Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
IL TERRITORIO
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL TERRITORIO
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Bolzano.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Veneto.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.
La Lombardia da Bere?
Succede a Milano.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Valle d’Aosta.
Succede a Torino.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Liguria.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)
Succede a Bologna.
Si vota a “Ad Minchiam”.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Firenze.
SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sardegna.
SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Roma.
Succede a Latina.
SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Molise…che non esiste.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Napoli.
SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Puglia.
Succede a Bari.
Si vota a “Ad Minchiam”.
SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Foggia.
SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Taranto.
ArcelorMittal, Ex Ilva. Chi non vuole lavorare.
Succede a Sava.
Succede a Manduria.
Avetrana. La Rivendicazione di Torre Colimena: luogo bistrattato da Manduria.
Succede ad Avetrana.
SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Brindisi.
SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Lecce.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Calabria.
I Buoni ed i Cattivi.
Succede a Reggio Calabria.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sicilia.
Succede a Palermo.
Succede a Messina.
Succede a Siracusa.
Succede ad Agrigento.
IL TERRITORIO
SECONDA PARTE
SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede a Roma.
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 20 dicembre 2020. Sindaca, prima della sentenza ha detto: andrei avanti anche da condannata. Ma quanto pesa davvero questa assoluzione per la sua corsa a un mandato bis, ora che il totem grillino dell' onestà è salvo?
«L' assoluzione toglie un pretesto per farmi fuori a chi magari già immaginava un mega inciucio per la corsa al Campidoglio. Vede, la differenza è che a me della poltrona non importa nulla. A me interessa soltanto portare avanti un lavoro, difficile, che ho avviato quattro anni fa».
Appena uscita dal Tribunale ha sfidato governo e Parlamento a mettere al centro Roma. Cosa si aspetta in concreto?
«Mi aspetto che tutte le forze politiche abbiamo rispetto per la Capitale. E che al di là degli schieramenti politici votino lo stanziamento di fondi per Roma. In primis il lavoro: questa città ha sofferto più di altre la crisi legata al Covid, perché ha perso flussi turistici importanti».
E come si risolleva?
«I commercianti vanno ristorati: il governo tagli le tasse per chi quest' anno non ha potuto fatturare. Mi riferisco a Imu e tassa sui rifiuti. Noi siamo intervenuti sulle tasse comunali ed abbiamo lanciato un fondo di 3 milioni per il microcredito per concedere prestiti a piccoli imprenditori che non hanno sostegno dalle banche. Roma storicamente è indietro sullo sviluppo delle infrastrutture: abbiamo presentato richieste per finanziare il potenziamento di metro e tram. Cose concrete. Abbiamo chiesto che si vari un piano straordinario per l' emergenza casa. Quali obiezioni reali possono esserci?».
Eppure nella bozza italiana del Recovery Fund non c' è traccia del «progetto importante per Roma» promesso da Conte. Cosa dice al premier?
«Che le chiacchiere stanno a zero. Che i romani sono stanchi di promesse. I progetti sono sul suo tavolo: ha nostre richieste per 25 miliardi. Ovviamente sappiamo che non tutto è finanziabile ma gli abbiamo anche indicato le priorità. Non ha più scuse».
Perché il ddl sui poteri per Roma, peraltro molto light, firmato dal M5S è fermo da un anno? Chi lo rallenta?
«Il fatto è che tutti, da destra a sinistra, si riempiono la bocca dicendo che vogliono varare i poteri per Roma, poi arrivati al dunque non fanno nulla. Roma è da sempre terreno di scontro politico. Basta interessi di partito, si metta al centro la città. Io l' ho fatto. Da sindaco chiedo che approvino i disegni di legge per lo snellimento delle procedure amministrative per Roma: l' anno scorso abbiamo inviato le bozze a tutti i capigruppo in Parlamento e soprattutto all' esecutivo. Uso il plurale perché quelle modifiche le hanno chieste tutti i gruppi del Consiglio comunale. Se non le approvano non fanno un dispetto a me, ma alla Capitale».
È stato detto che qualcuno nel M5S tifava per la sua condanna, per fare l' accordo con il Pd ai suoi danni. Ha mai avuto questa sensazione?
«Più che una sensazione. Si vede che hanno fatto male i conti. Ma questa è la politica di palazzo dalla quale mi sono sempre tenuta distante, ai cittadini non interessa. Forse per questo sono stata attaccata. Io sono più concreta. A me interessa sapere cosa fanno per la mia città».
A chi ha chiesto ieri di avere «la decenza di tacere»?
«Sono stata lasciata sola, politicamente, a gestire la città più complessa d' Italia. Quando mi hanno consigliato qualche esperto me ne sono dovuta pentire... Ho fatto sicuramente qualche errore all' inizio, ma soltanto chi non fa non sbaglia mai. Diciamo che in questi anni ho imparato tanto. E ora posso anche permettermi di dire che c' è chi parla a vanvera. Tutti campioni della chiacchiera».
Di Maio da capo politico avrebbe potuto fare di più?
«Il capo politico è Crimi. Diciamo che tutto il M5S avrebbe potuto e forse dovuto fare di più».
Chi l' ha chiamata dopo l' assoluzione? Grillo? Di Battista? Il premier Conte?
«Le telefonate vanno fatte prima. Mi ha fatto piacere avere alcune conferme da parte di chi già sento spesso».
Pensa che ci sia qualche margine per un appoggio del Pd alla sua corsa?
«Le ribadisco che non amo gli inciuci di palazzo. Sono una persona concreta. C' è una legge di bilancio: si adoperino per Roma. Il favore non lo fanno a me, ma ai romani».
È un retroscena che avrà sentito, può replicare: baratterebbe mai un posto di governo con la ricandidatura a sindaco? Glielo hanno chiesto?
«Ma lei lascerebbe mai Roma? È la mia città, una delle più belle al mondo. Mi sto dannando per risollevarla dal baratro nel quale era sprofondata. E l' abbandono proprio ora? Voglio dare continuità al lavoro svolto. Nessuno tornerebbe mai al passato: miliardi di debiti che si tramutano in nuove tasse sui cittadini, periferie abbandonate, bus vecchi e illegalità diffusa. Si ricorda com' era piazza Venezia quattro anni fa? Ora è stata totalmente rimessa a nuovo».
Prima ha accennato agli errori. Cosa non rifarebbe?
«All' inizio mi sono fidata troppo di chi non lo meritava. Comunque non è passato giorno in cui io non abbia lavorato fino a notte tarda per la mia città. Questo non posso rimproverarmelo».
Tre progetti entro 6 mesi per Roma.
«Un unico grande progetto: riportare investimenti per rilanciare il lavoro e ridisegnare la città. Davanti a noi abbiamo il Giubileo del 2025 e la candidatura a Expo 2030. Faccio un appello a tutte le forze sane: lavoriamo insieme. Intanto stiamo rifacendo le strade, rimettendo a posto i parchi, recuperando le periferie e risanando Atac con l' acquisto di 900 bus».
Il M5S ha problemi di selezione della classe politica. Cambierà la squadra per la ricandidatura? C' è chi ha mostrato limiti evidenti.
«Chi lavora per la città non ha nulla da temere».
Nel 2021 la appoggeranno anche liste civiche, oltre al M5S?
«Le porte sono aperte per chiunque voglia proseguire per la strada del cambiamento. Tanti sui territori, nelle periferie, vogliono impegnarsi con noi, al di fuori dei salotti e dei giochi di potere. Chi vuole lavorare con onestà e nell' interesse dei romani è il benvenuto».
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 9 dicembre 2020. «Non è stata davvero una maxirissa - ha scritto ieri su queste pagine Massimo Ammaniti - ma una manifestazione di narcisismo da adolescenti». E analizzare il ruolo avuto dai social nel rilanciare i video della zuffa del Pincio (o episodi simili) è un aspetto chiave della vicenda. In un certo senso capostipite del genere può essere forse considerata la pagina Facebook «Roma fa schifo», secondo alcune analisi dell' epoca vera benzina dell' elezione di Virginia Raggi come moltiplicatore dell' indignazione. I video dei bus in fiamme, delle strade allagate e sporche, dei primi cinghiali a passeggio in città trovarono lì, quando tanti social non esistevano quasi, la cassa di risonanza del sentimento di ribellione al degrado. Oggi la pagina è ancora attiva, conta 192.040 seguaci e il contenuto dei video non è cambiato di molto. Su questa traccia sono nati i gruppi «Sei di Magliana/Balduina/Prati/Tuscolano etc. etc. se...», che da agorà virtuale per condividere ricordi e sentimenti dei singoli quartieri sono spesso diventati sfogatoi di malessere ma con un fraintendimento di base. Il loro peso istituzionale è pari a zero e la veemenza messa nel documentare la panchina rotta o le foglie non raccolte sperando in chissà quale riscontro resta ininfluente come un urlo dalla finestra sperando che qualcuno ascolti. In modo più selezionato, filtrato dal pubblico al quale si rivolge, c' è poi «Wanted in Rome» (145.556 followers), tutto in inglese, che tra una bellezza architettonica e un appuntamento culturale non può esimersi dal segnalare i casi più bizzarri di vita capitolina. Con scopi diversi (la condivisione «acchiappa like» fine a se stessa, più che un sentimento di denuncia) c' è poi «Welcome to favelas», bannata da Fb più di una volta e rispuntata su Telegram. La «rissa» del Pincio ha acquisto visibilità su questa pagina, gestita da Massimo Zossolo, uno dei condannati per gli scontri di piazza San Giovanni nel 2011, che ieri si è raccontato su Il Foglio: «Faccio microcronaca, non è giornalismo, non è tutta spazzatura. Mi rifaccio a Radio Parolaccia di Radio Radicale». La pagina ha un milione di followers su Instagram (i video non riguardano solo Roma) e 500 mila su Telegram: «Ci arrivano video in continuazione - ha detto Zossolo -, solo per il Pincio 100». Le immagini e le segnalazioni, oltre che fornire spunti per le cronache dei quotidiani, sono anche divenute una fonte di indagine primaria per gli inquirenti. E questo aspetto sfugge probabilmente alle tante emulazioni nate di recente sul leitmotiv della violenza ostentata senza filtri: «Risseromane», «Risseromaneedovetrovarle» «Risseitaliane» (ieri si è vantata di essere diventata con 33.065 membri «la più grande community delle risse del web») o di quelle al femminile «Gossipderomaa (doppia "a" finale), dove proliferano faide, diffamazioni e violazioni della privacy come se nulla fosse e dove, sospetta chi indaga anche sui fatti del Pincio, tutto nasce e finisce a favore di videocamera di uno smartphone. Specchio autoreferenziale di una vita virtuale.
F.Pac. per “il Messaggero” l'1 dicembre 2020. Conferme o smentite ufficiali non ce ne sono state fino a tarda sera. Poi la doccia fredda. Il comandante della polizia municipale Stefano Napoli si è dimesso. Un nuovo scossone per il corpo di piazza della Consolazione, dopo l' addio (per sopraggiunti limiti di età) di Antonio Di Maggio. Napoli ha consegnato il suo addio alla sindaca, con una lettera di tre pagine. «Ho constatato con rammarico la mortificante assenza del benché minimo cenno da parte sua di vicinanza alla mia persona e al mio ruolo». Parole che si abbattono come una scure sulla sindaca. Da ieri pomeriggio Radio Campidoglio aveva rotto la routine d' inizio settimana rilanciando la notizia che aveva messo in subbuglio il palazzo: Antonio Napoli, comandante della polizia locale, ha comunicato a Virginia Raggi la volontà di fare un passo indietro. Una lettera di dimissioni consegnata alla sindaca e subito congelata. Come detto, da Palazzo Senatorio non è arrivato nessun commento ufficiale.
I RAPPORTI. Anche se la stessa prima cittadina e l' assessore al Personale (e competente sulla partita) Antonio De Santis - a chi li ha chiamati, sulla vicenda hanno provato a gettare acqua sul fuoco. Quel che è certo è che i rapporti tra Napoli - alla testa dei vigili dal luglio scorso - e la stessa Raggi da giorni sono ai minimi storici. E che, anche all' interno del corpo, già da settimane serpeggiassero veleni. Ne è prova proprio l'audio circolato nei giorni sulla coppia di amanti beccati nell' auto di servizio. Un audio della centrale, si è detto all' inizio. Poi una microspia. Di sicuro, fin da subito, l' idea era che quell' audio fosse stato diffuso per mettere in difficoltà più Napoli che i due focosi pizzardoni.
L'INCHIESTA. Non c' è solo questo, però, dietro la lettera di dimissioni di Napoli. Da un lato, il comandante sconta soprattutto l' inchiesta della trasmissione Report (e gli effetti da essa provocati), che ha messo alla berlina gli agenti capitolini, accusandoli - tra l' altro - di conflitti di interessi sui permessi per le riprese cinematografiche, di controlli tardivi e selettivi nei locali in centro e di rapporti con la criminalità da parte di tre caschi bianchi; dall' altro, poi, c' è stato proprio l' audio (non si capisce ancora chi l' ha registrato) di due vigili che hanno un rapporto sessuale mentre sono in servizio.
I SINDACATI. Di sicuro che, nei pochi mesi in cui è stato comandante, Napoli non è mai stato amato da una parte dei sindacati. L' ormai ex caspo è stato convocato una settimana fa dalla sindaca: insieme hanno concordato sia di fare una rotazione degli uomini in strada in Centro sia, soprattutto, che il corpo avrà un nuovo comandante dall' anno prossimo. Radio Campidoglio fa già girare il nome del successore: il generale Paolo Gerometta, ora assegnato alle Risorse umane di Palazzo Senatorio.
Potere Capitale. Report Rai PUNTATA DEL 23/11/2020. Daniele Autieri collaborazione di Federico Marconi. È uno dei Corpi di polizia cittadina più grandi d’Europa: oltre 6mila vigili con competenze che vanno dal decoro urbano alla verifica delle misure anti-Covid. Ma a dieci anni dalle prime denunce che portarono all’arresto del comandante generale del Corpo di polizia locale di Roma, Angelo Giuliani, il sistema di potere all’interno dei vigili urbani della capitale è ancora in piedi. Un sistema che permette agli agenti della Polizia locale di esercitare un controllo totale sulla città: sui commercianti, sugli imprenditori, sui politici, sugli stessi privati cittadini. Attraverso testimonianze e intercettazioni inedite, l’inchiesta ricostruisce i legami tra l’allora comandante Giuliani e l’attuale comandante generale Stefano Napoli, nominato alla guida del Corpo il 30 giugno scorso dalla sindaca Virginia Raggi. Parlano commercianti vittime di estorsione e cittadini minacciati di morte solo per aver segnalato troppe irregolarità, ed emerge per la prima volta il ruolo di alcuni vigili come fiancheggiatori dei clan nella conquista dei locali del centro di Roma. Un sistema così consolidato che è capace perfino di far tremare un sindaco, al punto da rendere lecita la domanda: quale è stato il ruolo dei vigili di Roma negli scandali che hanno portato alle dimissioni di Ignazio Marino?
- Riceviamo e pubblichiamo una precisazione del presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio (23/11/2020)
Da questa mattina si annuncia che durante la trasmissione “Report”, dedicata al "malaffare che si nasconde nel Corpo di Polizia Municipale" di Roma Capitale, emergerà il mio nome citato nel corso di una telefonata intercettata tra Comandanti del Corpo stesso. Lo annuncia “Repubblica” in un articolo di Daniele Autieri (autore del servizio in onda stasera), che scrive “l’allora comandante Giuliani chiede a Napoli di accelerare le pratiche che interessano politici e imprenditori. Tra loro anche Marco Marsilio…”. Si parla di una vicenda del settembre 2011: nove anni fa. Di una telefonata che l’allora Comandante in capo effettua verso il comandante del I Gruppo, nella quale Giuliani chiede a Napoli di fornirgli una relazione che l’ispettorato edilizio della PM e l’ufficio tecnico del Municipio avevano effettuato mesi prima su un fabbricato in via del Vantaggio sottoposto a lavori di ristrutturazione. Ho faticato non poco a ricostruire l’episodio, e tuttora ammetto di non ricordare con precisione tutti i contorni di una vicenda così lontana nel tempo e così marginale. Ma quello che posso sicuramente dire è questo:
- A via del Vantaggio vi è un fabbricato di proprietà della Comunità ebraica, utilizzato per scopi sociali, da molto tempo in degrado e sostanziale disuso, che sin dal 2005 è oggetto di un Accordo di Programma con il sindaco Veltroni per la sua riqualificazione;
- Il locatore dell’immobile nel corso del 2011 conduce i lavori di ristrutturazione, a causa dei quali il Comune riceve diverse segnalazioni ed esposti, che portano all’apertura di un’inchiesta per abusi edilizi, in particolare nella cantina trasformata in spa (da quel che mi consta, finita pressoché nel nulla, essendo l’albergo tuttora aperto);
- Anche il sottoscritto riceve da un residente del posto la richiesta di "vederci chiaro" per opere che riteneva irregolari. Mi rivolgo quindi alla Polizia Municipale per avere documentazione utile a capire se la segnalazione è meritevole o no di attenzione;
- Questo ‘accesso agli atti’ va a rilento, sollecito più volte il Comandante che, evidentemente in imbarazzo per il ritardo e la scarsa trasparenza degli uffici nel fornire quanto richiesto, chiama il comandante del I Gruppo, Napoli, per ottenere una risposta, non sapendo più cosa dire alle insistenti richieste del sottoscritto tese a ottenere documenti chiusi in un cassetto per motivi poco chiari. Sarebbe questo il "favore" richiesto? L’aiuto che il Comandante della PM fornisce al "politico" di turno per chissà quali biechi interessi privati? Non ho fatto altro che esercitare il mio diritto/dovere di accedere agli atti, pretendere trasparenza e informazioni su una procedura pubblica sospetta di irregolarità.
POTERE CAPITALE di Daniele Autieri Collaborazione Federico Marconi Immagini Chiara D’Ambros, Alfredo Farina, Paolo Palermo, Gianluca Pipitone Montaggio Andrea Masella Grafiche Michele Ventrone.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 10 ottobre scorso a piazza San Giovanni, a Roma, si dà appuntamento il popolo dei sovranisti e dei “no mask”. Tra i manifestanti c’è anche un sindacato del Corpo di Polizia Locale di Roma Capitale.
MARCO MILANI - COORDINATORE ROMANO UGL POLIZIA LOCALE Siamo qui per manifestare il disagio di una categoria nell’applicare alcune norme di difficile comprensione sia per noi sia per i cittadini.
DANIELE AUTIERI Ci sono video che vi riprendono in cui ribaltate questi tavolini, c’è una ragazza che sviene…
MARCO MILANI Se c’è una violenza privata al tavolino, o se devo chiedere scusa ai bicchieri e le forchette, se nel caso lo faccio? Di certo non ci sono aggressioni, cazzotti o lesioni personali.
DANIELE AUTIERI Sa che dicono, che eravate un po’ comunque irruenti come gruppo, che a lei la chiamano “il pugile”: è vero?
MARCO MILANI Mi chiameranno pure il pugile, però i pugni li tiro sul ring.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO In pieno giorno a piazza Navona scatta l’intervento dei vigili urbani contro alcuni ristoratori. Un telefono cellulare ruba immagini imbarazzanti per le forze dell’ordine. Volano sedie, i tavolini vengono ribaltati, qualcuno alza le mani. A guidare l’intervento dei vigili è Antonio Di Maggio, fino al 30 giugno scorso comandante del Corpo di Polizia Locale di Roma Capitale, conosciuto come “lo sceriffo” per i modi autoritari. Con lui c’è anche Marco Milani. Detto “il pugile”.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I vigili intervengono per far rispettare i permessi di occupazione del suolo pubblico. Con il comandante Di Maggio, si scagliano contro i ristoratori. Una cameriera sviene e si accascia a terra.
CAMERIERA Io sono andata a fare l’apertura del locale dove lavoravo, al Bimabos, e mentre stavo apparecchiando il ristorante ho sentito il rumore di tavoli al ristorante accanto, c’erano i vigili che stavano prendendo i tavoli e li lanciavano.
DANIELE AUTIERI Lei è uscita in quel momento, è andata fuori?
CAMERIERA Si, io sono uscita fuori, e mi hanno detto che c’ho due minuti per togliere tutti i tavoli. Io gli avevo detto, piangendo, un attimo sono da sola. Ero tutta agitata, spaventata. Poi loro hanno iniziato anche da me a lanciare i tavoli tutti quanti. Poi sono svenuta.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per questa vicenda finiscono sotto processo per lesioni e abuso d’ufficio il pugile Marco Milani e lo sceriffo, il comandante Antonio Di Maggio. Il 30 giugno Di Maggio è andato in pensione. E al momento del congedo, la sindaca Virginia Raggi lo omaggia con il massimo degli onori.
VIRGINIA RAGGI, SINDACA DI ROMA (INTERVENTO A MANIFESTAZIONE PUBBLICA) Ricostruiremo questo corpo di cui la città deve andare orgogliosa e di cui la città ha veramente bisogno.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I vigili urbani di Roma, una polizia cittadina tra le più importanti d’Europa. Seimila persone che hanno competenze varie: vanno dalla sicurezza stradale al contrasto del degrado della città, al controllo sulle attività imprenditoriali e finanche a quelle del controllo sull’applicazione delle misure anti-Covid. Ora dieci anni fa circa, parallelamente all’inchiesta “Mafia Capitale”, un’altra inchiesta giudiziaria scoperchia un sistema corruttivo ai danni degli imprenditori. Vengono arrestati anche dei vigili urbani. E insomma i magistrati scoprono un’associazione che temono per delinquere che è in grado di condizionare anche la politica. Un Potere Capitale che nessuno è stato in grado di scalfire. Il nostro Daniele Autieri.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO È il 2015, la città paralizzata per le riprese di Spectre, l’ultimo film della saga sul più famoso degli agenti segreti. L’Aston Martin di James Bond sfreccia lungo gli argini del Tevere. Per gestire la logistica delle riprese del film, oltre all’intero iter delle autorizzazioni, la produzione incarica la società Ro.Ma Mediaservice. Un’azienda specializzata, che negli anni ha prestato la sua consulenza a pellicole e fiction di successo come Gli orologi del diavolo, con Beppe Fiorello. Chi ha potere sul controllo delle autorizzazioni sono proprio i vigili urbani, ma per questo la Ro.Ma Mediaservice può giocarsi il suo un asso nella manica. Un asso di briscola.
OPERATORE CINEMATOGRAFICO Questa è un’azienda fondata da un comandante dei vigili.
DANIELE AUTIERI Quale comandante?
OPERATORE CINEMATOGRAFICO Mario De Sclavis. Il comandante del Gruppo del Prenestino.
DANIELE AUTIERI Quindi un comandante dei vigili, Mario De Sclavis, fonda una azienda che per lavorare chiede permessi ai vigili stessi? OPERATORE CINEMATOGRAFICO Sì, in pratica non è proprio così. Perché non sono i vigili a concedere l’autorizzazione. È l’ufficio dipartimento delle attività culturali del comune di Roma che concede l’autorizzazione, ma poi sono i vigili a metterla in pratica e a interpretarla, con una determinazione dirigenziale propria del comandante del gruppo interessato.
DANIELE AUTIERI A noi risulta che la sua società sia stata in realtà fondata da suo padre, Mario De Sclavis, che è un comandante dei vigili urbani.
AL TELEFONO ROBERTO DE SCLAVIS, RO.MA. MEDIASERVICE Non è vero. Non so chi le ha dato questa informazione.
DANIELE AUTIERI Non è vero quindi? ROBERTO DE SCLAVIS No, l’ho fondata io.
DANIELE AUTIERI Le volevo chiedere di questa società, la Ro.Ma. Mediaservice…
MARIO DE SCLAVIS È la società dei miei figli, con cui lavorano, è una società di servizi…
DANIELE AUTIERI È un società che ha fondato lei però…
MARIO DE SCLAVIS No, l’ha fondata mio figlio, il maggiorenne, Roberto, e sono soci mio figlio Roberto e mio figlio Adriano.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le visure smentiscono la versione del comandante De Sclavis. È proprio lui a fondare la Mediaservice nel 2005. Nel 2008, vende le sue quote al secondo figlio, Adriano, ma continua ad esercitare un ruolo attivo sul settore delle autorizzazioni cinematografiche, come dimostrano alcune determinazioni dirigenziali che riportano la sua firma.
DANIELE AUTIERI Non c’è un conflitto di interessi rispetto al ruolo che lei svolge e quello che fa questa società, che si occupa di autorizzazione…
MARIO DE SCLAVIS Ci sarebbe qualora io abusassi della mia posizione, tenga presente che tutti gli anni, per la legge sul conflitto di interessi, dichiaro all’amministrazione l’attività dei miei, figli, ciò che fanno e come se non bastasse, ovviamente, io mi astengo da tutte le procedure, tutti gli atti che possono riguardare loro… demandando tutto a un dirigente superiore.
DANIELE AUTIERI Però lei firma diciamo delle determine…
MARIO DE SCLAVIS No, tutto a un dirigente superiore, assolutamente.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Circolo degli Artisti di via Casilina è stato uno dei locali più frequentati di Roma. Si sono esibiti artisti di fama internazionale. E un’intera generazione è cresciuta al bancone dei suoi bar.
DANIELE AUTIERI Si apre un’indagine alla Procura di Roma, no?
BUTTAFUORI Sì.
DANIELE AUTIERI Un’indagine che si conclude in realtà nel 2015 con il sequestro del locale, è stato sequestrato, perché? BUTTAFUORI Il locale sequestrato per un esposto dove dichiaro che è stato sotterrato dell’amianto nell’area esterna del Circolo degli Artisti dove era adibito al consumo da bere o a volte come ristorante.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dalle indagini emerge anche che per 17 anni il Circolo non ha pagato l’affitto al Comune di Roma. 17 anni di impunità, perché nessuno ha mai controllato che uno dei locali più frequentati della Capitale fosse in regola. E i pochi controlli fatti venivano spesso annunciati.
BUTTAFUORI Venivamo avvisati. Comunque là i vigili erano di casa, una volta al mese facevamo la festa dei vigili. Il locale era a loro piena completa disposizione.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 16 marzo del 2015 la festa finisce. Il giudice dispone il sequestro del locale. Dalle indagini emerge anche che il circolo degli artisti era accatastato come deposito, laboratorio, casa popolare. Ma nessun vigile è stato indagato per i mancati controlli.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Chi invece ha un locale in regola è Mauro. Lo acquista nel 2017, nel quartiere San Lorenzo, in pieno centro a Roma.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A pochi metri dal ristorante, altri locali occupano il suolo pubblico senza permesso. Mauro non ci sta. Lo scorso anno presenta un esposto ai vigili. E i vigili gli fanno visita.
MAURO - RISTORANTE “DA FRANCO AL VICOLETTO” La domenica mattina alle 11 mi arriva la telefonata: guarda, sono tizio, caio, ma ce l’hai quella busta per me? Ma di quale busta stai parlando, non ho capito. Lui ha detto: “Ah ho capito, stai facendo il finto tonto. Mo’ passo!”. Aveva una specie di fazzoletto bianco, già aperto. Si è messo a sedere. Gli ho detto: “Vabbè, che ti posso fare?”. Mi ha detto: "Vabbè fammi uno spaghetto alle vongole…”. Gli ho fatto sto spaghetto alle vongole. Ho preso 500 euro, ho detto: “ho questi 500, ti bastano?” Ha detto “ok metti qua”, neanche ha finito gli spaghetti e se ne è andato. Senonché mi pare una settimana dopo, mi sento bussare alla spalla, era lui. Ha detto: Ehi amico, ciao. Ho detto: oddio che è successo? Dice: mi devi fare un favore: dammi 400 euro, ho tamponato il capo dei vigili urbani…l’assicurazione non ce l’hai? Ha detto: no, quello li vuole contanti sennò mi caccia via. Ho capito, quando ha detto questa fregnaccia, ho detto questo ormai è un cliente fisso.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Mauro denuncia. La Polizia arresta il vigile mentre incassa la bustarella. Durante le perquisizioni, viene trovata cocaina nel motorino e nell’ufficio dell’agente. E la procura allarga l’indagine anche ad altri vigili.
GUGLIELMO MUNTONI, GIUDICE SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE TRIBUNALE DI ROMA Quello che emerge purtroppo è l’esistenza di una serie di persone, dai professionisti a pubblici ufficiali, che facilitano una gestione illegale dei beni. VFC
DANIELE AUTIERI Guglielmo Muntoni è il numero uno nella lotta ai patrimoni delle mafie. Dal suo ufficio ha disposto il sequestro di beni per 2 miliardi di euro. Ci racconta qualcosa di incredibile. Quando è lo stato a gestire un ristorante confiscato al crimine organizzato i controlli dei Vigili si fanno più stringenti.
DANIELE AUTIERI Il locale viene gestito da un’organizzazione criminale che non rispetta regola, lavoro, sicurezza, spazio pubblico, voi lo sequestrate, lo amministrate voi e da quel momento diventa bombardato di controlli? GUGLIELMO MUNTONI È così. Quello che ci ha colpito è che quando abbiamo sequestrato noi i ristoranti dal giorno dopo c’erano controlli metodici insistenti con interventi pesanti per rimuovere tutti i tavoli che non erano regolari. DANIELE AUTIERI A voi cosa hanno detto i vostri gestori?
GUGLIELMO MUNTONI Si lamentavano del fatto che gli esercizi di fronte, o accanto, gli facevano gesti di sfottimento perché loro continuavano a tenere i tavoli fuori e noi no.
DANIELE AUTIERI Come viene spiegata questa disparità di trattamento?
GUGLIELMO MUNTONI Io ho trasmesso gli atti alla procura, la procura ha fatto le sue indagini, credo non si sia arrivati a nulla di concreto. Le domande restano.
DANIELE AUTIERI Lei cosa pensa?
GUGLIELMO MUNTONI Me lo tengo per me!
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Rapporti tra Vigili urbani e la mafia che gestiva i locali della capitale sono emersi già nel 2015. Al termine di un’indagine del Gico della Guardia di Finanza, la procura chiede l’arresto di tre vigili, Franco Caponera, Fabio Corazzini e Alessandro Egidi, e degli imprenditori Salvatore Mercuri e Giovanni Pagliaro. Secondo l’accusa sarebbero legati al clan calabrese dei Mancuso. Dalle intercettazioni emergerebbe che i tre vigili, in cambio di soldi e di regali, avrebbero agevolato le attività commerciali finanziate con i capitali della ‘ndrangheta.
INTERCETTAZIONE 1 Il vigile Franco Caponera al telefono avvisa di un’imminente ispezione l’imprenditore Salvatore Mercuri, ritenuto vicino ai calabresi. Franco Caponera: Salvato’ allora senti, passeranno loro. Tu o tua figlia fate trovare tutta la documentazione. Salvatore Mercuri: Tranquillo Franco, tutto a posto. Franco Caponera: Un’altra cosa Salvatò, mi si è raccomandato, non mettere in mezzo altre persone. Salvatore Mercuri: Tranquillo Franco, io ho a che fare solo con te.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Gli imprenditori controllano un ristorante a Campo de’ Fiori e attraverso una serie di scatole societarie sono proprietari di locali a piazza di Spagna, come la Barcaccia, poi altri a Corso Trieste, e a via Belsiana. A curare i loro interessi è una figura misteriosa: l’ingegnere romano Marco Beni. Non è indagato, ma Beni sa che i suoi referenti hanno infiltrato la Polizia della Capitale e li chiama immediatamente quando arrivano le ispezioni dei vigili.
INTERCETTAZIONE 2 Marco Beni: Senti, sono venuti in cantiere, per la Dia, per queste cose qua. Chi dobbiamo chiamare? Io non c’ho un cazzo lì. Salvatore Mercuri: Va bene, adesso te la risolvo io. Dove sono? Marco Beni: Sono tutti sotto Belsiana.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo cinque anni dal rinvio a giudizio il processo non è ancora concluso. Il 26 agosto scorso, in piena emergenza Covid, un’associazione di quartiere segnala ai vigili che il ristorante la Barcaccia ha invaso piazza di Spagna con i suoi tavolini. Il 23 settembre arriva la risposta della polizia locale che conferma le irregolarità, ma nessuno interviene per portare via quei tavoli.
DANIELE AUTIERI Cercavo il titolare.
CAMERIERE Non è qui.
DANIELE AUTIERI Perchè gli volevo chiedere dei tavolini fuori… sono irregolari non potrebbero essere messi in mezzo alla piazza.
CAMERIERE Come irregolari? Sono passati i vigili, hanno fatto i controlli.
DANIELE AUTIERI Sono passati i vigili?
CAMERIERE Certo che sono passati, stiamo a Piazza di Spagna qua.
DANIELE AUTIERI Lo so, però abbiamo proprio un documento dei vigili dove dicono in effetti sono irregolari quei tavolini.
CAMERIERE Non so, comunque non c’è, non c’è il titolare.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I tavoli della Barcaccia invadono ancora oggi piazza di Spagna. Con i vigili che stazionano a pochi metri di distanza. Gli imprenditori Mercuri e Pagliaro, sotto processo con l’accusa di corruzione di una persona incaricata di un pubblico esercizio e sospettati di utilizzare soldi della ‘ndrangheta, hanno continuato ad acquistare locali nel centro di Roma, e Marco Beni ad amministrarli. Anche se nessuno sembra conoscere l’ingegnere romano, nemmeno all’interno dei locali che gestisce.
INGRESSO NEL LOCALE NUMBS ALLA RICERCA DI MARCO BENI
DANIELE AUTIERI Io stavo cercando l’ingegnere Marco Beni, mi hanno detto che lavora qua?
CAMERIERA Io non ne ho la più pallida idea
DANIELE AUTIERI No, mi hanno detto che gestiva il locale, no?
CAMERIERA No. DANIELE AUTIERI Grazie allora, arrivederci.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il ruolo di Beni nelle attività degli imprenditori ritenuti vicini alla ‘ndrangheta vive nelle carte, ma anche nei ricordi di chi nei panni di amico ha vissuto la sua ascesa nel mondo dei locali della Capitale.
LUCA PALAMARA, EX-MAGISTRATO Chiunque andava mi diceva: ha aperto un locale qua, uno là, erano tanti. Pieno di locali. Bed& breakfast, cose, dappertutto. Pensa se ero andato in questi locali, adesso ero fritto… Un amico storico di infanzia dei tempi dell’università, un’amicizia importante che si è interrotta nel 2010. Al Numbs da quando aprì, quello a piazza Istria, c’ero anche andato. I. Alla fine uno deve vivere da monaco, praticamente no?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono passati cinque anni dall’apertura del processo che ha svelato l’intreccio di interessi tra vigili urbani, imprenditori e la ‘ndrangheta. Ma quel processo segna il passo. Mentre gli stessi imprenditori sospettati di riciclare il denaro della ‘ndrangheta corrono. Acquistano nuove proprietà nella Capitale. Ora se è vero quello che ha detto il magistrato Muntoni, non c’è da stare tranquilli. Il magistrato che gestisce beni sequestrati alla mafia dice: “il sistema malato sopravvive grazie all’operato di quei vigili corrotti che fanno più controlli - pensate un po’ - in quegli esercizi dove è presente lo Stato. Sono un po’ più molli nel fare i controlli agli altri”. Ecco, questo se fosse vero sarebbe un segnale bruttissimo per la città. È ancora più brutto invece il segnale, è arrivato quando è stato coinvolto il più alto in grado dei vigili urbani. E la accusa è infamante: aver percepito delle tangenti.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questo è il documento con cui i vigli urbani affermano che l’indirizzo del sindaco di Roma è incredibilmente sconosciuto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Parliamo dei vigili urbani di Roma, della Capitale. Uno dei più importanti corpi di polizia cittadina d’Europa. Hanno competenze varie che vanno dalla sicurezza stradale al contrasto del degrado nella città al controllo sulle attività commerciali e quello sull’applicazione delle normative anti-Covid. Ora però la loro immagine è stata incrinata da inchieste giudiziarie. Una su tutte, quella del 2012, che ha coinvolto il numero uno, l’ex comandante generale dei vigili Angelo Giuliani. Ecco, è stato accusato da un imprenditore, un grossista di vini e liquori noto nella Capitale, Silvio Bernabei, di far parte di una rete di vigili che esercitavano estorsione ai danni degli imprenditori. Giuliani è stato poi coinvolto nell’ambito dello stesso procedimento in un altro reato: avrebbe percepito una tangente di 30mila euro da un’impresa privata. Quello che è certo è che l’inchiesta della magistratura ha fatto emergere un sistema di corruzione che ruotava intorno alla figura di alcuni consulenti. Che cosa accadeva: io cittadino faccio un abuso edilizio, il vigile viene, ti becca e ti dice “guarda però che potresti risolvere la cosa se ti rivolgi a un consulente”. Tu paghi un consulente, in realtà paghi una tangente al vigile urbano e quello che era insanabile, miracolosamente diventa sanato. Lungo l’inchiesta, lungo la strada, emergono anche intrecci con la politica.
ANGELO GIULIANI AL TG1 DEL 28/02/2012 Io non ho necessità di dimettermi. Poi, io sono il comandante della Polizia Municipale, se minimamente mi sfiorasse l’idea che non sono nelle condizioni di guidare il Corpo più grande d’Italia la mia coscienza mi imporrebbe di fare un passo indietro.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pochi giorni prima della sua destituzione, Giuliani tesse ancora la sua trama per continuare a condizionare la politica.
INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 1 AGOSTO 2012 ANGELO GIULIANI AL TELEFONO CON UN AMICO ANGELO GIULIANI A compa’ qui l’unica maniera è costruire una forza che la possiamo dà a chi cazzo ce pare. Devo trovare una brava persona che sia destra o sinistra a me non me ne frega un cazzo. Dopodiché vediamo un attimino come stanno le cose, a un certo momento, vediamo chi cazzo sta davanti e ci mettiamo una lista civica, un amico che ci dà retta, o no?
INTERLOCUTORE Va bene, sì, lo troviamo.
ANGELO GIULIANI Però sta roba statte zitto eh!
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le indagini della procura portano all’arresto del comandante che, nel corso del 2014, viene prima scarcerato, poi sospeso quindi reintegrato dal giudice del lavoro che revoca la sospensione per un vizio di forma. Cinque anni dopo il processo per la presunta tangente da 30mila euro finisce prescritto. Il giudice stigmatizza i comportamenti dell’ex-comandante generale. Quanto al giro di estorsioni messo in piedi ai danni di commercianti e privati cittadini, Giuliani è stato scagionato ma molti vigili sono ancora sotto processo. Tra le vittime di quel sistema c’è anche Vincenzo Conticello, imprenditore per anni sotto scorta per aver rifiutato di pagare il pizzo alla mafia. Lascia Palermo per Roma e apre il suo ristorante. Ma non sa cosa lo aspetta.
VINCENZO CONTICELLO Il sistema funzionava così: c’erano delle pseudo agenzie immobiliari. Se ti rivolgevi all’agenzia X, immobiliare-disbrigo pratiche, a cui si rivolgono quasi tutti. La consulenza costava 14-15mila euro. 12mila-13mila sono le mazzette che in parte prende per sé stesso e in parte distribuisce.
DANIELE AUTIERI Con Napoli che rapporti hai avuto?
VINCENZO CONTICELLO Mi ci sono visto dieci volte, venti volte…
DANIELE AUTIERI E lui che ti diceva?
VINCENZO CONTICELLO Devi stare tranquillo. In un bar di piazza Venezia. E lui mi dice delle cose chiare, sugli aspetti dei permessi. Vincenzo tu hai sbagliato, non ti sei rivolto alle persone corrette.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Napoli citato da Conticello era l’allora comandante del I Gruppo, quello che controlla il centro storico di Roma. Lo stesso dirigente che nel luglio scorso Virginia Raggi nomina comandante generale del Corpo.
DANIELE AUTIERI Comandante, buongiorno, sono Daniele Autieri di Report. Stiamo facendo un servizio sul corpo.
DANIELE AUTIERI Le posso fare qualche domanda?
STEFANO NAPOLI, COMANDANTE GENERALE DEL CORPO DI POLIZIA LOCALE DI ROMA CAPITALE Non credo sia questa la sede e il momento.
DANIELE AUTIERI Conticello ci racconta che voi vi incontraste in un bar a piazza Venezia e che lei gli fece chiaramente capire che il problema di Conticello era che non aveva parlato con le persone giuste…
TEFANO NAPOLI Non credo che questo possa essere corrispondente alla verità…
DANIELE AUTIERI Non è la verità?
STEFANO NAPOLI No, assolutamente.
DANIELE AUTIERI Ma lei era il comandante del primo gruppo. Addirittura lei arrivò, se non sbaglio, a spostare 30 agenti.
STEFANO NAPOLI Quella fu una decisione dell’amministrazione a cui io ottemperai.
DANIELE AUTIERI E perché, perché c’erano delle situazioni di rischio di corruzione, di fenomeni di corruzione?
STEFANO NAPOLI C’era stata una situazione che nasceva da una indagine svolta da me, dal I Gruppo e alla luce di quella indagine ci fu una decisione dell’amministrazione di effettuare una rotazione del personale del I Gruppo.
DANIELE AUTIERI Con Giuliani che rapporto c’era?
STEFANO NAPOLI Era il mio comandante del Corpo.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il I Gruppo viene di fatto smantellato, mentre Stefano Napoli rimane al suo posto, protetto dal comandante Angelo Giuliani.
INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 19 GIUGNO 2012 ANGELO GIULIANI Dobbiamo parla’ un attimino, te vojo insegna’ qualche trucco… no, no, te lo dico con affetto.
STEFANO NAPOLI Mi insegni qualcosa…
ANGELO GIULIANI No, no c’hai poco da impara’, dopo ste pressioni t’è cresciuto 6, 7 palmi di pelo.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Napoli non è solo l’allievo di Giuliani. È l’uomo che lo aiuta a risolvere le situazioni più imbarazzanti. Giuliani telefona a Napoli e chiede un aiuto per l’onorevole Marco Marsilio, in seguito fondatore di Fratelli d’Italia insieme a Giorgia Meloni e oggi presidente della Regione Abruzzo.
INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 11 SETTEMBRE 2012 ANGELO GIULIANI CSte’, una cortesia, mi sta bombardando l’onorevole Marsilio…
STEFANO NAPOLI Che vonno?
ANGELO GIULIANI Onorevole Marsilio per via del Vantaggio c’era stato un nostro intervento edilizio e c’era anche l’ufficio tecnico, sono già due mesi, doveva mandare la relazione. Se me la puoi sollecitare sennò non so che cazzo dirgli…
STEFANO NAPOLI Vabbè domani ti richiamo e mi fai dare qualche dettaglio.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pochi giorni dopo c’è un’altra persona da aiutare, che arriva a nome di Matteo Costantini, un consigliere del I municipio di Roma.
INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 20 SETTEMBRE 2012 STEFANO NAPOLI Ciao angele’
ANGELO GIULIANI Quando ti posso mandare una persona? Legata con la persona… che ci sei andato a parlare.
STEFANO NAPOLI Guarda oggi sono fuori, sto a caccia, fammela veni pure domani alle cinque del pomeriggio…
ANGELO GIULIANI Alle 5 del pomeriggio, viene a nome di Matteo Costantini, ok?
STEFANO NAPOLI Va bene, ok.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Negli anni in cui Stefano Napoli guida il nucleo dei vigili del centro storico che comprende anche Trastevere, il sistema si mette in moto dopo il sequestro di un’immobile dove è stato realizzato un soppalco irregolare.
TESTIMONE ABUSO EDILIZIO Questo vigile mi convoca al comando di Trastevere e come prima cosa mi mette in contatto con un avvocato. Io e mio marito andiamo dall’avvocato, che prepara le carte per poter riaprire il cantiere per la rimozione del soppalco.
DANIELE AUTIERI Quindi il soppalco poi lo rimuovete?
TESTIMONE ABUSO EDILIZIO In realtà no. Il vigile passava spesso in cantiere e ci ripeteva che dovevamo stare tranquilli perché aveva trovato un modo per mettere in regola la casa.
DANIELE AUTIERI Mi scusi signora, questo vigile le ha mai chiesto dei soldi?
TESTIMONE ABUSO EDILIZIO All’inizio no, poi quando i lavori erano quasi finiti la persona che ci aveva messi in contatto con il vigile ci dice che dovevamo pagare 12mila euro. Per noi è stata una botta.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I vigili scrivono un’informativa in cui dichiarano che l’immobile è di nuovo a norma. Informativa che finisce sul tavolo del pubblico ministero che studia i documenti ed emette il decreto di dissequestro. TESTIMONE ABUSO EDILIZIO Qualche mese dopo il dissequestro riceviamo la parcella dell’avvocato: altri 4.500 euro. Ma per noi in realtà l’avvocato era stato già pagato con quei 12mila euro che avevamo dato al vigile. A quel punto ci si è accesa una lampadina. Contattiamo un tecnico che n viene a casa, vede l’abuso e ci dice che quell’abuso era impossibile regolarizzarlo.
DANIELE AUTIERI Mi faccia capire, i vigili avevano inventato tutto?
TESTIMONE ABUSO EDILIZIO Sì, esattamente, i vigili si erano inventati tutto.
DANIELE AUTIERI E quindi che fate?
TESTIMONE ABUSO EDILIZIO A quel punto io e mio marito ci siamo autodenunciati. E chiaramente abbiamo denunciato anche i vigili.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dalla sua denuncia si è aperto un processo dove sono coinvolti quattro vigili urbani. Ecco a questa denuncia se n’è aggiunta anche un’altra, del grande accusatore di Giuliani, Silvio Bernabei. Dice: “Anche io sono stato vittima di quel racket dei vigili”. Solo che le indagini le conduce lo stesso corpo di Polizia Locale. Giuliani le affida al suo allievo, Stefano Napoli, il quale in qualche modo impiega sei mesi prima che la sua informativa finisca in Procura. Ecco, secondo l’imprenditore Bernabei, tutto questo tempo sarebbe servito per sistemare bonariamente la vicenda e lavare i panni sporchi in famiglia. Napoli e Giuliani da noi ascoltati smentiscono questa versione ma Bernabei ci ha fornito il fax che ha spedito al suo avvocato e sembrerebbe confermare questa versione. Ora dopo nove anni l’ex comandante Giuliani è stato prescritto dalle accuse di tangenti mentre è ancora sotto processo perché è sospettato di aver influenzato la nomina del presidente del concorsone dei vigili. Oggi Giuliani è a capo del gruppo dei vigili dell’Eur. Mentre invece il suo allievo Stefano Napoli è stato nominato a luglio scorso dalla sindaca Virginia Raggi nuovo comandante generale dei vigili urbani. Ora in merito invece ai procedimenti penali aperti negli ultimi anni nei confronti dei 28 agenti del corpo di polizia locale Virginia Raggi, la sindaca, sottolinea che almeno nella metà dei casi le indagini sono state condotte dalla polizia locale stessa. È proprio questa anomalia che abbiamo cercato in qualche modo di evidenziare perché tutto questo alimenta il sospetto di autoreferenzialità. È ovvio che la pace è da preferire alla guerra. Soprattutto se si guarda all’esperienza del sindaco precedente. Aveva istituito una app. Si chiamava Io Segnalo e doveva favorire le denunce di malfunzionamento di alcuni aspetti della città. Ecco, come è andata a finire quella app?
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Uno dei rari tentativi di controllare dall’esterno l’operato degli agenti della polizia locale viene fatto nel 2015 quando la Giunta guidata dal sindaco Ignazio Marino istituisce “Io Segnalo”, una app che permette a chiunque di denunciare gli illeciti, obbliga i vigili a intervenire e a riferire l’esito dell’intervento.
IGNAZIO MARINO, EX-SINDACO DI ROMA Questa app è stata introdotta verso il termine del mio mandato e faceva parte di un disegno molto più ambizioso.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’Operazione di moralizzazione e trasparenza IO SEGNALO avviata dal sindaco dura poco. Fino a quando qualcuno che aveva segnalato gli illeciti viene minacciato di morte.
TESTIMONE IO SEGNALO Ricevo una chiamata verso mezzanotte da un numero anonimo, dove mi minaccia di morte, lui sa che chiamo i vigili in zona, mi ammazza, mi spacca la macchina, sa dove abito.
DANIELE AUTIERI E lei dopo questa telefonata cosa fa?
TESTIMONE IO SEGNALO Io dopo questa telefonata sporgo denuncia al commissariato di Polizia.
DANIELE AUTIERI Riceve altre minacce?
TESTIMONE IO SEGNALO Seconda meta di settembre mi citofonano all’ora di cena, rispondo, chi è? Un amico. Chiedo ancora chi è? E non risponde più nessuno. Scendo per buttare la spazzatura e trovo un biglietto attaccato al citofono dove c’è scritto il nome e cognome mio: hai fatto fare multe a centinaia senza motivo ora ti bruciamo casa e ti diamo fuoco alla macchina brutto infame.
DANIELE AUTIERI Dalla sua denuncia inizia un’indagine?
TESTIMONE IO SEGNALO Dove viene fuori che il marito di una vigilessa mi ha fato la chiamata minatoria a mezzanotte.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La procura scopre che in tanti sono stati minacciati dai vigili urbani per il numero eccessivo di denunce. E in tutti questi casi c’è da chiarire un particolare non trascurabile. Chi svela l’identità di chi segnala le irregolarità sulla app?
TELEFONATA REGISTRATA AGENTE POLIZIA LOCALE Buongiorno, è il quarto gruppo della polizia locale di Roma Capitale. Le volevo chiedere una cortesia, siccome abbiamo pochissimo personale, se continua a farci tutte queste segnalazioni rischia di non avere soddisfazione.
TESTIMONE IO SEGNALO Io ne ho fatte un paio.
AGENTE POLIZIA LOCALE No veramente ne ha fatte quattro già da sta mattina.
TESTIMONE IO SEGNALO Mi perdoni, ma lei mi telefona per questo?
AGENTE POLIZIA LOCALE La volevo avvisare…
TESTIMONE IO SEGNALO Innanzitutto lei come ha fatto ad avere il mio numero mi perdoni?
AGENTE POLIZIA LOCALE Noi leggiamo tutto, siamo la Polizia signore, non so lei a chi pensava di rivolgersi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Noi leggiamo tutto, siamo la Polizia. Ecco la Polizia invece di tutelare chi denunciava nel caso di Io Segnalo, tutelava i denunciati. Ora le indagini della magistratura hanno se non altro evidenziato un ruolo, un comportamento, un po’ ambiguo di alcuni vigili. Si ha l’impressione che il corpo dei vigili urbani, se intaccato, va in autotutela. E risulta impermeabile a ogni tentativo di intromissione esterna. Come nel caso di un marziano, che è sbarcato a Roma. Ma senza astronave.
IGNAZIO MARINO, EX-SINDACO DI ROMA Una situazione che sorprese anche me fu il fatto che i vigili della polizia municipale di Roma ricevevano, io appunto ho ricordato che mi sono insediato nei mesi estivi, ricevevano lo straordinario notturno a partire dalle 16 del pomeriggio.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ignazio Marino non lo sa, ma il suo tentativo di riformare la prassi degli straordinari rischia di destabilizzare gli equilibri interni del Corpo. Un agente tuttora in servizio ci spiega perché.
AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE Il corpo funziona con lo straordinario. C’è tutto un sistema clientelare dietro, per cui invece di assumere personale, tirano fuori soldi dal cilindro e ti fanno fare questo e quello a pagamento extra.
DANIELE AUTIERI Lei trova qualcuno che ha fatto mille ore di straordinario in un anno.
AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE Più di mille ore. DANIELE AUTIERI Più di cento al mese. Quanto vale un’ora di straordinario?
AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE Siamo su mille ore, diecimila euro.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 31 dicembre del 2014, a tre settimane dall’arresto di Massimo Carminati e degli uomini del Mondo di Mezzo, e mentre monta lo scandalo che coinvolge l’ex comandante Angelo Giuliani, 767 agenti si danno malati e mandano deserto il Capodanno di Roma.
IGNAZIO MARINO Avevamo previsto circa 900 vigili in servizio per la sicurezza dei cittadini di Roma e dei turisti e nelle ore pomeridiane, serali, iniziarono ad arrivare oltre 700 certificati medici. Dissi, ma cosa sta accadendo? C’è un virus…
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Lo scandalo di Capodanno fa il giro del mondo, coprendo di ridicolo la Capitale. Il comandante Raffaele Clemente si reca in procura affinché si indaghi su un possibile un sabotaggio orchestrato dalle sigle sindacali. Ma i sindacati verranno tutti assolti. Per il giudice si trattava solo di cani sciolti. 767 cani sciolti.
DANIELE AUTIERI Un’altra occasione di scontro molto forte è quando lei decide di portare avanti il suo piano anti corruzione del corpo di polizia di Roma Capitale.
IGNAZIO MARINO Quando mi resi conto che il personale non ruotava da molti anni, in alcuni casi da due decenni, ritenni che fosse giusto, sano per l’amministrazione avere una rotazione di alcune figure.
AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE I dirigenti si sono inventati una cosa… Dalla rotazione dobbiamo escludere le persone che fanno lavoro particolarmente indispensabile e questi non ruotano. Allora vedi che anche settori in cui volendo c’è la corruzione quella sporca, quella brutta, dei soldi, è chiaro che se un dirigente partecipa lì ci mantiene chi dice lui perché se entra un elemento di disturbo rovina tutto il sistema. DANIELE AUTIERI Per quanto tempo i vigili mantenevano i loro incarichi?
ALFONSO SABELLA, MAGISTRATO La rotazione a Roma veniva fatta in modo particolare. Se prima un ufficio si chiamava patate e cipolla, poi si chiamava cipolla e patate. E le persone avevano ruotato. Ma la gente faceva le stesse cose. Ma al di là di queste cose, che abbiamo ovviamente risolto… sui vigili c’era problema rotazione non tanto verticale, ma quella orizzontale/territoriale, cioè spostare dei vigili dai gruppi in cui lavoravano in altri gruppi. Il problema è che c’erano vigili che erano radicati in quei territori da 20 anni, 22 anni. E le dico che appena abbiamo cominciato a eseguire la rotazione, con Clemente abbiamo constatato un incremento esponenziale delle sanzioni elevate.
DANIELE AUTIERI A un certo punto voi approvate la riforma.
ALFONSO SABELLA La approviamo, ce la impugnano al tar, e vinciamo.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 30 ottobre del 2015 26 dei 48 membri dell’assemblea capitolina rassegnano le loro dimissioni per far cadere la giunta Marino. L’assemblea viene sciolta e il prefetto della Capitale, Franco Gabrielli, nomina come commissario Francesco Paolo Tronca.
DANIELE AUTIERI Mi sembra che nemmeno la sindaca Raggi ha preso in mano le riforme?
ALFONSO SABELLA Deve sfidare i vigili, devi avere il coraggio di sfidare determinati centri di potere.
DANIELE AUTIERI Eravate dei marziani?
ALFONSO SABELLA Ignazio è arrivato a Roma come marziano, ma un marziano non può arrivare sulla terra con bicicletta, ma con un’astronave, e lui si è portato una bicicletta…
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A creare guai seri al sindaco non è la sua bicicletta. Ma la sua Panda Rossa. A novembre del 2014, dal nulla spunta una montagna di multe per violazione dei varchi di accesso Ztl nel centro della capitale. Multe mai pagate. Perché il sindaco di Roma risultava sconosciuto ai suoi vigili.
IGNAZIO MARINO, EX-SINDACO DI ROMA Io non ero assolutamente al corrente di queste multe perché vennero effettivamente emesse ma non vennero inviate a me.
DANIELE AUTIERI E dove vennero inviate?
IGNAZIO MARINO Vennero inviate all’autoparco del Comune.
DANIELE AUTIERI La macchina era la sua? E nonostante questo le inviarono…
IGNAZIO MARINO Sì, perché in alcune delle notifiche scrissero che il soggetto si era trasferito o era sconosciuto.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questo è il documento che certifica l’impossibilità di reperire Ignazio Marino. Per chi gli deve contestare le multe l’indirizzo del sindaco di Roma è incredibilmente sconosciuto.
DANIELE AUTIERI In merito alla vicenda c’è un altro elemento oscuro che dipende dal fatto che fosse stato manomesso il sistema di controllo interno del Comune di Roma…
IGNAZIO MARINO Il procuratore scrisse nero su bianco che era evidente che c’era stato un hacker che era entrato nel sistema informatico del Comune di Roma, aveva manipolato i dati del sindaco per alterare il suo permesso in modo tale che quando le telecamere della Ztl vedevano il mio permesso segnalassero che era scaduto.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A giugno del 2016 Virginia Raggi viene eletta sindaco. Il comandante dei vigili Renato Marra si confida con il fratello Raffaele, controverso consigliere della prima cittadina. Lo mette in guardia sul potere dei Vigili delegati al pronto intervento nel centro storico. IL cosiddetto PICS.
INTERCETTAZIONE RENATO MARRA Il problema è che quello vuole utilizzare i Pics per sapere e addentrarsi nei vari assessorati e nei movimenti del sindaco e ricordati che sono molto pericolosi
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 14 luglio dello stesso anno il comandante Renato Marra invia al fratello Raffaele un messaggio whatsapp. Che ha il sapore di un monito.
TESTO MESSAGGIO «Ti ricordi la panda rossa in divieto di sosta? Ti ricordi la storia delle multe? La bottiglia di vino pagata con la carta del comune? Tutte queste notizie sono state diffuse ad arte dai Vigili del pronti intervento del centro storico. Che controllava per il Pd tutti gli spostamenti di Marino. Parlane con il sindaco». IGNAZIO MARINO Rimasi spiazzato perché leggere che il Partito Democratico voleva utilizzare alcuni vigili, per trovare, individuare disperatamente qualcosa che potesse essere utilizzato contro il sindaco… certo è inquietante.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Inquietante. È un’informazione che Renato Marra, comandante dei vigili urbani, condivide con il fratello Raffaele, che è anche consigliere della sindaca. Ecco, non sappiamo se qualcuno gli abbia chiesto informazioni conto di quelle informazioni, quello che sappiamo è che Raffaele Marra è stato condannato in primo grado a un anno e quattro mesi per abuso di ufficio. Avrebbe in qualche modo influenzato la nomina, la promozione del fratello, a capo dell’ufficio promozione e turismo del comune. Nomina avallata dalla sindaca Raggi. Ora la sindaca ha anche attaccato la riforma del corpo della giunta Marino, dice è stata annullata dal Tribunale del Lavoro, ma si dimentica di dire che è stata approvata dal Consiglio di Stato e del Tar. Poi ha assicurato anche che nell’ultimo anno sono ruotati 1200 vigili. Rivendica anche di aver contribuito al ricambio del corpo dando seguito all’assunzione di 1300 agenti. Ribadisce anche, la sindaca, che nessun comandante è rimasto sempre al comando dello stesso gruppo. Dimentica di dire che almeno la metà di quei comandanti ricopre quel ruolo da un paio di lustri. È vero, è ovvio, che ci sono anche tantissimi vigili che credono nella divisa che indossano, che incarnano lo spirito di servizio. È anche per loro che abbiamo raccontato tutte queste criticità.
Dagospia il 24 novembre 2020. Da rai.it. È uno dei Corpi di polizia cittadina più grandi d’Europa: oltre 6mila vigili con competenze che vanno dal decoro urbano alla verifica delle misure anti-Covid. Ma a dieci anni dalle prime denunce che portarono all’arresto del comandante generale del Corpo di polizia locale di Roma, Angelo Giuliani, il sistema di potere all’interno dei vigili urbani della capitale è ancora in piedi. Un sistema che permette agli agenti della Polizia locale di esercitare un controllo totale sulla città: sui commercianti, sugli imprenditori, sui politici, sugli stessi privati cittadini. Attraverso testimonianze e intercettazioni inedite, l’inchiesta ricostruisce i legami tra l’allora comandante Giuliani e l’attuale comandante generale Stefano Napoli, nominato alla guida del Corpo il 30 giugno scorso dalla sindaca Virginia Raggi. Parlano commercianti vittime di estorsione e cittadini minacciati di morte solo per aver segnalato troppe irregolarità, ed emerge per la prima volta il ruolo di alcuni vigili come fiancheggiatori dei clan nella conquista dei locali del centro di Roma. Un sistema così consolidato che è capace perfino di far tremare un sindaco, al punto da rendere lecita la domanda: quale è stato il ruolo dei vigili di Roma negli scandali che hanno portato alle dimissioni di Ignazio Marino?
Daniele Autieri per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 novembre 2020. C'è un processo aperto presso il tribunale di Roma che imbarazza il comandante generale del corpo di polizia locale, Stefano Napoli. La storia è del 2011, ma i suoi strascichi hanno animato le testimonianze rilasciate negli ultimi mesi dallo stesso Napoli e da un altro comandante, David Bonuglia, ai tempi suo assistente al I gruppo, quello che controlla il centro storico di Roma. La vicenda riguarda una presunta estorsione da parte di quattro vigili che risale al 2011. Vittime: prima una donna, poi l' imprenditore di vini e liquori Silvio Bernabei. In entrambi i casi i vigili avrebbero promesso di sistemare irregolarità edilizie in cambio di soldi. Al tempo, Bernabei presenta un esposto all' allora comandante generale Angelo Giuliani che incarica delle indagini il comandante del I gruppo (nel luglio scorso nominato dalla sindaca Raggi comandante generale) Stefano Napoli. L' informativa resta congelata per sei mesi senza essere trasferita in procura. Nel corso della sua testimonianza a processo, rilasciata prima nel 2015 e poi in parte ritrattata nel novembre del 2019, David Bonuglia dichiara: «Mi dette l' incarico Napoli, e mi spiegò che me lo dava a novembre perché c' era stato un tentativo di comporre bonariamente, cui avevano partecipato Napoli e Giuliani». Lo stesso Silvio Bernabei conferma e spiega: « E' vero, hanno cercato di risolvere la questione inter nos » , ovvero trovando un accordo. Interpellato dal programma Report, che nell' inchiesta "Potere capitale" ha ricostruito la vicenda, Napoli nega l' esistenza di qualunque tipo di accordo: « Tanto è vero che al termine di quell' indagine sono stati deferiti dall' autorità numerosi colleghi». Napoli fa riferimento ai circa 30 agenti trasferiti dal Gruppo di Trastevere proprio per il rischio corruzione. Tuttavia, nonostante la difesa del comandante, è anche vero che il 4 aprile del 2012 i carabinieri si presentano in ufficio da Napoli con un ordine di sequestro firmato dalla procura. Gli atti da sequestrare sono proprio quelli legati ai procedimenti sulle presunte estorsioni di Trastevere. Un intervento a gamba tesa che il comandante giustifica come «un atto dovuto concordato con la procura » . Su quell' atto dovuto, ma soprattutto sull' estorsione ai danni di privati cittadini, il processo è ancora aperto.
M.Fv. per “la Repubblica” il 2 dicembre 2020. «Non c' è dubbio che ci sia stata un' organizzazione e una regia precisa per screditarmi e farmi cadere quando ero sindaco, a cominciare dalla vicenda della Panda rossa». Ignazio Marino risponde a 7.000 km di distanza da Roma, dalla Thomas Jefferson University di Philadelphia dove lavora e dove l' equipe medica, racconta, in questi mesi ha assistito «più di 15 mila pazienti col Covid».
Tornare ai fatti di 6-7 anni fa che lo videro protagonista suo malgrado gli strappa un sorriso amaro. C' erano i vigili dietro il caso della sua auto parcheggiata davanti al Senato?
«Non sono in grado di rivolgere accuse specifiche ma sicuramente venne orchestrata la panzana del sindaco senza permesso. Ma le pare possibile? Davanti a Palazzo Madama ci sono i dissuasori mobili, io parcheggiavo lì la mia Panda, accanto alla postazione dei carabinieri, per disposizione del prefetto poiché avevo rinunciato alla scorta».
Eppure quella storia tenne banco a lungo, anche politicamente.
«Ma come può venire in mente a qualcuno che il sindaco di Roma non abbia il permesso di circolare in città?».
Report ha mostrato un' intercettazione inedita tra i fratelli Marra in cui si parla di un tentativo di screditarla ordito con la complicità dei vigili: ha mai percepito "attenzioni particolari" da parte di chi lavorava con lei?
«Se quello che dicono i fratelli Marra, due figure apicali del Comune, fosse vero sarebbe molto grave: il Pd avrebbe lavorato con un gruppo di vigili per costruire dossier falsi contro il sindaco e arrivare alla sua rimozione».
Ne ha mai avuto contezza?
«Sono sempre stato convinto che quel sabotaggio nascesse dall' interno. Le racconto un episodio: quando venni chiamato dall' Economist a Londra a discutere con gli altri sindaci delle capitali europee di investimenti, ricevetti la telefonata del capogruppo del Pd che mi invitava a rientrare a Roma con l' ultimo volo della sera a riferire in Aula sulla Panda rossa, perché altrimenti i lavori dell' assemblea capitolina non sarebbero potuti proseguire. Una richiesta che arrivava dal principale partito della mia maggioranza che, così, aiutava a creare lo scandalo».
Era tutto orchestrato?
«Sì e lo conferma il fatto che "Roma Golpe Capitale" un documentario che racconta in modo articolato quegli episodi è stato finora sempre rifiutato da tutte le tv italiane».
Torniamo ai vigili: Roma si può governare senza l' appoggio della polizia municipale?
«In quel corpo c' erano e ci sono delle irregolarità e delle responsabilità: quando venni eletto mi posi tra i primi obiettivi quello di rendere sicure le piazze più importanti della città. Tra queste c' è piazza Navona che andava presidiata nelle sue 9 vie d' accesso con due vigili per ogni entrata dall' alba a mezzanotte per impedire l' ingresso dei venditori di merce contraffatta. Dopo il primo mese mi resi conto che c' erano delle uscite rilevanti per straordinari e scoprii che per i vigili lo straordinario notturno scattava dalle 16. Fu per questo che avviai un' interlocuzione costruttiva per arrivare anche alla rotazione dei vigili. La rotazione non era un mio capriccio, è prevista dalla legge».
La stessa che ha provato a chiedere Raggi a Napoli provocando le sue dimissioni. Ha consigli da dare alla sindaca sulla ricerca del prossimo comandante?
«Nessun consiglio. Posso dire quello che feci io quando nominai Raffaele Clemente che arrivava dalla polizia: una ricerca di curricula all' altezza del compito e una selezione seria».
Flaminia Savelli per ilmessaggero.it il 4 dicembre 2020. La nomina di un generale dell' Esercito a capo dei vigili urbani deflagra sottotraccia nei ranghi della Municipale di Roma. La sindaca Virginia Raggi ha scelto Paolo Gerometta, alto ufficiale in ausiliaria, insomma in prestito dal Ministero della Difesa, per rimpiazzare l' ex comandante Stefano Napoli, dopo un' ondata di polemiche, vecchi scandali tornati a galla e malumori. Con la decisione di assegnare a un esterno la guida della polizia locale, la polemica sta già montando tra i 6mila agenti. E rischia di tradursi in uno sciopero bianco. «Lasciamo a casa orologio e penna. Sono gli strumenti, insieme al fischietto, del nostro mestiere. Senza non possiamo notificare atti e multe» annuncia Mauro Cordova, presidente dell' Arvu, l' associazione romana vigili urbani che conta oltre 2 mila iscritti. La minaccia è di lasciare le strade della città, nelle due settimane più calde dell' anno per le festività natalizie, senza regole e controlli. Con una protesta che fa leva su un cavillo burocratico: le forniture di orologi e penne ai pizzardoni romani non arrivano dal comando generale. «Li compriamo noi, io stesso rifornisco i miei iscritti» spiega Cordova, che di proteste e battaglie sindacali ormai è esperto. Negli anni 70, Cordova, era un agente in servizio del centro storico quando alla guida del comando Generale c' era Francesco Andreotti, fratello del senatore Giulio. Poi ha attraversato mezzo secolo di storia dell' amministrazione capitolina come funzionario e quindi come presidente dell' Arvu. Ora, in testa all' ennesimo braccio di ferro tra pizzardoni e amministrazione. Ad accendere la miccia della protesta non sarebbe però solo la nomina del generale Gerometta. I motivi dei pizzardoni avrebbero radici più profonde. Da giorni il malcontento è alimentato da polemiche e incertezze: «Ci sentiamo traditi, il corpo della Municipale è stato attaccato su più fronti e non è stato difeso» dice Cordova. A partire dal servizio di Report andato in onda la settimana scorsa e che inanella una serie di inchieste sul corpo della polizia Locale romana. Dalle autorizzazioni per i set cinematografici, alle ombre sui gruppi che coordinano i controlli su negozi e ristoranti del centro storico. Indagini archiviate ma che hanno spinto il Campidoglio a procedere con le rotazioni dei vigili destinati agli incarichi più delicati, e cioè commercio e ambulanti. La risposta, al pugno duro della sindaca Raggi che ha incassato pure le dimissioni dell' ormai ex comandante Napoli, sta dunque arrivando. Con i caschi bianchi che senza orologi e penne, si stanno preparando a notificare atti e sanzioni con tempi lunghi. A rallentare il lavoro dunque, e le pratiche. Minacciando addirittura l' interruzione del servizio. In settimane delicatissime per i romani che dovranno già fare i conti con restrizioni e divieti previsti per le norme sanitarie. Una su tutte: il rispetto del coprifuoco, il divieto di circolazione nelle ore notturne tra Natale, Santo Stefano e Capodanno. Ma senza vigili a presidiare le strade. Non si tratta della prima rivolta silenziosa. Durante l' amministrazione del sindaco Ignazio Marino - era la notte del 31 dicembre 2014 - sparirono dai ranghi ben 767 vigili previsti in servizio (con la collaborazione di molti medici di fiducia). Un' assenza di massa per contestare due iniziative dell' ex primo cittadino: aver rimesso in discussione il salario accessorio (lo straordinario notturno alle quattro del pomeriggio) e aver tentato di applicare un sistema di rotazione del personale negli uffici previsto dal piano anticorruzione, sostenuto pure dall' allora comandante del Corpo Raffaele Clemente.
I vicini di casa. Report Rai. PUNTATA DEL 07/12/2020, Daniele Autieri collaborazione di Federico Marconi. Dopo l’inchiesta “Potere capitale”, seguita dalle dimissioni di Stefano Napoli dalla carica di comandante generale ad interim dei vigili urbani di Roma, e dalla decisione della sindaca Virginia Raggi di imporre la rotazione di tutti gli agenti impegnati nel centro storico della Capitale, Report torna a raccontare le anomalie presenti all’interno di uno dei corpi di polizia cittadina più grandi d’Europa. Lo fa ricostruendo per la prima volta, con documenti e testimonianze inedite, una vicenda di abusivismo che coinvolge direttamente gli ultimi due comandanti generali, Stefano Napoli e il suo predecessore Antonio Di Maggio. L’inchiesta riguarda due case acquistate da Napoli e Di Maggio nel 2007 e rimaste abusive fino ad oggi. Due appartamenti che sorgono non troppo distanti dalle Vele di Calatrava, l’incompiuta di Roma immersa in un’area segnata dall’abusivismo urbanistico. Attraverso documenti catastali e contratti d’acquisto, l’inchiesta ricostruisce la genesi di quelle operazioni immobiliari: il valore d’acquisto degli immobili, il conflitto di interesse dei protagonisti, lo scontro acceso con lo stesso Comune di Roma. Uno scontro che arriva fino alle aule del Tar, il tribunale amministrativo regionale, chiamato a esprimersi sulla possibilità di abbattere le case dei comandanti, proprio come accaduto ai villini dei Casamonica, distrutti dalle ruspe nel novembre del 2018 al termine di una maxi operazione condotta dagli stessi Di Maggio e Napoli e vantata con orgoglio dalla sindaca Virginia Raggi.
“VICINI DI CASA” Di Daniele Autieri Collaborazione Federico Marconi Immagini Alfredo Farina – Matteo Delbò Montaggio Andrea Masella Grafiche Michele Ventrone.
ANGELO GIULIANI – COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Io sono il comandante del corpo della polizia municipale. Se minimamente mi sfiorasse l’idea che non sono nelle condizioni di guidare il corpo più grande d’Italia, la mia coscienza mi imporrebbe di fare un passo indietro.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le indagini della procura portano all’arresto del comandante che, nel corso del 2014, viene prima scarcerato, poi sospeso, quindi reintegrato dal giudice del lavoro che revoca la sospensione per un vizio di forma. Cinque anni dopo, il processo per la presunta tangente da trentamila euro finisce prescritto. Il giudice stigmatizza i comportamenti dell’ex-comandante generale. Quanto al giro di estorsioni messi in piedi ai danni di commercianti e privati cittadini, Giuliani è stato scagionato, ma molti vigili sono ancora sotto processo. Tra le vittime di quel sistema c’è anche Vincenzo Conticello, imprenditore per anni sotto scorta per aver rifiutato di pagare il pizzo alla mafia. Lascia Palermo per Roma e apre il suo ristorante.
VINCENZO CONTICELLO Il sistema funzionava così: c’erano delle pseudo agenzie immobiliari. Se ti rivolgevi all’agenzia X, immobiliare-disbrigo pratiche, a cui si rivolgono quasi tutti. La consulenza costava 14-15mila euro. 12mila-13mila sono le mazzette che in parte prende per sé stesso e in parte distribuisce.
DANIELE AUTIERI Con Napoli che rapporti hai avuto?
VINCENZO CONTICELLO E lui dice delle cose chiare sugli aspetti dei permessi; tu hai sbagliato, non ti sei rivolto alle persone corrette.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Napoli citato da Conticello era l’allora comandante del I Gruppo, quello che controlla il centro storico di Roma. Lo stesso dirigente che nel luglio scorso Virginia Raggi nomina comandante generale del corpo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Buonasera. Il giorno dopo la trasmissione la sindaca Raggi ha confermato la fiducia nel suo comandante Napoli, gli ha chiesto però di far ruotare i suoi uomini, quelli che si occupano di controllare gli esercizi commerciali e anche di contrastare l’abusivismo nel centro storico. Però il 30 novembre il comandante Napoli annuncia le sua dimissioni e scrive nella lettera inviata alla sindaca: dice di essere vittima di un vile attacco alla sua dignità, denuncia di essere stato abbandonato dal Campidoglio. E aggiunge: a conferma dell’odiosa campagna mediatica a cui siamo stati sottoposti, la mattina del 26 novembre una troupe di Report si è avvicinata alla mia abitazione. Ora io vorrei rassicurare il comandante Napoli, non c’è alcuna campagna mediatica contro di lui fatta tanto meno da Report, però è vero che il nostro Daniele Autieri è andato a chiedergli conto di quello che aveva scoperto. A lui e anche al suo vicino di casa.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 20 novembre del 2018, otto villini abusivi del clan criminale dei Casamonica vengono abbattuti nella periferia est di Roma. Alla maxi operazione, guidata dal comandante dei vigili urbani, Antonio Di Maggio, partecipa anche la sindaca Virginia Raggi.
VIRGINIA RAGGI – SINDACO DI ROMA Noi dopo trenta anni abbiamo riportato la legalità in un quartiere di Roma nella quale sostanzialmente una famiglia criminale, i Casamonica, la facevano da padrone. E devo ringraziare la polizia locale e tutte le forze dell’ordine.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A pochi chilometri di distanza dalle ville dei Casamonica, sorge un pezzo di Roma, spuntato come un fungo negli ultimi venti anni. Un’enclave dell’abusivismo dove si continua a costruire ancora oggi.
PAOLO BERDINI – ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI ROMA 2016-2017 Qui la proprietà è dell’università di Tor Vergata. Quando iniziò l’esproprio nel 1972 ci si accorse che c’erano tre borgate abusive per 50-55 ettari di terreno occupato.
DANIELE AUTIERI Ma lei quando la acquista sapeva che la casa era abusiva?
ROLANDO DELLEA – RESIDENTE No, assolutamente no. Anzi io confidavo, come credo chiunque compri una casa e accenda un mutuo anche consistente, che la casa sia più che apposto.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Cinquantacinque famiglie hanno acquistato casa all’interno di questo maxi comprensorio, realizzato dalle società del costruttore Franco Di Bonaventura. Tra loro anche il comandante dimissionario del corpo di polizia locale Stefano Napoli e il suo predecessore Antonio Di Maggio. DANIELE AUTIERI Napoli ha lavorato da lei perun periodo? Il comandante. Perché lui ha scritto nel curriculum che aveva lavorato per un po’ per la Cosedil.
FRANCO DI BONAVENTURA – COSTRUTTORE EDILE Un periodo lui ha lavorato anche... ha dato delle prestazioni, ha lavorato come avvocato.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Tra il 2006 e il 2008, mentre vengono ultimate le case, il costruttore si avvale di una consulenza strategica, quella di Stefano Napoli, al quale riconosce un contratto di lavoro part time. Il Comando Generale del Corpo, autorizza il funzionario.
DANIELE AUTIERI Napoli faceva il vigile ancora quando ha lavorato da lei?
FRANCO DI BONAVENTURA – COSTRUTTORE EDILE Napoli chiese l’autorizzazione al loro ufficio e ha lavorato con un contratto a progetto.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Come dimostra questo verbale di immissione in possesso della casa, Stefano Napoli non si limita a fare il consulente, ma è uno degli agenti incaricati dal costruttore a consegnare le abitazioni ai nuovi proprietari. ROLANDO DELLEA – RESIDENTE Io l’ho conosciuto nel periodo in cui ho comprato casa, ma non sapevo che fosse un funzionario dei vigli urbani perché ho avuto modo di incontrarlo negli uffici della società venditrice.
DANIELE AUTIERI Dal costruttore, stava lì.
ROLANDO DELLEA – RESIDENTE Esatto stava lì.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Napoli all’epoca svolgeva mansioni nel gruppo incaricato di controllare proprio quel territorio, alle dipendenze del comandante Antonio Di Maggio. Quando a giugno del 2007 il costruttore finisce di realizzare i villini, il vigile e consulente Stefano Napoli fiuta l’affare. Insieme a Napoli, anche il collega Di Maggio sembra interessato a comprare una casa e il 19 novembre firma il rogito.
ANTONIO DI MAGGIO – EX COMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE La storia della casa è banale. Io acquisto una casa con un rogito notarile normale, sto pagando il mutuo di 800 euro e più al mese. L’ho pagata 3.600 euro al metro, quando a Centocelle stavano a 2.800 le case.
DANIELE AUTIERI Il fatto che questa casa fosse abusiva, lei lo sapeva, non lo sapeva, come era la cosa?
ANTONIO DI MAGGIO – EX COMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE Ma ti pare, ma io sono così bravo, come, sono “sceriffo di Roma”, come mi definisci tu, e vado a spendere… cioè la casa o me la faccio regalare se sono un corrotto oppure se sono una persona… non me la compro. Che cazzo ne sapevo io? Io sono una persona onesta, dite quello che volete, io vi sto dicendo che sono una persona per bene.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Appena un mese dopo, il 19 dicembre, anche Napoli compra un appartamento identico a quello del suo comandante: 47 metri quadrati ai quali si aggiunge anche un posto auto. Napoli però riesce a strappare un prezzo migliore di quello di Di Maggio: paga 100mila euro, circa duemila euro al metro quadrato.
DANIELE AUTIERI Glielo chiedo cortesemente. Lei acquista una casa nel 2007 da un costruttore, da un costruttore da cui lavora?
STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Signor Autieri la ringrazio.
DANIELE AUTIERI È un’operazione regolare? Me lo può spiegare?
STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Signor Autieri le ho risposto, ci vedremo nelle sedi competenti. La ringrazio.
DANIELE AUTIERI Sì, ma una sede competente è anche quella di dare risposte ai cittadini. Lei rappresenta un’istituzione comandante. Io glielo sto chiedendo cortesemente.
STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE E io cortesemente le sto rispondendo: ci vedremo nelle sedi competenti, la ringrazio.
DANIELE AUTIERI Quindi la questione della casa secondo lei è regolare? La casa del 2007, che lei ha acquistato nel 2007?
STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Ci vedremo nelle sedi competenti, la ringrazio.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il contratto dimostra che al momento dell’acquisto Stefano Napoli è consapevole delle irregolarità non sanate dai costruttori che pendono su quelle case. Il comune di Roma chiede che vengano abbattute. Napoli e Di Maggio, entrambi dirigenti del Campidoglio, fanno ricorso al Tar contro il loro stesso datore di lavoro. E vincono.
ANTONIO DI MAGGIO – EX XOMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE Il Tar ha detto al Comune: organizzate una sorta di condono, perché ci pare opportuno, perché le cose non sono chiare.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nonostante siano abusive, quelle case non possono essere abbattute perché, come spiega la sentenza del Tar, l’amministrazione si è avveduta “con colpevole ritardo” dell’illegittimità di quei titoli edilizi.
DANIELE AUTIERI Voi a un certo punto vi rendete conto che Stefano Napoli, anche in virtù dei rapporti che aveva con quel costruttore, fosse a conoscenza che queste case non erano regolari. Andate mai dalla sindaca Raggi a testimoniare tutto questo, a raccontarglielo?
ROLANDO DELLEA – RESIDENTE Noi comunque siamo stati con i nostri legali presso la segreteria della sindaca Raggi e abbiamo depositato tutti gli atti dalla lettura dei quali, poteva tranquillamente desumersi questa circostanza alla sindaca, alla segreteria della sindaca.
DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 16 maggio del 2018 poche settimane dopo la segnalazione depositata presso la segreteria della sindaca, Virginia Raggi nomina Antonio Di Maggio comandante del corpo.
ANTONIO DI MAGGIO – EX COMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE Grazie sindaca Virginia Raggi di avermi dato questo onore di dirigere il Corpo.
PAOLO BERDINI – ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI ROMA 2016-2017 Non sono in grado di controllare entro 60 giorni le richieste e dunque i privati spesso vincono al tribunale perché è scattato il silenzio - assenso. E noi ci troviamo questo pezzo di città abusiva che non ha ancora i marciapiedi. È la capitale dell’inciviltà, è la capitale dell’illegalità.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il silenzio - assenso: è così che l’abusivismo si è divorato pezzi di una città. A essere beffati sono gli onesti. E il Comune che cosa fa? Invece di implementare gli uffici con il personale e snellire la burocrazia, fa come le tre scimmiette. Qui che cosa è accaduto? Che un imprenditore chiede la consulenza, chiede di essere seguito da chi quelle regole dovrebbe farle rispettare ed eventualmente, semmai, sanzionare chi non le rispetta. Uno dice: vabbè, è una cosa bellissima perché alla fine il residence esce regolare. E invece no. Qui è uscito anche abusivo. Quando il Comune se ne accorge e chiede l’abbattimento, il Tar dice ormai è troppo tardi. E qui qual è il ruolo ambiguo? Che chi doveva controllare in realtà Napoli, quell’appartamento pur sapendo che era abusivo, lo acquista. Anzi poi consegna anche le chiavi, come fosse un agente immobiliare, agli altri acquirenti. Anche l’altro comandante Di Maggio acquista l’appartamento abusivo. Lui dice: io non lo sapevo che era abusivo, ma l’ho pagato a un prezzo superiore di mercato. Ecco, c’è qualcosa di irregolare, di losco in tutto questo? Non lo sappiamo. Loro dicono di no e noi gli crediamo. Però sicuramente c’è qualcosa di inopportuno: quando nel 2018 gli acquirenti, gli altri acquirenti vanno dalla sindaca Raggi a raccontare la vicenda e spiegano anche il ruolo dei due vigili, che cosa accade? Che pochi giorni dopo la Raggi nomina comandante generale Di Maggio. Ecco, insomma, così vanno le cose.
DUE VIGILI ROMANI SI ACCOPPIANO NELL'AUTO DI SERVIZIO, PECCATO CHE NELLA FOGA ABBIANO LASCIATO LA RADIO ACCESA. Mario Landi per leggo.it il 23 novembre 2020. La divisa, si sa, ha sempre avuto un certo fascino. Per lui. E per lei. Mettici un infinito turno di pattuglia per tutta la notte e Roma che è romantica perfino davanti a un campo nomadi. E il patatrac è fatto: una coppia di vigili urbani, lei sulla quarantina e lui con qualche anno in più, non hanno resistito e si sono lasciati andare a sesso sfrenato nell'auto di servizio con tanto di scritta sulla fiancata. A testimoniarlo un eloquente audio che qualcuno probabilmente ha registrato approfittando del fatto che i due nella foga avrebbero lasciato l'autoradio accesa. Il file in perfetto stile YouPorn, secondo quanto risulta a Leggo, è finito sulla scrivania del comandante generale della polizia municipale della Capitale Stefano Napoli, uno che nella sua lunga carriera ne ha viste di tutti colori ma forse non ne aveva mai sentita una così. Il fattaccio è successo qualche giorno fa. I due agenti a luci rosse sono in forze al XV gruppo (zona Cassia) e l'altra sera è toccato a loro il pattugliamento notturno del campo rom in via di Tor di Quinto. Lei è più giovane ed è figlia d'arte (la madre è stata un pezzo grosso dei vigili di Roma), lui è più grande e, contro tutti gli stereotipi del pizzardone romano, pare abbia un fisico prestante. L'altra sera, secondo quanto è stato denunciato in un esposto al Comando, erano insieme su una Fiat Tipo di servizio e dalla sede del XV gruppo hanno raggiunto la postazione assegnatagli. Il turno di notte è lungo. Per scambiare quattro chiacchiere via la mascherina. Ma la carne è debole e il Corpo (quello della municipale) anche. Così, via anche la divisa. E poi via il resto. Il motore era spento. Ma l'autoradio di servizio probabilmente no. E così la loro passione e le cinquanta sfumature di municipale non sono rimaste rinchiuse nell'abitacolo. Anzi. In poche ore erano già sulla bocca degli oltre sei mila agenti della Capitale. Al comando generale c'è imbarazzo e rabbia per come i due abbiano gettato nel ridicolo l'intero Corpo. Invece ai piedi della scalinata del Campidoglio, in un bar (neanche a dirlo) tre vigili ci scherzano su davanti a un caffè e uno di loro uscendo intona la canzone Grande Raccordo anulare di Corrado Guzzanti simil Antonello Venditti: «Nella pause faremo l'amore... e se nasce una bambina poi, la chiameremo Romaaaa».
Valentina Errante per “il Messaggero” il 26 novembre 2020. Si indaga per intercettazione abusiva. Perché è stata una cimice, piazzata ad arte, a captare, l' incontro intimo tra due agenti del XV gruppo della polizia municipale. La procura di Roma aveva già aperto un fascicolo sul plico recapitato al comando generale dei vigili urbani lo scorso giugno: due chiavette Usb con la registrazione ambientale di un rapporto sessuale e una lettera anonima che accusava due agenti in servizio di avere fatto sesso, in auto, durante il turno di controllo davanti a un campo rom di Tor di Quinto. Due mesi dopo, quando il caso è stato trasmesso alla procura, non ci sono stati dubbi: sin dal primo momento al procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli è stato chiaro che quella registrazione non venisse dalla centrale, con la radio lasciata casualmente aperta, ma fosse un audio carpito illegalmente. Adesso un' informativa è arrivata anche al pm Paolo Ielo, anche se non c' è alcuna prova che i fatti denunciati siano avvenuti durante il pattugliamento, è solo la lettera anonima a riferirlo. I due agenti potrebbero essere sentiti proprio per chiarire e stabilire se davvero il rapporto sessuale si sia consumato durante il turno. Si potrebbe configurare l' interruzione di pubblico servizio. Ma difficilmente l' aggiunto, che coordina i reati contro la pubblica amministrazione, procederà, non ci sarebbero né gli elementi sufficienti né gli estremi. Quello che si valuta, invece, in procura, è che l' intercettazione abusiva, l' invio dell' audio, la lettera anonima e anche la diffusione della notizia ad alcuni mesi dalla denuncia recapitata al Comando generale, rientrino in una strategia che punti a colpire la vigilessa. Una forma di revenge porn, fattispecie di reato, che prevede pene fino a sei anni e riguarda le vendette compiute attraverso la diffusione di immagini o video a sfondo sessuale senza il consenso dell' interessato. Nessun dubbio sul fatto che la registrazione e l' invio dell' anonimo siano avvenuti in un clima di veleni. La donna, tra l' altro, nel 2016, aveva denunciato, insieme a una collega un suo superiore. Il sovrintendente è attualmente a processo con l' accusa di violenza sessuale aggravata davanti ai giudici della prima sezione penale e l' agente è parte lesa. E la stessa donna, qualche mese fa, aveva firmato una relazione al suo comandante riferendo delle attenzioni particolari e affatto gradite ricevute da un collega. Nel frattempo ai due protagonisti della vicenda è stato notificata ieri l' avviso dell' apertura di un procedimento disciplinare. Sono già stati trasferiti entrambi ad altro incarico e saranno sentiti nei prossimi giorni. L' accusa è di avere leso l' immagine del Corpo. Ma, come sottolinea il legale della donna, bisognerà stabilire «se a danneggiare la municipale non sia stato invece chi ha piazzato una microspia e diffuso l' audio». E intanto la sindaca Virginia Raggi è intervenuta sul servizio di Report, andato in onda lunedì, sui vigili urbani: «Episodi che dipingono un quadro inquietante di possibile corruzione nella Municipale. Le colpe di alcune mele marce non devono però cadere sulle spalle di chi lavora ogni giorno onestamente».
Emilio Orlando e Franco Pasqualetti per leggo.it il 24 novembre 2020. Due inchieste parallele. Una disciplinare interna, l’altra penale che a giorni verrà assegnata al pool di magistrati che si occupano di reati contro la pubblica amministrazione. Dopo lo scandalo della coppia di agenti della polizia Roma Capitale del gruppo Cassia, intercettati mentre facevano sesso in orario di lavoro dentro una macchina di servizio, gli atti sono stati inviati in Procura. L’episodio sarebbe avvenuto a fine agosto in una piazzola davanti l’area che era stata occupata abusivamente del campo nomadi di Tor di Quinto, che era stata bonificata qualche giorno prima. I due agenti, di 52 anni lui e di 40 lei (figlia di una ex dirigente di massimo livello del Corpo della polizia municipale e ora responsabile di un altro dipartimento del Campidoglio) sono stati già trasferiti in via cautelativa dal comandante generale Stefano Napoli. Uno al tredicesimo e l’altra al quattordicesimo gruppo in attesta di ulteriori sviluppi. Tra i reati che si profilano, oltre al peculato d’uso legato all’auto di servizio per scopi personali ci sarebbe anche quello di interferenze illecite nella vita privata. Sembrerebbe infatti che, l’atto sessuale consumato durante il turno di servizio oltre ad essere stato “captato” dalla radio ricetrasmittente digitale di cui sono dotate le “volanti” dei vigili, sarebbe stato anche oggetto di una intercettazione ambientale abusiva, registrata con una penna all’interno della quale c’era una microspia. La cimice sarebbe stata messa da qualcuno prima del servizio e ritirata quando i due amanti clandestini erano rientrati in ufficio. Insomma, una sorta di spy story, i cui contorni sono ancora oscuri e che riserverà a breve altri importanti colpi di scena. La registrazione, infatti, è stata consegnata con un esposto anonimo al Comando. «Ma come li mettono lì per controllare noi e poi fanno certe cose?». Si mette le mani nei capelli Florian Nicolic, uno degli abianti del campo nomadi di Tor di Quinto. La notizia di Leggo ha fatto il giro del campo e tutti, giornale alla mano, commentato tra lo scherno e la rabbia. «Non li abbiamo visti fare sesso - racconta Nicolae - ma è veramente uno scandalo, portano una divisa ed erano in servizio...». C’è poi chi la butta sullo scherzo: «A saperlo che quelli facevano zum zum (mima il gesto con la mano, ndr) - sorride Dimitri - ne approfittavamo per uscire indisturbati, tanto quelli avevano altro a cui pensare. Altro che a noi nomadi...». Taccuini e macchine fotografiche non sono ben viste qua, ma c’è chi fa polemica: «Per una volta voi giornalisti non state qua per noi, ma per altri soggetti... se trovate anche il filmato fatecelo arrivare, così ridiamo un po’».
Stefano Cappellini per la Repubblica il 14 novembre 2020. Per dimostrarsi romani occorre un test? Non funzionerebbe o non sarebbe attendibile: i fantomatici romani "da sette generazioni" sono una leggenda. Però quello proposto dal libro di Francesco Rutelli, Tutte le strade partono da Roma , ha una sua efficacia. Occorre una certa pratica della città per conoscere anche solo in teoria la differenza tra Infernetto, Infernaccio, vicolo dell' Inferno e valle dell' Inferno. Sono zone ben distanti le une dalle altre e vi basti sapere che l' ultima, valle dell' Inferno, è in zona Vaticano. A Roma succede. Il confine tra santità e perdizione è volatile. Quello tra lecito e illecito pure, tanto che gli antichi provarono invano a separare con un muro le virtù dei Fori dai vizi della Suburra, proprio laddove oggi sorge l' Hotel Forum caro a Beppe Grillo (questa è facile ma obbligatoria). Le vie della Capitale, ha ragione Rutelli, «sono democratiche »: attraversano tutto e dappertutto portano, partono borghesi e sortiscono proletarie, ma pure viceversa, svanisce il centro e principia la periferia senza che il viandante abbia mai cambiato strada, e non conta mica solo il davanti e il dietro, anzi è l' unico posto dove il sopra e il sotto contano quasi di più, perché come scrive Montaigne, a Roma si cammina «sul tetto di case antiche» e «i resti sono profondi fino agli antipodi». Il pregio di questo libro ibrido - compendio storico, guida culturale e memoir personale, lo studio, gli amori e certo la politica dell' autore, Rutelli è stato senza dubbio il miglior sindaco degli ultimi trent' anni - è non trascurare nessuna dimensione. In senso letterale, perché a Roma conta molto anche il contrasto sorprendente tra il grande e il piccolo, che può nascondere meraviglie. Per esempio, sono convinto che solo uno su dieci dei romani o non romani che leggeranno è a conoscenza del fatto che nell' anonimo muraglione che sorregge la ferrovia dalle parti di Porta Maggiore si apre una porticina che conduce a una basilica sotterranea neopitagorica. Lì c' è la tomba in marmo del fornaio Eurisace, morto ricco, tanto da effigiare le pareti del sepolcro con le scene di lavoro del grano e del pane. E consola sapere quanto anche all' epoca funzionasse il genere pizza a taglio, ovvero il negozio che non manca in alcuna via della città. C' è una storia, mille storie, per ogni consolare, l' Appia regina viarum , depredata per secoli, la Tuscolana che in origine partiva dal Colosseo, la Casilina che porta a Tor Bella Monaca passata in vent' anni dagli insediamenti abusivi alle torri di edilizia popolari, l' Aurelia costruita sull'asservimento degli Etruschi, che il gallico Rutilio Namaziano percorre verso casa nel V secolo dopo Cristo raccontando nel De reditu suo (Il ritorno) quanto struggente fosse, e sia sempre stato, l' addio allo splendore della città. Sapete qual è il Km zero di tutte le vie consolari? È la statua del Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio (la copia, l' originale si può ammirare ai Musei capitolini). Campidoglio, potere del nome. Perché la toponomastica romana è così seminale da essere presente in decine di Paesi sparsi nel mondo, a cominciare dal Capitolium più famoso dopo l' originale, quello che ospita il Congresso degli Stati Uniti i cui affreschi, peraltro, sono romanissimi. A dipingerli fu Costantino Brumidi, pittore di corte di Pio IX e architetto, arrestato con l' accusa di aver collaborato alla rivoluzione del 1848-49. Prima condannato, poi prosciolto, partì per l' America da Civitavecchia per sfuggire alle vendette dei cardinali: l' Apoteosi di George Washington sulla cupola del Congresso è opera sua, così come L' Europa e l' America che si stringono la mano fuori dall' ufficio postale del Senato (è da quelle parti che Rutelli, in visita negli Usa, incontra per la prima volta Joe Biden, allora presidente della commissione Esteri, e si sente dire: «Se avessi i tuoi capelli sarei presidente»). Prima di fuggirsene, Brumidi aveva preparato un progetto per buttar giù mezzo Castel Sant' Angelo e far posto a una strada che collegasse il Vaticano al Quirinale. Il castello è rimasto lì, tutto a Roma resta lì, ma anche se svanisce non è detto che faccia grande differenza tra eterno e provvisorio (come racconta a suo modo il diversissimo ma complementare libro di Nicola Lagioia, La città dei vivi). Persino il Tevere ha rischiato più volte di essere "tombato" o deviato, ben prima delle strepitosa gag di Carlo Verdone in Gallo cedrone che proponeva di asfaltarlo («Ma 'sto fiume ce serve o nun ce serve?»). L'andirivieni tra presente e passato è continuo, come quello tra pubblico e privato (quest' ultimo quasi sempre legato ai ricordi di scorribande a due ruote, bici, cinquantini, moto Guzzi, Rutelli all' inizio fu il "sindaco in motorino"). In una palazzina dell' Eur a via Eufrate Rutelli incontra Pier Paolo Pasolini in un giorno di fine ottobre del 1975. Gli dice: «È un onore conoscerla, verrò ad ascoltarla tra pochi giorni al congresso dei Radicali a Firenze». Pasolini avrebbe dovuto parlare l' ultimo giorno di lavori. Ma prima imboccò la strada che porta Roma al mare senza lasciare Roma, diretto in un posto detto Idroscalo.
