerchi concentrici via via più larghi. In un secondo momento si è propagato in Veneto ed Emilia Romagna, prendendo la via Emilia per scendere verso le Marche". Gli Appennini, in un certo senso, hanno fatto da tappo, e "i focolai della Liguria si sono propagati verso la Toscana, seguendo la tratta da La Spezia verso Lucca, Firenze e Siena". Il sud, paradossalmente, potrebbe essere stato risparmiato proprio per il minor sviluppo infrastrutturale.
Coronavirus, come mai al Sud non è esplosa l’emergenza? Rezza: «Il fattore temporale ha salvato il Meridione». L’intervista di Felice Florio su Open il 12 aprile 2020. «Non si può abbassare la guardia», afferma il capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. «Ci vuole poco per trasformare Bari in una grande Codogno» Quando è stato annunciato l’isolamento delle regioni del Nord Italia ed è scattato l’esodo verso Sud, lo scorso 7 marzo, si temeva che anche nei territori meno colpiti dal Coronavirus potessero nascere dei focolai capaci di far collassare le varie sanità regionali. Fortunatamente, non è accaduto. Le evidenze numeriche si leggono nei dati del 9, 10 e 11 aprile comunicati dalla Protezione civile. La somma totale dei casi positivi presenti al Sud e nelle Isole, il 9 aprile, era di 10.002. Nella sola Lombardia c’erano il triplo degli infetti: 29.530. Estendendo il confronto tra l’intero Nord e il Sud, il rapporto tra le persone positive al Sars-CoV2-19 nelle differenti aree è di 8 a 1. Il virus non ha sfondato la linea gotica. Un divario che si fa ancora più ampio considerando il numero dei decessi: il rapporto tra Meridione e Settentrione è di circa uno a 18. Il 10 aprile è arrivata la conferma di quei dati: in Lombardia c’è stato un incremento di casi totali di +1.246 rispetto al giorno precedente, un terzo del totale nazionale, di +3.951. Nessuna regione del Sud ha avuto un incremento superiore alle 100 unità: i territori meridionali più colpiti, ovvero Campania e Puglia, hanno avuto un aumento dei casi nelle 24 ore rispettivamente di +98 e +93. Idem ieri, 11 aprile: Campania +75, Puglia +95 e Lombardia +1.544. Per Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, è stato il «fattore temporale a salvare il Sud Italia».
Professore, perché il Sud ha retto?
«Il virus è entrato in Lombardia, probabilmente già prima del blocco dei voli da Wuhan. E lì si è diffuso in un periodo di picco influenzale: almeno inizialmente è stato molto difficile da diagnosticare. Poi si è trasmesso principalmente per contiguità, senza compiere salti a distanza, se non per qualche cluster ben circoscritto in Veneto, a Rimini e verso le Marche. Quando l’epidemia si è diffusa in tutta Italia e sono nati dei focolai al Sud, le autorità erano già preparate».
E cosa ha impedito che si arrivasse ai numeri di Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto?
«Il provvedimento di distanziamento sociale ha ostacolato il virus al Meridione prima che potesse diffondersi nelle stesse misure del Nord, dove circolava da parecchio tempo. Sì, c’è stata qualche catena di trasmissione a Roma, una città molto popolosa. Alcune catene si sono viste nelle Rsa, le residenze per anziani: ma quando il virus è arrivato davvero, i provvedimenti di distanziamento sociale erano stati già presi. Il fattore temporale ha salvato il Meridione».
Solo questione di tempo?
«No, assolutamente. Il virus ha dimostrato di colpire principalmente le aree più produttive, come il Nord Italia: semplicemente perché ci sono più contatti tra le persone e più spostamenti quotidiani legati a un mondo del lavoro frenetico. Anche l’aspetto della densità abitativa ha inciso. Ma le variabili sono tante, senza dimenticare il fattore della casualità, sempre presente nelle epidemie».
Lei stesso diceva che ci sono state trasmissioni incontrollate nelle Rsa, anche al Sud. Come se le spiega?
«Quando il virus circola, anche se circola poco, va a creare focolai di un certo rilievo nei luoghi chiusi: le principali catene di trasmissione si sono verificate nelle famiglie e negli ospedali. Le Rsa hanno personale che spesso si muove da una struttura all’altra e ospiti che spesso vengono mandati in ospedale per determinate cure: questi sono stati gli elementi che hanno facilitato la creazione dei focolai in determinati luoghi sensibili».
Si aspettava una maggiore incidenza del contagio dopo l’esodo di persone dal Nord al Sud avvenuto le prime domeniche di marzo?
«Abbiamo notato, nel periodo successivo all’esodo, catene di trasmissione intrafamiliare al Sud avvenute in seguito all’arrivo di un elemento del nucleo dal Nord. Al di là di qualche focolaio di questo tipo, fortunatamente la situazione non è degenerata. E parte del merito va anche ai governatori regionali che hanno istituito delle zone rosse laddove ce n’era bisogno: a memoria ne ricordo quattro nel Lazio, cinque in Campania, e anche in Calabria e Sicilia. Isolare i piccoli territori più colpiti ha funzionato».
Perché la Campania è la regione meridionale più colpita?
«La Campania preoccupa più delle altre semplicemente perché è tra le più popolose, con un’alta densità abitativa e dove ci sono più contatti tra le persone».
Cosa succederà nelle prossime settimane al Sud?
«Molto dipenderà dalle misure che si prenderanno e da quanto la popolazione le rispetterà. È difficile fare scenari perché, fin quando non ci sarà un vaccino, il virus circolerà. Non ce ne libereremo. Se si mollasse con le precauzioni, basterebbe poco tempo a trasformare Bari in una grande Codogno. Bisogna tenere molto alta la guardia, il distanziamento sociale ha dimostrato di riuscire a contenere il contagio e bisogna continuare su questa strada. Anche quando ci sarà la cosiddetta fase 2, occorrerà muoversi con cautela: la politica dovrà trovare un equilibrio tra la necessità della ripresa economica e la salvaguardia della salute pubblica. Il distanziamento sociale dovrà continuare».
La gaffe l'inviata di Agorà: "Non siamo fortunati, non c'è nessuno". Delusione per l'inviata Rai a Napoli per testimoniare il rispetto del decreto coronavirus: voleva documentare le violazioni ma la strada è deserta. Le sue parole scatenano l'indignazione sui social. Paola Francioni, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Da oltre un mese la televisione italiana è diventata quasi monotematica. L'argomento principale, trattato in ogni sua sfaccettatura, è il coronavirus. Difficilmente potrebbe essere diversamente, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale che sta facendo decine di migliaia di morti. I programmi televisivi delle reti nazionali si occupano prevalentemente di questo: sono stati soppressi momentaneamente tutti gli spazi di intrattenimento, relegati nella maggior parte dei casi a repliche di programmi già editi. Gli editori hanno preferito mettere momentaneamente da parte l'attualità leggera per concentrare le energie sul racconto del coronavirus. In questa spasmodica caccia alla notizia si è inserito anche Agorà, che negli ultimi giorni sta facendo discutere animatamente la rete. Il programma di informazione che va in onda al mattino su Rai3 è spesso elogiato la qualità del suo lavoro e dei suoi servizi ma in queste giornate così complesse i social hanno qualcosa da ridire sulle modalità con le quali la trasmissione ha deciso di informare. La polemica più accesa è scoppiata oggi e la protagonista è un'inviata del programma in collegamento da Napoli. La città Partenopea è spesso presa come esempio della scarsa attitudine degli italiani di rispettare le regole imposte dal governo. In un momento in cui si chiede il massimo rispetto delle distanze di sicurezza e in cui si chiede ai cittadini di limitare le loro uscire per contenere il contagio da coronavirus, sono molte le testimonianze contrarie che giungono da Napoli. In rete girano i video delle strade brulicanti di pedoni e di auto, sui social rimbalzano le immagini provenienti da ogni angolo della città che vorrebbero documentare una sorta di "allergia" alle regole da parte del sud. Forse in quest'ottica voleva inserirsi il servizio di Agorà di questa mattina, quando l'inviata si è recata in una delle principali arterie commerciali di Napoli per riprendere e testimoniare con la sua viva voce l'elevata circolazione dei mezzi nella città campana. Eppure, alle 8.37, alle sue spalle non circolavano che pochissime auto, nulla a che vedere con i racconti che provengono dalla città campana. "Io ti voglio far vedere quest'immagine. Noi siamo in una zona che sarebbe pedonale, siamo qui da circa mezz'ora. C'è in realtà un passaggio di auto abbastanza numerose, abbiamo visto furgoncini", racconta la giornalista ma, alle sue spalle, si vedono pochissime auto in transito. A quel punto, l'inviata pronuncia una frase che ha fatto indignare ben più di qualche telespettatore: "Non siamo fortunati in realtà, in questo momento si stanno comportando... Non c'è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c'era un passaggio intenso." Il fatto che la giornalista consideri una circostanza sfortunata quella di non poter rilevare con le telecamere un elevato passaggio veicolare, sinonimo di possibile trasgressione del decreto contro il coronavirus, sarebbe una circostanza sfortunata. Non la pensano così i napoletani, che sui social hanno fatto sentire la loro voce: "Ore 8.30, la giornalista in diretta dice che a Napoli c'è troppa gente per strada ma la telecamera inquadra una via Scarlatti deserta. Lei: 'Non siamo stati fortunati, fino a pochi minuti fa qui c'era un traffico intenso'... Come fate a non vergognarvi?", "Mi spiace non se ne parli, ma nel mio piccolo vorrei sottolineare quanto in basso stia scavando #agorai: l'inviata, in barba a ogni regola di distanziamento, tocca l'ospite; 'Non siamo fortunati, i napoletani si stanno comportando bene'. Mi vergogno per loro." Questi sono solo alcuni dei commenti che si trovano su Twitter, dove per altro si fa anche notare come l'inviata, trasgredendo una delle regole base imposte dal decreto contro il coronavirus, mette una mano sulla spalla di un suo ospite e non rispetta il distanziamento sociale. Solo poche ore fa il programma era stato criticato per aver mandato in onda un concitato inseguimento a un anziano runner con un drone della polizia, utilizzando come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie.
“A Napoli traffico intenso”: in strada non c’è nessuno e la giornalista tocca l’uomo. Da Francesco Pipitone il 15 Aprile 2020 su VesuvioLive. Questa mattina è andata in onda, come al solito, il programma di informazione Agorà in onda su Rai Tre. In collegamento da via Luca Giordano al Vomero c’era la giornalista Elena Biggioggero, che ha intervistato Luigi Sparano, segretario della sezione napoletana della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale. In realtà la Biggioggero fa domande molto interessanti a Sparano, il quale mette in luce problematiche estremamente importanti per quanto riguarda la gestione del pericolo della diffusione del contagio da coronavirus. Napoli, viene evidenziato, è una città in cui ci sono molti nuclei familiari numerosi, dunque il contagio avviene spesso tra le mura domestiche. Situazione che si fa più grave nei quartieri più popolari, dove le esigenze economiche spingono alla convivenza tra più persone, in particolar modo con gli anziani. Il problema sorge quando la conduttrice, Serena Bortone, si collega alle polemiche dei giorni scorsi sulla presunta eccessiva presenza di persone in strada domandando ad Elena Biggioggero se fosse vero o meno: “Siccome sono state fatte un po’ di polemiche – Napoli vuota, strade occupate eccetera – da testimone – per altro tu sei milanese, per questo hai uno sguardo nordico sul nostro amato Sud… non toccarlo, non vi avvicinate… – voglio sapere se Napoli è vuota oppure no, se si rispettano le regole oppure no”. A quel punto la giornalista fa girare il cameraman per fargli inquadrare la strada, che però in quel momento è vuota: “Guarda Serena, io ti voglio far vedere questa immagine. Noi stiamo in una zona che sarebbe pedonale. Siamo qua da circa una mezz’ora. C’è un passaggio di auto, insomma, abbastanza numerose; abbiamo visto furgoncini, sarebbe una zona commerciale in cui il commercio è interrotto perché i negozi sono chiusi. Ecco, non siamo fortunati in realtà perché in questo momento non c’è nessuno ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso”. Serena Bortone replica: “No perché ieri ci siamo sentiti con Elena e mi ha detto che Napoli era deserta. Quindi se poi qualcuno si sposta, insomma…”. In realtà via Luca Giordano è sì pedonale, ma soltanto in parte, come sa bene qualsiasi napoletano. Elena Biggioggero ha dunque fornito un’informazione sostanzialmente sbagliata, poiché fa intendere che nonostante la pedonalizzazione ci sia un passaggio intenso di auto. Secondo, quando la giornalista fa inquadrare la strada, viene ripresa la parte dove le auto possono passare e se ne vede transitare soltanto una, poi un autobus. Durante il collegamento furgoncini non se ne vedono, soltanto un mezzo dell’Asia per la raccolta dei rifiuti, e tra l’altro se anche fossero passati dei furgoncini molto probabilmente poteva trattarsi di lavoratori che consegnavano merci, chissà. Giornalisticamente l’informazione che ha dato è irrilevante poiché nulla faceva intendere una illiceità del passaggio – presunto – dei furgoncini. Ma la parte “migliore” l’abbiamo vista quando la Biggioggero ha messo la mano sulla spalla del dottor Sparano passandogli molto vicino, sfiorandolo addirittura, ed entrambi non avevano la mascherina posizionata sul volto. Serena Bertone infatti l’ha avvertita: “…non toccarlo, non vi avvicinate…”.
Da ilmessaggero.it il 16 aprile 2020. "Colerosi", così venivano chiamati i napoletani perché l'epidemia del colera si era scatenata al sud. Lo ricorda su twitter Vladimir Luxuria, che aggiunge: per fortuna nessuno usa il coronavirus per insultare veneti e lumbard. «Molti, tra cui Salvini, insultavano i napoletani di essere colerosi perché l'epidemia di colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è segno che possiamo essere ottimisti sul futuro». Lo scrive su Twitter Vladimir Luxuria. L'epidemia di colera di Italia scoppiò in Italia nel 1973, nelle aree costiere delle regioni Campania, Puglia e Sardegna tra il 20 agosto e il 12 ottobre. L'improvvisa epidemia, forse causata dal consumo di cozze crude o altri frutti di mare contaminati dal vibrione causò un grande allarme: all'ospedale Cotugno di Napoli vennero ricoverate 911 persone in dieci giorni.
Luxuria a Salvini: "No offese al Nord, ma insultavi i napoletani". L'attivista per i diritti Lgbt all'attacco del segretario della Lega: "Chiamava i partenopei colerosi…" Alberto Giorgi, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Attacco, via social network, a Matteo Salvini. L'affondo contro il capo politico del Carroccio arriva dalla piattaforma onine di Twitter e per l'esattezza dal profilo ufficiale di Vladimir Luxuria. Sì, perché quella che è stata la prima parlamentare transgender a essere eletta nel Parlamento di un Paese del Vecchio Continente si è scagliata contro l'ex ministro dell'Interno. Il motivo della questione? Non sono tematiche legate al cosiddetto mondo Lgbt – sigla che va a indicare le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender – di cui la Luxuria è attivista, bensì in materia di coronavirus. E così il personaggio televisivo ha voluto prendersela con il segretario della Lega, rinfacciandogli di aver insultato in passato i napoletani, dandogli dei "colerosi". L'uscita dell'ex deputata dal Partito della Rifondazione Comunista è assai critica nei confronti dell'ex titolare del Viminale, al quale prega di ricordare come in queste settimane difficili causa pandemia di coronavirus, nessuno – e dice “per fortuna” – si sia messo a insultare pesantemente le popolazioni del Nord, messo in ginocchio dal Covid-19. Per la precisione, Vladimir Luxuria, twitta così: "Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere 'colerosi' purché l'epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio...nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro". L'epidemia di colera a cui si riferisce la scrittrice è quella che scoppiò in Campania, Puglia e Sardegna nell'estate del 1973, per via – a quanto stabilito all'ora – dal massiccio consumo di cozze e frutti di mare crudi contaminati dal batterio vibrione. L'epidemia provocò 278 casi e 24 vittime. Il pubblico di Twitter si divide e non tutti apprezzano il post dell'autore. Tra questi, c'è chi scrive il seguente appunto: "Mi spiace dissentire, ma, è capitato di trovare messaggi di gente che quasi esultava del fatto che la regione più colpita fosse la Lombardia. Continuo a non augurarmi che al Sud scoppi un focolaio come il nostro! Sarebbe una strage". Alla considerazione, la Luxuria risponde così: "Spero tu abbia segnalato, mostrato e denunciato... io non ho visto nulla". Un altro, invece, scrive: "Un napoletano mi ha detto che augurava a me e alla mia famiglia il coronavirus…".
La bordata di Luxuria a Salvini: “Napoletani chiamati colerosi, oggi nessuno insulta il nord”. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. La showgirl, attivista ed ex deputata Vladimir Luxuria ha postato un tweet che è allo stesso tempo un attacco al leader della Lega Matteo Salvini e una riflessione sull’Italia post coronavirus. Secondo Luxuria il fatto che non si siano levati dei commenti razzisti verso le popolazioni del nord, e in particolare verso la Lombardia, la regione più colpita dal virus, è “un segno che possiamo essere ottimisti sul futuro”. Il tweet ha subito raccolto centinaia di reazioni social. Al contrario il post fa notare come, a causa della epidemia di colera che nel 1973 colpì in particolare la città di Napoli, la popolazione partenopea sia stata spesso additata come “colerosa”. Con insulti ed epiteti razzisti. Un coro da stadio, in particolare, era stato cantato (come documentato da un video) anche dall’oggi segretario della Lega Matteo Salvini, il leader che ha portato il Carroccio a essere primo partito d’Italia e a sfondare anche nelle regioni del Sud. Molti, tra cui #Salvini, insultavano i napoletani di essere “colerosi” purché l’epidemia del colera ebbe il Sud come focolaio… nessuno oggi, per fortuna, ha usato il #coronavirus per insultare le popolazioni del nord: forse è il segno che possiamo essere ottimisti sul futuro. Il tweet di Luxuria non è passato inosservato. E fra commenti scettici e concordi, c’è chi ha ricordato le ultime manifestazioni di razzismo, ispirate dal coronavirus e apparse proprio negli stadi, contro i napoletani. In occasione della partita degli azzurri a Brescia, del 21 febbraio scorso, gli ultras della curva di casa avevano infatti intonato il coro incommentabile: “Napoletano coronavirus”. Altri commenti hanno ricordato come durante la partita del Napoli contro il Torino al San Paolo, dello scorso 29 febbraio, i tifosi partenopei avessero invece esposto uno striscione che recitava: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il Covid-19“.
Di Maio, i fannulloni e le imprese di Milano. Ieri, grazie anche al generoso contributo di voi lettori di ogni parte d'Italia, a Milano è stato aperto, nei padiglioni della Fiera, un nuovo ospedale che, a regime, avrà oltre duecento posti di rianimazione. Alessandro Sallusti, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. Ieri, grazie anche al generoso contributo di voi lettori di ogni parte d'Italia, a Milano è stato aperto, nei padiglioni della Fiera, un nuovo ospedale che, a regime, avrà oltre duecento posti di rianimazione. Non parliamo di una struttura da campo ma di un vero e proprio ospedale, nel suo genere tra i più moderni a capienti d'Europa che farà capo a un'altra eccellenza, il Policlinico di Milano. Lo hanno costruito sotto la regia di Guido Bertolaso in dieci giorni, lavorando su tre turni 24 ore al giorno, in deroga a lacci e lacciuoli della burocrazia. È un ponte Morandi bis (il capolavoro ingegneristico di Genova, issato in meno di un anno), dimostrazione che in Italia, se solo si vuole, tutto si può fare e non si è secondi a nessuno. Il giorno che in Italia, non dico tutto ma quasi tutto, dovesse funzionare in questo modo potremmo dire di essere diventati un Paese serio e moderno: la politica che sceglie e coordina (grazie presidente Fontana), i tecnici che mettono in campo le migliori intelligenze (grazie Guido Bertolaso), imprese e lavoratori che si buttano a capofitto e, perché no, privati (grazie anche a voi lettori) che finanziano direttamente ciò che serve alle loro comunità invece che gettare soldi nel calderone bucato dello Stato. Ma quel giorno purtroppo è lontano. Il nuovo ponte Morandi e l'ospedale di Milano sono opere nate sull'onda di tragedie e lutti - un vanto che ci saremmo volentieri evitato -, quando invece dovrebbero essere la normalità dell'agire pubblico. Quel giorno è lontano perché siamo schiacciati dall'incompetenza, dall'assistenzialismo e dalla burocrazia. E qui mi rivolgo al ministro Di Maio, padre del famigerato reddito di cittadinanza. Come Di Maio saprà il settore agricolo parte fondamentale della nostra economia - è in grande sofferenza. La terra non aspetta, i raccolti neppure, ma mancano, tra quarantene, malati e stranieri fuggiti, almeno 370mila addetti, questione di giorni e la stagione andrà in malora. Manca manodopera, ma oltre due milioni di persone sono a casa a far niente ufficialmente in attesa di occupazione ben pagate dal reddito suddetto. Ecco, possibile, signor ministro, che il dieci per cento di questi non possa essere obbligato ad andare nei campi, pena la perdita del ricco sussidio? Altro quindi che estendere il reddito. Estendiamo il lavoro che, come si vede, non manca. Non farlo è un insulto a tutti noi, a chi in quindici giorni ha costruito da zero un signor ospedale. Chi non ha voglia di lavorare, signor ministro, si arrangi. Non è più tempo di fannulloni.
Ecco che il direttore dall’alto della su arguzia padana mette in parallelo due questioni a lui padano molto care.
Da una parte l’efficienza della Padania che fa in barba alle regole ed in virtù dell’altrui regalie. In questo caso i soldi raccolti per bontà di benefattori.
Dall’altra parte, naturalmente, quel due milioni di scansafatiche, è sottinteso, sono meridionali e di conseguenza terroni, ossia agricoltori da mandar per campi.
De Giovanni contro Libero: “Discrimina Napoli e il suo popolo”. Redazione de Il Riformista il 3 Aprile 2020. “Lo so, amici miei: mi direte che è sbagliato dare rilevanza e pubblicità a questi titoli, i quali difficilmente in altro modo arriverebbero all’attenzione della gente”. Maurizio De Giovanni giustifica così il suo intervento sulla sua pagina Facebook. Un lungo post che lo scrittore napoletano ha scritto commentando la prima pagina del quotidiano Libero, “questo ignobile giornale tenuto in piedi, è bene ricordarlo, da fondi pubblici ai quali tutti noi contribuiamo”. E il motivo sta nel fatto che “stavolta basta una fotografia a prospettiva schiacciata e una di un vicolo preso dall’alto per dire che "è in atto a Napoli e Palermo un suicidio di massa", che "De Luca ha ragione, ci vuole il lanciafiamme" (frase astratta dal contesto in cui è stata pronunciata, il governatore voleva dire tutt’altro come ben sa chi lo ha ascoltato in diretta), che "c’è un mercato di pastiere e pizze clandestine" (!!!), che se non contiamo i morti a decine di migliaia "è solo per un miracolo di San Gennaro e Santa Rosalia"“. Esistono due tipi di razzismo verso Napoli, argomenta lo scrittore. Uno è quello degli stadi, “ottuso, bestiale, imbecille”, che non merita risposta. L’altro è proprio quello “reiterato” dal quotidiano al quale, scrive de Giovanni, “mi direte che non vale la pena, citerete proverbi sull’acqua e il sapone e la testa dell’asino. Ma a volte il fegato si fa sentire più del cervello, quindi mi perdonerete se reagisco di fronte all’ennesima manipolazione dell’informazione che provoca l’ennesimo uso errato di carta e inchiostro degni di miglior sorte”. E quindi, in un post lungo, replica: “Sarebbe facile far presente che in un vicolo largo sei metri e lungo cento abitano centinaia di nuclei familiari, e che quindi una persona per famiglia che scende a fare la spesa (possiamo, sì? O dobbiamo fare turnazioni alfabetiche?) crea forzatamente una prossimità diversa che in una grande strada padana; che la risposta della popolazione della città è stata invece di grande senso civico, al di là di ogni aspettativa; che nessuno commercia clandestinamente in pizze e pastiere, e che certe notizie andrebbero provate e controllate. E sarebbe semplice dire che tutto questo è invece dimostrato da quella che per ora (e facendo ogni tipo di scongiuro, alla maniera nostra) è una situazione ampiamente sotto controllo, con numeri bassissimi sia di contagiati che di ricoverati in rapporto alla popolazione. Sarebbe semplice dire che la vituperata sanità campana ha dato una risposta più che eccellente all’emergenza, come dimostrato dall’attenzione e dalle inchieste delle televisioni straniere; così come purtroppo, e sottolineo purtroppo, non sembra sia accaduto altrove, dove l’iniziale sottovalutazione dell’epidemia ha creato il successivo moltiplicarsi dei contagi (milanononsiferma, bergamononsiferma eccetera). Sarebbe semplice dire che anzi l’eccellenza medica campana ha dato un importante contributo alle linee di combattimento della malattia, come il mal digerito (da certi colleghi del nord, che hanno avuto scomposte reazioni anche in TV) prof. Ascierto che continua a registrare dimissioni e guarigioni con la sua terapia. Sarebbe semplice far presente che le istituzioni locali hanno messo in campo rigide misure, perfettamente recepite dalla popolazione in tempi assai antecedenti quelle adottate anche nelle zone più colpite. Sarebbe semplice rilevare il fastidio ignorante di politici che adombrano un minor numero di tamponi fatti da queste parti, fingendo di dimenticare che esistono delle regole per le quali quest’indagine viene fatta e sono regole determinate a livello nazionale. Sarebbe semplice rilevare che non c’è stata una parola che non fosse di sostegno, di accorata partecipazione e di sincero dolore per le popolazioni colpite da questa pestilenza maledetta, e tacitiamo il fastidioso pensiero che forse così non sarebbe stato a parti invertite. E soprattutto sarebbe semplice richiamare gli organi d’informazione a un atteggiamento più corretto e solidale, in un momento in cui tutto serve tranne alimentare spaccature e divisioni: e che un popolo come questo, pur vivendo in una situazione urbanistica tutt’altro che adatta al distanziamento sociale, è riuscito e riesce a tenere a bada un contagio che si temeva avrebbe fatto decine di migliaia di morti. Evitando di scrivere falsità e di ridicolizzare tradizioni culturali che con dolore stiamo responsabilmente accantonando. Ma in quel caso sì, avreste ragione. Sprecheremmo acqua e sapone, e tanta amuchina. Tutta roba degna di miglior sorte, come quella carta e quell’inchiostro”.
Simioli: "Ascierto l'ha fatta grossa: il vaccino per il Covid-19! Voglio dire una cosa a Gerry Scotti". Francesco Manno il 22 marzo 2020 su areanapoli.it. Gianni Simioli, speaker di Radio Marte e di Rtl 102.5, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social. Lo speaker di Radio Marte e Rtl 102.5, Gianni Simioli, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Facebook. Ecco quanto si legge: "Caro Dott. Gerry Scotti, di seguito le giro le ultimissime sulla cura Ascierto. E’ lo stesso Ascierto che lei ha deriso e ridicolizzato a Striscia la notizia: si deve vergognare! Lo so, poi ha spiegato a una radio locale che lei legge un copione e che la “colpa” del suo “errore di valutazione“ è tutta da addebitare a chi scrive i testi del programma. Ma lei veramente pensa che siamo i meridionali napoletani che le ha raccontato qualcuno? Signor Gerry Scotti io non sono nessuno, non valgo ciò che vale lei per le aziende del sud che la pagano, spero profumatamente, per dire che è buonissimo questo o quel prodotto di Napoli o del meridione d’Italia (pur di conquistare i mercati del nord), eppure sono in grado di rifiutarmi di leggere una promozione che trovo distante kilometri dalla mia etica, filosofia o sentimento di vita". Gianni Simioli ha poi aggiunto: "È arrivata un’altra notizia da accogliere con ottimismo e un orgoglioso sorriso. Mentre la penisola si divide tra i runner che non rinunciano alla corsetta e la Palombelli che non si da ragione delle basse percentuali di contagio al Sud, qui, a Napoli, c’è un pazzo visionario, spinto da un’intera regione, che non si ferma. Si, sempre Lui, il Dottor Ascierto. Questa volta ha deciso di farla grossa: il vaccino per il Covid19! È di queste ore una sua intervista, registrata ai microfoni di SKY, nella quale è riassunta una speranza di tutto il paese. Il Dottore ha infatti dichiarato: “La Takis è un’azienda che lavora con noi per dei vaccini su alcuni melanoma che studiamo. In collaborazione con il Pascale e il Cotugno sperimenteranno anche un vaccino per il Coronavirus. Proprio qui al Cotugno, e questa è certamente una buona notizia. Non sarà una cosa di domani ma l’impressione è che con cauto ottimismo e lavoro ce la faremo, noi andiamo avanti”. Questa è la risposta di Napoli e di Ascierto a giorni di mala stampa e fake news su di Lui e sulla sanità campana. Questa è la risposta che unirà l’Italia di coloro che da Nord a Sud lottano e sperano di festeggiare presto, insieme, l’uscita dal periodo più buio della nostra storia. E ci arriveremo, credetemi. Non so quando ma così sarà. E sarà una grande festa per tutti. Anche per Striscia la Notizia, Barbara Palombelli e ilFatto Quotidiano. Si, esatto, perché noi siamo l’Italia che lotta, vince, ama ed include tutti. Anche chi non lo meriterebbe".
Luca Marconi per corriere.it il 22 marzo 2020. «Diffamazione aggravata», per un servizio televisivo «gravemente lesivo» nei confronti del direttore della Struttura complessa Melanoma e Terapie intensive del Pascale di Napoli, Paolo Ascierto, il «promotore» dello studio Aifa , l’Agenzia italiana del farmaco, sul Tocilizumab, il farmaco per le complicanze da artrite reumatoide che agisce anche sulle polmoniti da covid-19, liberando quota parte delle terapie intensive di cui oggi si ha tanto bisogno: è quel che contestano i vertici dell’istituto Pascale a Striscia la Notizia, intervenuta a suo modo per raccontare l’attacco polemico subìto da Ascierto a “Carta Bianca”, da parte dell’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Nel servizio ancora online Striscia riprende l’intervento di Galli, ma affidandosi ai commenti di Gerry Scotti («il professore Galli ha scoperto che l’alunno Ascierto ha copiato») per poi recuperare un vecchio meme con un incolpevole Emilio Fede che conclude: «Che figura ...». Ma ecco il comunicato del Pascale: «Con riferimento al programma televisivo “Striscia la notizia” del 17 marzo 2020, nel corso del quale è andato in onda un servizio che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto avvenuto tra il prof. Paolo Ascierto del Pascale di Napoli e il prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, si precisa quanto segue: l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto esprimono innanzitutto la più viva gratitudine verso tutti coloro che in questi giorni hanno manifestato la loro solidarietà e vicinanza nei confronti al prof. Ascierto». «Ritengono il servizio di “Striscia la notizia”, montato ad arte, gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi. Per tali motivi, la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto hanno dato mandato all’avv. prof. Andrea R. Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del conduttore della trasmissione, di quanti hanno curato il servizio e del Direttore Responsabile».
La napoletana Myrta Merlino: “E’ incredibile, non mi sarei mai aspettata un’eccellenza come il Cotugno” . Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. La conduttrice de “L’aria che tira” su La7 si è lasciata andare a una considerazione infelice sull’eccellenza dell’ospedale Cotugno, rimarcata la scorsa settimana anche da Sky News britannico. Nel corso della trasmissione andata in onda questa mattina, martedì 7 aprile, la Merlino, durante un collegamento con il direttore del giornale Alessandro Sallusti si è lasciata andare a una dichiarazione del genere: “Poi a Napoli… per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli… la storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”. Il solito luogo comune arriva al termine di un discorso sull’impreparazione degli ospedali della Lombardia, messi in ginocchio dal boom di contagi di coronavirus, compresi medici e infermieri. “Il vero tema – ha argomentato la Merlino – è questo: quando il Covid-19 arriva, un ospedale deve avere la capacità di creare una sorta di chiusura ermetica. Questo è mancato in una fase iniziale. E’ anche il motivo per cui a Napoli, invece… Ecco, per me è incredibile: non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli, ma la storia del Cotugno ci ha sorpreso, perché hanno creato una situazione quasi da astronave rispetto all’elemento Covid”.
Report copre Consip e attacca la sanità, ma Napoli esulta per nuovo centro Covid. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Non poteva essere meno opportuno il servizio di Report. La trasmissione di RaiTre, infatti, ha mostrato lunedì sera un servizio in cui ha pesantemente attaccato la sanità campana e in particolare l’Asl Napoli 1 Centro diretta dall’ingegner Ciro Verdoliva. In particolare nel video un anonimo parla addirittura di “omicidio colposo di massa” per il fatto che medici e operatori sanitari non avrebbero mascherine e i cosiddetti DPI. Il servizio prima fa vedere le tende inutilizzate al San Giovanni Bosco (che non è ospedale Covid) e al San Gennaro (che non ha pronto soccorso…) e poi parla di mascherine e DPI che non sarebbero adeguati. Forse i colleghi di Report non sono aggiornati sul fatto che, come sottolineato dal governatore De Luca, “le forniture di Consip sono saltate” per cui la regione sta facendo da se per quel che può in una situazione di emergenza non solo nazionale ma mondiale. Infatti il governatore ha annunciato di aver chiesto 400 ventilatori ma di averne ricevuti solo 41 dalla Protezione Civile (il 10%), mentre il 50% sono stati donati da un privato, Alfredo Romeo (editore di questo giornale ndr). Il giornalista poi si è avventurato negli ospedali ormai chiusi da anni di Napoli e della Campania facendo diventare il servizio la classica inchiesta di Report sugli sprechi che forse in questo momento si poteva anche evitare. Intanto il video di Report è uscito proprio nel momento in cui Napoli è esplosa letteralmente in un tifo da stadio. Infatti negli stessi minuti della messa in onda della trasmissione di RaiTre, all’Ospedale del Mare sono arrivati gli oltre 50 automezzi che trasportavano i moduli per il nuovo centro Covid che l’Asl Napoli 1 Centro sta realizzando a tempo di record. Il tutto per incrementare i posti in terapia intensiva e sub intensiva e costruire i tre monoblocchi per oltre una settantina di posti. Una risposta che più concreta non si può ad accuse strumentali e inopportune nel momento in cui, come sottolineato anche da Giulio Cavalli su queste pagine, “non è il momento delle polemiche ma di salvarci tutti“.
IL MODELLO NAPOLI ESALTA IL SUD: INNO E APPLAUSI PER IL NUOVO OSPEDALE DA CAMPO. Carlo Porcaro l'8 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nelle stesse ore in cui Report su Rai 3 riprendeva ospedali fantasma o fatiscenti – certo non da ieri, quindi inutilizzabili per gestire l’emergenza Coronavirus con tempestività – nel quartiere Ponticelli di Napoli veniva accolto tra applausi e inno di Mameli il “treno” di 57 tir provenienti da Padova che trasportavano i moduli prefabbricati per costruire il primo ospedale da campo realizzato in Campania per aumentare i posti letto di terapia intensiva dedicati ai pazienti Covid. Una scena carica di emotività che prelude ad un grande risultato in termini di risposta da parte di un sistema sanitario che sta reggendo lo tsnunami Covid-19. All’esterno del già esistente Ospedale del Mare, entro il 15 aprile verranno montati i primi 48 posti, entro il 27 poi arriveranno altri camion per allestire i restanti 24 per un totale di 72 posti. I cittadini campani da una parte stanno rispettando le regole e dall’altra stanno apprezzando gli sforzi istituzionali. Ci sono ritardi soprattutto nel sottoporre i potenziali malati a tampone, ma si sta cercando di recuperare. «Entro tre giorni –ha assicurato l’architetto Antonio Bruno, direttore dei lavori a Ponticelli – il Covid center sarà completamente montato. Seguirà la fase dei collaudi e dell’arredamento, contiamo che il centro sarà operativo subito dopo Pasqua». All’ingresso dell’ospedale da campo ci sarà uno spazio per la camera calda, un tunnel per l’ingresso dell’ambulanza e le aree pedonali, evidenziate con colori differenti. Che cosa c’era nei camion salutati da tanto affetto, neanche fossero stati un contingente degli Americani che venivano a liberare la città? I moduli per le stanze, le apparecchiature, i ventilatori. La struttura costa 7,7 milioni di euro, la gara è stata vinta dalla Manufacturing Engineering Development di Padova che si occupa proprio di moduli prefabbricati in sanità. Secondo il direttore dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva una volta finito l’incubo non andrà tutto al macero, ma l’ospedale resterà a disposizione dell’utenza. Nell’ambito del piano della Regione Campania per far fronte all’emergenza Covid-19 sono previsti altri due ospedali prefabbricati per la terapia intensiva a Salerno e a Caserta.Sul fronte dei numeri, è cominciata la discesa. Tutto lascia pensare che per i primi giorni di maggio almeno al Centro-Sud si possa uscire di casa seppur seguendo una serie di imposizioni. Ieri i casi positivi sono aumentati di 880 unità rispetto al giorno precedente “l’incremento più basso dal 10 marzo scorso”, ha detto il vertice della Protezione civile. I nuovi contagiati sono stati 3.039, in totale 94.067. Il Mezzogiorno continua a contribuire in maniera marginale: +170 affetti da Coronavirus nelle regioni continentali, 210 se aggiungiamo la Sicilia. Analizzando l’incidenza dei contagi per numero di abitanti, si ha un quadro ancora più evidente: 1 ogni 1.842 in Campania, 1 ogni 2.337 in Calabria, 1 ogni 1.602 in Puglia. Ancora alto il numero dei morti, 604 che fanno arrivare l’ammontare complessivo a 17.127. I guariti invece, sono 1555, per un totale di 24392.
Pandemia di coronavirus, se le eccellenze le trovi nella sanità del sud. L’equipe del professor Paolo Ascierto (al centro) dell’Istituto Pascale di Napoli, il primo a sperimentare l’efficacia di un farmaco anti-artritico contro il Covid-19. Carlo Porcaro il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Lo storytelling del Coronavirus svela un’Italia rovesciata. Le storie crude, dai reparti Covid degli ospedali, raccontano la caduta contemporanea di due miti: il primato della sanità lombarda, l’inefficienza di quella meridionale. È stato il Sud ad aiutare il Nord, a praticare con i fatti quella solidarietà nazionale tanto auspicata dal Quirinale in questa drammatica emergenza. Tre le ragioni sostanziali di questo capovolgimento destinato a riscrivere gli equilibri geopolitici e le relative narrazioni: il vantaggio di essersi organizzati per tempo in attesa dello tsunami; le straordinarie eccellenze mediche presenti in molte strutture del Mezzogiorno; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. I numeri parlano chiaro, andrebbero forse scanditi ad alta voce: su circa 17mila morti, il Sud isole comprese ne ha fatti registrare 850 vale a dire appena il 5 per cento; i contagiati a livello nazionale sono oltre i 95mila, ma da Roma in giù (insieme a Sicilia e Sardegna) se ne sono contati circa 10mila il che significa poco più del 10 per cento del totale. Il sistema, seppur con meno risorse e mezzi della parte settentrionale del Paese, non solo ha retto ma si è persino distinto. Allungando la mano a chi soffriva ed aveva bisogno di aiuto immediato. Tanti i casi da citare, a dimostrazione che non conta la provenienza geografica quanto la qualità associata alla passione.
IL CASO. In queste settimane la Cross, Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario per il coordinamento dei soccorsi sanitari urgenti, ha attivato la rete tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud. Ieri, per fare un primo esempio, è uscito dalla rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo uno dei due bergamaschi che erano stati trasportati a Palermo in aereo nei giorni scorsi per mancanza dei posti in terapia intensiva al nord; l’altro paziente arrivato dalla città lombarda si trova ricoverato ancora in rianimazione. Poi sono stati estubati e sono in via di guarigione i due pazienti lombardi, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, ricoverati nelle scorse settimane in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro: vi erano arrivati a bordo di un aereo militare atterrato nel vicino aeroporto di Lamezia Terme. Ora sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. “È stato un atto di grande generosità – ha commentato il direttore della struttura Giuseppe Zuccatelli – da parte della Calabria. È ora di smettere di dipingere questa regione in termini negativi”. Non è finita qui. È guarito il primo paziente Covid atterrato in Puglia da Bergamo la notte del 20 marzo scorso a bordo di un aereo C-130J della 46esima Brigata Aerea di Pisa con una barella ad alto biocontenimento: a darne notizia sono stati direttamente i medici dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari), dove l’uomo, 56 anni, era stato ricoverato con una insufficienza respiratoria severa, a seguito della richiesta dell’azienda ospedaliera Giovanni XXIII di Bergamo. Il paziente adesso è stato dichiarato fuori pericolo dopo essere stato sottoposto a due tamponi risultati negativi. In Campania, infine, dall’ospedale di Boscotrecase alle pendici del Vesuvio sono stati dimessi ben 11 pazienti affetti da Coronavirus, alcuni dei quali anziani. A Napoli, la Regione sta facendo costruire con uno stanziamento di oltre 7 milioni di euro un ospedale da campo con 72 nuovi posti di terapia intensiva.
LA POLEMICA. Incredibile. Letteralmente da non credere, la risposta del Sud all’emergenza secondo alcuni giornalisti e opinionisti. Il caso che in queste ore ha fatto indignare riguarda la giornalista napoletana Myrta Merlino su La7. Quest’ultima, in diretta tv si è detta meravigliata (“che sorpresa”, la sua espressione) che l’ospedale Cotugno di Napoli fosse stato un’eccellenza nazionale e internazionale con il suo zero contagiati. Una meraviglia del tutto fuori luogo per chi dovrebbe conoscere in maniera approfondita le caratteristiche di un territorio che, tra mille difficoltà e senza le risorse di altre parti d’Italia, riesce ad esprimere le migliori intelligenze in tanti settori. Poi, una volta tornata a casa, la conduttrice di ‘L’aria che tira’ ha provato a chiarire il suo pensiero. “So benissimo che a Napoli ci sono moltissime eccellenze, ma le eccellenze che abbiamo non cancellano i nostri problemi e non mi va di essere ipocrita. Io però amo Napoli, viva Napoli, è la mia città”. In studio si è scusata, ma il dado era ormai tratto. In una fase in cui si discetta tanto di fake news e corretta informazione, non si dovrebbero cavalcare luoghi comuni né si dovrebbero alimentare pregiudizi evidentemente inconsci. Basterebbe fare la cronaca. Di ritardi ed inefficienze, dove emergono, e di eccellenze e primati dove si palesano. La cronaca di queste settimane, come sopra elencato, ha parlato di una Napoli pronta e di un Sud efficiente. Non si tratta di una questione di appartenenza campanilistica. L’Italia, e la sua opinion-leadership, è decisamente nord-centrica e tende a tutelare gli interessi del Nord. La classe dirigente meridionale, per lo più grillina dopo le elezioni di due anni fa, non sa farsi rispettare a livello centrale ed ha fatto consolidare l’idea di un Meridione piagnone seduto sul divano a godersi il reddito di cittadinanza. Il vento però è cambiato, è nato un variegato movimento di pensiero – va detto, anche grazie ai social – che finalmente respinge al mittente le “scivolate” mediatiche e si libera dalla condizione di colonizzazione mentale. Ognuno faccia la sua parte.
L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.
Sorpresa: il Nord si prende la gran parte dei soldi pubblici. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. 15.062 euro pro capite al Centro-Nord e 12.040 euro pro capite al Meridione. In altre parole, ciascun cittadino meridionale ha ricevuto in media 3.022 euro in meno rispetto a un suo connazionale residente al Centro-Nord. Questi i primi dati della 32esima edizione del Rapporto Italia 2020 di Eurispes in merito al Mezzogiorno. L’Istituto di ricerca degli italiani nel 2017 rileva un’ulteriore diminuzione della spesa pubblica al Mezzogiorno, che arriva a 11.939 (-0,8%), mentre al Centro-Nord si riscontra un aumento dell’1,6% (da 15.062 a 15.297 euro). Emerge una realtà dei fatti ben diversa rispetto a quanto diffuso nell’immaginario collettivo che vorrebbe un Sud «inondato» di una quantità immane di risorse finanziarie pubbliche, sottratte per contro al Centro-Nord. Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. Per contro, tutte le Regioni del Nord Italia si vedono irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale. Se della spesa pubblica totale, si considera la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere in percentuale alla sua popolazione, emerge che, complessivamente, dal 2000 al 2017, la somma corrispondente sottrattagli ammonta a più di 840 miliardi di euro netti (in media, circa 46,7 miliardi di euro l’anno).
Il piano per il Sud presentato con la foto di Trieste: e tu? Quanto conosci l'Italia? Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 da Corriere.it. La copertina del progetto con il titolo «Un piano per il Sud è un progetto per l’italia», l’hashtag «#Sud2030» e la foto di Duino, il Comune in Friuli-Venezia Giulia, con una splendida vista sul Golfo di Trieste e le sue falesie. Non proprio un panorama meridionale, insomma. È stata questa la svista che ha attirato critiche e ironie contro il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina (M5S). Diventando un caso politico, ma anche una facile battuta da salotto. E allora, vale la pena mettersi alla prova. Quanto conosciamo noi i luoghi simbolici dell'Italia? Proviamo a scoprirlo attraverso questo quiz.
Il governo presenta il Piano per il Sud ma in copertina c'è il Golfo di Trieste. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Un piano per il Mezzogiorno da 123 miliardi di euro. Lo hanno presentato venerdì a Gioia Tauro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina (M5S). Ma a diventare oggetto di discussione — e dell’ironia via Twitter — non sono state le misure previste per i giovani, la svolta ecologica, l’innovazione, il potenziamento dell'edilizia scolastica o l'estensione della No Tax area bensì la copertina del progetto con il titolo «Un piano per il Sud è un progetto per l’italia», l’hashtag «#Sud2030» e la foto di Duino, il Comune in Friuli-Venezia Giulia, con una splendida vista sul Golfo di Trieste e le sue falesie. Non proprio un panorama meridionale, insomma. La segnalazione arriva via Twitter dal giornalista Ferdinando Giugliano, raccoglie centinaia di «Mi piace», retweet e commenti sarcastici: «Il Sud dell'Impero Austro-ungarico!», «Lo ha fatto per vedere se stiamo attenti», «A sud di Oslo». E anche una replica del ministro Provenzano — «È un progetto per l'Italia, appunto. Sul serio» — che però non riesce a spegnere gli sfottò.
Tolti al Sud e dati al Nord 840 miliardi di euro in 17 anni. Chi riteneva e ritiene che parlare di rapina al Sud è una bufala, è servito. Cosa ti accerta il rapporto 2020 del noto Centro studi? Che dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto appunto al Sud 840 miliardi di euro. Lino Patruno il 07 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. E ora anche l’Eurispes. Chi riteneva e ritiene che parlare di rapina al Sud è una bufala, è servito. Cosa ti accerta il rapporto 2020 del noto Centro studi? Che dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto appunto al Sud 840 miliardi di euro, in media 46,7 miliardi all’anno. Non solo sottratti, ma dati al Nord. Effetto del mancato rispetto del famoso 34 per cento, la percentuale della popolazione meridionale che avrebbe dovuto essere anche la percentuale della spesa al Sud. Ecco perché il divario aumenta invece di diminuire. Ecco perché i giovani del Sud sono costretti a partire per la mancanza di lavoro. Uno scandalo nazionale ancòra più grande quanto più assoluto è stato il silenzio per tutto questo tempo. Con l’aggiunta delle tre regioni del Nord che chiedono autonomia perché stanche, dicono, di dare soldi al Sud. Non ha usato mezzi termini Gian Maria Fava, il sociologo presidente dell’Eurispes. Ha detto che sulla Questione meridionale dall’Unità a oggi si sono consumate le più <spudorate> menzogne. Col Sud di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia. Come luogo di concentrazione del malaffare. Come ricovero di nullafacenti. Come zavorra che frena la crescita economica e civile del Paese. Come dissipatore della ricchezza nazionale. Ma un Sud che attende ancòra una parola di onestà da parte di chi ha alimentato questo racconto. Mentre la situazione è letteralmente capovolta rispetto a quanto finora comunemente creduto e spacciato. E rivelata dai dati delle più autorevoli agenzie nazionale e internazionali. Ma anche questa volta si è tentato di far scivolare tutto nel silenzio. Scarsi accenni sulla stampa nazionale, impegnata col Festival di Sanremo. Ancòra più scarse reazioni dal mondo politico, impegnato a litigare. Eppure l’Eurispes ha più o meno confermato ciò che pure la Svimez aveva solo qualche mese fa denunciato. E in base agli stessi dati governativi dei Conti pubblici territoriali, non a piagnonismo meridionale. E cioè i 61 miliardi all’anno sottratti al Sud dal 2009, da quando si sarebbe dovuto riequilibrare la spesa pubblica <storica> che favorisce il Nord. Quanto lo stesso ex ministro nord-leghista Calderoli aveva ammesso invitando a cambiare. Non se ne è fatto nulla, tranne l’iniziale impegno del ministro Boccia a provvedere quando si è riparlato dell’autonomia a Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. E tranne un impegno verbale del presidente Conte. Ma intanto la spesa storica ai danni del Sud continua. E ai danni del Sud continua a essere usata la consueta arma di distrazione di massa. Di chi la colpa del suo incompleto sviluppo? Delle incapaci classi dirigenti meridionali. Della mancanza di mentalità imprenditoriale. Della società civile che non c’è. Delle mafie che al Sud farebbe piacere avere. Descrizione con la complicità di anime belle meridionali, tanto capaci di brillante autocritica (ma quale?) quanto incapaci di uscire dal loro colonialismo mentale. O forse interessate a non muovere nulla per sfruttare piccoli miseri vantaggi personali. Così storici, giornalisti, saggisti, benpensanti. Che molti dei mali attribuiti al Sud ci siano, è sicuro. Ma sono la causa del suo sottosviluppo o un effetto di questo sottosviluppo? Scrive in questi giorni un lettore (settentrionale) a un giornale nazionale: non ci sono dubbi che fare politica al Sud è più difficile con una disoccupazione da quarto mondo. Non ci sono dubbi che la pressione per avere di che vivere è il peso con cui ogni amministratore del Sud deve confrontarsi. Non ci sono dubbi che i bisogni non soddisfatti delle persone sono alla base di ogni problema. Non ci sono dubbi che senza servizi e infrastrutture adeguati non c’è possibilità di miglioramento né di allentamento delle tensioni sociali. Ma come si risponde a tutto questo? Si risponde che il Sud deve rimboccarsi le maniche e riconoscere le proprie colpe. La colpa è vostra. E troppo Sud ignaro o rassegnato o complice risponde che, sì, la colpa è solo nostra.
Inutile dire cosa si poteva fare con 46,7 miliardi l’anno. Quante strade, quanti treni, quante scuole, quante università, quanti ospedali, quanti asili nido, quanti anziani curati, quanti figli. Quanto lavoro per i giovani che non emigrino più. Tutto quanto non c’è mentre si parla di sprechi <del> Sud quando c’è soprattutto spreco <di> Sud come unica possibilità di crescita dell’intero Paese (che infatti non cresce). E condizioni di partenza diseguali che restano il comodo alibi di chi si adegua invece di reagire. Non si trova altrove un tale clima di colossale ribaltamento della verità e un tale clima di colossale sfruttamento di una parte del Paese a danno dell’altra. Non si trovano altrove una ingiustizia e una menzogna così lunghe e impunite. Lino Patruno
IL MEZZOGIORNO AL DI LÀ DELLE FAKE NEWS NEL RAPPORTO EURISPES 2020. Michele Eugenio Di Carlo il 4 febbraio 2020 su movimento24agosto.it. Gli studi, le ricerche, gli articoli dei meridionalisti trovano pieno conforto nella recentissimo Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani. Non ha usato mezzi termini il presidente dell’ Eurispes Gian Maria Fara, prendendo il via nella sua analisi proprio dal processo unitario italiano: «Sulla questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne. Il Sud, di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia, come luogo di concentrazione del malaffare, come ricovero di nullafacenti, come gancio che frena la crescita economica e civile del Paese, come elemento di dissipazione della ricchezza nazionale, attende ancora giustizia e una autocritica collettiva da parte di chi – pezzi interi di classe dirigente anche meridionale e sistema dell’informazione – ha alimentato questa deriva». L’accusa alla classe dirigente italiana e al sistema d’informazione è precisa e dello stesso tenore di quella che i meridionalisti muovono da decenni inascoltati e, spesso, oscurati proprio dai media. Non è un caso che riguardo all’informazione, tra mille difficoltà, si è cercato di diffondere ad esempio le conclusioni avanzate nel testo “La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo” da Stefano Cristante e Valeria Cremonesini, docenti di sociologia dei processi comunicativi e culturali; conclusioni che lasciano sconcertati: negli ultimi 35 anni i media nazionali hanno messo in rilievo quasi solo i mali del Mezzogiorno creando negli stessi meridionali un immaginario percepito falsato. Raccapricciante la constatazione che, come aggiunge Fara, le più autorevoli agenzie nazionali ed internazionali certificano che riguardo al Mezzogiorno «siamo di fronte ad una situazione letteralmente capovolta rispetto a quanto creduto». Ed ecco i dati nero su bianco del Rapporto Italia 2020, che non si differenziano da quelli spesso divulgati nel passato ma ignobilmente contestati e ignorati:
1 – Lo stato italiano nel 2016 ha speso per ogni cittadino del Centro-Nord 15.062 euro, mentre per ogni cittadino del Sud la spesa è stata di 12.040 euro, una differenza di ben 3022 euro pro-capite;
2 – Nel 2017 l’Eurispes rileva per il Centro-Nord una spesa pro-capite aumentata a 15.297 euro, per il Sud una spesa pro-capite diminuita a 11.939 euro per una differenza che aumenta a 3358 euro e che moltiplicata per il numero di abitanti del Mezzogiorno ammonta a oltre 60 miliardi annui.
Dov’è quel Sud dalle mille risorse finanziarie sprecate raccontato nei salotti televisivi di quei talk show nazionali dove giacciono onnipresenti i soliti conduttori e opinionisti? E dov’è quel Sud a cui verrebbe distribuita gran parte della spesa pubblica, se al contrario i dati confermano che sono le regioni del Nord ad essere beneficiate da una spesa annua nettamente superiore? Il Rapporto Italia 2020 attesta incontrovertibilmente che, in relazione alla percentuale di popolazione residente, al Sud dal 2000 al 2017 è stata sottratta una somma pari a 840 miliardi. Un dato impressionante di cui politica e media non hanno mai tenuto conto negli ultimi decenni, tanto da averci costretto a coniare l’acronimo PUN per indicare l’insieme dei partiti nazionali indifferenti alla crescita economica, sociale e culturale del Sud. Eppure il PIL (prodotto interno lordo) del Nord si basa essenzialmente sulla vendita di beni e servizi al Sud, mentre lo scambio import-export tra le due aree del paese è interamente a vantaggio del Nord, tanto che riesce difficile comprendere come un’intera classe politica, sostenuta dai media, abbia potuto nell’ultimo trentennio pensare che lasciare il Sud senza infrastrutture e servizi potesse avvicinare il Nord all’area ricca dell’Europa. E’ del tutto evidente che abbassare il tenore di vita dei meridionali ne ha limitato il potere d’acquisto e di conseguenza il PIL delle regioni più avanzate economicamente d’Italia. Infatti, sempre dal Rapporto Italia 2020, si rileva che per 45 miliardi annui di trasferimenti da Nord a Sud ben 70,5 miliardi si trasferiscono in direzione contraria. Dati a noi ben noti visto che Pino Aprile nel suo recente “L’Italia è finita”, citando gli economisti Paolo Savona, Riccardo De Bonis della Banca d’Italia e Zeno Rotondi autore di “Sviluppo, rischio e conti con l’estero delle regioni italiane”, ha indicato lo stesso saldo attivo per il Nord. Chiaro il monito del Presidente dell’Eurispes: «… ogni ulteriore impoverimento del Sud si ripercuote sull’economia del Nord, il quale vendendo di meno al Sud, guadagna di meno, fa arretrare la propria produzione, danneggiando e mandando in crisi così la sua stessa economia». Tuttavia, nonostante l’analisi socio-economica dell’Eurispes, l’altro giorno il Governatore del Veneto Luca Zaia, in un’audizione alla Commissione Parlamentare per le questioni regionali, ha continuato a sostenere il suo progetto di Regionalismo differenziato continuando a riferire di sprechi e di cattiva amministrazione al Sud, mentre anche il neo rieletto Presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini sembra spingere nella stessa direzione. Una direzione che nel corso degli ultimi dieci anni ha visto aumentare le disuguaglianze sociali ed economiche tra aree geografiche diverse e che lo Stato, tenuto per Costituzione a rimuoverle, ha aggravato sostenendo una ripartizione territoriale per i servizi pubblici in base al principio iniquo della “spesa storica”. Disuguaglianze che, proprio attraverso il Regionalismo Differenziato, i Governatori delle regioni del Nord e i partiti nazionali del PUN (Lega, PD, FI, FDI) vorrebbero conservare stabilmente. Sta maturando il tempo in cui questi partiti nazionali, per lo più portatori di propaganda spicciola, pagheranno il prezzo di scelte politiche che hanno imposto condizioni di vita e di lavoro drammatiche ai cittadini del Sud, due milioni dei quali sono dovuti dolorosamente emigrare negli ultimi decenni.
Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta. Dalle tangenti del Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con più di 250 milioni nascosti dal fisco da imprenditori del nordest. Paolo Biondani e Leo Sisti il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Si chiama “lista De Boccard”. Dal computer del professionista svizzero Bruno De Boccard, sequestrato dai magistrati della Procura di Venezia, è emerso un elenco di dozzine di imprenditori, soprattutto veneti, protagonisti di una colossale evasione fiscale, celata all’ombra del super condono targato Berlusconi del 2009-2010. Un fiume di denaro di “oltre 250 milioni di euro”, finora mai completamente ricostruito, dove si mescolano le tangenti ai politici e i fondi neri degli stessi clienti. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti autostradali, in grandi alberghi o studi di commercialisti. Lo rivela l'inchiesta su Espresso+ . L’indagine della Guardia di Finanza, nata sulla scia dello scandalo del Mose di Venezia, ha già portato al sequestro di oltre 12 milioni di euro. E ha fatto scoprire un traffico di tangenti per 1,5 milioni nascoste prima in Svizzera e poi in Croazia da una prestanome di Giancarlo Galan, ex governatore veneto e ministro di Forza Italia, già condannato per le maxicorruzioni del Mose. Questa nuova indagine ha fatto emergere anche una serie di documenti informatici con i dati di centinaia di società offshore utilizzate da politici e imprenditori per nascondere nei paradisi fiscali più di 250 milioni di euro. Molti casi di evasione sono stati però cancellati dalla prescrizione o dallo scudo fiscale. Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici
Secondo L’Espresso, il “re delle valigie” Giovanni Roncato ha ammesso di aver rimpatriato, grazie proprio allo scudo, 13,5 milioni di euro, detenuti all’estero e accumulati in passato “in seguito a minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa…la Mala del Brenta…nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona”. Ed ecco partire il carosello del denaro, affidato a “malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova Ovest”. Si chiama Alba Asset Inc, la offshore spuntata nei file di De Boccard, creati insieme al suo boss, il nobile italo-elvetico Filippo San Germano d’Aglié, nipote della regina del Belgio. Un altro nome eccellente che compare nell’inchiesta ribattezzata Padova Papers, germinazione dei più famosi Panama Papers, è quello di René Caovilla, titolare di un famoso marchio di scarpe, e boutique in tutto il mondo. Anche lui, al quale faceva capo la offshore Serena Investors, riporta L’Espresso, si è avvalso dello scudo fiscale, facendo rientrare in Italia 2,2 milioni di euro, “somme non regolarizzate affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera”. Anche tre commercialisti di uno affermato studio di Padova, giù emersi nelle vicende del Mose, entrano qui in scena come presunti organizzatori del riciclaggio di denaro nero: Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. Tutti collegati al duo San Germano-De Boccard, punti di riferimento di proprietari di hotel, fabbriche di scarpe, imprese di costruzioni e, ancora, big delle calzature. Come Damiano Pipinato, che attiva lo spostamento dei soldi attraverso proprio Guido Penso: “Lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori…Io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova”. Il dottor Penso non contava il denaro, si fidava, si accontentava della cifra indicata da Pipinato e “rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato”. Pipinato ha confessato di aver esportato all’estero 33 milioni di euro: 25 in Svizzera, 8 a Dubai.
Grandi evasori, ecco la lista. Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici. Paolo Biondani e Leo Sisti il 24 aprile 2019 su L'Espresso. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti ai caselli autostradali, in grandi alberghi, ristoranti o studi professionali. Un traffico di contanti che parte dal Veneto e arriva in Svizzera, nelle banche di fiducia di due altolocati tesorieri di denaro nero, con parentele in famiglie reali. Professionisti del pianeta offshore, al servizio di alcuni dei più rinomati commercialisti veneti. Tutti accusati di aver gestito per più di vent’anni una centrale internazionale dell’evasione fiscale. E del riciclaggio di tangenti intascate da politici poi condannati. Ma collegati da legami societari e familiari con parlamentari ancora al vertice delle istituzioni. Eccoli qua, i Padova Papers. Sono le carte riservate della maxi-indagine fiscale della Procura di Venezia, che pochi giorni fa ha portato al primo sequestro di oltre 12 milioni di euro. Soldi bloccati setacciando un fiume di denaro molto più ampio, «oltre 250 milioni», scrivono i magistrati, dove si mescolano le mazzette dei politici e i fondi neri degli evasori. Tutto parte dalle indagini sul Mose di Venezia, il più grande scandalo di corruzione in Italia dopo Tangentopoli. Tra il 2013 e il 2014, mentre scattano decine di arresti e condanne, la Guardia di Finanza scopre che imprenditori e politici usano gli stessi canali per nascondere soldi all’estero. In società offshore e conti bancari spesso intestati, sulla carta, a tre commercialisti di un affermato studio di Padova. Si chiamano Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. E lavorano per molti ricchi imprenditori veneti, proprietari di grandi alberghi, fabbriche di scarpe, industrie di valigie, aziende di costruzioni, immobiliari, centrali del gioco d’azzardo e altre ditte che non c’entrano con il Mose. Nel maggio 2015 le autorità svizzere accolgono la richiesta del procuratore aggiunto Stefano Ancillotto di perquisire gli uffici dei due presunti tesorieri del denaro nero: un nobile italo-elvetico, Filippo San Germano di San Martino d’Agliè, nipote della regina del Belgio, e il suo braccio destro, Bruno De Boccard. Nel computer di quest’ultimo salta fuori una lista di clienti, aggiornata dal 2002 fino al 2014, finora inedita. I giudici veneti la ribattezzano «lista De Boccard». In quel computer il professionista svizzero ha trascritto i dati di centinaia di società offshore, con gli azionisti, gli amministratori e l’attività, che si riduce alla gestione di conti esteri o di partecipazioni (riservate) in aziende italiane. In qualche caso compare il vero titolare, in molti altri c’è solo il fiduciario: un altro professionista, in rappresentanza di un cliente che vuole restare anonimo. La Guardia di Finanza concentra le indagini su 48 offshore, controllate da 46 cittadini italiani e da 9 società di capitali, che sembrano ancora attive. I dati però riguardano molti altri evasori. Solo nel 2014 risultano annotate 161 offshore. Nel 2011 se ne contavano 190, nel 2007 erano 232. Già nel 2002, il primo anno inserito nella lista, le offshore erano 228. Questo significa che c’è un esercito di grandi evasori non ancora smascherati. Visto che la lista è aggiornata a cinque anni fa, molti casi di evasione sono ormai cancellati dalla prescrizione. Mentre gli imprenditori più importanti, interrogati in caserma, spiegano in coro di aver approfittato dello studio fiscale: il super-condono varato nel 2009-2010 dal governo di Berlusconi e Tremonti (sostenuto dalla Lega). Un esempio è la deposizione del “re delle valigie” Giovanni Roncato: «Sono lo storico titolare della Valigeria Roncato spa, attualmente mi occupo di coltivazioni di riso in Romania. Conosco Filippo San Martino da 15 anni, in quanto è anch’egli produttore di riso. Siamo diventati amici (...). L’ho contattato alcuni anni fa, in quanto avevo dei capitali all’estero, da rimpatriare con lo scudo. Avevo iniziato a tenere soldi all’estero parecchi anni prima, a seguito di gravi minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa che immaginavo essere la Mala del Brenta: si trattava di minacce di morte per i miei figli fatte nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona. Queste minacce mi indussero all’epoca a consegnare cospicue somme di denaro a malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova ovest. Si tratta di fatti che non ho mai denunciato in quanto temevo per la morte dei miei figli allora piccoli». Chiudendo il verbale, Roncato sottolinea di aver regolarizzato tutto con lo scudo fiscale, da cui risulta che ha rimpatriato 13 milioni e mezzo. Nella lista De Boccard, il suo nome è collegato a una offshore chiamata Alba Asset Incorporation, attiva proprio fino al 2009. Per lui, quindi, nessuna contestazione. Il suo interrogatorio apre però uno squarcio sui rapporti tra imprenditori veneti e criminalità di stampo mafioso: perfino il re delle valigie pagava il pizzo per evitare rapimenti. Proprio come Silvio Berlusconi ad Arcore (tramite Marcello Dell’Utri e lo stalliere mafioso Vittorio Mangano). E come gli impreditori lombardi che negli anni dell’Anonima sequestri affidavano collette di soldi al generale Delfino per placare la ‘ndrangheta. Anche Renè Caovilla, titolare di un famoso marchio di calzature, conferma a verbale di avere avuto soldi in Svizzera e di aver «aderito allo scudo fiscale del 2009». L’industriale, che controllava la offshore Serena Investors, aggiunge che «le somme non regolarizzate venivano affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera», tra cui ricorda proprio Filippo San Germano, che gli fu presentato da «un commercialista di Venezia, G.B., poi defunto». Caovilla ha rimpatriato con lo scudo 2 milioni e 287 mila euro. Tra albergatori di Abano Terme, costruttori e imprenditori del gioco d’azzardo, l’oscar dell’evasione va a Damiano Pipinato, un altro big delle calzature, che è anche il più eloquente nella confessione: «Verso il 1997 o 1998 chiesi al mio commercialista, Guido Penso, come poter gestire i proventi dell’evasione, in quanto i controlli erano sempre più stringenti. Il commercialista mi propose di consegnarglieli, affermando che avrebbe messo lui a disposizione gli strumenti per aprire un conto svizzero, senza necessità che io apparissi. Quindi iniziai a consegnare somme consistenti a Penso. La cosa funzionava così: lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo, essendo preconcordato, che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori. Spesso lui aveva bisogno di liquidità per compensare partite di giro con altri clienti dello sudio. Infatti più volte ho visto che i miei accrediti, anche di un milione, venivano spezzettati e mi arrivavano da conti diversi. Fatto sta che io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova. Qui Penso non apriva la scatola, non contava il denaro, in ragione della decennale fiducia: io gli indicavo la cifra esatta, lui la riponeva nell’armadio e mi rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato». L’imprenditore è il primo a chiamare in causa anche i partner di Penso: «Alla metà degli anni Duemila, Guido, suo figlio Christian e il loro socio Paolo Venuti mi proposero di investire nell’immobiliare a Dubai, con altri imprenditori, spiegandomi che stavano organizzando una gestione di fondi all’estero per i clienti dello studio. Iniziai con un piccolo investimento che in un paio di mesi si rivalutò del 40 per cento. Quindi decisi di investire di più, attingendo alle precedenti disponibilità della mia famiglia nella banca svizzera Zarattini. Allora Guido Penso mi spiegò che a gestire il denaro in Svizzera era Filippo San Germano, che era la persona di sua fiducia che copriva anche me. Infatti tutte le mie società e conti esteri erano amministrati da San Germano». In totale, Damiano Pipinato ammette di aver portato all’estero, tramite il commercialista padovano e il suo nobile fiduciario, almeno 33 milioni: 25 in Svizzera, 8 a Dubai. Dove però, dopo la crisi immobiliare, «nel 2013 ho visto che l’investimento continuava a perdere valore». Scoppiato lo scandalo del Mose, l’imprenditore cerca di sanare tutto con la voluntary disclosure, che però non è uno scudo anonimo, ma una vera autodenuncia: l’interessato deve farsi identificare e rivelare come ha fatto a creare il nero. Quindi l’Agenzia delle entrate gli boccia l’istanza. E lui alla fine vuota il sacco. I due fiduciari svizzeri sono accusati di aver occultato e riciclato fondi neri per molti altri imprenditori veneti. Il tesoro già scoperto dall’accusa sale così di altri 29 milioni, mandati all’estero (attraverso apposite offshore) da imprenditori come Flavio Campagnaro (5 milioni, divisi in 50 consegne), Luca e Roberto Frasson (1,5 milioni), Sergio Marangon (1,2 milioni), Primo Faccia (250 mila dollari), Ignazio Baldan (250 mila euro), Mauro Mastrella (800 mila), Odino Polo (un milione), Maria Rosa e Stefano Bernardi (3 milioni) e Giovanni Gottardo (mezzo milione). In caserma, pur con qualche imbarazzo, tutti finiscono per ammettere i fatti, sottolineando però di essersi messi in regola grazie allo scudo. Alcuni rimarcano di aver soltanto ereditato conti esteri creati dal padre fin dagli anni Sessanta, «quando fare il nero era la regola». Altri, come Pipinato, si vedono contestare società offshore ancora attive, ma rispondono di averle dimenticate «perché furono usate per investimenti in Nicaragua, ma sono andati male e quei soldi li abbiamo perduti». In almeno vent’anni di traffici di denaro nero, ai tre commercialisti padovani dello studio Pvp (dalle loro iniziali) non sono mai mancate le coperture politiche. Paolo Venuti è stato già arrestato e condannato (a due anni) per le tangenti del Mose, come tesoriere-prestanome di Giancarlo Galan, governatore veneto dal 1995 al 2010 e poi ministro del governo Berlusconi. Quel troncone d’indagine ha svelato un nuovo sistema di corruzione: società private svendute a politici, che incassano le tangenti sotto forma di profitti aziendali. In particolare la Mantovani spa, azienda leader del Mose, ha intestato proprio a Venuti, come paravento di Galan, il 5 per cento di Adria Infrastrutture, la società del gruppo che vinceva appalti stradali con la Regione Veneto. E con lo stesso sistema la Mantovani ha arricchito anche il super-assessore Renato Chisso, altro condannato per il Mose. La nuova ordinanza ora accusa il commercialista di aver nascosto anche contanti incassati da Galan: almeno un milione e mezzo di euro. Soldi finiti in Croazia su un conto intestato alla moglie di Venuti, sempre come prestanome dell’ex doge, come conferma un’intercettazione della coppia in auto, al ritorno da una cena nella villa di Galan (ristrutturata con altre tangenti e quindi sequestrata). La pista dei soldi è emersa grazie ai Panama Papers, le carte segrete delle offshore. Dove L’Espresso nel 2016 ha scoperto un’anonima società panamense, Devon Consultant Assets, intestata a Venuti e mai dichiarata. Questi, i fattacci del passato, dalla corruzione per il Mose al riciclaggio. Dallo studio Pvp parte però un filo segreto di rapporti professionali e familiari che arriva al presente e porta fino alla seconda carica dello Stato. Lo studio Pvp ha legami molto stretti con una società di Padova, Delta Erre, che è una specie di club dei più affermati fiscalisti veneti. Tra gli azionisti compare Paolo Venuti, che si è visto sequestare la sua quota in questi giorni. La stessa società ha accolto tra i suoi azionisti anche Giambattista Casellati, un grande avvocato di Padova. Che è il marito di Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’attuale presidente del Senato. Che ai tempi dello scudo fiscale era sottosegretario alla Giustizia, oltre che parlamentare di Forza Italia. Marito e moglie sono anche soci d’affari in una piccola azienda italiana chiamata Esa, creata nel 1983, che nell’ultimo bilancio (2017) dichiara 55 mila euro di ricavi. La Delta Erre, costituita nel lontano 1971, è un club esclusivo, con partner selezionati. Fino al 2017 era una fiduciaria, poi si è concentrata sulle consulenze fiscali. Da anni è un punto di riferimento per le aziende di area ciellina. E da sempre ha forti legami con alcuni protagonisti dello scandalo Mose. Tra i soci fondatori spicca infatti Guido Penso, che è stato presidente del consiglio d’amministrazione fino al 1996. Già allora il commercialista manovrava fondi neri degli evasori, come spiega l’ordinanza che oggi accusa lui e suo figlio di aver orchestrato, con il collega Venuti, anche il riciclaggio del tesoro di Galan. I Panama Papers confermano che proprio Penso, attraverso un suo studio di Londra, gestiva già nel 2000 alcune offshore, come la Sorenson Holding delle Bahamas, ora accusate di nascondere i milioni degli evasori. La Delta Erre non è coinvolta direttamente in questi scandali. Però compare più volte negli atti delle indagini. Ad esempio l’imprenditore Damiano Pipinato, oltre ai 33 milioni dell’evasione, ha parlato anche di una serie di offshore utilizzate per mascherare le sue proprietà a Padova e spostare all’estero i soldi degli affitti. Tra quegli immobili così schermati (con una società italiana controllata da anonime panamensi) c’è una palazzina in via Corciglia 14. Dove ha sede lo studio Cortellazzo e Soatto. Che paga da anni un affitto notevole: 240 mila euro più Iva, poi ribassato a 185 mila. Soldi che, attraverso le offshore, finivano nei conti svizzeri di Pipinato. Sia Soatto che Cortellazzo ricompaiono anche tra i soci della Delta Erre, al fianco di Venuti (il prestanome di Galan) e dell’avvocato Casellati (il marito della presidente del Senato). Allo studio Soatto e Cortellazzo è dedicato perfino un capitolo spinoso della sentenza sul Mose: sono loro ad aver firmato una perizia che, secondo i giudici, ha consentito alla Mantovani spa, l’azienda simbolo delle tangenti venete, di sopravvalutare le sue attività. Il loro studio è registrato con la sigla “Servizi professionali organizzati” e ha come socio di maggioranza il commercialista Lucio Antonello, che è anche l’attuale numero uno della Delta Erre. Come presidente del Senato, la signora Casellati è sicuramente dalla parte della legalità e della lotta all’evasione fiscale. Il problema è che i soci di suo marito giocano nella squadra avversaria.