Franco Montini per “la Repubblica - Edizione Roma” il 4 novembre 2020. «Mio padre Dino, milanese doc, diceva che Roma lo divertiva, lo faceva ridere e per questo, piuttosto che per ragioni di lavoro, decise di trasferirsi nella capitale. Oggi, invece - prosegue Marco Risi - complice la pandemia, le parole più attuali mi sembrano quelle pronunciate da Gore Vidal in una celebre scena del film "Roma" di Federico Fellini: "Non c' è posto migliore di questa città, morta e rinata tante volte, per vedere se arriva la fine del mondo"».
A suo avviso, c' è davvero da temere il peggio per il futuro della città?
«Non saprei: mi limito ad osservare che, se per qualche tempo, i romani sono stati ligi alle regole, ordinati, disciplinati, gentili, disponibili, molto rapidamente tutto è stato dimenticato. Le persone per strada sono tornate a guardarsi in cagnesco, gli automobilisti a suonare ai semafori e a parcheggiare in terza fila, ma soprattutto non si sono mantenuti i doverosi comportamenti sociali che raccomandavano attenzione e distanziamenti. L' impressione è che i romani non riescano a credere che le cose temute possano accadere realmente».
Insomma, ben venga lockdown?
«Per carità non voglio dire questo: in primavera durante la reclusione ho sofferto per l' impossibilità di andare al cinema e ora trovo irragionevole la chiusura di questi luoghi che sono i più sicuri e protetti della vita sociale. Durante il lockdown, ho cercato di resistere all' isolamento, continuando a fare le cose di sempre: leggere, scrivere, ideare progetti, sentire gli amici, ma senza provare alcun senso di colpa per le cose che avrei dovuto fare e non facevo, giustificato, per una volta, dalle inevitabili limitazioni imposte dalla pandemia».
Questa capacità di sapersi adattare anche alle situazioni difficili e complicate è considerata una caratteristica tipicamente romana.
«Non so se derivi da un innato cinismo o sia frutto di un Dna che affonda le radici nella storia, per cui i romani, me compreso, hanno l' impressione di sapere tutto, di essere sempre un passo avanti, anche se in realtà sappiamo pochissimo e vivacchiamo sulle ceneri di Giulio Cesare».
Le sarebbe piaciuto vivere nella Roma dei Cesari?
«La vita delle classi più abbienti e dei patrizi era certamente bellissima: libagioni, avventure, servitù a non finire. Lo spettacolo dei gladiatori al Colosseo era certamente più emozionante e coinvolgente del calcio allo stadio Olimpico. Ma se eri figlio del popolo o, peggio ancora, schiavo, la fatica e il dolore erano esperienze quotidiane. In ogni caso, l' antica Roma mi affascina molto».
Tuttavia, non si è mai cimentato nel cinema peplum e nella sua filmografia i film romani, a prescindere dai generi, sono un' esigua minoranza.
«Innanzi tutto perché girare a Roma è complicatissimo per questione di permessi e di traffico. E poi le persone detestano le invasioni di quelli che chiamano i cinematografari. Oggi, quando i camion delle troupe arrivano ed occupano i posti auto sotto casa, fioccano le proteste. Anni fa, per il film "L' ultimo capodanno", per qualche giorno, in orario notturno, bloccammo, benché solo in un senso, il traffico sul ponte delle Aquile: la seconda sera nella corsia opposta un automobilista rallentò, quasi fermandosi. Pensavo volesse curiosare e salutare qualcuno: invece, quando scoprì che si stava girando un film, ripartì a tutta velocità apostrofandoci con un generoso "andatevelò a piglia'"».
Invece, in passato, i rapporti fra Roma e il cinema era idilliaci.
«Non so se fossero davvero idilliaci, forse, più realisticamente, a Roma negli anni '60 si respirava nell' aria la gioia di vivere e si era tutti più sereni. Di sicuro, c' era un maggiore rispetto nei confronti degli altri. Inoltre poter dire di avere un padre regista incuteva una certa soggezione: oggi, al contrario, il lavoro nel cinema ha perso qualsiasi fascino».
Avere un padre famoso, conoscere i volti più popolari del cinema dell' epoca, le ha consentito di vivere un' infanzia e una giovinezza da privilegiato?
«In realtà non più di tanto. È vero che sono cresciuto in un quartiere ricco, in un appartamento di fronte al ristorante Celestina in viale Parioli 103/a, ma nella zona il nostro condominio era chiamato il palazzaccio, perché particolarmente brutto. Il mio amico d' infanzia, Massimo Borgna, detto "Luna piena" per il suo faccione alla Charlie Brown, era il figlio del garagista sotto casa, con il quale, già frequentando le elementari, eravamo soliti marinare la scuola per andare a nasconderci fra i prati dell' Acqua Acetosa, dove ancora non esistevano i circoli sportivi, che hanno invaso gli argini del Tevere. Questa mia infanzia selvaggia finì, quando mia madre mi trasferì dalle scuole pubbliche alla privata San Giuseppe in via Flaminia, dove eravamo più controllati e dove le assenze venivano immediatamente comunicate alla famiglia».
E le frequentazioni con i divi dell' epoca?
«Molto meno di quanto si possa immaginare: da ragazzo, credo di aver incontrato Tognazzi una sola volta, quando ci venne a trovare al mare, durante una vacanza a Tor San Lorenzo. Gassman l' ho conosciuto al Circeo quando avevo già vent' anni. Tra lui e mio padre c' è sempre stata una sottile competizione in fatto di donne. Così Vittorio, quando la mia ex-moglie Francesca D' Aloja lasciò suo figlio Alessandro per mettersi con me, la convocò pretendendo una spiegazione sul "misfatto" e, al momento del saluto, con una certa enfasi, le disse: "Ricordati che fra i Risi e i Gassman hanno sempre vinto i Gassman"».
Ha coltivato amicizie nel mondo del cinema?
«Ho avuto, perché purtroppo non c' è più, un amico davvero fraterno: Carlo Vanzina, che era una persona gentile, cortese, coltissima. Per anni siamo stati inseparabili, poi, a complicare il rapporto, sono intervenute le mogli e abbiamo iniziato a vederci meno, pur restando sempre in contatto. Da ragazzi, andavamo al cinema insieme, vedevamo anche due o tre film nella stessa giornata. Studiavamo poco, ma a scuola Carlo andava benissimo. All' epoca, e oggi la cosa sembra ridicola, si entrava in sala quando capitava, anche a metà del secondo tempo: si vedeva prima la fine del film e poi l' inizio. Una cosa assurda, come iniziare un libro a pagina 95 e successivamente leggere l' incipit. Con Carlo ci rendemmo presto conto di questa cosa assurda e diventammo spettatori rigorosissimi: il film si doveva vedere integralmente dai titoli di testa a quelli di coda. Tuttavia il modo selvaggio di andare al cinema proseguì fino agli anni '80. Carlo riempiva un quadernetto con appunti da critico, una professione che avrebbe voluto fare».
Quali sono i suoi luoghi romani del cuore?
«A Roma ci sono strade dove mi sento bene, che mi comunicano una grande carica, altre volte invece mi trasmettono malinconia. In alcuni casi sono tratti diversi di una stessa strada a fornirmi emozioni contrastanti. Amo molto i primi 50 metri di via Settembrini, ma non i successivi. Le strade con i platani, e a Roma ce ne sono tanti, mi mettono sempre un' infinita malinconia. L' Appia Antica è un luogo che associo ad un' idea di energia esplosiva. E, se per qualche motivo ci capito, non posso non sostare per qualche minuto accanto all' elefantino di piazza Santa Maria sopra Minerva. Da qualche anno vivo non lontano da Porta Pia e piazza Fiume e improvvisamente ho scoperto la bellezza della vita di quartiere. Dove abito resistono ancora le botteghe, ci sono una quantità di trattorie tradizionali, e molti cinema, Mignon, Savoy, Europa. Ma, soprattutto, mi muovo a piedi: per le mie esigenze, non ho più bisogno di usare la macchina. Una cosa bellissima».
Camping rom nell'oasi protetta, decine di accampati in barba a Covid e decoro. Nonostante sgomberi e bonfiche, il parco delle Valli è ostaggio di baracche e discariche. Ponti e cavalcavia sono colonizzati da decine di rom. I residenti: "Nessun rispetto delle regole anti-contagio". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. "Mica metto la mascherina quando parlo con la mia famiglia". L’uomo che abbiamo davanti, un rom di origine romena sulla cinquantina, ci guarda di traverso: abbiamo appena interrotto il suo pranzo. Un pasto frugale a base di carne cucinata su un braciere e birra. Non è solo. Insieme a lui ci sono altre quattro persone che si schermano dietro ai cappucci non appena vedono le nostre telecamere. Siamo in zona Monte Sacro, sotto ad uno dei tanti ponti che scandiscono il corso del fiume Aniene. Teoricamente sarebbe una riserva naturale protetta della Regione Lazio, ma basta sbirciare al di là della vegetazione per rendersi conto che ogni anfratto è ormai terra di conquista. I ripari più gettonati sono ponti e cavalcavia, letteralmente colonizzati da decine di nomadi. Quello dove sorprendiamo la combriccola alle prese con il pranzo dista poche decine di metri da una scuola elementare. "Non ci siamo solo noi, più in là ci sono altre tende", dice l’uomo nella speranza di farci allontanare. "Ma la polizia non vi dice nulla?". "La polizia la conosco, è venuta ieri e non ci ha detto nulla", ribatte. Risalendo sulla pista ciclabile che costeggia gli argini del fiume ecco comparire un gruppo di donne. Spingono passeggini stracolmi di materiale rovistato. Le seguiamo finché non ci conducono sotto l’ennesimo cavalcavia occupato da una lunga fila di tende canadesi accerchiate da cianfrusaglie e scarti di ogni genere. Secondo Holljwer Paolo, consigliere di Fratelli d’Italia in II Municipio, è qui che avrebbero trovato riparo alcuni dei nomadi sgomberati un paio di mesi fa dal Foro Italico. "Diverse decine di persone che non avevano diritto a entrare nel circuito dell’accoglienza – ci racconta – si sono allontanate prima dell’arrivo delle ruspe del Campidoglio, e questo è il risultato". Il paradosso è che anche in questa oasi gli sgomberi non sono una novità. L’ultimo risale a circa un anno fa e costò alle casse del Comune di Roma diverse centinaia di migliaia di euro. "È un cane che si morde la coda, ci vuole più controllo del territorio sennò – attacca Paolo – non ne verremo mai a capo". Stefano Erbaggi, dirigente romano di Fratelli d’Italia, non esita a definirlo "un gioco dell’oca". "Si spendono soldi per sgomberi e bonifiche del territorio a che pro? Se questa gente non viene dissuasa a riaccamparsi si riparte sempre dal via e tra poco – dice indicando la discarica che svetta alla sue spalle – dovremo spendere altri soldi". Il problema è annoso. Soprattutto per chi vive nei paraggi. "Io ho origini libiche – ci dice Silvia, residente sulla sessantina – e non ho assolutamente nulla contro gli stranieri, purché si comportino bene". Non è questo il caso. "Bevono, bivaccano e non rispettano le regole", denuncia. Quello che proprio non le va giù è la totale inosservanza da parte dei nomadi delle disposizioni anti-contagio. Soprattutto adesso che il governo ci chiede nuovi sforzi per scongiurare il peggio. "Non indossano le mascherine – continua Silvia – e stanno sempre assembrati, nella più totale promiscuità, poi ce li ritroviamo sui mezzi pubblici o sulle panchine della zona". La sensazione è che vengano usati due pesi e due misure: "Seguono le loro regole, qualcuno sostiene che vadano lasciati fare perché sono una minoranza, ma questo discorso – ragiona la signora – dovrebbe venire meno quando il loro stile di vita mette a repentaglio il prossimo".
Ama di Roma: furti di carburante dei furbetti alle spalle dei contribuenti? Parla una “pentita”. Le Iene News il 10 novembre 2020. Alcuni furbetti rubano da anni e senza controlli un sacco di carburante, pagato con i soldi dei contribuenti, dai camion della raccolta rifiuti dell’Ama di Roma? Il racconto di una "pentita" e l'inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti. “Gente s’è costruita le case con ’sta cosa che rubano la benzina nei camion… che nella notte raccolgono la monnezza, mettono un tubo dentro, riescono a fare il succhio e a svuotare il furgone, arrivano a prendere anche 5 taniche di benzina a sera capito?”. Parte dal racconto di una “pentita” il servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti su come verrebbe rubato e rivenduto da alcuni furbetti, impunemente, sistematicamente e senza che nessuno se ne accorga, un sacco di carburante comprato con i soldi pubblici. Il “prelievo” avverrebbe dai camion dell’Ama, l’Azienda municipale ambiente che si occupa della raccolta dei rifiuti a Roma. “Gli autisti, quando fanno la notte escono con il camion, si mettono che ne so un posto un po’ appartato. Arriva un altro con la macchina che regge le taniche, svuota tutto e porta via”, continua a raccontarci la donna che chiameremo "Michela" e che preferisce rimanere anonima. “Perché sinceramente l’ho fatto io che gli davo una mano. Nel senso che io gli portavo la macchina, lui svuotava il camion e le taniche e io portavo via la macchina. Poi una sera è passata la pattuglia, io ho avuto paura e non l’ho voluto fare più”. La truffa avverrebbe con la tecnica del “succhio”, ovvero succhiando tramite un tubo il carburante dal serbatoio di un camion per la raccolta dei rifiuti. Questo poi verrebbe messo nelle taniche e rivenduto. In particolare, sarebbe coinvolta secondo Michela un’autorimessa Ama di Rocca Cencia a Roma Est. Con un sistema che andrebbe avanti da anni ai danni dei contribuenti, che pagano con le loro salatissime tasse sui rifiuti quel gasolio rubato e poi rivenduto. Michela dice di essersi rivolta a noi dopo le nostre inchieste sul lavoro in Ama. Dopo la prima emergenza Covid che aveva fermato tutto, siamo tornati a indagare cercando di pizzicare questi presunti furbetti del carburante, partendo dai piazzali indicati da Michela come teatro dei presunti furti. C’è poi una domanda fondamentale: possibile che ad Ama nessuno si sia accorto di nulla? Non ci sono controlli sul carburante? Nessuno si è accorto di quello che mancava? Per capire meglio, siamo andati anche all’autorimessa Ama di Rocca Cencia a Roma Est di cui ci ha parlato Michela. Cerchiamo di parlare con un responsabile dei controlli e, come dire, non veniamo accolti benissimo. Anzi, il povero Filippo Roma rischia di prenderle un’altra volta. Una dipendente ci ha anche raccontato che un sistema di controlli sul pieno di benzina dei mezzi ci sarebbe: peccato però che nessuno controlli quelle schede carburante. Che ci possano essere complicità? Per chiarire abbiamo chiesto di parlare con l’amministratore unico Ama, Stefano Zaghis. L’azienda per ora sembra preferire tacere. Sindaca Raggi, lei invece che dice?
Lorenzo D'Albergo per "repubblica.it" il 20 ottobre 2020. I 5S puntano il dito contro la Regione. La Pisana e la berlusconiana Michela Brambilla, deputata animalista, se la prendono con i grillini. In particolare col presidente della commissione Ambiente, Daniele Diaco. Così l'abbattimento di 7 cinghiali, la mamma e i suoi 6 piccoli uccisi venerdì sera nel parco Mario Moderni, diventa l'occasione per far volare schiaffoni tra partiti. Vuoi per le Comunali in arrivo, vuoi per il solito groviglio amministrativo in cui a Roma è rimasta avviluppata persino la gestione degli ungulati, comanda sempre la politica. Che stavolta, oltre ai consueti rimpalli, nei giardini dell'Aurelio ha messo in mostra il volto peggiore della classe dirigente capitolina: Brambilla racconta di essere stata insultata al telefono da Marcello Visca, manager del dipartimento Ambiente, nei momenti più concitati. E i membri della sua associazione, la Leeida, affibbiano allo stesso funzionario un'uscita poco felice: «Spostatevi, ora mi godo lo spettacolo». Ma procediamo con ordine. Si parte venerdì: il tavolo tecnico con Regione, Città Metropolitana e Comune decide di intervenire dopo le segnalazioni dei cittadini. I cinghiali, stando al protocollo firmato il 27 settembre 2019, possono essere catturati e portati in una tenuta di caccia oppure abbattuti. In assenza di gabbie, si procede con la seconda opzione. E ora a fare luce sull'accaduto sarà una commissione d'inchiesta del Comune. L'indagine si preannuncia lunga, ma il Campidoglio pare aver già individuato i responsabili: la Regione. Non Daniele Diaco, l'ultraraggiano accusato invece da Brambilla e dall'assessora all'Agricoltura della Pisana, Enrica Onorati. « Quando ho saputo dell'abbattimento - racconta l'onorevole - ho provato a bloccare tutto. Ho chiamato Zingaretti e lui mi ha fatto chiamare da Onorati. A quel punto c'è stata una call a tre con Diaco. Lui è andato sul posto e ci ha preso in giro, diceva di non trovare i dirigenti. Che erano andati al bagno. Balle. Non ha fermato l'uccisione solo per poter fare polemica con il Pd». La replica di Diaco è un assaggio delle conclusioni a cui giungerà il Comune: «Eravamo contro l'abbattimento, ma la Regione non aveva gabbie. Poi, in serata, mi chiama Brambilla. Spiega di avere avuto la disponibilità di Zingaretti a fermare tutto, ma non arrivano atti formali o gabbie. Io? Non ho trovato i dirigenti sul posto e poi la polizia provinciale non mi ha fatto avvicinare. La competenza sulla fauna selvatica è della Regione. Dovevano venire loro. Ero solo, sotto la pioggia, e rischiavo la denuncia. Brambilla? Se la prenda con la Regione, ci hanno riso in faccia quando abbiamo proposto metodi non cruenti peri cinghiali. Il suo è solo uno spot». Che, però, spazientisce i 5S: la sindaca Raggi punta anche sugli animalisti per la sua lista civica.
Roma, la polizia provinciale spara ai cuccioli di cinghiale di via Gregorio VII. La protesta dei cittadini: "Colpa dell'Ama e dell'incuria". Dopo 24 ore di incertezza e polemiche, nella notte, gli agenti si presentano nel giardino Mario Moderni in via della Cava Aurelia. I cadaveri portati via su un camion con su scritto: "Materiale destinato all'eliminazione". Brambilla: "Uno scandalo". Valentina Lupia il 17 ottobre 2020 su La Repubblica. “A Roma è stato commesso un omicidio: mamma e sei cuccioli di cinghiale sono stati prima narcotizzati e poi uccisi, nonostante ci fossero altre soluzioni”. È la denuncia disperata - lanciata nel cuore della piovosa notte romana - delle associazioni animaliste Leidaa, Enpa e Animaliberaction. Ma anche dei cittadini della zona di Gregorio VII che, sfidando il buio, l'acqua, e il primo freddo stagionale, sono scesi in strada, a poche centinaia di metri dalla basilica di San Pietro, per protestare contro la decisione di abbattere i sette animale.
I fatti. Giovedì mattina gli animali, probabilmente attirati dai secchi pieni di rifiuti, si erano intrufolati nel giardino Mario Moderni, in via della Cava Aurelia: un punto lontano dalla strada, che mamma cinghiale aveva immaginato sicuro per lei e per i suoi cuccioli. Eppure si è trasformato in una trappola, perché poi i cancelli sono stati chiusi, con loro dentro. Venerdì sera, alle 21, dopo una giornata passata nell'incertezza, alla ricerca di una soluzione all'insolito problema, sono arrivati sul posto gli uomini della polizia provinciale armati di fucile per narcotizzare gli animali. Ed è montata la rivolta. Non contro i cinghiali, ovviamente. Oltre alle associazioni animaliste, sono scesi cittadini dei palazzi limitrofi, altri ne sono arrivati da tutta Roma, per accertarsi che i cinghiali fossero trasferiti nella natura. Ma fin dall’inizio l’atmosfera è apparsa tutt’altro che pacifica nei confronti degli animali e lì, contro il Comune, la Regione e il protocollo che hanno firmato sul tema dei cinghiali, è montata la protesta. “Mamma e cuccioli sono stati ammazzati — spiega Ilaria Riccitelli, volontaria Enpa, Ente protezione animali, che era sul posto — È stato un omicidio: sono stati narcotizzati dalla polizia provinciale. Poi i veterinari della Asl hanno eseguito due punture con liquido mortale”. E infatti i corpi degli animali, che molti speravano essere “solo” addormentati, sono stati caricati su di un camion “speciale”: “Materiale di categoria 1 destinato all’eliminazione, Regione Lazio”. Il retroscena, se confermato nei dettagli, appare ancora più grottesco. “Nel pomeriggio si è tenuto un tavolo tra Regione e Comune — spiega l'onorevole Michela Vittoria Brambilla, già ministra e sottosegretaria, ma anche fondatrice della Leidaa, le Lega italiana Difesa animali e ambiente - E ben prima che scoppiasse la rivolta ho contattato il governatore regionale, Nicola Zingaretti, per annunciare che la mia associazione, coi propri mezzi, sarebbe andata a recuperare la famiglia di cinghiali per farsene carico. Mi mette in contatto con Enrica Onorati, l’assessora competente per la Regione, poi procedo con una chiamata a tre anche con il presidente comunale della commissione Ambiente, Daniele Diaco: la questione sembrava risolta e noi saremmo andati lì a recuperare gli animali, per metterli in sicurezza”. Poi, la sera, verso le 21, il patatrack. Prosegue Brambilla: “Nonostante le chiamate e la nostra disponibilità, uomini della polizia provinciale si sono presentati lì, con forze dell’ordine, il presidente della commissione Ambiente, Daniele Diaco e il direttore del dipartimento Tutela Ambientale, Marcello Visca, che ha anche speso parole ingiuriose nei miei confronti: motivo per cui sarà denunciato. Ma formalizzerò anche un esposto per quanto accaduto ai cinghiali: le soluzioni c’erano”. Sul posto, ai presenti che hanno implorato Daniele Diaco di contattare immediatamente la sindaca Virginia Raggi affinché facesse qualcosa ha risposto: “Chi dà l’ok è la Regione”. E così, mentre Regione e Comune dichiarano quotidianamente di battersi per la tutela degli animali, non rimane che ai romani difendere i cinghiali, attirati dai rifiuti che spesso l’Ama raccoglie a singhiozzo.
Cinghiali abbattuti a Roma: ecco perché potevano essere salvati. Le Iene News il 22 ottobre 2020. Nina Palmieri ci racconta l’assurda storia dell’abbattimento di una famiglia di sette cinghiali avvenuto qualche giorno fa a Roma. Politici e attivisti si erano resi disponibili ad accoglierli in strutture dedicate ma il Comune non ha sentito ragioni. Ecco cosa è successo. “È stata un’esecuzione in piena regola, un massacro”. Così Paola, un’attivista per la difesa degli animali, racconta quello che è avvenuto qualche giorno fa a Roma quando una famiglia di sette cinghiali, cuccioli compresi, è stata sterminata perché era arrivata in piena città. Ma era davvero necessario ucciderli? Nina Palmieri incontra l’attivista che ci dice: “Se i cassonetti strabordano e normale che ci siano i cinghiali, è cibo gratis… lo vengono a cercare perché sanno di trovarlo”. Quella famiglia di cinghiali, uccisa con una iniezione, era arrivata a Roma qualche giorno prima ed era entrata in un parco giochi per bambini. “Erano in un recinto, da lì non sarebbero potuti uscire né potevano fare del male a nessuno”, continua Paola. Dopo la convocazione di un tavolo tecnico, si decide che i cinghiali devono essere abbattuti. A quell’incontro c’era anche l’attivista: “Noi abbiamo proposto di prelevarli nel giro di mezz’ora a spese nostre per portarli in un luogo adeguato. Era una storia a lieto fine che si poteva raccontare ai bambini”. La voce della decisione di abbatterli si sparge e la gente del quartiere, che si era affezionata a quella presenza, comincia ad affluire insieme alle forze dell’ordine. Interviene anche l’onorevole Michela Brambilla, che chiama il presidente della regione Nicola Zingaretti per dirsi disponibile ad andare a prendere quella famiglia di cinghiali. “Mi ha detto: sono ben contento, sono tuoi”, ci racconta la Brambilla ma il presidente della commissione ambiente del Comune di Roma le avrebbe poi riferito di non riuscire a mettersi in contatto con il responsabile in loco. Dopo poco arriva la polizia locale di Roma Capitale, con i fucili con l’anestetico e scoppia la bagarre con la cittadinanza. L’uccisione però non si ferma. Racconta ancora Paola: “Sono subito caduti a terra, era una dose altissima di anestetico. La cosa più agghiacciante è che un piccolino è corso da mamma cinghiale, la prima a cadere”. “Poi sono arrivati con il camion della spazzatura”, ci dice un testimone, “li hanno sbattuti dentro come un sacco di patate”.
Aldo Cazzullo per il ''Corriere della Sera - Cronaca di Roma'' il 12/10/2020. Mezzogiorno di un sabato di pandemia; e alla stazione Termini non ci sono taxi. Si esce su via Marsala: il parcheggio è deserto, ci sono soltanto figuri un po' loschi, forse abusivi, che offrono «taxi-taxi» con tono da cospiratori. All' uscita principale c' è una piccola coda di clienti in attesa. Passa sporadicamente qualche auto bianca, ma non basta per caricare tutti. A quel punto scatta il piano d' emergenza: Samarcanda. Chiamare un taxi in stazione è un' assurdità; perché i taxi in stazione dovrebbero già esserci. Invece spesso si deve telefonare a Samarcanda, perché è una cooperativa che garantisce professionalità e (quasi sempre) gentilezza, oltre all' opportunità - anche questa ovvia in tutto il mondo, tranne che in Italia - di pagare con la carta di credito. Ma stavolta pure Samarcanda si arrende: non ci sono proprio taxi. La colpa, dice l' operatore - gentilissimo come sempre - è del Comune: già normalmente lavora una vettura su due; nel week-end i turni sono ulteriormente rarefatti. Sabato scorso, in effetti, il pubblico del festival librario «Insieme» ha aspettato anche 40 minuti sotto la pioggia all' uscita dell' Auditorium per avere un taxi. Però almeno in stazione (oltretutto in assenza di turisti stranieri) i taxi ci dovrebbero essere. I tassisti sono una delle categorie che più hanno sofferto le conseguenze economiche del Covid. Su queste pagine abbiamo espresso molte volte comprensione per la battaglia contro la proletarizzazione del mestiere. Abbiamo ripetuto cento volte che i tassisti sono come i medici, i carrozzieri, i giornalisti: non si possono giudicare in blocco; sono in grande maggioranza brave persone e bravi lavoratori, e i casi di disservizio non consentono di demonizzare un' intera categoria. Certo, gli stranieri si stupiscono del fatto che in tutte le capitali del pianeta si possono fermare i taxi per strada, mentre a Roma è quasi impossibile; ma su questo ci sono opinioni discordi. I tassisti sembrano convinti che la richiesta di corse sia fissa, e più di tanto non si possa lavorare. Molti pensano che non sia così: se fosse più semplice avere un taxi, ci sarebbero più persone - perché sono stanche, perché ha cominciato a piovere, perché mancano gli autobus, perché la metro non funziona, perché in piena pandemia una vettura è più sicura di un mezzo affollato - disposte a prendere un taxi. Invece si è sempre scelto di aumentare i prezzi (per una corsa media si arriva facilmente alla temuta tariffa 3) anziché aumentare le licenze. Ora con il Covid ovviamente la domanda è diminuita. Ma questa non è una buona ragione per non far trovare i taxi in stazione. Non ci sono scuse o ragioni che tengano: in un Paese civile, in una capitale degna del suo rango, i taxi in stazione ci devono essere. Ogni giorno, a qualsiasi ora, con qualsiasi tempo. Poi si può discutere su tutto. Ma se non si è d' accordo con questa premessa, discutere è inutile.
Lettera al “Corriere della Sera” il 15 ottobre 2020. Caro Aldo, sono un tassista, lettore del Corriere. Ho letto il suo ennesimo articolo sulla presunta carenza di taxi a Roma. Vorrei spiegarle alcune cose sulla categoria e sul dramma che stiamo vivendo da marzo. Lei si è lamentato che sabato scorso mancavano taxi in stazione, è vero, nei weekend mancano i taxi, ma se il Comune ci obbliga a restare a casa di chi è la colpa? Se durante la settimana ci fanno lavorare un giorno sì e uno no, è mia la colpa? Se su una turnazione di 55 giorni ne ho potuti lavorare 24, sempre su turni di 8 ore, ho qualche colpa? Lo sa che da marzo siamo ridotti alla fame? Lo sa che ci sono colleghi che hanno dovuto prendere soldi in prestito da persone poco raccomandabili? Lo sa che il Comune di Roma ci ha fornito due, ripeto due, mascherine Fpv2? Lo Stato ci ha concesso, dopo ripetute richieste, solo 800 euro di sostegno. Perché se vado alla Posta devo fare due ore di fila per pagare una bolletta, mentre una volta non posso aspettare 5 minuti un taxi? Lei dice che in stazione i taxi ci devono essere sempre, ebbene le assicuro che raramente mancano i taxi in stazione, su 24 ore potranno mancare forse durante le ore di notte verso le 3, ma durante il resto della giornata il servizio taxi è fornito...
LA RISPOSTA DI ALDO CAZZULLO. Caro Mario, capisco il suo sfogo, per questo cedo gran parte dello spazio alla sua lettera, che pure sono costretto a tagliare per poterle rispondere. Capisco, e certo non da solo, la vostra sofferenza. La migliore solidarietà che noi cittadini possiamo dimostrare nei vostri confronti è prendere il taxi; ma dovete consentirci di farlo. Se ho scritto l' ennesimo articolo, è perché purtroppo i taxi a Roma continuano a mancare. Incredibilmente, perché mancano pure i turisti stranieri. Le assicuro che accade regolarmente di non trovare taxi alla stazione Termini. Il parcheggio di via Marsala è in mano ad abusivi e a un vero e proprio racket che quasi sempre rifiuta di caricare passeggeri non diretti a Ciampino o Fiumicino. Il parcheggio principale è spesso vuoto di taxi, e non alle 3 del mattino. Sono d' accordo con lei che l' errore è del Comune; ma voi tassisti avete dimostrato, con mezzi a volte discutibili, di poter far cambiare idea al Comune. E non solo a quello di Roma. (È vero che capita, lontano dalle stazioni, di vedere code di taxi in attesa. Ma perché, a differenza che nelle altre capitali europee, i taxi a Roma non girano mai in cerca di clienti? Perché a Madrid, Londra e quasi sempre a Parigi basta un cenno per fermare i taxi, e a Roma non accade quasi mai?).
Lettera di un lettore al “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2020. Sono un ricercatore e viaggio spesso per lavoro. Di solito arrivo a Fiumicino e noleggio una vettura con autista. Qualche tempo fa sono atterrato a Ciampino verso le 11 di sera e ho provato a prendere un taxi. Dopo circa 10 minuti di coda, i tassisti hanno smesso di prendere i passeggeri della fila, e hanno iniziato a raccogliere gruppi di persone con destinazioni simili. La fila si è sciolta e ci siamo messi a vagare per il piazzale cercando un taxi libero. Alcuni stranieri hanno iniziato a sghignazzare urlando «viva Roma, viva l' Italia»: come dargli torto? Ai passeggeri, per lo più turisti, i tassisti proponevano in anticipo tariffe molto diverse da quelle di legge. Dal momento che non ero interessato a un «taxi collettivo» ho cercato di prendere un taxi solo per me, ma nessuno si dichiarava libero. Dopo aver vagato per il piazzale per una ventina di minuti, ho visto due poliziotti e gli ho chiesto di riportare l' ordine nella fila. Hanno fermato un taxi, hanno fatto scendere uno strano passeggero che sedeva sul sedile anteriore (forse un amico del tassista). Al che, il tassista ha provato a fare entrare altri passeggeri. Gli ho spiegato che volevo andare da solo. A questo punto i poliziotti mi dicono che «sto passando dalla parte del torto» e mi fanno scendere. Ero troppo stanco per protestare, mi adeguo. Il taxi riparte con i turisti e lo strano «passeggero». Erano le 24, l' ultimo bus era partito. Sono stato costretto a prendere uno degli ultimi taxi con altri turisti. Il tassista mi ha chiesto 30 euro, e 35 (!) ai turisti che viaggiavano con me. L' alternativa era passare la notte a Ciampino. Alessandro M., Roma
Roma, corruzione per le licenze agli ambulanti: 18 arresti. Ci sono anche due Tredicine. Pubblicato mercoledì, 23 settembre 2020 da La Repubblica.it. Diciotto misure cautelari (otto in carcere e dieci ai domiciliari) sono state seguite questa mattina, su delega della procura, dai militari del Nucleo Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza e dal personale della Polizia Locale di Roma Capitale nell'ambito dell'indagine sul cosiddetto racket delle autorizzazioni per il commercio su strada con il coinvolgimento di pubblici ufficiali, imprenditori e sindacalisti. Tra gli arrestati anche i due fratelli Tredicine, Dino (in carcere) e Mario (ai domiciliari). I reati contestati, a vario titolo, sono quelli di associazione per delinquere, corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, rivelazione del segreto d'ufficio, estorsione, abusiva attività finanziaria, usura e autoriciclaggio. Gli investigatori, nel frattempo, hanno provveduto a eseguire un sequestro preventivo di disponibilità finanziarie per 1 milione di euro, pari ai profitti illeciti conseguiti da alcuni indagati. L'indagine della Guardia di finanza e della polizia locale di Roma denominata "Monsone" ha consentito di ricostruire "un collaudato sistema corruttivo ed estorsivo posto in essere da un sodalizio criminale di 13 persone": due pubblici ufficiali (l'allora responsabile degli Uffici "Disciplina" e "Rotazioni" del Dipartimento Attivita' Produttive del Comune di Roma e un suo diretto collaboratore), quattro esponenti di un'associazione sindacale di categoria ed un gruppo di sette imprenditori/commercianti (tre dei quali di nazionalita' bangladese, siriana e israeliana). L'organizzazione - secondo gli investigatori - ha "gestito, a scopo di illecito arricchimento, le autorizzazioni amministrative per l'esercizio di attivita' commerciali su aree pubbliche e le numerose postazioni presenti nella capitale nel settore del commercio ambulante, avvalendosi (qualora necessario) di condotte intimidatorie, minacce e violenze per ottenere indebite somme di denaro". Diverse le utilità ricevute dai pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio per le attività illecite: denaro contante, ripetuti pranzi o cene, capi di abbigliamento griffati e abbonamenti annuali per assistere a partite del campionato di calcio di Serie A. Contestate anche ipotesi di usura con prestiti tra i 2 e i 5 mila euro e l'applicazione di tassi d'interesse annui superiori anche al 500%. I dettagli dell'operazione saranno illustrati in un incontro con la stampa che avverrà alle ore 12.00 presso la sala riunioni della Procura della Repubblica di Roma.
Roma, mazzette per camion bar e banchi della Befana: 18 arresti. Ci sono anche due Tredicine. A dare il via all'indagine la denuncia di un bengalese. Otto persone in carcere, dieci ai domiciliari: coinvolti anche l'allora responsabile degli Uffici "Disciplina" e "Rotazioni" del Dipartimento Attività Produttive del Comune di Roma e un suo diretto collaboratore. Tra i capi di imputazione contestati dalla procura a Tredicine anche l'incasso del bonus Covid per le partite Iva. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 23 settembre 2020. Un giro di mazzette per aggiudicarsi le postazioni migliori per i loro camion bar. E non solo: anche i banchi della befana di piazza Navona, quelli di abbigliamento e souvenir. Otto persone in carcere, 10 ai domiciliari e 40 gli indagati per un'inchiesta della procura di Roma sul commercio ambulante. L'indagine del nucleo speciale di polizia valutaria svela un quadro inquietante in cui per ottenere uno spazio i commercianti dovevano pagare: si arriva fino a 60mila euro l'anno. E chi non si sottometteva, finiva vittima di usura: era costretto a chiedere prestiti a strozzini suggeriti dal gruppo. Tra gli arrestati anche Dino e Mario Tredicine, il primo in carcere e il secondo ai domiciliari, e Alberto Bellucci, capo dell'ufficio discipline e rotazioni. Al centro dell'inchiesta, infatti, ci sono proprio le rotazioni che, per definizione oltre che per legge, devono cambiare ogni due mesi. E invece, anche tramite prestanomi e licenze fittizie, erano sempre gli stessi ad assicurarsi le postazioni. Il tutto anche grazie alla complicità delle associazioni sindacali di categoria, di cui Mario Tredicine era componente: anche loro chiudevano un occhio in cambio di qualche bustarella. Agli atti dell'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Antonio Clemente, anche alcune videoriprese. In una di queste Bellucci mettendo il contante nel portafogli commenta tra sé e sé: "E la pratica è clamorosamente archiviata". A dare il via all'indagine, la denuncia di un cittadino bengalese che non voleva pagare e che ha subito minacce violentissime. Il sistema copriva il commercio ambulante di tutta la città, 240 le postazioni finite nell'inchiesta, dal centro alla periferia, e aveva un tariffario ben preciso a seconda del luogo e del periodo dell'anno. In una delle intercettazioni, uno degli indagati dice: "Tutte le sostarelle fanno i turni, se le vendono a 7 piatte (700 euro, ndr)". Le mazzette, oltre che in contanti, venivano anche saldate con pranzi, cene, capi d'abbigliamento griffati o, addirittura, abbonamenti allo stadio: secondo gli inquirenti era dal 2006 che l'ufficio veniva gestito in questo modo. E la figura chiave era proprio Bellucci. Di lui Dino Tredicine dice: "Finché al 34 c'è Alberto, la categoria non trema". Tra i capi di imputazione contestati dalla procura, anche uno più recente che riguarda il bonus per le partite Iva messo a disposizione dal Governo nell'ambito delle misure per contrastare la crisi da Covid. Dino Tredicine aveva messo a disposizione di alcuni commercianti bengalesi un commercialista che li avrebbe aiutati ad ottenere i sussidi dell'Inps. Un servizio che sarebbe stato pagato: gli stranieri dovevano restituire una parte della somma ricevuta, circa la metà, agli indagati. La Finanza aveva perquisito i Tredicine a febbraio del 2019 e Dino si era sfogato, il giorno dopo, con il figlio Stefano: "Parlano pure dei redditi degli ultimi 20 anni, ma mica sò 20 anni solo che lavoramo. A Stè, ma questi vanno cercando de levacce tutto, 'sti pezzi de merda, questi ce fanno fà la fine dei zingari capito? Io 'sti giorni passati avevo pure pensato a vendè qualche cosa". Ed è anche dal comportamento tenuto in quei giorni che il gip deduce la loro "pericolosità criminale" che, scrive Francesco Patrone, "emerge altresì dagli scomposti tentativi, che lo stesso voleva attuare attraverso parenti o conoscenti dopo aver appreso della esistenza delle indagini". Tredicine, che vanta un patrimonio pari a 3,1 milioni di euro, in quei giorni caldi progetta di occultare "quanta più documentazione possibile in box, cantine o locali, o addirittura mettendola all'interno di un furgone o dietro una parete in muratura". Ma non potrà evitare che con l'operazione di oggi arrivi a suo carico una richiesta di sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni per un importo di 809.250 euro.
Tredicine, dalle castagne a Carminati la dynasty delle bancarelle romane. Arrivata dall'Abruzzo negli Anni 60 la famiglia che controlla i camioncini di bibite e chincaglierie davanti ai monumenti più importanti ha esteso la propria influenza a tutta la vita sociale di Roma, dalla politica al sindacato. Alessandro Paolini su La Repubblica il 23 settembre 2020. Tredicine, i ras della bancarella. Un impero nato dalle caldarroste, cresciuto negli anni con i camion bar piazzati a pochi passi dai più importanti monumenti della città e i banchetti pieni di rosari, anfiteatri in miniatura e basiliche nella palla di vetro con neve cadente. Con gli stand della Festa della Befana a piazza Navona che non hanno mai mollato (ai tempi d'oro un banco fruttava 30 mila euro a settimana) sopravvivendo a qualsiasi gara d'appalto, ad ogni cambio di amministrazione (Ignazio Marino cercò invano di ostacolarli riducendo il numero delle loro postazioni) e persino al progressivo spegnersi dell'appuntamento che per decenni ha richiamato nell'antico circo di Diocleziano migliaia di bambini romani con le loro famiglie. Ora, gli eredi del caldarrostaro ambulante Donato Tredicine - arrivato dall'Abruzzo negli anni Sessanta con il suo braciere e i sacchi di castagne - sono tra i protagonisti dell'inchiesta "Monsone", che ha fatto finire otto persone in carcere e dieci ai domiciliari. Tra loro, anche due tra gli eredi dell'impero, Dino e Mario: uno in cella, l'altro in casa. Ma per la potente famiglia di madonnari - indisturbati inquilini per anni e anni del banco con vista su Fontana di Trevi - Regina Coeli si era già aperta in passato. Negli stessi anni del loro grande salto in politica. Quando Giordano, figlio di Donato, scala il centrodestra romano fino a diventare - con Alemanno sindaco - vicepresidente del Consiglio comunale capitolino e vicecoordinatore regionale di Forza Italia. Poi l'inchiesta "Mafia Capitale" travolge anche lui. A inchiodarlo, una serie di intercettazioni telefoniche tra Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. <Io glielo dico sempre>, racconta il presidente della Cooperativa "29 Giugno". "A Giorda', se non t'arrestano diventerai primo ministro". E lui me dice: "Perché, me possono arresta'? Li mortacci tua... Te possono arresta'..." si legge nei brogliacci delle loro conversazioni.
Ma oltre che in politica, nella dinastia dei bancarellari d'oro - padroni di quarantadue postazioni sulle sessantotto disponibili in città, emerse in un'inchiesta di Repubblica nel 2012 - c'è anche un ramo che si "butta" nel sindacato. Alfiero Tredicine è stato presidente di Apre - Confesercenti. E come lui Mario e Dino, protagonisti della retata di oggi. Il primo è stato vicepresidente dell'Uva - Confcommercio, l'altro della Fivag - Cisl. E la saga continua.
Lorenzo De Cicco per ''Il Messaggero'' l'1 settembre 2020. Roma, alberi a rischio crollo E metà dei giardinieri è esentato dalla potatura. Rami a terra ieri per il maltempo ma i tronchi cadono anche con il sole Tra inidoneità e mansioni d'ufficio il 50% dei comunali non si occupa delle piante. Dietro piazza del Popolo un tronco ha centrato in pieno due macchine parcheggiate; in via Capodistria, accanto a Villa Torlonia, il fusto di un platano si è «appoggiato», così annotano i vigili del fuoco, sul tetto di una palazzina. La Nomentana, arteria di grande scorrimento, ieri è stata chiusa in un tratto dalla Polizia municipale per colpa degli «alberi pericolanti». Bollettino degli ultimi capitomboli vegetali di Roma, dopo 48 ore di acquazzoni. Ma nella Capitale del verde incolto non serve una scudisciata di pioggia per far sì che fusti e ramaglie vengano giù come birilli sulle strade o sui marciapiedi: a volte non è necessario nemmeno uno sbuffo di vento. Il pino di 18 metri che il 27 luglio è rovinato su una Mercedes che svoltava da piazza Venezia, accanto all' Altare della Patria, per dire, si è spezzato in un pomeriggio di sole, senza neanche un refolo di ponentino. I crolli in sequenza degli ultimi quattro anni svelano di fatto le falle di una manutenzione che viaggia al rallentatore. Nonostante l' urgenza, gli appalti rimangono impaludati nella motriglia della burocrazia per mesi, a volte per anni, tra errori di calcolo nei fogli excel (è successo anche questo...) e dirigenti in fuga dalle commissioni di gara. Ma alla base dello sfascio c' è anche un altro aspetto: le truppe che dovrebbero andare alla guerra contro i fusti pencolanti sono gonfiate. I giardinieri effettivi, per farla breve, sono molti di meno di quelli annotati negli organici del Campidoglio. Se n' è accorto Pietro Maria Scaldaferri, ex dirigente della Procura di Roma e fino a Ferragosto, per un mandato-lampo durato cinque mesi, capo del Servizio Giardini di Roma Capitale. In prestito dal Ministero della Giustizia per volontà di Virginia Raggi, che poi l' ha riaccompagnato alla porta a ridosso della pausa agostana, Scaldaferri ha iniziato a toccare i nervi scoperti del Servizio Giardini, un settore segnato negli anni da inchieste, scandali, arresti. Ed ha accertato, per esempio, che solo metà dei giardinieri, di fatto, possono considerarsi davvero «operativi». L' altra metà passa il turno senza toccare un albero. È tutto annotato in un rapporto interno, commissionato dall' ex direttore alla fine di luglio. Formalmente, si legge nel dossier, gli addetti del Servizio Giardini di Roma sarebbero 395. Ma ecco la prima sforbiciata (al Personale): 97 sono dipendenti di «categoria C», insomma svolgono funzioni di coordinamento o mansioni d' ufficio, al massimo si occupano dei sopralluoghi. Di prendere in mano una cesoia, non se ne parla. Altri 2 dipendenti fanno parte delle «categorie protette», hanno disabilità molto gravi. In 60 invece nel certificato medico hanno prescritti «minori aggravi». Tradotto: sono «inidonei» ad alcune mansioni. In alcuni casi si tratta di invalidità anche del 50 o 60%, in altri invece la percentuale è molto più bassa: 10%. Tra i dipendenti considerati «non operativi», quindi esentati dagli incarichi più faticosi - ma anche, come dire, propri del mestiere? - c' è chi ha informato i superiori di prendere psicofarmaci e tranquillanti. O di avere un passato da tossicodipendente. Risultato: oltre il 40% dei giardinieri comunali non sale su una gru, non accende una motosega, non sfronda i rami pericolanti. Senza contare altri 23 giardinieri assunti col contratto part-time. Lavorano a metà servizio. E dire che l' urgenza della manutenzione non solo ordinaria, ma straordinaria, a tutto campo, è nota in Campidoglio: la sindaca Raggi, un anno e mezzo fa, ipotizzò un piano straordinario da oltre 100 milioni per abbattere quasi 50mila alberi secolari, a fine vita, potenzialmente pericolosi. L' operazione avrebbe dovuto essere finanziata dal governo, ma i soldi extra non sono mai arrivati. Nel frattempo si va avanti con gli interventi al risparmio. «Il pino crollato a piazza Venezia? Due anni fa chiedemmo analisi approfondite - ha ricordato l' agronoma che lo esaminò, Sara Sacerdote - ma alla fine l' unico controllo che abbiamo realizzato è stato quello visivo». A occhio.
RAFFAELLA TROILI per il Messaggero il 26 agosto 2020. Julian si è svegliato, le sue urla si sentono fin dentro la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, perché lui dorme lì fuori, a piazza del Popolo. All'esterno di Santa Maria in Montesanto, l'altra chiesa gemella, mangia e sbraita un altro clochard. I clienti dei bar e ristoranti storici che costeggiano i lembi della piazza si guardano intorno preoccupati. Tra venditori di rose insistenti, gimkane tra monopattini, strisce pedonali inesistenti, ragazzine che si rinfrescano da capo a piedi nella fontana dei Leoni. Nel dormitorio che si è creato a piazza del Popolo, quanti erano protagonisti sembrano in ostaggio. Come padre Mario, il rettore di Santa Maria dei Miracoli: «Non se ne può più, non sappiamo a chi rivolgerci, nessuno li manda via davvero». Rumeni ubriachi, una coppia in particolare, Julian e una donna con cui discute davanti ai turisti seduti da Rosati piuttosto che da Canova, ma l'unica in grado di calmarlo e portarlo via (a piazzale Flaminio) quando lui in preda all'alcol esagera.
PADRONE DELL'AREA. Padrone dell'area ieri con strafottenza ha portato la sua branda in giro per la piazza per poi piazzarla all'entrata della chiesa. Sono dovuti intervenire i militari dell'Esercito che presidiano la piazza per convincerlo ad andar via. Era entrato in chiesa, pare per rubare. In piazza raccontano delle offese che rivolge al rettore, «la polizia solo viene ogni tanto e lo porta via, ma il giorno dopo è di nuovo qui, entra nei locali, pretende, strilla». Del suo entourage fanno parte una serie di ubriaconi, come testimoniano le bottiglie sparse qua e là e l'odore forte di urina proprio sotto gli archi di accesso alla piazza. I cartoni sparsi qua e là rendono l'idea di come la piazza nonostante sia il salotto buono della città lotti ogni giorno in bilico con il degrado. Tanto che le varie forze dell'ordine di passaggio non c'è giorno che gli dicano: «Julian fai il bravo». Il senso di rassegnazione, da parte del rettore come dei ristoratori impressiona. Forse sono stanchi di chiedere aiuto, intanto il clochard grida contro tutto e tutti, ti fissa come se volesse aggredirti da un momento all'altro. A volte è facile tenerlo a bada, altre prende il sopravvento. Alla fine si allontana, si ferma con il suo letto al centro della piazza, si appoggia alla fontana, sotto lo sguardo vigile dei militari, poi dopo un po' si allontana, «ma tornerà, lo fa sempre».
AMBULANTI PRESSANTI. Lo sconforto è evidente. Altri giacigli sono più nascosti, ma le tracce di bivacchi si vedono e sentono. Mentre al centro della piazza un ambulante ha messo in mano a forza un mazzo di rose a una ragazza. Il fidanzato sta discutendo per farglielo restituire. Gli agguati sono dietro l'angolo, il viavai di turisti e passanti confonde le acque. Ma le urla di Julian dalla sua branda, contro tutto e tutti, risuonano nella piazza. «Aiutateci, non sappiamo a chi chiedere aiuto», ripete chi vive e lavora nel salotto buono di Roma.
Laura Bogliolo per “il Messaggero” il 23 agosto 2020. Sicurezza, igiene, decoro. Gli accampamenti lungo le Mura Aureliane sono aumentati in modo esponenziale durante l'emergenza coronavirus, è nata una vera tendopoli che continua a moltiplicarsi tra bivacchi, risse e degrado. «Qualcuno ci aiuti» è il grido di allarme di residenti, commercianti e di chi ricorda che le Mura Aureliane sono un bene archeologico. E intanto incombe il rischio di contagio per il coronavirus. Il comitato di quartiere dei residenti di San Lorenzo, l'associazione dei commercianti di zona e il comitato "Mura Aureliane" hanno scritto a sindaco, prefetto, questore, alla Sovrintendenza «per chiedere un intervento urgentissimo». Le tendopoli occupano via di Porta San Lorenzo, viale Pretoriano, viale di Porta Tiburtina e viale di Porta Labicana. «Per non parlare di piazza Siculi, attraversarla è una sfida tra sbandati, cattivi odori, guano e quegli alberi non potati da anni che creano la notte anche di giorno - denuncia Gloria Battaglia, presidente del "comitato Mura Aureliana" - ho vissuto tre anni in India, uno stato del genere l'ho visto solo a Dehli, non devono essere i cittadini a sollecitare le istituzioni, è vergognoso da vedersi, la mancanza di reazione è inspiegabile, la situazione ormai è fuori controllo». Sbandati, immigrati irregolari, persone con problemi psichici, la rissa è sempre dietro l'angolo. «Scattano liti anche per avere il posto migliore...» aggiunge Battaglia. Sono circa 8 mila i senzatetto, gli invisibili nella Capitale. Come si sa, il degrado chiama degrado e in zona ci sono stati episodi preoccupanti. «E i residenti sono spaventati, intorno al quartiere ne gravitano tanti» dice Emanuele Venturini, presidente del comitato di quartiere San Lorenzo che distingue «tra chi ha bisogno di aiuto e chi delinque». Cosa fa il Campidoglio? A fine aprile l’assessorato capitolino alla Comunità solidale, guidato da Veronica Mammì, a fine aprile faceva sapere che «dall’inizio del lockdown è stato messo in campo un investimento di circa un milione di euro in più per ampliare i servizi solo per le persone senza fissa dimora - spiegano - arrivando a 700 posti in più rispetto al circuito ordinario di 200». Ma intanto la situazione lungo le Mura Aureliane è deflagrante e i romani attendono risposte dalle istituzioni.
Laura Bogliolo per ilmessaggero.it il 9 novembre 2020. Aveva chiesto di essere cremato e poi sepolto nel cimitero Acattolico di Testaccio. Lui, Gigi Proietti, un pezzo di cuore di Roma e del teatro nazionale, lui, l’attore più vicino ai romani che hanno voluto ricordarlo con murales che tappezzano la Capitale dal Tufello all’Appio, dove aveva frequentato il liceo classico Augusto. Gigi proietti sembra essere rimasto “incastrato” in una delle sue barzellette, in quelle frasi che sono in bilico tra realtà e finzione. È presumibile che la sua salma, considerando la drammatica situazione dei cimiteri capitolini, possa attendere una settimana prima della cremazione. Così ha scritto Il Messaggero l’altro giorno, ricordando il triste tsunami che ha travolto il cimitero Flaminio di Prima Porta dove decine e decine di salme da giorni aspetterebbero una cremazione. Nei registri del Flaminio il suo nome non compare tra quelli in programma nelle prossime ore e dunque è verosimile supporre che passerà qualche giorno. Insomma, nella pagina nera del lungo elenco di figuracce alla romana c’è anche questa. E mentre i romani e chiunque abbia a cuore il teatro, la recitazione, soffrono, dalla Campania arriva un appello. «Dopo aver appreso della notizia delle difficoltà incontrate, con probabile slittamento di una settimana nella cremazione della salma di Gigi Proietti al cimitero Flaminio abbiamo deciso di offrire alla famiglia la nostra piena disponibilità ad effettuare gratuitamente la cremazione». A parlare è Emilio Liquori, amministratore dell’impianto Tempio Mater di Castel Volturno. I problemi di Roma sulle cremazioni purtroppo sono noti. Tempo fa una figlia denunciò l’attesa di oltre 50 giorni per ottenere le ceneri del papà. Una storia a parte, fatta di burocrazia ed errori, ma sembra che l’ultimo cammino dei romani non sia ancora del tutto privo di ostacoli. Dopotutto già alla fine di ottobre era stato comunicato che negli ultimi tre mesi i decessi a Roma erano cresciuti notevolmente e che le richieste di cremazione erano aumentate. Da parte sua, Ama che gestisce i servizi cimiteriali, aveva dato istruzioni alle agenzie funebri della Capitale per evitare «code nell’espletamento delle operazioni cimiteriali». Tra gli ostacoli, ci sono stati i lavori di manutenzione nei forni crematori. Ama aveva fatto sapere che «i lavori di manutenzione sulla sesta linea del forno crematorio del Flaminio sono conclusi ed è stata richiesta a tutti i soggetti preposti l’accelerazione dell’iter amministrativo propedeutico alla cremazione per potenziare la capacità di far fronte alla domanda crescente».
Caos nei cimiteri capitolini, anche Gigi Proietti in fila per la cremazione. Sono ancora decine le salme che aspettano di essere cremate nel cimitero Flaminio, compresa quella di Gigi Proietti. Secondo l'Ama i disservizi sono dovuti al picco di morti causato dal Covid. Ma le associazioni attaccano: "Colpa di burocrazia e disorganizzazione". Alessandra Benignetti, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Non c’è solamente il picco di decessi registrati negli ultimi tre mesi dietro il caos che sta investendo il cimitero Flaminio, nella zona nord della Capitale. Secondo le associazioni alla base dei problemi ci sarebbe soprattutto la disorganizzazione dell’amministrazione capitolina. "Ad agosto è stato saturato il cimitero Laurentino e quindi le persone residenti nel quadrante sud della Capitale hanno dovuto iniziare a trovare soluzioni alternative per i feretri – spiega al Giornale.it Valeria Campana, portavoce del Comitato Tutela Cimiteri Capitolini - la prima, ovviamente, è la cremazione, che consente di collocare l’urna cineraria in un’altra tomba". "In questi anni – va avanti Campana – per una serie di errori tecnico burocratici il Campidoglio non è riuscito ad ampliare, modificando il piano regolatore, il cimitero Laurentino e neppure a liberare circa 1300 sepolture al Verano, che potevano essere messe all’asta così da dare una boccata d’ossigeno sia in termini di spazio che finanziari". "L’aumento di decessi delle ultime settimane, quindi – denuncia – ha solo aggravato una situazione già al limite, visto che il numero delle salme che aspettano di essere cremate è di due o tre volte superiore a quello dei morti per Covid nel Lazio". Nella Capitale, anche per colpa del nuovo coronavirus, i decessi sono cresciuti del 25 per cento soltanto nel mese di ottobre. Per evitare "congestioni" nei cimiteri la scorsa settimana Ama ha messo in campo due soluzioni: il trasferimento di parte delle salme in una "sala d’attesa" allestita al cimitero del Verano e l’attivazione della "sesta linea del forno crematorio del Flaminio" per potenziare le attività. "Resta intatta la capacità di soddisfare tutte le tipologie di operazioni cimiteriali", assicurava la municipalizzata in una nota diramata nei giorni scorsi. Ma secondo le associazioni sarebbero ancora centinaia le salme che attendono di essere cremate. In coda c’è anche quella di Gigi Proietti, l’attore scomparso la scorsa settimana per un attacco cardiaco. Secondo Il Messaggero la sua famiglia potrebbe dover attendere almeno una settimana per la cremazione. Tanto che un impianto di Castel Volturno, in Campania, si sarebbe offerto per effettuarla gratuitamente". Per gli altri, però, l’operazione non si preannuncia semplice. "Chi vuole andare a cremare il caro estinto fuori comune - ci spiega, infatti, Valeria Campana - non può farlo se non dietro il pagamento di una tassa di circa 250 euro, senza dimenticare le restrizioni sugli spostamenti dettate dall’ultimo dpcm". Intanto la figuraccia del Campidoglio fa indignare il mondo politico. "Come si può arrivare a questo?", si domanda su Twitter il candidato sindaco della Capitale, Carlo Calenda, commentando l'odissea toccata alla salma dell'artista romano. Sulla questione sono intervenute anche le consigliere Dem Valeria Baglio e Giulia Tempesta, che denunciano come lo scorso anno "i soldi allora stanziati in bilancio per le manutenzioni straordinarie dei cimiteri, tra cui le manutenzioni dei forni crematori e la realizzazione di altri sei nuovi impianti", non sono mai "arrivati a destinazione". "Il presunto picco di mortalità delle ultime settimane è solo una giustificazione meschina per nascondere l'impreparazione e l'immobilismo della giunta che da tempo era al corrente dei problemi cui sarebbe andata incontro, senza l'avvio di manutenzioni dei luoghi e lavori di adeguamento dei servizi", attaccano in una nota. "Questa situazione – concludono - non è figlia di un'emergenza temporanea, ma è una precisa responsabilità dell'amministrazione Raggi che da tempo sarebbe dovuta intervenire". È la stessa posizione sostenuta dal Codacons, che nei giorni scorsi ha annunciato un esposto contro Ama per interruzione di pubblico servizio.
Dagospia il 17 luglio 2020. Come già comunicato lo scorso 18 maggio, sono stati immediatamente sospesi dal servizio e dalla retribuzione i dipendenti coinvolti nell’inchiesta della Procura della Repubblica a seguito delle indagini dei Carabinieri del Nucleo Radiomobile di Roma su ipotesi di condotte illecite nell’espletamento di alcune operazioni cimiteriali all’interno del Cimitero di Prima Porta. I dipendenti, per i quali è subito scattato anche un procedimento disciplinare, resteranno sospesi dal servizio sino all’esito del procedimento stesso. La vicenda è emersa anche grazie alle segnalazioni e alla collaborazione dell’azienda con le Autorità competenti. Ama S.p.A. si considera a tutti gli effetti parte lesa, continuerà a offrire la massima collaborazione agli inquirenti e non esiterà ad assumere ulteriori iniziative anche a tutela della propria immagine. Lo comunica AMA S.p.A. in una nota. Ufficio Stampa Ama
Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 17 luglio 2020. Le immagini immortalano lo scempio. Le telecamere nascoste tra i vasi di fiori dei loculi registrano la scena: Alcuni dipendenti dell'Ama si accaniscono sui cadaveri nel cimitero di Prima Porta. La salma viene brutalmente sezionata. Tagliata con un coltellaccio, i resti buttati nell'ossario comune. Tutto alla luce del sole. È accaduto questo al cimitero Flaminio tra gennaio e febbraio scorso. Le videocamere piazzate dai carabinieri del nucleo radiomobile acquisiscono preziose prove. I lavoratori della municipalizzata, con le tute arancioni e la scritta Ama, si dispongono intorno alla salma, la sollevano, un altro la tiene e un collega infierisce con il coltello.
LE IMMAGINI. Il video drammatico, ma indispensabile per gli inquirenti per incardinare l'accusa, da stamattina è sul sito del Messaggero. I cadaveri sono brutalmente offesi per un solo obiettivo: arrotondare lo stipendio. Il tutto realizzato ingannando i familiari dei defunti, all'oscuro di ciò che accade. La procura di Roma adesso si prepara a chiedere il rinvio a giudizio, il pm è Pietro Pollidori, e accusa 15 persone tra dipendenti dell'Ama e impresari funebri, a vario titolo, per truffa, corruzione, induzione alla corruzione e vilipendio di cadavere.
IL CASO. Dopo 30 anni all'interno del loculo, scade il tempo per la permanenza della bara. Perciò si dispone l'estumulazione e il trasferimento dei resti, quasi sempre, nell'ossario comune. Tuttavia in molte aree del cimitero il corpo si conserva in ottimo stato. Una notizia pessima per i parenti del defunto: i familiari devono mettere mano al portafoglio e pagare la cremazione. È di fronte ad una spesa imprevista che, per i pm, viene presentata una ragionevole e meno dispendiosa soluzione: le faccio spendere di meno. Si tratta di una proposta presentata da alcuni dipendenti dell'agenzia funebre che poi dividono la busta dei soldi con i complici che vestono la divisa dell'Ama. Accade poi il rituale macabro. I parenti non sanno quello che succede. Non immaginano che ciò che rimane del loro caro verrà poi tagliato da macellai improvvisati: i dipendenti della municipalizzata afferrano i coltelli ed iniziano a sezionare la salma mummificata. Nel giro di una mezz' ora riducono il corpo in pezzi. Alla fine, ciò che resta lo prendono e lo collocano nell'ossario comune.
SECONDA INCHIESTA. Anche se i casi scoperti dal radiomobile dei carabinieri sono sei, in procura sono certi che questa operazione macabra sia andata avanti per molto tempo. A questo punto c'è da chiedersi, cosa accade a Prima Porta? C'è infatti un'altra inchiesta del sostituto procuratore Silvia Sereni che riguarda la truffa sulle cremazioni. Ovvero i vasi di terra consegnati ai parenti del defunto al posto dell'urna cineraria: la bara viene seppellita, all'insaputa della famiglia, nell'area comune. In questo caso, alcune agenzie funebri, incassano i soldi della cremazione, subito dopo il funerale, salvo poi non eseguirla. In questo nuovo filone, sempre i carabinieri del nucleo radiomobile, hanno individuato 10 bare seppellite. Ma è solo l'inizio. La procura ritiene, infatti, che i casi possano essere molti di più.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 17 luglio 2020. Il danno è da capogiro: quasi 90 milioni di euro sprecati in un affare fallimentare, che ha scavato una voragine nei bilanci della ex Provincia di Roma. Si tratta dell'acquisto del palazzo da 32 piani che sarebbe dovuto servire come sede unica, costruito sui terreni di Luca Parnasi, l'imprenditore a processo per associazione a delinquere e corruzione per lo Stadio della Roma. Ora la Corte dei Conti del Lazio chiede i danni e bussa alla porta di 37 tra politici, tecnici e amministratori, del Campidoglio e della Regione, che si sono succeduti nel corso degli anni. I nomi sono importanti: i magistrati hanno notificato l'invito a dedurre - che equivale a un avviso di conclusione delle indagini - anche alla sindaca Virginia Raggi, alla guida del Comune e quindi della Città Metropolitana di Roma, e al presidente della Regione e segretario dem Nicola Zingaretti. Nella lista ci sono anche i consiglieri Maria Agnese Catini, Giuliano Pacetti, capogruppo M5S, Paolo Ferrara, ex capogruppo, insieme al consigliere comunale Maria Teresa Zotta. L'invito a dedurre è stato notificato anche alla parlamentare del Pd Patrizia Prestipino, all'europarlamentare dem Massimiliano Smeriglio, all'ex capo di Gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro. Ancora: ci sono i nomi di Amalia Colaceci, ex assessore di palazzo Valentini poi diventata presidente di Cotral, e Michele Civita, assessore in Regione già a processo per il nuovo stadio della Roma, Mauro Alessandri, prima consigliere provinciale e poi assessore ai Trasporti della Pisana, Antonio Calicchia, già direttore generale della Provincia di Zingaretti, il dirigente del dipartimento Risorse strumentali, Stefano Carta. E poi compaiono i ragionieri e i consiglieri del Cda del fondo d'investimento utilizzato per la compravendita immobiliare. Ognuno dei 37 indagati, secondo la ricostruzione del viceprocuratore Massimo Lasalvia, titolare del fascicolo, avrebbe una parte di responsabilità: chi ha proposto e chi ha votato l'acquisto della nuova sede, chi ha continuato negli anni a deliberare atti per cercare di ripianare la voragine finanziaria. Per la procura, il fondo istituito dall'ex Provincia per l'acquisto immobiliare sarebbe stato amministrato in conflitto d'interessi dalla stessa società di gestione del risparmio che controllava la torre Parnasi. E non è tutto: nello stesso fondo sono stati fatti confluire anche gli immobili di pregio della Città Metropolitana, a garanzia del prezzo finale. Il problema è che questo strumento finanziario, fin dal momento dell'istituzione, avrebbe generato uno squilibrio finanziario macroscopico, che sarebbe stato compensato con la progressiva vendita all'incanto dei palazzi pubblici. La torre Parnasi, in zona Eur-Castellaccio, «risultata peraltro inagibile e quindi inutilizzabile» - si legge negli atti - era stata acquistata dal Fondo Immobiliare Provincia - uno strumento finanziario definito «complesso e oneroso» dagli investigatori - al prezzo di circa 263 milioni di euro. Sono stati i finanzieri del Nucleo Pef di Roma a quantificare il danno: circa 90 milioni di euro, appunto, 69 dei quali utilizzati per fare fronte a oneri gestionali del fondo, che aveva un andamento negativo e che sarebbe stato costituito senza requisiti di legge idonei. Altri 20 milioni di euro si sarebbero invece volatilizzati in spese della nuova sede e in canoni di locazione passiva.
Da beppegrillo.it il 12 luglio 2020. A Virgì, pijia na valigia, tu fijio, tu marito, famme un fischio, che se n’annamo via da sta gente de fogna. Lassa perde. Nun te spormonà, sta a fa un bucio de culo, puro senza rubbà, e , chi te critica quà, chi te critica là, chi c’ha er pupo sur fòco, e, jielo devi da tojie, e n’artra che se lamenta che nun je risponni, che nun la vai a sentì, che c’ha puro lei quarche cosa da lamentasse. E che cavolo! Se chiama Virginia, mica è la Madonna der Divino Amore! Quella, dice , che fà li miracoli. Sò de Roma, e sò settant’anni che ce vivo, e, ogni quarvorta che vinceva un sindaco, me mettevo de buzzo bòno a vedè quello che faceva. A Roma se dice che: li cavalli se vedeno all’arivo! E io li ho sempre giudicati alla fine de la corsa. Voi no, cari romani, voi dovete da rompe er ca’… sempre. Nun è da oggi. Sò circa tremila anni che rompete li cojoni, ma nun fate mai gnente pé dà na mano, anzi, giù botte! Oggi, per esempio, sta pòra donna, era contenta d’avè messo la luce che nun c’era da quarant’anni, a na via a Torre Angela. Me direte, ma era na via de borgata, quarant’anni fa era tutto abusivo! E certo, era abusivo, come si fasse na casa abusiva fosse un diritto, e, che , dar momento che sò state sanate dar condono del 1987, aricordatevelo, voi che rompete er ca’…, 1987. Nisuno, e dico nisuno, c’aveva messo mano, pé mette la luce, li lampioni. Dice. Ma che te vanti? Sò solo quattro lampioni. Intanto sò de ppiù, ma, si pure fussero due, ereno quarant’anni, quasi, che aveveno condonato. Quindi annate a rompe er ca’… da n’artra parte. Me fa piacere che nun sbomballate le gonadi cô le buche, puro si nun s’è finito de rifà tutte le vie de Roma. Ma come se dice, ogni vorta che dovete da fà un lavoro? Roma mica s’è fatta in un giorno. E voi, pretennete che sta pòra crista, che deve da combatte a mafia romana, e famijie Casamonica, casapound, forza nòva, li cazzari, sò due, e carciofare, Cartagirone co li giornali, Angelucci cò le cliniche, er Pd, a Lega, li fascisti, li zingari, li ladri, li corrotti che staveno dentr’ar comune, li corrotti dell’Atac, le perdite dell’acqua, li abusivi ne le case comunali, li politici che l’occupaveno, embè. Si io me sò stancato a scrive tutto, e nun ho finito, quello che ha fatto sta pòra crista in quattro anni, senza sprecà na lira, ma come se deve da sentì lei che ste cose l’ha fatte? E jianno rotto, dandoje fòco, ai Tmb der Salario, a quello de Rocca Cencia, jianno dato fòco a 1200 cassonetti de la monnezza, hanno tolto e marmitte a tutte le auto der servizio giardini, stanno a mette li chiodi nelle spiagge che ha fatto sequestrare a li delinquenti de Ostia, stanno a rompe li cessi pé li disabili. E voi che ca… fate? A criticate? Ma annate a fancina! Invece de curavve la città vostra, fate er tifo pe li ladri, li delinquenti, proprio quelli che v’hanno fatto vive dentro a la monnezza, oppuro ve credete che er nome der monnezza de Thomas Milian, è un nome de fantasia? C’era la monnezza, eravamo noi che la producevamo, e nun c’è gnente da fà, si potemo buttà per tera na cosa, noi ce la buttamo, si potemo mette un divano, verso e tre de notte, vicino ar cassonetto, noi, ce lo mettemo. Vòi mette er culo che c’è da fa, a chiamà l’Ama che te lo viè a prenne, a gratis, a casa? Ve meritate Carraro, Signorello, Darida, Veltroni, Rutelli, Alemanno ! Marino. Da che sò vivo e capiente, solo Petroselli era ben visto da tutti, ma, er Signore se lo prese de corsa, forse voleva mette a posto er paradiso. Tutto er resto, monnezza su monnezza, de persone, o de opere, e li buffi c’hanno invaso la città. L’anima de li mejo morta… vostra, si nun ve spicciate a sostenè sta pòra ragazza, armeno, senza metteje li bastoni fra le ròte, cari romani, ve devo da di che sète proprio infami. E si, perché nun ve basta che ve compra l’autobusse co l’aria fredda e calla, nun ve basta che ve rifà tutte e strade, nun ve sta bene che ve regala er mare libero, aricordateve quanno pe annà su la spiaggia dovevate da pagà l’ingresso, sveja! Era tutta mafia, ve stava bene? No. Perché sentivo tutti che se lamentaveno, e, nun c’era un buco dove potè annà ar mare. Pé questo ve dico che l’onesti dovrebbero pijà e valige, e, annassene, abbandonà sta città bella e zoccola. Si vincheno li vecchi partiti, sète fottuti. Nun se farà più gnente, e, si se farà quarcosa sarà pé volere de la magistratura. Ma voi, godete a sputà in faccia a na sindaca pulita, e testarda, una che le cose le fa. Pensatece , c’avete undici mesi de tempo, pé pensacce bene. O volete Roma, o sète morti, che Roma, quell’artri, se la magneno. Ringrazio Franco Ferrari per questo suo sonetto.
Simone Canettieri per “il Messaggero” il 13 luglio 2020. E pensare che il sonetto era entrato a casa Raggi già sabato. Quando il marito della sindaca, Andrea Severini, aveva condiviso sui social (salvo ieri cancellarlo) il post su Facebook di tale Franco Ferrari. Un testo scritto in romanesco che inizia così: «A Virgì, pijia na valigia, tu fijio, tu marito, famme un fischio, che se n'annamo via da sta gente de fogna». Seguito da una lunga assoluzione della sindaca, incentrata sulle colpe dei cittadini incivili che saboterebbero la grillina «facendo il tifo per i ladri». Fin qui uno dei tanti fenomeni social da tastiera che si sentono eredi del Belli. La faccenda, però, è diventata tremendamente seria (ma non grave) quando il post è stato fatto proprio dal blog di Beppe Grillo. Ed è accaduto ieri dopo pranzo. All'insaputa di Raggi che si è trovata attaccata da tutti i partiti, indignati per gli insulti alla «gente de fogna» e allo stesso tempo con mille letture e dietrologie su questa mossa di Grillo. Un modo per scaricarla e favorire un accordo con il Pd nella Capitale aiutando la trattativa per le regionali di settembre? Una parte di Movimento che mal sopporta la fissazione di «Beppe» per i dem e da sempre non va a braccetto con la sindaca «dei mille problemi» dice nelle chat così: «Grillo le ha dato il benservito». Chi invece conosce il Fondatore, che in questi giorni è comodamente spaparanzato al mare, sostiene l'opposto: vuole aiutarci, vuole mandare un messaggio interno per dire di sbloccare la situazione. Max Bugani, per esempio, uno dei pionieri del M5S che adesso lavora in Campidoglio con Raggi, è euforico. Ma quando si muove Grillo, con i suoi meta-messaggi e le sue provocazioni l'effetto è quello dello sguardo della Gioconda: dove guarderà? Cosa vorrà dire? Chi vuole bene a Raggi sottolinea infatti la parte finale di questo sonetto, l'appello ai romani (e forse anche al Pd, che però non ci pensa proprio) a sostenerla per la ricandidatura: «Pensatece, c'avete undici mesi de tempo pé pensacce bene». Ma gira un po' la testa a smontare e rimontare tutto, visto che alla fine l'unico vero messaggio che emerge è l'insulto ai romani. Allora occorre fotografare la situazione: il M5S tiene ancora a bagnomaria la sindaca. Lei si vuole ricandidare l'anno prossimo, ma il capo politico Vito Crimi non si prende la briga di mettere al voto su Rousseau la deroga al secondo mandato. Visto che la mossa, oltre a interessare le sindache grilline (volendo ci sarebbe anche Chiara Appendino a Torino, che però è pronta al passo indietro) potrebbe metter gola ai parlamentari in cerca del terzo giro. E così meglio rimandare tutto a ottobre, agli Stati generali. Sapendo che il Pd su Raggi, come raccontato da Il Messaggero, reputa il suo bis «una minaccia», parola di Nicola Zingaretti. E così nell'intenzione di Grillo ci sarebbe stata la volontà di «dare una mano a questa ragazza», come si giustifica quando inizia a ricevere le prime telefonate.
LE CRITICHE. Il problema sono gli insulti ai romani. Che costringono Raggi a una garbata presa di distanza: «Amo Roma con tutta me stessa, vado avanti ma - dice rivolgendosi all'autore del post in romanesco con un Ps su Facebook Quel gente de fogna non mi piace. Lo so che ti riferisci a chi ruba o incendia ma, se puoi, toglilo». E subito arriva il like di Di Battista («Sei una signora») e anche Crimi in serata: «La rinascita deve proseguire». A dire il vero, però, vanno avanti solo i commenti sdegnati di tutti i partiti per le parole sull'Urbe (anche i consiglieri comunali M5S che prendono le distanze). E allora ecco Giorgia Meloni: «Espressioni inaccettabili, Grillo disprezza i romani». Poi Matteo Salvini: «Siamo pronti a ridare onore alla città». Italia viva, con Luciano Nobili, consiglia a Virginia di prendere in considerazione il Garante «e di andarsene». Nel Pd la linea è di evitare lo scontro con Grillo, fondamentale per chiudere le alleanze impossibili alle regionali, per la tranquillità del premier Conte. E così i big del Nazareno tacciono. E si ritorna alla borgata Ottavia, a casa Raggi. Post serale del marito della sindaca: «La valigia non la prendiamo, non molliamo». E anche questa potrebbe essere una minaccia o un buon auspicio.
Diodato Pirone per “il Messaggero” il 13 luglio 2020. Professor Cassese, lei è uno dei massimi esperti di amministrazione, non solo in Italia, e abita a Roma da molti anni. Che voto darebbe all'amministrazione capitolina guidata da Virginia Raggi?
«Zero, perché non c'è un voto più basso».
Quali le ragioni di un giudizio così netto?
«La ragione è semplice, sotto gli occhi di chi abita a Roma e cammina per le sue strade: le condizioni fisiche della Capitale (dire delle buche è poco; vi sono strade smottate e chiuse da sei mesi, senza che siano neppure iniziati i lavori di ripristino), i trasporti, la pulizia. Se un sindaco non sa far funzionare i suoi uffici, non stabilisce priorità, non controlla, va sostituito».
Nel suo sonetto diffuso ieri Grillo sostanzialmente dice che la sindaca non viene apprezzata dai romani. Eppure la Raggi è stata eletta con oltre 700.000 voti. C'erano tutte le condizioni per un grande amore con la cittadinanza, perché non è sbocciato?
«Altro è agitare le piazze, altro è amministrare. Alla prova della gestione, si è rivelata poco capace. Non mi pare che vi sia alcuno che sostenga il contrario. Ho pubblicato un editoriale sul Corriere della Sera il 1 settembre 2017 nel quale scrivevo che Roma: è una città in stato di abbandono. Le strade sono intransitabili a causa delle buche. Nei casi più gravi, vengono tenute chiuse per evitare incidenti, ma così impedendo alla gente di raggiungere le proprie abitazioni. Vi sono lavori pubblici che attendono da quarant' anni d'esser fatti. Per la pulizia di strade e giardini, in alcuni casi diventati pattumiere, si ricorre ormai al fai da te: si paga qualche extracomunitario di buona volontà, che provvede. Se un albero crolla, lo si circonda con qualche segnale di pericolo e lo si lascia per terra. Alcuni luoghi pubblici, anche i portici di una delle principali basiliche, sono intransitabili perché vi sono persone accampate, che hanno fatto della strada la propria casa. Tolleranza e incuria regnano sovrane. I trasporti pubblici non funzionano, per cui tutti ricorrono ai mezzi privati, con conseguenze gravi per traffico e ambiente. I vigili urbani sono diventati una entità astratta. Gli amministratori locali vivono sulla luna, invece di girare per le strade e constatare in che condizioni sono. La situazione, tre anni dopo, è peggiorata. Il confronto con Milano, una città che è rifiorita grazie alla buona amministrazione, peggiora la votazione per Roma».
Ma davvero come dice Grillo l'amministrazione 5Stelle può vantare attenzione alle periferie?
«Chiunque giri per Roma può testimoniare che le condizioni della Capitale sono miserevoli, sia al centro, sia nelle periferie. Una parte del verde pubblico è ormai curato dai cittadini che si associano, pagano una quota o si danno da fare essi stessi, lavorando per tenerlo pulito, togliere le erbacce, tagliare i rami caduti».
Acquisto di nuovi autobus, spiagge libere, strade riasfaltate. E' questa la Roma dell'amministrazione 5Stelle?
«Strade riasfaltate? Un sogno. Provi a camminare in centro e a vedere le condizioni dei sampietrini. Aggiungo: veda le condizioni dell'Ama, l'azienda che raccoglie e gestisce i rifiuti urbani, e le vicende del suo bilancio, il modo in cui funzionano i Municipi, l'impegno dei dipendenti comunali. La città è abbandonata a sé stessa. Lo straniero che la visita rimane impressionato dalle meraviglie del passato e dallo scempio del presente, prodotto da incuria. É la Capitale di uno dei grandi Paesi industrializzati del mondo, mentre sembra una città mediorientale».
Per Grillo i romani non stanno apprezzando un'amministrazione che non ruba. Estremizzando sembra quasi che l'onestà di un amministratore ne danneggi l'efficienza o ne ostacoli i risultati. Questo mantra dei 5Stelle ha radici nella realtà?
«L'onestà è un prerequisito necessario. Onestà senza capacità di amministrare non serve alla collettività».
Beppe Grillo, striscione-shock contro il comico M5s: "Tu assassino, tuo figlio stupratore. Verme, merda". Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. No, i tifosi della Roma non hanno gradito più di tanto il terrificante e delirante "sonetto" dedicato da Beppe Grillo a Virginia Raggi, quello con cui ancora non è chiaro se il capo-comico la abbia silurata o al contrario "portata in palmo di mano" (molto più probabile la prima). Già, il grillino infatti ha definito "gente di fogna" i romani. Insomma, non era poi così difficile ipotizzare qualche reazione scomposta. E quest'ultima, appunto, è arrivata dai tifosi giallorossi. Come rivela iltempo.it, questi hanno esposto lo striscione che potete vedere qui sotto in via Piccolomini, a Roma. Striscione durissimo che recita: "Tu assassino e tuo figlio stupratore... insulti Roma... ma sei una merda senza onore. Grillo verme". Roba da brividi. Parole pesantissime e inaccettabili per rispondere a un insulto certo pesante, quello di Grillo ai romani, ma comunque inaccettabile.
Il vaffa degli artisti romani al sonetto pro Raggi di Grillo: "Dipinge Roma come Kabul". Irritazione per l'insulto «Gente de fogna» Proietti: «Adesso la smettano, siamo stanchi». Cinzia Romani, Martedì 14/07/2020 su Il Giornale. «Gente de fogna» e «infami». Oltre il danno, la beffa. Perché in tali termini dispregiativi Beppe Grillo si è appena espresso, insultando i quiriti che hanno il solo torto di cadere nelle buche, senza venir risarciti («le buche, ormai, sono storiche: i cittadini sanno dove stanno», disse la Raggi), o di respirare miasmi quando passano davanti ai cassonetti. Una bidonville piena di anziani malridotti, spazzatura, gabbiani che camminano per strada, topi enormi e cinghiali a vista. Un posto triste, dove ogni cosa a ogni altra cosa ha detto addio, pare per sempre. Degrado, abbandono e «Roma zoccola», pure. E, ancora, «monnezza di persone», che di certo non meritano Virgy, che nel cosiddetto sonetto grillesco viene invitata a fare la valigia, con marito e figlio. Ma come? Abbiamo appena perso un grande romano, Ennio Morricone, che tutto il mondo ci invidiava, e il giullare di Genova, pronto a negare buche e altri disastri della sua prima cittadina, sbeffeggia i romani, magari per nascondere una sconfitta politica senza appello? Il mondo del cinema, intanto, non ci sta. E, a modo suo, si ribella. «Ormai abbiamo le spalle forti. Finora, eravamo porci e ladroni. E mò, siamo gente de fogna, infami. Non ci meritiamo niente! L'unica cosa è rispondere a Grillo con lo slogan a base della sua politica, quel vaffa che ha lanciato lui. La smettano! Siamo antichi. Siamo stanchi. E poi, quello non è un sonetto. Grillo può chiamarlo così, ma non lo è: ci sono precise leggi metriche, per un sonetto. Imparate almeno questo», dice Gigi Proietti, mentre allestisce le prove al Globe, il bel teatro elisabettiano di Villa Borghese, che lui dirige. La butta a ridere (per non piangere) Sandra Milo. Da Alatri, afferma ironica: «Ma Grillo ci faccia un piacere: si prenda la Raggi e se la porti via. I romani hanno dominato il mondo, costruito opere straordinarie, che ancora ispirano gli architetti e gli uomini di scienza. Noi discendiamo da quella stirpe, altro che gente de fogna!». È di parere diverso, invece, la produttrice Elda Ferri, che insieme al regista Roberto Faenza cerca di mandare avanti il film Resilient, sul premio Nobel italiano Mario Capecchi. «La Raggi ha rotto una rete, che le ha procurato forti ostilità. Ha fatto cose di cui avrà beneficio chi le succederà», scandisce, andando controtendenza. Ma Carlo Verdone non è d'accordo. «Guardo il mio quartiere, ogni dieci metri c'è una buca assassina. Roma pare Kabul. Mi fa molto male. Sono preoccupato e arrabbiato, non vedo vie d'uscita», dice il comico, che inizialmente tifava per la sindaca, pur non condividendone le idee. Romani gente de fogna? «Per salvare l'operato disastroso della sindaca, Grillo dà la colpa ai romani. E questo è un vero e proprio insulto all'intelligenza. Se è una cloaca, è perché l'Ama non raccoglie i rifiuti. Basta con gli insulti. Qualificano chi li pronuncia», commenta lo scrittore Giorgio Montefoschi. Impossibile dargli torto.
Fabio Rossi per il Messaggero il 9 luglio 2020.
IL PROVVEDIMENTO. Sanatoria per tutti gli occupanti abusivi delle case dell' Ater - oltre seimila casi a Roma - purché vi si siano insediati prima del 23 maggio 2014: il giorno in cui è entrata in vigore la legge Lupi sull'emergenza abitativa, che impedisce agli occupanti di ottenere la residenza e la regolarizzazione. La giunta regionale ha approvato la delibera che mette in atto la decisione del consiglio regionale che a febbraio, nell' ultimo collegato al bilancio, con una scelta molto contestata aveva dato il via alla regolarizzazione delle occupazioni senza titolo: una realtà che, oltre a sacche di povertà ed emarginazione sociale, comprende anche abusi e prevaricazioni ai danni degli aventi diritto, oltre a casi di vero e proprio racket sulle case occupate. Il fenomeno ha evidentemente messo le radici in un contesto che, nel corso degli anni, è diventato sempre più fuori controllo, nonostante i recenti tentativi di riportare, almeno in parte, la legalità.
L' ITER. La nuova delibera della Regione definisce i termini e le modalità di presentazione della domanda e stabilisce l' iter procedurale. La richiesta di regolarizzazione potrà essere inviata al Comune dove è ubicato l' alloggio e all' Ater di competenza, a partire dal 1° settembre 2020 e fino al 27 febbraio 2021. Potrà essere inviata direttamente dall' interessato, tramite raccomandata o Pec, oppure ricorrendo alla consulenza di Caf, sindacati, patronati e comitati degli inquilini. Oltre alla data dell' occupazione, un altro elemento determinante sarà il reddito. Chi otterrà la sanatoria dovrà pagare una cifra sarà pari al canone Erp calcolato in base al reddito, per il periodo dell' occupazione dell' alloggio, per un massimo di cinque anni. Con una sanzione di 200 euro mensili, per la fascia di reddito più bassa, ridotta del 10 per cento per i nuclei familiari in cui siano presenti minori o del 20 per cento qualora siano presenti minori con disabilità.
I CRITERI. Chi presenta la domanda per la sanatoria dovrà dichiarare di non essere proprietari o di non poter utilizzare altri alloggi adeguati alle esigenze del nucleo familiare sul territorio dove si trova l' alloggio occupato o di non essere proprietario di immobili con un valore superiore ai 100 mila euro sull' intero territorio nazionale. E inoltre dovrà dichiarare di non avere avuto in assegnazione alloggi realizzati con contributi pubblici o di non aver realizzato abusi all' interno dell' immobile abitato senza titolo. Nella legge approvata a febbraio, inoltre, per quanti hanno occupato dopo il 23 maggio 2014 viene prevista la possibilità di restare nell' abitazione avanzando domanda di casa popolare e aspettando in graduatoria, qualora l' assegnazione avvenga entro due anni. «Abbiamo votato contro questa norma, nel collegato al bilancio, perché non si sono scisse le posizioni di chi ha davvero diritto a una casa popolare da chi occupa abusivamente e fa compravendita di alloggi di edilizia residenziale pubblica», sottolinea Fabrizio Ghera, capogruppo di Fratelli d' Italia in consiglio regionale.
Roma ha bocciato le strade dedicate a Fabrizio Frizzi e Tomas Milian, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. Lorena Loiacono per leggo.it il 9 luglio 2020. In tanti hanno pianto e riso per loro. Avrebbero voluto vedere quei nomi su una targa di marmo, ad intitolare una strada. Ma non sarà così per Fabrizio Frizzi. E neppure per Tomas Milian. Almeno non ora. Il conduttore romano, gentiluomo della tv, ad esempio dovrà aspettare ancora 8 anni. Il Campidoglio infatti, nonostante ci fosse una mozione approvata all’unanimità in consiglio comunale, ha bocciato l’iniziativa. Il motivo? Per intitolare una strada bisogna aspettare 10 anni dalla morte: «Per questo - spiega Andrea De Priamo, consigliere capitolino di Fratelli d’Italia e primo firmatario della mozione - avevamo chiesto una deroga sui 10 anni, ma non è stata accolta. La regola serve ad evitare un continuo cambio di nomi delle strade ma per Frizzi avremmo trovato uno spazio ad hoc in una zona dove ci sono viali intitolati ai personaggi dello spettacolo». Così per Fabrizio Frizzi, scomparso il 26 marzo del 2018, bisognerà aspettare altri 8 anni. La strada per lui era pronta: doveva essere all’Aventino, tra le terrazze più belle della Capitale. Il “no” tenuto con il silenziatore «perché non volevamo addolorare i parenti». Lo stesso vale per l’attore Tomas Milian, cubano di origine e romano di adozione, che tutti conoscono come “er monnezza”, scomparso nel 2017: anche per lui, protagonista di decine di pellicole cult per almeno due generazioni, il consiglio comunale capitolino ha inutilmente chiesto una deroga. Eppure in alcuni casi sarebbe quasi dovuta l’eccezione, visto il sentimento popolare nei confronti di personaggi così cari. A giorni, arriverà la stessa richiesta per Ennio Morricone.
Lorena Loiacono per leggo.it il 9 luglio 2020. Dopo sette anni la targa di viale Sora Lella verrà sistemata. Verrà corretta quindi la data della morte dell’attrice, che erroneamente riporta sul marmo il 1997 invece del 1993. Dopo la denuncia di Leggo, che segnalava l’errore, e la sollevazione social in difesa dell’attrice romana (al secolo Elena Fabrizi), il Campidoglio ha assicurato che provvederà a correggere la targa. Non solo, il Comune di Roma ci tiene anche a sottolineare che quella targa è stata messa nel 2013, a seguito di una delibera del 2012, quindi l’errore non ha a che fare con la Giunta Raggi. In realtà nell’articolo di Leggo non viene detto che l’attuale amministrazione ha commesso l’errore, viene invece segnalato che nessuno ha ancora provveduto a porvi rimedio. Quella targa sta lì, sotto gli occhi di tutti, da 7 anni: quindi ha visto passare diversi sindaci. Raggi compresa. E comunque preme sottolineare che una delle segnalazioni giunte al Comune di Roma risale al mese di febbraio scorso. Forse ce ne sono state anche prima: ma di certo una è arrivata a febbraio, quando l’amministrazione era quella attuale. Non ci si può sbagliare. Da quel giorno sono passati circa 5 mesi. Di mezzo ci si è messo anche il Covid, certo, ma 150 giorni di attesa sono comunque tanti. Troppi. Anche perché durante la quarantena sembrava che il Campidoglio volesse accelerare sulla manutenzione stradale approfittando del traffico ridotto a zero. Qualche intervento è stato fatto ma non per la targa di Sora Lella. La gaffe è del Comune di Roma, a prescindere dai colori politici. Basti spiegare ai lettori, per esempio, che per cambiare una targa basta poco: la delibera del 2012 riporta la data corretta, quindi non va neanche riscritta. La burocrazia questa volta non può essere tirata in ballo: si tratta solo di decidere di sostituire il marmo, come avviene in pochi giorni per una targa vandalizzata. E il momento è quello giusto visto che il Campidoglio vuole ricordare Ennio Morricone, artista infinito che con le sue note ha consegnato alla storia del cinema film come “Bianco, rosso e Verdone”, dove una strepitosa Sora Lella è diventata la nonna di tutti i romani.
Valentina Lupia per "repubblica.it" l'1 luglio 2020. I cinghiali continuano a vagare per strade, cortili condominiali e parchi di Roma nord e i cittadini stanno cominciando ad aggredirli. Addirittura, a Monte Mario, a colpi di balestra: stanno diventando virali, infatti, le immagini di un cucciolo di cinghiale che, in cerca di cibo insieme alla madre, cammina dolorante a testa bassa col dorso completamente trafitto tra una freccia. A denunciare il fatto è stata una cittadina, Paola Spadaccia, che il 29 giugno ha fotografato i due animali e ha pubblicato la foto sui social, chiedendo agli abitanti della zona se qualcuno avesse visto qualcosa: "Non è questo il modo di risolvere il problema dei cinghiali", spiega. La segnalazione è arrivata anche in Comune: "Fermare queste persone folli non è semplice - spiega Daniele Diaco (M5S), presidente della commissione Ambiente in Campidoglio - Ma stiamo cercando di intervenire in qualche modo". Nel frattempo Earth, l'associazione nazionale a difesa dei diritti giuridici degli animali, è pronta a sporgere denuncia in procura. "Non è purtroppo la prima volta che accadono fatti come questo e a fare le spese del malsano divertimento di qualcuno questa volta sono stati dei cuccioli - spiega la presidente nazionale, Valentina Coppola - . Per questo ci opponiamo fermamente a quanto accaduto e ci attiveremo per fare in modo che venga individuato il responsabile. Chiediamo, quindi, ai residenti del quartiere che abbiano visto qualcosa di segnalarlo alle guardie zoofile Earth che provvederanno a intervenire. Una volta individuato il responsabile, depositeremo presso la procura di Roma formale denuncia in modo tale da assicurarci che la persona in questione possa ricevere una pena adeguata". Venerdì 26 cinghiali adulti e cuccioli erano stati fotografati in largo Vidari, ancora a Monte Mario, intenti a banchettare tra i rifiuti. E di qualche tempo fa sono i video di un cinghiale, rinominato Tobia, che cercava le coccole e si lasciava accarezzare da chiunque. Insomma, mentre si cerca soluzione all'aumento di questi animali, ora ci si deve anche scontrare con la crudeltà di chi vuole sbarazzarsene in autonomia.
Marco Pasqua per “il Messaggero” il 29 giugno 2020. C'è la ragazza che si abbassa i pantaloncini tra le macchine in sosta, e usa quello spazio come se fosse un bagno a cielo aperto. Ci sono quelli, invece, che scambiano quegli stessi mezzi per dei trampolini e giocano a chi ne danneggia di più. Ma anche i ragazzi che, ad orari neanche troppo proibiti, si apparecchiano le strisce di droga, nell'indifferenza generale, e la consumano come fosse un panino o una birra. E i residenti, esasperati, sono ormai costretti a riprendere quelle scene con il cellulare e, in alcuni casi, a sporgere denuncia chiedendo un intervento per ripristinare la legalità. La geografia dello spaccio di Trastevere è ormai nota, da anni, e ha subito solo piccole modifiche. Se, un tempo, c'erano soprattutto gli africani in particolar modo gli ambulanti, che, insieme alla merce contraffatta vendevano fumo e coca ora ci sono anche giovanissimi che parlano direttamente ai loro coetanei, anche delle scuole superiori. Eccoli, in vicolo della Torre, ma anche in vicolo del Cinque, in vicolo de' Renzi, e poi i classici ponte Sisto e piazza Trilussa. In vicolo del Bologna, dove si vendono alcolici anche oltre gli orari consentiti dai regolamenti comunali, la droga si smercia dove capita e c'è qualcuno che giura di averla vista passare anche sotto al bancone di qualche locale. In via Benedetta, ogni weekend, ci sono code di giovanissimi, spinelli alla mano, comprato qualche metro più in là. In vicolo del Cedro, nel giardino, a terra è facile trovare gli involucri per la droga, ovviamente svuotati. E poi la Scalinata del Tamburino, quei 126 gradini che collegano viale Glorioso a via Dandolo, punto di riferimento di qualche collettivo musicale trasteverino che ha cantato la droga nei suoi inni rap (con tanto di recensioni su Google). Qualche settimana fa, qui, i carabinieri hanno sorpreso due persone intente a vendere fumo ai giovanissimi. Per non parlare di tutta la zona calda intorno a San Calisto, frequentatissima anche dai minorenni. Da via San Francesco a Ripa a via della Cisterna, qui è una terra di nessuno. Nell'ultima via, sono state girate le immagini dei ragazzi che consumano droga sulle auto e, alla fine, urinano contro il muro. «Ogni notte, nei fine settimana, dobbiamo aver paura a rientrare a casa dicono alcuni residenti Ci sono ragazzi ubriachi che possono circondarti, con la scusa di una sigaretta, per chiederti soldi o per il gusto di aggredirti. Ma anche quelli che danneggiano le auto o prendono a calci i portoni». «Qualcuno si difende come può ammettono anche buttando acqua di sotto, ma a quel punto le reazioni possono essere violente. Sappiamo di sbagliare, ma come dobbiamo comportarci quando chiamiamo le forze dell'ordine e vediamo che non cambia niente?». Qualcun altro ha installato, ovviamente seguendo le disposizioni in materia di privacy, delle telecamere di sorveglianza di fronte ai portoni dei palazzi, soprattutto in chiave anti-vandali. «Vediamo di tutto spiegano da chi cerca di trovare il modo di entrare nei portoni, magari aspettando l'ingresso di un residente, a chi scambia la strada per un wc, fino a quelli che imbrattano le pareti con le bombolette spray, senza neanche la paura di essere visti e denunciati». Il girato di queste telecamere basterebbe a far impallidire chiunque: è la dimostrazione di come questi barbari abbiamo l'arroganza di sentirsi i padroni delle strade del rione, liberi di poter agire a loro piacimento. «Noi davvero non comprendiamo perché non ci sia la volontà di aumentare la vigilanza da parte delle forze dell'ordine su questa zona - si chiede polemicamente Dina Nascetti, portavoce di Vivere Trastevere e da sempre in prima linea contro il degrado - Tutti sanno dove si spaccia, eppure ogni fine settimana queste persone possono continuare a gestire indisturbate i loro traffici». «Siamo venuti da poco a vivere a Trastevere, dall'estero, perché amiamo il Centro della città - racconta una coppia di residenti - e non riusciamo a subire tutto ciò. Possibile che nessuno voglia davvero intervenire per evitare questo scempio?».