DEMOCRISTIANI. L'editoriale di Roberto Napoletano il 4 marzo 2020 su quotidianodelsud.it. Nessuno fa niente per il suo Paese. Tutti stanno a guardare quello che fanno gli altri. Lo sport nazionale è giudicare o porre veti. Il motore dei comportamenti dei singoli sono il proprio interesse e l’invidia sociale. Una moltitudine ripetitiva di comportamenti individuali di questo tipo produce una collettività che riconosce le “capitali” dei loro egoismi e smarrisce l’identità comune di una nazione. Ne viene fuori una comunità in stato confusionale capace di fabbricare con le sue parole inutili una recessione in casa. Moro e Fanfani facevano lezione all’università e poi nel resto della giornata facevano politica. Molti della classe dirigente di governo di oggi – centrale e, soprattutto, regionale/locale – non potrebbero nemmeno seguire i corsi dei grandi professori democristiani. Ho pensato a Moro e Fanfani leggendo le dichiarazioni di Bruno Tabacci, politico di lungo corso e ex presidente della Regione Lombardia, al nostro Claudio Marincola: “Eravamo democristiani. E finché ci siamo stati noi la sanità pubblica non è mai stata messa in discussione. Poi è successo qualcosa, non mi chieda però cosa. So solo che ci fu un grande cambiamento, famiglie importanti già attive in altri settori iniziarono a investire nella sanità cifre notevoli e poco dopo arrivarono i tagli. Meno medici, meno infermieri, meno ospedali, meno posti-letto”. In queste parole c’è la chiave di quello che è avvenuto a Milano e, a catena, nell’intero Paese. Dietro la perdita di valore della sanità pubblica e di ciò che rappresenta in termini di sicurezza, di igiene e di prevenzione, c’è quello che l’attuale sindaco di Milano, Beppe Sala, ha definito “l’ecosistema sanitario” lombardo. Qualcosa che coniuga tagli lineari alla sanità pubblica e business dei privati. Si passa dalla chimica petrolifera alle cliniche, ma soprattutto si prenotano quote ingenti di risorse pubbliche con il moltiplicatore della Spesa Storica che favorisce il ricco a discapito del povero. Nessuno vuole discutere le eccellenze private, ma è sotto gli occhi di tutti come prevenzione e organizzazione dell’accoglienza pubblica abbiano sofferto con l’emergenza coronavirus. La sanità privata lombarda ha fatto incetta di finanziamenti sottratti alle Regioni del Sud – la sanità ospedaliera meridionale è finita sotto processo per clientele a volte vere ma di più per una moda funzionale agli interessi privati nordisti – e se ne guarda bene oggi da restituire qualcosa. Il virus che i focolai di Lodi e della bergamasca portano in superficie è la perdita del primato della cultura del servizio sanitario nazionale e della sanità pubblica. Quegli stessi micro-interessi degli azionisti-clienti di Banca Ubi che si oppongono per ragioni di bottega al disegno da sistema Paese di Intesa Sanpaolo si possono riscontrare nella cultura della fatturazione pubblica e dei super-rimborsi che appartiene alle famiglie private dell’ecosistema sanitario lombardo. Se la politica non dà una spallata a questi micro-interessi, l’Italia non potrà mai rialzare la testa.
La grande balla, il nuovo libro di Roberto Napoletano: «Il Nord vive sulle spalle del Sud». Redazione de ilgolfo24.it il 6 Marzo 2020. Si intitola “La grande balla” ed è il nuovo libro di Roberto Napoletano, frequentatore di Ischia, “Giornalista dell’Anno” nel 1990 al Premio Internazionale di Giornalismo, già direttore de Il Sole 24 ore. Con dati e statistiche ufficiali alla mano, l’autore racconta lo scippo di 61 miliardi che ogni anno il Nord effettua ai danni del Sud. E capovolge lo stereotipo del meridione d’Italia assistito che, al contrario, è stato abbandonato. Un’inchiesta esplosiva sulle vere cause, e le vere responsabilità, di un’Italia divisa in due, che si fa la guerra invece di unire le forze. La questione meridionale come non l’avete mai vista. È quanto assicura Roberto Napoletano, che torna in libreria con un saggio rigoroso e inedito sul divario tra Nord e Sud. Il titolo “La grande balla”, edito dalla Nave di Teseo. Secondo la ricostruzione dell’autore, «la regione Veneto fa pagare allo stato italiano non ai contribuenti veneti, per la sua sanità, lo stipendio a sedicimila dipendenti in più, non medici, di quanti ne fa pagare la sempre vituperata regione Campania che ha un milione di abitanti in più». «Sapete che l’Emilia Romagna e la Puglia, a quasi parità di popolazione, ricevono la prima tre miliardi in più e la seconda tre miliardi in meno per la sanità? Che a fare il deficit sanitario – si legge in un estratto del libro – sono tre regioni a statuto ordinario del Nord non del Sud, per la precisione Piemonte, Liguria, Toscana, parola della corte dei conti?». «Vi siete mai chiesti chi ha il primato dei dipendenti pubblici in Italia? Penserete in automatico ai mille carrozzoni comunali e regionali dei mille Sud italiani, vero? No, sbagliato! – scrive Napoletano – Il Nordest, che comprende Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli, vince alla grande: ha cinque dipendenti pubblici ogni cento abitanti contro i 4,4 del solito diffamato Mezzogiorno e, addirittura, alla pari con Roma, senza avere neppure uno dei ministeri, delle authority, delle ambasciate che ‘popolano’ la Capitale di una nazione. Se dubitate dei numeri o il confronto non vi aggrada prendetevela con l’ISTAT che è la firma statistica dell’Italia nel mondo». Domande articolate, per certi versi con risposte sorprendenti e del tutto inedite, quelle che vengono fuori nel volume, appena edito da La nave di Teseo: quanti cittadini sanno che 61 miliardi dovuti al Sud vengono ogni anno regalati al Nord? Per Napoletano «si tratta del più grande furto di stato mai conosciuto nella storia recente della Repubblica italiana. I numeri di questa operazione verità fanno tremare vene e polsi, e permettono legittimamente di chiedersi se l’Italia esista ancora». Nord assistito, Sud dimenticato “La grande balla” di Roberto Napoletano intende portare il lettore a intraprendere un lungo viaggio nelle piccole grandi patrie dell’assistenzialismo, che – secondo l’autore – non sono al Sud, ma tutte al Nord. «La politica si è abituata da vent’anni a togliere investimenti al Sud per soddisfare le pretese dei questuanti di turno, sistemare gli amici degli amici nel coacervo di enti pubblici proliferati con la spesa facile. Tutti collocati nelle ricche regioni del Nord». Non dimentichiamo che il giornalista, per anni è stato direttore del Sole 24 Ore e, quindi, ha avuto modo di conoscere il sistema economico italiano dall’ interno.
Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio. Silvia Siniscalchi il 21 Agosto 2017 su iconfronti.it. In considerazione della disastrosa situazione della sanità campana, si ripropone qui uno studio sui fondamenti filosofico-giuridici e socio-sanitari del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, che suscitarono un profondo interesse già presso i contemporanei (come il Luppoli, il D’Onofri, il Galdi e il Cuoco, tanto per accennare a dei nomi di intellettuali di valore). Senza volere accogliere le ragioni del revanscismo borbonico e senza entrare nella questione dell’autentica paternità del Codice, ci si limita a constatare l’assoluta modernità di una legislazione sanitaria che rappresenta uno degli esempi in tema più avanzati del XIX secolo e attuato nel Meridione d’Italia.
Sul colle detto di S. Leucio, adiacente alla famosa reggia vanvitelliana, nel sito di una diruta chiesetta longobarda dedicata a quel santo, Ferdinando IV di Borbone, dopo aver murato l’intero bosco circostante, aveva fatto costruire un piccolo casino di caccia (1773-74), che poco dopo abbandonò perché vi era morto il suo primogenito Carlo Tito, trasferendo la propria residenza nell’attigua località detta Belvedere (da allora chiamata estensivamente, ma a torto, S. Leucio), di bella vista, ottima aria e fertilità del terreno per ogni tipo di produzione, vite in particolare. «Vi fece perciò subito costruire – soccorre qui uno stralcio della sintetica “voce” di un quasi coevo Dizionario – delle nuove fabbriche, ed un’antico salone lo convertì in chiesa nel 1775, che eresse benanche in parrocchia per la popolazione, che vi fece radunare al numero di circa 350 individui addetti non solo alla custodia del bosco, che alla coltivazione de’ terreni, che sono in quei contorni. Nel 1776 ampliò maggiormente le fabbriche, e vi stabilì una casa di educazione, e quindi da tempo in tempo vieppiù rese il luogo abitabile e popolato con istabilirvi una colonia di artefici a formare ottime manifatture di seta, cioè stoffe, fettucce, veli, calze, da non farci affatto invidiare le decantate manifatture forestiere. Il numero di questi artefici è oggi [fine ‘700] giunto a circa 800. Nel 1789 il suddivisato nostro Clementissimo Sovrano con molta saviezza scrisse le leggi per questa sua nuova Colonia, da far veramente in tutti i tempi avvenire gloria all’Augusto Suo Nome»
L’ultimo riferimento è ovviamente al famoso Statuto della real Colonia, che sarà analizzato nei paragrafi seguenti, specie per la normativa socio-sanitaria, ma del quale occorre subito anticipare, in estrema sintesi, una finalità altamente etica, quella di prevedere una “città degli uguali”, dove appunto vigesse «l’assoluta uguaglianza tra donne e uomini, il diritto all’istruzione, alla successione e alla proprietà, alla casa e all’equo salario, alla tutela in caso di bisogno, all’assistenza sanitaria, alla prevenzione del vaiolo, alla formazione e al lavoro».
Se questi sono, assai scarnificati, i fatti incontestabili della nascita e vita primiera della colonia e del suo contenuto statutario, assai più discutibili e discussi sono i valori e i significati ad essi attribuiti, a partire dalla paternità dell’idea e fino al processo normativo, progettuale ed effettuale. Poiché il merito maggiore si riconosce alla stesura dello statuto, gli studiosi si sono accapigliati sul nome del vero artefice, dando per scontato che – data l’ignoranza, l’indolenza intellettuale, la rozzezza di comportamenti del re “nasone” o “lazzarone” (come spregiativamente veniva e verrà chiamato) – non poteva esser stato lui l’estensore: dopo aver di massima condiviso che l’autore del codice fosse il massone Antonio Planelli, con varie sfumature al sovrano si è accreditato al massimo un contributo maldestro ed episodico, riscontrabile nella scarsa organicità della normativa, come riconoscimento di un’indole sostanzialmente buona e benevola verso il popolo, con cui “si trovava bene” e nel quale spesso si identificava nelle sue note stranezze quotidiane (vari travestimenti, scherzi, ecc.). In questa farragine di titubanti ipotesi è intervenuta di recente la ricerca, seria e documentata, di una giovane studiosa, a risolvere forse definitivamente il dilemma. Mi riferisco ai lavori, impostati anche in utile chiave collegiale e didattica, di Nadia Verdile, in particolare a quello portato avanti col progetto “Carolinopoli: l’utopia di una regina”, svolto nell’anno scol. 2003-2004 presso l’ist. Statale d’Arte “San Leucio”, e concretizzato in un volume intitolato Carolina (2004). Senza disattribuire l’autoralità materiale al Planelli, la Verdile sostiene che quella spirituale e filosofica vada riconosciuta alla regina Carolina, cui andrebbe altresì il merito di tutte le riforme realizzate nel Regno di Napoli prima della rivoluzione francese. Oltre che sulla bibliografia più accreditata (Coniglio,1981; Tescione,1932, in testa a decine di altri autori), la ricercatrice si basa sull’analisi e la parziale stampa delle lettere, custodite all’archivio di Stato di Napoli e mai prima edite, che da S. Leucio il re inviò alla regina tra il 1788 e il 1799, nonché di quelle di Carolina al marito (Verdile, 2008), la cui lettura «ha consentito una lucida definizione delle personalità dei due sovrani e degli interessi degli stessi» (Verdile, 2004, p.11). Quanto alla sovrana, emerge il ritratto di una donna che, lungi dall’essere solo crudele e sanguinaria (come vuole il cliché appostole dopo la repressione della rivoluzione del 1799), attiva i “malfamati” intrighi di corte solo nel desiderio alto e nobile di sconfiggere il partito filospagnolo (incarnato prima dal “tardo” Tanucci e poi dal Sambuca) a favore di quello filoasburgico, capitanato dall’ammiraglio Francesco Acton e di poi da Domenico Caracciolo, con il seguito di tutti gli intellettuali, i nobili e i borghesi progressisti, facenti spesso capo alle logge massoniche, cui stava a cuore il risollevamento delle sorti del Regno. Di più: Carolina, degna figlia della più progressista tra le personalità dei principi illuminati (l’imperatrice Maria Teresa d’Austria), appare come una sovrana coltissima, che legge e scrive quattro lingue (francese, tedesco, italiano e spagnolo) oltre a saper tradurre il latino, che, fin dal suo arrivo a Napoli, cura l’incremento della sua biblioteca (formata da 6443 volumi, oltre a molti periodici) e se la fa trasportare al seguito nelle parentesi di fuga in Sicilia, che è istruita in letteratura, storia, botanica, musica, canto e – fatto assai indiziario – filosofia, etica, diritto, pedagogia, economia e botanica. Dall’altro lato, troviamo un sovrano meno zotico e tartufesco di come si è voluto far credere, ma “giustamente” insofferente della etichetta e degli squallidi personaggi di corte, come della partecipazione al Consiglio di Stato (in cui ben presto sedé autorevolmente Carolina), in nome di una vita sana, all’aperto, dedita alla caccia, alla pesca, al nuoto e a varie attività ginniche, nel contatto “diretto” dei suoi sudditi (spesso al femminile, come si malignava…): un re che ben volentieri cedette “lo scettro” alla sua metà, con la quale in certo senso caratteriologicamente si compensava, comunque fungendo da elemento equilibratore tra i poteri. Sulla base di tali valutazioni, la conclusione della Verdile appare abbastanza plausibile, anche alla luce della stima che a Carolina manifestarono personaggi del calibro di Pietro Colletta, Vincenzo Cuoco e altri.
Accantonato, con sufficiente persuasività, il problema dell’attribuzione autorale, non meno interessante sarà soffermarsi, sia pur in breve, sulle fonti ispiratrici (teoriche e pratiche) della legislazione e delle esperienze effettive realizzate dalla colonia reale, compreso il progetto “utopico” di «Ferdinandopoli». Sapere che l’ideazione fu di Carolina non semplifica la soluzione e, a parer di chi scrive, la stessa regina avrebbe trovato difficoltà a rintracciare precisamente i suoi “modelli” ispiratori, in una temperie storica illuminata da tanta letteratura utopistico-socialistico-riformistica e da innumerevoli esperimenti pratici, realizzati in varie parti del mondo, di comunità autogestite. Di antecedenti, infatti, ce ne sarebbero molti e anche molto remoti nel tempo. Scrive a riguardo il Tescione: «Se si dovesse risalire ai primi germi delle idee, delle dottrine e dei progetti di costituzioni politiche a cui potrebbe ricollegarsi la costituzione di S, Leucio, occorrerebbe fare un ardito volo oltre gli orizzonti del mondo moderno e medioevale e di là dalle vie battute da Cicerone e da Aristotele, per raggiungere le pure scaturigini del pensiero platonico. Non sarebbe fuor di luogo allora ricordare il piano di quella Platonopoli di cui fin dal terzo secolo dopo Cristo il filosofo Plotino proponeva l’attuazione ad un tiranno della decadenza romana, il Galieno, chiedendo per lo scopo appunto un distretto della Campania, o la concezione di quella fantastica repubblica aristocratica e monastica ch’è la Città del Sole, con cui il Campanella, nel XVI secolo, perfezionando il sistema comunista di Tommaso Moro, precorreva, in un certo modo, le utopie del secolo XVIII» (Tescione, 1932, p.’’’..; in proposito cfr. Dematteis, 1963). Quanto ai precorrimenti teorici più prossimi, il Battaglini crede di dover citare: Francesco Saverio Salfi nel suo Elogio del Filangieri; il Dumas, che trova affinità col socialismo e richiama Fourier e il suo falansterio; lo Stefani che parla di colonia socialistica borbonica e chiama in causa il pensiero e i tentativi storici di Robert Owen; Francesco Longano, un riformatore napoletano che distingueva tra il politico che dà lavoro ai bisognosi, e l’uomo superstizioso che gli fa l’elemosina; il Mercier per un suo romanzo fantapolitico e la creazione di una città fantastica; il Gori che parla di impronta comunista; infine il Croce e seguaci, fermi sull’errata interpretazione del “capriccio” del sovrano.
Circa la posizione ideale e fattuale dell’Owen in confronto a quella borbonica, intanto, registriamo uno studio specifico condotto dalla più recente studiosa leuciana, che, al di là delle forti differenze, trova anche delle collimanze, in questi termini: «Eppure i telai uniscono le due utopie anche se da San Leucio la seta va verso le grandi residenze del potere mentre da New Lanark le tele di cotone vengono distribuite ai mercati della nazione. E da ultimo, ma prima riflessione da fare, l’utopia leuciana e quella newlarkiana sono nate dalla forza ideologica e culturale di due personalità profondamente diverse: da una parte il pensiero illuminato di Maria Carolina d’Asburgo, colta, amica e sostenitrice della massoneria progressista, sovrana, e dall’altra il pensiero illuminato di Robert Owen, operaio, poi imprenditore, economista. E dunque è nell’etica dell’Illuminismo che si fonda l’incontro di due grandi progetti utopici che hanno avuto il merito di dimostrare che una società degli uguali può e deve essere perseguita» (Verdile, 2006, p. 28). Molto più ricco, profondo e articolato è il contributo che il Tescione, il maggiore studioso in materia, aveva offerto in proposito nel suo monumentale volume del 1932, poi riedito nel 1961 senza sostanziali aggiunte e in forma più agile (senza note a piè di pagina). Dei più importanti autori richiamati, infatti, egli ricostruiva articolatamente la storia individuale e il pensiero. In questa sede si possono solo ricordare i nomi degli esponenti, attivi nel Napoletano già prima dell’ascesa al trono di Carlo III di «quel progredito movimento intellettuale mercé il quale lo spirito dell’Europa civile e laica era penetrato nel regno di Napoli, destandovi scintille di fecondi dibattiti, forza e luce alla lotta per svincolare lo stato e l’organismo sociale dalle pastoie feudali».
In definitiva, sulla scorta del Tescione (1932, passim) si può affermare, per un verso, che l’ispirazione più profonda e più prossima delle leggi di S. Leucio proviene dalla Scienza della legislazione del Filangieri, che in precedenza aveva dettato i principi anche alla politica del Tanucci contro la mendicità e per l’educazione del popolo alle arti e ai mestieri (specie con l’editto del 1769), per l’altro – accogliendo la Verdile e in riferimento alle ricezione etico-politica da parte di Carolina – dalle «riforme messe in pratica […] nell’impero austriaco da sua madre prima e da suo fratello, l’imperatore Giuseppe II in seguito, e nel Granducato di Toscana dal fratello Pietro Leopoldo» (Verdile, 2004, p. 25). Meglio chiarisce la questione il Kruft, sostenendo che lo statuto in parole «è una sintesi delle concezioni giusnaturaliste-istituzionali e delle teorie economiche formulate a Napoli da Vico a Filangieri. In questa idea dello Stato è insita una impostazione paternalistico-monarchica. Il re si pone al vertice di una rivoluzione sociale fondata sul diritto naturale: è una “rivoluzione dall’alto”. Segno tangibile del vincolo tra il re e la colonia è il collegamento tra il palazzo e la fabbrica. L’esperimento filantropico del 1789 diventa involontariamente un’alternativa in piccolo alla Rivoluzione francese».
Si può infine condividere con il maggior studioso della materia l’idea che, all’atto pratico, l’istituzione leuciana dava a Carolina «la possibilità di conciliare, su di un terreno particolarmente favorevole, le sue tendenze romantiche con i capricci del re» (Tescione, 1932, p. 136): che vale a riconoscere come l’intrapresa complessiva della colonia fosse l’unica maniera per la regina di far impegnare un sovrano tendenzialmente refrattario alle cose di governo verso un obiettivo serio e fruttuoso per la corona e il popolo, in un sito prediletto perché dava sfogo alle sue passioni e, sul versante aziendale, gli consentiva inoltre di applicare la sua particolare competenza in fatto di macchinari e anche di agrimensura.
Ciò ci induce a non sottovalutare il contributo ferdinandeo alla formulazione pratica (al di là della difettosa conoscenza della lingua italiana), specie nel settore dell’organizzazione della giornata lavorativa, della massimizzazione nell’uso ottimale delle macchine e dei risultati produttivi (e simili), degli articoli del Codice e soprattutto del più analitico Regolamento di gestione interna della fabbrica, stilato da Domenico Cosmi. Lo stesso valga rispetto al progetto solo parzialmente realizzato di «Ferdinandopoli», che – come tra breve diremo – essendo un riflesso degli statuti leuciani (Schiavo, 1986), conserva sì la sua matrice nella spinta ideale della regina, ma dovette avere nel “praticone” Ferdinando una sicura e consapevole guida per l’architetto progettista Collecini. In realtà, da tempo è maturata in alcuni studiosi la convinzione che il discorso locale di S. Leucio si inquadrasse in una più ampia strategia politico-territoriale, che – alla luce dell’intuizione della Verdile – non poteva che maturare nella fervida mente di Carolina, in accordo col generico “populismo” ferdinandeo. Innanzitutto, l’esperimento leuciano era la prova che si potesse fare a meno della componente più retriva della feudalità e si dovesse invece puntare su un rapporto diretto tra dinastia e popolo, in funzione accentratrice e antibaronale. Inoltre, si trattava di un tentativo non isolato di diversificazione funzionale dei “siti reali” (da riserva di caccia a villaggio operaio, azienda agricola o caserma) per organizzare e valorizzare il territorio tra intorno di Napoli e Caserta (Alisio, 1976; Caputo, 1977; Battaglini, 1983, p. 25). In tale programma rientrava infatti anche l’esigenza di trasformare Napoli da parassitaria metropoli di consumo a centro di produzione, decentrando però nei centri limitrofi le attività industriali, per decongestionare la capitale e alleggerirne la pressione demografica (Caputo, 1977; Battaglini, 1983, p. 25). Del resto nella città partenopea era evidente da tempo la crisi della sericoltura, per cause complesse che vanno dal peso enorme delle tasse alla carenza di manodopera specializzata e di strumenti e macchine più moderne: questo spiega perché l’esperimento delle seterie fosse fatto proprio a S. Leucio, dove quella industria poteva diventare sicuramente competitiva, grazie alle caratteristiche geografico-naturali e geoantropiche del sito: come riconoscerà in una relazione del 1826 il De Welz, appaltatore della ormai ex-colonia, il clima e suolo amici del gelso (nota pianta di supporto alla coltivazione del baco) e di tante produzioni agroalimentari (da cui l’abbondanza di viveri a basso prezzo), la «bassezza della mano d’opera, i prezzi leggieri delle materie prime, […], il motor d’acqua instancabile e gratuito [azionato dallo stesso acquedotto della Reggia], operai destri, artefici intelligenti» (citato da Battaglini, 1983, p. 14) costituivano fattori positivi della conduzione aziendale. Al fondo dell’operazione non poteva non celarsi la battaglia contro la miseria, la mendicità, l’accattonaggio e la degradazione fisica e morale di tanta parte della popolazione urbana e rurale (che era la causa di temute turbative all’ordine pubblico), per cui tutto l’apparato economico-manifatturiero e urbanistico aveva una destinazione prevalentemente sociale: non a caso, per quanto riguarda gli oziosi, lo Statuto prevedeva che i “Seniori del popolo”, addetti al controllo della colonia, hanno il dovere di vigilare «rigidamente sul costume degli individui della Società, sull’assidua applicazione al lavoro, e sull’esatto adempimento del proprio dovere di ciascuno. E trovando, che in ess’alligni qualche scostumato, qualche ozioso, o sfaticato, dopo averlo due volte seriamente ammonito, ne posseranno a me l’avviso, acciò possa mandarsi o in casa di correzione, o espellersi dalla società, secondo le circostanze». Stessa sorte è riservata ai giovani che, giunti ai sedici anni di età, si rifiutino di lavorare o di apprendere il mestiere (Ferdinando IV, 1789, paragrafo XIV). Siamo dunque di fronte a una utopia laica e paternalistica, a parere dei Eugenio Battisti (cit. in Battaglini, 1983, p. 25), alla quale è lecito aggiungere anche l’aggettivo «religioso», sia pur nella particolare accezione dei regnanti borbonici che, pur avendo in precedenza osteggiato l’ideologia “indipendentista” espressa nelle colonie paraguayane dai Gesuiti (tanto da espellerli dal regno), dopo la parentesi rivoluzionaria si accostarono all’”altare” in quanto utile garante del “trono”.
Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio. Silvia Siniscalchi l'8 Marzo 2018 su iconfronti.it. In Campania − regione dei maggiori ritardi e disguidi nella politica sanitaria, che tanto pesano su tutti i cittadini − vi fu un periodo, alla fine del XVIII secolo, di grandi conquiste civili e sociali proprio in questo settore. Ci riferiamo ad alcuni interessanti aspetti del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, con particolare riguardo alla straordinario stadio di avanzamento proprio dei suoi aspetti sanitari. Analizzare gli aspetti assistenziali e socio-sanitari, quali emergono dallo Statuto della Real Colonia borbonica dei lavoratori della seta, costituisce un’impresa alquanto problematica; alla complessità intrinseca dell’indagine (dove entrano in gioco storia, diritto, medicina e urbanistica), si aggiunge infatti la scarsità di studi in materia disponibili (soprattutto per il Mezzogiorno), che si sono dovuti misurare con la multiforme situazione assistenziale dell’Italia pre-unitaria. Ciò nonostante, gli studi dedicati al settore si sono notevolmente accresciuti negli ultimi vent’anni, ponendo l’attenzione sullo sviluppo delle modalità diagnostiche e curative della medicina nelle varie epoche, sulla sua contaminazione con pratiche magiche, religiose e credenze popolari, sulla sua attenzione per le malattie legate al lavoro e, particolarmente, sul processo che da scienza a carattere individuale l’ha trasformata in sistema di assistenza, cura e prevenzione collettiva controllato dallo stato. A tal proposito, eventi e riforme del XVIII secolo sono apparsi determinanti per l’ammodernamento della sanità e la sua trasformazione in sistema statale, sebbene, secondo alcuni studiosi, solo nel periodo successivo alla Rivoluzione francese i presupposti sociopolitici, istituzionali, ideologici ed epistemologici di tale epocale mutamento sarebbero giunti a maturazione (Keel, 2007). Perciò, in tale prospettiva, il Decennio napoleonico è stato ritenuto molto significativo, soprattutto per il Mezzogiorno dell’Italia: grazie ai processi di centralizzazione burocratica avviati dai napoleonidi, infatti, «l’avocazione degli arrendamenti[3] e l’abolizione di altre entrate richiesero profonde trasformazioni nelle strutture amministrative dell’assistenza e della beneficenza e resero necessario un più diretto impegno finanziario da parte dello stato» (Lepre, 1985, p. 10).
Se il 1789 rappresenta uno spartiacque della storia moderna europea anche dal punto di vista sanitario, appare sorprendente il tempismo con cui, proprio nel novembre di questo stesso anno, come già evidenziato, il Re di Napoli in persona avesse autorizzato la stampa del Codice di S. Leucio, il cui carattere etico-egualitario (ispirato a un programma di rinnovamento sociale di stampo illuministico redatto vent’anni prima dall’allora ministro Bernardo Tanucci) appariva molto aggiornato e moderno anche nella cura degli aspetti socio-assistenziali. Tale circostanza era del tutto coerente rispetto alle finalità complessive della colonia leuciana – ispirata al concetto, tipicamente settecentesco, di “pubblica felicità” (ossia di benessere psico-fisico della collettività, come ribadito da illuministi del calibro di L. A. Muratori)[4] e, quindi, di salute pubblica – ma rifletteva, al contempo, un obiettivo politico primario dei governi “illuminati”, che nella seconda metà del XVIII secolo vi avevano dato ampio spazio nei loro programmi, ponendo mano a una profonda riorganizzazione del sistema ospedaliero (Garbellotti, 2003, p. 124). Il Real Albergo de' Poveri di Napol (stampa di Gatti e Duca). Secondo le sue originarie finalità doveva essere un luogo di carità e assistenza per bisognosi e indigenti. L’interesse dei monarchi nei confronti della salute pubblica, d’altra parte, non era semplicemente un atteggiamento di tipo filantropico, ma espressione della necessità di controllare globalmente il corpo sociale su cui esercitavano la propria legislazione nonché «garanzia di efficienza, di produttività, di ricchezza», che li spingeva altresì a «interessarsi direttamente delle condizioni di vita di tutta la popolazione e delle condizioni di lavoro della popolazione attiva» (Cosmacini, 1988, p. 253). Alla luce delle precedenti considerazioni, è logico supporre che anche sotto questo aspetto il re Ferdinando dovesse essere stato non poco influenzato dalla cultura e dalle idee progressiste di sua moglie, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, nonché dal confronto con il cognato Pietro Leopoldo, esempio emblematico di riformismo illuminato nella gestione sanitaria della Toscana. La regolamentazione della sanità pubblica nella Real Colonia di S. Leucio, organicamente correlata ad altri tipi di forme assistenziali contemplate dall’intero corpus normativo, non si limitava tuttavia a emulare le tendenze ideologiche ad essa contemporanee: lo Statuto, infatti, si ispirava concretamente ai più avanzati criteri sanitari del XVIII secolo, che si sarebbero affermati in Europa e nel resto della penisola italiana solo nel corso della prima metà dell’800. Pertanto, diviene possibile rilevarne e apprezzarne il pregnante significato solo ponendoli in correlazione con i principi di regolamentazione sociale, istituzionale ed etica che caratterizzano il documento nel suo insieme, nonché analizzandoli alla luce del contesto utopistico-pianificatorio e, almeno in parte, della coeva situazione storica della medicina e della sanità in Italia. Lo studio del medico (tratto da Paul Lacroix, "L'école et la science jusqu'à la Renaissance", Paris, Firmin-Didot, 1887) Rispetto a quest’ultima, la concezione sanitaria del Codice è senza dubbio all’avanguardia, recependo i dettami di «nuova impostazione del problema salute, sia sul piano individuale che sul piano sociale», alla cui luce medici e non medici, «nel clima di razionalità e fervore creato a Milano come a Firenze dalle riforme teresiane-giuseppine-leopoldine, nutrono interessi di medicina razionale, di salubrità ambientale, di sanità, di scientificità, fortemente ravvivati dalla circolazione d’idee che muove dall’Inghilterra e dalla Francia» (Cosmacini, 1988, p. 251). È insomma evidente l’influenza dell’Austria sull’orientamento ideologico dell’autore dello Statuto, che, a prescindere dalla sua identità, dà prova di avere ben compreso l’importanza di alcuni risultati scientifici della scienza medica dell’epoca (spesso contestati e rifiutati dalla popolazione per ignoranza e sulla base di insensati pregiudizi), considerando la salute pubblica come un bene da preservare e curare, sia dal punto di vista materiale che spirituale, sulla base di procedure controllate e in luoghi deputati allo scopo. Di qui, contrariamente alla prassi diffusa del tempo, la concezione statutaria dell’ospedale come luogo destinato esclusivamente alla cura dei malati, dotato di una classe medica fornita direttamente dal re (al servizio dello stato e quindi qualificata) e monitorato quotidianamente per il rispetto delle più elementari nozioni igienico-sanitarie (Ferdinando IV, 1789, pp. 37-38). Il riformismo dello Statuto contribuisce a dare così avvio al processo formativo dell’ospedale così come oggi concepito, basandosi su una concezione medico-sanitaria lontana dalle finalità genericamente assistenziali, curative ma anche formative, rieducative e repressive degli istituti ospedalieri d’età moderna. Questi ultimi costituivano infatti dei veri e propri centri di accoglienza, controllo e rieducazione per malati, mendicanti, indigenti e disadattati in generale, generalmente considerati (a eccezione dei casi di oggettiva inabilità al lavoro) dei fannulloni e dei parassiti sociali. Pertanto l’istruzione, a partire dalla seconda metà del Settecento, «cominciò ad essere considerata anche come una sorta di arma per sconfiggere l’ignoranza che stava alla base dei comportamenti devianti», per educare i poveri al lavoro, alla disciplina e ottenerne il recupero sociale. Tali erano i presupposti ideologici dello stesso Albergo dei Poveri di Napoli, conformemente al programma di Tanucci («che moveva dalla premessa etica fondamentale del Genovesi» della necessità di educare il popolo, sollevandolo dallo stato di ignoranza e abiezione in cui versava: Tescione, 1932, p. 126). Il Codice di S. Leucio, pur accogliendo tali istanze, le affronta con criteri moderni, predisponendo per ciascuna di esse una differente e peculiare destinazione istituzionale: la “Cassa della Carità”, per il sostegno materiale ed economico di quanti fossero divenuti inabili al lavoro per causa di forza maggiore (nonché, in caso di morte, per il pagamento delle spese necessarie all’esequie); la “Casa degli Infermi” (ossia l’ospedale), con funzioni curative e assistenziali di tipo sanitario; la “Scuola normale”, per la formazione scolastica e lavorativa dei fanciulli di entrambi i sessi, obbligatoria a partire dai sei anni di età. Tra questi istituti, la “Cassa della Carità” è dunque delegata a sostenere le spese di assistenza socio-sanitaria ai coloni in difficoltà. La sua denominazione, tuttavia, risulta ingannevole, lasciando immaginare che si fondi su principi generici di associazione e di solidarietà umana (che pure ne costituiscono un presupposto). Al contrario, la “Cassa della Carità” non rappresenta un istituto di elemosina collettiva, ma una sorta di “fondo malattie”, con finalità analoghe a quelle degli attuali enti di previdenza sociale, «nei quali direttamente o indirettamente si attua l’attività dei gruppi o dello Stato volta ad eliminare negli individui il bisogno di ricorrere alla beneficenza, a prevenire la miseria mediante il concorso di cloro stessi che sono destinati a beneficiarne» (Dal Pane, 1958, p. 317). Pertanto, la “Cassa della carità”, fondata sul risparmio degli interessati (i contributi mensili e proporzionali al reddito dei lavoratori della colonia) rappresenta un esempio di ente previdenziale ante litteram. I leuciani caduti in miseria «o per vecchiaia, o per infermità, o per altra fatal disgrazia, ma non mai per pigrizia, ovvero infingardaggine» hanno maturato il diritto di essere assistititi in virtù del loro pregresso e costante contributo “previdenziale”. Non a caso, i coloni morosi a oltranza perdono il diritto all’assistenza, sia in caso di disgrazia che di morte, mentre i maleducati, gli oziosi e gli sfaticati recidivi sono espulsi dalla colonia. La concezione della previdenza socio-sanitaria dello Statuto di S. Leucio s’inserisce quindi a pieno titolo nel moderno sistema di norme e istituti fondati sul diritto dei lavoratori all’assistenza, «compiuta a mezzo di fondi costituiti dai risparmi dei lavoratori stessi». A tale proposito, risultano molto interessanti anche le norme sull’orario di lavoro (tanto più perché quasi sconosciute in quest’epoca), che lo fissavano in due turni, di durata analoga a quella della luce solare, con il solo intervallo del pranzo. Assistenzialismo, economia e politica, dunque, nello Statuto s’intrecciano indissolubilmente, a partire da un’idea di pubblica assistenza, cura e prevenzione molto più ampia di quella strettamente medica, essendo inteso il benessere della persona nel suo significato complessivo, fisiologico, morale, psicologico e giuridico (come emerge anche dal nesso individuato da Ferdinando IV tra il rapido aumento degli abitanti della colonia e la bontà dell’aria, la tranquillità e la pace domestica in cui vivevano).
La modernità degli aspetti sanitari del Codice è ulteriormente confermata se comparata con le disposizioni sanitarie relative all’amministrazione del Regno di Napoli emanate nel 1808 da Gioacchino Murat (con la separazione delle istituzioni medico-ospedaliere da quelle filantropiche, la nascita di nuovi ospedali e il controllo statale dell’assistenza sanitaria), le cui disposizioni sarebbero state ampiamente recepite dalla legge del ripristinato regno borbonico del 20 ottobre 1819 «sulla pubblica salute ne’ domini di qua e di là del Faro». Non a caso, negli anni Venti, data organica e definitiva sistemazione a tutta la decretazione in materia sanitaria, la legislazione del Regno delle Due Sicilie si rivela «una delle più analitiche e dettagliate degli stati preunitari» (Botti, 1988, pp. 1222-1223). Se tale circostanza può essere attribuita all’influenza francese sulla presa di coscienza borbonica dell’importanza della salute pubblica per il buon governo del Regno (Botti, 1988, p. 1222), non si può tuttavia dimenticare che il Codice dimostri come, almeno sul piano ideologico e “laboratoriale”, i Borbone avessero impostato in chiave moderna la gestione del problema sanitario ben prima della conquista francese del Regno di Napoli. Gli aspetti innovativi in campo sanitario del Codice, d’altra parte, rientrano nelle finalità sociali insite nell’esperimento di S. Leucio e nel piano di iniziative organicamente coordinate promosse da Ferdinando IV, basate su un consolidato corpus legislativo: gli articoli richiamano infatti elementi di diritto privato, pubblico, civile e penale e, per alcuni versi, riflettono atteggiamenti culturali caratteristici della cultura del XVIII secolo (tra cui la condanna senza appello dei fannulloni e dei renitenti al lavoro). L’ispirazione giuridica del Codice coesiste inoltre con quella religiosa, subito affermata nella pagina iniziale del testo, con il richiamo all’obbligo di osservare la Legge divina dell’amore verso Dio e verso il prossimo (prima regola che Ferdinando impone ai suoi coloni: Ferdinando IV, 1789, p. 11), seguito dall’elencazione dei “Doveri negativi” (Cap. I) e dei “Doveri Positivi” (Cap. II: cfr. nota 2). Nell’ambito di questi ultimi rientrano le regole sanitarie, con preliminari e importanti richiami alle norme igieniche fondamentali per il vivere civile. Ai coloni-lavoratori, infatti, è innanzitutto ordinato «che estrema sia la nettezza, e la polizia sopra le vostre persone […]: che questa polizia sia anche esattamente osservata nelle vostre case, acciò possa godersi di quella perfetta sanità, ch’è tanto necessaria nelle persone, che vivono con l’industria delle braccia». L’osservanza della norma è oggetto di verifica e controllo quotidiano da parte dei magistrati civili (detti “Seniori del popolo”), vigilanti della colonia con funzioni di giudici di pace, i cui rapporti sono consegnati direttamente al re (Ferdinando IV, 1789, pp. 23-24 e p. 44). Se il richiamo alla scrupolosa cura della pulizia personale e delle abitazioni può oggi sembrare quasi superfluo, se ne comprenderà appieno la ragione in considerazione della sua estrema importanza non solo per il decoro personale e il rispetto della convivenza sociale, ma anche per la prevenzione delle malattie infettive ed epidemiche, a fronte dell’esistenza tra la popolazione del XVIII secolo di abitudini e convincimenti arcaici e pseudo-religiosi, spesso sostenuti dagli stessi medici, tra cui quello di lavarsi poco o di non lavarsi affatto, soprattutto in caso di malattia (Cosmacini, 1988, pp. 214-215). D’altra parte le condizioni materiali dei lavoratori del tempo erano decisamente miserrime: nei primi stabilimenti manifatturieri, tra cui quelli dei fabbricanti di seta, le testimonianze storiche sottolineano come «gli imprenditori non si preoccupassero dell’igiene del lavoro»: i procedimenti tecnici in uso, spesso pregiudizievoli alla salute degli operai, «non erano accompagnati dalle misure igieniche necessarie a prevenire le dannose esalazioni delle materie lavorate, le attive condizioni dell’ambiente di lavoro, le malattie professionali […] Del resto lo stato di fatto si rivela in tutto rispondente alla modesta cultura igienica del tempo alle scarse preoccupazioni governative per questo ordine di pubblici interessi, per la stessa igiene generale». Nel secolo successivo la situazione non era migliore. La “Statistica” del Regno di Napoli (redatta nel 1811 per volere di G. Murat) offre, per bocca del redattore canonico Francesco Perrini, ampie testimonianze delle infelici condizioni di vita della popolazione delle provincie del Regno: colpisce l’abituale uso di acqua poco pulita, l’alimentazione scadente, le condizioni igieniche disastrose (la vita quotidiana si svolgeva in case piccole, male areate, umide e fatiscenti, in promiscua coabitazione con gli animali da cortile e/o da allevamento), la diffusione della malaria (Demarco, 1988, pp. 209-254). Aggiunta alla denutrizione e alla fatica eccessiva dei lavoratori, tale situazione favoriva il proliferare dei contagi, drammaticamente diffusi in questo periodo: se a metà Settecento la peste era scomparsa dall’Europa (con l’eccezione in Italia dell’epidemia di Marsiglia del 1720 e di quella di Messina e Reggio nel 1743), «un altro flagello, il vaiolo, ha preso il suo posto nel determinare la morbosità-mortalità catastrofica della popolazione europea. Ciò vale ancor di più per la popolazione italiana, risparmiata dalla peste con alcuni decenni d’anticipo rispetto alla popolazione di altri paesi e flagellata invece dal vaiolo con grande frequenza e intensità» (Cosmacini, 1988, p. 238). Di qui il richiamo del Codice all’ordine e alla massima pulizia possibili, con particolare riguardo alla “Casa degli Infermi”, il centro di accoglienza e di cura per i malati, amministrato da specifici regolamenti interni, e anch’esso quotidianamente ispezionato dai “Seniori del Popolo”, aventi il compito di verificarne le condizioni igieniche e l’esatta e scrupolosa assistenza materiale e spirituale offerta ai malati[18]. La “Casa degli Infermi” è dunque progettata in ossequio ai principi di salubrità e disinfezione richiesti dalle sue finalità specifiche. Nel passaggio dalla cosiddetta medicina ‘al letto del malato’ (ossia a domicilio) a quella clinica ‘ospedaliera’ (secondo la definizione del Keel, 2007), nonché alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche del tempo, il Codice si allinea in tal modo alle informative mediche del Settecento, che richiedevano la creazione di ambienti spaziosi, riscaldati e ben ventilati (Scotti, 1984, citato da Garbellotti, p. 126), progettando la costruzione di questa Casa come «separata totalmente dall’altre in luogo d’aria buona, e ventilata», per la cura di tutti gli ammalati, cronici e non (Ferdinando IV, 1789, p. 47). Questo semplice progetto, pur rimasto tale, appare in tutta la sua importanza se si considera l’abituale stato di disordine, sporcizia e cattivo odore degli ospedali settecenteschi (eclatante, a riguardo, la diffusa e inumana pratica di risparmiare spazio sistemando due malati in uno stesso letto), progressivamente superato solo nel corso del XIX secolo. Ciò premesso, la funzione prioritaria assegnata dal Codice alla “Casa degli Infermi” è innanzitutto di tipo preventivo: ogni anno, infatti, nei periodi precedenti le grandi epidemie (primavera e autunno), per tutti i ragazzi e ragazze della colonia leuciana è «prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s’interponga autorità o tenerezza de’genitori» (Colletta, 1856, tomo I, p. 138), al fine di scongiurare i pericoli derivanti da una loro eventuale esposizione al contagio della terribile malattia. Il richiamo all’obbligatorietà dell’innesto del vaiolo si richiamava a un dispaccio reale che prescriveva tale pratica in tutto il Regno è uno dei principali elementi di modernità del Codice, che si inserisce in tal modo nel dibattito su una delle più accese questioni scientifiche e culturali dell’Italia del Settecento. Il metodo dell’innesto, detto «della variolizzazione, cioè della inoculazione a scopo profilattico del vaiolo umano (la cui forma più grave, o variola maior, prevale nel Settecento sulla forma più lieve, o variola minor), nasce da una pratica che circassi e cinesi, esperti del male […], attuavano da secoli in Oriente», volta a provocare una manifestazione della malattia in forma lieve, che immunizzava la persona dal contagio. Il dibattito tra fautori e oppositori dell’innesto, tuttavia, a cui presero parte anche intellettuali del calibro di Pietro Verri, non si riduceva schematicamente a una lotta tra progressisti e conservatori, essendo controversi i risultati dell’inoculazione: quest’ultima, di fatto, era priva di un sicuro metodo applicativo e, dunque, se praticata in modo erroneo, diventava rischiosa, in alcuni casi, addirittura letale.
Ciò nonostante, la pratica produceva senza dubbio più benefici che danni; nel 1756, infatti, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria (la cui stessa famiglia era stata decimata dal male), sentiti i pareri favorevoli di vari consulenti, dava l’assenso affinché venisse impiegata in Toscana, colpita da una violenta epidemia di vaiolo. Di qui il «”primato della Toscana nella battaglia per l’innesto”, sullo sfondo del temperato riformismo della Reggenza lorenese e poi del riformismo progressista del granduca Pietro Leopoldo» e ancora di qui la convinta adesione alla pratica dell’innesto da parte di Ferdinando IV di Borbone, che, dopo aver perduto due figli nel 1788 a causa del contagio, vi avrebbe sottoposto il resto della prole.
Da Libero Quotidiano, il giornale di Vittorio Feltri.
Napoli si bruciano da soli: 13 luglio 2017.
Comandano i Terroni: 11 gennaio 2019.
Virus alla conquista del Sud: 4 marzo 2020.
Ha ragione De Luca: ci vuole il lanciafiamme. Quarantena alla napoletana: tutti in strada. 3 aprile 2020.
Mattia Feltri per Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. Sono arrivato a Libero nel febbraio del 2004 per il gusto della mattana e per una vanteria di libertà: non so quanti, pochi o nessuno, avessero prima lavorato in un giornale diretto dal padre, e non per bisogno, proprio per sbruffonaggine. Venivo da otto anni al Foglio, innamorato perso del direttore Giuliano Ferrara, ero partito dalle notizie in breve, messo progressivamente alla prova, promosso inviato, gratificato con le due righe in apertura della rubrica delle lettere e cinto da altri piccoli allori del nostro piccolo, simpatico, tronfio mondo. L'amore infine fu, credo, ricambiato: ogni mio articolo era indiscusso, buono quasi per definizione e mi sentii perduto. C' era più nulla da conquistare. L' idea folle saltò fuori una sera, mentre dicevo a mio padre dell' impossibilità di andare in un altro giornale: nessuno osava portare via gente dalla truppa di Ferrara. E tu vieni da me, disse. Stai a Libero per un po', poi verranno a cercarti. Una tale stravaganza da risultare irresistibile. E poi in capo a due giorni mi telefonò Stefano Folli, allora direttore del Corriere della Sera: l' avessi saputo, t' avrei preso io. Diamoci appuntamento a fine anno, disse, e se nel frattempo qualcuno ti fa una proposta, avvertimi e ti prendo prima. Come aver vinto la lotteria di Capodanno. Intanto mi sarei tolto lo sfizio di vedere mio padre all' opera. Un conto era sentirne parlare, altro toccare con mano. Era, mio padre, l' uomo che all' Indipendente aveva rivoluzionato il giornalismo con l' intuizione sacrilega: era ora di finirla con il lei, alla politica si poteva dare del tu. I giornali, come li vedete oggi, sono figli di due rivoluzioni simultanee: quella di mio padre, da cui sono stati generati per esempio il Fatto e la Verità, e quella di Paolo Mieli alla Stampa, con le prime pagine omnibus, l' ibridazione di alto e basso, poi adottata da ogni quotidiano mainstream. Ecco, era una bella occasione per infilarsi in una delle due rivoluzioni. La terza, introdotta dal Foglio, con la sua grafica irresistibilmente punitiva, senza foto, senza sezioni, senza programmi tv, senza altro che parole scritte per un pubblico con l' ambizione di mettersi lì a farsi fumare la testa, è rimasta di nicchia, ed è il suo bello. Ferrara e mio padre facevano giornali opposti figli di opposti approcci. Giuliano imbandiva riunioni quasi esegetiche dalle cui diramazioni scaturivano i pezzi; mio padre lasciava parlare come a cercare il senso ultimo, finché gli riusciva di chiudere il cerchio e allora se ne andava soddisfatto. Il massimo dell' analisi uno, il massimo della sintesi l' altro. Ma, ecco, senza farla né lunga né professorale, doveva essere una vacanza da entomologo, e subito mi lasciai tirare sopra la giostra. Eravamo estemporanei, talvolta situazionisti, non di rado anarchici, ogni mattina era un festival, l' avvio di un' escursione senza meta, e lì dentro ci ho lasciato amici, affetti, ricordi, un pezzetto di vita utile a vedere le cose in una diversa prospettiva, a complicarmi più di un po', a capire meglio che le cose non sono mai semplici, sono sempre maledettamente contraddittorie. Quando a settembre Folli fu sollevato dalla direzione del Corriere, avrei dovuto buttarmi dalla finestra. Ne fui quasi sollevato. Volevo restare a Libero. Mi ero appassionato. Mi piaceva portare dentro una quota della mia visione laterale, della mia eterodossia, stavo cominciando a stendere un progetto per la riorganizzazione della seconda parte del giornale (cronaca, cultura, spettacoli e sport), la sera prendevamo su e andavamo a giocare a calcio, eravamo affiatati, solidali, colmi d' energia. E lì arrivò Marcello Sorgi, direttore della Stampa dove avrei trascorso i successivi quindici anni della mia vita. Se non vai ti butto fuori a calci, disse mio padre. Devi decidere che cosa vuoi fare da grande, disse Alessandro Sallusti. L' ultimo giorno - era gennaio del 2005, solo undici mesi dopo il mio arrivo - mi sono commosso. È tutto quello che ti ho lasciato, caro Libero: qualche lacrima. Ma talvolta ho avuto sorrisi insinceri, le lacrime mai.
Vittorio Feltri su Marco Travaglio: "Ha ragione il Cazzaro quotidiano, vi spiego una cosa sull'odio politico". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. Ha ragione Daniela Ranieri che ieri sul Cazzaro Quotidiano scrive un brillante articolo contro il presidente di Confindustria, Bonomi, accusandolo di una pretesa assurda: essere amato da tutti. È noto che i padroni, cioè i ricchi, sono detestati dai poveri e perfino da una parte (bassa) del ceto medio. I contrasti fra le classi non hanno una data di inizio: sono sempre avvenuti talvolta in forma cruenta. Ciononostante gli imprenditori insistono nel tentativo di essere benvoluti. Illusione. L'unico odio persistente e intramontabile è quello sociale. La gente normale osserva i comportamenti dei signori e rosica, vorrebbe essere come loro ma il reddito non glielo consente. Per cui l'attrito tra i due gruppi, lungi dall'attenuarsi, si inasprisce continuamente. Poi c'è una massa di indifferenti che pur invidiando gli abbienti è rassegnata a recitare un ruolo subalterno, subisce i padroni con santa pazienza. In politica le carte si mescolano. Non manca chi pur detestando gli industriali, ha stravotato Berlusconi nella speranza che questi irradiasse un po' del proprio benessere sul popolo. Figuriamoci. Quando la scena era dominata dalla Democrazia Cristiana parecchi commentatori erano stupiti dal fatto che un partito simile, gelatinoso e legato alla Chiesa, potesse prevalere ad ogni elezione. In realtà il fenomeno era facilmente comprensibile: l'avversario dello Scudo Crociato era il Pci, un coacervo di persone inaffidabili, legate addirittura alla Unione Sovietica, del quale era impegnativo fidarsi. Meglio i baciapile. Nel tempo l'Italia è mutata, ma non completamente. Cosicché nel 2018 abbiamo assistito al trionfo del Movimento 5 Stelle, che ottenne il 33 per cento dei consensi, diventando la prima forza nazionale, pur essendo stata fondata sulla base di uno slogan burino al massimo: vaffanculo, abbastanza misero sul piano ideologico. I grillini governano da due anni e stando ai sondaggi hanno già perso il 50 per cento dei voti probabili. Ci sarà un perché. Se è arduo amare, come osserva Daniela Ranieri, il pescecane Bonomi, lo è altrettanto stimare il ministro sotto vuoto spinto Di Maio, passato alla storia, anzi alla barzelletta, però non all'esame di grammatica, visto che litiga con i congiuntivi quanto il premier Conte, quello che dice vadino anziché vadano. Quindi è un gioco da ragazzi capire le ragioni per cui i cittadini se non hanno affetto per il confindustriale, ne hanno ancor meno per personaggi quali Gigino, Crimi, Toninelli e relativa banda di parvenu. Il Cazzaro Quotidiano fa bene a reggere la coda ai citati dilettanti, i problemi editoriali sono più importanti della logica e della politica. Ma la cara Ranieri non si stupisca se Il Sole 24 Ore arranca come ogni quotidiano. Se non c'è più trippa per gatti, non ci sono più lettori in abbondanza nemmeno per i giornali, e sono pochi anche quelli del foglio pentastellato.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2020. Il conformismo non si sviluppa in base a una idea ma a un pregiudizio. E proprio per questo si espande. Molta gente non elabora i suoi pensieri e si impossessa di quelli delle minoranze trainanti. Lo fa per non essere tagliata fuori dal consorzio umano, si intruppa onde sentirsi in buona compagnia. L'omofobia non esiste, quantomeno non è un fenomeno diffuso e allarmante, al massimo riguarda qualche cretino esaltato. Eppure è considerata una emergenza da affrontare addirittura a livello legislativo. Si vuole reprimere un sentimento inesistente. Non conosco nessuno che sia ostile ai gay, la maggior parte delle persone se ne infischia delle preferenze sessuali del prossimo, dinanzi a uno sconosciuto non si chiede se gradisce coricarsi con uomini e donne. Nonostante ciò si sta provvedendo in Parlamento a promuovere una norma che condanni coloro che affermano: meglio che un bambino abbia un papà e una mamma piuttosto che due mamme o due papà. Simile regola, se fosse approvata, di fatto vieterebbe la libertà di opinione alla faccia della Costituzione che invece la garantisce. Il conformismo più bieco domina altresì nella discussione sulla immigrazione indiscriminata che affligge l'Italia. Se tu soltanto dici che andrebbe governata e quindi limitata c'è chi ti taccia immediatamente di razzismo. Se sostieni il contrario, non mancano coloro che ti guardano male e ti giudicano quale nemico della Patria. Qualora ti venga in mente di criticare l'attuale esecutivo per un qualsiasi motivo come minimo il Fatto Quotidiano, di informazione grillina, ti accusa di fascismo, quantomeno di leghismo, sostantivo che sta assumendo i caratteri dell'insulto. Il desiderio di appiattirsi alle minoranze dispotiche che si proclamano intellettuali non è una novità di questi tempi. Quando negli anni Settanta e Ottanta la Democrazia cristiana era egemone non trovavi uno che confessasse di votarla. Era già di moda essere di sinistra e la massa faceva discorsi progressisti, diciamo pure comunisti, per non apparire fuori dalla corrente à la page. Poi alle elezioni la Dc vinceva con le mani in tasca. La stessa cosa accadde a Berlusconi. I giornali e le televisioni lo bistrattavano, poi però dalle urne il Cavaliere usciva trionfatore. Adesso non becchi un disgraziato che manifesti simpatia per Salvini o la Meloni, non sarebbe chic. Il popolo bue si accoda a Zingaretti e a Di Maio, salvo mandarli al diavolo allorché si tratti di votare. Ecco perché sono persuaso che il conformismo, prevalente nei rapporti sociali, sia perdente nei momenti decisivi. Esso è un rifugio per gli ipocriti, i timorosi, quelli che vogliono piacere alla gente che piace. Il dramma è che i cittadini si comportano ancora da sudditi, ma fino a un certo punto. Davanti alla scheda elettorale, nella solitudine del seggio, puniscono gli schiavisti del pensiero unico. Speriamo sia così in futuro. Se ci restituiranno il diritto di esprimere le nostre preferenze non mi stupirei se i compatrioti, stanchi di essere trattati da deficienti, avessero la forza di reagire, provocando un simpatico ribaltone che favorisse l'allontanamento della banda Casalino. Per quanto non mi illuda che il conformismo venga debellato. Ci sarà sempre qualcuno capace di essere un cattivo maestro.
Vittorio Feltri sull'alcolismo in Italia: "Bacco è il più grande amico e il più grande assassino". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 08 agosto 2020. Qui di seguito pubblichiamo un articolo scritto dal direttore Vittorio Feltri negli anni Ottanta sugli italiani grandi produttori di vino ma anche grandi bevitori. Gli italiani potranno forse morire di freddo o di fame, ma non moriranno mai di sete. Li salva il vino, di cui sono grandi produttori e grandissimi bevitori. E il whisky, di cui sono i maggiori importatori d'Europa. Non avremo l'umorismo sottile degli inglesi, ma siamo i più ricchi di spirito. Anche dei francesi che fino a qualche anno fa detenevano il primato mondiale del brindisi. Se i "militi" e i fiancheggiatori delle Brigate rosse - secondo le stime dei servizi segreti - sono oltre cento mila, gli acquirenti del rosso di Puglia sono almeno cinque milioni; e se la terza via al socialismo è tortuosa, la via del bianco è più praticata della Roma-Ostia. Le statistiche più aggiornate, elaborate dal professor Cancrini dell'università di Roma, sono - è il caso di dirlo - da capogiro: 600 mila alcolizzati. Bevono e respirano, non fanno altro. Nelle retroguardie dell'etilismo c'è poi un esercito di candidati alla fase acuta: tre milioni e mezzo di bevitori abituali e destinati a uscire presto dalla trincea delle bottiglie per passare alle ampolle dell'ipodermoclisi. Dovranno battersi contro la cirrosi epatica che avanza a vele spiegate su un mare di alcol: dal 1960 a oggi è aumentata del 140 per cento: 50 decessi all'anno per ogni centomila abitanti. Dal 1958 al 1978 i ricoveri in manicomio sono cresciuti del 310 per cento fra le donne, del 299 fra gli uomini da 30 a 49 anni. E i ricoveri in ospedale, mediamente, del 130 per cento. E poi dicono della droga. Ma per la maggior parte degli italiani l'eroina rimane la moglie di Garibaldi, e la ricerca dei paradisi artificiali non si svolge tanto nella siringa quanto nel fondo della bottiglia. Si muore più di mezzolitro che di cucchiaino, i bicchierini di troppo uccidono mille volte di più che l'eroina. La dose può ammazzare sul colpo, il fiasco toglie la vita a piccoli sorsi. Il calvario dell'alcolista di solito è molto lungo, venti o trent' anni di singhiozzo prima di esalare l'ultima zaffata. Venti o trent' anni vissuti nell'ansia e contro l'ansia: gli alcolisti bevono per farsela passare, ma l'effetto tranquillante dello spirito dura poco e in misura diversamente proporzionale al grado di alcolismo. È come una tortura: giù vino e su sete. Eppure tutti parlano con angoscia del problema droga, ma nessuno o pochi si preoccupano della sbronza. Mentre sociologi, psicologi, medici e ministri alzano gli scudi contro il pericolo del "buco", milioni di italiani alzano il gomito convinti che non faccia male. Anzi, sono incoraggiati a tracannare sempre di più da una serie di luoghi comuni sulle presunte qualità terapeutiche del sorso. E dalla pubblicità addirittura ossessiva.
L'ATMOSFERA. L'amaro che ci trasforma in Superman, l'aperitivo che ci salva dai guai della giornata, il liquorino che dilata le coronarie, l'atmosfera, e giù con le immagini suggestionanti: distinto quarantenne brizzolato che porge una coppetta di un certo liquore a bellissima bionda; sorriso condiscendente di lei che gli accarezza la mano e lo conduce verso la terrazza; una folata di vento che gonfia le tende e, sullo sfondo blu di un mare spumeggiante, la coppia s' abbandona in un lungo abbraccio. Ovviamente, è sottinteso che se il quarantenne brizzolato ce l'ha fatta, il merito è del liquore. E siccome l'istinto imitativo è forte in tutti, i più deboli non appena avranno per le mani una bionda, magari anche bruttina, crederanno che senza cicchetto lei non ci sta. Si comincia così: il primo sorso per vincere l'insicurezza, il secondo per brindare al successo, il terzo per affrontare il capufficio e via di seguito di tappo in tappo finché il pretesto per bere si presenta ogni momento della giornata. Il bicchierino diventa indispensabile anche per prendere l'ascensore. Qualcuno obietta che la pubblicità non ha alcuna responsabilità in quanto se uno è così indifeso da lasciarsi influenzare da un carosello, sarà stupido da ubriaco quanto da sobrio. Ma certi schematismi sono inapplicabili quando si tratta di valutare i fenomeni di massa: anche blu jeans attillati pare che rendano impotenti e frigide, eppure li indossano interi popoli. Tutti cretini non saranno.
DOLORE DEL VIVERE. la gente beve da sempre, dicono altri. Il vino è civiltà. Sarà, ma un conto è considerarlo un alimento, sia pure stimolante e particolarmente gradevole; un altro è tracannarlo come analgesico del dolore di vivere. Anche i contadini dell'Albero degli zoccoli non disdegnavano il fiasco, ma compariva sul tavolo come il più simpatico dei convitati; raramente sostituiva l'amico o la moglie. Oggi invece, nella società delle tecnologie avanzate, uomini e donne ingoiano alcol senza sorridere: come accade frequentemente di vedere gente in auto che parla da sola a un semaforo rosso, così è facile incontrare al bar persone che si fanno un doppio whisky di fretta, un occhio all'orologio, un altro bicchiere. Già nel 1964, in Italia il consumo pro capite di alcol puro all'anno era di 15 litri; ma questa pur allarmante quantità, in 15 anni si è quasi raddoppiata nonostante gli addetti dell'agricoltura, nel frattempo, si siano dimezzati. È la prova che l'etilismo non è una malattia da zappa. Anzi, è più diffuso al Nord che al Sud: in Lombardia c'è un alcolista su 100 abitanti; in Sicilia e in Calabria, 1 su mille. Il bere si è nevrotizzato, come il fumare: è un gesto ripetitivo, monomaniacale, un rito estenuante e schiavizzante. Agli inizi degli Anni Trenta, 98 bevitori su 100 erano ultra cinquantenni; solo lo 0.01 per cento era costituito da donne. Adesso, pur nell'approssimazione di statistiche elaborate da singoli studiosi (non esiste in Italia una vera e propria scuola che approfondisca il problema) sembra che almeno la metà degli etilisti sia composta da persone da 20 a 49 anni; un quinto solo donne. Come si spiega il fenomeno? Secondo gli esperti, nelle campagne del Meridione accade ciò che accadeva nel Settentrione fino a mezzo secolo fa: si beve soltanto di domenica e per stare in compagnia, per carburare il buon umore. Se a Guardialfiera uno si sbronza ogni sera, ci mette 15 giorni a diventare lo scemo del villaggio; come spazio vitale gli resta l'osteria, e forse neanche quella. Ma a Milano, Roma o Torino chi ha voglia e tempo di contare le ciucche del vicino? Purché uno lavori ha diritto di buttarsi nello stomaco ciò che vuole. La tentazione è dietro l'angolo: alla mensa, al bar aziendale, al ristorante, nel mobiletto-bar ricavato da un mappamondo e collocato al centro del soggiorno. E poi la solitudine, l'insoddisfazione, le frustrazioni. Molti ragazzi si bucano perché la cultura del loro ambiente, in fondo, non respinge la droga, e lasciano stare il bicchiere. Ma la persona matura, consapevole dei rischi e della scomodità dell'eroina, compresi l'alto costo e la difficoltà di procurarsela, preferisce l'amaro, che fra l'altro è inodore. L'effetto inebriante è quasi identico, maggiore è la sopportabilità, più lungo il processo di intossicazione e di assuefazione e, per giunta, nessuno si sogna di guardare male il collega sorpreso al bar col digestivo in mano. Inoltre l'eroina comporta obiettive difficoltà d'uso: toilette, siringa, laccio e spacciatore. Un gran daffare. Per bere bastano 1000 lire, c'è un bar ogni 100 metri. Né mancano le opportunità: chiunque può invitare gente a casa sua per assaggiare, dopo una giornata di lavoro, la tale annata di rosso. Sarebbe indubbiamente più imbarazzante dire al proprio direttore: «Senta, l'aspetto stasera, per lei ho deciso di tirare fuori quella canapa che mi ha portato mio cugino dall'Afghanistan». Davanti a un ragazzo morto di eroina sul marciapiedi della stazione, tutti provano pena e orrore; se un ubriaco smarrisce la strada o non riesce a infilare la chiave nella toppa, al massimo ti viene da ridere. C'è gente che trema se inciampa in una siringa gettata via dal tossicomane; una bottiglia fa paura solamente se è piena di benzina. È questione di abitudine. Da bambini ci dicevano, dai un sorso, non vedi come sei pallido. Il vino ci faceva schifo, ma ci costringevano a berlo. Da adolescenti ci invitavano a ballare e dietro le bottigliette di Coca Cola c'era il brandy; il più bullo della compagnia se ne faceva un goccio tra un'Esportazione e un'altra, e finivi per provarlo anche tu. Dava il mal di testa, ma insistevi. Da militare o bevevi o ti rassegnavi agli sfottò. Alcol dappertutto. È naturale che il vino non sia tabù, l'approccio non è traumatico. Se poi il palato è fine e si sanno apprezzare i sapori, bere è un piacere innocuo. Ma è questione di quantità, di misura, di motivazioni. Anche l'alcolista più scatenato ha cominciato per scherzo e nella convinzione di poter smettere quando gli pareva. Probabilmente all'inizio non era il vino che gli piaceva ma Ornella Muti, in mancanza della quale provò a rifarsi con il bianchino d'annata. Al collo della bottiglia avrebbe preferito la mano della ragazza, ma il vino è buon succedaneo, una trappola tremenda che prende soprattutto quelli che temono la realtà e tentano di fuggire. Più sono disperati e più tirano. E più restano invischiati. Nessuno li aiuta: tranne il manicomio, non c'è luogo di cura. Se mancano le strutture per il recupero del drogato, per l'alcolista giunto all'abbruttimento non c'è neanche pietà. Solo derisione e ribrezzo.
LE SCELTE. In molti casi chi beve è alla ricerca di un affetto, e finisce abbracciato a un lampione. Inutile dire tanto a me non può succedere: chiunque può cadere, le difese che pure ciascuno di noi ha non sono mai sufficienti a scongiurare il pericolo. Può bastare un periodo nero, un insuccesso, un lutto, un momento di solitudine e di disperazione: le bottiglie sono come le ciliegie, una tira l'altra. Non ci protegge nemmeno la legge, gli alcolici sono in vendita ovunque e senza limitazioni, dal supermercato alla salumeria, persino in farmacia. Se crolla la volontà, se vacilla il senso etico sono guai seri. Ventimila italiani all'anno muoiono così, per i danni diretti o indiretti dell'alcol. Quattromila sono donne che, fra l'altro, bevono male: amari, anisette, mandarino e cedro, vermouth. E con rabbia: perché il marito sta troppo fuori casa, perché i figli sono cresciuti e non hanno più bisogno di loro, perché non trovano un lavoro e se lo hanno trovato è stata una delusione. E perché al sesto piano di un condominio di Cinisello, una donna di 45 anni o parla con la radio di quartiere o, per non buttarsi giù, si attacca alla bottiglia. A saperlo prendere, Bacco è un buon amico. Altrimenti è un assassino.