Laura Bogliolo per “il Messaggero” il 28 giugno 2020. Prima arriva il cono d'ombra, poi l'eclissi totale che oscura ogni possibilità di rinascita. Sembra quasi la storia di certi angoli della Capitale ignorati, divorati dall'anarchia del degrado che si rafforza e diventa sempre più democratico tanto da colpire le periferie, ma anche arterie del traffico in pieno Centro. Si passeggia su via Veneto, si volta l'angolo su corso d'Italia e si viene tramortiti dal degrado: l'accesso al sottovia Ignazio Guidi è una baraccopoli e guai ad avvicinarsi. Due giovani dall'aria minacciosa fanno segno di andare via. Degrado e uscite di sicurezza vietate accomunano questo stradone sotterraneo a un altro, ancora più centrale perché costeggia praticamente San Pietro. Nel sottovia lungotevere in Sassia, direzione via Gregorio VII, stessa sorte per le vie di fuga: preda di sbandati, sono discariche sotterranee. Affacciarsi da via di Porta Cavalleggeri sull'uscita di emergenza vuol dire restare traumatizzati: gradini pieni di rifiuti e bottiglie di birra e in fondo il corpo di un uomo che dorme. Come a Bucarest, si vive sotto terra anche a Roma. Usciti dalle profondità, solo dopo aver preso una boccata d'aria proviamo a riavvolgere il nastro e a riflettere: cosa accadrebbe se scoppiasse un incendio nei due sottovia percorsi ogni giorno da migliaia di auto mentre le vie di fuga sono ostruite da tendopoli e montagne di immondizia? Sembra che tra i corridoi del Campidoglio non ci sia la consapevolezza di quei luoghi, dei rischi che si corrono a lasciarli in preda a sbandati senza scrupoli. La fotografia dello scempio, invece - e non si tratta solo di decoro - è stampata chiaramente nell'esposto firmato da Roberta Angelilli dell'esecutivo nazionale di FdI e da Stefano Erbaggi dell'esecutivo di Roma. E finisce sui tavoli della Procura: l'esposto è indirizzato a Virginia Raggi, prefettura e vigili del fuoco. «A parte il malfunzionamento degli impianti di ventilazione e l'assenza di estintori, la situazione più problematica riguarda l'impraticabilità delle uscite di sicurezza», denuncia Angelilli. L'esposto potrebbe portare alla chiusura dei due sottovia per motivi di sicurezza. Nel documento si legge: «In base alla vigente legislazione il dpr 151 del 2011 sono previste infatti severe misure di sicurezza per le gallerie stradali superiori ai 500 metri di lunghezza». Della sicurezza dei sottovia «è responsabile uno specifico ufficio del Comune di Roma, Dipartimento SIMU - Ufficio manutenzione ponti e gallerie», dichiarano Angelilli, Erbaggi e Alessandra Consorti, dirigente FdI Roma. Insomma, cosa si aspetta a intervenire? «Grave pericolosità dei sottovia - si legge nell'esposto - vengono disattese le più basilari norme della logistica antincendio». Nel sottovia lungotevere in Sassia in direzione di via Gregorio VII «delle 3 uscite di sicurezza, una non è accessibile, una non è fruibile visto che le scale di sicurezza (completamente al buio) sono coperti da cumuli di rifiuti alti anche 3 metri; l'ultima uscita è fruibile, ma completamente al buio e in condizioni igienico-sanitarie terribili». Nel sottovia Ignazio Guidi viene denunciato che «in entrambe le direzioni le 10 uscite di sicurezza sono ricovero di vagabondi, parzialmente ostruite». Ne sa qualcosa Paolo Peroso, presidente del comitato Amici di Porta Pia: «Le uscite di sicurezza sono occupate da persone violente e senza scrupoli ed è vietato avvicinarsi. Sono stato minacciato più volte, e quando si ubriacano lanciano bottiglie nel sottovia con le auto in corsa».
STEFANO CIAVATTA per il Venerdì- la Repubblica il 26 giugno 2020. «Buongiorno, la temperatura prego» dice un addetto alla sicurezza mentre a fianco della transenna un altro tiene conto degli ingressi. È l'insolito benvenuto a Porta Portese, il mercato delle pulci di Roma, da poco riaperto dopo 3 mesi con ingresso contingentato, massimo 3.600 persone come da protocollo regionale, un quinto rispetto agli standard. Ognuno dei 1.090 proprietari di banchi ha sottoscritto una quota minima per pagare la security che monitora le tre entrate ufficiali e una quarta interna. Vietate le altre laterali. Dopo un esordio in sordina è arrivato anche il secondo test, con il 90 per cento dei banchi e il passaparola della gente. C'è un clima da primo giorno di scuola o da incantesimo rotto. Nonostante il restringimento dei banchi, nessun sovraccarico, manca l'assedio della folla. In compenso mascherine tutti, guanti molti, ovunque sulle bancarelle cartelli, avvisi e gel igienizzanti, distanziamento quanto possibile, ormai per timore somatizzato. Appena entrati si incrocia il collezionista Giuseppe Garrera: ha già in mano una prima edizione in russo del Dottor Zivago, «una rarità, stampata sotto copertura, come parte di un programma di propaganda della Cia per distribuire materiale vietato in Urss». Più in là Federico Gizzi, studioso e cultore della romanistica novecentesca, dice «vengo qui dalla fine degli anni Novanta per stampe e fotografie d'epoca». Ecco il segnale più naturale che Porta Portese ha davvero riaperto. Anche il meteo, il vero dominus del mercato scoperto da montare e smontare ogni volta, oggi è clemente. LAdri di biciclette Il rituale nasce nel 1945 anche se il Cesare de La tregua di Primo Levi teneva banco qui da prima, nello smercio spontaneo intorno al vecchio scalo ferroviario di Trastevere caduto in disuso. Nel 1946 è già un «famosissimo mercato di ladri»: quando Luigi Bartolini scrive Ladri di Biciclette ha la Roma seicentesca come location ma non è quella che serve a De Sica, il neorealismo vuole spalancare la città e con Cesare Zavattini si ripiega su Porta Portese. La Roma dell'usato, quella che vende se stessa da secoli, è carambolata qui a seguito dello smottamento e smantellamento della tradizione tardo medievale dei mercati del centro. Non più piazza Navona dopo quattro secoli di monopolio, non più Campo de' Fiori nato nel 1869, non più piazza della Cancelleria, dove la Roma barocca finiva sui banchi. Libri, stracci, casalinghi, tutto ciò che è seconda mano viene via via spostato fuori dalle Mura, non ritenuto consono al nuovo status unitario. E quindi nasce il porto franco di Porta Portese, il suk di ambulanti, antiquari, venditori occasionali e privati, il vernissage notturno di anticaglie per quel pubblico sofisticato, come un giovane Alberto Arbasino, che arriva da cinema e night club e ha il gusto della trouvaille, la sorpresa per due soldi. ambulanti e antiquari Antonio Conti, vicepresidente della Associazione operatori del mercato, ha il viso di chi ha faticato per un mese nell'organizzare la riapertura e mediare tra le varie anime e associazioni di Porta Portese che «nonostante la fama è da sempre autorizzato solo per un terzo, il resto degli 850 operatori è abusivo ma tollerato». Che esista a Trastevere il mercato lo dice «una determina del 1959, dalla Porta a largo Toja, con 600 licenze: 301 di nuovo e 299 di usato. Poi mai più un aggiornamento». Le licenze si sono spostate sul nuovo, in generale l'abbigliamento, oggi spesso in subaffitto a bengalesi ed egiziani. Invece il core business di seconda mano è rimasto precario, in attesa di regolarizzazione: «Per Comune e Regione non è ancora "mercato storico", come altri in Europa». Pur non avendo più un banco ma una libreria in centro, la Serendipity, Conti viene considerato un veterano: «Ho dato la vita a questo mercato, non voglio vederlo morire». la paura di non farcela Critiche, rimpianti e de profundis fanno parte da sempre della rassegna stampa del mercato, ogni decennio ha il suo trasloco, chiusura, fine: titoli annunciati da ogni giunta comunale e smentiti dal tempo. L'ultimo censimento aveva ridotto il numero dei banchi e tolto gli occasionali. Nessuno però immaginava il blocco per Covid-19, nemmeno gli ultimi dei mohicani. «Chiunque lavora qui è perché nella vita gli è successo qualcosa di strano, uno shock, un evento» dice Daniele. Ha un banco dal 1999 e viene ogni domenica da Anzio con la sua compagna Mara, libraia di prime edizioni e rarità, che racconta: «Ero preoccupata, temevo che il mercato non sarebbe più ripartito. Nessuno tifava per noi. Fuori di qui molti dei banchi che vedi non bastano a se stessi, gli serve la dimensione Porta Portese per sopravvivere. Per noi è fondamentale lo struscio, la folla, la strada».
CONCORRENZA. Non esiste un libro storico su Porta Portese ma è inossidabile la cartolina che allude a incantamenti e ritrovamenti, ieri nel circuito Roma By Night, oggi su Tripadvisor. Il turista moderno però è frustrato: cerca il vintage luxury ma trova file interminabili di banchi di abbigliamento di stock di marca su via Portuense. Rispetto ai fasti c'è una domanda inevasa di turismo ricercato. Oltre eBay e mercatini conto terzi, la concorrenza sono anche le casbah abusive sulle consolari: gli svuota cantine tirano sempre, però in questo momento la disciplina di Porta Portese potrebbe avere la meglio. La fortuna del mercato la fece la decadenza dell'aristocrazia romana, poi sono state le case borghesi a svuotarsi, il flusso era così florido che anche gli antiquari facevano l'alba dai rigattieri. Tra gli anni Novanta e il Duemila una casa da svuotare finiva al 90 per cento qui, in un delirio mercantile, poi però i figli dei rigattieri hanno cambiato mestiere. Arsaneelage Don Manoj Yayasinghe Fernando viene dallo Sri Lanka, è a Porta Portese da 18 anni, a notte fonda arrivano privati e antiquari per mobili e manifatture varie, tutti muniti di torce: «Devi tenere aperto un mercato come questo, è un fatto di storia, cultura, lavoro. Porta Portese non è un mercato di stracci e i turisti devono trovare oggetti di valore a buon prezzo». Intanto l'ordine tra i banchi si fa calca pacata, autogestita. Il mito resiste ancora, e chi l'avrebbe mai detto?
DANIELE AUTIERI per la Repubblica il 22 giugno 2020. In una delle città meno colpite dalla pandemia in proporzione alla sua popolazione, il Covid 19 sembra essersi accanito sul Campidoglio. A dispetto dello smartworking e del lockdown che, almeno fino ad oggi, sembra aver impedito al virus di invadere Roma, gli uffici del Comune sono stati comunque flagellati dalla malattia e, a parte alcuni e importanti casi di super lavoro per garantire servizi essenziali per i romani come l'assegnazione dei buoni pasto, le assenze si sono fatte sentire. Questa fotografia emerge dai tassi di assenza elaborati dal Dipartimento organizzazione e risorse umane del Campidoglio e riferiti al mese di marzo, che vengono accompagnati da un distinguo che ha l'aria della giustificazione: « La causale " malattia" comprende anche le assenze per ricovero ospedaliero, per infortunio sul lavoro e le assenze derivanti dai decreti Covid». E allora ecco i numeri: la presenza al lavoro (non solo quella fisica ma l'attività lavorativa in generale) nel gabinetto della sindaca si è fermata al 64,2%. Oltre il 35% del personale in servizio presso uno degli uffici più importanti del Campidoglio è mancato durante quei 31 giorni: il 12,5% per ferie, l'11,9% per malattia, il 2,4% per la legge 104 e il restante 8,8% per "altri motivi". Come il gabinetto della sindaca, anche la maggior parte degli uffici di dirigenza hanno replicato percentuali simili. È accaduto con il segretariato generale, con il corpo di polizia di Roma Capitale, con l'avvocatura capitolina. In alcuni casi, poi, le turbolenze del lockdown si sono fatte sentire più che altrove. Mentre le maestre e i maestri romani combattevano con Zoom per assicurare il percorso formativo ai bambini delle scuole comunali, al dipartimento servizi educativi e scolastici oltre la metà dei dipendenti era assente. Il tasso di assenza ha raggiunto qui il 51,2%, con un 24,8% che è mancato all'appello per "altri motivi" dalle ferie e dalla malattia. Un dato simile ( 48,8% di assenza) è stato registrato alla sovrintendenza capitolina dei Beni culturali così come dall'agenzia capitolina sulle tossicodipendenze ( 46,3%), anche se la prova peggiore l'hanno data alcuni municipi. Il record spetta al primo, dove il 64% dei dipendenti risulta " assente" nel mese di marzo. Un record eguagliato solo dal IV municipio, e seguito dal 56% dell'XI municipio. Le giustificazioni ci sono e sono più che condivisibili, anche se perdono di forza quando i dati di Roma vengono messi a confronto con quelli di Milano. Nel capoluogo lombardo, duramente colpito dal Covid, il gabinetto del sindaco ha registrato un tasso di assenza di appena il 5,7%; il servizio di presidenza del consiglio comunale del 17,7%; l'area lavoro e formazione del 12,9%. Anche a Milano, come prevedibile, i tassi di assenza sono stati in generale più elevati ma hanno continuato ad oscillare tra il 15 e il 28%. Pochi i picchi negativi, come il 42% di assenza nell'area della pianificazione urbanistica. I numeri raccontano quindi due realtà lontane, dove - nonostante i molti passi in avanti - Roma continua a mostrare un ritardo di produttività all'interno degli uffici pubblici. Resta adesso da capire se la strada dello smartworking, che la sindaca Virginia Raggi vuole trasformare da emergenza in prassi, possa diventare la soluzione al problema, oppure rischiare di acuirne gli effetti.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 10 giugno 2020. Fratelli criminali e soci in affari, in grado di portare avanti direttamente dal carcere un business illegale da 300mila euro al mese, e di trasformare il quartiere di Tor Bella Monaca nella Scampia romana: un supermarket della droga aperto h24. Perché Leonardo Bevilacqua, detto Bruno lo zingaro e Manolo Romano, soprannominato Pisolo, erano stati arrestati l'ultima volta nel 2016 per il sequestro lampo di due minorenni, eseguito per ricattare la madre che non era in grado di saldare un debito da 50mila euro per una partita di cocaina. Nonostante questo, anche dalla prigione continuavano a portare avanti gli affari. L'organizzazione che hanno gestito per anni non si è mai fermata. Fino a ieri: i Carabinieri e la Guardia di finanza di Roma, in due operazioni congiunte, hanno arrestato 42 persone, su richiesta della Dda. Di queste, 32 sono in carcere. Per altre 10 il gip ha disposto il divieto di dimora nella Capitale. Gli indagati sono tutti quanti accusati di avere fatto parte di un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico, radicata nella periferia sud della città. Durante il blitz, gli inquirenti hanno trovato e sequestro contanti, orologi di lusso, auto e moto per 200mila euro. Sotto sequestro anche un immobile e macchine per altri 300mila euro. Un'operazione resa possibile da indagini certosine, con intercettazioni, pedinamenti, appostamenti e, soprattutto, dalle dichiarazioni del primo pentito nel giro dello spaccio di Tor Bella Monaca. L'attività investigativa dei carabinieri di Frascati, coordinati dalla pm Barbara Zuin, in particolare, ha permesso di ricostruire i ruoli dei vari componenti della banda. I fratelli Bevilacqua e Romano - hanno cognomi diversi perché hanno in comune solo la madre - erano i capi e organizzatori dell'associazione. Bruno lo zingaro era temuto e rispettato, «delinque incessantemente dal 2003», sottolineano gli inquirenti. Nonostante fosse in carcere da tempo, per tutti la piazza continuava ad essere di sua proprietà: nel quartiere c'era «la piena consapevolezza - annota il gip - che, una volta libero, sarebbe ritornato in prima persona a gestirla». La sua fedina penale è macchiata da una lunga lista di precedenti e gli inquirenti descrivono la sua «indole violenta», nota a tutti quelli che lo conoscono. Ma non era l'unico temuto della famiglia: anche la moglie Alessandra Conte - pure lei arrestata - era rispettata, perché tutti sono certi che tenesse aggiornato il marito «su come procedevano le condotte dei singoli associati e gli affari illeciti», in grado di fruttare circa 10mila euro al giorno. Era lei, secondo l'accusa, ad aggiornare Bevilacqua e a consentirgli di gestire il business anche della prigione. La banda era organizzata nei dettagli: ognuno aveva un compito preciso. Vedette, pusher - anche minorenni -, cassieri, fornitori, addetti alle questioni legali in caso di arresto. Il tutto «per soddisfare in qualsiasi ora del giorno e della notte, in ogni periodo dell'anno, centinaia di acquirenti, ma anche di far fronte ad imprevisti, come l'arresto di singoli spacciatori o la loro temporanea impossibilità ad osservare i turni, con la pronta sostituzione con altri soggetti», si legge nell'ordinanza. I guadagni venivano divisi in modo prestabilito: ai due fratelli l'80 per cento, il 15 per cento a chi si occupava di confezionamento e rifornimento, il restante 5 per cento ai pusher. Le vedette avevano uno stipendio fisso: 100 euro al giorno. Ed erano previste anche decurtazioni in busta paga e punizioni per chi sgarrava. La droga, al cellulare e anche di persona, veniva chiamata con nomi in codice: pallette, macchina, telefono. L'ordinanza è piena di conversazioni criptiche: «Ce piamo un caffè?», «ce magnamo qualcosa?», «sali, se famo na partita a play». Per il gip non ci sono dubbi: erano tutti codici per concordare la compravendita di stupefacente. Droga che era davvero nascosta ovunque, tra via Ferruccio Mengaroni, via Scozza e via San Biagio Platani: grondaie, saracinesche, zolle di terra, auto parcheggiate, aiuole.
Aerei e ultraleggeri, tre sciagure da fine maggio: mistero nei cieli Roma. La tragedia dell’elicottero caduto nel Tevere a Nazzano è solo l’ultima in un mese e mezzo: a Nettuno sono morti due nuotatori, a Due Ponti un allievo pilota. Tutti incidenti che si sono verificati dopo la riapertura dal lockdown. Altri tre casi nei mesi passati. Rinaldo Frignani il 12 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. In un video sui social il piccolo elicottero rosso di Domenico Careri atterra sul prato di Villa Baldacchini, a Torrita Tiberina, vicino Roma. L’ex pilota Alitalia con 30mila ore di volo alle spalle è alla cloche, accanto a lui una sposa emozionata pronta per la cerimonia nell’esclusiva tenuta della famiglia del comandante. È una delle poche immagini del 78enne originario di Ferrara che venerdì scorso fra Nazzano Romano e Farfa ha perso la vita su quello stesso velivolo, precipitato nel Tevere con un’amica veronese, Elena Andrioli, di 75, dopo aver colpito i cavi dell’alta tensione nell’ultimo dei tre incidenti aerei avvenuti in provincia di Roma in appena un mese e mezzo. Un bilancio che preoccupa, anche perché le tragedie si sono verificate dopo il lockdown e all’inizio della ripresa dell’attività, anche degli ultraleggeri. I tecnici dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo non fanno ipotesi, le indagini sono in corso. Nessuno si può sbilanciare su quello che è successo prima della conclusione degli accertamenti investigativi, ma rimane il fatto che nella Capitale non era mai successo prima e che nei mesi scorsi ci sono stati altri tre incidenti ad aeromobili decollati da superfici sempre nei dintorni della Capitale (Nettuno, Santa Marinella, Fiano Romano), anche questi con morti e feriti. Problemi tecnici, errori di manovra, manutenzione precaria, fattori esterni, forse anche malori: le inchieste non si sono ancora concluse, imboccare una pista invece di un’altra è un azzardo, in un mondo, quello dell’aviazione, dove si viaggia per procedure precise e da seguire senza alcun genere di improvvisazione. «I top gun guardateli al cinema», conferma un soccorritore, che sabato scorso ha recuperato con vigili del fuoco e carabinieri i rottami dell’elicottero rosso di Careri dal fondo del Tevere. Un triste spettacolo, come quello del 31 maggio scorso a Nettuno, dove sono morti i nuotatori del giro azzurro Gioele Rossetti e Fabio Lombini, 23 e 22 anni, amici di Manuel Bortuzzo (il loro collega ferito a colpi di pistola sempre a Roma e oggi costretto su una sedia a rotelle), precipitati poco dopo il decollo dall’aviosuperficie «Le Grugnole», e quello in località Due Ponti, sulla via Flaminia, solo sei giorni prima: un ultraleggero caduto anch’esso nel Tevere. A bordo un giovane allievo pilota, Daniele Papa, 23 anni, e il suo istruttore, Giannandrea Cito (30). Quest’ultimo, primo ufficiale Ryanair, si è salvato saltando fuori dall’abitacolo prima che il velivolo affondasse, il ragazzo invece non ce l’ha fatta. Incidenti troppo ravvicinati che hanno impressionato, e non poco, chi è appassionato al volo con questo genere di apparecchi. Anche perché solo a Roma sono migliaia. Nella Capitale ci sono sette delle 13 scuole «Vds» (volo da diporto e sportivo) di tutta la regione, ma ce ne sono poi altre 14 di addestramento professionale «Ato» (Approved Training Organisation) dall’Enac, l’Ente nazionale per l’aviazione civile, per aerei di tutti i generi: si insegna dal livello basico al recurrent-type rating, dove si impara a pilotare una specifica macchina o ci si aggiorna. Per ottenere l’attestato «Vds» per gli ultraleggeri bastano invece 16 ore di volo e 33 di teoria (un terzo di quelle per la licenza di pilota privato) e il documento viene rilasciato sempre dalle scuole, che sono autocertificate. La differenza principale con le altre è che non sono sotto la sorveglianza Enac, e che — oltre alla differenza di peso massimo al decollo — anche gli apparecchi in questione sono autocertificati, dai costruttori.
Elicottero tocca i cavi e precipita nel Tevere a Nord di Roma. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2020. L’incidente alle 17 fra Nazzano Romano e Farfa, a nord della Capitale sulla via Tiberina. A dare l’allarme alcuni passanti. Sul posto i sommozzatori dei vigli del fuoco che intorno alle 20 hanno individuato i resti del velivolo. «Volteggiava fra i tralicci, quando all’improvviso ha toccato i cavi dell’alta tensione ed è precipitato nel Tevere. È affondato in un attimo». Così i testimoni dell’incidente aereo del tardo pomeriggio di venerdì fra Nazzano Romano e Farfa sulla via Tiberina, nei pressi del ristorante Piccolo Paradiso. Ai comandi del velivolo non si esclude un 78enne originario di Ferrara ma residente a Roma, con la passione per il volo, ma forse anche un’altra persona. Dopo due ore di ricerche sott’acqua con l’utilizzo di uno speciale ecoscandaglio, già usato qualche settimana fa sempre nello stesso fiume per trovare un aereo caduto a Castel Giubileo (morto un ragazzo di 22 anni), i sommozzatori dei vigili del fuoco, che hanno lavorato con i colleghi carabinieri, hanno individuato il relitto dell’elicottero spezzato a metà. Dalle telecamere sarebbe anche emersa la sagoma di un corpo adagiato sul fondale melmoso, a circa 15 metri di profondità. Nessuna traccia dell’altra persona, che tuttavia potrebbe essere rimasta imprigionata nella carlinga. Con il sopraggiungere dell’oscurità i palombari del comando provinciale dei vigili del fuoco sono stati fatti risalire in superficie: le operazioni di soccorso sono state interrotte ma saranno riprese nella prima mattinata di sabato per il recupero della salma (o delle salme) e dei resti dell’elicottero. Intanto la zona di inabissamento è stata delimitata con due palloni galleggianti. I carabinieri della compagnia di Monterotondo hanno ascoltato alcuni testimoni dell’incidente. Nella zona sono in corso lavori di manutenzione dei tralicci dell’alta tensione: ce ne sono parecchi, con relativi cavi e allacci, visto che in quel tratto di Tevere c’è uno sbarramento dell’acqua che viene utilizzato proprio per la produzione di corrente elettrica. Il fondale scende rapidamente, forse uno dei punti più profondi del corso del fiume. Il velivolo stava sorvolando la zona, ma sembra senza alcuna autorizzazione. Si indaga ora sull’attività svolta dal 78enne che, come ha confermato la moglie, non è tornato a casa dopo essere uscito proprio per un volo. Forse un sopralluogo aereo proprio nella zona dei tralicci per conto di qualche società che sta operando da quelle parti oppure per un giro turistico dell’area, ma senza la comunicazione alle autorità di vigilanza aerea. Da qui l’iniziale difficoltà di chi indaga di risalire al modello e al proprietario del velivolo, comunque di piccole dimensioni, come ha subito confermato l’Enac dopo una verifica sui voli civili e militari attorno alla Capitale.
Elicottero cade nel Tevere: morto un ricco possidente? Notizie.it l'11/07/2020. Individuato sul fondale del Tevere l'elicottero precipitato il 10 luglio. La possibile vittima è un ricco possidente. Continuano le operazioni di recupero dell’elicottero precipitato nel fiume Tevere nel pomeriggio del 10 luglio a Nazzano Romano, alle porte della Capitale. Dopo alcune ore di ricerche, fonti investigative hanno confermato poco prima delle 21 che il velivolo è stato individuato sul fondale del fiume grazie agli ecoscandagli adoperati dai Vigili del Fuoco giunti sul posto. Resta ore da capire se l’equipaggio sia riuscito a uscire in tempo dall’abitacolo dell’elicottero o se invece si sia inabissato anch’esso. Dalla mattina di sabato 11 luglio inizieranno le operazioni di recupero del velivolo: il tutto potrebbe durare anche diversi giorni.
Chi c’era a bordo dell’elicottero. Secondo quanto riportato dalle cronache locali, tra le possibili vittime – condizionale d’obbligo dato che al momento non è stato recuperato alcun corpo da parte dei sommozzatori – potrebbe esserci una donna e un uomo di 78 anni, molto conosciuto in zona. Le sue iniziali sono D.C. e di cui si sono perse le tracce proprio giorno 10 luglio intorno all’ora di pranzo. Una coincidenza che fa destare più di qualche preoccupazione ai familiari. Potrebbe trattarsi, dunque, di un ricco possidente che vive a Torrita Tiberina. Disperata la figlia che rivela: “Non troviamo mio padre dalle ore 16 di ieri. Era solito volare con il suo ultraleggero e portare con sé gli amici”.
La testimonianza. Ad assistere alla caduta dell’elicottero nel Tevere anche un papà con dei figli presenti sul posto. Stava facendo birdwatching vicino all’area naturalista ha raccontato: “A un certo punto ho visto un piccolo elicottero che toccava i fili dell’alta tensione con le pale ed è caduto nel fiume, inabissandosi dopo poco”. Secondo alcuni testimoni presenti in prossimità dell’incidente, il velivolo avrebbe urtato dei cavi dell’alta tensione che lo avrebbero fatto precipitare nella acque del fiume Tevere. Si attende tuttavia una più precisa ricostruzione di quanto accaduto da parte delle Forze dell’Ordine. Nel frattempo i Vigili del Fuoco hanno comunicato in serata tramite il proprio profilo Twitter che sul posto sono attualmente impegnati nelle ricerche due squadre di uomini e il nucleo sommozzatori al fine di raggiungere il velivolo finito sul fondale: “Roma 10 luglio 17:00, Vigili del Fuoco impegnati con il DragoVF 58, due squadre e nucleo sommozzatori per un elicottero precipitato a Nazzano Romano nei pressi del fiume Tevere”.
Roma, cade un altro aereo ultraleggero: è della scuola di Nettuno. Morte le due persone a bordo. Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it. Un aereo ultraleggero è precipitato questa mattina poco dopo le 10 presso la scuola di volo di Crazy Fly di Nettuno, precisamente in via Avezzano. Morte le due persone che erano a bordo. Sul posto stanno intervenendo diverse squadre dei vigili del fuoco. A quanto riferito dai vigili del fuoco, l'aereo sarebbe caduto dopo il decollo e ha preso fuoco. Sul posto diverse squadre dei vigili del fuoco e i carabinieri. Da chiarire le cause dell'incidente. Lunedì 25 maggio un biposto della scuola di volo dell'Urbe si era inabissato nel Tevere per cause ancora da accertare. A bordo c'erano l'istruttore, che è riuscito a mettersi in salvo subito dopo lo schianto mentre non ce l'ha fatta l'allievo, un giovane di 23 anni, rimasto purtroppo incastrato al seggiolino.
Precipita ultraleggero a Nettuno, morti nuotatori Lombini e Rossetti. Fabio Lombini il 31 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Una vera e propria tragedia per il nuoto azzurro quella registrata nel corso del pomeriggio. Un aereo ultraleggero è precipitato poco dopo il decollo presso la scuola di volo di Crazy Fly, a Nettuno, in via Avezzano. Morte le due persone a bordo: si tratta di due nuotatori, il 22enne di Forlì Fabio Lombini (Sport-Vigili del Fuoco) e il 23enne romano Gioele Rossetti (Aurelia Nuoto) che pare fosse alla guida. A quanto riferito dai vigili del fuoco l’aereo sarebbe caduto dopo il decollo e avrebbe preso fuoco per cause da accertare. Lombini, argento ai campionati assoluti invernali del 2017 nei 200 stile libero in 1’44″60 dietro a Filippo Megli e avanti a Filippo Magnini, già nazionale alle Universiadi di Taipei e ai campionati europei in vasca corta di Copenhagen nel 2017, stava svolgendo un allenamento collegiale al centro federale di Ostia seguito dal responsabile tecnico Stefano Morini ed accompagnato dal suo allenatore Alessandro Resch. «La Federazione, sconvolta e attonita, esprime le più sentite condoglianze a familiari, amici e società di appartenenza», sottolinea la Fin (Federazione italiana nuoto) che esprime il cordoglio per la scomparsa di Lombini e Rossetti. «Giungano a tutti loro i sentimenti di cordoglio del presidente Paolo Barelli, dei presidenti onorari Lorenzo Ravina e Salvatore Montella, dei vice presidenti Andrea Pieri, Francesco Postiglione e Teresa Frassinetti, del segretario generale Antonello Panza, del consiglio e degli uffici federali, del direttore tecnico della squadra nazionale di nuoto Cesare Butini e dell’intero movimento acquatico».
Ivo Iannozzi e Mirko Polisano per “il Messaggero” l'1 giugno 2020. La Nazionale azzurra. Il sogno di tutti gli atleti. Un desiderio che Fabio Lombini ha potuto soltanto sfiorare. La giovane promessa del nuoto è morto ieri a 22 anni insieme all'amico di sempre Gioele Rossetti, un anno più grande e nuotatore anche lui. Erano a bordo dell'ultraleggero che ieri mattina è precipitato subito dopo il decollo a Nettuno, a pochi chilometri dalla Capitale. Sono le dieci e qualche minuto quando le ruote del biposto si staccano dall'aviosuperficie Crazy Fly nella zona delle Grugnole alla periferia di Nettuno, quasi al confine con il territorio della provincia di Latina. Subito qualcosa non va. Rossetti alla barra di comando del P9s Tecnam a due posti se ne accorge ben presto: aveva il brevetto di volo ed era solito guidare ultraleggeri, quello su cui viaggiavano era della sua famiglia. Un rumore, poi il tentativo disperato di riprendere il velivolo da parte del pilota, l'impatto sul terreno, l'esplosione, le fiamme. Un testimone racconta: «A circa trecento metri di altezza, l'aereo ha iniziato a perdere quota. Il pilota ha virato verso sinistra, cercando con tutta probabilità un punto sul quale eseguire un atterraggio di emergenza, ma non c'è riuscito». In quella manovra è stata anche schivata un'abitazione. Lo schianto al suolo è stato fatale: le fiamme avvolgono la cabina di pilotaggio e i corpi di Gioele e Fabio sono completamente carbonizzati. I due passeggeri - da quanto appurato - erano ancora legati con le cinture ai seggiolini. Dalle prime verifiche emergerebbe che l'ultraleggero è precipitato circa 30 secondi dopo il decollo. Al momento si ipotizza un guasto tecnico. A quanto ricostruito, l'ultraleggero era del padre di Rossetti. Il velivolo e tutta l'area sono stati messi sotto sequestro. Nei prossimi giorni verrà effettuata l'autopsia. La procura di Velletri e l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (Ansv) hanno aperto un'inchiesta sull'incidente. L'Agenzia ha anche inviato un proprio investigatore sul luogo dell'incidente. Probabilmente i due giovani avevano deciso di sorvolare la parte del basso Lazio. Ai comandi c'era Gioele Rossetti, che ha gareggiato a livello nazionale per l'Aurelia Nuoto, accanto a lui Fabio Lombini, argento agli Assoluti invernali 2017 nei 200 stile libero, già nazionale alle Universiadi di Taipei e agli Europei in vasca corta di Copenhagen nel 2017. Lombini stava svolgendo un allenamento collegiale al centro federale di Ostia seguito dal responsabile tecnico Stefano Morini ed accompagnato dal suo allenatore Alessandro Resch. «La Federazione, sconvolta e attonita, esprime le più sentite condoglianze a familiari, amici e società di appartenenza» ha sottolineato la Fin. Quello di ieri è il secondo incidente avvenuto nei cieli del Lazio in pochi giorni. Lunedì pomeriggio poco dopo il decollo dall'aeroporto dell'Urbe un velivolo biposto, con a bordo istruttore e allievo, è finito nel Tevere scomparendo nelle sue acque. L'istruttore che ha tentato una manovra di ammaraggio è riuscito a mettersi in salvo. Purtroppo per l'allievo Daniele Papa, 23enne - anche lui - di Cerveteri non c'è stato nulla da fare. Nelle storie di Instagram ci sono gli ultimi istanti prima del volo, con Fabio e Gioele felici di condividere sui social la loro mattinata a bordo dell'ultraleggero «Fabio mi ha mandato un messaggio alle 8 di mattina - dice commosso Pino Castellucci, direttore del centro federale di nuoto a Ostia - avvisandomi che non sarebbe rientrato per il pranzo. Era con noi da mercoledì e oggi avrebbe dovuto iniziare gli allenamenti con la nazionale». Quel sogno che Fabio ha potuto solo sfiorare.
Mirko Polisano per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. Si sono fermate alle 14.50 di ieri le speranze dei familiari e degli amici di Daniele Papa, il 23enne di Cerveteri che due giorni fa è precipitato con un velivolo biposto nel Tevere. La procura di Roma indaga per omicidio colposo contro ignoti, mentre i primi rilievi effettuati iniziano a rivelare le possibili ipotesi dell'incidente, a cominciare dai dubbi sul tipo di manovra effettuata. Un'azione non improvvisata, una scelta dunque ben precisa ma compiuta da «inesperti» di casi di emergenza, stando alla prima ricostruzione tecnica.Il Diamond Aircraft DA20-C1, decollato dall'aeroporto di Roma Urbe, si era inabissato all'altezza di via Vitorchiano, in zona Due Ponti dopo un touch and go, esercitazione abituale di chi deve prendere confidenza con gli aerei. Potrebbe essersi verificata una «piantata motore», il brusco arresto del funzionamento dei comandi, e da lì in quegli attimi concitati la decisione di ammarare nel Tevere, invece che in uno dei tanti campi che circondano l'Urbe e più indicati per gli atterraggi d'emergenza. Circostanza compatibile con questo scenario anche la «parabola strana» del velivolo a cui avrebbero assistito i molti testimoni. Le regole del volo prevedono che in caso l'aereo si trovi in panne a meno di cinquecento piedi di altezza, il pilota deve cercare un posto dove atterrare. Un errore umano oltre al guasto tecnico? Lo dovrà accertare il perito che domani sarà incaricato dalla procura. Il fascicolo al momento è a carico di ignoti. Poi si dovranno attendere gli esiti dell'autopsia che aiuteranno a ricostruire l'esatta dinamica. I sommozzatori dei vigili del fuoco erano riusciti ad individuare con l'uso di un «side sonar scan» il relitto già martedì notte. Ieri sono partite le operazioni di recupero. L'aereo è riemerso spezzato: bisognerà capire se la rottura è avvenuta con l'impatto oppure in un altro momento. Scene strazianti quando è riemersa la carlinga: si intravedeva la sagoma di Daniele con il casco in testa e le mani alla barra di comando. Oltre a quelle della procura ci sono anche le indagini dell'Ansv, l'agenzia nazionale per la Sicurezza del volo. A bordo dell'aereo c'era anche Giannandrea Cito, l'istruttore che si è salvato. Il pilota è stato ricoverato al policlinico Gemelli e non è in pericolo di vita. Così dovrebbe essere andata, lunedì scorso. Il Diamond ha un unico portellone che si apre verso l'alto. Durante l'ammaraggio qualcosa deve essere andato storto, la cintura di Daniele Papa non si è sganciata. Cito avrebbe raccontato di aver tentato due volte di aiutare l'allievo: «Mi sono anche ributtato sotto, in acqua, ho cercato in tutti i modi di sganciarlo dalla cintura, ma non ci sono riuscito». Forse con l'impatto sull'acqua il velivolo può essersi ribaltato. Gli inquirenti vogliono accendere un faro anche sulla manutenzione. Il velivolo aveva solo mille ore di volo e il motore sembra essere stato controllato di recente. Circostanza che però non collimerebbe con l'ipotesi del guasto tecnico.
Francesco Salvatore e Flaminia Savelli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 30 maggio 2020. «Ho sentito un forte rumore e ho provato a prendere i comandi ma il mezzo è andato giù perché il ragazzo era nel panico e li aveva bloccati». È questo il cuore della testimonianza fornita dall' istruttore di volo Vito Giannandrea, a poche ore dall' incidente aereo in cui ha perso la vita un allievo di 23 anni, Daniele Papa. Ricoverato al Gemelli, l'istruttore ha raccontato quei momenti agli agenti. «Stavamo provando la fase di atterraggio, scendendo e risalendo con l' aereo. A un certo punto ho sentito il botto. L'areo era in fase di discesa. Ho preso in mano i comandi ( l' aereo ha un doppio comando ndr) ma non lo ho potuto governare perché il pilota era nel panico e non li mollava» . Il biposto a quel punto è finito nel Tevere, all' altezza di via Vitorchiano. «L'aereo non è colato subito a picco. Mi sono sganciato e ho provato a sganciare anche lui ma non ce l'ho fatta. Poi mi sono attaccato alla coda per fare leva e tenere l' aereo a galla ma è affondato». L' inchiesta del pm Alberto Galanti, al momento senza indagati, è aperta per omicidio colposo. È stata disposta una consulenza per capire se il motore del mezzo, che apparteneva ad una flotta di aerei nuovi, abbia avuto un' avaria o se durante il volo sia stato preso un albero o la cima di qualche edificio. La vittima, figlio di un pilota Alitalia, dopo aver conseguito un primo brevetto per 41 ore di volo, era alla sua terza lezione del corso successivo. «L'istruttore può riferire ciò che crede - ha detto Egidio Papa, zio di Daniele - saranno poi le indagini a chiarire cosa è accaduto su quell' aereo » . Periti e tecnici sono ancora a lavoro su ciò che resta del biplano finito nel fiume a 10 metri di profondità: « L' indagine è complessa - ha aggiunto - e noi stiamo seguendo sia l' aspetto legale che quello più tecnico, legato all' incidente. Certo, la responsabilità del volo era del pilota e mio nipote aveva una certa esperienza dunque è difficile credere che fosse nel panico. Comunque solo le perizie potranno stabilire la dinamica dello schianto. Restano ancora molti punti da chiarire». Intanto la famiglia è in attesa dei risultati dell' esame autoptico: «Non abbiamo ancora potuto neanche organizzare il funerale per Daniele. Siamo stravolti da questo dolore».
Adelaide Pierucci per "Il Messaggero" il 2 luglio 2020.
IL CASO. Un guasto dell'aereo, non un errore umano. Il pilota del velivolo che il 25 maggio scorso è precipitato nel Tevere durante un allenamento ha denunciato la sua verità riguardo l'incidente costato la vita all'allievo Daniele Papa, 23 anni, al momento dello schianto ai comandi. «C'è stato un problema tecnico. Potevo morire anche io», ha scritto Vito Giannandrea. L'atto è così finito nel fascicolo aperto con l'ipotesi di omicidio colposo dal pm Alberto Galanti. Gli accertamenti sui resti del bisposto finito in acqua saranno avviati nei prossimi giorni, non appena il magistrato formalizzerà l'incarico a un perito specializzato in disastri aerei.
IL BIPOSTO. L'aereo Diamond DA20 biposto era decollato da una scuola di volo dell'aeroporto di Roma Urbe per un'esercitazione nel primo pomeriggio del 25 maggio. L'istruttore, ancora prima di formalizzare la denuncia, aveva raccontato di aver udito un rumore durante la seconda manovra e volendo controllare di cosa si trattasse, di aver chiesto al ragazzo di lasciargli i comandi. Comandi, però, che Daniele Papa non avrebbe subito ceduto, probabilmente proprio perché rimasto raggelato dalla paura per l'imminente incidente. Secondo il pilota, infatti, l'allievo non avrebbe risposto alle sue domande. «Ho dovuto togliergli le mani dalla cloche», ha spiegato ai primi soccorritori il pilota. Nel frattempo, il velivolo sarebbe diventato ingestibile, fino all'ammaraggio nel Tevere. Dopo lo schianto l'aereo, infatti, si è inabissato in breve tempo, mentre l'istruttore è riuscito a liberarsi e ad uscire dall'abitacolo, il ventitreenne non è riemerso in superficie. In un primo momento era stato dato per scomparso. Squadre dei sommozzatori dei vigili del fuoco lo hanno cercato giorno e notte, scandagliando il fondale. Il velivolo è stato rinvenuto solo all'alba del giorno dopo. All'interno il corpo senza vita del ragazzo, seduto ancora alla sua postazione. L'ipotesi è che sia rimasto bloccato dalla cintura di sicurezza, che invece l'istruttore è riuscito a sganciare, pur rimanendo ferito. L'allarme era scattato subito dopo il decollo quando era stata segnalata un'avaria al motore e il biposto era sparito dai radar. Le ricerche immediate. E sono partite proprio da via Vitorchiano dove il segnale gps ha guidato i soccorritori fino al pilota, trovato vicino al fiume ferito. Secondo quanto riferito da Vito Giannandrea, esperto pilota, l'aereo ha perso quota ed è precipitato nel Tevere in un tentativo di ammaraggio, ma mentre lui con una manovra d'urgenza sarebbe riuscito a uscire dalla cabina di comando, sfortunatamente l'allievo ai comandi non sarebbe riuscito nello stesso tentativo. Sull'incidente ha aperto un fascicolo di indagine anche l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo.
I PRIMI RILIEVI. Gli ispettori hanno eseguito i primi rilievi sul campo di volo della scuola di via Salaria già nei giorni successivi all'incidente. Daniele Papa viveva a Cerveteri. Il sindaco Alessio Pascucci lo ha voluto ricordare con un lungo saluto su facebook: «Abbiamo sperato fino all'ultimo momento, ma purtroppo ci è arrivata la notizia che non avremmo mai voluto ricevere. Voglio mandare a nome di tutta la comunità di Cerveteri le più sentite condoglianze e un caloroso abbraccio ai genitori e alle persone che lo conoscevano e gli volevano bene». Intanto per capire se il ventitreenne sia morto sul colpo o per annegamento si attendono i risultati dell'autopsia.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2020. C' è un elefante nella cristalleria del Lazio e si chiama Nicola Zingaretti, segretario del Partito Democratico, presidente della Regione e responsabile di un disastro - vero - riconosciuto da anni e che prende il nome di sanità. Parlarne, ora, oltrepassa le scaramucce del cosiddetto «benaltrismo» con cui i giornali di destra cercano di riequilibrare la mole di accuse fatta soltanto e ingiustamente alla Lombardia, perché il caso. Zingaretti è veramente un elefante, un brontosauro, e i cristalli sono già tutti per terra frantumati. Chiaro che non se ne parli, adesso. Ma il ministero della Salute ha assegnato il penultimo posto al Lazio per ciò che riguarda i livelli essenziali di assistenza. La situazione sanitaria è talmente disperata che persino il movimento grillino ha evidenziato come Zingaretti abbia lasciato un contesto peggiore di quello ereditato dal centrodestra nel 2013, questo «nonostante l' iniezione di liquidità ottenuta dallo Stato per l' aumento della popolazione residente o per affrontare il Giubileo straordinario», ebbe e dire Devid Porrello, consigliere regionale grillino. La giunta guidata dal Partito Democratico ha tagliato 10mila tra medici e infermieri nonostante il maxifinanziamento di un miliardo ricevuto dal governo. La regione è al di sotto delle medie nazionali sia nell' indice per lo stato di salute sia in quello del mantenimento dello stato di salute. I cittadini delle province di Rieti, Latina, Viterbo e Frosinone non fanno che protestare per la chiusura o il ridimensionamento di molti nosocomi. Il recente rapporto dell' associazione medici dirigenti (Assomed) parla di rischio di collasso per mancanza di specialisti, e il numero dei posti letto ogni mille abitanti (3,7) è inferiore a tutte le regioni del nord Italia.
MENO LETTI PIÙ POLTRONE. Con Zingaretti al comando, gli ospedali del Lazio oggi hanno mille posti letto in meno. Zingaretti ha chiuso ospedali, cancellato i pronto soccorso in moltissimi comuni e consegnato poltrone a direttori generali provenienti da altre regioni perché cacciati dopo aver perso le elezioni. Tutto questo era già solare prima del tempo del coronavirus. Poi è venuto il tempo della pandemia e il preludio zingarettiano ancora lo ricordiamo. Zingaretti è quel signore che all' inizio dell' epidemia era venuto a Milano a fare i cosiddetti aperitivi progressisti e a invitare i cittadini a uscire di casa, quindi a sfottere chi, per tempo, raccomandava di non farlo. Zingaretti è quel signore che poi si è preso il coronavirus (forse proprio a Milano) e che per verificarlo ha potuto fare il tampone quando era un privilegio riservato a pochi, a meno di essere praticamente dei moribondi. Zingaretti è quel signore che si è fatto ovviamente la quarantena a casa e ha annunciato che aveva iniziato una cura antivirale quando le cure virali erano ancora precluse ai cittadini normali, relegati in casa, in sostanza spiattellando al suo popolo ciò che al suo popolo era precluso. Terminato il preludio, sono partiti i tre atti. Il primo è il meno grave, se vogliamo: da governatore del Lazio, Zingaretti ha semplicemente firmato un provvedimento sulle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali, le case di riposo) assolutamente identico a quello a cui hanno dedicato tanta cura i magistrati milanesi versus la Regione Lombardia. Dov' è l' errore? Le toghe milanesi sono troppo zelanti o quelle romane sono troppo inerti? Il Partito democratico parrebbe orientato verso la prima cosa, visto che ha chiesto il commissariamento della giunta lombarda. Con la stessa metrica, però, il Pd dovrebbe commissariare o denunciare anche il proprio segretario. Zingaretti infatti ha mandato dei contagiati nei vari ospizi (Rsa) come risulta dalle delibere di giunta, ma come non è invece risultato sulla libera stampa: apprezzabile che, mimetizzata nelle pagine locali di Repubblica, sia apparso il caso del San Raffaele di Rocca di Papa: 126 pazienti di cui più della metà positivi, un' inchiesta misconosciuta, e un direttore della Asl che non risulta abbia neppure i titoli necessari. Ma per il resto? Occhi solo per la Lombardia a dispetto di un centinaio di morti che restano da spiegare nel centritalia: c' è da capire quante delle 116 strutture regionali abbiano a loro volta creato dei reparti isolati e con quali conseguenze. La scorsa settimana si era saputo di nove Rsa con 269 posti letto, più di quelli lombardi: sono stati utilizzati? Saperlo sarebbe importante alla luce dei 100 morti laziali di cui si è poi appreso il 6 aprile, questo a causa - almeno secondo i sindacati - di sconsigliabili promiscuità. Insomma, c' è da capire quanto nel Lazio si siano verificate le stesse premesse per cui il Partito Democratico ha chiesto il commissariamento della Lombardia. Il Lazio in pratica si è mosso nello stesso modo, ma 28 giorni dopo, con tutta calma, senza l' assillo delle drammatiche urgenze che stavano colpendo il nord.
Il secondo atto, sempre con protagonista l' odontotecnico Nicola Zingaretti (è il suo titolo di studio) riguarda le famigerate mascherine e commesse stramilionarie, accordi non rispettati, un reticolo di società anche estere e soprattutto un' inchiesta incaricata di far luce sull' ennesimo pasticcio della sanità laziale che è anche al vaglio della Corte dei Conti. Due domande su tutte: perché le tempistiche di consegna delle mascherine non sono state rispettate?
E quanto è costato tutto questo? Stanno risultando cose molto strane: Zingaretti ha chiesto le mascherine persino a dei produttori di divani, a imprese offshore imboscate alle Cayman e all' editore croato di «Eva 3000», stanziando la bellezza di 133 milioni di euro. La Regione aveva detto che una delle ditte, la Exor, era un distributore ufficiale della 3M, che però ha smentito. Dalla Regione silenzio. Questa Exor tuttavia si è beccata con un affidamento diretto ben 35 milioni di commessa, anche se poi è risultata controllata da due psicologhe e da un cinese che si era sempre occupato solo di materiale elettrico.
APPALTI, MILIONI E CONCORSI. In generale la Regione si è rivolta a un canaio tra ditte probabili e improbabili: Eco Tech (30 milioni di euro di commessa, di cui la Exor risulta intermediaria) e poi Servimed e Worldwide luxury corner della naturopata Patrizia Colbertaldo (ex candidata nel 2008 nella Lista civica per Rutelli) che pure non ha mai prodotto un bilancio e risulta inattiva, poi c' è la Wisdom glory holdings ltd, società che al pari delle altre sembrerebbero avere poco a che spartire col settore richiesto. Sta di fatto che, di 27 milioni di mascherine ordinate, solo un terzo risulta esser stato effettivamente consegnato, e in Regione si parla di «mascherine fantasma» così come autentici ectoplasmi risultano Zingaretti e il capo della protezione civile Carmelo Tulumello: nessuno dei due, venerdì scorso, si è presentato al Comitato di controllo contabile, organismo regionale. Ci sono da rendicontare 66 milioni in mascherine, camici, tute, occhiali, visori, tamponi e altro ancora. Dove sono queste cose? Ci sono? Quanto sono costate?
Il terzo atto è una boutade, ma fa molto riflettere. C' è un giornale online, Etruria news, che ha raccontato la denuncia di un candidato escluso da un concorso sanitario al San Camillo: prima ancora che fossero pubblicati gli elenchi dei vincitori, lui, Antonio Di Nicola, aveva indovinato 16 nomi su 20. Ne ha scritto anche il Fatto Quotidiano: il candidato escluso ha centrato addirittura i primi due nominativi in graduatoria (su 160) e questo un mese e mezzo prima della proclamazione dei vincitori. Le altre 18 prime posizioni sono state conquistate in un ordine non esattamente coincidente con le previsioni, ma Di Nicola ne ha comunque azzeccati 14. Stiamo parlando di incarichi dirigenziali con stipendi di circa 130mila euro lordi cadauno. Naturalmente l' ospedale San Camillo ha detto che il concorso si è svolto correttamente, ed è solo un caso che la prima classificata fosse alle dirette dipendenze del presidente di commissione. Tra gli altri, ci sono numerosissimi ex candidati del Pd alle amministrative, un ex presidente di municipio, un coordinatore del comitato «Zingaretti presidente» e rappresentanti sindacali vari. Ma non distogliamoci dal problema principale, che è quello di commissariare la sanità lombarda: alla quale, peraltro, affluiscono decine di migliaia di laziali fuggendo dalla sanità di Zingaretti. Non si capisce perché.
Silvia Di Paola per “la Verità” il 20 marzo 2020. Il Comune di Roma è moroso nei confronti dell' esercito italiano, al quale da anni non paga le spese sostenute per il colpo di cannone quotidiano sparato a mezzogiorno dal colle del Gianicolo. Nell' ultima variazione di bilancio, approvata dall' amministrazione di Virginia Raggi, è scritto che «le strutture capitoline hanno segnalato l' emersione di ulteriori passività potenziali e contenziosi». Tra questi, per l' appunto, c' è il «mancato pagamento per le annualità 2015-2016-2017-2018 e gennaio/ottobre 2019 del servizio dello sparo del cannone al Gianicolo di Roma». L' importo è pari a 42.262,46 euro che dovrebbe incamerare il Comando militare della Capitale. Il colpo viene esploso dal 1847, quando papa Pio IX volle un rintocco a metà giornata da Castel Sant' Angelo. [Il Messaggero]
Laura Larcan per “il Messaggero” il 20 febbraio 2020. Vegetariani, con i muscoli pompati, alti mediamente un metro e sessantotto centimetri, i denti spesso cariati e una aspettativa di vita di 30 anni. Questo l'identikit dei gladiatori, professionisti degli spettacoli nelle arene della Roma imperiale. A partire dal Colosseo. Lo raccontano i dati antropologici emersi dallo studio sui reati delle sepolture della cosiddetta necropoli dei gladiatori rinvenuta a Efeso in Turchia. È solo uno degli aspetti inediti che saranno illustrati il 26 febbraio nella conferenza Che spettacolo! Gladiatori e anfiteatri nel mondo romano, all'Antiquarium del parco archeologico di Ostia antica. A parlarne, Rossella Rea, illustre studiosa, per oltre trent'anni alla guida del Colosseo, tra i massimi esperti di ludi gladiatori. Con lei, la direttrice del parco, Mariarosaria Barbera, e Cinzia Vismara, già docente di archeologia e storia dell'arte greca e romana. Tutta la verità, vi prego, sui gladiatori e gli anfiteatri, allora. È questo il senso dell'incontro aperto al pubblico gratuitamente. «Gli studi sulla necropoli dei gladiatori a Efeso hanno individuato uomini molto muscolosi, non molto alti e, soprattutto, vegetariani - anticipa Rossella Rea - Questi giovanotti fra i 20 e i 30 anni avevano una statura media di 1,68 metri». Ma ciò che stupisce è la loro dieta: «Agli integratori proteici degli sportivi di oggi preferivano una dieta vegetariana, a base di legumi, specialmente le fave, e orzo - precisa Rea - Erano detti hordearii, ovvero mangiatori di orzo, lo raccontano Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia e Tacito nelle Storiae. Le ossa contenevano un quantitativo doppio, rispetto alla media, di stronzio, elemento affine al calcio, che rivela una dieta povera di carne e impostata oltre che su orzo e fave, su bevande composte da vegetali misti a cenere di ossa, utili come complemento dietetico per accrescere l'apporto di minerali». I denti però non godevano di ottima salute: «L'alimentazione dolce e polposa, ricca degli zuccheri presenti nei cereali, è forse alla base delle frequenti carie dentali acute», dice la studiosa. E i muscoli? «Le ossa di gambe e braccia rivelano un prolungato allenamento - precisa Rea - Erano i pompati dell'epoca, con ossa più forti e grasso, quanto bastava a proteggere i muscoli dalle lame, in caso di impatti superficiali». Nessuna carenza alimentare. Lo spettacolo era assicurato, come strumento di propaganda imperiale. Oltre al Colosseo, si contavano ben 102 anfiteatri romani conservati in Italia, ma allargando lo sguardo si arriva a contarne 230 in Europa. «Oltre ai combattimenti dei gladiatori - aggiunge Cinzia Vismara - gli anfiteatri ospitavano anche cacce ed esecuzioni di condannati ad essere uccisi da bestie feroci». La preparazione di questi spettacoli prevedeva la cattura, il trasporto e il mantenimento degli animali, un impegno non indifferente: «Di queste operazioni ci rimangono alcune immagini, in pitture e mosaici», spiega Vismara».
Racket, clandestini e due vigili. La bolgia intorno al Colosseo. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Roncone. State a sentire. Ecco qui il Colosseo. L’idea era: vediamo che succede intorno al monumento più famoso del mondo. Luogo di crimini reiterati. Sulle pagine delle cronache locali: notizie di risse, inseguimenti, furti, spaccio. Traboccante sensazione di impunità. Quando sei sotto al Colosseo, pensi sempre: Dio mio quanto è grande. Allora provi a guardarlo meglio: solo che a quel punto ti sembra ancora più grande (oggi, poi, è appeso a un cielo azzurro, assolutamente azzurro). Sono riflessioni un po’ infantili, ma piene di uno stupore inevitabile e commovente e almeno 7 milioni e mezzo di visitatori, quelli dell’anno scorso, possono confermare che è proprio ciò che capita. Poi, però, regolarmente, qualcosa spezza l’incantesimo del bello. Come adesso. Laggiù. Oltre la transenna, dietro a quel matto che, con una banana sbucciata in mano, dice di essere Gesù di Nazareth. Subito dietro: dove un tipaccio travestito da centurione romano — il naso a becco, un ricamo sulla guancia, una rosa rossa tatuata sull’avambraccio — ha attaccato un turista americano all’inferriata del Palatino. Sono anni che questi ceffi travestiti da centurioni continuano a infestare la zona. Ed è incredibile che continuino a farlo. Stavolta è andata così. Il turista, circa cinquant’anni, giacca a vento dei New York Yankees, chiede in inglese quanto costa farsi un selfie insieme. Il centurione mette su un sorriso fasullo e, aiutandosi a gesti, spiega che servono appena 50 euro, ci mettiamo calmi calmi e ti fai con me tutte le foto che vuoi. L’americano è indeciso, l’amico intanto si è allontanato, e così finisce che l’americano cincischia, chiede uno sconto, poi ci ripensa, si scusa, dice che tornerà più tardi. Si volta come per andarsene, ma il centurione lo prende per il braccio: «Me stai a fa’ perde tempo...». Il turista cerca di liberarsi dalla presa, invece si ritrova appiccicato all’inferriata. Il centurione gli urla addosso, gli sputa addosso. Poi, con disprezzo, lo molla. La scena è durata meno di due minuti. Nessuno è intervenuto. I turisti sono soli e abbandonati dentro questa tremenda confusione, questa bolgia di stampo medievale: lo sguardo scorre sui mendicanti che fingono di essere storpi e le batterie di giovanissime borseggiatrici nomadi pronte ad attaccare con le loro manine veloci, ci sono i cestini dei rifiuti colmi, c’è quell’oscenità dell’eterno cantiere della metro C, ci sono due prostitute che rimorchiano una coppia di messicani increduli e un mangiafuoco con la barba nera come quello di Pinocchio, ci sono due ubriachi con la radio accesa che cercano di trascinare a ballare due ragazze di Verona («Ma non c’è un poliziotto, qui?») e davanti a loro la scorribanda degli ambulanti che provano a venderti caricabatterie per gli smartphone e ombrelli, occhiali da sole e bottigliette d’acqua a 5 euro l’una, e non un euro di meno, tanto o paghi o muori di sete, perché non c’è un bar, non c’è un bagno, non c’è un cartello che indichi al turista dove sono gli ingressi per entrare dentro il panorama pazzesco che è venuto a visitare: con l’Anfiteatro Flavio e l’Arco di Costantino, il Palatino e i Fori e, in alto, il Colle Oppio e la Domus Aurea.
(Tutti i siti fanno parte del Parco Archeologico del Colosseo che, dal 2018, è diretto da Alfonsina Russo. «Lo so: la situazione, fuori dai siti, è complicata». Una vergogna planetaria, direi. «Senta, io mi occupo di ciò che accade dentro. Premesso questo, con la sindaca Virginia Raggi abbiamo aperto un tavolo permanente dove affrontare l’emergenza della criminalità e del malaffare che attanaglia i turisti». Lei è ottimista. «In che senso?». Nel senso che se aspetta dalla sindaca Raggi la soluzione di un problema, la vedo dura. «Io, però, non posso arrendermi. Mi incoraggia perciò sapere che, ultimamente, sono stati almeno effettuati controlli straordinari sui responsabili della truffa “saltafila”»).
Immigrati clandestini assoldati dalle organizzazioni che gestiscono il racket dei biglietti. Indossano pettorine verdi e arancioni simili a quelle degli addetti che lavorano per il centro informazioni ufficiale di via dei Fori Imperiali. Promettono di far saltare la lunga coda per entrare al Colosseo: al turista chiedono 25 euro a biglietto (che, al botteghino, ne costa 16; 18 acquistandolo online). L’altro giorno, i vigili urbani ne hanno denunciati 17. I vigili compiono questi blitz — chiamiamoli così — a bordo di auto civetta, cioè senza insegne, ma indossando la divisa. L’effetto sorpresa diventa un effetto comico. Adesso, comunque, ci sono solo due vigili urbani. E, come spesso capita ai vigili urbani di Roma durante il servizio, fumano (uno fuma e parla con la moglie al cellulare: «Amò... e niente, io sto qui ar Colosseo... du’ palle»).
Disturbiamoli un po’.
(Buongiorno, posso farle una domanda? «Dica». Perché non siete intervenuti poco fa? Un centurione, laggiù, ha aggredito un turista americano. «Ma dove?», risponde quello che sembra essere il capo pattuglia. Laggiù. «Ah, boh. Non ce ne siamo accorti». Questi centurioni non sono...«I centurioni so’ centurioni... Ah ah ah!». Vi sarete accorti degli ambulanti. «Quali? Ci sono venditori ambulanti?». Guardi, lì c’è persino un mangiafuoco. «Ma mica è pericoloso... comunque, mi diaretta: c’è il sole, sembra una mattina di primavera... perché invece di intervistare due poveri vigili, non si fa una bella passeggiata?»).
Facciamola, una passeggiata. All’inizio e alla fine di via dei Fori Imperiali, chiusa al traffico, e costeggiando quindi la meraviglia dei Fori, quattro blindati dell’esercito e otto militari. Sperando, si suppone, che un terrorista arrivi in macchina e venga quindi fermato ai checkpoint, e non preferisca invece arrivare camminando sul marciapiede, o proprio in metropolitana, con lo zainetto. Due carabinieri di pattuglia incontrati in via degli Annibaldi (dove i furgoni Mercedes degli Ncc sono parcheggiati in quadrupla fila). Lo scorso 23 agosto, un autotrasportatore tedesco fermò il suo Tir in via di San Gregorio, mise le quattro frecce, e scese a scattare foto ricordo con il cellulare (le agenzie riferirono il suo commento: «Solo per me divieto in porca città»). Una settimana prima, un turista vietnamita aveva fatto alzare in volo un drone. Cinque li hanno sorpresi mentre incidevano i loro nomi sui ruderi. Una coppia di punkabbestia risale via della Domus Aurea: intorno ai resti della villa di Nerone, visitabile solo nel fine settimana, vive una comunità cenciosa di sbandati e clandestini, nelle fessure dei ruderi gli spacciatori nascondono le dosi destinate ai consumatori del centro storico.(«È una fogna, questa zona: e sarei io, il problema?», s’interroga — in romanesco stretto — il centurione che prima ha aggredito quel turista americano.
Quanti siete?
«Una decina. Tutti onesti lavoratori, eh».
Avete una licenza?
«A bbbello, io è na’ vita che vivo d’espedienti... mo’ te pare che pe’ vestimme da antico romano ciò bisogno der permesso?».
I vigili urbani non le dicono niente?
«Fanno i bravi. Chiudono un occhio. So’ padri de famiglia pure loro».
Prima però lei ha maltrattato quel turista...
«Io? Ma quando? Io so’ na personcina a modo...»).
L’ultimo sguardo è sulla «botticella» che arriva trainata da un povero cavallo ormai sfiancato. Ci sono turisti che non rinunciano. Il vetturino: «Per 150 euro, un giro di un’ora».
Che bestiaccia.
Il vetturino, intendo.
Gustavo Bialetti per la Verità il 27 febbraio 2020. Se per caso, girando per Roma, avete l' impressione che sia una città dove ognuno fa quello che gli pare, in spregio a leggi, regolamenti e senso civico, sappiate che non è più così. Anche nella città eterna, famosa per essere l'unica capitale del pianeta a non riuscire a raccogliere l'immondizia e nota per il singolare fenomeno dell'autocombustione dei mezzi pubblici, le regole sono regole, specie se riguardano il maltrattamento degli animali. E questo vale anche per i pesciolini rossi, che pur non essendo molto interattivi, non devono andare al bar, ma stare a casa nell' acquario. Eh sì, perché nella città di Mafia capitale, di tavolino selvaggio e delle buche come crateri, sabato mattina due guardie zoofile, come racconta l' edizione romana del Corriere della Sera grazie alla testimonianza diretta di una linguista che era presente al «grave fatto», si sono presentate in un bar di Prati e hanno steso un verbale chilometrico per la presenza di un pesciolino rosso sul bancone. «Si verifica la presenza di pesce rosso in contenitore di vetro delle dimensioni di», pare che abbiano scritto i solerti operatori. Quindi hanno fatto una multa di 100 euro al ragazzo dietro il bancone e gli hanno detto che gli avrebbero sequestrato l' animale. Dopo estenuante trattativa, il ragazzo ha ottenuto di travasare il pesciolino nell' acquario di sua madre, non prima che le suddette guardie verificassero a domicilio che la signora avesse davvero un bell'acquario e non fosse tenutaria di un lager per pesci. Se a Roma controllassero con la medesima attenzione i bambini che non vanno a scuola e vagano per strada, non ci sarebbe più evasione dell' obbligo scolare in alcuni, ben noti, insediamenti. Ma con i pesci è più facile fare i duri. Se anche si trovano bene al bar, non possono metterlo a verbale.
150 anni Roma Capitale, "clamorosa svista" del Campidoglio. Il Comitato Roma 150 bolla come un errore grave che il Comune di Roma abbia adottato il 3 febbraio come data commemorativa per dare il via alle Celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale. All'epoca la città era ancora nelle mani del papa. Francesco Curridori, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. "Clamorosa svista". Il Comitato Roma 150 bolla come un errore grave che il Comune di Roma abbia adottato il 3 febbraio come data commemorativa per dare il via alle Celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale con un concerto, trasmesso dalla Rai, che si terrà al Teatro dell'Opera e che è stato organizzato in collaborazione col Ministero della Difesa. "Non possiamo però esimerci dal rimarcare la irritualità della scelta, forse dettata da eccessiva fretta, per la data del 3 febbraio 2020, essendo ben noto — o almeno così dovrebbe essere nel Paese che ha dato i natali a Machiavelli, Vico e Gramsci— che la “storica” data della proclamazione di Roma Capitale avvenne con legge n. 33 del 3 febbraio del 1871 e NON nel 1870", scrivono i membri del Comitato Roma 150. Una vera beffa, considerando soprattutto il fatto che al concerto sarà presente anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella. In sostanza, la prossima settimana "si festeggeranno per motivi ignoti ai più i 149 anni di Roma Capitale tenendo a mente e nel pallottoliere la data del 1871, oppure i 150 anni dal 3 febbraio 1870", fa notare il "team" di storici ed esperti presieduto da Andrea Costa e di cui fanno parte anche due ex assessori all'Urbanistica come Paolo Berdini (sotto la Raggi) e Bernardo Rossi Doria (con Ignazio Marino), oltre al deputato Stefano Fassina. Il 3 febbraio 1870, infatti, Roma era ancora nelle mani del Papa e in Francia regnava ancora l'imperatore Napoleone III. Ma non solo. "Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi avevano ancora una condanna a morte sul capo; il progetto di Italia “unita” era in realtà quello di dividerla in tre secondo gli accordi di Plombiéres del 1858…con l’Idea di un protettorato francese per il Regno del Nord avente Milano come sua Capitale", ricordano i membri del Comitato 150. Comitato che il Campidoglio ha scelto di non coinvolgere nell'organizzazione. "Non hanno alcun ruolo ufficiale, non sono nessuno" sarebbero le parole dall'entourage di Raggi, secondo quanto riporta Romatoday. Dal Comune si sottolinea che, nella nota di accompagnamento agli inviti spediti via mail, si intende come "apertura delle Celebrazioni per il 150esimo anniversario" e si specifica che ciò avviene "a un anno dall'approvazione della legge che ha istituito Roma Capitale d'Italia". Nessuno sbaglio, dunque, ma solo l'inizio di una lunga serie di appuntamenti che dureranno fino al 3 febbraio 2021.
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 28 gennaio 2020. «Un tempo noi posti fissi eravamo venerati come dei», racconta Checco Zalone nel film campione d'incassi Quo vado?, ben indottrinato fin da piccolo: «Io da grande voglio fare il posto fisso», rispondeva al maestro delle elementari. Altri tempi. Oggi, almeno in Campidoglio, la poltrona nell'ufficio pubblico, col contratto a tempo indeterminato, non fa più così gola. Anzi, c'è chi la rigetta come fosse una iattura. Uno su 5, fra chi ha superato la selezione, ha detto no al Comune di Roma nel 2018 e nel 2019. Messaggio chiaro: grazie mille, ma di venire a fare il vigile urbano o l'impiegato all'Anagrafe dell'Urbe non mi interessa. Vicenda paradossale, per certi versi. Che segna forse la fine di uno stereotipo il mito del pubblico impiego, del lavoro per tutta la vita a spese dello Stato, in questo caso del Campidoglio ma che è figlia anche dei ritmi pachidermici della burocrazia capitolina. Il concorso con cui l'amministrazione di Roma ancora oggi assume personale risale al 2010. Una maxi-procedura - non a caso subito ribattezzata concorsone - che è rimasta impantanata per quasi sei anni, tra un rimpallo amministrativo e un ricorso legale. Fino a che, nell'ultimo scampolo del 2016, si è cominciato ad assumere. I primi due anni quasi nessuno rifiutava il posto, raccontano a Palazzo Senatorio. Nell'ultimo biennio invece si è registrato un boom di rigetti. Parlano i numeri: nel 2018 e nel 2019 sono stati assunti dal Comune di Roma 2.300 dipendenti. Eppure il Campidoglio ha avuto più di un grattacapo per coprire tutti i posti, perché quasi 450 candidati hanno rinunciato a un passo dalla firma. Per fortuna la graduatoria degli idonei era piuttosto lunga: è bastato scorrere la lista per riuscire ad assegnare tutti gli incarichi, tra vigili, giardinieri, travet e contabili. Ma la trafila si è comunque allungata, perché per ogni chiamata andata a vuoto, l'iter del reclutamento è dovuto ricominciare da capo. Dal 2016 a oggi il Campidoglio ha arruolato quasi 5mila persone, comprese le maestre precarie che sono state stabilizzate. Risultato: la spesa per il personale, che nel 2015 ammontava a 906 milioni di euro solo per i contratti a tempo indeterminato - nel 2018, l'ultimo dato disponibile, è arrivata a quota 996 milioni. Quasi cento milioni in più, un miliardo in totale. In linea, grosso modo, con quanto sborsato dall'amministrazione cittadina nell'anno appena concluso. «Abbiamo ricambiato il 26% del personale dal 2016 a oggi», si vantano in Comune. Resta la domanda: perché tanti rifiuti? Ognuno dei 450 avrà avuto una buona ragione per rinunciare a un posto di lavoro sicuro in Campidoglio. Certo è che molti, date le lungaggini del concorso capitolino, nel frattempo si sono rivolti altrove. Insomma, hanno trovato un impiego diverso, spesso nel settore privato. A Palazzo Senatorio si augurano che quando verrà sfornata la nuova selezione il numero delle rinunce diminuisca, dato che l'arruolamento dovrebbe viaggiare a ritmi molto più spediti rispetto al concorso precedente. Nel 2020, ha spiegato di recente Antonio De Santis, l'assessore alle Risorse Umane di Roma che ha avuto il merito di sbloccare la procedura del 2010, il Comune finirà di scorrere la vecchia graduatoria. Così saranno assunti 894 dipendenti: 300 vigili, 50 funzionari delle biblioteche, 100 architetti, addirittura 15 dietisti di cui, evidentemente, c'è bisogno in Comune. Poi entro fine anno, ha detto De Santis, sarà sfornato il nuovo concorso. In palio 1.470 posti da dipendente, più altri 42 da dirigente. «Daremo spazio ai millennials», ha dichiarato l'assessore. Sperando che non dicano no.
Auditorium, anni di proroghe e pagamenti in ritardo: Anac interviene sull'ex gestione del bar. La prima gara per affidare il servizio di caffetteria era stata indetta nel 2002. La seconda solo nel 2018. In mezzo, per anni, pasti e colazioni sono stati gestiti da Relais Le Jardin, la società del genero di Gianni Letta. Interviene l'Autorità nazionale Anticorruzione. Nel frattempo i fratelli Ottaviani, colossi dei catering nel Lazio, hanno cambiato orizzonti di business. Francesca Sironi il 20 febbraio 2020 su L'Espresso. La concorrenza è uguale per tutti. Ma per alcuni è meno uguale che per altri. Il 17 novembre l'Autorità nazionale Anticorruzione ha chiuso una relazione sul servizio di caffetteria e catering dell'Auditorium di Roma. Il bar del teatro dedicato a concerti e spettacoli era ed è affidato ad un'azienda esterna, come avviene per quasi tutti i musei e le istituzioni culturali italiane. Vengono definiti servizi aggiuntivi. E la committenza dovrebbe passare attraverso gare regolari, così da garantire la miglior offerta, un po' di concorrenza, il mercato insomma. Ma all'Auditorium la società che aveva vinto il bando nel 2003 non ha avuto competizione fino all'anno scorso. Nel 2007 l'appalto sarebbe dovuto scadere, ma il servizio è rimasto a lei, prorogato, di stagione in stagione, fino al 2018. Undici anni di proroghe. L'azienda che vendeva brioche e tramezzini agli spettatori, fino all'anno scorso, era Relais Le Jardin, piccolo colosso dei catering di proprietà dei fratelli Ottaviani. Roberto e Stefano Ottaviani, marito di Marina Letta, figlia di Gianni, l'ex potente sottosegretario della presidenza del Consiglio. Come aveva raccontato Emiliano Fittipaldi su L'Espresso, Relais Le Jardin negli anni d'oro dei "Grandi Eventi" era ubiquitaria: dal G8 di Genova alla Conferenza intergovernativa di Roma, dal pranzo tricolore di Obama all'Aquila ai padiglioni italiane nelle Esposizioni universali, ai Mondiali di nuoto: le committenze per i banchetti erano di Relais Le Jardin. La società è controllata da un'immobiliare il cui comando societario fino all'anno scorso si perdeva in Lussemburgo. Oggi, è della famiglia. Nel 2016 il nome di Stefano Ottaviani era comparso nei Panama Papers : suo il "Lagoon investments group" con sede a Panama. La Relais è appena tornata alle cronache per un'altra vicenda: nel concludere le indagini sul fallimento di Alitalia Sai, la procura di Civitavecchia ha contestato agli ex manager non soltanto false plusvalenze in bilancio, ma anche la «dissipazione di risorse» per oltre mezzo milione di euro. Fra le fatture contestate ci sono 133mila euro di catering durante le riunioni del consiglio di amministrazione. Affidati alla Relais le Jardin. La delibera dell'Anac, inviata al Comune di Roma - che è proprietario degli spazi, dati in comodato d'uso gratuito alla Fondazione Musica per Roma per la gestione e la programmazione delle attività - non mette in evidenza solo le proroghe continue del servizio, considerate illegittime. Nei rilievi c'è anche la contabilità: il contratto prevedeva infatti il pagamento di una quota fissa e di una parte variabile in proporzione agli incassi. Pagamenti che avrebbero dovuto essere effettuati entro 90 giorni dall'approvazione del bilancio. Dalla documentazione che la stessa Fondazione ha inviato all'Anac però, risulta che i bonifici dovuti da Relais per il 2013, ad esempio, erano arrivati all'istituzione con ben due anni di ritardo. Non solo. L'importo della quota variabile era calcolato sulla base di un semplice elenco, perché non c'era un sistema di contabilizzazione automatica degli incassi che potesse permettere il controllo sistematico delle ricevute. In ogni caso, non ci sarebbero poi prove di attività di verifica da parte dell'ente. Nel 2018 la fondazione ha indetto una nuova gara. Si sono presentate due aziende. Ha vinto "Le Voilà Banqueting" di Roberto e Vincenzo Azzarone, già a Palazzo Brancaccio, al palazzo delle Esposizioni e al Vittoriano. Sono loro a servire caffè e catering dell'Auditorium adesso. Nell'ultimo bilancio disponibile sul sito di Musica per Roma risulta un credito con Relais Le Jardin per 619.460 «relativi principalmente alle royalties 2018 non ancora scadute». La società dei fratelli Ottaviani non ha subito scosse, comunque. Il fatturato nel 2018 è arrivato a quasi 20 milioni di euro, in crescita rispetto all'anno precedente, e il bilancio è stato chiuso con un utile di 2,7 milioni. I tramonti romani erano stati previsti in bilancio, dove si citano le concessioni concluse al bar del museo Maxxi e della Bouvette del Campidoglio, «senza che la società abbia partecipato alle gare indette per il rinnovo degli appalti», si legge, nel rispetto di una nuova strategia, per la quale l'azienda «intende continuare a ridurre il proprio impegno nell’ambito delle concessioni di servizi all’interno di complessi museali ed artistici, destinando risorse verso nuovi mercati, non soggetti a vincoli di spazio e di tempo».
Valeria Costantini per roma.corriere.it il 17 febbraio 2020. Tassista picchiato e rapinato nella notte a Roma. È accaduto in zona Montespaccato, dove l’autista aveva appena portato quattro clienti, da quanto ricostruito finora si trattava di tre cittadini ecuadoriani e un’italiana. Erano saliti sull’auto in via Casilina, poi la corsa fino a una strada isolata poco prima dell’alba. Come mostra un video ripreso da un residente, i tre uomini hanno improvvisamente aggredito il tassista a calci e pugni, dopo una discussione sui soldi da spendere tra di loro.
Notte di violenza. Il conducente, malconcio, ha iniziato a gridare e a chiedere aiuto: «Mi stanno rubando la macchina, aiutatemi», il suo disperato appello. Alcuni passanti in auto si sono fermati a soccorrerlo: denunciato uno degli stranieri che è stato bloccato e consegnato alle forze dell’ordine intervenute poco dopo. Gli altri tre aggressori sono spariti nel nulla e al momento ancora ricercati. Il tassista, ferito, è stato portato in ospedale. «Solidarietà al tassista aggredito con calci e pugni e rapinato ieri notte a Roma. Spero che i responsabili di questo vile episodio siano tutti assicurati alla giustizia» ha scritto in un tweet la sindaca, Virginia Raggi.
A. Mar. per “il Messaggero” il 18 febbraio 2020. «Ho visto la morte in faccia, questa volta ho avuto paura di non tornare a casa dai miei due figli. Ho il viso gonfio, un occhio nero e domani mattina (stamani, ndr) mi toccherà rivedere quel folle in tribunale al processo per direttissima. Ma tutto sommato sto bene e l'importante è raccontarla...». Andrea P., 47 anni da compiere, da diciotto alla guida di un'auto bianca nella Capitale, è appena stato dimesso dal pronto soccorso. È lui la vittima della brutale aggressione con tentativo di rapina della sua Toyota Corolla Hybrid nuova di zecca, avvenuta all'alba di lunedì a Montespaccato. Un episodio di violenza, l'ennesimo, questa volta ripreso, però, in un video girato da un residente.
Andrea che cosa ricordi di quei momenti?
«Momenti? Sono stati minuti infiniti, in cui ero in balìa di quel personaggio, fuori di sé e ubriaco. Dalle 6,20 fino alle 7: quaranta minuti di puro terrore. Chiedevo aiuto, urlavo, ma all'inizio non si fermava nessuno».
C'è stata indifferenza?
«Credo che tra i primi automobilisti che sono passati ci fossero delle donne, e loro le posso pure capire. Ma altri sono andati via senza muovere un dito finché, finalmente, non è uscito un uomo da un forno che mi ha aiutato a bloccare quel pazzo. Subito dopo di lui si sono fermati anche altri due passanti, quindi è arrivata la volante di polizia e, non senza fatica, perché il folle si era barricato dentro l'auto, è stato arrestato».
Chi era quell'uomo?
«Lo avevo preso insieme con altri due sue connazionali, degli ecuadoregni, e una donna italiana, fuori da un locale all'angolo tra via Casilina e viale della Primavera, a Centocelle. Era la mia prima corsa del mattino, non abito distante e quando al 3570 è arrivata la chiamata sono andato io. La sera ero stato allo stadio, ero contento. Mi hanno chiesto di portarli dall'altra parte della città a Montespaccato, poi arrivati a destinazione hanno cominciato a litigare per chi doveva pagare».
E come è andata?
«Secondo gli amici avrebbe dovuto pagare lui, ma tergiversava, mi ha mostrato la tessera dell'autobus spacciandola per la carta di credito, allora io in viva voce ho chiamato il 112. La donna si è arrabbiata con me: Che ca.. ti chiami la polizia, pago io. Mi dà i soldi e mentre cercavo il resto dei 36 euro continuavano a litigare finché l'italiana e gli altri se ne sono andati: Tu resti qua, a bere su a casa non vieni, gli hanno detto. Mi sono girato e quello si era chiuso dentro la macchina, scapocciava e non voleva più uscire».
Lei, allora, che cosa ha fatto?
«Ho provato a farlo uscire, ma quello ha messo la mano nella tasca dei pantaloni, come se avesse una pistola e mi ha urlato: Adesso ti ammazzo. Sono scappato via».
Quando l'ha picchiata?
«A un certo punto, però, l'ho visto al posto di guida, voleva rubarmi l'auto che avevo comprato solo il 17 gennaio con tanti sacrifici. Mi è preso un colpo, con quella macchina io ci campo la famiglia, così sono tornato indietro, mi sono attaccato allo sportello, sono entrato sul lato passeggero per fermarlo: con una mano tenevo il volante, con l'altra suonavo il clacson per attirare l'attenzione e i soccorsi. Nel frattempo, quello non sapeva neppure guidarla ed è andato a sbattere contro un muretto: 500 euro di danni mi ha fatto. Io gridavo Aiuto, mi stanno rubando la macchina, speravo che qualcuno intervenisse subito».
Invece?
«Invece, quel pazzo mi ha sferrato 3 o 4 pugni in faccia, per fortuna senza centrarmi in pieno con tutta la forza, anche se dopo mi sono ritrovato tutto tumefatto. Sono comunque riuscito a farlo uscire dalla macchina, mi inseguiva continuando a minacciarmi: Ti ammazzo. Faceva qualche metro poi tornava indietro per risalire in auto e ripartire, allora pure io riprendevo coraggio e tornavo sui miei passi per impedirgli di portarmi via la macchina. È andata avanti così finché non è uscito fuori il fornaio...».
Poi è arrivata anche la polizia.
«Sì, in una ventina di minuti. Anche davanti agli agenti lo straniero non si è arreso, hanno dovuto ammanettarlo per tirarlo fuori dalla macchina. Lui stesso, che ha 25 anni, ha raccontato di avere dei precedenti e l'hanno portato via. Quindi la polizia mi ha accompagnato al pronto soccorso del Pertini, 7 i giorni di prognosi».
È la prima volta che subisce un tentativo di rapina alla guida del taxi?
«No, mi era già successo cinque anni fa. Ma allora fu tutto più veloce e indolore: il balordo mi puntò un coltello alla gola, in trenta secondi si prese i soldi e scappò via. Invece, ieri è stato uno choc. Ora voglio solo rimuovere e dimenticare tutto, ai miei figli di 6 e 10 anni ho detto che sono caduto al parco... ma mica ci credono».
Dal flop di mafia capitale alla guida di piazzale Clodio: vita e opere di Michele Prestipino. Fausto Mosca su Il Dubbio il 4 marzo 2020. Il nuovo procuratore capo di Roma è stato per anni ill braccio destro di Pignatone. Ha vinto la continuità. Michele Prestipino è il nuovo capo della Procura di Roma, ha avuto la meglio su Francesco Lo Voi al ballottaggio: 14 voti a 8. A favore di Prestipino hanno votato i cinque togati di Area, i tre di Unicost, tre del gruppo di Autonomia &Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, i due laici del Movimento 5 Stelle, e il pg della Cassazione Giovanni Salvi. Lo Voi ha invece incassato le preferenze di Magistratura indipendente (tre voti), dei due laici in quota Forza Italia, di uno della Lega e di un grillino, oltre al voto del primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone. Ma niente da fare, alla fine è stata premiata la continuità con la precedente “gestione”, garantita dal facente funzioni. Non poteva che essere Prestipino l’erede predestinato, al fianco di Giuseppe Pignatone fin dagli anni Palermo, passando per la Procura di Reggio Calabria, per arrivare a sigillare il sodalizio investigativo nella Capitale. Insieme hanno portato a termine inchieste dal grande impatto mediatico, non sempre accompagnate dal “successo” processuale. Di Pignatone e Prestipino insieme si ricordano soprattutto due mega inchieste, destinate a fare giurisprudenza ma anche letteratura. “Crimine”, a Reggio, fu l’operazione che costrinse a riscrivere i manuali di storia della ‘ndrangheta e a ridefinire la natura stessa dell’associazione calabrese. Da quel momento in poi contestare il 416 bis alle ‘ndrine significa dover dimostrare l’appartenenza a un’organizzazione «verticistica» e «unitaria», sul modello palermitano. Ma è soprattutto la seconda operazione, “Mafia Capitale”, ad essere finita nell’immaginario collettivo come la grande guerra, persa, da Pignatone e Prestipino. Un flop giudiziario, smontato dalla Cassazione, che ha riconosciuto sì l’esistenza di organizzazioni criminali a Roma, ma non la loro natura mafiosa. Il grande teorema della «mafia autoctona» messa in piedi da Buzzi e Carminati si è sciolto come neve al sole. Eppure, il “mondo di mezzo” è stato fonte d’ispirazione di best seller, film e serie tv. La fiction ha tributato alla Procura quel riconoscimento titanico che le aule di Tribunale non sono riuscite a dimostrare. Ma un fallimento, anche epocale, può capitare nella carriera di chiunque. E Michele Prestipino, che prima d’oggi non aveva mai guidato una Procura (se si escludono i 10 mesi seguiti da facente funzione), ha sbaragliato la concorrenza titolatissima di Lo Voi con nettezza. Ha persino ottenuto l’endorsement di Piercamillo Davigo che nel maggio scorso aveva votato in Commissione a favore del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, in nome della «discontinuità», ritenuta necessaria nella Capitale, dopo l’era Pignatone. Poi lo scandalo Lotti-Palamara – e le conversazioni intercettate tra politica e magistratura per decidere le sorti degli uffici giudiziari di mezzo Paese date in pasto alla stampa ad arte – cambia le carte in tavola. Prestipino torna in corsa e convince l’anima conservatrice e quella progressista della magistratura a convergere su di lui, stracciando gli altri aspiranti procuratori: Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi. Tutti e tre i candidati, inoltre, provengono da blasonate Direzioni distrettuali antimafia, come se per Roma non si potesse far domanda senza un’esperienza pregressa con le cosche. A Piazzale Clodio possono comunque tirare un sospiro di sollievo: l’eterna lotta alla successione è terminata. Prestipino guiderà l’ufficio giudiziario. E non si allontanerà troppo dal suo predecessore, nel frattempo nominato presidente del Tribunale Vaticano, l’organo di primo grado della giustizia vaticana, da Papa Francesco.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 5 marzo 2020. Spumante nei bicchieri di plastica «e manco 'na pizzetta». Anche nel giorno professionalmente più importante della sua vita, Michele Prestipino si conferma un romano atipico. Emozionato nel brindisi con i colleghi della Procura. Poche chiacchiere, poi di nuovo a lavorare. Del resto a Roma è nato, cresciuto (nel borghese corso Trieste) e infine ritornato, ma non è e non sarà mai un «magistrato romano». E non solo per le ascendenze messinesi. In realtà è un filosofo mancato e se avesse seguito l' inclinazione liceale oggi non correrebbe dietro a Spada e Casamonica, ma a Kant e Aristotele come il padre Vincenzo, docente di filosofia morale a Macerata. O a Marx e Lukács come lo zio Giuseppe, che oltre a insegnare filosofia teoretica a Siena era intellettuale gramscianamente organico, dopo aver animato un movimento sindacale nella Libia post coloniale dove nel 1932 il padre magistrato (ah, ecco) era stato inviato per «negoziare» il trasferimento della popolazione della Cirenaica e far posto agli italiani inviati dal regime fascista. Sarà l' impronta familiare ad averlo conservato studioso, anche dopo la precoce fine della carriera universitaria come cultore di diritto civile. Il metodo analitico nella lettura delle carte - anche se intercettazioni e interrogatori - non l' ha mai perso, come il gusto della scrittura. Degli atti giudiziari, degli articoli di dottrina, dei libri. Esordi giudiziari ad Avezzano: pretura circondariale, poi tribunale. Sua una sentenza pilota in materia di rifiuti, ammettendo le associazioni ambientaliste come parti civili. E proprio in Abruzzo il primo incrocio con le mafie, da giudice di sorveglianza che esamina le pratiche dei boss detenuti. Nel 1996 il trasferimento a Palermo, le indagini su mafia, appalti e banche. «Raro acume investigativo», certificherà nel 2004 il procuratore Pietro Grasso. Nasce il sodalizio con Giuseppe Pignatone, che in quel palazzo razionalista così tragicamente famoso era entrato vent' anni prima. Uno figlio di un cattolico e nipote di un comunista che il comitato centrale mandava da Mosca nella minuscola Capizzi, dove «c' erano i voti ma non una sola persona che avesse finito le elementari» e potesse fare il sindaco. L' altro figlio di un democristiano teorico del milazzismo, due volte deputato e presidente di enti pubblici. «Se Pignatone è metodico, Prestipino è frenetico, se l' uno sembra sornione, l' altro appare impetuoso, ma ho scoperto che entrambi nutrono passione smodata per la parola», scrive Gaetano Savatteri nella prefazione del loro libro «Contagio» (Laterza). Il resto della simbiosi è storia nota: Palermo, Reggio Calabria, Roma. Con lo stesso metodo investigativo nei diversi contesti: composizione dei puzzle criminali e cultura della prova, da solidificare prima del processo. Non tutto è stato facile. A Roma la nomea di «cocco» di Pignatone aveva procurato inevitabili gelosie e pregiudizi. Superati quando s' è visto che Prestipino non era arrivato per godersi la dolce vita, ma per sgobbare. Nelle più complesse inchieste antimafia come nella minutaglia degli «affari semplici», un inferno da 140 mila fascicoli l' anno. Anche per questo, ieri in Procura, i sorrisi (e qualche lacrima) non erano solo dei pm, ma anche di segretarie e cancellieri. Primo a entrare e ultimo a uscire dall' ufficio, anche come capo reggente dopo l' addio di Pignatone. Mai sentito dire «ora non posso, passa domani» a un sostituto che voleva risolvere un problema. Piuttosto «aspettami dieci minuti e ne parliamo». Refrattario alle scene televisive (preferisce i convegni) e riservato sulla vita privata (solo recentemente ha parlato ai colleghi di compagna e figlio nato l' anno scorso), non è di quelli che a pranzo se ne sta in ufficio da solo. Capita di vederlo arrivare al baretto di piazzale Clodio e aggiungersi alla tavolata dei pm, se c' è un posto libero. Non cambierà, anche ora che guida 100 magistrati nel posto che, leggenda ma non troppo, conta come un paio di ministeri. Il migliore augurio che gli si può fare è il titolo dell' ultimo libro dello zio filosofo: diritti e dignità.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 marzo 2020. L' inchiesta di Perugia sulla presunta corruzione del pm Luca Palamara e le relative intercettazioni sul mercato delle nomine al Csm non hanno cambiato le cattive le abitudini. Dopo nove mesi, lo scacchiere della magistratura italiana è ancora un campo di battaglia, dove le decisioni si prendono a colpi di maggioranza, anche quelle più importanti, come la scelta del procuratore di Roma, una poltrona che vale più di un ministero. Ieri il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha nominato il nuovo capo degli uffici inquirenti capitolini al ballottaggio e qui l' ha spuntata Michele Prestipino Giarritta per 14 voti a 8, dopo che nella prima tornata i consiglieri si erano divisi su tre diversi candidati. Area, il cartello delle sinistre, e una parte di Autonomia e indipendenza hanno votato Prestipino; la corrente centrista di Unicost in prima battuta ha puntato su Giuseppe Creazzo (appoggiato anche da due dissidenti di Ai) e poi su Prestipino; infine i conservatori di Magistratura indipendente hanno sostenuto il loro campione Franco Lo Voi. Pure i laici si sono spaccati: due dei tre 5 stelle hanno sostenuto Prestipino, il terzo ha scelto prima Creazzo e poi Lo Voi; nome, quest' ultimo, che ha convinto anche i due consiglieri di Forza Italia e un leghista, mentre l' altro si è astenuto. Il vincitore della sfibrante disfida ha 62 anni, è nato a Roma da genitori siciliani ed è entrato in magistratura nel 1984, con primo incarico in Abruzzo e una carriera n gran parte spesa nella lotta alla criminalità organizzata. Nel 2012 è diventato procuratore aggiunto della Capitale e dal maggio scorso era procuratore facente funzioni. È l' erede perfetto di Giuseppe Pignatone, che tanti orfani ha lasciato nella Procura di Roma. Infatti Prestipino è stato vice di Pignatone a Roma e a Reggio Calabria, oltre che suo stretto collaboratore a Palermo. Un sodalizio di lunga data a cui vengono attribuiti successi come la cattura del boss Bernardo Provenzano, l' inchiesta Mafia capitale (anche se le accuse di mafiosità sono cadute in Cassazione) e il rinvio a giudizio di Gianfranco Fini per la vicenda della casa di Montecarlo. La nomina di Prestipino rappresenta una «scelta di continuità», auspicata da molti, con la gestione precedente, nonostante i maneggi dei renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri, i quali, con l' appoggio di Palamara, in riunioni carbonare nel maggio scorso avevano provato a tagliare il cordone ombelicale con Pignatone, candidando «a sua insaputa» il pg di Firenze Marcello Viola, il quale avrebbe dovuto segnare una cesura con il metodo Pignatone, inaugurato nel 2012 e che adesso, con Prestipino, potrebbe perpetuarsi sino al 2028. A infastidire il Giglio magico era stata soprattutto la gestione dell' inchiesta Consip. Quando da Napoli era approdata a Roma, a voler credere alle parole del Palamara intercettato, ad alcuni indagati eccellenti sarebbero arrivati segnali rassicuranti o forse vennero fraintesi gesti di cortesia istituzionale. Quel che è certo è che la Procura guidata da Prestipino, come prima prova del fuoco, dovrà esprimersi entro poche settimane su un' eventuale richiesta di rinvio a giudizio, tra gli altri, di Lotti per rivelazione di segreto, di Tiziano Renzi per traffico di influenze e di Denis Verdini per turbativa d' asta e concussione, onde evitare il rischio tangibile di vederli mandare alla sbarra direttamente dal gip Gaspare Sturzo che già due volte ha respinto la richiesta d' archiviazione per l' ex ministro e per il babbo. Dentro al Giglio magico o almeno tra gli avvocati di riferimento, dopo la bocciatura di Viola, c' era chi auspicava che a vincere fosse Giuseppe Creazzo, attuale procuratore di Firenze. «Promoveatur ut amoveatur», suggerivano i latini quando c' era da rendere innocuo un personaggio scomodo. A maggio le microspie degli inquirenti perugini avevano rivelato che i renziani puntavano ad allontanarlo da Firenze, addossandogli la colpa di aver fatto arrestare i genitori dell' ex premier. Ma ieri la speranza di portare a casa almeno questo magro risultato è tramontata già alla prima votazione, quando Prestipino ha totalizzato 10 voti, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi 7 e Creazzo solo 6 (quelli della sua corrente Unicost, di due consiglieri di Ai e di un laico pentastellato). E per questo rimarrà ancora in riva all' Arno. La vittoria del delfino di Pignatone è stato un brutto colpo anche per Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo di Ai che, da ex colleghi di Prestipino e Lo Voi, avevano fatto di tutto per far prevalere Creazzo. I due paladini dell' Antimafia più ortodossa, quella dei Falcone e dei Borsellino, ma anche dei Caselli e degli Ingroia, si sono astenuti quando hanno dovuto scegliere tra due candidati che vedono come fumo negli occhi, anche per l' aver condiviso con loro alcuni procedimenti, come quello contro l' ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro. La nomina di Prestipino susciterà mal di pancia anche tra le toghe considerate non in linea con il nuovo-vecchio corso, come i pm di Magistratura indipendente, passati in pochi mesi dall' euforia all' irrilevanza, dalla quasi nomina di Viola (di Mi) alla sconfitta di Lo Voi. La conferma di Prestipino al vertice della Procura fa tirare un sospiro di sollievo a gran parte dei suoi aggiunti, che, dopo le fughe di notizie sulle mosse dei presunti complottardi, si sentivano in un fortino sotto assedio. I veri vincitori sono, però, le toghe rosé di Area, che dopo la nomina del procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi (membro di diritto del Csm), di due nuovi aggiunti romani e del presidente dell' Associazione nazionale magistrati Luca Poniz, porta a casa un altro importantissimo risultato. Prestipino, nonostante non sia iscritto a nessuna corrente, era il loro candidato, sostenuto con convinzione in tutte le votazioni al plenum. Festeggia a metà Piercamillo Davigo che è stato il relatore della proposta Prestipino, ma ha visto frantumarsi la sua creatura: solo due dei quattro consiglieri eletti in Ai hanno seguito la sua indicazione di voto.
Magistratura ai piedi di Davigo, Prestipino batte i più titolati Creazzo e Lo Voi. Giovanni Altoprati su Il Riformista il 5 Marzo 2020. E alla fine Michele Prestipino ce l’ha fatta. È lui il nuovo procuratore di Roma. Una nomina in “continuità” con la gestione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione lo scorso maggio, e di cui Prestipino è sempre stato il più stretto e fidato collaboratore. Il rapporto fra i due iniziò alla Procura di Palermo alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando Pignatone era il braccio destro del procuratore Giancarlo Caselli e Prestipino un semplice sostituto. Il voto è arrivato ieri mattina al Csm e ha rispettato le previsioni della vigilia che non lasciavano speranze agli sfidanti Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo. A favore di Prestipino hanno votato i cinque togati di Area, il gruppo di sinistra della magistratura, i tre di Unicost (che inizialmente avevano sostenuto Creazzo, il candidato della loro corrente), Piercamillo Davigo e i suoi due fedelissimi di Autonomia e indipendenza, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, i due laici del M5s Alberto Maria Benedetti e Fulvio Gigliotti, e il pg della Cassazione Giovanni Salvi, esponente di Area. Per Lo Voi hanno votato i tre togati di Magistratura indipendente, il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone, i due laici di Forza Italia Michele Cerabona e Alessio Lanzi e il laico del M5s Filippo Donati. Astenuti i togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, entrambi eletti con Aei ma ultimamente in contrasto con la linea di Davigo, e il laico della Lega Emanuele Basile. Non ha partecipato al voto il vice presidente del Csm David Ermini. L’asse Davigo-Area è uscito, dunque, vincitore anche questa volta. Pur non rappresentando il voto dei circa ottomila magistrati che a luglio del 2018 mandarono a Palazzo dei Marescialli altri consiglieri, Davigo, con i 5stelle a rimorchio, sta ridisegnando nel silenzio dei media i vertici delle Procure e dei Tribunali italiani. Se non fosse esplosa la vicenda “Palamara”, con le dimissioni di ben cinque consiglieri del Csm, di cui tre di Mi, il voto di ieri sarebbe andato in maniera diversa. A maggio, infatti, era uscito vincitore in Commissione per gli incarichi direttivi Marcello Viola, procuratore generale di Firenze ed esponente di Mi. Nomina poi azzerata in quanto il nome di Viola era stato fatto, a sua insaputa, durante la celebre cena intercettata con il trojan fra l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e i consiglieri del Csm poi dimessisi. Per “imporre” Prestipino il Csm è stato costretto a una interpretazione estensiva del Testo unico sulla dirigenza per gli uffici giudiziari. Sulla carta, infatti, Lo Voi e Creazzo avevano molti più titoli. Oltre a essere già procuratori, Lo Voi aveva rappresentato l’Italia a Eurojust, mentre Creazzo era stato vice capo legislativo al ministero della Giustizia. Questa volta, per superare l’handicap del curriculum di Prestipino che era solo aggiunto e non aveva molti titoli, il Csm è ricorso alle “esperienze”. «Sebbene privo di indicatori specifici si è reso protagonista di esperienze pregnanti rispetto all’incarico da conferire, tali da fondare sul piano prognostico il giudizio sulla sua maggiore capacità a porsi a guida dell’ufficio a concorso», è la burocratica formula utilizzata a Palazzo dei Marescialli per motivare la sua scelta. Fra i punti forti, l’indagine su “Mafia Capitale” a cui sono state dedicate molte pagine nel parere per la nomina. Il fatto che la Cassazione abbia smontato il teorema della Procura di Roma, escludendo l’aggravante mafiosa, non ha spostato minimamente il giudizio finale del Csm in quanto «l’indagine ha disvelato caratteristiche del tutto peculiari delle organizzazioni criminali operanti nel territorio di Roma, anche per profili di penetrazione nella pubblica amministrazione e nella politica». La nomina di Prestipino segna un punto a favore del potere delle correnti alla luce dei nuovi rapporti di forza a piazza Indipendenza. Per la destra giudiziaria di Mi, uscita a pezzi dalla vicenda Palamara, di cui, dopo il clamore iniziale, si sono perse completamente le tracce, si preannuncia una lunga traversata nel deserto. Almeno fine alle prossime elezioni del Csm previste nel 2022. Pesa, a tal proposito, la profonda incapacità dei vertici di Mi di gestire, la scorsa estate, l’accaduto, accettando che i propri consiglieri si dimettessero senza neppure uno straccio di processo e sulla base di articoli stampa. Per i prossimi due anni il quadro è chiaro. Qualcosa verrà concesso ad Unicost, l’altra corrente coinvolta nel caso Palamara, che però che sta cercando di recuperare terreno. Ieri, ad esempio, ha “scaricato” Creazzo votando Prestipino con la speranza di aver qualche “bonus” nomine in futuro. E infatti già si parla di Creazzo come prossimo procuratore generale di Roma. “Quarantena”, invece, per Mi che, tramontata la leadership di Cosimo Ferri, è ora alla ricerca di un nuovo leader. Corrente “scalabile” in quanto sono tanti i magistrati che non si riconoscono nelle esternazioni dell’ospite preferito di Giovanni Floris o nella sinistra giudiziaria il cui scopo principale, dopo aver fatto fuori Silvio Berlusconi, è togliere ora di mezzo i due Matteo. Primo banco di prova, le elezioni per il rinnovo dell’Anm di marzo.
Da ansa.it il 20 febbraio 2020. Oltre 13 milioni di presenze fantasma (cioè non calcolate dalle statistiche ufficiali del turismo quindi non classificate e irregolari) tra gli affitti brevi a Roma, pari al 55,9% dell'offerta online complessiva. E' la stima prudenziale che emerge dal rapporto sul sommerso ricettivo a Roma realizzato da Sociometrica per l'Ente bilaterale del turismo del Lazio (Ebtl) che parla di situazione "insostenibile". Secondo le stime ufficiali alberghiere ed extralbeghiere le presenze annue a Roma sono 43 milioni 550 mila: quelle in nero incidono per oltre il 30% portando il dato totale a 57 milioni 116 mila. "È impossibile amministrare una metropoli - spiega il presidente dell'Ebtl Tommaso Tanzilli - senza conoscere la quantità effettiva di fruitori dei suoi servizi pubblici (dai trasporti alla raccolta dei rifiuti, dal traffico alla pubblica sicurezza). Siamo di fronte a un fenomeno che non crea occupazione né investimenti: case di proprietà per la maggior parte gestite da società di property management con pochi addetti e l'uso di molti mezzi di automazione. Non è sharing economy. È un'impresa a tutti gli effetti che ci auguriamo sia tassata come è giusto".
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 18 giugno 2020. «Nonna, non torno. Vado a dormire da un'amica». Si scopre ora che l'ultima telefonata di Desirée Mariottini effettuata la sera prima della scomparsa, era partita dall'Infernetto e dal telefono di un ventenne agli arresti domiciliari per droga proprio all'Infernetto. Un testimone che, se ascoltato, nel processo a carico dei quattro giovani africani accusati dell'omicidio di Desirée, potrebbe aggiungere tasselli sulle ultime ore di vita della sedicenne di Cisterna di Latina, ritrovata morta a 36 ore da quell'ultima chiamata in uno stabile abbandonato di San Lorenzo. La II Corte di Assise scioglierà la riserva sull'opportunità o meno di ascoltare il giovane solo all'esito della istruttoria dibattimentale, ossia nelle battute finali del processo. Nell'udienza di ieri, dedicata alle investigazioni della IV sezione della Squadra Mobile, accusa e difese si sono contrapposte sulla necessità di sentire il nuovo testimone, mai interrogato prima. «L'audizione non intaccherebbe il quadro granitico sugli odierni indagati - ha spiegato il procuratore aggiunto Maria Monteleone - È cruciale conoscere invece le ore vissute dalla ragazza prima del suo arrivo a San Lorenzo - ha ribattuto per le difese l'avvocato Giuseppina Tenga - Anzi, ritengo che l'accertamento andasse fatto nell'immediatezza». La telefonata era stata effettuata la sera del 17 ottobre. La mattina del 19, non avendo ricevuto analoga chiamata la sera prima, i familiari di Desirée avevano sporto denuncia per la sua scomparsa. Ma era tardi. La ragazza era stata appena trovata morta nello stabile di San Lorenzo. L'autopsia rivelerà che era morta per un cocktail di stupefacenti e medicinali assunti a partire da ventiquattro ore prima e anche abusata. Il processo, incardinato a gennaio e sempre svolto a porte chiuse, vede imputati per omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di stupefacenti a minori, quattro cittadini ghanesi e nigeriani, Yussef Salia, Alinno Chima, Mamadou Gara e Brian Minteh. Gli imputati si sono finora difesi sostenendo di non aver provocato loro la morte della giovane. «Abbiamo consumato insieme alcuni stupefacenti, senza assolutamente l'intenzione di uccidere». Secondo la madre e la zia di Desirée, ascoltate nelle scorse udienze, la ragazza non avrebbe fatto uso di stupefacenti. Per gli investigatori ascoltati ieri invece la minorenne si sarebbe recata a San Lorenzo alla ricerca di stupefacenti, perché probabilmente in crisi di astinenza.
Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 16 aprile 2020. Spacciava droga insieme con alcuni complici sulla piazza di Cisterna di Latina. Gianluca Zuncheddu, il padre di Desirée Mariottini, la sedicenne violentata e uccisa la notte del 19 novembre 2018 in un palazzo abbandonato a San Lorenzo, è stato arrestato dai carabinieri nel corso di un’operazione antidroga nella quale sono state eseguite otto ordinanze di custodia, tre delle quali a persone già detenute. Secondo i militari dell’Arma della compagnia di Latina e Aprilia proprio due anni fa, da febbraio ad agosto, Zuncheddu ha gestito la consegna di cocaina, hashish e marijuana a casa dei clienti insieme con una coppia di pusher ed era il referente del gruppo nella cittadina dove risiedeva anche la figlia. Fra gli otto arrestati di giovedì mattina ci sono anche i due presunti responsabili dell’agguato a colpi di pistola contro la vettura di un maresciallo dei carabinieri in servizio proprio presso la stazione dell’Arma di Cisterna che stava indagando sul gruppo di spacciatori. All’epoca dei fatti, la notte del 19 maggio di due anni fa, l’auto del sottufficiale venne presa di mira in via Carlo Alberto dalla Chiesa proprio davanti al suo alloggio. Quattro colpi di pistola, poi gli attentatori fuggirono su una vettura che venne ritrovata bruciata fuori da Cisterna. Fin dall’inizio le indagini si concentrarono su quanto i carabinieri stavano facendo per contrastare le bande di spacciatori nella zona. Dall’indagine sul commercio al dettaglio degli stupefacenti sono anche emersi episodi di intimidazioni ed estorsioni.
Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 17 aprile 2020. Che padre è uno che ha vissuto il dramma di una figlia stuprata e uccisa a soli 16 anni con un mix di droghe da un gruppo di pusher africani ma dirige una piazza di spaccio nella sua città? Non sappiamo se Gianluca Zuncheddu, 39 anni, sul braccio per sempre il tatuaggio del volto di sua figlia, abbia continuato nella sua attività dopo quel 19 ottobre 2018 che ha sconvolto anche la sua vita, ma il suo arresto, avvenuto ieri mattina a Cisterna di Latina in un blitz antidroga dei carabinieri (per fatti avvenuti tra febbraio e agosto di quello stesso anno), suona come l' ultimo oltraggio alla memoria di Desirée Mariottini, massacrata nella notte tra il 18 e il 19 ottobre di due anni fa nello squallore di quel palazzone abbandonato di via dei Lucani a San Lorenzo a Roma, allora come ora terra di nessuno se non delle bande di spacciatori che per poche decine di euro vendono sballo, sesso di gruppo e morte. C' era finita per caso quella sera a San Lorenzo Desirée, portata a Roma da un' amica più grande, il suo primo buco, sembra, dopo almeno un anno di canne e sniffate. L' hanno ritrovata all' alba avvolta in un piumone in uno stanzone deserto abbandonata agonizzante da quei quattro pusher africani, poi arrestati, che l' hanno lasciata morire lì da sola nel tentativo di salvarsi. «Io l' ho visto in aula quel padre, un padre distrutto. Non ci può essere punizione peggiore per uno che spaccia droga che vedersi morire la figlia uccisa da pusher - dice il procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone - . E però voglio dire con grande crudezza che di Desirée in giro ce ne sono tantissime e sempre più giovani. Ragazzine anche di 12-13 anni che subiscono il dramma di genitori inadeguati, di mancanza di rapporti affettivi familiari e di una rete di sostegno sociale e finiscono in giri di droga e di prostituzione minorile. Me le vedo passare davanti ogni giorno e non è solo un problema di livello sociale, anzi». Non era l' amore dei genitori che mancava a Desirée. Barbara Mariottini, la giovanissima mamma-sorella che l' aveva avuta a soli 19 anni e le ha dato il suo cognome, ha fatto di tutto per salvarla scontrandosi con il muro di gomma della società che non vede, non sente, non agisce: scuola, servizi sociali, giudici minori. «Eppure siamo state felici», ripete scorrendo quegli infiniti album di foto di lei e della sua Desy. Ma anche per Gianluca Zuncheddu, quella figlia nata da un rapporto tra ragazzi e finito poco dopo, era «tutta la sua vita». Per lei aveva voluto esequie indimenticabili, palloncini bianchi e lilla e fuochi d' artificio davanti ai palazzoni del quartiere di San Valentino, le magliette bianche con su stampate il volto di padre e figlia indossate da decine di giovani del quartiere, teste rasate e braccia e colli tatuati come lui, i cartelli da stadio con su scritto "giustizia per Desirée" e, a tutto volume, la canzone di Jovanotti "E per te". Da quel 19 ottobre del 2018, come per Barbara Mariottini, anche per Gianluca Zuncheddu la morte di Desy è diventata un' ossessione: sul suo profilo facebook, un giorno dietro l' altro, fino a Pasquetta, foto, cuori e dichiarazioni di amore per quella figlia che lui, che spacciava droga ad altri ragazzi come Desy, non è riuscito a salvare. «Ci ho provato, ma non ho potuto fare niente », ha ammesso piangendo al processo in corso a porte chiuse in corte d' assise a Roma. Erano in tanti a Cisterna di Latina, nei giorni immediatamente successivi alla terribile fine di Desirée, a pensare che Zuncheddu, che conosceva bene quei giri di droga, sarebbe andato a prendere con le sue mani gli assassini-stupratori di sua figlia. Era già andato a riprenderla una volta, qualche settimana prima, quando Desirée non era tornata a casa e la madre, disperata, aveva finito per rivolgersi a lui. Gianluca l' aveva trovata, l' aveva riportata a casa ma si era beccato pure una denuncia da parte della figlia per aver violato quel decreto del giudice che gli impediva di avvicinarsi a madre e figlia. Ma forse era già troppo tardi per salvarla. Desy, 16 anni, un viso pulito, un sorriso timido e il suo male dentro come tantissime altre ragazze della sua età, il complesso per quel lieve difetto a un piede che la faceva sentire diversa dalle altre. Una fragilità acuita forse da una famiglia che si è accorta troppo tardi che quel disagio era diventato per lei un macigno. «Mi hanno accusato di non essermi occupata di lei e questo mi ha fatto un gran male - è lo sfogo della mamma - Desy era dolce, timida, sensibile. Per ovviare al malessere dell' adolescenza aggravato da un suo disagio fisico era seguita da una psicologa privata. Poi sono cominciate le canne e ho attivato i servizi sociali, il Sert. Ma la verità è che ti rivolgi a tutti ma ti ritrovi senza strumenti». Un dramma davanti al quale il procuratore aggiunto Monteleone ammette: «Siamo colpevoli tutti, i genitori distratti, la scuola è quella che è, i servizi sociali inadeguati, gli stessi tribunali minorili. La verità è che non abbiamo una rete sociale capace di affrontare questa situazione».
«Io l’avrei salvata». Al processo per l’omicidio Desirée parla il padre. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. A trentasei anni Gianluca Zuncheddu ha già conosciuto un lutto inesprimibile: la perdita di una figlia. Neppure il vocabolario ti aiuta: manca la parola che descriva la condizione di un genitore privato di un figlio. È il suo giorno nell’aula bunker di Rebibbia dove si celebra il processo per la morte di Desirée Mariottini, la sedicenne stuprata e uccisa da un mix di sostanze stupefacenti in via dei Lucani il 18 ottobre 2018. E lui, ascoltato in coda a una lunga serie di testimoni (fra i quali i medici legali che si occuparono della vicenda), risponde, spiega, racconta. Poi, durante il controesame si fa più riluttante, meno concreto, più esitante: «Io l’avrei salvata se avessi potuto intervenire» dice l’uomo di strada che è in lui, già coinvolto in un’inchiesta per spaccio di stupefacenti. Zuncheddu parla, ad esempio, della volta in cui la riportò a casa, dopo che lei si era resa introvabile, e lei glielo fece pesare, denunciando di aver violato il divieto di avvicinamento disposto dal giudice dopo la separazione dalla moglie, Barbara Mariottini. Un’età complicata quella di Desirée. Resa più aspra da un’handicap al piede che pareva condizionarla rendendola più insicura e ancora più infelice. Un dato, quello dell’introversione della ragazza, che le difese tenteranno di utilizzare a proprio vantaggio. Come se la narrazione di una ragazza complessa potesse distrarre dalla brutalità dei fatti ricostruiti dall’aggiunto Maria Monteleone e dal sostituto Stefano Pizza. Quando la notizia della morte di Desirée è arrivata il padre era agli arresti domiciliari ma oggi in aula allude ad approfondimenti svolti in prima persona: «Sono stato a San Lorenzo — dice — e ho saputo lo squallido retroscena sulla morte di mia figlia». Desirée, dice di aver ricostruito suo padre, sarebbe stata venduta agli spacciatori da una delle ragazze del giro di via dei Lucani. Circostanze che non sarebbero emerse in sede di indagine affiorano ora durante il dibattimento, possibile? Zuncheddu risponde con le lacrime ad alcune domande. È provato ma appare sincero, autentico nel suo dolore. Quanto ad Alinno Chima, detto «Cisco», uno degli imputati al processo, la Cassazione ha confermato le motivazioni per convalidare la custodia in carcere nei suoi confronti. Le ragioni? «L’assenza di qualunque integrazione dell’indagato sul piano socio-economico in particolare per quanto concerne la disponibilità di lecite fonti di guadagno, la spiccata capacità a delinquere tratta dalla diuturna attività di spaccio e dalla estrema gravità del fatto» scrivono i giudici riferendosi, di fatto, al pericolo di fuga che potrebbe verificarsi se «Cisco» fosse scarcerato. Commenta il difensore, l’avvocato Giuseppina Tenga: «Il Riesame ci aveva dato ragione, ora la Cassazione respinge le nostre richieste. Vedremo cosa stabiliranno i giudici al processo dove ci pare si stia facendo chiarezza».
La mamma di Desirée in aula. «Lei soffriva, io ho chiesto aiuto». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. «Noi due siamo state felici».Nuova udienza sul caso della 16enne morta di overdose dopo essere stata drogata e violentata. Desirée che indossa abiti goffi. Desirée che si sforza di nascondere la propria femminilità. Desirée che, giorno dopo giorno, si chiude nel profondo di sé stessa. Insomma Desirée Mariottini nelle parole di chi l’ha conosciuta e amata, la mamma, le zie, i nonni. Entra nel vivo il processo (celebrato a porte chiuse) per l’omicidio della sedicenne trovata morta in un container del quartiere san Lorenzo il 19 ottobre 2018 con in corpo un mix di sostanze stupefacenti. La prima testimonianza è quasi una prova di sopravvivenza: Barbara Mariottini, la mamma, deve superare le pressioni della difesa che vuole disegnare uno scenario di abbandono attorno alla vittima, drogata, stuprata e lasciata morire. Ma Barbara, devastata eppure composta, risponde, racconta, spiega. La vacanza con la figlia a Terracina («Noi due felici»). Il disagio di Desirée per l’handicap al piede («Si chiudeva in sé stessa») fino al rapporto conflittuale con il proprio corpo. Poi la consapevolezza che la figlia stava sperimentando cocaina e hashish e le denunce, quattro nel giro di un anno alle forze dell’ordine e ai servizi sociali («Ho chiesto aiuto a tutti quelli a cui era possibile farlo»). E ancora: gli episodi controversi. Quella volta che lei, la mamma si risolse a chiedere aiuto al padre(dal quale era separata e che aveva un divieto di avvicinamento del giudice) perché Desirée era introvabile: «Me la riportò ma lei lo denunciò perché aveva violato il divieto di avvicinamento». L’altro caso, poco prima della morte, con l’arresto di Desirée per possesso di sostanze stupefacenti che in realtà, emerge, sarebbero state di due ragazze maggiorenni con le quali la ragazza era uscita quel giorno. Su tutto, lo strazio per la via imboccata dalla figlia. La narrazione di due solitudini, quella di una madre che fatica a comunicare con la figlia e l’altra di una figlia avvitata nella sua stessa introversione. Diverse le interpretazioni offerte in aula. C’è chi come Claudia Sorrenti che assiste le parti civili si dice «convinta che l’udienza ha permesso di approfondire la storia di questa giovane donna ma non ha ancora spiegato i drammatici fatti di quella notte». E si dice fiduciosa che «i consulenti e la polizia scientifica con le loro testimonianze facciano chiarezza». E c’è invece chi, come gli avvocati delle difese sottolinea la difficoltà a gestire la ragazza. Gli imputati Yusif Salia, Mamadou Gara, Brian Minteh e Chima Alinno sono accusati di concorso in omicidio volontario e violenza sessuale di gruppo, e della cessione di sostanze narcotiche e psicotiche, reati aggravati dall’età della ragazza e dalla condizione di impossibilità di difendersi in cui era stata ridotta, dai futili e abietti motivi. Dice Giuseppina Tenga che assiste il nigeriano Alinno: «Più si va avanti nel dibattimento e più emerge il dramma umano della famiglia della vittima». Il 27 gennaio saranno ascoltati il padre e il nonno ma anche gli agenti della squadra mobile che hanno svolto le indagini del pm Stefano Pizza e della coordinatrice del pool dei reati sessuali Maria Monteleone.
"Desirèe fu stuprata da vergine": ora medico smentisce i pusher. Al processo per la morte della 16enne, il medico avrebbe confermato la possibilità che la ragazza fosse ancora vergine al momento dello stupro. Il padre: "Ho cercato di salvarla". Francesca Bernasconi, martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Desirèe Mariottini era vergine quando è stata violentata". Lo aveva ipotizzato il medico legale dopo aver effettuato l'autopsia sul corpo della 16enne trovata morta in uno stabile abbandonato a San Lorenzo, il 18 ottobre del 2018. E ora, secondo quanto riporta il Messaggero, l'ipotesi sarebbe stata riconfermata ieri, a Rebibbia, davanti ai giudici della III Corte d'Assise, nel processo per la morte della ragazza. La 16enne non sarebbe stata pronta a tutto pur di procurarsi la droga e non si sarebbe prostituita e il medico legale che ha svolto l'autopsia, sentito ieri insieme all'anatomopatologo, ha confermato che le lesioni sul corpo di Desirèe sono compatibili con una violenza sessuale e avrebbe anche riferito la possibilità che la ragazza fosse ancora vergine al momento dello stupro, date le "lesioni all'imene". Al processo ha parlato anche il papà di Desirèe, Gianluca Zuncheddu, che tra le lacrime ha detto: "Ho cercato di salvarla ma non ho potuto fare niente". L'uomo ha riferito ai giudici di aver notato un cambiamento in sua figlia e di aver trovato una carta stagnola bruciata, ma non avrebbe potuto fare nulla, dato il divieto di avvicinamento verso la madre della 16enne, sua ex compagna. Sul banco degli imputati ci sono quattro cittadini africani: si tratta di Alinno Chima, Mamadou Gara, Yussef Salia e Brian Minthe, tutti accusati di omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di droga a minori. Intanto. la Cassazione ha confermato la custodia cautelare in carcere per Alinno Chima, detto Sisco, dichiarando inammissibile il ricorso dell'imputato contro l'ordinanza del Riesame che stabiliva la necessità della custodia cautelare in carcere. I giudici hanno riferito che "il rinvenimento delle tracce biologiche di 'Sisco'" su uno dei flaconi di metadone "costituisca conferma" della disponibilità di tali flaconi. Inoltre, la Corte ha ritenuto valido il rischio "del pericolo di fuga e di reiterazione nella commissione di reati". Al processo sono stati sentiti anche i familiari di Desirèe, tra cui la mamma Barbara, le zie e la nonna, che hanno ricostruito i giorni precedenti alla morte della 16enne. Commosse, le 4 donne hanno ricordato il carattere timido e riservato della ragazzina: "Evitava anche di spogliarsi davanti a noi - avrebbe detto la zia, secondo il racconto del Messaggero - Non era drogata, no. Io ho undici anni più di Desirée. Eravamo come sorelle. Da piccole ci scambiavamo i giocattoli, da grandi i vestiti. La portavo a vedere le mostre di Monet. Non aveva mai avuto un fidanzato, mai intimità. Me lo avrebbe detto, mi confidava tutto". "Non era una tossicodipendente- avrebbe detto ai giudici la madre- esageravo nei racconti perché speravo che così attivassero più ricerche e soprattutto che potesse intervenire un giudice che la costringesse ad andare in una comunità per minori problematici".
Adelaide Pierucci e Raffaella Troili per “il Messaggero” il 28 gennaio 2020. Non conosceva l'amore, impacciata e fragile aveva protetto quella parte di sé. Non aveva mai avuto un fidanzato, come tanti adolescenti inseguiva sogni e fuggiva, risucchiata da debolezze più grandi di lei. Quando è inciampata nell'orrore. E ha perso la verginità e la vita. L'aveva detto la nonna, «era poco più di una bambina», come pure i familiari, convinti. Ora la conferma: «Desirée Mariottini era vergine quando è stata violentata», hanno riferito ieri in aula gli esperti chiamati a eseguire l'autopsia sul corpo della 16enne trovata morta in uno stabile abbandonato e occupato in via dei Lucani a San Lorenzo il 18 ottobre 2018. Desirée non era pronta a tutto, in quel covo dove si spacciava droga non era andata per trovare roba a tutti i costi, anche vendendo il suo corpo. Era piuttosto una sprovveduta, che si è fidata di persone sbagliate e tutto questo rende ancor più doloroso ripercorrere gli ultimi momenti di vita della giovane di Cisterna, un'adolescente problematica, tanto che la madre le aveva provate tutte perché fosse ricoverata in una comunità. Inafferrabile, come sono i ragazzi, che davvero poco a volte conosciamo davvero, per quante maschere indossano, spavaldi quanto imberbi. Quanta più cura possibile non rende immuni da sconfitte crudeli. Le trecce colorate e l'apparecchio ai denti, le stravaganze, vanificate dallo sguardo dolce e inquieto, nonostante quel filo di rossetto. Ugo di Tondo, docente di Anatomia patologica e Dino Tancredi, medico legale, entrambi della Sapienza, hanno riferito davanti alla Corte d'Assise chiamata a giudicare quattro giovani africani, di un «rapporto sessuale violento» e «lesioni all'imene» tali da evidenziare che la giovane abbia perso la verginità contro la sua volontà, stordita, offesa, lasciata morire in un vecchia stamberga covo di sbandati, nel quartiere San Lorenzo. Durante il processo si è via via delineata una verità atroce, che rende un poco giustizia alla giovane, drogata e stuprata, una violenza di gruppo a cui il suo cuore non ha retto e si è arreso come lei, per overdose. «Quando è stata trovata era morta da quattro, cinque ore, aveva escoriazioni alle braccia». Forse ha lottato, fin quando è crollata stordita. Il papà, Gianluca Zuncheddu, ascoltato ieri ha raccontato così la sua Desirée: «Era una ragazza debole, se avessi potuto riprendermela l'avrei tirata fuori, l'avrei salvata». L'uomo una settimana prima era andato a casa dell'ex moglie, «volevo portarla via, poi ho visto che aveva del vino nella borsa e le ho dato due schiaffi e sono stato arrestato, giacché c'era nei miei confronti un divieto di avvicinamento per stalking». Dopo la morte della figlia è andato a San Lorenzo: «A cercare la verità, ho svolto mie personali indagini. E scoperto che Desirée era stata tradita, venduta da due amiche, due ragazze di colore. Mia figlia le aveva cercate perché una di loro si era presa il suo tablet». Desirée era esile e timida e soffriva di una lieve zoppìa, hanno testimoniato in precedenza la mamma, la zia e la nonna materna. «Evitava anche di spogliarsi davanti a noi - ha detto la zia - Non era drogata, no. Io ho undici anni più di Desirée. Eravamo come sorelle. Da piccole ci scambiavamo i giocattoli, da grandi i vestiti. La portavo a vedere le mostre di Monet. Non aveva mai avuto un fidanzato, mai intimità. Me lo avrebbe detto, mi confidava tutto. Era stata bullizzata a scuola. La prendevano in giro per il suo problema al piede, una compagna in particolare». Ma prima della scomparsa aveva salutato la mamma dicendo: «Domani andiamo a fare l'iscrizione a scuola». Voleva lasciare l'Agrario per l'Artistico. Non è più tornata a casa. «Seguivo passo passo Desirée ma a volte lei non era gestibile», ha ricordato in lacrime, la mamma Barbara, nell'aula bunker di Rebibbia di fronte alla Corte di Assise chiamata a giudicare per la morte della figlia, Yussef Salia, Alinno Chima, Mamadou Gara e Brian Minthe, ghanesi e nigeriani, tutti accusati di omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di stupefacenti a minori. «Ho presentato quattro denunce di scomparsa - ha spiegato - ogni volta che tardava avvertivo la polizia, appena tornava le ritiravo. L'ultima volta è stata via due giorni. Non l'abbiamo più riabbracciata». «Ma non era una tossicodipendente esageravo nei racconti perché speravo che così attivassero più ricerche e soprattutto che potesse intervenire un giudice che la costringesse ad andare in una comunità per minori problematici. Una volta le ho trovato nello zainetto un piccolo involucro vuoto. Sono andata al Sert e ai Servizi sociali. Chiedevo sempre aiuto. Mi dissero che c'erano tracce di cocaina». Battaglie perse, fughe, bugie. Desirée era solo un'adolescente drogata di libertà, un angelo fragile. Precipitata in un giro sbagliato, da cui forse era attratta come accade a quell'età e attirata in una trappola. Drogata e stuprata, in una bettola senza traccia d'amore.
Buche a Roma, soldi dirottati: indagini anche sui Municipi. Le Iene News il 27 gennaio 2020. L’inchiesta della procura si allarga anche ai 15 municipi della Capitale. Il sospetto è che i soldi destinati alla manutenzione delle strade siano stati dirottati per comprare scrivanie e andare al museo. Intanto 3 ragazzi sono morti per quelle maledettissime buche di Roma come ci ha raccontato Cristiano Pasca. L’inchiesta sulle buche di Roma si allarga dal Campidoglio ai 15 municipi della Capitale. I soldi destinati a riparare le strade sarebbero, secondo l’accusa, finiti in altri capitoli di spesa. L’accusa che si potrebbe profilare è quella di abuso d’ufficio anche se al momento non ci sarebbero iscritti nel registro degli indagati. L’inchiesta è partita lo scorso settembre da un esposto del Codacons che ha ipotizzato che i soldi del Comune per la manutenzione stradale siano stati usati per altri scopi oppure per finanziare anche i bonus o indennità per i vigili. La procura ha acquisito bilanci e contratti d’appalto dei 15 municipi. C’è anche il sospetto di lavori fantasma, annotati nei documenti ma mai realizzati. Insomma, chi doveva vigilare sembrerebbe che non l’abbia fatto. Solo nei primi sei mesi del 2019, gli agenti della Municipale hanno registrato 1 milione e 100mila infrazioni (10% in più rispetto allo stesso periodo del 2018). Una parte dei ricavi di queste multe sarebbero dovuti servire per tappare le buche sulle strade di Roma che continuano a uccidere persone, soprattutto giovanissimi. Con Cristiano Pasca abbiamo raccontato il dramma di questi ragazzi morti per colpa di queste maledettissime buche. Il 6 maggio 2018 è toccato a Elena Aubry, noi de Le Iene abbiamo ascoltato la testimonianza della mamma della 25enne (clicca qui per il servizio). Lo stesso destino crudele è toccato il 12 dicembre 2018 a Luca Tosi Brandi, come potete vedere nel video qui sopra. Aveva 20 anni e quel giorno stava tornando a casa dopo aver preso un bel voto a un esame all’università. A un certo punto forse proprio una buca gli avrebbe fatto perdere il controllo della sua moto. “Si vede il ragazzo che arriva in motorino, entra in una buca al centro della strada. E in quel momento inizia a perdere il controllo del mezzo e va purtroppo a schiantarsi contro lo spigolo di una villa”, ricostruisce Domenico Musicco, il legale della famiglia di Luca. Effettivamente guardando il video sembrerebbe che il ragazzo avrebbe perso il controllo del mezzo subito dopo che la ruota anteriore è entrata in una buca: “La colpa è dell’Amministrazione”, conclude il legale. “Io non ho più riabbracciato mio figlio, l’ho visto poi dentro a un sacco”, dicono i genitori. Intanto sulle strade di Roma si continua a morire. Cristiano Pasca chiede alla sindaca Virginia Raggi perché questi soldi verrebbero spesi in altro. Ora anche la Procura vuole vederci chiaro.
Morte Elena Aubry, 6 indagati per omicidio stradale: “Manutenzione assente”. Notizie.it il 2 agosto 2020. Chiusa l'inchiesta sulla morte di Elena Aubry, deceduta a Ostia a causa dell'asfalto sconnesso: chi doveva salvaguardare la strada non l'ha fatto. Erano circa le 10.30 del 6 maggio 2018 quando Elena Aubry perse la vita in un incidente in via Ostiense, all’altezza del Cineland, a Ostia. La 26enne alla guida della sua moto, una Honda Hornet 600, ha perso il controllo a causa dell’asfalto sconnesso e si è schiantata contro il guard rail. La ragazza è morta sul colpo. La madre non si è mai data pace e da anni chiede giustizia per la figlia così prematuramente strappata alla vita. Parlando di “quello schifo di strada“, mamma Graziella commentava così quanto accaduto alla figlia: “La strada è devastata. Mi chiedo come sia possibile che una strada così importante sia tenuta così male”. “Un testimone ha riferito di averla vista sobbalzare all’improvviso, nonostante andasse piano. Mia figlia guidava sempre con prudenza”, raccontava la madre. A distanza di poco più di due anni da quel drammatico incidente, si è conclusa l’inchiesta sulla morte di Elena Aubry. Sono 6 le persone indagate per omicidio stradale. Roma e le sue buche continuano a seminare morte. Per l’omicidio stradale di Elena Aubry, la procura ritiene che la responsabilità sia di chi avrebbe dovuto salvaguardare la strada, ma non lo ha fatto. Così a finire nel registro degli indagati sono due dirigenti del Simu, il dipartimento Sviluppo infrastrutture e manutenzione del Campidoglio, e un collega del municipio di Ostia che si occupa di manutenzione stradale. Con loro è accusato anche il responsabile della ditta che ha steso l’asfalto e i due delegati che dovevano controllare periodicamente che non vi fossero buche e che non l’hanno fatto. Il reato non è omicidio colposo, ma stradale, per il quale sono previste pene più severe. Chiuse le indagini, verrà presentata la richiesta di rinvio a giudizio. Dopo essersi sfogata contro chi aveva rubato le ceneri della sua Elena, Graziella Viviano, madre della giovane motociclista, ha commentato la chiusura dell’inchiesta: “Spero che il processo imponga quanto dovrebbe essere ovvio: le strade vanno curate altrimenti si muore. Purtroppo c’è voluta la morte di mia figlia per svelare quanta indifferenza c’è su questo tema nella pubblica amministrazione”.
La scure del Comune sui pini di Roma, alla faccia delle politiche "green" della Raggi. L'ipotesi dell'abbattimento indiscriminato dei pini marittimi di Corso Trieste ha riacceso i riflettori sull'annosa questione della tutela del verde di Roma: "Si preferisce tagliare invece che curare". Elena Barlozzari, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Gli iconici pini marittimi di Corso Trieste sono sorvegliati speciali del Comune di Roma. La politica della prevenzione, da tempo, in questa città, è stata messa da parte. E così, l'ennesimo crollo, nel quale è rimasta addirittura coinvolta un'automobilista, ha messo l'amministrazione con le spalle al muro. Dopo aver ignorato i continui campanelli d'allarme, il Campidoglio si è trovato di fronte all'ennesima emergenza. Che fare? Tra le soluzioni strategiche messe in campo dal dipartimento Tutela ambiente nel corso di un vertice straordinario ce n'è una che ha sollevato una vera e propria levata di scudi. Si parla dell'abbattimento di 157 piante su 160. Una soluzione drastica che, qualora venisse adottata, stravolgerebbe irrimediabilmente la fisionomia del quartiere. Residenti e comitati sono sul piede di guerra. Pronti a difendere con le unghie e con i denti il doppio filare di alberi disegnato dall'architetto De Vico negli anni Trenta. "Non tutti i pini della strada sono arrivati a fine vita - tuona Emanuela Migheli, del comitato Salviamo i Pini di Corso Trieste - perché nel corso del tempo sono state effettuate delle sostituzioni". "Certo, - ammette l'attivista - sappiamo che ci sono delle criticità, ma non crediamo sia necessario desertificare il corso". Insomma, per la Migheli, il taglio indiscriminato non può e non deve essere la soluzione. "Non si demolisce un edificio solo perché alcune delle sue parti sono da sostituire, ecco - riflette Susanna Spafford, presidente dell'associazione Amici dei Pini di Roma - vorremmo che anche per il filare di Corso Trieste si ragioni in questi termini". I pini, sostengono in coro le attiviste, non sono pericolosi di per sé. La trovata dei tecnici capitolini non convince neanche gli amministratori locali. "Il problema della sicurezza dei cittadini esiste e non va sottovalutato - puntualizza Rino Fabiano, assessore all'Ambiente del II Municipio - tuttavia ci opporremo alla desertificazione di Corso Trieste. É d'accordo anche il consigliere di Fratelli d'Italia Holljwer Paolo che ha già presentato una mozione sull'argomento. "Quello che chiediamo è un serio monitoraggio delle alberature da parte del Comune di Roma per capire quali sono effettivamente le piante da abbattere", spiega l'esponente di centrodestra. "Gli alberi irrecuperabili - sottolinea - vanno eliminati e sostituiti con le stesse essenze arboree, mentre quelli salvabili vanno curati". Il caso ha inevitabilmente rimesso al centro del dibattito l'annosa questione della tutela del verde di Roma che, nel corso delle ultime amministrazioni, è stata lentamente trascurata. E così la situazione di Corso di Trieste è diventa emblema di un fenomeno che riguarda l'intera città. "Se gli alberi cadono, - chiarisce Fabiano - cadono per una mancanza di cura". D'altronde, prosegue l'assessore, "per la manutenzione del verde orizzontale sono stati investiti appena 5milioni di euro, mentre il fabbisogno sarebbe di 300milioni". Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Da quando il servizio giardini è stato smantellato, spiega la Stafford, "la manutenzione del verde di Roma è stata affidata sostanzialmente a dei taglialegna, a ditte non specializzare sulla base di capitolati generici, e si è pensato solo a tagliare e mai a curare". Un vero paradosso nell'era di Greta Thumberg e dell'ossessione "green". Soprattutto in una città come Roma, la più verde d'Europa. Dove nel nome della lotta alle polveri sottili vengono squalificate le auto diesel per intere giornate. "É assurdo che un'amministrazione che si ammanta di condurre politiche ambientaliste poi prenda in considerazione una proposta del genere", attacca la Migheli. Il cortocircuito è servito. D'altronde, come insegnano anche i fatti di Monte Carnevale, questa è la città delle eterne contraddizioni.
Mario Landi per leggo.it il 21 gennaio 2020. Dieci giorni e un'intera mattinata fermi, completamente fermi nell'ingorgo- Immaginate che inferno: eppure accade regolarmente a Roma, seconda città al mondo per ore perse nel traffico urbano. Ben 254, preceduta solo da Bogotà. Milano, con 226 ore (in pratica 9 giorni e mezzo in un anno), è settima. La Global scorecard della società americana Inrix è impietosa soprattutto con l'Italia nell'analisi dei trend della mobilità e della congestione urbana in 200 città di 38 Paesi, riferito al 2018. Nella parte alta della classifica ci sono infatti molte rappresentanti del Belpaese: basta scorrere fino al quindicesimo posto per trovare Firenze, mentre al diciassettesimo c'è Napoli. Chiude la top 100 mondiale made in Italy Palermo, città dove nel film di Roberto Benigni Johnny Stecchino si celebrava ironicamente il traffico come il più grave problema urbano: il capoluogo siciliano viene collocato all'83esima posizione, grazie alle 119 ore buttate con il motore acceso dell'auto ma sostanzialmente fermi per strada.
IL METODO. Ma come vengono elaborati queste classifiche? Per ciascun'area metropolitana, l'analisi di Inrix (proprietaria di un archivio dei dati che include diversi anni) considera i rilevamenti forniti dalla propria rete sulle principali autostrade e arterie stradali. Le varie analisi incluse nel rapporto comprendono due elementi portanti: la velocità di riferimento in condizioni ottimali e la velocità calcolata, in cui vengono considerate tutte le velocità archiviate in periodi di 15 minuti nell'arco di un giorno e di un mese per ogni segmento stradale.
LE PIÙ CONGESTIONATE. Perdere molto tempo fermi nel traffico non corrisponde però alla graduatoria delle città più congestionate: i dati confluiscono infatti in un'altra classifica generale, che tiene conto degli ostacoli complessivi nell'attraversare una metropoli in auto. Roma (seconda al mondo per ore perse nel traffico) resta nella top ten, al decimo posto. Milano si attesta al 27esimo, Napoli al 45esimo, Torino al 50esimo, Genova al 78esimo, Palermo all'83esimo, Firenze al 92esimo, Bologna al 116esimo. Il titolo di città più congestionata al mondo va a Mosca, seguita da Istanbul.
Roma seconda al mondo per ore perse nel traffico: sono 254 all’anno per ogni cittadino. Redazione de Il Riformista il 20 Gennaio 2020. Roma e Milano sono tra le città peggiori al mondo per le ore perse nel traffico. Secondo il Global card scorecard di Inrix, a Roma nel 2018 si sono passate in media 254 ore l’anno nel traffico veicolare: più caotica solo Bogotà, con 272 ore. Al terzo posto Dublino (246 ore), davanti a Parigi (237), la russa Rostov-on don (237) e Londra (227). Settimo posto per Milano con 226 ore. A livello europeo, nella classifica delle città più trafficate guida la classifica Mosca, seguita da Istanbul e Londra, al quarto posto San Pietroburgo.
LE ACCUSE DAL CODACONS – La ricerca che vede Roma al secondo posto nella classifica mondiale per ore perse nel traffico dimostra, secondo il Codacons, “come la viabilità nella capitale sia al collasso, a danno degli automobilisti che sprecano tempo prezioso imbottigliati ogni giorno nelle proprie autovetture”. “Si tratta di una vera e propria violenza verso i cittadini, che sprecano ogni anno 254 ore nel traffico – spiega il presidente Carlo Rienzi – Dati così disastrosi sono motivati dall’incapacità dell’amministrazione da un lato di incentivare l’uso dei mezzi pubblici, dall’altro di garantire un servizio di metro, bus e tram adeguato ed efficiente”. “I romani non si fidano del trasporto pubblico e continuano a muoversi in auto alimentando il traffico – prosegue Rienzi – L’assenza di vigili urbani sulle strade, la sosta selvaggia e altre criticità croniche della viabilità capitolina, aggravano le code chilometriche su numerose arterie, con la conseguenza che i cittadini subiscono una vera e propria violenza rimanendo per ore imprigionati nelle proprie auto”.
Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti per ilgiornale.it il 13 gennaio 2020. Le Mura aureliane hanno difeso la capitale dell'Impero dall'avanzata dei barbari, ma Roma le ha dimenticate, lasciandole in balia di degrado e accampamenti abusivi. Basta costeggiarle a piedi per rendersene conto. In alcuni casi la vegetazione è così fitta da oscurarle. Le cinta murarie sono spesso minate dalle piante infestanti o imbrigliate da eterne recinzioni. Bottiglie di birra e siringhe, invece, raccontano delle notti brave, quelle che si consumano quando il monumento si popola di clochard e sbandati. Lungo i quasi tredici chilometri di Mura che cingono il centro della città, tutto parla la lingua dell'abbandono. "Ogni tanto c'è qualche intervento spot, ma dopo poco - ci spiega Paolo Peroso, dell'associazione Amici di Porta Pia - la situazione ritorna come prima". "Si lavora sempre sull'emergenza - accusa - e non nel quotidiano". È il caso della maxi baracca comparsa qualche tempo fa a ridosso della fortificazione, all'altezza di Corso d'Italia. "L'hanno buttata giù - racconta Peroso - ma nessuno è venuto a portare via la sporcizia". E così, è ancora possibile ammirare una distesa di indumenti, vettovaglie, plastiche e immondizia. Per chi non è pratico di Roma, forse, sembrerà un'assurdità. Eppure la presenza di accampati all'ombra delle Mura è un fenomeno ultraventennale. I luoghi più gettonati sono le uscite di emergenza del sottopasso Ignazio Guidi. Spazi bui, sudici e maleodoranti, dove le cataste di immondizia sbarrano il passo mettendo a repentaglio la vita di chi guida. "Queste sono uscite di sicurezza e la legge dice che devono essere libere da qualsiasi impedimento, invece, - denuncia Peroso - se dovesse scoppiare un incendio gli automobilisti le troverebbero inagibili. Cosa aspettano a bonificarle?". Non certo che ci scappi il morto, visto che proprio in uno dei sottopassi di Porta Pia un delitto c'è già stato. Quello di Norma Maria Moreira De Silva, la clochard brasiliana violentata ed uccisa da un balordo a novembre del 2017. "A distanza di più di due anni - constata amaramente Peroso - non è cambiato nulla". Anzi. Per ripararsi dal freddo, i senzatetto hanno colonizzato ogni anfratto. Non c'è una sottovia che non sia abitata. Anche quella che affaccia su via Campania, a poche decine di metri da via Veneto, la strada della Dolce Vita. Qui vivono quattro persone. Un russo, un lituano, un moldavo e un serbo. Li troviamo adagiati su dei vecchi materassi, immersi nella penombra. Sembrano dei fantasmi. Sono le undici di mattina è sono già storditi dall'alcol. Risalendo in superficie, poi, la scoperta. Sui mattoni di tufo vecchi migliaia di anni svetta una tenda, al di là della quale si è sistemato Bobo, un anziano senzatetto che ha perso entrambe le gambe. Ha ricavato un mini appartamento in un varco. "Sono in Italia da più di vent'anni e non ho mai avuto una casa", ci rivela. Lui è uno di quelli che in strada ci stanno per scelta. "Nel dormitorio - dice - non ci voglio andare". Non ha paura. "Mi protegge Dio", sentenzia facendosi il segno della croce. "Anche se - ci confessa - qui c'è gente che beve troppo e rischia di fare una brutta fine". I residenti, invece, qualche preoccupazione in più la nutrono. "Certo, - ragiona Peroso - non tutte le persone che vivono per strada sono pericolose, però da qui sono transitati tanti delinquenti". "In passato abbiamo avuto parecchia paura - racconta - perchè c'erano gruppi di alcolizzati che terrorizzavano il quartiere, diverse donne sono state pedinate e importunate". A nulla servono denunce ed esposti. "Non è possibile - tuona Holljwer Paolo, consigliere del II Municipio di Fratelli d'Italia - che un monumento importante come le Mura aureliane, che dovrebbe essere patrimonio non solo dei romani ma dell'intera umanità, si sia trasformato in un ricettacolo di sbandati dal quale è meglio tenersi alla larga". "Non bastano gli interventi sporadici, ci vuole più attenzione da parte del servizio giardini e di Ama perché - aggiunge - è proprio il degrado a favorire queste situazioni".
Dagospia il 20 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: OGGETTO: “Forse sarà la volta buona che tolgono la monnezza. Tom Cruise approda a Roma per il suo nuovo film” –Dagospia, 18 gennaio. Caro Dago la monnezza a Roma non è “Mission Impossible” ma “Ogni maledetta Domenica”…quindi mentre aspettiamo Al Pacino…”lottiamo un centimetro alla volta”. Stefano Zaghis Amministratore Unico di Ama S.p.A.
Alessandro Barbera per “la Stampa” il 20 gennaio 2020. «Noi tuteliamo la salute pubblica!». Virginia Raggi non sapeva come cavarsi d' impaccio. Travolta dalla rabbia di migliaia di romani costretti d' inverno a lasciare in garage l'ecologissimo diesel euro sei, ha usato un argomento logicamente ineccepibile: adeguatevi. Per il sindaco di Roma è un collaudato strumento di comunicazione. Se la città soffre di problemi endemici, vengono da lontano e la colpa non è sua. Piaccia o no, i romani se ne devono fare carico. Purtroppo per lei spesso questa narrazione non regge. Prendiamo i rifiuti, che qui costano la più alta tariffa comunale d' Italia: 268 euro l' anno. Nei dieci minuti in cui la Raggi confermava ai giornalisti la decisione di bloccare le euro sei, partiva il viaggio di un Tir - rigorosamente diesel di vecchia generazione - verso uno dei termovalorizzatori e discariche sparsi in otto Regioni. Ogni giorno dai depositi Ama partono fra i 160 e i 180 autoarticolati, sette ogni ora. Nei prossimi mesi saranno molti di più. La gestione dei rifiuti da parte dell' azienda municipalizzata romana è sempre più precaria. I pochi impianti di smaltimento a disposizione della città stanno venendo meno uno a uno. A ottobre 2018 la Regione Lazio ha chiuso il termovalorizzatore di Colleferro. Due mesi dopo è andato in fiamme - e distrutto per sempre - l' impianto di trattamento meccanico-biologico di via Salaria, uno di quegli stabilimenti in cui si triturano i rifiuti indifferenziati e si divide ciò che va in discarica da ciò che viene bruciato negli inceneritori. Colleferro al limite di utilizzo Dal 15 gennaio è chiusa per sempre anche la discarica di Colleferro, un impianto in grado di accogliere ogni giorno oltre mille tonnellate di materiali: è arrivata al limite di utilizzo. L' Ama ormai gestisce un solo stabilimento a Rocca Cencia, ma presto dovrà essere chiuso per manutenzione. Oggi l' autonomia del Comune nel trattamento e smaltimento dei rifiuti è ridotta al 23%. Quando chiuderà Rocca Cencia, quella percentuale scenderà a zero. A Milano sfiora il 100%. Gli unici impianti funzionanti resteranno i due a Malagrotta di Manlio Cerroni, noto in città come il re della monnezza. E' l'epilogo di quattro anni di ideologia a Cinque Stelle, che tratta i rifiuti come se dovessero sparire per autocombustione. I cittadini che abitano nei pressi degli impianti applaudono, il resto della città soffre. Il no a qualunque impianto ha solo aggravato la dipendenza dalle altre Regioni, aumentando i costi: per smaltire una tonnellata di rifiuti ora sono necessari 236 euro, tre anni fa erano meno di 200. La media del mercato è circa 150. Per l' incapacità cronica di gestire la macchina dello smaltimento, Ama lascia per le strade una media di mille tonnellate di rifiuti, oltre un quinto di quelli che vengono prodotti ogni giorno in città. Per capire il criterio che muove la gestione dell' emergenza, basta un giro turistico fra i cassonetti: l' attenzione al decoro si concentra nel centro storico e i quartieri limitrofi a più alta densità di popolazione. Più ci si allontana, più i luoghi di raccolta si allontanano dalle case, più è facile trovare montagne di rifiuti agli angoli delle strade. A Tor Bella Monaca, Portuense, Casilino, ma anche nell' elegante quartiere collinare della Balduina o a Montesacro. A Natale - quando ancora Colleferro funzionava a pieno regime - all' Ama sono arrivati 40 mila reclami, 12 mila in più di novembre. A Roma non c' è solo un problema di smaltimento, ma anche una cronica inefficienza dell' Ama nella raccolta. Per evitare l' accumularsi dell' immondizia attorno ai cassonetti, da questo mese quasi tutto il personale è stato sottratto dalla mansione "meno urgente" della pulizia delle strade. Il 40% dei mezzi è fuori uso A Prati - un quartiere pieno di platani centenari - nessuno ha ancora raccolto le foglie autunnali. Nei palazzi capitolini si stima che il 40% dei mezzi sia fuori uso, il tasso di assenteismo è schizzato dal 12% al 20%. Solo a dicembre - chissà perché - sono raddoppiati gli inabili al lavoro: da 88 a 166. Di recente la percentuale di raccolta differenziata è scesa al 42%: secondo i piani avrebbe dovuto essere oltre il 55%. Se non si trattasse di un' azienda pubblica foraggiata da lauti trasferimenti, Ama sarebbe fallita da un pezzo: ha cambiato 7 manager in 3 anni e mezzo e non approva un bilancio dal 2016. Poiché molti fornitori - a partire da quelli che gestiscono la raccolta differenziata - non vengono pagati regolarmente, capita sempre più spesso che le gare di appalto vadano deserte. Ora l' azienda è in mano a Stefano Zaghis, molto vicino alla Raggi, un curriculum lungo di esperienze nel marketing e nell' immobiliare, ma non nel settore in cui dovrebbe avere qualche competenza. Negli ultimi giorni in Campidoglio è stata rivista l' ex assessore all' Ambiente Paola Muraro, che, invece, il settore lo conosce bene. Già consulente del Comune, si dovette dimettere dopo essere stata coinvolta in un' inchiesta per truffa a dicembre di tre anni fa. A partire dall' estate, e inevitabilmente dopo la nascita del governo giallorosso, la Raggi è diventata un problema serio per Nicola Zingaretti. Di fronte alla prospettiva di essere travolto dal problema dei rifiuti, il presidente della Regione Lazio ha dovuto darle una mano. Ha minacciato il commissariamento del Comune, un potere che la legge gli attribuisce. Per tamponare l' emergenza dovuta alla chiusura di Colleferro ha chiesto aiuto ad altre Regioni: da questo mese aumenterà l' export di rifiuti verso Lombardia, Puglia, Marche e Abruzzo. Aumenteranno le esportazioni all' estero, ma per arrivarci occorrerà una gara. La svolta sono le due ordinanze - a luglio e novembre scorso - con cui la Raggi è stata costretta a individuare una soluzione strutturale. Per mesi ha tentato di accollare la responsabilità dello smaltimento alla Regione. Eppure la scelta politica su dove individuare i siti idonei dei singoli Comuni spetta ai sindaci: è quanto accaduto in una riunione urgente della Giunta il 31 dicembre. La Raggi ha finalmente deciso: propone una nuova discarica a Montecarnevale, non lontano da Malagrotta, chiusa da Ignazio Marino fra gli applausi. In casa Cinque Stelle è scoppiata la rivolta guidata da Roberta Lombardi. Molti scommettono che la sindaca non avrà il coraggio di andare fino in fondo (la Regione aspetta ancora la comunicazione della delibera), ovvero la discarica a Montecarnevale resterà un impegno sulla carta fino alle elezioni del 2021. Oggi conta la nemesi: al grido "no agli inceneritori" (l' importante è che funzionino quelli altrui) e in attesa di realizzare l' utopia dei rifiuti zero, a Roma si cerca nuovi posti per sotterrarli.
Roma Capitale delle buche Raggi bocciata da 7 su 10. Pier Francesco Borgia, giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Momenti difficili per Virginia Raggi. La sindaca di Roma ha perso la sua persona battaglia (e forse la faccia) nell'indicazione di un luogo dove collocare la nuova discarica della città. L'assemblea capitolina, infatti, ha dato parere negativo alla delibera di giunta che indicava nella località di Monte Carnevale (nel quadrante occidentale della periferia romana, a metà strada tra l'aeroporto di Fiumicino e la vecchia discarica di Malagrotta) il sito adatto per la realizzazione della nuova discarica. E questo nonostante la sua maggioranza sia praticamente «bulgara» e monocolore. Ben 12 i consiglieri che hanno votato contro, mentre in quattro si sono astenuti (altri dieci erano assenti). Soltanto in tre hanno votato in favore della delibera. Nei giorni scorsi era poi uscita anche era apparso un sondaggio dell'Istituto Piepoli che mostrava con evidenza di numeri quanto sia in fase discendente la parabola della Raggi. Come potenziale sindaco (si vota tra 18 mesi), i romani hanno più fiducia in Giorgia Meloni (24,3%) che nell'attuale prima cittadina (17,3%), tallonata a sua volta da Enrico Letta (16,3%) che peraltro non compare spesso in pubblico e che non ricopre alcun incarico politico. Il sondaggio misura anche la percezione del lavoro svolto dalla giunta grillina e il 71% degli intervistati si ritiene insoddisfatto. Tre romani su quattro poi bocciano il lavoro degli assessori. Una Caporetto senza appello. E come ultima «mazzata» all'immagine della sindaca grillina, ecco l'allarme lanciato ieri dai geologi: Roma capitale delle voragini. Solo nel 2019 se ne contavano più di cento. E per avere un termine di paragone basta spostarsi fino a Napoli (città sotterranea per eccellenza), dove nello stesso arco di tempo se ne sono registrate appena venti. «E basta tornare indietro al 2018 per trovare l'anno dei record - ricorda la geologa dell'Ispra Stefania Niso all'AdnKronos -. Numeri che fanno di Roma la Capitale delle voragini con record europeo e forse mondiale». Le emergenze a Roma ormai non si contano più: dai trasporti ai rifiuti, dalla sicurezza al traffico. In un tale situazione viene facile chiedere alla prima cittadina un passo indietro. Il voto dell'aula Giulio Cesare ha fatto usare alla leghista Barbara Saltamartini l'espressione «una donna sola al comando». Una donna e una militante grillina cui da molte parti si consiglia un passo indietro e una rinuncia. Ovviamente la sindaca tira dritto ma l'aria inizia a essere irrespirabile sul colle capitolino. E il nervosismo aleggia come una coltre spessa tanto che anche il marito della sindaca è intervenuto con un post sui social postando nomi e cognomi dei consiglieri capitolini del Movimento che hanno votato le mozioni avanzate da Fratelli d'Italia e Partito democratico per far annullare la delibera di giunta sulla discarica di Monte Carnevale. Insomma una sorta di «lista di proscrizione» a uso interno del Movimento per iniziare a fare i conti. Per vedere chi sono i fedelissimi e quelli che non lo sono più. Forse è già iniziata la campagna elettorale. E la lista, prodotta da Andrea potrebbe essere un punto di partenza per le «primarie» con le quali verranno scelti i prossimi («fedelissimi») consiglieri comunali del Movimento Cinquestelle.
Manuel Bortuzzo: «Non ero io quello sbagliato al posto sbagliato. Loro hanno sbagliato vita». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Il 2 febbraio 2019 Manuel Bortuzzo è stato colpito alle spalle da un colpo di pistola, costringendolo sulla sedia a rotelle. Ora, poco più di un anno dopo il nuotatore italiano ripercorre quei momenti tragici raccontando la sua storia in televisione a «La vita in diretta». La chiama «quella notte» senza aggiungere altre parole. Ma non ha rancore nel cuore, soltanto una grande fiducia per il futuro. «Non ero io quello sbagliato, al posto sbagliato al momento sbagliato. Io stavo facendo la mia vita, come qualsiasi altro ragazzo. Sono loro che hanno sbagliato vita. Io non c’entravo niente» ha detto l’atleta romano accolto in studio da un applauso fragoroso. La forza per ricominciare non gli manca, tempo fa in una intervista alla rivista 7 aveva detto: «Tra 10 anni sarò in piedi» e anche il suo libro sulla vicenda già dal titolo, «Rinascere - L’anno in cui ho ricominciato a vivere», fa capire qual è il suo spirito: fiducioso e battagliero. «La parola “rinascere” era quella che poteva racchiudere tutto quello che è successo - ha detto in tv - da quel momento del 2 febbraio in poi. Dal risvegliarsi dal coma al semplice provare a tornare a camminare. Ogni cosa che facevo per me era una rinascita. Alla fine il significato che gli do più spesso è cercare di stare bene ogni giorno. La rinascita è ogni giorno, ogni volta che trovo un motivo di star bene». Il 2 febbraio 2020, a un anno esatto di distanza, il padre Franco ha pubblicato una foto su Facebook per ricordare quella terribile notte di Manuel, con la didascalia: «È passato un anno. Più forti di prima. Daje». Le frasi accompagnano un’immagine del nuotatore che mostra il nuovo tatuaggio con due angeli, simbolo proprio della rinascita.
Manuel Bortuzzo, un anno fa lo sparo che gli ha cambiato la vita. Il papà: «Più forti di prima. Daje». Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Clarida Salvatori. Franco Bortuzzo ricorda l'anniversario con un post su Facebook. È passato un anno da quella tragica notte. Un anno da quando la sua vita è cambiata. La sera prima era un giovane della provincia veneta, appena arrivato nella Capitale con una valigia di sogni, tutti da realizzare tra vasca, piscina e cloro. La mattina successiva, per tutti lui era Manuel Bortuzzo. Colpito per errore da due balordi. Colpito alla schiena, da alcuni colpi di arma da fuoco. che lo costringeranno su una sedia a rotelle. Il primo a ricordare la data spartiacque nella vita di Manuel e della sua famiglia, oggi è papà Franco, in un post sul suo profilo Facebook. «È passato un anno. Più forti di prima. Daje». Parole accompagnate da una bellissima foto di Manuel che mostra il suo nuovo tatuaggio con due angeli. Simbolo della rinascita. Era la notte tra il 2 e il 3 febbraio del 2018 quando in piazza Eschilo, all'Axa-Casal Palocco, tre colpi di pistola raggiungono un 19enne promessa del nuoto italiano. Una pallottola lo colpirà alla schiena, andandosi a conficcare in una vertebra e lo lascerà paralizzato dalla vita in giù. Dopo i due interventi chirurgici e un coma farmacologico durato giorni. Manuel al suo risveglio sorprende tutti. Accetta quello che la sorte gli ha riservato con una forza, una grinta ed un'energia rare. Inizia subito il suo percorso di riabilitazione all'ospedale Santa Lucia, nella Capitale, e torna immediatamente in piscina. Anche per questo il mondo dello sport, e non solo, si mobilita per lui, mostrando solidarietà, vicinanza e attivando anche una raccolta fondi per sostenere il suo percorso. Chi gli ha sparato, subito dopo fugge a bordo di uno scooter. Ma dopo qualche giorno Lorenzo Marinelli, 24 anni, e Daniel Bazzano, 25, si costituiscono. Sono entrambi di Acilia, incensurati ma legati alla criminalità locale. Furiosi per una lite avuta in un pub vicino al luogo dagli spari (forse legata allo spaccio), avevano impugnato una calibro 38 e fatto fuoco su un obiettivo che somigliava a chi li aveva picchiati. «Pioveva, era buio, è stato un errore. Non volevamo sparare a lui», si giustificheranno davanti agli inquirenti. Il pubblico ministero al processo gli contesterà il duplice tentato omicidio aggravato dalla premeditazione, da futili e abietti motivi, ma anche rissa e detenzione abusiva di armi e chiederà per loro 20 anni. Il giudice ne accorderà 16. Anche in questa occasione Manuel si dimostra una persona dal cuore grande e non tradisce rancore per chi lo ha costretto su una sedia a rotelle: «La sentenza non cambia la mia condizione, ma ho tante altre cose a cui pensare, tra cui riprendermi e tornare a camminare- commenta Bortuzzo in un video postato sui social -. La giustizia farà il suo corso a me non importa tanto se gli daranno 16 o 20 anni».
Da roma.fanpage.it il 4 febbraio 2020. È trascorso un anno dalla notte tra il 2 e 3 febbraio del 2019, quando un colpo di pistola ha raggiunto alla schiena Manuel Bortuzzo, mentre si trovava in strada con la fidanzata nel quartiere Axa a Roma. Il nuotatore diciannovenne finito sulle pagine di tutti i giornali per essere rimasto ferito gravemente da uno sparo che gli ha provocato una lesione al midollo spinale, ha celebrato la sua ‘rinascita' con un nuovo tatuaggio. Manuel lo mostra soddisfatto alzando leggermente la manica della t-shirt. L'immagine d'inchiostro ricopre il braccio sinistro: due angioletti che sorreggono un velo. A pubblicarla su Facebook papà Franco, che ha scritto: "È passato un anno. Più forti di prima". Una ‘rinascita' che per Manuel significa uno sguardo positivo verso la vita, sopravvissuto per miracolo al proiettile, per soli 12 millimetri, diversamente avrebbe colpito l'aorta femorale. La giovane promessa del nuoto, che sognava le Olimpiadi, con molta determinazione, ha ricominciato ad allenarsi e sta continuando la sua terapia di riabilitazione con la speranza di poter tornare a camminare.
Raffaella Troili per il Messaggero il 4 febbraio 2020. Due angeli contro il male, che sanno di sfida alla malasorte, che vogliono dire speranza. E lui, più forte del proiettile nella schiena, della paralisi, della vita in salita, della rabbia. È passato un anno da quel tragico sabato sera in cui Manuel Bortuzzo, promessa azzurra del nuoto di 19 anni, venne ferito per sbaglio in piazza Eschilo all'Axa da due giovani di 24 e 25 anni in scooter . «È passato un anno, più forti di prima, daje». Questo il messaggio pubblicato ieri su Facebook dal padre Franco Bortuzzo, perché né lui né suo figlio smettono di stupire per il coraggio e la determinazione. Sul social il signor Bortuzzo che ha seguito passo passo la ripresa eroica del figlio, costretto da quel giorno su una sedia a rotelle, ha postato una foto del figlio che mostra un tatuaggio sul braccio sinistro che raffigura due putti. Lo sguardo fiero del guerriero, Manuel si è fatto tatuare due angeli e li mostra orgoglioso a chi ha seguito la sua tragedia ed è rimasto colpito dalla sua forza di volontà. È tornato in acqua e non molla, non ha perso il sorriso. «È più forte di me sia in acqua che fuori», disse il papà all'indomani della tragedia. Una tragedia assurda: quella notte, tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, dal quartiere San Giorgio di Acilia partì un commando, una spedizione punitiva, a farne le spese il giovane atleta che era di spalle, davanti a un distributore di sigarette, con la fidanzata Martina. S'imbatterono in quei due strafatti che spararono a caso, in sella a uno scooter, gridando «ci prendiamo la piazza». L'agguato era scaturito dopo una lite in un pub dell'Axa con i figli del boss Iovine. Il colpo di pistola alla schiena lesionò il midollo. Manuel si risvegliò, sì, ma senza l'uso delle gambe, a informarlo sempre papà Franco, sempre al suo fianco. E uscì dall'ospedale dopo due settimane, pronto a leccarsi le ferite, anzi a mostrare a tutti la sua voglia di riscatto, di vincere la sfida più dura a cui la vita l'ha messo di fronte. A marzo era in acqua, per la riabilitazione, nel suo mondo preferito. «L'acqua è la mia vita».
LA RIPRESA. «Sono sempre stato abituato a dare il massimo e l'ho fatto anche in questa circostanza. Non ne potevo più di stare inchiodato a quel letto, di dipendere da qualcun altro in tutto e per tutto». E ha commosso l'opinione pubblica, Roma l'ha abbracciato e riaccolto, in una gara di solidarietà pari alla stima di crescente verso questo giovane che non si è mai arreso. Mai una parola sopra le righe nei confronti di chi la vita gliel'ha rovinata: ci ha pensato il gup di Roma Daniela Caramico D'Auria con una condanna a sedici anni di reclusione nei confronti di Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzano. «Ho conosciuto l'abisso della disperazione, e ne sono venuto fuori, ora posso dirlo, sulle mie gambe», ha detto Manuel di recente presentando il suo libro. Non ha smesso di sognare. Vuole tornare a camminare, vuole un figlio. Ieri era al Teatro dell'Opera al concerto per l'apertura delle celebrazioni dei 150 anni di Roma capitale. Intanto a Treviso ha superato l'esame per la patente B speciale ed è tornato a Roma guidando felice i primi cento chilometri. Al suo fianco, un altro leone, papà Bortuzzo.
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 10 gennaio 2020. «Non m' andava che succedeva... pure per quel poraccio... quello non cammina più. È partito tutto per un "che c...o vuoi"». Intercettato durante un colloquio in carcere, Daniel Bazzano aggiunge l' ultimo tassello di verità all' agguato nel quale Manuel Bortuzzo è rimasto senza colpe paralizzato il 3 febbraio scorso. La rissa che innescò la vendetta sbagliata su di lui nacque dall' ubriachezza di un amico dei due condannati, che nell' Irish pub di piazza Eschilo urlava i cori della Roma e urtava tavoli e sedie. Scatenando così la reazione dei presenti e di un cuoco del locale. La frase è riportata nelle motivazioni alla sentenza del 9 ottobre con cui il gip ha condannato Bazzano a 16 anni in abbreviato assieme a Lorenzo Marinelli per il tentato omicidio del 19enne nuotatore azzurro e della sua ragazza. E, confermata da altre testimonianze portate a processo dal pm Elena Neri, rivela che Bortuzzo non ha rischiato la vita in un regolamento di conti tra bande di spaccio, come ipotizzato finora, ma per una banale lite tra clienti di un locale «ragazzi ben vestiti con capi casual e accento romano». Nessuna attenuante va concessa, secondo il giudice, ai due aspiranti killer: «Deve evidenziarsi - scrive - come nessun particolare tratto positivo possa cogliersi nella loro condotta». La loro confessione «risulta dettata da intenti utilitaristici e non da effettiva resipiscenza» e «la gravità del fatto, l' assoluta superficialità nell' individuare la vittima, la condotta successiva (la fuga, l'incendio dello scooter, la non collaborazione per far ritrovare l' arma, le bugie sulla latitanza, ndr) impone una pena elevata». Il giudice esclude i futili motivi ma riconosce la premeditazione: «Dopo la rissa, in tempi brevi gli imputati maturano il loro disegno criminoso anziché tornare nelle loro abitazioni». Una condotta «incompatibile con il dolo d' impeto e viceversa indice di un radicamento e di una persistenza del proposito criminoso nella loro psiche».
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 15 gennaio 2020. È Daniele Ferri uno dei capi della droga a Roma. Ambizioso, spregiudicato e violento, rispecchia lo stereotipo del perfetto narcos in salsa romana. Ferri è uno dei re della coca della Capitale che ieri è stato costretto a deporre la corona. È finito in carcere (7 ai domiciliari) assieme alla sua corte. Una tribù composta da 16 persone pronte a tutto pur di espandersi e avere più soldi e potere. Guadagni stellari «500 mila euro al mese», spiegano gli investigatori, e un diluvio di piombo (sventato) pronto ad abbattersi sui rivali che non chinavano la testa di fronte al boss e ai suoi uomini. Se Roma precipita verso una messicanizzazione del crimine è sicuramente presto per dirlo. Di certo «il tasso di violenza negli ultimi due anni, per il controllo e la conquista delle piazze di spaccio, è aumentato». Parole pronunciate in conferenza stampa dal procuratore capo di Roma, Michele Prestipino. Magistrato che negli anni si è quasi sempre occupato di criminalità organizzata.
I REATI Associazione per delinquere finalizzata al traffico ed allo spaccio di cocaina, hashish e marijuana, aggravata dall' uso di armi. Questi i reati contestati al gruppo che riforniva di droga i quartieri di Monteverde e Montespaccato e stava estendendo i suoi tentacoli verso il comune di Pomezia. Al vertice dell' organizzazione c' era appunto Daniele Ferri, 42 anni. La sua residenza, da vero capo, era una mega villa sulla Portuense: sale arredate con sfarzo, un impianto di sorveglianza con 18 telecamere puntate all' esterno che, tuttavia, non gli sono state utili per evitare l' arresto da parte dei carabinieri di via In Selci. Così come altri accorgimenti, un poliziotto a libro paga (arrestato) e l' impiego di telefonini anti-intercettazione. La «banda del Trullo», secondo quanto accertato dagli inquirenti, aveva un giro d' affari per l' attività di narcotraffico che arrivava anche a mezzo milione di euro al mese. La base operativa era il salone di parrucchieri della madre di Ferri, in via del Monte delle Capre, al Trullo. Lì avvenivano gli incontri e si pianificavano le «attività» anche nei confronti dei gruppi criminali rivali. Il gruppo, secondo quanto è emerso dalle indagini avviate nel 2017, aveva a disposizione un arsenale che utilizzava per minacciare i componenti delle altre organizzazioni e per impossessarsi di zone di spaccio. «Gli diamo una botta...due botte...sta andando a casa...lo lasciamo per terra». Afferma uno degli affiliati in una intercettazione citata dal gip nell' ordinanza di custodia cautelare, annunciando in questo modo la volontà di vendicarsi con una persona verso cui l' organizzazione vantava un credito di droga. L' indagine ha confermato che i nuovi gruppi criminali attivi a Roma facciano un uso spregiudicato della violenza. Un quadro confermato da Prestipino secondo cui i segnali «sono allarmanti» nelle dinamiche utilizzate dalle bande per la riscossione dei crediti legati alla droga. «Torture, violenze feroci - ha spiegato ieri il procuratore - fino ad arrivare al sequestro di persona emergono come una costante: una ferocia sostenuta dalla disponibilità di armi di gruppi organizzati che gestiscono le piazze di spaccio, con un giro d' affari milionari e una concorrenza agguerrita».
Giu.Sca per “il Messaggero” il 15 gennaio 2020. Il boss Daniele Ferri ha ben chiaro i futuri scenari sulla vendita della droga a Roma. Lui vuole rompere gli equilibri in alcune zone, conquistare nuovi territori, accrescere i guadagni. E lo vuole fare nell' unico modo che le leggi del grande crimine ammettono. Con la forza, o con i pugni di uno dei suoi picchiatori o il piombo delle pistole. Lo dice esplicitamente, lo spiega a un membro della banda in una conversazione che è stata intercettata dai carabinieri di via In Selci. «Se vuoi fare la guerra tutto a posto», sostiene Ferri spavaldo di fronte ai suoi uomini. La seconda fase, delineata dall' ambizioso narcos, prevede l' installazione perenne del suo personale sul territorio. Le vedette e i pusher per la vendita al dettaglio del prodotto, la droga: cocaina, marijuana e hashish. Il Ferri-pensiero è racchiuso in una intercettazione degli inquirenti. Una conversazione che descrive perfettamente le mire espansionistiche che il boss stava ponderando.
LA CONVERSAZIONE. «Dal contenuto di alcune particolari conversazioni tra presenti - scrive il pubblico ministero titolare dell' inchiesta, Barbara Zuin, nella richiesta d' arresto - appare chiara la ferma volontà del Ferri di estendere capillarmente la sua organizzazione mediante l' imposizione di nuovi soggetti su nuove piazze di spaccio in modo da affermare il suo predominio territoriale». Ecco il riassunto della conversazione tenuta dal boss con i suoi uomini il nove dicembre del 2017: «Io voglio dire a Carmine (Carmine De Luca) se lui conosce persone di cominciare a mettersi a fare le piazze, che ne so dove conosciamo mettiamo persone, se hai una persona valida lui lo prendiamo gli diamo la robba (la sostanza stupefacente da spacciare) e lo mettiamo sulle piazze queste qua, questa la piazza dal ciccione, prendiamo uno valido lo mettiamo alla piazza qui al Green bar (Green bar gelateria in via del Trullo)». E poi aggiunge: «c' abbiamo un altro valido? Lo mettiamo alla piazza, facciamo tutti pischelli mettiamo tutti in piazzali mettiamo tutti a lavorare con i pezzetti». «Con conseguente aumento dei profitti», annota la procura.
IL CONFLITTO. Di fatto Ferri non si accontentava, semplicemente, di essere un grande fornitore di droga. Il suo obiettivo era diventato duplice: grossista ( lo era già) e anche venditore al dettaglio. «Allora mettemose- continua Ferri nella conversazione intercettata - e che fanno magnano solo loro qui e non si magna più?». «Tale è la determinazione che - si legge nelle carte della procura - all' obiezione di Carmine De Luca dell' eventualità di dover entrare in un conflitto armato con altri concorrenti» che Ferri gli risponde in questo modo: «Se vuoi fare la guerra tutto a posto allora prima spariamogli e poi ci mettiamo i pischelli». «Il Ferri - annota il sostituto procuratore Barbara Zuin - dichiara di volersi assumere tale rischio, fare la guerra».
Una rissa per il calcio prima degli spari a Bortuzzo. Le intercettazioni: «Tutto per un che c... vuoi». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 da Corriere.it. «Non m’andava che succedeva... pure per quel poraccio... quello non cammina più. È partito tutto per un “che c...o vuoi”». Intercettato durante un colloquio in carcere, Daniel Bazzano aggiunge l’ultimo tassello di verità all’agguato nel quale Manuel Bortuzzo è rimasto senza colpe paralizzato il 3 febbraio scorso. La rissa che innescò la vendetta sbagliata su di lui nacque dall’ubriachezza di un amico dei due condannati, che nell’Irish pub di piazza Eschilo urlava i cori della Roma e urtava tavoli e sedie. Scatenando così la reazione dei presenti e di un cuoco del locale. La frase è riportata nelle motivazioni alla sentenza del 9 ottobre con cui il gip ha condannato Bazzano a 16 anni in abbreviato assieme a Lorenzo Marinelli per il tentato omicidio del 19enne nuotatore azzurro e della sua ragazza. E, confermata da altre testimonianze portate a processo dal pm Elena Neri, rivela che Bortuzzo non ha rischiato la vita in un regolamento di conti tra bande di spaccio, come ipotizzato finora, ma per una banale lite tra clienti di un locale «ragazzi ben vestiti con capi casual e accento romano». Nessuna attenuante va concessa, secondo il giudice, ai due aspiranti killer: «Deve evidenziarsi — scrive — come nessun particolare tratto positivo possa cogliersi nella loro condotta». La loro confessione «risulta dettata da intenti utilitaristici e non da effettiva resipiscenza» e «la gravità del fatto, l’assoluta superficialità nell’individuare la vittima, la condotta successiva (la fuga, l’incendio dello scooter, la non collaborazione per far ritrovare l’arma, le bugie sulla latitanza, ndr) impone una pena elevata». Il giudice esclude i futili motivi ma riconosce la premeditazione: «Dopo la rissa, in tempi brevi gli imputati maturano il loro disegno criminoso anziché tornare nelle loro abitazioni». Una condotta «incompatibile con il dolo d’impeto e viceversa indice di un radicamento e di una persistenza del proposito criminoso nella loro psiche».
Quartiere Aurelio nel caos, i commercianti: "Le chiusure della metro ci hanno rovinato". La viabilità nel quartiere Aurelio, nonostante la riapertura della metro di Baldo degli Ubaldi, è in grave affanno. La fermata Cornelia e la Galleria Giovanni XXX sono chiuse e i commercianti già contano le perdite subite...Alessandra Benignetti e Francesco Curridori, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. È una riapertura tra le polemiche quella della metro Baldo degli Ubaldi, nel quartiere Aurelio, nella zona nord occidentale della Capitale. Lo stop di quasi tre mesi per permettere ai tecnici di effettuare la revisione ventennale di ascensori e scale mobili ha messo in ginocchio i commercianti della via. Nel mirino c’è la partenza in ritardo dei lavori, sia nella stazione che ha riaperto i battenti stamattina, sia in quella di Cornelia, chiusa per lo stesso motivo lo scorso 30 dicembre fino a data da destinarsi. “Si sono ridotti all’ultimo minuto e così invece di sospendere parzialmente il servizio hanno dovuto chiudere lo snodo per completare i lavori entro la fine del 2019”, denuncia Roberto, titolare di un bar che si trova proprio di fronte ad una delle uscite della metro. “Ho avuto difficoltà a pagare l’affitto, i fornitori e le bollette – attacca - oggi, finalmente, hanno riaperto, ma io rischio di chiudere l’attività”. “Chi mi risarcisce dei danni subiti?”, si domanda. Il fatturato per lui è calato del 60 per cento. Le stesse lamentele arrivano da Stefano, un edicolante che ci spiega come l’Atac avrebbe dovuto iniziare prima la revisione per garantire l’operatività della stazione. “In questo modo avremmo avuto un danno parziale e, d’altronde, è esattamente quel che stanno facendo ora”, ci spiega. È la stessa Atac, infatti, a far sapere che “l'entrata e l'uscita dei viaggiatori nella stazione sarà al momento consentita solo dall'accesso di via Baldo degli Ubaldi nei pressi di viale di Valle Aurelia". Il motivo è che sono ancora in corso “le attività autorizzative sugli altri impianti e le lavorazioni su un'ultima scala mobile”. In sostanza, dopo 3 mesi di lavoro, sono in funzione soltanto 6 delle 12 scale mobili presenti. Perché la metro sia completamente agibile, insomma, si dovrà aspettare ancora. Secondo Angelo Belli, coordinatore della Lega nel quartiere Aurelio e promotore di una manifestazione di protesta svoltasi due mesi fa, la responsabilità della cattiva pianificazione dei lavori sarebbe della sindaca, Virginia Raggi, che “a marzo, si è attribuita il merito di aver mandato via Metro Spa perché incapace ma, cambiando ditta, ha generato questi ritardi, pur sapendo che ogni vent’anni gli impianti necessitano di una revisione”. “Siamo dovuti scendere in piazza – aggiunge Belli – per ottenere un’accelerazione dei lavori visto che inizialmente i tecnici lavoravano soltanto sei ore al giorno”.
I disagi per la chiusura della metro Cornelia. Gli esercenti sono sul piede di guerra anche a Cornelia dove, per lo stesso motivo, la stazione è chiusa dallo scorso 30 dicembre. Pochi giorni dopo è arrivata anche l’interruzione della galleria Giovanni XXIII e, a breve, sarà il turno anche di un tratto importante di via Aurelia. “Siamo isolati, hanno trasformato la zona in un bunker”, denunciano residenti e commercianti del quartiere che ora si sentono letteralmente tagliati fuori dalla viabilità cittadina. “Questo è uno snodo fondamentale per raggiungere il centro e importanti ospedali come l’Idi, il Cristo Re, il San Filippo Neri e il Policlinico Gemelli - si sfoga la proprietaria del bar Pascucci di piazza Giureconsulti - già questa mattina abbiamo visto la differenza con la riduzione del 50 per cento del passaggio di clientela”. “C’è sicuramente una perdita economica importante”, ci conferma la titolare di un’edicola nella stessa piazza. “Non è questo il modo di gestire la città”, denuncia un’altra barista. E a lamentarsi sono pure i turisti che hanno scelto un hotel o un bed and breakfast in questa zona che dista pochi chilometri dalla città del Vaticano. “Sono annoiati da questa situazione – ci spiega un ambulante - e ci subissano di domande per capire come fare a raggiungere il centro”. I collegamenti sono assicurati da navette sostitutive che seguono il percorso della metro, ma sono spesso zeppe di passeggeri. “Non credo che torneranno molto volentieri dalle lamentele che ho sentito – commenta la stessa edicolante - uscire e trovare tutti questi disagi non invoglia di certo a visitare di nuovo la città”.
La difesa del sindaco Virgina Raggi. Virginia Raggi, dal canto suo, si compiace con un post su Facebook. “In questi mesi abbiamo lavorato per mettere in campo una revisione straordinaria delle scale mobili presenti in stazione – scrive la sindaca - interventi necessari a garantire la massima sicurezza per tutti i passeggeri”. “Operazioni che prima non erano mai state effettuate – ricorda - lavori non più rimandabili e che stiamo portando avanti anche per gli impianti della vicina stazione di Cornelia”. “Siamo consapevoli dei disagi – conclude - ma è nostro dovere verificare e assicurarci che tutti gli standard vengano rispettati nell’interesse di tutti”. Ma il post ha ricevuto centinaia di commenti, quasi tutti critici. “Si chiama manutenzione ventennale -puntualizza un utente - e se nessuno l’ha fatto prima, tesoro mio, è perché quella stazione compie 20 anni quest’anno e quindi era ovvio che andasse fatta ora e non in precedenza”.
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 3 febbraio 2020. Un po' psicosi del virus - un po', probabilmente, nuovo espediente a cui ricorrere per schivare il turno - nelle chat dei netturbini dell'Ama la fobia del contagio si moltiplica, col rischio che la raccolta, già tormentata, abbia ulteriori affanni proprio nelle zone dove la comunità cinese di Roma è più radicata, dall'Esquilino al Prenestino. C'è addirittura chi non si presenta al lavoro: «Ci sono assenze per malattia e molti in ferie», annota un operatore nei messaggi interni. «In 8A (la zona di un turno, ndr) qualcuno ha timore di svolgere il servizio nella parte che dà su Via dell'Omo», altra area della Capitale puntellata di attività orientali, dai magazzini ai market. «Qualche timore - si legge ancora in chat - è stato manifestato dai colleghi dello sportello tariffa di Capo d'Africa», dove ogni giorno la gente si mette in coda per pagare le bollette della Tari. L'amministratore unico dell'Ama, Stefano Zaghis, prova a frenare allarmismi e furbizie di chi addirittura cavalca la psicosi del contagio per restare a casa o in ufficio: «Sono in contatto diretto col commissario del governo per l'emergenza, Angelo Borrelli - spiega - Siamo pronti a mettere in campo tutte le misure adeguate a evitare qualsiasi rischio per gli operatori. Anche le Asl hanno escluso pericoli in questa fase. I contatti proseguiranno a 360 gradi», assicura il manager. Del resto gli esperti sanitari hanno già chiarito le modalità con cui il virus si diffonde: con i contatti uomo-uomo. Addirittura sia l'autista che ha accompagnato in macchina la coppia di cinesi contagiati a Roma, sia i camerieri dell'hotel dove alloggiavano, sono tutti risultati negativi al test. Insomma, la notizia dovrebbe rassicurare. Ma tra gli addetti Ama, a quanto pare, non basta. Più d'uno lamenta la carenza di divise: «C'è gente che non ha nemmeno l'uniforme ordinaria», si legge sempre nelle chat. Anche i sindacati si mettono in scia. Alcune sigle hanno scritto proprio all'ad Zaghis con lettere allarmate. «Alla luce degli eventi relativi al Coronavirus vorremmo capire come stiamo affrontando questo fenomeno sempre più diffuso sia in termini di psicosi che di allarmismo tra la comunità aziendale», ha scritto Alessandro Bonfigli, coordinatore regionale della Uiltrasporti. Che menziona le preoccupazioni di chi è «a contatto con i rifiuti all'Esquilino», per chiedere «se c'è disponibilità di presidi sanitari e mascherine nelle nostre scorte». Per la Uil, «dare subito indicazioni» servirebbe a evitare che «qualcuno cavalchi l'onda della psicosi». Onda che, a quanto pare, s'è già sollevata parecchio, mentre ci si augura che episodi così servano a debellare le sacche d'inefficienza ancora presenti all'Ama.
Coronavirus, netturbini in preda alla psicosi incrociano le braccia. Coronavirus, è psicosi anche tra i dipendenti della muncipalizzata dei rifiuti. E così in molti si mettono in malattia o disertano i turni nei quartieri più a rischio. Bianca Elisi, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Dallo scorso giovedì, giorno in cui il premier Giuseppe Conte ha dato notizia dei primi due casi di coronavirus accertati, entrambi a Roma, in città è scattata la psicosi. Quella che prima era percepita come una minaccia lontana, d'un tratto, si è trasformata in una presenza reale. E così è iniziata la corsa all'acquisto delle mascherine sanitarie, tanto che nelle farmacie romane si è registrato il tutto esaurito. E sono comparsi persino i venditori abusivi che lucrano sulla paura delle gente smerciando mascherine a prezzi spropositati. Il rischio contagio, vanno ripetendo gli esperti in questi giorni di allarme collettivo, è minimo. Ma le rassicurazioni non bastano. Non bastano a convincere la gente comune e neppure gli operatori dell'Ama che, come racconta Il Messaggero, si sarebbero messi in malattia o in ferie proprio per timore di contrarre l'infezione. Sopratutto chi è di turno in quartieri come l'Esquilino, dove la presenza della comunità cinese è più massiccia. Le prove di questa tendenza allarmante sono contenute nelle chat dei dipendenti della municipalizzata dei trasporti, alle quali il quotidiano di via del Tritone ha avuto accesso. "Ci sono assenze per malattia e molti in ferie", annota qualcuno. E ancora, in via dell'Omo, zona Preneste, dove c'è un'alta concentrazione di attività cinesi, "qualcuno ha timore di svolgere il servizio". Una situazione che rischia di affossare ulteriormente il sistema già precario di raccolta dell'immondizia. Per riportare serenità, sul caso è intervenuto anche l'ad di Ama Stefano Zaghis, assicurando che l'azienda è in contatto diretto con il Governo e che al momento i dipendenti sono fuori pericolo. Parole che non sono bastate neppure ai sindacati. In una lettera, infatti, i rappresentanti di categoria hanno espresso tutti i loro timori. "Alla luce degli eventi relativi al coronavirus, vorremmo capire come stiamo affrontando questo fenomeno sempre più diffuso sia in termini di psicosi che d allarmismo tra la comunità aziendale", scrive Alessandro Bonfigli della Uil-trasporti. La richiesta è di fornire a chi opera nelle zone più critiche "presidi sanitari e mascherine". Anche per la Uil servono maggiori indicazioni, per evitare che qualcuno cavalchi il momento. Magari disertando ingiustificatamente il turno di lavoro.
Lorenzo De Cicco per ilmessaggero.it il 17 dicembre 2020. Andamento lento. All’Atac decine di autisti viaggiano al ritmo cantato da Tullio De Piscopo al Sanremo 1988: lento, lento, lento. Piede appoggiato sul freno e avanti adagio: cari passeggeri rassegnatevi ad arrivare in ritardo. Tutto per saltare l’ultimo giro al volante, a fine turno: i conducenti che arrivano tardi al capolinea, quasi sempre dando la colpa al traffico, vengono esentati dal rimettersi in marcia se il tempo stimato per il ritorno supera quello previsto dal servizio. Ecco allora il trucco che tenta gli autisti dei bus: rallentare, «accodarsi» a qualche macchina poco lesta nella parte finale del tragitto, per presentarsi all’ultima fermata oltre il limite fissato dalla tabella di marcia. Rendendo impossibile, a quel punto, il viaggio conclusivo. La trovata è stata scoperta dalla municipalizzata: i report interni svelano che 50 conducenti sono stati sanzionati solo nell’ultimo anno, incastrati dal sistema satellitare montato a bordo dei mezzi. E si tratta solo dei casi più sfacciatamente incongruenti, quando insomma analizzando gli spostamenti col Gps la scusa dell’ingorgo non ha retto. Non perché Roma non soffra di imbottigliamenti vari e assortiti, come testimoniano gli speciali ranking del settore (è noto ormai che quanto a traffico la Città eterna nel mondo sia seconda solo a Bogotà). Ma sulla scorta delle tecnologie più avanzate e del rilevamento della posizione da remoto, la giustificazione non può tenere banco sempre e comunque. Ecco perché Atac ha rafforzato i controlli per questa stramba fattispecie, mettendo nel mirino gli autisti che marciano coi torpedoni a passo d’uomo per lavorare di meno. Anche perché a farne le spese, oltre ai pendolari, è la stessa municipalizzata. Che guadagna col contratto di servizio del Comune in base al chilometraggio. L’amministrazione di Virginia Raggi anche quest’anno ha ripetuto: tocca fare di più. Lo stesso dicono i commissari del Tribunale fallimentare. Occhio allora a chi viaggia al ralenti. Qualche anomalia legata al Gps è stata notata nei «fogli di via», i moduli che gli autisti devono compilare obbligatoriamente per riferire gli spostamenti durante l’orario di servizio. È venuto fuori che le dichiarazioni non sempre coincidevano con quanto rilevato dal satellite: a volte gli autisti annotavano più chilometri di quelli effettivamente macinati. Atac sembra consapevole del problema, tanto che in una relazione riservata, spedita al Campidoglio il 5 novembre, spiega di avere avviato verifiche proprio sulle «divergenze tra rilevazione mediante fogli di via e sistema satellitare (AVM)», si legge nel dossier. Insomma, la partecipata spera che «l’aumento della qualità erogata» non rimanga solo la promessa di carta segnata nei faldoni del piano anti-bancarotta. L’obiettivo, si legge ancora, è «il maggiore comfort per i passeggeri». I quali probabilmente si accontenterebbero di un bus puntuale, che non si accosti alla palina già stracolmo perché prima sono saltate le corse in batteria. Magari perché l’autista giocava col freno.
Lorenzo De Cicco per ''Il Messaggero'' il 5 febbraio 2020. Nella Capitale alle prese col Coronavirus, nessuno nel palazzone che fa da quartier generale all'Atac, sulla Prenestina, ha voglia di scherzarci. Però la battuta, in qualche modo, circola: «Riecco l'epidemia, sarà sempre quella dei vigili a capodanno?». Perché la vicenda di ieri, con i conducenti della ferrovia per Centocelle malati in massa e i romani lasciati a piedi, assomiglia molto al forfait dei pizzardoni del 2014, quando la notte di San Silvestro, per schivare il turno, arrivarono all'ufficio del comandante generale dell'epoca (poco amato dalle truppe) certificati medici in batteria. Un improvviso malanno colpiva tutto il Corpo dei caschi bianchi. Ora tocca ai macchinisti della linea Termini-Centocelle, la ex Roma-Giardinetti che collega la periferia Est dell'Urbe alla stazione. La ferrovia, gestita dall'Atac, dovrebbe essere riconvertita in tramvia. Con una differenza, per chi guida: lo stipendio da tranviere, a differenza di quello da macchinista del treno, è più leggero. Si passerebbe da 2mila a 1.500-1.600 euro al mese. Ecco perché i conducenti hanno deciso di ammutinarsi con uno sciopero bianco. Anche se in realtà il rischio di perdere soldi in busta paga - e tanto più il pericolo di perdere il lavoro - non sembra davvero mai esistito. La società dei trasporti ha già fatto capire agli interessati di volerli riconvertire a macchinisti della metro, appena il progetto del tram sarà formalizzato, con tutti i permessi ministeriali, attesi per giugno. Addirittura c'è già un accordo che prevede a stretto giro il trasferimento dei primi 7 addetti. Ma a quanto pare non è bastato.