Vittorio feltri per "Libero Quotidiano" il 7 agosto 2020. Ogni paese ha le proprie abitudini alimentari da cui difficilmente si libera. A Bergamo, dove io sono nato e ho trascorso la giovinezza, la domenica si sentiva un forte odore di arrosto. Nelle case si preparava un piatto tradizionale, il coniglio fritto. Non l'ho mai mangiato perché amavo i coniglietti che mio nonno allevava nel suo cortile. Ma questo è un dettaglio personale insignificante. Uccidere gli animali per nutrirsene è comunemente considerata una pratica consolidata e per nulla condannabile, sebbene sia accompagnata da crudeltà orribili. Molti sono golosi di aragoste, esse nei ristoranti sono esposte vive in bella evidenza. Il cliente ne sceglie una e il cuoco la sbatte in un pentolone di acqua bollente e chi inghiotte il povero crostaceo si lecca le dita e sborsa una discreta cifra per pagare la cosiddetta leccornia. Disgustoso, certamente. Non c'è niente come la consuetudine che annulla qualsiasi tipo di sensibilità. Pertanto non mi stupisco che un branco di migranti a Lampedusa sia entrato in una masseria e abbia rubato galline e capre onde trasformarle in lauto pasto. Bisogna condannare il furto, reato grave, però non l'uso alimentare che è stato fatto della refurtiva. La proprietaria della fattoria giustamente ha denunciato i ladri e attende fiduciosa che questi siano sanzionati. Ci mancherebbe. Ma la vicenda non finisce qui. I grassatori in questione, oltre alle bestie citate, hanno stecchito e arrostito perfino il cane della derubata. Già. Il cane. Questo per noi occidentali, italiani in particolare, è ripugnante. Mica siamo cinesi. E il fatto che certi clandestini giunti di sfroso nella penisola ci sottraggano il gatto (è successo un paio di settimane orsono) e lo arrostiscano per strada, e ora si impossessino addirittura del cucciolo di una signora al fine di metterlo in padella non lo tolleriamo. E ci ribelliamo e invochiamo severe pene per coloro che, infischiandosene dei nostri costumi (non del tutto) civili, accoppano bestiole di affezione allo scopo di divorarle. Chi viene abusivamente da queste parti sarebbe almeno obbligato a rispettare il nostro modo di vivere, viceversa ci sbranano il micio e il botolo. Ciò è intollerabile. Non comprendiamo vari compatrioti i quali non solo incoraggiano l'arrivo dei barbari, ma ne auspicano una urgente integrazione. Come faranno a integrarsi individui dediti al furto e allo sbranamento dei nostri animali a cui vogliamo bene quali figli, talvolta di più? L'unica speranza di salvezza è che Salvini torni a menare il torrone e tenga lontana da noi l'orda dei selvaggi imperversanti e incontenibili. Invece che processare il capo della Lega lo isserei di imperio a Palazzo Chigi al posto del foggiano amico di Casalino. Mentre a coloro che non bloccano l'invasione dei neri e similari direi semplicemente che ci hanno rotto le scatole e gradiremmo si accomodassero in Africa a nutrirsi di lucertole, insetti e a dormire nelle capanne acconce alla loro attitudine umana. riproduzione riservata.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 6 agosto 2020. Purtroppo nel nostro Paese non siamo ancora riusciti a conquistare l'immunità di gregge e il virus maledetto ci colpisce tuttora anche se molto di meno rispetto a un recente passato. Però possiamo consolarci: dilaga l'imbecillità di gregge, praticamente è inarrestabile. Ieri il Fatto Quotidiano ha pubblicato due pagine dedicate alla legge in corso di approvazione in Parlamento relativa alla omofobia. Tutto interessante fin dal titolo. Questo: Gay? No, froci. La destra contro il ddl Zan. In effetti gli omosessuali hanno ragione di pretendere di essere chiamati gay, però al di là della definizione rimangono froci e tra di loro si appellano proprio così. E chissenefrega delle parole. I fatti dicono che parecchi maschi preferiscono coricarsi con altri maschi anziché con donne come previsto dalla natura. Non è il caso di scandalizzarsi se uno gradisce l'ano più della vulva, che sarà mai? Tuttavia è assurdo pretendere che la realtà non possa essere descritta con parole popolari italiane e si debba ricorrere ad anglicismi. Lo stesso problema si pone allorché si discuta di sessismo, di cui sono prevalentemente accusati gli uomini che, viceversa, ne sono vittime. In effetti quale è l'insulto più diffuso dalle nostre parti? Testa di cazzo. Una espressione spesso in bocca pure alle signore. Nessuna delle quali ha detto: testa di figa. Anzi, questo sostantivo, sebbene aggettivizzato, ormai è un complimento. Per dire che una cosa è bella si afferma che è una figata. Invece per sostenere che è brutta si afferma che è una cazzata. Non solo. Un bel ragazzo viene gratificato con questa carineria linguistica: è un figo. Quindi ha vinto l'organo femminile su quello maschile, che è dispregiativo. È la dimostrazione che i conformisti del politicamente corretto sono affetti da imbecillità di gregge, non analizzano le questioni lessicali ma le trasformano in pretesti per polemizzare con chi rispetta il dizionario nella convinzione che addolcire le espressioni verbali per apparire più chic sia una idiozia. Perfino il vernacolo più colorito è più digeribile, perché più spontaneo, delle frasi di cui si è appropriata la imbecillità di gregge. Chiudo con un altro esempio. Quando una persona, di entrambi i sessi, è stanca di vivere una situazione sbotta: ne ho pieni i coglioni. Roba maschile. Mai sentito una fanciulla dire: ne ho piene le ovaie. E allora dove è il sessismo? Il popolo vince sempre sul piano della conversazione, poiché il linguaggio corrente viene dal basso e non dall'alto degli imbecilli. Il posteriore si può definire culo, come quello del bicchiere, oppure sedere, ciononostante culo rimane.
Vittorio Feltri sul Meridione: "Cosa amo, cosa non funziona e perché dovrò sempre difendermi dai cretini". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Caro Daniele, intanto complimenti: scrive in modo delizioso e compie osservazioni sensate per cui si rassegni a esser criticato, persino insultato. Ormai nel nostro Paese chi fotografa la realtà con un linguaggio opportuno, che non è mai politicamente corretto, passa per essere razzista o almeno antimeridionale. I meridionalisti di una volta, ne cito due su tutti, Gaetano Salvemini e Corrado Alvaro, la pensavano già come lei, persona intelligente e sensibile. La povertà oramai è diventata una vocazione in alcune regioni, viene difesa e vantata come fosse motivo di orgoglio. In una circostanza in tivù ho affermato che i cittadini del Sud in alcuni casi non soffrono di un complesso di inferiorità, bensì sono inferiori. Il mio non era un discorso antropologico, ma si riferiva al peso economico, organizzativo e sociale. Un territorio che esprime addirittura quattro mafie, siciliana, calabrese, napoletana e pugliese, deve essere indotto a modificarsi: cambiare abitudini, dedicarsi alla produzione di ricchezza, migliorare le condizioni ambientali. Per realizzare tale programma servono infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo, da cui dipende poi la qualità della vita. Il Meridione dispone di notevoli cervelli, copiose eccellenze e molte potenziali risorse. Tuttavia, se la politica sia locale che nazionale non è capace di sfruttare i propri beni, non possiamo applaudirla. L'inferiorità del Sud rispetto al Nord si misura attraverso il reddito pro-capite: in Lombardia 36 mila euro, in Campania 19 mila. Una differenza abissale che pone in risalto l'inadeguatezza della classe dirigente ad affrontare e risolvere i problemi che affliggono i meridionali. Naturalmente le mie frasi di senso comune hanno irritato la maggioranza dei suoi conterranei, i quali mi hanno ricoperto di improperi, convinti che il mio intento fosse quello di offenderli e non quello di stimolarli a reagire. Io sono innamorato del Molise dove ho vissuto a lungo, ne conosco la popolazione sannita, e a Guardialfiera, dove da ragazzo mi recavo, ho fatto di recente una donazione finalizzata a restaurare la campana più antica del pianeta. Ovviamente ho ricevuto affettuosi ringraziamenti dagli amici, però hanno prevalso i rimproveri di altra gente per via delle mie dichiarazioni sulla arretratezza del Mezzogiorno. Così va il mondo. Stimato Daniele, finché varranno di più le parole (male interpretate) dei fatti, lei ed io dovremo sempre proteggerci dai cretini, una maggioranza schiacciante. Le do un consiglio: venga a Milano, che digerisce tutti, perfino me. Un'ultima annotazione che vuole essere spiritosa. Spesso napoletani e calabresi mi dicono che loro, comunque, hanno tante bellezze naturali, tra cui il mare. Vero. Ma mica le hanno fatte loro. Gliele ha regalate il Padreterno, forse dispiaciuto poiché non se le godono né le adoperano come dovrebbero.
Vittorio Feltri contro la legge sull'omofobia: "Condannato perché non la penso come Casalino?" Libero Quotidiano il 27 luglio 2020. Il nostro grande Antonio Socci ha disquisito ieri magistralmente sul tema riguardante l'omofobia, dimostrando con argomenti di ferro quanto sia assurdo e antiliberale approvare una legge che vieti ai cittadini italiani di esprimere opinioni non in linea con quelle di moda, cioè favorevoli a non distinguere il genere delle persone. Non ho molto da aggiungere ai ragionamenti inoppugnabili del nostro valente giornalista, cattolico anticonformista e colto. Però una piccola chiosa ce l'ho sulla punta della lingua. Non riesco a capire per quale arcano motivo un individuo non possa esternare idee omofobe. Intendiamoci, io non nutro avversione nei confronti degli omosessuali. Quando incontro qualcuno non mi chiedo quali siano le sue preferenze tra le lenzuola, delle quali - perdonate la franchezza - non mi importa nulla. Cosa volete che me ne freghi se Francesco ama Mario anziché Maria o se Maria predilige Giovanna anziché Filippo. Tra l'altro non posso disprezzare le lesbiche che hanno i miei stessi gusti. Che senso ha discettare su quello che avviene nel talamo? Sono affari privatissimi, che hanno in comune la politica e il codice penale con le nostre abitudini in camera da letto? Per favore, il Parlamento si occupi del Paese piuttosto che delle pratiche ininfluenti dei paesani. Poi scusate. A me gli alpini sono simpatici, li stimo addirittura, mentre a mio cugino stanno ferocemente sulla scatole e lo sbandiera ai quattro venti. Nessuno si è mai sognato di sottoporlo a procedimento penale. A mio fratello sono antipatici coloro che hanno i capelli rossi e non lo nasconde. Mai nessuno lo ha perseguito. Io detesto l'Ordine dei giornalisti e in genere i giornalisti. È proibito questo mio nobile sentimento? Spero di no. Ciascuno ha i propri orientamenti e non è opportuno impedirgli di rivelarli. Se qualcuno ha in uggia i gay perché mai bisogna punirlo se lo dice? Infine, sarò padrone di affermare che la famiglia più idonea ad allevare un figlio è costituita da un uomo e una donna e non da due signore? Per quale ragione la magistratura deve ficcare il naso nei casi miei, e condannarmi poiché ho una visione che non aderisce a quella di Casalino? Smettiamola con queste bischerate liberticide. Fateci campare come ci piace.
Vittorio Feltri e "l'incontestabile verità" che la sinistra non vuole far dire: "Proteggiamo l'islam, addio pace". Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 19 luglio 2020. Non sopporto l'islamismo, religione che ritengo insensata, mentre sopporto il cristianesimo perché ha favorito il diffondersi di una cultura civile, a lungo termine. Quando i cattolici arrostivano gli eretici facevano schifo. Adesso fanno schifo i musulmani con la loro passione per le decapitazioni, gli attentati, l'odio per gli occidentali a cui poi chiedono ospitalità. Ma ciò che più stupisce è che noi europei, nonostante tutto, tolleriamo questa gente imbevuta di una fede che la porta a commettere stragi, a incendiare le cattedrali, ad ammazzare chi rispetta il crocefisso. Non solo la tolleriamo, la proteggiamo. In un recente passato sono stato processato e censurato dall'Ordine dei giornalisti per un articolo scritto su Libero in cui deploravo il comportamento e la mentalità di certi seguaci di Allah dediti a umiliare e vessare le donne, senza contare le loro violenze che hanno insanguinato mezza Europa. Incredibile. Mi hanno punito per aver espresso una opinione dai contenuti incontestabili. Significa che gli islamici hanno intimidito anche la libera stampa, piegandola a una ideologia tanto sgangherata quanto potente. Io, cronista da mezzo secolo, non sono autorizzato a criticare persone che trattano le femmine quali schiave, che occupano le nostre città pretendendo di imporre ai locali i propri costumi privi di umanità. Un tribunale speciale costituito da professionisti dell'informazione mi ha sanzionato per aver esposto la mia libera opinione sul modo vergognoso di agire di uomini che suppongono ingenuamente di essere attesi in paradiso da 77 vergini e che si fanno esplodere nella speranza di accelerare i tempi per abbracciarle. Scusate, cari lettori, vi sembra normale che un redattore non possa mettere in ridicolo ciò che tale è? E venga bastonato soltanto perché afferma una verità inconfutabile? Nella mia lunga vita nelle redazioni ne ho viste di ogni colore e ormai non mi stupisco più di niente, però mi domando come mai trionfi sempre di più la stupidità di chi invece dovrebbe difendere la categoria chiamata a raccontare la realtà. La stampa è governata da personaggi quasi tutti di sinistra i quali interpretano il nostro mestiere come riguardasse l'igiene dei loro cessi lordati dal politicamente corretto, parente stretto del soffocamento del pensiero individuale la cui espressione è garantita dall'articolo 21 della Costituzione. Addirittura questi sacerdoti ostili all'anticonformismo si sono inventati un codice deontologico arbitrario e oscurantista che vieta di usare il linguaggio del popolo, ignorando che la parola appunto popolare è l'unica forma di democrazia genuina. Noi reclamiamo il diritto di dire ai musulmani che rifiutiamo la loro maniera di vivere contraria alla nostra cultura.
Vittorio Feltri, addio all'Ordine dei Giornalisti: "Sono nauseato, processato per titoli che non piacciono alla Corporazione". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. Addio all'Ordine dei Giornalisti, Vittorio Feltri si dimette dalla categoria professionale dopo 50 anni di "militanza". Una decisione in polemica con l'Odg stesso, scelta che il direttore di Libero commenta con la AdnKronos. Carlo Verna, il presidente dell'Ordine, ha detto che valuteranno la richiesta di dimissioni. "Ma ci mancherebbe altro, mica è una prigione? Io me e vado dove cavolo mi pare, anche a casa. Il direttore editoriale posso continuare a farlo lo stesso perché lo può fare chiunque, anche un geometra. Mi sono stancato, mi massacrano, mi stufano, mi fanno perdere tempo e devo pagare gli avvocati. Ma andassero a quel paese... non ce la faccio più, basta, fine, non cambierò idea, non torno indietro", ha sbottato il direttore. Dunque, Feltri ha spiegato un poco più nel dettaglio le sue motivazioni: "'Mi rifiuto di essere processato per certe mie espressioni che non vanno a genio alla Corporazione che non mi pare sia abilitata a fare processi di questo tipo - rimarca -. Vengo processato anche per dei titoli ma si dà il caso che io sia il direttore editoriale e che ci sia un direttore responsabile quindi questi qui non sanno neanche che il direttore editoriale non risponde dei contenuti del giornale". E ancora, aggiunge: "Mi processi per un reato che non posso commettere? Io posso proporre un titolo ma non lo posso imporre. Sono nauseato e adesso ho anche intenzione di querelare tutti quelli che mi hanno ingiustamente tentato di perseguirmi perché non possono attribuire al direttore editoriale compiti che non sono suoi, basterebbe leggere il mio contratto", conclude Vittorio Feltri.
Vittorio Feltri dà l'addio all'Odg: "Nauseato dai processi". Il direttore editoriale di Libero conferma l'addio preannunciato dal direttore del Giornale, Alessandro Salluti, oggi sul Giornale: "Io vado dove mi pare". Alberto Giorgi, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Vittorio Feltri si è dimesso dall'Ordine dei giornalisti. A darne notizia ci ha pensato il suo collega Alessandro Sallusti, direttore de ilGiornale, con un editoriale sul quotidiano oggi in edicola. Il direttore responsabile di Libero saluta e se ne va, dopo cinquant'anni di carriera. Un addio in polemica con l'Odg della Lombardia. Il presidente dell'organo, Carlo Verna, ha così commentato all'Adnkronos la notizia delle dimissioni di Feltri: "Sto presiedendo il Consiglio Nazionale in corso e tra poco parlerò proprio di questa vicenda. Comunque la lettera di dimissioni di Feltri è stata effettivamente depositata al consiglio della Lombardia, ma il Consiglio deve riunirsi per accettarle e cancellarlo". Il diretto interessato, sempre all'Adnkronos, ha replicato alle parole di Verna: "Dice che valuteranno la mia richiesta di dimissioni dall'Odg? Ma ci mancherebbe altro, mica è una prigione. Io me e vado dove cavolo mi pare, anche a casa". La scelta di dare le dimissioni non cambierà il lavoro di Feltri, che dice: "Il direttore editoriale posso continuare a farlo lo stesso perché lo può fare chiunque anche un geometra. Mi sono stancato, mi massacrano, mi stufano, mi fanno perdere tempo e devo pagare gli avvocati. Ma andassero a quel paese...non ce la faccio più, basta, fine, non cambierò idea, non torno indietro". Feltri dice basta per le sanzioni disciplinari e i processi subiti. A tal proposito, il direttore Sallusti sulle colonne del Giornale ha scritto: "Immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l'Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione". "Mi rifiuto di essere processato per certe mie espressioni che non vanno a genio alla Corporazione che non mi pare sia abilitata a fare processi di questo tipo. Vengo processato anche per dei titoli ma si dà il caso che io sia il direttore editoriale e che ci sia un direttore responsabile quindi questi qui non sanno neanche che il direttore editoriale non risponde dei contenuti del giornale", affonda il colpo Vittorio Feltri, che in ultima battuta ha voluto ringraziare Alessandro Sallusti: "Ho letto il suo editoriale che mi è sembrato impeccabile anzi lo ringrazio per la sua presa di posizione in mia difesa".
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2020. Il dado è tratto. Mi sono dimesso dal Disordine dei giornalisti, perché lo ritengo indegno di avermi tra i suoi iscritti. Esso mi ha perseguitato per anni avvolgendomi in una nuvola di fumus persecutionis. Mi ha accusato perfino di aver composto titoli sgraditi ignorando, per sottolineare la sua cultura giornalistica, che il direttore editoriale, quale io sono, fa un altro mestiere e non è perseguibile per i contenuti di un quotidiano, esistendo un direttore responsabile cui per contratto e per legge spetta il controllo di ciò che viene stampato. Questo per dirvi a quale livello sono coloro chiamati a giudicare la correttezza dell'operato dei colleghi. Ciò precisato, me ne vado lo stesso da questa consorteria di gente sconosciuta al pubblico e che nonostante ciò si arroga il diritto di promuovere e bocciare, soprattutto bocciare i cronisti in base alle loro preferenze politiche. Il Consiglio disciplinare dell'Ordine infatti esamina il linguaggio degli articoli e se lo ritiene politicamente scorretto, ovvero non di suo gusto, procede e condanna. L'ente inutile e dannoso si è dato un codice deontologico che si propone di fare la guerra al vocabolario e anche ai concetti che non coincidono con il conformismo progressista dilagante. Io rifiuto questo stile becero e fascista o, meglio, comunista e me ne vado per i fatti miei, non voglio più avere che fare con un tribunale speciale pronto a colpire gli eretici. La mia scelta non mi impedirà di esprimere opinioni da libero cittadino e di esercitare le funzioni di direttore editoriale. Non vedevo l'ora di uscire dalla mefitica prigione in cui ero recluso da 51 anni. Da notare: lo scorso anno l'Ordine mi assegnò la medaglia d'oro per aver dato lustro alla professione, intanto però dava inizio alla recrudescenza della mia persecuzione, peraltro in atto da tempo. Non ho mai ritirato tale benemerenza. Alcuni lustri orsono mi chiamò dicendomi che non potevo assumere il ruolo di presidente degli ippodromi milanesi. Riteneva ci fosse un conflitto di interessi. Feci notare: Indro Montanelli era stato in consiglio di amministrazione della Fiorentina calcio e Enzo Biagi in quello del Bologna. Fui assolto. Poi mi incolparono per la pubblicità di cui ero testimonial per una casa di moda. Documentai che il mio compenso era stato devoluto in beneficienza. Altra assoluzione. Poi il caso Boffo. Fui sospeso ingiustamente per tre mesi. Si dà un caso: Boffo è scomparso mentre io sono ancora qui a litigare coi miei censori. Vi risparmio altri episodi grotteschi. Cito un titolo di Libero: Vieni avanti Gretina. Altro procedimento contro di me benché, ripeto, la pubblicazione del "delitto" sia dipesa non da me bensì dal direttore responsabile. Ovvio, a questo punto preferisco abbandonare questa gabbia di incompetenti. Alla mia età, 77 anni, si sopporta tutto tranne le persone moleste che mi prefiggo di denunciare non appena la vicenda si sarà conclusa. Per me non cambia nulla. Rimango direttore editoriale e consigliere di amministrazione, i miei articoli di cittadino con l'esigenza di esprimere le proprie opinioni, se saranno accettati dal direttore, usciranno. Viva l'Atalanta, abbasso l'Ordine.
Da liberoquotidiano.it il 29 giugno 2020. “Invece di dare lezioni a me, leggi oggi sul Corriere della Sera la rubrica del prof. Aldo Grasso così ti ricorderai di essere un giornalista di serie C”. Vittorio Feltri torna sulla polemica con Carlo Verna, il presidente dell’Ordine dei giornalisti che proprio non riesce a superare l’amarezza per non aver potuto “rieducare” il direttore editoriale di Libero. “Avrei preferito riaccompagnarlo sulla strada giusta”, ha dichiarato Verna in merito alle dimissioni che Feltri ha presentato all’Ordine. C’è chi ha esultato a questa notizia, come Ottavio Lucarelli che da capo delle firme della Campania è arrivato a parlare addirittura di vittoria di Napoli e del Sud. Aldo Grasso è intervenuto sulla vicenda ponendo la domanda più pertinente: esiste una strada giusta nel giornalismo? “Verna lo ricordo come voce di Tutto il calcio minuto per minuto e come conduttore di C Siamo, programma dedicato alla serie C di calcio. Ora, in tutta onestà, non è che parlando di serie C - è il commento di Grasso - uno si debba per forza pavoneggiare di deontologia a schiena dritta, di affettazioni di indipendenza, della libertà di dirsi al di sopra delle parti”.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 giugno 2020. Alla ricerca della strada giusta. Per trovare la strada giusta ho «sfogliato» a lungo Rai Play, sicuro di trovarla. Spiego il perché. Di fronte alle dimissioni di Vittorio Feltri dall’Ordine dei giornalisti, il presidente nazionale dell’Ordine, Carlo Verna ha dichiarato: «Avrei preferito riaccompagnarlo sulla strada giusta». Esiste una strada giusta nel giornalismo? Verna lo ricordo come voce di «Tutto il calcio minuto per minuto» (l’età dell’oro era finita da un pezzo) e come conduttore di «C Siamo», programma dedicato alla serie C di calcio. Ora, in tutta onestà, non è che parlando di serie C uno si debba per forza pavoneggiare di deontologia a schiena dritta, di affettazioni di indipendenza, della libertà di dirsi al di sopra delle parti. Più che altro bisogna fare ascolti, altrimenti si chiude. Già in una radiocronaca sportiva del Servizio pubblico (che da sempre è il bottino di chi vince le elezioni) è difficile trovare la strada giusta, figuriamoci nel vasto mare della stampa e delle tv. Come ha scritto Giuliano Ferrara, «i giornalisti sono dipendenti, la loro indipendenza è un tratto del carattere, se c’è c’è e se non c’è non c’è, ma non è un distintivo professionale o una bandiera editoriale da sventolare con pallido orgoglio e torvaggine virtuosa». Nella ricerca su Rai Play ho però trovato una lunga intervista che Carlo Verna ha concesso al giornalista Gigi Marzullo (nessuno provi a chiedersi come Marzullo è entrato in Rai!). Ecco, quell’intervista la proporrei come libro di testo in tutte le scuole di giornalismo, compresa l’interpretazione dei sogni in chiusura di puntata. A un certo punto, dopo non poche concessioni alla vanità personale, Verna sostiene che «il giornalismo è un bene comune» e che i giornalisti sono come postini: «Recapitiamo il pacco della conoscenza». Purché la conoscenza non sia, come dicono a Napoli, un pacco, doppio pacco e contropaccotto. O è quella la strada giusta?
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 29 giugno 2020. Anche io purtroppo sono stato di sinistra, pertanto conosco bene i polli del recinto progressista, i cui frequentatori con gli anni sono peggiorati per vari e ovvi motivi. Essi un tempo difendevano, almeno a parole, la classe operaia che tuttavia non è mai andata in paradiso. In Italia i compagni, dalla fine degli anni Sessanta all'inizio degli Ottanta, in gran numero ne hanno combinate di cotte e di crude, ricorrendo alla violenza nelle università e nelle piazze nonché alle armi per punire i fascisti e i borghesi, dei quali dicevano: «Non dureranno che pochi mesi». Poi è caduto il muro di Berlino e i rossi si sono sbiaditi, hanno perso il colore purpureo però hanno mantenuto il vizio di sentirsi i migliori fichi del bigoncio politico, i più colti, i più sensibili, gli unici degni non soltanto in Italia di guidare le pratiche democratiche. In realtà sono dei poveracci, poco istruiti come, per esempio, Nicola Zingaretti, capo del Pd, figuriamoci i suoi sodali. Pur di stare in piedi, le brigate rosa, abbandonata la P38 e l'abitudine di organizzare picchetti davanti alle fabbriche in sciopero, si sono inventati il politicamente corretto, consistente nella guerra al vocabolario della lingua di Dante, nella difesa dei clandestini, nell'appoggio insensato al femminismo ormai anacronistico, nella lotta al sessismo, nella promozione dell'omosessualità. Tutta roba ottima da trattare nei salotti delle sciure milanesi, ma altresì in grado di alimentare in forma grottesca il perbenismo già abbastanza dilagante. Ormai è diventato difficile perfino parlare. Se non tessi l'elogio di Greta bensì osi criticarla in quanto non possiede alcuna preparazione scientifica e fa affermazioni fuori da ogni logica, se non manifesti simpatia per le Sardine, se non applaudi al passaggio del corteo inscenato dagli organizzatori dei Gay-pride, vieni insultato a sangue quale retrogrado, addirittura fascista, razzista, sessista eccetera. Chi non si adegua al pensiero dominante e ignorante è considerato immeritevole di appartenere al consesso civile, è una persona da scartare, punire, dileggiare. Le opinioni non in coincidenza con quelle di moda non sono accettate, e coloro che le propagano, specialmente se giornalisti, sono da condannare quanto le bestemmie che, viceversa, sono invocazioni aspre di aiuto dal Cielo. Scherzo, naturalmente. Eppure è incontrovertibile che non vi è pace per quelli che non salgono sul carro della banalità, tanto amato dalla gente che piace alla gente insofferente alle tue idee. È vietato adoperare la propria testa, proibito persino usare un linguaggio non approvato da lorsignori, nelle mani dei quali si giocano i destini della stampa e delle televisioni nazionali, non più libere di essere loro stesse, piuttosto obbligate a piegarsi agli ordini dei padroni e dei predoni delle corporazioni più ignobili e sgangherate della storia patria.
Feltri smaschera la cultura dell’illibertà. Giancristiano Desiderio, 29 giugno 2020, su Nicolaporro.it. L’Ordine – così con la maiuscola – dei giornalisti, gli ordini professionali, il valore legale dei titoli di studio: ma in che razza di Paese viviamo? Se non sei iscritto all’Ordine dei giornalisti puoi scrivere sì, ma non puoi esercitare la professione o hai comunque problemi a farlo e senz’altro non puoi assumere la direzione responsabile di un giornale. Gli ordini professionali, a loro volta, discendono direttamente dalle corporazioni e dividono la società italiana in scatole, categorie, classi che rivendicano le loro prerogative in termini di iscrizioni, tutele, aggiornamento, controllo, esercizio della professione. Il valore legale dei “pezzi di carta”, poi, è un bollo di Stato con cui il merito viene svalutato e l’impreparazione è mascherata con il timbro legale che trasforma la cultura, il sapere, l’educazione in una merce di scambio. Ma che razza di Paese siamo? Diciamocelo con franchezza: un paese con una profonda cultura illiberale e una concezione paternalistica e autoritaria dello Stato. Tuttavia, c’è qualcosa di peggio. E il qualcosa di peggio è la pretesa di far passare questi cascami autoritari come una sorta di garanzia e di indipendenza ora del giornalismo, ora delle professioni, ora della scuola, mentre ne sanciscono la dipendenza e la sottomissione. Il caso Feltri – di questi tempi c’è sempre un caso Feltri da discutere e sembra quasi che il direttore voglia far scoppiare gli scandali per mostrare le assurdità feudali della nostro vita civile – il caso Feltri, dicevo, è emblematico: sceglie di lasciare l’Ordine – così con la maiuscola – e il presidente dell’Ordine, Carlo Verna, dichiara che avrebbe voluto ricondurlo sulla retta via, senza rendersi conto, probabilmente, di ciò che diceva o, forse, rendendosene conto e rivendicando il ruolo. Beh, delle due possibilità non saprei davvero quale sia la peggiore. Ma perché accadono corto-circuiti come questo? Perché la cultura politica italiana non ha mai realmente conosciuto una vera e propria cultura anti-totalitaria ma solo il dogma dell’antifascismo militante in cui il partito comunista e il partito degli intellettuali marxisti da un lato ha scomunicato il fascismo e ogni avversario politico tacitandolo con l’accusa di essere fascista e dall’altro si è appropriato degli stessi istituti dello Stato fascista. Tra questi vi sono proprio l’Ordine dei giornalisti e il valore legale dei titoli di studio ma con una differenza fondamentale: proprio durante l’epoca repubblicana questi istituti vengono portati ad una perfezione illiberale. Sia il giornalismo sia la scuola per vivere non hanno bisogno di questi istituti. Al giornalismo bastano l’articolo 21 della Costituzione e il codice penale, alla scuola invece non serve per nulla lo Stato pedagogo ma un sistema giuridico-istituzionale fondato sulla libertà. Per quanto riguarda, poi, gli ordini delle categorie professionali bastano libere associazioni. Come è possibile che l’Abc della libertà della cultura è in Italia non solo ignorato ma addirittura capovolto? Come è possibile che gli stessi uomini di cultura – di pensiero si sarebbe detto un tempo – siano sempre alla ricerca di autorizzazioni da parte dello Stato o di enti para-statali con cui timbrare le coscienze? È possibile perché non esiste una cultura della libertà. Purtroppo, è fin troppo possibile perché il marxismo italiano ha mirato esattamente a raggiungere questo obiettivo egemonico riconducendo la libertà di pensiero, di espressione, della cultura, della educazione alla sottomissione ad un Partito che mirava a farsi esso stesso società e Stato alimentando la subcultura del potere illimitato perché buono. Il moderno Principe di Gramsci ha vinto fino a diventare abito mentale. Questo veleno – la parola è di Luigi Einaudi – , che altro non è che il capovolgimento del rapporto tra cultura e potere fino a sottomettere la cultura al potere, è entrato così in profondità nella vita civile italiana da ritenere come legittima l’idea che un giornalista libero debba essere ricondotto all’Ordine e la scuola che è sempre libera e pubblica è tale solo e soltanto se è la scuola di Stato. Non a caso i maggiori problemi italiani sono di natura culturale prim’ancora che strettamente politica: giustizia, scuola, lavoro, mercato. Come si fa? Beh, per esempio, nel campo del giornalismo, facendo come Vittorio Feltri. Giancristiano Desiderio, 29 giugno 2020
Alessandro Sallusti per ''il Giornale'' il 26 giugno 2020. Vittorio Feltri non è più giornalista, non nel senso giuridico del termine. Dopo cinquant' anni di carriera si è dimesso dall'Ordine rinunciando a titoli e posti di comando nei giornali, compreso nel suo Libero (lo fondò nel 2000). Perché lo abbia fatto lo spiegherà lui, ma io immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l'Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione. Dovete sapere che per esercitare la professione di giornalista bisogna essere iscritti all'Ordine - inventato dal fascismo per controllare l'informazione - e sottostare alle sue regole deontologiche, che oggi vengono applicate con libero arbitrio da colleghi che si ergono a giudici del pensiero altrui in barba all'articolo 21 della Costituzione, che garantisce a qualsiasi cittadino la libertà di espressione in ogni forma e con ogni mezzo. In pratica puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto. Chi sgarra finisce nelle grinfie del soviet che, soprattutto se non ti penti pubblicamente, ti condanna alla morte professionale. A quel punto sei fritto: nessun giornale può più pubblicare i tuoi scritti e se un direttore dovesse ospitarti da iscritto sospeso o radiato farebbe automaticamente la stessa fine. Se invece ti dimetti dall'Ordine, è vero che non puoi più esercitare la professione - e quindi neppure dirigere -, ma uscendo dal controllo politico puoi scrivere ovunque, senza compenso, come qualsiasi comune cittadino. In sostanza. Per potere continuare a scrivere, Vittorio Feltri - immaginando di essere di qui a poco ghigliottinato, penso io - ha dovuto rinunciare al suo mestiere. Non è un bel giorno per la categoria, che formalmente perde uno dei giornalisti che - piaccia o no - hanno scritto la storia di questo mestiere, successo dopo successo, da trent' anni a questa parte sia come penna sia come direttore. Feltri non è una voce ingabbiabile dentro regole ipocrite e convenzionali? Certo, è per questo che piace. Ogni tanto va sopra le righe? Sì, ma non più di altri ai quali, essendo di sinistra, mai nulla viene contestato. Ha un brutto carattere? Di più, ne sono testimone, ma ben vengano uomini di carattere. Io mi auguro che le centinaia di colleghi ai quali negli anni Vittorio Feltri ha offerto lavoro e insegnato un mestiere, oggi abbiano un sussulto di orgoglio, e da uomini liberi facciano sentire la loro voce; mi auguro che i suoi oppositori aguzzini si vergognino della loro squallida miseria culturale e professionale; mi auguro che Carlo Verna, presidente dell'Ordine - quindi di tutti i giornalisti, non solo di quelli di sinistra - abbia la forza di rifiutare le dimissioni e garantire a un grande collega la libertà che merita, perché se così non fosse da oggi nessuno di noi potrà sentirsi al sicuro. E auguro a Vittorio Feltri di scrivere liberamente, anche da non giornalista, fino a che Dio gliene darà la forza.
Vittorio Feltri si dimette da giornalista: l'annuncio arriva direttamente da Sallusti! Vittorio Feltri, dopo essere finito nel mirino delle critiche per certe opinioni sui meridionali, si è dimesso dal ruolo di giornalista. Francesco Manno il 26 giugno 2020 su areanapoli.it. Vittorio Feltri si è dimesso dall'Ordine dei giornalisti. Lo annuncia Il Giornale che, con un articolo di Sallusti, commenta così la notizia: "Perché lo abbia fatto lo spiegherà lui, ma io immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l’Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione". Feltri si sarebbe dimesso contro i tentativi da parte dell'Ordine dei giornalisti di reprimere le sue parole. Ecco quanto si legge su un articolo di Sallusti per Il Giornale: "Dovere sapere che per esercitare la professione di giornalista bisogna essere iscritti all'Ordine e sottostare alle sue regole deontologiche, che oggi vengono applicate con libero arbitrio da colleghi che si ergono a giudici del pensiero altrui in barba all’articolo 21 della Costituzione, che garantisce a qualsiasi cittadino la libertà di espressione in ogni forma e con ogni mezzo. In pratica puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto. Chi sgarra finisce nelle grinfie del soviet che, soprattutto se non ti penti pubblicamente, ti condanna alla morte professionale. A quel punto sei fritto: nessun giornale può più pubblicare i tuoi scritti e se un direttore dovesse ospitarti da iscritto sospeso o radiato farebbe automaticamente la stessa fine. Se invece ti dimetti dall’Ordine, è vero che non puoi più esercitare la professione – e quindi neppure dirigere -, ma uscendo dal controllo politico puoi scrivere ovunque, senza compenso, come qualsiasi comune cittadino. In sostanza. Per potere continuare a scrivere, Vittorio Feltri – immaginando di essere di qui a poco ghigliottinato, penso io – ha dovuto rinunciare al suo mestiere".
Dimissioni di Feltri, il pianto greco di Sallusti: "L'Ordine voleva imbavagliarlo". Il direttore de Il Giornale: "Puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto". Globalist il 26 giugno 2020. Facendo una rapida carrellata dei titoli offensivi scelti da Vittorio Feltri per il suo giornale Libero, è difficile scegliere quale sia il più disgustoso, se quel "patata bollente" riferito a Virginia Raggi, oppure quel surreale "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Senza contare le volte in cui Feltri è stato offensivo a parole, come quando ha detto che Milano è "un vivaio di finocchi". Vittorio Feltri è imbarazzante per la categoria giornalistica, eppure Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, è convinto che fosse suo diritto approfittare della sua posizione di giornalista per offendere e umiliare il prossimo. "Dovete sapere che per esercitare la professione di giornalista bisogna essere iscritti all’Ordine – inventato dal fascismo per controllare l’informazione – e sottostare alle sue regole deontologiche, che oggi vengono applicate con libero arbitrio da colleghi che si ergono a giudici del pensiero altrui in barba all’articolo 21 della Costituzione, che garantisce a qualsiasi cittadino la libertà di espressione in ogni forma e con ogni mezzo", sostiene Sallusti. Per poi aggiungere: "In pratica puoi fare il giornalista solo se ti adegui al pensiero dominante, al politicamente corretto. Chi sgarra finisce nelle grinfie del soviet che, soprattutto se non ti penti pubblicamente, ti condanna alla morte professionale. A quel punto sei fritto: nessun giornale può più pubblicare i tuoi scritti e se un direttore dovesse ospitarti da iscritto sospeso o radiato farebbe automaticamente la stessa fine". E infine: "Se invece ti dimetti dall’Ordine, è vero che non puoi più esercitare la professione – e quindi neppure dirigere -, ma uscendo dal controllo politico puoi scrivere ovunque, senza compenso, come qualsiasi comune cittadino. In sostanza. Per potere continuare a scrivere, Vittorio Feltri – immaginando di essere di qui a poco ghigliottinato, penso io – ha dovuto rinunciare al suo mestiere". Una manipolazione della realtà difficile da credere, che parte da un assunto tipico del pensiero di destra: che libertà di parola significa libertà di dire ciò che si vuole, non importa quanto offensivo e lesivo della dignità altrui sia. Si dovrebbe imparare da piccoli che le libertà non sono assolute, ma terminano quando iniziano quelle degli altri. Individui come Feltri e Sallusti sono evidentemente convinti invece che libertà significhi insulto libero. Che Virginia Raggi, definita sulle pagine di Libero "patata bollente", doveva stare zitta e buona perché Feltri stava esercitando la sua libertà di essere sessista.
Vittorio Feltri lascia l'Ordine dei Giornalisti, lo sfregio di Ottavio Lucarelli: "Una vergogna per Napoli". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. La notizia del giorno? Vittorio Feltri si dimette dall'Ordine dei Giornalisti, in polemica con la Corporazione. La vergogna del giorno? Quella di Ottavio Lucarelli, presidente dell'Odg della Campania, che sul proprio profilo Facebook esulta per la decisione del direttore. E scrive: "Feltri si dimette da giornalista. Una vittoria del presidente nazionale Carlo Verna, una vittoria dell’Ordine della Campania che ha presentato il primo esposto, una vittoria per l’informazione pulita, per Napoli e la Campania". Insomma, Lucarelli tratta la questione alla stregua di una partita di calcio, parla di "vittoria", si riempie la bocca di "informazione pulita", ancora piccato per le stoccate del direttore nel confronti del Meridione. Una vergogna sulla quale è inutile spendere altre parole.
Vittorio Feltri si dimette dall'Ordine dei giornalisti, il presidente Verna: "Volevamo accompagnarlo a una maggiore attenzione. C'è una causa per danno d'immagine". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. "Avremmo preferito accompagnare Vittorio Feltri su una strada di maggior attenzione alle norme della professione". Il direttore editoriale di Libero si dimette dell'Ordine dei giornalisti e il presidente dell'Odg Carlo Verna la prende così. "Oltre alle numerose azioni disciplinari in corso nei suoi confronti, recentemente il Consiglio Nazionale ha dato mandato legale per valutare un eventuale danno di immagine all'intera categoria causato da alcune sue ripetute e circostanziate esternazioni. Una volta al di fuori della categoria Feltri potrà tranquillamente continuare ad esprimere liberamente le sue opinioni come prevede l'Articolo 21 della Costituzione. È ovvio che la responsabilità di quello che scriverà si sposta sui direttori responsabili delle testate che lo ospiteranno; come avviene per i tantissimi non giornalisti che ogni giorno, sulla carta stampata o in tv, esprimono liberamente le proprie idee".
FELTRI SI DIMETTE E NON SARÀ PIÙ GIORNALISTA, MA L’ORDINE NON MOLLA: “MANDATO LEGALE CONTRO DI LUI”. Feltri si dimette e non sarà più giornalista, ma l’Ordine non molla: “Mandato legale contro di lui”. Redazione Bufale il 26 Giugno 2020.
Feltri si dimette e non sarà più giornalista, ma l’Ordine non molla: “Mandato legale contro di lui” Bufale.net. La notizia del giorno nel mondo della comunicazione in Italia si riferisce indubbiamente a Vittorio Feltri che si dimette. Il Direttore di Libero, infatti, a breve non potrà più essere considerato giornalista, anche se si apprende che continuerà a scrivere i suoi editoriali. Troppo veementi, evidentemente, le polemiche innescata da alcune sue recenti uscite contro i meridionali, come avrete sicuramente notato alcune settimane fa quando questo volto noto perse il controllo in diretta TV durante la trasmissione condotta da Mario Giordano.
Feltri si dimette: la reazione dell’Ordine dei Giornalisti. Ci sono due cose da riportare a margine dell’annuncio con Feltri che si dimette dall’Ordine dei Giornalisti. In primo luogo, come evidenziato dal diretto interessato in giornata, continuerò a fare il direttore editoriale, in quanto le leggi attuali prevedono che lo possa fare “anche un geometra”. In particolare, continuerà a scrivere editoriali quando ne avrà voglia, nonostante non sarà più un giornalista. Potrà procedere a titolo gratuito, mentre la responsabilità su quello che pubblicherà andrà a ricadere sul Direttore Responsabile del giornale. Chi pensava che le dimissioni di Feltri avrebbero fatto cambiare approccio all’Ordine dei Giornalisti, però, sbaglia di grosso. In serata, infatti, sono arrivate le dichiarazioni del presidente, Carlo Verna, il quale ha dapprima precisato che avrebbe preferito indurlo semplicemente ad una maggiore attenzione sulle dichiarazioni rilasciate. Successivamente, ha lasciato intendere che l’OdG non farà passi indietro dal punto di vista legale: “Oltre alle numerose azioni disciplinari in corso nei suoi confronti, recentemente il Consiglio Nazionale ha dato mandato legale per valutare un eventuale danno di immagine all’intera categoria causato da alcune sue ripetute e circostanziate esternazioni”. Verna ha anche confermato che, una volta accettate le dimissioni di Feltri, l’Ordine dei Giornalisti continuerà a monitorarlo, anche se a quel punto la responsabilità di quello che pubblicherà cadrà inevitabilmente sulle spalle del Direttore Responsabile. Figura differente rispetto a quella che andrà a ricoprire Feltri, per sua stessa ammissione destinato ad essere Direttore Editoriale.
Feltri si dimette, è una furbata: sarà più libero di scrivere “editoriali” offensivi. Da Francesco Pipitone Giovedì 26, 2020 su vesuviolive.it. Vittorio Feltri ha deciso di dimettersi da giornalista. Le sue dichiarazioni e suoi “editoriali” di chiara matrice discriminatoria, se non proprio razzista, hanno scatenato polemiche e procedimenti disciplinari da parte dell’Ordine dei Giornalisti, delle vere e proprie scocciature dalle quali l’ex direttore di Libero si è deciso a svincolarsi. Questo, tuttavia, non significa che non potrà più scrivere né che non potrà parlare in televisione. Nemmeno che non potrà essere pagato per farlo. La libertà di espressione è un diritto costituzionale e non è riservato solo ai giornalisti, giustamente, ma in questo caso vediamo l’altra faccia medaglia che consiste in una maggiore autonomia per Feltri di poter dire quello che gli pare. Ossia redigere articoli razzisti e diffamatori senza avere seccature nell’immediato. La sola differenza è che non lo farà da giornalista, una consolazione di forma ma nella sostanza inutile, poiché non ha effetti tangibili nella realtà. Vittorio Feltri resta perseguibile civilmente e penalmente nel caso in cui si rendesse responsabile di qualche illecito, tuttavia i tempi della giustizia e le difficoltà nell’individuazione del soggetto offeso giocano dalla parte dell’ex giornalista. Uno conto è, infatti, la diffamazione nei confronti di una persona determinata, un altro è quella nei confronti di entità come “i napoletani”, “i meridionali”, “gli immigrati”. Insomma, uno stratagemma arguto per restare impunito.
Vittorio Feltri si dimette da giornalista. Shock le sue frasi: da "zoo pieno di terroni" a "nonostante sia di Foggia". Feltri da parecchio tempo era direttore editoriale. Si è reso protagonista di frasi e dichiarazioni sconcertanti contro il Sud, i foggiani e Conte. Lo riporta "Il Giornale" di Sallusti. Redazione il 26 giugno 2020 su foggiatoday.it. Vittorio Feltri lascia l'ordine dei giornalisti. A rivelarlo in prima pagina 'Il Giornale': "Feltri si dimette da giornalista": "Dopo cinquant'anni di carriera - scrive in un editoriale Alessandro Sallusti - si è dimesso dall'ordine rinunciando a titoli e posti di comando nei giornali, compreso nel suo Libero (lo fondò nel 2000). Perché lo abbia fatto lo spiegherà lui, ma io immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all'accanimento con cui da anni l'ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione". Vittorio Feltri si è reso protagonista di lunga serie di frasi provocatorie, discriminatorie e sconcertanti all'indirizzo dei meridionali, del premier Giuseppe Conte e dei foggiani: "Da manutengoli ingordi" a "I meridionali sono inferiori", dalla "Dittatura romanfoggiana" a "zoo pieno di terroni", da "addirittura ben vestito nonostante sia di Foggia" e via discorrendo. Feltri da parecchio tempo in ogni caso non era più direttore responsabile dei quotidiani per cui lavorava ma “soltanto” direttore editoriale. Sallusti - secondo il quale le dimissioni Feltri arrivano quindi per protestare contro il tentativo di bavaglio nei confronti del direttore editoriale di Libero - ha aggiunto: "Io mi auguro che le centinaia di colleghi ai quali negli anni Vittorio Feltri ha offerto lavoro e insegnato un mestiere, oggi abbiano un sussulto di orgoglio, e da uomini liberi facciano sentire la loro voce; mi auguro che i suoi oppositori aguzzini si vergognino della loro squallida miseria culturale e professionale; mi auguro che Carlo Verna, presidente dell’ordine – quindi di tutti i giornalisti, non solo di quelli di sinistra – abbia la forza di rifiutare le dimissioni e garantire a un grande collega la libertà che merita, perché se così non fosse da oggi nessuno di noi potrà sentirsi al sicuro. E auguro a Vittorio Feltri di scrivere liberamente, anche da non giornalista, fino a che Dio gliene darà la forza"
Chi è la moglie di Vittorio Feltri? Ecco la donna che gli ha ridato il sorriso. Angela Marrelli il 24 Giugno 2020 su meteoweek.com. Vittorio Feltri l’ha sposata dopo la morte della prima moglie, scomparsa prematuramente dopo il parto. Conosciamo meglio Enoe Bonfanti, colei che ha ridato il sorriso al direttore di Libero.
La seconda moglie di Vittorio Feltri. Si sa qualcosa di Enoe Bonfanti solo attraverso le parole di suo marito Vittorio Feltri, essendo lei, una donna molto riservata. E’ il secondo matrimonio per il direttore di Libero, che dura da oltre 50 anni, con estrema solidità. Feltri ha sposato Enoe in vedovanza: Maria Luisa, la prima moglie, morì giovane dopo il parto, lasciandogli due figlie, Saba e Laura, oltre a un dolore incolmabile. Enoe arrivò nella sua vita per ridargli il sorriso e dalla loro unione nacquero Mattia e Fiorenza. La donna ha cresciuto tutti e quattro figli del giornalista amorevolmente.
L’ incontro con Enoe Bonfanti. Vittorio Feltri proprio in un’intervista rilasciata a Domenica Live, ricorda così il momento del loro incontro: “È successo così, sono rimasto vedovo, una parola orrenda, con due figlie. Nella disgrazia, però, ho avuto la fortuna di incontrare una donna che mi ha salvato la vita che è la mia attuale moglie.” Ha raccontato il giornalista. Poi ha aggiunto: “All’epoca, lavoravo al brefotrofio, il luogo dove partorivano le donne che non intendevano riconoscere il bambino, mia moglie ha cominciato ad occuparsi delle mie figlie con molta delicatezza e io ho iniziato ad occuparmi di lei. All’inizio, lei non voleva ma io sono stato cocciuto. E la cosa è durata poco, una cinquantina d’anni…”.
Un matrimonio lungo oltre 50 anni. Di loro non si parla molto perché nessuno della famiglia Feltri ama il mondo della televisione e le luci dei riflettori e pertanto è difficile leggere qualche gossip che li riguarda. Una cosa certa è che il matrimonio tra Vittorio Feltri ed Enoe Bonfanti è uno dei più duraturi che ci sono nel panorama italiano. Tuttavia qualche indiscrezione è arrivata su Enoe: la donna ha vissuto a Ponteranica Alta (in provincia di Bergamo) per tanto tempo, insieme ai suoi cari. La villa, immersa nel verde e lontana dalla città, pare sia stata messa in vendita da Vittorio Feltri per agevolare un trasferimento nel capoluogo lombardo. Ma le informazioni finiscono qua, tranne per una curiosità: la coppia ha una passione che li accomuna ed è l’amore per i gatti, tanto che Vittorio Feltri avrebbe definito la sua, una famiglia di “gattolici”.
Vittorio Feltri, la differenza tra le piazze rosse e quella di Meloni e Salvini: "Perché detesto il comunismo". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 giugno 2020. Le manifestazioni di piazza non mi sono mai piaciute. Quando ero poco più che un ragazzo a Bergamo, città democristiana, partecipai a una sfilata del primo maggio. Indossavo un abito blu e nell'occhiello della giacca avevo infilato un fiore rosso, per far capire a tutti che ero di sinistra. Lo ero davvero. Se non che un omone sgraziato mi si avvicinò e mi apostrofò: senti Ciccio, questa è la festa dei lavoratori, non dei figli di papà. Gli risposi senza esitare: io il papà nemmeno ce l'ho perché è morto quando ero un bambino, se mi insulti gratis si vede che tu sei un figlio, non di papà, ma di puttana. Il tipo rimase di stucco, poi disse: sei tu che offendi me. E io ti prendo a schiaffi. La mia replica fu secca: e io te li restituisco, così restiamo in pareggio. Il personaggio scoppiò a ridere. Mi chiese: sei comunista? Replicai senza astio: sono socialista, Lombardiano, ti secca? Lui, continuando a ridere aggiunse: allora sei un compagno. Io di rimando: pensavi che fossi qui a fare compagnia a te, coglione. Sciolto il corteo in piazza Vittorio Veneto, andammo insieme al bar Savoia a bere l'aperitivo e fraternizzammo. Strada facendo egli dichiarò: si vede che hai studiato, hai la lingua affilata. Ero in imbarazzo, aggiunsi solo che studiare senza capire non serve a un cazzo, meglio lavorare, insegna di più. Ogni tanto lo incontravo sul Sentierone, lo struscio di Bergamo, e per me era un piacere. Due anni fa appresi che era morto di cancro. Provai un dolore immenso uguale a quello che ora mi lacera il petto ricordandomi di questo operaio che si ruppe la schiena per mantenere il figlio all'università, ora ingegnere. Ho raccontato questa storia per un motivo semplice: non ho odiato mai i comunisti, ma ho detestato il comunismo per la sua supponenza ideologica, quasi fosse una religione autorizzata ad allontanare con disprezzo gli eretici. La sinistra ha perso per fortuna i propri connotati bolscevici e me ne rallegro. Tuttavia ha mantenuto il vizio di considerare indegni coloro che progressisti non sono, preferendo altre correnti politiche, per esempio quella della Meloni, Fratelli d'Italia, e quella di Salvini, Lega. Ieri in vari luoghi del Paese si sono registrati raduni in varie piazze. Ebbene quelle tinte di rosso sono state valutate opportune, addirittura da applaudire, mentre quelle della destra sono state liquidate quali schifezze censurabili. Perché? Perché sì. Non c'è discussione. Gli eredi di Stalin e di Togliatti sono esseri superiori e sono autorizzati a organizzare manifestazioni pubbliche, ovviamente legittime e meritevoli di applausi, mentre chiunque altro si raduni in piazza è da vituperare. La democrazia non deve distinguere tra buoni e cattivi, è obbligata, per essere tale, a tollerare chiunque non ne rifiuti i principi. Il 2 giugno è la festa della Repubblica che sconfisse la monarchia anche con i voti dei repubblichini di Salò, tanto per essere chiari. Già il fascismo, pur deprecabile, era repubblicano. Sappiatelo.
Vittorio Feltri su Attilio Fontana: "Prendersela con lui e con la Lombardia fa comodo a chi odia il Nord". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 maggio 2020. Il presidente della Regione Lombardia viene quotidianamente bersagliato dalla sinistra, specialmente la più estrema, la quale ha perfino scritto su un muro che si tratta di un assassino. Dopo di che i progressisti danno degli odiatori ai propri avversari. Attilio Fontana in realtà è una persona mite, un amministratore avveduto che non ha mai calpestato bucce di banana neanche per sbaglio. Ha contrastato come ha potuto, fin dall'inizio e in opposizione al governo, il virus mediante i mezzi di cui disponeva. Purtroppo da queste parti il morbo ha colpito duro, più che altrove, per il semplice fatto che qui il numero degli abitanti sfiora gli 11 milioni, la gente vive a stretto contatto e il contagio dunque è molto più facile e rapido. D'altronde Milano (Mediolanum) è al centro di un territorio nevralgico dove transitano tutti i commerci tra il centro Europa e l'Europa meridionale, ovvio che la densità umana superi quella della Basilicata con le conseguenze del caso. La nostra sanità locale non ha nulla da invidiare ad alcuna nazione continentale, e se il Covid ha provocato una strage ciò è dovuto alla sua misteriosità. E ancora oggi fa paura poiché è sconosciuto e quindi difficile da prevenire e debellare. La dimostrazione che la malattia sia devastante dovunque si manifesti è data dalla circostanza che negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Spagna e in numerosi altri Paesi le vittime del Corona sono state e continuano ad essere una massa pressoché incalcolabile. Basta questo per dire senza ombra di dubbio che l'Italia, per quanto rallentata e afflitta da una burocrazia ottusa, non si è comportata meno virtuosamente di tante altre nazioni. Il problema risiede nella qualità perniciosa dell'infezione che ha colto impreparati perfino i più stimati scienziati, non nell'imperizia dei politici, per quanto incompetenti. Cosicché prendersela con i lombardi può far comodo a chi detesta il Settentrione, causa acrimonia economica e sociale, tuttavia non ha alcun senso. Infatti la nostra regione seguita ad essere meta di tanti meridionali che preferiscono farsi curare a Milano per un banale motivo: qui la sanità garantisce risultati nettamente superiori. Tra l'altro, conviene ricordare che il capoluogo lombardo conta un milione e mezzo di residenti, però i milanesi non superano le 70 mila unità. Tutti gli altri che vi sbarcano il lunario provengono da lontane province, specialmente del Sud, e qui lavorano sodo confermando che antropologicamente non sono affatto inferiori ai nordici, ma semplicemente hanno abbandonato le loro terre in quanto esse offrono minori opportunità di impiego, di qui la mia affermazione in tv che nel Mezzogiorno esiste una oggettiva inferiorità economica, sociale e perfino civile, visto che le mafie in varie zone la fanno da padrone, essendo più efficienti e organizzate dello Stato. Chi lo nega ha le fette di salame sugli occhi. Ci auguriamo che i dissidi tra settentrionali e meridionali siano soltanto pretesti sciocchi per alimentare un campanilismo le cui origini risalgono all'epoca dell'Italia dei Comuni. riproduzione riservata.
Secessione, la previsione di Vittorio Feltri: senza fretta ma prima o poi il Nord lascerà l'Italia. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 aprile 2020. Stupefacente il titolo de la Repubblica di ieri: "Italia, quanta fretta". Dopo due mesi di detenzioni, cosa mai successa a memoria di vivente, mi sembra normale che i reclusi ne abbiano piene le scatole, non tanto di stare barricati tra le mura domestiche, quanto di non poter lavorare e guadagnarsi il pane che inizia a scarseggiare. Qui al Nord in particolare la gente è impaziente: non riscuote più lo stipendio, i piccoli risparmi familiari si sono esauriti, ovvio che punti a riprendere le proprie attività, questione di sopravvivenza. Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica pur con tutte le protezioni che evitino nuovi contagi. Tra l' altro, in vari Paesi flagellati quanto il nostro dal virus si è ricominciato o si sta ricominciando a produrre sotto la spinta della necessità. Non si capisce per quale motivo i compatrioti debbano essere accusati di avere le fregole, cioè ansia di ripartire per la libidine di recarsi in cantiere o in ufficio. Queste sono fandonie spacciate per analisi sociologiche, mentre la realtà è che un popolo operoso e generoso quale quello settentrionale desidera soltanto rimpadronirsi delle proprie redini e continuare nella propria esistenza di persone perbene, non di gregari. La mentalità corrente specialmente al Sud è nota: il Meridione è una terra affascinante e ricca di umanità, invece la Pianura padana e le Prealpi sono abitate da uomini e donne che puntano solo al denaro, fregandosene degli stornellatori. Il loro Dio sono profitto e fatturato. Luoghi comuni, pregiudizi che rivelano una preoccupante mancanza di informazioni esatte oltre che di cultura autentica. I "nemici" nostri però non devono esagerare, perché prima o poi i bollenti spiriti bossiani rischierebbero una nuova edizione. Monta a Milano, Bergamo, Brescia, Padova, Treviso eccetera la ribellione alla dittatura romanfoggiana. Nelle succitate zone è sul punto di maturare la volontà di mandare al diavolo la capitale e dintorni, prende corpo la minaccia di non fornire più un euro agli spreconi che amministrano male lo Stato. Il primo ad aver lanciato l' allarme è Fedriga, governatore leghista del Friuli, il quale ha dichiarato di tagliare l' invio nella Città eterna di qualsiasi contributo. Ha talmente ragione che a lui si sono uniti subito, nel nobile intento di fottersene del governo, il Trentino e l' Alto Adige. Manca soltanto la Lombardia per creare una frattura tra le due Italie divise da una antipatia reciproca che si era sopita e che le polemiche sul virus hanno risvegliato in modo drammatico. Attenzione, manutengoli ingordi, a non tirare troppo la corda poiché correte il pericolo di rompere il giochino che fino ad ora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata.
Feltri e Senaldi: “Al nord si vuole lavorare, non si suona il mandolino”. Salernonotizie.it il 19 Aprile 2020. “Le parole diffuse pubblicamente da Feltri in un editoriale e Senaldi in Tv fanno rabbrividire. Hanno dichiarato che il Nord “vuole riaprire per lavorare, non suonare il mandolino” e che “il Sud non si pone il problema perché non ha aziende”. Affermazioni di una gravità inaudita, che denotano un razzismo e cialtronismo estremo, oltre ad essere insensate e prive di alcun fondamento. Gente come loro camminerebbe sui cadaveri pur di far soldi. Solo la Lombardia ha il 94% dei nuovi malati da Covid in Italia, hanno infettato una nazione a causa di politiche irresponsabili. E questa gente, invece di chiedere scusa, si sente in diritto di dare lezioni a chi, come le regioni del sud, ha impedito il dilagare del virus e dei morti. Pensassero alle loro colpe, agli errori fatti, prendessero esempio dalla Campania, che sta svolgendo un lavoro egregio, piuttosto che diffamare gratuitamente il mezzogiorno d’Italia come fanno da settimane per nascondere la propria incapacità”. E’ quanto dichiarato da Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi e il conduttore radiofonico Gianni Simioli in merito alle ennesime affermazioni discriminatorie di Feltri e Senaldi.
Forgione travolge Feltri: "Minacce da Bergamo. Nonno Vittorio ha fretta di riaprire la Lombardia". Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano, ha commentato il recente articolo di Vittorio Feltri su Libero. Areanapoli.it il 19 aprile 2020. "Minacce da Bergamo", Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano, ha commentato con un post sui social il recente artico di Vittorio Feltri su Libero nel quale si augura una presta ripartenza della Lombardia. Ecco le parole di Forgione: "Dalla sua scrivania orobica, il giornalista infeltrito scrive per il suo giornale di fretta di riaprire la Lombardia, la regione che ha fatto danni perché non aveva alcuna fretta di chiudere, anzi, alcuna voglia. Bisogna riaprire in fretta, magari procurando altri problemi, e poi, senza fretta, lasciare l'Italia. Ci racconta, nonno Vittorio, che la gente è impaziente per riprendere a guadagnare, "in particolare al Nord", come se altrove si campi d'aria, e la pensa esattamente così chi scrive che "non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica". Dice che l'umanità dell'affascinante Meridione e la bramosia di denaro della Pianura Padana e delle Prealpi sono solo luoghi comuni, lui che per i luoghi comuni sui meridionali ha reso noto se stesso e il suo giornale". Forgione prosegue: "Avverte che lassù, tra le valli lombarde e venete, monta "la ribellione alla dittatura romanfoggiana"; insomma, una ritorno agli slogan della Lega Nord riposti per convenienza nel cassetto dal furbacchion Salvini. Informa che "manca soltanto la Lombardia per creare una frattura tra le due Italie divise da una antipatia reciproca che si era sopita e che le polemiche sul virus hanno risvegliato in modo drammatico". E conclude minacciando il Sud, che senza il Nord andrebbe "a ramengo" e farebbe "una brutta fine, per altro meritata". Echi che arrivano da Bergamo, una delle città che più soffrono e che merita la solidarietà di tutti a prescindere, anche per la sfortuna di essere rappresentata da qualche incompetente che ha scherzato con il virus e pure da certe penne, capaci di condizionare l'opinione delle persone meno libere di pensiero, di dividere e alimentare la debolezza del Paese. Ma che, non va dimenticato, resta pur sempre "la Città dei Mille", il centro italiano che più di tutti ha contribuito ad armare Garibaldi affinché invadesse il Sud. Prima hanno voluto che si facesse quest'Italia di colonizzatori e colonizzati e ora, una volta spremuto il limone, minacciano di dividerla. Senza fretta, però, non sia mai che il Sud smette di comprare merci e servizi del Nord. Finisce che il Nord va "a ramengo" appresso al Sud. Senza fretta, nonno Vittorio".
L’originale editoriale di Feltri: “Al Nord non si suona il mandolino, bensì si torna in fabbrica”. La risposta di Troisi: “A Napoli tutte queste chitarre e mandolini che camminano in strada sono pericolose”. Arn.Capez. su Ladomenicasettimanale.it il 19 Aprile 2020. Abbiamo capito da tempo. Il Quotidiano Libero per tentare di vendere qualche copia in più e motivare le truppe secessioniste, evidentemente, legate alla prima Lega quella dell’ideologo Gianfranco Miglio ogni tanto – ormai è un classico decadente – affida a Vittorio Feltri, il solito editoriale aterosclerotico domenicale. Questa volta il direttore – sul cui capo pendono diversi provvedimenti disciplinari – allieta i suoi lettori con l’articolo: “Senza fretta, ma il Nord se ne andrà”. La minestra è riscaldata, l’approssimazione tanta e la trama è maliconicamente sempre la stessa: Un Nord operoso ed efficiente, un Sud che non vuole fare un emerito cazzo. “Qui al Nord in particolare la gente è impaziente, non riscuote più lo stipendio, i piccoli risparmi familiari si sono esauriti, ovvio che punti a riprendere le proprie attività, questione di sopravvivenza – scrive Feltri – Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, bensì di tornare in fabbrica pur con tutte le protezioni che evitino nuovi contagi”. Soliti luoghi comuni, frasi fatte, rappresentazione retorica di un Sud e un Meridione nullafacente. Quel “suonare il mandolino” porta dritto a Napoli, uno strumento musicale che, non tutti sono in grado di suonare, della grande tradizione partenopea. Vittorio Feltri non lo sa, ma il napoletano prova simpatia per un tipo come lui : quei capelli canuti, l’essere un po’ burbero, con la puzza sotto al naso, antipatico al punto giusto e che guarda dall’alto verso il basso con la parlata da profondo "Norde". Un personaggio perfetto per mettere in atto qualche consiglio del saggio Don Ersilio (Eduardo De Filippo) dell’Oro di Napoli. La faccenda si chiuderebbe con un ‘pernacchio’ di cuore e di testa che tradotto suona : “Tu sì ‘a schifezza ‘ra schifezza ‘ra schiefezza ‘ra schifezza ‘e l’uommn. Mi spiego?”. Ma sembra una risposta troppo scortese allora meglio prendere in prestito una riflessione di Massimo Troisi che ospite di Pippo Baudo a metà degli anni Ottanta – parliamo di 35 anni fa – risponde alla sua maniera agli obsoleti luoghi comuni. “A Napoli la gente continumante suonano e cantano infatti in mezzo alla strada tutti quanti camminano con i mandolini e le chitarre. Vanno avanti e indietro eppure questo è difficoltoso: immagina nei pullman, negli uffici con queste chitarre e mandolini diventa pericoloso. Il manico della chitarra è pericoloso per i bambini principalmente perchè urta e gli danno il manico sempre dietro la testa”. Arn.Capez.
La controffensiva del Nord continua: “Il Sud cosa deve riaprire? Non ha aziende”. Arn.Capez. su Ladomenicasettimanale.it il 19 Aprile 2020. Una controffensiva contro il Sud d’Italia. Il livore si sta trasformando in un odio cieco, c’è una strategia ben orchestrata per mettere pezzi d’Italia dilaniati dal virus uno contro l’altro. Pietro Senaldi, direttore del Quotidiano Libero, degno alunno ma senza talento del suo maestro Vittorio Feltri, ospite della trasmissione ‘Stasera Italia’ in onda su Retequattro ha spiegato perchè le regioni del Nord scalpitano e vogliono la fine del lockdown a differenza, invece, del Mezzogiorno d’Italia. “La Lombardia che paga il 25% di tasse è la regione economicamente più attiva si ponga questo problema”. “Il Sud mi sembra normale che non si ponga il problema ormai non ha più aziende, aveva l’Ilva e gliel’hanno levata. Che cosa deve riaprire?” La controffensiva contro le regione del Mezzogiorno d’Italia continua e qualche manina vorrebbe scippare anche la quota del 34% di investimenti pubblici riservati al meridione per finanziare la ripresa economica del dopo Covid19 al Nord, epicentro della pandemia da Coronavirus. Arn.Capez.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2020. Barbara Lezzi è una signora di Lecce, la più bella città pugliese, dotata di un barocco talmente affascinante da togliere il fiato. Ma Barbara, ex ministro per il Sud nel primo governo Conte, opportunamente trombata dal premier, si è appunto rivelata indegna di presiedere un dicastero e ora passeggia nell' area parlamentare priva di un compito fisso. Tuttavia ella continua a far parte della banda grillina, ridotta ai minimi termini, dai cui seggi conferma di rendersi inutile, anzi dannosa. Senza contare le sue apparizioni televisive durante le quali sputa sentenze sprovviste di qualsiasi logica politica. Poveraccia, va capita. Come tutti coloro che non hanno una adeguata preparazione culturale, Lezzi riempie i suoi discorsi di banalità, quando va bene, e di minchiate solenni quando va male. A suo tempo la pugliese si impegnò a occuparsi di Ilva e ci risulta che non sia riuscita a combinare niente poiché niente sa fare, tranne che straparlare. D'altronde, pure sabato sera la meridionale, che non è una colpa ma un dato di fatto, si è lanciata in una serie di sproloqui sconditi di sugo eppure zeppi di livore gratuito. Ha aggredito il direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, dicendogli che il suo giornale è letto da quattro gatti, quando invece trattasi di uno dei pochi quotidiani in grado di guadagnare copie nonostante il mercato della stampa sia da anni in crisi. La donna è disinformata, il che non stupisce, considerato il suo livello di istruzione, ed è normale che ignori i temi dei quali discetta a ruota libera, come se anziché in uno studio televisivo fosse seduta sulla poltrona della propria parrucchiera. Misera, immaginando di suscitare uno scandalo, ha affermato che l' editore del foglio che leggete sia Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, mentre, viceversa, la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola. Allorché la sprovveduta Lezzi ha poi incautamente sottolineato, rivolgendosi a Senaldi, che Libero incassa le provvidenze pubbliche, ha pestato una cacca gigantesca, in quanto se ce n' è una che riceve mensilmente l' indennità elargita dallo Stato, questa è proprio lei. Siamo al bue che dà del cornuto all' asino. L' inettitudine dell' onorevole grillina è talmente crassa da lasciare allibiti. Barbara è inconsapevole che la stampa di tutta Europa è sostenuta dai governi di ciascun Paese, non per generosità, bensì perché non esiste democrazia se si uccide la libertà di pensiero espresso dai giornali. Senta, Lezzi della malora, prima di aprire bocca se la sciacqui. Quanto alla conduttrice del programma andato in onda su Rete 4, tale Veronica Gentili, quella che mi ha definito ubriacone tempo fa, pur essendo lei balorda e incapace, ha tentennato di fronte alle scorrettezze della parlamentare e si è limitata a bofonchiare. Dio le crea e il diavolo le appaia. Mi auguro che la rete berlusconiana possa rimediare.
Dagospia il 20 aprile 2020:
Vittorio Feltri, Twitter 2:29 PM - Apr 20, 2020: Tagadà non è una brutta trasmissione: è una boiata pazzesca. Tiziana Panella è bravissima nel distillilare banalità impressionanti.
Vittorio Feltri, Twitter 2:13 PM - Apr 20, 2020: La vita in diretta fa più schifo di quella registrata.
Vittorio Feltri, Twitter 2:09 PM - Apr 20, 2020: Diario di casa è un programma tv in onda ogni giorno alla ore 14 condotto da un uomo e una donna. È dedicato ai bambini chiusi in casa. Trasmette idiozie raccapriccianti che rompono i coglioni più del virus.
Dal “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. A “Libero” devono aver perso la memoria. Ieri il direttore Vittorio Feltri si è lanciato in un editoriale per tentare di convincere i lettori che il suo quotidiano sia estraneo ad Antonio Angelucci, deputato berlusconiano proprietario di diverse cliniche private oltreché di giornali (Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria ecc.). E se l'è presa con la 5 Stelle Barbara Lezzi, rea di aver insinuato, ribattendo al direttore Pietro Senaldi, “che l'editore del foglio che leggete (Libero, appunto, ndr) sia Antonio Angelucci, mentre la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola”. Certo. Angelucci è talmente estraneo a Libero che sul sito della Tosinvest, il gruppo di famiglia, si legge: “... proprietaria della testata giornalistica Opinioni Nuove - Libero Quotidiano”. Sul finire dell'editoriale, già che c'è, Feltri si concede il lusso di un pizzino sui palinsesti televisivi: non essendogli piaciuto come Veronica Gentili (Stasera Italia, Rete4) ha gestito l'ospitata della Lezzi contro Senaldi (non l’ha uccisa su due piedi, a distanza), prima la insulta e poi chiede “che la rete berlusconiana possa rimediare”. Magari cacciandola? Nel caso, Veronica non provi neanche a chiedere un lavoro ad Angelucci: lui con Libero non c'entra niente.
Marco Leardi per davidemaggio.it il 3 maggio 2020. “Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere“. Parola offensive, spiacevoli da leggere. Tanto più perché scritte da un giornalista di assoluto calibro come Vittorio Feltri. Ieri sera, il direttore editoriale di Libero si è accanito contro la conduttrice di Rete4 con una serie di tweet pubblicati durante la messa in onda di Stasera Italia Weekend, il programma da lei presentato. La raffica di commenti sparata da Feltri non necessita di interpretazioni. Queste le parole del direttorissimo:
“Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere”.
“Povera Veronica Gentili, mi fa pena, mi sembra balorda: si vede che beve per darsi coraggio”.
“Veronica Gentili che mestiere fa a Rete 4, la valletta? Non ha il fisico”.
Tra il giornalista e la conduttrice i rapporti si erano irreparabilmente incrinati dopo che, quest’ultima, in un discusso fuori onda trasmesso da Striscia La Notizia, aveva dato dell’ubriaco al direttore editoriale di Libero. Da parte sua, Feltri, nonostante le scuse della collega, se l’era legata al dito e le esternazioni aggressive di ieri ne sono la riprova. Nei giorni scorsi, Veronica Gentili aveva criticato le recenti affermazioni del giornalista bergamasco sui meridionali ed aveva escluso la possibilità di ospitarlo nuovamente a Stasera Italia Weekend. “Dopo il nostro scazzo epico, dopo il fuorionda, dopo che lui si è comportato molto male con me, direi che stiamo bene ognuno per la sua strada. Io non sono abituata a parlare di lui, lui spesso parla di me, ma va bene così“ aveva detto la Gentili nel corso di una diretta Instagram. Ieri, la nuove e ineleganti bordate a distanza di Feltri.
Caro Feltri, non proverai mai l’onore di essere del Sud. Anna Rita Leonardi de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Caro Feltri, sono calabrese e fiera di esserlo. La famiglia di mia madre è calabrese, quella di mio padre è per metà sicula e per metà pugliese. Vivo in provincia di Salerno da 3 anni, con mio marito. In gioventù ho abitato 5 anni a Napoli, mentre studiavo e lavoravo. I miei due bimbi piccoli sono nati a Napoli. Io e mio marito abbiamo scelto di farli nascere lì perché volevamo che il loro primo respiro fosse nella città più bella del mondo. Volevamo sapere che, ovunque li porterà la vita, potranno sempre dire con orgoglio “sono nato/a a Napoli!“. Napoli è arte, storia, cultura, forza, bellezza. Ma non solo Napoli. Nelle loro vene scorre sangue calabrese, pugliese, siciliano, campano. Ed è un sangue meraviglioso. Uno di quelli che la gente come te non potrà mai capire. A te, quindi, che auguri a noi meridionali di fare “una brutta fine” dico: ti compatisco e provo pena per te. Perché tu, l’onore di essere DEL SUD, non lo proverai mai!