I NUMERI. Ecco allora la protesta selvaggia di ieri: 37 assenti su 43 previsti nei turni (altri 5 erano di riposo, già stabilito). L'86% dei conducenti, in sostanza, non si è presentato al lavoro. Risultato: la ferrovia che trasporta ogni giorno 30mila romani, è rimasta paralizzata per 13 ore. Dalle 5.30, quando avrebbe dovuto partire la prima corsa, alle 6 e quaranta di sera. Proprio nelle ore di punta.
NIENTE SANZIONI. Gli ammutinati? Dovrebbero cavarsela senza nemmeno una multa. L'ufficio del Personale di Atac ha subito attivato i controlli, sono partite anche le visite fiscali. Ma tutti si erano premuniti di un attestato: in 13 avevano il certificato medico, quasi tutti per un'improvvisa «influenza»; altri 15 avevano un referto del dottore in cui si parlava della malattia dei figli piccoli. Altri 6 hanno sfruttato il congedo della legge 104, che in teoria dovrebbe servire ad assistere parenti invalidi o malati. In tre erano assenti per la «donazione del sangue». La municipalizzata dei trasporti sta ancora finendo le proprie indagini, ma dai riscontri che si avevano ieri sera, gli assenti avrebbero tutti una giustificazione. Niente sanzioni.
TERMINI CENTOCELLE. Peraltro, l'assessore alla Mobilità della giunta Raggi, Pietro Calabrese, proprio mentre la partecipata annunciava l'avvio delle ispezioni, già concedeva attenuanti agli assenti. Arrivando a dire, in un video pubblicato su Facebook, che «se 37 dipendenti su 48 si assentano, il problema è serio e non può essere solo una responsabilità dei lavoratori». Insomma, per l'assessore del Campidoglio, la colpa non va data agli assenti in massa, non soltanto almeno. Una beffa per le migliaia di cittadini costretti ad arrangiarsi, senza preavviso. Dopo avere convocato l'Atac e i tecnici dei trasporti a Palazzo Senatorio, sempre Calabrese, «scusandosi con i romani», ha detto che «i lavoratori della Termini- Centocelle avranno la qualifica da macchinisti metro, Atac ha assicurato che saranno garantiti tutti i livelli occupazionali, non c'è alcun presupposto di un nuovo blocco». Insomma, oggi dovrebbero essere tutti guariti. Ma la storia, forse, potrebbe non chiudersi qui: il Codacons ha annunciato che presenterà un esposto per interruzione di pubblico servizio, chiedendo ai magistrati di indagare sul blocco della tratta.
Valentina Lupia per “la Repubblica - Roma” il 31 dicembre 2019. Come se non bastassero Barberini e Baldo degli Ubaldi ancora chiuse e Cornelia off-limits da ieri. Due giorni fa, nel pomeriggio, le scale mobili della centrale stazione della linea A della metropolitana Spagna sono andate in tilt, causando caos e disagi: nel video- testimonianza pubblicato su roma.repubblica.it, si vedono i passeggeri che scendono in banchina camminando su scale mobili ferme. Tra loro, anche bambini. Il blocco è stato riparato dai tecnici dopo alcuni minuti, ma a questo ne sono seguiti altri. Uno in tarda serata, intorno alle 22. Questo guasto sarà pure stato riparato, sì, ma a essere ancora fuori uso, oltre al montascale, sono le scale mobili dal lato del Galoppatoio. E dire che Spagna era stata riaperta lo scorso maggio dopo oltre due mesi di chiusura, sempre per le scale mobili: quando il 23 marzo, il giorno che i gradoni di Barberini ( chiusa da allora) si sono accartocciati, il responsabile di esercizio degli impianti di traslazione aveva deciso di vietare l'uso delle scale mobili. Poiché della stessa tipologia proprio di quelle di Barberini. Decisione che, di fatto, ha significato la chiusura della stazione per intero. Nonostante la fermata sia stata off- limits, dunque, ancora ci sono impianti fuori uso e che si bloccano all' improvviso. A conti fatti, tra metro A, B/B1, C e Roma- Lido, il 10% tra scale mobili, ascensori e montascale è rotto o inutilizzabile: solo sulla linea rossa ci sono 3 stazioni chiuse, 15 con impianti fuori uso e 3 con alcuni cancelli chiusi. Cinque, invece, le stazioni che hanno problemi sulla linea blu, mentre lungo la metro C si contano 5 fermate con ascensori fuori uso e 3 con cancelli chiusi. Cinque fermate con ascensori e scale mobili off- limits sulla Roma- Lido, dove sono anche rotti i pannelli informativi di Lido Centro e, soprattutto, quelli di un sito importante come Ostia Antica. Ieri, poi, poco prima delle 13 il servizio è stato interrotto e sostituito da bus nella tratta Eur Fermi - Laurentina prima, ed Eur Magliana - Laurentina poi, a causa di un guasto a un deviatoio che è stato riparato in meno di un' ora. Il servizio è stato ripristinato alle 13.35 circa. E due giorni fa un 25enne senza fissa dimora è stato arrestato dai carabinieri: nel pomeriggio, dopo aver rubato un cellulare, aveva seminato il panico all' interno della stazione Termini, scappando sui binari della linea B e nella galleria verso Castro Pretorio e costringendo Atac a interrompere il servizio per circa un' ora.
"Ama Roma, tre lavoratori su 10 inidonei": il vertice accusa i dipendenti. L'amministratore Zaghis alla commissione Ambiente dà i numeri del disastro aziendale: nei giorni di festa in servizio solo 1.700 addetti su 5.000, mancano operatori meccanici e autisti. "Roma dovrebbe essere Disneyworld". Cecilia Gentile il 28 gennaio 2020 su La Repubblica. Una Caporetto. I dati della disfatta Ama li fornisce direttamente il suo amministratore unico, Stefano Zaghis, invitato ieri mattina dalla commissione Ambiente presieduta dal consigliere grillino Daniele Diaco. Sono gli uomini e i mezzi i talloni d'Achille della municipalizzata. Il 32% dell'organico risulta inidoneo, una percentuale doppia rispetto all'Amsa, l'azienda dei rifiuti milanese. Nei giorni di festa lavorano solo 1.700 persone invece delle 5.000 impegnate in media nei giorni feriali. Questo ha fatto sì che durante i 16 giorni del periodo natalizio, nei complessivi otto giorni di festa abbiano lavorato in tutto 12mila persone, contro i 33mila dei feriali. Senza contare che dal 2015 al 1 gennaio 2020 sono andate in pensione 710 persone senza essere sostituite. Mancano 40 meccanici, 85 autisti, 300 operatori. "Così non si può lavorare - dice Zaghis - Roma dovrebbe essere scintillante. Ai miei dico che la capitale dovrebbe essere pulita come Disneyworld perché Roma è la Disneyworld della cultura e della bellezza. Ma per farlo servono persone e mezzi sennò non si arriva al risultato. Ama deve lavorare al 100% sette giorni su sette. Roma è l'unica capitale al mondo dove un'azienda di igiene pubblica non è attiva a pieno regime sette giorni su sette. Questa situazione o viene risolta con l'accordo dei sindacati, o la risolvo io coattivamente". Intanto, dalla fine di febbraio i 260 inidonei totali verranno messi a fare gli spazzini di quartiere in periferia. Per riuscire a coinvolgere almeno l'80 per cento del personale nei giorni di festa, Zaghis sta preparando con i sindacati un piano festività che punta ad essere pronto entro marzo e a riproporsi nei prossimi cinque anni, fino al 2024, per la stessa durata del piano industriale che, secondo la prescrizione della Regione Lazio, deve essere licenziato entro il 31 marzo. E veniamo ai mezzi. Entro luglio, assicura l'amministratore unico, saranno operativi 102 nuovi mezzi pesanti, i "Csl", ma anche così Ama sarà a meno della metà dei mezzi necessari per rispondere alle esigenze della capitale. "Perché siamo a Roma, non a Reggio Emilia, come qualcuno credeva in passato", dice Zaghis lanciando una bordata all'ex assessora all'Ambiente Pinuccia Montanari e al suo concittadino Lorenzo Bagnacani, ex presidente di Ama. "Dei 281 mezzi pesanti di cui disponiamo adesso - spiega - 201 hanno più di 10 anni. In Italia l'età media è di 7 anni più 1, in Europa di 5 più 1. Noi siamo come l'Atac". La mancanza di uomini e mezzi compromette la regolarità del servizio (- 1,8% nel 2019 rispetto al 2018). Sempre nel 2019 i servizi pianificati sono stati 144.600, quelli effettivamente erogati 130mila. Poi la parola passa ai municipi, I, II, III, IV, V, VII, IX, XIII, che per bocca dei loro assessori o consiglieri fotografano la situazione dei territori: grandi problemi con le utenze non domestiche, raccolta foglie e spazzamento non effettuati, cassonetti bruciati non ritirati, flop del porta a porta. Zaghis ascolta e prende appunti. Ma è troppa roba. La commissione si aggiorna alla prossima settimana. In chiusura, notizie sul bilancio 2017: l'au lo invierà ai revisori dei conti e al collegio sindacale il 6 febbraio.
Francesco Pacifico per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 31 dicembre 2019. L' Ama rischia di trovarsi domani mattina - il primo giorno dell' anno nuovo, a poche ore dal maxi festa al Circo Massimo con non meno di 50mila persone - con duecento netturbini in meno. A via Calderon de la Barca pensavano di aver fatto tutto nei tempi e nei modi giusti. Da settimane avevano affisso nei depositi gli avvisi per reclutare (in maniera volontaria) quanti più addetti per la raccolta da mettere in strada per il Primo gennaio. Giornata che viene remunerata con uno straordinario di solito superiore al doppio di un turno normale. Salvo poi scoprire, nelle scorse ore, che mancano all' appello almeno 200 operai per il primo turno, destinato all' opera di ripulitura più complessa. Inutile dire che con 200 dipendenti in meno sulla raccolta, la città - già oggi preda in molte sue parti dell' emergenza rifiuti - rischia di risvegliarsi nel nuovo anno in una immensa pattumiera a cielo aperto. Nonostante siano in funzione tutti gli impianti di trattamento e smaltimento i marciapiedi di molti quartieri - come la Rustica, l' Alessandrino o l' Aurelio - ieri erano coperti di sacchetti. Capodanno è storicamente una giornata border line per il servizio rifiuti. Il 31 dicembre la raccolta termina alle 18.30, mentre il giorno dopo il primo turno inizia alle 3.30 del mattino. Senza contare che poche ore prima nella Capitale si è tenuto il concertone del Circo Massimo, chi resta in città si dedica a cene luculliane e Roma è meta di tanti turisti italiani e stranieri. Gente che, tra un bicchiere e l' altro, sporca più del dovuto. Di solito al primo turno partecipano circa 2mila addetti, che devono coprire gli oltre 3.700 chilometri di strade capitoline. Ma ieri i vertici di Ama si sono accorti che rispetto a quanto previsto circa 200 dipendenti domani mattina si daranno indisponibili. La maggioranza di loro ha presentato regolare certificato medico, altri si sarebbero messi in ferie, ma un certo numero di assenze sarebbe legato anche a un organico - complice i prepensionamenti di Quota 100 - mai incrementato. Anche perché non si può assumere nuovo personale fino a quanto l' azionista - cioè il Comune - avrà approvato il bilancio del 2017. Cosa che l' amministratore unico, Stefano Zaghis, aveva promesso di fare entro oggi.
IL PRECEDENTE. Di fronte alle assenze capodannesche la mente corre a quanto successe nel 2015 a inizio anno: il Primo gennaio di allora - complice un duro contenzioso sindacale con la giunta Marino sul contratto decentrato - l' 83,5 per cento dei vigili marcò visita, mentre soltanto 7 conducenti su 24 delle Metro A erano al mattino regolarmente al proprio posto di lavoro. Dalla Uil Trasporti Alessandro Bonfigli però ricorda che «i lavoratori dell' azienda vanno avanti senza alcun sostegno di natura economico o industriale. Si spaccano la schiena, mentre l' azienda, non approvando il bilancio, non affronta il gap di organico. Per piacere, non parlate di fannulloni». Il bilancio, la cui approvazione, potrebbe slittare all' anno prossimo resta un nodo dolente per l' Ama. L' amministratore Zaghis attende gli ultimi pareri legali per risolvere il credito dei 18,3 milioni di euro per i servizi cimiteriali, che l' azionista comune non vuole riconoscere. Intanto, anche per motivare la prima linea, in via Calderon de La Barca si sta studiando di aumentare lo stipendio ai pochi manager rimasti. Notano Natale Di Cola, segretario della Cgil di Roma e del Lazio, e Giancarlo Cenciarelli, leader della Fp Cgil di Roma e del Lazio: «Se la municipalizzata «fosse realmente in stallo e impossibilitata a chiudere il bilancio consuntivo del 2017 sarebbe una brutta fine dell' anno per i lavoratori che peggiorerebbe un clima di incertezza in cui pesano condizioni di lavoro ormai intollerabili».
Andrea Pegoraro per ilgiornale.it il 27 dicembre 2019. Una tessera telefonica del 1997. È stata trovata questa mattina a Roma, nell’area urbana Tiburtino III durante le operazioni di pulizia di un tombino. A darne notizia il sindaco della Capitale, Virginia Raggi in un post su Facebook. L’aspetto grave, rimarcato dal primo cittadino, è che “quel tombino non veniva spurgato da 22 anni”. Raggi spiega che si tratta di una carta prepagata di 10 mila lire, che è stata recuperata a piazza Santa Maria del Soccorso, nel quadrante est di Roma. La tessera era “immersa completamente in uno strato di fango e foglie - evidenzia il sindaco -. È il simbolo della scarsa, e in molti casi assente, manutenzione degli ultimi decenni”. Raggi ricorda che l’amministrazione comunale sta imprimendo una svolta attraverso nuovi investimenti e interventi di prevenzione sulle zone a rischio. E aggiunge che nell’ultimo periodo è stato stanziato 1 milione di euro per realizzare altre operazioni di manutenzione e pulizia in tutta la città. Il primo cittadino continua con gli elogi e dice che il rapporto con la Protezione Civile è ottimo. Inoltre, ricorda che il Campidoglio ha costruito nuove caditoie a via Prenestina, mentre negli scorsi mesi sono state eseguite delle operazioni specifiche su un tratto di via Trionfale, a nord ovest della Capitale. Poi Raggi rimane vaga e spiega che sono in programma altri interventi a viale della Serenissima e via Tiburtina, nella zona est della città. Anche l’assessore alle Infrastrutture, Linda Meleo commenta sulla sua pagina Facebook il ritrovamento della tessera telefonica. L’assessore sembra quasi divertita dall’insolita scoperta. Precisa che non si tratta “di un’antica anfora o di un mosaico romano” e parla di “un interessante reperto archeologico”. Anche Meleo ribadisce che l’amministrazione comunale sta lavorando per recuperare le carenze a livello di manutenzione, accumulate nel corso degli anni. E ricorda che le operazioni di manutenzione e pulizia caditoie in via ordinaria sono state "rafforzate da un nuovo appalto da oltre 1 milione di euro, con cui siamo già intervenuti su diversi punti critici della città - conclude Meleo - e con cui abbiamo in programma nuove azioni, come su via Prenestina e su viale della Serenissima e via Tiburtina". Nel frattempo, Raggi deve risolvere la questione della nuova discarica. A quanto pare sembra che si farà e il Comune dovrebbe indicare il luogo entro la fine del 2019.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. Membri di spicco di clan mafiosi assoldati per intimorire imprenditori concorrenti, per fare recupero crediti e anche per gestire campagne elettorali e garantire visibilità e voti. Sempre con violenza: minacciando gli attacchini di partiti rivali. È con le accuse di estorsione, violenza privata e illecita concorrenza aggravate dal metodo mafioso che Gina Cetrone, ex consigliere regionale del Lazio del Pdl, è finita in carcere insieme al marito Umberto Pagliaroli e a tre esponenti del clan Di Silvio di Latina: il boss Armando, detto Lallà, e i figli Samuele e Gianluca Di Silvio. Ma l'inchiesta, almeno per quanto riguarda la parte politica, potrebbe essere molto più ampia, visto che membri del clan hanno dichiarato di avere svolto gli stessi servizi anche per altri candidati, di varie liste. E da un'intercettazione emerge il possibile sostegno a quella leghista. Nell'ordinanza di arresto il gip Antonella Minunni definisce la Cetrone e il compagno «scaltri e pericolosi», senza scrupoli «nel ricorrere ai Di Silvio per inibire e condizionare l'attività imprenditoriale di un concorrente e per interferire sull'andamento della campagna elettorale». Avevano un tariffario per la cosca: il 50 per cento sul recupero crediti e 25mila euro per garantire la massima visibilità in occasione della corsa a sindaco di Terracina. «Fateve il lavoro vostro e noi famo il nostro, non mi coprite Gina Cetrone sennò succede un casino», le minacce dei boss agli attacchini rivali. «Un patto politico», lo definisce il gip. Il procedimento è un filone della maxinchiesta ribattezzata «Alba Pontina» sul ruolo dei clan nella provincia di Latina e gli arresti sono stati possibili grazie alle dichiarazione di due collaboratori di giustizia, affiliati al clan, e già sotto processo. È stato uno di loro, Agostino Riccardo, a raccontare dal banco degli imputati di avere svolto la campagna elettorale anche per altri candidati, nel 2016. In particolare, si sarebbe occupato, dietro pagamento, dell'affissione dei manifesti politici, garantendo che non sarebbero stati coperti da nessuno. Un servizio, a suo dire, svolto anche per Raffaele Del Prete, che a Latina lavorava per le campagne elettorali dell'europarlamentare Matteo Adinolfi, che nel 2016 era tornato in consiglio comunale sotto le insegne di Noi con Salvini. Una dichiarazione che sembra supportata da un'intercettazione. Il 30 maggio 2016, Riccardo telefona a Gianluca Di Silvio e dice: «Sto a tornà, io faccio Salvini per Latina». A smentire le parole del pentito, l'ufficio stampa della Lega, che sottolineando l'estraneità ai fatti, parla di «vergognose e false illazioni su presunti contatti tra la Lega e la criminalità organizzata a Latina». Mentre Adinolfi ha sempre sostenuto di non avere mai avuto contatti con il clan. Sono comunque le confessioni dei due pentiti - oltre a Riccardo c'è anche Renato Pugliese - a consentire agli inquirenti di tratteggiare uno spaccato di malaffare. La Cetrone - ora vicina al movimento «Cambiamo!» di Giovanni Toti, che però smentisce incarichi affidati alla donna - secondo gli inquirenti stringe il primo patto con il clan di Silvio nell'aprile 2016. Un imprenditore non ha saldato un debito per forniture di vetro fatte dalla società Vetritalia, dell'esponente politica. Lei lo convoca e insieme al marito chiede l'intera cifra, minacciando l'intervento «degli zingari». Poi, entrano in scena Samuele e Gianluca Di Silvio, e Riccardo. Lo costringono ad andare in banca per fare un bonifico da 15mila euro in favore della Vetritalia e si fanno consegnare 600 euro per il disturbo. Lo raccontano entrambi i collaboratori a verbale. «Un'altra estorsione l'abbiamo fatta su incarico di Gina Cetrone - ricorda Riccardo - Mi chiamò quando ero sorvegliato speciale. Poiché avevamo già preso l'appalto dalla politica pensai che fosse qualcosa attinente la politica. Ne parlammo con Armando e lui disse di andare». Poi, parla del tariffario: «Armando ci disse di ribadire che avremmo preso il 50 per cento». In realtà, per quel servizio avevano ottenuto meno soldi: «Lei ci voleva dare mille euro a testa, accettammo perché disse che ci avrebbe fatto guadagnare con la politica». In settembre, invece, il marito della Cetrone, Pagliaroli, avrebbe ingaggiato Pugliese e Riccardo per intimorire la concorrenza: i due hanno raccontato di avere minacciato un operaio che si era messo in proprio nella produzione di vetro, intimandogli di «non allargarsi troppo con l'attività» e di «stare calmo». Poi, avevano chiesto alla vittima, «per il disturbo», duemila euro. Poi, ci sono le accuse relative alla campagna elettorale. Anche in questo caso, dall'inchiesta emerge il tariffario: 10mila euro per l'affissione dei manifesti, altri 10mila per pagare le auto e la colla, 5mila euro «per la visualizzazione», si legge nell'ordinanza. Riccardo, sentito dagli inquirenti nel luglio 2018, ha raccontato che «Cetrone si era lamentata perché la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza bene nei manifesti di Terracina». Una ricostruzione confermata dal racconto di uno degli attacchini intimiditi: «Era di dominio pubblico come la campagna elettorale di Cetrone era sostenuta dagli zingari. Chiesi a Riccardo il motivo per cui erano stati strappati i manifesti elettorali e sostituiti con quelli di Cetrone. Lui mi rispose con arroganza e prepotenza che loro erano gli zingari di Latina e per questo dovevamo lasciarli stare».
Emilio Orlando per leggo.it il 19 febbraio 2020. Vocali inediti. Mai usciti. Intercettazioni uscite direttamente dai telefoni di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. «A quattro e due glieli stiamo a levà tutti. Ha detto che non se pija a sto prezzo perché fa schifo, Vale già stiamo a fa le cose strane che iene hai fatta vede una e ne porti n’altra ancora, nun poi fa cose, lui è svegli, c’ ha i soldi pe poté prende ste cose. Me spieghi a quanto gliela hai messa e quanto se la deve prende ste cose». La conversazione non lascia dubbi. Il tenore è genuino. Luca Sacchi a sua insaputa ed i componenti della sua comitiva consapevoli che andavano ad acquistare droga, sono stati attirati in una trappola. Dalla chat e dai messaggi vocali di WhatsApp, tra Valerio del Grosso e Valerio Rispoli, assassino e pusher, che hanno preceduto l’agguato in cui è stato ucciso Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni assassinato il 23 ottobre scorso alla Caffarella con un colpo di pistola alla testa, appare chiaro lo spessore criminale dell’assassino. Le conversazioni in mano alla procura di Roma, aprono un ulteriore spaccato malavitoso in cui sarebbe maturato l’omicidio. Un delitto premeditato, in piena regola con un piano diabolico ordito dal killer e dal suo complice Paolo Pirino. Qualche ora prima dell’omicidio, Valerio del Grosso e Valerio Rispoli si accordano per tessere una truffa a Giovanni Princi ed Anastasiya Kylemnik su una fornitura della costosissima marjuana californiana detta anche “spruzzata”, che costa 70 euro al grammo. Già in passato del Grosso e Pirino si erano resi responsabili di un episodio analogo nei confronti di due pusher albanesi di San Basilio alle dipendenze del clan Marando. In quell’occasione, dovette intervenire al polizia del commissariato di zona per soccorrere del Grosso che era stato ferito ad un occhio. Le indagini coordinate dal sostituto procuratore Nadia Plastina che hanno permesso si arrestare in poche ore dall’agguato l’assassino sono chiuse ed il prossimo 31 marzo davanti alla prima corte d’Assise del tribunale capitolino inizierà il processo che vedrà alla sbarra oltre agli esecutori materiali anche l’amico di scuola Giovanni Princi, Marcello de Propris con il padre Armando e Anastasiya Kylemnik.
Omicidio Luca Sacchi, arresta una donna: aveva i documenti di De Propris. Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 da Corriere.it. Otto chili e mezzo di droga in casa e documenti falsi tra cui uno intestato a Marcello De Propris, in carcere per l’omicidio di Luca Sacchi, avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot, pub in zona Appio, a Roma. Questo quanto hanno trovato i poliziotti del commissariato Primavalle in casa di Franca Granata, arrestata per droga ed estorsione.La donna, secondo quanto si apprende, utilizzava l’auto medica per trasporto sangue per spacciare hashish. A denunciarla sono stati alcuni suoi colleghi che non volevano lavorare con lei. Dalle indagini sono emersi collegamenti con la criminalità e in particolare con la famiglia Pelle di San Luca. Secondo quanto si apprende, gli investigatori invieranno un’informativa in procura per quanto riguarda il rinvenimento del documento di Marcello De Propris. Quest’ultimo è in carcere con l’accusa di concorso in omicidio per aver fornito l’arma del delitto a Valerio Del Grosso e Paolo Pirino.
Fulvio Fiano per corriere.it il 22 giugno 2020. Prima condanna nella vicenda legata all’omicidio di Luca Sacchi. Il gup di Roma ha condannato a 4 anni di reclusione Giovanni Princi, amico di infanzia del personal trainer ucciso nell’ottobre scorso davanti al John Cabot pub in zona Appio, accusato del tentativo di acquisto di 15 chilogrammi di marijuana. Il giudice Pier Luigi Balestrieri ha accolto la richiesta della pm Nadia Plastina che contesta a Princi la violazione della legge sugli stupefacenti. Princi, che rimane agli arresti domiciliari, avrebbe fatto, secondo l’ipotesi investigativa, da intermediario assieme alla fidanzata di Luca, l’ucraina Anastasiya, nella trattativa, finita in tragedia, per l’acquisto di un quantitativo di marijuana (15 kg in cambio di 70mila euro) con il gruppo di San Basilio, capeggiato da Valerio Del Grosso, l’autore del colpo di pistola che ha ucciso Luca Sacchi, e dal complice Paolo Pirino. La condanna è sensibilmente più bassa (un terzo circa) di quanto aveva chiesto la procura ma è comunque un primo punto fermo nella vicenda che portò all’omicidio di Luca Sacchi. Il pm Nadia Plastina in tutte le fasi preliminari al processo ha sempre rimarcato la personalità manipolatoria di Princi e la sua determinazione a delinquere come mostrato anche dalla scelta di non collaborare mai alle indagini neanche dopo il suo arresto (ha sempre scelto di non rispondere negli interrogatori di garanzia). Se Anastasiya era affascinata dalla sua capacità “imprenditoriale” tanto da aderirvi con convinzione, un dato che emerge sia dal suo ruolo nella serata che si rivelerà fatale per Luca sia nella scelta di mentire agli inquirenti per nascondere il giro nel quale era coinvolta, Sacchi subiva la personalità dell’ex amico che aveva allontanato da lui e dalla sua famiglia la fidanzata ucraina. Le ultime intercettazioni depositate nel processo madre, che riprende domani, mostrano infatti come il personal trainer fosse partecipe degli affari di Princi e Anastasiya ma cercasse di tenere una distanza di sicurezza da quello che definiva «uno spacciatore di discreto livello». Temendo forse di veder stravolta la sua vita, avvisava Anastasiya: «Va bene farci affari, ma viverci insieme come una famiglia no».
Droga a Roma, la coca bruciata nei bracieri e le vedette che fermano i poliziotti: il video girato da un «falco» nel bunker dello spaccio nella Capitale. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Antonio Crispino. Una settimana con la squadra dei falchi della polizia a San Basilio a Roma da dove sono partiti i killer di Luca Sacchi. «Consigliami un posto tranquillo dove andare quando avrò finito tutto questo» chiede Andrea a Nicolò che è seduto al suo fianco, al volante di una Renault Megan. I vetri sono appannati, l’auto è parcheggiata sul ciglio di una strada circondata dalla campagna. «Me ne andrei all’Aquila , i miei genitori sono di lì. Grossi reati non ce ne sono, un po’ di pentiti a cui fare la guardia ma niente di più”» risponde ad Andrea che ha gli occhi bassi su una chat di Whatsapp dalla quale ogni tanto escono messaggi vocali registrati da un filo di voce romanesca. Si premura che il collega divaghi per stemperare la tensione ma l’orecchio è teso ai messaggi. L’ultimo è questo: «Si stanno a move’, hanno posato la roba e ora hanno acceso il braciere». Andrea sorride compiaciuto mentre Nicolò continua a parlare del terremoto che ha colpito il suo paese, la gavetta a Milano e poi il ritorno nella capitale. Andrea è Proietti, il vice questore aggiunto dei «Falchi» della Polizia. Sono quasi due ore che siamo in appostamento in incognito con i suoi uomini nel quartiere di San Basilio, una roccaforte della droga unica nel suo genere. Uno dei poliziotti ha una telecamera montata addosso e la terrà con sé per una settimana. Proietti ha dato l’ordine a tutte le pattuglie «in colore» (cioè quelle brandizzate Polizia) di restare lontane per non destare sospetti. Chi gli manda i messaggi è Peppe, un agente in borghese. Era il suo giorno di riposo ma da due ore è acquattato sul tetto di un palazzo insieme a un collega. Ci sono sei gradi e tanta umidità. Appena qualche giorno prima era tra quelli che hanno partecipato alla cattura di Paolo Pirino, uno dei due fermati (l’altro è Valerio Del Grosso) responsabili dell’omicidio di Luca Sacchi dopo aver tentato uno scambio soldi/droga. E quella droga veniva da queste strade, quelle che una volta erano il regno dell’ «Accattone», l’Antonio Mancini della Banda della Magliana. L’organizzazione della piazza di spaccio a San Basilio è più raffinata rispetto a quella pur celebre di Tor Bella Monaca. I pusher sui marciapiedi hanno edificato delle baracche munite di bracieri: sono dei grandi bidoni che ardono costantemente legna. Servono per incenerire la droga in caso di blitz della polizia. È talmente alto il guadagno della piazza che le bande criminali preferiscono perdere il carico di stupefacente piuttosto che rischiare che un loro pusher venga arrestato. Durante l’appostamento succede però che una pattuglia dei carabinieri passi con i lampeggianti accesi. Ferma un’auto per controlli. In macchina si mastica amaro perché allerta gli spacciatori che erano sotto osservazione. Ma, al tempo stesso, ci consente di assistere alla trasformazione della piazza. I pusher si disfano della droga e danno l’alleata alle altre piazze, i clienti vengono rimbalzati da un posto all’altro, i portoni di alcune palazzine diventano punto di transito frenetico, per la strada iniziano a circolare le loro auto per il contropattugliamento: affiancano e sbirciano dai finestrini chiunque non abbia una faccia conosciuta. Identificano persino il poliziotto in borghese sceso a piedi in avvistamento. «Chi sei? Uno delle nuove leve?» gli chiedono. Si decide di annullare l’operazione. Recuperiamo i due poliziotti di vedetta su una palazzina di quattro piani poco distante. La rampa di scale è fatiscente, i portoncini di ingresso in legno hanno i segni di un recente sfondamento. Quelli al primo piano sono stati entrambi sigillati dai carabinieri, erano un deposito di droga. Al centro del pianerottolo ci sono le cassette della posta. Si sofferma a osservarle uno dei poliziotti, c’è qualcosa di strano, da un lato sporge troppo. Inizia a tastare, tirare, spingere e magicamente si apre a libro dalla parete; dietro nasconde degli alloggiamenti in ferro: ci sono i pallini di cocaina. A quel punto si monitorano anche le piastrelle a terra. Viene fuori che anche nel corrimano - di forma tubolare - è stoccata droga. Dal lato basso c’è una specie di tappo a vite, lo possono aprire solo gli spacciatori con una chiave che hanno fatto fabbricare su misura. Occorre una settimana per rimettere in piedi tutto il sistema di osservazione. Il punto di riferimento del quartiere è un bar, lo chiamano «La Coltellata». Qui si regolavano i conti tra le bande di narcotraffico. Sarebbe in via Corinaldo ma ormai più nessuno la chiama così. Una delle poche edicole del rione è ricoperta da un enorme graffito di Diabolik, il fumetto, ma per tutti è il simbolo di Fabrizio Piscitelli, l’ultrà della Lazio ucciso il 7 agosto scorso e vero riferimento per i trafficanti. L’altro lo chiamano «il Calabrese», per le sue origini. E dice molto sulla provenienza della droga. Nei giorni successivi i «falchi» della polizia ripetono il blitz. Si controllano le auto e i motorini nei paraggi. Trovano etti di droga negli appartamenti, tra le piante dei giardini pubblici, nelle auto parcheggiate, calamitata in scatole di latta dietro le inferriate dei palazzi, addirittura custodita nel baule di uno scooter all’interno di una piccola cassaforte; ben 407 dosi di cocaina purissima nascoste nel cruscotto di un’auto. Se tagliate bene sul mercato valgono anche 80 euro l’uno: l’equivalente di quasi due anni di stipendio del poliziotto che le ha scovate. Un business su cui pare reggersi l’intera borgata. Basti pensare che in questo primo mese del 2020 la sola squadra dei Falchi ha arrestato diciotto persone per droga. Nel 2019 ne sono state 180, fermate mentre cercavano di trafficare un totale di 36 chili di cocaina, 80 di hashish e 90 di marijuana. E per quello che si vede in strada sembrano anche poche. Insomma, il giorno per raggiungere un «posto tranquillo» per Andrea e i suoi uomini è ancora lontano.
«Pamela Mastropietro drogata dal fidanzato» Il pm: sei anni di carcere. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Giulio De Santis. La Procura accusa il 21enne Andrei Claudiu Nitu di aver spinto l’allora 16enne romana alla tossicodipendenza e alla prostituzione. La ragazza fu uccisa appena fuggita dalla comunità in cui era per disintossicarsi. È stato il fidanzato di Pamela Mastropietro, la 18enne violentata, uccisa e fatta a pezzi a Macerata il 30 gennaio del 2018 da Innocent Oseghale. Un rapporto durato dieci mesi tra settembre 2016 e giugno 2017, periodo durante il quale Andrei Claudiu Nitu, 21 anni, romeno, conduce la ragazza, all’epoca ancora minorenne, sulla strada della droga, anticamera della sua tragica fine. È lui - secondo la Procura che ne ha chiesto la condanna a sei anni e sei mesi di carcere - a cedere eroina a Pamela. Poi tenta di farla prostituire, convincendola ad avere un rapporto intimo con un cliente. La giovane, però, si oppone alla pretesa di Nitu con fermezza. E infine è l’imputato, come ricostruito dall’accusa, che spinge Pamela a rubare da casa apparecchi e oggetti preziosi con l’obiettivo di rivenderli per poi intascare denaro fresco e comprare eroina. Il pm Maria Teresa Geraci ripercorre il rapporto tra la 18enne e Nitu durante la requisitoria, svoltasi nella prima udienza del giudizio abbreviato, il rito con cui l’ex fidanzato ha scelto di farsi giudicare. Le accuse: cessione di sostanze stupefacenti, tentata induzione alla prostituzione di minorenne e circonvenzione d’incapace. Soprattutto è attraverso quest’ultimo reato che il pm descrive il rapporto tra Pamela e l’imputato. La Procura infatti sottolinea che, fino all’ultimo giorno in cui i due sono stati insieme, Nitu si è approfittato della «deficienza psichica di Pamela, in quanto affetta da un disturbo da uso di sostanze stupefacenti in un contesto di disturbo borderline della personalità». Una situazione preoccupante, che fin da subito allarma la famiglia della giovane. È la mamma, Alessandra Verni - rappresentata come parte civile dall’avvocato Marco Valerio Verni - a denunciare Nitu. La madre di Pamela si presenta negli uffici del commissariato San Giovanni undici volte in due mesi. La prima accusa contro il ragazzo la deposita il 24 aprile del 2017. Anche la nonna della 18enne, Giovanna Rita Bellini, corre allo stesso commissariato a denunciare Nitu, arrestato poi per una serie di rapine contro minorenni. Le denunce sono una dimostrazione della sofferenza dei familiari, che tentano in ogni modo di tenere la ragazza lontano dai guai. Nitu e Pamela si conoscono nel settembre del 2016. La giovane, fino a quel momento, non si è mai drogata. Soffre però di disturbo della personalità. E lui, incurante delle sue condizioni, la spinge a provare l’eroina. Lei, all’epoca sedicenne, se ne innamora, lo segue e si fida. Lui si spaccia per un pugile, la induce a rubare oggetti da casa. Una volta è la televisione, dopo il pc, poi il lettore dvd, i gioielli, infine un quadro. Nitu rivende tutto e spesso trattiene i soldi per sé, talvolta ci compra l’eroina per Pamela. Alla fine i genitori riescono ad allontanare la figlia da Nitu. Pamela, a ottobre del 2017, viene ricoverata in comunità per curare i problemi di personalità aggravati dall’eroina. Poi però il 30 gennaio del 2018 si allontana dalla struttura e trova sulla sua strada il nigeriano Oseghale, condannato all’ergastolo per averla violentata, uccisa e infine fatta a pezzi.
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 23 giugno 2020. Abusata due volte, il giorno prima di essere drogata, stuprata, ammazzata e fatta a pezzi da altri. Gli uomini che il 29 gennaio del 2018 hanno incontrato Pamela Mastropietro allo sbando e invece di aiutarla ne hanno abusato la faranno franca. Per loro nessun processo. Potrebbe sembrare surreale ma la giustizia ha i suoi meccanismi. Manca la querela della vittima e, in assenza, il procedimento penale va chiuso. L'archiviazione delle indagini è stata sollevata dalla stessa procura di Macerata che aveva indagato sul cinquantenne di Mogliano che aveva dato un passaggio in auto alla ragazza allora 18enne, dopo che si era allontanata dalla comunità Pars di Corridonia, dove era in cura, e sul tassista di origini argentine che l'avrebbe ospitata a casa la notte prima dell'omicidio. Erano accusati di aver avuto intimità con la ragazza approfittando del suo «evidente stato di difficoltà» e di »'minorata difesa». Pamela, però, non li aveva denunciati. L'indomani aveva continuato la sua fuga consegnandosi inconsapevolmente al suo assassino, Innocent Oseghale, nigeriano, poi condannato all'ergastolo. Un orrore giudiziario, una stortura, che va subito corretto secondo lo zio e legale della famiglia, l'avvocato Marco Valerio Verni: «Sostanzialmente la motivazione è il difetto di querela che, essendo maggiorenne, solo Pamela avrebbe dovuto presentare. Nessun altro, né l'amministratore di sostegno, né la nonna o un eventuale curatore speciale, avrebbe potuto farlo se non lei stessa, uccisa però in via Spalato il giorno dopo le violenze». «Eravamo preparati a questo esito - ha continuato - purtroppo la storia di mia nipote ha dimostrato di essere uno sfortunatissimo unicum». Tra l'altro il giudice delle indagini preliminari non sembra aver affatto escluso che Pamela, quel 29 gennaio, potesse essere in condizioni di inferiorità psichica e che queste potessero essere riconoscibili da chiunque l'avesse incontrata, ma ha respinto l'ipotesi che Pamela potesse trovarsi in uno stato tale da configurare il presupposto per una eventuale omissione di soccorso. Omissione, secondo il penalista, che avrebbe, invece, potuto permettere di superare l'ostacolo tecnico sul difetto di querela per lo stupro. Da qui la decisione di rivolgere un appello alle forze politiche affinché colmino il vuoto normativo. È a un passo dalla sentenza a Roma il processo a carico dell'ex fidanzato di Pamela, colpevole di averla avviata all'uso di droghe. Per Andrei Claudiu Nitu quel fidanzato giovane e troppo problematico, poi arrestato per aver compiuto sette rapine ai danni di ragazzini, la procura di Roma ha chiesto la condanna, in abbreviato, a sei anni e sei mesi di carcere per cessione di sostanze stupefacenti, induzione alla prostituzione e circonvenzione di incapace, proprio nei confronti di Pamela allora poco più che sedicenne. Per Pamela Mastropietro l'anticamera dell'inferno si era aperta proprio a Roma, a piazza Re di Roma. Mesi prima che venisse ritrovata nelle due valigie a Macerata.
Da “Libero quotidiano” il 15 ottobre 2020. «Oseghale deve guardarmi negli occhi e indicare i suoi complici». Così Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, la giovane romana violentata, uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio del 2018, in un'abitazione di Macerata. Anche ieri in aula, in occasione della seconda udienza del processo davanti alla corte d'appello di Ancona nei confronti di Innocent Oseghale, la donna ha detto di non credere alla tesi di un solo uomo capace del delitto e dello scempio sul cadavere della figlia e ha sfidato lo spacciatore nigeriano, condannato in primo grado all'ergastolo e per il quale il Pg ha chiesto la conferma della pena.
Da "tgcom24.mediaset.it" il 17 ottobre 2020. Confermata ad Ancona dalla Corte d'assise d'Appello la condanna all'ergastolo con isolamento diurno di 18 mesi per Innocent Oseghale, 32enne pusher nigeriano, per l'omicidio della 18enne romana Pamela Mastropietro, uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio 2018 a Macerata. Le accuse sono omicidio volontario aggravato della violenza sessuale, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere. "Bravi, grandi". L'applauso di Alessandra Verni, madre della 18enne, ha salutato il verdetto della Corte. Mentre Oseghale stava uscendo dall'aula, scortato dalla polizia penitenziaria, l'uomo ha detto ad alta voce: "Non l'ho uccisa, va bene, capite tutti italiani". "Ci aspettavamo questa sentenza, vista l'aria che tirava", il commento a caldo di uno dei due legali. La difesa ha annunciato il ricorso in Cassazione perche "si sono verificate delle violazioni di legge". La sentenza è arrivata dopo una lunga udienza dedicata in particolare alle arringhe difensive e alle dichiarazioni spontanee dell'imputato. "Non ho ucciso Pamela", ha ribadito Oseghale ammettendo “quasi impassibile di averne sezionato il corpo per disfarsene perche” non entrava in una valigia. "Ero sotto shock, confuso, agitato - ha riferito a proposito del sezionamento del corpo, leggendo un foglio manoscritto tradotto da un interprete dall'inglese - ho fatto una cosa terribile... mi dispiace". Le scuse sono state rispedite al mittente prima dal legale della famiglia, Marco Valerio Verni, zio di Pamela, e poi dalla madre della 18enne romana, sempre presente alle udienze. "Le scuse se le può tenere - ha replicato a margine del processo -. Ha avuto l'ultima possibilità di raccontare la verità e non l'ha fatto. Non gli credo. Andò a comprare la candeggina con un altro, ci spieghi perché...". Il corpo della giovane venne ritrovato il giorno seguente all'interno di due trolley sul ciglio di una strada a Pollenza, vicino Macerata, dove Oseghale l'aveva lasciato. Accolta dunque dai giudici la ricostruzione della procura generale, rappresentata dal pg Sergio Sottani e dal sostituto Ernesto Napolillo: Oseghale uccise Pamela con due coltellate al fegato dopo aver consumato con lei un rapporto sessuale, approfittando dello stato di fragilità della ragazza - con doppia diagnosi borderline e di tossicodipendenza - scappata il giorno prima da una comunità terapeutica e che aveva assunto eroina procurata proprio per il tramite di Oseghale. L'omicidio, secondo l'accusa, sarebbe stato il modo per evitare che lei lo denunciasse. In udienza la difesa ha dato battaglia per respingere le accuse di omicidio e violenza sessuale. I difensori hanno contestato le risultanze medico legali e in particolare il fatto che le due ferite da coltello fossero state inferte quando Pamela era in vita. Il 32enne ha sempre sostenuto che Pamela accusò un malore in casa dopo essersi iniettata eroina e che poi morì: lui, preso dal panico, secondo la sua versione dei fatti, smembrò il corpo solo per disfarsene. Opposta la ricostruzione accusatoria che ha delineato il profilo di Oseghale come di una persona incline a mentire, con particolari abilità medico legali, tanto da fare a pezzi il corpo con modalità uniche al mondo tra i casi di criminologia.
Estratto dell’articolo di Val.Err. per “il Messaggero” il 21 ottobre 2020. Quel suo primo fidanzato, allora diciannovenne, Pamela Matropietro lo aveva incontrato nel 2016, quando aveva solo 16 anni. Tutto sarebbe cominciato da lì. È Andrei Claudiu Nitu, secondo la ricostruzione dell'accusa, che avrebbe trascinato quella ragazzina, fragile e con disturbi di personalità, nel giro della droga, tentando anche di farla prostituire per qualche dose. Una strada senza ritorno, che avrebbe portato, due anni dopo, Pamela alla morte. Uccisa e tagliata a pezzi, il suo corpo rinchiuso in due valigie. Così, dopo la conferma dell'ergastolo per Innocent Oseghale, ieri, è arrivata anche la sentenza per Nitu: il gup di Roma ha condannato con rito abbreviato a tre anni di reclusione e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. L'accusa cessione di sostanze stupefacenti e tentata induzione alla prostituzione. […] Per il pm, approfittando dello stato di disagio e delle difficoltà della ragazza, l'aveva indotta a sottrarre i beni in casa, per venderli e racimolare qualche soldo da spendere in dosi di eroina. […] A presentare la denuncia era stata Alessandra Verni, la mamma di Pamela, dopo aver trovato il cellulare della figlia con dei messaggi inequivocabili nei quali l'allora fidanzato faceva riferimento allo spaccio di eroina. […]
I morti chiedono giustizia, anche se non possono sporgere denuncia. In Italia per il reato di abuso sessuale è previsto l’obbligo della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata uccisa brutalmente, non ha di certo potuto presentare denuncia. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per il crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Michel Emi Maritato il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Pamela Mastropietro, una sorte spietata. L’omicidio della diciottenne nella casa degli orrori di Macerata, culminato con la condanna all’ergastolo di Innocent Oseghale, confermata in corte d’appello, oltre ad aver suscitato la commozione – unita alla riprovazione – di tutto il Paese, pone inquietanti interrogativi. Una ragazza fragile, in difficoltà, della cui debolezza hanno approfittato in molti. Dagli uomini comuni che ha incontrato sulla propria accidentata strada, che non hanno saputo che regalarle denaro al posto di aiuto e comprensione, fino ai violenti spacciatori che ne hanno decretato il supplizio e la morte. Pensiamo al 50enne di Mogliano che le aveva dato un passaggio, intercettandola dopo che si era allontanata dalla comunità di recupero di Corridonia. Oppure al tassista di origine argentina che l’avrebbe ospitata a casa la sera prima del delitto. Nessuno di questi ha pensato alle condizioni di Pamela, sopraffatti dal proprio egoismo di maschi predatori. Se fossero intervenuti per tempo forse la ragazza avrebbe potuto salvarsi dalla furia degli aguzzini nigeriani che su di lei hanno sperimentato quanto di più aberrante possibile: violenza sessuale, omicidio e vilipendio di cadavere. Più di questo non si può. E qui arriviamo ai motivi di sconcerto: nel nostro Paese, per il delitto di abuso sessuale è prevista l’obbligatorietà della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata trucidata e rinchiusa in due valigie, ovviamente non ha potuto denunciare i mostri. Perché esattamente il giorno dopo un mostro l’ha uccisa in un modo orribile. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per questo crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Questa, in sintesi la storia di una ragazza dalla psiche debole, sopraffatta da qualcosa più grande di lei. Non si può tacere, notizie simili non possono passare sotto silenzio. La normativa deve essere adeguata. Se i predatori sessuali di Pamela non sono responsabili per la legge, lo sono per la coscienza morale e la politica sembra sorda e cieca di fronte a tale aberrazione. È evidente come tali previsioni legislative mantengano ancora un’impronta patriarcale ma occorre subito intervenire per colmare il vuoto normativo. Un reato detestabile come l’abuso e la violenza sessuale è punito con pene non commisurate alla gravità dell’evento. Basti pensare allo choc che impedisce alla maggior parte delle donne di denunciare, alla destabilizzazione conseguente a una violenza, che spinge molte di loro in una condizione psicologica devastante. Così, si spiega l’impunità di molti reati, una violenza ulteriore per il genere femminile. E il caso di Pamela, nel novembre 2019 è finito al Parlamento europeo, grazie a un convegno promosso dal gruppo “Identità e Democrazia” in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Proprio in tale circostanza, in cui sono stati sviscerati tutti i retroscena di questo orrendo crimine, si è stabilito un legame tra l’assassinio, l’accanimento sul cadavere della povera diciottenne e la mafia nigeriana, presente ormai in vari paesi del mondo e in Italia, con i suoi delitti e i suoi riti. “Ciò che ha subito Pamela va oltre la violenza contro una donna: è una violenza contro l’umanità intera”, è la convinzione dell’avvocato Marco Valerio Verni, legale della famiglia Mastropietro e zio della ragazza. Per questo il parlamento europeo, così sensibile al rispetto dei diritti umani, dovrebbe battere un colpo, manifestare il proprio disappunto di fronte a tale lacuna legislativa. Basterebbe una direttiva, una raccomandazione, la “moral suasion” (persuasione morale autorevole, ndr) dei rappresentanti Ue perché i Paesi aderenti si adeguino. A condanna comminata, non si può dimenticare la posizione dell’affollato pool di legali del nigeriano, che voleva “difendere l’indifendibile”, secondo quanto dichiarato da Luisa Regimenti, che non ha risparmiato sforzi per smontare tali tesi. Una linea difensiva che, come dichiarò la dottoressa in un’intervista al Secolo D’Italia, era basata “sul nulla, parlando di un quadro probatorio incerto, di destabilizzazione mediatica, di un rapporto intimo consensuale”, arrivando a fornire, nel corso delle udienze, “dati errati e fuorvianti”. Queste, le distorsioni cui si va incontro in un processo che implichi la violenza sessuale. Ne abbiamo avuto fulgidi esempi ma il sacrificio di Pamela non deve restare vano. Deve esserci uno sforzo collettivo da più parti. La politica non può più ignorare tale emergenza.
Marco Della Corte per il Giornale il 29 dicembre 2019. Il padre di Luca Sacchi, Alfonso, ha di recente fatto un'importante dichiarazione agli inquirenti, una confidenza più che altro, che tuttavia fa venire i brividi, in quanto sottolinea il totale menefreghismo da parte di Giovanni Princi (amico di Luca) una vota venuto a conoscenza della morte del giovane. Alfonso Sacchi ha affermato: "Mio cugino Massimo mi ha raccontato che quando hanno dato la notizia della morte di Luca, Giovanni Princi ha detto: "Vabbé, allora se è morto andiamo a farci una birra e un panino, che sto morendo di fame" ". Luca Sacchi, di professione personal trainer, è stato freddato con un colpo di pistola alla testa la sera del 23 ottobre 2019. L'omicidio è avvenuto a Roma durante una compravendita di droga finita male. La testimonianza del genitore di Luca è molto importante per gli inquirenti, in quanto, a detta loro, la presunta reazione di Princi delinea la caratura del giovane "inserito stabilmente in contesti criminali". Lo stesso Princi sarebbe stato colui che avrebbe introdotto la fidanzata di Luca Sacchi, Anastasia Kylemnyk, nel mondo dello spaccio. Come si legge dal settimanale Giallo, pervengono nuove ipotesi inquietanti sulla ragazza. Sempre tramite l'intermediazione di Giovanni, Kylemnyk sarebbe entrata in contatto con un potente e pericoloso criminale, Fabio Casali, un individuo legato allo spaccio di cocaina tra Italia e Sud America. Casali è stato già condannato a 16 anni di carcere e ritenuto, secondo gli inquirenti, il principale intermediario tra i narcos romani e i cartelli colombiani. Una pista che ha ufficialmente aperto un terzo filone investigativo riguardo l'omicidio di Luca Sacchi. Anastasia Kylemnyk sarebbe entrata in contatto con un pericoloso narcotrafficante, Fabio Casali, ago della bilancia tra narcos romani ed organizzazioni criminali del Sud America. Un'evidenza emersa dopo l'esame da parte degli inquirenti sui tabulati telefonici di Giovanni Princi. Quest'ultimo, una decina di giorni prima l'omicidio di Luca Sacchi, aveva contattato lo stesso Casali per poi telefonare subito dopo ad Anastasia. una volta terminata la conversazione con la 25enne, Princi (anche lui con precedenti per spaccio) aveva immediatamente richiamato il narcotrafficante. I messaggi e le telefonate hanno aperto quindi un nuovo filone investigativo sul caso di Luca Sacchi. L'eventuale sicurezza su reali contatti tra Anastasia e Casali sarebbe la conferma che i 70 mila euro trovati addosso alla baby-sitter ucraina, sarebbero serviti per acquistare sostanze stupefacenti e che la ragazza sarebbe stata effettivamente parte integrante del business dello spaccio.
Omicidio Luca Sacchi: «Parte dei soldi nascosti nell’auto di Anastasiya». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Per il tribunale è plausibile che la fidanzata di Luca nascondesse una porzione dei 70mila euro destinati all’acquisto di 15 kg di marijuana. «In assenza di plausibili e lecite spiegazioni, è ragionevole ritenere che nell’auto con cui Anastasiya Kylemnyk era giunta al pub quella sera vi fosse qualcosa da occultare con assoluta urgenza (verosimilmente la restante somma di denaro, oltre a quella occultata nello zaino e mostrata a Rispoli, destinata ai fornitori)». Nell’ordinanza del tribunale del Riesame prende forma il sospetto a lungo ipotizzato che la Citroen C1 gialla della 25enne fidanzata di Luca Sacchi avesse una funzione ben definita nelle dinamiche di compravendita di droga davanti al John Cabot pub all’Appio Latino. È la stessa vettura che lei inizialmente nega di aver utilizzato per arrivare all’appuntamento col suo ragazzo e che il complice della ucraina, Giovanni Princi, si affretta a far spostare dalla scena del delitto, mentre il suo amico lotta in ospedale tra la vita e la morte. Così argomenta il tribunale della Libertà nel respingere le richieste di Princi (chiedeva di passare dal carcere ai domiciliari) e Anastasiya (revoca dell’obbligo di firma): «Illuminante, per capire il motivo di tanta solerzia del Princi nel recuperare l’auto della Kylemnyk, sono le dichiarazioni rese in data 2.11.2019 da Marco Lico (un amico del fratello di Luca, ndr). Quest’ultimo ha riferito che, dopo che era terminata l’operazione cui era stato sopposto Sacchi, Princi gli aveva chiesto di accompagnarlo a recuperare il veicolo di Anastasiya; erano quindi andati con la panda dei Sacchi dove era parcheggiata l’auto della ragazza, nei presi del pub». I giudici continuano riportando uno stralcio del verbale in cui »Lico descrive in maniera precisa i movimenti del Princi: “...Io ho guidato la Fiat Panda dei Sacchi e Giovanni ha preso l’autovetura di Anastasiya. Giovanni mi ha detto di seguirlo e nel punto in cui lui, con l’autovettura Anastasiya, avesse acceso le quattro frecce, io mi sarei dovuto fermare ad attenderlo lì. Io ho seguito la Citroen, con Giovanni a bordo, fino a metà di viale Amelia, poco prima dell’incrocio con vi Gubbio, dove lui ha acceso le quattro frecce delle Citroen e, come concordato, mi sono fermato... Dieci minuti o un quarto d’ora dopo, Giovanni, sempre alla guida della Citroen di Anastasiya, mi ha raggiunto in viale Amelia... Mi ha detto di seguirlo... per fumare una sigaretta... Dopo pochi minuti abbiamo ripreso le rispettive autovetture e con entrambi i veicoli siamo andati all’ospedale San Giovanni...”». Tanto si è ragionato su questo comportamento di Princi (che, unico tra i presenti coinvolti a vario titolo), si era allontanato dalla scena del delitto all’arrivo dei carabinieri. Il Riesame evidenzia dunque che: «Risalta in maniera evidente il lungo lasso di tempo (dieci minuti o un quarto d’ora) nel quale Princi si è allontanato da solo con l’auto della Kylemnyk». Il resto emerge, secondo i giudici, dalle contraddizioni di Anastasiya: «L’indagata prima dice di aver appoggiato lo zaino per far passeggiare il cane (eppure lo ziano conteneva il denaro che le era stato affidato da Princi); poi dice di aver passeggiato con Luca fino a una panchina dove aveva preso una bottiglietta d’acqua dallo zaino. E alla contestazione del gip che le fa notare l’evidente contraddizione (durante l’interrogatorio di garanzia, ndr), la ragazza cambia di nuovo versione e dice che Princi l’aveva richiamata per farle prendere con sé lo zaino. Dunque Princi si fidava a tal punto della Kylemnyk da lasciarla allontanare con i soldi che gli servivano per il suo “impiccetto”». Quest’ultimo è il termine usato dalla 25enne ucraina per provare a liquidare con un «affare di motociclette» la ragione del denaro affidatole dall’amico. Una ennesima bugia che oggi non sta più in piedi. Anzi, il fatto di aver tenuto parte dei 70mila euro promessi ai pusher nascosti nell’auto (mostrando comunque lo zaino pieno di banconote) sembra fornire altri argomenti per sostenere la dimestichezza con cui Princi e Anastasiya conducevano quell’affare. Forse non il primo di questo genere.
Michela Allegri per il Messaggero il 4 febbraio 2020. C'erano altri soldi, oltre a quelli nascosti nello zaino di Anastasia Kylemnyk e rubati di pusher di San Basilio, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. E il sospetto degli inquirenti è che il denaro fosse nella macchina della ragazza, che Giovanni Princi ha spostato in fretta e furia mentre il suo amico Luca Sacchi lottava tra la vita e la morte in ospedale. La notte del 23 ottobre, dopo che Del Grosso aveva sparato in testa a Sacchi per rubare alla sua fidanzata Anastasia uno zaino pieno di banconote, Princi aveva una preoccupazione su tutte: spostare la macchina della Kylemnyk. Tanto da chiedere a un amico di accompagnarlo davanti al pub John Cabot, all'Appio Tuscolano, dove si trovava il veicolo. Quella sera c'era stata una trattativa per la compravendita di 15 chili di erba - condotta da Princi e da Anastasia, per l'accusa - con i due pusher di San Basilio, ora in carcere con l'accusa di omicidio insieme a Marcello De Propris. La cifra pattuita per lo scambio era 70mila euro in contanti. I soldi si trovavano nello zaino della ragazza: erano così tanti che Del Grosso si era ingolosito e aveva deciso di derubare gli acquirenti senza consegnare la droga. Lo spaccio, diventato rapina, era poi sfociato nell'omicidio di Luca. E ora la Procura ha un nuovo sospetto: nello zainetto rosa di Anastasia, probabilmente, c'era solo una parte del denaro. Il resto si trovava nella sua macchina, prontamente spostata da Princi mentre Sacchi moriva all'ospedale San Giovanni. Una ricostruzione condivisa dal tribunale del Riesame, che lo scorso dicembre ha confermato le misure cautelari a carico di Princi - che si trova in carcere - e di Anastasia, che ha l'obbligo di firma. Entrambi sono accusati di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio.
LE BUGIE. Anastasia ha mentito il giorno dell'omicidio, quando ha sporto denuncia sostenendo di essere stata vittima di una rapina e omettendo la questione della droga. Ha raccontato di essere arrivata al John Cabot, luogo dell'appuntamento con i pusher, a piedi. In realtà era arrivata in macchina. La versione di Anastasia non ha convinto nemmeno il gip, quando la babysitter venticinquenne si è sottoposta a interrogatorio di garanzia. Ha dichiarato che Princi le aveva chiesto di tenere una busta dentro allo zaino e di non sapere che all'interno ci fossero molti soldi. Quando le è stato chiesto di spiegare come mai Princi avesse le chiavi della macchina, ha detto: «Ho lasciato lo zaino, Giovanni mi ha chiesto anche le chiavi, mi ha detto: Casomai dopo poggio la busta lì dentro». Per il Riesame, questa dichiarazione è «un inutile tentativo di giustificare la disponibilità da parte di Princi della chiavi»: era stato Princi a riportargliele in ospedale la notte dell'omicidio, «dopo avere spostato il veicolo dal luogo in cui era parcheggiato». I giudici sottolineano che «non è affatto casuale che di tale incombenza si fosse occupato proprio Princi».
DIECI MINUTI SOSPETTI. Viene considerata fondamentale la testimonianza di Marco Lico, un amico di Luca. In ospedale, dopo che era finita l'operazione per cercare di salvare Sacchi, Princi gli aveva chiesto di accompagnarlo a recuperare l'auto. Erano andati con la Panda dei Sacchi fino al pub: «Io ho guidato la Panda e Giovanni ha preso la macchina di Anastasia. Mi ha detto di seguirlo nel punto in cui lui avesse acceso le quattro frecce, io mi sarei dovuto fermare ad attenderlo lì. Ho seguito l'auto fino a metà di viale Amelia, poco prima dell'incrocio con via Gubbio, dove lui ha acceso le quattro frecce e, come concordato, mi sono fermato. Dieci minuti o un quarto d'ora dopo, Giovanni, sempre in auto, mi ha raggiunto in viale Amelia, mi ha detto di seguirlo per fumare una sigaretta. Dopo pochi minuti abbiamo ripreso le rispettive autovetture e siamo andati all'ospedale San Giovanni». Il Riesame sottolinea che «risulta in maniera evidente il lungo lasso di tempo (10 minuti o un quarto d'ora) nel quale Princi si è allontanato da solo con l'auto della Kylemnyk». Un dettaglio considerato sospetto: «In assenza di plausibili e lecite spiegazioni, è ragionevole ritenere che nell'auto con cui la Kylemnyk era giunta al pub quella sera ci fosse qualcosa da occultare con assoluta urgenza, verosimilmente la restante somma di denaro, oltre a quella occultata nello zaino della Kylemnyk, destinata ai fornitori».
Michela Allegri per ilmessaggero.it l'1 febbraio 2020. Era inserita nel buisiness della droga. E ha mentito davanti agli investigatori, mentre il fidanzato era in fin di vita e anche dopo la sua morte. Ha fornito una versione «fantasiosa» e «inverosimile» anche dopo essere stata raggiunta dalla misura cautelare dell'obbligo di firma. Una misura restrittiva che, secondo il tribunale del Riesame, per Anastasia Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, è «appena sufficiente» a mantenere «un controllo per prevenire il pericolo di reiterazione del reato». Nelle motivazioni con cui i giudici hanno respinto la richiesta di revoca dell'obbligo di firma e che hanno anche confermato il carcere per Giovanni Princi, amico di lei e di Sacchi, la ragazza avrebbe svolto un ruolo di primo piano nella trattativa per la compravendita di 15 chili di droga costata la vita al personal trainer di 24 anni. La baby sitter venticinquenne è accusata insieme a Princi di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio. La sera del 23 ottobre avevano appuntamento con i pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino - in carcere per l'omicidio di Sacchi insieme a Marcello De Propris - per acquistare 70mila euro di erba. Il denaro, secondo quanto ricostruito dai carabinieri e dalla pm Nadia Plastina era nascosto nello zaino della ragazza. Del Grosso, dopo avere visto i soldi, aveva deciso di rapinare i compratori: Pirino aveva colpito la Kylemnyk con una mazza e Del Grosso aveva sparato a Sacchi, che aveva reagito alla violenza. Per il Riesame, che il 19 dicembre ha ribadito le misure, «sussiste un concreto pericolo di reiterazione del reato, in ragione delle modalità del fatto e della personalità degli indagati». Un dettaglio è fondamentale: «L'acquisto di ben 15 kg di marijuana denota uno stabile inserimento negli ambienti della droga da parte degli indagati, che evidentemente riforniscono ad una larga clientela». Per i magistrati, infatti, «si tratta di un'attività che certo non è episodica ma che viene svolta con abitualità». Princi era inserito nel giro: aveva 4 utenze cellulari «anche intestate a stranieri», ha consigliato a un cliente di utilizzare un'app criptata e non ha nemmeno voluto dargli il suo numero di telefono. Circostanza «sintomatica di estrema cautela e professionalità, tipica di soggetti abituati a dinamiche criminali». E, sottolineano ancora i giudici, il giovane era in grado di muoversi in maniera «professionale», con «scaltrezza». Per i pm è il regista della trattativa, e anche per il Riesame «è plausibile che abbia avuto un ruolo, se non di leader, di certo di promotore dell'affare». Dopo l'arresto, oltretutto, ha deciso di non rispondere al gip, dimostrando «di non voler interrompere i rapporti con gli ambienti criminali, in prospettiva di futuri affari». Anche per quanto riguarda Anastasia gli indizi sono «gravi». Ha mentito all'inizio, quando ha sporto denuncia raccontando di avere subito una rapina. E ha mentito anche in seguito, fornendo versioni «fantasiose». Ha detto che Princi le aveva chiesto di tenere nello zaino una busta di soldi che gli servivano per acquistare una moto, per «un impiccetto». Aveva anche detto di aver raggiunto il luogo dell'appuntamento, il pub John Cabot in via Mommsen, a piedi. In realtà era arrivata in macchina. E quella stessa macchina era stata spostata da Princi mentre Luca era in ospedale. Anastasia ha giustificato quella bugia dicendo al gip che «quando hanno portato via Luca ero sicura che fosse vivo, ho pensato stupidamente di non volerci mettere in mezzo a questo impiccio di Giovanni». Ma il Riesame sottolinea che la giovane ha continuato a tacere, anche quando Sacchi era morto e «non c'era più motivo di mantenere riserbo». Per i magistrati, l'indagata ha «cercato di sviare le indagini dal vero scopo della sua presenza davanti al pub».
Valentina Errante per “il Messaggero” il 24 gennaio 2020. «Basta, da ora in avanti faccio quello che voglio», così Anastasia scriveva a Luca Sacchi un mese prima che il proiettile sparato da Valerio Del Grosso uccidesse il bodybuilder. Litigavano, Luca e Anastasia. Ciascuno attribuiva all'altro scorrettezze e Sacchi non si fidava più della fidanzata, adesso sotto inchiesta con l'ipotesi di detenzione ai fini di spaccio. «Stai con uno dei tuoi amanti?», le diceva, mentre lei non sopportava il rapporto tra Luca e la madre: «Quindi tu starai sempre dalla parte di tua madre e mai dalla mia, giusto? - scriveva la ragazza in un messaggio - Se ti dice: scegli o me o lei, tu dirai mammina, vero?». Le chat sono agli atti del fascicolo per omicidio, perché la tragedia che si è consumata davanti al pub John Cabot, lo scorso 23 ottobre, è stata l'epilogo di una trattativa per l'acquisto di droga. Settantamila euro, nascosti nello zaino di Anastasia. Almeno secondo i carabinieri e la procura. Soldi che Valerio Del Grosso e il suo complice, Paolo Pirino, avrebbero voluto prendere senza dare in cambio la merce. Sono le 3 del 9 settembre quando Anastasia chiede a Luca: «Ti va ancora di stare con me? Ti va di amarmi? Non è un gioco o una domanda scontata». Luca risponde di sì e Anastasia continua: «Tu vuoi stare con una come me?». «Una come te?», chiede Luca, e lei ripete: «Una come me». Sacchi risponde: «Dopo la sbroccata di prima ho paura, ma comunque sì, voglio stare con te, tu?». Anastasia si innervosisce: «E già questa risposta ad una come me, sono sincera, non mi piace per niente, mi fa solo allontanare e penso alle cose che ti ho detto prima. Forse, davvero, potremmo essere degli ottimi amici che si vogliono bene, forse è questo che ci aspetta». Luca risponde: «Basta essere così diretta con me, affronti questo argomento con troppa semplicità, come se non ti toccasse». E lei: «Io se dico queste cose è solo perché tengo un mondo a te e non voglio assolutamente essere un peso per la tua vita, ma una gioia». L'11 settembre Anastasia scrive a Luca: «Sei perfetto in tutto, perché sai frenarmi e invogliarmi allo stesso tempo». Due giorni, alle 18, dopo Luca annuncia alla fidanzata che sta per raggiungerla. E lei: «Non mi rompere, mi hai stufato. Non perché voglio che tu lo sappia, ma d'ora in avanti, te l'avevo già detto, faccio quello che voglio e non una relazione di costrizioni». «Non trattarmi così», ribatte Luca. Ti sto chiedendo solo di rispondermi». E Anastasia: «Ma che c... vuoi dire che io ti tratto come fai te? Che ti perculo davanti agli altri. O che per caso ti mando a casa col rischio che succede qualcosa e io me ne vado perché ho sonno o perché mamma si preoccupa. Penso sempre in primis a te, in cambio ho un co... che mi dice che la mia vita fa schifo e mi sfogo con lui. Sappi che la mia vita ha cominciato a fare schifo da quando ci sei tu». Il 15 settembre è Luca ad essere arrabbiato con Anastasia, le scrive parolacce, perché lei non risponde. «Non posso andare avanti così. Non riesco ad avere parole. Sono arrabbiatissimo con te». E Anastasia: «Ma perché, scusa. Ti ho detto che andavo a casa e sto a casa, perdonami». E lui: «Non mi sono fidato troppo perché eri un po' fatta e avevo paura di qualsiasi cosa». Lei: «Vaffa...» E Luca: «Hai fatto proprio una cazzata grossa come una casa e ti giuro mi ha dato proprio fastidio. Ancora non ho risolto, per un motivo o per l'altro. Certe volte mi scordo, altre non se po' fa'».
Alessia Marani per “il Messaggero” il 27 gennaio 2020. Non sarà tra gli imputati, ma la sua testimonianza, come quella di Valerio Rispoli, sarà fondamentale al processo che si aprirà il 31 marzo per delineare come si sono svolti i fatti nella notte tra il 23 e il 24 ottobre, quando Luca Sacchi è stato ucciso davanti al John Cabot Pub all'Appio Latino. Simone Piromalli, 27 anni, quella sera aveva accompagnato l'amico Valerio Rispoli in via Latina per sincerarsi, per conto del pusher Valerio Del Grosso - altro amico comune ed esecutore materiale del delitto - che i ragazzi dell'Appio avessero i soldi per la compravendita di marijuana. Il gruppo di amici a Casal Monastero aveva già fatto parlare di se, tra scorribande nei condomini e qualche lite animata. «Sì, quella ragazza bionda, Anastasia, ci mostrò la borsa rosa con dentro tutti quei soldi. Con lei, nel luogo dell'appuntamento, c'era anche Luca Sacchi. Quando, un'ora dopo, l'ho rivisto per terra, sanguinante, tra le sue braccia l'ho subito riconosciuto dalla tuta che indossava». Tre mesi dopo, Simone (che non è indagato) riporta alla memoria quei fatti. Il ragazzo è a casa, «sto studiando e tra poco inizia il derby, gioca la Roma e non mi va di parlare più di tanto», dice. Ma quanti soldi c'erano nello zainetto di Anastasia? «L'avete detto, l'avete scritto. Ne sapete più voi giornalisti...». Gli inquirenti sostengono ci fossero settantamila euro, non sono un po' tanti per entrare nella borsa di Nastja? «Non è che alla fine siano troppi, ci stanno, e là dentro c'erano tanti soldi». Simone la sera del 24 ottobre alle 23,30 venne convocato dagli investigatori e di fronte ai poliziotti e ai carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci che hanno portato avanti le indagini, fornì una prima ricostruzione dei fatti. Dopo venti minuti, però, cambiò versione e cominciò a raccontare di come Rispoli gli avesse chiesto di accompagnarlo ai Colli Albani, «dietro un piccolo compenso», a parlare con un ragazzo (Giovanni Princi, ora in carcere) per definire i termini di una cessione di marijuana. «Dopo di allora i carabinieri non mi hanno più richiamato, non sono più stato sentito da nessuno neanche in Procura - spiega Simone -, adesso si andrà a processo, per me vale quello che ho messo a verbale, se necessario lo ripeterò». Rispetto alla versione resa da Rispoli ci sono delle discrepanze su chi fosse presente alla trattativa, per esempio Rispoli (anche lui non indagato) non cita la vittima, Luca. «Forse non se lo ricordava lì per lì, ma c'era, non credo passasse per caso». Simone è rimasto in contatto con Del Grosso (accusato dell'omicidio insieme a Paolo Pirino che lo accompagnò all'Appio per rapinare lo zaino con i soldi e, nell'occasione, sparò a Sacchi) fin dal giorno dell'arresto. «L'amico mio sta male, giura che è pentito». «Ci scambiamo email dal lunedì al venerdì - racconta il ventisettenne - immagino sia sollevato dalla chiusura delle indagini perché così potrà lasciare l'isolamento. Di tutta questa storia, mi spiace per quel ragazzo morto, ma tanto anche per Valerio. Non passa giorno che non dica che si è pentito, è dispiaciuto, davvero non è felice per quello che ha fatto. Io? Continuo la vita mia, quella sera che sono uscito tutto pensavo meno che sarebbe accaduta una tragedia del genere».
Delitto Sacchi, «fu premeditato»: subito a processo anche Anastasiya. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Disposto il giudizio per sei persone. La 25enne ucraina accusata di detenzione e spaccio. In chat chiedeva a Luca: «Ti sembro dottor Jekyll e mister Hyde?». Per la determinazione nel procurarsi il revolver e per il sufficiente lasso di tempo trascorso dalla vista dei 70mila euro nello zaino di Anastasiya Kylemnyk alla realizzazione del piano per la rapina sfociata nel delitto, quello di Luca Sacchi fu un omicidio premeditato. È il presupposto con cui la Procura di Roma, a chiusura delle indagini in meno di tre mesi, ha chiesto e ottenuto il processo immediato per gli assassini del 24enne e per i responsabili dell’affare di droga da cui ne originò l’uccisione lo scorso 23 ottobre al quartiere Appio Latino. Un caso nato come una rapina anomala, complicato dalla difficoltà di ricostruire il quadro di relazioni tra i giovani spacciatori e dalla reticenza di chi, come la 25enne ucraina, da parte lesa è poi passata sul banco degli imputati. Uno sdoppiamento notato in modo quasi profetico anche dal fidanzato: «Ti sembro Dottor Jekyll e Mr Hyde?», gli chiedeva lei in chat il 15 novembre. Del delitto rispondono in concorso Valerio Del Grosso (esecutore materiale), Paolo Pirino (partecipe all’aggressione impugnando una mazza da baseball) e Marcello De Propris (che fornì la pistola ed era a conoscenza del progetto di rapina). I tre sono accusati anche di rapina e possesso d’arma. Con Anastasiya e Giovanni Princi, ritenuto la mente della compravendita e finanziatore dell’acquisto di 15 chili di marijuana con la liquidità di analoghi affari precedenti, condividono invece l’accusa di detenzione e spaccio. Il padre di De Propris, Armando, è accusato del possesso della pistola e della droga che custodiva già stoccata nel garage. La prima udienza si terrà per tutti il 31 marzo in Corte D’Assise. In base alla nuova legge, i tre presunti assassini non possono chiedere il rito abbreviato con relativo sconto a 30 anni e rischiano dunque l’ergastolo. Ottantasette le fonti di prova sottoposte all’esame del gip da parte del pm Nadia Plastina, su indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri. Tra esami tecnici, perquisizioni, testimonianze e sequestri un ruolo decisivo riveste l’intercettazione avvenuta pressoché in diretta dell’omicidio grazie a una indagine già in corso da parte della Squadra mobile, in cui Del Grosso annunciava a De Propris: «Sto con un amico bello fulminato! Ma se vengo a prendeme quella cosa e glieli levo tutti e settanta? ». I sei imputati sono tutti detenuti, a parte Anastasiya che dal 29 novembre si reca in caserma a firmare tre volte a settimana. Dopo le dichiarazioni a caldo sull’innocenza sua e di Luca smentite dai fatti, mai ha voluto commentare, neanche tramite il suo avvocato Giuseppe Cincioni. Ma chi le è vicino la descrive «amareggiata» per i dettagli privati emersi sulla relazione con Luca, «incredula» per l’attenzione mediatica che le è stata riservata e «ansiosa» di farsi processare, certa che, senza il ritrovamento di soldi e droga (di cui però parlano gli stessi protagonisti dell’affare) ha le carte giuste da giocarsi.
Omicidio Sacchi, il 31 marzo a giudizio Anastasiya e altre 5 persone. "Ci fu premeditazione". Il giovane venne ucciso nello scorso mese di ottobre davanti a un pub. Alla sbarra gli esecutori materiali, l'amico d'infanzia Giovanni Princi, Marcello de Propris e il padre Armando. La Repubblica il 24 gennaio 2020. E' fissato per il prossimo 31 marzo davanti alla prima Corte d'Assise di Roma il processo per l'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni, morto la notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot pub, in zona Appio, a Roma, con un colpo di pistola alla testa. "Fu premeditato", ne sono convinti i pm della Procura di Roma che, a novanta giorni dai fatti, hanno chiesto ed ottenuto il giudizio immediato, rito che consente di portare il procedimento direttamente davanti ai giudici della Corte d'assise saltando l'udienza preliminare, per sei persone, compresa la fidanzata della vittima, la 25enne modella ucraina e babysitter Anastasiya Kylemnyk. Di omicidio e rapina dei soldi contenuti nello zainetto di Anastasiya risponderanno Valerio Del Grosso (autore materiale del delitto) e il complice Paolo Pirino, più Marcello De Propris, che consegnò l'arma. La detenzione di quest'ultima è attribuita ad Armando De Propris, padre di Marcello. Del Grosso e Pirino, inoltre rispondono della detenzione della mazza da baseball usata per aggredire Luca Sacchi e la fidanzata. Ma soprattutto la Procura contesta a Del Grosso, Pirino e De Propris l'aggravante della premeditazione. Nel capo di imputazione i pm scrivono che Del Grosso e Pirino sono giunti in via Mommsen a bordo di una Smart "entrambi armati, il primo di un revolver calibro 38 fornitogli da Marcello De Propris, e Pirino di una mazza da baseball". A processo anche Anastasiya Klymenyk, fidanzata della vittima, e Giovanni Princi, amico di infanzia di Sacchi e regista della trattativa con i pusher di San Basilio per l'acquisto di 15 chilogrammi di droga poi terminata tragicamente. Luca Sacchi, personal trainer di 24 anni, muore la notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot pub, in zona Appio, raggiunto alla testa da un colpo di pistola. La procura di Roma impiega tre mesi per chiudere le indagini, ma la svolta arriva subito quando polizia e carabinieri arrestano gli autori dell'omicidio e inseriscono la vicenda in un contesto legato a una compravendita di sostanze stupefacente. Il giorno dopo l'agguato furono fermati Del Grosso e Pirino. Il primo si era nascosto in un residence a Tor Cervara, mentre l'altro aveva trovato riparo sul terrazzo del condominio dove abita. L'auto usata per fuggire viene sequestrata, si cerca ancora la pistola. Gli investigatori, che all'inizio pensavano a un tentativo di scippo conclusosi in tragedia, ipotizzano con il trascorrere delle ore uno scambio di droga non andato in porto. L'autopsia svolta su Luca confermò che la morte era stata causata da un colpo d'arma da fuoco alla testa. I numerosi lividi sulle braccia dimostravano che il giovane aveva cercato di parare il volto dai colpi di mazza da baseball usata dai due aggressori che avevano strappato lo zainetto rosa (con i soldi destinati all'acquisto di marijuana) della fidanzata della vittima, Anastasiya.
La ricostruzione dei pm. Nel provvedimento i magistrati ricostruiscono le fasi dell'aggressione avvenuta in via Mommsen, a pochi metri da un pub. Del Grosso e Pirino si sono avvicinati "alla vittima e alla sua fidanzata Anastasia che aveva uno zaino rosa contenente la somma di 70 mila euro. Pirino ha colpito la ragazza intimandole di consegnare lo zaino e successivamente ha tentato di colpire Sacchi, che si proteggeva con il braccio riportando due grosse ecchimosi, mentre Del Grosso, alla resistenza dei due fidanzati, ha esploso un colpo di arma da fuoco a distanza ravvicinata in direzione del capo di Luca cagionandogli gravissime lesioni a causa delle quali il giovane è deceduto a distanza di poche ore". I pm di piazzale Clodio hanno deciso di unire all'episodio dell'omicidio anche il segmento di indagini relative alla trattativa per l'acquisto di droga. In questo ambito contestano ad Anastasyia ed altri quattro una serie di violazioni della legge sugli stupefacenti. L'accusa riguarda Princi, Marcello De Propris e i pusher Del Grosso e Pirino. Nel capo di imputazione si afferma che i cinque in concorso tra loro, "Marcello De Propris quale fornitore, Del Grosso e Pirino incaricati della trattativa e della consegna, detenendo 15 chilogrammi di marijuana di buona qualità, si accordavano con Princi e Anastasia per la vendita dell'ingente quantitativo di sostanza stupefacente a favore di questi ultimi. De Propris - scrivono i pm - infatti aveva già confezionato la droga in balle, la ragazza aveva con se nello zaino i 70 mila euro, la cifra convenuta quale prezzo dello stupefacente con consegna fissata per la sera dell'omicidio"
Alessia Marani per il Messaggero il 25 gennaio 2020. Una vita da fantasma in attesa del processo. Incappucciata a più non posso per non farsi riconoscere: il copricapo della felpa calato sulla fronte, poi sopra quello del piumino. La testa bassa per non incontrare lo sguardo pronto a giudicare delle altre persone, quelle poche volte che scende da casa o si incammina fino al parco della Caffarella per portare a spasso i cani. «Anastasia sembra invecchiata di vent'anni all'improvviso, è l'ombra di se stessa», racconta una vicina di casa che l'ha vista crescere nel palazzo dell'Alberone dove vive con la mamma, la sorellina, il patrigno e lo zio. «NON PARLO» Il quartiere è a ridosso della via Appia Nuova, non lontano dall'Appio Latino dove abitava Luca. Poche centinaia di metri che nascondono ormai una distanza abissale: più nessun contatto con la famiglia del 24enne ucciso dai pusher di Casal Monastero a fine ottobre. «Ho incontrato Nastja pochi giorni fa ed era molto che non la vedevo - aggiunge l'inquilina mentre apre il portone di vetro - ho incrociato il suo volto uscendo dall'ascensore. Mi ha messo i brividi perché quasi non la riconoscevo più. Non è più la ragazza luminosa di prima; era scura, triste, mi ha fatto una brutta impressione. Ho dei figli anche io - dice la donna - prima dell'omicidio non avrei mai immaginato che lei potesse essere coinvolta in una brutta storia come questa, ma basta poco perché ragazzi così giovani possano commettere sciocchezze. E, purtroppo, questa volta irreparabile». Sono passati tre mesi dalla morte di Luca. Anastasia Kylemnik, 25 anni, baby sitter di origine ucraina, dopo la chiusura delle indagini di carabinieri e Procura, è formalmente tra gli imputati chiamati a processo in relazione all'omicidio. Deve rispondere di detenzione e spaccio di stupefacenti, era lei secondo l'accusa a tenere nello zaino i soldi che servivano per la compravendita di marijuana, settantamila euro. Dalle chat estrapolate dal telefono del personal trainer è emerso il continuo scambio di messaggi di liti, incomprensioni e battibecchi tra i due, anche nelle settimane prima della tragedia. Ieri Anastasia era in casa: «Hanno chiuso l'inchiesta? E beh? Non ho nulla da dire, ciao», risponde secca al citofono. In casa sono tutti provati. La mamma ultimamente si vede più spesso - spiega un altro vicino - scende nella piazzetta con i cani, saluta, è gentile. Ma è dimagrita tantissimo, ha il volto segnato. Credo che ogni giorno che passa, il macigno di questa vicenda pesi sempre di più, che si stiano rendendo conto di che guaio enorme è successo». Luisa P. ha 85 anni, «sono mamma e nonna - spiega mentre rientra a casa con gli abiti appena ritirati in tintoria - so che questa ragazza abita qui, ma non la conosco. Ho seguito, però, la vicenda e siamo tutti convinti, almeno le persone con cui ho parlato, i commercianti, il parrucchiere, i ristoratori, che la causa di tutto sia questa maledetta droga. E chi si avvicina alla droga sa i rischi che corre e i personaggi in cui potrebbe incorrere. A maggior ragione se ci si mette a spacciare, come pare emergere dalle indagini. Mi spiace per questa ragazza così giovane, si è rovinata lei e il fidanzato non c'è più, ma bisogna stare lontani dalla droga e da certi giri, per cui non può essere giustificata fino in fondo». E Luca? «Mi sembra tanto che quel ragazzo fosse solo tanto innamorato, un po' come il Principe Harry con Meghan Markle, pronto a sfidare tutto per la sua donna».
Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 25 gennaio 2020. «Ti sembro dottor Jekyll e mister Hyde?», scriveva Anastasia Kylemnik al suo fidanzato, Luca Sacchi. «Una cifra. Sembra che giochi con i miei sentimenti» ribatteva il 24enne, in uno scambio di messaggi adesso agli atti dell'inchiesta. «Mi hai stufato», diceva l'ucraina in un'altra conversazione. Sms che tracciano una parabola discendete nella relazione tra il personal trainer e la baby sitter a un mese dall'assassinio del giovane fuori dal pub John Cabot, nel quartiere Colli Albani a Roma. La fiducia di Sacchi nei confronti della Kylemnyk era crollata. Il rapporto tra i due ragazzi, negli ultimi tempi, non era più sereno, si era sfilacciato. Sacchi l'accusava di non essersi comportata bene, «sono arrabbiato». La 25enne, invece, non sopportava più la madre di Luca. Un'avversione nei confronti della suocera che la 25enne manifestava in modo chiaro. Era soprattutto Sacchi a chiedere spiegazioni alla fidanzata. La ragazza spesso non rispondeva alle telefonate. Lui domandava e la Kylemnyk non era sempre conciliante. Il 15 settembre, un mese prima del suo assassinio Sacchi scriveva: «Rispondi». «Tutto ok. Mi stavo lavando. Un attimo». Il personal trainer non era troppo convinto della risposta: «Sei una m.... s.......». «Ti giuro», ribatteva lei. Il 24enne era sconsolato e spiegava che «non posso andare avanti cosi». «Sono arrabbiatissimo con te», aggiungeva. Poi, sempre, Sacchi le rappresentava il motivo del suo disappunto. «Non mi sono fidato molto perché eri un po' fatta e avevo paura di qualsiasi cosa». E ancora, «hai fatto una cazzata grossa come una casa. E ti giuro mi ha proprio dato fastidio. Ancora non ho risolto, per un motivo o per un altro, certe volte mi scordo. Altre non se po fa». Il motivo per cui il personal trainer era in qualche modo deluso dal comportamento della fidanzata non viene esplicitato. Tuttavia, da altre conversazioni, emergeva chiara la diffidenza maturata da Sacchi. Tre giorni dopo gli sms tra i due erano di nuovo infuocati. Il tema era sempre lo stesso: «Oggi non so un c.... di te. Non mi dici niente. Sto aspettando, da quando mi sono svegliato, di sentirti». Poi l'accusava di scrivere nella chat di gruppo e di parlare con Giovanni, probabilmente Princi. «Non rispondi mai, parli solo nel gruppo con Gio». «Sto preparandomi tra poco ti chiamo», rispondeva Anastasia. «Per andare dove?», domandava Sacchi. Il 19 settembre il 24enne era preoccupato. La fidanzata non gli rispondeva da quasi un'ora. E lei replicava in questo modo, «non prendeva il cell». Il rapporto tra i due era teso. E i problemi non arrivavano solo dalla mancanza di fiducia che Sacchi nutriva nei confronti della ragazza. Un altro motivo di nervosismo nella coppia riguardava l'astio che la Kylemnyk nutriva nei confronti della suocera. «Quindi tu starai sempre dalla parte di tua madre. E mai dalla mia, giusto?», scriveva la 25enne in uno scambio di messaggi del 15 settembre scorso. E ancora: «Se ti dice scegli me o lei, tu dirai mammina. Vero? Sono seria», chiedeva irritata la baby sitter. «La aiuterò - cercava di spiegare Sacchi - non vuol dire stare dalla sua parte». Una replica che non aveva convinto per niente la Kylemnyk, «non mi hai risposto sincero». E poi, nuovamente, domandava netta: «Lei o me?». «Ma ti rendi conto di cosa mi stai dicendo», gli replicava sconfortato il ragazzo. «Cosa scegli?», insisteva Anastasia. «Bravo figliolo hai scelto», sottolineava ironica la 25enne. «Io non ho scelto nessuno» sosteneva il ragazzo. E aggiungeva «sento solo dei discorsi stupidi». «Ti sembro dottor Jekyll e mister Hyde?», domandava la Kylemnyk. «Una cifra c.... sembra che giochi con i miei sentimenti. Mi stai facendo stare male», spiegava alla fine un amareggiato Sacchi.
Camilla Mozzetti per il Messaggero il 25 gennaio 2020. «Ci sono dei responsabili materiali che meritano di scontare il massimo della pena e poi c'è chi, per la morte di mio figlio, ha una responsabilità morale. Quella persona è Anastasia che si è portava via Luca e ha permesso che accadesse tutto questo». Alfonso Sacchi è nel suo ristorante quando risponde al telefono. Ha da poco saputo dall'avvocato Armida Decina, che lo assiste insieme al collega Paolo Salice, della chiusura delle indagini decretata dalla Procura con la richiesta di giudizio immediato per Valerio Del Grosso, Paolo Pirino, Marcello e Armando De Propris, Giovanni Princi e Anastasia Kylemnyk, tutti coinvolti - a vario titolo - nell'inchiesta sull'omicidio del personal trainer 24enne. «Mio figlio non tornerà più e lei non può capire perché io non lo so spiegare e il dizionario non contempla la parola giusta, quanto inumano sia per un padre sopravvivere al proprio figlio».
Signor Sacchi la prima udienza di fronte alla Corte d'Assise si terrà il prossimo 31 marzo. Cosa si aspetta dal processo?
«Il massimo della pena».
L'ergastolo per Valerio Del Grosso e per il suo complice?
«È il minimo a cui posso ambire. Mio figlio non me lo ridarà nessuno. Se a loro, invece, danno dieci o vent'anni quando usciranno, avranno ancora il tempo per rifarsi una vita. Mio figlio invece no. Luca una vita non se la potrà rifare perché non c'è più. Non posso neanche trovare le parole per spiegare quanto sia devastante perdere un figlio. Tutti i giorni vivo con una pietra sulla bocca dello stomaco ora spero in una condanna giusta per provare ad alleggerire questo magone che, tuttavia, mi porterò dentro per il resto dei miei giorni».
Secondo lei Anastasia è responsabile della morte di Luca?
«È stata lei a scavargli la tomba. Se Nastia non si fosse cacciata nei guai che sono poi emersi, quella sera non ci sarebbe mai stata».
La ritiene responsabile morale?
«Sì, io spero che possano contestarle qualcosa perché è anche lei che ce lo ha portato via. Se era una ragazza perbene, come credevamo, quella sera non sarebbe stata organizzata. Ci siamo fidati di Nastia e abbiamo perso nostro figlio. Penso che quella sera Luca sia andato lì per tirarla fuori da qualche altro casino in cui Nastia si era cacciata e credo anche che quel proiettile non fosse per lui, che se lo è preso per difendere questa ragazza che ha tradito tutti noi».
Nelle chat tra la Kylemnky e suo figlio, emerge una conflittualità costante: lui che non la capisce e prova comunque a trattenerla, lei che lo accusa, addirittura, di preferire la madre.
«Ma le sembra normale dire a un ragazzo scegli tra me o tua madre? Sono due amori differenti; Luca ha provato a farglielo capire, era un ragazzo buono dentro mio figlio. Una volta si confidò con mio nipote e disse: Se la lascio che fine fa?».
Dunque lei è convinto che Luca, scoperto qualcosa di sbagliato, abbia solo provato ad aiutare la sua ragazza?
«Sì, lo penso dopo quello che è emerso. Da dopo l'estate Nastia era cambiata moltissimo».
La famosa estate in cui è ricomparso sulla scena Giovanni Princi.
«Luca le telefonava e lei non rispondeva, le chiedeva ma sei con Gio? E chi è Gio se non Princi? Credo che Luca avesse scoperto o capito degli atteggiamenti sbagliati da parte di Nastia. Anche questa storia della stanza d'albergo ma che stava facendo?».
Ma lei ha capito quest'ultimo aspetto?
«Non l'abbiamo capito ma chissà con chi stava Nastia, Luca quella sera non c'era e ora mi faccio una domanda: ma cosa la prendi a fare una stanza da 28 euro? Per farci cosa?».
Crede che le indagini abbiano chiarito al meglio il contesto che si celava dietro il rapporto tra Nastia e Princi?
«Penso che la Procura abbia fatto un buon lavoro, la prima udienza del processo è tra due mesi circa: un tempo brevissimo rispetto ad altri casi e per questo ringrazio gli inquirenti e il pubblico ministero».
Luca Sacchi, il papà Alfonso a Nastia: eri una figlia, gli hai scavato la fossa. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. «Anastasiya che rientra a casa nostra con Luca, si fionda in camera senza salutarci e sbatte la porta. Questo mi ricordo di lei prima dell’uccisione di mio figlio. Adesso voglio andare al processo e vedere se avrà il coraggio di guardarmi negli occhi. Voglio vederli in faccia gli assassini di Luca, per me sono tutti uguali. Quella sera lei e Munoz lo hanno lasciato solo, lui si è preso una pallottola destinata a loro perché i killer erano andati lì per uccidere qualcuno, ne sono sicuro. Lui è morto per difenderli e loro sono scappati». La resa dei conti sta per arrivare, Alfonso Sacchi lo sa e non vede l’ora di varcare il portone del tribunale.
Che cosa prova oggi per Nastia?
«Che dire, mi fa schifo. Se prima era una figlia, e poi non abbiamo capito il perché dei suoi comportamenti, adesso, dopo aver letto come trattava Luca, mi rendo conto che non ha nemmeno un briciolo di dignità. Oltre al fatto che gli ha scavato la fossa».
Si riferisce agli sms fra loro?
«Anche. Luca non era un mammone, come dice lei, era un ragazzo perbene, educato, sensibile. Pulito. Che ha perfino difeso la madre di Anastasiya dalle offese della figlia. Ma come si è permessa di giudicare il rapporto fra nostro figlio e la sua mamma? Ma chi è?».
Si era accorto della crisi fra Luca e la sua ragazza?
«Sì, dall’estate scorsa era cambiato tutto. Lei era assente, distratta. Aveva un nuovo eroe, un idolo, non so se fosse Princi o qualcun’altro. Lui sì che era davvero fico, così anarchico, con il Vaticano che brucia tatuato su una coscia. Bello, eh? Si è fatta trasportare, non era la giovane a posto che credevamo. Ora scopriamo che era invidiosa della vita normale di Luca, della sua famiglia, e che allo stesso tempo le andava stretta. Chissà che le ha detto la testa, chissà se è la sua vera indole o ha una doppia personalità. Ora però è il momento di difendere Luca, morto per proteggerla».
Cosa si aspetta dai giudici?
«Intanto voglio elogiare la pm Nadia Plastina per come ha condotto le indagini. Temevo che si andasse avanti ben oltre l’estate e invece il 31 marzo c’è già il processo. Il quadro è chiaro: per i killer, e quello che gli ha fornito la pistola, mi aspetto l’ergastolo. Per Anastasiya e Princi una condanna esemplare. Nessuno ci ridarà Luca, ma almeno si alleggerirà il peso che abbiamo sullo stomaco. Quando abbiamo letto del rito immediato ci siamo messi a piangere».
Che Natale è stato per voi?
«Di dolore immenso. Con mia moglie e nostro figlio Federico, che ha dovuto interrompere gli studi, ci siamo seduti a tavola con il vaso che contiene le ceneri di Luca: perché lui è sempre con noi».
Processo Sacchi, gelo tra Anastasiya e la famiglia. La madre: «Uno sguardo di sfida». Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Fulvio Fiano. La distanza tra Anastasiya Kylemnyk e la famiglia Sacchi è ben più ampia dei 32 passi che frappongono tra loro nell’attesa dell’udienza per l’omicidio di Luca. Lei seduta in disparte vicino all’ingresso dell’aula di tribunale dove si celebra l’inziio del processo, loro all’inizio del lungo corridoio al terzo piano della corte d’Appello (scelta come sede per motivi logistici). Non uno sguardo, non un saluto neanche quando, per problemi di collegamento video con i detenuti a Rebibbia, bisogna spostarsi nell’aula propria della corte d’Assise (minori spazi ma linea efficiente) e il corteo di imputati, avvocati, cancellieri, magistrati si sposta assieme verso l’altra palazzina della cittadella giudiziaria. Non è più il tempo della comprensione, tanto meno dell’impossibile perdono dopo le bugie emerse e le parole svelate dalle intercettazioni dei carabinieri. Oggi è il giorno del processo e dopo aver condiviso un pezzo di vita, l’amore per Luca e il dolore per la sua morte la ragazza ucraina e la famiglia del personal trainer sono ora, anche ufficialmente, su sponde opposte: lei imputata, anche se non dell’omicidio, loro — il papà Alfonso, la mamma Tina e il fratello Federico — parte lesa per la perdita del figlio e fratello. Anastasiya, camicetta chiara a fiorellini in tono con colletto bianco, pantalone e golfino nero, capelli biondi legati con una treccia che incorona la parte alta della nuca, è ferma e silente per tutto il tempo in cui è possibile vederla, prima di entrare nell’udienza a porte chiuse. L’avvocato Giuseppe Cincioni respinge ogni domanda, un carabiniere vigila che nessuno le si avvicini. Padre madre e fratello di Luca, tutti in nero, parlano tra loro e aggiornano qualcuno al telefono. Poi, quando l’udienza sta per finire con un nulla di fatto per il tempo concesso alle parti di prendere visione delle nuove carte depositate dalla procura (rinvio al 9 giugno), la signora esce dall’aula e con un gesto quasi di stizza lancia una carta nel cestino dei rifiuti. Marito e figlio la seguono, poi lei si lascia andare a uno sfogo: «In aula ci guardava quasi come una sfida, senza abbassare lo sguardo. Se penso che l’abbiamo accolta in casa e le abbiamo dato nostro figlio mi vengono i brividi. Non credo che abbia mai amato Luca, né che abbia sofferto per la sua morte». Il papà aggiunge: «Per noi è stato un impatto emotivo forte, lei invece è fredda come il marmo. Sembra avere dei tic nervosi ma non mostra emozioni. Bastava un saluto, una parola, sembrava un’estranea. Poteva scriverci privatamente in questi mesi e invece niente». Il processo con rito immediato, saltato a marzo a causa dell’emergenza sanitaria, segna anche il ritorno alla piena attività del tribunale di Roma dopo una settimana di riapertura solo sulla carta (viste le pochissime presenze). All’ingresso di piazzale Clodio, assieme ad avvocati e magistrati, sono ricomparse anche le telecamere delle tv. Davanti alla corte ci sono i tre imputati accusati del delitto, Valerio Del Grosso, Paolo Pirino e Marcello De Propris (il primo autore materiale dello sparo che uccise il personal trainer, il secondo partecipe dell’aggressione per rubare lo zaino con i 70mila che dovevano servire per l’acquisto di 15 chili di marijuana, il terzo accusato in concorso per aver fornito l’arma pur consapevole del piano di rapina). Del Grosso e De Propris (imputato anche suo padre per possesso di armi e droga) erano a Regina Coeli ma per il loro comportamento turbolento sono stati rispediti nelle scorse settimane a Rebibbia. Anastasiya Kylemnyk è allo stesso tempo imputata e parte lesa nella rapina sfociata nel delitto. Secondo l’accusa del pm Nadia Plastina era pienamente partecipe dello scambio illecito ma rimase vittima dell’agguato assieme al suo fidanzato. La ragazza ucraina è tuttora sottoposta all’obbligo di presentarsi in caserma tre volte a settimana e ha scelto di essere processata con rito ordinario senza chiedere sconti. Il prologo di questa udienza è stata infatti la richiesta dei tre presunti assassini di poter accedere al rito abbreviato ( che prevede uno sconto di pena) dato che rispondono anche di altri reati (spaccio, rapina e porto d’armi abusivo) che non sono esclusi da questa possibilità come invece l’omicidio. La richiesta è stata respinta ma potrebbe essere risollevata. L’unico a restare fuori da questo processo è Giovanni Princi, l’amico di Luca e Anastasiya, e ritenuto la vera mente dell’affare mancato. Risponde solo di spaccio e ha visto accolta la sua richiesta di abbreviato.
Omicidio Sacchi, processo rinviato al 9 giugno. Il padre di Luca: "Ci ha ferito la freddezza di Anastasiya". L'udienza davanti alla prima Corte d'Assise per la morte del giovane avvenuta tra il 23 e il 24 ottobre dello scorso anno. In aula anche la fidanzata della vittima, in doppia veste di imputata e parte civile. I genitori di Luca: "Non ci ha degnati nemmeno di uno sguardo". E in una informativa dei carabinieri spuntano altri sms tra cui uno che era stato inviato da Luca alla fidanzata: "Amo', attieniti ai piani". La Repubblica il 18 maggio 2020. "Ci ha fatto male rivedere Anastasia. Così fredda. Non ci ha nemmeno degnato di uno sguardo". A dirlo i genitori di Luca Sacchi in aula oggi per l'avvio del processo sulla morte del giovane davanti alla prima Corte d'Assise di Roma. Luca Sacchi fu ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nella zona di Colli Albani. Presente in aula Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca, coinvolta nella seconda tranche dell'inchiesta, per la violazione della legge sugli stupefacenti in relazione al tentativo di acquisto di 15 chili di droga. L'udienza che si è svolta a porte chiuse nel rispetto delle disposizioni anticovid è stata poi rinviata al 9 giugno "per permettere a tutte le parti di poter visionare gli ultimi atti d'indagine della procura di Roma e per poter rispettare il termine di sette giorni ed eventualmente integrare le liste testimoniali", hanno spiegato i legali della famiglia Sacchi, gli avvocati Armida Decina e Paolo Salice. "Abbiamo ritenuto opportuno associarci alle richieste formulate dai difensori degli imputati, perchè non vogliamo che il processo nasca con falle procedurali. Anastasiya era presente in aula; ha ignorato l'intera famiglia Sacchi. - hanno aggiunto i legali - Siamo rimasti colpiti dalla freddezza che ha dimostrato di avere. La Corte, infine, ha stilato un fitto calendario di udienze per i mesi di giugno, luglio, settembre e ottobre".
"Amo', attieniti ai piani". Ma emergono altri squarci sulla vicenda: "Amo', novità? Amo', attieniti ai piani". Così scriveva il 18 ottobre scorso Luca Sacchi alla fidanzata Anastasiya Kylemnyk, in messaggi citati da una informativa dei carabinieri e depositata dalla Procura nell'ambito del processo. Al messaggio, scrivono i carabinieri, la ragazza risponde: "ci vediamo dopo". Sacchi quindi invia altri messaggi: "Spero tu faccia come mi hai detto se no ti meno, se scopro che hai fatto le cose senza di me...". E ancora, sempre dall'informativa dei carabinieri, "Cinque giorni prima dell'omicidio avvenuto davanti a un pub a Colli Albani, Luca Sacchi e la fidanzata Anastasiya Klymenyk erano stati a Casal Monastero, quartiere dove vivono i pusher Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, ora a processo per il suo omicidio. Dall'analisi del traffico telefonico emerge che sia il telefono di Sacchi che quello di Anastasya tra le 15.30 e le 16 del 18 ottobre hanno impegnato i ponti ripetitori installati nella zona di Casal Monastero. In base a quanto accertato dai carabinieri nello stesso orario sono state agganciate nella zona le utenze di Del Grosso e Pirino "a dimostrazione che l'incontro tra i due gruppi è verosimilmente avvenuto", scrivono gli inquirenti. E sempre il 18 ottobre, come emerge sempre dall'informativa, dal telefono di Luca Sacchi sono state effettuate su maps ricerche relative al percorso stradale per raggiungere dall'Appio Latino, dove abitavano i due giovani, alla frazione di Casal Monastero.
Il padre di Luca a piazzale Clodio: "Abbiamo un po' di tensione". "Abbiamo un po' di tensione, vediamo che succede", aveva detto il padre di Luca, Alfonso Sacchi, arrivando alla cittadella giudiziaria di Piazzale Clodio. "La prima volta che rivedremo Anastasiya? Noi ci siamo, potrebbe essere la prima volta visto che dalla sera dell'omicidio non l'abbiamo più vista - ha aggiunto - Come famiglia chiediamo che vengano condannati all'ergastolo gli autori materiali dell'omicidio". Il gip lo scorso gennaio, accogliendo la richiesta della Procura di Roma, aveva disposto il giudizio immediato per sei persone, coinvolte a vario titolo nell'inchiesta, compresa la fidanzata della vittima, Anastasiya. Ma alla sbarra non c'è Giovanni Princi, l'ex compagno di classe di Luca Sacchi , accusato di violazione della legge sulla droga, ora ai domiciliari, che sarà processato, invece, con rito abbreviato il 28 maggio prossimo. A processo dunque con rito ordinario ci sono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due ventenni di San Basilio autori materiali dell'aggressione, Marcello De Propris, che consegnò l'arma del delitto, il padre di quest'ultimo, Armando, accusato della detenzione della pistola, e Anastasiya. La Procura contesta a Del Grosso, Pirino e De Propris anche l'aggravante della premeditazione. I tre, insieme con Armando De Propris sono detenuti in carcere mentre è sottoposta a obbligo di firma Anastasiya, che nel processo è anche parte civile per la rapina subita.
Processo Sacchi, agli atti i nuovi sms: "Luca sapeva della droga". In aula depositati dal Ris i nuovi accertamenti sui telefonini. L’amarezza dei genitori del personal trainer ucciso tra il 23 e il 24 ottobre dello scorso anno. In aula anche la fidanzata Anastasiya. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su La Repubblica.it da Francesco Salvatore e Maria Elena Vincenzi. Si apre con un colpo di scena il processo per l'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni, freddato davanti a un pub all'Appio Latino il 23 ottobre scorso. Che l'agguato fosse avvenuto nell'ambito di uno scambio di droga erano noto. L'informativa dei carabinieri del nucleo investigativo depositata al processo rivela che non è stato casuale, né occasionale. Di sicuro, a quello scambio di droga si lavorava da giorni. In questa chiave va letta la visita che la vittima e la sua fidanzata Anastasiya Kylemnyk (imputata per droga e parte civile nel processo che si è aperto ieri) fanno il 18 ottobre, cinque giorni prima dell'agguato, a Casal Monastero, la zona dove vivono i due pusher che hanno ucciso Sacchi, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, e i mediatori che si sono occupati dello scambio, Valerio Rispoli e Simone Piromalli. I telefoni della coppia parlano chiaro: tra le 15.30 e le 16 attaccano le celle del quartiere. In quell'occasione c'è anche uno scambio di messaggi tra i fidanzati: "Amo', novità? Amo' attieniti ai piani", scrive la vittima. La fidanzata taglia corto: "Ci vediamo dopo" . E Luca Sacchi scrive: "Spero tu faccia come mi hai detto se no ti meno, se scopro che hai fatto le cose senza di me...". Nei telefoni ci sono anche le paure dei due ragazzi, le loro preoccupazioni. Sognavano di andare a vivere insieme ma non potevano permetterselo. Per questo avevano pensato di dividere una casa con l'amico Giovanni Princi (anche lui imputato, il suo processo in abbreviato si aprirà il 28 maggio) e la sua fidanzata. Una scelta che Luca non gradiva, sapeva che Princi spacciava. Il 6 settembre scrive a Nastia: "Penso alla nostra situazione ". Lei chiede: "Che situazione? Perché come stiamo? " . "La nostra situazione generale di vita. Sai cosa penso. Penso che io e te non siamo come loro. Loro sono come dire più randagi rispetto a noi ". Anastasiya risponde: "Sì". E Luca chiarisce: "Noi possiamo avere una vita molto più tranquilla per le carte che abbiamo. Loro non hanno la nostra situazione, secondo me. Lavorarci sì, ma viverci insieme come una piccola famiglia no. Lui è uno spacciatore di discreto livello e la polizia è il problema minore. Per lui noi siamo super puliti. E non capisco perché tu vuoi andarci a vivere. Tipo due mesi fa eri diversa, mi pari matta". La compagna risponde: "Amore, io se sto a casa mia, lascia sta che tantissimo sono stata da te, anzi sempre negli ultimi tempi, io un altro anno a casa con loro in questo spazio minuscolo mi vergognerei, devo ancora a 26 anni rientrare in silenzio a casa e non potermi lavare bene perché sennò sveglio qualcuno. Lu', non è che ero diversa, è che se tu mi avessi detto di andare a vivere insieme io e te ci andavamo già due anni fa per me, ma io sto sempre qua a spera' che qualche amica mia me lo proponga ma te ne rendi conto? E tu a dirmi sempre la stessa cosa": "Sì, Amo', ma io sto bene a casa" e io no e da sola dovrei fare la prostituta per mantenermi, ma dai (mi pari matta), sono solo stufa, amo'" . Luca, però, non si convince: "Il problema è che non è una mossa magnifica andare lì con entrambi. Più con lui".
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 19 maggio 2020. Cala un'ombra sul ruolo di Luca Sacchi, 24 anni. Il personal trainer freddato con un colpo di pistola alla nuca la notte del 23 ottobre fuori dal pub John Cabot nel quartiere Appio Latino. Innamorato della sua Anastasia Kylemnyk, 25 anni, fino a difenderla dalla rapina a costo della propria vita e forse, anche, di una porzione di capitale investito. Evidentemente, Sacchi, comprendeva fino in fondo le origini di quella aggressione. Sapeva bene che la sua ragazza, con l'amico Giovanni Princi, stava cercando di acquistare una partita di marijuana pagandola 70mila euro. E dentro quell'affare era coinvolto molto più di quanto si pensasse sino ad oggi. Sacchi conosceva i grossisti della droga Valerio Del Grosso e Paolo Pirino che, a bordo di una smart, stavano andando a consegnare il pacco. Salvo poi cambiare idea, decidere di tenersi la roba e tentare di rubare i soldi. Sacchi li conosceva e, almeno 6 giorni prima che l'uccidessero, li aveva perfino incontrati dalle parti di casa loro, a Casal Monastero. L'informativa depositata ieri a processo, dal nucleo investigativo dei carabinieri, restituisce una fotografia più ampia di quella terribile notte. Ad iniziare dai giorni precedenti: dagli incontri tra Sacchi e Kylemnyk da una parte e i pusher Del Grosso e Pirino dall'altra. I cellulari dei 4 ragazzi si agganciano nella stessa cella telefonica di via Acuto a Casal Monastero, alla stessa ora, tra le 15.30 e le 16.00, dello stesso giorno il 18 ottobre scorso: «a dimostrazione che l'incontro tra i due gruppi - annotano i militari dell'Arma - è verosimilmente avvenuto». Ma c'è di più. Tre ore dopo l'incontro con gli spacciatori il personal trainer e la ragazza scambiano dei messaggi. Il contenuto è di interesse investigativo, sembra rimandare all'organizzazione di un progetto. Probabilmente quello che andrà in porto pochi giorni dopo, in cui Sacchi perderà la vita. «Amo novità? Ti attieni ai piani? », scrive lui. «Sì ci vediamo dopo» la risposta. «Spero tu faccia come mi hai detto - ribatte il 24enne - se scopro che hai fatto le cose a c...., senza me». Ma oltre a questo i carabinieri hanno riversato nell'informativa anche altre conversazioni. Quella datata sei settembre è molto chiara. I messaggi che spedisce il 24enne confermano la sua consapevolezza in merito al nuovo business intrapreso. Lui e Anastasia sarebbero dovuti andare a vivere, in un unico appartamento, con Princi e la fidanzata. Il progetto al personal trainer non piace più, però vorrebbe continuare a fare affari assieme all'amico di cui conosce bene la reale professione. Lo spiega così alla Kylemnyk: «Loro sono più randagi rispetto a noi, noi possiamo avere una vita più tranquilla per le carte che abbiamo. Lavorarci sì, ma viverci insieme come una piccola famiglia no. Lui (Princi) è uno spacciatore di discreto livello e la polizia è il problema minore». Scende il silenzio quando Anastasia varca l'ingresso dell'aula della prima Corte D'Assise. È un attimo. La porta blu in acciaio si chiude dietro le sue spalle. Due carabinieri controllano che nessuno entri. All'interno, oltre ai giudici, sono ammessi gli imputati, i difensori, il pm Nadia Plastina e le parti civili con i genitori e il fratello di Luca Sacchi. Alfonso Sacchi si gira verso l'ingresso quando l'ex ragazza del figlio varca la soglia. Cerca di fissarla. Vorrebbe una spiegazione a quella domanda che da sette mesi non riceve risposta. «Raccontaci la verità». Ma la baby sitter, accusata di spaccio, tira dritta. Ufficialmente, per la Kylemnyk, esiste una sola versione: «Sono stata rapinata». Si è sempre dimentica di dire che la rapina era il frutto di una compravendita, andata male, di stupefacenti, di cui lei sarebbe stata l'acquirente assieme a Princi. E forse anche a Luca.
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2020. La distanza tra Anastasiya Kylemnyk e la famiglia Sacchi è ben più ampia dei 32 passi che si frappongono tra loro nell' attesa dell' udienza per l' omicidio di Luca, la prima volta in cui sono a contatto dopo il delitto dell' ottobre scorso. Lei seduta vicino all' ingresso dell' aula dove si celebra il processo, loro all' inizio del lungo corridoio al terzo piano della corte d' Appello (scelta per motivi logistici). Non uno sguardo, non un cenno di saluto neanche quando, per problemi di collegamento video con gli imputati detenuti a Rebibbia, bisogna spostarsi nell' aula propria della corte d' Assise (minori spazi ma linea efficiente) e il corteo di imputati, avvocati, magistrati cammina assieme verso l' altra palazzina della cittadella giudiziaria. Non è più il tempo della comprensione, tanto meno dell' impossibile perdono viste le bugie emerse e le parole, anche offensive, svelate dalle intercettazioni dei carabinieri. Dopo aver condiviso un pezzo di vita, l' amore per Luca e il lutto per la sua morte, la 25enne ucraina e la famiglia del personal trainer sono ora, anche ufficialmente, su sponde opposte: lei imputata, anche se non dell' omicidio, loro - il papà Alfonso, la mamma Tina e il fratello Federico - parte lesa. Anastasiya, camicetta chiara a fiorellini in tono con colletto bianco, pantalone e golfino nero, capelli biondi legati con una treccia che incorona la parte alta della nuca, è ferma e silente per tutto il tempo in cui è possibile vederla, prima di entrare nell' udienza a porte chiuse. Il suo avvocato respinge ogni domanda, un carabiniere vigila che nessuno le si avvicini. Padre madre e fratello di Luca, tutti in nero, parlano tra loro, lo sguardo basso. Poi, quando l' udienza sta per finire con un nulla di fatto per il tempo concesso alle parti di prendere visione delle nuove carte depositate dalla Procura (rinvio al 9 giugno), la signora Tina esce dall' aula e con un gesto quasi di rabbia lancia una carta nel cestino. Marito e figlio la seguono, si confidano e lei si lascia andare a uno sfogo a bassa voce e occhi lucidi: «In aula quella ragazza ci guardava quasi come una sfida, senza abbassare lo sguardo. Se penso che l' abbiamo accolta e le abbiamo dato nostro figlio, mi vengono i brividi. Non credo che abbia mai amato Luca, né che abbia sofferto per la sua morte». Alfonso Sacchi aggiunge: «Per noi è stato un impatto emotivo forte, lei invece è fredda come il marmo. Sembra avere dei tic nervosi ma non mostra emozioni. Bastava un saluto, una parola, sembrava un' estranea. Poteva scriverci in questi mesi e invece niente». Dall' ultima informativa fornita dai carabinieri del Nucleo investigativo al pm Nada Plastina emerge una piena consapevolezza di Luca sugli affari che Anastasiya conduceva con Giovanni Princi: «È uno spacciatore di discreto livello, la polizia è il problema minore», scriveva la vittima alla fidanzata per convincerla ad allontanarsi da lui e per dissuaderla dal progetto di prendere una casa con lo stesso Princi e la sua fidanzata: «Lavorarci sì, ma viverci assieme come una famigliola, no». Lo stesso Sacchi inoltre, in base all' analisi delle celle telefoniche, risulta essersi recato, cinque giorni prima del delitto, a Casal Monastero, il quartiere periferico da dove provengono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due autori materiali del delitto durante la rapina dello zaino nel quale Anastasiya custodiva, secondo l' accusa, 70 mila euro che dovevano servire all' acquisto di 15 chili di marijuana. «Amò, novità? - scriveva Luca lo stesso giorno - Amò, attieniti ai piani. Spero tu faccia come mi hai detto se no ti meno, se scopro che hai fatto le cose a ca... senza di me...».
Emilio Orlando per leggo.it il 21 maggio 2020. Video di bambini che fanno sesso con adulti, filmati pedopornografici che probabilmente venivano immessi nella rete dei pedofili online. È la scoperta choc emersa dall’analisi forense del cellulare di Valerio Rispoli, il diciannovenne protagonista della vicenda che ha portato all’omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer ucciso alla Caffarella il 23 ottobre scorso. Ora Rispoli è indagato per detenzione di materiale pedopornografico e rischia una condanna fino a cinque anni di galera, visto che nello smartphone Huawei modello P10 i carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci hanno individuato «numerosissimi video dal contenuto pornografico ed il alcuni casi, pedopornografico». I filmati che hanno per oggetto sessuale i bambini, sono stati riportati nell’informativa depositata dal sostituto procuratore Nadia Plastina durante l’ultima udienza del delitto Sacchi. Gli inquirenti pensano che questi filmini, riportati nella cartella “video” del telefonino di Rispoli, siano stati diffusi dal giovane attraverso i molteplici canali di pedofilia online, frequentati da reti di maniaci senza scrupoli disposti a pagare qualsiasi cifra per guardare i minorenni in scene di sesso. E cosa c’entra tutto ciò con il caso Sacchi? Gli investigatori stanno lavorando per risalire all’origine dei filmati e capire se gli eventuali proventi illeciti venivano reinvestiti nel narcotraffico. Le indagini hanno evidenziato anche un’anomalia che potrebbe riscrivere la dinamica della maledetta sera dell’esecuzione di Luca e rimettere in discussione la ricostruzione fatta dalla fidanzata Anastasiya Kylemnyk. Dall’analisi dei tabulati della baby sitter ucraina emerge che alle ore 22.57.14 la ragazza ha telefonato a Luca, il quale non ha risposto. Si tratta di una strana chiamata, visto che meno di 5 minuti dopo il ventiquattrenne verrà ucciso e che la ragazza ha sempre raccontato che a quell’ora era insieme al fidanzato.
Omicidio Luca Sacchi, l'ombra della pedofilia: i video sul cellulare usati per finanziare il narcotraffico? Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. Sull'omicidio di Luca Sacchi, il ragazzo ucciso con un colpo di pistola a Roma lo scorso ottobre, una vicenda in cui il ruolo dell'ex fidanzata Anastasiya Kylemnyk non è ancora stato del tutto chiarito, ora si allunga anche l'ombra della pedopornografia. Il tutto emerge a processo con l'analisi forense del cellulare di Valerio Rispoli, 19enne implicato nella vicenda, indagato anche per detenzione di materiale pedopornografico che è stato trovato nel suo smartphone. Video di bambini che fanno sesso con adulti, "numerosissimi video dal contenuto pornografico ed il alcuni casi, pedopornografico" spiegano i carabinieri. I filmati sono stati riportati nell'informativa depositata dal sostituto procuratore Nadia Plastina nel corso della prima udienza del processo. Ma non è tutto, perché gli inquirenti pensanco che questi filmati siano stati diffusi dal giovane attraverso molteplici canali di pedofilia online, disposti a pagare per fruire di queste immagini disgustose. Dunque, secondo gli inquirenti, i filmati avrebbero un ruolo nell'omicidio di Luca Sacchi: gli eventuali proventi illeciti, infatti, potrebbero essere stati reinvestiti nel narcotraffico.
Fulvio Fiano per il Corriere della Sera - Roma il 20 maggio 2020. «Non è vero che Luca incontrò gli spacciatori». Così la famiglia Sacchi, tramite gli avvocati Armida Decina e Paolo Salice prova a cancellare le ombre sul personal trainer, ucciso lo scorso ottobre nella rapina nata durante un acquisto di marijuana. Secondo l' ultima informativa dei carabinieri sul telefono della vittima, il 24enne si recò a Casal Monastero cinque giorni prima del delitto. È lo stesso quartiere da dove provengono i suoi due killer (Paolo Pirino e Valerio Del Grosso) i cui telefoni agganciano le stesse celle di quello di Luca agli stessi orari: «L'incontro è verosimilmente avvenuto», annotano gli investigatori nell' atto depositato al processo dal pm Nadia Plastina. Non è così per i genitori di Luca, il papà Alfonso e la mamma Tina: «Non risulta assolutamente che Luca conoscesse i suoi killer e non vi è mai stato alcun contatto telefonico. In quella zona vi sono scuole di arti marziali e Luca era solito proporsi in queste strutture». La famiglia inoltre accredita la tesi che Luca cercasse di proteggere la sua fidanzata, Anastasiya Kylemnyk, lei sì coinvolta nello spaccio: «Luca - prosegue la nota dei Sacchi - per troppo amore, sembra quasi giungere ad un compromesso, chiedendole di non strafare e di non fare niente senza di lui. E ci ha rimesso la vita». I fatti dicono che la sera del 22 ottobre, alla vigilia del suo omicidio, Luca Sacchi chiese a Giovanni Princi un incontro per parlare «Tutti e quattro». La frase può essere un riferimento alle rispettive fidanzate, visto il progetto di andare a vivere assieme, o al piano per comprare 15 chili di marijuana per 70mila euro, del quale il ragazzo, ormai è chiaro, era a conoscenza: «Lui (Princi, ndr) è uno spacciatore di discreto livello - dice ad Anastasiya -. Lavorarci sì, ma viverci assieme no». E già il 31 ottobre Princi manda ai suoi clienti il nuovo numero. È un telefono intestato a un bengalese: «Ho studiato parecchio i cellulari in questi annetti, ho capito come funzionano le cose, dove tappare e dove lasciare aperto», si vanta. E un mese dopo il delitto è già di nuovo su piazza a spacciare, come emerge dalla chat su Signal con Valerio Rispoli, uno dei mediatori dei pusher, presente anche lui al Cabot pub il giorno dell' omicidio: «Non so proprio come comportamme - gli dice Rispoli in un vocale la sera dopo - , io volevo fa' un lavoro pulito e semplice... Non me la posso portà dietro per sempre 'sta cosa».
Francesco Salvatore e Maria Elena Vincenzi per LA Repubblica - ROMA il 20 maggio 2020. Lunedì in aula non si sono nemmeno salutati i genitori di Luca Sacchi e la sua fidanzata, Anastasiya Kylemnyk. Eppure le chat trovate sul telefonino del 24enne ucciso il 23 ottobre scorso davanti a un pub all' Appio Latino dimostrano che tra la famiglia e la compagna c' era un legame. Uno degli ultimi messaggi è del giorno prima dell' omicidio. Sono le 9 di sera. Luca scrive alla ragazza: " Amo, va a salutare mia madre che sai che poi mi sbrocca". Nell' informativa depositata dall' accusa alla corte d' Assise, i carabinieri hanno analizzato il contenuto dei telefonini sequestrati. Quello che emerge chiaramente è che dietro all' omicidio c' era uno scambio di droga. E che a gestirlo, insieme ai due mediatori Valerio Rispoli e Simone Piromalli, c' era Giovanni Princi. L' amico di scuola di Luca era uno che si dava parecchio da fare. Lo sapeva anche la vittima che, con la fidanzata, lo aveva definito «uno spacciatore di medio livello». Non a caso, i militari del nucleo investigativo, hanno trovato diverse chat e immagini di fogli con nomi e cifre che sembrano una conferma. Prima e dopo la tragedia: stando all' analisi del suo cellulare, il 25 novembre Princi aveva già ripreso a brigare con la droga e già il 2 novembre, a 10 giorni dall' assassinio, la sua fidanzata Clementina Burcea scrive a un' amica « siamo controllati quindi ho cambiato numero e sto evitando chiamate». L' amico di Luca, il cui processo in abbreviato si aprirà il 28 maggio, diceva di sé: « Ho studiato parecchio i cellulari in questi annetti e ho capito come funzionano le cose, come gestirmi un cel ovvero dove tappare dove lasciare aperto». Eppure qualcosa il suo cellulare ha svelato. A partire dal fatto che l' incontro per lo scambio soldi- droga doveva essere due giorni prima. Il 21 alle 8.30 di sera Princi invia un vocale a Valerio Rispoli e gli dice: « Er cliente perché me sto a rompe er cazzo, m' hai fatto troppo incazza', Vale'! Non mi è mai successa una cosa del genere, amo mosso i quintali, poi me becco gente grossa e me fanno 'ste tarantelle a 'st' ora de sera che doveva essece er carico, aho, ma te rendi conto? T' o dico io, organizza 'sto c... de scarico». Princi continua infuriato e usa parole che fanno pensare che i circa 70 mila euro che Anastasiya aveva nello zainetto fossero il frutto di una raccolta tra vari acquirenti: «Anzi oggi te conto i sordi, c' hai un' ora per veni' là, porta ' ste cose, io te porto tutti i sordi, la gente sta a insiste: " oh ma perché non vonno i sordi?" me stanno a di', ed io non so che rispondeje perché non c' è 'na risposta». E Rispoli si preoccupa, parlando con il pusher Valerio Del Grosso, accusato dell' omicidio, gli dice di Princi: « Fidate, che questo è più sveglio de noi, nun è un coglione, perché lui c' ha i sòrdi pe piglia' ' ste cose, noi non semo stati in grado de fallo, fìdate de me». Il 23, giorno concordato per lo scambio, Rispoli suggerisce di andare prima: « Per pigliarsi ' na conferma, ' na sicurezza » . E alle 20.44 di quel giorno digita sulla calcolatrice del suo cellulare: 14X4,55=63,7. Il sospetto è che fosse la stima del prezzo della droga. Quello che è certo è che qualche ora dopo Luca Sacchi veniva colpito da un colpo di pistola alla testa. E il giorno seguente Rispoli si rammarica con Princi: « Non so come comportamme volevo fa' un lavoro pulito e semplice, non ho mai voluto fa' 'ste cose. Questi se meritano veramente cose brutte». E agli amici scrive: « Ma passa sempre pe un furto che glie dici no stavo a fa n' affare, è andato male e c' è rimasto n' amico mio?».
Michela Allegri per “il Messaggero” il 29 maggio 2020. Il ruolo di regista nella trattativa per la compravendita di droga culminata con l'omicidio del personal trainer Luca Sacchi, rischia di costare a Giovanni Princi una condanna a 6 anni e 4 mesi di reclusione e una multa da 30mila euro. È la richiesta fatta dalla pm Nadia Plastina, titolare del fascicolo, al termine del processo a carico del ragazzo, che ha scelto di essere giudicato con rito abbreviato puntando a ottenere lo sconto di un terzo della pena. L'udienza si è svolta ieri, ma per la decisione del gup sarà necessario attendere fino al 21 giugno. Princi è accusato di avere tentato di acquistare 15 chili di marijuana - per un valore di 70mila euro - dai due pusher di Casal Monastero, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, ora a processo insieme a Marcello De Propris per l'omicidio di Sacchi. I fatti sono del 23 ottobre scorso. Dalle indagini, condotte dai carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci, è emerso che la trattativa sarebbe andata avanti qualche giorno. I potenziali acquirenti, per l'accusa, erano Princi, Sacchi e la sua fidanzata, Anastasia Kylemnyk, finita pure lei sul banco degli imputati per la compravendita. Princi, amico di Luca, avrebbe gestito l'affare. Dall'ultima informativa dei carabinieri emerge che il 18 ottobre, Pirino e Del Grosso potrebbero essersi visti con Sacchi e Anastasia. Un incontro preliminare, secondo gli investigatori, probabilmente organizzato da Princi. Proprio quel giorno, infatti, i cellulari dei quattro ragazzi si sono agganciati alla stessa cella telefonica di via Acuto, a Casal Monastero, tra le 15.30 e le 16.00. Un dettaglio che, per chi indaga, dimostrerebbe che «l'incontro tra i due gruppi è verosimilmente avvenuto». Agli atti dell'inchiesta c'è anche un messaggio audio inviato da Princi a Valerio Rispoli, uno degli emissari di Del Grosso: «Er cliente me sta a rompere. Te lo dico io, organizza sto scarico, oggi te conto i sordi, c'hai un'ora per venire là porta ste c... de cose, io te porto i sordi». Lo step successivo era stato un appuntamento, il 23 ottobre, di pomeriggio, con gli intermediari davanti al pub John Cabot, nel quartiere Appio Latino. Il giovane era insieme a Sacchi e ad Anastasia e aveva mostrato a Rispoli le mazzette di banconote custodite nello zainetto rosa della ragazza. Poi, sul posto erano arrivati gli spacciatori. Quando Del Grosso aveva visto con i suoi occhi che gli acquirenti avevano abbastanza denaro per un acquisto così sostanzioso, aveva architettato un piano: aveva deciso di tenersi sia i soldi che la droga. Aveva quindi chiamato il suo fornitore, Marcello De Propris, che gli aveva prestato la pistola del padre, aderendo al progetto criminale, circostanza che ora gli costa l'accusa di concorso in omicidio volontario. Di fronte al pub dell'Appio Latino, la situazione era degenerata. Pirino aveva colpito Anastasia con una spranga e le aveva rubato lo zaino. Sacchi aveva reagito e, a quel punto, Del Grosso gli aveva sparato in testa. Poi, era fuggito a bordo di una Smart insieme al socio. I pusher erano stati entrambi arrestati il giorno dopo: a denunciare Del Grosso erano stati la madre e il fratello, che avevano saputo da alcuni amici quello che era successo. A incastrare il killer, anche le intercettazioni con De Propris, nelle quali i due parlavano del piano e si accordavano per il ritiro dell'arma. Subito dopo l'arresto, Del Grosso aveva mostrato ai carabinieri dove aveva abbandonato lo zaino di Anastasia e la pistola. Ma i soldi non sono stati trovati. Un mese dopo era finito in manette anche Princi, mentre la ragazza era stata sottoposta all'obbligo di firma. Di fronte al gip si era difesa negando le accuse: ha sempre sostenuto di essere stata rapinata e che non sapeva nulla della trattativa per comprare droga.
Da adnkronos.com il 9 giugno 2020. "Luca sapeva, evidentemente sì, ma non tutto. Sapeva che Anastasiya si era cacciata in qualche brutto guaio ed era andato lì per proteggerla, come faceva sempre". Lo hanno detto Tina e Alfonso Sacchi, i genitori di Luca al termine dell’udienza del processo per l’omicidio del figlio, il personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla testa la notte tra 23 e 24 ottobre scorsi, davanti ad un pub nella zona di Colli Albani a Roma. In aula, davanti alla Prima Corte d'Assise, oggi era presente anche l'ex fidanzata di Luca, Anastasiya, a processo con l’accusa di violazione della legge sugli stupefacenti e allo stesso tempo parte civile in quanto vittima dell’aggressione sfociata poi in omicidio da parte degli autori materiali dell’aggressione, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. "Luca si trovava lì quella sera per cercare di tirar fuori lei dai guai e non per la trattativa di droga. Evidentemente non c'è riuscito", hanno commentato i genitori uscendo dal tribunale.
Giulio De Santis per corriere.it il 9 giugno 2020. Riprende oggi in Corte d’assise il processo per l’omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer 24enne vittima di un’aggressione mortale davanti alla sua fidanzata, Anastasiya Kylemnyk, la notte del 23 ottobre 2019 all’Appio Latino. Anche la giovane ucraina, 26 anni il prossimo 29 giugno, per gli amici Nastia, sarà in aula per la seconda udienza: da una lato come parte civile per l’aggressione subita da Valerio Del Grosso, ritenuto il killer, e dalla sua spalla Paolo Pirino; dall’altra in quanto accusata di spaccio. Anastasiya, finora, è l’unica imputata ad aver risposto al gip il 4 dicembre 2019. Il suo racconto, ritenuto lacunoso e poco plausibile dal gip, apre un interrogativo: dov’è finita la busta con dentro i 70mila euro destinati all’acquisto dei 15 chili di hashish? I soldi e la busta non sono mai stati trovati. Secondo Nastia, sono scomparsi dal suo zaino rosa quando l’ha lasciato a Giovanni Princi, l’amico che per Sacchi era un «discreto spacciatore». Denaro, bisogna ricordare, che spinge Del Grosso a chiedere una pistola per «sfilarglieli tutti e settanta». Arma con cui uccide Luca. Ecco le parole di Nastia: «Luca aveva un appuntamento al pub, credo che si erano accordati (con Princi, ndr). Giovanni stava di fronte al bar, solo. Mi ha chiesto se potevamo tenergli una busta perché doveva vedersi con due persone (Simone Piromalli e Valerio Rispoli, non indagati, ndr) per fare un impiccetto con una moto. La busta non l’ho aperta. Ci ha detto (a lei e a Luca, ndr): ci sono dei soldi. Mi ha messo la busta dentro lo zaino». Il gip le chiede quanto denaro ci fosse: «Era una busta marrone, come quelle per il pane, non l’ho manovrata io», risponde. E prosegue: «I due arrivano, io stavo con la mia cagnolina caciarona e l’ho fatta camminare. Lo zaino l’ho lasciato lì, Giovanni mi ha chiesto le chiavi della mia macchina “caso mai dopo poggio la busta dentro”, mi ha detto». Passa qualche minuto: «Princi mi ha richiamato, mi ha detto “prendi lo zaino”. Ce ne siamo andati con Luca, che aveva il mal di schiena e ci siamo messi su una panchina». Ecco lo snodo cruciale: «Prendo una bottiglietta d’acqua dallo zaino, e non c’era più la busta». Princi, che rischia sei anni e quattro mesi di carcere per spaccio al termine del rito abbreviato, si è ripreso i soldi, stando a Nastia? O è successo altro in quell’intervallo? Dopo qualche istante, l’inferno: «Sono stata aggredita subito, non ho visto i due (Del Grosso e Pirino, ndr), ho sentito solo qualcuno che mi diceva “damme ‘sto ziano”». Chiude Anastasiya: «Quella notte ho omesso la verità ai carabinieri. Ho pensato stupidamente di non volere mettere me e Luca in mezzo a questo impiccio di Giovanni. Di lui, che si faceva qualche cannetta e con noi non ha mai parlato di comprare droga per venderla, ci fidavamo ciecamente».
Val.Err. per “il Messaggero” il 10 giugno 2020. La linea dei genitori di Luca Sacchi non cambia. Per loro, la notte del 23 ottobre, quando un colpo di pistola lo uccide, il figlio si trovava davanti al pub John Cabot, e a un incontro con gli spacciatori, solo per tirare fuori dai guai la fidanzata Anastasia. Lo hanno ribadito ancora una volta ieri, al termine dell'udienza davanti alla Corte d'assise, che dovrà giudicare cinque imputati (in tre sono accusati di omicidio). Sotto accusa, per violazione della legge sugli stupefacenti, c'è anche lei, Anastasia, che figura anche come parte civile, perché quella notte, per sottrarle lo zainetto pieno di soldi (circa 70mila euro), Paolo Pirino l'ha colpita con una mazza da baseball. «Luca sapeva, evidentemente sì, ma non tutto. Sapeva che Anastasia si era cacciata in qualche brutto guaio ed era andato lì per proteggerla, come faceva sempre», hanno ripetuto Tina e Alfonso Sacchi. Ieri hanno assistito all'udienza a porte chiuse: neppure una parola a quella ragazza, che accusano di avere coinvolto Luca in un brutto giro. «Luca si trovava lì quella sera - aggiungono i genitori - per cercare di tirar fuori dai guai lei e non per la trattativa di droga. Evidentemente non c'è riuscito». Agli atti del processo, però, ci sono le testimonianze degli amici e i messaggi tra Anastasia e Luca, dai quali sembra emergere che il ragazzo fosse consapevole della trattativa per l'acquisto di un grosso quantitativo di droga.
L'UDIENZA. Ieri, davanti alla prima corte d'Assise, le difese di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, accusati di omicidio insieme a Marcello De Propris, hanno sollevato una serie di eccezioni preliminari: la nullità del decreto che dispone il giudizio immediato e la legittimità costituzionale della norma che esclude dal rito abbreviato (a loro non concesso) gli imputati per omicidio. I giudici scioglieranno la riserva sulle eccezioni nella prossima udienza, prevista il 23 giugno. Intanto il 21 giugno arriverà la sentenza per Giovanni Princi, l'amico di Luca accusato di essere il regista e il mediatore nella la compravendita di circa 15 chili di hashish. Una trattativa finita con la morte di Sacchi. Il pm Nadia Plastina ha chiesto una condanna a sei anni e quattro mesi e una multa di 30mila euro.
LA TRATTATIVA. Dagli atti è emerso, però, che Sacchi, amico da anni di Princi, conosceva anche Del Grosso e Pirino. I due killer che, a bordo di una smart, quella sera, avrebbero dovuto consegnare la merce, salvo poi decidere di tenersi la roba e rubare i 70mila euro. Una settimana prima dell'omicidio, infatti, li aveva incontrati a Casal Monastero. Forse un incontro preliminare, secondo gli investigatori, probabilmente organizzato da Princi. Il 18 ottobre scorso, infatti, i cellulari dei quattro ragazzi si erano agganciati tra 15,30 e le 16 alla stessa cella telefonica. «A dimostrazione che l'incontro tra i due gruppi - hanno annotato i carabinieri in un'informativa - è verosimilmente avvenuto».
PRINCI CON LA FIDANZATA. Ma c'è di più. Tre ore dopo l'incontro con gli spacciatori il Luca Sacchi e Anastasia si scambiano dei messaggi. Il contenuto è di interesse investigativo, sembra rimandare all'organizzazione di un progetto. Probabilmente quello che avrebbe dovuto andare in porto alcuni giorni dopo ma che costerà la vita a Luca. «Amo novità? Ti attieni ai piani?», scrive lui. «Sì ci vediamo dopo» la risposta. «Spero tu faccia come mi hai detto - ribatte il 24enne - se scopro che hai fatto le cose a c...., senza me». C'è anche il verbale di un altro amico di Luca, presente al pub la sera del 23 ottobre. Il giovane ha riferito che Anastasia si era allontanata da lui e Luca con lo zaino in spalla e poi era tornata rassicurando il fidanzato: Tutto a posto. Secondo gli investigatori e le altre testimonianze, aveva appena mostrato i 70mila euro ai pusher.
La Vita in Diretta, la rivelazione della mamma di Luca Sacchi: "Anastasiya e Princi, quello sguardo strano che ho notato in vacanza". Libero Quotidiano il 23 giugno 2020. A La Vita in Diretta anche Bianca Furiosi, la mamma di Luca Sacchi. La donna è stata ospite di Alberto Matano dopo la prima condanna legata alla vicenda che ha visto l'uccisione del figlio. "La scorsa estate - racconta mamma Bianca in merito alla condanna a quattro anni di reclusione per Giovanni Princi, amico di Luca, accusato del tentativo di acquisto di 15 chilogrammi di marijuana.- Anastasiya e Princi sono venuti in vacanza con noi. Non mi è mai piaciuto. Ho notato uno sguardo strano tra lei e Princi. Voglio specificare che Princi non era un amico di infanzia, Luca era un ragazzo per bene, lo ha conosciuto l'ultimo anno di scuola". Bianca Furiosi non ha peli sulla lingua e torna a parlare dell'ex fidanzata del figlio, che lei stessa ha ammesso aver trattato come una figlia: "Ha trascorso quattro anni a casa mia, dopo la morte di Luca è sparita. Adesso penso che non le importasse così tanto di lui. Io non ho più un figlio, non posso più vedere un film con lui, non posso più preparargli un piatto".
Omicidio Luca Sacchi, i genitori: "Lui quella sera era lì non per la droga, ma per difendere Anastasiya Kylemnyk". Libero Quotidiano il 09 giugno 2020. "Luca sapeva, evidentemente sì, ma non tutto. Sapeva che Anastasiya si era cacciata in qualche brutto guaio ed era andato lì per proteggerla, come faceva sempre". A parlare sono Tina e Alfonso Sacchi, i genitori di Luca Sacchi, al termine dell’udienza del processo per l’omicidio del figlio, il personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla testa la notte tra 23 e 24 ottobre scorsi, davanti ad un pub nella zona di Colli Albani a Roma. Al centro delle loro attenzioni, ovviamente, Anastasiya Kylemnyk, la bionda dei misteri. "Luca si trovava lì quella sera per cercare di tirar fuori lei dai guai e non per la trattativa di droga. Evidentemente non c'è riuscito", hanno poi commentato i genitori uscendo dal tribunale. In aula oggi era presente anche l'ex fidanzata di Luca, Anastasiya, a processo con l’accusa di violazione della legge sugli stupefacenti e allo stesso tempo parte civile in quanto vittima dell’aggressione sfociata poi in omicidio da parte degli autori materiali dell’aggressione, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Il racconto della ragazza è ritenuto lacunoso e poco plausibile dal gip e apre un interrogativo: dov’è finita la busta con dentro i 70mila euro destinati all’acquisto dei 15 chili di hashish? I soldi e la busta non sono mai stati trovati. "Luca aveva un appuntamento al pub, credo che si erano accordati (con Princi, ndr). Giovanni stava di fronte al bar, solo. Mi ha chiesto se potevamo tenergli una busta perché doveva vedersi con due persone (Simone Piromalli e Valerio Rispoli, non indagati, ndr) per fare un impiccetto con una moto. La busta non l’ho aperta. Ci ha detto (a lei e a Luca, ndr): ci sono dei soldi. Mi ha messo la busta dentro lo zaino". Il gip le chiede quanto denaro ci fosse: "Era una busta marrone, come quelle per il pane, non l’ho manovrata io. Ho preso poi una bottiglietta d’acqua dallo zaino, e non c’era più la busta", ha chiarito la ragazza.
Da leggo.it il 13 giugno 2020. Nuovi dettagli emersi sull'omicidio di Luca Sacchi, il ragazzo di 24 anni ucciso lo scorso ottobre con un colpo di pistola alla testa a Roma. A tornare a parlare del giallo è stata la trasmissione di Rete 4 "Quarto Grado - Le Storie", che ha mostrato degli screenshot salvati sul telefono di Anastasiya Kylemnyk, fidanzata della vittima e coinvolta nell'inchiesta sull'omicidio. Le immagini riportano conversazioni tra dei money-slave, uomini disposti a pagare per essere sottomessi da una padrona che si fa chiamare "Dea Anais". La trasmissione mostra anche delle fotografie di una ragazza mascherata e vestita di pelle e calze a rete, mora e provocante, e si chiede se dietro quelle immagini possa esserci la stessa Anastasiya o se la ragazza avesse salvato quei messaggi proprio perché affascinata da quel mondo e dal denaro che vi circolava.
Roma, smantellato call center della droga: "Il Covid ci ha fermato un po', ora riprendiamo". Coinvolto anche Pirino, in carcere per l'omicidio Sacchi. La base operativa era San Basilio. I clienti scrivevano a un telefono, attivo dalle 14 alle 2 di notte, ordinavano la droga ("un amico" era una dose, "una mano" 5 grammi) e aspettavano che arrivasse direttamente a casa, consegnata da ragazzi in motorino. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 18 giugno 2020. Era un call center della droga con consegna a domicilio. Un sistema snello e ben organizzato che fatturava all'incirca 15mila euro alla settimana. I clienti scrivevano a un telefono, attivo dalle 14 alle 2 di notte, ordinavano la droga ("un amico" era una dose, "una mano" 5 grammi) e aspettavano che da San Basilio arrivasse direttamente a casa, consegnata da ragazzi in motorino, anche loro tossicodipendenti in difficoltà economica. Un sistema che è stato smantellato dalla procura di Roma e dal Gico del Nucleo di polizia economico finanziaria che hanno arrestato 7 giovani: 3 in carcere e quattro ai domiciliari. Tra loro c'è anche Paolo Pirino, 22 anni, già in carcere perché accusato di essere, insieme a Valerio Del Grosso, quello che ha ucciso Luca Sacchi. Il gruppo che il gip definisce "estremamente efficace, sia nell'ottica di facilitare la domanda che di ridurre i tempi e i passaggi al fine di soddisfarla, ma anche di minimizzare i rischi", aveva superato lo spaccio di strada. I corrieri, per limitare i rischi, viaggiavano sempre con pochissime dosi, facendo magari più giri. In media si contano tra le 30 e le 50 cessioni al giorno durante la settimane e 80 nei festivi e prefestivi. Proprio come un esercizio commerciale qualsiasi, al termine del lockdown il call center ha inviato un sms alla clientela: : "Ciao bello\a sono lele di San Basilio siamo stati fermi x un po a causa del covid19 comunque da domani alle 14 fino alle 2 di notte risaremo attivi con amichetti a 30 e (mani o tmax a 230) disponibili a raggiungerti dove sei siamo tornati al top top chiamami un abbraccio lele". Tanta astuzia aveva permesso al gruppo, come scrive il gip, di "ritagliarsi uno spazio operativo di tutto rispetto (atteso il giro di clienti ed il "fatturato" della impresa delinquenziale messa in opera) in un contesto già a fortissima presenza criminale di gruppi agguerriti e con superiore caratura malavitosa come il quartiere romano di San Basilio". Nel corso delle indagini, partite nel febbraio 2019 e quindi ben prima dell'omicidio Sacchi, Paolo Pirino si è reso protagonista di un tentativo di investimento di due militari delle Fiamme Gialle che gli avevano intimato l'alt per un controllo: alla guida della sua auto, invece di fermarsi, accelerava tentando di travolgere i due Finanzieri prima di dileguarsi. Il Tribunale di Roma ha disposto la custodia cautelare in carcere nei confronti dei fratelli Samuel e Manolo Billocci e di Pirino e i domiciliari per 4 "corrieri".
Omicidio Sacchi a Roma, Del Grosso in aula: "Non volevo uccidere Luca, nello zaino non c'erano soldi". Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Non volevo sparare e non volevo uccidere Luca". Lo ha detto Valerio Del Grosso, accusato in concorso con Paolo Pirino dell'omicidio di Luca Sacchi, avvenuto il 23 ottobre scorso a Roma testa davanti a un pub nella zona di Colli Albani. "Dopo quanto accaduto non volevo scappare - ha detto rendendo dichiarazioni spontanee al processo che si sta svolgendo a porte chiuse davanti alla Prima corte d'Assise - Sono andato a dormire nell'hotel dove andavo qualche volta quando volevo stare da solo". "Non ho preso soldi, nello zaino non c'erano soldi" ha concluso facendo riferimento alla vicenda della trattativa per l'acquisto di droga.
Adelaide Pierucci per “il Messaggero - Cronaca di Roma” l'8 luglio 2020. Ha chiesto perdono davanti alla Corte, ma con la convinzione di non meritarlo. Erano giorni che Valerio Del Grosso il ventenne accusato dell' omicidio di Luca Sacchi rimuginava in carcere con quali parole implorare perdono «per aver sparato e ucciso» anche se, a suo dire, «senza volerlo» e senza sapere cosa stesse facendo. Quel momento è arrivato ieri quando ha chiesto la parola davanti alla Corte di Assise e reso spontanee dichiarazioni. «Chiedo perdono anche se so di non meritarlo», ha premesso Del Grosso, «Sono consapevole di avere distrutto la vita di Luca, un ragazzo come me. Sono consapevole di aver distrutto la sua famiglia. So di aver distrutto anche la mia vita e quella di mio figlio. Ma non era mia intenzione uccidere». «Non volevo sparare. Non so perché è partito il colpo», ha precisato, «Era la prima volta che tenevo in mano una pistola. È avvenuto tutto in pochi secondi e in un momento di grande concitazione. C' è stata una colluttazione tra Luca e Paolo Pirino, perché Pirino aveva strappato via lo zaino di Anastasia Kylemnyk. Ho sentito delle persone arrivare alle mie spalle. Era buio. All' improvviso è partito quel colpo». Del Grosso ha tenuto a puntualizzare anche di non aver rubato i settantamila euro contenuti nello zaino di Anastasia per acquistare droga: «Lo zaino era vuoto», ha detto, «C' erano solo 250 euro nel portafogli. Sono i soldi che ho utilizzato per stare in albergo. Il mio soggiorno là potrebbe aver fatto pensare a una fuga. Ma non era mia intenzione scappare. Volevo solo abbracciare per l' ultima volta mio figlio prima di consegnarmi». Dell' omicidio del 23 ottobre scorso ai Colli Albani, Del Grosso (difeso dall' avvocato Alessandro Marcucci) risponde di omicidio volontario, in veste di esecutore materiale, assieme all' amico Paolo Pirino, che lo avrebbe spalleggiato. Sul banco degli imputati anche Marcello De Propris accusato, insieme al padre Armando di aver fornito la calibro 38 usata per il delitto, mentre Anastasia Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, si trova nella doppia posizione di parte civile e di indagata per la questione legata allo scambio di droga da cui sarebbe poi scaturito l' omicidio. Con una serie di testimonianza ieri l' accusa ha ricostruito lo scenario della nottata finita nel sangue. «Ho sentito lo sparo e mi sono girato di scatto. Il ragazzo era a meno di otto metri da me per terra», ha dichiarato Massimo Leardini, l' uomo che primo ha allertato i soccorsi. «Ero là quando all' improvviso ho sentito il colpo di pistola. Quando mi sono voltato ho visto il ragazzo a terra (ossia Luca, ndr) e un altro che poi ho capito fosse Del Grosso, che in tutta calma si è rimesso la pistola in tasca, si è girato, ci siamo guardati in faccia e se n' è andato senza correre, passeggiando come se nulla fosse accaduto». Dalla tranquillità dello sparatore «ho pensato che si fosse trattato di un regolamento di conti» ha spiegato il testimone, «Mentre la ragazza piangeva mi sono avvicinato al ragazzo. Aveva un foro alla nuca». Tra i testimoni anche gli amici del fratello minore di Luca Sacchi, tra cui alcuni minorenni. Due ragazzi, nel corso della deposizione hanno raccontato anche di Anastasia. Uno ha riferito di averla vista colpita da una bastonata. Un particolare che però l' altro non ricordava.
ADELAIDE PIERUCCI per il Messaggero il 10 luglio 2020. IL CASO. L'amico di Luca Sacchi incastra Anastasyia Kylemnyk. Nessun riferimento esplicito sull'affare droga. Ma, in aula ieri, nel processo aperto sull'omicidio del personal trainer, Domenico Marino Munoz, uno degli amici più fidati di Luca pur senza mai pronunciare questioni di soldi e una partita di marijuana, in veste di testimone ha ricostruito il clima di quella notte del 23 ottobre davanti al John Cabot, pochi minuti prima che dalla pistola di Valerio del Grosso partisse il colpo fatale.
RUOLO CHIAVE. Poche parole, espresse in maniera reticente e sofferta, che però non avrebbero lasciato dubbi ai suoi occhi sul ruolo chiave proprio di Anastasyia, la fidanzata di Sacchi, nella probabile compravendita di droga, sfociata in rapina e poi in omicidio.
STRANE PERCEZIONI. «Ho percepito qualcosa di strano quella sera, come se ci si dovesse accordare per qualcosa di illecito - ha raccontato Munoz alla Corte - Anastasyia si è allontanata con uno zaino in mano e quando è tornata ha detto a Luca 'Tutto a posto''. Luca ha annuito. Ho avuto una strana sensazione». Il testimone poi si è soffermato in maniera più lineare sulla fase dell'omicidio. «All'improvviso un ragazzo ha aggredito Anastasyia con un colpo alla testa e uno alla schiena e Luca è intervenuto a sua difesa, spingendolo a terra», ha raccontato.
L'APPUNTAMENTO. «È successo tutto in pochi secondi. Luca si è disinteressato del ragazzo a terra (poi identificato per Paolo Pirino ndr) e ha soccorso la fidanzata. Era chino nel momento in cui sopraggiungeva dal marciapiede, da sette otto metri di distanza, un secondo ragazzo che dopo aver indietreggiato di un paio di passi ha esploso il colpo che ha centrato alla testa Luca». «Quella sera Luca mi aveva dato appuntamento là con Signal», ha precisato Munoz facendo riferimento all'applicazione di messaggistica istantanea che consente di effettuare chat e chiamate vocali crittografate. «Avevamo una chat, io lui e Giovanni Princi», il giovane, che nell'ambito della stessa inchiesta, è stato appena condannato in abbreviato a 4 anni per la compravendita della droga.
DAVANTI ALLA CORTE. Davanti alla Corte d'Assise che vede imputati per omicidio volontario e rapina Valerio Del Grosso e Paolo Pirino e nella doppia veste di parte civile e imputata per detenzione di droga Anastasyia Kylemnyk, ha testimoniato anche il fratello di Luca Sacchi, Federico, per caso quella sera nel pub.
LA CORSA. «Ho visto Princi correre. È stato lui a dirmi di Luca. "Tuo fratello è a terra", mi ha detto. Poi la corsa in ospedale dove Luca è morto. Lì, con Luca in fin di vita, Princi aveva una preoccupazione: andare a spostare la macchina di Anastasyia». «Negli ultimi tempi - ha aggiunto Federico Sacchi - Anastasyia e Luca si erano allontanati. So che discutevano. Invece lei si era avvicinata sempre più a Princi. Avevano buoni rapporti».
CHIESTO IL PERDONO. Nell'ultima udienza aveva chiesto perdono in aula Valerio Del Grosso: «Chiedo perdono anche se so di non meritarlo agli occhi della famiglia», aveva premesso Del Grosso, «Sono consapevole di avere ucciso Luca, un ragazzo come me. Di aver distrutto la sua famiglia. Ma non era mia intenzione uccidere. Non volevo sparare. Non so perché è partito il colpo. Era la prima volta che tenevo in mano una pistola».
Valentina Errante per il Messaggero il 22 settembre 2020. Al processo per la morte di Luca Sacchi, freddato con un colpo alla nuca lo scorso anno davanti al pub John Cabot pub, all'Appio Latino, si torna a parlare dell'incontro del 12 ottobre. Quando, dieci giorni prima del suo assassinio, durante una cessione di stupefacenti finita con l'omicidio, Sacchi aveva accompagnato l'amico Giovanni Princi, adesso a processo, a un incontro con un grossista di droga. Luca era rimasto lontano, come avevano rivelavano le informative. A processo con rito ordinario ci sono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due ventenni di San Basilio accusati di essere autori materiali dell'aggressione, i due pusher che, sperando di prendere i soldi (70mila euro) custoditi nello zaino della fidanzata di Luca, Anastasja, si sono trasformati in Killer. Marcello De Propris, che avrebbe consegnato l'arma del delitto, il padre di quest' ultimo, Armando, accusato della detenzione della pistola, e infine Princi e Anastasiya, la fidanzata di Luca, coinvolti nella seconda tranche dell'inchiesta, per la violazione della legge sugli stupefacenti in relazione al tentativo di acquisto di 15 chili di droga. In aula, il militare, che il 12 ottobre, dopo avere intercettato Princi, lo aveva seguito all'incontro con il piazzista Fabio Casale, ha riferito di avere identificato anche Sacchi, ma ha confermato quanto già precisato in un'informativa. E cioè che prima dell'intervento dei carabinieri, mentre Princi e Casale discutevano, Sacchi stava a distanza, come se la questione non lo riguardasse. Una circostanza che, per i legali della famiglia conferma l'estraneità di Luca alle vicende di spaccio. «Il teste in aula ha spiegato che Luca è rimasto lontano 2-3 metri ed era totalmente disinteressato a ciò che i due si dicevano: è l'ennesima prova dell'estraneità di Sacchi dal mondo della droga», commentano Armida Decina e Paolo Salice. E ieri in aula è stato sentito anche un acquirente abituale di Princi, che ha rivelato di non conoscere né Luca né Anastasja. Ma nel processo si ricostruiscono anche le fasi successive all'omicidio. «Ho incontrato Valerio Del Grosso il giorno dopo l'omicidio. Ci siamo visti a Tor Sapienza e mi ha detto che la sera prima aveva fatto una sciocchezza, che non pensava di averlo ucciso. Ha detto che non aveva mai avuto un'arma in mano prima e ha mimato il gesto di sparare verso il basso, verso il marciapiede». A parlare davanti alla Corte d'Assise è stato un amico d'infanzia di Del Grosso. «La sera in cui ci siamo incontrati insieme ad altre persone aveva le lacrime agli occhi, stava male - ha detto il testimone in aula - non ce la faceva neanche a parlare, aveva paura a dirlo alla sua famiglia e fui io a dirlo a suo fratello. Io ho consigliato a Del Grosso di consegnarsi alle forze dell'ordine ma la paura lo ha frenato. So che in quel periodo aveva problemi con la ex compagna, era legatissimo al figlio, andava dallo psicologo e assumeva farmaci».
MARCO CARTA per il Messaggero il 24 settembre 2020. Dalle utenze telefoniche intestate a cittadini bengalesi. Ai social criptati come Signal per eludere i controlli. «Sono Giovanni, contattiamoci qua, cancella il vecchio numero». È passata appena una settimana dalla morte di Luca Sacchi e Giovanni Princi è di nuovo operativo sul fronte dello spaccio: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». La vicenda emerge con chiarezza nelle motivazioni della sentenza con cui il giovane 24enne è stato condannato con rito abbreviato lo scorso giugno a 4 anni per aver avuto un ruolo attivo nella compravendita di 15 kg di marijuana che si è conclusa con la morte di Luca Sacchi, l'ex amico di scuola, ucciso dai pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, davanti al John Cabot pub, nel quartiere Appio.
MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA. Per il gup Pier Luigi Balestrieri non ci sono dubbi: Giovanni Princi era ben inserito «nel settore del narcotraffico» e per questo si era «attivato per l'acquisto di un notevole quantitativo di narcotico». E a lui non possono essere concesse le attenuanti generiche. Sia per il suo «non commendevole contegno processuale» ma anche per la sua «proclività a delinquere anche a distanza di pochi giorni dalla tragica morte del Sacchi». Nemmeno il tempo di metabolizzare la morte dell'amico del cuore, insomma. È il 31 ottobre 2019, quando Princi inizia a comunicare attraverso un'utenza intestata a un cittadino bengalese. Anche la sua fidanzata Burcea Clementina utilizza un'utenza intestata a un cittadino del Bangladesh. I due comunicano attraverso Signal, il programma di messaggistica che «permette di impostare la scomparsa a tempo dei messaggi». Ma evidentemente non sono attenti: in uno screenshot si vedono fogli manoscritti riportanti «sigle o nomi e cifre». Poi ci sono i messaggi vocali, datati 25 novembre. La voce è quella di Princi, e l'argomento, secondo gli inquirenti, è chiaro: «la gestione di diverse operazioni di narcotraffico». In uno degli audio si lamenta del mercato: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». In un altro elogia la serietà di un acquirente: «i dry li paga benissimo se sono dry veri, e l'erba la paga bene». Per il gup, la sera dell'omicidio di Luca Sacchi - era la notte tra il 23 e il 24 ottobre 2019 - Princi avrebbe agito «in qualità di acquirente anche per conto della coppia Kylemnyk/Sacchi», detentrice della provvista in denaro necessaria al buon esito dell'operazione, circa 70mila euro, mai trovati. Luca Sacchi avrebbe partecipato alla compravendita, «forse nel ruolo di mero convivente» di Anastasya, con cui Princi «aveva in corso un rapporto di amicizia». Subito dopo l'omicidio, Princi, per il quale il pm Nadia Plastina aveva chiesto una condanna a sei anni e 4 mesi, aveva spiegato così la sua presenza al pub: « ero in attesa che mi raggiungessero due amici, Luca e la sua fidanzata Anastasya».
MARCO CARTA per il Messaggero il 25 settembre 2020. Dalle utenze telefoniche intestate a cittadini bengalesi. Ai social criptati come Signal per eludere i controlli. «Sono Giovanni, contattiamoci qua, cancella il vecchio numero». È passata appena una settimana dalla morte di Luca Sacchi e Giovanni Princi è di nuovo operativo sul fronte dello spaccio: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». La vicenda emerge con chiarezza nelle motivazioni della sentenza con cui il giovane 24enne è stato condannato con rito abbreviato lo scorso giugno a 4 anni per aver avuto un ruolo attivo nella compravendita di 15 kg di marijuana che si è conclusa con la morte di Luca Sacchi, l'ex amico di scuola, ucciso dai pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, davanti al John Cabot pub, nel quartiere Appio.
MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA. Per il gup Pier Luigi Balestrieri non ci sono dubbi: Giovanni Princi era ben inserito «nel settore del narcotraffico» e per questo si era «attivato per l'acquisto di un notevole quantitativo di narcotico». E a lui non possono essere concesse le attenuanti generiche. Sia per il suo «non commendevole contegno processuale» ma anche per la sua «proclività a delinquere anche a distanza di pochi giorni dalla tragica morte del Sacchi». Nemmeno il tempo di metabolizzare la morte dell'amico del cuore, insomma. È il 31 ottobre 2019, quando Princi inizia a comunicare attraverso un'utenza intestata a un cittadino bengalese. Anche la sua fidanzata Burcea Clementina utilizza un'utenza intestata a un cittadino del Bangladesh. I due comunicano attraverso Signal, il programma di messaggistica che «permette di impostare la scomparsa a tempo dei messaggi». Ma evidentemente non sono attenti: in uno screenshot si vedono fogli manoscritti riportanti «sigle o nomi e cifre». Poi ci sono i messaggi vocali, datati 25 novembre. La voce è quella di Princi, e l'argomento, secondo gli inquirenti, è chiaro: «la gestione di diverse operazioni di narcotraffico». In uno degli audio si lamenta del mercato: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». In un altro elogia la serietà di un acquirente: «i dry li paga benissimo se sono dry veri, e l'erba la paga bene». Per il gup, la sera dell'omicidio di Luca Sacchi - era la notte tra il 23 e il 24 ottobre 2019 - Princi avrebbe agito «in qualità di acquirente anche per conto della coppia Kylemnyk/Sacchi», detentrice della provvista in denaro necessaria al buon esito dell'operazione, circa 70mila euro, mai trovati. Luca Sacchi avrebbe partecipato alla compravendita, «forse nel ruolo di mero convivente» di Anastasya, con cui Princi «aveva in corso un rapporto di amicizia». Subito dopo l'omicidio, Princi, per il quale il pm Nadia Plastina aveva chiesto una condanna a sei anni e 4 mesi, aveva spiegato così la sua presenza al pub: « ero in attesa che mi raggiungessero due amici, Luca e la sua fidanzata Anastasya».
Michela Allegri per “il Messaggero” il 13 Ottobre 2020. A incastrarlo è stata una perizia svolta sul suo cellulare: Valerio Rispoli, subito dopo l' omicidio di Luca Sacchi, aveva cancellato le conversazioni più compromettenti. Messaggi tra lui e Valerio Del Grosso, il pusher di Casal Monastero che la sera del 23 ottobre dello scorso anno, al termine di una trattativa per la compravendita di 15 chili di erba, ha sparato al giovane personal trainer uccidendolo. Rispoli era l'intermediario tra gli spacciatori - oltre a Del Grosso c' erano anche Paolo Pirino e Marcello De Propris, tutti accusati di omicidio - e l' amico di Sacchi, Giovanni Princi, regista di quella trattativa finita nel sangue e già condannato a 4 anni per acquisto di stupefacente finalizzato allo spaccio. Il colpo di scena è arrivato nel corso dell' ultima udienza del processo per omicidio: la pm Giulia Guccione ha depositato i risultati della perizia, formalizzando una modifica del capo di imputazione. Rispoli è indagato e, se dovesse venire rinviato a giudizio, potrebbe finire sul banco degli imputati insieme ai killer di Luca e alla sua fidanzata Anastasia Kylemnyk, pure lei a giudizio per acquisto di stupefacente ai fini di spaccio. Con Rispoli è indagato anche Simone Piromalli, presente nel corso della trattativa, ma la sua posizione dovrebbe andare verso la richiesta di archiviazione. Venerdì sarà un' altra udienza importante: verranno sentiti i genitori di Luca.
LE CHAT Per la procura, le conversazioni nel cellulare di Rispoli sono eloquenti, E proprio per questo il giovane avrebbe cercato di eliminarle. I contatti con Del Grosso e con Princi sono frequentissimi. Si parla dell' acquisto di 70mila euro di droga che sarebbe dovuto avvenire davanti al pub John Cabot il 23 ottobre, nel quartiere Appio Latino. Nei messaggi Princi si lamenta per la lentezza dei pusher e cerca di abbassare il prezzo. Il giorno prima dell' omicidio scrive a Rispoli: «Ma non li volete i soldi?». L' intermediario riporta il colloquio a Del Grosso che si attrezza e i fornitori: Armando e Marcello De Propris, padre e figlio. Agli atti è stato depositato un video del 22 ottobre che documenta un incontro tra il pusher e i fornitori davanti a un bar di piazza Coleman, a Tor Sapienza. È presente anche una quarta persona: per l' accusa sarebbe Paolo Pirino, ma i difensori respingono questa ricostruzione. Era stato sempre Rispoli a comunicare a Del Grosso che il gruppetto composto da Sacchi, la Kylemnyk e Princi aveva abbastanza denaro per l' acquisto: i soldi - mai ritrovati - erano nello zaino della ragazza. Il pusher aveva quindi deciso di cambiare i piani: si era fatto prestare una pistola dai De Propris per derubare i ragazzi. Poi, l' omicidio.
LA CASA. Ieri nel corso dell' udienza è stato ascoltato anche l' agente immobiliare che era stato contattato da Anastasia: la ragazza voleva affittare un appartamento insieme a Luca. «Non aveva specificato la tipologia di appartamento - ha detto il teste - è venuta prima da sola e poi con Luca. Il budget era di 900 euro e aveva fatto una proposta mostrando interesse anche per un altro. Quel giorno venne accompagnata da un' altra ragazza». Si trattava della fidanzata di Princi. Dopo l' omicidio, la giovane si è fatta restituire la caparra versata.
Omicidio Sacchi, il testimone: "Del Grosso mi disse che non pensava di averlo ucciso". A raccontare la circostanza durante il processo è un amico dell'imputato: "Mi disse, ho fatto una sciocchezza, gli consigliai di consegnarsi alla giustizia". Francesco Salvatore su La Repubblica il 21 settembre 2020. "Ho incontrato Valerio Del Grosso il giorno dopo l'omicidio. Ci siamo visti a Tor Sapienza e mi ha detto che la sera prima aveva fatto una sciocchezza, che non pensava di averlo ucciso. Ha detto che non aveva mai preso un'arma in mano prima e ha mimato il gesto di sparare verso il basso, verso il marciapiede". A raccontarlo in aula, sentito come testimone, è un amico di Del Grosso, durante il processo davanti alla prima Corte d'assise per l'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer ucciso la notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nella zona di colli albani. “La sera in cui ci siamo incontrati insieme ad altre persone aveva le lacrime agli occhi, stava male - ha riferito il testimone - non ce la faceva a parlare, aveva paura a dirlo alla sua famiglia e fui io a dirlo a suo fratello. Io ho consigliato a Del Grosso di consegnarsi alle forze dell'ordine ma la paura lo ha frenato. So che in quel periodo aveva problemi con la ex compagna, era legatissimo al figlio, andava dallo psicologo e assumeva farmaci". Il processo vede alla sbarra per omicidio volontario Del Grosso e Simone Pirino, Marcello e Armando De Propris (figlio e padre) e Anastasia Kylemnik, fidanzata di Sacchi. Secondo il pm Nadia Plastina, Del Grosso e Pirino avrebbero dovuto portare 15 chili di marijuana, messa a disposizione da De Propris, per venderla a venderla a Princi e Kylemnik. Poco prima dello scambio i due giovani di Casal Monastero hanno cambiato idea e hanno deciso di prendersi i soldi senza portare la marijuana. Sono scesi dall’auto con una pistola e una mazza in mano e hanno aggredito Kylemnik, che aveva con sé lo zaino rosa all’interno del quale c’erano i soldi, e Sacchi. Poi del Grosso ha sparato al personal trainer a bruciapelo, mentre quest’ultimo cercava di difendere la sua fidanzata. Intanto i legali della famiglia Sacchi hanno ribadito che Luca era estraneo al giro di droga: "Il carabiniere ascoltato in udienza ha riferito che nel corso dell'incontro avvenuto il 12 ottobre scorso tra un soggetto noto agli inquirenti, perché indagato per traffico di droga, e Giovanni Princi, Sacchi non ebbe alcun ruolo. Il teste ha riferito che Sacchi è rimasto lontano 2-3 metri ed era totalmente disinteressato a ciò che i due si dicevano". Gli avvocati Armida Decina e Luca Salice hanno anche aggiunto: "È nostro interesse far emergere la personalità di Sacchi e, dopo quanto emerso oggi, possiamo serenamente affermare che Luca non c'entrava assolutamente nulla con il mondo della droga".
Omicidio Luca Sacchi, Anastasiya: "Nessuna relazione tra me e Princi, solo amicizia". La fidanzata del ragazzo ucciso il 23 ottobre 2019 davanti a un pub in zona Appio durante uno scambio di droga è imputata per la compravendita di stupefacenti. Ma smentisce l'intesa con l'amico della vittima: "Io ero attaccatissima al mio fidanzato e la mia vita girava intorno a lui". Francesco Salvatore su La Repubblica il 16 ottobre 2020. "Tra me e Giovanni Princi non c'è alcuna relazione sentimentale o intesa. Tra noi c'è solo un'amicizia nata in seguito a quella tra Luca e Princi. Non l'ho mai frequentato o incontrato. Io ero attaccatissima al mio fidanzato e la mia vita girava intorno a lui". Rompe il silenzio Anastasiya Kylemnik, e lo fa in aula con una dichiarazione spontanea al termine dell'udienza nel processo sull'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni ucciso lo scorso 23 ottobre con un colpo di pistola alla testa fuori da un pub vicino alla Caffarella. Imputati per omicidio volontario sono Valerio Del Grosso, Paolo Pirino e Marcello De Propris. L'omicidio, per la procura, è scaturito al termine di uno scambio di droga degenerato in rapina e finito con l'uccisione del personale trainer. Imputati per la compravendita di droga anche Anastasiya Kylemnik, fidanzata di Luca. Era lei a tenere lo zaino all'interno del quale, secondo gli inquirenti, erano contenuti i soldi per pagare la partita di droga che avrebbero dovuto portare Del Grosso e Pirino. "Non ho mai riferito ai genitori di Luca né a lui che mio padre mi maltrattasse - ha continuato con voce tremula - mio padre mi ha accolto e protetto da quando sono qui. E anche tutti questi mesi. È una una roccia. Non mi ha mai maltrattato. Volevo farvi sapere solo questo", ha spiegato Anastasiya dopo che i genitori di Sacchi in aula avevano spiegato di averla accolta in casa perché lei gli aveva riferito che era maltrattata dal patrigno. In aula oggi ha parlato anche Concetta Galati, mamma di Luca Sacchi. "Dal sabato dopo l'omicidio non ho più visto Anastasiya. Mi ha continuato a mandare messaggi 'ti voglio bene' ma non si è più presentata a casa mia. L'ultimo messaggio lo ha mandato a mio marito ma per dirgli che non veniva al funerale per non creare confusione mediatica. Se io fossi stata fidanzata con un ragazzo per 5 anni avrei fatto di tutto per andarci". "Anastasiya dopo la morte di Luca si è allontanata - ha continuato la mamma con la voce rotta dal pianto - una volta mi diceva che stava male la mamma, una volta la sorella e una volta il papà. Poi le indagini sono proseguite e non ci siamo più sentite. Le chiesi il perché non voleva venire, o se fosse stato un consiglio dell'avvocato ma diceva sempre che qualcuno stava male".
Michela Allegri per “il Messaggero” il 10 novembre 2020. Ha assistito alla trattativa per la compravendita di 70mila euro di marijuana che, nell' ottobre dello scorso anno, è costata la vita a Luca Sacchi. E ha ricordato un dettaglio importante per ricostruire i fatti che hanno portato all' omicidio del giovane personal trainer romano: «Ero distante tre o quattro metri, nel gruppo c' erano Valerio Rispoli e Giovanni Princi. Si è avvicinata Anastasia, che aveva uno zainetto rosa. Ho visto estrarre un rotolo di banconote dallo zaino».
Rispoli - indagato per compravendita di stupefacenti - secondo l' accusa era l' intermediario tra i pusher di Casal Monastero - Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, entrambi a processo per omicidio - e il gruppo di Princi - già condannato a 4 anni per droga -, del quale facevano parte anche Luca Sacchi e la fidanzata Anastasia. A raccontarlo è stato Simone Piromalli, ascoltato ieri come testimone nell' ultima udienza del processo per quel delitto, avvenuto a Roma la notte tra il 23 e il 24 ottobre 2019. Piromalli, amico d' infanzia di Del Grosso, studente universitario - «prima studiavo statistica, ora economia» - era stato indagato insieme a Rispoli nel procedimento per violazione della legge sulla droga, ma la sua posizione è stata archiviata nei giorni scorsi. Nel corso delle indagini ha reso dichiarazioni importanti. «Non pensavo potesse succedere una catastrofe quella sera - ha detto in aula, rispondendo alle domande dei pm Nadia Plastina e Giulia Guccione - Rispoli mi chiese di accompagnarlo ad incontrare Princi, avrei potuto avere un piccolo compenso, Del Grosso di solito offriva serate o bottiglie di champagne. Poco dopo sono arrivati Luca e Anastasia e qualcuno ha tirato fuori dallo zaino di lei le banconote, ma non ricordo chi sia stato. Poco dopo è arrivato Del Grosso e ho sentito che discutevano di una trattativa per comprare marijuana». Del Grosso si era poi allontanato, «per andare a prendere l' erba», e in attesa del suo ritorno il gruppo si era spostato al pub John Cabot, all' Appio Latino. «Io sono entrato per prendere delle birre, mentre ero in fila ho sentito un rumore forte, ho visto un ragazzo in terra e Anastasia china su di lui che gridava. Princi in quel momento ha detto a me e a Rispoli di andare via». Del Grosso, invece di andare a prendere la droga dal suo fornitore Marcello De Propris - anche lui è a processo per concorso in omicidio -, si era fatto prestare una pistola: aveva deciso di derubare i ragazzi senza consegnare la partita di stupefacente. Pirino aveva colpito Anastasia con una mazza e Luca era intervenuto per difendere la ragazza. A quel punto Del Grosso gli aveva sparato, colpendolo alla testa. Poi lui e il socio erano fuggiti. Piromalli ha raccontato anche i momenti successivi: ha detto che Del Grosso, subito dopo l' omicidio, gli aveva telefonato, ma lui non aveva risposto. Il giorno dopo, accompagnato da un' amica, era andato sotto casa sua per prendere alcuni vestiti che gli aveva prestato: «Era molto agitato, mi ha abbracciato e mi ha detto che la sera prima era successo un macello e che lui voleva solo spaventare i presenti, non voleva uccidere nessuno».
Michela Allegri per "il Messaggero" l'11 dicembre 2020. Nuove intercettazioni che sembrano incastrare gli imputati - «volevano usare quella pistola per una rapina» - e misteri che, a distanza di più di un anno dal delitto che ha sconvolto Roma, non sono ancora stati chiariti. Udienza fiume ieri per il processo sull' omicidio di Luca Sacchi, il giovane personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nel quartiere Appio Latino, al culmine di una trattativa per la compravendita di 70mila euro di erba. Sul banco degli imputati, con l' accusa di omicidio, ci sono Valerio Del Grosso, il pusher di Casal Monastero che nell' ottobre 2019 ha premuto il grilletto, il suo socio Paolo Pirino e Marcello De Propris, il fornitore di stupefacente, che oltre ad avere preparato le dosi da cedere avrebbe anche consegnato a Del Grosso l' arma del delitto: la pistola di suo padre Armando, pure lui a processo per detenzione del revolver e appena condannato per droga. Il primo giallo riguarda proprio l' arma: non è mai stata trovata. E vale lo stesso per il cellulare di Valerio Del Grosso. Ieri in aula è stato sentito luogotenente Pasquale Passante del Nucleo investigativo, sezione Omicidi, che ha ricostruito le tappe delle indagini. Quando i carabinieri erano andati ad arrestare Del Grosso, 24 ore dopo l' omicidio, lui aveva fatto recuperare lo zainetto rosa rubato ad Anastasia Kylemnik, la fidanzata di Sacchi - a processo per la tentata compravendita di droga - e il portafoglio della ragazza. A organizzare la trattativa per l' erba era stato un amico di Luca, Giovanni Princi - già condannato a 4 anni - e quando Del Grosso aveva saputo che gli acquirenti erano disposti a spendere 70mila euro e che il denaro era nello zaino di Anastasia, aveva deciso di derubarli. Ma la rapina si era trasformata in omicidio. Secondo mistero: di quei soldi non c' è ancora traccia. Il bossolo del proiettile che aveva colpito Luca a morte era nascosto in un tombino, mentre la pistola non è mai stata recuperata. Il sospetto è che Del Grosso l' abbia restituito a Marcello De Propris che, intercettato, gli aveva chiesto di ridargli «una tuta». Per i pm, il silenzio di Del Grosso sarebbe un tentativo di coprire Armando De Propris, che ha recentemente patteggiato una condanna a 1 anno e 8 mesi per droga, ma ha passato violento: rapinatore a mano armata, specializzato in assalti a portavalori.
LE CHIAMATE Agli atti ci sono anche intercettazioni inedite ripercorse ieri in aula davanti alla pm Giulia Guccione e che riguardano la fidanzata di Marcello De Propris. Quando il ragazzo è stato arrestato, il 29 novembre, era a casa della giovane. Lei avrebbe tenuto il suo cellulare, evitando di consegnarlo agli inquirenti. Non sapeva che quel telefono era intercettato e lo ha usato per contattare gli amici e raccontare i dettagli di quelle giornate. La pm Nadia Plastina aveva ottenuto che il controllo venisse prorogato. E, in effetti, poco dopo il blitz dei carabinieri la ragazza aveva chiamato un' amica e le aveva detto che De Propris le aveva raccontato che l' arma usata da Del Grosso era di suo padre e che sapeva che il pusher di Casal Monastero l' avrebbe utilizzata per una rapina. Un piano finito nel peggiore dei modi.
Francesco Salvatore per “la Repubblica - ed. Roma” il 23 gennaio 2020. La procura delega indagini alla polizia postale per analizzare il contenuto dello smartphone di Pietro Genovese al fine di verificare se fosse al telefono nel momento in cui ha investito, la notte del 22 dicembre in corso Francia, le due sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Dopo l'avvio delle operazioni peritali finalizzate a ricostruire ogni aspetto dell'incidente - la velocità, il punto d'impatto e il regolare funzionamento del semaforo - il pm Roberto Felici allarga gli accertamenti anche a un aspetto finora rimasto in ombra: l'ipotesi che Genovese, figlio del regista Pietro, possa aver usato il telefono proprio nel momento dell'incidente. Per ora non c'è nessuna testimonianza in questo senso: né i due amici che Genovese trasportava, posizionati ovviamente in un punto di osservazione ottimale per stabilirlo, né i passanti o gli automobilisti, questi ultimi di certo meno attenti a una tale eventualità. Ad ogni modo, per sciogliere ogni dubbio, il magistrato ha chiesto lumi alla polizia per accertare o meno se ci fosse attività nel telefono del 20enne. Un'evenienza che, nel caso fosse accertata, aggraverebbe la posizione del giovane guidatore. Genovese è agli arresti domiciliari dal 26 dicembre con l'accusa di duplice omicidio stradale aggravato dallo stato di ebbrezza alcolica. Dopo l'incidente il ragazzo è stato sottoposto all'alcol test dai vigili urbani del gruppo Parioli e il livello alcolemico si è attestato a 1,4 grammi per litro ( il limite è di 0,5 mentre per un neopatentato, come lui, il valore deve essere zero). Interrogato dal gip Bernadette Nicotra il giovane, sul punto, ha ammesso: " Ero andato ad una festa a casa di un mio amico che rientrava a Roma dal progetto Erasmus. C'erano anche i suoi parenti. Avrò bevuto due tre bicchieri di vino". Quanto alla velocità, invece, il 20enne ha riferito che non stava guidando oltre i limiti: " Ero fermo a una settantina di metri dal semaforo, che era rosso. Quando è scattato il verde sono partito " . I testimoni sentiti sul posto dagli agenti della municipale, invece, hanno riferito che il Suv guidato dall'indagato era lanciato a "gran velocità". La percezione di due di loro è che " la velocità fosse sostenuta " . La quasi totalità, ad ogni modo, concorda sul fatto che Genovese sia passato con il verde. Per il gip, alla luce di quanto accertato in una prima fase, attraversando col rosso le ragazze avrebbero tenuto " una condotta vietata, incautamente spericolata". Quanto al semaforo incriminato - la cui luce pedonale non diventa mai arancione ma si limita a lampeggiare per 3 secondi sul verde, prima di diventare rosso - sono in corso accertamenti sulla regolarità.
Incidente Roma, Pietro Genovese alla guida dell’auto che ha ucciso Gaia e Camilla sotto shock: «Non le ho viste». Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. La sua famiglia: «Tragedia immensa, siamo distrutti». La sera con la comitiva in un locale lì vicino per festeggiare il ritorno a Roma di un amico, poi l’investimento mortale delle due 16enni guidando, da solo in auto, la sua Renault Koleos a una velocità almeno doppia rispetto al consentito. Si è fermato a soccorrere le giovani. Di fronte al pm Roberto Felici, che lo interroga nel pomeriggio, Pietro Genovese, 20 anni, è ancora sotto choc. Sguardo nel vuoto, poche parole pronunciate a fatica. Ripete: «Non le ho viste». «Un ragazzo distrutto», lo descrive l’avvocato Gianluca Tognozzi. Sua sorella Emma lo difende d’istinto su Instagram: «È stata colpa loro» (il riferimento è all’attraversamento, forse azzardato, delle due vittime, al buio e con la pioggia forte, su una strada a scorrimento veloce), mentre il padre si affida a un comunicato: «Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta, è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre». Come regista, Paolo Genovese ha diretto anche un spot per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sindrome (in alcun modo inabilitante alla guida) da cui è affetto il figlio. Attorno alla loro abitazione, nel quartiere Coppedè, c’è il silenzio di una domenica piovosa. Fino a sera non rientra nessuno. Diplomato al liceo classico Mameli, ai Parioli, Pietro ha sempre avuto una predilezione per i motori.
Pietro Genovese, la sorella Emma: "Siamo distrutti, ma la colpa è stata di Gaia e Camilla". Libero Quotidiano il 23 Dicembre 2019. "È stata colpa loro". Lo scrive così Emma Genovese, sorella di Pietro Genovese, il 20enne figlio del regista Paolo che sabato sera in corso Francia ha travolto e ucciso alla guida del suo Suv le 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Il post su Instagram è un misto di dolore per un tragico incidente e rabbia per la accuse al fratello, a suo dire immotivate anche se sul suo conto pesa anche la positività al test su droga e alcol alla guida (la sorella, a caldo, nega tutto). La dinamica dello schianto però non è ancora chiara: secondo un testimone oculare le due giovanissime avrebbero attraversato la strada di scorrimento veloce con il semaforo pedonale rosso (ipotesi confermata dallo stesso Genovese, pur sotto choc) scavalcando un guard rail. "Vorrei dire una cosa - le parole di Emma Genovese -, non lo dico perché è mio fratello ma lo direi per chiunque, tutta la gente che sta dando la colpa a lui dovrebbe vergognarsi. Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita ieri notte" ma "non accusate se non sapete come sono andate le cose". "La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada (ovviamente non pensando che potesse succedere il peggio) con le macchine sfrecciavano su Corso Francia". Poi un pensiero al fratello, "rimasto sotto la pioggia in lacrime, aspettando i soccorsi e i miei genitori. Siamo distrutti per quelle povere ragazze".
Roma, Camilla e Gaia falciate e uccise. Il testimone: "Cosa ha fatto il figlio di Paolo Genovese". Libero Quotidiano il 22 Dicembre 2019. Sono Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann le due sedicenni morte a Roma, travolte in zona Ponte Milvio da Pietro Genovese, il figlio del celebre regista Paolo Genovese. Dopo la mezzanotte sono state falciate, le due sono morte sul colpo: Pietro, 20 anni, si è fermato ma ogni soccorso era inutile. Una scena terrificante, straziante, sconvolgente. E ora, riportata da Dagospia, emerge anche una testimonianza impressionante circa quello che è successo questa maledetta notte. Il racconto di un testimone che spiega: "Ero lì e ho visto tutto. Una scena che una persona non deve mai vedere, figuriamoci vivere. Le ragazze volevano attraversare la strada a tutti i costi nonostante il semaforo fosse VERDE per le macchine, NON ERA ROSSO come tutti credono. Volevano attraversare in un punto senza strisce. dove all'altro Iato c'era il guardrail", scrive a Dago il testimone. E ancora, aggiunge: "La macchina della corsia centrale di corso Francia ha rallentato per far passare le ragazze, le quali hanno attraversato correndo, mano nella mano, senza vedere se passavano macchine nella corsia di sinistra, quella vicina al guard rail. La macchina che le ha travolte andava sicuramente veloce, ma la macchina centrale copriva la visuale e quella macchina non poteva vedere che le ragazze stavano attraversando. Sono state catapultate per aria e investite una seconda ed una terza volta da macchine che arrivavano da dietro...", conclude la sua drammatica testimonianza.
Veronica Cursi e Mauro Evangelisti per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Non le ho viste, sono passato con il verde». Il tonfo, i due corpi delle ragazzine sbalzate in aria dal Suv che aveva appena sterzato e superato un'altra auto che aveva rallentato. Subito dopo Pietro si è fermato, ha pianto, disperato. Aveva investito due ragazzine in corso Francia, arteria irrinunciabile di Roma Nord. È rimasto sotto la pioggia, in attesa dell'ambulanza, della polizia, dei genitori, mentre la sua vita stava cambiando, forse per sempre. Era diretto ad una festa e guidava un Suv della Renault, semidistrutto dopo l'impatto, violento. Ha urlato che non le ha viste, che c'era il semaforo che segnava il verde mentre stava passando.
OSPEDALE. Sotto choc, è stato accompagnato al Policlinico Umberto I, per essere sottoposto ai test di alcol e droga, mentre altre urla si udivano in corso Francia, quelle delle madri delle due sedicenni. In passato Pietro Genovese, 20 anni e il peso che ti porti dietro a causa del cognome celebre di uno dei più importanti registi italiani insieme alle possibilità e a qualche privilegio, era stato fermato e segnalato alla Prefettura per consumo di sostanze stupefacenti. Poco più di una sciocchezza, come succede a tanti ragazzi a quell'età, anche se non dovrebbe accadere. Ma nel tardo pomeriggio, è stato ascoltato dalla Polizia locale dei Parioli, ma ha scelto di non rispondere. Poi, la doccia fredda, la notizia che si comincia a diffondere: dai test, Pietro risulta positivo sia all'alcol, sia agli stupefacenti. Va detto che ancora non si conoscono i valori, solo gli esami oggi preciseranno quantità e sostanze. Ma Pietro ha meno di 21 anni e con i neopatentati il codice della strada è molto più severo, il livello di alcolici deve, ad esempio, essere uguale a zero. Racconta un esperto: se venisse confermato l'uso di droga e alcol, rischia da 8 a 12 anni di reclusione, che potrebbero diventare 18 poiché le vittime sono due. Sono ipotesi, però, che non tengono conto dell'eventuale dimostrazione che le ragazze hanno attraversato con il rosso.
L'INCHIESTA. Pietro Genovese ora è indagato per omicidio stradale, il suo smartphone è stato sequestrato per verificare che non stesse chiamando o messaggiando mentre era alla guida. Ha frequentato il Liceo Mameli ed è un appassionato di musica elettronica, in passato ha anche giocato a rugby nell'Us Primavera. La sua pagina Facebook, aperta, racconta una vita normale, le passioni per le feste in discoteca (i post sul Goa, uno dei club romani più famosi), i viaggi a Cuba e a Mykonos, le foto scherzose con gli amici e anche una, molto bella, che ha scelto anche per il suo profilo su Ask (un altro social popolare tra i giovanissimi): al Museum of Modern Art di New York insieme al padre Paolo, su una iconica scala. «Pietro è un ragazzo molto intelligente, molto in gamba ed esperto di musica elettronica, è stato sfortunato» dicono gli amici che lo difendono. La sorella riassume, probabilmente, ciò che Pietro ha detto ai familiari: «Non aveva bevuto, non aveva fumato, non era al telefono. C'era il verde, ed è passato come è giusto che sia». Ancora: «Stare sotto la pioggia, in lacrime, per strada, su corso Francia, con due ragazze senza vita sull'asfalto, ad aspettare la polizia, l'ambulanza e i miei genitori che sono corsi, è una cosa che distrugge. Siamo distrutti per quelle povere ragazze». Come è arrivato Pietro, che in macchina era da solo, a quel frammento di secondo poco dopo la mezzanotte che è coinciso con lo stesso frammento di secondo, in cui Gaia e Camilla hanno deciso di attraversare, nel buio e nella pioggia battente di corso Francia?
LA CENA. Il ragazzo era stato a una cena a collina Fleming, sempre Roma nord. Se i test saranno confermati, mentre con gli amici ha ascoltato della musica, deve avere bevuto qualcosa e - ma solo i test definitivi potranno confermarlo - fatto uso di sostanze stupefacenti. Come molti a quell'età, quando se ne è andato ha fatto la scelta sbagliata, è salito sul Suv, un Renault Koleos. Era diretto al Treebar, racconta qualche amico, un locale molto frequentato al quartiere Flaminio che da corso Francia dista poco più di due chilometri. È sceso da collina Fleming e si è immesso su quello stradone diviso dal guard raill e caratterizzato da una serie di semafori e pochi attraversamenti pedonali. All'incrocio prima del ponte, è passato, ha premuto il piede sull'acceleratore. Secondo alcuni testimoni c'era il verde per le auto.
IL REGISTA. M.Ev. per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Un dolore insopportabile» ripete Paolo Genovese, il regista romano che, come pochi altri, nei suoi film sa raccontare storie e ora si ritrova al centro di un dramma. Sa bene che la sua angoscia di padre di un ragazzo che guidava il Suv che ha travolto e ucciso due sedicenni, per quanto profonda, non è paragonabile a quella dei genitori delle vittime. Racconta Genovese, dosando le parole, perché sa anche che è difficile, in tragedie come questa, trovare quelle giuste: «Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta, è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre». Nel suo ultimo romanzo, Il Colibrì, lo scrittore Sandro Veronesi descrive la telefonata nella notte che nessun genitore vorrebbe mai ricevere, quella che ti fa pregare «non a me» mentre continuano gli squilli, se rispondi saprai di avere perso un figlio, trovandoti in una condizione per la quale, in italiano, neppure esiste la parola che la definisca. Ecco, nella notte tra sabato e domenica, la condanna di quella telefonata è toccata ai genitori di Gaia e Camilla, mentre Paolo Genovese e la moglie Federica sono stati raggiunti da un'altra comunicazione che ha scosso le loro vite a pochi giorni dal Natale: Pietro racconta di avere avuto un incidente, Pietro è in corso Francia sotto la pioggia in lacrime. Pietro ha travolto e ucciso due ragazze. Sono corsi, sono andati al fianco del figlio, hanno chiamato l'avvocato, hanno cercato di capirci qualcosa. Quel figlio appassionato di viaggi, musica elettronica e rugby, aveva anche convinto Paolo Genovese a girare uno spot di una campagna sociale sul morbo di Crohn, una malattia dell'intestino. Aveva raccontato il regista in un'intervista: «Mio figlio Pietro soffre di Crohn. Sono sensibile in primis come padre. Quando mi hanno chiesto di poter fare qualcosa a favore delle persone affette da Crohn, ho accolto immediatamente questa richiesta». L'obiettivo era spiegare che comunque si può avere una buona qualità della vita, ma è giusto farsi seguire dai medici. Paolo Genovese, ha 53 anni, è autore di film di grandissimo successo come Perfetti sconosciuti in cui ha raccontato come la tecnologia e gli smartphone hanno cambiato le nostre vite (in tutto il mondo ha avuto un record di remake). Regista di successo già con Immaturi, negli ultimi anni la sua carriera ha raggiunto il culmine. Ha altri due figli, un maschio e una femmina. Proprio la ragazza, sui social, con la generosità di una sorella ha difeso Pietro, raccontato la disperazione della famiglia e il dolore per la morte di Gaia e Camilla, detto che il giovane non aveva bevuto o usato stupefacenti. Pietro ieri è tornato a casa con i genitori, ad attendere le decisioni del pubblico ministero e le controanalisi dei test su alcol e droghe. Sui social, però, come sempre succede, sono spuntati anche i primi haters feroci, qualcuno è andato a scrivere sulla pagina ufficiale di Paolo Genovese: «Tuo figlio ha fatto un bel regalo di Natale a due famiglie». Un altro, impietoso, ha condiviso nei commenti lo screenshot della notizia di un sito sui test del figlio, positivi per alcol e droga. E altri, livorosi, sostengono sbagliando che si stiano coprendo le notizie perché Pietro è il figlio di un personaggio famoso. Altri ancora sono andati sul profilo del figlio scrivendo insulti senza senso come «assassino».
Lorenzo De Cicco per il Messaggero il 23 dicembre 2019. Se avesse potuto scegliere un super-potere, Gaia non avrebbe avuto dubbi: «Cambiare il passato». Così scriveva su Ask.fm, il social che spopola tra i ragazzini, dove si mettono un po' a nudo pensieri e dubbi dell'adolescenza, una domanda alla volta. Ma riavvolgere il nastro non si può. Non può lei, non può chi l'ha investita, non può il papà Edward, carabiniere in congedo ora intermediario assicurativo, che alle quattro di notte, dopo avere riconosciuto la figlia, ha avvisato il resto della famiglia con un sms: «La nostra piccola è volata in cielo». Finlandese, arrivato a Roma a 5 anni da Helsinki, Edward nel 2011 ha perso l'uso delle gambe dopo un incidente in moto. «Queste strade maledette, forse è il karma della famiglia, due incidenti così...», le parole col groppo in gola che riporta la sorella Patricia, la zia di Gaia, mentre varca il portone di via Città di Cascia, Collina Fleming, zona elegante di Roma Nord, dove la ragazza viveva con la mamma. A un chilometro, nemmeno, dalla corsia dello schianto fatale.