Feltri shock contro il Sud: «Ciucciate quattrini ai lavoratori del Nord, farete una brutta fine». Leggo.it Martedì 21 Aprile 2020. Il direttore di Libero Vittorio Feltri non è nuovo a provocazioni pungenti, ma stavolta le sue parole non sono passate inosservate: in un editoriale scritto due giorni fa sul suo giornale infatti, Feltri parla di una nuova divisione tra Nord e Sud dopo questa pandemia di coronavirus. Una pandemia che ha visto il Nord contare a migliaia contagi e vittime, mentre il Sud, fortunatamente, è riuscito a contenere i numeri anche grazie al lockdown. «Qui al nord la gente è impaziente - scrive Feltri - non riscuote più lo stipendio, i risparmi si sono esauriti. Non si tratta di correre in strada a suonare il mandolino, ma di tornare in fabbrica». «Un popolo operoso e generoso come quello settentrionale desidera solo rimpadronirsi delle proprie redini e continuare la propria esistenza di persone perbene», aggiunge Feltri. Poi l’attacco al Sud: «La mentalità corrente è nota, il Meridione è terra affascinante e ricca di umanità mentre la Pianura Padana e le Prealpi sono abitate da uomini che puntano solo al denaro». «Luoghi comuni» e «pregiudizi», secondo Feltri. «A Milano, Bergamo, Brescia, Padova, Treviso, scrive, è sul punto di maturare la volontà di mandare al diavolo la capitale e dintorni». «Attenzione, manutengoli ingordi - conclude riferendosi alle regioni del Sud - a non tirare troppo la corda, poiché correte il pericolo di rompere il giochino che finora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro meritata».
Vittorio Feltri: "Coronavirus o no, l'Italia non cambia". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 aprile 2020. Leggo vari interventi sui giornali e apprendo che il virus in ogni caso cambierà il nostro modo di essere e vivere. Saremmo di fronte a una sorta di rivoluzione, che fa rima con mutazione. Gli italiani si starebbero preparando ad avere rapporti sociali del tutto nuovi, non più quelli di una volta. Può darsi, tutto è possibile, tuttavia al momento scorgo segnali opposti: i vizi nazionali negli ultimi due mesi si sono confermati e addirittura consolidati. L' Italia era ed è rimasta un insieme di genti e non dispone di un popolo omogeneo e solidale. Non è una nazione bensì un agglomerato di comuni che faticano a riconoscersi in una patria e perfino in una regione. Il Sud gioisce e fa pernacchie al Nord, felice che i settentrionali siano stati massacrati dal virus assassino. I meridionali interpretano questa congiuntura come un giudizio universale. Pensano - scrivono e cantano - con gaudio che la giustizia divina ha regolato conti in sospeso da secoli. «Che meraviglia vedere i polentoni che annaspano nelle sale della terapia intensiva. Quanti morti ieri a Milano? 800? Buona notizia. A Napoli solo 200. Ovvio, noi partenopei siamo migliori, moralmente più saldi, non adoriamo dio Soldo ma, al massimo, San Gennaro». Altro che unità Nazionale. Godiamoci la vendetta e suoniamo il mandolino a festa. Vincenzo De Luca proclama di voler sigillare i confini della Campania. Fa bene. Li chiuda per sempre, però non solamente in entrata, piuttosto anche in uscita, così la smettiamo con le polemiche sterili. Il governatore del Friuli, Massimiliano Fedriga, annuncia di bloccare il trasferimento dei proventi fiscali a Roma. Se li tiene per sé e i suoi corregionali. Ottima idea. Se la sposano pure il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, i signori del Mezzogiorno cesseranno di festeggiare i trionfi del Covid. Come si vede i costumi sono immutabili. Ci sarà un perché. Si sostiene che ai primi di maggio ci sarà una ripartenza economica in tutta la Penisola. Non ci credo. Ogni regione ha le proprie peculiarità e i propri problemi non solo sanitari, ciascuna di esse merita una considerazione particolare. Perché le nostre caratteristiche sono diverse dalle Alpi a Palermo. Il governo non si illuda che uno valga uno, a volte uno vale 5 oppure zero. Giuseppe Conte gira il mondo, si è recato dappertutto meno che a Bergamo e Brescia, convinto forse che queste due città siano bavaresi, dato il loro reddito. Egli se ne frega del Settentrione, crede che sia Centocelle, una periferia indegna di attenzione. Oggi quanto ieri e dieci anni fa, la locomotiva finanziaria italiana è importante solamente allorché si tratta di delapidarla. Da queste parti si è svolto un referendum a favore dell' autonomia, che ha stravinto, eppure Roma ha fatto spallucce per non mortificare sé medesima e i meridionali in bolletta e quindi bisognosi degli oboli di Milano e vasti dintorni. Ma andate a morire ammazzati.
Trapani: "Coronavirus, sintesi su Napoli e i napoletani visti da Feltri, Sgarbi, Merlino, Mentana e...". Il giornalista e scrittore ha fatto una sintesi su quanto detto da alcuni personaggi tra politici e giornalisti sulla città di Napoli in relazione all'emergenza. Areanapoli.it il 21 aprile 2020. Paolo Trapani, giornalista e scrittore napoletano, attraverso la propria bacheca di facebook, ha fatto un riassunto su quanto accaduto fin qui da quando è iniziata ufficialmente l'emergenza coronavirus in relazione all'approccio avuto dagli organi di stampa nei riguardi della città di Napoli. Ecco quanto si legge: "Marzo/aprile 2020, breve sintesi su Napoli e sui Napoletani secondo la visione di alcuni 'autorevolissimi' scienziati. Napoli abitata da fannulloni che suonano il mandolino (Feltri). Napoli che non pensa a lavorare perché non ha aziende da riaprire (Senaldi). Napoli amministrata con rigore altrimenti i napoletani non rispetterebbero le regole (Sgarbi)". E poi: "Napoli senza eccellenze, perché in fondo il ''Tocilizumab di Ascierto'' già lo conoscevano ma non lo usavano (Galli). Napoli affollata che si svuota, sfortunatamente, all'arrivo delle telecamere (Biggioggero). Napoli che deve ringraziare la Lombardia se il virus non ha raso tutto al suolo, mica il senso civico e i sacrifici dei suoi cittadini (Gallera). E se a Napoli nasce il primo Covid-center da campo, il primo protocollo sperimentale e vi è il primo ospedale pubblico a contagio zero tra medici ed operatori sanitari è una casualità, ovviamente, perché a Napoli ogni tanto c'è ''anche'' una ''sorprendente'' eccellenza (Mentana e Merlino)".
Articoli Feltri, il presidente dell'Ordine dei Giornalisti scrive a de Magistris: "Chiedo io scusa". La lettera di Carlo Verna al Sindaco di Napoli alla luce degli ultimi articoli del giornalista di Libero. Redazione napolitoday.it il 21 aprile 2020. Il presidente del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti Carlo Verna ha scritto al sindaco di Napoli Luigi de Magistris in merito alle recenti polemiche innescate dagli articoli di Vittorio Feltri e Libero. "Sono nato in uno storico palazzo nel cuore di Napoli - scrive Verna - in via Foria dove Luciano De Crescenzo girò diverse scene del suo famoso 'Così parlò Bellavista'. In quell’edificio dove campeggia uno stemma in cui si legge 'numquam retrorsum', giammai indietreggeremo, non ci sono ascensori. Ma il Professore ne simulò scenograficamente l’esistenza per una scena sublime. La coesistenza obbligata nel buio e nel silenzio del napoletano e del milanese (interpretato dall’impareggiabile attore meneghino Renato Scarpa) che si guardavano con sospetto e che all’improvviso incontrandosi scoprirono reciprocamente un filo umano che li univa molto più resistente degli stereotipi divisivi, facendo scoccare la scintilla dell’amicizia. Un sentimento che deve estendersi in questi giorni di una prova difficilissima. Napoli è Milano, Milano è Napoli, Italia, Europa (nonostante le spine), mondo, umanità. Quei tanti morti lombardi per lo spirito di Bellavista sono i nostri morti. De Crescenzo è stato Napoli, Feltri non è Milano, non lasciamoci trascinare fuori da quell’ascensore. Se non si sale si scende così come Papa Francesco sottolinea che chi non progredisce regredisce". "Perché scrivo, perché me ne occupo a costo di apparire sdolcinato? Cambio subito tono, assumendo le vesti di presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, che si ritrova tra gli iscritti questo nome (Vittorio Feltri, ndr) noto anche per la sua capacità di essere urticante, in passato pure in maniera brillante ma negli ultimi tempi fuori dalle righe e meritevole di ampie reprimende come seminatore d’odio. In tanti scrivono per sollecitare di metterlo fuori della nostra comunità professionale. Si può fare attraverso un regolare procedimento guidato da un autonomo consiglio di disciplina. È competente quello del luogo dove il giornalista è iscritto, ovvero nel caso specifico quello della Lombardia, che naturalmente deve essere attento sempre nelle sue pronunce alle libertà garantite dall’art. 21 della Costituzione, anche se sottolineo il principio di non discriminazione insito nell’art.3 noto per sancire l’uguaglianza, e ai giuristi indicherei la strada della valutazione della cosiddetta legge Mancino. È lo stato diritto che dal 2012 ha voluto la separazione dei poteri anche nell’ambito degli ordini professionali. Con chi giudica nessuno può interferire. Sarebbe come chiedere conto a un Presidente del consiglio dell’azione, dell’omissione o della fondatezza della pronuncia di un magistrato. Non si può fare. Posso solo chiedere scusa a mio nome e a quello della stragrande maggioranza di colleghi che hanno lo stesso tesserino di Feltri, per il reiterato atteggiamento di vacua ostilità. Lo trovo indegno ma mi adeguo e amo Milano come Napoli, di cui sono sempre rimasto orgoglioso cittadino. Con Luciano e Renato accendiamo le due candeline nel silenzio dell’ascensore, come nel film, distanti dal rumore di Vittorio", conclude Verna.
Feltri e Sgarbi, sui "mandolini" di Napoli rispose già Massimo Troisi. La stilettata di Dario Sarnataro. Dopo le polemiche per le parole di Feltri e Sgarbi nei riguardi dei napoletani, il collega del quotidiano Il Mattino ha ricordato le perle di Troisi. Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 aprile 2020. "C’è chi ha (aveva) classe e ironia e chi invece continua ad alimentare odio e divisioni (anche in questo momento drammatico), vomitando parole infeltrite nel disprezzo e negli stereotipi più banali. L’uomo non cambierà mai...". Questo il commento di Dario Sarnataro, giornalista del quotidiano Il Mattino e speaker di Radio Marte. Una stilettata - evidentemente - nei confronti di Vittorio Feltri, direttore di Libero il quale nelle scorse ore ha dichiarato: "Il Nord vuole riaprire per lavorare, non per suonare il mandolino". Vittorio Sgarbi, invece, dopo aver sostenuto in diretta che "i napoletani non rispettano le regole", ha chiarito che intendeva dire "regole insensate, non è un attacco a Napoli". Dario Sarnataro ha anche ricordato, a corredo delle sue parole, la maestria con cui il grande Massimo Troisi smontò i luoghi comuni su Napoli nel noto film "No grazie, il caffè mi rende nervoso", ma anche in una storica intervista rilasciata a Pippo Baudo. Insomma, passano gli anni, ma gli stereotipi sono ancora somari di battaglia (non ce ne voglia il povero ciuco, che non ha la classe del cavallo) cavalcati da pseudo intellettuali patentati. Non ce ne voglia Troisi - che ci ha lasciati nel lontano 1994 - se il suo nome lo accostiamo a personaggi discutibili. Purtroppo passa il tempo e alcuni ancora insistono alzando muri di ignoranza mirabilmente demoliti con ironia dal fuoriclasse Sangiorgese più di 30 anni fa.
Il coronavirus non ferma il razzismo verso il Sud: Vergogna! Su rete 4 continua la campagna infamante verso la Campania. di Carolina D'Avino il 22 Aprile 2020 su 21secolo.news. In prima serata il direttore di Libero, Feltri, si esibisce in una serie di offese verso il Sud e nello specifico contro la Campania. Il pretesto usato stavolta è la dichiarazione del governatore della regione Campania De Luca, il quale aveva annunciato, nei giorni scorsi, di trincerare la Campania se le regioni del Nord riaprissero prima della fine dell’emergenza sanitaria. A “Fuori dal Coro” intervistato dal collega Mario Giordano, il Direttore Feltri, già tristemente noto per la sua ideologia verso i meridionali, si lancia senza pietà contro la Campania. La canzone è dalle strofe conosciute, perchè cantate già dallo stesso governatore della Lombardia Fontana: bisognerà chiudere le porte a chi si reca in Lombardia per farsi curare. Nessun accenno ai tanti meridionali che sono la forza lavoro delle imprese del Nord, né ai tanti precari della scuola che ogni anno si recano in Lombardia, Piemonte, Veneto ecc., perchè vi è penuria di insegnanti. Feltri, però, rincara la dose e dopo aver detto senza giri di parole, che mai si recherebbe in Campania, aggiunge che non avrebbe motivo di farlo perchè vorrebbe dire poter fare solo il posteggiatore abusivo. Se anche questo non bastasse, chiude la sua invettiva affermando che i Campani sono a suo avviso inferiori. Disinteressato al parere di chi ascolta, quando Giordano gli fa notare che le sue parole potrebbero offendere chi ascolta, risponde di essere abituato a querele e denunce. Il presentatore si dissocia ma ormai il dado è tratto. Visto il passato del direttore di Libero la cosa potrebbe anche passare inosservata, se non fosse che episodi di questo genere si verificano ormai tutti i giorni e su tutte le reti, dalla Rai a Mediaset passando per La7. Il coronavirus non ferma il razzismo verso il Sud, altro che belle speranze che questo virus apocalittico ci renderà migliori. Uniti sui balconi, cantiamo un Inno Nazionale di cui ignoriamo il testo, che si riporta testualmente:
“Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi,
Perchè non siam popoli,
Perche’ siam divisi“
e nel frattempo continuiamo a diffamare quel Sud raccontato come fanalino di coda di un Nord industriale, quando invece spesso è la mente di quel motore, senza il quale il braccio non potrebbe funzionare. Una pagina, l’ennesima, che fa vergogna all’Italia. Inconcepibile che nel 2020 si debba ancora ascoltare in Tv, in prima serata, un racconto vecchio e incompleto.
De Crescenzo: "Qualcuno fermi Feltri, è istigazione all'odio razziale. Denuncia e mail agli sponsor". Il noto professore ha replicato alle dichiarazioni del direttore di Libero che ha definito i "meridionali inferiori nella maggior parte dei casi". Redazione di areanapoli.it il 21 aprile 2020. Gennaro De Crescenzo, napoletano, laurea in lettere, docente di italiano e storia, giornalista, saggista, specializzato in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli e fondatore nel 1993 del Movimento Neoborbonico, ha attaccato duramente il direttore di Libero, il giornalista Vittorio Feltri il quale ai microfoni di Rete 4, pochi minuti fa, ha dichiarato: "I meridionali sono inferiori in molti casi. Si arrabbiano? Chissenefrega". Ecco quanto scritto da De Crescenzo: "BASTA CON FELTRI: QUALCUNO FERMI QUESTO PERSONAGGIO. È ISTIGAZIONE ALL'ODIO RAZZIALE. SERVONO MIGLIAIA DI MAIL AGLI SPONSOR DI RETEQUATTRO ("Fuori dal coro" 21/4/20) e una denuncia penale, visto che l'Ordine dei Giornalisti non fa nulla". Poi ha aggiunto: "Feltri ha poi detto: "Cosa andremmo a fare in Campania? I posteggiatori abusivi? È invidia contro la Lombardia, sono complessi di inferiorità anche se IN GRAN PARTE DEI CASI I MERIDIONALI SONO INFERIORI". Il tutto tra battutine e risatine del conduttore Mario Giordano e dell'ospite. Riusciamo a far arrivare agli sponsor migliaia di lettere? Io gli ho scritto. "Fino a quando sponsorizzerete programmi come Fuori dal Coro con ospiti razzisti come Feltri che sputa fango sui meridionali "che in gran parte dei casi sono inferiori" io non posso più acquistare i vostri prodotti. Saluti rammaricati dal Sud".
Feltri e i meridionali inferiori. Dipocheparole il 22 Aprile 2020 su nextquotidiano.it. In questo simpatico spezzone di Fuori dal Coro di Mario Giordano possiamo ammirare (si fa per dire) Vittorio Feltri mentre tenta per l’ennesima volta di scatenare contro di sé una shitstorm prendendosela con uno dei suoi bersagli preferiti: i meridionali: “Molta gente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché ha un complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità, credo semplicemente che i meridionali in molti casi siano inferiori”. Subito dopo potete ammirare come Giordano finga alla grandissima un po’ di indignazione come da copione dopo la frase di Feltri mentre in realtà nella sua testa sta esultando come Tardelli dopo il goal alla Germania nel 1982 perché Feltri ha fatto il suo solito spettacolino che farà arrabbiare metà del suo pubblico e divertire l’altra metà. Poi addirittura dice: “Ma se cambiano canale è un guaio!”.
Feltri attacca i meridionali, Ziliani: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha commentato le parole di Feltri sui suoi profili ufficiali social. Redazione areanapoli.it il 22 aprile 2020. Vittorio Feltri è intervenuto nel corso della trasmissione "Fuori dal Coro" utilizzando delle discutibili parole contro i meridionali. Il direttore di Libero è un fiume in piena e continua a non digerire la possibile scelta di De Luca di chiudere i confini della Campania. "Al Sud stanno gioendo per le disgrazie del Nord. Non dovrebbero odiarci così tanto, visto che ben 14mila meridionali ogni anno si curano nelle strutture lombarde. Hanno un sentimento di rabbia e invidia nei nostri confronti perché subiscono una sorta di complesso d'inferiorità. Io però non credo ai complessi d'inferiorità, credo che in molti casi i meridionali siano inferiori". Il giornalista de Il Fatto Quotidiano, Paolo Ziliani, ha risposto così a Vittorio Feltri sui suoi profili ufficiali social: "Vergognarsi di essere settentrionali. Oltre che giornalisti. Oltre che esseri umani". Angelo Forgione, giornalista e scrittore napoletano, ha commentato così il pensiero di Feltri: "L'ODG capisca che quella di #Feltri, da tempo, non è libertà di opinione ma istigazione all'odio che non può essere più tollerata. Le trasmissioni deputate a creare scompiglio si nascondono dietro il suo sfacciato razzismo e lo strumentalizzano per compiere sinistri disegni".
Vittorio Feltri a Fuori dal coro: “Meridionali inferiori, subiscono il complesso”. Antonio Scali il 22 Aprile 2020 su TPI. Ieri, 21 aprile 2020 il direttore di Libero Vittorio Feltri è stato ospite della trasmissione di Rete 4 Fuori dal coro condotta da Mario Giordano. Che Feltri non sia uno che le mandi a dire e che ami le polemiche non è certo una novità, ma stavolta forse ha fatto un passo oltre, suscitando critiche unanimi. Ripercorriamo cosa è accaduto. Giordano gli ha chiesto se nei confronti della drammatica situazione in Lombardia a causa del Coronavirus ci sia stato “un po’ di accanimento“, una sorta di “godimento per i primi della classe che stanno male”. Una domanda provocatoria alla quale Feltri ha risposto senza tanti giri di parole: secondo il direttore di Libero, infatti, è evidente che ci siano persone che stanno godendo per la situazione della Lombardia. “Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del Coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che naturalmente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità“, ha spiegato Feltri. Il giornalista ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori“. Ecco il video tratto dalla puntata di ieri di Fuori dal coro: Una frase che ha messo in imbarazzo persino Giordano, conduttore della trasmissione, che ha bonariamente rimproverato il collega: “Adesso me li fa arrabbiare davvero”. Feltri ha poi risposto: “E chi se ne frega se si arrabbiano, secondo me si arrabbiano tutti i giorni. Mi insultano e mi augurano di morire ma io dico quello che penso”. La vera preoccupazione di Giordano però non sembra essere l’indignazione per le parole appena ascoltate contro i meridionali quanto l’auditel: “Se mi cambiano canale è un guaio”. A quel punto il direttore di Libero lo ha rassicurato dicendo: “Non preoccuparti, per queste cose non cambiano canale. Stanno lì di più per odiarmi maggiormente”. Feltri purtroppo non è nuovo ad uscite del genere nei confronti del Sud. Parlando sempre del Coronavirus, infatti, il giornalista in un recente articolo su Libero aveva parlato di “brutta fine meritata” per i meridionali. Le parole di ieri a Fuori dal coro hanno indignato molte persone, che adesso chiedono la sua definitiva radiazione dall’albo dei giornalisti.
Coronavirus e mass media: Perché torna di moda l’odio contro il Sud? Amedeo Zeni su Ladomenicasettimanale.it il 20 Aprile 2020. Il razzismo, soprattutto in sociologia, è facilmente spiegabile con definizioni accurate sulla disuguaglianza, teorie basate sul pregiudizio che esistano razze superiori e razze inferiori. Una propensione dunque, a ritenere usi e costumi migliori rispetto ad altre comunità. Una fobia che può avere cause storiche come il dominio coloniale, atto a giustificare lo sfruttamento di territori, motivi economici che “autorizzano” il pensiero frustrante che un’altra collettività è la causa del proprio malessere (Hitler vi ricorda qualcosa?), cause culturali con pregiudizi connessi all’integralismo religioso o politico che tendono a non accogliere differenze e a ghettizzare di conseguenza ogni forma di diversità e mille altre definizioni ognuna utile e importante. Insomma, se vogliamo tradurre il concetto di razzismo in spiegazioni accessibili, potremmo parlare da qui a domani. Può addirittura esistere, e perché no, una spiegazione in termini sessuali. Apriti cielo. L’idea anch’essa implicitamente culturale e radicata nel nostro inconscio (senza scomodare psicoanalisi freudiane) che l’altro sia più dotato di noi. Avete letto bene, dotato. Ammettiamo che possa apparire semplicistica come spiegazione, ma è davvero così impensabile, in un’analisi di natura quasi antropologica, ritenere che non ci sia un file rouge tra invidia sociale e vigore sessuale in alcune determinate forme di razzismo? Una persona di colore scura è ancestralmente immaginata come sessualmente più dotata di una persona bianca; che sia vero o meno al momento non importa, il punto del ragionamento sta nell’immaginare una definizione che vede il razzismo come forma di ignoranza generata dall’insicurezza e dal depotenziamento della propria virilità se confrontato con le dotazioni fisiche degli altrui apparati muscolari. Vi assicuro che non siamo impazziti, non ancora, è in realtà la cultura moderna che porta a immaginare anche scenari mentali di questo tipo. In una era così globalizzata in cui le informazioni sono accessibili davvero a tutti, il pensare ancora in modo insofferente nei confronti di altri non sempre può avere radici storiche ma talvolta può anche manifestarsi, semplicemente, in una forma di sudditanza psicologica (o meglio, complesso di inferiorità) verso chi, nonostante eventuali arretratezze in termini di risorse economiche e sociali, è esteticamente più piacevole, più radioso e più capace di far proseguire la specie godendo di una forma fisica e mentale predisposta alla solarità, alla condivisione del piacere, e semplificando, alla sessualità. In uno stato di precarietà delle opportunità intese come incapacità di godersi la vita liberamente, ora per stacanovismo, ora per condizionamenti da climi ostili, ora per rivalità in senso generico, accade quindi che attori sociali, seppure talvolta dotati di lauree, siano sprovvisti di quelle astratte competenze che garantiscano loro (e nessun libro questo lo insegna) di essere più predisposti alla bellezza con tutti i suoi sottoinsiemi. Se in modo quasi farsesco abbiamo pensato che un uomo di colore viene invidiato e quindi odiato perché ha genitali più importanti, stessa cosa accade, in un paradosso quasi metafisico, per alcuni del nord Italia che, nel 2020, ancora cercano di evidenziare gli stereotipi sul sud, nello specifico su Napoli e su napoletani. Sia ben chiaro, diciamolo per i polemici, Napoli ha i suoi difetti, le sue tracotanze, le sue violenze e bla bla bla, ma questo coronavirus sta mettendo in atto con le mille sfaccettature della comunicazione, una possibile spiegazione di questo costante tentativo di infangare la città di Napoli. E se fosse invidia sociale? Se fosse invidia sessuale? Se fosse quella interna e quasi inspiegabile rabbia dovuta al fatto che lì, in quella “terra del malaffare” c’è la bellezza in senso lato, ci sono le bellissime ragazze e i bellissimi ragazzi che sanno come vivere (e come sopravvivere) mentre i taluni idioti nordici (più pochi forse di quanto si creda) non riescono a ottenere queste gratifiche (ora per motivi fisici ora semplicemente per mancanza di apertura mentale). La provocazione è ovvia, ma nemmeno poi tanto lontana da una possibile verità. L’invidia della bellezza, che essa sia sensualità estetica, letteraria, paesaggistica, sessuale, è di sicuro presente in chi ancora prova ad odiare Napoli, per il semplice motivo che ritiene (pur senza saperlo consciamente) di non avere le stesse opportunità. Un pensiero sbagliato perché l’Italia è bella ovunque a sud come a nord, e questo lo sanno bene le persone intelligenti che abitano nel settentrione dello stivale italico, e che non si fanno il problema di odiare, perché sanno godersi la propria esistenza senza alimentare un odio interiore così profondo. Sono quelli dall’accento nordico che, seduti a tavola con chi ha l’accento napoletano, non pensano a decifrare correttamente le proprie sintassi dialettiche, né, sicuri di sé, spendono il tempo a misurazioni subliminali dei propri apparati ma pensano a mangiare e godersi la giornata di sole. Tutto il resto, convinciamocene, è invidia. Amedeo Zeni
Coronavirus, Zaia: "È Sud contro Nord. Dal 4 maggio solo riaperture". Il governatore del Veneto: "Se alcuni presidenti chiudono i confini regionali, fanno loro l'autonomia". E sulla riapertura: "Se c'è supporto scientifico, giusto aprire". Giorgia Baroncini, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. "È una prima forma di autonomia, il Sud ha deciso di sposare il nostro progetto autonomista, lo dico come battuta. Voglio fare una appello: finitela di dire Nord contro Sud. Se il Sud dice di chiudere le frontiere, è Sud contro Nord", ha tuonato il presidente del Veneto Luca Zaia commentando l'annuncio del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che si è detto pronto a chiudere i confini regionali. "Se dovessimo avere corse in avanti in regioni dove c'è il contagio così forte, la Campania chiuderà i suoi confini. Faremo un'ordinanza per vietare l'ingresso dei cittadini provenienti da quelle regioni", aveva infatti dichiarato De Luca. "Sarebbe difficile bloccare lo spostamento fuori regione se le imprese sono aperte - ha commentato Zaia in diretta Facebook -. Mettevi nei panni di un cittadino che sale in treno: vuol dire che tutti i treni saranno soppressi, che tutti i treni che escono dai confini regionali non hanno più senso. Ma che proposta è, come fanno a mettere in piedi queste misure? Noi abbiamo sempre ospitato e accettato tutti, non ho mai fatto un'ordinanza per mandare via la gente dalle seconde case''. Il governatore del Veneto ha poi ribadito la sua posizione sulla ripartenza del Paese: ''Se c'è il supporto scientifico, è giusto che si apra. Sancita la messa in sicurezza dei cittadini e che si andrà avanti con un trend di attenuazione del contagio, ritengo che il tema della riapertura si possa affrontare agevolmente. Tempi? Speravo e spero che qualche segnale arrivi anche prima, ma immagino che il 4 maggio sia la dead line, oltre la quale ci saranno solo provvedimenti per le riaperture'', ha spiegato. Da giorni il Veneto spinge per la riapertura tanto che Zaia aveva anche auspicato ad un allentamento delle misure "da subito, in modo razionale, prudente e ragionato". Ma il premier Conte è stato chiaro: non intende accelerare i tempi e dare il via alle riaperture prima del 3 maggio. Nel piano di "ritorno alla normalità" di Zaia "la mascherina è una conditio sine qua non. Stiamo lavorando per una soluzione sostenibile e rispettosa della libertà. Ribadisco, se tutti indossano mascherina, guanti e disinfettanti abbiamo risolto oltre il 90 per cento dei problemi". Poi l'attacco: "È deplorevole chi esce senza mascherina, non ha coscienza che mette in pericolo la salute degli altri. Chi esce senza mascherina è irresponsabile".
Vittorio Feltri sui napoletani: "Lo è il mio migliore amico, un genio. Ma ci sono anche dei fessi". Libero Quotidiano il 06 aprile 2020. Un cinguettio autobiografico, quello vergato da Vittorio Feltri. Parla di amicizia, adolescenza e allegria, il direttore di Libero. Su twitter, infatti, scrive: "In Molise ho trascorso la mia adolescenza in modo meraviglioso. Ho vissuto a Napoli i giorni più allegri, città che amo e so essere stata la capitale della cultura europea. Napoletano è il mio più grande amico, Paolo Isotta, un genio". E dopo la lunga premessa, la stoccata: "Ma anche tra i partenopei ci sono i fessi". Già, tutto il mondo è paese. Il sospetto: Vittorio Feltri si riferisce alle immagini che arrivano da Napoli dove di fatto la quarantena da coronavirus non viene assolutamente rispettata?
Vittorio Feltri: "Tre signore meridionali hanno identificato il Coronavirus in 48 ore, una lezione a tutti". Cristina Agostini su Libero Quotidiano il 2 febbraio 2020. Vittorio Feltri elogia le ricercatrici dell'ospedale Spallanzani di Roma: "Tre signore meridionali hanno identificato il Coronavirus in 48 ore, un miracolo", scrive il direttore di Libero in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "Una lezione a tutto il mondo scientifico. Poi dicono che i terroni sono incapaci. Balle. Applausi a loro". Le tre dottoresse sono Maria Rosaria Capobianchi, Francesca Colavita e Concetta Castilletti. A capo del team c'è la Capobianchi, 63 anni, venti dei quali passati nel laboratorio di virologia dell'ospedale capitolino di Via Portuense, che dirige con energia e tenacia: una squadra che già in passato ha isolato virus come Ebola e Chikungunya. "Avere a disposizione il virus è partire da una buona base per fare tutto quello che serve dopo", spiega. Prossimo passo "il sequenziamento del genoma che verrà presto completato e distribuito a livello internazionale per aiutare la lotta al coronavirus". Leggi anche: "Perché finiremo tutti contagiati dal Coronavirus". Sondaggio choc di Noto: numeri agghiaccianti Tre signore meridionali hanno identificato il Coronavirus in 48 ore, un miracolo. Una lezione a tutto il mondo scientifico. Poi dicono che i terroni sono incapaci. Balle. Applausi a loro.— Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2020 "Isolare il virus e il materiale di partenza iniziale per qualunque cura - spiega Capobianchi -. Averlo a disposizione grazie a un sistema di crescita e di coltivazione in vitro, fornisce uno strumento per perfezionare le diagnosi, i test sierologici e la risposta delle persone all'infezione". Lo studio degli anticorpi rappresenta un aspetto fondamentale perché è la "risposta protettiva" dell'organismo ed è quindi il primo passo per un eventuale studio su un vaccino. "Inoltre avere un virus in coltura permette di provare farmaci in vitro", aggiunge, "e studi di patogenesi, sui meccanismi di replicazione, i rapporti tra il virus e la cellula ospite e i casi di infezioni primarie e secondarie".
Vittorio Feltri, la lettera a Bergamo: "Ho perso il conto dei morti. Io, colpevole di essere scampato allo sterminio". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 aprile 2020. La mia amata Bergamo è in ginocchio, così prega meglio, con maggiore concentrazione. In questi giorni di pestilenza assassina che ha provocato migliaia di vittime, un primato assoluto, essa non può fare altro che rivolgersi al Padreterno nella speranza di aiuto, visto che la scienza non sa che fare per contenere la strage. Da queste parti è più facile andare all’altro mondo che al supermercato e la gente ignora come comportarsi, salvo ubbidire alle disposizioni ermetiche di Giuseppe Conte, dal che si evince quanto sia disperata. Sui colli e nelle valli dove ho trascorso infanzia e giovinezza i preti hanno rinunciato a suonare le campane a morto per non terrorizzare la popolazione, già frastornata dai lutti. Non si capisce perché la provincia sia al vertice della classifica dei defunti a causa del virus. Non c’è virologo che abbia scoperto i motivi per cui proprio lassù, in mezzo al verde e tra persone educate, sia avvenuta simile ecatombe. Quasi 5000 trapassati senza contare quelli non censiti. È un mistero più cupo del maledetto Corona. Confesso che anche i miei parenti sono stati falcidiati, ogni dì mi giunge una telefonata che mi informa di un decesso. Pure alcuni miei amici e compagni di scuola sono finiti al cimitero, ne ho perso il conto mentre avrei preferito perdere il Conte. Mi sento un abusivo della sopravvivenza. Quando tornerò a Bergamo per lanciare una occhiata alla casa che conservo in quella terra, avvertirò quasi di essere un estraneo, non troverò qualcuno con cui fare due chiacchiere sulla nostra prodigiosa Atalanta. Io sono ancora qui a picchiettare sul computer, colpevole di essere scampato allo sterminio. Peggio, di essere fuggito dal paesello in ottobre, poco prima che la malattia esplodesse, come se presagissi il peggio, e da allora non ci ho più messo piede. Anche questo particolare mi trafigge il cuore: sono scappato a tempo per evitare il contagio. Mio fratello Ariel sostiene che io abbia soltanto avuto culo o sia stato ispirato da Sangiovese, protettore di chi beve volentieri un bicchiere o quattro. Forse ha ragione lui, però la sera, quando rientro nella mia dimora milanese e in tv seguo le statistiche relative alle vittime del Covid-19, provo una fitta al petto e mi viene il magone, a me che non piango mai per non tradire la mia fragilità. Oggi non mi trattengo, ammetto di essere debole e impaurito, più che la morte temo la disperazione nel constatare che fra i miei concittadini non riconoscerò più coloro con i quali ho condiviso gli anni più belli, quelli con cui passeggiavo spesso lungo il Sentierone, luogo deputato allo struscio, o sulle incantevoli mura veneziane, teatro del mio primo bacio, dato a una ragazza, commessa di un negozio di elettrodomestici, che non ho più incontrato pur ricordandomi con nostalgia la sua tenerezza. Spero non sia stata travolta dal morbo. Sospetto che queste righe turbate possano infastidire il lettore, tuttavia spero che almeno i miei bergamaschi comprendano: costituiscono lo sfogo di uno di loro incapace di trattenere il proprio dolore. Il mio pensiero corre specialmente ai vecchi come me, ammazzati dalla febbre e dalla polmonite. Individui in gamba che accudivano i nipoti e aiutavano i figli a tirare avanti la baracca, cattolici un po’ troppo bigotti ma generosi. Mi mancheranno il tintinnio dei bicchieri e le chiacchiere di ogni venerdì sera, allorché rientravo da Milano, e sostavo alla trattoria Falconi, scherzosamente definita “università della saggezza”, al fine di gustare un calice di bianco. Gli avventori sulle prime mi riservavano un certo riguardo, in seguito, dopo che avevo pronunciato un paio di battute burine, diventavano consanguinei, mi chiamavano Vittorio e volevano sempre offrire loro le consumazioni. Non tradirò mai la mia esistenza paesana, rustica e ruspante. Mi riconosco in ogni orobico, e in questo detto riassuntivo: «Set bergamasca, fiama de rar, ma sota la sender brasca». Traduco: «Gente bergamasca, raramente si infiamma, ma sotto la cenere cova la brace». Ciao, Berghem. Sarai nel mio cuore e ti sarò grato fino all’ultimo giorno che mi rimane. Mi hai dato tutto, soprattutto i vizi e i difetti, e altresì per questo ti voglio bene. Requiem.
Vittorio Feltri, il coronavirus e la pagina dei necrologi: "I morti intorno a me e un pensiero fisso". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 7 aprile 2020. Immagino che i lettori, leggendo ogni giorno quante persone scompaiono dalla faccia della Terra a causa del virus, siano depressi e temano per sé e i propri congiunti di precipitare nel mucchio delle vittime. Davanti a una strage che appare inarrestabile è difficile rimanere indifferenti. Confesso: anche io ho paura come tutti, ma un po' meno, suppongo, poiché con la morte ho una consuetudine familiare. Avevo sei anni quando mio padre se ne volò nell'aldilà inaspettatamente. Ebbe una malattia strana, il morbo di Addison, che colpisce le ghiandole surrenali, alla quale in pochi mesi dovette soccombere. Un paio d'ore prima che esalasse l'ultimo respiro, fui introdotto nella sua stanza di ospedale. Giaceva stremato in un letto, le lenzuola lo coprivano fino al collo, spuntava soltanto il volto afflitto su cui spiccavano le occhiaie viola e la bocca semiaperta a caccia di ossigeno. Fu egli - mi svelarono - a volermi incontrare per l'estremo saluto. Tremavo, avevo capito, nonostante l'età, che sarebbe defunto. Mi disse: «Ricordati, se vuoi, di me, però ricordati soprattutto che riuscirai a diventare grande anche senza babbo, tu hai stoffa, non sprecarla». Poi chiuse gli occhi, forse assopito. Abbandonai la camera in punta di piedi, avvertivo la solennità del momento. Mentre mi avvicinavo all'uscita intravidi mia madre appoggiata con i gomiti al muro, la sua schiena sobbalzava, erano singhiozzi. Non osai sfiorarla. Non è gradevole crescere senza babbo, eppure si può resistere. Bisogna solamente abituarsi a solitudine e fatica. La mamma sgobbava tutto il dì per mantenere la famiglia, eravamo tre fratelli, io il più piccolo. Ho impresse nella memoria certe serate in cucina, illuminata da una lampadina che creava nient' altro che ombre. Ogni tanto mi appropinquavo alla finestra dai vetri appannati e guardavo in basso, nell'oscurità, nella speranza di scorgere la mamma intenta ad attraversare il cortile per raggiungere le scale e arrivare in casa. Era un'attesa estenuante, punteggiata di delusioni. Quando finalmente ella compariva e si accingeva a posare la suola sul primo gradino, le correvo incontro festante, il petto mi scoppiava dalla gioia. Macera si sedeva a tavola e interrogava noi figli sull'andamento scolastico. Io non avevo niente da raccontare, mi bastava starle accanto. Passano gli anni, mi trasformo in un giovanotto, lavoro e studio, ad un ritmo faticoso ma non insostenibile. Scrivo per l'Eco di Bergamo, giornale della mia città, e non mi mancano soddisfazioni. Poi conosco una ragazza, ci frequentiamo, rimane incinta e la sposo. Invece di un bambino, sforna due femminucce. Allorché i medici me lo comunicano perdo i sensi. Penso che allevare due gemelle sia superiore alle mie forze. Tuttavia il peggio deve ancora venire. E viene presto. Mia moglie trapassa. Resto lì come un pirla con due fagottini. Mi adatto e mi risposo con una santa donna che mi ha salvato e che ancora mi salva. Poi va all'altro mondo il marito di mia sorella, così, tanto per gradire. Quindi scompare la mia mamma, altra botta. Insomma intorno a me si infittisce il cimitero. Sono costretto ad abituarmi ai decessi, ciascuno dei quali impoverisce il mio piccolo universo affettivo e mi induce alla rassegnazione. Che è il peggiore dei sentimenti umani. Tutti sappiamo che la vita ha un termine, però quando si conclude intorno a te il tuo animo si strazia. La mattina, appena ti svegli, non rifletti su come sarà la tua giornata, bensì sul vuoto che hanno creato nella tua esistenza coloro che se ne sono andati via. La sera, quando ti corichi, ti senti immeritatamente un sopravvissuto. E mormori a te stesso: «Adesso tocca a me». Valuti: «Poco male, l'importante è non soffrire». Invece soffri già e ogni dolorino che avverti nel corpo sospetti che sia un segnale. Infine la mente ti restituisce le immagini ormai sbiadite delle persone che amavi e concludi: «Se crepo pure io forse è giusto». Intanto tengo duro e quando sull'Eco di Bergamo scorro i necrologi delle centinaia di trapassati, gente delle mie parti, i miei lutti si estendono all'infinito avvicinandomi non solo ai miei estinti ma a tutti. L'unica certezza: presto o tardi tireremo le cuoia, io e voi.
Coronavirus, Vittorio Feltri: "Finché uccide i vecchi non è il caso di allarmarsi. Ecco il vero razzismo". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Vittorio Feltri ammette che il razzismo, in tutta questa vicenda del coronavirus esiste. Ma attenzione, è razzismo verso gli anziani. "Contrordine: non è vero che non esista il razzismo", scrive il direttore di Libero in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "C'è e colpisce i vecchi". E c'è anche "la prova", che "consiste nel fatto che il virus uccide le persone su di età e ciò sembra consolare chi ha paura" del contagio. "Finché crepano i Matusalemme", conclude Feltri, "non è il caso di allarmarsi". Insomma, come aveva scritto in un tweet precedente, "non è più il colore della pelle a essere discriminante ma l'età. Ma il razzismo è lo stesso".
Ecco il nuovo razzismo: "È morto? Era anziano..." Alessandro Sallusti, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Sono anziani, e quindi spesso già malati di loro, i primi morti italiani del Coronavirus. Nei commenti ufficiali e nelle chiacchiere tra conoscenti e amici è quello dell'età l'argomento principe per scacciare la paura di essere coinvolti nell'epidemia o per depotenziarne gli effetti. Io non sono più giovane, ma neppure ottantenne, quindi sono in una specie di limbo: in caso di contagio, essendo pure cardiopatico, rischio di morire ma non troppo, diciamo una cosa giusta. È ovvio che i primi a cadere, in guerra come nella vita, sono i più deboli o se volete i meno forti. E sarebbe banale ricordare che dopo i primi (i vecchietti) è il turno dei secondi (gli adulti) e poi dei terzi (i giovani) come è purtroppo successo in Cina dove l'età media dei contagiati secondo uno studio dell'americana Emory University pubblicato dalla rivista scientifica Jama -, si attesta attorno ai 54 anni. Ma attenzione, mettiamo pure che l'azione più virulenta del virus resti confinata nella terza età, che per gli statistici inizia chissà perché - a 65 anni. Parliamo di un bacino potenziale di oltre dodici milioni di persone a rischio, tanti sono gli ultra sessantacinquenni in Italia. E se stringiamo il campo agli ultra ottantenni non tutti ovviamente in ottima salute la cifra scende a quattro milioni (di cui uno nella sola Lombardia), direi non proprio noccioline. Se l'epidemia dovesse fare strage in questa fascia di popolazione darebbe certo una mano ai traballanti conti dell'Inps, ma non mi sembra questo un valido motivo per lasciarglielo fare. Non è che la vita di un anziano con la salute «così così» vale meno di un'altra. Anzi, semmai va più protetta proprio perché più fragile. E proteggerla non è soltanto compito delle autorità preposte ma anche direi soprattutto di chi anziano non è e che con i suoi comportamenti («tanto io sono forte, sano e la faccio franca») può seminare il virus là dove attecchirà con più violenza. In un'epoca in cui tutto (spesso anche le scemenze) è definito razzismo, teniamo alta l'allerta sul razzismo contro gli anziani. Ieri non sono morti di Coronavirus due ottantenni, ma due persone esattamente come chiunque di noi. Se non deve contare il colore della pelle, perché mai dovrebbe essere importante l'età?
Coronavirus in Italia, neanche gli anziani meritano di morire. Giampiero Casoni 25/02/2020 su Notizie.it. A ogni notizia di morte per Coronavirus ci rassicuriamo dicendo: "Muoiono solo anziani". E magari abbiamo accanto nostra madre e nostro padre, che smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi. Fra le tante appendici un po’ cretine che l’arrivo in Italia del Coronavirus sta generando ce n’è una che proprio non dovrebbe andarci giù: quella per cui, essendo clinicamente le persone anziane più suscettibili di andarsene al Creatore a causa di Covid 19, la percezione della loro morte sia vista come un fatto quasi ineluttabile o secondario. Come al solito essere anziani è faccenda dura, non solo nel tran tran di una quotidianità che li percula nei meme sui cantieri, ma anche nella drammatica eccezionalità di un’epidemia birbacciona come poche. Torna prepotente ed immortale alla memoria Zavattini, che pare dicesse che “l’età non produce saggi, ma solo vecchi”, persone cioè che ogni società si ostina ad elevare ad archetipo di categoria da rispettare, ma che poi puntualmente, quando le ginocchia dei sistemi complessi occidentali tremano, sono le prime a pagare pegno ad un cinismo che ci dovrebbe far incazzare anche a fare la tara alle paure di questi giorni. Dove sta scritto che, essendo morte per lo più persone anziane a causa del Covid 19, la cosa deve farci meno da ariete emotivo? Entro certi limiti funziona la psicologia narcotica per cui tutti, oggi, ubriachi di social, di scazzottate politiche e di bollettini virologici, cerchiamo di esorcizzare il male rimarcando con ostinazione bambina gli ambiti dove fa male davvero, quelli cioè dove sui documenti di identità campeggiano date da Italia monarchica. Però non basta. Chi ha riflettuto, seriamente riflettuto sul fatto empirico e semplice che magari una di quelle persone morte in questi giorni avrebbe avuto davanti a sé altri cinque, dieci, quindici anni di vita, magari anche attiva e gratificante? Ci siamo posti il problema che ogni morte è devastazione pura per gli affetti che essa scuote e che ci sono persone che piangono quei morti, anziani, giovani o prefetali che siano? No, se sei vecchio puoi morire quasi nella beatitudine beota di chi ormai ha fatto il suo tempo e paga pegno all’eugenetica imbecille di un certo modo di percepire la società. E si badi bene e finiamola di non dircelo, trattasi di società che è buonista ma non buona, che disegna una povera Italia 2.0 e fa rimpiangere l’Italia povera degli anni ’50, che guarda al progresso ma non conosce la civiltà, due cose cioè che, come diceva Guareschi, sono completamente diverse. Ma a noi poco frega: con le mani imbevute di Amuchina, un occhio ai social e pronti a trasformare ogni “etciù” nel nuovo Allah Akbar, abbiamo trovato il nostro nuovo mantra, il vaccino emozionale che precede il vaccino clinico di Moderna Technologies Inc: quello con cui, ad ogni notizia di morte avvenuta lanciamo nell’aria la litania del "muoiono solo anziani". Magari dicendolo con nostra madre e nostro padre che, dal tinello, smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 28 febbraio 2020. Alessandro Sallusti sul suo Giornale ha messo il dito nella piaga. Il razzismo è vivo e pugnace ma non colpisce i poveri africani o altri diseredati, bensì distrugge i vecchi, contro i quali si è sviluppata una vera e propria congiura. Chi ha compiuto 70 anni, o anche meno, è considerato una persona di scarso valore, un rincoglionito, di solito beone, indegno di far parte del consorzio civile. Mai quanto in questi giorni sono esplosi sentimenti ostili alla cosiddetta terza età. Complice il virus, l' anziano che muore infetto è buono giusto per completare le statistiche, però non dispiace a nessuno che finisca sottoterra. Anzi il suo funerale è consolatorio per i giovani, dimostra che Corona ci vede benissimo e uccide solo gli scarti vetusti della società. Se crepa un giovane tutti si spaventano per immedesimazione. Pensano: oddio forse sono a rischio pure io. Se viceversa va al cimitero un soggetto attempato si fregano le mani dalla soddisfazione: meno male che il virus è esiziale soltanto per quei rompicoglioni che sfruttano la pensione immiserendo l' Inps. A ciò siamo arrivati e il fatto non mi sorprende poiché i venerandi da decenni sono nel mirino di chi si illude di rimanere in eterno giovane, ignorando che per campare a lungo è indispensabile incanutire. I vecchi subiscono lo scherno, il dileggio dei ragazzotti e dei loro genitori, i quali si confermano razzisti. Infatti la discriminazione non si determina in base al colore della pelle, della nazionalità di un individuo, ma scatta nei confronti dei Matusa. Eppure nessuno si scandalizza né deplora tale orrendo costume. D' altronde siamo abituati alla imbecillità diffusa. Basta constatare un particolare. Allorché l' Italia era schiava del fascismo non c' era in giro neanche un antifascista, ora che le camicie nere sono morte l' antifascismo trionfa. Lottare contro i fantasmi è facile.
Ferdinando Camon per “la Stampa” il 27 febbraio 2020. Qui dove sto scrivendo, e cioè a venti chilometri da Vo' che è uno dei focolai del virus, corre con un certo rilievo la notizia che nell' altro focolaio, Codogno, il contagio sta toccando anche i bambini, dai 5 ai 15 anni. Nei bar non si parla d' altro. Perché se la malattia comincia a toccare i bambini, allora è una cosa seria, da combattere con tutti i mezzi, senza badare ai costi. Si dice sempre che la mortalità dei contagiati sta fra l' 1 e il 2 per cento, ma se comprende i bambini è come se aumentasse vertiginosamente. Questo mi fa piacere, è bello vivere in un popolo che protegge i piccoli, però se permettete mi deprime anche, perché i vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l' informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni? Nego che ciò sia vero. I giornali e le televisioni che non lanciano e non rilanciano il dato che a morire per questo virus sono il 14 per cento degli ultraottantenni contagiati sbagliano. I vecchi sono importanti, oso dire più dei giovani, i molto vecchi più dei molto giovani. I molto giovani sono uno spazio da riempire, uno spazio in cui la storia di domani scaricherà materiali che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Chissà cosa ci sarà tra quei materiali. Amori, bassezze, viltà, eroismi, egoismi, onestà, menefreghismi, genialità, idiozie. Non sappiamo. Il nostro amore per i bambini è un amore cieco. Li amiamo a prescindere. Ma i nostri sentimenti per i vecchi non sono ciechi. Riusciti o falliti che siano, i vecchi hanno vissuto, e sono pieni di esperienze. Trattandoli con rispetto e con stima, noi rispettiamo e stimiamo le loro esperienze. Sono fragili, sono preziosi, sono antiquariato. Sono insostituibili. Un vaso nuovo, se lo rompi, ne prendi un altro tale e quale, ma un vaso antico non lo trovi più. Perciò dico: è un medico indegno o cialtrone quello che dà poca o minore importanza ai pazienti vecchi, e vecchi vuol dire più di anziani. Ci fu una volta un medico disonesto, un ortopedico che impiantava protesi difettose, che producevano infezioni, malattie e perfino morte. Lui se ne fregava, a lui costavano poco, se le faceva pagare molto, lucrava sula differenza, e sperava di continuare all' infinito. La malattia non era un problema. La morte era un problema. Siccome i pazienti erano anziani, sopra i sessant' anni o settanta, lui quando uno moriva se lo scrollava di dosso con una battuta: «E quanti anni voleva vivere, novanta?». Rispondo io: sì, certo, novanta e più, perché no? La vita è vita finché è vissuta in attesa di altra vita, quando è in attesa della morte fa parte della morte, è morte anticipata. Erano i filosofi esistenzialisti che vivevano «in attesa della morte», e battezzavano questo tempo fuori della vita in latino, in greco e in tedesco. Io sto pensando alla gente comune, come voi, come me, gente per la quale vivere significa essere vivo, e se sei vivo sei pieno di tutti gli infiniti doni della vita, compresi i litigi, le incomprensioni, i tradimenti, i perdoni, i ritorni, che tu abbia dieci anni o venti o ottanta. Morire vuol sempre dire addio a tutto, e non è vero che il tutto a cui dai l' addio sia più vasto a vent' anni che a ottanta, e che perciò la morte di un ventenne sia una morte completa, mentre a ottanta muore solo quella porzioncina di vita che ancora resta. La morte è sempre una perdita totale, uno di noi se ne va totalmente e per sempre, e piangendo su di lui noi in realtà piangiamo su di noi, sulla nostra fine. Non vorremmo mai che avvenisse. Ci sembra sempre che il tempo che abbiamo da vivere contenga ancora tutto. Una volta nati, vorremmo essere nati per sempre, non per alcuni anni. Siamo tutti collegati, viventi con viventi, e ci sentiamo in pericolo se qualcuno comincia ad escludere qualcun altro, perché è malato, perché è scemo, perché è povero. O perché è vecchio. Non è che se qualcuno muore vecchio, non suona la campana. La campana suona comunque, perché suona per coloro che restano. È dunque se c' è questo 14 per cento di ultraottantenni che se contagiati se ne vanno, smettiamola di ignorarli. Perché imbrogliamo noi, non loro.
Coronavirus tra Nord e Sud Italia. E quella paura che non può diventare intolleranza. Noi meridionali da decenni per qualcuno siamo i colerosi e i terremotati. Sappiamo bene quanto faccia male un atteggiamento del genere, quindi tocca anche a noi fare la nostra parte in favore delle popolazioni di Veneto e Lombardia. Come? Affrontando la storia del Coronavirus in maniera responsabile: il virus dell’idiozia fa danni esattamente come il virus proveniente dalla Cina. Solo che per quest’ultimo si troverà un vaccino. Ciro Pellegrino su Fan Page il 24 febbraio 2020. «Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po' di retorica. Nel primo caso l'abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio». La Peste, Albert Camus. Guardatela da qui, la storia del Coronavirus. Sforzatevi. Guardatela da Sud. Vi dico com'è: noi non siamo abituati. Non siamo abituati a essere quelli che alzano barriere, che lanciano l'allarme. Che respingono (o almeno vorrebbero). Noi meridionali siamo da sempre i colerosi e i terremotati e non solo allo stadio. Siamo quelli al checkpoint, siamo quelli messi in attesa, quelli che devono «attendere le disposizioni dell'autorità». Oggi se un Dio c'è magari non giocherà a dadi ma ammetterete che ha un sottile senso del paradosso. Permettetemi un ragionamento laterale, permettetemi di incorrere nell'errore preconizzato da Camus, cioè quello di un po' di retorica: tranne casi prontamente repressi dalle istituzioni dello Stato, parlo del divieto di sbarchi a Ischia o altre antipatiche decisioni come quel Comune (Casamarciano, Napoli) che ha chiuso le porte a un gruppo di giovani calciatrici venete, qui per ora la paura è rivolta soprattutto verso noi stessi. Non chiamatemi piagnucoloso, ma non faccio altro che pensare ad una cosa: se fosse accaduto il contrario? Se il focolaio di Coronavirus fosse iniziato da Sud, a partire da Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Molise, Basilicata? Se anziché a Lodi ad Avellino, anziché in Veneto a Napoli? Avremmo potuto sperare in pietà? O qualcuno avrebbe rispolverato vecchi steccati mai abbattuti, rialzato muri con mattoni pronti all'uso, gridato ai terroni di andar via, come in anni passati pure è accaduto? La consapevolezza di quanto faccia male un atteggiamento del genere è il nostro anticorpo. C'è sempre più bisogno di cautela. Bene ha fatto ieri il prefetto di Napoli, la città più grande del Mezzogiorno, a richiamare alla calma soprattutto certi sindaci "intraprendenti", pronti a vietare pure gli sbarchi senza motivo. Dunque ora tocca un po' anche a noi, gente del sud, fare la nostra parte e affrontare responsabilmente questa storia, anche nell'utilizzo delle parole nei confronti di chi vive in Lombardia e Veneto (peraltro spesso sono emigranti meridionali): nel corso dei decenni ci hanno apostrofati con qualsiasi appellativo, causa colera e calamità naturali di vario tipo. Tocca a noi non affrontare questa storiaccia con lo stesso stupido metodo, tocca a noi evitare le psicosi inutili. Al virus dell'idiozia non c'è vaccino esattamente come per quello cinese. Solo che per quest'ultimo lo troveranno.
Razzismo da coronavirus contro il Nord, Pino Aprile: “Al Sud offesi per anni senza motivo. Ammalarsi qui non è la stessa cosa”. Antonio Sabbatino il 26 Febbraio 2020 su internapoli.it. «Ammalarsi al Nord e al Sud sembra non essere mai la stessa cosa, il Paese Italia non esiste». Lo scrittore Pino Aprile, autore del saggio “Terroni’’ (edizione Piemme), commenta così quanto sta accadendo in Italia dopo la diffusione del Coronavirus con la stragrande maggioranza dei casi verificatesi nelle regioni del Centro-Nord, dove pure non sono mai mancate parole e atteggiamento di scherno nei confronti dei meridionali. Proprio al Sud gli unici 3 casi accertati di Coronavirus riguardano altrettanti turisti bergamaschi in vacanza a Palermo (marito, moglie e un’altra persona), quasi una nemesi rispetto ai tanti insulti ai meridionali negli anni e dopo il tweet dei giorni scorsi del direttore di Libero Vittorio Feltri con riferimento all’epidemia di colera a Napoli negli anni ‘70. «Se volessimo scherzare – afferma in proposito Aprile – dico che nella storia ci sono stati casi in cui degli eserciti per conquistare altri territori mandavano avanti i lebbrosi per provocare un’epidemia. Tornando seri, questa vicenda dimostra, anche in maniera banale, che i diritti come quelli alla salute, ma non solo, dovrebbero valere allo stesso modo a Bergamo come a Palermo». Ma, aggiunge lo scrittore, «questo non accade. Ammalarsi al Nord e al Sud sembra non essere mai la stessa cosa. Allargo il ragionamento e faccio un riferimento pratico per far comprendere certe disparità: per andare nei territori del Mezzogiorno spesso si è costretti ad utilizzare treni vecchi che vanno a rilento. Questo vuol dire che il Paese Italia non esiste». Tra gli effetti collaterali del Coronavirus, che ha mietuto 11 vittime contagiando al momento oltre 350 persone, le polemiche istituzionali. Nei giorni scorsi il presidente del consiglio Giuseppe Conte aveva parlato dello scoppio di un focolaio di Coronavirus in Lombardia, nel lodigiano a causa di un’ipotetica mancanza di applicazione dei protocolli da parte di una struttura sanitaria suscitando le ire del governatore della regione Attilio Fontana e di parte del mondo medico. Anche qui Pino Aprile cerca di “unire’’ idealmente l’Italia. «Gli ospedali “fetenti’’ ci sono ovunque, come in tante parti ci sono le eccellenze. Non dimentichiamo che la coppia cinese che ha contratto il Coronavirus è stata curata allo Spallanzani di Roma nel quale lavorano quelle 3 ricercatrici, tutte meridionali, che hanno isolato il Coronavirus». Inoltre: «Va ricordato poi come tantissimi vicepresidenti della Regione Lombardia siano finiti in carcere per aver ricevuto mazzette nella sanità e in carcere per mazzette nella sanità ci è finito anche l’ex governatore Formigoni. A questo si connette la perenne disparità di risorse a disposizione. Se io ad esempio ho 1000 euro a disposizione, come succede nelle regioni del Nord, e ne rubo la metà, ce ne saranno sempre 500 a disposizione. Se, sempre come esempio, invece ho a disposizione 300 euro, come invece capita al Sud, e ne rubo sempre la metà mi restano pochi spiccioli. Capite la differenza?». Altra reazione, questa volta più d’istinto, è quella avuta dai cittadini ischitani che hanno protestato dopo l’arrivo sull’isola verde di un gruppo di turisti lombardi e veneti appena sbarcati sull’isola (con il prefetto che ha stoppato la decisione delle autorità locali di vietare l’ingresso ai cittadini residenti nei territori dei focolai). In un video delle lamentele, si sente dire ad una donna “per tanto tempo ci avete definito terroni’’ quasi come una vendetta morale. «Io quella frase la posso giustificare. Dal Nord ci hanno definito in taluni modi senza che vi fosse un virus ed anche i cartelli “non si affitta ai settentrionali’’ ha suscitato principalmente una reazione di stupore» il commento di Pino Aprile.
Coronavirus, la rivincita dei meridionali: "Settentrionali, restate a casa vostra". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. Come esuli di guerra vengono accolti in queste ore dalle loro famiglie quei meridionali che dal Settentrione stanno facendo ritorno in terra madre a causa del contagio di coronavirus esploso venerdì scorso in Lombardia e poi diffusosi nelle regioni limitrofe, precipitando nel panico gli abitanti dello stivale. Le mamme abbracciano all'aeroporto o in stazione i loro figli, studenti fuori sede, scampati al pericolo di finire in terapia intensiva o - peggio - di crepare, le nonne li rimpinzano di ogni ben di Dio, pasta al forno, parmigiana di melanzane, polpettone, peperonata, caponata, come se i nipoti giungessero deperiti e stremati dal fronte. Il Sud sempre maltrattato, deriso, osteggiato, compatito, costretto a permanere ai margini, escluso, fanalino di coda della Nazione intera, si è adesso preso la sua rivincita sul Nord ed i polentoni che lo popolano, considerati quali untori, appestati da cui stare alla larga. Anzi, da tenere alla larga e rispedire altrove. Tramonta con il virus made in China il valore supremo dei terroni, ossia la rinomata e celebrata ospitalità: lombardi e veneti non sono graditi, se ne stiano a casa loro, in compagnia del Corona. La paura induce alla chiusura, alla circospezione, alla diffidenza, persino all'odio. E così, per la legge del contrappasso, principio in base al quale i colpevoli di qualche crimine o peccato patiscono proprio ciò che hanno inflitto, i polentoni vengono ghettizzati e messi al bando, come se diffondessero terribili morbi per il solo fatto di provenire da determinate aree del Paese.
CARTELLO-BURLA. E la memoria storica vola subito al periodo in cui gli immigrati del Sud, quelli che poi avrebbero in parte meridionalizzato il Nord, subivano discriminazioni di ogni tipo nelle città in cui approdavano per motivi di lavoro con la valigia di cartone. "Non si affitta ai settentrionali", si legge su un cartello la cui immagine in questi giorni sta girando sul web. Probabilmente si tratta di una burla, tuttavia non vi è dubbio che da Roma in giù stia montando un desiderio di vendetta nei confronti dei settentrionali, che, covato per decenni e decenni, soltanto ora ha trovato una "buona" occasione per tracimare ed esprimersi in tutta la sua virulenza. Coloro che dimorano nel Mezzogiorno si dicono orgogliosamente "sani" e puntano il dito contro quelli che vivono dalla parte opposta, i quali per i loro costumi promiscui, il loro stile di vita cosmopolita e moderno, ricco ma rischioso, si sono beccati il coronavirus. «E adesso che se lo tengano. Ben gli sta!», mormora qualcuno. È il momento di gettare benzina sul fuoco di vecchie faide familiari, mai sopitesi. Di saldare i conti in sospeso, sventolando il pretesto dell'emergenza sanitaria. Dunque, vietare l'ingresso in certi comuni o regioni a milanesi e torinesi, o a lombardi e veneti, diventa in qualche modo giustificato, giusto, ammissibile ed ammesso, sebbene tali provvedimenti non sorgano soltanto dall'esigenza di salvaguardare gli autoctoni, evitando che la malattia si propaghi, ma pure da un bisogno impellente di rivalsa. Pure coloro che non giungono dalla cosiddetta zona rossa, ossia dal focolaio dell'infezione, sono guardati con sospetto e li si prenderebbe volentieri a sberle, purché muniti di tute protettive, guanti in lattice e mascherine.
POLENTA O POLPETTE. Insomma, se fino ad ieri il razzismo era indirizzato ai cinesi, ora ha come bersaglio i nordici. E ci si dimentica un elemento fondamentale: a prescindere dal fatto che mangiamo prevalentemente polenta e cotolette o preferiamo divorare polpette e maccheroni, siamo tutti quanti italiani e componiamo un unico organismo, l'Italia. E se di questo organismo si ammala una parte, quantunque piccola, o pure estesa, allora esso è acciaccato tutto e la febbre che lo prende non si concentra solamente nel punto dolente. L'unità è stata fatta nel 1861, eppure essa è rimasta incompiuta. Siamo diventati Stato, ma non siamo mai diventati popolo unitario. Restiamo frammentati, divisi, spesso ostili gli uni con gli altri. Il coronavirus ci è piovuto addosso dalla Cina per mostrarci i nostri limiti.
Coronavirus, il Sud si "vendica": "Non si affitta ai settentrionali". Un cartello, probabilmente fake, apparso in rete ha scatenato le polemiche. Il coronavirus al Nord sembra aver dato il via alla "discriminazione al contrario". Giorgia Baroncini, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. "Non si affittano case ai settentrionali". È quanto recita un cartello che sta facendo il giro del web. Con molta probabilità si tratta di un avviso fake creato da Kotiomkin, libero laboratorio di satira, ma la frase sta alimentando il dibattito tra gli utenti. La diffusione del coronavirus al Nord, in particolare in Lombardia e Veneto, sembra aver dato il via alla "discriminazione al contrario", come spiega il Messaggero. Negli anni sono stati i meridionali a finire nel mirino dei settentrionali con i più classici stereotipi italiani. Ora la situazione, si ribalta con la proposta di misure per contenere la diffusione del virus cinese nel Sud Italia. E così sul web è apparso il cartello "Non si affittano case ai settentrionali" che fa il verso agli annunci appesi nei palazzi delle regioni del Nord in cui i proprietari di casa si rifiutavano di dare alloggio a chi veniva dal Sud. Ora è arrivato il momento della "vendetta" dei meridionali. Non è ancora chiaro se il cartello che impazza sui social è ironico o autentico, ma è bastato a scatenare le polemiche.
I commenti. In rete c'è infatti chi ha preso la scritta come un gioco, chi ha pensato di mettere in pratica misure per arginare l'arrivo di settentrionali e chi si è indignato. "Rivincita terrona. Non si affittano case ai settentrionali", "Aiutiamo i settentrionali a casa loro", "Chi la fa, l'aspetti", "Terroni, questo è il vostro momento", ha ironizzato qualche utente. Altri invece si sono scagliati contro l'annuncio: "Che vergogna queste sanguisughe", "Il karma....la ruota gira....ora tocca a voi!! Ma che problemi avete....e che cazzo di persone siete!?", "In un momento del genere non capisco cosa ci sia da ridere", si legge tra i commenti. Ma c'è anche chi non si è lasciato scappare l'occasione per rivolgere degli insulti: "L'Italia è un paese di coglioni, e ciò si evince dal fatto che i settentrionali coglioni stanno venendo al sud infettando in tal modo persone sane. Complimenti davvero, un applauso a questi fenomeni!!!". In molti ha invece cercato di sdrammatizzare la situazione, ma il cartello ha scaldato gli animi.
IL CARTELLO MEME NON SI AFFITTA AI SETTENTRIONALI. Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Il cartello con la scritta Non si affitta a settentrionali per adesso gira soltanto sui social e sui gruppi WhatsApp dove tutti sono bravi a ironizzare con il virus degli altri. Però se va avanti così, prima o poi si rischia di trovarlo anche affisso su qualche portone di un paese qualsiasi al di sotto del Garigliano. Perché di fronte alla paura del contagio, sono in tanti a scoprirsi salviniani al contrario, pronti ad adottare una improvvisata politica di respingimenti, con gli indesiderati che stavolta non arrivano dall' Africa ma dalla Lombardia e dal Veneto. I primi a muoversi in questo senso sono stati sei sindaci ischitani, rimessi subito in riga dal prefetto di Napoli che ha annullato l' ordinanza con la quale vietavano lo sbarco sull' isola a turisti provenienti dalle due regioni dove si è maggiormente sviluppata l' infezione. «Non ci sono i presupposti giuridici per un provvedimento del genere - spiega al Corriere il prefetto Marco Valentini - e compito delle istituzioni, in un momento del genere, è mantenere la calma e l' equilibrio, non fare inutili fughe in avanti». Fughe che però ci sono state comunque. In Basilicata il governatore Vito Bardi ha disposto la quarantena per gli studenti lucani che rientrano da Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria e Emilia Romagna. Regioni elencate pure dal sindaco di Gravina di Puglia, Alesio Valente, che ha invitato chiunque intenda entrare in paese provenendo da quelle zone a comunicarlo telefonicamente alla polizia locale, fornendo nome, data di arrivo e indirizzo di dove si intende soggiornare. Insomma, che si tratti di connazionali o concittadini non fa molta differenza: se stanno dove il Covid-19 ha attecchito è meglio che ci restino, sembra essere l' auspicio di chi da quelle aree è lontano centinaia di chilometri. In Irpinia, per esempio, nessuno ha accolto con piacere i due insegnanti fuggiti da Codogno prima che scattasse la quarantena, e che ora l' isolamento obbligato lo stanno facendo a casa loro, dove avranno tutto il tempo di leggere la valanga di insulti ricevuti su Facebook. E peggio ancora è andata a una comitiva di turisti provenienti proprio da Lombardia e Veneto (ma non dalla zona rossa) che a Benevento si sono visti cancellare dal titolare dell' albergo le prenotazioni fatte nelle scorse settimane. Perché, pure se non c' è nessun cartello, in certi posti adesso davvero non si fitta a settentrionali.
Dagospia il 25 febbraio 2020. Da I Lunatici Radio2. "Io vivo alle Mauritius da dieci anni e manco dall'Italia da due anni. Eppure il mio ristorante di cucina italiana nel sud di Mauritius sta perdendo tantissimi clienti negli ultimi giorni. Molti clienti mi fanno battute perché sono italiano. C'è razzismo verso di noi, mi fanno battute brutte, mi chiedono se mi sono lavato le mani o cose del genere. Il razzismo c'è in Italia contro i cinesi ma c'è anche qui contro gli italiani". Fa riflettere lo sfogo di Giuseppe, ristoratore italiano che da dieci anni vive alle Mauritius e che questa notte ha chiamato i Lunatici di Rai Radio2, Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Giuseppe dopo aver composto lo 063131 si è sfogato: "Che c'entro io con il Coronavirus? Sono due anni che non vengo in Italia", ha ripetuto. "La clientela del mio ristorante in questi giorni è molto diminuita e quelli che vengono quasi mi guardano male".
(ANSA il 25 febbraio 2020) - "E' stato un incubo. Sono emotivamente distrutto, arrabbiato; un gran dispiacere. E' stata una presa di posizione assolutamente non di buon senso. Vacanza di una settimana buttata alle ortiche per i miei 60 anni, festeggiati praticamente in aereo, con le mie figlie in lacrime che si sono viste portar via un sogno. Un gran danno emotivo. Ho visto scene di pianto, di urla, di disperazione perché non sapevamo che fine avremmo fatto. Devo ringraziare il comandante dell'Alitalia, che ha saputo gestire la situazione, a fronte di una zero ospitalità locale: mi sono sentito 'cittadino di Alitalia'". E' la testimonianza all'aeroporto di Fiumicino di un milanese rientrato dalle Mauritius con il gruppo di 40 connazionali originari della Lombardia e del Veneto che hanno scelto di tornare in Italia dopo aver rifiutato l'opzione della quarantena disposta dalle autorità locali. "Non so neanche con chi devo prendermela per quello che è successo. Mi piacerebbe che ora, non so chi, qualcuno facesse un gesto nei nostri confronti. E mi auguro di non perdere i miei soldi, sarebbe una beffa tremenda - ha raccontato ancora -. Ci hanno fatto solo scendere in un corridoio di approccio all'aeroporto; siamo stati seduti per terra, non ci hanno neanche fatto accedere ai bagni, al bar; solo tempo dopo ci hanno dato dei tramezzini con dell'acqua. C'erano bimbi piccoli, una di un anno e mezzo che, povera stella, non aveva neanche i pannolini di ricambio, e che è diventata la mascotte del gruppo; isolati per ore, le notizie rimbalzavano ed in pratica siamo stati sull'aereo per più di 24 ore, avremmo fatto il giro del mondo. Ad un certo punto, colpo di scena, le autorità locali hanno chiesto chi fosse della Lombardia e del Veneto e che dovevamo rimanere a bordo. Abbiamo capito che la vacanza sarebbe saltata. Nessuno di noi ha fatto il furbo, facendo finta di non essere di tale provenienza e provando quindi a scendere". "Ciò che è successo, e ce ne siamo accorti solo dopo un paio di ore di attesa prima di poterci imbarcare, è alquanto strano e da un punto di vista microbiologico, assurdo - ha detto invece uno dei passeggeri, diversi dei quali con indosso le mascherine, rientrati dalla vacanza alle Mauritius e che hanno viaggiato con i 40 connazionali lombardi e veneti - perché se sono dei passeggeri che l'Italia ha lasciato uscire, vuol dire che non sono dei passeggeri contagiati e quindi avevano tutto il diritto di poter sbarcare. Ed invece li hanno sottoposti ad una specie di "ricatto": o scendete e state in quarantena o ve ne tornate, creando un clima di paura pure tra di noi. Molti passeggeri, infatti, che stavano alle Mauritius e che dovevano tornare a casa, hanno preferito non prendere questo aereo".
Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Si preparavano a una vacanza di sole e mare, di relax. Hanno rischiato di finire in quarantena per quattordici giorni, in un ospedale a 8 mila chilometri da casa. Sono le 7 e tre quarti del mattino, ora italiana, quando l' Airbus dell' Alitalia partito la sera prima da Fiumicino atterra all' aeroporto di Mauritius, nell' Oceano indiano. A bordo del volo AZ772 ci sono 212 passeggeri e 12 membri dell' equipaggio. Il messaggio nella cabina di pilotaggio era arrivato pochi minuti prima, quando il comandante aveva appena iniziato la discesa verso quella settimana di mare d' inverno che è la vera destinazione di questo volo. Dicono dalla torre di controllo che, una volta atterrati, tutti i passeggeri dovranno rimanere a bordo in attesa di istruzioni. All' inizio il comandante pensa che ci sia qualche problema nell' aeroporto di arrivo. Anche perché la sera prima, al momento del decollo, tutto era regolare, non c' era stata nessuna comunicazione particolare. Le autorità di Mauritius non avevano detto nulla a quelle italiane, zero comunicazioni anche ad Alitalia. E invece il problema è proprio quello, il coronavirus, il contagio che si è diffuso in Italia, al momento solo in alcune regioni del Nord. In un primo momento, come comunicato dalla torre di controllo, tutti i passeggeri e i membri dell' equipaggio vengono trattenuti a bordo. E subito la questione diventa un caso diplomatico. Viene coinvolta l'ambasciata di Pretoria, in Sud Africa, competente per Mauritius. E quindi l' Unità di crisi del ministero degli Esteri. Ci sono momenti di tensione, diciamo così. Non solo per il caso specifico, che comunque coinvolge più di 200 persone. Ma anche perché sono tutti consapevoli che quell' Airbus fermo sulla pista di Mauritius rappresenta un precedente, il primo caso di quella che potrebbe essere una lunga serie di stop ai voli in arrivo dall' Italia, in questo momento il terzo Paese al mondo per numero di contagi. E con l' aggravante che siamo stati proprio noi, in Europa, i primi a chiudere i voli con la Cina dopo l' inizio dell' epidemia di coronavirus. Dopo un' ora buona di negoziato viene trovato un compromesso. Possono scendere tutti i passeggeri, tranne quelli che subito prima del volo partito da Fiumicino ne avevano preso un altro dagli aeroporti lombardi o veneti, in sostanza Milano o Venezia. Quelli che rimangono sull' Airbus sono in tutto 40. E hanno davanti due strade: 14 giorni di quarantena in due ospedali a Mauritius, prima di cominciare una vacanza che però a quel punto sarebbe già finita perché i pacchetti sono di solito di una settimana. Oppure essere rimpatriati subito, con lo stesso volo Alitalia, già programmato nel pomeriggio per Fiumicino. La scelta non rasserena gli animi. Anzi. «Gli italiani residenti a Roma o Bologna sono potuti entrare, noi no. Una decisione assurda» dice Daniele Tagliapietra, imprenditore di Mestre, intervistato dal Corriere del Veneto , in vacanza con la figlia di 15 mesi. «Che senso ha? Abbiamo viaggiato per dieci ore sullo stesso aereo». Ma da Mauritius non vogliono sentire ragioni. Dopo qualche momento di confusione, i quaranta posti vengono trovati sull' aereo di ritorno. Tutti i 40 i passeggeri bloccati decidono di ripartire. Meglio evitare una quarantena dall' altra parte del mondo.
Puglia, quando arrivò il colera nel 1973 il Nord ci sbeffeggiò. Senza i social poche «fake news». E nessuno contro l’Africa. Ugo Sbisà il 25 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La psicosi generata dalla diffusione del coronavirus e soprattutto i provvedimenti amministrativi di chiusura che, al Nord e in diverse regioni, stanno riguardando molti luoghi pubblici, risvegliano nella memoria di chi li ha vissuti il ricordo dell’epidemia di colera che nel 1973, insieme con Napoli, mise a dura prova anche Bari. Era all’incirca la fine di agosto quando si verificarono i primi casi in città e per molti si trattò di una vera e propria doccia fredda: l’ultima epidemia di colera a Bari risaliva infatti al 1837, mentre la città si era «salvata» da una nuova ondata che aveva riguardato l’intero meridione nel 1873. In altre parole, il colera sembrava un male confinato all’Ottocento e sopravviveva nella memoria degli anziani o, tutt’al più, in quella dei lettori di romanzi di ambientazione esotica. Questo spiega perché i primi casi colsero alla sprovvista le strutture sanitarie e le farmacie, prive dei farmaci necessari per la prevenzione e la cura della malattia. Ma - e questo è decisamente peggio - la diffusione del vibrione era tradizionalmente associata alle cattive condizioni igieniche e questo favorì la circolazione di notizie non sempre veritiere diffuse soprattutto dagli inviati di certa stampa del Nord che, in particolare nel descrivere le condizioni di vita di Bari vecchia, calcarono sin troppo la mano, raccontando di miasmi insopportabili e soprattutto di topi che, al calar del sole, diventavano i padroni incontrastati dei vicoli e persino delle abitazioni...Esagerazioni a parte, l’amministrazione comunale - all’epoca guidata dal democristiano Nicola Vernola - intervenne prontamente disponendo la chiusura di tutti i locali pubblici, cosicché, in quel caldo scampolo d’estate, i baresi dovettero rassegnarsi a trascorrere le serate in casa, dividendosi tra il televisore (con la sola scelta tra Raiuno e Raidue) o rispolverando con grande anticipo sul Natale i giochi di carte e di società. Fuori casa nessuno avrebbe mai rischiato di bere persino un semplice bicchiere d’acqua, meno che mai se di rubinetto. Cinema, teatri, ristoranti erano tutti rigorosamente chiusi e lo stesso Vernola, anni dopo, ricordò divertito di essere stato chiamato da un allarmatissimo Aldo Moro pochi giorni dopo lo scoppio dell’epidemia: i due avevano pranzato assieme la settimana precedente e Vernola, da buon barese, aveva consumato delle cozze crude. Di qui la preoccupazione dello statista salentino che il primo cittadino potesse aver contratto la malattia. Ovviamente, la cautela non si fermò ai luoghi di svago, ma riguardò anche l’inaugurazione della Fiera del Levante e persino le scuole, tant’è che quell’anno 1973-74 s’iniziò con oltre un mese di ritardo. E furono forse gli studenti gli unici che, con una punta di incoscienza, guardarono al vibrione con una certa simpatia. I più fortunati di loro ripararono con le madri nelle case estive, considerate più «sicure» perché lontane dal focolaio d’infezione. La situazione cominciò a normalizzarsi con l’arrivo del vaccino in grande quantità, che coincise anche con un lento ritorno alla normalità. L’emergenza era durata all’incirca un paio di mesi, ma soprattutto - sebbene il colera fosse un male curabile con rimedi noti e non un virus ancora in attesa di antidoti - era stata affrontata senza psicosi. Merito di una ferma ed efficace gestione sanitaria - si distinse, fra i tanti, il prof. Nicola Simonetti - e amministrativa, ma soprattutto anche di una più «sana» informazione. Quarantasette anni fa, internet era pura fantascienza e in loco le notizie o le raccomandazioni circolavano solo sulla carta stampata, in radio e in televisione, ma sempre dopo essere state accuratamente valutate e verificate. In altre parole, l’epoca delle fake news era di là da venire e il mondo della politica non si azzardava minimamente a strumentalizzare le emergenze per attaccare i propri avversari. Un ultimo aspetto: fermo restando che la città di allora era forse meno pulita di quella di oggi, alla fine il focolaio dell’infezione venne identificato a Napoli in una importante partita di cozze arrivata sui mercati del Sud dal Nordafrica; il caldo e una certa disinvoltura igienica delle zone colpite avevano fatto il resto. Ma nessuno se la prese col Nordafrica...
Ritorna il razzismo: la Storia non è maestra di vita. Gilberto Corbellini il 5 Novembre 2019 su Il Riformista. Il razzismo sta ritornando in Italia, se mai era scomparso, e nei prossimi decenni spazzerà lo stivale in lungo e in largo, con conseguenza per ora non prevedibili. I segnali quotidiani sono la punta dell’iceberg: basta ascoltare per strada, nei bar, tra i ragazzi davanti alle scuole o alle aule universitarie, sui treni, allo stadio e nei palazzetti dello sport, etc. E questo malgrado gli applausi di 151 senatori a un progetto nato morto, quello della senatrice a vita Liliana Segre. Addolora la messinscena parlamentare che ha consentito ai razzisti veri, potenziali o inconsapevoli di mettere a segno un non secondario risultato propagandistico, esponendo la povera Liliana Segre alla berlina, insieme al politicamente corretto. Non lo meritava, la senatrice. Non merita neppure di ricevere sulla sua posta elettronica duecento insulti antisemiti al giorno. Il tutto più che prevedibile. Perché esporre la signora Segre al dolore di vedere dei nazistoidi irriderla? Riuscendo ad apparire addirittura anticonformisti… E poi, in che consiste e a che serve l’istituzione di una Commissione per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo? Cos’è? Esistono già leggi per perseguire questi i reati. Serviva proprio ravvivare i sentimenti razzisti diffusi nel Paese? Il documento è un assist a vantaggio del razzismo montante. Ha consentito ai razzisti di aggregare qualche sedicente liberale. È noto che l’Italia, insieme ad alcuni Paesi slavi, ha i più alti tassi europei di razzismo e antisemitismo. È anche il Paese dove circa il 70% dei cittadini manca delle competenze per capire come funzionano le società della conoscenza e il 40% è analfabeta funzionale – nel senso che se costoro leggono un paragrafo che contiene affermazioni in contraddizione non se ne rendono conto. Siamo all’ultimo posto tra i Paesi Ocse. Il quoziente intellettivo, e in seconda battuta, il livello di istruzione sono le condizioni predittive della refrattarietà al razzismo; essere un po’ ignoranti aiuta, anche se non sempre basta, a crescere antisemiti e razzisti. Non c’è più niente che si possa fare. Il razzismo è alle porte e vedremo che cosa riserverà. I principali alleati del razzismo sono il politicamente corretto, cioè l’egualitarismo ideologico, caratterizzato da quell’atteggiamento di superiorità morale e braccia aperte ai migranti, a prescindere, che scatena sentimenti di odio per i diversi e anti-intellettualisti; e la Storia come patrimonio morale, cioè l’idea che si possano per esempio correggere le storture del razzismo e dell’antisemitismo facendo appello alla memoria. Con tutto il rispetto dovuto al Presidente della Repubblica Mattarella, egli sbaglia, tragicamente sbaglia, quando dice, circa una volta la settimana, che sarebbe un dovere morale “ricordare” le tragedie del passato. Non ci sono prove che ricordare tenga lontano l’odio; serve a credere ingannevolmente che la memoria sia un fatto oggettivo. La Storia non porta a nessuna responsabilità morale: non è mai accaduto e mai accadrà. Al contrario, può trascinare con sé le brutte emozioni che hanno causato nel passato le stesse o analoghe tragedie. La Storia, quando arriva al popolo che si vorrebbe educare, diventa un racconto funzionale a darsi ragione o autoassolversi. Se fosse vero che la Storia serve a migliorare l’etica pubblica, saremmo un popolo virtuoso e senza razzismo, stante la quantità che ci è stata e viene propinata. E invece… siamo un paese di ignoranti, razzisti e corrotti. Lo storico David Rieff, figlio di Susan Sontag, ha pubblicato nel 2016 un libro intitolato Elogio dell’oblio, dove afferma che «a maggior parte degli argomenti a sostegno della memoria collettiva come imperativo morale e sociale» sono discutibili. La celebrata ingiunzione di George Santayana, «coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», è falsa. Si pensa che ricordare voglia dire essere responsabili: verso verità, storia, il proprio paese, etc. ma «è un atto di irresponsabilità, che minaccia di minare sia la comunità che, nella nostra era terapeutica, noi stessi». Rieff passa in rassegna i più noti eccidi etnici per provarlo. Non dobbiamo negare il valore della memoria per insistere sul fatto che la documentazione storica non giustifica il passaporto morale che al ricordo viene solitamente concesso oggi. «La memoria storica collettiva – insiste Rieff – e le forme del ricordo che sono la sua espressione più comune, non sono né fattuali, né proporzionali, né stabili». Sono narrazioni ricostruite e interpretate, con il rischio che diventino strumenti per disseppellire sempre lo stesso odio.
Marco Pasqua per ilmessaggero.it il 10 febbraio 2020. Un gruppo di cinesi (tra questi anche minorenni) aggrediti verbalmente in strada da tre giovanissimi. Un'aggressione registrata domenica scorsa a Roma, nella zona di Don Bosco, in piazza dei Consoli. Una famiglia di cinesi si trovava in strada quando, all'improvviso, tre ragazzi, intorno ai 15 anni di età, hanno iniziato ad insultarli. Ma non avevano fatto i conti con i cittadini che hanno assistito alla scena e che hanno deciso di intervenire in difesa delle vittime di quell'aggressione verbale. Un signore cerca addirittura di bloccare il ragazzo, che urla: «Lasciami stare, mi devi portare rispetto». Sul posto è intervenuta la polizia del commissariato Tuscolano, anche se i cittadini cinesi non hanno sporto denuncia. «Avete il Coronavirus, andateve via», avrebbe gridato un giovane. «Che sono queste parole?», urla un residente all'indirizzo degli aggressori, faticando non poco nel tenerli a distanza dalla famiglia cinese. «Cinesi di merda», rincara la dose il ragazzo, sui 15 anni di età. Tra le vittime dell'aggressione verbale anche una ragazza incinta. Quando la polizia è arrivata sul posto, ha sorpreso uno dei tre aggressori con un coccio di bottiglia tra le mani: il giovane è stato identificato e poi riaffidato ai genitori. «A Roma un gruppo di ragazzi cinesi è stato aggredito. È vergognoso. Ferma condanna di quanto accaduto: episodi come questo sono frutto di ignoranza e razzismo. Roma è vicina alle vittime di quest'aggressione», scrive su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.
Da adnkronos.com il 22 febbraio 2020. Ancora un'aggressione ai danni di una cittadina di origine cinese a Torino, questa volta di giorno e in pieno centro. La donna, una quarantenne, era per strada, è stata prima apostrofata con epiteti come “cinese virus, vai via” da una coppia che poi l'ha aggredita. Dopo essersi fatta medicare in ospedale, per le lesioni riportate e una prognosi di alcuni giorni, la donna ha sporto denuncia alla polizia. Sull'episodio indagano gli agenti del commissariato Dora Vanchiglia. L'aggressione subita dalla signora è la seconda che si verifica nel capoluogo piemontese. La scorsa settimana una coppia di giovani era stata aggredita a tarda sera mentre stava tornando a casa dal lavoro alla periferia nord della città. Dopo essere stati insultati, i due erano stati colpiti con alcune bottiglie da alcuni giovani.
Nel bene o nel male umanità senza barriere. Carlo Fusi l'1 Febbraio 2020, su Il Dubbio. Il panico da pandemia si vince se riusciamo a tenere unite due dimensioni. La prima è che l’umanità sempre più è senza barriere, nel bene e nel male. La seconda, che questa situazione è sinonimo di nuove opportunità ed eterne fragilità. E adesso questa entità impalpabile, con un diametro che varia tra 20 e 300 nanometri, e ogni nanometro è pari a un miliardesimo di metro, aleggiando spazia dovunque: nell’attesa di infilarsi capricciosamente nei polmoni del primo che capita a tiro. Contemporaneamente – come i virus, appunto – l’immaterialità si tramuta, e aggredisce quanto di più imponente e solido ci riguarda: l’apparato industriale, costretto a bloccarsi e a strozzare perfino una delle economie più potenti al mondo come quella cinese. Dunque mentre non dobbiamo cedere agli allarmismi e al corto circuito mentale che ci fa vedere un infetto o, peggio, un untore in chiunque abbia tratti somatici asiatici, non possiamo non domandarci: che succede, di cosa dobbiamo avere davvero paura, da cosa e come dobbiamo difenderci? La mondializzazione, l’interconnessione da villaggio globale come avrebbe detto Umberto Eco, ci circonda e avvinghia. Sottrarsi non solo è impossibile: sarebbe disastroso. Perché l’altra faccia della globalizzazione è che oggi possiamo salvaguardarci in modo enormemente più efficace rispetto al passato: e proprio in virtù dello scambio in tempo reale di scienza, conoscenza e capacità. Piuttosto colpisce la paradossalità di frontiere terresti e aeree blindate per fronteggiare patologie eteree ed incorporee. Sono due facce della stessa medaglia dei tempi che viviamo. Ecco, ma allora che si deve fare? L’attesa è per il vaccino, invincibile scudo stellare contro la pandemia. Nelle nostre menti e nei nostri cuori, dobbiamo tenere unite due dimensioni ognuna delle quali, da sola, può infettare razionalità e civiltà. La prima è che l’umanità sempre più è senza barriere, nel bene e nel male. La seconda, che questa situazione è sinonimo di nuove opportunità ed eterne fragilità. Il vaccino migliore è la profilassi dei nostri sentimenti e la razionalità dei comportamenti. Mettendo al bando al tempo stesso paura e fanatismi.
20enne italiano originario del Senegal picchiato in strada: «Negro... vai via». Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. La violenza di un gruppo di razzisti scatenati nel cuore di Palermo ha trasformato la movida del sabato sera in una bruttale mattanza. Tutti contro «questo negro di m...», come s’è sentito ripetere un ragazzo palermitano di venti anni, di origine senegalese, pelle olivastra, da anni residente nella città che della accoglienza ha fatto la «Carta» spesso sbandierata dal sindaco Leoluca Orlando. Ma l’altra notte il pestaggio ha avuto per scenario il centro storico, l’area fra via Spinuzza e via Cavour, a due passi dal Teatro Massimo. Senza una ragione apparente, sembra senza nemmeno il cenno di una provocazione, quasi come se si trattasse di una spedizione punitiva o di una lezione da assestare solo per spirito razzista, un gruppo di adolescenti che adesso polizia e carabinieri cercano attraverso i video delle telecamere di sorveglianza ha dato l’assalto al ragazzo rimasto infine sul marciapiedi col volto tumefatto, dolori a braccia e gambe, ecchimosi e tumefazioni diffuse. Proprio come se lo è visto consegnare all’alba a casa la madre, pronta a denunciare l’aggressione al popolo di Facebook: «Mio figlio ritornava a casa da lavoro. Gli gridavano “vattene via”... Perché tutto questo odio solo per il colore della pelle?». È il quesito che inquieta i due ragazzi di passaggio che forse gli hanno salvato la vita. Due testimoni intervenuti senza che altri provassero a separare dagli aggressori il giovane, incapace di difendersi nonostante avesse brandito per un momento la catena di una moto. La chiamata alla polizia e le urla di quei due giovani hanno fatto dileguare i ragazzotti. Poi la corsa in ospedale, al Civico, una prognosi di dieci giorni e il ritorno a casa da dove anche lui denuncia la rabbia via social postando la foto del pestaggio: «Sono io il ragazzo aggredito, vi ringrazio ancora. Urlo con voce alta che Palermo è una bellissima città accogliente e antirazzista, a Palermo ci sono tante belle persone, io mi trovo veramente benissimo a Palermo, ma ci sono pochi stro... che non sono mai usciti fuori Palermo. Gli consiglio di girare un po’ il mondo e di vedere come funzionano le cose. Sono veramente animali, troppo chiusi. Essere nero o bianco che senso ha? Non ho più parole. Comunque a Palermo ci sono sempre tante belle persone, non siete tutti razzisti, a Palermo i razzisti ci sono, ma sono pochissimi». Una posizione condivida da tanti giovani che replicano con messaggi di solidarietà «contro questi trogloditi». C’è chi chiede scusa, assicurando che «a Palermo non siamo tutti uguali, per fortuna». E chi spiega che non si tratta di razzismo: «È ignoranza». Ma c’è pure chi, come Alessandra, è turbata «non solo dai mostri aggressori ma anche da quanti era lì a guardare “lo spettacolo”». Stessa valutazione di Valeria: «Ecco scattare l’indifferenza di cui parla sempre Liliana Segre, l’indifferenza della folla che assiste passiva pensando di non essersi schierata ma che già ha scelto, con il suo silenzio e con il suo mancato intervento stando così dalla parte del male».
Tifosi del Verona allo stadio con la sagoma di Hitler sul berretto. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Allo stadio con un berretto che riproduce la sagoma di Hitler: ci hanno provato alcuni tifosi dell’Hellas Verona in occasione della partita contro il Bologna di alcune settimane fa e adesso sono i n procinto di ricevere un Daspo da parte della questura del capoluogo emiliano. Il gruppo, composto da una decina di ultras, è stato bloccato all’ingresso dello stadio Dall’Ara il 19 gennaio scorso e l’episodio è finito su un verbale di segnalazione alla Digos. I supporter del Verona non sono nuovi a episodi di ispirazione xenofoba e filonazista: alcuni mesi fa in occasione di un raduno un gruppo degli ultras più accesi aveva intonato un coro che definiva il verona «una squadra a forma di svastica». Il berretto finito al centro del caso difficilmente sarebbe passato inosservato: la visiera riproduce la sagoma della capigliatura di Hitler mentre al posto dei baffetti c’è la scala, simbolo dell’Hellas. L’immagine è completata dalla scritta «Verona». I cappellini sono stati immediatamente sequestrati. Le conseguenze per i tifosi che li sfoggiavano potrebbero essere di duplice natura: da un lato il Daspo emesso dalla questura di Bologna che impedirà ai responsabili l’ingresso negli stadi italiani; dall’altro una denuncia per violazione della legge Mancino che punisce ogni forma di incitamento all’odio razziale.
(ANSA il 10 febbraio 2020) - E' stato espulso dal gruppo della Lega Nord al Comune di Arzignano (Vicenza) Daniele Beschin, il coordinatore di Forza Nuova del vicentino finito sotto accusa per alcune frasi su Facebook sull'"italianità" della modella concittadina , di origine senegalese, comparsa sulla copertina di Vogue Italia. Lo rende noto lo stesso Beschin, affermando di essere stato vittima di "giochi di palazzo e per delle guerre fratricide interne alla Lega che non mi riguardano, però - ribadisce - di razzismo nelle mie parole non c'era nulla". "Sono sorpreso e anche amareggiato - dice Beschin - nel constatare come le mie parole siano state volutamente fraintese e strumentalizzate. Il mio commento era riferito solo a dei canoni di bellezza e non al fatto che la bellissima Mati sia una ragazza italiana, fatto indiscutibile".
"Napoletani figli del colera vi mettiamo in quarantena": lo striscione shock dei tifosi dell'Inter. Considerata a rischio sicurezza la doppia sfida di semifinale di Coppa Italia tra il Napoli e la squadra nerazzurra. Ignazio Riccio, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Un nuovo episodio di discriminazione nei confronti del popolo napoletano ha agitato gli animi su internet. È diventata virale sui social network la foto dello striscione esposto a Milano a due passi dallo stadio San Siro. "Napoletani figli del colera vi mettiamo in quarantena", la frase incriminata, che evidenzia ancora una volta come il tifo calcistico spesso travalichi i limiti del buon vivere civile. I colori dello striscione, il nero e l’azzurro, non lasciano dubbi sugli autori del messaggio. I tifosi dell’Inter si preparano in questo modo alla doppia sfida di Coppa Italia tra la loro squadra e il Napoli, che garantisce l’accesso alla finale della competizione. Le reazioni dei tifosi napoletani sono state di sdegno e rabbia, anche perché gli autori dello striscione hanno fatto riferimento velatamente, ironizzando, anche alla vicenda del Coronavirus, che sta allarmando il mondo intero. Il clima di tensione tra le tifoserie rende le partite di coppa ad altro rischio e per questo motivo le forze dell’ordine si stanno preparando per evitare disordini e incidenti allo stadio. Recentemente ci sono state polemiche anche tra cittadini campani per la scelta di utilizzare alcune frasi di Massimo Troisi. Un incidente diplomatico fortuito, una provocazione o semplice campanilismo? Hanno fatto discutere le frasi scritte sulle luminarie natalizie installate nel Comune di San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, che hanno provocato la reazione stizzita dei cittadini del capoluogo campano. “Non sono napoletano, sono di San Giorgio a Cremano”, questa la scritta incriminata, una frase pronunciata anni fa dall’attore e regista Massimo Troisi, nato proprio in questo centro ai piedi del Vesuvio. Una serie di lampadine che richiamano le citazioni più importanti del compianto artista, volute fortemente dal sindaco Giorgio Zinno, che in questo modo ha, ancora una volta, reso omaggio al suo illustre concittadino. Troisi quella frase la proferì per rimarcare la sua origine umile, di uomo di provincia, non certo per offendere Napoli e i napoletani, ma oggi il richiamo a quell’espressione ha offeso i residenti della città partenopea. Ad alzare il polverone è stato sul suo profilo social Gianni Simioli, il conduttore della trasmissione di Radio Marte “La Radiazza”, che è andato giù duro contro l’iniziativa dell’amministrazione comunale. “A San Giorgio sono diventati leghisti? Non ci sono giustificazioni. Non venite quindi a dirmi che Massimo Troisi, che l’avrà anche pronunciata, abbia mai pensato di farne una luminaria di Natale”. I commenti al post di Simioli sono stati al vetriolo, con accuse e sberleffi agli organizzatori del Natale a San Giorgio a Cremano. Le uniche parole di affetto e di riguardo sono state rivolte proprio nei confronti di Massimo Troisi, che è stato riconosciuto da tutti come il principale esponente della nuova comicità napoletana, nata agli albori degli anni Settanta. Soprannominato “il comico dei sentimenti” o il “Pulcinella senza maschera”, è considerato uno dei maggiori interpreti nella storia del teatro e del cinema italiano.
Antonio Ruzzo per “il Giornale” il 29 gennaio 2020. Ipocrisia del fair play, di chi si illude che basti far indossare a un bambino la maglia della squadra avversaria e mandarlo in campo mano nella mano con i campioni per insegnargli i valori dello sport. Ipocrisia di un calcio incapace a volte (spesso) di dare l' esempio. Di un calcio che insulta, fa «buuu», minaccia, fa a botte e arriva anche a uccidere come è successo poche settimane in un agguato tra tifosi in Basilicata. Ipocrisia di uno sport che s' indigna e che alla fine mette alla gogna un ragazzino di nove anni che in realtà fa solo ciò che vede, ciò che gli insegnano, che fanno gli adulti e i suoi «eroi» in campo e fuori. La storia è di pochi giorni fa. Domenica sera, quando allo stadio entrano in campo Napoli e Juventus, ad accompagnare le squadre come sempre ci sono anche i bambini che indossano le maglie di padroni di casa e avversari e si mettono a centrocampo per salutare il pubblico. Davanti alle telecamere, che lo inquadrano con la divisa bianconera dell'«odiata» Juve, c' è però un bimbo-mascotte che copre il simbolo dello scudetto bianconero fiero di rivendicare il tifo e una rivalità che a Napoli è sanguigna, che va oltre la logica, oltre Higuain e anche oltre a Sarri. Roba da grandi. Ma lui è in campo e quindi ne approfitta. Buonsenso vorrebbe che finisse tutto lì. Anche e perchè è già successo, durante un derby Juve-Toro, che una piccola mascotte granata che indossava la maglia bianconera mimasse alle telecamere la cresta del «gallo» Belotti. E invece (purtroppo) la storia continua perchè a fine partita, sotto il naso del piccolo tifoso partenopeo, qualcuno mette addirittura un microfono e lui completa l' invettiva anti juventina scimmiottando ciò che fanno gli adulti con una colorita serie di insulti. Tanti anni fa sarebbe finita con una sgridata, una sculacciata o magari un ceffone. A futura memoria, a spiegargli che alla sua età andare in campo al San Paolo con Ronaldo, Dybala, Ruiz o Insigne non capita a tutti e non serve fare i fenomeni ma bisogna imparare a stare al proprio posto. Ma ormai web e social amplificano ogni respiro. Così in poche ore il video di quell' assurda «intervista» finisce in rete commentato da decine di migliaia di persone: «Come sempre accade - spiega l' avvocato della famiglia Sergio Pisani - si è scatenata una vera e propria gogna contro il piccolo e la sua famiglia con migliaia di commenti, di insulti e anche minacce. Ho chiesto l' immediata rimozione del video da parte di chiunque lo abbia pubblicato o solo condiviso perchè è assurdo che un minorenne possa subire l' invadenza di microfoni e telecamere senza il consenso dei genitori...». Ma sono gli adulti a dare l' esempio. Nella vita e anche nello sport perchè è lì che si comincia. Nei campetti di periferia, negli spogliatoi, nelle sfide tra pulcini, allievi, juniores è tutto uno scimmiottare ciò che fanno i grandi in campo e fuori. E non sempre il circolo è virtuoso, anzi: la deriva è pessima. Non c' entrano solo il calcio, la pallavolo, il basket o chissà quale altro sport, non c' entrano solo i campioni che insultano, mandano arbitri a quel paese, barano in campo e fuoricampo. C' entrano cultura ed educazione. C' entrano genitori arroganti sugli spalti che sono ugualmente arroganti in auto, durante la coda ad uno sportello, con i professori dei loro ragazzi, al lavoro, in casa. E i figli fanno ciò che fanno loro perchè sono carte assorbenti che raccolgono il bene e il male. E' una perversa catena di Sant' Antonio dove conta solo primeggiare, battere l' avversario, vincere e magari poi sbeffeggiare i battuti. E allora arrivano quasi come una boccata d' ossigeno le prime dichiarazioni di Quique Setièn, neo allenatore del Barcellona che, arrivato al Nou Camp, ha spiegato al mondo qual è la sua filosofia di sport: «Bisogna dare un' importanza anche allo sforzo, all' impegno, a come si valorizzano le risorse di cui si dispone e alla verità- ha detto- Stiamo trasmettendo ai nostri figli e alle nuove generazioni l' idea che se non vinci non sei una persona valida. Stiamo creando così una tremenda quantità di falliti». Il resto sono chiacchiere. Anzi, solo ipocrisia.
Da ilgazzettino.it del 3 dicembre 2013. Non è stata una decisione particolarmente felice quella della Juventus che, domenica scorsa per la partita contro l'Udinese, ha aperto le porte dello Juventus Stadium ai ragazzini delle scuole per riempire le curve, che erano state chiuse dal giudice sportivo per cori discriminatori. Ogni volta che il portiere dei friulani Brkic toccava palla, infatti, i ragazzi urlavano "Oh merda" all'indirizzo del giocatore. Il risultato? La società è stata multata.
Il caso di Telese Terme. “Quella bimba è stata in Cina”, scuola semivuota per rischio contagio: “Controlli ok, è psicosi coronavirus”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. La compagna di classe dei loro figli è una bambina cinese da poco rientrata dal suo Paese d’origine. Psicosi coronavirus in un istituto comprensivo di Telese Terme, piccolo comune in provincia di Benevento, dove da qualche giorno le classi sono semivuote per “evitare il rischio contagio”. Ore ad alta tensione in Campania dopo la notizia delle coppia di coniugi di nazionalità cinese che a Roma è risultata positiva al virus diffusosi in oltre 18 nazioni. Prima il caso di Sorrento, con gli abitanti scossi dalla visita della comitiva cinese che nei giorni scorsi sarebbe entrata in contatto con la coppia di coniugi colpita da coronavirus e ricoverata allo Spallanzani di Roma. Poi la protesta delle mamme dell’istituto comprensivo statale Telese Terme che hanno anche inviato giovedì 30 gennaio una lettera alla dirigente scolastica Rosa Pellegrino per chiedere “le iniziative intraprese” di comune accordo con l’Asl, “e se quest’ultima ha attivato i protocolli del caso”.
LA VICENDA – La bambina in questione frequenta la quarta elementare ed è rientrata il 29 gennaio scorso in Italia dopo aver trascorso diverse settimane in Cina, dove era tornata con i genitori per festeggiare anche il Capodanno. Un rientro che ha allarmato i genitori della scuola sannita, molti dei quali ha ritenuto opportuno non far andare i figli a scuola. La stessa alunna cinese è a casa “per scelta dei genitori” fa sapere la preside che questa mattina ha risposto con una nota alle spiegazioni chieste dai genitori che chiedevano un periodo di incubazione di 15 giorni. “Con grande senso di responsabilità e sensibilità, i genitori stanno privando la figlia delle attività didattiche pur di non creare scompiglio tra le famiglie” sottolinea la dirigente che aggiunge: “Il Paese in cui si è recata la bambina, Wenzho, è un piccolo centro sulla costa a circa mille chilometri dalla provincia di Wuhan, focolaio del virus”. La bambina, così come i genitori, è stata sottoposta ad accertamenti sia durante il periodo trascorso in Cina che al rientro in Italia. “Hanno superato ben quattro controlli aeroportuali in entrata e in uscita e non presentano alcun sintomo influenzale” fa sapere la dirigente scolastica. La dirigente sottolinea che non metterebbe mai a “rischio gli altri bambini” e che “la situazione è sotto stretto monitoraggio dell’Asl di Telese Terme, che ha confermato che non c’è necessità di quarantena per chi, pur rientrando dalla Cina, non presenta sintomi influenzali. Sull’episodio il sindaco di Telese Terme Pasquale Carofano rassicura: “Il suo unico peccato è quello di essere andata in Cina per qualche settimana” spiega sottolineando che i suoi figli sono andati regolarmente a scuola. “La situazione è sotto controllo, la famiglia cinese quando è tornata in città il 29 gennaio scorso ha effettuato tutti i controlli del caso e non è emerso nulla di preoccupante”.
Marco Leardi per davidemaggio.it il 27 febbraio 2020. Un’uscita infelice. Cataloghiamola così. Ieri sera a L’Assedio, sul Nove, Michela Murgia ha pronunciato una battuta ironica nelle intenzioni ma davvero poco riuscita. La scrittrice, infatti, si è augurata che il Coronavirus prosegua ancora un po’ se il suo risultato sono le strade più vivibili e i mezzi pubblici semi-vuoti. Interloquendo con la conduttrice Daria Bignardi, che l’aveva convocata a Milano per supplire all’assenza del pubblico in studio (proprio a causa precauzioni anti-virus), Murgia ha affermato: “Ho viaggiato comodissimamente in un aereo semi-vuoto, sono arrivata in una città senza traffico. Le persone… normalmente non riesco a fare un passo. Può durare un altro po’ questo virus? Se il risultato è la vivibilità delle strade, io ci metterei la firma“. E la conduttrice, smorzando, ha più prudentemente chiosato: “Diciamo che ci sono dei pro e dei contro…“. Ora, utilizzare il sorriso per stemperare anche le situazioni più serie è cosa legittima ed anzi apprezzabile. Quindi non biasimeremo le intenzioni della scrittrice sarda, che nel salotto deserto della Bignardi voleva probabilmente destare simpatia. Le battute, però, sono come le ciambelle: non sempre escono col buco. E, soprattutto, bisogna saperle fare. Auspicare che il virus duri “un altro po’” in un momento in cui ci sono undici Comuni blindati, oltre 400 infetti ed ospedali in costante allerta non è proprio il massimo. Anzi, è fuori luogo. Anche il compiacimento per l’assenza di folle (segno di un impatto sociale ai limiti della psicosi), poteva essere posto in termini diversi, come del resto ha poi tentato di fare la stessa Bignardi. A naso, scommettiamo che non tutti i telespettatori abbiano gradito o compreso le affermazioni della scrittrice, a maggior ragione se sintonizzati dalle zone focolaio. Morale della storia: l’ironia è un’arte rara e solo chi la possiede davvero sa che ci sono tempi e modi per esercitarla con efficacia.
Nicola Porro contro Michela Murgia: "Coronavirus, che gliene frega dei morti? Spocchia di sinistra". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Ha fatto discutere, eccome, la sparata di Michela Murgia. La scrittrice rossa, ospite in tv, è riuscita ad augurarsi che il coronavirus "duri ancora un po'". La ragione? "I mezzi pubblici sono semi-deserti e le città sono più vivibili". Frasi agghiaccianti, contro le quali - tra gli altri - si scaglia anche Nicola Porro. "Nemmeno il coronavirus riesce a fermare la spocchia della sinistra radical chic", cinguetta su Twitter introducendo il commento di Max Del Papa contro la Murgia. Il pezzo contro la scrittrice è durissimo. Titolo: "Murgia, il classismo ai tempi del coronavirus". Un articolo nella cui conclusione si legge: " Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione". Parole di Max Del Papa, condivise in toto da Nicola Porro.
Murgia, il classismo ai tempi del Coronavirus. Max Del Papa, 28 febbraio 2020 su Nicolaporro.it. Michela Murgia loves coronavirus. Le tiene lontana la massa, sostiene, quel popolaccio lurido e pezzente ch’ella ostenta di amare, ma a debita distanza, di un amore secco, teorico, frigido, nella più distillata tradizione comunista. Questa Murgia, scrittora di un solo exploit, peraltro effimero, Abbacadora, Abracadabra, ma sul quale campa da quel dì, ama, non riamata, il coronavirus e va a dirlo da una esterrefatta Daria Bignardi, che, per l’occasione, scioglie il bigné del birignao e tenta di metterci una pezza. Fatica sprecata: Murgia, aplomb da casa del popolo, pretese da nobildonna del regno di Sardegna (se non hanno pane, dategli il coronavirus), va presa in blocco, con la cultura sproporzionata, la simpatia travolgente, la raffinatezza analitica, il profondissimo rispetto dell’altro. Quel librarsi nei cieli alti della riflessione con la levità di un gabbiano nutrito di erudizione. Fascista è chi fascista fa. La “matria”. La società patriarcale. La difesa da prontosoccorso di quell’altro soggettino equilibrato e accattivante, Chef Rubio, quello che vuol serenamente far fuori sovranisti e sionisti e lei, a sirene spiegate contro gli sconcertati: ma cosa dite, buzzurri, incolti, bifolchi, è una iperbole. Anche Murgia è una iperbole; vorrebbe il coronavirus “ancora un po'”: ora, lasciamo pur perdere il giochetto del “se l’avesse detto un altro, uno di destra, se l’avesse detto Salvini o la Meloni”: cosa sarebbe successo è chiarissimo, altro che iperbole, si sarebbe scatenata Murgia inveendo contro il fascista che è chi lo fa, la società maschilista, il razzismo, il nazismo, il sessismo: quante storie, Michela. Tutto già visto, già sentito, tutto strabusato e scontato. Piuttosto, è da rimarcare il curiosissimo concetto di solidarietà, di umanità, di socialità di questa Murgia qua. Eh, già. Ma non è la stessa paladina dei migranti senza limiti e confini, senza controlli e precauzioni? Non è la portavocia delle masse popolari, la paladona della sanità pubblica, del tutto pubblico nel nome di un nuovo rinascimento socialista? Non è quella del trasporto universale per il sale della terra, la difensora di ogni causa giusta, non è la stessa che si lascia ritrarre, mollemente abbandonata su una dormeuse, su morbidi cuscini mentre ride, languida e complice col prolifico disegnatore da centro sociale Zerocalcare in nome dell’amore proletario? Il punto non è “immaginiamoci se la sparata del coronavirus ti amo l’avesse detta un altro”: il punto è che l’ha detta proprio Murgia. Ipsa dixit. Also sprach Zaramurgia. L’amica del popolo, ma, soprattutto, del giaguaro. Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione. Anche se nessuno ci aveva mai provato, tranne, eventualmente, i due o tre lettori dell’Espresso ancora resistenti. Oh Murgia: e se il virus attaccasse anche i migranti? Se si scatenasse sui poveri, che non hanno mezzi per curarsi a dovere? Se mietesse vittime nel sud del sud del mondo? Fa niente, l’importante è che Murgia voli su un aereo da sola: lei, mollemente adagiata sulle poltroncine in pelle di povero, il pilota e una hostess in ruolo di schiava a farle vento. Fate largo, passa Murgia, svuotate le strade: forse, in verità, non c’era bisogno del coronavirus. Ma che fa? Se non altro abbiamo scoperto che il suo prontuario di democrazia progressiva, “fascista è chi il fascista fa” era autobiografico. Un po’ l’avevamo sempre sospettato, adesso è arrivata la conferma, autografa, dalla sconsolata Birignao Bignardi. ‘Acca miseria, Accabadora, Bibidibobidibù.
Libero è quasi felice perché il Coronavirus è arrivato anche al Sud: «Ora sì che siamo tutti fratelli». Enzo Boldi il 4 marzo 2020 su giornalettismo.com. Il 4 marzo 2020, andando in edicola a comprare i quotidiani, scopriamo che il Coronavirus è un novello Garibaldi che è riuscito a unire l’Italia. Il tutto appare in prima pagina, con il classico titolo a nove colonne, su Libero Quotidiano che quasi esulta per i primi casi di contagio anche nel Meridione. Secondo la testata diretta da Pietro Senaldi e Vittorio Feltri (sul lato editoriale), il Coronavirus al Sud è riuscito a far sentire gli italiani tutti fratelli, senza la discriminazione sulle persone affette nel Settentrione. «Virus alla conquista del Sud», recita il titolo di Libero nell’edizione pubblicata mercoledì 4 marzo 2020. Il tutto accompagnato da occhiello e sommario: «L’infezione crea l’unità d’Italia» e «Trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia: 55 morti, si allarga la zona rossa». Insomma, l’arrivo del Coronavirus al Sud sembra essere rappresentato come un novello Garibaldi che ha riportato unità nazionale. Si parla di caccia all’untore nel titolo che anticipa l’articolo scritto da Renato Farina, senza sottolineare – e non è un giudizio di merito, anzi – come la maggior parte dei contagi nel Sud Italia sia arrivato proprio da persone che hanno frequentato le zone rosse del Nord o altri centri delle zona: dall’uomo pugliese che è tornato da Codogno dove era andato in visita dalla madre, al poliziotto di Pomezia rientrato da un concerto dei Jonas Brothers al Forum di Assago (Milano). Insomma, ribadendo che non ha senso suddividere la popolazione in Nord e Sud, il target di Libero è completamente sbagliato.
Il concetto di unità d’Italia. Il Coronavirus al Sud non è una manna dal cielo per rinverdire gli antichi fasti dell’Unità d’Italia che, ricordiamo, è stata messa più volte a rischio dalla vecchia Lega Nord che chiedeva (e, in alcuni casi, continua a chiedere) la secessione del Veneto (tra i tanti), per non parlare della Padania. L’arrivo del Covid-19 nel Meridione non è un motivo per esultare.
Libero esulta per il Coronavirus al Sud. Mario Neri il 4 Marzo 2020 su nextquotidiano.it. Così come nella tragedia c’è sempre un filo di commedia e viceversa, Libero – ormai dedito a spegnere il fuoco dell’emergenza Coronavirus – oggi esulta per una “buona notizia” di quelle che in effetti non bisogna perdersi: l’infezione crea l’unità d’Italia perché il virus è partito alla conquista del Sud. E subito ecco i numeri della buona notizia: trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia. “Ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord”. Certo, Libero non sa – o non capisce – che non ci sono per ora focolai autonomi identificati al Sud, e questo significa che in effetti COVID-19 è arrivata nel meridione attraverso i contatti tra Nord e Sud (celebre il caso della Puglia, dove un uomo si è ammalato dopo aver visitato l’anziana madre dalle parti di Codogno, ma c’è anche Roma dove la figlia del poliziotto malato era stata ad Assago per un concerto dei Jonas Brothers). E quindi la “caccia all’untore del Nord” in effetti non ha ragione di essere conclusa, anche se non pare che sia mai seriamente cominciata (anche perché a Taranto se la sono presa con il cittadino pugliese, non certo con i lodigiani). Ma questi sono dettagli, meglio festeggiare: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta.
Mario Neri è uno pseudonimo.
"Virus alla conquista del Sud", titolo shock di Libero in prima pagina! Scoppia la bufera. Alessandro Sepe il 4 marzo 2020 su AreaNapoli.it. L'edizione odierna di Libero ha pubblicato in prima pagina un titolo davvero discutibile in merito all'emergenza Coronavirus. "Virus alla conquista del Sud", è l'orrendo titolo pubblicato in prima pagina dall'edizione odierna del quotidiano Libero. Il tutto accompagnato da occhiello e sommario: "L’infezione crea l’unità d’Italia" e "Trenta infetti in Campania, 11 nel Lazio, 5 in Sicilia e 6 in Puglia: ora sì che siamo tutti fratelli, finita la caccia all’untore del Nord. Emergenza in Lombardia: 55 morti, si allarga la zona rossa". Un titolo davvero evitabile in un momento così difficile per il nostro paese. Tanti utenti sui social stanno aspramente criticando la scelta editoriale del quotidiano nazionale. Il Coronavirus al Sud, come vuol far intendere Libero, non è una manna dal cielo per rinverdire gli antichi fasti dell’Unità d’Italia che, ricordiamo, è stata messa più volte a rischio dalla vecchia Lega Nord che chiedeva la secessione del Veneto (tra i tanti), per non parlare della Padania. L’arrivo del Covid-19 nel Meridione non è un motivo per esultare.
Coronavirus, Libero: “Virus alla conquista del Sud, ora siamo tutti fratelli”. Claudia Ausilio 4 marzo 2020 su vesuviolive.it. I casi di coronavirus in Italia aumentano di ora in ora, tanto da spingere il Governo a varare delle misure speciali per contenere il virus. Dai focolai del Nord, oggi sono aumentati i contagi da Covid-19 anche al sud: è di ieri sera la notizia del primo caso ad Ischia, un turista bresciano in vacanza sull’isola verde. E’ così che il quotidiano “Libero” ci ricasca e pubblica in prima pagina un articolo dal titolo: “Virus alla conquista del Sud- L’infezione crea l’Unità d’Italia”. Un’espressione che sa di esultanza, che equivale a dire finalmente arriva pure nel Mezzogiorno e non siamo solo noi gli “appestati”. Eppure i casi di contagio al Sud non derivano da focolai locali, ma sono stati portati dalle zone rosse o gialle del Nord. Si tratta di turisti lombardi o di persone che sono state in quell’area anche solo per pochi giorni per motivi di lavoro o di svago. Il virus, invece, ha davvero avvicinato gli italiani, che almeno nelle tragedie o nelle difficoltà si dimostrano uniti. Non a caso i napoletani hanno dedicato uno striscione allo stadio alle popolazioni maggiormente colpite dai contagi: “Nelle tragedie non c’è rivalità. Uniti contro il covid19”.
“Libero” discrimina il Sud, esplode l’indignazione su Facebook. Emiliana D'Agostino il 4 marzo 2020 su labussolanews.it. Gianni Simioli pone all’attenzione dei suoi seguaci l’ultimo provocatorio (ma anche discriminatorio) titolo del giornale “Libero”: gli utenti sono indignati. Il giornale “Libero” ci è cascato di nuovo. Il noto conduttore di RadioMarte commenta con l’hashtag #merde l’ennesimo titolo discriminatorio del quotidiano e sotto il post, l’indignazione dei followers di Simioli esplode. C’è chi posta foto di cornetti, chi propone la radiazione dell’intera redazione di “Libero” e chi, invece, suggerisce usi alternativi per utilizzare le pagine del giornale, la maggior parte da svolgere in toilette. Eppure questo è solo l’ultimo attacco che “Libero” fa: al Meridione, ai migranti, alla comunità LGBT, alle minoranze di qualunque tipo.
La prima pagina dello scandalo. “L’infezione crea l’Unità d’Italia. Il virus alla conquista del Sud”: questo il titolo incriminato, stampato a caratteri cubitali in rosso e nero sulla prima pagina del giornale. Segue il bollettino di guerra che tutti i media di notizie da giorni ci informano, facendo particolare attenzione a trattare prima dei casi scoperti al Sud e, solo alla fine, arriva la notizia che la zona rossa del Nord va sempre più allargandosi. A concludere il tutto, nel taglio basso del giornale, un altro articolo che grida “Napoli difende il rapinatore”, facendo riferimento al caso del quindicenne ucciso da un Carabiniere durante una rapina.
Molto rumore per nulla. “Libero”, soprattutto negli ultimi anni, ci ha abituati a titoli del genere, titoli che fanno parlare di sé e destano scalpore. E certo, gli attacchi della redazione tutta e del direttore Vittorio Feltri rischiano spesso di offendere le coscienze di molti e sempre quelle di qualcuno. Eppure si tratta di titoli che, non a caso, non passano mai in sordina: creano un effetto, sebbene negativo, in chiunque venga attaccato nel titolo della giornata. Bisogna, dunque, chiedersi se c’è davvero bisogno di sentirsi toccati da titoli creati ad hoc per far parlare di sé. In fondo se non fosse per titoli del genere, chi ancora parlerebbe di carta stampata nell’era in cui le news online circolano velocemente e gratuitamente?
Da corriere.it il 28 febbraio 2020. Il governatore del Veneto intervistato ad Antenna 3-Nord Est. «La mentalità che ha il nostro popolo a livello di igiene è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani. L’alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale. La Cina ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi».
Coronavirus, Fraschini (Prima Pavia) se la prende con i napoletani. Polemiche per un post su Facebook del consigliere comunale. "Noi lombardi trattati come untori. Non accetto lezioni da chi vive nell'immondizia". Il sindaco: "Inaccettabile, mi dissocio". Manuela Marziani su Il Giorno il 29 febbraio 2020. Sta sollevando un vespaio il post pubblicato su Facebook dal consigliere comunale di Pavia Prima, Niccolò Fraschini. "Ci è voluto il coronavirus - scrive Fraschini - per far sì che noi lombardi ottenessimo finalmente la #secessione. L'unica differenza è che sono gli altri a secedere da noi appestati e non viceversa!". E ha anche aggiunto: "Noi lombardi veniamo schifati da gente che vive nell'immondizia (napoletani et similia) o che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest ha le fogne popolare da bambini abbandonati". Immediatamente il sindaco Mario Fabrizio Fracassi, esponente della Lega, ha replicato a Fraschini (che in consiglio comunale sostiene la maggioranza di centrodestra): "Come primo cittadino di Pavia e come italiano - ha detto il sindaco Fracassi -, mi dissocio senza se e senza ma dalle dichiarazioni di Niccolò Fraschini, consigliere della lista civica 'Pavia Prima', così come si sono dissociati per intero la mia giunta e i consiglieri di maggioranza. Vorrei considerala solo un'uscita infelice, ma la denigrazione è inaccettabile e va sempre respinta. In questi giorni, poi, in cui dovrebbe prevalere l'unità nazionale di fronte alla crisi, fa ancora più male leggere certe frasi di italiani del Nord contro italiani del Sud e di italiani del Sud contro italiani del Nord, come avvenuto dopo i primi casi del coronavirus in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Il rispetto si deve a tutti. E attaccarci tra di noi, che siamo un unico popolo, è ancora più triste". E Fraschini ha provato a gettare acqua sul fuoco: "Sono sinceramente dispiaciuto - ha commentato - se qualcuno si è sentito offeso dai toni da me utilizzati. Il mio post era dettato da una comprensibile e diffusa esasperazione: da giorni noi lombardi siamo additati come untori e appestati nel resto del Paese e in altri Stati".
Antonio Folle per ilmessaggero.it il 29 marzo 2020. «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». È il post della vergogna lanciato sui social poche ore fa da Niccolò Fraschini, consigliere comunale di Pavia, eletto in una lista di centrodestra in appoggio al sindaco Fabrizio Fracassi. Un vero e proprio uragano di insulti ha costretto l'esponente del consiglio comunale a rimuovere il post incriminato e a "chiudere" la bacheca. Il web, però, non perdona e ormai da diverse ore lo screenshot del post sta circolando su Facebook, suscitando rabbia e indignazione. Una carriera all'insegna del "prima il nord" quella del trentaquattrenne esponente del consiglio comunale di Pavia che, sui suoi profili social - dove si definisce Europeista, liberale, attivo nel volontariato, sciatore, corridore, ottimista, testardo e juventino - mette spesso e volentieri nel mirino proprio i meridionali e le città del sud. Un chiodo fisso che non lo ha messo al riparo da dichiarazioni spesso al limite del razzismo e della discriminazione territoriale. «Sicilia e Sardegna - si legge in un suo commento relativo all'autonomia differenziata delle Regioni - le commissarierei e metterei solo commissari brianzoli per 10 anni, con poteri da stato d'assedio». Una comunicazione social decisamente sopra le righe quella del giovane consigliere comunale lombardo che, a chi gli faceva notare il contenuto razzista di alcuni commenti, poche settimane fa replicava: «Per me razzista non è un insulto. Forse non vi è chiaro. Ho ben altri difetti». Lo stesso Fraschini, che accusa i napoletani di vivere tra i rifiuti, durante la sua campagna elettorale - è stato eletto con 250 preferenze - denunciava il pessimo stato igienico di alcune periferie di Pavia. Uno dei suoi "bersagli" preferiti sembra essere il leader della Lega Matteo Salvini, che Fraschini addita più volte come traditore della causa dell'autonomia della Lombardia. Non mancano gli insulti a Luigi di Maio, all'epoca ministro del lavoro, paragonato ad un asino. La psicosi da Coronavirus ha contribuito a mettere a nudo ancora una volta l'atavica insofferenza tra il nord e il sud del paese. Il vergognoso post di Fraschini - molto pesanti gli insulti rivolti alla Romania - fa il pari con le altrettanto vergognose immagini della cittadina di Ischia che insultava una carovana di turisti provenienti dal nord.
Coronavirus, Ai Weiwei: "Il coronavirus è come la pasta, la Cina l'ha inventato e l'Italia l'ha diffuso nel mondo". Libero Quotidiano il 06 marzo 2020. Il famoso regista Ai Weiwei finisce nella bufera per una battuta riuscita davvero male. Mentre l'Italia è all'inizio di una durissima battaglia contro il coronavirus, il regista cinese si è esibito sui social in un'uscita poco felice: "Il coronavirus è come la pasta. I cinesi l'hanno inventato, ma gli italiani lo hanno diffuso in tutto il mondo". E di conseguenza passa di nuovo a livello internazionale la tesi secondo cui gli italiani sono gli untori a livello globale. Notizia acclarata falsa, dato che si è poi scoperto che il paziente zero europeo era in Germania e il primo morto in Spagna. L'Italia anziché ignorare l'emergenza l'ha affrontata di petto e quindi ha un alto numero di contagi, mentre la maggior parte dei Paesi preferisce nascondere i veri numeri sotto il tappeto per evitare gravi ripercussioni economiche e sanitarie.
Da "ilfattoquotidiano.it" il 6 marzo 2020. La vicepremier cinese Sun Chunlan, in visita a Wuhan, è stata duramente criticata dai cittadini chiusi in casa a causa del coronavirus. L’alto funzionario era arrivata nella città per ispezionare il lavoro di un comitato di quartiere, incaricato di prendersi cura dei residenti in quarantena. Gli abitanti dalle finestre hanno urlato “falso, falso, è tutto falso”, riferendosi proprio agli aiuti che non sarebbero arrivati. I video pubblicati online mostrano Sun e una delegazione camminare mentre i residenti gridano dalle finestre.
Coronavirus, Massini: "Quando dicevamo finché uccide i cinesi, chi se ne importa". Repubblica Tv il 6 marzo 2020. Dallo studio vuoto di Piazzapulita su La7, Stefano Massini racconta il suo punto di vista sulla psicosi da contagio da coronavirus. "Niente ci interessa - dice lo scrittore - se non ciò che ci è vicino. Niente ci riguarda se non ciò che entra nel nostro minuscolo cerchio di autonomia. Quando è scoppiato il virus in Cina dicevamo 'l'importante è che non arrivi qua, finché uccide i cinesi chi se ne importa. L'importante è che non arrivi qua'. Il coronavirus insegna l'ossessione di entrare in contatto con qualcosa che possa incrinare il nostro equilibrio e tutto questo è inaccettabile per chiunque che, come il sottoscritto, voglia continuare a indignarsi, ad arrabbiarsi e a guardare il mondo fuori dal cerchio"
Zaia: "I cinesi? Tutti li abbiamo visti mangiare i topi vivi". Per il governatore del Veneto gli alti standard di igiene e le regole alimentari che gli italiani rispettano ha permesso di contenere l’epidemia di coronavirus. Gabriele Laganà, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Se l’emergenza coronavirus nel nostro Paese è ancora relativamente contenuta lo si deve agli alti standard di igiene e alle regole alimentari che tutti i cittadini rispettano, a differenze dei cinesi che mangiano praticamente di tutto. È questo il pensiero espresso in un intervento tv dal governatore del Veneto Luca Zaia che, in modo polemico, ha voluto rispondere a tutti che considerano non solo la Regione da lui amministrata ma l’Italia intera una sorta di untori dell’infezione Covid-19. "La mentalità che ha il nostro popolo a livello di igiene è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani. L’alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale", ha affermato Zaia nel corso di un’intervista alla televisione Antenna Tre-Nord Est. Il governatore ha continuato lanciando un duro attacco alla Cina che "ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi". Nell’intervista Zaia stava parlando dell’epidemia di coronavirus che in Veneto ha fatto registrare fin qui 133 persone positive delle quali 69 non hanno nessun sintomo, 21 sono ricoverate e 8 sono in terapia intensiva. A Rainews24, invece, il governatore ha spiegato che nella Regione non c’è una crescita esponenziale di casi di persone colpite dal coronavirus ma "una crescita lenta dei positivi e dei contagiati. Abbiamo fatto 6.800 campioni perché abbiamo voluto da subito il campionamento dei casi per dare tranquillità' ai cittadini rispetto al focolaio". Sempre ai microfoni della tv allnews, Zaia ha auspicato che il dibattito sulla chiusura delle scuole si chiuda oggi con ordinanza. "Dire domenica sera che le scuole sono aperte lunedì o nei prossimi giorni significa mettere in difficoltà tante famiglie. Spero che si chiuda oggi questo dibattito". "Io spero- ha continuato- che si possa aprire e ripartire, tenendo presente di un territorio che ha il virus. Ogni misura che verrà adottata è fondamentale che abbia una validazione scientifica degli esperti. Onde evitare di vedere esperti che dicono una cosa e altri il contrario". Per quanto riguarda i danni all'economia causati dal coronavirus, il governatore ha sottolineato che “l'industria turistica è in ginocchio, ha 18 miliardi di fatturato con 70 milioni di presenze. È in ginocchio, gli unici contatti sono le disdette. Quindi, prenotazioni zero. Poi tutte le difficoltà che hanno le 600mila imprese venete". "Se Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono in difficoltà, significa un crollo del Pil nazionale", ha aggiunto.
Claudio Borghi sta con Luca Zaia. Il video-choc: "I cinesi mangiano i topi vivi, ecco le prove". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Sta facendo molto discutere l'ultima uscita pubblica di Luca Zaia, che è diventata virale in poco tempo. Il governatore del Veneto ha espresso il suo parere sul livello di igiene degli italiani in relazione al coronavirus: "La nostra mentalità è quella di farsi la doccia, di lavarsi spesso le mani, L'alimentazione, il frigorifero, le scadenze degli alimenti sono un fatto culturale". Fino a qui nulla di strano, poi però è arrivato l'affondo sulla Cina: "Ha pagato un grande conto di questa epidemia che ha avuto perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi". Questa frase ha suscitato ilarità ma anche tante polemiche. In difesa di Zaia è accorso Claudio Borghi, che ha affermato la veridicità di ciò che ha detto il governatore veneto: "Che i vicentini mangino i gatti è detto comune ma non l'ho mai visto fare. Che i topi vivi appena nati siano un piatto storico cinese (oggi pare proibito ma ancora consumato) è cosa assodata". Il deputato della Lega ha postato anche un video recente del Daily Mail UK come prova del fatto che in Asia c'è ancora chi mangia topi vivi.
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2020. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, dice che i cinesi mangiano i topi vivi. Più precisamente: «Li abbiamo visti tutti i video con persone che mangiano topi vivi o questo genere di cose...». Così un' intervista registrata su Antenna 3 Nord- est rischia di incrinare i rapporti diplomatici con Pechino. Zaia adombra una superiorità italiana rispetto ai cinesi. «L' igiene che ha il nostro popolo - spiega - i veneti e i cittadini italiani, la formazione culturale che abbiamo, è quella di farsi la doccia, di lavarsi, di lavarsi spesso le mani, di un regime di pulizia personale particolare. Anche l' alimentazione, le norme identiche, il frigorifero, le date di scadenza degli alimenti... Cosa c' entra? C' entra perché è un fatto culturale». Fatto culturale, ribadisce il presidente della regione Veneto sottolineando, appunto, che «la Cina ha pagato un grande conto di questa epidemia perché comunque li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o questo genere di cose». Pronta la risposta dall' ambasciata cinese in Italia: «In un momento cruciale come questo, in cui Cina e Italia si trovano fianco a fianco ad affrontare l' epidemia - sottolineano - un politico italiano non ha risparmiato calunnie sul popolo cinese. Si tratta di offese gratuite che ci lasciano basiti. Ci consola il fatto che moltissimi amici italiani non sono d' accordo con tali affermazioni e, anzi, le criticano fermamente. Siamo convinti che le parole di un singolo politico non rappresentino assolutamente il sentire comune del popolo italiano, un popolo civile e nostro amico». Irritazione trapela dalle parole dell' ambasciata che, a conclusione della sua replica, rilancia la palla nel comune campo da gioco, quello della lotta globale all' infezione: «Il nuovo coronavirus - dicono i diplomatici cinesi - è un nemico comune, che richiede una risposta comune. In un momento così difficile, è necessario mettere da parte superbia e pregiudizi, e rafforzare la comprensione e la cooperazione al fine di tutelare la sicurezza e la salute comune dell' umanità intera». In serata Zaia si pente: «Mi scuso se ho urtato la sensibilità di qualcuno, anche per i rapporti personali, noti e testimoniati, che ho con la comunità cinese». Molte le reazioni. «Prima Fontana con la messinscena della mascherina. Oggi Zaia. Quando proprio non si può fare a meno di tirare la zappa sui piedi del nostro Paese e metterci in cattiva luce, in un momento già delicato. Complimenti», dice Danilo Toninelli dei 5 Stelle. Mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori commenta: «Tra questo che dice spropositi e l' altro con la mascherina direi che non potevano fare peggior servizio alla causa del federalismo e dell' autonomia regionale».
Zaia: «Cinesi e topi? Io, massacrato per parole uscite male, mi scuso». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio.
Presidente Zaia, indietro tutta?
«Noi proponiamo di allentare la stretta. Ma non decidiamo da soli. E senza l’approvazione del mondo scientifico, non lo facciamo».
Cosa è cambiato rispetto a una settimana fa?
«Abbiamo un quadro scientifico più definito. E gli altri Paesi hanno già cominciato ad approfittare di questo momento di debolezza dell’Italia per occupare i nostri spazi. Bisogna uscirne velocemente».
Altrimenti?
«Senta, io qui ho il turismo e 600.000 partite Iva che da soli valgono 150 miliardi di Pil. Se vanno in fumo, altro che recessione, è Medio Evo. Se ci sono i presupposti bisogna dare un segnale di ripartenza».
E la salute?
«Io ho sempre messo davanti la salute dei miei cittadini. Se si ammalano, l’economia va male lo stesso. Per questo il mondo scientifico non si deve chiamare fuori. Altrimenti sembra che abbiamo fatto tutto da soli, quando invece non è mai stato così».
Abbiamo esagerato con le ordinanze che chiudono tutto?
«Anche se non c’è più il Totocalcio, l’Italia rimane un Paese pieno di gente che gioca la schedina con il 13 vincente di lunedì. In verità i protocolli dell’Oms ci consigliavano un approccio ancora più pesante».
Quand’è che ha visto un cinese mangiarsi i topi vivi come ha detto in tv?
«È tutto il giorno che vengo massacrato per quel video. Nella migliore delle ipotesi sono stato frainteso, nella peggiore strumentalizzato».
Non è lei che quello che parla?
«Sì, certo. Quella frase mi è uscita male, d’accordo. Se qualcuno si sente offeso, mi scuso. Non era mia intenzione fare il qualunquista e tanto meno generalizzare. Intendevo fare una riflessione più compiuta».
L’hanno criticata quasi tutti, da Calenda all’ex ministra Grillo. Cosa voleva dire?
«Volevo parlare delle fake news e dei video che hanno girato prima che l’epidemia arrivasse da noi. Hanno preparato la culla per il neonato. Qui non è arrivato il virus, ma il virus della Cina. Prova ne sia l’aumento esponenziale della diffidenza nei confronti dei cinesi, creata dai social».
Nel video incriminato le sue considerazioni sulla loro igiene sono una terapia d’urto?
«Volevo solo dire che le certificazioni sul fronte della sicurezza alimentare e sanitaria variano da Paese a Paese. Era una riflessione a 360 gradi su un Paese che ha metropoli moderne e altre zone che sono il loro esatto opposto».
Il video è diventato subito virale.
«Mi dispiace profondamente. Questo è uno dei problemi principali. A differenza della Sars che è del 2003 e dell’aviaria che è del 2006, questo è il primo virus dell’era digitale. L’informazione in tempo reale, vera o falsa che sia, coinvolge tutti noi, condiziona le nostre scelte e i nostri comportamenti. Dobbiamo abituarci a creare modelli diversi di approccio, anche comunicativo».
Due mesi fa lei ha proposto l’isolamento per chi rientrava dalla Cina.
«No. Ho parlato di isolamento fiduciario non dalla Cina, ma dalle zone infette. In questo Paese sembra che ogni limitazione della libertà personale sia un atto di razzismo. Invece ci sono norme di polizia sanitaria che purtroppo impongono determinati atteggiamenti».
La popolazione si è rivelata meno apprensiva delle istituzioni?
«È come stare su un pullman. Chi è al volante deve guardare la strada e preoccuparsi di tutto. I passeggeri possono fare le foto e chiacchierare. Solo uno ne risponde. In questo caso sono io».
Ieri chiedevate misure forti, oggi meno. Non si rischia di creare confusione?
«Avrei molto da ridire su chi banalizza quel che facciamo. La mia ordinanza scade domenica. Prima si chiarisce ogni aspetto con i tecnici del governo, meglio è. Non possiamo andare avanti in ordine sparso. E lo scaricabarile non mi ha mai appassionato».
Intanto l’economia piange.
«Le nostre imprese sono devastate da questa emergenza che prima è sanitaria e poi mediatica. Il governo deve intervenire mettendo in campo un budget da centinaia di milioni per una campagna di riposizionamento della reputazione del nostro Paese».
Non ci sono le ambasciate per questo?
«Con tutto il rispetto, davanti a un danno di immagine mostruoso, con la concorrenza mondiale che è pronta a mangiarci, serve qualcosa di più incisivo».
Da "ilmessaggero.it" l'1 marzo 2020. Zaia chiede scusa. E lo fa scrivendo una lettera all’ambasciatore cinese Lì: «Le scrivo per non accampare scuse: quando si sbaglia, si sbaglia». Il governatore del Veneto aveva detto durante una trasmissione televisiva che parlava di coronavirus l’infelice frase: «Abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi». Polemiche a livello mondiale e ora le scuse nella lettera con carta intestata Regione Veneto. Il testo è apparso su Twitter: «Nulla valgono le giustificazioni sulla stanchezza accumulata in questi giorni di grande tensione o sulla frettolosità di esposizione di concetti e di ragionamenti assai più articolati svolti nei giorni precedenti - senza peraltro suscitare polemiche - in molte sedi pubbliche e a molti organi di stampa». Zaia continua: «Ho, più semplicemente, sottolineato le differenze di usi e costumi, così come avrei potuto sottolineare le differenze fra noi e alcuni paesi europei, fra cui la stessa Europa e gli Stati uniti, fra le Ue e il Giappone, e così via…». Il governatore del Veneto conclude: «Insomma, Signor Ambasciatore: non è mio stile e mio costume, mia abitudine e modalità espositiva, aggredire e sottolineare diversità di pelle, di religione di genere, di scelte sentimentali. Chi mi conosce lo sa...»
Da "artribune.com" l'1 marzo 2020. Mentre in Italia l’emergenza Coronavirus è ancora in corso e purtroppo si registrano nuovi casi di persone colpite, i settori dell’economia, dell’istruzione e della cultura provano a risollevarsi dal momento di crisi che ha già causato rallentamenti nel sistema industriale, cali in Borsa, cancellazioni e rinvii di manifestazioni e fiere soprattutto a Milano (tra tutti, il Salone del Mobile). Un Paese sotto scacco, insomma, soprattutto le regioni del Nord maggiormente interessate dall’epidemia, ovvero Lombardia, Piemonte e Veneto. Quest’ultima, in particolare, nelle ultime ore si trova al centro di un polverone mediatico che ha messo a rischio i rapporti diplomatici con la Cina: il governatore della Regione, il leghista Luca Zaia, durante un’intervista ad Antenna Tre Nordest, commentando quanto sta accadendo in Italia e in Veneto per via del Coronavirus, ha dichiarato: “penso che la Cina abbia pagato un grande conto in questa epidemia perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o cose del genere… Sa perché noi dopo una settimana abbiamo 116 positivi, dei quali 63 non hanno sintomi e ne abbiamo solo 28 in ospedale? Sa perché? Perché l’igiene che ha il nostro popolo, i veneti, i cittadini italiani, la formazione culturale che abbiamo è un regime di pulizia personale particolare. Anche l’alimentazione…”. Un’affermazione, questa, arrivata alle orecchie del governo cinese, che non ha per niente apprezzato lo scivolone: “in un momento cruciale come questo, in cui Cina e Italia si trovano fianco a fianco ad affrontare l’epidemia, un politico italiano non ha risparmiato calunnie sul popolo cinese. Si tratta di offese gratuite che ci lasciano basiti”, si legge su una nota stampa dell’ambasciata cinese a Roma. “Ci consola il fatto che moltissimi amici italiani non sono d’accordo con tali affermazioni e, anzi, le criticano fermamente. Siamo convinti che quelle parole non rappresentino assolutamente il sentire comune del popolo italiano. “Il popolo italiano è un popolo civile e nostro amico. Il nuovo Coronavirus è un nemico comune, che richiede una risposta comune. In un momento così difficile, è necessario mettere da parte superbia e pregiudizi, e rafforzare la comprensione e la cooperazione al fine di tutelare la sicurezza e la salute comune dell’umanità intera”. Crisi diplomatica esplosa e mondo della politica e dei media in subbuglio: da una parte c’è chi in maniera più o meno blanda la pensa come Zaia – mangiare carne di topo, cane o gatto non sarebbe molto salutare per l’uomo –, dall’altra c’è chi accusa il governatore veneto di razzismo e anche di non sufficiente conoscenza e comprensione delle tradizioni culturali di altri popoli. Ad ogni modo, sono arrivate inevitabili le scuse di Zaia, che ha dichiarato: “mi spiace che qualcuno abbia montato una polemica su questo, non ho mai detto che i cinesi non si lavano. E mi scuso se ho urtato la sensibilità di qualcuno, anche per i rapporti personali, noti e testimoniati, che ho con la comunità cinese. Mi spiace d’essere stato da alcuni frainteso, e da altri volutamente strumentalizzato. La mia era una riflessione che non voleva offendere nessuno; si riferiva alla montagna di materiale e video, molti dei quali fake, che pesano sulla ‘reputazione’ di questo virus. È indubbio”, prosegue Zaia, “che le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina. Ma il qualunquismo e la generalizzazione non sono nel mio stile. È pur vero, tuttavia, che in un paese dalle mille sfaccettature, che presenta contesti metropolitani di assoluta innovazione, come Shanghai, Pechino, Shenzhen, ve ne sono altri che sono agli antipodi. Ho deciso di intervenire personalmente su questo per un fatto di correttezza e lealtà, ma devo dire anche che siamo molto impegnati nella partita del contenimento del virus, e non ho tempo da perdere su queste cose”. Insomma, nessun “qualunquismo” e nessuna “generalizzazione”, però è anche vero che “le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina”. Forse è vero, almeno adesso, e dando una sbirciata tra i piatti della tradizione gastronomica delle regioni italiane, non sembra che tra le ricette compaia la carne di topo. Troviamo però, potrebbe fare notare qualcuno, la carne di gatto, di rana, d’anguilla, non considerando che per molte popolazioni del mondo – per motivi culturali e religiosi – è impensabile concepire l’idea di cibarsi di carne di maiale o di vacca. Tralasciamo però per il momento questa digressione gastronomica e torniamo alla frase di Zaia, secondo cui “le condizioni che abbiamo qui sono diverse da quelle in Cina”. Nel 2020 in Italia non si mangiano topi, è vero, però abbiamo documenti fotografici che attestano che fino a un secolo fa, e proprio in Veneto, cibarsi di topi non era poi una stranezza. E a dircelo è stato proprio lo stesso Zaia, citando sulla propria pagina Facebook una mostra tenutasi a Belluno due anni fa! La mostra citata da Zaia e inaugurata il 23 novembre 2018 a Belluno a Palazzo Crepadona, e a cura dell’Archivio Storico del Comune, si intitolava Belluno, una città. Il nuovo secolo, la guerra, un’esposizione che attraverso documenti e fotografia d’epoca raccontava le vicende della città veneta a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, e quindi la drammatica fase dell’occupazione austroungarica tra il 1917 e il 1918, nota come “an de la fam”, ovvero “anno della fame”. Tra quelle in mostra, una fotografia in particolare racchiude tutto l’orrore della guerra, e soprattutto le tragiche conseguenze che essa ha avuto sulla popolazione del bellunese: uno scatto di Pietro De Cian, facente parte della collezione Massenz-Baldini della Biblioteca Civica. “Topi messi ad essiccare a Belluno durante "l’an de la fam", l’anno della fame. Questa straordinaria immagine è esposta, insieme a moltissime altre, nella straordinaria mostra documentaria, iconografica e multimediale su Belluno durante la Prima guerra mondiale appena inaugurata a Palazzo Crepadona”, scriveva il 26 novembre 2018 Zaia sulla propria pagina Facebook, terminando il post con l’hashtag “VenetoDaAmare”. I topi messi ad essiccare sarebbero poi stati mangiati dai bellunesi, rappresentando a quanto pare l’unica fonte di nutrimento possibile in quel momento storico. 100 anni sono tanti, è vero, e i bellunesi mangiavano topi per necessità, non per tradizione o scelta, tuttavia non sembrano differenze così clamorose da potersi ergere ad alfieri della tradizione culturale igienica del mondo. Che la differenza stia nel fatto che i cinesi mangiano a detta di Zaia “topi vivi” e i bellunesi invece li mettevano a essiccare al sole? “Topi vivi” = virus e topi essiccati = “straordinario”? In ogni caso una buona occasione per andarsi a rivedere recensioni e catalogo di quella mostra di due anni fa.