I BAGAGLI NELLA CAMERETTA. Racconta la zia Patricia: «Gaia aveva già la valigia pronta, nella sua cameretta, stava per partire con la mamma per le vacanze. Questione di giorni, un viaggio in Europa, per riposarsi, approfittando della pausa dalle lezioni». Il sogno di una vacanza spazzato via a mezzanotte di un sabato prenatalizio, dopo l'ultimo giorno di scuola, tra le pozzanghere e l'asfalto fangoso di Corso Francia. Un guardrail, un Suv che sbuca a tutta velocità, l'impatto, la fine. Niente vacanze, niente di niente. Resta una valigia piena di sogni stroncati. La zia è ancora sconvolta. «Ricordo di avere ricevuto un messaggio alle 4 di notte da mio fratello. Gaia è andata in cielo, c'era scritto. Nella confusione, data l'ora, ho pensato fosse un modo per dire che era partita in aereo, un modo un po' melodrammatico magari. Poi ci siamo sentiti con Edward. E ho capito tutto». Gaia, racconta la famiglia, era una ragazza forte, forte nonostante un vissuto non facile. «I genitori si erano separati quando era ancora piccola - ricorda zia Patricia - poi l'incidente in moto del padre, otto anni fa. Cose che segnano. Lei viveva con la mamma, ma ha sempre avuto la forza di reagire, di trovare il sorriso anche nei momenti più duri».
«LE DOMENICHE A CASA». Il posto più lontano che aveva visitato, scriveva un anno fa, era Berlino. Ma sognava una vacanza a Miami. Il luogo dove pensava il suo futuro, la sua vita dopo la scuola e forse l'università, però, era un altro: Londra. Anche se «per i prossimi cinque anni penso di restare ancora a Roma». Una vita, per ora, tutta in questo spicchio residenziale della Capitale, quadrante Nord, ma verso il Centro: la scuola al linguistico Gaetano De Sanctis, nella sede di via Antonio Serra, sempre a due passi da Corso Francia, le serate tra i locali chic di Ponte Milvio, la comitiva in zona. Aveva un fidanzatino, Edoardo, diceva di «credere nell'amore a prima vista».
CANOTTAGGIO E PALLAVOLO. Venerdì, la sera prima dell'incidente, era a cena col papà e la nuova compagna di lui al circolo Canottieri Aniene. Lei invece fino all'anno scorso faceva canottaggio per la Tevere Remo, altro circolo storico dell'Urbe. Ora giocava a pallavolo. La sua domenica ideale, raccontava Gaia agli amici dei social, era stare «tutto il giorno a letto». Ieri invece, non c'è potuta stare. Travolta coi suoi sogni da un'auto a mezzanotte. Mano nella mano con la compagna di banco. Lei che scriveva di amare le «corse sotto la pioggia con gli amici».
Alessia Marani per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Prima di domani», scriveva Camilla Romagnoli sui social, era il suo film preferito. La storia racconta di un gruppo di amiche giovanissime che trascorrono una serata di festa insieme ma che poi muoiono in un incidente d'auto. La protagonista, però, l'indomani mattina si risveglia come se nulla fosse, pensando a un brutto sogno. Invece, era solo l'opportunità di rivivere gli ultimi istanti per fare del bene agli altri. Un triste presentimento per Camilla, una delle due sedicenni investite e uccise sabato notte a Corso Francia. Il suo sogno era viaggiare, vedere più posti possibile. «Ricordati di sorridere sempre», ha lasciato scritto su Instagram.
BATACLAN. Dublino le era rimasta nel cuore, Venezia forse era stata la gita più bella, una decina di giorni fa era stata a Firenze. Erano i suoi viaggi del cuore, quelli con la sorella più grande Giorgia, che ha 22 anni, e con mamma Cristina. I viaggi delle «piccole donne» di casa che ogni tanto lasciavano papà Marino a Roma, impegnato nel lavoro di consegne con il furgone, per staccare dalla routine e scoprire insieme luoghi sempre nuovi. Per questo dopo le medie alla Nitti, Camilla aveva deciso di studiare lingue al liceo De Sanctis sulla stessa strada di casa: immaginava un futuro sempre in giro per il mondo e a contatto con persone diverse. Lei che, pure, era timida e riservata, e che raramente usciva per fare tardi la sera. Che aveva l'Iphone accoppiato con quello della sorella maggiore perché a casa sapessero sempre dove si trovasse. Mamma Cristina è una donna apprensiva. Sabato a mezzanotte le aveva mandato un messaggio: «Ma hai visto che ora è?» e lei l'aveva subito tranquillizzata, rispondendole, alla mezzanotte e dieci minuti, che «sto tornando». Poi il silenzio. Cristina chiama la figlia Giorgia che è anche lei in giro con le amiche: «Tua sorella non si vede ancora, ho provato a chiamarla più volte, il telefono squilla ma resta muto. Mi localizzi dov'è?». Giorgia controlla subito: «Mi segnala la posizione a Corso Francia». Poi le balena subito qualcosa per la testa: «Mamma, so che c'è stato un incidente, vai a vedere». Cristina non se lo fa dire due volte. Lei e il marito avevano vissuto altri momenti terribili quando la figlia più grande si trovò a Parigi nella notte della strage al Bataclan. Per un momento avevano temuto il peggio. Poi per fortuna Giorgia stava bene. Invece l'altra notte, Cristina si infila veloce la giacca, esce di casa e sotto la pioggia percorre le poche centinaia di metri che da casa conducono fino a Corso Francia e si ritrova davanti i lampeggianti della polizia locale, il capannello di gente, cerca di farsi largo. «Sono la mamma di Camilla Romagnoli», dice a un vigile che si guarda con un collega e le risponde: «Signora aspetti qua, non si muova». Cristina scopre da sola che la figlia è morta e vuole guardarla per un'ultima volta. Poi con Marino e Giorgia trova ristoro dentro il ristorante T-Bone all'angolo. Il gestore Alessio si accorge di conoscere bene Marino, è l'uomo che consegna loro il salmone la mattina. Lo abbraccia.
THE E CIOCCOLATO. Il mondo di Camilla che sognava di viaggiare, a sedici anni, in fondo, era ancora tutto là, racchiuso nel reticolo di viuzze tra il quartiere Fleming e Ponte Milvio. Nell'ultimo periodo aveva un fidanzatino, Edoardo. Si era vista anche con lui sabato sera a Ponte Milvio. Una pizza, un gelato in comitiva con gli amici di scuola, senza pensieri, con la scuola appena chiusa per le vacanze di Natale e davanti altri giorni di festa. Invece, ora, mamma Cristina apre la porta di casa per accogliere il viavai di amici e parenti increduli e disperati per l'accaduto: «Lei non c'è più, non è giusto. Dovevo morire io, doveva investire me, non lei a sedici anni. Una vita spezzata, avevamo tanti progetti».
Incidente Roma, l’ultima serata di Gaia e Camilla. Travolte e uccise sulla strada per casa. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 da Fabrizio Roncone su Corriere.it.. Camilla e Gaia erano felici. Avevano progetti. Avevano 16 anni. A Natale bisognerebbe raccontare solo storie belle. Ma questa scena è delimitata da un nastro di plastica bianco e rosso. Argani, carri attrezzi, traffico deviato. Venti minuti dopo la mezzanotte di sabato. Ai vigili urbani è arrivata una chiamata generica: «Incidente a Corso di Francia». La strada che attraversa Roma Nord. Comincia dove c’è il distributore dell’Agip che il camerata Massimo Carminati, detto «er cecato», aveva trasformato nel suo ufficio e finisce ai Parioli. Due colline ai lati: Vigna Clara e Fleming. Tre semafori e una stradina sulla destra, sotto al cavalcavia dell’Olimpica: trecento metri e sei a Ponte Milvio. Rumore di movida, alcol, droga, luci forti. Qui invece è quasi buio, gran parte della città ormai è sempre più buia, dai lampioni solo un riverbero giallognolo e piove piano, però fino a poco fa pioveva forte: nessun segno di frenata sull’asfalto bagnato, nessun vetro rotto. Solo una Renault Koleos grigio metallizzato con due ammaccature profonde sul cofano, la targa schizzata sul marciapiede, le quattro frecce accese: e — laggiù — due teli bianchi stesi su due corpi. Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann avevano 16 anni e tornavano a casa. Probabile fossero un po’ in ritardo: ma tutti, alla loro età, siamo stati in ritardo. Probabile avessero fretta e fossero distratte: ma tutti, alla loro età, siamo stati distratti. Bisogna stabilire se abbiano attraversato sulle strisce o, piuttosto, come sembra da una prima ricostruzione, abbiano scavalcato il guardrail. C’è un semaforo: e non si capisce se, quando hanno attraversato, fosse verde. Testimonianze confuse, verbali, lampeggianti, arriva il magistrato di turno, arrivano gli amici. Il ragazzo che stanno facendo salire sull’ambulanza è il conducente della Renault: Pietro Genovese, 20 anni; ex studente del liceo Mameli, giocatore di rugby, figlio di Paolo, il regista (due David di Donatello per il film Perfetti sconosciuti). Il ragazzo è sotto shock, gli hanno sequestrato il telefonino per capire se stesse telefonando o spedendo sms, e adesso lo portano al Policlinico Umberto I, dove verrà sottoposto al test che stabilisce se ha bevuto troppo e fatto uso di droga. All’angolo, un famoso ristorante della zona: T-Bone Station. Testimonianza di Alessio Ottaviano, il direttore: «Poco dopo la mezzanotte, abbiamo sentito un grande frastuono. Pensavamo a un tamponamento, in questo tratto di strada corrono sempre tutti. E invece a terra c’erano quelle due ragazze. Un medico di passaggio è sceso dal suo scooter. Poi è arrivata anche l’ambulanza. Tutto inutile». Dicono che Gaia si fosse fermata a mangiare un panino proprio in questo locale con Edoardo, il suo nuovo fidanzatino, dopo una serata trascorsa a pattinare all’Auditorium, e che qui si sia unita a Camilla. Dicono che con loro ci sarebbe dovuta essere anche la loro terza amica, Isabella. In verità dicono tutti un sacco di cose. Albeggia così: tra un certo dolore atroce e quel senso di paura tremendo, perché a quelli che hanno una figlia capita sempre di guardare l’orologio e pensare: ma quando torna? Adesso, in una mattina livida, di vento freddo, i compagni del liceo linguistico De Sanctis portano mazzi di fiori e ricordi. Gaia viveva con la madre Gabriella; il padre Edward, di origini finlandesi, fa il broker assicurativo ed è disabile, per colpa di un incidente con la moto. Camilla viveva a un isolato di distanza. Un’altra famiglia normale, media borghesia: la sorella, raccontano, è disperata e ha come perso la parola. A metà pomeriggio arriva la notizia che Pietro Genovese sarebbe risultato positivo ai primi test alcolici e tossicologici, e saranno perciò necessari ulteriori esami. Il padre Paolo — «Siamo una famiglia distrutta» — si è visto girare la vita con uno squillo di cellulare. È tutto particolarmente agghiacciante: perché quei cellulari che squillavano pieni di segreti e verità terribili erano lo strepitoso plot del film che lo ha reso celebre in tutto il mondo.Comincia la sarabanda degli avvocati. Forse qualche certezza sull’esatta dinamica dell’investimento potrebbe arrivare dalle telecamere del magazzino Standa, che domina quel tratto di strada. Un testimone scrive al sito Dagospia: «Ero lì e ho visto tutto. Le ragazze, mano nella mano, volevano attraversare la strada a tutti i costi, nonostante il semaforo fosse verde, in un punto senza strisce. La macchina della corsia centrale ha rallentato per farle passare, ma ha coperto la visuale a quella che sopraggiungeva nella corsia accanto. Sono state catapultate per aria e investite una seconda ed una terza volta da macchine che arrivavano da dietro...». Dettagli utili per l’inchiesta. Gli amici di Camilla e Gaia hanno però altri dubbi. «Ma secondo te, ora, dove saranno?», chiede Luca. «Forse in cielo, forse no. Però, fidati: sono di certo in un posto fico». Poi Luca comincia a singhiozzare. Sono venuti a legare un Babbo Natale di peluche al guardrail. Ma non è Natale così.
Roma, tragedia a Ponte Milvio: due ragazze di 16 anni investite e uccise da un'auto: l'investitore positivo ad alcol e droga. Si chiamavano Gaia e Camilla. Alla guida della vettura il figlio ventenne del regista Paolo Genovese, che si è fermato a prestare soccorso. E' indagato per duplice omicidio stradale. Sequestrato il cellulare. La madre di una delle vittime: "Doveva uccidere me". Il regista nel pomeriggio: "Dolore insopportabile per loro e i genitori". La testimonianza di un giovane: "Prima frenata, poi sbalzate in aria". Flaminia Savelli il 22 dicembre 2019 su La Repubblica. Stavano attraversando la strada, quando una macchina le ha travolte e uccise. Sono morte cosi Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, due ragazze di appena 16 anni. Il dramma si è consumato ieri notte poco dopo l'una, in pochissimi secondi a Ponte Milvio, lungo corso Francia, tra via Flaminia Vecchia e la rampa di accesso all'Olimpica. Le ragazze sono morte sul colpo: inutili i soccorsi, i medici del 118 infatti non hanno potuto far altro che constatare il decesso. Sul caso indagano ora i vigili urbani del gruppo Parioli. Secondo una prima ricostruzione, le giovani stavano attraversando, per raggiungere un gruppo di amici dall'altra parte della strada quando una Renault le ha investite. I periti e i tecnici della polizia Locale dovranno ora stabilire a che velocità stava viaggiando Pietro Genovese, 20 anni, figlio del regista Paolo, alla guida dell'auto, che sarebbe risultato positivo agli esami alcolemici e tossicologici. Lo si apprende da fonti della polizia locale. A quanto riferito solo ulteriori esami, i cui esiti arriveranno nei prossimi giorni, potranno stabilire i parametri ed il livello di sostanze rinvenute. Il giovane, che si è fermato a prestare soccorso è stato già indagato per duplice omicidio stradale. Sequestrata l'auto e il cellulare. Verranno effettuati accertamenti per stabilire se al momento dell'impatto, il ragazzo stesse utilizzando il telefono. La polizia locale sta ascoltando in queste ore diversi testimoni per cercare di ricostruire con esattezza la dinamica dell'investimento. Al vaglio anche le immagini delle telecamere di zona. Nel pomeriggio arriva anche una dicharazione del regista Paolo Genovese alle agenzie di stampa: "Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre". "Avevamo fatto tanti progetti con Camilla. Non è giusto. Non doveva andare così". A dirlo la mamma di Camilla Romagnoli a chi ha avuto modo di incontrarla dopo l'incidente. Ad andare sul posto nella notte anche il papà e la sorella di Camilla come anche i genitori di Gaia, che era figlia unica. "E' stato il papà, costretto su una sedia a rotelle per un incidente stradale, a riconoscere la figlia", racconta un amico di Gaia.
La testimonianza di un ragazzo. "Ho assistito all'incidente. E' una scena che non dimenticherò mai". A dirlo un ragazzo che è ritornato sul luogo in cui la scorsa notte sono state investite le due ragazze di 16 anni. "Erano al centro della strada, Gaia si è girata verso Camilla e poi è arrivata quella macchina - ricorda - c'è stata la frenata fortissima e l'impatto che le ha sbalzate; l'auto è andata avanti. Poi sono arrivate altre macchine, penso che almeno tre le abbiano colpite". Al momento sembrerebbe tuttavia che ci sia il coinvolgimento di un unico veicolo, guidato dal ventenne Pietro Genovese. "Le ho viste pochi minuti prima dell'incidente. Ci siamo incontrati a ponte Milvio. Erano felici come si sta al primo giorno di vacanza". A raccontarlo un altro amico delle due ragazze. "Erano con degli altri amici ieri sera - ricorda il ragazzo, con le lacrime agli occhi mentre cammina sotto casa di Gaia - era la mia migliore amica, una ragazza splendida, sorridente e sempre pronta ad aiutare gli altri. Camilla era più timida. Si volevano molto bene".
La disperazione dei genitori delle vittime. "Doveva investire me. Non è giusto", avrebbe ripetuto tra le lacrime la mamma di una delle ragazze, arrivando sul luogo dell'incidente. A riferire queste parole un testimone che aggiunge: "I genitori erano sconvolti". Intanto mazzi di fiori sono stati lasciati su corso Francia, nel punto in cui nella notte sono state investite Camilla e Gaia. Diverse rose, di colore rosa, sono state adagiate sotto il cavalcavia di via Flaminia Vecchia. Già questa notte poco dopo l'incidente, gli amici delle vittime si erano ritrovate sul luogo dell'incidente. "Gaia e Camilla erano delle mie compagne di classe. Frequentiamo il liceo classico De Santis. Quando stamattina ho saputo mi sono precipitato qui. E' una tragedia enorme". A parlare un amico delle due ragazze. "Ieri - ha aggiunto - era la prima serata di vacanza vera. Gaia faceva sport, giocava a pallavolo, erano due bravissime ragazze, erano molto amiche. Ieri tornavano a casa dopo aver passato la serata in giro. Qui a corso Francia corrono tutti e spesso passano col semaforo rosso". "Poco dopo la mezzanotte abbiamo sentito un grande frastuono e come me sono usciti anche alcuni clienti dal locale. Pensavamo ad un tamponamento, poi abbiamo visto le due ragazze per terra. La polizia è arrivata dopo pochi minuti, poi è sopraggiunta l'ambulanza ma non c'è stato nulla da fare. Anche un paramedico con lo scooter che passava per caso si è fermato per dare una mano. Sulle dinamiche non possiamo dire nulla, non ho visto. Quella è una strada larga, dritta, dove di notte tutti corrono e che per questo può diventare pericolosa. Bisognerebbe fare qualcosa per obbligare la gente a mantenere una velocità adeguata" racconta Alessio Ottaviano manager del ristorante T-Bone Station a ridosso di corso Francia. "I corpi delle due ragazze erano distanti qualche metro tra loro e lontani dalle strisce". A raccontarlo un residente di Corso Francia che stanotte è arrivato sul luogo dell'investimento in cui sono morte le due sedicenni. "Dalle prime informazioni erano dirette verso Collina Fleming - aggiunge - probabilmente volevano scavalcare il guardrail". "Profondo dolore per la tragica morte di due ragazze, investite questa notte a Corso Francia. Roma si stringe alle famiglie colpite da questa tragedia. È inaccettabile morire così. Aspettiamo che si faccia chiarezza ma guidare in modo responsabile è un dovere". Così su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.
Il dolore dei compagni di scuola. La morte delle due ragazze ha lasciato sgomenta la comunità del liceo classico Gaetano De Sanctis. Su Facebook la preside scrive: "Questa notte Camilla e Gaia del 3 CL della sede di Via Serra sono morte in un assurdo incidente. Si tratta di uno tragico shock per le famiglie e per tutta la comunità del De Sanctis. La preside, il Consiglio di Istituto, i professori, il personale Ata e tutti gli studenti abbracciano, addolorati e attoniti, le famiglie delle due ragazze. Siamo vicini con tutto il nostro affetto anche agli amici e ai compagni di Gaia e Camilla. Non ci sono parole per spiegare quello che stiamo vivendo. Rimangono solo il nostro silenzio e il nostro pianto disperato".
Giovane morto in via Marco Polo. E c'è un'altra vittima della strada: si tratta di un 24enne che all'alba di questa mattina viaggiava a bordo di un motorino quando in via Marco Polo è stato travolto da una macchina. Il conducente, un uomo di 79 anni, si è fermato e ha chiamato i soccorsi ma per il giovane non c'è stato nulla da fare: arrivato in codice rosso al pronto soccorso del Sant'Eugenio è morto poco dopo. I vigili urbani di zona stanno ora indagando per ricostruire la dinamica dell'incidente: hanno già disposto il sequestro della macchina, una Ford Fusion, e del motorino. L'automobilista, già indagato per omicidio stradale, è stato sottoposto ai test di alcol e droga. Sono stati 612 i pedoni morti sulle strade italiane nel 2018, circa due al giorno, con un incremento del 2% rispetto al 2017 e del 7,4% rispetto al 2016. E' il dato dell'Osservatorio Asaps, l'Associazione Sostenitori ed Amici della Polizia Stradale secondo cui, lo scorso anno, i feriti sono stati 20.700: 9.465 uomini e 11.235 donne. La categoria più colpita, quella degli ultra 65enni con 364 vittime mentre la città che ha registrato il maggior numero di decessi è risultata Roma con 59, dieci in più rispetto ai 49 del 2017.
Alcol e guida, l'esperto: “Con un tasso all'1,4 non si è in grado di guidare in sicurezza”. Cosa dice la legge, quali sono i limiti e cosa succede quando si beve troppo. Irma D'Aria il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. Quanto si può bere prima di mettersi alla guida? Dopo l'incidente di Roma, in cui sono rimaste uccise due ragazze sedicenni investite da un ventenne con un tasso alcolemico pari a 1,4 grammi per litro, è bene fare chiarezza sulle leggi e ricordare quanto siano importanti il rispetto delle regole e la prudenza soprattutto in vista delle festività natalizie e del Capodanno in cui per festeggiare si beve un po' di più.
Che cos'è il tasso alcolemico. Quando si parla di tasso alcolemico si intende la concentrazione di etanolo presente nel sangue. Finché si beve a casa propria, è una scelta personale che ricade sulla propria salute, ma quando si beve e poi ci si mette alla guida, allora è diverso perché le conseguenze ricadono anche su altre persone. Si stima, infatti, che in Italia il 40% degli incidenti su strada sia legato all'assunzione di alcol o droghe.
Cosa dice la legge per i giovani e gli adulti. Attualmente la legge stabilisce delle differenze in base all'età. "Al di sotto dei 21 anni e nei neopatentati - spiega Gianni Testino, presidente della Società Italiana di Alcologia e direttore SC Patologia delle Dipendenze ed Epatologia ASL3 - Ospedale San Martino, Genova - la legge prevede che il tasso alcolico alla guida sia zero per cui se un giovane viene intercettato dalle forze dell'ordine anche con concentrazioni molto basse di alcol nel sangue scattano delle sanzioni". Al di sopra dei 21 anni, il limite è 0,5 grammi per litro.
Quantità di alcol e tasso alcolemico. Il tasso alcolemico viene valutato attraverso l'utilizzo dell'etilometro, un apparecchio che attraverso l'espirazione 'misura' indirettamente la quantità di alcol che un soggetto ha nel sangue. La domanda che molti si pongono è quanto si può bere per rimanere al di sotto del valore soglia consentito dalla legge. "Scientificamente - spiega il presidente della Sia - è impossibile rispondere a questa domanda perché ci sono molte variabili ma per avere un'idea basti sapere che ogni unità alcolica contiene circa 12 grammi di etanolo che ritroviamo in media in un bicchiere di birra da 330 ml a 5°, in un bicchiere da vino da 125 ml da 12° oppure in un cocktail da bar o ancora in circa 40 ml di superalcolico. Possiamo stimare che anche con 2-3 bevande alcoliche come quelle che si bevono durante una cena tra aperitivo e vino si possa arrivare a 0,5 grammi per litro".
Cosa succede quando si assume alcol. I 12 grammi di etanolo vengono distribuiti nel sangue: "Una piccola parte viene espulsa con il respiro, un'altra piccola parte viene eliminata con le urine ma la maggior parte viene eliminata attraverso il fegato", spiega Testino. "Un fegato sano impiega quasi un'ora per smaltirli. Se, invece, ci sono problemi come fegato grasso o altre patologie, il tempo di eliminazione aumenta e può essere superiore a 90 minuti". Non tutti sanno, poi, che per legge i bar sono tenuti all'affissione della tabella con i tassi alcolemici: "E' obbligatorio ma spesso si affigge in formato A4 e in bianco e nero e quasi nessuno la nota", avverte Scafato.
Età, peso e cibo: le variabili in gioco. Ma a fare la differenza nell'assorbimento dell'alcol sono anche altre variabili. "Se questi dodici grammi vengono bevuti a stomaco pieno e se si è sovrappeso - precisa Testino - l'assorbimento sarà più lento e si raggiunge il picco di alcolemico in un periodo più lungo. Nelle donne, poi, la capacità del fegato di eliminare l'alcol è del 50% in meno rispetto all'uomo mentre al di sotto dei 20 anni i vari sistemi di eliminazione dell'alcol da parte del fegato sono ancora immaturi e quindi nei giovani anche basse concentrazioni di alcol rimangono in circolo per molto più tempo".
I sintomi. Al di là dei limiti di sicurezza previsti dalla legge, cosa succede quando si beve e ci si mette alla guida? "Quando si consuma alcol - spiega Emanuele Scafato, Direttore Osservatorio nazionale alcol, Istituto superiore di Sanità e Centro Oms per la ricerca sull'alcol - c'è un'alterazione psico-fisica che è dose-dipendente. In genere, già a bassi dosaggi aumenta la sensazione delle proprie capacità e si riduce la percezione del rischio. Per esempio, già al di sotto degli 0,5 grammi per litro c'è una riduzione della visione laterale di circa il 20%, perdiamo qualche centesimo di secondo nella frenata e quando si imbocca un incrocio non si vede lateralmente proprio perché c'è il campo della visione ridotto anche in funzione dell'età perché al di sotto dei 20 anni l'organismo non è in grado di 'smontare l'alcol'. Questo significa che sarebbe meglio non guidare".
Se si supera il livello di 1,4 grammi/litro. Cosa succede, invece, quando il tasso alcolemico arriva a 1,4 grammi/litro come quello del ventenne che ha travolto le due ragazze di Roma? "E' un tasso molto alto: 1,4 grammi/litro sono all'incirca otto-nove bicchieri di bevande alcoliche e a quell'età crea conseguenze serie perché non si valuta correttamente la distanza, si perde la visione laterale e il coordinamento motorio specie se c'è stata anche l'assunzione di un cannabinoide. Insomma, un tasso alcolemico così rende incapaci di guidare in modo corretto e fa aumentare la probabilità di incidente", commenta Scafato. Cosa consigliare allora ai ragazzi ma anche agli adulti in vista dei brindisi di fine anno? "Se avete bevuto anche solo tre bevande alcoliche - suggerisce l'esperto dell'Iss - aspettate almeno un'ora per bevanda prima di mettervi alla guida oppure se non potete attendere tutto questo tempo, fate guidare qualcun altro".
Ragazze uccise, lo strazio dei genitori. La madre di Camilla: "Giustizia non vendetta". Il papà di Gaia: "Non ho più ragioni per vivere". Fiori e messaggi per Gaia e Camilla, le due sedicenni investite e uccise nella notte di sabato a corso Francia. E la mamma di Gaia lancia un appello pubblico: "Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni alle forze dell'ordine". La Repubblica il 23 dicembre 2019. "Voglio giustizia, non vendetta". E' quanto ha riferito la mamma di Camilla Romagnoli, una delle due sedicenni investite a Roma nella notte tra sabato e domenica in corso Francia a Roma, al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. "Il padre, la madre e la sorella di Camilla sono distrutti per quanto accaduto - spiega il penalista -. Una famiglia unita, colpita in modo tragico da questa vicenda. Attendiamo i risultati dell'esame autoptico, verrà svolto un esame esterno delle salme per accertare la dinamica di quanto accaduto". E lo strazio accomuna più famiglie. "Adesso non ho ragioni per andare avanti, lei era la mia forza dopo l'incidente che avevo subito". Così il padre di Gaia Von Freymann, come riferisce il suo legale, l'avvocato Giovanni Maria Giaquinto. "E' molto provato, nel 2011 ha subito un grave incidente in moto, all'Eur, che lo ha costretto sulla sedia a rotelle - spiega il legale - Questa tragedia ha un risvolto ancora più drammatico perché colpisce un uomo già provato duramente. Questa mattina l'ho sentito, gli ho comunicato che oggi pomeriggio verrà svolto l'esame del corpo di Gaia. Questa notte non ha chiuso occhio, è distrutto per quanto accaduto". E la mamma di Gaia lancia un appello pubblico: "Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni alle forze dell'ordine". La donna si era recata subito sul luogo dell'incidente. "E' un iphone 8 rosso, con la cover rossa - ha aggiunto - Gaia quella sera non aveva con sè la borsa, ma aveva tutto in tasca. Chiunque abbia ritrovato effetti personali delle ragazze per favore li riconsegni". Con i volti segnati dalle lacrime e gli occhi nascosti dietro grossi occhiali da sole la mamma di Gaia e i genitori di Camilla anche oggi si sono fermati a lungo a pochi metri dal punto in cui le ragazze sono state travolte.
Pietro Genovese, non solo alcol e cannabis: l'ultimo pesantissimo risultato delle analisi. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019. Con il passare delle ore emergono con maggiore chiarezza i dettagli delle analisi su Pietro Genovese, il 20enne che ha travolto e ucciso a Roma le due 16enni, Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Prima si è appreso che il tasso alcolemico era di 1,4 grammi per litro, quasi tre volte la soglia massima di 0,5 grammi litro, che però per i neopatentati come lui è a zro assoluto. Per spiegarla in termini pratici è come se avesse bevuto un litro e mezzo di vino, o tre litri di birra o mezzo litro di limoncello. Ma nelle ultime ore si apprende anche che il ragazzo è risultato positivo al test della cocaina e della cannabis. Ancora non è però chiaro se fosse sotto l'effetto delle sostanze stupefacenti o se le avesse assunte nei giorni precedenti, per stabilirlo sono necessarie ulteriori verifiche. Per certo, ora, Pietro Genovese rischia l'arresto. La sua vettura, la Reanult Koleos, secondo i rilievi di indagine viaggiava attorno agli 80 chilometri orari.
Da it.notizie.yahoo.it il 23 dicembre 2019. Pietro Genovese, il conducente alla guida della Renault che ha investito le due 16enne in Corso Francia è risultato positivo al test di alcol e droga. Nella tragedia di Ponte Milvio che ha scosso la città di Roma sono morte due giovani ragazze: Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Gli inquirenti stanno ancora cercando di ricostruire l’esatta dinamica di quanto accaduto, ma sono già emersi nuovi dettagli. Il conducente della vettura aveva 20 anni e attualmente è indagato per omicidio stradale. Il suo cellulare, inoltre, è stato sequestrato. Nella notte fra sabato 21 e domenica 22 dicembre due ragazze sono state investite lungo Corso Francia, una strada di scorrimento nota per la movida romana. La tragedia di Ponte Milvio è avvenuto intorno a mezzanotte/l’una tra via Flaminia Vecchia e la rampa di accesso all’Olimpica. Le giovani 16enne stavano attraversando la strada per raggiungere un gruppo di amici, quando la vettura le ha colpite. Soccorse immediatamente dal conducente dell’auto, le due ragazze non ce l’hanno fatta. Camilla e Gaia hanno perso la vita sul colpo e i soccorsi del 118 hanno potuto soltanto constatarne il decesso. Toccherà agli inquirenti stabilire a quale velocità viaggiava Pietro, che è risultato positivo ai test di alcol e droga. Al momento il 20enne sotto choc è indagato per omicidio stradale. Nei prossimi gironi, inoltre, arriveranno i parametri esatti sul livello di sostanze rinvenute nel corpo del ragazzo. Nel frattempo, però, l’auto e il cellulare dik pietro sono stati sequestrati. La Polizia sta analizzando le immagini delle telecamere di sicurezza e sta ascoltando le testimonianze dei passanti per ricostruire i fatti. Inoltre, Paolo Genovese, padre del 20enne alla guida della Renault ha dichiarato: “Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre”.
Sulla terribile vicenda è intervenuta anche Emma Genovese, figlia del regista Paolo e sorella di Pietro, al volante dell’auto che ha investito e ucciso Gaia e Camilla. Proprio la giovane avrebbe postato su Instagram un durissimo sfogo di rabbia per le accuse rivolte al fratello mettendo in dubbio anche le notizie relative alla positività del fratello ad alcol e droga: “Vorrei dire una cosa: tutta la gente che sta dando la colpa a lui dovrebbe vergognarsi. Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita ma non accusate se non sapete come sono andate le cose. La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada con le macchine che sfrecciavano“. Il riferimento di Emma è ovviamente alla versione rilasciata da un testimone, il quale ha riferito che le due amiche avrebbero attraversato la strada con il semaforo pedonale rosso.
Un testimone dell’incidente avrebbe riferito agli inquirenti quando constatato dai suoi occhi: “Ho assistito all’incidente – ha detto il giovane -. Una scena che non dimenticherò mai”. “Erano al centro della strada, Gaia si è girata verso Camilla e poi è arrivata quella macchina – ricorda il ragazzo -. C’è stata la frenata fortissima e l’impatto che le ha sbalzate; l’auto è andata avanti. Poi sono arrivate altre macchine, penso che almeno tre le abbiano colpite”. Un amico delle vittime, invece, ha raccontato: “Le ho viste pochi minuti prima dell’incidente. Ci siamo incontrati a ponte Milvio. Erano felici come si sta al primo giorno di vacanza”. “Erano con degli altri amici ieri sera – ricorda ancora il ragazzo, con le lacrime agli occhi -. Era la mia migliore amica, una ragazza splendida, sorridente e sempre pronta ad aiutare gli altri. Camilla era più timida. Si volevano molto bene”.
Da ilmessaggero.it il 23 dicembre 2019. Novità sull'incidente di Corso Francia dove hanno perso la vita le sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Un tasso alcolemico dell'1,4 ed esito non negativo per altre varie sostanze stupefacenti: sono i risultati dei test compiuti su Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, indagato a piede libero con l'accusa di omicidio stradale per aver investito e ucciso le due 16enni nella notte tra sabato e domenica a Corso Francia a Roma. Sul passato del 20enne ci sarebbero anche due casi di possesso di droga. Nel pomeriggio intanto, all'istituto di medicina legale dell'università della Sapienza è fissata l'autopsia delle due giovani vittime. Striscione a Corso Francia. «Gaia e Camilla sempre con noi»: è quanto si legge su uno striscione che è stato appeso sul ponte dell'Olimpica a pochi metri dal punto di Corso Francia, a Roma, dove la notte tra sabato e domenica sono state investite e uccise le due ragazze di 16 anni. Ieri c'era stata una processione di amici delle due ragazze, che avevano lasciato fiori e oggetti in ricordo delle vittime.
Liberoquotidiano.it il 24 dicembre 2019. Viene giudicato dagli inquirenti il "testimone chiave" dell'incidente in cui sono morte Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le 16enne travolte e uccise da Pietro Genovese sabato sera a Roma. Si tratta di un ragazzo di 16 anni, T.O., che si trovava alla guida di una minicar al momento dell'impatto su quel maledetto vialone. Sarà presto riconvocato per essere nuovamente ascoltato. Il ragazzo ha però detto chiaro e tondo: "L'uomo alla guida del Suv non poteva evitare le due ragazze, erano fuori dalla sua visuale". T.O. era fermo al semaforo, ma dal lato opposto rispetto al ristorante T-Bone: "Non so perché ma lo sguardo mi è caduto proprio su quelle due ragazzine che all'improvviso - dice -, nonostante il semaforo fosse rosso per i pedoni, hanno cominciato a correre mano nella mano sotto la pioggia per attraversare la strada". Testimonianza che potrebbe un poco alleggerire la posizione di Genovese, già gravemente compromessa: è risultato positivo al test alcolemico e vi sono riscontri positivi circa l'uso di cocaina e cannabis. Il ragazzo ha aggiunto: "L'auto che si era fermata nel tratto centrale copriva completamente la vista al Suv che sopraggiungeva alla sua sinistra, lui è arrivato veloce e quelle due ragazze che correvano gli sono sbucate davanti, non poteva vederle". Una tragedia che si è consumata in pochi, drammatici, istanti: "Non so perché ma, mentre ero fermo, lo sguardo mi era caduto proprio sulle due ragazze, io le ho viste sulle strisce pedonali, le guardavo stringersi la mano e lanciarsi nella corsa e mi chiedevo: ma che fanno, è rosso? Poi la prima auto che frena e il Suv che le ha centrate in pieno e scaraventate a molti metri di distanza. Le ho viste volare via, è stato terribile", ha rimarcato. E ancora: "Molti dicono che non erano sulle strisce perché i corpi erano molto distanti, vicino ai guard-rail, ma per me erano sull'attraversamento pedonale e per loro era rosso, mentre per le auto che andavano verso il Centro, quindi anche per il Suv, era verde", ha concluso.
Massimo Gramellini per il ''Corriere della Sera'' il 24 dicembre 2019. Abito non lontano dall' autostrada cittadina in cui le adolescenti Gaia e Camilla sono state investite da un ragazzo poco più grande. Ho attraversato decine di volte quell' incrocio: a piedi come loro, o in auto come lui. E mi sono sempre chiesto perché un punto tanto pericoloso, posto al fondo di un lungo rettilineo (quando si trova il semaforo verde sembra di fare il chilometro lanciato), la sera fosse così poco illuminato. Adesso ci si domanda se i riflessi del pilota fossero annebbiati dall' alcol e se le due vittime avessero attraversato fuori dalle strisce e col rosso. Si scoprono echi crudeli del destino nelle storie di famiglia: il padre di una delle adolescenti vive sulla sedia a rotelle dopo un incidente in moto, e quello del ragazzo al volante è il regista del film italiano più premiato del decennio, «Perfetti sconosciuti», in cui una coppia nasconde agli amici la verità su un omicidio stradale. Ma alla fine delle chiacchiere, e delle lacrime, resta la consapevolezza che a evitare l' ennesima tragedia del sabato sera sarebbe bastato un lampione nel posto giusto. Mentre la classe dirigente discorre di macro-riforme e maxi-scenari, io mi accontenterei di vivere in un Paese dove quando un ponte traballa, un argine vacilla o un incrocio trafficato piomba nell' oscurità, il responsabile se ne accorge e provvede. Per migliorare la vita dei cittadini, o almeno per proteggerla, non sempre serve una rivoluzione parolaia al giorno, a volte basterebbe accendere una luce.
Luca Bottura per ''la Repubblica'' il 24 dicembre 2019. Ho pensato ai due corpi che volano per aria. Ho pensato ai genitori, svegliati nel cuore della notte. Ho pensato che la morte in diretta, così esemplare, così a portata di racconto, avrebbe trasformato le vite spezzate in filone giornalistico, ed è normale, ma anche e soprattutto in detonatore dell' odio social. Ho pensato all' altra telefonata, all' altro padre, all' altra madre, che vengono a sapere di loro figlio che cancella altre vite. Ho pensato a quel padre famoso, che mentre realizza la tragedia sa già che i giornali di cui si cibava diventeranno veleno per l' anima. Ho pensato a mia figlia, se fosse successo a lei...Ho pensato a mio figlio, se fosse successo a lui. Ho pensato a tutte le volte che senza alcool in corpo ho percorso quel tratto in auto, convinto a correre dalla strada che ti accoglie, ti chiede di spingere. Ho pensato che poteva capitare a me, di restare piangente al bordo della strada aspettando un' ambulanza che non serviva a niente. Ho pensato che poteva capitare a me, di dovermi fare una ragione di un' ingiustizia così palmare. Ho pensato a tutto questo e mi è venuto da piangere. E non avevo ancora letto i social.
Michela Allegri e Alessia Marani per il Messaggero il 24 dicembre 2019. Pietro Genovese è indagato per omicidio stradale e potrebbe anche rischiare l'arresto. Il suo tasso alcolemico è risultato superiore al limite consentito dalla legge - 1,4 - e il ragazzo è anche risultato positivo all'assunzione di sostanze stupefacenti: oppiacei e cocaina. Se il livello di alcol nel sangue è un dato certo, non è invece sicuro quando il giovane abbia assunto le sostanze, che restano in circolo nel corpo anche per diversi giorni: il ventenne potrebbe averle prese anche molto prima di mettersi al volante sabato notte su Corso Francia. Proprio per avere dati più certi, la Procura ha disposto un supplemento di indagini. Bisogna anche considerare il fatto che dalle prime ricostruzioni effettuate dalla Polizia locale di Roma, Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le due amiche sedicenni di terza liceo, travolte dal Suv guidato dal figlio del regista Paolo, avrebbero avuto un comportamento gravemente colposo, attraversando la strada con il semaforo rosso, in orario notturno, con la visibilità resa ancora più precaria dalla pioggia e in una delle strade più pericolose della Capitale.
LA RICOSTRUZIONE. Secondo alcuni testimoni avrebbero tentato di scavalcare il guard-rail correndo mano nella mano per darsi velocità e slancio. Stavano facendo tardi e volevano rientrare a casa. Una prima auto che viaggiava sulla centrale delle tre corsie in direzione Parioli ha fatto in tempo a frenare e ad evitarle, ma la Renault Koleos guidata da Genovese, che avanzava alla sinistra della macchina che si era bloccata e le copriva la visuale, se le sarebbe trovate davanti e le ha travolte facendole letteralmente volare via sull'asfalto. Al ragazzo, difeso dall'avvocato Gianluca Tognozzi, la Guardia di Finanza aveva ritirato la patente il primo ottobre perché trovato in possesso di stupefacenti. Gli era stata restituita il 3 dicembre scorso. A suo carico ci sarebbero altre due segnalazioni negli anni precedenti. «Voglio giustizia, non vendetta» ha detto ieri la mamma di Camilla al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. Con i volti segnati dalle lacrime e gli occhi nascosti dietro grossi occhiali da sole la mamma di Gaia Von Freymann e i genitori di Camilla, ieri, si sono fermati a lungo a pochi metri dal punto in cui le ragazze sono state investite. Davanti a loro un grande striscione «Gaia e Camilla sempre con noi» affisso al ponte della tangenziale e decine di mazzi di fiori, stelle di Natale, biglietti e anche un cuscino di peluche a forma di cuore con su scritto «Tvtb». Ora cercano di darsi forza e chiedono giustizia. Disperato il papà di Gaia, Edward, costretto sulla sedia a rotelle da quando ebbe un incidente in moto. «Adesso non ho più ragione di andare avanti nella vita, lei era la mia forza», ha scritto in un messaggio all'avvocato Giovanni Maria Giaquinto. L'uomo è molto provato ed è seguito costantemente dagli psicologi.
LE PERIZIE. Fondamentali per ricostruire l'esatta dinamica dell'impatto e il luogo dove è avvenuto - se sulle strisce pedonali precedenti i guard-rail o in corrispondenza di essi - saranno gli esami tecnici che dovranno stabilire la velocità a cui viaggiava il Suv di Genovese, valutando anche le posizioni dei corpi sull'asfalto. Le testimonianze sono discordanti. Intanto, due donne avrebbero riferito ai vigili il timore di avere urtato anche loro le ragazze quando erano già a terra passando in auto sul vialone subito dopo l'incidente. La Procura, ieri, ha affidato l'incarico per effettuare l'autopsia sui corpi di Camilla e Gaia. L'atto istruttorio è stato disposto dal pm Roberto Felici, titolare del fascicolo in cui Genovese è indagato per omicidio stradale. L'esame esterno è stato eseguito dal dottor Luigi Cipolloni, ma anche la difesa e le famiglie delle due ragazze - la mamma di Gaia è seguita dall'avvocato Andrea Cavallaro - hanno nominato consulenti di parte. Oggi, i legali delle famiglie chiederanno ai pm il nullaosta per avere le salme e poter quindi fare i funerali. Un Natale dolorosamente listato a lutto. «Non siamo solo agenti ma anche genitori e queste tragedie inevitabilmente ci toccano da vicino ancora di più in un periodo dell'anno che dovrebbe essere di gioia e serenità», ha commentato ieri il comandante della Polizia locale di Roma Antonio Di Maggio invitando a una maggiore prudenza e al rispetto delle regole.
Michela Allegri e Alessia Marani per il Messaggero il 24 dicembre 2019. Gaia e Camilla sono morte sul colpo: un impatto atroce, che ha causato lo sfondamento del cranio e diverse fratture. Ma anche se dal primo esame esterno effettuato dal medico legale non emergono «segni di trascinamento» provocati da altre auto, agli atti dell'inchiesta ci sono le dichiarazioni di due donne che hanno raccontato alla polizia locale di avere investito pure loro le ragazze, mentre erano stese sull'asfalto di Corso Francia dopo essere state travolte dall'auto guidata da Pietro Genovese. L'impatto con il Suv le ha fatte volare via, sbalzando i corpi a diversi metri di distanza. E, secondo il dottor Luigi Cipolloni, medico legale nominato dalla Procura, potrebbe essere stato proprio questo l'unico colpo fatale. Ma serviranno esami più approfonditi, che verranno effettuati nei prossimi giorni. Perché agli atti del fascicolo coordinato dal procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e dal pm Roberto Felici ci sono anche racconti che rimescolano le carte dell'inchiesta e che forniscono una versione alternativa della dinamica. Un testimone avrebbe detto di avere avuto l'impressione che una delle due ragazze respirasse ancora prima dell'arrivo dei sanitari in ambulanza, che hanno sentito il polso e poi constatato il decesso di entrambe le sedicenni. Ma c'è altro: sui corpi di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann potrebbero essere passate almeno altre due macchine, dopo l'impatto con la Renault Koleos guidata da Genovese. Alcuni testimoni parlano di altre tre, se non cinque auto.
LE CONFESSIONI. Le dichiarazioni più importanti sono quelle di due conducenti, due donne, che sono state già individuate e ascoltate dalla polizia locale. La prima si è fermata subito in strada, la notte stessa dell'incidente. La signora si è accorta di essere passata sopra uno dei due corpi: «Non volevo, mi sono resa conto dopo, non ho capito cosa fossero», ha detto sotto choc ai vigili fermi su Corso Francia per effettuare i primi rilievi sull'asfalto bagnato da ore di pioggia. Un'altra giovane, accompagnata dalla mamma, si sarebbe invece costituita ieri mattina al comando dei vigili del II Gruppo, ai Parioli. Nemmeno lei si era accorta di essere passata con l'auto sopra i corpi ed è andata dritta a casa. Ma ieri, dopo avere letto i giornali, ha capito che sabato notte, attraversando in macchina Corso Francia, forse poteva avere urtato una delle due ragazze. E quindi si è sentita in dovere di raccontarlo agli investigatori, pensando che potesse trattarsi di un'informazione utile. Un dettaglio che potrà aiutare gli inquirenti a chiarire la dinamica dell'impatto, anche se al momento l'unico nome iscritto sul registro degli indagati è quello di Genovese, 20 anni, figlio del regista di Perfetti sconosciuti.
IL CELLULARE. Intanto ieri le madri di Gaia e Camilla sono tornate a Corso Francia, nel luogo dell'incidente. «Voglio giustizia, non vendetta», ha detto mamma Romagnoli. E a due giorni dalla tragedia spunta pure l'incubo degli sciacalli: qualcuno potrebbe avere rubato gli effetti personali delle adolescenti, persi in strada nell'incidente. Di Gaia la famiglia non ha più nulla, neanche lo smarphone rosso che teneva sempre in tasca: dall'altra notte è sparito insieme al portafoglio della ragazza, che conteneva soldi e documenti. E la madre della sedicenne ha fatto un appello: «Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni per favore alle forze dell'ordine. È un Iphone 8 rosso, con la cover rossa, purtroppo Gaia quella sera non aveva con sé la borsa, ma aveva tutto in tasca. Chiunque abbia ritrovato effetti personali delle ragazze per favore li riconsegni».
Roma, ragazze investite a Corso Francia: l'investitore rischia l'arresto. Gaia e Camilla morte sul colpo. Il ragazzo alla guida positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti. Federica Angeli il 24 dicembre 2019 su La Repubblica. Gli inquirenti hanno ancora 24 ore di tempo per decidere se arrestare con custodia in carcere oppure mettere ai domiciliari Pietro Genovese, il ventenne che sabato notte, al volante della sua auto, ha travolto e ucciso le due adolescenti romane Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Tertium non datur. Il figlio del noto regista infatti, iscritto nel registro degli indagati per duplice omicidio stradale, non ha superato i test di alcol e droga. Il suo tasso alcolemico è di 1.4: come se avesse bevuto un litro e mezzo di vino o tre litri di birra o mezzo di limoncello. Di più: anche il test della cocaina e quello della cannabis sono risultati positivi. Un neopatentato non può superare il livello 0 e, se avviene, è prevista appunto la misura degli arresti. Sta ora al giudice decidere se disporli a casa oppure in un carcere. Questo a prescindere dalla dinamica che, grazie alla relazione consegnata in procura dai vigili urbani di Roma Capitale, sembra ormai lasciare piccoli margini di dubbio. Gaia e Camilla, sabato notte, hanno attraversato la strada, corso Francia (uno stradone a scorrimento veloce nel cuore di Roma nord), fuori dalle strisce pedonali e a semaforo verde per gli automobilisti. Il suv Renault Koleos di Pietro Genovese arrivava a 80 km orari. "Non mi sono proprio accorto di loro, non le ho viste", ha dichiarato al pm. "La velocità è stata calcolata sulla base del ritrovamento dei corpi delle due vittime sull'asfalto", si legge nella relazione della Municipale. Le due sedicenni vengono travolte e l'impatto le sbalza una a 20 metri e l'altra a 25 dal punto in cui si trovavano per attraversare. Se fosse andato più veloce i corpi delle giovani sarebbero finiti prima sul cofano, poi sul tettino e infine sull'asfalto. "Dalle posizioni dei corpi delle giovani", si ritiene la dinamica essere questa, ribadiscono i vigili. Tanto che, la dichiarazione del giovane investitore di non essersi accorto di loro, conferma la ricostruzione. Così come l'esito dell'autopsia avvenuta ieri pomeriggio sui corpi delle studentesse: "Le ragazze sono morte sul colpo. Non ci sono segni di schiacciamento o trascinamento". Gaia e Camilla non sarebbero quindi state investite da altre auto, ma solo dal suv di Genovese. E la morte è stata provocata proprio dall'impatto violento con l'auto di Pietro. Che trecento metri dopo si ferma. Il cofano è accartocciato e il motore andato in blocco. Lui chiama il padre che lo raggiunge immediatamente sul posto e via via comincia a mettere a fuoco quanto accaduto. "Voglio giustizia, non vendetta" ha detto la mamma di Camilla al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. "Sono distrutti - ha dichiarato il penalista - . Una famiglia unita, colpita in modo tragico da questa vicenda". Così come la famiglia di Gaia e quella di Pietro, il cui padre ieri si è detto affranto per la morte delle ragazze, prima ancora che preoccupato per le sorti giudiziarie del figlio. Al giovane era stata sospesa per 15 giorni la patente lo scorso ottobre per un cumulo punti che aveva sommato (in negativo) con comportamenti alla guida poco corretti: multe per eccesso di velocità, sorpassi quando non era consentito, soste selvagge. Era anche segnalato come "assuntore" di droghe leggere: per tre volte era stato fermato, nel 2016, 2017 e 2019 dalle forze dell'ordine che lo avevano trovato con piccoli quantitativi di stupefacenti per uso personale, durante controlli avvenuti mentre era in strada a piedi. Sabato scorso però le negligenze stradali si sono sommate al consumo di droga. Un mix che ha generato una tragedia indelebile.
Pietro Genovese, indiscrezioni: "Ha lasciato Roma". Ma la posizione si aggrava: le voci dalla procura. Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. La posizione di Pietro Genovese, il 20enne che ha travolto e ucciso Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann a Roma, si aggrava. Non solo il tasso alcolemico pari a 1,4, ma anche tracce di numerosi stupefacenti nel suo sangue, in attesa che nuovi test ne stabiliscano l'entità e il momento dell'assunzione. Il ragazzo rischia l'arresto: ora, si apprende, avrebbe lasciato Roma. L'agenzia di stampa Ansa fa poi sapere che l'atto istruttorio è stato disposto dal pm Roberto Felici, titolare del fascicolo in cui risulta indagato il figlio del regista Paolo Genovese. Nel frattempo la procura di Roma ha affidato l'incarico per effettuare un'autopsia sul corpo delle due sedicenni morte in zona Ponte Milvio. Numerosi i mazzi di fiori lasciati sul punto in cui le ragazze hanno perso la vita. Il padre di Gaia Von Freymann, assistito dall'avvocato Giovanni Maria Giaquinto, ha dichiarato mestamente: "Adesso non ho ragioni per andare avanti, Gaia era la mia forza dopo l'incidente che avevo subito".
Arresti domiciliari per Pietro Genovese responsabile della morte delle due ragazze a Roma. Il Corriere del Giorno il 26 Dicembre 2019. Il Gip ha disposto la misura cautelare per il ventenne Pietro Genovese indagato per duplice omicidio stradale che sabato notte ha travolto e ucciso Camilla Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. I funerali si svolgeranno venerdì alle 10,30, nella chiesa del Preziosissimo Sangue nel quartiere Fleming a Roma. E’ stato tratto in arresto Pietro Genovese, il giovane che nei giorni scorsi al volante di un Suv ha investito e ucciso le due sedicenni romane Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Al termine di una prima serie di accertamenti svolti della Polizia locale di Roma Capitale e sulla base della relazione trasmessa all’Autorità Giudiziaria, sono stati disposti i suoi arresti domiciliari. Sono stati i test sull’assunzione di stupefacenti a convincere i pubblici ministeri a chiedere la misura cautelare. Le indagini hanno accertato che in auto con Genovese c’erano anche due amici che sono già stati interrogati dalla Polizia Locale i quali hanno confermato la versione del ragazzo: “Il semaforo era verde, loro sono sbucate all’improvviso“. Sono stati dunque adottati i provvedimenti attesi nei confronti di Pietro Genovese, iscritto nel registro degli indagati per duplice omicidio stradale e trovato positivo a sostanze stupefacenti, hashish e cocaina, e molto oltre i limiti consentiti per quanto riguarda il tasso alcoolico. La dinamica dell’incidente, ricostruita dagli agenti della Polizia Locale di Roma Capitale e depositata in procura, non sembra trasparire margini di dubbio. A Genovese era stato concesso un nulla osta temporaneo dal pm Roberto Felici per trascorrere il Natale nella casa di famiglia in Umbria. Adesso sconterà gli arresti domiciliari nella casa a Roma. “Condotta incautamente spericolata” con queste parole il Gip Bernadette Nicotra del Tribunale di Roma definisce il comportamento delle due ragazze, “nella ricostruzione di un incidente stradale, nella sua dinamica e nella sua eziologia, il giudice di merito deve necessariamente tenere conto delle condotte dei singoli utenti della strada coinvolti – si legge nell’ordinanza – per accertarne le responsabilità, determinare l’efficienza causale di ciascuna eventuale colpa concorrente”. “Alla luce di quanto accertato in questa prima fase – scrive ancora il giudice – le due ragazze, in ora notturna, in zona scarsamente illuminata e con pioggia in atto” stavano “attraversando la carreggiata, scavalcando il guard rail, nel momento in cui il semaforo era fermo sulla luce rossa per i pedoni”. Ma questo non attenua la responsabilità di Genovesi al quale in passato erano stati decurtati punti dalla patente fino alla sospensione. Da qui la misura degli arresti, avendo dimostrato “noncuranza, se non addirittura disprezzo verso i provvedimenti e i moniti dell’autorità amministrativa e di pubblica sicurezza ed è sintomo di una personalità incline alla violazione delle regole” il quale “percorreva una strada all’interno di un agglomerato urbano in un punto caratterizzato dalla presenza di case e locali notturni a velocità elevata e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite consentito” e quindi “pur non avendo voluto cagionare l’incidente” ha violato le regole “di diligenza e prudenza che si richiede a ogni automobilista al fine di scongiurare situazioni di pericolo proprio e altrui“. La misura cautelare serve secondo il giudice, anche ad evitare che Pietro Genovese si metta nuovamente al volante: “La personalità dell’indagato lascia ragionevolmente presumere che il medesimo non si scoraggi dall’usare comunque l’automobile per il solo fatto dell’avere avuta ritirata la patente di guida. Sicchè allo stato al fine di neutralizzare il pericolo concreto ed attuale di reiterazione di condotte analoghe appare necessario limitare la libertà di movimento di Genovese, il quale sebbene incensurato e di età giovane potrebbe mettersi alla guida di autovetture di amici o conoscenti anche senza patente e porre in essere condotte gravemente colpose in violazione delle norme della circolazione stradale compromettendo così la propria e l’altrui incolumità“. Dalle indagini e dalle analisi effettuate su Pietro Genovese emerge che il 20enne alla guida dell’auto che ha travolto le due adolescenti, poco prima dello schianto aveva bevuto: il test alcolemico ha riportato un valore dell’1.4, tre volte superiore a quello consentito per mettersi alla guida (0.5), e ancora di più per un neo patentato (0,0), come nel suo caso, perché il codice della strada non consente assunzione di alcol per chi guida da meno di tre anni. La notizia è stata resa nota proprio in serata mentre stava svolgendo nella parrocchia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore, in via Flaminia Vecchia, una messa di per Camilla e Gaia, iniziata intorno alle 18 alla presenza dei genitori, degli amici e per tutti coloro che le hanno frequentate ed amate. Ci sono tutti i loro i compagni di classe, della 3 CL, del liceo De Sanctis, e tante persone della zona. Al centro della navata della chiesa, rivolto verso l’altare, un leggio con sopra le foto vicine delle due ragazze e sotto una candela bianca. Strazio nella chiesa riempita di dolore. La notizia dell’arresto di Pietro Genovese si è diffuso immediatamente nella chiesa del Preziosissimo Sangue, alla Collina Fleming, quando si è appena conclusa la veglia di preghiera per Gaia e Camilla. La mamma di Gaia, la signora Gabriella Saracino, attorniata dall’affetto di tanta gente, ha come un tremito: “Gli hanno dato i domiciliari? Meritava sicuramente qualcosa di più, ci ha portato via due angeli, comunque è una buona notizia...” e racconta che in tutti questi giorni la famiglia dell’investitore non si è mai fatta viva con lei: “Ma va bene così — aggiunge con grande dignità — quel ragazzo rimane un disperato”. Anche il signor Marino Romagnoli il papà di Camilla, riesce a dire qualcosa mentre sua moglie Cristina, la mamma di Camilla, piange tra le braccia dei familiari: “Non mi cambia niente che l’abbiano arrestato. La verità è che Camilla aveva ancora tanto da darmi e invece adesso siamo ridotti così, non m’importa niente lui, il mio cuore è tutto con Camilla e con Gaia, cosa posso dire? La giustizia va avanti…“. Le indagini procedono e si attendono altre risposte anche dall’analisi del cellulare di Genovese per verificare se al momento dell’ incidente lo stesse utilizzando per parlare o chattare con qualcuno. All’analisi degli investigatori anche le dichiarazioni dei testimoni e le immagini di tutte le telecamere della zona. Al momento l’unica certezza proviene dalle testimonianze di chi ha assistito all’incidente che confermerebbero che Gaia e Camilla abbiano attraversato corso Francia con il semaforo rosso per i pedoni. La chiesa del Preziosissimo Sangue dove questa mattina alle 10. 30, verranno celebrati i funerali congiunti di Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, è piena di gente, ci sono almeno 300 persone. Il coro canta: “Tu sei bellezza, tu sei purezza, misericordia Gesù”. In chiesa ci sono tutti i compagni di classe delle due ragazze, gli studenti della Terza C del liceo linguistico De Sanctis. Benedetta e Isabella, le amiche del cuore di Gaia e Camilla, appena sanno dell’arresto di Genovese, scoppiano a piangere. Un pianto mista di rabbia e consolazione. Sono arrivate in chiesa dopo aver finito di preparare i due cartelloni, con le foto e le firme di tutta la classe, che questa mattina verranno sistemati accanto alle bare per poi lasciarli in ricordo ai genitori delle due amiche di scuola. “La tua risata che riempiva la stanza ora ci rimbomba nel cuore“, dice la dedica per Gaia. Quella per Camilla così recita: “E voglio ricordarti come eri, pensare che ancora sorridi”. Il viceparroco don Marco Zaccaretti durante la veglia invoca la Madonna: “Anche tu Maria perdesti un figlio sulla Croce, ora intervieni, porta subito Gaia e Camilla in Paradiso, le loro mamme sono sconvolte, la loro fede sta vacillando. Aiutale, Maria, a ritrovare il dono della fede”. Questa mattina alle 10,30, nella stessa chiesa del Preziosissimo Sangue al Fleming, saranno celebrati i funerali delle due ragazze. Gaia Von Freymann è nipote dell’avvocato tarantino Massimo Saracino, figlia di sua sorella Gabriella che vive da tempo a Roma, a cui il CORRIERE DEL GIORNO rinnova le proprie sentite condoglianze. Le due famiglie hanno chiesto rispetto per il funerale: vogliono stringersi nel proprio dolore in chiesa senza telecamere ed Autorità. Le due ragazze saranno sepolte nel cimitero romano di Prima Porta.
Federica Angeli per la Repubblica il 27 dicembre 2019. (...) L' ordinanza con cui il gip ha deciso per i domiciliari è di 9 pagine e sono sostanzialmente due i motivi che hanno fatto scaturire la misura cautelare: l' alta velocità e la guida in stato di ebbrezza alcolica. Il giudice ha escluso l' aggravante della guida sotto effetto di stupefacenti, pur essendo risultato il ventenne positivo sia alla cannabis che alla cocaina, in quanto «non si sa se l' assunzione dello stupefacente fosse recente». Della droga infatti restano tracce anche se è stata assunta una settimana prima: il narcotest risponde solo alla positività della sostanza nel corpo ma non rivela in quale misura né dà contezza del tempo in cui è stata assunta. Discorso diverso invece per l' alcol, la cui presenza nel sangue era di 1,4 superiore al livello consentito, ovvero zero per un neopatentato. «Vi è la prova della sussistenza alcolica» si legge nell' ordinanza, non solo grazie alla relazione della polizia municipale intervenuta la notte dell' omicidio che di Pietro Genovese ha scritto: «Si palesava in visibile stato confusionale e alito vinoso», ma anche appunto per il referto ospedaliero. Sulla velocità del suv la gip insiste molto nelle nove pagine in cui motiva la scelta degli arresti domiciliari. Riconosce infatti che seppure «le due vittime hanno tenuto una condotta vietata e incautamente spericolata (hanno attraversato col rosso, non sulle strisce, scavalcando il guard rail, di notte e con la pioggia, ndr ) così concorrendo alla causa del sinistro mortale, il conducente del suv ha guidato con imprudenza e imperizia». «La velocità è uno specifico addebito di colpa», scrive, «un' andatura entro i limiti previsti e adeguata allo stato dei luoghi avrebbe verosimilmente evitato le tragiche conseguenze dell' impatto tra il suv e le due povere vittime». In quel tratto di corso Francia la velocità massima consentita è di 50 chilometri orari, secondo i vigili Genovese andava almeno a 80 all' ora. «Una velocità prudenziale» secondo il giudice per le indagini preliminari avrebbe evitato «l' impressionante forza dell' urto» che, a quanto raccontato dall' autopsia, ha ucciso all' istante Gaia e Camilla. Velocità che, sottolinea Bernadette Nicotra, più di un testimone ha descritto: «Ho visto il braccio volare in aria», ha messo a verbale uno di loro. Ma tra i rilievi del giudice c'è anche la condizione della strada: «Sull' incidente ha influito anche un' illuminazione "colposamente" insufficiente». Infine: Genovese, che era in auto con due amici (notizia che si è appresa soltanto ieri), "paga" anche lo scotto dei suoi precedenti di assuntore e possessore di droga e di guidatore poco attento al rispetto delle regole. Il gip infatti sottolinea in un passaggio che le tre volte in cui fu fermato (seppur a piedi e non al volante) aveva droga per uso personale. E che le numerose violazioni al codice della strada (almeno quattro, tra cui anche passaggio con il rosso), che gli avevano fatto perdere punti sulla patente fino alla sospensione per 15 giorni a ottobre, sono elementi non di poco conto nel delineare la personalità del ventenne.
Pietro Genovese agli arresti domiciliari per una legge assurda. Angela Azzaro il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ieri il Gip ha disposto gli arresti domiciliari per Pietro Genovese, il giovane indagato per duplice omicidio stradale. Non si capisce bene il motivo dell’arresto. Non c’è sicuramente pericolo di fuga: tutti i riflettori sono puntati su di lui e il padre è un famoso regista. Non c’è pericolo di nascondere le prove, molte delle quali, purtroppo, sono lì su quella maledetta strada. Né tanto meno c’è il rischio di reiterare il reato. Il dubbio, molto forte, è che questi arresti siano dettati dal bisogno di tenere a bada i latrati dei media, che da giorni su questa vicenda stanno soffiando sul fuoco del giustizialismo. La terribile morte di Gaia e Camilla, la vita rovinata del giovane sono solo espedienti per aizzare gli animi, spingerli sempre di più sul crinale della vendetta, del linciaggio. È lo stesso crinale che anni fa ha spinto il legislatore ad approvare la legge sull’omicidio stradale. È forse la legge più emblematica di questa ideologia che sta minando lo Stato di diritto: non ci si chiede come risolvere un problema, come far sì che le persone non muoiano più per strada, ma si punta a placare gli animi aumentando le pene o creando nuove fattispecie di reato. Il risultato è sotto i nostri occhi, anche in questi giorni: le morti in strada non diminuiscono, ma aumentano. La legge non solo non funziona da deterrente, ma rischia di dar vita a molte ingiustizie. Pietro Genovese voleva uccidere? Sicuramente no, ha commesso un grave, gravissimo, terribile errore, ma non voleva uccidere. Oggi è considerato alla stregua di un presunto assassino e rischia dieci anni di carcere. Forse proprio questo caso, con la sua esposizione mediatica, ci dovrebbe spingere a riconsiderare la legge sull’omicidio stradale, a fare un passo indietro rispetto al bisogno sempre più impellente di risolvere con il carcere qualsiasi problema. Oggi è il giorno dei funerali di Gaia e Camilla, un giorno di dolore per le due ragazze. Un giorno che dovrebbe essere di silenzio. Ma chi spara su Genovese, chi lo espone a petto nudo nelle foto come ad indicarne la colpa, chi chiede galera e ancora galera, non sta piangendo. Sta solo approfittando di una immensa tragedia.
Pietro Genovese arrestato, il testimone: «L’ho visto arrivare, andava molto veloce». Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. La notte di domenica scorsa Pietro Genovese correva e aveva bevuto. Guidava senza preoccuparsi di dover «scongiurare i rischi per sé e per gli altri». E «potrebbe farlo ancora», perché già in passato «gli era stata ritirata la patente di guida per violazione al codice della strada». Ecco perché il giudice ha ordinato il suo arresto. Sono quattro i testimoni dell’accusa. Quattro automobilisti che in quella maledetta sera erano su Corso Francia, a Roma, e hanno assistito allo schianto mortale. Hanno visto la tragica sequenza dell’incidente avvenuto poco dopo mezzanotte nel quale hanno perso la vita Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due amiche sedicenni che per tornare a casa hanno scavalcato il guardrail e attraversato con il rosso. «Condotta incautamente spericolata»: così il giudice definisce il comportamento delle due ragazze. Ma questo non attenua la responsabilità di Genovesi che «percorreva una strada all’interno di un agglomerato urbano in un punto caratterizzato dalla presenza di case e locali notturni a velocità elevata e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite consentito» e dunque «pur non avendo voluto cagionare l’incidente» ha violato le regole «di diligenza e prudenza che si richiede a ogni automobilista al fine di scongiurare situazioni di pericolo proprio e altrui».
Il racconto. Racconta Emiliano Annichirico: «Ero alla guida della mia autovettura, stavo procedendo su Corso Francia in direzione fuori città. Il semaforo veicolare di corso Francia era appena diventato verde per entrambe le carreggiate, pertanto l’impianto pedonale era diventato rosso da pochissimi istanti. Ho visto alla mia sinistra due ragazze giovani che procedevano di corsa sulle strisce cercando di attraversare la carreggiata opposta rispetto a quella dove stavo procedendo. Una piccola vettura di colore scuro, credo una smart, era ferma non so se fosse posteggiata o se si fosse arrestata per agevolare il transito dei due pedoni. Rammento che una ragazza più alta era davanti e poco dietro vi era un’altra ragazza un po’ più minuta. Nello stesso momento mi sono accorto del sopraggiungere sulla corsia centrale di corso Francia, direzione centro città, di un’autovettura di grosse dimensioni, un Suv di colore chiaro. L’auto procedeva ad un’andatura esageratamente sostenuta, credo che il conducente abbia tentato di frenare nel momento in cui ha percepito la presenza dei pedoni in quanto la parte anteriore si è lievemente inclinata in basso, malgrado ciò l’impatto è stato inevitabile violentissimo». Versione confermata da altri tre testimoni che ai vigili hanno parlato di «due ragazze che attraversavano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali» e di «un Suv che è arrivato a gran velocità e ha travolto le due ragazze».
Racconta Emiliano Annichirico: «Ero alla guida della mia autovettura, stavo procedendo su Corso Francia in direzione fuori città. Il semaforo veicolare di corso Francia era appena diventato verde per entrambe le carreggiate, pertanto l’impianto pedonale era diventato rosso da pochissimi istanti. Ho visto alla mia sinistra due ragazze giovani che procedevano di corsa sulle strisce cercando di attraversare la carreggiata opposta rispetto a quella dove stavo procedendo. Una piccola vettura di colore scuro, credo una smart, era ferma non so se fosse posteggiata o se si fosse arrestata per agevolare il transito dei due pedoni. Rammento che una ragazza più alta era davanti e poco dietro vi era un’altra ragazza un po’ più minuta. Nello stesso momento mi sono accorto del sopraggiungere sulla corsia centrale di corso Francia, direzione centro città, di un’autovettura di grosse dimensioni, un Suv di colore chiaro. L’auto procedeva ad un’andatura esageratamente sostenuta, credo che il conducente abbia tentato di frenare nel momento in cui ha percepito la presenza dei pedoni in quanto la parte anteriore si è lievemente inclinata in basso, malgrado ciò l’impatto è stato inevitabile violentissimo». Versione confermata da altri tre testimoni che ai vigili hanno parlato di «due ragazze che attraversavano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali» e di «un Suv che è arrivato a gran velocità e ha travolto le due ragazze».
Il giudice esclude l’aggravante dell’assunzione di stupefacenti perché «non è in alcun modo provato lo stato di alterazione psicofisica dovuto all’uso delle droghe infatti le sostanze riscontrate sebbene presenti ben potevano essere state assunte da Genovese in epoca precedente all’incidente». Spiega che «lo stato di ebrezza dell’indagato era tale da diminuire certamente la prontezza di riflessi alla guida, senza tuttavia porre il guidatore in stato di incoscienza». Ma decide di ordinare gli arresti domiciliari «perché sebbene incensurato e di giovane età, potrebbe guidare l’auto di amici o conoscenti anche senza la patente». Nei prossimi giorni è possibile che il suo difensore Gianluca Tognozzi decida di chiedere un interrogatorio. Al momento nessuna decisione è presa ed e proprio il legale a spiegarlo: «Si devono celebrare i funerali di due ragazze di 16 anni, mentre un ragazzo di 20 è ai domiciliari. Per questo fatto non credo ci sia altro da aggiungere altre il dolore».
Gaia e Camilla, l’amico di Genovese: sceso dall’auto lontano dall’impatto. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Sono stato il primo a scendere dalla macchina di Pietro. Mi sono avvicinato alla ragazza che ho trovato subito a terra nel luogo dell’incidente e ho sentito che non respirava più. È stato terrificante. Poi ho alzato lo sguardo e ho visto più avanti il corpo dell’altra giovane. Eravamo tutti sotto choc, ma è vero che sono sbucate all’improvviso. Evitarle era impossibile». Davide Acampora, studente ventenne, era seduto davanti sul suv Renault guidato da Pietro Genovese la notte del 21 dicembre a corso Francia. Dalla sua posizione potrebbe aver visto tutto: l’avvicinamento all’incrocio con via Flaminia, l’utilitaria accanto alla loro auto che si è fermata di colpo sul lato destro della carreggiata, le sedicenni che spuntavano e che venivano travolte dall’amico al volante. Che, come ha sottolineato il gip Bernadette Nicotra nella misura cautelare emessa nei confronti del figlio del regista Paolo Genovese, si è fermato «poco dopo, circa 250 metri più avanti rispetto al luogo dell’impatto e precisamente sopra la rampa d’accesso a via del Foro Italico». Interrogato dai vigili urbani, Acampora ha riferito alcuni particolari di quella serata. «Eravamo andati a una festa con alcuni amici, poi ci siamo rimessi in marcia per tornare a casa. Non avevamo assunto droghe di alcun genere. Avevamo invece bevuto qualcosa, ma Pietro non era certo ubriaco. Dopo l’incidente era sconvolto». Sui sedili posteriori del Koleos condotto da Genovese — che secondo i vigili urbani con la sua patente B poteva guidare quel genere di veicolo — c’era un altro amico, Tommaso Edoardo Luswergh Fornari, anche lui di 20 anni. Come Acampora, è stato interrogato dai vigili urbani e ha fornito la sua versione. Avrebbe visto meno del coetaneo che sedeva davanti a lui. Da allora è chiuso nella sua abitazione vicino piazza Fiume, al Salario, a poche centinaia di metri dalla casa di Acampora e della famiglia dello stesso Genovese, nel suggestivo rione Coppedé, mentre Paolo si trova ai domiciliari nella sua abitazione in via Frattina, in centro. «Adesso non ho voglia di parlare», dice Tommaso senza aprire la porta dell’appartamento al pianterreno. Nell’androne dell’elegante palazzo il portiere accompagna all’uscita i cronisti. Lui e Davide sono stati sentiti come persone informate sui fatti insieme con altri cinque testimoni che da varie angolazioni hanno assistito all’incidente costato la vita a Gaia e Camilla. Ma sarebbero stati loro a scuotere Genovese che dopo l’impatto ancora stringeva il volante del suv e aveva percorso alcune centinaia di metri, imboccando la strada sopraelevata rispetto al punto dell’investimento. «Gli abbiamo detto di fermarsi e tornare indietro», avrebbero riferito i due amici del 20enne, che come prima cosa ha telefonato al padre chiedendo aiuto. A quel punto però la macchina si era bloccata per un guasto e così lui e gli amici sono scesi sulla rampa per raggiungere corso Francia a piedi.
Gaia e Camilla, centinaia di persone ai funerali a Roma. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it. Centinaia di persone, fra queste moltissimi ragazzi e ragazze, stanno partecipando nella chiesa del Preziosissimo Sangue alla Collina Fleming ai funerali di Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, investite e uccise la notte del 21 dicembre scorso da Pietro Genovese mentre attraversavano a piedi Corso Francia. A celebrare le esequie il parroco don Matteo Botto. In segno di lutto i commercianti del quartiere hanno abbassato le saracinesche. Moltissime corone di fiori, insieme con stelle di Natale all’esterno della chiesa, mentre via Flaminia è stata chiusa al traffico dai vigili urbani. In tutta la zona il traffico è impazzito. Alcuni amici delle sedicenni hanno portato fiori nel luogo dell’incidente, altri hanno accolto i compagni di scuola delle giovani del liceo De Sanctis fuori dalla parrocchia e nella navata centrale due foto di Gaia e Camilla sono state poggiate su un leggio. All’esterno rimangono fotografi e cameraman che per desiderio delle famiglie non possono entrare a riprendere i funerali.
Il parroco ai funerali delle due ragazze investite a Roma: "Il senso della vita non è bere e fumarsela". Il Corriere del Giorno il 27 Dicembre 2019. Un rispettoso silenzio ed un mare di lacrime con le foto delle ragazze all’ingresso della parrocchia. Oltre ai familiari centinaia di persone per l’ultimo saluto a Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann nelle loro bare bianche . “Ci sentiamo onnipotenti e poi non riusciamo a seguire le regole base della convivenza. Ci riscopriamo tutti un po’ palloni gonfiati” ha detto il parroco nella sua dura omelia. Il 2 gennaio interrogatorio di garanzia e convalida per l arresto dell’investitore, Pietro Genovese, posto da ieri agli arresti domiciliari. “Siamo abituati a vivere tra tecnologie e innovazione eppure brancoliamo nel buio ed è quello su cui dobbiamo riflettere: su questa ora buia” ha esordito il parroco don Gianni Matteo Botto nel corso della sua omelia funebre celebrata nella parrocchia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore in via Flaminia Vecchia, a Roma, rimarcando “da giorni ci chiediamo il perché. Ci interroghiamo sull’insensatezza di quanto accaduto. Brancoliamo nel buio. Ecco, quello di oggi é il grande abbraccio che diamo ai genitori di Gaia e Camilla, in questa ora così buia“. Sono state parole forti quelle di don Matteo nella sua omelia : “Il senso della vita, lo aveva chiesto giorni fa Camilla alla sua famiglia. Ecco, magari quando sei sbronzo o sei fatto ti metti a guidare? Questa è la vita? In fondo ci sentiamo onnipotenti e poi non riusciamo a seguire le regole base della convivenza. Ci riscopriamo tutti un po’ palloni gonfiati. Il senso della vita non è bere e fumarsela“. All’ingresso della chiesa sono state collocate due foto delle ragazze. Moltissimi amici e parenti, e i compagni della Terza C del liceo linguistico De Sanctis, classe in cui studiavano Gaia e Camilla. Le due bare bianche di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli le due 16enni travolte e uccise la notte del 22 dicembre da un’auto su corso Francia, erano circondate dal silenzio rispettoso e dalle lacrime versate da migliaia di persone presenti al funerale. I giornalisti come richiesto dalle famiglie, sono rimasti all’esterno del complesso dove si trova la chiesa. Giorgia Romagnoli, la sorella di Camilla ha voluto ricordarla così: “Eri la piccola di casa. Tu che trovavi imbarazzo ogni volta che si parlava di te, non ti piaceva sentirti gli occhi addosso. Ti sentivi imperfetta. E invece si è persa una delle fondamenta della nostra famiglia” continuando “Oggi le nostre notti sono la cosa peggiore della giornata. Tempo fa avevi chiesto a tavola, quale fosse il senso della vita e non ti ho saputo rispondere . Oggi una risposta ce l’ho: il senso della mia vita sei tu“. La messa funebre si è concluse poco prima delle 13 e le bare all’uscita dalla chiesa salutate con un applauso interminabile sulle note delle canzoni preferite delle due ragazze: “A te” di Lorenzo Jovanotti e “Ti voglio bene” di Tiziano Ferro. Momenti di dolore straziante per tutti, le serrande dei negozi di via Flaminia dove sono transitati i feretri di Gaia e Camilla, sono state abbassate in segno di lutto. Il papà di Gaia si è soffermato a lungo davanti alla bara della figlia accarezzandola, quasi a non volersene distaccare, mente e una parente che ha un malore ed è stata soccorsa e portata via in ambulanza. Al termine della funzione ha preso la parola anche la zia di Gaia: “Camilla e Gaia non ci hanno lasciati. Sono nel vento, nel profumo dei fiori, la loro voce è nel canto degli uccelli. Hanno raggiunto i nostri avi e riposeranno con loro“. E un’amica delle due giovani: “Sedici anni sono troppo pochi per morire, non riesco a crederci. Bisogna vivere il dolore per capirlo. Resterà un enorme vuoto dentro di me, una cicatrice che resterà per sempre” . I genitori di Gaia, Gabriella Saracino e Edward Von Freymann, attraverso il loro legale Giulia Bongiorno hanno dichiarato: “Chi perde il coniuge è vedovo, chi perde i genitori è orfano. Chi, come noi, perde una figlia non ha nemmeno un nome che lo definisca: la morte di un figlio è talmente innaturale da aver reso la nostra condizione indicibile, è letteralmente ‘qualcosa che non può essere detto” aggiungendo “Anche per questo non abbiamo finora parlato con nessuno e oggi chiediamo rispetto per il nostro dolore e il nostro silenzio. Quando troveremo le parole giuste parleremo, e diremo la nostra sulle tante ricostruzioni che in questi giorni sono state diffuse dai media con troppa leggerezza. Per il momento, invitiamo alla prudenza e alla scrupolosità chi scrive di questa tragedia. Gaia era piena di gioia di vivere, ma era anche matura e responsabile. Ci manca moltissimo. Per questo desideriamo ringraziare chi ha pianto con noi, chi ci ha offerto conforto e sostegno“. Il 20enne Pietro Genovese che le ha travolte ed uccise mentre era alla guida di un Suv, in condizioni non certamente di sobrietà, da ieri si trova agli arresti domiciliari, per “omicidio stradale plurimo“. Questa l’accusa con cui è stato arrestato ieri il 20enne che, nella notte tra sabato e domenica scorse, era alla guida dell’auto che ha travolto e ucciso a Roma due sedicenni a Corso Francia, a Roma. Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, che si trova ora ai domiciliari. L’ordinanza gli è stata notificata al termine dei primi accertamenti condotti dalla Polizia Locale di Roma Capitale e in base alla relazione trasmessa alla Procura. La posizione del ragazzo si era aggravata già immediatamente dopo l’incidente mortale costato la vita alle sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freyman. Le analisi alle quali era stato sottoposto, infatti, avevano rivelato un tasso alcolico tre volte superiore al consentito e tracce di sostanze stupefacenti. Nel passato di Genovese secondo quanto emerge dall’ ordinanza del Gip, ci sarebbero anche due episodi di possesso di droga, in relazione ai quali sembra gli sia stata sospesa la patente, restituita solo di recente. A convincere i pubblici ministeri a chiedere la misura cautelare, infatti, ci sarebbe proprio la positività del ragazzo ai drug test.
Ragazze investite a Roma: e se fossi stato tu al posto di Pietro Genovese? Angela Azzaro il 28 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ieri si sono svolti i funerali di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due ragazze investite e morte il 22 dicembre, qualche giorno prima di Natale, a Roma, in un incrocio maledetto su Corso Francia. La foto che vi proponiamo in questa pagina mostra le due facce, contrapposte, di questa lunga settimana: per un verso, anche se non si vede, si intuisce il dolore. I fiori bianchi rimandano alle bare delle due giovanissime donne: il lutto assurdo che ha colpito i genitori, la loro tenera età, la vita piena di promesse e attese che non si potranno più realizzare. È una scena che richiede silenzio, rispetto. La foto però mostra anche altro: le telecamere che incombono come moderni cerberi, la sovraesposizione, un accanimento che non può che infastidire. La morte diventa spettacolo, tv del dolore, processo mediatico. Da giorni i media si occupano del caso, con un’attenzione morbosa che difficilmente si riesce a pensare come partecipazione al lutto. Se così fosse, si sarebbe fatto un passo indietro, si sarebbe regalato alle famiglie coinvolte il silenzio necessario, si sarebbero spente le luci. Almeno una volta, almeno questa volta. Ma lo “show” non può fermarsi, deve andare avanti, a tutti i costi. E alcuni siti web anche di giornali paludati hanno fatto la diretta dei funerali. Qualcuno, sui social, l’ha definita, giustamente, pornografia del dolore. In questa sceneggiatura da film di infima categoria, non poteva mancare “il mostro”, “il drogato” come lo ha definito non un titolo del quotidiano Libero, ma del giornale più venduto a sinistra, La Repubblica. Il quotidiano diretto da Carlo Verdelli ha fatto diventare un’azione – il fatto di aver assunto delle sostanze stupefacenti – l’identità di una persona: la ha inchiodata per sempre allo stigma di “drogato”. È una generalizzazione che nelle scuole di giornalismo ti insegnano a non fare…Pietro Genovese, il ragazzo indagato per duplice omicidio stradale, dall’altro ieri è ai domiciliari. Il gip ha preso la decisione sostenendo che ci sia il rischio di reiterare il reato e ha indicato nell’alta velocità e nel tasso alcolico le cause principali dell’incidente mortale. Il giudice ha escluso l’aggravante della guida sotto effetto di stupefacenti, pur essendo risultato positivo sia alla cannabis che alla cocaina, perché «non si sa se l’assunzione dello stupefacente fosse recente». I domiciliari, con questi elementi e queste motivazioni, appaiono una scelta dettata comunque dalla pressione mediatica e dalla sentenza che “il popolo”, spinto da tv e giornali, ha già emesso: colpevole. Invece il processo va ancora fatto e purtroppo va fatto con la legge assurda sull’omicidio stradale, nata sulla spinta dal populismo penale: l’ideologia che anche papa Francesco ha condannato come uno dei mali della nostra contemporaneità. La brutta legge non ha funzionato da deterrente, non ha spinto i giovani a correre di meno, non ha reso le strade più sicure, le auto meno veloci e non ha spinto la scuola ad insegnare meglio e con maggiore convinzione l’educazione stradale. Ha però raggiunto il suo vero scopo: costruire – a norma di legge – perfetti colpevoli, capri espiatori su cui riversare tutte le colpe, su cui incanalare la rabbia delle persone. Una rabbia – come nel caso di Camilla e Gaia – giusta e comprensibile se espressa dai genitori. Ma il legislatore e la società, proprio in questi casi, dovrebbero avere la forza di capire la rabbia ma di andare oltre, di non farla diventare Stato di diritto. Il gip, nella sua ordinanza con cui ha disposto la custodia cautelare, ha anche detto che le due ragazze non dovevano attraversare quella strada, che hanno avuto una condotta “vietata e spericolata”. Ci sarà un processo che definirà i fatti. Ma tutti sanno che quello è un incrocio temuto e terribile, dove quasi tutte le auto corrono e dove chiunque si poteva trovare lì, in quel momento, e vivere la stessa tragedia. Invece si è preferito sparare (simbolicamente) sul conducente dell’auto, decidere – prima del tempo – la sua colpevolezza che va ancora dimostrata e stabilita dal processo vero e proprio. La fama del genitore, questa volta, non ha giovato al giovane Pietro. In questi giorni abbiamo letto e visto di tutto. Si voleva dimostrare in ogni modo quanto fosse un poco di buono, uno che non poteva non commettere qualcosa di terribile. La foto di lui a torso nudo, mentre beve un drink, andava in questa direzione. Era il ritratto di un giovane baldanzoso e arrogante, perfetto come omicida, seppure involontario. È la foto del prima, che non racconta lo shock, il dolore, la disperazione che lo ha colpito. È così che tentano di raccontarlo i familiari. Ma la società del processo mediatico, della presunzione di colpevolezza, la società del “tutti sono sempre colpe- voli”, non riesce a provare pietà, a identificarsi, e ha deciso: Pietro è il mostro. Ma, se si esce da questa reazione condizionata, forse si riesce a capire che al suo posto ci poteva essere anche uno di noi. E così provare almeno un po’ di pietà.
Ps: Ieri, ai funerali di Gaia e Camilla, durante l’omelia, il prete si è chiesto se “il senso della vita sia guidare sbronzi”, anche lui cadendo nella trappola che riduce una vita, la sua complessità a un episodio. Quanta distanza dalle parole e dall’insegnamento di Bergoglio!
Veronica Cursi per il Messaggero il 28 dicembre 2019. «Quelle due ragazze sono sbucate all’improvviso, correvano mano nella mano. Mi creda, era impossibile evitarle. Pioveva, era buio, ma ricordo perfettamente cos’è successo: ho visto due sagome apparire dal nulla e poi il corpo di una di loro rimbalzare sopra il cofano». Davide A., 20 anni, studente di Economia dei Parioli, parla con un filo di voce. Spesso si ferma per trattenere le lacrime. Era su quella maledetta macchina la notte del 22 dicembre, seduto al lato passeggero accanto al suo migliore amico Pietro Genovese. Il giovane ora si trova agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio stradale duplice. «Io e Pietro - ripete Davide - ci conosciamo dalle elementari, abbiamo condiviso tutto insieme». Purtroppo, ora, condividono anche quella notte che ha cambiato le loro vite per sempre.
Davide cosa ricorda di quella sera?
«Eravamo appena andati via da una cena a casa di amici al Fleming dove avevamo festeggiato il ritorno di un amico dall’Erasmus. Avevamo bevuto qualche bicchiere di vino, niente di più. Era da poco passata la mezzanotte e avevamo imboccato Corso Francia per andare verso il Treebar al Flaminio».
Quanti eravate in macchina?
«Pietro guidava, io ero seduto accanto a lui e dietro di noi, sul sedile posteriore, c’era un altro nostro amico che al momento dell’incidente però stava mandano un messaggio con il cellulare e dice di non aver visto nulla».
A che velocità andavate?
«Non so, ma anche volendo non avremmo potuto correre. Su Corso Francia era appena scattato il semaforo verde e l’auto era ripartita da poco».
A quel punto cos’è successo?
«Mentre passavamo davanti a una macchina che aveva rallentato alla nostra destra sono sbucate due sagome. Correvano. Credo volessero scavalcare il guardrail per raggiungere l’altro lato della strada. Ricordo di aver sentito un botto tremendo. E di aver visto una di loro sopra il cofano dell’auto. É successo tutto in una frazione di secondo».
Vi siete fermati subito?
«Il tempo di renderci conto di quello che era successo e accostare l’auto sulla destra, poco prima della rampa. Non potevamo inchiodare in mezzo alla strada. Dall’incidente al momento in cui ci siamo fermati saranno passati 5-10 secondi».
E poi cosa avete visto?
«Io sono sceso di corsa dalla macchina e ho visto il corpo di una delle due ragazze per terra, mi sono avvicinato per sentire il battito, non si muoveva. Poco più avanti mi sono accorto che c’era anche l’altra ragazza sull’asfalto. Subito dopo di me sono scesi Pietro ed Edoardo. Le macchine continuavano a camminare, ricordo di aver visto una, forse due macchine investirle di nuovo».
Pietro era ubriaco?
«Aveva bevuto un paio di bicchieri di vino, ma non era ubriaco o drogato: nessuno quella sera aveva fumato canne».
A quel punto avete chiamato i soccorsi?
«Qualcuno che aveva assistito all’incidente aveva già chiamato l’ambulanza, io ho chiamato i miei genitori, gli altri anche: eravamo tutti sotto choc».
Come ha saputo che Pietro era stato arrestato?
«Mi ha scritto un messaggio: “Sto andando in Questura, mi stanno arrestando”. Poi più nulla, sono in contatto con la famiglia».
Pietro aveva ripreso la patente da poco ed era già stato segnalato due volte per possesso di stupefacenti.
«È vero, una volta gli trovarono una canna in macchina e ogni tanto capitava che andasse un po’ veloce, ma non è un pazzo alla guida. E quello che è successo non si poteva evitare».
É più tornato sul luogo dell’incidente?
«Da quella sera sono uscito di casa solo una volta per andare a trovare Pietro: sta malissimo, piange tutto il giorno, siamo molto preoccupati per lui».
Ha mai pensato di contattare le famiglie delle ragazze?
«Ci penso tutti i giorni, ma cosa potrei dirgli? Mi dispiace per quello che è successo? Sono distrutto? Da quella sera, io, Pietro ed Edoardo non dormiamo più, non mangiamo più. Ma siamo vivi. Quando me la sentirò la prima cosa che voglio fare è portare una corona di fiori a Corso Francia. Gaia e Camilla avevano solo pochi anni meno di me. È un dramma per tutti».
Gaia e Camilla, il terzo ragazzo sul Suv di Genovese: «Sono stato io a gridare: fermiamoci». Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Un testimone: «Una delle due vittime ha detto: corriamo, dai che frenano». Esclusa l'ipotesi di una bravata, le due ragazze potrebbero aver tagliato la strada per fare prima. Dal gioco del semaforo (smentito) al telefonino di Genovese: cosa non è chiaro. «Fermiamoci, fermiamoci!». Sul Suv con l’anteriore distrutto che, dopo l’impatto, ha percorso un tratto di corso Francia prima di imboccare la rampa di via del Foro Italico in direzione Parioli, oltre a Pietro Genovese e Davide Acampora c’era anche un altro ragazzo, seduto dietro. È Tommaso Edoardo Luswergh Fornari, 20 anni, studente universitario. È stato lui ad aver gridato all’amico al volante, figlio del regista Paolo Genovese, di bloccare subito la corsa della Renault Koleos con la quale aveva appena investito Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli. L’auto (intestata a una società) aveva riportato gravi danni — secondo alcuni aveva perfino il cofano alzato — ma ha continuato ad avanzare fino a quando si è bloccata, fermata da un guasto o dal sistema di autoprotezione attivato dalla centralina elettronica. Una conseguenza comunque collegata all’incidente appena avvenuto, anche se a stabilirlo sarà la perizia tecnica sulla vettura sequestrata. Fornari non avrebbe visto molto, ma si è messo a urlare. Voleva che gli amici, sotto choc per quello che era appena successo, si fermassero subito. «Non ho assistito direttamente all’incidente, guardavo in basso perché stavo chattando con il telefonino — ha raccontato il ragazzo subito dopo l’incidente —. Però ho sentito il botto, lo schianto. Ho capito che era successo qualcosa di grave. Mi sono messo a gridare. Dovevamo fermarci. Poi non sono sceso dalla macchina, avevo paura di guardare verso la strada. Anche Pietro è rimasto con me, Davide invece è andato a vedere». Attimi drammatici, ora al centro delle indagini dei vigili urbani, in attesa dell’interrogatorio di garanzia al quale il prossimo 2 gennaio Genovese sarà sottoposto dal gip Bernadette Nicotra che lo ha mandato ai domiciliari per omicidio stradale plurimo. La posizione del 20enne, risultato positivo all’alcol — tasso alcolemico tre volte sopra il limite di legge (1,4) — e «non negativo a cocaina e cannabinoidi», come ha già sottolineato lo stesso giudice, potrebbe aggravarsi nel caso dovessero emergere indizi che possano confermare un’ipotesi di tentativo di fuga dal luogo dell’incidente. Fra i personaggi chiave della tragica notte del 21 dicembre scorso c’è però anche un testimone che a quell’ora aspettava l’autobus alla fermata sotto il viadotto dell’Olimpica, sempre su corso Francia. Il giovane è stato il primo a telefonare al soccorso pubblico per chiedere aiuto, perché le ragazze riverse sull’asfalto perdevano molto sangue. È una delle persone che hanno assistito all’incidente. Ma c’è di più: il testimone ha anche riferito di aver udito prima dell’investimento una delle 16enni gridare: «Corriamo, dai che si fermano!», forse dopo che il conducente di una Smart aveva davvero arrestato la marcia sulla corsia di destra di corso Francia per farle passare. Poi però è sopraggiunto il Suv di Genovese — «a gran velocità», per altri testimoni — che le ha colpite in pieno. Sempre secondo il secondo testimone, Gaia e Camilla si trovavano a poche decine di metri da lui, alla sua sinistra. Era buio, a piedi non c’era quasi nessuno, pioveva. Le ragazze tornavano a casa dopo essere state con amici a Ponte Milvio, potrebbero aver tagliato per fare prima — è questa una delle principali ipotesi investigative e un’abitudine sbagliata ammessa da alcuni giovani che frequentano la zona — visto che erano in ritardo rispetto all’orario previsto per il rientro. Quindi nessun gioco o bravata da parte loro nell’attraversare l’arteria ad alto scorrimento, «con l’impianto pedonale diventato rosso da pochissimi istanti», come ha peraltro raccontato un altro testimone in auto. Versione confermata dall’avvocato Cesare Piraino, legale della famiglia Romagnoli, per il quale «è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l’abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato. Stiamo svolgendo le nostre indagini per accertare la verità e abbiamo contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione degli eventi complessi per avere una ricostruzione scientifica dell’incidente».
Da ilmessaggero.it il 29 dicembre 2019. I genitori di Camilla, travolta e uccisa a Corso Francia, a Roma, insieme all'amica Gaia dal suv guidato da Pietro Genovese, sottolineano tramite il proprio legale che «è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l'abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato». Il riferimento è alla videodenuncia pubblicata dal Messaggero in cui si vedono due ragazzini attraversare la pericolosa arteria romana tra le auto che sfrecciano e alle parole di un altro genitore che al nostro giornale ha parlato di questa folle abitudine diffusa tra i giovani. L'avvocato Cesare Piraino, legale dei genitori di Camilla Romagnoli, continua: «Sono profondamente rattristato, prima che come difensore dei signori Romagnoli, come cittadino, per gli interventi in libertà di persone solo incuriosite dal fatto drammatico che ha gettato nella tragedia tre famiglie. Attendiamo con fiducia l'esito delle indagini da parte della Procura della Repubblica». Il legale, infine, precisa «che mai la signora Romagnoli si è espressa nei termini di cui si è letto in qualche notizia di stampa relativamente agli arresti domiciliari di Pietro Genovese; anzi, sin dal giorno dopo il drammatico incidente, la famiglia Romagnoli e in particolare la signora Romagnoli, ha tenuto a ribadire più volte che loro interesse è solo la giustizia e mai la vendetta». «Stiamo svolgendo, compatibilmente con i nostri poteri e nei limiti consentiti, nostre indagini difensive agli esclusivi fini dell'accertamento pieno della verità. Abbiamo anche contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione scientifica degli eventi complessi e drammatici, al fine di avere, quando sarà possibile, una ricostruzione, appunto, scientifica dell'incidente».