Marco Giusti per Dagospia il 13 marzo 2020. Svelato finalmente da dove nasce la battuta di Luca Zaia sui topi vivi, i cinesi, i veneti… Ci voleva Tatti Sanguineti che mi ha consigliato di rileggere le pagine del suo storico libro su Rodolfo Sonego, “Il cervello di Alberto Sordi”, per capire la dimestichezza che hanno i veneti per topi e pipistrelli. Altro che i cinesi. Sonego sta preparando la sceneggiatura de “Il disco volante”, che verrà poi realizzato da Tinto Brass con Alberto Sordi protagonista e gira per la campagna veneta più miserabile… “Attraversando questi paesi con le urne – si era in periodo elettorale – approdai in una osteria di cacciatori poveri poveri alle prese con dei piatti pieni e non riuscivo bene a capire di cosa.
“Ma cosa mangiate?”
“Osei” (uccelli).
“Mah… ne avete preso un bel po’…”.
“Xe osei e pipistrei”.
“C’è una bella differenza. I pipistrei son topi, cazzo!”.
“Ah… Cartucce costano. Qualche volta xe osei, qualche volta no ghe xe osei. Ghe xe una montagna, con ’na galeria dentro, perché tutti aeroplani da caccia durante la guerra veniva fora andava a bombardar… e ghe xe tuto pieno de pipistrei. Là dentro co ’na sciopata sola xe un graspo de pipistrei. Anca trenta…”.
“E come li mangiate? Arrosto, allo spiedo?”.
“Qualche volta no xe osei, se magna pipistrei!”.
“Ma cavolo!”.
“Mettemo un po’ de pipistrei e un po’ de osei, così te magni gli osei e te credi de magnar pipistrei e quando invece…”.
Osei e pipistrei: quanti contorcimenti.
Laura Bogliolo per ilmessaggero.it il 26 febbraio 2020. «Sono un cinese che la mattina va a scuola insieme a te, che ti passa il compito di matematica all'esame, che ha fatto taglio e messa in piega a tua mamma». Inizia così la lettera appesa a una vetrina di un negozio di via Tuscolana, a Roma. La foto è stata scattata qualche giorno fa, è stata postata sui social e sta avendo un gran successo. A Roma ci sono oltre 2,8 milioni di residenti, i cinesi secondo gli ultimi dati dell'Anagrafe sono 19600, gli stranieri nella Capitale rappresentano il 13,4% della popolazione (dato 1° gennaio 2019). La paura del contagio del coronavirus ha fatto praticamente svuotare i negozi gestiti dai cinesi che sono davvero tanti. E la lettera apparsa nella popolosa via Tuscolana, è un estremo tentativo di non isolare la comunità cinese. «Sono il solito cinese che fa parte della tua vita - si legge nella lettera - che ha pianto quando ha visto i morti del terremoto di Amatrice, che il sabato sera ti accoglie al ristorante cinese come uno di casa». E quindi l'accorata richiesta: «Non trattarmi come un virus, la diffidenza e il pregiudizio a volte uccidono più di un virus...».
Fabio Giuffrida per open.online il 26 febbraio 2020. Aggressioni, insulti, occhiatacce e battute. Non è un momento facile per la comunità cinese, alle prese con razzismo e psicosi da coronavirus. «Ho più paura delle persone che del coronavirus. Troppa discriminazione verso di noi che abbiamo la “colpa” di essere cinesi. E andrà sempre peggio se la mia comunità non si decide a denunciare una volta per tutte. I cittadini cinesi, infatti, preferiscono “testa bassa e silenzio”, hanno paura di ritorsioni e si sentono “ospiti” in Italia, un Paese che in realtà è anche il loro (visto che in molti risiedono sul territorio italiano da oltre 20-30 anni, ndr). Ma adesso basta stare zitta, non si può più tollerare questa situazione». Questo lo sfogo di Elisa, nata in Cina ma da oltre 20 anni in Italia, a Open.
«Preso a bottigliate da italiani». Il primo caso di razzismo che ci viene segnalato è quello verificatosi il 24 febbraio sera, in un rifornimento di benzina a Cassola, in provincia di Vicenza, nel Veneto, dove Zhang, un uomo di origine cinese, è stato preso a bottigliate da un 30enne italiano perché cinese. Questa la sua “colpa”.
L’aggressione a un giovane cinese. «Ero entrato nel bar del rifornimento di benzina per vedere se fosse possibile cambiare con tagli più piccoli una banconota da 50 euro. La barista, però, vedendomi, mi ha detto subito “Hai il coronavirus, tu non puoi entrare!”. A quel punto un ragazzo, che si trovava seduto all’interno, si è alzato e, dopo aver afferrato una bottiglia di birra che era sopra il tavolo, me l’ha rotta in testa causandomi delle lesioni» si legge sulla denuncia, di cui Open è in possesso, presentata ai carabinieri. «La cosa più grave è che nessuno sia intervenuto per difenderlo» ci spiega una nostra fonte.
«Via schifosi, cinesi di merda». Il secondo caso, invece, risale al 23 febbraio quando, in un Despar di Cividale del Friuli, una donna, «spingendo il carrello ha detto: “Ca**o di cinesi, perché uscite e continuate a contagiare la gente? Via via schifosi. Cinesi di mer*a» ci racconta Elisa, che da otto anni gestisce un bar e che, «da quando c’è l’emergenza coronavirus ha pochissimi clienti, con un 70% di fatturato in meno» tra «occhiatacce e battute sgradevoli». Ora, però, «ci sono anche clienti che dicono apertamente “non andate dalla cinese che rischiate il virus”». «Io per la prima volta, dopo 20 anni in Italia, mi rendo conto che non potrò mai essere considerata italiana. Oggi i cinesi sono come gli ebrei all’epoca» ha aggiunto.
«Tappatevi naso e bocca». Il terzo caso, invece, ha visto protagonista Valentina, ragazza di origini cinesi che, come spiega a Open, si trovava al supermercato con la madre quando è stata insultata da una donna con a seguito due bambini. «La madre ha urlato ai figli di tapparsi il naso e la bocca. Poi, ogni volta che ci beccavamo nei reparti, facevano retromarcia e cambiavano subito direzione». E non è la prima volta. Di casi di razzismo se sono registrati decine negli ultimi mesi: dagli insulti a una 19enne agli sputi alla coppia di cinesi a Venezia, dal 13enne insultato durante la partita perché cinese al bimbo aggredito a Bologna. E questi sono solo alcuni dei casi di razzismo documentati. Il rischio è che ce ne siano molti altri mai denunciati.
Coronavirus, a Roma è sindrome cinese…Il Dubbio il 31 gennaio 2020. Ingresso vietato ai cinesi in un bar del centro, mascherine a ruba e turisti in fuga. A Roma è psicosi. Ristoranti cinesi semivuoti, mascherine e guanti in lattice esauriti da giorni e divieti di accesso ai cittadini di origine cinese. Insomma, i due casi di coronavirus accertati a Roma hanno fatto scattare una vera e propria psicosi. Finiti anche amuchina e altri disinfettanti. “Sold out – no mask”, niente mascherine, in inglese, in cinese, in giapponese, con tanto di disegnino esplicativo, recita il cartello affisso sulla porta di una farmacia nel centro storico di Roma. Ma non importa, perché la gente continua a entrare e chiederne. E c’è chi ne approfitta per fare affari: Secondo il Codacons ci sono già stati incrementi fino al +400% per i listini di alcune mascherine vendute online. A poca distanza, nei pressi della fontana di Trevi, un altro cartello: “A causa delle disposizioni internazionali di sicurezza tutte le persone provenienti dalla Cina non hanno il permesso di entrare in questo locale. Ci scusiamo per l’inconveniente”. Una fuga in avanti da parte dei titolari subito stigmatizzata dalla sindaca Virginia Raggi che l’ha definito “assolutamente ingiustificato”, tanto che la scritta è scomparsa poco dopo. “Stop psicosi e allarmismi. Ascoltiamo solo indicazioni e pareri delle autorità sanitarie”, è l’appello della prima cittadina. Intanto gli affari vanno male per chi lavora con il turismo. Il primo a farne le spese è l’hotel Palatino nel quartiere Monti, dove soggiornavano i due turisti malati di coronavirus. Inevitabili le disdette e il direttore Enzo Ciannelli lancia l’appello ai media: “Ci vuole aiuto anche da parte vostra perché è stato creato un po’ di terrorismo. I nostri datori di lavoro sarebbero dei pazzi a farci lavorare se la struttura fosse a rischio”.
Coronavirus: “Ritorna in Cina. E m'ha spaccato la bottiglia in testa”. Le Iene News il 6 marzo 2020. “Tornatene in Cina perché non ho voglia di infettarmi per colpa tua”. La fobia del Coronavirus sta scatenando nella popolazione italiana i peggiori istinti razzisti. Nicolò De Devitiis ha incontrato Matteo, che ha aggredito un ragazzo cinese con una bottiglia. “Io non sto dicendo che non ho fatto niente, io sto dicendo che quel tipo se le meritava. Non perché ha il coronavirus ma perché è un coglione”. Matteo, 21 anni, pochi giorni fa ha aggredito con una bottiglia in mano un ragazzo cinese, ma sostiene di non averlo fatto come atto di razzismo. Così gli chiediamo cosa pensa dei cinesi e la risposta non è certo delle più pacifiche: “Dal momento in cui uno straniero entra nel mio paese, dove io sono nato, dove io ho il dna, deve portarmi rispetto perché mio ospite”. E quell’aggressione? “Perché io non sono mai andato in un bar a rompere i coglioni”, ci risponde secco Matteo. Ma quando gli facciamo notare che il ragazzo cinese era entrato solo per cambiare dei soldi e non per dare fastidio, ci risponde senza mezzi termini: “Ma a me non me ne frega un cazzo, li vai a cambiare prima di fare benzina”. Ma cosa è successo davvero? Lo chiediamo anche ad Alex, la vittima dell’aggressione. “Quando sono entrato la barista mi ha detto che avevo il coronavirus e che quindi non potevo entrare ma io gli ho spiegato che sono in Italia da 10 anni e che non sono infetto”. Ed è qui che Matteo l’avrebbe aggredito, “Mi ha detto ‘che cazzo vuoi? Ritorna in Cina’ e poi mi ha spaccato la bottiglia in testa…”. Ma secondo la ricostruzione di Alex non sarebbe nemmeno finita lì: “Io sono subito uscito, mi ha seguito e mi ha detto ‘ti do un pugno’”. Allora Matteo, perché l’ha aggredito? “Perché mi ha rotto il cazzo. è inutile tirare fuori storie sul coronavirus, il motivo era una semplice rissa, ha dato della puttana alla barista e non ci ho più visto”. Insomma, aggredito l’ha aggredito, ma Matteo sostiene che il coronavirus non c’entri niente, anzi che sia stato il ragazzo cinese a provocare. Matteo l’abbiamo sentito, Alex pure, non ci resta che ascoltare anche la versione della barista. “Matteo ha capito che questo mi ha offesa e l’ha attaccato, anche se non è vero che mi ha offesa o comunque io non l’ho sentito”. Il racconto sembra coincidere proprio con quello di Alex: tutto tranne un particolare. “Non ho assolutamente detto che doveva uscire perché aveva il coronavirus anzi, mi sono pure messa a difenderlo!”. Ci dice lei in lacrime: “Sono preoccupata ora per il mio posto di lavoro, per la diffamazione…”. Torniamo da Matteo che continua a lamentarsi del ragazzo cinese. “È venuto a dire che siamo razzisti” ci dice arrabbiato. Ma lo è o no? “Io sono fascista, non sono razzista. Dal primo all’ultimo secondo della mia vita esigo rispetto”. Ma poi, dopo un po’ che ci parliamo, finalmente fa un passo indietro: “Sono cosciente di aver sbagliato e so di aver sbagliato...”. Cogliamo subito l’occasione per proporgli un incontro per chiarirsi con Alex, ma non reagisce proprio benissimo: “Chiamatelo qua quel cinese di merda”. E anche se non sembra così convinto ci proviamo lo stesso e andiamo a prendere Alex. “Io ho sbagliato, ma anche tu devi dichiarare di aver sbagliato” dice Matteo ad Alex porgendogli la mano. Peccato però che la stretta di mano non sia ricambiata: “Accetto le scuse ma non do la mia mano perché non lo sento dal cuore, mi spacca una bottiglia in testa e se mi chiede scusa è tutto a posto? No”, ci spiega Alex ancora un po’ impaurito. Non molliamo, senza grossi risultati inizialmente. “L’ho picchiato perché l’italiano non lo capisce, se vieni qua devi sapere quello che dico e quello che dice lui. Io gli sto porgendo la mano se lui non l’accetta, la colpa è sua” dice Matteo. E riparte: “Pensi che io perda tempo con questa faccia di merda? Se non mi dai la mano allora devi andare via perché non sei italiano”. Insomma, trovare un punto di incontro sembra quasi impossibile! E dopo poco si ritorna al punto di partenza: scoppia di nuovo una lite. “Ne vuoi una altra in testa? Sei una merda, ti vedranno in tv e vedranno tutti che sei un cinese figlio di puttana!”, urla minaccioso Matteo prima di andarsene. Così tentiamo l’impossibile spiegando ad Alex il gesto di Matteo, un po’ forzato ma comunque sincero, e incredibilmente dopo l’intervento di Nicolò De Devitiis, i due litiganti si stringono la mano. “La prossima volta conterò non solo fino a 10, ma anche fino a 20…. Che 10 non mi bastano”, chiosa Matteo.
Da "tgcom24.mediaset.it" il 5 marzo 2020. Spunta un movente razziale alimentato dalla psicosi del coronavirus dietro l'aggressione subita qualche sera fa a Oxford Street, nel cuore di Londra, da uno studente originario di Singapore, il 23enne Jonathan Mok. A denunciarlo è stato lui stesso, mentre sui media sono apparse le foto del volto tumefatto del ragazzo scattate dopo l'attacco. Stando al racconto dello studente dell'University College si è trattato di un pestaggio a freddo, "non provocato", da parte di 4 ragazzi. "Non voglio il tuo coronavirus nel mio Paese", gli avrebbe urlato uno degli aggressori. Poi il pugno in faccia. "E' accaduto tutto all'improvviso - spiega su Facebook Jonathan Mok -, un pugno mi ha colpito al volto e mi sono ritrovato coperto di sangue". Il 23enne, ancora sotto shock, ha poi messo in guardia gli utenti dal rischio che l'emergenza Covid-19 possa essere cavalcata da chi già "odia le persone diverse da sé e macchiare l'immagine d'una città tollerante". Sull'episodio indaga la polizia britannica. Scotland Yard ha aperto un fascicolo per il reato di aggressione aggravata dal razzismo, ma finora non ha arrestato nessuno.
Coronavirus, bar di Roma contro cinesi: “Non autorizzati a entrare in questo posto”. Laura Pellegrini il 31/01/2020 su Notizie.it. In un bar di Roma è apparso un cartello che vieta l'ingresso alle persone cinesi: scatta la psicosi coronavirus. Scatta la psicosi coronavirus a Roma dopo i due casi accertati dei turisti e un terzo caso sospetto: in un bar della Capitale è stato vietato l’ingresso ai cinesi. L’episodio è avvenuto in via dei Lavatori, a pochissima distanza dalla Fontana di Trevi, in pieno centro. Migliaia di turisti si riversano ogni giorno nella zona, eppure il locale pone alcune restrizioni ai clienti.
Coronavirua a Roma, bar contro cinesi. Ingresso vietato alle persone cinesi: questo è il cartello apparso al’esterno di un bar di Roma dopo l’accertamento dei due casi di coronavirus. Infatti, nella capitale è scoppiata la psicosi contagio nonostante il presidente del Consiglio e il direttore dell’hotel nel quale hanno alloggiato i turisti abbiano invitato ad evitare allarmismi. “Due to international safety measures all people coming from China are not allowed to have access in this place. We apologise for any inconvenient“, recita il foglio. Ovvero tradotto: “A causa delle misure di sicurezza internazionali le persone che vengono dalla Cina non sono autorizzate a entrare in questo posto. Ci scusiamo per ogni inconveniente”. Inevitabile lo scoppio di enormi polemiche soprattutto tra i passanti, per la maggior parte cittadini italiani. Il cartello era stato momentaneamente rimosso per correggere e modificare la traduzione della frase in giapponese. In seguito, però, è tornato affisso all’esterno del locale, scatenando le reazioni dei cittadini.
Coronavirus a Roma, bar in via del Lavatore: «Ingresso vietato a chi arriva dalla Cina». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Che sia psicosi o no, la paura del Coronoravirus a Roma sta prendendo sempre più piede. Tanto che in uno dei siti più turistici della Capitale, Fontana di Trevi, sono comparsi cartelli molto espliciti. «Vietato l’ingresso a chi arriva dalla Cina». Il bar Trevi, del Relife Fontana di Trevi hotel, in via del Lavatore 43, in pieno centro storico, ha infatti esposto un cartello tradotto in inglese e in cinese: «A causa delle misure di sicurezza internazionali, a tutte le persone provenienti dalla Cina non è permesso entrare in questo posto. Ci scusiamo per l’inconveniente».
Danilo Barbagallo per leggo.it il 31 gennaio 2020. Il Coronavirus spaventa anche la Capitale e gli esercenti cominciano a prendere provvedimenti. Nel centro di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, precisamente a via del Lavatore, dove passano migliaia di turisti al giorno, un bar caffetteria ha affisso stamattina un cartello che invita chi arriva dalla Cina a non entrare nel locale. Come ha potuto verificare Leggo, l’affissione recita: «Due to international safety measures all people coming from China are not allowed to have access in this place. We apologise for any inconvenient». («A causa delle misure di sicurezza internazionali le persone che vengono dalla Cina non sono autorizzate a entrare in questo posto. Ci scusiamo per ogni inconveniente»). L’avviso è stato temporaneamente rimosso per una correzione al testo in giapponese, e poi riaffisso nonostante abbia suscitato molte reazioni e polemiche da parte dei passanti, primi fra tutti gli italiani. A farlo scomparire del tutto ci hanno pensato i vigili di Roma Capitale, che hanno intimato agli esercenti di rimuoverlo.
Nico Riva per leggo.it il 31 gennaio 2020. «Non voleva assolutamente essere discriminatorio. Non vogliamo essere accusati di razzismo. Il nostro era solo un invito al buonsenso», dichiara Nadia Esposito, la portavoce dell'hotel Relais Fontana di Trevi che questa mattina, dopo la conferma di due casi di Coronavirus registrati a Roma, ha affisso un cartello che vietava l'ingresso alle persone provenienti dalla Cina. La portavoce però spiega: «Il cartello non ha nulla a che vedere con le persone di nazionalità cinese. Era rivolto a chi è stato recentemente in Cina, di qualunque nazionalità, quindi anche italiani». Ma dopo poco tempo, si son presentati i vigili della Polizia Locale e l'hanno fatto rimuovere con la giustificazione che fosse discriminatorio. «Viste le misure di sicurezza internazionale tutte le persone provenienti dalla Cina non sono ammesse in questo posto. Ci scusiamo per l'inconveniente». Così recitava il cartello affisso all'ingresso dell'Hotel e del Bar in via Lavatore, a due passi dalla Fontana di Trevi. «L'abbiamo messo per lo stesso motivo per cui questa mattina lo Stato italiano ha bloccato i voli da e per la Cina, quindi per prevenire e tutelare la salute dei nostri ospiti, dei nostri dipendenti e di chiunque altro. Visti anche i due casi di ieri in via Cavour, ci siamo sentiti in diritto e in dovere», ha aggiunto la portavoce. «Ci dispiacerebbe ricevere accuse di razzismo. Non abbiamo nulla contro le persone di nazionalità cinese, infatti il cartello specifica bene "le persone provenienti dalla Cina". Se arrivasse un cliente italiano che è stato in Cina due giorni fa, l'atteggiamento sarebbe identico, così come se arrivasse un cliente di nazionalità cinese che però non va in Cina da tempo, il problema non si porrebbe», ha proseguito Nadia Esposito. La portavoce ha infine sottolineato che per l'hotel e il bar si tratta anche di un «danno economico, perché l'affluenza di persone che arrivano dalla Cina in questo periodo è molto alta. Abbiamo anche rimborsato diversi clienti che dovevano arrivare dalla Cina. Abbiamo scelto di attuare delle misure cautelari finché non si stabilizzerà la situazione. Il nostro è solo un invito al buon senso. Si tratta di un problema che va ben oltre il guadagno». Ma i vigili non hanno voluto sentire ragioni, ordinando la rimozione del cartello.
Massimo Falcioni per tvblog.it il 31 gennaio 2020. Nella serata in cui vengono confermati i primi due casi in Italia di persone contagiate da coronavirus, alla tv spetta il ruolo della cronaca e, se possibile, della rassicurazione. Gli aggiornamenti sono utili, indispensabili, ma vanno accompagnati da gesti plateali e fortemente simbolici che arrivino rapidamente al pubblico a casa. Ecco allora la decisione di Corrado Formigli di addentare in diretta a Piazzapulita un involtino di verdura alla griglia proveniente da un ristorante cinese di Roma e di far fare altrettanto agli ospiti in studio. “Noi siamo amici della scienza – dice il conduttore - mangiate tranquilli, non viene da qui il virus. Potete andare nei ristoranti cinesi, siate razionali, crediate nella scienza, nelle persone di buonsenso. Passerà”. Ad oggi i contagiati in tutto il mondo sono più di 8 mila, i morti oltre 170. A risentire della psicosi sono proprio i ristoranti cinesi, che hanno visto ridursi la clientela in maniera corposa. La mossa di Formigli ha fatto tornare alla mente l’episodio che il 21 febbraio 2006 vide protagonista Lamberto Sposini. L’allora conduttore del Tg5, nell’edizione delle 20, mangiò un pollo in diretta per allontanare la fobia dell’influenza aviaria. Dagospia il 31 gennaio 2020. VIDEO-FLASH! BARBARA D'URSO SI PAPPA UN BISCOTTO DELLA FORTUNA CINESE IN DIRETTA DURANTE LA PUNTATA DI "POMERIGGIO CINQUE" – COME FORMIGLI CON GLI INVOLTINI PRIMAVERA (E SPOSINI NEL 2006 CON IL POLLO), L'OBIETTIVO È TRANQUILLIZZARE LE PERSONE PER L'EPIDEMIA DI CORONAVIRUS. MA "BARBARIE" NON SEMBRA TANTO CONVINTA...
Se all’improvviso la cinese sull’autobus diventa l’untore che innesca la pandemia. Fulvio Giuliani il 30 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il corto circuito con venature razziste che scatta inesorabile: stop agli involtini primavera e ai barconi che traboccano di cinesi e asiatici. Roberto Burioni, ben noto uomo di scienza a cui dobbiamo una consistente fetta della battaglia di civiltà in favore dei vaccini, sostiene che le notizie dei sospetti casi di contagio da nuovo coronavirus non andrebbero neanche date. Perché innescherebbero un inevitabile circolo vizioso di allarmismo. Calandomi nel punto di vista dello scienziato, non posso non riconoscerne le ragioni, ma da giornalista provo sempre un brivido di diffidenza, davanti alle notizie taciute, anche con le migliori intenzioni. Resto dell’idea che un’informazione quanto più completa possibile, intellettualmente onesta e sostenuta da robuste collaborazioni scientifiche, soprattutto in casi come questo, sia il modo migliore per contrastare l’insorgere di ondate di panico. Se è vero che non sentir parlare di un caso sospetto, nell’immediato possa evitare ( o ritardare…) l’insorgere di un senso di paura, a medio termine può innescare il dubbio che le autorità stiano nascondendo qualcosa. Che non ci dicano tutto. Da che mondo è mondo, davanti alle pandemie la reazione della pubblica opinione si muove sostanzialmente su un doppio binario. Da una parte, il timore di essere inghiottiti in un incubo non gestibile, l’ancestrale terrore della morte senza volto, che arriva a sconvolgere le nostre esistenze. Dall’altra, la necessità di scaricare la paura che si fa rabbia. Ci mettono poco le persone a sentire l’esigenza di trovare un colpevole. Non potendosela prendere con un virus, è facile rivolgere la propria attenzione a chi detiene il potere, identificandolo istintivamente come un’entità interessata solo a mantenere l’ordine pubblico, anche a costo di raccontare bugie clamorose. Del resto, anche in queste ore, i sospetti sul comportamento del governo cinese si moltiplicano e non solo in ambienti sensibili al Complottismo. Tacere, per farla breve, non conviene mai. Quello che conviene è invitare le persone a ragionare, spiegando loro – ad esempio – che boicottare i ristoranti o i negozi cinesi è poco più di un riflesso condizionato. In teoria, l’unica cosa utile che dovremmo fare è informarci su eventuali e recenti viaggi in patria di chef o personale cinese di ciascun locale, per tacere delle visite che ciascuno di loro potrebbe aver ricevuto dal paese natale. Evidentemente, una follia, senza dimenticare che il temuto portatore ( magari sano) del coronavirus potrebbe essere dalle fattezze caucasiche…Escludendo, pertanto, di chiudersi in casa e aspettare o l’Armageddon o che passi la paura, conviene approfittare di questi giorni concitati per qualche riflessione sul nostro tempo. Comincerei da questa: spesso possiamo intere settimane a dibattere, accalorandoci, sulle proposte di nuove barriere fisiche e ideali, dividendoci fra chi propugna la difesa anche fisica del nostro piccolo mondo e chi considera tutto questo solo una perdita di tempo. Poi, arriva il nuovo coronavirus, svelando l’imbarazzante inconsistenza di certi dibattiti. In un mondo interconnesso come quello di oggi, semplicemente dobbiamo prendere atto che le nostre fortune e sfortune dipendono anche da una miriade di relazioni, a cui rinunciare è semplicemente impensabile, perché troppo costoso. Ne andrebbe del nostro stesso stile di vita. I problemi, da quelli relativamente imprevedibili come le pandemie ai grandi temi che caratterizzano la nostra epoca, meritano massima razionalità e decisioni a un tempo rapide e strategiche. i tocca sentir parlare, invece, di rischi di diffusione in Italia del virus, collegati alle tratte dei migranti. Una lettura che sfida contemporaneamente senso del ridicolo e della realtà. Con la fabbrica del mondo che rischia di andare in tilt – di questo dovremmo aver paura, non di fantasmi agitati per motivi elettorali il dibattito in Italia si ferma al boicottaggio dell’involtino primavera o al confronto social sui barconi nel Mediterraneo, che notoriamente traboccano di cinesi. Amo il mio Paese, anche quando la farsa sembra prendere il sopravvento, eppure proprio per questo amore sento la necessità di un dibattito più maturo. Davanti all’idea stessa di una pandemia, è umano che la reazione della pubblica opinione non sia improntata ad una ferrea logica. Che però l’irrazionalità rischi di entrare anche in ben altre sfere, per meri calcoli politici, è abbastanza insopportabile. Lasciamo parlare gli esperti, ascoltiamoli e affidiamoci a loro. Non sono un’élite, è gente che ha studiato. L’alternativa mi spaventa, ad oggi, molto di più del coronavirus.
Razzismo sul bus a Lecco: “Sei nera, non voglio il tuo posto”. Beatrice Carvisiglia il 31/01/2020 su Notizie.it Un nuovo episodio di razzismo sul bus si è verificato a Lecco. Un'anziana signora ha rifiutato il posto offerto da una donna senegalese. Un altro episodio di razzismo sul bus: questa volta è toccato a Binta, una donna senegalese di 32 anni che vive e lavora in Italia da cinque. Ogni giorno prende l’autobus per tornare a casa e frequenta il Cpia di Oggiono, un centro per l’istruzione degli adulti in cui si confronta con altri che come lei sono lì per integrarsi, parlare meglio l’italiano, raccontare la loro cultura. Tra le quattro mura del CPIA, Binta si sente più sicura. Forse proprio per questo ha deciso di raccontare alla sua insegnante, Monica Mauri, quello che è successo sull’autobus di Lecco. Un episodio di discriminazione che non è stato il primo, e in cui molti dei suoi compagni di corso si sono riconosciuti.
Lecco, episodio di razzismo sul bus. Binta racconta di aver preso il mezzo strapieno, colmo di ragazzi con gli zaini, con pochissimo spazio a disposizione. Nella sua cultura il rispetto per gli anziani è fondamentale. Binta ha notato tra la calca del bus una donna anziana e ha pensato fosse giusto cederle il posto. La risposta dell’anziana è stata lapidaria: “Sei nera, non voglio il tuo posto“. Binta racconta di essere rimasta pietrificata e, tornata a casa, ha pianto ripensando a quell’ingiustizia. In classe i suoi compagni sono stati solidali, hanno raccontato episodi simili, scene di quotidiano razzismo sul bus. Il suo amico Marcelino, un 23enne originario della Nuova Guinea, sostiene che “sono soprattutto gli anziani ad essere diffidenti“. Poi aggiunge: “Nella nostra cultura è impensabile lasciare una persona più grande di te in piedi quando tu sei seduto”. A seguito della discussione in classe, l’insegnante Monica Mauri, assieme il collega Paolo Barbieri, ha pubblicato un duro post su Facebook condannando l’accaduto. La speranza di questi docenti è che le testimonianze servano a creare solidarietà e comprensione. Lecco, sostengono, non è una città razzista. Tuttavia, se tali episodi accadono bisogna prendersi il carico di denunciarli e far sì che le persone discriminate si sentano, per quanto possibile, più tutelate.
Codacons denuncia la Rai: "Diffamati i calabresi, intollerabile da Tiberio Timperi". In un comunicato divulgato in rete, il Codacons ha reso noto di aver presentato una denuncia contro la Rai e il conduttore di Unomattina in famiglia, Tiberio Timperi. Serena Granato, Mercoledì 29/01/2020 su Il Giornale. Uno dei volti televisivi di casa Rai è finito al centro di una polemica mediatica. Si tratta di Tiberio Timperi. Il conduttore originario di Roma e classe 1964 sta facendo discutere di sé, per via di una sua battuta riservata ad un telespettatore, collegatosi dalla Calabria con il format da lui condotto insieme a Monica Setta, Unomattina in famiglia. E nelle ultime ore, è emerso che il volto Rai è stato denunciato dal Codacons. Il Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori ha, quindi, stigmatizzato la battuta lanciata da Timperi su Rai 2, lo scorso sabato 25 gennaio, in un comunicato divulgato in rete. Nella denuncia in questione, il Codacons accusa Timperi di aver attribuito -attraverso la battuta "incriminata"- ritenuta razzista- ai calabresi e alla Calabria atti criminali, in particolare l'occultamento di cadaveri nei piloni di cemento armato. Accuse che il conduttore ha rispedito al mittente, chiarendo la sua posizione in merito, sul suo profilo Instagram. "Leggo di essere stato denunciato per una battuta scherzosa, fatta ad un concorrente in trasmissione -ha rilasciato per iscritto a corredo di un post condiviso su Instagram, per poi difendersi rispetto a quanto denunciato dal Codacons-, sia chiaro: la battuta era nei confronti della mia redazione e più in generale della Rai. Difatti, se avessi favorito un concorrente, a rimetterci, come ovvio, sarei stato io. Qualcuno, per motivi che ignoro, ha travisato le mie parole. Spiace leggere che avrei offeso una regione italiana. Una regione che, come tutte le altre, mi appartiene e che mai mi sognerei di offendere. Io ho rispetto per la Calabria e per i calabresi. Se qualcuno si è sentito offeso, mi spiace”.
Il comunicato di denuncia del Codacons contro Tiberio Timperi. Nel comunicato di denuncia, che ora divide l'opinione del web sul conto del noto volto Rai, viene chiarito cosa ha sospinto il Codacons a denunciare la nota battuta di Tiberio Timperi. "Sabato 25 gennaio 2020 su Rai Uno, nel corso della trasmissione ‘UnoMattina in Famiglia’, il conduttore Tiberio Timperi interloquiva con un telespettatore in collegamento dalla Calabria -si legge-. Il telespettatore, dovendo rispondere ad un quiz, invocava un aiuto da parte del pubblico presente in studio. A questo punto il conduttore Timperi rispondeva: "Se non ti aiutiamo, andremo a fare i piloni della Salerno – Reggio Calabria", accompagnando tale pessima battuta da una mimica fin troppo esplicita. In questo modo si attribuisce a tutti i Calabresi, indistintamente, comportamenti mafiosi. Tanto non è degno di un servizio pubblico, profumatamente pagato – sostiene Francesco Di Lieto, vicepresidente nazionale del Codacons – da tutti i cittadini". E, a conclusione della denuncia, viene precisato: "A nessuno può essere consentito di diffamare impunemente un’intera regione, per strappare qualche risatina. Il Codacons ha presentato una denuncia in Procura contro l’Azienda e contro il Conduttore. Si tratta di una frase di chiaro stampo razzista che costituisce una offesa per i cittadini calabresi. Ciò detto, la Rai ha il dovere di scusarsi. Non possiamo certo imporre a Timperi di voler bene alla nostra terra, ma visto che i Calabresi sostengono il suo stipendio, un minimo di rispetto lo pretendiamo".
Facebook. ttimperi il 29 gennaio 2020: Verificato. Leggo di essere stato denunciato per una battuta fatta ad un concorrente in trasmissione. Sia chiaro: la battuta era nei confronti della mia redazione e più in generale della Rai. Difatti se avessi favorito un concorrente, a rimetterci, come ovvio, sarei stato io. E la denuncia del Codacons, in questo caso, sarebbe stata più che opportuna. Qualcuno, per motivi che ignoro, ha travisato le mie parole. Il filmato è disponibile su Raiplay. Io sono in buonafede. Spiace leggere che avrei offeso una regione italiana. Una regione che come tutte le altre mi appartiene e che mai mi sognerei di offendere. Io ho rispetto. Per la Calabria e per i calabresi. E per tutte le altre regioni e le sue genti. Sono calabrese, romano, laziale, toscano, trentino, pugliese, siciliano, campano, lucano, umbro, ligure, molisano, lombardo, veneto, piemontese, emiliano, sardo, abruzzese, marchigiano. Sono un incrocio di mille contaminazioni che mi fanno italiano. Sono italiano. Innamorato della mia storia. E orgoglioso di esserlo. Se qualcuno si è sentito offeso mi spiace.
Congiuntivo di classe. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 su Corriere.it da Massimo Gramellini. Da quando sono arrivato nella mia nuova scuola — scrive su Facebook il preside dell’istituto Giacomo Leopardi di Sant’Antimo, in provincia di Napoli — mi sembra di essere precipitato nel Sudafrica dell’apartheid. Alcuni genitori, ma anche alcuni professori, gli avrebbero chiesto di separare i ricchi dai poveri, creando classi per i figli dei professionisti e altre per quelli degli operai. Una discriminazione inaccettabile, più che mai in una scuola pubblica, la cui missione dovrebbe consistere nel garantire a tutti le stesse opportunità di partenza. Ma c’è un particolare, nello sfogo del preside, che non saprei se definire comico o drammatico: il linguaggio usato dai genitori benestanti per giustificare le loro richieste. «Abbiamo paura che i nostri figli prendino cattive abitudini». «Vogliamo che seguino le nostre orme». Intendiamoci. Il congiuntivo è una pessima abitudine e, a seguire le orme di chi ne è immune, si finisce per diventare quantomeno ministri. Resta il fatto che pretendere di preservare una presunta superiorità sociale ostentando le prove della propria ignoranza è uno di quei cortocircuiti dell’inconsapevolezza contro i quali non c’è contromisura che tenga. Da tempo, forse non solo in Italia, il benessere economico ha divorziato dalla cultura. Certi genitori chiedono alla scuola di isolare i loro figli dagli ambienti meno altolocati, nella convinzione che lì si annidino i pericoli più grandi. Non sanno che molto spesso il pericolo è in casa.
Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 28 Gennaio 2020. I figli degli operai da una parte, quelli della Napoli bene dall' altra. Dopo il caso della scuola del quartiere Trionfale a Roma, la saga del presunto "classismo tra i banchi di scuola" prosegue nel capoluogo partenopeo, con una sostanziale differenza: qui a denunciare l' odiosa divisione nella collocazione degli studenti all' interno del medesimo istituto, non sono gli organi di stampa, non è il quotidiano Leggo come allora, ma è lo stesso preside allibito dalle pretese di genitori e insegnanti e, soprattutto, dal modo in cui sono poste con un uso spericolato del congiuntivo che neanche Luigino Di Maio dei tempi d' oro. Il post, comparso un paio di giorni fa sulla pagina dell' Istituto comprensivo Giacomo Leopardi di Sant' Antimo (hinterland napoletano), nella sezione utilizzata per le comunicazioni agli iscritti e alle famiglie, diceva: «Prima qualche genitore, poi addirittura qualche docente viene ad esprimere la necessità di formare classi suddivise sulla base del censo». Richiesta sconcertante, secondo la dirigenza scolastica, al punto che il grido d' allarme di questo preside è giunto al sottosegretario all' Istruzione, Peppe De Cristofaro, il quale intende denunciare situazioni di evidente discriminazione nelle scuole pubbliche. «Non mi stancherò mai di intervenire», promette l' esponente di Liberi e Uguali, che cita don Lorenzo Milani: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d' espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose». Il riferimento al priore di Barbiana morto nel '67 non è casuale: don Milani era il sacerdote che insegnava ai bambini poveri e disagiati, esclusi dagli altri, ma erano gli anni a cavallo tra il 1950 e il 1960 e da allora molto è cambiato per questo ci si stupisce ancora se le classi con "discriminazioni per censo" siano realtà nel 2020. È pur vero che in certe zone del nostro Mezzogiorno le distanze tra chi sceglie la strada dello studio, della legalità e del rispetto delle regole e chi magari trova più facile inseguire i falsi miti del bullo uguale più furbo, sembrano amplificate. C' è il modello bravo ragazzo e quello da fan di Gomorra non è neppure più una questione geografica poiché il fenomeno ormai è ramificato. Il dramma, poi, è quando l' esempio negativo arriva dalle famiglie e su tale aspetto si è concentrato il messaggio di sdegno del preside del Leopardi, frasi subito cancellate per evitare il polverone com' è accaduto nella Capitale, con quella presentazione poco felice sul sito della scuola in cui l' istituto ammetteva che in un plesso c' erano i rampolli della Roma bene, in un altro, il distaccamento, i figli delle colf e delle badanti. Apriti cielo. La scuola è una e deve insegnare a tutti in uguale misura, su questo non ci piove. Sarebbe però ipocrita negare che al momento dell' iscrizione qualche genitore s' informa su dove è più opportuno mandare la creatura, sebbene nella scelta debba prevalere la qualità dell' insegnamento non il portafogli dei genitori dei compagnucci di classe. Ma tant' è. Il post del preside del Leopardi è stato rimosso, ma qualcuno ha fatto in tempo a prendere nota. «Da quando sono arrivato nella nuova scuola, ho spesso la sensazione di essere in Sudafrica», era l' esordio. Sudafrica nel senso di apartheid: i neri separati dai bianchi, robe di un altro secolo e da Terzo mondo eppure a volte ancora attuali perfino nella civilissima Italia, culla della cultura occidentale dove tuttavia serve un ripasso generale della grammatica. «Abbiamo paura che i nostri figli prendino cattive abitudini», ha scritto una delle mamme esigenti al preside. «Vogliamo che i nostri figli seguino le nostre orme», le ha fatto eco un papà, un altro tra coloro che non desiderano vedere il proprio pargolo mischiato con la teppaglia. E questo preside turbato si è sfogato su Facebook: «Io ascolto, ascolto e mi rendo conto che il limite della mia pazienza coincide con i limiti nell' uso del congiuntivo dei miei saccenti e classisti interlocutori». I quali reclamano l' ambiente giusto per la prole, ma poi magari in casa non sanno nemmeno l' Abc della lingua italiana.
Il consigliere del Papa attacca: "La Calabria? È senza speranza". Il gesuita Bartolomeo Sorge commenta i risultati elettorali delle regionali. L'Emilia Romagna è "benestante" e "guarda al futuro". La Calabria invece è "senza speranza". Giuseppe Aloisi, Martedì 28/01/2020 su Il Giornale. Una parte di Chiesa cattolica tifa per il centrosinistra. E questo è un dato certo. Ma padre Bartolomeo Sorge, gesuita, parteggia in maniera palese o quasi. In uno dei suoi ultimi tweet, il consacrato, che in passato ha diretto La Civiltà Cattolica, ha scritto quanto segue sull'esito delle elezioni regionali: "Due Italie. EMILIA ROMAGNA: benestante, guarda al futuro, rinvigorita dalla linfa nuova delle “sardine”. CALABRIA: ferma al palo, si affida al congenito antimeriodalismo della Lega, senza speranza". La vittoria di Stefano Bonaccini, del Partito Democratico e delle "sardine" è sinonimo di apertura al futuro. Quella di Jole Santelli e del centrodestra nella terra calabrese rappresenta tutt'altro. L'analisi di Sorge, dal punto di vista progressista, è cristallina, mentre la Calabria nella disamina del gesuita è appunto "ferma al palo". Un consacrato può prendere una posizione di questo tipo? La domanda è iniziata a circolare negli ambienti sin dalla comparsa del tweet. Ma Sorge aveva già specificato quali fossero le sue preferenze elettorali. Quasi in contemporanea con l'esordio delle "sardine" a Bologna, del resto, il padre gesuita aveva equiparato il movimento anti-Salvini con lo spirito dei primi cristiani. Il simbolo, ossia un pesce, è lo stesso. Altri ecclesiastici italiani ritengono che l'associazione tra i " primi cristiani" e le "sardine" rappresenti un insulto al sangue dei martiri, ma tant'è. Padre Bartolomeo Sorge si era espresso così: "Il pesce delle piazze di oggi (le “sardine”) è - come il pesce dei primi cristiani (IXTHYS) - anelito di libertà da ogni “imperatore” palese o occulto". Quando le "sardine" sono scese per la prima volta in una piazza di Roma, poi, padre Bartolomeo Sorge aveva commentato trionfante sempre via social: "Da BOLOGNA a ROMA : dal “pesce” come simbolo e segno (JXtus) alla nuova moltiplicazione dei “pesci”: “siamo in 100.000!”. L'analisi post-elettorale fa dunque parte di un filone che dura da mesi. Vale la pena sottolineare come non tutta la Chiesa cattolica voglia schiacciarsi sulle istanze delle "sardine" e del centrosinistra. Un altro sacerdote, padre Francesco Sollazzo, che abbiamo di recente intervistato, ha dichiarato in relazione al manifesto programmatico delle sardine che: " La pretesa, opponendosi al principio di partecipazione, è una vera e propria forma di violenza che non può essere tollerata, ma rigettata da tutte le componenti sociali che operano nell’orizzonte politico del Paese".
Maria Giovanna Maglie contro il consigliere di Papa Francesco: "Razzista e comunista, insulta i calabresi". Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Nei meandri del voto in Emilia Romagna. Ad esplorarli ci ha pensato Maria Giovanna Maglie, la quale non ha mai fatto mistero di stare dalla parte di Lega, Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini. In questo caso, dalla parte degli sconfitti, per quanto il risultato del Carroccio nella roccaforte rossa sia stato eccezionale. E così, scavando scavando, la giornalista ha intercettato, rilanciato e stigmatizzato un commento di Bartolomeo Sorge. Di chi si tratta? Gesuita, teologo e politologo italiano, è un esperto di dottrina social della Chiesa. Nato nel 1946, all'attivo diverse pubblicazioni, è considerato uno dei più stretti e fidati collaboratori di Papa Francesco. Col "vizio" del commento politico, recentemente si era distinto per la "bocciatura" della scissione di Matteo Renzi quando salutò il Pd per dar vita ad Italia Viva. Ma in questo caso, Sorge si è speso commentando su Twitter il voto in Emilia Romagna. Un cinguettio nel quale non nasconde assolutamente da che parte stia - ovvero, contro Salvini - e in cui aggiunge considerazioni destinate a far discutere. Già, perché il prelato cinguetta: "Due Italie. Emilia Romagna: benestante, guarda al futuro, rinvigorita dalla linfa nuova delle sardine. Calabria: ferma al palo, ai affida al congenito antimeridionalismo della Lega, senza speranza". Insomma, bravi i "benestanti emiliani" mentre vengono bocciati gli zoticoni - ovvio, zoticoni non lo ha scritto. Eppure... - calabresi che hanno votato a destra: "Fermi al palo", "senza speranza". Parole, appunto, destinate a far discutere. Parole riprese e rilanciate dalla Maglie, sempre su Twitter, che contro Sorge usa parole pesantissime: "Questo vetero comunista travestito da sardone - premette - è il gesuita decano dei consiglieri di Bergoglio", dunque cita Papa Francesco. Dunque la Maglie aggiunge: "È anche un razzista, leggete cosa scrive della Calabria che ha votato il centrodestra!". E in effetti...
Coronavirus, rinviato il Capodanno cinese a Roma. La portavoce della comunità: "Basta intolleranza". La paura del contagio potrebbe essere sfociata in due episodi di razzismo a Venezia e Torino. Lucia King: "E' un virus che può colpire chiunque non dipende dal posto dove si è nati o da dove si proviene". La Repubblica il 26 gennaio 2020. "Abbiamo deciso di rinviare la festa per il Capodanno cinese in programma il 2 febbraio di San Giovanni a Roma". Lo annuncia la portavoce della comunità cinese a Roma Lucia King. "Abbiamo concordato in modo congiunto con tutta la comunità che la festa deve essere rinviata perché c'è gente che sta male e non è il caso di festeggiare - ha aggiunto -. Ci dispiace perché i preparativi duravano da tre mesi, ma in questo momento è la scelta migliore. Comunicheremo in seguito una nuova data". E ancora Lucia King: "In Cina stanno soffrendo in questo momento, ieri sera ho lanciato la richiesta di rimandare alle altre associazioni che organizzano e festa ed hanno subito accettato, rimandiamo e probabilmente doneremo i fondi destinati alla festa per l'acquisto di materiale sanitario da inviare in Cina". Aggiunge: "Quando c'è stato bisogno di aiuto in Italia, come comunità cinese siamo sempre stati presenti, penso agli ultimi terremoti nei quali abbiamo fornito assistenza economica. In questo momento non chiediamo aiuto economico ma vicinanza, comprensione e tolleranza". Anche perché, ancora Lucia King, "in questi giorni ci sono stati episodi spiacevoli con battute sgradevoli come "allontaniamoci che ci sono delle persone cinesi". E' un virus che può colpire chiunque non dipende dal posto dove si è nati o da dove si proviene". La paura del contagio, che in molti casi si concretizza nell'annullare cene al ristorante cinese, potrebbe infatti essere sfociata in due episodi di razzismo. A Venezia una baby gang di adolescenti ha seguito, insultato e sputato contro una coppia di turisti cinesi. E a Torino una famiglia di cinesi che vive in Italia da decenni, parenti di Lucia King, si è sentita dire: "Allontaniamoci che portano la Sars dalla Cina". I due turisti di Venezia stavano passeggiando lungo la riva del Canale della Giudecca, quando il gruppo di adolescenti avrebbe cominciato a insultarli per poi sputargli addosso. Le forze dell'ordine finora non hanno ricevuto segnalazioni sulla vicenda che verrà approfondita ma si ipotizza che l'episodio possa essere legato proprio all'epidemia da coronavirus. "L'umanità deve essere unita per lottare contro questo virus. In questo momento non è il caso di allarmarci in Italia - dice Lucia King - naturalmente è importante prendere le dovute precauzioni. La comunità cinese vive da decenni in Italia. Non esiste nessun pericolo. I ristoranti cinesi acquistano gli ingredienti dagli stessi fornitori di quelli italiani".
Spruzzò il deodorante sui colleghi stranieri: condannato per razzismo. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it. Fece il giro della rete il video girato e postato sul profilo Facebook di una dipendente della catena di ristoranti Rossopomodoro in cui si vedeva un collega pizzaiolo italiano del locale all’interno della Stazione Centrale aggirarsi nelle cucine spruzzando deodorante sui lavoratori di colore. Per il Tribunale del lavoro di Milano, è razzismo: il pizzaiolo e la società sono stati condannati a risarcire le vittime. Il giudice, in particolare, ha definito il comportamento come «molestie razziali» e ha condannato il datore di lavoro perché ha di fatto consentito la cosa, creando «un ambiente lavorativo non inclusivo e di non accoglienza». Nella clip, pubblicata su Facebook da Biancavee Ortill, che lavora nello stesso ristorante della Stazione Centrale a Milano, si sente l’uomo dire: «Alzate la maglietta. Alza le ascelle. Anche tu, alza la maglietta. Ma questo (il deodorante, ndr) non ce l’avete a casa voi? Perché non ve lo mettete?». Una voce fuori campo conclude con: «Disinfestazione».
Deodorante spruzzato sui colleghi stranieri, condannati ristoratore e pizzaiolo. Molestia e discriminazione razziale le accuse. Accadde lo scorso anno in un locale della Stazione centrale di Milano. Tutto fu registrato in un video pubblicato poi su Facebook. Zita Dazzi il 25 gennaio 2020 su La Repubblica. Aveva spruzzato del deodorante sui dipendenti di colore di un bistrot all'interno della Stazione centrale, dicendo che quei colleghi puzzavano. Il video, ripreso da una collega, era finito su Facebook e ne era nato un caso. Adesso il giudice ha condannato non solo il molestatore che se la prendeva con i colleghi stranieri, ma anche la società, che usava in franchising il marchio Rossopomodoro, una nota catena multinazionale di pizzerie con diversi locali a Milano e in molte metropoli europee. La società affermava di non avere responsabilità, trattandosi di un gesto folle di un dipendente qualsiasi: il giudice l’ha pensata diversamente e ha condannato il pizzaiolo che spruzzava il deodorante identificando il comportamento come discriminazione razziale e molestia. Ma ha condannato anche il datore di lavoro perché non ha impedito la creazione di un "clima umiliante e offensivo" nei confronti dei lavoratori di colore sbeffeggiati e ridicolizzati a più riprese in pubblico e in privato dal collega. Nel dispositivo della sentenza alla società viene dunque ordinato di organizzare un corso di formazione al rispetto delle persone. È la prima volta in Italia che viene emessa una condanna di questo tipo. Tutto era successo un anno fa, il 26 gennaio 2019, nella pizzeria all'interno della Stazione centrale di Milano. Uno dei responsabili di sala aveva spruzzato il deodorante su due colleghi di origine africana intimando "alza le ascelle", "ma perché non lo usate questo?", mentre in sottofondo si sentivano risate. I lavoratori costretti a subire questo trattamento, in alcuni casi, sorrideva imbarazzati, guardando la telecamera dello smartphone che riprendeva tutto. Il giorno dopo i dipendenti presi in giro dal collega con maggiore anzianità di servizio si erano rivolti agli avvocati Alberto Guariso, Livio Neri e Daniele Bergonzi, esperti di diritto del Lavoro e dell'immigrazione. Lo studio legale ha promosso la causa presso la sezione Lavoro del Tribunale civile di Milano con un esposto contro il pizzaiolo del quale venivano riferiti numerosi episodi di insulti e disprezzo a forte connotazione razziale. La giudice Manuela Sara Moglia ha accolto in pieno le accuse e ha condannato i fatti come "molestie razziali". Il datore di lavoro (ex art. 2049 del codice civile) viene invece condannato in relazione a quelle frasi offensive e comportamenti razzisti perché si rileva come sia stato reso possibile o agevolato il comportamento lesivo, comportamento determinato da "un ambiente lavorativo non inclusivo e di non accoglienza". "Non vi è dubbio che fra gli obblighi vi è anche quello di - si legge nell'ordinanza - assicurare ai propri dipendenti un ambiente lavorativo nel quale la persona non sia vittima di soprusi, trattamenti degradanti, umilianti e discriminatori". E ancora: "Il diritto fa obbligo al datore di lavoro di assicurare ai lavoratori il diritto all'integrità fisica e la personalità morale". Il Tribunale ha condannato in solido il molestatore e il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalle vittime e a predisporre per tutti i dipendenti un corso finalizzato alla educazione al rispetto di ogni cittadino indipendentemente dalla provenienza etnica. "Quando sono venuti in studio da noi - raccontano i tre legali - dall'episodio specifico oggetto della denuncia siamo risaliti a un clima intimidatorio prolungato, fatto di continui insulti e atteggiamenti discriminatori. Siamo molto soddisfatti della condanna perché è la prima volta che un giudice condanna una società a fare un corso per i dipendenti sul rispetto della diversità e all'antirazzismo. Dovrà esser fatta rispettare e che prendano sul serio l'ordine del giudice. Vigileremo affinché questo venga fatto".
«Inutile dar soldi per i dei malati terminali, tanto lì la gente muore». Bufera sul consigliere Fi. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Floriana Rullo. Le parole di Carmine Passalacqua sulla struttura «Il Gelso» che assiste pazienti malati terminali di tumore. «Come mai si continuano a dare fondi a un ente come l’hospice Il Gelso, già supportato da Asl e altre istituzioni, piuttosto che ad altri. Lì, in fondo, la gente muore...». Parole di Carmine Passalacqua, esponente di maggioranza tra le fila di Forza Italia e presidente della Commissione cultura di Alessandria. Dichiarazioni infelici (Il Gelso dà sollievo alle persone malate di tumore all’ultimo stadio) che qualcuno ha anche registrato, pronunciate nel corso di una Commissione Affari Istituzionali in cui si discuteva, appunto, di uno dei luoghi più cari per gli alessandrini. Il sostegno del personale dell’hospice cittadino va spesso anche alle famiglie dei degenti. Però Passalacqua, che non è nuovo ad uscite «originali», ha chiesto di «non fare beneficenza al Gelso, tutti portano al Gelso...ma non ne ha bisogno...ha contributi statali. Io non capisco tutte queste raccolte fondi e non vedo perché non si faccia beneficenza anche ad altri. Ci sono tante altre strutture che hanno bisogno di fondi, pensiamo ai bambini». Passalacqua non è nuovo ad uscite polemiche: nell’aprile scorso le sue dimissioni erano state chieste dopo un post apparso su Facebook contro i partigiani che eseguirono la fucilazione di Mussolini e sull’ex capo dello Stato Sandro Pertini. In quel caso il sindaco non poté fare altro che prendere le distanze. Inevitabile la bufera sui social e anche nel mondo della politica alessandrina. Tanto che gli è stato chiesto di dimettersi da presidente della Commissione Cultura. A spingere per un suo passo indietro sono in particolare Pd, M5S e Insieme per Rossa. «Carmine Passalacqua, a nome dei cittadini che rappresenta, non può suggerire ad una associazione privata dove fare volontariato - dicono i consiglieri di minoranza-. Troviamo vergognose le sue parole usate per descrivere l’attività del hospice “Il Gelso» e chiediamo al sindaco, alla giunta e alla maggioranza che vengano chieste le sue dimissioni da presidente della commissione cultura».
Carmelo Caruso per “il Giornale” il 22 gennaio 2020. Bisogna tenere altissima la guardia, ma l' Italia non è un paese finito sott' odio. I crimini contro le diversità non crescono, ma diminuiscono. Non è vero dunque che gli italiani sono sempre più «sputatori di professione» e non siamo ancora al Buio oltre la siepe e questo malgrado gran parte della rabbia riguardi proprio razzismo e xenofobia. Sono dati che vanno letti con attenzione, senza farsi prendere da entusiasmi (al contrario), ma nello stesso tempo segnalando che nel 2019 i reati d' odio sono inferiori rispetto a quelli del 2018. I numeri li ha raccolti e divulgati, ieri, l' Oscad, l' Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, un organismo interforze (Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri) che dal 2010 monitora e registra i reati denunciati presso le autorità, quelli che possono essere puniti perché coperti dal codice, e le segnalazioni di discriminazioni non coperti da norme. «Questo per arrivare a un numero che poi giriamo a Osce e che permette di accendere una luce» dicono i tecnici di Oscad. Si tratta quindi del migliore dato possibile che possiamo avere. E i dati sono i seguenti: rispetto al 2018, anno in cui sono stati accertati 1.111 reati, si certifica un' inversione di tendenza. Nel 2019 i reati sono infatti 969. Prima di tutto sono calate le aggressioni fisiche, oggi passate a 191 rispetto alle 205 dell' anno scorso. Va precisato che la fetta più consistente di questi crimini si riferisce a razzismo e xenofobia, comunque in calo. Tre reati su quattro sono di matrice razzista. È una categoria ampia che include discriminazioni di razza-colore, nazionalità e che tiene conto di manifestazioni di ostilità verso i popoli rom, sinti, ma anche verso musulmani, membri di religioni diverse e non per ultimo, rigurgiti di antisemitismo. È il fenomeno che più sta allarmando le democrazie e non solo la nostra (ieri è apparso in Francia uno studio simile che rivela come un ebreo su tre si senta minacciato). Sono 161 invece le discriminazioni nei confronti dei disabili mentre 82 quelli per orientamento sessuale e identità di genere. Entrando nel dettaglio sono scesi gli attacchi contro i luoghi di culto (da 50 a 0) o le profanazioni di tombe (da 188 a 147). A commentare il report è stato il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, preoccupata dalla «banalizzazione» che a questo genere di reati, troppe volte, si accompagna. Per il ministro «oggi si discrimina in base alla razza, al colore della pelle, all' orientamento sessuale. Ma siamo nel 2020, è inaccettabile che una qualsiasi diversità sia fonte di discriminazione e che si debba nascondere il proprio essere per evitare di caderne vittima». Sono le stesse convinzioni della senatrice a vita Liliana Segre, anche lei intervenuta in questa occasione: «L' odio è odio in tutte le sue forme e qualunque uomo di buona volontà dovrebbe combatterlo». Sempre troppo poco contro l' odio, ma anche usarlo porta a banalizzarlo.
Studentessa denuncia: «Insultata perché sono cinese. Poi gli sputi». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Camilla Gargioni. Valentina Wang, 19 anni, insultata da due sedicenni sul treno a Mestre: «Prova a pronunciare la “r”, tanto non ci riesci». Poi sputi e offese. Valentina Wang ha 19 anni e, come ogni giorno, sta aspettando il treno che da Venezia - città dove frequenta l’università Ca’ Foscari - la porti dalla famiglia a Badia Polesine (Rovigo). È al binario di Mestre quando un paio di ragazzi, che avranno avuto al massimo 16 anni, iniziano a importunarla gridandole: «Prova a pronunciare la “r”, tanto non riesci, incapace». Valentina è di origini cinesi, ma è cresciuta in Italia e proprio la scorsa estate ha ottenuto la cittadinanza. All’inizio prova a ignorarli, ma quelli insistono, con frasi razziste e sessiste sempre più accese. «Al che non ho più tollerato e ho iniziato a rispondere a tono», scrive Valentina sul suo profilo Facebook, dove ha denunciato l’accaduto. La giovane si sente avvilita, umiliata e sola: c’è un altro ragazzino su quella carrozza, che però preferisce restarsene seduto in disparte. Sembra tutto finito ma ecco che alla fermata di Padova i due si alzano, le sputano addosso e una volta scesi, le fanno il dito medio fuori dal finestrino. «Ha provato a parlarne con il controllore, ma questo le ha consigliato di rivolgersi alla polizia ferroviaria, tendendo a sminuire la cosa - ricostruisce il fidanzato di Valentina, Giovanni Furlan -. Le era già capitato di avere qualche piccolo contrasto, ma mai di una violenza simile». Il post della ragazza è diventato subito virale su Facebook. Sulla questione è intervenuto il direttore regionale di Trenitalia Veneto Tiziano Baggio: «Faremo subito degli accertamenti, voglio incontrare la viaggiatrice per darle la nostra solidarietà».
L'assist di Mihajlovic alla Lega: "Tifo per Salvini e Borgonzoni". L'allenatore del Bologna si schiera con la Lega in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Alberto Giorgi, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "Matteo Salvini è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, dai tempi del Milan. Mi piace la sua forza, la sua grinta, è un combattente". Sinisa Mihajlovic esce allo scoperto e fa il proprio endorsement al leader della Lega. "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni", spiega nell'intervista rilasciata al Resto del Carlino. L'allenatore del Bologna sta combattendo da mesi come un leone contro un brutto male e come spesso gli capita non ha paura di esporsi. Neanche se si tratta di politica. E infatti nella chiacchierata con il quotidiano locale, il serbo si lascia andare a parole al miele verso il segretario del Carroccio: "Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene. I grandi uomini fanno questo, nello sport e nella politica". Dunque, il mister dei rossoblù entra nel merito della tornata elettorale nella regione "rossa" per eccellenza, dove il centrosinistra governa senza sosta da cinquant'anni: "Cambiare tanto per cambiare non serve. Io posso solo dire che sono in Italia dal 1992 e anche se non è il mio Paese di origine, è come se lo fosse diventato. E, da allora, trovo l'Italia peggiorata. Quindi bisogna avere idee e la forza di migliorare…". Da questo presupposto, ecco l'appoggio totale al capo politico della Lega e alla candidata (leghista) del centrodestra unito contro il dem Stefano Bonaccini: "Salvini è intelligente e capace, è all'altezza di guidare il Paese. E le donne – come Lucia Borgonzoni, ndr – beh le donne sono più forti degli uomini: le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all'altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". L'ultima battuta dell'intervista di Mihajlovic al Carlino è dedicata alla querelle sul caso della nave Gregoretti e al processo a Matteo Salvini: "Normale. Silvio Berlusconi quanti processi ha avuto? È normale che quando cerchi di cambiare molte cose e magari usi metodi forti, qualcuno possa chiedere di valutare il tuo operato. Di Matteo io dico: 'Fidatevi. E vedete quello che fa'".
Mihajlovic e le elezioni in Emilia Romagna: “Sto con Salvini”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. In vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna, Sinisa Mihajlovic ha fatto sapere da che parte è schierato. Sinisa Mihajlovic ha espresso la sua opinione in merito alle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna in programma per domenica 26 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna ha dichiarato di voler sostenere Matteo Salvini e la sua candidata Lucia Borgonzoni. Il leader leghista ha ringraziato Sinisa tramite social, definendolo un “grande campione” e un “uomo coraggioso“. Pur non votando per il rinnovo del Consiglio regionale, Sinisa ha espresso la sua preferenza politica schierandosi dalla parte della Lega. Ha infatti raccontato di essere amico di Salvini da qualche anno, precisamente dal 2015, “i tempi del Milan“. Ha poi avuto recentemente un incontro con il leader del Carroccio, che ha sempre espresso ammirazione nei suoi confronti e che è passato a trovarlo per vedere come stesse. “Un incontro piacevole“, ha spiegato l’allenatore. “Mi piace la sua forza e la sua grinta, è un combattente“, ha continuato. Ha poi aggiunto che ritiene Salvini un uomo tosto che fa quello che dice, ribadendo il sentimento di amicizia che lo lega a lui. Mihajlovic ha poi espresso il suo apprezzamento anche nei confronti della candidata presidente del centrodestra. Pur non conoscendola personalmente, la ritiene una donna all’altezza in virtù del suo carattere e della sua determinazione. “Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio“, ha precisato, sostenendo che Lucia Borgonzoni sia un’ottima scelta per la regione per il suo carisma e per la fiducia che si è meritata. Non è tardato ad arrivare il ringraziamento della leghista all’allenatore del Bologna. Queste le sue parole condivise in un post su Facebook: “Grazie di cuore, Mister, speriamo, insieme alla nostra squadra, di riuscire a meritare questa fiducia, per il cambiamento dell’Emilia Romagna, con umiltà ma tanta passione“. Anche Matteo Salvini ha ringraziato Sinisa per il coraggio che ha avuto nell’esprimere la preferenza per il suo partito.
Mihajlovic si schiera con Salvini e gli heaters gli augurano la morte. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna si era schierato con la candidata del centrodestra. Dopo l’endorsement per Matteo Salvini e Lucia Bergonzoni in vista delle elezioni emiliane di domenica prossima, l’alleantore del Bologna Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli heaters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. L’allenatore serbo sta combattendo la sua battaglia contro la leucemia che lo ha colpito l’estate scorsa ed è reduce da un trapianto di midollo osseo. Tra coloro che si sono scagliati contro di lui per l’intervista pro-Salvini vi è anche chi gli rimprovera scarsa riconoscenza nei confronti di Stefano Bonaccini, presidente uscente dell’Emilia Romagna e candidato del centro sinistra alle elezioni di domenica, per il fatto di essere stato curato in un ospedale pubblico di Bologna. Sull’altro versante, non manca chi prende le difese di Mihajlovic stigmatizzando il comportamento di chi si è spinto fino ad augurargli la morte. “Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola”, “Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d’Italia”, sono alcuni dei commenti che circolano su twitter.
Il leone Sinisa e i conigli rossi. Andrea Indini su Il Giornale il 22 gennaio 2020. Ha visto di tutto nella sua vita Sinisa, figuriamoci se si fa scalfire da quattro conigli rossi che lo insultano e gli augurano la morte. Lui resterà sempre un leone, loro degli ignobili roditori che si attaccano a una tastiera per inveire contro chi non la pensa come loro. Ne ha viste tante Mihajlovic e oggi non si fa certo problemi a rilasciare un’intervista per dire che appoggia in tutto e per tutto Matteo Salvini. Non se li fa anche se siede sulla panchina di una squadra, il Bologna, la cui curva è più rossa che non ce n’è. E poi: perché mai dovrebbe farsene? Ha detto quello che pensa. Punto. Si chiama libertà. La violenza con cui gli sono piombati addosso era prevedibile. E sono andati a colpirlo là dove, fino a qualche settimana fa, tutti gli si stringevano attorno: la malattia che gli divora dentro, quel tumore che non lo ha fermato. Se non lo ha fatto il cancro figuriamoci se ci riusciranno quei quattro idioti che gli augurano la morte perché ha fatto un endorsement al Capitano leghista. Gli rinfacciano di appoggiare Lucia Borgonzoni e gli ricordano che nel frattempo “si fa curare con la sanità di Bonaccini”. Per questo dovrebbe tacere. “Sosterrà Salvini in Emilia Romagna – scrivono – con un tumore già ci convive”. Da brividi. E ancora: “Speriamo muoia entro domenica”. Per Sinisa sono tutti moscerini. Lui che è cresciuto nella Jugoslavia del generale Tito, che ha vissuto sulla propria pelle due guerre violentissime, che ha visto le bombe americane radere al suolo le città serbe e gli amici cadere come foglie, non si lascia certo smuovere da un augurio di morte. La morte, appunto, l’ha guardata in faccia più volte e più volte l’ha sconfitta. Con un unico rimpianto. “Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto – ha raccontato tempo fa – il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre”. Tutto il resto sono bassezze che non lo toccano ma che a noi dicono, ancora una volta, che le anime belle che vogliono i tribunali contro le destre sono i primi, feroci odiatori che metterebbero alla gogna chiunque non la pensi come loro.
Sinisa tifa Salvini e la sinistra impazzisce: "E poi ti curi con la sanità di Bonaccini". Dopo l'endorsement dell'allenatore del Bologna Siniša Mihajlović a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, c'è chi lo accusa: "Si cura con la sanità di Bonaccini". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Sinisa Mihajlovic, ex giocatore di Sampdoria, Lazio e Inter e ora allenatore del Bologna, è finito nel mirino della stampa di sinistra dopo l'endorsement a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni dato in un'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino. "Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni" ha dichiariato Sinisa, sottolineando che Salvini "mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi". Apriti cielo! Da notare che Sinisa Mihajlovic è uno dei pochissimi "vip" a fare il tifo per Salvini e Borgonzoni in Emilia-Romagna: se dovessimo stilare la lista di quelli apparsi sui giornali in favore di Bonaccini, a cominciare da quelli saliti sul palco con le sardine a Bologna, non finiremmo più.
"Si cura con la sanità di Bonaccini". La notizia, oltre a scatenare i social (insulti compresi), ha anche acceso la stampa di sinistra e progressista. Next Quotidiano, testata edita da Nexilia, titola così: "Sinisa Mihajlovic appoggia Borgonzoni ma si cura con la sanità di Bonaccini", in riferimento alla battaglia contro la leucemia che l'allenatore del Bologna sta conducendo con grandissima tenacia e dignità dopo essersi sottoposto al trapianto di midollo osseo. Una malattia terribile che Mihajlovic sta combattendo sin dal primo giorno con la forza di un leone, senza peraltro mai abbandonare la sua squadra, il Bologna. Nell'articolo Next Quotidiano si chiede "cosa vorrebbe cambiare Mihajlovic in Emilia-Romagna" probabilmente "non l’equipe medica dell’Ospedale Sant’Orsola che lo ha avuto in cura. L’istituto di ematologia Seragnoli è considerato una delle eccellenze della Sanità pubblica italiana. Ma probabilmente all’allenatore del Bologna poco importa che il progetto della Lega sia quello di una progressiva privatizzazione del comparto sul modello della Lombardia". Oltre all'inopportunità di scomodare la malattia e questioni personali estremamente delicate per criticare una legittima opinione politica, va rilevato che la sanità "non è di Bonaccini" ma dell'Emilia-Romagna e dello stato italiano. Il fatto che un suo diritto sia stato garantito significa che Sinisa, peraltro cittadino onorario di Bologna, debba per forza di cose pensarla come l'attuale governatore su tutto? Si fa davvero fatica a comprendere la logica di un'argomentazione del genere. Lo stesso quotidiano osserva, inoltre: "Nessuno a quanto pare lo ha avvertito che in Emilia-Romagna vincerà Lucia Borgonzoni e non il leader della Lega, ma sono dettagli dei quali non si curano nemmeno i più convinti elettori della Lega". Peccato che Mihajlovic sappia benissimo chi è Lucia Borgonzoni, come spiega lui stesso nell'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino: "Le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all’altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". Ci sarebbe poi molto da discutere e da obiettare sulla paventata privatizzazione della sanità menzionata nell'articolo, oggetto di dibattito politico (e scontro) fra lo stesso Bonaccini e la Lega in Emilia-Romagna. Bonaccini aveva commentato così sulla sua pagina Facebook l’intervista del segretario della Lega Emilia, Gianluca Vinci, andata in onda su Telereggio: "Il segretario della Lega Emilia ci spiega il loro progetto per la sanita’ in Regione: privatizzazione del 50% dei servizi. Dice inoltre che il loro programma e’ stato scritto con i presidenti di Lombardia e Veneto". Affermazioni per le quali il governatore uscente dell'Emilia-Romagna è stato querelato dallo stesso Vinci: "Bonaccini pubblica sul suo profilo una fake news creata con un copia incolla di parti di una mia intervista distorcendone il significato. Complimenti al governatore ‘uscente’ per questa ennesima dimostrazione del fatto che è in estrema difficoltà".
Insulti sui social contro Sinisa: c'è chi gli augura la morte. Nel frattempo, Sinisa è stato oggetto di pesanti attacchi sui social network dopo il suo endorsement per Matteo Salvini in vista delle elezioni regionali di domenica. Come riporta l'Adnkronos, l'allenatore del Bologna è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". A scagliarsi contro il il mister dei rossoblù anche la pagina SatirSfaction. "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive", si legge su Twitter. E ancora "Mihajlovic sostiene Salvini: "Darei il mio sangue per lui". Frasi forti che non hanno fatto per nulla sorridere. Anzi, hanno attirato le critiche degli utenti. "Questa non è satira, è assoluta mancanza di rispetto", "Fai schifo", "Non è satira, è stronzaggine pura", "Vi dovreste vergognare", "Mi viene il voltastomaco", alcune delle reazioni al post. Senza dimenticare la gaffe dell'assessore regionale della giunta Bonaccini, Massimo Mezzetti: "E pensare che, se dessimo retta a chi dice “negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri”, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi" ha scritto sulla sua pagina Facebook. Dichiarazioni a cui ha prontamente risposto Matteo Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona".
Gli insulti shock a Mihajlovic: "Malato mentale, meriti la morte". Vergognosi attacchi all'allenatore del Bologna dopo l'endorsement alla Lega: "Ha alcuni danni cerebrali irreversibili, speriamo che muoia". Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Una vergogna assoluta: commenti deplorevoli ai danni di Sinisa Mihajlovic, "colpevole" di aver espresso parole positive nei confronti della Lega. Il serbo, che sta combattendo contro la leucemia ed è reduce da un trapianto di midollo osseo, ha strizzato l'occhio a Matteo Salvini: "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni. Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene". Appoggiare una linea politica di destra, come al solito, ha scatenato tutta la violenza dei leoni da tastiera della sinistra. Coloro che si dichiarano antifascisti e antiviolenti hanno messo in campo un'ondata di minacce contro l'allenatore del Bologna. Tra l'altro è spuntata anche la battuta choc della pagina di SatirSfaction: "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive". Gli haters lo hanno ricoperto di offese, arrivando addirittura ad augurargli la morte. "Speriamo muoia entro domenica. Fatti curare da Casapound. Sei un fascista. Laziale. Ti davano dello zingaro e te lo sei scordato e quindi non mi sorprende che tu abbia fatto propaganda per Salvini. Ai bolognesi tifosi però dispiace. Se ti levi dalle palle a me sta bene", scrive un utente. C'è chi ha espresso felicità per il travaglio che ha passato: "Mi auguro sinceramente che la chemio aiuti Mihajlovic ad uscire dalla malattia! Purtroppo però debbo constatare che alcuni danni cerebrali irreversibili sembra che li abbia già fatti". Un'altra utente ha invece twittato: "Questo per farvi capire che a volte le disgrazie uno se le merita". Ovviamente non sono mancate le difese a sostegno del tecnico: "Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola"; "Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d'Italia".
Salvini replica all'uscita di Massimo Mezzetti su Sinisa Mihajlovic: "Non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "E pensare che, se dessimo retta a chi dice negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi". È il commento, pubblicato su Facebook, di Massimo Mezzetti, assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità nella giunta Bonaccini, in Emilia-Romagna. Il riferimento dell'assessore regionale è alle recenti dichiarazioni dell'allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che ha confessato in un'intervista a Il Resto del Carlino di fare il tifo per il leader leghista Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni. Parole, quelle dell'assessore, destinate ad alimentare nuove polemiche. Durissima la replica del leader del Carroccio, Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona" osserva Salvini in una nota. "Orgogliosi di governare tante Regioni con Sanità d’eccellenza, onorati della stima di Sinisa e fieri di poter liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra di Bonaccini e Mezzetti. Speriamo - prosegue Matteo Salvini - che Bonaccini censuri la scemenza del suo assessore, e che magari ci parli anche di Jolanda di Savoia". Sui social network alcuni uteni hanno espresso dure critiche nei confronti dell'uscita (a dir poco infelice) dell'assessore regionale. "Questa te la potevi risparmiare" scrive un utente sotto il post, mentre un altro rimarca: "Sono di sinistra. Ma questa è pessima". Mezzetti prova a difendersi: "Non mi sembra di essere stato offensivo nei confronti di [Mihajlovic] in quanto uomo. Ho messo in evidenza una sua contraddizione fra ciò che sostiene (forse meglio dire, chi sostiene) e l'esperienza che ha vissuto". E ancora: "Ho fatto una constatazione semplice. I cattivi sono quelli che non l'avrebbero curato, mica io. Io voglio che possa continuare a usufruire della nostra buona sanità, non sono come quelli che vogliono cacciare gli stranieri dai nostri ospedali". Dopo l'assist a Matteo Salvini e alla Lega, l'allenatore del Bologna ed ex calciatore è stato oggetto di una vera e propria campagna d'odio via social. Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". La sua colpa? Non essere di sinistra o, perlomeno, non simpatizzare per la sinistra italiana. Quella dei "buoni", delle sardine e di chi rigetta l'odio.
ELEONORA CAPELLI per bologna.repubblica.it il 23 gennaio 2020. Le regionali in Emilia si trasformano in un derby tra allenatori rossoblù. Dopo l'endorsement di Sinisa Mihajlovic per la Lega alle elezioni del prossimo 26 gennaio, l'ex allenatore del Bologna, Renzo Ulivieri scende in campo per Bonaccini e per la coalizione di centrosinistra. In particolare a sostegno del candidato Igor Taruffi della lista "Coraggiosa". "Sono un estimatore di Mihajlovic, in tante occasioni ci siamo conosciuti e abbiamo parlato - dice l'allenatore toscano, sulla panchina del Bologna dal 1994 al 1998 e successivamente dal 2005 al 2007 - non condivido chi sostiene che non dovesse parlare, chi è nel mondo del calcio può parlare e sosterrò sempre la sua libertà di farlo. Però poi dico: non gli date retta". Ulivieri, che in passato è stato anche candidato alle elezioni con Sel, difende la dimensione dell'impegno politico ma anche idee completamente diverse da quelle di Sinisa. "Il nostro è un pensiero completamente diverso - spiega - riguardo l'uomo, l'umanità, riguardo al senso di stare insieme. Sostengo che l'Emilia è un modello, sono per Bonaccini e Taruffi, per quella coalizione che porta avanti un discorso cominciato tanti anni fa, di democrazia, di partecipazione, di scelte". Per questo Ulivieri chiede: "Non statelo a sentire". "Le cose in Emilia stanno in un'altra maniera, non come dice Salvini - sostiene Ulivieri - i cittadini dell'Emilia lo sanno e non si faranno incantare".
Tony Damascelli per il Giornale il 23 gennaio 2020. Non c' è dubbio che Benito Mussolini fosse tifoso della Roma così come, in seguito, Giulio Andreotti, mentre Palmiro Togliatti si scaldasse per la Juventus, come Luciano Lama, gente di sinistra, quest' ultima, vicina al simbolo del capitalismo, Giovanni Agnelli. Ai tempi, nessuna speculazione o rivolta di popolo per il tifo calcistico dei personaggi politici ma è vero il contrario, quando un calciatore illustra la propria idea e ideologia, allora la musica cambia, Bruno Neri si rifiutò di alzare il braccio per il saluto romano, era l' anno millenovecentotrentuno e si inaugurava lo stadio di Firenze alla presenza dell' autorità del fascio, quell' immagine restò non soltanto nelle fotografie ma fu il simbolo di una ribellione che portò Neri a diventare partigiano ed essere poi fucilato dai nazisti. Venne poi la democrazia che, comunque accetta con fatica, alcune posizioni politiche degli atleti. Si discute della dichiarazione pro Salvini e Lega di Sinisa Mihajlovic, allenatore simbolo del Bologna, cioè del club che è stato allenato negli anni da Renzo Ulivieri la cui appartenenza al partito comunista viene ribadita con il busto di Vladimir Ilic Uljanov, per i compagni di tutto il mondo, Lenin, collocato sulla credenza di casa. Lo stesso Uliveri, vice presidente della Federcalcio e presidente degli allenatori, si è fotografato a Chicago, posando con il dito medio rivolto alla Trump Tower. Affollato, come una gradinata, è l' elenco di figure illustri che passano dal pugno chiuso di Paolo Sollier a quello di Cristiano Lucarelli, così come Riccardo Zampagna apertamente schierato con gli operai della ThyssenKrupp, acciaierie di Terni, fabbrica nella quale lui stesso aveva lavorato prima di darsi al football. Non figurine ma persone e personaggi di rilievo per la tifoseria che, spesso, si manifesta con nomi da battaglia, dai commandos ai feddayn, dagli ultras alle brigate. Quando il portiere del Milan, Christian Abbiati, dichiarò di condividere il fascismo per i valori della Patria, il senso dell' ordine e della sicurezza, garanzie del vivere quotidiano, provocò il subbuglio anche se tentò di rimediare dicendo di non poter assolutamente accettare le leggi razziali e l' alleanza con Hitler e l' entrata in guerra. Fu timbrato, come Paolo Di Canio che, tra tatuaggi duceschi e saluto romano, non abbisogna di passaporto diplomatico. Idem come sopra per Stefano Tacconi che si presentò per le liste di Alleanza Nazionale che fu. Di destra è Sergio Pellissier che ha ammesso di rispettare il fascismo «per le cose belle, accanto a quelle brutte». Se la squadra va verso la squadraccia, in campo corrono anche molti compagni e affini, Simone Perrotta si è innamorato dei 5Stelle, Massimo Mauro era entrato nel giro dell' Ulivo, Sacchi e Lippi amano il garofano rosso, mentre la battuta più felice rimane quella di Eugenio Fascetti: «L' unica cosa di sinistra che mi piace è la colonna della classifica di serie A». Aggiungo ai passionari della politica, Giovanni Galli e Giuseppe Giannini e Angelo Peruzzi, in formazione tra Forza Italia e Popolo delle Libertà. A sorpresa, Antonio Cabrini aveva aderito all' Italia dei Valori di Di Pietro. Un album che non solletica i collezionisti ma dimostra che il football tenta di nascondersi nel canneto. Se i politici usano il calcio per aumentare il consenso e salire a bordo della diligenza quando la loro squadra, nazionale o di club, vince, i calciatori, sulla stessa diligenza preferiscono non salire, per evitare fischi e ingiurie del favoloso pubblico dei tifosi. Che sono anche elettori.
Alessandro Barbano per il ''Corriere dello Sport'' il 23 gennaio 2020. Disse, Sinisa Mihajlovic, tornando dopo tre mesi di cure: “Mi sorprende aver unito tutti con la mia malattia, io sono stato sempre divisivo. E forse tornerò a esserlo”. La promessa l’ha mantenuta con l’endorsement a Matteo Salvini, fatto ieri in un’intervista al Carlino. Chi lo conosce bene non si è stupito, perché sa che la divisività è una cifra irredimibile del suo carattere. Ma per un Sergente serbo che si schiera a destra, c’è subito uno Zar russo che gli risponde dal lato mancino. È Ivan Zaytsev, campione del volley modenese e nazionale, in piazza Grande con le sardine fin dalle prime adunate: sul suo profilo Instagram da ieri compare una foto di Stefano Bonaccini, con una eloquente didascalia: “Il mio Presidente”. Lo sport si è schierato. Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla valenza di questa sfida elettorale, eccolo servito: la competizione tracima dalle segreterie politiche fino agli spogliatoi più prestigiosi. L’Emilia Romagna è una roccaforte che neanche gli incerti della Seconda Repubblica avevano messo in discussione. Su questo confine mai conteso, e oggi improvvisamente contendibile, si giocano non solo gli equilibri di governo, ma le visioni e gli schemi con cui il Paese si è raccontato e in parte ancora si racconta da settant’anni. Non c’è da stupirsi che la battaglia delle battaglie abbia assoldato l’intera platea dei riservisti. Ma quanto pesa l’opinione dei campioni dello sport? Molto, secondo le aspettative degli spin doctor dei due sfidanti, che se li sono contesi con un corteggiamento scientifico. Meno, a giudicare dalle reazioni sui social: la sovraesposizione ha sempre un effetto paradosso. Così, sulla community “Lo spettro della bolognesità”, che conta su Facebook 17mila utenti, c’è chi arriva a rimproverare a Mihajlovic di sputare nel piatto di quel modello emiliano che lo ha assistito con tempestività taumaturgica. “Mica l’ha operato Bonaccini”, replica un altro cibernauta. E da più parti ci si chiede in che misura la sortita del tecnico chiami in corresponsabilità anche il club: in tempi in cui le società regolano il diritto di parola dei loro campioni, è difficile pensare che il Bologna non sapesse e non volesse. D’altra parte Sinisa non è uno abituato a chiedere il permesso di parlare. E certamente parlare di politica è un suo diritto. Ma che cosa accadrebbe se il tecnico della Spal Leonardo Semplici, contro cui il Bologna giocherà a Ferrara il giorno prima dell’apertura delle urne, dichiarasse la sua fede per Bonaccini? Il derby emiliano rischierebbe di trasformarsi in un antipasto bollente delle elezioni. In nome di un tirannia che assoggetta ambiti della vita pubblici abitualmente separati, il calcio cesserebbe di essere quella valvola di decantazione che è. Certamente questo Mihajlovic e Zaytsev e le loro scuderie politiche di riferimento non l’hanno pensato. A questa soffocante polarizzazione di bandiere e stati d’animo viene in soccorso un motto di Blaise Pascal, a cui si ispira il filosofo statunitense Michael Walzer nel suo libro “Sfere di giustizia”: «Dobbiamo onori diversi ai diversi meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza». E, si può aggiungere, ammirazione all’impresa sportiva. Questo per dire che il 4-2-3-1 del Sergente e l’ace in battuta a 120 all’ora dello zar restano una fenomenologia del corpo, e non una religione dello spirito e del sapere assoluto. Per nostra fortuna.
Sacchi come Mihajlovic: ha scelto Salvini e Borgonzoni. Stasera a Bologna presenterà il suo libro in un incontro organizzato da Forza Italia. La senatrice Bernini: ''Ci aspettiamo il suo appoggio''. Antonio Prisco, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Anche Arrigo Sacchi in appoggio alla Lega di Matteo Salvini e della candidata Lucia Borgonzoni, in vista delle prossime elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Dopo le dichiarazioni di Sinisa Mihajlovic, dal mondo del calcio potrebbe arrivare un nuovo endorsement a favore di Lucia Borgonzoni. Arrigo Sacchi, romagnolo di Fusignano, l'indimenticato allenatore del primo Milan di Silvio Berlusconi e della Nazionale italiana, potrebbe lanciare da Bologna il proprio endorsement al centrodestra in vista del voto di domenica. Questa sera, nelle sale del Museo della storia di Bologna, Sacchi presenterà il libro La coppa degli immortali Sottotitolo: Milan 1989: la leggenda della squadra più forte di tutti i tempi raccontata da chi la inventò, scritto con Luigi Garlando. A quanto si sa, Arrigo non ha mai aderito ad alcun partito, rifiutando sempre qualsiasi tessera in tasca. Tuttavia non ha mai nascosto di avere votato sempre per Silvio Berlusconi, da quando il Cavaliere scese in campo nel 1994. Sugli inviti, il simbolo Forza Italia-Berlusconi per Borgonzoni, che si troverà anche sulle schede elettorali delle regionali non lascerebbe alcun dubbio sulla scelta dell'ex tecnico milanista. Con Sacchi, all’incontro intervengono Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di FI, Adriano Galliani, ex vicepresidente del Milan, senatore di FI, e Marino Bartoletti, giornalista, nel 2004 candidato sindaco civico a Forlì, sostenuto dal centrodestra. Non sarebbe la prima volta che il nome di Sacchi viene associato alla Lega. L’agosto scorso, il grande tifoso rossonero Matteo Salvini, allora Ministero dell’Interno, dalla spiaggia del Papeete, a Milano Marittima, pubblicò su Instagram un selfie proprio in suo compagnia con il commento: ''Arrigo Sacchi, numero uno!''. Inutile nascondere che tutti, questa sera, si attendono dall'ex allenatore rossonero un sostegno esplicito a favore del centro destra. ''Sarei molto delusa se non lo facesse'', afferma la senatrice Anna Maria Bernini, che con grande entusiasmo aggiunge: ''Il mondo pallonaro è con noi, con un presidente così, se il mondo del pallone non fosse con noi avremmo veramente sbagliato tutto''. Intanto sponda Pd arrivano a sorpresa le dichiarazioni di Andrea Corsini, assessore regionale al turismo dell'Emilia-Romagna: ''Arrigo Sacchi ha partecipato a due iniziative organizzate dal Partito Democratico di Cervia e Fusignano, per promuovere e sostenere la mia candidatura alle elezioni regionali di domenica prossima. In entrambe le occasioni e in una importante trasmissione radiofonica nazionale Arrigo ha dichiarato che lui sostiene le persone che hanno lavorato bene e quindi sosterrà Andrea Corsini e Stefano Bonaccini''. Questa sera la soluzione del giallo?
Salvini citofona al cittadino tunisino: “Scusi lei spaccia?” La campagna porta a porta dell’ex ministro è senza limiti. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La campagna elettorale di Matteo Salvini prosegue senza limiti. Stavolta a farne le spese è un cittadino tunisino residente in Emilia. Raccolto alcune voci di quartiere che lo indicavano come spacciatore, l’ex ministro dell’Interno, circondato dai microfoni e dalle guardie del corpo, ha citofonato e ha chiesto: “E’ lei il tunisino che spaccia nel quartiere?”. “A che titolo l’ho fatto? – ha spiegato poi Salvini ai giornalisti -. In qualità di cittadino. Le forze dell’ordine fanno meglio di me il loro mestiere, quindi hanno gli elementi per decidere se quel tizio spaccia o non spaccia. Mi volevo togliere una curiosità, visto che una signora di 70 anni mi dice "mi minacciano di morte perchè lì spacciano”. Intorno a Salvini molti sostenitori, ma anche diversi contestatori che gridavano: “Cosa fai qui? Tornatene al Papeete”.
Salvini e il citofono a Bologna: “L’ho fatto per aiutare una mamma”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. Continua la campagna elettorale di Matteo Salvini in Emilia Romagna in vista delle elezioni regionali di domenica 26 gennaio 2020: nel corso di una diretta Facebook da Bologna con i cittadini del quartiere Pilastro, ha suonato il citofono di un cittadino per chiedere se, come su segnalazione di una residente, fosse uno spacciatore di droga. Il motivo del gesto – che ha suscitato non poche polemiche, prima fra tutte quella dello scrittore Fabio Volo – è stato rivelato dallo stesso leader della Lega.
Il motivo del gesto. “Quando una mamma chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante protesta“. All’indomani dell’episodio nel quartiere Pilastro, Salvini è intervenuto a Mattino 5 spiegando le motivazioni del gesto al citofono. “Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa” ha continuato il leader leghista. “Abbiamo segnalato a chi di dovere che là si spaccia droga. C’è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato la proposta Droga zero, perché la droga è morte“.
Matteo Salvini al citofono, il tunisino Yassin a tutto campo: "Perché la signora mi ha segnalato". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Dopo 24 ore esatte è arrivata la replica di Yassin, il 17enne tunisino, che, mentre Matteo Salvini citofonava, giocava a calcio. Il video di risposta è stato pubblicato dal profilo Facebook dell'avvocato e attivista Cathy La Torre, e ritrae il giovane di spalle, in quanto minorenne. Yassin afferma di esserci "rimasto male" quando, al suo ritorno, i genitori gli hanno comunicato la comparsata di Salvini alla ricerca di un ragazzino spacciatore. Lui che non ha mai spacciato in vita sua ed entro 4-5 mesi diventerà padre e maggiorenne. Per approfondire leggi anche: Matteo Salvini al citofono e la Tunisia si indigna. Sapete chi è questo parlamentare? Molto sospetto..."Non ho mai spacciato, non ho precedenti penali, non sono indagato", riferisce Yassin, che poi spiega la possibile ragione per cui quella donna lo ha indicato come spacciatore: "Ho avuto a che fare con la signora perché scoppiavamo petardi sotto casa". Quindi, secondo il 17enne, la signora lo avrebbe associato agli spacciatori del quartiere Pilastro. Infine arriva l'appello indirizzato direttamente al leader della Lega: "Salvini, togli quel video".
SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano il 23 gennaio 2020. La signora Annarita Biagini ha dato fastidio. Prendendo Matteo Salvini sotto braccio e portandolo per un giro "panoramico" sul suo quartiere degradato, il Pilastro di Bologna, ha acceso un faro dove non doveva. Una piazza di spaccio dove i pusher vogliono continuare la propria attività al riparo dal clamore. Ed eccola la ritorsione: la sessantenne bolognese ieri mattina si è ritrovata la macchina con il parabrezza e i vetri laterali in frantumi. Un dispetto. Una intimidazione. Indagano le forze dell' ordine. D' altronde che il suo fosse un rione difficile, lo sapeva: «Io la sera, quando esco a portare il cane, tengo sempre la pistola in tasca. È regolarmente denunciata, mi dispiace ma è così», ha confessato al Corriere. «Vivo qui da trent' anni e le cose negli ultimi tempi sono solo peggiorate. Tutti sanno quello che succede ma nessuno parla, ho spesso denunciato queste cose alle forze dell' ordine», ha detto la donna mostrando un dossier con foto e segnalazioni sulle attività degli spacciatori. «Chiedo semplicemente di poter uscire di casa tranquillamente e qui da un po' non mi sento sicura» (...)
Da La Stampa il 23 gennaio 2020. Anna Rita Biagini vive da trent' anni al Pilastro, un quartiere difficile oltre l' anello della tangenziale bolognese, a duecento metri dal punto in cui la banda della Uno Bianca ammazzò tre carabinieri nel 1991. L' altra notte, dopo la visita di Salvini e le accuse di spaccio alla famiglia tunisina via citofono, qualcuno ha spaccato i vetri della sua auto con un mattone. Sul gesto del leader leghista e sulle sue conseguenze su un ragazzo di 17 anni e sul padre, denigrati in diretta tv, non ha alcuna riserva: «Io avrei fatto la stessa cosa, avrei suonato al citofono come ha fatto Salvini, perché quando uno ha ragione è giusto fare così. Ho denunciato queste persone, le ho fotografate insieme ad altri e consegnato le foto alle forze dell' ordine. Spacciano qui sotto, dappertutto, e nessuno mi leva dalla testa che siano stati loro a rompermi i vetri della macchina».
Non si sente strumentalizzata politicamente?
«Non mi aspettavo che ci sarebbero state telecamere e giornalisti, così come lo schieramento di polizia. Pensavo che ci sarebbe stato solo un colloquio con Salvini, poi è stato lui a trasformarlo in un evento pubblico. Può aver sbagliato, ma conosciamo Salvini e sappiamo com' è spontaneo. Io comunque non mi sento usata, mi sento dalla sua parte, e l' importante è che questa storia sia venuta fuori».
Com' è nata l' idea di incontrare il leader della Lega qui al Pilastro?
«Martedì ho ricevuto una telefonata del maresciallo dei carabinieri che mi ha detto che sarei stata avvisata del suo arrivo da un collaboratore di Salvini. Si fidava ciecamente di me perché sapeva che ho tutto in mano sulla situazione dello spaccio in quartiere, foto e prove».
Ma se suonassero al suo di campanello, accusandola di un reato grave, come reagirebbe?
«Non ho niente da nascondere, li farei entrare e mi farei spiegare com' è nata quella voce. Sono schietta e pulita».
Sì ma la privacy delle persone?
«E la mia privacy dove sta quando questi tipi sono qui sotto a spacciare?».
È vero che gira armata?
«Solo di sera, quando esco col cane, porto con me una pistola regolarmente denunciata. Ce l' ho da 6-7 anni, da quando mi hanno minacciata di morte». (fra.giu.)
Bologna, distrutta la macchina della donna che ha denunciato lo spaccio. Offese e minacce alla signora che ha perso il figlio per droga: "Lei fa schifo, spero vi lascino in mutande, ti butterei un secchio di merda." Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Chi denuncia spaccio di droga rischia non solo di avere serie ripercussioni, ma di essere vittima di gravi offese e minacce. È successo ad Anna Rita Biagini, la signora che ha indicato a Matteo Salvini a quale citofono suonare in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna, per chiedere al presunto pusher tunisino se spacciasse. Questa mattina i familiari della donna hanno scoperto che la sua vettura è stata oggetto di un atto violento: parabrezza danneggiato e vetri laterali della macchina in frantumi. Perciò è stata subito presentata una denuncia ai carabinieri della Stazione Bologna Mazzini, che hanno tempestivamente provveduto ad avviare le indagini per danneggiamento aggravato, al momento contro ignoti. Si tenterà dunque di risalire al colpevole o ai vandali. Il leader della Lega, intervenuto in una diretta sul proprio profilo Facebook, si è schierato a sostegno della Biagini: "Ieri ho avuto l'onore di incontrare una madre coraggiosa che si batte con una motivazione in più, perchè ha perso un figlio di overdose e su di lei la politica si divide, qualcuno arriva a fare polemica su di lei, ma noi siamo andati a disturbare la piazza dello spaccio". Poco dopo su Twitter ha aggiunto: "Questa è la dura verità. Il mio abbraccio alla signora, onore al suo coraggio. Chi vota Lega domenica in Emilia-Romagna sa che da parte nostra ci sarà lotta dura e senza quartiere agli spacciatori di morte".
Offese e minacce. Il profilo Facebook della donna è stato tempestato e invaso da vergognosi commenti, con tanto di offese e minacce. "Che schifo di persona che è..mi vergognerei a girare se fossi in lei...spero vi lascino in mutande..schifosi"; "Ignobile ....che essere umano spregevole ....vieni a citofonare a me ... Te jett nu sicchie e merd ncuoll....Lota di femmina ....mi fa orrore"; "Spero che venga denunciata, che debba pagare di tasca sua le spese processuali e il risarcimento, magari la prossima volta eviterà di fare la spia al suo impresentabile capitone felpato"; "Le hanno sfondato l'auto. Sarà pure brutto da dire, ma siamo contenti".
Francesco Cancellato per fanpage.it il 22 gennaio 2020. Non era in casa, quando Matteo Salvini ha citofonato a casa dei suoi genitori, la sera di martedì 21 gennaio, chiedendo se in quella casa al primo piano ci fosse una centrale di spaccio del quartiere Pilastro di Bologna. E ora vuole denunciare la donna che ha portato il leader della Lega a diffamarlo in diretta Facebook. Perché lui, il 17enne di origine tunisina accusato dal leader leghista non spaccia droga. Non più, in realtà, perché ammette “sono pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più”, ma ora “vado a scuola, sono un ragazzo normalissimo, non mi manca niente”. Abbiamo intercettato il ragazzo sotto casa dei genitori, sconvolti dal blitz di Salvini: “Mia madre ha 67 anni, mio padre si spacca il culo, se vai a casa trovi i vestiti di Bartolini – spiega il ragazzo a Fanpage.it – Lui ci è rimasto molto male”. Difende anche il fratello, “che non fa queste cose, lui gioca a calcio”. È anche per questo che il ragazzo ha deciso di sporgere denuncia nei confronti della signora che ha portato Salvini sotto casa sua:“Io incontro questa signora qua dietro nel parcheggio – racconta – Lei ha il cane, io ho il cane, a volte ci incrociamo. Domani vado in procura e la denuncio per diffamazione”. Seguendo le indicazioni di una residente della zona, il leader della Lega, Matteo Salvini, era andato a citofonare a casa di alcune persone ritenute “presunti spacciatori”. L'ha fatto in diretta su Facebook, facendo i nomi di queste persone e mostrando il palazzo in cui vivono. Andando a chieder loro se è vero che spacciano e se può salire a casa loro. Salvini si trovava nella zona periferica del Pilastro a Bologna. Seguendo sempre le indicazioni della donna, ha suonato al citofono di una famiglia di origine tunisina su indicazione della signora. Al citofono ha risposto un uomo e Salvini l'ha interrogato: “Buonasera. Lei è al primo piano? Ci può far entrare cortesemente? Perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole e volevano che lei la smentisse, ci hanno detto che da lei parte lo spaccio del quartiere. Giusto o sbagliato?”.
Salvini e la signora Biagini, la sua guida al Pilastro: «Quando esco col cane porto sempre con me una pistola». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it. È piombata nel cuore della campagna elettorale dell’Emilia-Romagna. A pochi giorni dal voto anche lei, accompagnata dal leader della Lega, Matteo Salvini, si è presa i riflettori per una sera, guidando l’ex ministro dell’Interno nei meandri del Pilastro, quartiere alla periferia di Bologna. Era con lui anche di fronte al citofono di una presunta famiglia di spacciatori stranieri diventato nelle ultime ore il nuovo caso con relative polemiche della propaganda salviniana. Anna Rita Biagini, 61 anni, ammette di «non avere paura per essersi mostrata vicino a Salvini, anche perché tutti sanno che denuncio gli spacciatori e il degrado della zona, piuttosto ho paura certe sere a uscire». Davanti alle telecamere ha ammesso: «La sera quando porto il cane a fare una passeggiata mi porto una pistola in tasca, è regolarmente denunciata. Mi spiace ma è così». La signora è stata portata al presidio annunciato da Salvini da alcuni esponenti della Lega, che l’hanno poi «scortata» quando l’evento elettorale è finito. Lei si è apertamente dichiarata fan del Capitano, ricevendo la promessa di Salvini di una nuova visita: «Tornerò». «Mio figlio è morto di overdose a trent’anni, per questo combatto lo spaccio – racconta la signora –. In realtà lui era malato di Sla e purtroppo era tossicodipendente. Quando le suoi condizioni erano pevauggiorate tanto da ridurlo su una sedia rotelle ha deciso di farla finita e lo ha fatto nel modo che conosceva, facendosi una dose letale». La 61enne racconta di vivere al Pilastro da trent’anni e ha consegnato al segretario leghista un dossier con foto e segnalazioni fatte in zona contro i pusher. Il quartiere è da sempre etichettato come una delle zone più difficili di Bologna, noto anche per la strage del Pilastro ad opera della Uno Bianca: il 4 gennaio 1991 i carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini rimasero vittime della scia di sangue dei fratelli Savi e dei loro complici. La Biagini ha parlato a Salvini dei pusher che infestano il quartiere. «Tutti sanno quello che fanno – ha sottolineato la signora all’ex capo del Viminale –. Ho più volte denunciato a polizia e carabinieri la situazione». Poi ha mostrato le aiuole e i muretti dove verrebbe nascosta la droga. Con lei hanno solidarizzato altri residenti ma le sono piovute addosso anche le critiche di altri abitanti del Pilastro perché «facendo in questo modo vuoi raccontare questa zona sempre allo stesso modo». Lei si è difesa, spiegando anche di non essere mai stata un’elettrice di sinistra riconvertita alla Lega. «Ho visto questa zona peggiorare nel tempo – ha ammesso –. E quello che mi dispiace è che dal presidente di quartiere mi sento dire che invece qui le cose vanno bene, ma non vanno bene per niente. Per questo apprezzo Salvini, mi è sembrato che su questi problemi abbia le idee chiare e mi convince. Qui da tempo ci promettono una nuova caserma dei carabinieri, ma rimandano sempre. E la cosa non la sopporto».
Il ragazzo a cui ha citofonato Salvini: «Non siamo spacciatori, solo pregiudizi» E Tunisi protesta: deplorevole provocazione. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Mauro Giordano e Cesare Zapperi. Il 17enne nordafricano vive con la sua famiglia nel quartiere Pilastro. «Io e la mia famiglia siamo scossi per quello che è successo, intendiamo andare avanti per vie legali». Il vicepresidente del parlamento tunisino: «Salvini è razzista e mina i rapporti tra i nostri Paesi». «Non sono uno spacciatore e non lo sono nemmeno i miei parenti, siamo scossi per quello che è successo e intendiamo andare avanti per vie legali». A parlare è il 17enne accusato di spaccio insieme al padre nel quartiere Pilastro di Bologna. L’accusa è arrivata dal leader della Lega, Matteo Salvini, che durante un evento elettorale ha citofonato alla famiglia chiedendo: «È vero che qui spacciate?». Il tutto mentre veniva ripreso dai giornalisti che stavano seguendo l’appuntamento della campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia-Romagna. Il tour anti-spaccio dell’ex ministro dell’Interno è stato guidato da una residente della zona, alla quale alcune ore dopo è stata danneggiata l’auto. La famiglia si è rivolta allo studio dell’avvocato Cathy La Torre e ha intenzione di presentare delle denunce per quanto accaduto sia nei confronti di Salvini che della 61enne che lo ha accompagnato.
Cosa rispondi a queste accuse?
«Che non c’è nulla di vero. Sono un ragazzo tranquillo che vive in quel quartiere, non ho precedenti penali. Mio fratello, di qualche anno più grande, ha invece degli arretrati con la giustizia per furto e rissa. Niente a che vedere con lo spaccio di droga».
C’erano già stati dei contrasti con la vostra vicina di casa?
«In passato sì, ma per questioni di altro tipo. Lei ha da ridire con tutti nel quartiere non solo con me, mio padre e gli altri familiari. Soprattutto quando c’era un bar sotto casa nostra lei si lamentava di tutto. Ma non capisco come sia arrivata ad accusarmi di questo».
Perché, secondo te, sono venuti a citofonare proprio a voi?
«Questo è quello che mi domando dall’altra sera. O meglio, me lo spiego così: è vero che in strada ci sono degli spacciatori, ma cosa ci posso fare io se qualcuno che frequenta i miei stessi posti spaccia? Noi abbiamo una casa, un indirizzo, un posto dove venirci a cercare e lo hanno fatto solo sulla base di pregiudizi. Ma in ogni caso nessuno autorizza Salvini a fare quello che ha fatto».
Oggi, spiega l’avvocata La Torre, c’è stato un incontro con il giovane per valutare i primi aspetti con la vicenda. Domani ci sarà invece un confronto con i genitori del ragazzo.
Da fanpage.it il 31 gennaio 2020. Durante un blitz a Bologna, nel quartiere periferico del Pilastro, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha citofonato alla casa di una famiglia di origine tunisina accusata, da una residente della zona, di spacciare droga. Tutto è avvenuto in diretta su Facebook, coi nomi delle persone coinvolte ripetuti più volte. "Ho 17 anni, faccio la vita di qualsiasi altro studente" dice il giovane indicato come presunto spacciatore. "Ho precedenti, ma sono pulito da un bel po'" aggiunge suo fratello maggiore, che fra l'altro non vive più nella zona già da tempo.
Da “la Stampa” il 31 gennaio 2020. «Ho 17 anni, studio e gioco a calcio. A Imola. Sono stato convocato in nazionale, è stata una grandissima esperienza». Il ragazzo del citofono a cui ha suonato il leader della Lega Matteo Salvini durante la campagna elettorale per le Regionali dell' Emilia Romagna è stato ieri intervistato a Piazza Pulita su La7. «Non ho mai avuto precedenti, non sono uno spacciatore. Ogni giorno mi chiedo: perché proprio me? A un 17enne gli hai rovinato la vita in cinque minuti da un giorno all' altro. Un politico che è venuto in periferia così...Cioè da pizzaiolo, postino, a suonare e dire "tu spacci". Ma cos' è?»
Karima Moual per “la Stampa” il 31 gennaio 2020. Al civico 16, tra una delle tante palazzine del Pilastro, quartiere popolare e multietnico alla periferia di Bologna, non c' è solo un citofono al quale ha suonato l' ex ministro dell' interno Matteo Salvini, ma un appartamento dove già al suo ingresso si respira l' aria di un' Italia che difficilmente viene raccontata. Quella della contaminazione che si fa famiglia. Una famiglia, Labidi - Razza, che si scopre solo dopo essere italo - tunisina, ribaltando un finale che sembrava scontato, quando in piena campagna elettorale, la sera del 22 gennaio l' ex Ministro dell' interno Matteo Salvini si fece guidare da una cittadina di quartiere, che gli indicava una famiglia tunisina, accusandola di spaccio. Il resto lo conosciamo ed è testimoniato in un video sul web, che Facebook ha già rimosso perchè inneggia all' odio: «Buonasera, ci hanno detto che da lei parte una parte dello spaccio nel quartiere». Sono le parole di Matteo Salvini. Risate, clack e poi, il sipario doveva scendere. E invece no. Entriamo nella casa della famiglia Labidi - Razza: «Quando dalla Tunisia sono arrivato in Italia nel '79, Matteo Salvini forse non era ancora nato - racconta il signor Labidi, 58 anni, oggi autista ma con alle spalle 20 anni come cuoco. E' scosso, fatica a dormire perché amareggiato e molto stanco per quella famosa citofonata, che non fece solo il giro delle reti italiane, ma fu trasmessa anche in lingua araba nei social network e nei maggiori canali televisivi arabi, facendo montare tanta rabbia, sdegno e un intervento del governo tunisino, trascinando il nostro paese in un incidente diplomatico con un paese amico. «Perché proprio a noi?». E' la domanda che si continua a chiedere Labidi, da più di 40 anni in Italia e residente al quartiere Pilastro da sempre. Lì ha conosciuto la moglie Caterina, e lì sono nati i loro 4 figli. Due figlie che vivono all' estero, il figlio più grande con la sua famiglia in un altro quartiere, mentre con loro è rimasto solo il figlio più piccolo, Yassin, 17 anni, calciatore, preso di mira dall' ex ministro dell' interno, dal momento in cui lo ha indicato come spacciatore. Ma perché proprio a voi? Ci pensa ancora un po', ma a rispondere è Caterina, seduta nel salottino di casa, grondante sino a toccare il kitch, di Tunisia e Italia, Islam e cristianesimo. Quadri di sure del corano, insieme a croci, angeli e un ritratto di Madre Teresa di Calcutta, insieme a trofei coppe e medaglie del figlio calciatore. «Salvini ci ha citofonato, facendoci passare per una famiglia di spacciatori, a scopi propagandistici per la sua campagna elettorale, ma la verità è che non pensava fossimo una famiglia italo-tunisina. Non pensava che io fossi italiana, perché purtroppo, finché si trova di fronte a minoranze, stranieri che non conoscono i loro diritti, che magari hanno paura, allora gli va bene - spiega Caterina. E gli è sempre andata bene - rincara - ma questa volta no, questa volta gli è andata male perché ha trovato me, italiana, che conosco i miei diritti, e porterò fino in fondo la mia battaglia contro questo uomo, che ha rovinato una famiglia intera». Caterina è un fiume in piena, mentre Labidi con occhi bassi, continua a ripetere: «Ma l' Italia non è così! qui nel quartiere mi conoscono da anni, sanno chi sono, mi rispettano e mi vogliono bene e mai come in questa occasione li ho sentiti vicino. Ci è arrivata tanta solidarietà. Certo, qualche sbaglio - confessa Labidi - l' ho fatto anch' io in passato quando ero molto giovane, ma io sono ormai un uomo di famiglia e da anni, pulito, che si sveglia all' alba lavorando onestamente 8- 9 ore come autista. Guadagno anche bene e non mi posso lamentare». E mentre lo dice, si premura di tirare fuori le sue busta paga come a dimostrare la sua innocenza. Un gesto che evidenzia la consapevolezza di sentire sulla pelle come la sua storia sia stata sporcata. «Siamo stati processati in mondo visione, senza aver fatto nulla, abbiamo subìto una violazione dei nostri diritti ma anche una violenza inaudita verso di noi e un minore di 17 anni, mio figlio Yassin - si sfoga ancora Caterina - che oggi è rovinato psicologicamente. È spento, non ha più voglia di uscire, di fare nulla, un ragazzo che era energia pura». Dietro alla famiglia c' è più di un avvocato. «Abbiamo denunciato Salvini - dice Caterina - perché ciò che ha fatto non può passare impunito in quanto pericoloso non solo per il male che ci ha fatto ma anche per il messaggio che manda agli italiani, la libertà di processare chiunque, soprattutto se straniero e indifeso, anche solo per sentito dire». Buona parte del quartiere Pilastro si è sollevata nei giorni dopo. Lo racconta Mohamed, che spiega come ha sensibilizzato la famiglia, amici e tutti quelli delle comunità straniere con in tasca la cittadinanza per andare a votare Bonaccini per non far vincere Salvini. «A casa mia - spiega Fadoua oggi 25 anni nata al Pilastro ma di origine marocchina - abbiamo riunito tante persone per spiegargli come votare. Persone che avevano la cittadinanza ma non avevano mai votato». Riunioni, appelli via social, telefonate messaggi, anche in lingue straniere, il passa parola è stato una valanga. «A Salvini - continua Flavia - la citofonata, gliel' abbiamo suonata noi. Basta fare carne da macello con i più deboli, gli immigrati, perché se la loro voce è più debole, ci penseremo noi italiani, che con loro conviviamo fianco a fianco».
Parla il padre del presunto pusher tunisino: "Ora denunciamo Salvini". Il ragazzo respinge tutte le accuse: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell'Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Noi non spacciamo". Luca Sablone, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Ancora polemiche sulla citofonata di Matteo Salvini al presunto pusher in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna. Nella giornata di ieri sono arrivate le forti reazioni da parte di Moez Sinaoui: l'ambasciatore della Tunisia a Roma ha espresso la propria "costernazione per l’imbarazzante condotta", che viene definita come una "deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato". In scena però è entrato anche il ragazzo in questione, che ha smentito tutte le accuse sullo spaccio. La famiglia ha annunciato una battaglia legale contro l'ex ministro dell'Interno: "Non siamo spacciatori, con quella pagliacciata Salvini ci ha rovinato la vita e per questo lo denunceremo". Il 17enne si difende dopo essere stato additato praticamente in diretta nazionale: "Come si è permesso di fare una cosa simile, siamo brave persone". Il giovane ha fornito alcuni dettagli anche per quanto riguarda la sua vita privata: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell’Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Tra qualche mese avrò anche io una bambina. Non capisco perché se la siano presa con noi". Intanto nella giornata di ieri ha incontrato l'avvocato Cathy La Torre e oggi è prevista una riunione del legale con i genitori del ragazzo: in tale occasione verranno presentate denunce contro il leader della Lega e contro Anna Rita Biagini, la 61enne che ha indicato a quale citifono suonare e a cui hanno distrutto la macchina.
Scatta la manifestazione. Come riportato dal Corriere della Sera, padre e figlio hanno fatto sapere: "Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c’è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi". Pare che il baby tunisino sia incensurato, mentre il fratello - che vive in un altro appartamento nel quartiere - ha già avuto problemi con la giustizia: una denuncia per furto e rissa. Il padre ha ammesso: "Io invece più di vent’anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente". Di professione fa il corriere. Domani i residenti e le associazioni del Pilastro organizzeranno una manifestazione in strada per protestare e per rispondere "all'immagine negativa che è stata proiettata da chi vuole strumentalizzare una zona con problemi ma anche ricca di cose positive".
Blitz di Salvini al citofono, Yassin difeso da Cathy La Torre: “Non spaccio, studio e gioco a calcio. Ora ho paura”. Redazione de Il Riformista 23 Gennaio 2020. “Ancora una volta, al Capitano, ha detto male. Si è scusato per il video in cui ha preso in giro un ragazzo dislessico. Questa volta le scuse non credo basteranno”. L’avvocato bolognese Cathy La Torre, attivista per i diritti civili, torna ad accusare Matteo Salvini. Al legale si è rivolto infatti Yassin, il 17enne tunisino che lunedì sera si è visto citofonare dall’ex ministro dell’Interno e chiedere se spacciava. “Ci sono rimasto, è una brutta cosa – spiega il ragazzo nel video -. Mi viene da pensare ‘adesso la gente come mi guarda? I miei amici come mi guardano?’. Molto probabilmente mi guarderanno con occhi diversi, ma voglio far capire che io non sono uno spacciatore, gioco a calcio, tra 5 mesi divento padre”. Yassin si rivolge allo stesso Salvini e lancia un appello. “Vorrei far capire questo: che non sono uno spacciatore e voglio far levare quel video lì. Salvini togli quel video, sono cose non vere, tu dici ‘spacciatore, padre e figlio che spacciano’ e questo non è vero… Voglio continuare la mia vita di prima, voglio uscire di casa. Prima la gente non mi conosceva, ora dicono ‘Iaia lo spacciatore’ (Iaia è il soprannome di Yassin, ndr). Ma cos’è?”, si chiede il 17enne. In un post che accompagna la video-intervista, l’avvocato (che difenderà Sergio Echamanov, il ragazzo dislessico bullizzato da Salvini durante un comizio in una cittadina alle porte di Ferrara, ndr) ricorda che Yassin “è italiano, figlio di un matrimonio misto, che mi vergogno pure a doverlo dire che si, si è pure figli di matrimoni misti! Iaia – spiega – nella vita gioca a calcio e lo fa pure discretamente bene tanto da essere stato convocato 3 volte dalla nazionale giovanile a Coverciano, e aver giocato nel Sassuolo, nel Modena e no: non spaccia. Non ha precedenti penali, di nessun tipo. Zero. Nada. Niente. Vuole solo vivere la sua vita, giocare a calcio, studiare per ottenere la stessa patente del padre (che è un autista della Bartolini) e fare lo stesso lavoro. Perché tra 5 mesi diventa papà anche lui. Ma da ieri – sottolinea ancora -, per tanti, è solo ‘Yassin lo spacciatore’. Perché un ex Ministro dell’Interno ha citofonato a casa sua chiedendogli ‘lei è uno spacciatore’. Perché serviva dare in pasto ai suoi fan l’immigrato delinquente”, conclude l’avvocato.
Monica Rubino per repubblica.it il 22 gennaio 2020. "Siamo sbalorditi, la Tunisia non merita un trattamento del genere". A nome del Parlamento tunisino, il deputato Sami Ben Abdelaali chiede a Matteo Salvini scuse ufficiali nei confronti della famiglia tunisina coinvolta nel "blitz" al quartiere Pilastro di Bologna. Ieri, l'ex ministro dell'Interno in campagna elettorale in Emilia Romagna, ha inscenato un tour nella periferia bolognese citofonando - mentre veniva ripreso dalla telecamere e circondato dalle forze dell'ordine - a una famiglia tunisina di via Deledda su indicazione di alcuni residenti e chiedendo: "A casa sua si spaccia?". Dopo le contestazioni dei giovani del quartiere, del Pd e dello stesso sindaco di Bologna Merola, contro il leader leghista si è sollevata un'ondata di indignazione anche fra i deputati del Parlamento tunisino. "In Tunisia quest'azione vergognosa di Salvini ha scatenato una grande protesta - spiega Sami Ben Abdelaali - unita a manifestazioni di solidarietà nei confronti della famiglia tunisina e del minore citati per nome dall'ex (per fortuna) ministro dell'Interno".
Il Parlamento tunisino. "Siamo sbalorditi per l'attacco diffamatorio nei confronti di una famiglia di lavoratori, oltretutto sferrato da una persona che in Italia ha ricoperto incarichi di governo. Anche se un parente di questa famiglia ha avuto precedenti penali, questo non giustifica una tale campagna di odio. Chi sbaglia deve pagare, ma non possiamo tollerare il discredito sull'intera comunità tunisina che è sana e lavoratrice", aggiunge Abdelaali, ex presidente di un istituto bancario siciliano, residente a Palermo e sposato con una siciliana, eletto al Parlamento tunisino nelle liste dei tunisini all'estero. "Trattare così nostri immigrati è una vergogna - conclude - difendo la dignità e diritti dei nostri cittadini. Se ci fosse stato un problema si poteva segnalare alle autorità competenti, senza alcun bisogno di messinscene a favore di telecamere. Salvini capisca che queste azioni per ottenere qualche voto in più non sono più di moda, i rapporti internazionali fra Italia e Tunisia vanno bel al di sopra dei suoi incitamenti discriminatori".
Blitz di Salvini al citofono, il Parlamento tunisino: «Gesto razzista, chieda scusa». Simona Musco su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La replica del leader della Lega: « la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere». Crisi diplomatica tra Italia e Tunisia dopo che Matteo Salvini, su segnalazione di alcuni cittadini, ha citofonato ad una famiglia tunisina del quartiere Palazzo, a Bologna, per chiedere se le persone residenti nell’appartamento spacciassero droga. Un gesto ripreso dalle telecamere a seguito del senatore, impegnato nella campagna elettorale per le regionali in Emilia, che ha suscitato l’indignazione del vicepresidente del Parlamento di Tunisi, Osama Sghaier, che in un’intervista rilasciata a Radio Capital ha parlato di «atteggiamento razzista e vergognoso che mina i rapporti tra Italia e Tunisia». Salvini, ha aggiunto Sghaier, «è un irresponsabile, perché non è la prima volta che prende atteggiamenti vergognosi nei confronti della popolazione tunisina. Lui continua a essere razzista e mina le relazioni che ci sono tra la popolazione italiana e la nostra. I nostri paesi hanno ottimi rapporti. I tunisini in Italia pagano le tasse e quelle tasse servono anche a pagare lo stipendio di Salvini. Dunque, si tratta di un gesto puramente razzista». Duro anche il commento del deputato Sami Ben Abdelaali, che a nome del Parlamento tunisino ha chiesto le scuse ufficiali di Salvini nei confronti della famiglia, definendo quella del leader del Carroccio «un’azione vergognosa, fatta per ottenere qualche voto in più alle regionali». A rincarare la dose anche l’ambasciatore tunisino a Roma, Moez Sinaoui, che in una lettera inviata alla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, ha espresso la sua «costernazione per l’imbarazzante condotta» del leader della Lega, una «deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato» da parte di un «pubblico rappresentante dell’Italia», paese che vanta «un’amicizia di lunga data con la Tunisia». Sinaoui ha accusato Salvini di aver«illegittimamente diffamato una famiglia tunisina», atteggiamento che ha «stigmatizzato l’intera comunità tunisina in Italia».
Ma Salvini non torna sui suoi passi. «Il vicepresidente del Parlamento tunisino mi accusa di razzismo? Io ho raccolto il grido di dolore di una mamma coraggio che ha perso il figlio per droga – ha replicato – un atto di riconoscenza che dovremmo far tutti: la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere. Tolleranza zero contro droga e spacciatori di morte: per noi è una priorità. In Emilia Romagna e in tutta Italia ci sono immigrati per bene, che si sono integrati e che rispettano le leggi. Ma chi spaccia droga è un problema per tutti: che sia straniero o italiano non fa nessuna differenza».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2020. Nell' ambito delle comunicazioni di massa, scarso rilievo hanno avuto gli studi sul citofono. Una sottovalutazione imperdonabile, relegata ad ambito condominiale: «Tra il balcone e il citofono ti dedico i miei guai», canta Tiziano Ferro. La bravata di Matteo Salvini (com' è noto ha citofonato a una famiglia di origine tunisina della periferia di Bologna per chiedere se in quella casa abitasse uno spacciatore) è stata paragonata a una forma di linciaggio (con telecamere a seguito). Ma è anche figlia, come ha sottolineato Mattia Feltri, «di un giornalismo che si acclama da sé con la schiena diritta perché insegue la preda per strada, e a microfono e telecamera spianati gli chiede se sia un pedofilo o se non si senta un genocida a riscuotere il vitalizio». Una decina d' anni fa, in questo spazio, mi è capitato di scrivere: «Lo strappa-opinioni non recede di fronte a nulla: l'umanità dolente gli si presenta come uno sterminato campionario, un' inesauribile collezione di vicende personali, facce, accenti, gesti, manie cui porre una sola e unica domanda: "Cosa ha provato in quel momento?" Se non c' è la persona si accontenta anche di un citofono: il microfono davanti a un citofono, dal punto di vista espressivo, è il livello più basso del mestiere». Il citofono è stato nobilitato dai comici (Chiambretti a Complimenti per la trasmissione ; Aldo, Giovanni e Giacomo a Mai dire gol ; Andrea Rivera a Parla con me , Enrico Brignano a A Sproposito di noi ) e mortificato dai «cronisti d' assalto» che hanno trasformato lo strumento nel surrogato dello scalpo. Un genere, come scrive Il Foglio , «portato alla gloria dalle Iene : si suona al portone di qualcuno sospettato o indicato di qualcosa, che non sa bene con chi sta parlando, e gli si fa l' interrogatorio al citofono». Con una mossa tracotante, Salvini è riuscito a citofonare a sé stesso, cioè a far parlare di sé anche negli ultimi giorni di campagna elettorale.
Simone Di Meo per la Verità il 24 gennaio 2020. Aveva annunciato: «Rifarei tutto». Ed è stato di parola Matteo Salvini, per nulla intimorito dalla tempesta mediatica (con strascico diplomatico) che si è abbattuta dopo la citofonata di martedì scorso, al Pilastro, quartiere bordeline di Bologna, a un' abitazione di presunti spacciatori. Ieri, nel tour elettorale a Modena, è andato nuovamente in scena. Puntando un esercizio commerciale. «Dov' è questo negozio, è qui al civico 38?» ha domandato il leader leghista in diretta Facebook. La segnalazione, pure in questa circostanza, è arrivata dalle donne del rione. «Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla Procura e alle forze dell' ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché qua dentro si spaccia la droga», ha aggiunto. «Speriamo che la nostra presenza di oggi possa portare a fare i controlli del caso, possa portare a qualche chiusura e a qualche arresto. Ringrazio le mamme e le nonne che ci hanno messo la faccia. È dal 1999 che c' è questo negozio? Sono vent' anni? Visto che sono testone, tornerò tutte le volte, finché non sarà chiuso definitivamente», è stata la sua promessa. Resta aperta, anzi apertissima, invece la questione bolognese con la famiglia tunisina di via Grazia Deledda, additata dall' ex vicepremier come presunta centrale di smercio di stupefacenti. Al Corriere della Sera, il padre e il figlio minorenne hanno annunciato di voler trascinare davanti al giudice sia Salvini sia la signora che gli ha indicato il loro appartamento. «Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c' è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi», hanno riferito. Il diciassettenne, che studia e gioca a calcio, risulta incensurato, ma il papà, oggi corriere per la Bartolini, ha ammesso qualche problema: «Io invece più di vent' anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente». Pure il fratello maggiore, che non vive più al Pilastro, ha trascorsi giudiziari. Al quotidiano online Fanpage.it, ha ammesso di essere «pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più, adesso sto facendo il bravo». La donna a cui fanno riferimento il genitore e il figlio nordafricani si chiama Anna Rita Biagini, ed è stata la «guida» di Salvini nel giro per le strade a caccia di pusher. Il giorno dopo il tour, l' anziana ha trovato la sua auto vandalizzata. Ma non si è scomposta. A Radio Capital, la Biagini ha rincarato la dose: «Io so che quel ragazzo spaccia, ho le foto. Ora Salvini mi ha regalato i soldi per ripagare i vetri della macchina che mi hanno danneggiato». Suo figlio, malato di Sla, è morto per un' overdose a trent' anni. Qualcuno l' ha accusata di essere una visionaria. Lei ha replicato: «Ho già fatto chiudere un bar qui vicino per stupefacenti». Appena possibile, racconta tutto quel che può alle forze dell' ordine. «Ho iniziato a ricevere minacce, così ho deciso di prendere una pistola, regolarmente detenuta (da lei soprannominata «l' amica Mafalda», ndr). Saranno ormai sei o sette anni che la porto sempre con me quando esco. Mi spiace, ma è così». Lo stesso leader leghista non ha alcuna intenzione di indietreggiare e, davanti alle dichiarazioni della famiglia tunisina, ha ribattuto: «Se c' è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore». E ha difeso quelli che lo hanno accompagnato a Bologna: «I cittadini non hanno dubbi, hanno certezze». La sortita dell' ex ministro dell' Interno ha scatenato una ridda di reazioni. Oltre a quella delle autorità tunisine, che hanno protestato ufficialmente con una lettera al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, esprimendo «costernazione per l' increscioso episodio», è arrivata la rampogna (non la prima, a dire il vero) anche da parte del capo della polizia, Franco Gabrielli. «Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la polizia in maniera indiscriminata», è stata la bordata del massimo responsabile nazionale di pubblica sicurezza. Concetti che risuonano anche nel monito del segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo. «Non è stato un atteggiamento particolarmente felice», ha spiegato. I vescovi dicono «basta con la costante campagna elettorale», il clima di «conflittualità» va avanti da troppo tempo. Al fianco del capo del Carroccio si è schierato però Vittorio Sgarbi. «Il tunisino è uno studente, ma occorrerà fare un' indagine. Gli untori sono gli spacciatori, l' altro è un cittadino normale», ha attaccato il parlamentare. «Se tu avessi un figlio che prende droga data da un pusher a scuola, avresti un solo desiderio: picchiare il pusher. È il pensiero di ogni genitore. Il politico rappresenta i cittadini nel modo più umano e diretto, è questa la sua grandezza». Difficile che tutti la pensino così.
Dagospia il 24 gennaio 2020. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori). Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ha suscitato un vespaio di polemiche la citofonata di Matteo Salvini in un quartiere a rischio di Bologna, dove si spaccia droga. Io stessa, nel mio piccolo, per aver difeso, con motivazioni politiche, quel gesto estremo sono stata presa di mira da alcuni, anche colleghi molto politically correct, che sui social hanno provato a spiegarmi il garantismo. Proprio a me che andavo a trovare in privato, ero ancora inviato speciale a L'Unità, Bettino Craxi vivo a Hammamet. Ma da giornalista politica poi di Panorama del Gruppo Mondadori sono stata e sono tuttora anche per altri giornali inviata sulla Lega. Approvo il gesto di Salvini perché così ha gettato un sasso politico nello stagno del silenzio di quel quartiere dove una madre coraggio, che ha perso il figlio per droga, è costretta a girare armata, nell'indifferenza delle istituzioni locali e nazionali. E lo analizzo da giornalista esperta anche di Lega, dalla Lega Nord di Umberto Bossi a quella nazionale di Salvini, primo partito italiano. L'allievo ha superato il maestro Umberto nei voti. Ma la tecnica, rivista e aggiornata, anche attraverso un geniale mix di linguaggio senza intermediazione tra territorio e internet, segue di fatto il canovaccio base del Senatùr. Ovvero "spararla" o farla grossa quando nessuno ti ascolta. Bossi a me allora a Panorama, a margine di una delle prime interviste esclusive, dopo la malattia del 2004, rivelò: "Chiedevo la secessione in realtà per ottenere la Devoluzione. Quando nessuno ti ascolta, devi gridare più forte". Era il Bossi che parlava di "bergamaschi armati", di "proiettili a 30 lire" che in realtà così, bucando il video, voleva ottenere più autonomia, mettendo in guardia dal fatto che se non l'avessero concessa allora sì che ci sarebbe stata la secessione. Certo, anche lì linguaggio non era esattamente in punta di diritto. Ma era linguaggio politico. Così come politico io ritengo il gesto estremo di Salvini, da me intervistato tante volte da 15 anni, che, per sua stessa natura e non solo perché allievo del "Barbaro di Gemonio", è proprio così. Come ha scritto su Twitter Annalisa Chirico, confermo: avrebbe citofonato anche a un camorrista. La notizia anche secondo me non è la citofonata, ma quel quartiere abbandonato dalle istituzioni. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori)
Matteo Salvini e la citofonata a Bologna, Pietro Senaldi: "Nostalgia del Viminale?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Dagli allo spacciatore. Salvini l' ha rifatto. Martedì sera, nella periferia bolognese, a favore di telecamere e attorniato da elettori festanti aveva citofonato a casa di una famiglia tunisina con un figlio carico di precedenti penali. «Scusi, è vero che in famiglia smerciate droga? Perché nel quartiere si dice così e ad accusarla è anche la madre di un ragazzo morto per overdose». Da sinistra si sono alzate subito migliaia di avvocati d' ufficio per il ragazzo pregiudicato e altrettanti pm pronti a incriminare il leader leghista per violazione della privacy e delazione. Il bailamme suscitato non ha intimorito lo sponsor numero uno di Lucia Borgonzoni, candidata presidente dell' Emilia-Romagna. Ieri a ora di pranzo l' ex ministro dell' Interno ha concesso la replica. Evidentemente nostalgico dei tempi in cui sedeva al Viminale, il Matteo, sempre attorniato da due cordoni di folla adorante, ha puntato la saracinesca abbassata di un negozio di proprietà di immigrati nigeriani e ha allungato l' indice accusatorio: «La gente, i residenti, mi dicono che qui dentro si spaccia. Non se ne può più, invito la Questura e la Procura a indagare». Più che pentito, recidivo. Le accuse della sinistra mirano a screditare Salvini e additarlo agli occhi degli elettori come una sorta di teppista della politica, forse cercano anche di demoralizzare e far vacillare il rivale, ma sull' interessato ottengono l' effetto opposto. Il leader leghista non si scusa, anzi, si eccita e alza la posta.
IL GARANTISMO. Chi ha ragione? Vedremo domenica sera, è la risposta più facile. Ma noi di Libero vogliamo dire la nostra anche a partita in corso. Esteticamente, e pure sostanzialmente, il gesto ci piace poco. Siamo garantisti con tutti, perfino con gli immigrati in odore di spaccio. Temiamo peraltro che la denuncia pubblica, indipendentemente dal fatto che risponda o meno al vero, procurerà più noie giudiziarie al leader leghista che agli individui di origine extracomunitaria messi alla gogna. Penalmente parlando quindi, la mossa potrebbe rivelarsi un autogol. Però questo non significa che ci sfugga il significato politico del comportamento di Salvini, che va letto esclusivamente come un momento della sua campagna elettorale. Proprio quello che i suoi denigratori non riescono a fare. Il ragionamento di Matteo è piuttosto semplice. Gli spacciatori non votano e se proprio lo fanno, scelgono gli altri a prescindere da qualsiasi cosa che io possa dire o fare. Quanto agli immigrati, quelli integrati e che rispettano la legge sono normalmente più inflessibili degli italiani da venti generazioni verso i nuovi arrivati che delinquono e screditano tutta la categoria. Pertanto, sono d' accordo con me. Il ragionamento salviniano si estende poi ai cosiddetti residenti, siano delle periferie o anche dei quartieri centrali infestati dai trafficanti e dai loro clienti. Il leader leghista sa che essi hanno ben chiaro che la droga gli rovina la vita e ritengono la soluzione del problema più impellente del rispetto del galateo politico e, anche se è brutto dirlo, sono insensibili alle ragioni giuridiche di chi viene messo all' indice, perché lo detestano e ritengono di non potersi trovare mai al suo posto. Per quel che riguarda gli altri, gli elettori del centrodestra benpensanti, che pure esistono anche se la sinistra li ignora, Matteo sa che sono disponibili a pagare il prezzo delle sue intemperanze verbali e comportamentali se la ricompensa è liberarli dalla sinistra. E non solo per le tasse, la politica migratoria dissennata, la guardia abbassata sulla sicurezza nelle strade, la connivenza con le organizzazioni di natura sociale che agiscono, come a Bibbiano, ispirate più dall' ideologia che dai bisogni e tutto l' armamentario di mal governo pratico e teorico che il Pd e i suoi alleati si portano dietro ovunque.
REAZIONI SCOMPOSTE. Le provocazioni di Salvini gli portano voti anche per le reazioni che suscitano nella sinistra, della quale esaltano il moralismo, l' ipocrisia e l' atteggiamento di chi la sa sempre giusta e pretende di dirti come comportarti. E se non la ascolti si scatena, mentre tace quando il suo popolo augura a Mihajlovic che la leucemia lo uccida solo perché ha detto che gli piace il leader della Lega. Pure i vescovi ieri hanno attaccato l' ex ministro per il suo tour anti-spaccio, sostenendo che è stato un comportamento infelice. Certo non è stato ineccepibile, e noi di Libero non lo sottoscriviamo. Ma ce ne fosse uno tra i detrattori che, con Salvini, avesse premesso anche una doverosa condanna della droga e di chi la spaccia. Se non altro, avrebbe tolto all' ex ministro dell' Interno l' esclusiva della lotta alla criminalità e forse avrebbe diminuito nella maggioranza degli italiani il desiderio impellente di vedere tornare al Viminale l' oggetto della disapprovazione delle sardine e degli altri branchi di pesci rossi. Pietro Senaldi
Dagospia il 22 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. Matteo Salvini, leader della Lega, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.
Sulla citofonata. “Se c’è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede di dargli una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre –ha affermato Salvini-. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Però era giusto squarciare il silenzio che purtroppo c’è in tanti quartieri italiani. Per me che sono stato a San Patrignano a parlare con ragazzine di 15 anni che si facevano di eroina, gridare che la lotta alla droga debba essere un obiettivo primario della politica è mio dovere. Che poi uno spacciatore sia tunisino, italiano o finlandese non è importante. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore. I residenti del quartieri non hanno dubbi, hanno certezze. Travaglio parla di giustizia citofonica? Secondo Travaglio io dovrei andare in galera, con una pena maggiore rispetto a quella degli spacciatori di droga, perché il reato per cui sono imputato prevede fino a 15 anni di carcere. E’ assurdo che i Travaglio e il Pd di turno ritengano che sia normale una roba del genere, secondo me è un enorme spreco di denaro pubblico questa roba qui. Mi chiedono di citofonare ai mafiosi? Sono andato a bermi un caffè con Nicola Gratteri che è uno dei principali nemici delle mafie, che si batte ogni giorno contro la ‘ndrangheta. Ricordo poi che la villa ai Casamonica con la ruspa l’ho abbattuta io, non Fabio Volo o Fabio Fazio. E a Corleone il commissariato di polizia confiscato alla mafia l’ho inaugurato io. Se c’è qualcuno a cui sto sulle palle sono proprio mafiosi e camorristi”.
Sul caso Gregoretti. “Ho chiesto ai miei di votare per il processo. Di sbarchi ne avrò bloccati una trentina. Non l’ho mai fatto di nascosto né da solo. Oggi Conte e compagnia fanno come le 3 scimmiette, non vedo non sento non parlo, per me vale più la dignità, per Conte evidentemente vale di più la poltrona”. Sulle elezioni in Emilia Romagna. “Un anziano partigiano a Brescello mi ha detto: se ci fosse ancora Peppone voterebbe te. Lui ha la tessera del PCI e domenica voterà Lega. Mi ha detto che il PD ormai è il partito del sistema, delle banche, non è più il partito della tradizione contadina, operaia, degli artigiani. Noi vinceremo domenica perché ci votano quelle persone lì, non perché sbarcano gli alieni. Il M5S nasce a Bologna con il Vaffa Day contro il sistema del Pd, oggi governano col Pd quindi è chiaro che oggi anche molti delusi del M5S voteranno Lega. Mi sento di rappresentare una certa tradizione della sinistra vicina agli ultimi. Modello emiliano? I successi delle imprese emiliane dipendono dagli imprenditori emiliani, nonostante la burocrazia imposta dalla Regione e nonostante il sistema non fondato sul merito, perché se sei amico corri se non hai l’amico al posto giusto fai fatica. Non vogliamo insegnare niente a nessuno, ma nelle regioni in cui governiamo abbiamo dimostrato che le liste d’attesa si possono accorciare, si possono assumere più medici e infermieri”.
Su Bibbiano. “Stasera sono a Bibbiano, splendido comune agricolo. Ma quello che è successo in quel comprensorio con 26 indagati e troppi bambini portati via con l’inganno alle famiglie secondo l’accusa, è indegno per una splendida regione come l’Emilia Romagna. La responsabilità penale è dei singoli. Quello che noi contestiamo da anni è di non aver visto e, quando è esploso tutto, averlo liquidato come un fatto da poco. A parte che anche un singolo bambino portato via con l’inganno a una mamma e un papà è un dramma, l’obiettivo dei bimbi dati in affido è lavorare per riconsegnarli alle famiglie di provenienza e questo purtroppo, a Bibbiano e non solo, accade solo nella minoranza dei casi. Questo vuol dire che l’intero sistema di affidi va rivisto”. “Si parla molto di Emilia Romagna perché vincere qua sarà un fatto clamoroso e commovente, ma c’è anche la Calabria che di problemi ne ha di enormi. Pensate che non c’è l’assessore al turismo. E’ come se in Arabia Saudita non ci fosse un ministro che si occupa del petrolio. Secondo me qui vinceremo con almeno 20 punti di distacco e per la Lega sarà una prima volta in assoluta. Sarà un’emozione anche quella”.
Sul retroscena secondo cui Di Maio avrebbe accettato di fare il premier con la Lega ma Grillo glielo avrebbe impedito. “Onestamente non so se sia vero. Sia Grillo che Di Maio mi sembra che abbiano scelto l’abbraccio mortale col PD contro la volontà del loro popolo. Evidentemente Grillo ha fatto le sue valutazioni, però io non ho mai parlato direttamente né con Grillo né con Di Maio. Se si fossero sciolte le Camere e si fosse andati al voto, oggi avremmo un governo diverso, che rappresenta la volontà popolare, stabile e non litigioso”.
Rivalità con Meloni? “Assolutamente no. Più cresce tutto il centrodestra meglio è, più cresce FDI, FI, la lista di Toti meglio è. Chiaro che la Lega al 30% ormai da mesi per me è un enorme responsabilità ma è anche il premio a tanti amministratori della Lega. Anche nel Lazio. Zingaretti teoricamente è pagato per fare il governatore del Lazio, invece fa il segretario di partito in giro per l’Italia. Vedremo di restituire il prima possibile parola ai cittadini di Roma e del Lazio perché l’accoppiata Zingaretti-Raggi sta producendo disastri”.
Simone Pierini per leggo.it il 22 gennaio 2020. Fabio Volo tuona contro Matteo Salvini. Nel corso della sua trasmissione su radio Deejay, Il Volo del Mattino, il conduttore si è scagliato contro l'ex ministro dell'Interno. Motivo scatenante il gesto di Salvini che citofona a casa di un tunisino a Bologna chiedendo se fosse uno spacciatore. Fabio Volo non usa giri di parole: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Lo sfogo ha raccolto l'approvazione del popolo di Twitter che ha apprezzato la dura presa di posizione del conduttore di Radio Deejay. Ma già nella serata di ieri era montata la protesta contro il leader della Lega. Il primo ad accusarlo il sindaco di Bologna Virginio Merola su Facebook: «Io credo che si debba vergognare, caro Salvini. Lei non è un cittadino qualunque. Ha fatto il ministro dell'interno, come mai in quel caso non ha avuto lo stesso interesse? Forse perché adesso è solo propaganda e si comporta da irresponsabile per qualche voto in più». Contro Salvini si era espressa anche il sottosegretario di Stato al Ministero dello Sviluppo Economico Alessia Morani: «Ecco il video di #Salvini che suona al campanello di una casa a #Bologna chiedendo se li abita uno spacciatore. Fa anche il nome. Poi chiede: è tunisino? È un cialtrone, un provocatore pericoloso. Ha passato ogni limite. Sta cercando l’incidente, è evidente. Guardate voi stessi». Questa mattina l'ex ministro ha voluto spiegare i motivi del gesto. «Abbiamo segnalato a chi di dovere che là c'è chi spaccia droga. C'è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato una proposta di Droga zero, perchè droga è morte». Ha affermato Matteo Salvini in collegamento con Mattino 5, tornando sulla sua scelta di citofonare, ieri sera, a casa di un presunto spacciatore, nel quartiere Pilastro. «Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa. Quando una mamma mi chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante - conclude - protesta».
Linus si scusa per l'attacco di Fabio Volo a Salvini: "Parole condivisibili ma ha sbagliato i toni". Dopo le dure critiche di Fabio Volo a Matteo Salvini in diretta radiofonica, il direttore di radio Deejay ha pubblicato sui social un messaggio di scuse agli ascoltatori pur condividendo il punto di vista di Volo. Novella Toloni, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Non si smorza la polemica intorno a Fabio Volo dopo le pesanti affermazioni rivolte dallo speaker radiofonico a Matteo Salvini. L'attacco frontale al leader della Lega per aver citofonato a un privato accusato di spaccio di droga a Bologna ha diviso il popolo social ma anche scatenato una reazione interna all'azienda per cui lavora. A poche ore dalle sue dichiarazioni fatte nel corso del suo programma mattutino, il direttore di radio Deejay, Linus, è intervenuto per smorzare i toni della polemica, ma soprattutto per chiedere scusa agli ascoltatori per i toni usati dal bresciano. Pasquale Di Molfetta, noto come dj Linus, ha bacchettato pubblicamente il suo speaker parlando di "comizio scomposto" e confermando che Fabio Volo non era autorizzato a fare dichiarazioni simili in radio. Con un post pubblicato sulla sua pagina Instagram, Linus ha così detto la sua sulla vicenda: "Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. [...] Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa". Linus ha però ribadito che l'opinione espressa da Volo sull'azione di Matteo Salvini a Bologna è "condivisibile", ma sbagliata nei toni, per questo ha chiesto scusa: "Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere". Il direttore di radio Deejay, alla fine del post, non ha risparmiato una stoccata finale a chi accusa la radio di essere di sinistra: "Il mio "padrone" da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete".
Simone Pierini per leggo.it il 23 gennaio 2020. Il "capo" bacchetta il "suo ragazzo". Linus, direttore artistico di Radio Deejay, se la prende con Fabio Volo per le parole usate, il modo e il tema affrontato ieri mattina durante la sua trasmissione "Il Volo del Mattino". «Non era autorizzato, mi scuso a nome di Radio Deejay», dice Linus in un lungo post su Instagram dove spiega i motivi della strigliata a Fabio Volo che nei confronti di Matteo Salvini si era espresso così: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Il riferimento era chiaramente al gesto dell'ex ministro di citofonare a casa di una famiglia di origine tunisina colpevole, secondo Salvini, di spacciare droga nel quartiere Pilastro a Bologna. «Due parole sulla vicenda Volo / Salvini - scrive Linus su Instagram - Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa». «Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile - aggiunge il direttore artistico di Radio Deejay - da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere». «Una piccola cosa però ci tengo a precisare - conclude su Instagram - che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete».
IL POST SU INSTAGRAM SU LINUS SU FABIO VOLO E SALVINI. Due parole sulla vicenda Volo / Salvini. Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa. Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere. Una piccola cosa però ci tengo a precisare, che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete. Grazie
Da leggo.it il 23 gennaio 2020. Anche Fedez ha commentato il gesto di Matteo Salvini sotto la casa di un giovane tunisino, presunto spacciatore. Il video del leader della Lega al citofono è diventato virale e ha riempito le bacheche social. «Stamattina mi imbatto in questo video dove, in sostanza una signora dice al buon Salvini che il tipo del primo piano spaccia e lui decide di dare vita a questo teatrino», ha dichiarato su Instagram il cantante. Critici contro l'ex ministro degli Interni, anche altri personaggi dello spettacolo come Fabio Volo. «Sembra banale dirlo, ma in uno stato di diritto non dovrebbe essere la portinaia del condominio a dare l'etichetta di spacciatore. Il buon Matteo forse voleva vestire i panni del giustiziere, mi è sembrato più un testimone di Geova mancato», ha scritto nelle storie. «Questa scena è comica eppure non mi viene da ridere», aggiunge il marito di Chiara Ferragni, che accompagna il suo commento con lo screenshot di una foto in cui si vede Salvini che parla con il capo ultras del Milan, condannato per spaccio di droga. «Chissà se si sono conosciuti durante il tour dei citofoni», scrive Fedez sull'immagine.
Salvini ci ricasca, teatrino e gogna davanti negozio a Modena: “Qui dentro si spaccia”. Redazione de Il Riformista il 23 Gennaio 2020. Matteo Salvini ci ricasca. Il leader della Lega, impegnato nel tour elettorale per le Regionali in Emilia Romagna, ha ripetuto a Modena il teatrino messo in piedi già martedì sera a Bologna, quando ha citofonato ad una abitazione nella periferia del capoluogo cercando presunti spacciatori. Durante una diretta Facebook Salvini si è fatto indicare un esercizio commerciale dove, secondo i residenti della zona, in maggioranza mamme, si spaccerebbe droga. “Al civico 38 spacciano, non serve citofonare, l’hanno già chiuso. Ogni volta che posso dare una mano a mamme e persone che denunciano queste cose, io la do. La sinistra invece continua a non farlo nemmeno in Parlamento”, ha detto Salvini davanti ai microfoni e alle telecamere dei giornalisti. ”Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla procura e alle forze dell’ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché stando a residenti e commercianti qua dentro si spaccia la droga, chi spaccia deve stare in galera e non a passeggio per Modena”, ha aggiunto il leader del Carroccio.
IL CAPO DELLA POLIZIA CONTRO SALVINI – Una stoccata alla strategia mediatica di Salvini è arrivata al capo della Polizia Franco Gabrielli. A margine di un evento sulla sicurezza ha infatti commentato con durezza il gesto dell’ex ministro dell’Interno di citofonare a un presunto spacciatore a Bologna: “Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la Polizia in maniera indiscriminata”.
Salvini a Bologna fa un passo indietro: “Se il ragazzo è innocente avrà le mie scuse”. Laura Pellegrini il 24/01/2020 su Notizie.it. Matteo Salvini fa un passo indietro sul caso della citofonata al 17enne tunisino di Bologna: potrebbero arrivare delle scuse al giovane. Il leader della Lega fa marcia indietro sul caso del 17enne tunisino di Bologna: dopo le polemiche scoppiate per la citofonata, Salvini potrebbe porgere le sue scuse. Sul web continua a girare il video del leghista che chiede al 17enne: “Scusi lei spaccia?”, mentre il dibattito pubblico si divide. L’ex ministro, dunque, ospite ad Agorà su Rai 3 ha annunciato: “Avrà le mie scuse”, ma con una condizione. Si continua a parlare del blitz di Matteo Salvini nel quartiere di Pilastro, a Bologna: il leghista aveva citofonato a un ragazzo tunisino per chiedere se fosse uno spacciatore. Tra una polemica e l’altra, però, Salvini ha annunciato che potrebbe porgere le proprie scuse al ragazzo ma ad una condizione. Ospite ad Agorà, il leader del Carroccio ha ammesso le proprie responsabilità e si è detto pronto a fare un passo indietro. “Contro la droga non sono garantista, è morte – ha detto -. Se questo ragazzo non sarà ritenuto una spacciatore avrà le mie scuse”. Poi, però, il leghista ha proseguito: “In quel palazzo si spaccia. Punto. E non vado io a fare gli arresti. ma sono contento che l’Italia sappia che là si spaccia”. Nella giornata del 23 gennaio, inoltre, da Piacenza il leghista aveva dichiarato: “Adesso mi manca solo di essere denunciato da uno spacciatore e le ho viste tutte”. Tuttavia, ribadiva anche: “Sono orgoglioso di essere andato in una zona della periferia bolognese dove non vedevano un politico da anni a dare una mano a madri e padri nella loro lotta alla droga”. Il giovane tunisino di 17 anni, infatti, aveva dichiarato a Tpi: “Sono andato a denunciare. Non spaccio, non ho nessun precedente”.
Salvini al citofono, Maroni: “Questioni di campagna elettorale”. Veronica Caliandro il 24/01/2020 su Notizie.it. Maroni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. Ospite a Piazzapulita, Roberto Maroni ha espresso il proprio parere in merito al gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni regionali, l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader del Carroccio, fatta dopo la segnalazione di una signora del posto. Immediate le polemiche conseguenti a questa vicenda, con i vari esponenti politici che a loro volta hanno espresso il loro parere. Nella giornata di ieri ci ha pensato Giorgia Meloni, affermando che lei, al posto del leader leghista, non lo avrebbe fatto. A commentare la vicenda, oggi, ci ha pensato Roberto Maroni che, ospite a Piazzapulita ha affermato: “Io la lotta allo spaccio di droga e alla criminalità l’ho fatta con uno stile diverso, però l’importante è che si faccia. Salvini ha voluto sottolineare questo fatto e che se ne parli sempre avendolo fatto in campagna elettorale vuol dire che ha fatto una scelta che fa parlare. Giusta o sbagliata fa parlare… sono questioni di campagna elettorale“. Per poi aggiungere: “Io non l’avrei fatto”. Per quanto riguarda il caso Ferrara sollevato dal servizio del programma ha poi affermato: “La sensazione è che per la prima volta nella storia di quella regione, nella prima volta nella storia della sinistra ci sia un testa a testa che potrebbe determinare una sconfitta storica, come avvenne a Bologna per altri motivi. Perché là fu un errore della sinistra, qui invece sarebbe proprio un giudizio negativo sul governo. Un giudizio politicamente molto pesante che dovrebbe avere conseguenze sul governo, Naturalmente questa è la mia opinione”. Per poi aggiungere: “Salvini fa sei comizi al giorno: quello è lo stile che può portare alla vittoria. Se quello che ha fatto può avere rilevanza penale lo vedremo…”.
Blitz al citofono, azione squadrista di Salvini ma non è l’unico. Iuri Maria Prado il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quando un fatto di inciviltà irrompe sulla scena pubblica di questo Paese bisogna evitare accuratamente di far finta che si tratti del classico caso isolato, dell’eccezione additata a esempio di una perversione accidentale e minoritaria. O peggio: dare a intendere che che le involuzioni incivili del Paese siano il frutto di colpi di mano addebitabili a una parte cattiva, mente l’Italia democratica, l’Italia perbene, viva e resistente, soffre soltanto la pena inflitta da episodiche prevalenze di sentimenti estranei e maligni. Su queste contraffazioni si è retto tutto il corso democratico di un Paese – il nostro – inerte di fronte alle leggi razziali, e tra i padri della patria repubblicana stanno tutti quelli che hanno prestato giuramento di fedeltà al regime ventennale, mentre i tredici che non hanno giurato sono estromessi – et pour cause – da quel Pantheon balordo e mistificatorio. Tutto questo per dire che bisogna stare molto attenti quando, pur doverosamente, si denuncia il fatto di squadrismo di cui si è reso responsabile il senatore Matteo Salvini, che, ripreso dalle telecamere, a capo di un codazzo di cittadini inferociti, si è attaccato al citofono di un abitante di un quartiere bolognese per chiedergli se è vero che spaccia stupefacenti. E’ un fatto di gravità incommensurabile, perché a presidio del rispetto della legge dovrebbero esserci le forze dell’ordine, non i parlamentari-agitatori che si mettono alla guida di ronde che vogliono processare sotto casa il “tunisino” di turno. Ma, per favore, evitiamo di contrassegnare la faccenda come se fosse la dimostrazione che l’Italia è un bel Belpaese incomprensibilmente esposto a un imprevedibile ed esclusivo vento, come si dice, “di destra”. Il capo leghista che minaccia di ruspa la zingaraccia non è diverso, manco d’un grammo, rispetto al democratico Walter Veltroni che dice che Roma era una città sicura finché non l’hanno invasa i romeni, e il ministro diessino che vanta il calo degli sbarchi grazie all’inconfessata politica di finanziamento dei lager libici, giustificata dal pericolo di smottamento democratico del Paese, non è migliore del leghista truce che li vuole tutti respinti perché prima vengono gli italiani. Il razzismo, lo Stato di diritto violentato, la maniera spiccia della giustizia, non sono in questo Paese denunciati per quello che sono e a prescindere da chi sia responsabile di queste violazioni: ma secondo che a rendersene responsabile sia l’uno o l’altro, con lo sfregio, con lo scempio, con l’insulto civile che si giustifica perché, alternativamente, difende il confine italiano della Padania allargata o la democrazzia con due zeta del circolo progressista. I commenti sui giornali di domani (oggi, per chi legge) ce li immaginiamo, con gli editorialisti giudiziosamente democratici a spiegarci che i tunisini spacciatori, in effetti, bisogna arrestarli senza tante storie ma deve pensarci la magistratura combattente, non il leghista sostituito al governo dalla lungimirante sinistra che si toglie il cappello davanti all’avvocato del popolo, quello che non è più un mascalzone per i decreti sicurezza e l’abolizione della prescrizione approvati in gialloverde, e anzi diventa uno statista quando si tratta di mantenerli, uguali uguali, in maggioranza giallorossa. O come al tempo delle proposte di “segnalazione” del Movimento 5 Stelle, poco più di un anno fa, quando i capi grillini istituivano un sistema di denuncia dei responsabili di comportamenti “che non rispettano i principi che stanno alla base del Movimento”, il partito dell’onestà per via di delazione. Una iniziativa che spiegava molto bene quale fosse il concetto di ordine sociale e di convivenza civile coltivato da quella pericolosa schiatta di analfabeti. Era l’immagine dello Stato che ci propongono, della società che ci offrono, dell’ordinamento civile che ci promettono: l’immagine riflessa del loro Movimento. E nessuno a dirne nulla. Per cui: piano, piano. Quel che ha fatto l’altra sera Salvini (tra l’altro con giornalisti al seguito, tutti zitti) merita ogni censura. E’ una cosa che fa vergogna, e non si capisce come anche solo quell’iniziativa di sostanziale istigazione al linciaggio possa non revocare gli intendimenti di voto di chi ancora oggi si affiderebbe al potere di governo di quel signore. Ma l’alternativa a quelli che oggi gli si oppongono sta in gente che considererebbe perfettamente legittimo citofonare al presunto corrotto piuttosto che al nordafricano: a telecamere aperte e sulla cima di un analogo corteo di italiani perbene. E non che si tratti di un’ipotesi, perché la pratica di fare picchetti davanti al portone di casa del mascalzone di turno per esporlo alla giustizia di piazza – sia il furbetto del cartellino, sia il politico indagato, sia l’extracomunitario che ruba l’alloggio ai figli della Nazione, sia l’imprenditore corrotto – costituisce qui da noi una tradizione ben diffusa a destra e a manca. E a fronteggiarsi sono due opposte ma identiche pretese di forca, due politiche e due giornalismi uniti nell’identico disprezzo per i diritti della persona.
Vittorio Sgarbi: "Fabio Volo non ha capito il gesto di Salvini, occhio che un giorno non suoni suo citofono". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Vittorio Sgarbi le suona a Fabio Volo che ha sfidato Matteo Salvini invitandolo ad andare "a suonare il campanello di un camorrista". Una "irritazione incomprensibile", sbotta il critico d'arte. Volo "sopravvaluta o sottovaluta Salvini. Si tratta di colpi di teatro e di provocazioni. D'altra parte se Volo avesse un figlio di cui si può identificare il pusher, dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo. Questo ha voluto dire, con il suo gesto, Salvini, avendo anche il vantaggio di seguire una pista che lo portava verso un presunto spacciatore tunisino". Volo, continua Sgarbi, "non ha pensato che Salvini è candidato anche in Calabria e presto lo sarà in Campania. Nessun dubbio che risponderà positivamente alla sfida di Volo e andrà, con molti sostenitori, a suonare il campanello di un pusher della camorra o della 'ndrangheta. Ne sono certo". E conclude: "Vorrà insistere Volo fino a che punto arriva Salvini? Non è detto che un giorno non suoni anche il suo campanello. Con molti auguri".
Blitz di Salvini al citofono, Giorgia Meloni: “Io non lo avrei fatto”. Veronica Caliandro il 22/01/2020 su Notizie.it. Giorgia Meloni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni, che si svolgeranno domenica 26 gennaio, Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader leghista, fatta dopo la segnalazione da parte di una signora del posto, scatenando un bel po’ di polemiche, come ad esempio quelle di Fabio Volo. A prendere le distanze dal gesto del leader leghista anche Giorgia Meloni. Ospite a Stasera Italia su Rete 4, infatti, la Meloni ha a commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno, affermando che lei non lo avrebbe mai fatto. In particolare ha affermato: “È sicuramente una mossa forte, di quelle a cui lui ci ha abituato; credo volesse dare voce a un problema diffuso nelle periferie, di fronte al quale la gente si sente lasciata sola. Lo spaccio è sostanzialmente impunito in Italia”. Per poi aggiungere: “Il dubbio che ho è che quando sei una persona in vista il rischio emulazione potrebbe non essere controllabile. Io non lo avrei fatto, ma non lo trovo così incredibile”. Dichiarazioni, quella della leader di Fratelli d’Italia, che dimostrano una linea di pensiero diversa da quella di Salvini, volta a mettere ben in evidenza le differenze tra i due partiti. D’altronde, come dichiarato poco tempo fa dalla stessa Meloni a Lucia Annunziata su Rai Tre: “ Noi, dico proprio il centrodestra diciamo che quello che prende più voti all’interno della coalizione è il leader del centrodestra. Salvini l’ultima volta ha vinto quella competizione. La prossima volta vediamo chi le vince”.
Salvini suona al citofono a Bologna. Seguendo le indicazioni di una donna del quartiere, il leader della Lega si è recato sotto il campanello di una palazzina per suonare a quello della famiglia accusata di essere spacciatrice di droga. “Buonasera. Lei è al primo piano? Ci può far entrare cortesemente? Perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole e volevano che lei la smentisse, ci hanno detto che da lei parte lo spaccio del quartiere. Giusto o sbagliato?”. Così ha chiesto alla persona che si è palesata dall’altra parte del citofono, che ha però attaccato e non ha risposto alla sua richiesta. Imperterrito ha provato a farlo una seconda e una terza volta fino a che la medesima persona non è tornata al citofono. Intanto la signora gli aveva spiegato che a spacciare erano due membri della famiglia: il padre e il figlio. Salvini ha dunque chiesto al cittadino se potesse farlo entrare per verificare se sia vero ciò che dicono i cittadini, ovvero che da lui e da suo padre provenga parte dello spaccio del quartiere. Dall’altra parte qualcuno ha però risposto che il padre non si trovava in casa al momento ma a lavorare e ha di nuovo riattaccato. Il leader leghista ha assicurato ai cittadini di aver intenzione di seguire il caso segnalando l’episodio alle forze dell’ordine, anche se “loro lo sanno, il problema è che vengono rilasciati dopo un quarto d’ora“. A chi gli ha chiesto a che titolo avesse suonato quel citofono, lui ha risposto di averlo fatto in qualità di cittadino.
Il sondaggio di Alessandra Ghisleri, così l’Italia si scopre antisemita: “Gli ebrei hanno troppo potere”. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Secondo un sondaggio della Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, pubblicato sulla Stampa in edicola martedì 14 maggio, l' 1,3 per cento degli italiani pensa che la Shoah sia una leggenda inventata. L' 1,3 per cento potrebbe essere una percentuale fisiologica di imbecilli totali, scrive Mattia Feltri, e tuttavia corrisponde a circa 700 mila italiani maggiorenni - più o meno la popolazione di Palermo, quasi quella di Torino - convinti che Hitler non abbia torto un capello agli ebrei. Un altro dieci e mezzo per cento si limita a sostenere che il terribile consuntivo (sei milioni di ebrei ammazzati) sia stato fortemente esagerato dalla storiografia. Il 6,1 per cento si dichiara "poco favorevole" o "non favorevole" alla religione ebraica. Il 14 per cento degli intervistati ritiene che i palestinesi siano vittime di un genocidio da parte di Israele, l' 11,6 che gli ebrei dispongano di un soverchio potere economico-finanziario internazionale, il 10,7 che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, l' 8,4 che si ritengano superiori agli altri, il 5,8 che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. La sequela di pregiudizi dimostra che la percentuale di aperti antisemiti (6,1 per cento) è molto al di sotto degli antisemiti inconsapevoli, o malamente mascherati. E Alessandra Ghisleri invita a leggere bene i numeri. Intanto l' 1,3 per cento di negazionisti "non è alto, ma mi aspettavo lo 0,2 o lo 0,3, qualcosa del genere". Poi, aggiunge, è impressionante che fra i dichiaratamente antisemiti il 49 per cento abbondante accusi gli ebrei di strapotere finanziario e quasi il 47 di sentirsi una razza superiore, e cioè le pietre angolari su cui il nazismo costruì la sua propaganda.
Piero Sansonetti ad Agorà provoca Augusta Montaruli, la meloniana lo zittisce: "Non sono razzista anti rom". Libero Quotidiano il 17 Gennaio 2020. Piero Sansonetti, ospite di Serena Bortone, ad Agorà su Rai tre, commenta il Convegno sull'antisemitismo di Matteo Salvini: "Mi piacerebbe che la Lega facesse anche un convegno in cui dicesse che la discriminazione dei rom è un'ignominia, allora lo voterei pure". Il direttore del Riformista tenta poi di provocare Augusta Montaruli, di Fratelli d'Italia, che è in collegamento. Sansonetti le chiede se si impegna a "combattere il razzismo anti-rom". Ma la meloniana non cade nella trappola: "Io non sono una razzista anti-rom e quindi non ho nessun problema purché si possa dire liberamente che per esempio determinati atteggiamenti dei rom nei nostri campi nomadi che vengono perennemente distrutti non mi sia precluso".
Daniel Mosseri per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2020. Una mano aperta con scritto "Stop this story!". È partita in queste ore sui social una nuova campagna contro l' antisemitismo. È stata lanciata da Moshe Kantor, presidente dello European Jewish Congress e ha raccolto l' appoggio fra gli altri del presidente israeliano Reuven Rivlin, dell'attrice britannica Vanessa Kirby (la principessa Margaret nella popolare serie "The Crown" su Netflix), e del cestista Nba Omri Casspi. L'iniziativa, la prima del suo genere a utilizzare su Instagram gli effetti della realtà aumentata, è stata pensata in vista del Quinto forum mondiale sull' Olocausto in programma a Gerusalemme il prossimo 23 gennaio. In quella data, 45 capi di stato e di governo si incontreranno presso lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah, per ricordare il 75esimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. E poiché il ricordo non basta, i 45 leader globali cercheranno nuove strade per combattere il pregiudizio antiebraico. Anche la supermodella israeliana Bar Refaeli si attivata online per combattere l' antisemitismo. Meno fortuna, invece, ha avuto la sua collega e connazionale Arbel Kynan che dell' odio per lo stato ebraico è rimasta vittima. È stata la stessa mannequin a raccontarlo su Instagram. «Qualche giorno fa sono arrivata a Parigi per essere fotografata per un' azienda di moda molto rinomata che partecipa anche alla settimana della Haute Couture. Prima del mio arrivo a Parigi mi hanno detto che sarebbero stati felici di avermi alla sfilata». Tutto bene, dunque? No. Allo shooting le è stato chiesto da dove venisse, «Da Tel Aviv», ha risposto la bella Arbel. Giorni dopo ha ricevuto una mail dal suo agente: «Il cliente è libanese e non vuole modelle israeliane». Un no secco come succede spesso anche nel campo dello sport, con tanti saluti alla campagna contro il razzismo e l' antisemitismo. Un atteggiamento in linea con l' imminente ondata di ipocrisia legata ad Auschwitz da parte di chi piangerà gli ebrei morti continuando a odiare quelli vivi.
"Esclusi dalla discoteca perché sono di colore" La denuncia di Muccino. Denuncia social per Gabriele Muccino, che accusa una discoteca del ravennate di razzismo per non aver fatto entrare gli amici di suo figlio solo perché di colore. Francesca Galici, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Gabriele Muccino utilizza spesso i social per comunicare con i suoi tantissimi ammiratori ma stavolta ha deciso di sfruttare la potenza di Facebook per una denuncia. L'attore ha mosso gravi accuse di razzismo nei confronti di un locale del ravennate per presunti comportamenti irrispettosi nei confronti di suo figlio e degli amici. "Ieri sera mio figlio è andato con due amici di colore nel locale #Hof di Ravenna Porto Fuori. Si è sentito dire sia dal buttafuori che da un addetto al locale che lui poteva entrare ma gli amici no", esordisce il regista, rivelando una fatto sgradevole che sarebbe accaduto nel noto locale della Riviera Romagnola. Stando al racconto dell'uomo, i ragazzi avrebbero comunque aspettato un po' fuori dal locale, in attesa che qualcosa si sbloccasse per riuscire a entrare e fare serata con i loro coetanei. Ma nonostante tutto così non è stato: "Dopo oltre un'ora di attesa, alla domanda Perché?, è stato risposto: Perché loro sono neri e fanno casino." Una risposta che ha fatto indignare Gabriele Muccino, che ha quindi deciso di rendere pubblico quanto avvenuto. "Stiamo sconfinando nell'#Apartheid", ha concluso il regista. Al momento il locale chiamato in causa non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione in merito alle parole di Gabriele Muccino, che non ha avuto remore nel nominarlo. Molti sono stati i commenti sotto il suo post anche da parte di persone che vivono da tanti anni la vita notturna della Riviera Romagnola e che hanno notato un profondo cambiamento. "Abito in Romagna... Giuro che è cambiata tantissimo, peccato, davvero peccato. Mi spiace per i tre ragazzi", ha scritto una ragazza. Tra quelli che solidarizzano con il figlio di Gabriele Muccino e con i suoi amici c'è anche chi viole sottolineare una presunta contraddizione nella percezione delle notizie che ogni giorno vengono riportate dai media e dai social. "Ma bravi tutti non ho sentito un commento da parte vostra delle forze dell'ordine aggredite a Napoli da dei ragazzini", ha scritto un ragazzo in riferimento a uno dei fatti di cronaca più noti degli ultimi giorni. C'è anche chi cerca di ridimensionare la gravità di quanto accaduto a Ravenna, riportando un racconto di vita vissuta che, in qualche modo, si collega all'episodio discriminatorio raccontato da Gabriele Muccino: "A mia sorella durante un colloquio di lavoro 2 donne e 2 uomini, si è sentita rispondere che avrebbero preso gli uomini perché poi le donne rimangono incinte... Quindi meno problemi." Il post del regista racconta uno spaccato dell'Italia attuale ma è anche scorrendo i commenti dei seguaci di Muccino che ci si può fare un'idea del Paese di oggi. Non è detto che il locale decida di rispondere al regista o se preferisca la via del silenzio e del basso profilo ma il racconto di Gabriele Muccino muove accuse ben precise che difficilmente possono essere ignorate.
Fiorentina-Atalanta, Gasperini e gli insulti dei tifosi viola: «Mia madre ha fatto la guerra per dare il diritto di parola a questi deficienti». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Bocci. «L’atteggiamento del pubblico viola verso di me? Io non ho mai insultato nessuno. Oggi ero carico al massimo per la mia squadra ma mi sono preso più volte di figlio di p... Mia madre ha fatto la guerra per dare diritto di parola a questi deficienti. Loro sì che sono figli di p... Si tratta di maleducazione e cafonaggine, oltre che di un insulto pesante da affrontare». Lo ha detto il tecnico dell’Atalanta, Gian Piero Gasperini, in conferenza stampa al termine della gara di Coppa Italia disputata al Franchi e persa 2-1 contro la Fiorentina. Durante la partita Gasperini è stato preso più volte di mira dai tifosi viola: i rapporti, anche in precedenza erano tesi, con Gasperini che aveva in passato criticato Federico Chiesa. Per l’allenatore dell’Atalanta si tratta di un «insulto pesante da accettare».
Atalanta, Gasperini furioso: "Figli di puttana saranno i tifosi della Fiorentina". Alcuni tifosi della Fiorentina hanno insultato Gasperini che ha risposto per le rime: "I figli di p... saranno loro, mia madre ha fatto la guerra per dare la libertà e parola a quei deficienti". Marco Gentile, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. L'Atalanta di Gian Piero Gasperini non ce l'ha fatta, inaspettatamente, a passare il turno di Coppa Italia contro la Fiorentina di Giuseppe Iachini che ha sfoderato la prestazione della vita, la migliore stagionale, ed ha così staccato il pass per i quarti di finale dove ora affronterà l'Inter di Antonio Conte che ieri sera ha battuto per 4-1 il Cagliari di Rolando Maran. La partita del Franchi è stata equilibrata e tirata dal primo all'ultimo minuto con gli ultimi 25 minuti più recupero che sono diventati incandescenti per via dell'espulsione per doppia ammonizione del capitano viola German Pezzella. Il difensore argentino, infatti, nel tentativo di conquistarsi un calcio di rigore sul risultato di 1-1 è caduto in area senza subire però il contatto di Ilicic con l'arbitro Manganiello che ha estratto il secondo giallo e conseguente cartellino rosso.
Parole di fuoco. La Fiorentina nonostante l'inferiorità numerica ha tenuto botta e ha addirittura piazzato il colpo del ko con Lirola a sette minuti dal novantesimo con un Gian Piero Gasperini furioso in panchina per la sconfitta maturata che estromette così i nerazzurri dalla coppa nazionale. Il finale di partita è stato caldo, molto caldo con i tifosi della Fiorentina che hanno a più riprese insultato il tecnico dell'Atalanta che in conferenza stampa ha risposto per le rime: "Gli insulti dei tifosi avversari? I figli di p... saranno loro, mia madre ha fatto la guerra per dare la libertà e la parola a quei deficienti che mi hanno insultato. Io non ho mai insultato nessuno, questo è un insulto che va al di là dello sport".
Favola nerazzura. Gasperini ha poi ammesso di essere amareggiato per essere uscito anzitempo dalla Coppa Italia: "Uscire in questo modo ci dispiace, avevamo creato i presupposti per superare il turno anche in una giornata di difficoltà". L'ex allenatore di Inter e Genoa ha però guardato il bicchiere mezzo pieno: "A fine andata siamo quarti, è una posizione fantastica per noi e credo che potremo ripeterci. La Champions è una ciliegina a parte". Infine, il tecnico di Pinerolo ha parlato della "favola Atalanta" che è ormai diventata una certezza sia in Italia che in Europa con la Dea che giocherà gli ottavi di finale di Champions League. Gasperini ci ha tenuto a dividere i meriti con tutti: "Mi danno tantissimi meriti, ma vanno distribuiti anche con società, ambiente e giocatori. Oggi ci deve insegnare che dobbiamo sempre essere al meglio delle nostre possibilità, altrimenti anche quando hai la sensazione di averne di più puoi uscire”.
Nicola Occhipinti per la Gazzetta dello Sport il 16 gennaio 2020. Siamo tutti neri. Tutti omosessuali, minatori e immigrati. Quando vogliamo fare sentire la nostra solidarietà a qualcuno, identificarci con lui, o perlomeno tentare di farlo con sincerità, è il gesto più forte che possiamo mettere in campo. Allora, per una volta sentiamoci anche un po' figli di puttana. Ieri a Firenze l' allenatore della Fiorentina Gian Piero Gasperini è stato reiteratamente insultato dai tifosi viola, che per una buona parte della partita di Coppa Italia contro l' Atalanta gli hanno dedicato una canzone dal ritornello sempre uguale. La stessa sorte, sempre nello stadio di Firenze, era toccata ad Antonio Conte lo scorso dicembre perché non sfuggissero a nessuno i suoi trascorsi juventini. E una sorte simile tocca prima o poi a tutti i giocatori che calcano gli stadi della Serie A. Perché offendere la mamma dell' allenatore avversario attribuendole una professione infamante deve essere meno odioso che offendere un giocatore africano facendogli buu? Il razzismo dilagante (negli stadi italiani non ci facciamo mancare niente) è un fenomeno allarmante, una piaga che ci riporta a uomini malvagi e a un passato che vorremmo non incontrare più. Ma non è il caso, a costo di passare per perbenisti, di prendere provvedimenti contro chi offende reiteratamente con cori organizzati la dignità delle persone? L' insulto negli stadi si è sempre sentito a casa. I cori che offendono giocatori, arbitri e tifosi rivali esistono da prima del calcio. Ed entro certi limiti si possono anche considerare facenti parte dello show. Ma una battaglia contro le offese pesanti, con le opportune distinzioni e sanzioni, darebbe anche alla lotta al razzismo un contesto migliore per essere efficace. In campo e sulle tribune tutti, bianchi e neri, slavi ed ex juventini, sarebbero tutelati nella loro dignità. L' America e altri Paesi ci hanno insegnato che un altro modo di tifare è possibile. Incoraggiando la propria squadra e non umiliando quella rivale. Anche facendosi scherno dei rivali, ma senza insultare la mamma di nessuno. In tempi di eccessi di atteggiamenti e parole politically correct che ogni tanto ci fanno perdere di vista il senso di quello che vorrebbero tutelare, a questa battaglia di civiltà non vorremmo rinunciare.
Fiorentina-Atalanta, Commisso replica a Gasperini: ''Tifosi viola vanno rispettati''. Il patron viola sullo sfogo del tecnico: ''Ognuno dovrebbe guardare in casa propria". Percassi: ''Partita andava sospesa, al Franchi è stato toccato il fondo". La Repubblica il 16 gennaio 2020. La replica della Fiorentina non si è fatta attendere. Lo sfogo di Gasperini nel post partita della sfida di coppa Italia tra i viola e l'Atalanta - partita che ha visto la squadra di Iachini vincere 2-1 e qualificarsi per i quarti - non è andato giù al patron viola Rocco Commisso. "Dagli spalti mi hanno gridato figlio di p... più volte - ha detto l'allenatore dei bergamaschi -. Lo saranno loro, mia madre ha fatto la guerra. Non accetto questi insulti, questa è una cosa esagerata che va al di là del calcio, un fatto di maleducazione e cafonaggine, un insulto pesante da accettare". Parole a cui Commisso ha replicato con una nota affidata ai canali social del club: "Ho letto e sentito parole molto dure e offensive nei confronti dei tifosi della Fiorentina sia da parte di Gasperini che del presidente Percassi. Prima di parlare dei tifosi delle altre squadre e della nostra in particolare penso sia doveroso guardare cosa succede in casa propria. I tifosi della Fiorentina vanno rispettati" dice Commisso. "Mi hanno raccontato che dopo le dichiarazioni di Gasperini a suo tempo contro Chiesa il nostro giocatore a Bergamo è stato insultato per tutta la partita. Quest'anno a Parma, in campionato contro l'Atalanta, mio figlio e Joe Barone sono stati insultati e anche minacciati in tribuna, ma nessuno ha detto o fatto nulla se non scaricare la colpa al personale di servizio. E ricordo anche il brutto episodio dei cori razzisti contro Dalbert. I commenti in casa Atalanta - ha evidenziato Commisso - non sono stati di forte condanna. Io concludo dicendo che al figlio di Percassi ho dato la nostra massima ospitalità e sono rimasto a parlare con lui per diverso tempo". A prendere le difese di Gasperini è stato lo stesso patron della 'Dea', Antonio Percassi. "Gasperini al Franchi è stato il bersaglio di cori disgustosi, incivili, insopportabili. Una cosa indecente, andata avanti per tutta la partita e chiaramente ascoltata in tv, a più riprese. Tutto questo è assolutamente vergognoso. L'arbitro doveva sospendere la partita, come accade quando dagli spalti si levano ululati razzisti. Se fosse successo a Bergamo, immagino che cosa si sarebbe detto di Bergamo e dei bergamaschi. Le parole di Gasperini nel post gara? Ha reagito nel modo giusto. L'Atalanta è al suo fianco. Al Franchi è stato toccato il fondo", ha concluso Percassi.
Scuola romana divide gli studenti, la descrizione sul sito web: “Qui i figli dei ricchi, lì quelli delle colf”. Redazione de Il Riformista il 15 Gennaio 2020. Una scuola che divide i suoi studenti in base al censo, ‘fiera’ di descrivere la discriminazione e ghettizzazione di ragazzi e ragazze sul suo stesso sito ufficiale. Succede a Roma, all’Istituto Comprensivo “Via Trionfale” composto da quattro plessi nei Municipi XIV e XV della Capitale. Online si può infatti leggere che “la sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alta”, mentre “il Plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana”. Infine la precisazione sul plesso di via Vallombrosa, con l’istituto che ricorda sul web come accolga “prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)”.
I PRESIDI PRENDONO LE DISTANZE – Una descrizione allucinante, che ha generato una polemica fortissima. A prendere le distanze sono stati gli stessi presidi scolastici. “La scuola è un luogo educativo ed inclusivo, no a forme di categorizzazioni superficiali e inutili” sottolinea Mario Rusconi, presidente dell’ANP-Lazio. “La scuola non può evidenziare eventuali differenziazioni socio-culturali degli alunni iscritti poiché, tra l’altro, oltre a dare una cattiva rappresentazione di sé stessa agli occhi di chi legge corre anche il rischio di originare idee o forme classiste”, ha precisato Rusconi.
LA RABBIA DEL MINISTRO AZZOLINA – Sul caso è intervenuto anche il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina: “La scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione. Descrivere e pubblicare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso. Mi auguro che l’istituto romano di cui ci racconta oggi Leggo possa dare motivate ragioni di questa scelta. Che comunque non condivido”, ha scritto su Facebook.
IL PASSO INDIETRO DELL’ISTITUTO – Dopo la bufera per le accuse di discriminazione e classismo, il Consiglio di Istituto dell’Ic di Via Trionfale è intervenuto precisando che non c’era intenti di questo tipo, solamente una “mera descrizione socio economica del territorio”. L’istituto ha inoltre sottolineato di aver proceduto ad “una modifica perché siano rimosse le definizioni interpretate in maniera discriminatoria”.
Roma, scuola si presenta: «Qui la borghesia, là il ceto medio-basso». Il ministro Azzolina: «Scelta assurda». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. L’autopresentazione sul sito di un istituto di Roma: «Nell’altro plesso più stranieri». La ministra: assurdo. Ma la preside aveva portato avanti la battaglia per la scuola multietnica. «Nella scuola di via Vallombrosa, a Roma, ci studiano i figli delle badanti, precisamente delle badanti dell’alta borghesia romana che vive in via Cortina d’Ampezzo»: è la dettagliata descrizione degli alunni dell’Istituto comprensivo di via Trionfale rilanciata su Leggo». In pratica sul sito della scuola, alla voce presentazione, si viene a sapere nel dettaglio a quale classe sociale appartengono i bambini che frequentano le singole sedi della scuola. L’autopresentazione della scuola: «La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana». Sul plesso di via Vallombrosa si va ancora più a fondo: «Il plesso sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)». «Sono davvero sconcertato che nel 2020 una scuola pubblica possa presentarsi sul proprio sito internet distinguendo i propri plessi in base al rango socio-economico dei propri alunni andando contro ogni valore espresso dalla nostra Costituzione. Sto già intervenendo per richiederne l’immediata rimozione dal sito web»: è la reazione del sottosegretario all’Istruzione Peppe De Cristofaro. Interviene anche il presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma e del Lazio Mario Rusconi: «Quello dell’Istituto comprensivo “Via Trionfale” e’ un messaggio secondo cui esisterebbero classi di serie a e classi di serie b. Si mette in risalto il concetto che da una parte si fa una vera formazione e dall’altra una meno intensa e questo lo ritengo profondamente sbagliato. La scuola deve essere inclusiva e l’inclusione funziona meglio quando le classi sono disomogenee». «La scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione. Descrivere e pubblicare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso. Mi auguro che l’istituto romano di cui ci racconta oggi @leggoit possa dare motivate ragioni di questa scelta. Che comunque non condivido» è il commento su Twitter del ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina.
Via Trionfale, scuola nella bufera: chi è la preside accusata di essere classista. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. L’autopresentazione sul sito di un istituto di Roma: «Nell’altro plesso più stranieri». La ministra: assurdo. Ma la preside aveva portato avanti la battaglia per la scuola multietnica. Non è la prima volta che succede, e forse non sarà neanche l’ultima, vista l’abitudine delle scuole di presentarsi in maniera accattivante (e a volte maldestra): il liceo Visconti, con la sua introduzione per «studenti alto-borghesi e senza disabili», due anni fa creò un caso. Come quello scoppiato per la descrizione della scuola di via Trionfale: una relazione risalente al 2011 e che solo ieri, dopo la denuncia di Leggo e la durissima posizione della ministra Lucia Azzolina, è stata rimossa. «La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna — si leggeva nella auto-presentazione dell’istituto di Roma — accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana». Sul plesso di via Vallombrosa si andava ancora più a fondo: «Il plesso sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)». Una distinzione «in base al rango socio-economico dei propri alunni» che va «contro ogni valore espresso dalla nostra Costituzione», rileva il sottosegretario Peppe De Cristofaro. Incalza Azzolina: «Non ha senso, la scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione». Insistono i presidi: «C’è il rischio di originare idee o forme classiste». E il tentativo di rimediare la gaffe non risolve la questione. «I dati riportati nella presentazione della scuola, composta da quattro distinti plessi, in diversi contesti socio-culturali, sono da leggere come mera descrizione socio-economica del territorio, secondo le indicazioni del Miur per la redazione del Pof (piano di offerta formativa, ndr). L’istituto non ha mai posto in essere condotte discriminatorie nella ripartizione degli alunni nei diversi plessi o nelle diverse classi», si difende il consiglio di istituto. Dunque, tutta colpa delle indicazioni del Miur? Non sembra. Il Rav, il documento di autovalutazione della scuola, pubblicato su scuolainchiaro.it, elenca i punti di debolezza e di forza dell’istituto. Ma in maniera molto diversa. «Il contesto socio-economico è disomogeneo poiché il territorio di riferimento, che insiste su due Municipi, include fasce di popolazione appartenenti al ceto alto e zone in cui è elevata la presenza di famiglie di cittadinanza non italiana, socialmente svantaggiate. La percentuale di alunni con bisogni educativi speciali raggiunge il 9 % del totale della popolazione scolastica. L’analisi della presenza di alunni con cittadinanza non italiana rispetto al totale della popolazione dei singoli plessi rileva disomogeneità: Trionfale 30%, Assarotti 29%, Taverna 19%, Vallombrosa 7%. Per la scuola secondaria di primo grado (...) il 25% ». Una descrizione asettica. «Come ci si sarebbe aspettato da una preside come Nunzia Marciano, aperta al sociale», commenta Mario Rusconi, presidente dei presidi del Lazio. La 58enne, napoletana di origini ma romana di adozioni, è infatti nota come la preside battagliera che 11 anni fa reggeva la Carlo Pisacane, la scuola romana col 90% di studenti immigrati, che si attirò le critiche dell’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno (An), e provocò la circolare Gelmini per il tetto del 30% di immigrati in classe. Una dirigente lungimirante, che avrebbe voluto intitolare la Pisacane, che ospitava 24 etnie diverse, a Tsunesaburo Makiguchi e al suo modello ispirato alla pace e al rispetto reciproco. Ma le fu vietato.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2020. Nel presentare «online» le sue varie sedi in città, il consiglio d' istituto di una scuola elementare romana ha pensato bene di sottolinearne le differenze sociali. Qui ceto medio-alto, là medio-basso con abbondanza di stranieri, là ancora figli dell' alta borghesia mescolati alla prole dei loro dipendenti: badanti e colf. Una fotografia, ma dell' indicibile. Perché l' opuscolo di una scuola, tanto più di una scuola pubblica, tanto più di una scuola pubblica per bambini, dovrebbe illustrare le peculiarità dei suoi corsi e i talenti dei suoi insegnanti, non il reddito dei suoi alunni. Gli autori del pasticciaccio brutto di via Trionfale hanno giurato che le loro parole avevano un intento descrittivo e non discriminatorio: un genitore medio-basso potrà continuare a iscrivere suo figlio alla scuola dei medio-alti (e ci mancherebbe!). Ma il tema sollevato da questo caso riguarda qualcosa di molto più ampio. Riguarda il linguaggio e i valori che lo ispirano. Sappiamo che tanti genitori cercano di sistemare i figli nella scuola più omogenea al loro ambiente sociale, ma non possono essere i dirigenti della scuola pubblica a rammentarglielo per iscritto. La scuola pubblica è nata per consentire l'uguaglianza dei punti di partenza. Un' utopia, forse. Però è di questo genere di utopie che si nutre il lessico di una democrazia. Rinunciare non solo a perseguirle, ma ormai persino a nominarle, a qualcuno sembrerà un esercizio di realismo. Temo invece che assomigli a una resa.
La politica s’indigna per la scuola al Trionfale ma con lo ius soli non ci sarebbe disuguaglianza. Roberto Vicaretti il 17 gennaio 2020 su Il Dubbio. Gli “open days” ci rivelano una scuola pubblica debole e una società che teme le diversità e rifiuta il confronto. Il caso dell’Istituto comprensivo “Via Trionfale” di Roma? Non è un incidente, non è una gaffe. È il sintomo evidente di un progressivo indebolimento e snaturamento della scuola pubblica; è lo specchio di un’Italia spaccata, lacerata in frammenti di società incapaci di incontrarsi, confrontarsi e dialogare tra di loro; è, infine, il risultato negativo di scelte non fatte da una politica incapace di guardare oltre l’ultimo sondaggio. I fatti: siamo nella stagione degli “open days”, i giorni dell’anno in cui le nostre scuole si tirano a lucido in vista della prossima scadenza delle iscrizioni all’anno scolastico. L’istituto “Via Trionfale” si presenta: “La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio- alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio- bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana Il plesso di via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie, invece, prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie”. Potremmo cavarcela accusando l’istituto di classismo – accusa, peraltro, che non è sbiadita dopo il goffo tentativo di correzione -, ma, così facendo, non comprenderemmo a fondo ciò che quell’episodio ci dice. In primo luogo, il caso del “Via Trionfale” ci restituisce l’immagine di una scuola pubblica costretta a inseguire gli alunni e le loro famiglie come se fossero dei clienti e, di conseguenza, a farla agire come un supermercato per accaparrarsi il maggior numero di consumatori, meglio se abbienti. E così l’offerta “3×2”, il maxisconto, la grande occasione si traducono per la scuola nel presentarsi come il ritrovo dell’élite della città. Una logica di mercato, intrisa di liberismo, che ha iniettato nella scuola pubblica un modo di operare tipico delle scuole private, stravolgendo il dna e il senso stesso dell’istruzione pubblica.
Ma tutto questo non basterebbe a spiegare quell’assurda descrizione. La storia del “Via Trionfale” ci dice che se una scuola avverte il bisogno di presentare la propria offerta anche sulla base di quei parametri è perché cerca di rispondere a una domanda dei cittadini che anche in quella direzione si orienta. Dietro quelle parole ci sono una città, una società e un Paese che rifiutano il confronto, che scappano dalla diversità e che si industriano per bloccare – come se ce ne fosse bisogno – l’ascensore sociale. Le diseguaglianze, che la grande crisi ha acuito, hanno fratturato il Paese, divaricando ulteriormente le storie e i destini di chi sta meglio da quelli della parte della popolazione che ha più sofferto e più soffre. L’alta borghesia da un lato, il ceto popolare dall’altro ciascuno nel proprio mondo, divisi; ciascuno impegnato a salvarsi da solo. La solidarietà, il senso di destino comune del Paese finiti in fondo alla gerarchia dei valori. C’è, infine, un terzo elemento da considerare e che chiama in causa direttamente la politica. Illuminante in questo senso un passaggio di quella contestata presentazione quando, parlando della struttura di Monte Mario si evidenza che “conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana”. Ecco l’ultimo tassello: i bambini e i ragazzi, i loro diritti e la necessità di dare al Paese una nuova legge sulla cittadinanza. Se la scuola pubblica, che dovrebbe essere la culla dell’integrazione, diventa un luogo di discriminazione, di isolamento e separazione come può l’Italia di domani essere accogliente, equa e solidale? Lo ius soli o lo ius culturae sono la risposta o la chiave di volta per risolvere questa enorme sfida? No, ovviamente. O, comunque, non da soli. Eppure rappresenterebbero un primo passo capace di abbattere un’assurda diseguaglianza tra bambini e, allo stesso tempo, l’avvio di una svolta culturale. Se ci fosse stata nel nostro ordinamento un’altra legge sulla cittadinanza, quell’insopportabile frase che separa gli alunni di seria A da quelli serie B sulla base del Paese d’origine dei genitori non sarebbe stata scritta. E invece? E invece la politica non ha saputo e non sa dare la risposta che centinaia di migliaia di bambini, ragazzi e giovani attendono. La paura – e i numeri in Parlamento – hanno bloccato il centrosinistra nella precedente legislatura; la paura – e le ambiguità del Movimento 5Stelle e del suo leader – frenano oggi la maggioranza giallorossa. Il caso “Via Trionfale” ci dimostra che, anche su questo tema, è il momento di accelerare.
Firenze, la scuola su internet: «Da noi non sono presenti nomadi». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Gasperetti. La frase sull’assenza di studenti nomadi a scuola appare a pagina 3 del Rav, il rapporto di valutazione dell’istituto comprensivo «Masaccio», scuola appena fuori dal centro storico di Firenze. In poche righe si comunica a tutti (il documento è online e pubblico come prevedono le normative), che «il contesto socio economico della scuola e medio alto con un background familiare tendenzialmente alto». E si spiega che «si tratta per lo più di liberi professionisti, settore terziario e commercianti». Informando inoltre che «risulta infatti 0 la percentuale di genitori disoccupati in tutti gli ordini di scuola». Il rapporto sulla qualità della scuola prosegue poi spiegando che «l’incidenza di studenti con cittadinanza non italiana è di 51 alunni», dunque minimo. E infine letteralmente si scrive: «Non sono presenti studenti nomadi, risulta invece un esiguo numero di studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate». Una frase questa che, dopo essere stata pubblicata da un servizio della Nazione, sta provocando non poche polemiche. Non riuscendo a parlare con la dirigente scolastica o un suo sostituto della scuola, abbiamo interpellato il provveditore Roberto Curtolo. Che ci ha spiegato che la normativa nazionale prevede che si specifichi anche la presenza di eventuali ragazzi rom nell’istituto insieme anche ai riscontri del livello sociale degli iscritti. «Soltanto per prevedere un’offerta didattica mirata e positiva e certamente non discriminante», spiega il provveditore.
La scheda che compare sul sito della scuola. Ma non è discriminante indicare in un documento pubblico la presenza di ragazzi di particolari etnie in una scuola? «Sono personalmente dell’opinione che dovrebbero essere elaborati due documenti — risponde Curtolo —. Il primo, con tutte le statistiche previste dalle normative, interno alla scuola che ha l’obbligo di conoscere anche lo status sociale dei propri iscritti per programmare al meglio gli interventi didattici e pedagogici. Il secondo, privo di dati che possono essere mal interpretati, pubblico per garantire la trasparenza dell’istituto».
I rapporti shock degli Istituti: "In questa scuola niente rom". Dopo il caso scoppiato a Roma nord, emergono frasi choc nei rapporti di autovalutazione in alcune scuole della Toscana. Francesca Bernasconi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Contesti socio-economici alto o medio-alti, con famiglie di cultura elevata e una minima presenza di studenti stranieri. Sono alcune delle affermazioni che si leggono nei rapporti di autovalutazione pubblicati sui siti di alcuni Istituti scolastici e riportati dalla Nazione. E affiorano nuove frasi choc, dopo il caso che ha travolto un Istituto di Roma nord, che aveva messo nero su banco sul suo sito web la differenza tra alunni ricchi e poveri: "La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana", si leggeva. In Toscana, negli Istituti non emerge la divisione tra studenti appartenenti a famiglie ricche e povere, ma nei Rapporti di autovalutazione si fa riferimento al livello sociale e al reddito delle famiglie degli alunni. Sul documento della scuola secondaria di primo grado Masaccio di Firenze, riferito al periodo 2015-2016, viene spiegato che "il contesto socio economico è medio alto con un background familiare tendenzialmente alto: si tratta per lo più di liberi professionisti, settore terziario e commercianti". Ma la descrizione della scuola non si ferma qui e viene indicato un dato choc: "Non sono presenti studenti nomadi e risulta un esiguo numero di studenti provvedimenti da zone particolarmente svantaggiate". Anche dal Dino Compagni arrivano affermazioni che si riferiscono al reddito e si sottolinea che "gli alunni provengono per la maggior parte da un contesto socio economico di alto livello, con famiglie di cultura elevata". E, secondo quanto riferisce la Nazione, verrebbe anche indicato che gli alunni della fascia più elevata studiano "accanto ai ragazzi delle colf impiegate nelle belle case del quartiere". A Prato, invece, al Convitto Cicognini, la maggior parte degli studenti sarebbero "figli di professionisti" e la quantità degli alunni provenienti da famiglie svantaggiate sarebbe stata indicata come "molto bassa". Ma, accanto a questi esempi, in cui i rapporti difendono la presenza di alunni di ceto elevato, non mancano quelli positivi. Tra tutti, c'è l'Istituto di Posanicco, in provincia di Pisa dove, "l'incontro con diverse culture arricchisce gli alunni e li rende più consapevoli della dimensione sociale in cui sono inseriti". Dal 2015, le scuole devono compilare un rapporto di autoanalisi, compilando il Rav, Rapporto di autovalutazione fornito dal Ministero, che ha l'obiettivo di analizzare le caratteristiche peculiari delle scuole e individuarne i punti deboli, per migliorarli.
Da ilmattino.it l'11 gennaio 2020. «Salvini è venuto spesso a Napoli? Sarà venuto per assaggiare i friarielli, non per fare il ministro dell'Interno». Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, risponde così a chi gli fa presente le critiche di Matteo Salvini dopo le aggressioni che si sono verificate a Napoli al personale sanitario. «Di quel periodo, di quando era ministro, ricordo in particolare un tweet notturno - dice a LiraTv - E cioè questa sera broccoletti e radicchio. Questo era il messaggio che lanciava il ministro dell'Interno, non quanti agenti avrebbe mandato a Napoli o le iniziative di sicurezza come il posto di polizia all'ospedale San Giovanni Bosco, ma tweet gastronomici. È stato allora che ho capito cosa veniva a fare a Napoli». Comunque, aggiunge De Luca, «ho molta simpatia per Salvini». Il suo suggerimento? «Fai un comizio in meno e leggi l'Infinito di Leopardi, ti riconcilierai con la vita. Altro che tutta una vita persa in comizi. «n questo momento fa venti comizi al giorno in Emilia Romagna ma sta perdendo tempo perché perderà. I cittadini guardano i problemi concreti, non il sovranismo e le pippe».
“Infettano i nostri figli”, mamme buttano giocattoli di bimbo autistico. Ciro Cuozzo il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. Hanno gettato via i giocattoli che un bambino autistico utilizzava durante le ore di lezione perché erano “sporchi” e rappresentavano una “fonte di infezione” per i loro figli. A scoprirlo è stato lo stesso piccolo alunno, colto da una forte crisi per aver perso i suoi riferimenti nella classe che frequenta ogni giorno. L’episodio, riportato nel corso della trasmissione Barba e Capelli in onda su Radio Crc, è avvenuto questa mattina, venerdì 10 gennaio, nella scuola elementare Amanzi-Ranucci-Alfieri di Marano, comune a nord di Napoli. Protagoniste alcune mamme che hanno abusato del ruolo che si sono auto-assegnate all’interno dell’istituto scolastico, dove puliscono la classe dei figli perché la cooperativa incaricata, in mobilitazione da mesi per la riduzione delle ore lavorative, “non lo fa in modo adeguato, lasciando le aule sporche”. Un episodio che “ci lascia senza parole” ha commentato Flora Angellotti, consigliera comunale, componente della III commissione (Politiche Sociali, Pari Opportunità, Sport, Cultura, Beni Confiscati e Pubblica Istruzione), che ha già annunciato una campagna di sensibilizzazione sull’argomento: “Pensavamo che non ce ne fosse bisogno e invece l’episodio avvenuto alla Ranucci ci ha fatto capire che c’è ancora tanto da fare su questo argomento”. Intanto la dirigente scolastica Antonietta Guadagno si è impegnata a ricomprare i giocattoli che la scuola aveva già messo a disposizione del giovane alunno a inizio anno.
Offesi in pizzeria 5 ragazzi Down: «Non si può mangiare vicino a loro». Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it da Carlo Macrì. Ragazzi affetti dalla sindrome di Down derisi e apostrofati in pizzeria da tre clienti romani che hanno abbandonato il locale, infastiditi: «Non si può mangiare vicino a queste persone, ci viene il vomito». Questa storia non assomiglia affatto alla fiction «Ognuno e perfetto» la serie Rai dedicata ai ragazzi down. Tutt’altro. Quello che si è verificato a Filadelfia, piccolo comune del Vibonese, è una storia di degrado sociale che si ritorce contro chi perfetto non è. Cinque ragazzi affetti dalla sindrome di down, sono stati derisi e apostrofati in pizzeria da tre (signori?) romani che seduti vicini al loro tavolo in un locale del luogo, si sono lasciati andare a frasi come:«Non si può mangiare vicino a queste persone, ci viene il vomito». Poi quasi accusando il gestore di averli fatti entrare, hanno abbandonato il locale, infastiditi. A raccontare questa storia è Francesco Conidi che da anni guida l’associazione «Giovanni Gemelli» a Filadelfia. Si occupa assieme ad altre due figure di educatori, del reinserimento dei ragazzi nella società e del loro percorso educativo. Ogni settimana il gruppetto di ragazzi down si ritrova nei locali dell’associazione, dove sviluppano varie attività in piena autonomia, seguiti dallo psicologo e da un’assistente sociale sempre, comunque, con accanto le famiglie. Spesso dopo le attività si recano a mangiare la pizza e vengono fatti sedere da soli al tavolo, sempre osservati dagli educatori che stazionano molto vicini a loro, proprio per quel senso di autonomia necessaria che serve loro per il percorso formativo. Lunedì 23 dicembre il gruppetto di ragazzi down in età compresa tra i 20 e i 35 anni, si è recato in pizzeria, anche per festeggiare l’arrivo del Natale. Con loro c’erano lo stesso Conidi e anche la mamma di uno dei ragazzi. Hanno ordinato, chiacchieravano, mentre al tavolo vicino al loro, tre persone marito, moglie e figlia, alla vista dei ragazzi ha iniziato a dare segnali di inquietudine. Tanto che hanno «segnalato» la presenza dei ragazzi alla cameriera, quasi a voler dire: «Perché li avete fatti accomodare qui?». Ovviamente sia il gestore del locale che i lavoranti non hanno minimamente dato seguito a quelle lamentele. Quando già i ragazzi avevano già finito la pizza, mentre i tre avventori stavano consumando l’antipasto, la signora che Conidi sostiene potesse avere sui 70 anni, ha iniziato a inveire contro di loro, pronunciando la frase vergognosa: «Non si può mangiare ci viene il vomito. Capisco che sono malati, addirittura portali in pizzeria…. Bisognerebbe lasciarli a casa». E nel dire questo hanno lasciato il locale, pagando il conto. I ragazzi hanno avuto la solidarietà del proprietario del locale. Non solo. Anche il sindaco di Filadelfia Maurizio De Nisi il cui Comune sta portando avanti un’opera di reinserimento lavorativo dei ragazzi down si è fatto sentire: «È sconcertante prendere atto che alle soglie del 2020 a una persona possa essere negata la libertà di cenare con gli amici solo perché affetta da sindrome di down». Le tre persone che si sono rese protagoniste di questa triste vicenda non sarebbero di Filadelfia. Potrebbero essere del comprensorio ma, residenti a Roma. I carabinieri hanno avviato un’attività per cercare di identificarli. All’associazione è giunta la solidarietà da ogni parte d’Italia.
Capodanno, albergo e veglione vietati per un gruppo di ragazzi autistici. Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 da Corriere.it. Prima sì, poi no. E per dieci famiglie con ragazzi autistici è saltato il Capodanno in un esclusivo hotel non lontano da Frosinone. A denunciare l’episodio di discriminazione nei confronti dei giovani disabili sono stati proprio i mancati clienti del complesso alberghiero «Terme di Pompeo», in via Casilina, a Ferentino, che dopo aver prenotato regolarmente per una quarantina di persone, hanno poi ricevuto la brutta notizia: niente festone con i ragazzi, fra i 12 e i 18 anni, perché i responsabili dell’hotel hanno spiegato di non poter fare fronte alla presenza di disabili nella loro struttura e di dover comunque assicurare la tranquillità agli altri ospiti. Il gruppo è solito trascorrere insieme periodi di vacanza e proprio per questo aveva pensato a un soggiorno per Capodanno nel complesso alberghiero sorto dove si trovavano le terme frequentate nell’antichità anche dall’imperatore Vespasiano. Era andato tutto bene fino alla prenotazione, poi però alla richiesta di informazioni sulla sistemazione di bambini e ragazzi, la direzione dell’albergo ha capito che si trattava di autistici e allora, stando alla ricostruzione dei diretti interessati, è cambiato l’atteggiamento, fino alla cancellazione della prenotazione. Insomma una vacanza annullata fra scuse e spiegazioni fantasiose e assurde, che hanno fatto soffrire e indignato i parenti dei ragazzi ai quali sarebbero stati offerti altri periodi per soggiorni esclusivi nella struttura, sempre senza altri ospiti attorno. Un isolamento forzato, insomma.
Muore neonata nigeriana al pronto soccorso, in sala d’attesa insulti alla madre: «Tanto ne sfornate altri». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 su Corriere.it da A. Fulloni e B. Gerosa. «Morte bianca» della piccola di cinque mesi. Alle urla disperate della mamma la gente commenta: «Fate tacere la scimmia». Dopo che la piccola è morta al pronto soccorso e la mamma stava piangendo e gridando disperata, i commenti ascoltati sono stati questi: «Tanto ne sfornano uno all’anno». Oppure: si tratta di una «tradizione africana», di un «rito tribale», se non addirittura di un «rito satanico». Sondrio, sabato scorso, le dieci e trenta. Nell’astanteria dell’ospedale si è appena spenta una bimba di cinque mesi. Una «morte in culla», uno di quei decessi inspiegabili che colpiscono i lattanti. La madre, una ragazza di origine nigeriana, 22 anni, è straziata e urla per il dolore. Ha perso tutto. Tutto quello che le è più caro. Eppure, tra i più di coloro che stanno seduti nella «sala lista» — quella dove vengono consegnati i «numeretti» delle prenotazioni — non compare compassione. Sono circa una quindicina di persone, in gran parte sopra i cinquant’anni. Da loro si odono solo parole terribili. Appunto, tipo queste: «Tanto ne sfornano uno all’anno». E non c’è bisogno di aggiungere altro a ciò che ha riportato Sondriotoday.it, il sito che ha dato la notizia rimbalzata poi ovunque sul web. Ad ascoltare, casualmente, le frasi razziste è stata una giovanissima consigliera comunale di Sondrio, Francesca Gugiatti, lista civica di centrosinistra, 25 anni, maestra in una scuola primaria. «Non stavo bene, mia mamma mi ha accompagnato in ospedale» dice a Corriere.it Francesca, rimasta in astanteria sin verso le 16 del pomeriggio. La sua è dunque una testimonianza in presa diretta, raccolta mandando a memoria vocabolo dopo vocabolo dopo che nella sala d’aspetto hanno cominciato ad udirsi quelle grida «disperate intervallate da singhiozzi» provenienti dall’adiacente pronto soccorso. Saranno circa le 11 e ancora non si è capito quale dramma si sia consumato nell’ambulatorio vicino; ma poco prima in diversi hanno visto entrare la bimba infagottata tra le braccia della madre. Tanto basta per parlare — appunto — di «riti tribali», «satanismo», «scimmie». Chi dice di «tradizioni loro», chi aggiunge che «è pazza». «Mia madre interviene sottovoce — prosegue Francesca — cercando di far capire che non sappiamo niente di quanto possa essere successo a questa donna». Ma il vociare «continua imperterrito. Giudizi, parole poco appropriate, tanta cattiveria». Verso mezzogiorno, seppure in via ufficiosa, «si viene a sapere della morte della neonata». Ed ecco il commento di un uomo sulla sessantina: «Tanto ne sfornano uno all’anno...». A quella parole la madre ottantenne che gli sta accanto sgrana gli occhi e lo riprende: «Ma cosa dici! Stiamo parlando di una bambina morta...». Alle 16 la consigliera, sino a quel momento in disparte e silenziosa, controlla il telefonino e apprende da «Sondriotoday.it» l’ufficializzazione del decesso. Si guarda attorno, comunica l’informazione a chi sta ancora nella «sala lista» e a quel punto «cade il gelo». Quando rincasa, Francesca riassume ciò che ha visto su Facebook e il suo post diventa virale. In serata partecipa all’assemblea cittadina delle «sardine» che si ritrovano in piazza Campello, nel centro storico del capoluogo valtellinese. Qui, dal palco, racconta nuovamente l’accaduto davanti a quattrocento persone. Che restano ammutolite. Delle cause che hanno portato al decesso della piccolina si sa poco. Una «morte bianca», forse. La certezza arriverà dall’esito dell’autopsia che si è tenuta ieri (martedì). La mamma era a casa quando si è accorta che la figlia stava male, respirando a fatica. La donna allora è scesa in strada chiedendo aiuto e incontrando un uomo — compassionevole — che si è fermato per accompagnarla in ospedale con l’auto. Quando sono arrivati al pronto soccorso dell’ospedale civile la bimba era in condizioni disperate. Poco dopo è arrivato anche il padre — un uomo con obbligo di firma per reati di droga — avvisato dalla compagna. I carabinieri erano già lì. Nessuno dei militari ha udito le frasi razziste, anche perché, dice Francesca, erano dentro al pronto soccorso, assai distanti dunque da quel parlare privo di compatimento. Alla notizia della morte della bimba, un ufficiale ha accusato un malore. Nemmeno medici e infermieri hanno udito alcunché, «tutti concentrati nel tentativo di rianimarla». Il direttore generale della Asst Valtellina Alto Lario Tommaso Saporito adesso scuote la testa. Mormora poche parole, queste: «Quando c’è di mezzo la morte la pietà deve prevalere su tutto».
Muore bimba di 5 mesi: “Chi se ne frega è una scimmia”. Angela Azzaro il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. “Tanto ne sfornano uno all’anno”, “scimmie”, “tradizione africana”, “rito tribale”, “rito satanico…”. Inizia così la discesa agli inferi in un pronto soccorso della provincia italiana. È sabato mattina, si entra, si fa il triage, si prende il numero e si aspetta. Forse si guarda anche un po’ il cellulare, si chatta, ci si lamenta delle lungaggini. Tutto sembra normale nell’ospedale di Sondrio, quando verso le 10.30 un grido e poi i singhiozzi interrompono l’attesa. È una madre che si dispera, sta vedendo la figlia di cinque mesi morire. Le sue urla, il suo dolore, non suscitano commozione ma dispetto, fastidio. Non fanno crollare le certezze sul senso della vita, non lasciano attoniti. Per lei tutto questo non si prova. Perché? È nigeriana. Le lacrime, le grida, per alcuni sono “riti tribali”, per altri sono “riti satanici”, per qualcun altro il dolore di quella madre, simile al dolore di qualsiasi altra madre, in qualsiasi parte del mondo, è invece la reazione tipica “della tradizione africana”. Per qualche ora, i medici, aiutati dalle forze dell’ordine, tentano di rianimare la bimba. Poi si devono arrendere. Non ce la fa. È morta. Le urla diventano strazianti. La giovane donna viene raggiunta dal marito. Ma anche in quel momento il cinismo, l’orrore non si fermano. La discesa agli inferi continua. E in quella sala di attesa, in cui l’umanità è per alcuni sospesa, è possibile pensare, dire, sentire frasi agghiaccianti. Come questa: “Tanto ne sfornano uno all’anno”. Lo dicono senza vergogna, senza sprofondare, senza timore, senza ritegno. La donna di origini nigeriane è molto giovane, ha 22 anni. È in casa quando si accorge che la bimba, nella culla, non respira. Corre in strada, chiede aiuto e un automobilista le presta soccorso portandola subito all’ospedale. Le chiamano “morti bianche”, morti inspiegabili che colpiscono i lattanti. Per essere certi si attende l’esito dell’autopsia disposta dalla Procura. Alle quattro del pomeriggio la fine della speranza è ufficiale: la bimba è morta. E a quel punto anche nella sala d’attesa cala il gelo. Se oggi possiamo scrivere e denunciare quello che è accaduto, è grazie a una testimone. Sono i testimoni che tramandano la Storia: chi ha visto, chi ha vissuto, chi ha il coraggio e la forza di raccontare. La testimone al pronto soccorso di Sondrio si chiama Francesca Gugiatti, è una giovanissima consigliera comunale, ha 25 anni ed è stata eletta con una lista civica di centrosinistra. Francesca fa parte del movimento delle Sardine e quando sabato sera è andata alla riunione cittadina del neo movimento ha raccontato. Il gelo è calato anche lì. Le Sardine sono nate anche per questo: contro l’indifferenza, contro l’odio per il diverso, contro una politica e una cultura indifferenti alle morti in mare. Francesca prende la parola, e ricostruisce quella terribile giornata che ha descritto anche in un post su Facebook che diventa virale. “Non stavo bene, mia mamma mi ha accompagnata in ospedale…”. È appena arrivata quando sente le urla, poi i primi insulti, l’indifferenza anche davanti al dolore, davanti a una bimba di appena cinque mesi che sta morendo: “Tanto ne sfornano uno all’anno”. La madre che è con lei si arrabbia, non sta zitta e ribatte: “Ma cosa dici! Stai parlando di una bambina morta”. Gli insulti arrivano da persone sulla sessantina, non da teppisti: sanno quello che dicono. Francesca è l’unica a sentire le loro offese, lo precisa la direzione sanitaria dell’ospedale che prende le distanze dall’episodio ma sottolinea come le frasi non possano essere né confermate né smentite. I carabinieri, intervenuti per aiutare la madre della piccola, sono dentro il pronto soccorso. Uno di loro, un maggiore, quando non c’è più speranza ha un malore. I medici neanche hanno sentito, né gli infermieri: erano impegnati a tentare di salvare la bimba. Questa volta in quel pronto soccorso accade qualcosa: l’orrore trova un argine nella parola, in chi denuncia, in quell’Italia rappresentata anche dai medici e dalle forze dell’ordine che non ci stanno ad arrendersi alla barbarie. La testimonianza di Francesca, anche tramite la condivisione del post, fa il giro d’Italia, scuote le coscienze. È una scena troppo straziante, troppo tutto, per stare indifferenti, per non dire basta. La politica prende posizione contro l’episodio di razzismo. Dal Pd a Italia viva, da Forza Italia a Leu. Anche Giorgia Meloni interviene per condannare l’episodio: “Da madre – scrive la leader di Fratelli d’Italia – non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce”. Tra i primi ad intervenire Matteo Renzi: “Quella donna merita un abbraccio, non il disprezzo razzista”. Nel pronto soccorso di Sondrio si sono confrontate due Italie: l’Italia dell’odio per il diverso, del razzismo. L’Italia che, dopo anni e anni di campagne, non rispetta più la vita umana se non ha il suo stesso colore. Dall’altra c’è l’Italia che invece non rinuncia a restare umana: la sardina Francesca, il signore che offre il primo soccorso, i carabinieri, i medici, gli infermieri. Non si sono lasciati vincere dall’egoismo, ma hanno reagito, hanno provato pietà e dolore, per quella madre straziata che secondo alcuni ha un’unica imperdonabile “colpa”: avere la pelle diversa dalla nostra. Ps: Sul web si scatena l’attacco alla testimonianza di Francesca. “È una sardina: si sarebbe inventata tutto, non ci sono altri testimoni”. Lei ribatte che ci sono altre persone che hanno assistito e si sono indignate. Nessuno la smentisce…
Insulti razzisti a madre che perde figlia, la denuncia della sardina e la lettera del sindaco leghista. Il Riformista il 18 Dicembre 2019. E’ stata la consigliera comunale di Sondrio, Francesca Gugiatti, 25enne maestra di scuola primaria, a raccontare i commenti vergognosi e razzisti delle persone presenti sab