“Davide ha urlato: Pietro fermati. Poi lo schianto, sembrava un automa”. Il suv di Pietro Genovese, che ha travolto a Corso Francia Camilla Romnagnoli e Gaia von Freymann. Il racconto dei due giovani a bordo dell’auto di Genovese, l’investitore che ha travolto Gaia e Camilla. “Ma non poteva evitarle, sono sbucate all’improvviso. Dopo l’urto ha continuato a guidare per 200 metri”. Federica Angeli e Francesco Salvatore il 29 dicembre 2019 su La Repubblica. "Fermati, ferma: ho sentito gridare questo quasi nello stesso istante in cui ho udito un fortissimo botto alla macchina. Pietro ha continuato a guidare per altri duecento metri circa ma aveva cambiato faccia. Era come un autonoma, non sembrava in sé, anzi sembrava proprio non capire più niente". Sono Tommaso Edoardo Fornari (il passeggero seduto sul sedile posteriore dell'auto di Pietro Genovese) e Davide Acampora (seduto a sul sedile accanto a quello del guidatore) a ricostruire i drammatici momenti che hanno preceduto la morte di Gaia e Camilla, le sedicenni romane travolte e uccise su corso Francia la notte del 22 dicembre mentre attraversavano la strada. Il loro ricordo a caldo è stato trascritto in un verbale che i vigili hanno consegnato alla procura di Roma che ha fissato l'interrogatorio dei due amici di Pietro il giorno dopo il suo. Il ventenne accusato di duplice omicidio stradale con l'aggravante della guida in ebrezza alcolica sarà interrogato il 2 gennaio, i suoi due amici il 3. "Era impossibile evitare quello che è successo - ha detto ai vigili Acampora subito dopo l'incidente - le due povere ragazze sono sbucate all'improvviso. Venivamo da un semaforo verde, non andavamo fortissimo ma avevamo preso velocità quando stavamo all'altezza del semaforo successivo. Eravamo sulla corsia di sorpasso, alla nostra destra ho notato un'auto che ha rallentato, senza capirne il motivo e subito dopo correvano davanti a noi le due ragazze". A quanto dichiarato dall'altro ventenne, Fornari, l'amico che era davanti ha gridato a Pietro Genovese di fermarsi. Lui si era accorto, seppur all'ultimo minuto, delle giovani davanti a loro. Ma è stata questione di un attimo, non di più. Quegli istanti che cambiamo il destino di cinque persone ma che sono davvero frazioni di secondi. Indimenticabili e indelebili, ma pur sempre frazioni di secondi. A credere a questa ricostruzione è stata la gip Bernadette Nicotra che nelle 9 pagine di ordinanza con cui ha disposto i domiciliari di Genovese ha sottolineato "la condotta vietata e incautamente spericolata" di Gaia e Camilla che attraversando il quel modo, a semaforo rosso, di notte e con la pioggia hanno "così concorso alla causazione del sinistro mortale". Un concorso di colpa che stanno tentando di evitare, comprensibilmente, i legali dei genitori di Gaia e Camilla, tanto che a quanto ricostruito da loro (ci sono testimoni pronti a dirlo) le due studentesse sedicenni erano sulle strisce pedonali. Circostanza che, a onor del vero, la giudice ha lasciato in forma dubitativa nell'ordinanza: le ragazze "attraversavano presumibilmente senza far uso dell'attraversamento pedonale" ma "la circostanza non risulta accertata". Sembra invece pacifico che il semaforo era verde per il conducente del suv. Il difensore della famiglia di Camilla Romagnoli, l'avvocato Cesare Piraino ribadisce la discrepanza sull'attraversamento sulle strisce pedonali fra quanto detto dai testimoni ascoltati dagli agenti della polizia municipale. Due persone sostengono che Camilla e Gaia fossero fuori dalle strisce pedonali; una terza che correvano sulle zebre; e una quarta non ha specificato. Poi ci sono quelli che sono certi di averle viste correre mano nella mano sulle strisce e che ora saranno presi a verbale. Per tentare di ricostruire la verità è stato disposto il sequestro delle telecamere di un ristorante che si trova nel punto esatto dell'impatto. L'avvocato Giulia Bongiorno, difensore dei genitori di Gaia Von Freymann, ha nominato un consulente per iniziare indagini difensive.
Alessia Marani per il Messaggero il 28 dicembre 2019. «Lo chiamano il giochino del semaforo rosso e quando mia figlia e la sua amichetta me lo hanno spiegato dopo la morte di Camilla e Gaia, mi sono venuti i brividi. Si tratta di attraversare le due carreggiate di Corso Francia veloci mentre per i pedoni è rosso e per le auto che sfrecciano è verde, sfidando la sorte. Un gioco folle del sabato sera e non solo, in voga tra i giovanissimi di Ponte Milvio. Lo fanno per farsi grandi riprendendosi anche con gli smartphone, creando storie sui social che poi si cancellano nel giro delle 24 ore». A rivelarlo è M. L., 43 anni, un piccolo imprenditore del Labaro, quartiere a nord di Roma, le cui figlie, una sedicenne e l’altra ventenne, il sabato sera frequentano la zona dei locali non distante da Corso Francia. La più piccola è in contatto con la comitiva delle due liceali travolte e uccise una settimana esatta fa mentre attraversavano lo stradone con il semaforo pedonale rosso. L’uomo ha un nodo alla gola mentre parla ma lo fa con coscienza, per mettere sul chi-va-là gli altri genitori, per esortarli a seguire ancora meglio i figli e impedire loro che commettano «qualche altra bravata tanto pericolosa fino alla morte». «Quando domenica mattina - dice l’imprenditore - appresa le terribile notizia ho chiesto a mia figlia più piccola e a una sua amichetta che la sera prima erano state a Ponte Milvio “ma com’è possibile che sia successa una disgrazia del genere?” loro non erano affatto stupite. Anzi, mi hanno risposto: «Ma è il giochino, lo fanno tutti”». Il genitore non sa dire se anche Camilla e Gaia si fossero lanciate su Corso Francia per sfidare la sorte l’altro sabato notte quando il Suv le ha travolte, ma non si sente di escluderlo del tutto. «Quando gliel’ho chiesto a mia figlia, lei mi ha detto che era già andata via da Ponte Milvio a quell’ora, ma ha aggiunto che “lo fanno tutti, sempre”.
Incidente Roma, il regista Paolo Genovese aveva chiesto di incontrare i genitori di Gaia e Camilla. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. Ventiquattr’ore dopo l’incidente di corso Francia, a Roma, il regista Paolo Genovese ha sentito il bisogno di incontrare i genitori delle due ragazze. Un gesto di umanità per il quale il regista si è consigliato con il difensore del figlio Pietro, l’avvocato Gianluca Tognozzi. Nel timore di irrompere goffamente nelle vite straziate dei von Freymann e dei Romagnoli, genitori di Gaia e Camilla, ha chiesto al legale quale fosse il modo migliore per far sentire la propria vicinanza alle famiglie. La conferma di questa circostanza viene ora da entrambi gli avvocati, quello che assiste i Romagnoli, Cesare Piraino, e l’altro, Giovanni Maria Giaquinto, che da poco ha rinunciato ad assistere la mamma di Gaia (al suo posto è subentrata l’ex ministra Giulia Bongiorno): «Il regista — spiega Piraino — avrebbe voluto un incontro ma emotivamente non era il momento adatto, abbiamo risposto che una lettera sarebbe stata la benvenuta». L’incontro, forse, avverrà dopo i funerali. L’interrogatorio di Pietro Genovese — agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio stradale — è stato fissato per il 2 gennaio. In attesa dei nuovi passi dell’inchiesta trapela la volontà della famiglia von Freymann di approfondire alcuni aspetti della dinamica dell’impatto, svolgendo indagini di parte. Tutti i testimoni già ascoltati dalla polizia municipale hanno raccontato che le due ragazze hanno attraversato con il semaforo rosso e non erano sulle strisce pedonali. Su questo aspetto le dichiarazioni sono convergenti e sono confluite nell’ordinanza di misure cautelari: «Le ragazze — dice Jacopo Daliana — hanno attraversato in mezzo alla strada, hanno scavalcato il guard rail cercando di andare verso via Flaminia». Parole che trovano conferma nella ricostruzione di Orlando Townshend: «Alle ore 0.15 circa mi trovavo a bordo della mia macchina, al semaforo di Corso Francia in direzione Flaminia nuova, in corrispondenza del supermercato Conad. Mentre ero fermo al semaforo rosso, notavo due ragazze attraversare la strada in maniera frettolosa incuranti del semaforo rosso quando, ad un tratto, vedevo un’auto di colore grigio che correndo a gran velocità travolgeva le due ragazze». Le famiglie delle vittime non credono a un comportamento incauto delle ragazze. Ma d’accordo con gli altri due, c’è un terzo passante, David Mosche Rubin: «All’altezza dello svincolo della tangenziale notavo due ragazze che attraversavano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali». Per rispondere a tutte le domande che riguardano la dinamica dell’incidente — velocità dell’auto, punto di impatto, attraversamento della strada — i magistrati Roberto Felici e Nunzia D’Elia, hanno intenzione di incaricare un consulente e intanto si preparano all’interrogatorio di garanzia dell’indagato. «Pietro Genovese vuole parlare ma è ancora sotto choc — spiega l’avvocato Tognozzi — decideremo quel giorno se sarà nelle condizioni di rispondere alle domande del gip».
Dagospia il 28 dicembre 2019. Ultimi ciak per “Supereroi”, il nuovo film di Paolo Genovese con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Greta Scarano, Vinicio Marchioni, Linda Caridi ed Elena Sofia Ricci. Il nuovo film del regista di “Perfetti Sconosciuti”, venduto in oltre 40 paesi e con 25 remake in lavorazione, sarà distribuito all’estero da True Colours con il titolo di “Superheroes”. È la storia di una giovane coppia (Borghi e Trinca) che si innamora e lotta per tenere viva la relazione tra tenerezze, discussioni, bugie e segreti. Un dramedy sentimentale sul tempo che passa e gli effetti sulle coppie, che parte da un interrogativo: “Quanti superpoteri deve avere una coppia per resistere al tempo che passa?”. Le riprese del film sono iniziate il 5 settembre scorso. “Supereroi” uscirà nella seconda metà del 2020 distribuito da Medusa che produce con Lotus Production, una società di Leone Film Group.
I genitori delle vittime «La giustizia va avanti è una buona notizia, ma abbiamo perso tutto». Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Caccia. La notizia dell’arresto di Pietro Genovese si sparge nella chiesa del Preziosissimo Sangue, alla Collina Fleming, alle sette di sera, quando è appena finita la veglia di preghiera per Gaia e Camilla. La mamma di Gaia, la signora Gabriella, circondata dall’affetto di tanta gente, ha come un sussulto: «Gli hanno dato i domiciliari? Meritava sicuramente qualcosa di più, ci ha portato via due angeli, comunque è una buona notizia...». La signora Gabriella dice pure che in tutti questi giorni la famiglia dell’investitore non si è mai fatta viva con lei: «Ma va bene così — taglia corto con dignità — quel ragazzo rimane un disperato». Anche il papà di Camilla, il signor Marino, riesce a dire qualcosa mentre la moglie Cristina, la mamma di Camilla, piange tra le braccia dei familiari: «Non mi cambia niente che l’abbiano arrestato — dice Marino Romagnoli —. La verità è che Camilla aveva ancora tanto da darmi e invece adesso siamo ridotti così, non m’importa niente lui, il mio cuore è tutto con Camilla e con Gaia, cosa posso dire? La giustizia va avanti...». La chiesa del Preziosissimo Sangue, dove questa mattina alle 10. 30, verranno celebrati i funerali congiunti di Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, è gremita. Dentro ci sono almeno 300 persone. Il coro canta: «Tu sei bellezza, tu sei purezza, misericordia Gesù». Ci sono tutti i compagni di classe delle due ragazze, gli studenti della Terza C del liceo linguistico De Sanctis. Quando sanno dell’arresto di Genovese, Benedetta e Isabella, le amiche del cuore di Gaia e Camilla, scoppiano a piangere. Sembra, il loro, un pianto di rabbia mista a consolazione. É una notizia che non s’aspettavano: sono arrivate in chiesa dopo aver finito di preparare i due cartelloni, con le foto e le firme di tutta la classe, che questa mattina sistemeranno accanto alle bare per poi lasciarli in ricordo ai genitori delle due amiche di scuola. «La tua risata che riempiva la stanza ora ci rimbomba nel cuore», è la dedica per Gaia. Quella per Camilla recita così: «E voglio ricordarti come’eri, pensare che ancora sorridi». Hanno riempito i cartelloni di foto fatte insieme, di pensieri: «Dolcezza infinita», «Per sempre con noi nei nostri cuori». Don Marco Zaccaretti, il viceparroco, durante la veglia invoca la Madonna: «Anche tu Maria perdesti un figlio sulla Croce, ora intervieni, porta subito Gaia e Camilla in Paradiso, le loro mamme sono sconvolte, la loro fede sta vacillando. Aiutale, Maria, a ritrovare il dono della fede». Oggi, per i funerali, le due famiglie hanno chiesto rispetto: non vogliono in chiesa telecamere nè autorità. Le due ragazze, dice don Marco, saranno sepolte nel cimitero di Prima Porta. Al rientro a scuola, dopo la Befana, ci saranno degli psicologi a supportare i ragazzi della Terza C. «Siamo rimasti in 17, 6 maschi e 11 femmine», dicono Benedetta e Isabella che da domenica scorsa passano la maggior parte del tempo a Corso Francia vicino al luogo dell’incidente, dove fiori e peluche non si contano più. Per l’ultimo dell’anno i compagni della Terza C hanno deciso una cosa: lo passeranno tutti insieme a casa di Cristina, una di loro, alla Collina Fleming. Perché questo, più di ogni altro, è il momento di stare uniti, di non perdersi, di darsi una mano per andare avanti.
L'addio a Gaia e Camilla, parla l'amica Cecilia: "Anche io ho sfidato la sorte su quella strada". La testimonianza di una compagna di scuola: "Tanti ragazzi attraversano Corso Francia fuori dalle strisce rischiando la vita, pensi sempre di farcela". Maria Novella De Luca il 28 dicembre 2019 su La Repubblica. "Vado lì ogni giorno. Accanto a quel guardrail pieno di fiori. Mi siedo e penso a Gaia. Alla mia amica che non c'è più. Ai nostri giorni insieme. E rifletto su quanto siamo incauti noi ragazzi. Perché sì, anche io ho attraversato Corso Francia di notte, correndo, fuori dalle strisce pedonali e con il semaforo verde per le auto. Rischiando la vita". Cecilia ha sedici anni, l'identica età di Gaia Von Freymann, amiche fin da piccole, poi compagne di classe alle scuole medie: "Andavamo alla Nitti, sempre qui, al Fleming". Poi Gaia aveva scelto il liceo linguistico e Cecilia, invece, lo scientifico, al liceo "Farnesina", poco lontano, stesso quartiere, stessi luoghi d'incontro, stesse serate nella movida di Ponte Milvio. Cecilia si ferma davanti alla chiesa, alla fine del funerale. È alta, bella, semplice. "Vorrei che fosse soltanto un brutto sogno", dice.
Cecilia, quindi è vero, attraversare in quel punto così pericoloso è un'abitudine?
"Sì, purtroppo. L'ho fatto anche io. Prendi la rincorsa, scavalchi il guardrail e corri più veloce che puoi dall'altra parte".
Perché? Pochi metri più avanti c'è il semaforo, le strisce pedonali.
"Forse perché abbiamo sedici anni? Per fare più in fretta a raggiungere i tuoi amici, per non fare tardi sulla via del ritorno a casa. O forse e lo so che è stupido, perché è divertente".
Nessuna paura di finire sotto una macchina?
"Pensi sempre che se guardi bene a destra e a sinistra, e corri forte, dall'altra parte ci arriverai".
È una sfida?
"No, è una leggerezza, un azzardo. Finora nessuno dei miei amici aveva avuto un incidente".
Però Gaia e Camilla sono morte.
"Una catena di disgrazie. Che ha coinvolto tre famiglie. Anche quella di Pietro. È vero andava veloce, ma pioveva a dirotto e nessuno su Corso Francia rispetta i limiti di velocità. Noi che abitiamo in questo quartiere lo sappiamo".
Dopo questa tragedia cambierà qualcosa?
"Lo spero. Non si può morire così. Quando quella mattina mia madre mi ha svegliato, dicendomi che Gaia era morta travolta da un'auto su Corso Francia, ho capito subito dove era avvenuto l'incidente. Ho tremato. Sarebbe potuto accadere a me. Vorrei che nessuno togliesse più i fiori e gli striscioni da quel guardarail".
C'è scritto: "Ciao angeli".
"Oggi Gaia e Camilla sono due angeli. Ma è assurdo che debbano morire due ragazze, per insegnare a noi adolescenti a non rischiare la vita".
Forse, però, se Pietro Genovese non fosse andato così veloce...
"Forse Gaia e Camilla si sarebbero salvate. Erano due ragazze serie, sagge, mi chiedo perché non sono andate ad attraversare sulle strisce. E comunque tutti continuano a correre. Il giorno di Natale, mentre ero lì pensando a Gaia e Camilla, una moto ha fatto un'impennata davanti ai miei occhi".
Come vivi il tuo dolore?
"Resterò segnata per sempre, lo so. Con Gaia ho passato anni e anni in classe, nel banco accanto. Continuavamo a uscire insieme. Non è giusto morire a sedici anni, con tutto il futuro davanti. Camilla e Gaia non ci sono più e Pietro avrà il rimorso per sempre. Quella notte sono state distrutte tre vite".
L'ultimo giochino del semaforo: "Correre tra le auto che sfrecciano". Il racconto choc di un padre: "Lo fanno tutti. I ragazzini sfidano la sorte pur di apparire grandi e postare i video sui social". Luca Sablone, Sabato 28/12/2019, su Il Giornale. "Giochino del semaforo". Si chiama così l'ultima sfida che sta spopolando tra gli adolescenti: consiste nell'attraversare "le due carreggiate di Corso Francia veloci mentre per i pedoni è rosso e per le auto che sfrecciano è verde, sfidando la sorte". Una vera e propria follia, in auge tra i ragazzini che rischiano la morte pur di "farsi grandi riprendendosi anche con gli smartphone, creando storie sui social che poi si cancellano nel giro delle 24 ore". A svelarlo è M.L., padre di due figlie di 16 e 20 anni. Quest'ultima - che ha studiato in un liceo di zona - avrebbe confermato l'esistenza di quella che sarebbe "una specie di insensata roulette russa praticata anche di giorno da interi gruppo di ragazzini". All'uomo sono venuti i brividi quando ha appreso la notizia della tragedia che ha coinvolto Camilla e Gaia, ma a rendere il fatto ancora più scioccante è che le sue due figlie non erano affatto sorprese da quanto accaduto: "Anzi, mi hanno risposto: "Ma è il giochino, lo fanno tutti". Io sono rimasto sconvolto da queste parole". Perciò il 43enne, intervistato da Il Messaggero, ha deciso di uscire allo scoperto per "mettere in guardia tutti gli altri genitori, perché i nostri ragazzi adolescenti ci guardano come una sorta di cerberi, dei nemici e spesso siamo gli ultimi a sapere le cose".
"Bravate fino alla morte". Non sarebbe dunque un episodio singolare. Recentemente il passeggero di un auto, che stava passando su Corso Francia a velocità moderata, ha filmato due ragazzini sui 17 anni che - subito dopo aver scavalcato il guard rail centrale - corrono tra le auto che sfrecciano. Il tutto mentre le strisce pedonali sono poco distanti. M.L. mentre parla ha un nodo alla gola, ma decide di continuare a farlo per responsabilizzare anche i genitori: il fine è quello di impedire ai proprio figli di commettere "qualche altra bravata tanto pericolosa fino alla morte". Il padre si è però messo anche nei panni di Pietro Genovese: "È passato con il verde e ha la vita rovinata comunque. Come a lui potrebbe capitare ad altri di vedersi sbucare ragazzini che attraversano la strada correndo, magari solo per gioco". L'uomo ha puntato il dito pure contro i gestori dei locali, che spesso servono da bere alcolici anche ai minorenni: "Sono tanti, mia figlia mi ha spiegato che sui gruppi social delle comitive girava voce che quella sera in pizzeria anche al gruppo di Gaia e Camilla avessero dato alcolici. Se così fosse, è gravissimo".
Incidente Corso Francia: che cos’è il giochino del semaforo rosso. Laura Pellegrini il 28/12/2019 su Notizie.it. Tra i ragazzi che frequentano la zona di movida di Ponte Milvio a Roma è in voga un “giochino del semaforo rosso” che potrebbe aver causato la morte di Gaia e Camilla. Infatti, all’indomani dei funerali delle due giovani 16ennni amiche per la pelle, è emerso un nuovo dettaglio. Un imprenditore intervistato da il Messaggero, infatti, ha spiegato come funziona questo presunti gioco. I ragazzi dovrebbero attraversare la strada correndo con il semaforo rosso mentre le macchine sfrecciano a grande velocità. Mentre si cimentano in quest’impresa alquanto pericolosa, inoltre, i giovani vengono filmati. Il video finisce infine sui social. Un imprenditore di 43 anni intervistato dal Messaggero ha rivelato un dettaglio che si nasconde dietro all’incidente di Corso Francia. “Lo chiamano il giochino del semaforo rosso – ha spiegato – e quando mia figlia e la sua amichetta me lo hanno raccontato dopo la morte di Camilla e Gaia, mi sono venuti i brividi”. Un gioco davvero pericoloso: “Si tratta di attraversare le due carreggiate di Corso Francia veloci – ha proseguito ancora – mentre per i pedoni è rosso e per le auto che sfrecciano è verde, sfidando la sorte. Un gioco folle del sabato sera e non solo, in voga tra i giovanissimi di Ponte Milvio. Lo fanno per farsi grandi riprendendosi anche con gli smartphone, creando storie sui social che poi si cancellano nel giro delle 24 ore”. Anche Cecilia, un’amica di Gaia, ha confessato di divertirsi con quel gioco pericoloso: “Sì, anche io ho attraversato Corso Francia di notte, correndo, fuori dalle strisce pedonali e con il semaforo verde per le auto. Rischiando la vita”. Come si svolge concretamente? “Prendi la rincorsa, scavalchi il guardrail e corri più veloce che puoi dall’altra parte” ha raccontato la 16enne. I ragazzi sanno che è pericoloso, ma lo fanno forse perché è stupido (come dice Cecilia), forse perché è divertente, o forse perché hanno solo 16 anni. “Pensi sempre che se guardi bene a destra e a sinistra e corri forte dall’altra parte ci arriverai” ha aggiunto ancora la ragazza. “Finora nessuno dei miei amici aveva avuto un incidente”.
Faccio un appello agli amici: aiutateci, dissuadete i vostri amici quando stanno per fare una sciocchezza che può costare la vita. Alberto Pellai il 26 dicembre 2019 su Famiglia Cristiana. L’incidente di sabato notte che ha travolto Gaia e Camilla, le due sedicenni romane, rimaste uccise su Corso Francia a Roma, fa entrare noi genitori in uno stato di angoscia che non ha confini. Ogni volta che vediamo figli di altri genitori, ai quali il destino riserva una morte così atroce e assurda, non possiamo non sentirci chiamati in causa ed empatizzare immediatamente con il loro dolore infinito. Se non conosci quello strazio che ti uccide il cuore, quando muore un figlio, puoi solo immaginare quanto tremendo possa essere. Chi lo vive, dice che si fa persino fatica a trovare la forza di continuare a respirare. Ci sentiamo sconvolti perché sappiamo che potrebbe capitare ai nostri figli, in ogni istante. E’ questo il primo pensiero che ci viene in mente. E allora leggiamo senza soluzione di continuità, le notizie che i media ci forniscono per capire se davvero è tutta colpa del destino, oppure se c’è qualche elemento cui possiamo aggrapparci per dire ai nostri figli: “Fate attenzione”, per fornire loro competenze che gli evitino (e ci evitino) l’eventualità più tremenda che la vita può far accadere ad una famiglia: perdere un figlio. La vicenda di sabato notte a Roma è piena di elementi prevenibili, su cui però tutti i protagonisti sono andati via “scialli” (come dicono loro). Le ragazze sono state travolte, perché (sembra, in base a quanto riportato dai media) hanno attraversato col semaforo rosso, in una notte buia e piena di pioggia su una strada caratterizzata dall’alta velocità delle auto che la percorrono. Il ragazzo che le ha travolte era un neopatentato che (sembra, sempre in base a quanto riportato dai media) si trovava al volante dopo aver consumato bevande alcoliche e sostanze ad azione psicotropa. La responsabilità del guidatore perciò sembra accertata e gravissima. La leggerezza con cui le due giovani vittime hanno affrontato un attraversamento stradale sembra essere un co-fattore di non trascurabile importanza che ha contribuito a questa immane tragedia. E’ chiaro che se adesso i protagonisti potessero tornare indietro nel tempo, ognuno di loro rivivrebbe gli eventi del proprio sabato sera in modo completamente differente. Ma il destino quasi mai offre una seconda opportunità. Almeno non in questo caso. Sono più che certo che i genitori dei tre giovanissimi coinvolti abbiano provato nel corso della loro crescita a seminare nei figli tutte quelle informazioni preventive che sabato sera loro hanno sistematicamente disatteso. Da quando un bambino ha 3 anni gli insegniamo a non attraversare col rosso, a fare attenzione quando si muove su una strada affollata. Non c’è mamma o papà che non lo faccia. E quando poi i nostri figli diventano maggiorenni, nessun adulto mette nelle loro mani le chiavi di un’auto, senza aver prima fatto un milione di raccomandazioni. Purtroppo i nostri figli non fanno quello che “sanno”. Il fatto che noi adulti gli diciamo le cose giuste, non è garanzia che loro poi le mettano in atto. Penso che la vera rivoluzione possa avvenire solo se, all’interno del loro gruppo dei pari, ci sono altri amici e amiche che sanno rinforzare il messaggio preventivo promosso in famiglia. Che sanno diventare veri e propri “educatori tra pari”, amplificando il ruolo educativo di noi adulti, che senza tregua e, a volte, con ansia e preoccupazione, continuiamo a fargli ascoltare dalle nostra voce tutto quello che vorremmo fossero in grado di mettere in atto, quando si muovono nel mondo. Per essere educatori tra pari, bisogna credere che la prevenzione è un valore, che la vita è un valore, che la leggerezza di un istante non è tollerabile, nemmeno, appunto, per un solo istante. Bisogna rimanere concentrati su se stessi e sugli altri, bisogna saper alzare lo sguardo su tutto ciò che ci circonda, bisogna avere “vagonate” di quelle che Howard Gardner, definisce “intelligenza intrapersonale” (conosci te stesso) e “intelligenza interpersonale” (conosci gli altri), i due ingredienti cruciali per il successo delle nostre vite. Purtroppo i ragazzi sono “fisiologicamente fragili” rispetto a tutte queste dimensioni. Ma sono anche “culturalmente fragili” rispetto a ciò, perché non sposano i principi della prevenzione, non alzano lo sguardo e sono spesso incitati a sposare fin da giovanissimi la cultura del “chissenefrega”. La sentono decantata in ogni dove. Ma quella sorta di menefreghismo e nichilismo in cui vivono immersi è ciò che poi all’improvviso, genera risvegli terribili. Come quello che abbiamo vissuto tutti, domenica mattina, quando i media hanno cominciato a parlarci di Camilla, Gaia e Pietro. Io metto i loro tre nomi, uno a fianco dell’altro. Anche se Pietro è vivo, sono più che certo che i suoi genitori soffrono dello stesso dolore di quelli di Camilla e Gaia. Mi unisco – e penso di interpretare lo spirito di tutte le mamme e i papà che leggono – anzi, ci uniamo al loro fianco. E dentro a quel dolore che sembra non avere confine, piangiamo con loro. Speriamo che i nostri figli, guardando le nostre lacrime, comprendano che, quando gli diciamo cosa è bene fare e perché, non lo facciamo perché siamo spinti dal desiderio di essere rompiscatole. E speriamo che imparino anche loro ad essere un po’ più “rompiscatole” con se stessi e con i loro amici, ogni volta che, nella leggerezza, assumono un rischio – grande o piccolo che sia – che può valere una vita.
Gaia e Camilla, dal gioco del semaforo (smentito) al telefonino di Genovese: cosa sappiamo. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. È passata una settimana dalla morte di Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, le studentesse sedicenni del liceo De Sanctis, alla Collina Fleming, travolte e uccise dal suv guidato da Pietro Genovese, figlio 20enne del regista Paolo, ora agli arresti domiciliari per omicidio stradale plurimo. Il ragazzo, al quale è stato rilevato un tasso alcolemico di 1.4 — tre volte superiore ai limiti di legge — e la positività agli stupefacenti, sarà sottoposto il prossimo 2 gennaio all’interrogatorio di garanzia davanti al gip. Una vicenda che a Roma e non solo, dopo la storia dell’omicidio di Luca Sacchi all’Appio Latino, con la posizione della fidanzata Anastasiya Kylemnyk ancora al vaglio di chi indaga, ha impressionato l’opinione pubblica per il coinvolgimento anche in questo caso di giovanissimi.
Ma cosa si sa di questa vicenda e cosa ancora non è chiaro?
I fatti. Alle 24.30 della notte del 21 dicembre scorso Pietro Genovese sta riaccompagnando a casa i suoi amici e coetanei Davide Acampora e Tommaso Edoardo Luswergh dopo una cena con altri ragazzi. È al volante di una Renault Koleos - per la quale è abilitato alla guida - quando a corso Francia, poco prima del cavalcavia di via del Foro Italico, investe le due ragazze. Gaia e Camilla tornavano invece da ponte Milvio dove avevano trascorso la serata con amici. Pioveva, la visibilità non era ottimale. L’impatto è devastante: colpite in pieno dal suv, le giovani vengono proiettate a decine di metri. Inutili i soccorsi. Genovese percorre ancora 250 metri, poi il suv si ferma da solo, perché fuori uso, sulla rampa che conduce verso via del Foro Italico, direzione Parioli. Le analisi alle quali viene sottoposto al Policlinico Umberto I evidenziano presenza di alcol nel sangue, peraltro già accertato dai vigili urbani che hanno parlato di «alito vinoso» al momento del loro arrivo sul luogo dell’incidente. Sei giorni più tardi, il gip Bernadette Nicotra accoglie la richiesta di arresto del pm Roberto Felici e dispone i domiciliari. Sulla decisione pesano anche i precedenti amministrativi del ragazzo: la patente sospesa a ottobre per trenta giorni dopo essere stato sorpreso con dosi di hashish, ma anche altre due segnalazioni alla guida.
Le versioni. Fin dall’inizio Genovese ha riferito di non aver visto le ragazze e di non averle potute evitare. Ricostruzione confermata dal suo amico Acampora, che gli sedeva accanto sul suv. Dagli accertamenti dei vigili urbani, Gruppo Parioli, è emerso che prima dell’investimento il conducente di un’altra vettura si era invece fermato per far passare Gaia e Camilla già in mezzo alla strada: le giovani avevano cominciato ad attraversare nonostante il semaforo pedonale fosse sul rosso. Non è chiaro a che altezza però: per un testimone si trovavano sulle strisce pedonali, per altri invece all’altezza della rampa per via del Foro Italico (ma in direzione stadio Olimpico), dopo aver scavalcato un basso guard rail. Per il gip Nicotra da una parte le giovani hanno tenuto «una condotta vietata, incautamente spericolata, così concorrendo al sinistro stradale», ma dall’altra Genovese - al quale il gip non contesta comunque l’assunzione di stupefacenti prima di essersi messo al volante - «ha la responsabilità prevalente nella causazione dell’evento stradale mortale. Il giovane ha percorso il tratto interessato omettendo colposamente di osservare la dovuta diligenza e la comune prudenza che si richiede a ogni automobilista». Senza contare che fra i testimoni diretti dell’investimento c’è chi ha riferito che il suv viaggiava «a gran velocità», «verosimilmente di gran lunga superiore al limite massimo consentito (50 km/h)», sottolinea ancora il giudice. In attesa dell’analisi del telefonino sequestrato a Genovese e delle perizie tecniche sull’auto, si indaga anche sul motivo che potrebbe aver spinto la ragazze a non attraversare sulle strisce e con il semaforo verde un’arteria ad alto scorrimento, dove i residenti da tempo richiedono l’installazione di autovelox e dissuasori. Sembra, ma serviranno altri accertamenti, che le ragazze abbiano tagliato a piedi passando sotto la rampa per attraversare corso Francia in direzione della Collina Fleming, dove abitavano, senza arrivare fino alle strisce pedonali. Le indagini su questo punto sono però tuttora in corso. Intanto l’avvocato Cesare Piraino, legale della famiglia Romagnoli sottolinea: «Teniamo a dire che è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l’abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato. Abbiamo anche contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione scientifica degli eventi complessi e drammatici, al fine di avere, quando sarà possibile, una ricostruzione, appunto, scientifica del drammatico incidente».
Liana Milella per la Repubblica il 29 dicembre 2019. «C'è solo un' esigenza, fare il processo il più in fretta possibile. Ma ora non si può anticipare la condanna ricorrendo al carcere». È questo il parere del costituzionalista Gaetano Azzariti sull' arresto di Pietro Genovese.
Una misura giusta?
«C'è da tenere presente che le misure cautelari, come gli arresti domiciliari, sono stabilite per esigenze diverse da quelle legate alla pena comminata per i fatti commessi. Sarà il processo a definire le sanzioni penali.
In questo caso più delle misure cautelari, che non possono essere un modo per anticipare la condanna, sarebbe auspicabile un rapidissimo processo, tanto più che non vedo esigenze istruttorie che possano ritardarne lo svolgimento».
Ritiene che non ci siano presupposti per l' arresto?
«Quelli possibili sono tre. Il primo è il pericolo di inquinamento delle prove, e nel caso di un incidente automobilistico come questo gli accertamenti probatori (le analisi del sangue per verificare lo stato del conducente) e i rilievi della polizia stradale, si sono già svolti. Il secondo è il pericolo di fuga che normalmente, nel caso di un incensurato e in assenza di altri indizi che possono far ritenere effettivo il rischio di un allontanamento, non dovrebbero essere ritenuti sussistenti. Infine il terzo presupposto: la reiterazione del reato, che secondo il gip sono alla base della misura adottata. Ma che a me non convince».
Secondo lei non ci potrebbe essere il rischio di ripetere il reato? Un giudice può sentirsela di escluderlo a priori?
«L' opinione del giudice si fonda sul fatto che al giovane era stata ritirata la patente di guida. Non ne conosco le ragioni, ma, a meno che non fosse per un altro incidente automobilistico, non mi sembra che ciò dimostri una propensione a condotte analoghe. Soprattutto mi sembra difficile immaginare, com' è stato riportato, che dopo un trauma del genere un giovane incensurato possa reiterare il reato mettendosi "alla guida di autovetture di amici o conoscenti anche senza patente e porre in essere condotte gravemente colpose in violazione delle norme della circolazione stradale compromettendo così la propria e l' altrui incolumità"».
Non pensa che un omicidio così meriti comunque di tenere il responsabile almeno ai domiciliari?
«Le ripeto che gli arresti domiciliari non possono anticipare la condanna. Un omicidio così merita che il processo sia svolto il più rapidamente possibile per rendere giustizia».
Scatola nera, droga test, telefonini e telecamere: sarà scontro tra perizie. Chi stava in auto con Genovese gli avrebbe urlato di fermarsi dopo il terribile impatto. Stefano Vladovich, Lunedì 30/12/2019, su Il Giornale. La lettura della «scatola nera», i test tossicologici, le riprese delle telecamere, l’analisi dei telefonini. Sul drammatico incidente in cui hanno perso la vita le 16enni Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann si preannuncia una battaglia legale senza precedenti. Una guerra delle perizie, da quelle disposte dal gip Bernadette Nicotra a quelle ordinate dalle famiglie coinvolte, i Romagnoli, i von Freymann e i Genovese. Pietro, alla guida del grande Suv di papà Paolo, o meglio intestato a una sua società cinematografica, era in grado di vedere in tempo le due adolescenti mentre attraversavano corso Francia? Il suo stato di alterazione psico fisica, vale a dire il vino bevuto con gli amici e le varie droghe assunte, sono state determinanti sui suoi tempi di reazione? E la velocità dell’auto, ben oltre i limiti imposti dal codice e dal buonsenso (pioveva e non si vedeva nulla), era tale da rendere impossibile la frenata? Non solo. Gli esperti della Procura e delle parti coinvolte dovranno dimostrare quanto abbia influito, di fatto, il «cono d’ombra», cioè il buio pesto sulla carreggiata nel punto del drammatico impatto. Anche se, va detto, la Smart guidata da David Rubin Mosche si ferma davanti alle 16enni nonostante ci siano le stesse condizioni stradali, bagnato e buio. In attesa delle dichiarazioni di Genovese, il prossimo 2 gennaio davanti al pm, parlano i passeggeri. Sono i due giovani a dire, urlando, di fermarsi dopo l’urto. Lo avevamo già scritto ieri, a parlare per primo, preso a sommaria informazione dai vigili urbani del gruppo Parioli, è Davide Acampora. Il ragazzo sulle prime non vuole collaborare, probabilmente è sotto choc per l’accaduto, poi racconta di aver visto le due sagome volare in aria e il crossover spegnersi sulla rampa di accesso all’Olimpica. Poi ci sarebbero le parole di Tommaso Edoardo Fornari Luswergh. Dopo una settimana anche Fornari racconta delle urla all’interno dell’auto subito dopo, e non prima, dell’incidente. Dunque Pietro Genovese, sconvolto e poco reattivo a causa della sbronza (il tasso alcolemico era 1,4 mg/litro, tre volte tanto il massimo consentito), non si sarebbe fermato? Voleva fuggire, omettendo il soccorso, nonostante l’urto violentissimo? Di certo non è lui a prestare aiuto per primo, anche se gli agenti lo trovano sul posto quando arrivano. Lo racconta il gestore della bisteccheria di fronte, Alessio Ottaviano, del «T Bone Station». Fornari Luswergh, seduto sul sedile posteriore, sta chattando con il telefono. Sente lo schianto, vede persino il cofano sollevarsi, poi urla anche lui di fermarsi. Tutto inutile. Camilla e Gaia sono morte, gli arti devastati dal forte impatto, il sistema di sicurezza della macchina in pochi istanti si attiva e «spegne» il motore. L’auto ha percorso 250 metri verso lo svincolo della Tangenziale. Secondo un testimone, Emiliano Annichiarico, «l’auto procedeva a un’andatura esageratamente sostenuta, credo che il conducente abbia tentato di frenare nel momento in cui ha percepito la presenza dei pedoni in quanto la parte anteriore si è lievemente inclinata in basso, malgrado ciò l’impatto è stato inevitabile e violentissimo...». I rilievi dei vigili urbani non avrebbero trovato segni di frenata. Nemmeno le immagini delle telecamere piazzate sul marciapiede (troppo lontane) hanno fornito elementi utili alle indagini. Per i due passeggeri della Koleos l’urto sarebbe stato improvviso e inevitabile. Le vittime sarebbero state coperte alla vista dalle altre auto che sopraggiungevano sulla corsia centrale, alla destra di Genovese. Saranno gli esperti, a questo punto, a ricostruire la dinamica esatta. Ancora da stabilire se il 20enne al volante stesse anche lui chattando quando Camilla e Gaia sono state colpite.
Pietro Genovese, il sondaggio di Antonio Noto: "Tolleranza zero" dopo Roma, cosa farebbero gli italiani. Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2019. Le stragi dei ragazzi sulle strade non si ferma e per contrastarle gli italiani chiedono misure più severe e una maggiore informazione per i ragazzi. Secondo il sondaggio di Antonio Noto pubblicato su il Giorno dopo quanto accaduto a Roma, in corso Francia, dove Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, ha travolto e ucciso con il suo suv due ragazze di 16 anni, Gaia e Camilla, rivela che è favorevole al ritiro della patente a vita per chi causa incidenti il 91 per cento degli intervistati mentre è convinto che l'educazione stradale debba essere obbligatoria nella scuola il 68 per cento (16 contrari). Del resto, scrive Noto, "sballo e rischio stanno diventando sempre più comportamenti e abitudini messi in atto dai ragazzi come collante per stare insieme e trascorrere le serate. Quello che è successo in corso Francia a Roma non è un caso isolato. Secondo i dati del'Aci, nel 2019 hanno perso la vita in seguito a incidenti stradali 3.334 persone, in media 9 morti al giorno. Inoltre sempre l'Aci puntualizza che tra i 15 ed i 24 anni sono morti 414 ragazzi, ben il 12,4% di tutte le vittime di incidenti stradali". Dato ancora più allarmante, "è aumentato addirittura del 26% il numero delle vittime di età compresa tra i 15 ed i 19 anni". Per ridurre il numero degli incidenti, secondo gli italiani, "serve una maggiore informazione da fornire ai giovani circa i rischi che corrono nel mettersi alla guida quando si beve o si assumono sostanze stupefacenti". Questa convinzione, continua Noto, "è generata da un dato allarmante: il 40% dei genitori ritiene che i propri figli possano fare uso di alcol e droga. Il timore maggiormente avvertito è la possibilità di un incidente, indicato appunto dal 67%. Se invece si interrogano i giovani sul consumo di alcolici e droghe leggere lo scenario diventa ancora più allarmante: il 64% dichiara che quando trascorre le serate con amici beve abitualmente alcol fino a sentirsi un po' brillo. A questo si aggiunge che il 62% dei genitori ammette di non essere in grado di controllare i figli per proibire assunzioni di alcol o droghe".
La morte di Gaia e Camilla, l’avvocato dei Romagnoli: “Le ragazze sono passate col verde per i pedoni”. Redazione de Il Riformista il 30 Dicembre 2019. Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due 16enni morte investite a Roma su corso Francia, avrebbero iniziato ad attraversare la strada con il semaforo verde per i pedoni. Ad affermarlo è l’avvocato Cesere Piraino, legale dei genitori di Camilla Romagnoli, in un atto depositato oggi in Procura con cui chiede ai pm di “accertare compiutamente la circostanza“.
Mentre si attende per il prossimo 2 gennaio l’interrogatorio di Pietro Genovese, il 20enne ai domiciliari che ha investito al volante del suo Suv le studentesse, le famiglie delle due vittime stanno provando a smontare l’ipotesi di un attraversamento azzardo di Gaia e Camilla, insistendo sulla responsabilità di Genovese.
IL DOCUMENTO DELL’AVVOCATO – Nell’atto depositato dall’avvocato Piraino si legge che “il semaforo per l’attraversamento pedonale ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell’imminente sopraggiungere del verde per le automobili il caratteristico ‘giallo per i pedoni’ ma prevede che al verde per i pedoni, che dura 26 secondi e mezzo circa, segua soltanto un verde lampeggiante che dura appena tre secondi e 40, a cui segue repentinamente e immediatamente il rosso, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata” scrive il legale. “La circostanza appare determinante sul profilo probatorio – sottolinea- poiché se è vero che il giovane Pietro Genovese sia sopraggiunto su quelle strisce pedonali col verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si sia fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse abbiano iniziato l’attraversamento pedonale con il verde e che si siano imbattute, subito dopo, nel ‘verde lampeggiante’ e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel “rosso” senza poter fare, loro si, null’altro che subire la morte”. “Si chiede e conseguentemente di accertare compiutamente la circostanza il discorso che si ribadisce si ritiene rilevante ai fini probatori e ciò’ all’esclusivo fine dell’accertamento della verità”, conclude il legale.
Incidente Roma, il legale dei genitori: «Gaia e Camilla hanno attraversato regolarmente con il verde». Pubblicato lunedì, 30 dicembre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo e Redazione Online. La ricostruzione del legale dei familiari di una delle 16enni investite apre nuovi scenari: il semaforo pedonale di corso Francia non prevede il giallo. Parla l’avvocata Giulia Bongiorno: «Più rispetto per Gaia e Camilla. Il semaforo pedonale teatro dell’incidente che ha causato lo scorso 21 dicembre la morte di Gaia e Camilla non prevede il giallo per chi attraversa e le ragazze avrebbero iniziato l’attraversamento con il verde per i pedoni. È quanto afferma l’avvocato Cesere Piraino, legale dei genitori di Camilla Romagnoli, la 16enne investita e uccisa a Roma con l’amica Gaia, in un atto depositato lunedì in Procura con cui chiede ai pm di approfondire questo aspetto. Una circostanza definita «determinante sul profilo probatorio» da parte del legale. Il semaforo per l’attraversamento pedonale — ha chiarito l’avvocato — ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell’imminente sopraggiungere» del verde per le «automobili il caratteristico “giallo per i pedoni” ma prevede che al “verde per i pedoni”, che dura 26 secondi e mezzo circa, segua soltanto un “verde lampeggiante” che dura appena tre secondi e 40, a cui segue repentinamente e immediatamente il “rosso”, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata». Secondo il legale, quindi, se è vero che il giovane Pietro Genovese sia sopraggiunto su quelle strisce pedonali con il verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si sia fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse abbiano iniziato l’attraversamento pedonale con il verde e che si siano imbattute, subito dopo, nel «verde lampeggiante» e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel «rosso» senza poter fare, loro si, sull’altro che subire la morte».
Francesco Salvatore per repubblica.it il 30 dicembre 2019. Sarà un processo sulle perizie quello sulla tragedia di corso Francia in cui sono rimaste uccise Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Le perizie della difesa dell'investitore, Pietro Genovese, che proverà a dimostrare che Gaia e Camilla "sono sbucate all'improvviso e che era impossibile evitarle". E quelle dei legali dei familiari delle vittime che proveranno a smentire un azzardo delle ragazze, insistendo sulla responsabilità del giovane automobilista. Una prima carta l'ha già depositata l'avvocato Cesare Piraino, difensore della famiglia di Camilla Romagnoli. È un accertamento tecnico disposto sull'impianto semaforico pedonale in prossimità del punto di attraversamento delle ragazze. Mostra che si passa dal verde al rosso senza il giallo. L'unico avvertimento ai pedoni è un verde che lampeggia per pochi secondi. ""Il semaforo - scrive il legale - per l'attraversamento pedonale ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell'imminente sopraggiungere" del verde per le "automobili il caratteristico 'giallo per i pedonì ma prevede che al 'verde per i pedoni', che dura 26 secondi e mezzo circa, segua soltanto un 'verde lampeggiantè che dura appena tre secondi e 40, a cui segue repentinamente e immediatamente il rosso, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata". Per l'avvocato "la circostanza appare determinante sul profilo probatorio poiché se è vero che il giovane Pietro Genovese sia sopraggiunto su quelle strisce pedonali col verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si sia fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse abbiano iniziato l'attraversamento pedonale con il verde e che si siano imbattute, subito dopo, nel "verde lampeggiante" e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel 'rossò senza poter fare, loro si, sull'altro che subire la morte". In sostanza, secondo l'avvocato, dando per buono che Genovese circolasse con il verde, non è affatto detto che le vittime abbiano attraversato con il rosso. Secondo il legale, infatti, avrebbero iniziato ad attraversare con il verde per loro e lo stop per le auto, ma poi improvvisamente il semaforo avrebbe repentinamente cambiato colore. Si sarebbero trovate così sulla traiettoria dell'auto di Genovese che era nel frattempo ripartito. Tutto in frazioni di secondo, rivelatisi fatali. Lo stesso gip nell'emettere il provvedimento di arresto per Genovese aveva rilevato una discordanza delle testimonianze circa il punto esatto in cui si trovavano le ragazze nel momento in cui sono state travolte. Per un testimone erano sulle strisce, per altri vicino alle strisce. Sono gli stessi che hanno riferito di averle viste scavalcare il guard rail di protezione. Le famiglie delle vittime, attraverso i legali, sono intervenute solo per rimarcare che da parte delle ragazze non vi può essere stato alcun comportamento irresponsabile e gli amici delle vittime sono usciti allo scoperto negando qualsiasi ipotesi di gioco pericoloso. Ora la perizia dell'avvocato Cesare Piraino richiama alla responsabilità, oltre che del conducente dell'auto che ha travolto Gaia e Camilla, anche quella di chi cura la manutenzione della sicurezza sulla strada, scarsamente illuminata e priva di qualsiasi deterrente all'alta velocità.
Da ilmessaggero.it il 30 dicembre 2019. Rallenta per vedere il luogo del tragico incidente in cui sono morte Gaia e Camilla e tampona un'auto della polizia. È accaduto stamattina a Corso Francia a pochi metri di distanza da dove il suv guidato da Pietro Genovese ha travolto e ucciso Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. La macchina della polizia è finita contro il guardrail centrale. Non si registrano feriti. Alla guida della macchina una 82enne che, a quanto ricostruito, si sarebbe distratta per guardare i fiori lasciati in questi giorni sul punto dello schianto per le due ragazze.
Valentina Errante e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 30 dicembre 2019. Sarebbero state d'aiuto per ricostruire i momenti del terribile incidente che, la notte del 21 dicembre scorso, è costato la vita a Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, 16 anni appena. Travolte in Corso Francia dal Suv guidato dal ventenne Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, ora ai domiciliari. Ma le immagini raccolte dagli agenti della polizia locale nei sistemi di videosorveglianza di ristoranti, bar e attività commerciali che guardano proprio il luogo del terribile scontro non hanno dato risposta. Nulla che possa aiutare a rimettere insieme, al netto delle testimonianze raccolte, quei secondi drammatici. Gli agenti del II Gruppo Parioli avevano creduto possibile lavorare quel materiale e dare risposte ancor più precise di quelle che comunque sono in parte arrivate dai primi riscontri. Le due sedicenni in base alle analisi sui rilievi compiuti la notte stessa, suffragate da alcune testimonianze non avrebbero attraversato la strada sulle strisce pedonali, ma poco lontano dallo svincolo per il Foro Italico e piazzale Clodio, dove sono state investite dal Suv di Genovese. Il punto dell'impatto dista meno di 40 metri dalle strisce, ma le due sedicenni non avrebbero raggiunto il semaforo attraversando regolarmente, nonostante amici e compagni di scuola, che comunque non erano con loro quella sera, sostengano il contrario. Gaia e Camilla erano sole, si tenevano per mano e stavano rincasando, considerato l'orario e il maltempo. Forse la fretta di tornare a casa le potrebbe aver spinte ad attraversare quando il semaforo per le auto era ancora rosso o era appena diventato verde senza percorrere le strisce zebrate. Sono state travolte, nonostante l'auto alla destra di quella di Genovese vedendole avesse rallentato. Una scena straziante quella a cui hanno assistito alcuni testimoni come un quindicenne Matteo (lo chiameremo così) che le ha viste volare in aria e ricadere sull'asfalto. È stato lui tra i primi a chiamare i soccorsi. Si trovava sullo stesso lato della corsia ma più vicino alle fermate dei bus in prossimità di un altro semaforo, stava aspettando che diventasse verde per passare, quando è diventato suo malgrado un testimone. Ha raccontato tutto ai vigili urbani della polizia locale intervenuti per i rilievi. Il Suv di Genovese è stato trovato fermo all'inizio della rampa per il Foro Italico, a meno di 200 metri dal punto dell'impatto. Aveva perso la targa anteriore, che poi un passante ha raccolto e consegnato alla polizia. Il veicolo era bloccato: per l'impatto il sistema idrico e di benzina si è arrestato spegnendo il motore. Genovese e i suoi due amici sono scesi. Uno di loro, Davide, è andato subito sulle ragazze, l'altro ha aspettato l'arrivo dei soccorsi. «Sono sbucate all'improvviso è stato impossibile evitarle», ha detto il primo, mentre il secondo, Tommaso, avrebbe urlato a Pietro di fermarsi pochi istanti dopo l'incidente. Entrambi dovranno ora ricostruire di fronte agli inquirenti quei terribili minuti nell'interrogatorio del prossimo 3 gennaio, mentre è atteso per giovedì quello di Genovese. Il ragazzo, dopo l'incidente, è stato condotto in ospedale per le analisi del caso che hanno dato esito positivo in merito all'assunzione di alcol: il tasso era di 1,4 a fronte dello zero previsto. Intanto in Corso Francia pare che nulla sia cambiato, salvo i tanti fiori e biglietti lasciati in ricordo delle due sedicenni. Tra attraversamenti selvaggi, compiuti a tutte le ore, sfide tra ragazzi, e tamponamenti. Come quello di ieri mattina tra una Toyota e una punto della polizia. Poco dopo le 12 una signora di 82 anni stava per immettersi su Corso Francia dalla Flaminia Vecchia quando, distratta dai fiori lasciati sul guard-rail per Gaia e Camilla, è andata dritta scontrandosi contro un'auto di servizio del commissariato di polizia di zona. Fortunatamente, né la donna né gli agenti a bordo del veicolo hanno subito lesioni.
Maria Novella De Luca per repubblica.it il 30 dicembre 2019. I lumini, i rosari, i biglietti, le foto, i fiori, i giocattoli. Nella notte gelida il guardrail sembra un altare. Strano altare di strada e di sogni spezzati. Gli adolescenti del sabato notte incappucciati in felpe troppo leggere approdano qui, "ciao fra", "ciao sister", vanno, si fermano, tornano, una birra in mano, una sigaretta, sciamano nelle strade delle loro serate dove ogni passo parla di Gaia e Camilla. Avanti e indietro, vai e torna, nella geografia nota di Ponte Milvio, piazza svenduta al divertimento "giovane" di Roma Nord. "Che fai?". "Penso a loro". Tutto è uguale eppure tutto è diverso nel primo sabato sera del "dopo", accanto ai locali oggi c'è il luogo della strage, l'asfalto bagnato di sangue, i sedici anni di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli che non ci sono più, i vent'anni di Pietro Genovese, che piange chiuso in una stanza, da giorni, dopo averle travolte con il suo Suv sette giorni fa. Una ragazza bionda, Paola, compagna del liceo De Sanctis ha portato la chitarra, i fasci dei fari bruciano i limiti su Corso Francia come se nulla fosse accaduto. "Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po'". "Perché Lucio Dalla?". "Perché dà allegria". Bisogna camminare con loro, con Ludovica, Ettore, Ilaria, Benedetta, Martina, avanti e indietro, dall'altare del guardrail al "baretto di Luciano", dalle nove di sera all'una di notte, macinando passi per capire la loro strana preghiera, il loro canto, il loro omaggio alle amiche scomparse. Ogni passo è un ricordo. Una stazione. Giada: "Ecco qui ci fermavamo, qui ci siamo fatte un selfie, qui eravamo felici, qui abbiamo parlato dei nostri amori". "Non le conoscevo ma sono andata a salutarle", racconta Ludovica, mentre beve una birra nel punto più affollato della movida, un bar senza nome, ma tutti sanno che si chiama Luciano, nome del titolare scomparso un anno fa, istituzione di Ponte Milvio, quando era ancora un quartiere popolare. Però. "Non dovevano attraversare lì, mannaggia, perché l'hanno fatto, che cazzata, poveracce". E Pietro? "Pagherà, è giusto, ma come faceva ad evitarle?". Antonio: "È stata tutta una fatalità, loro fuori dalle strisce, lui che correva, oggi sono andato due volte al guardrail, qui in piazza ci conosciamo tutti, erano due brave ragazze, nulla sarà più come prima". Marina: "Non credo sia giusto mandare in carcere il ragazzo del Suv. Perché, perché Gaia e Camilla hanno sfidato la sorte?". Gli adolescenti sono apocalittici e assoluti, per questo, forse, nella notti gelide di queste vacanze senza allegria continuano a tornare su quel pezzo d'asfalto. Fermi là, a chiedersi perché, obbligati a farsi domande da grandi, la morte, la vita, l'esistenza, l'azzardo. Pellegrinaggio profano, irrituale, ma vero, autentico. Verso mezzanotte la piazza che si affaccia sul Tevere è piena, densa di umidità, il ponte dei lucchetti dei libri di Federico Moccia è invece deserto, gli argini bassi, la corrente forte. Qui da vent'anni il venerdì e il sabato "calano" a bordo di mini-car ragazzini non più soltanto di quel quadrante "antropologico che è Roma Nord, (un tempo ricca, un tempo di Destra, oggi mista, come tutto), ma anche frotte di teenager di altri quartieri. Edoardo, 16 anni: "Succede dopo le due. Arrivano quelli della periferia, ti puntano il coltello e si fanno dare l'iPhone o la catenina". Chissà se sono davvero quelli della periferia. Maria Teresa: "Ho l'obbligo di tornare all'una, a notte fonda ci sono risse e liti tra ubriachi". Le scie livide della movida in una città abbandonata al degrado. Ludovica, Ettore, Ilaria vanno e vengono con il bicchiere in mano, vasche su vasche, in una passeggiata infinita. "Birra, cocktail, non c'è problema, nessun locale chiede i documenti ai minorenni". Un fiume di adolescenti, un fiume di alcol. Ovunque è così nelle piazze romane, da Trastevere a Monti, da Campo dei Fiori a Ponte Milvio. Il guardrail davanti al quale sono stati sbalzati i corpi di Gaia e Camilla è un totem, un luogo votivo, lapide di un periodo della vita che non tornerà più. Come l'ultimo messaggio di Camilla alla mamma: "Ciao, sto tornando a casa". Azzurra e Carmine si tengono abbracciati davanti al cumulo di fiori che appassiscono. Hanno acceso un lumino. Il vento scompiglia i ricordi, non c'è riparo. "Il 22 dicembre è andato via un pezzo di noi. A scuola abbiamo studiato una poesia: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera insonne...". L'abbiamo scritta su un foglio per Gaia e Camilla, speriamo che il vento non se la porti via". Cesare Pavese, 1950. "La verità è che ci serve un posto dove piangere", dice Paola, la ragazza con la chitarra, fazzolettone scout al collo. Nella notte gli ultimi accordi sono quelli di "A te" di Jovanotti. "Era la loro canzone".
Valentina Errante per “il Messaggero” il 31 dicembre 2019. «Altre auto, non so dire quante, travolgevano i due corpi» Il mosaico di testimonianze sulla morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, investite a Corso Francia la notte del 22 dicembre, dal Suv condotto da Pietro Genovese, sono univoche. Almeno su questo punto, smentito invece dall' autopsia, a dimostrazione che soltanto le perizie e ulteriori indagini potranno definire con certezza come sia avvenuto l' incidente. I racconti di chi ha assistito all' impatto sono terribili, ma anche contraddittori. Soltanto due, delle otto persone, che sono state ascoltate dalla Polizia municipale subito dopo l' impatto, dicono che Gaia e Camilla stavano attraversando sulle strisce. La stessa tesi dell'avvocato Cesare Piraino, difensore della famiglia Romagnoli, che però ha già avviato le indagini difensive e rilevato che il semaforo di Corso Francia «non prevede, per avvertire i pedoni dell' imminente sopraggiungere del verde per le automobili, il giallo per i pedoni». Per chi attraversa, ha scritto l' avvocato un' istanza al pm Roberto Felici, al verde che dura 26 secondi e mezzo circa, seguono tre secondi di verde lampeggiante e immediatamente il rosso. Una circostanza determinante: le ragazze sarebbero partite con il verde, ma si sarebbero trovate al centro della carreggiata con il rosso. Un dato è certo: Gaia e Camilla, partite per attraversare in modo cauto, dopo la frenata della prima macchina si mettono a correre, non immaginano che possa arrivarne un' altra, nonostante la strada abbia tre carreggiate.
I TESTIMONI. La testimonianza più significativa è quella dei due passeggeri di una Smart che si trova dietro all' auto che, prima dell' impatto, frena per fare passare Gaia e Camilla, limitando così la visuale di Genovese che arriva da sinistra. L' automobilista che si è fermato è andato via e non è stato rintracciato. «Davanti a noi la strada era libera - ha riferito Moshè David Rubin che con la moglie, Joel Zanzuri, ha assistito all' impatto - più avanti più spostata a sinistra un'autovettura di colore grigio e piccole dimensioni stava marciando molto lentamente». «Avevo appena superato con luce verde il semaforo e stavo procedendo verso i Parioli, mi trovavo sulla corsia di centro. Quella di destra in quel momento era libera. Davanti a noi c' era un' autovettura di colore scuro che si è fermata in maniera brusca poco prima della rampa, anch' io ho rallentato, in quel momento mi sono accorto della presenza di due ragazze che, da destra, all' altezza dell' apice del guard rail che delimita la rampa di immissione su via del Foro Italico, stavano iniziando l' attraversamento a piedi, in un punto in cui non vi sono le strisce. Ho intuito che potesse succedere qualcosa di molto grave, infatti dopo pochissimi istanti è sopraggiunta sulla corsia alla mia sinistra un Suv a velocità sostenuta, che ha investito le due ragazze. Una è rimasta a terra sulla corsia centrale, l' altra sulla corsia di sinistra». La signora Zanzuri conferma: «Ho visto davanti a me, all' altezza della rampa, due ragazze che, tenendosi per mano, si immettevano sulla carreggiata da destra verso sinistra, approfittando del fatto che la corsia di destra di Corso Francia, che conduce ai Parioli, non ci fosse nessuno. A quel punto la piccola auto grigia che ci precedeva ha ulteriormente ridotto l' andatura, non so se abbia frenato, comunque ha diminuito la velocità per agevolare il passaggio delle due ragazze». È a quel punto che Gaia e Camilla si mettono a correre: «Hanno proseguito sulla carreggiata, a questo punto, in maniera frettolosa e incauta, senza accertarsi dell' eventuale sopraggiungere di altri veicoli. Nel momento in cui hanno impegnato la corsia di sorpasso sono state colpite da un' autovettura di grosse dimensioni che viaggiava a velocità sostenuta. Le ragazze sono volate in alto e rovinate al suolo più avanti». E la donna aggiunge: «Era verde per i veicoli a una distanza di circa 150 metri dalle strisce». Sono solo due testimoni a sostenere che le ragazze stessero attraversando sulle strisce: un autista Ncc e il conducente di una minicar, entrambi, però, viaggiavano nell' altra direzione di Corso Francia.
LO SHOCK. A sopraggiungere poco dopo è invece un' altra testimone, Marianna Achilli, che si trova davanti i corpi di Gaia e Camilla e sterza per evitarli: «Ero sulla corsia centrale, un po' spostata a sinistra e stava piovendo leggermente, arrivata in prossimità dell' Olimpica, vedevo due oggetti sulla sede stradale, uno sulla parte destra e un altro lo vedevo proprio sulla mia traiettoria. Sembravano delle buste di plastica, grandi e piene. Immediatamente, per evitare di colpire l' oggetto che avevo davanti sterzavo verso destra. Rallentavo perché mi ero messa paura». La donna si ferma, viene raggiunta da un' altra auto e chi è alla guida le dice che si trattava di due persone e non di buste. «Tremavo per la paura».
Valentina Errante per “il Messaggero” il 31 dicembre 2019. Il dolore e la disperazione. Paolo Genovese voleva a tutti i costi comunicare con loro, con i genitori di Gaia e Camilla. Voleva incontrarli. Spiegare che il lutto riguarda anche la sua famiglia, condividere l' angoscia che l' ha stravolta. Ma ha compreso quanto la scelta di quei genitori di rinviare l' incontro fosse giusta, opportuna, perché lo strazio ha anche misure diverse. E la sua sofferenza non conosce il tormento che non avrà più tempo. Perché il suo strazio non è paragonabile a quello di chi, in un istante, ha perso tutto. Gaia e Camilla non ci sono più. Pietro è vivo, anche se la sua vita non sarà mai più la stessa. Eppure non è nulla: quel ventenne, che dovrà fare i conti con il peso della responsabilità, non sarà più quello di prima, Ma è vivo. E la vita è tutto. Il regista, che ha scrutato nelle pieghe dell' animo umano, non ce l' ha fatta a rimanere distante, a non dire quanto profondamente si sentisse protagonista del lutto. Fino a dieci giorni fa, quei genitori, avrebbe potuto incontrarli per caso, condividere con loro ansie e preoccupazioni per il futuro incerto dei figli quasi coetanei. Non è andata così. I destini di quei ragazzi si sono incrociati in una notte di pioggia alla vigilia dell' ultimo Natale. Ha scelto di scrivere, Paolo Genovese. Subito dopo quell' impatto, che ha stravolto per sempre la vita dei Romagnoli e dei Von Freymann, ma anche quella della sua famiglia. Ha cercato le parole adatte per manifestare il dolore, la disperazione, la comprensione e la pietà. Per dire l' indicibile.
LA RISERVATEZZA. Un documento intimo che i legali delle giovanissime vittime e l' avvocato della difesa hanno deciso di non diffondere. Una scelta precisa, che non ha nulla a che vedere con il caos mediatico. Raccontare la pena e il supplizio che hanno travolto anche la famiglia del giovane Pietro non è stato facile. Genovese ci ha provato. Non ha paragonato tragedie così diverse, perché il dolore ha una sua altezza che merita rispetto. Ha solo tentato di esserci, con i pochi strumenti che gli sono rimasti, le parole quelle che, con coraggio, avrebbe voluto dire guardando negli occhi quei genitori disperati. La lettera, una pagina e mezzo è stata recapitata alle famiglie di Gaia e Camilla attraverso i legali. L' incontro, prima o poi, ci sarà. Forse in Tribunale, mentre si annuncia una guerra di perizie, perché la realtà e la vita, alla fine, prendono il sopravvento. Pietro, alla guida di quell' auto che non ha frenato, non si dà pace. Eppure suo padre, mentre parla ai genitori di Gaia e Camilla, sa che un futuro è ancora possibile. Loro, invece, quelle sedicenni ingenue, che correvano per tornare presto a casa, non saranno mai donne. Eterne bambine, composte nelle bare bianche dopo quella notte prima dell' ultimo Natale. Genovese, questo, lo sa.
Giulia Bongiorno, avvocato del caso Genovese: "Se lo sono inventati di sana pianta, chi era veramente Gaia". Libero Quotidiano il 30 Dicembre 2019. Quella di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli è una tragedia, "non una fiction". Giulia Bongiorno, ex ministra della Pubblica amministrazione, è da pochi giorni l'avvocato dei genitori di Gaia, la 16enne travolta e uccisa prima di Natale in corso Francia, a Roma, dal suv guidato dal 20enne Pietro Genovese risultato positivo ad alcol e droga. "Non è un videogioco - ammonisce la Bongiorno al Corriere della Sera, nella prima intervista da quando ha assunto la tutela legale del caso -. Ci sono due ragazze morte, due ragazze in carne e ossa, e quattro genitori che, di fronte a quello che sta succedendo, ogni giorno sentono amplificare il proprio dolore". L'accusa è al sistema dell'informazione: "Si va alla ricerca spasmodica di novità, di dettagli a effetto. Proliferano testimoni mediatici che raccontano fatti spesso in contrasto tra loro. E ogni elemento, nonostante le contraddizioni, viene amplificato come fosse la verità. Con conseguenze gravissime". La Bongiorno lancia un appello: "I tempi della giustizia non sono veloci come quelli delle notizie, che magari poi vengono smentite. Allora resistete alla tentazione di trattare queste ragazze come i personaggi di una fiction". "Fioccano commenti gravemente offensivi non solo nei confronti della famiglia, ma anche delle stesse Gaia e Camilla. C'è chi ha addirittura inventato di sana pianta una sorta di roulette russa stradale. O addirittura ha obiettato che le ragazze non avrebbero dovuto stare in giro a quell'ora, che i genitori avrebbero dovuto controllarle". Ma, spiega, Gaia era "una ragazza gioiosa ed entusiasta, ma anche prudente, matura, precisa. Per esempio, rispondeva sempre subito agli sms dei genitori: non tutti i ragazzi lo fanno". "L'unica volta che non lo ha fatto - conclude la Bongiorno - è stato sabato notte. E per questo suo padre ha capito".
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2019. «Non è un videogioco. Ci sono due ragazze morte, due ragazze in carne e ossa, e quattro genitori che, di fronte a quello che sta succedendo, ogni giorno sentono amplificare il proprio dolore».
Giulia Bongiorno ha assunto la difesa dei genitori di Gaia von Freymann, una delle due sedicenni investite a Roma la notte di sabato 21 dicembre. Un caso che sta suscitando un interesse «morboso» nell’opinione pubblica.
Perché?
«È’ accaduta una cosa devastante: chiunque abbia figli non riesce a pensarci senza piangere. Ma questa tragedia si sta trasformando, giorno per giorno, in una fiction».
Cosa intende?
«Si va alla ricerca spasmodica di novità, di dettagli a effetto. Proliferano testimoni mediatici che raccontano fatti spesso in contrasto tra loro. E ogni elemento, nonostante le contraddizioni, viene amplificato come fosse la verità. Con conseguenze gravissime».
Cioè?
«Fioccano commenti gravemente offensivi non solo nei confronti della famiglia, ma anche delle stesse Gaia e Camilla».
Offensivi?
«Si dice che erano incoscienti prendendo per buone voci tutte da verificare e si dà per pacifico che le ragazze abbiano scavalcato il guard-rail, che abbiano attraversato lontano dalle strisce, a semaforo rosso, che siano state mezze pazze, ormai sembra quasi si siano suicidate».
Del guard-rail lo scrive il gip.
«Ma come primissima ipotesi investigativa, è grave spacciarla come dato di fatto oggettivo: le indagini sono in fase ancora embrionale».
Non è andata così, secondo la famiglia?
«La famiglia si è chiusa nel dolore. Ci saranno le perizie, le immagini delle telecamere che si dice siano state sequestrate. E, anche se non si ritrova nella ricostruzione fatta dal gip, la famiglia attende in silenzio. Questo la dice lunga. Invece c’è chi ha addirittura inventato di sana pianta una sorta di “roulette russa” stradale. O addirittura ha obiettato che le ragazze non avrebbero dovuto stare in giro a quell’ora, che i genitori avrebbero dovuto controllarle».
Invece?
«Erano stra-controllate. Gaia poi, da figlia di genitori separati, aveva un doppio controllo: della madre e del padre. Non le avevano comprato il motorino, né la macchinetta. Del resto, dopo l’incidente stradale del padre, che ha perso l’uso delle gambe, lei era terrorizzata dalle strade.
Era una ragazza gioiosa ed entusiasta, ma anche prudente, matura, precisa. Per esempio, rispondeva sempre subito agli sms dei genitori: non tutti i ragazzi lo fanno. L’unica volta che non lo ha fatto è stato sabato notte. E per questo suo padre ha capito».
Prima di essere avvertito?
«Immediatamente. Quando ha visto che non rispondeva si è precipitato lì. E ha capito che a terra c’era lei. Tanto che, a chi bloccava il transito, ha detto: “Fatemi passare, sono il padre”».
Da Andreotti ad Amanda Knox, non è il primo caso di richiamo mediatico che le capita. Perché lo ritiene diverso?
«Qui si va alla ricerca dell’anomalia. La tragica fine delle ragazze è talmente dolorosa da indurre a cercare un comportamento anomalo quasi per concludere che ai nostri figli non capiterà perché non sono così imprudenti. E allora ogni giorno se ne inventa una. Si rincorre l’ultima voce come fosse una prova e si commenta come se fosse vera. Accrescendo ogni giorno il dolore dei genitori».
Però c’è stata anche tanta solidarietà.
«Tantissima da parte della gente comune. Ma ci sono stati anche commenti violenti».
C’è chi ritiene il reato di omicidio incostituzionale.
«Guidare in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti è una condotta grave che non può essere punita con pene leggere. Ma oggi non voglio parlare del ragazzo che era alla guida, voglio solo lanciare un appello».
Che appello?
«I tempi della giustizia non sono veloci come quelli delle notizie, che magari poi vengono smentite. Allora resistete alla tentazione di trattare queste ragazze come i personaggi di una fiction».
La lettera di Genovese ai genitori di Gaia e Camilla: "Dolore immenso". Avrebbe voluto incontrare i genitori di Gaia e Camilla e parlare con loro. Ha scritto invece una lettera di una pagina e mezzo, recapitata alle famiglie dai suoi legali. Valentina Dardari, Martedì 31/12/2019. Paolo Genovese avrebbe subito voluto parlare con i genitori di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due 16enni investite da suo figlio Pietro in Corso Francia, mentre stavano attraversando, di corsa, mano nella mano. Avrebbe voluto guardarli negli occhi e comunicare loro tutta la sua disperazione, il dolore che sente dentro per quelle vite spezzate. Ha capito poi la decisione presa da quelle madri e quei padri di non incontrarlo, almeno per il momento.
La disperazione di Paolo Genovese racchiusa in una lettera. E ha voluto quindi affidare i suoi pensieri e la sua disperazione a una lettera di una pagina e mezzo, che i suoi legali hanno recapitato alle famiglie. Perché in quella tragica notte, tra sabato 21 e domenica 22 dicembre, sono tre le famiglie a essere state distrutte in una manciata di secondi. Gaia e Camilla non ci sono più, è vero, ma anche la vita di Pietro, suo figlio ventenne, non sarà più la stessa. Lui però è vivo. Con il tempo riuscirà forse a continuare a vivere, portando sempre dentro di sé il peso di quella disgrazia. Paolo Genovese è padre, suo figlio ha pochi anni più delle vittime. Si rende conto del dolore immenso che provano in questo momento i genitori di Gaia e Camilla. Non può rimanere distante di fronte al lutto più grave che un genitore possa provare nella sua vita: la perdita di un figlio. Certo non ha voluto paragonare il suo dolore a quello delle famiglie delle due ragazze. Ha solo voluto far sentire che lui c’è, con la sua anima, con le sue parole. Gli avvocati di entrambe le parti hanno deciso di non diffondere il documento. Troppo intimo, troppo personale, che non deve essere sporcato dal rumore mediatico di questi giorni.
Pietro avrà ancora un futuro. Gaia e Camilla no. Paolo Genovese si rende conto che per Pietro ci sarà ancora un futuro, anche se difficile, soprattutto dal punto di vista interiore. Gaia e Camilla invece non potranno più affrontare la vita, confrontarsi con gli altri ragazzi, piangere per amore o per un’amicizia finita. La loro esistenza si è schiantata contro quel Suv, pochi giorni prima di Natale. Non saranno mai donne e mamme. Paolo Genovese si rende conto di tutto ciò. Prima o poi il regista romano incontrerà quei genitori, forse solo in un’aula di Tribunale, dove parleranno perizie, testimoni, l’accusa e la difesa. Tra i genitori di quei tre ragazzi resterà forse un silenzio, più forte e più assordante di mille parole. L’incrocio di uno sguardo che racchiude in sé tutto.
Incidente Roma: la tragedia, la legge, l’alcool e le imprudenze. Antonia Postorivo il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. La morte di due giovanissime ragazze è un dolore immenso. La vita scorrerà ma sarà come morire ogni giorno nel ricordo di Gaia e Camilla. Ecco io credo che per i genitori, per gli amici cari questo è il sentimento del giorno dopo e dei giorni a venire. Alle due vite spezzate si aggiunge una terza vita appesa ad un filo. La vita di colui che era alla guida dell’auto. La vita di un altro giovane che il destino baro ha voluto quella sera, in quell’ora e in quel posto. Inizierà un procedimento e un processo per stabilire la dinamica dell’incidente e le colpe. Tutto questo creerà altro dolore. Un processo che dovrà rendere giustizia alle vittime e ai loro familiari e che dovrà lasciare fuori dalle aule di giustizia la rabbia, il rancore e la professione dei genitori dei protagonisti. Il vuoto lasciato dalle giovani ragazze dovrà convivere con la realtà processuale. Comprendo che sarà difficile far convivere una perdita cosi grande con le logiche giuridiche e con la ricostruzione di quella terribile sera ma, inevitabilmente, tutti questi sentimenti contrastanti tra loro dovranno convivere. Dolore e verità dovranno convivere con una serie di fredde analisi che sembreranno analisi impietose, irrispettose del dolore immenso che si prova ma nessuno si potrà sottrarre alla legge e al rispetto di essa. Corso di Francia, luogo della tragedia, è una strada di Roma grandissima, enorme, un’autostrada dentro il Centro di Roma, priva di adeguata illuminazione e di strisce pedonali visibile, come in tutta Roma ma questa è altra storia. Dalle prime ricostruzione siamo di fronte ad un conducente che guidava in stato di ebbrezza, ad alta velocità con semaforo verde. Gaia e Camilla, dalla ricostruzione dei fatti, stavano attraversando la strada con semaforo rosso per i pedoni, al buio e non sulle strisce pedonali. Ai pedoni che camminano sulla strada è richiesta la stessa attenzione e la stessa diligenza imposte ad automobilisti e a motociclisti, perché la sicurezza stradale è frutto del rispetto collettivo delle norme. È un discorso che interessa non solo la disciplina del traffico, ma anche l’incolumità fisica di tutti gli utenti della strada. Tra questi, quella dei pedoni è la fascia di utenti considerata più debole e quindi oggetto di una particolare attenzione volta a salvaguardarla. Questo però non significa che chi cammina a piedi non debba rispettare delle regole che contribuiscono alla propria sicurezza e a quella di chi circola con un veicolo o con un motoveicolo. Il Codice della Strada prevede regole chiare da rispettare per i pedoni. Camminare su una strada pubblica significa esserne un utente a tutti gli effetti e come tale si è sottoposti a norme e a sanzioni per i trasgressori. Come guidare in stato di ebbrezza e ad alta velocità è gravissimo e chi lo fa se ne assume le gravi conseguenze, Come è giusto che sia e come la legge prevede. Il dolore e la rabbia dovranno fare i conti con la realtà processuale e comprendere che un complesso di situazioni hanno concorso a rendere mortale l’incidente: la velocità, l’assunzione di alcol, ma anche l’imprudenza delle due vittime e la colposa insufficienza dell’illuminazione pubblica. Nulla riporterò Gaia e Camilla in vita ma la ricostruzione dei fatti dovrà avvenire nel rispetto della legge e sarò, come sempre, un misto di ragione e anche di sentimento.
Genovese e la morte di Gaia e Camilla «Sono sbucate e non le ho viste». Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. Oggi l’interrogatorio davanti al gip: il ragazzo nei giorni precedenti ai fatti aveva preso cocaina e hashish, ma era lucido. «Sono sbucate all’improvviso, non le ho viste» ripete Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, dopo l’incidente di corso Francia. È ragionevole pensare che confermi questa versione durante l’interrogatorio di oggi con la giudice per le indagini preliminari, Bernadette Nicotra. Ma non è affatto scontato che risponda. Il ventenne potrebbe infatti avvalersi della facoltà di non rispondere oppure fare una serie di dichiarazioni spontanee, fornendo la propria versione dei fatti senza rispondere alla serie di contestazioni dei magistrati. Tutto dipenderà dalle condizioni psicologiche, visto che da quel 22 dicembre, giorno dell’incidente, il ragazzo versa in un pesante stato confusionale, perennemente in bilico fra pianto e senso di colpa. Comunque vadano le cose, che risponda o meno, Genovese, assistito dal suo difensore Gianluca Tognozzi dovrà fare i conti con i due elementi principali dell’accusa: la questione della velocità di marcia (superiore a quella prevista dal codice della strada) e quella del tasso di alcol nel sangue (pari a 1,4 grammi per litro). Vi sono poi altri due aspetti — la positività a sostanze stupefacenti e l’arresto del Suv — destinati ad entrare nel processo sebbene fino a questo momento non siano state considerate delle aggravanti. Se è certo che nei giorni precedenti il ragazzo aveva consumato sostanze stupefacenti (cocaina, hashish) è anche vero che quando ha investito Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli l’effetto era svanito. Le dichiarazioni di Genovese saranno confrontate con quelle dei suoi amici, Davide Acampora e Tommaso Edoardo Fornari Luswerg che viaggiavano con lui e saranno ascoltati dai magistrati Roberto Felici e Nunzia D’Elia il 3 gennaio. Per la difesa si tratta comunque di una partita complessa, visto che, praticamente, la totalità dei testimoni concorda sull’aspetto della velocità sostenuta alla quale il Suv attraversava il viadotto di corso Francia. Lo sostiene Orlando Townshend che, quella notte, ha assistito alla scena: «A un tratto vedevo un’auto di colore grigio che correndo a gran velocità travolgeva le due ragazze». La conferma arriva da Jacopo Daliana che viaggiava a bordo della sua minicar: «Ho visto una macchina grigia che proveniva a velocità sostenuta da fuori Roma e che investiva una ragazza...». Ma lo confermano con chiarezza anche altri due testimoni: Moshè David Rubin («Dopo pochissimi istanti è sopraggiunto sulla corsia alla mia sinistra, un suv di color grigio chiaro a velocità sostenuta, che ha investito due ragazze scaraventandole più avanti») e sua moglie Joel Zanzuri («Nel momento in cui hanno impegnato la corsia di sorpasso sono state colpite da un’autovettura di grosse dimensioni di colore chiaro che viaggiava a velocità sostenuta, direi circa ottanta chilometri orari»). Per avere dati certi sulla velocità alla quale il suv marciava bisognerà aspettare il risultato della consulenza disposta dai magistrati, ma intanto le indagini degli agenti della polizia municipale vanno avanti per appurare altri aspetti. Si darà una risposta anche alla questione dell’assunzione di sostanze stupefacenti: quella sera, alla cena di rientro dall’Erasmus di un amico, erano state consumate sostanze? Per accertarlo gli investigatori potrebbero decidere di ascoltare chi partecipò alla serata. Stando all’ordinanza di arresto Genovese avrebbe accettato il rischio di un incidente: «Pietro Genovese — scrive la gip — la notte di sabato 22 dicembre scorso percorreva una strada all’interno di un agglomerato urbano, in un punto caratterizzato dalla presenza di case e locali notturni della movida romana, a velocità elevata a tenore degli elementi sopra esposti, e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite consentito, con la conseguenza che in astratto pur non avendo concepito come concretamente realizzabile l’incidente stradale e non averlo in alcun modo voluto, in concreto con la sua condotta si sia rappresentato la possibilità di cagionare un evento non voluto confidando al contempo nelle sue capacità alla guida così da poterlo scongiurare».
Genovese al gip: "Sconvolto e devastato", i legali: "Non è un killer". Il ventenne si è detto sconvolto e devastato per quello che è successo. L’atto istruttorio è durato circa un’ora. Valentina Dardari, Giovedì 02/01/2020 su Il Giornale. “Sono sconvolto e devastato per quello che è successo. Sono sinceramente provato sul piano umano”. Pietro Genovese è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra, che ha disposto il suo arresto dopo la morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, investite in Corso Francia.
Cosa hanno detto gli avvocati della difesa. I suoi avvocati, Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, hanno detto che il ragazzo ha risposto alle domande del giudice, ma sul contenuto dell’atto istruttorio mantengono il più stretto riserbo. Hanno però aggiunto che per il momento non hanno presentato alcuna istanza di attenuazione della misura cautelare. Dovranno ancora decidere su un eventuale ricorso al Riesame. "Questa è una tragedia per tutte e tre le famiglie coinvolte", hanno detto i due legali, "Pietro Genovese non è il killer che è stato descritto e merita rispetto e comprensione come le famiglie delle due ragazze".
Genovese ha pianto durante l'interrogatorio. L’interrogatorio di garanzia ha avuto inizio poco dopo le 14 negli uffici del gip di Roma, Bernadette Nicotra, a piazzale Clodio. Il ragazzo avrebbe pianto più volte durante l’interrogatorio, ricordando quella tragica sera. In diverse occasioni si sarebbe anche fermato per prendere fiato e riuscire a rispondere alle domande che gli venivano rivolte. Come riferito ai giornalisti dall’avvocato difensore Franco Coppi, al termine dell’interrogatorio, il suo assistito “ ha inteso esternare il suo dolore e la sua angoscia al di là di quello che è accaduto. Confidiamo che il suo stato d'animo meriti un minimo di rispetto come meritano il rispetto per il dolore delle famiglie”. Il suo legale si è detto moderatamente realista. Alla domanda se si senta ottimista, il legale ha risposto: “Ottimista? Di natura sono moderatamente realista...”. Riguardo all'interrogatorio ha poi detto: “Sul contenuto dell’interrogatorio non intendiamo parlare per ovvi motivi. Possiamo solo dire che è venuto per rispondere alle domande e ha rappresentato la sua linea di difesa. Ma soprattutto ha inteso esternare il suo dolore e la sua angoscia per quello che è accaduto al di là di quelle che saranno le valutazioni che i giudici potranno fare”. Il legale ha poi sottolineato che Genovese è un ragazzo molto provato da questa esperienza. Ha infine detto di confidare che il suo stato d’animo meriti rispetto così come meritano rispetto i dolori delle famiglie delle due vittime. Sulla dinamica non ha infine voluto dire nulla perché, come sottolineato, sono di vecchia scuola, ritenendo che ciò che è stato detto con il giudice attualmente non possa essere rivelato. Genovese è indagato per duplice omicidio stradale nei confronti delle due 16enni che hanno perso la vita nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso su Corso Francia, all'altezza di via Flaminia Vecchia, nel quartiere romano di Ponte Milvio. L’esatta dinamica dell’incidente mortale non è ancora stata del tutto chiarita. Alcuni testimoni avrebbero detto che Genovese andava a velocità sostenuta. Lo stesso ragazzo aveva affermato di essere passato con il verde e di non aver visto le due giovani, sbucate all'improvviso dal nulla. Questa versione era stata confermata anche dall'amico che era a bordo del Suv.
Investite su Corso Francia, Pietro Genovese al gip: "Sono sconvolto e devastato". Acquisiti video semaforo. L'interrogatorio del 20enne accusato di omicidio stradale plurimo per la morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, travolte nella notte tra il 21 e il 22 dicembre: "Sono partito con il verde". I difensori: "Non è un killer, merita rispetto". La Repubblica il 2 gennaio 2020. "Sono sconvolto e devastato per quello che è successo. Sono sinceramente provato sul piano umano". E' quanto ha detto, in base a quanto riferito dai suoi difensori, Pietro Genovese, il ventenne figlio del regista, agli arresti domiciliari da una settimana per il duplice omicidio stradale delle due sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Assistito dagli avvocati Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, il ventenne è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra, che ha disposto il suo arresto. L'incidente nel quale hanno perso la vita le due 16 enni è avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso su Corso Francia, all'altezza di via Flaminia Vecchia, nel quartiere romano di Ponte Milvio. "Sono partito con il semaforo verde", ha ribadito Genovese davanti al gip. Il giovane ha risposto alle domande ricostruendo tra le lacrime la notte dell'incidente. Prima la serata a casa di amici per festeggiare il ritorno di un amico dall'Erasmus e poi il rientro percorrendo Corso Francia dove Genovese ha detto di essere ripartito con il semaforo verde. Intanto i pm di Roma hanno acquisito i video depositati nei giorni scorsi dal legale dei genitori di Camilla Romagnoli. I due video, uno di cinquanta secondi e l'altro di un minuto e 26 secondi, riprendono il funzionamento dei semafori pedonali dove è avvenuto il tragico investimento. Nell'atto messo a disposizione del pm Roberto Felici, l'avvocato Cesare Piraino afferma che il semaforo pedonale non prevede il giallo per chi attraversa e le ragazze avrebbero iniziato l'attraversamento con il verde per i pedoni. "Questa è una tragedia per tutte e tre le famiglie coinvolte. Pietro Genovese non è il killer che è stato descritto e merita rispetto e comprensione come le famiglie delle due ragazze", hanno detto gli avvocati di Genovese, al termine dell'interrogatorio di garanzia. "Il nostro assistito ha risposto alle domande del giudice, - hanno aggiunto i legali - ma sul contenuto dell'atto istruttorio manteniamo il più stretto riserbo". "Al momento - hanno detto ancora - non abbiamo presentato alcuna istanza di attenuazione della misura cautelare. Rifletteremo anche su un possibile ricorso al Riesame".
Da ilmessaggero.it il 2 gennaio 2020. Incidente a Corso Francia, Pietro Genovese oggi è stato interrogato per circa un'ora dal gip nell'interrogatorio di garanzia. Il 20enne è agli arresti domiciliari con l'accusa di omicidio stradale plurimo per avere investito e ucciso nella notte tra il 21 e 22 dicembre scorso le due studentesse sedicenni Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli su Corso Francia a Roma. Genovese, accompagnato dai suoi difensori gli avvocati Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra che il 26 dicembre scorso ha disposto nei suoi confronti gli arresti domiciliari. A termine dell'interrogatorio di Pietro Genovese è l'avvocato Franco Coppi a parlare: «Pietro Genovese è affranto, prova dolore e angoscia per quanto avvenuto, per la morte delle due giovani ragazze. Nessun commento sulla dinamica dell'incidente». «Sono sconvolto e devastato per quello che è successo». È quanto ha detto, in base a quanto riferito dai suoi difensori, nel corso dell'interrogatorio di garanzia davanti al gip durato circa una ora. «Pietro Genovese non è il killer descritto, merita rispetto - dicono i suoi difensori -. È una tragedia per tutte e tre le famiglie». «Non le ho viste, sono passato con il verde». Pietro Genovese, la sua versione su quella sera del 21 dicembre, quando ha investito e ucciso Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, l’ha ripetuta già tante volte, tra le lacrime, subito dopo l’impatto e nei giorni successivi. Senza darsi pace su quanto fosse accaduto.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 3 gennaio 2020. Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli avrebbero attraversato con il verde. È questo ciò che ritiene il legale della famiglia Romagnoli, l'avvocato Cesare Piraino. Il penalista, per avvalorare la sua tesi, ha prodotto due video che riprendono il funzionamento dell'impianto semaforico della zona in cui è avvenuto l'incidente. Questo materiale adesso è stato acquisito dalla procura, ed è entrato a far parte del fascicolo del pubblico ministero. Si tratta dei primi risultati dell'attività di indagine difensiva svolta sul teatro della tragedia avvenuta poco dopo la mezzanotte tra il 21 e il 22 dicembre a Roma, nella zona di Corso Francia. I due filmati, uno di cinquanta secondi e l'altro di un minuto e 26 secondi, riprendono il funzionamento del semaforo pedonale dove è avvenuto l'investimento da parte di Pietro Genovese alla guida del suo Suv. Nell'atto messo a disposizione del pm, l'avvocato Piraino sostiene che quell'impianto non prevede il giallo per chi attraversa e che le ragazze avrebbero iniziato l'attraversamento con il verde per i pedoni. «Il semaforo per l'attraversamento pedonale - scrive il penalista nell'atto finito sulla scrivania del sostituto Roberto Felici - ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell'imminente sopraggiungere del verde per le automobili, il caratteristico giallo per i pedoni, ma prevede che al verde per i pedoni, che dura 26 secondi e mezzo, segua soltanto un verde lampeggiante che dura appena tre secondi e 40 centesimi, cui segue repentinamente e immediatamente il rosso, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata». Per i legali, che hanno nominato periti in vista di esami tecnici irripetibili anche sulla velocità con cui viaggiava il suv, «la circostanza appare determinante sul profilo probatorio poiché se è vero che Genovese è sopraggiunto su quelle strisce pedonali col verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si è fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse hanno iniziato l'attraversamento pedonale con il verde e che si sono imbattute, subito dopo, nel verde lampeggiante e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel rosso, senza poter fare, loro sì, null'altro che subire la morte». Un punto fondamentale per sostenere l'accusa di duplice omicidio stradale a carico di Genovese è stabilire, senza alcun margine di errore a quale velocità stava viaggiando il suv. Per questo gli investigatori attendono l'esito della perizia cinematica. Ma anche la difesa del ragazzo ha nominato un consulente di parte, così come le famiglie delle sedicenni. Un testimone importante è un ragazzo (amico di Genovese), che viaggiava nel sedile anteriore del suv che ha travolto le due studentesse del Liceo Gaetano De Sanctis. Il ragazzo ha spiegato «che anche volendo non avremmo potuto correre. Su Corso Francia era appena scattato il semaforo verde e l'auto era ripartita da poco». È questa una dichiarazione acquisita dai pm. Ma dovranno essere effettuate indagini più approfondite anche su un altro punto. Il ventenne aveva bevuto - il suo tasso alcolemico era di 1,4 - ma le analisi hanno rilevato nel suo corpo anche la presenza di cocaina e oppiacei, circostanza che ha spinto la procura a contestare un'aggravante specifica. Aggravante che, invece, non è stata riconosciuta dal gip: nell'ordinanza si legge che non è stato possibile stabilire quando fossero state assunte le sostanze e, quindi, non è assolutamente certo che il ventenne le avesse consumate prima di mettersi al volante.
Ilaria Del Prete per leggo.it il 2 gennaio 2020. Dopo i funerali di Gaia e Camilla non si arresta la discussione attorno all'incidente in Corso Francia a Roma, in cui le due amiche 16enni hanno perso la vita investite dall'auto di Pietro Genovese. A tornare sull'argomento, pur senza nominarlo direttamente, è Barbara Palombelli attraverso un post sul suo profilo Facebook. La giornalista parla - "da antropologa e persona non ipocrita" - dei riti d'iniziazione, quelle prove di coraggio e irresponsabilità tipiche del passaggio dall'infanzia all'età adulta. E se da un lato ripercorre le sue bravate adolescenziali, dall'altro punta un dito contro i genitori di oggi: «Vedo tante ragazze e tanti ragazzi, privati dall’ansia dei genitori delle sfide classiche (moto, sci, avventure) che si ritrovano poi a sfidare la morte in altri modi». Questo il post completo pubblicato da Barbara Palombelli su Facebook: «Torno, da antropologa e da persona spero non ipocrita, al tema di queste settimane. Ero una scellerata, correvo in moto senza l’età e senza casco, passavo col rosso, con i miei cugini scendevamo in bici contromano la salita di Anzio, prendevamo il gommone e ci tuffavamo col motore acceso, nell’euforia degli anni Sessanta gli zii cacciatori ci facevano sparare e ci imponevano prove di coraggio...Potrei continuare all’infinito: da piazza Euclide su Corso Francia sulle Laverda 750...Non mi sono mai drogata e non ho mai bevuto ma quando potevo, come tutti gli adolescenti del mondo, sfidavo la morte per iniziare la vita...Sono più umile di tanti di voi e credo di essere soltanto una fortunata sopravvissuta...Purtroppo vedo tante ragazze e tanti ragazzi, privati dall’ansia dei genitori delle sfide classiche (moto, sci, avventure) che si ritrovano poi a sfidare la morte in altri modi... si chiudono in casa (i maschi) smettono di mangiare o mangiano troppo (le femmine) o facendo altro...La verità è che al rito di iniziazione non si sfugge!!! Auguri e vi prego: basta ipocrisie!!!!»
Travolte e uccise a Roma, disposta consulenza su velocità e punto dell'impatto. Ai magistrati interessa ricostruire la dinamica dell'incidente stradale costato la vita alle 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli nella notte tra il 21 e il 22 dicembre. La Repubblica il 03 gennaio 2020. Una consulenza tecnica che ricostruisca la dinamica dell'incidente stradale costato la vita alle 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, uccise a Corso Francia la notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso dal suv guidato dal 20enne Pietro Genovese. È questo il prossimo passo istruttorio che il procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e il pm Roberto Felici, riuniti questa mattina per oltre un'ora, intendono fare. L'incarico tecnico, con i relativi quesiti, non è stato ancora affidato. Ai magistrati interessa accertare la velocità con cui procedeva il veicolo e, in assenza di segni di frenata, il preciso punto di impatto tra il mezzo e le vittime per capire se quest'ultime si trovassero o no sulle strisce pedonali. La procura, preso atto che non ci sono telecamere in zona che abbiano ripresa la scena, intende sentire nei prossimi giorni anche il ragazzo che sedeva accanto al figlio regista oltre all'automobilista della Smart che, invece, ha fatto in tempo a fermarsi consentendo alle ragazze di attraversare la strada. All'attenzione dei pm anche i video girati dai legali delle parti offese e relative al funzionamento dei semafori.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 5 gennaio 2020. Saranno necessari almeno due mesi perché periti e consulenti di parte facciano chiarezza sulla dinamica dell'incidente di Corso Francia dove, nella notte tra il 21 e il 22 novembre, sono rimaste uccise Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann. Gli incarichi saranno affidati già questa settimana e dovrebbero stabilire, in primo luogo, a quale velocità viaggiasse l'auto guidata da Pietro Genovese, il ventenne che le ha travolte. Gli accertamenti sarebbero assai più semplici se la Renault Koleos, intestata a una concessionaria della provincia di Milano e in comodato d'uso a Pietro Genovese, il regista, papà del ragazzo, fosse dotata di una scatola nera, circostanza che non è ancora stata verificata. Rimangono comunque alcuni punti oscuri, ma anche su questi la relazione degli ingegneri, che saranno nominati dal procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e dal pm Roberto Felici, dovrebbe fare chiarezza. Tra questi il luogo esatto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato: la maggior parte dei testimoni riferisce che non fossero sulle strisce e che il semaforo segnasse il verde per le auto. In campo scenderanno ingegneri, fisici e ricostruttori tecnici, sia per conto della procura che delle parti. La polizia municipale ha già verificato che, sul luogo dell'incidente, non c'erano tracce di frenata. E, del resto, lo stesso Pietro Genovese, nel corso dell'interrogatorio davanti al gip Bernadette Nicotra, che il 26 dicembre ha disposto per il ragazzo i domiciliari, ha riferito di essersi accorto delle due sedicenni solo dopo l'impatto. I calcoli, per stabilire la velocità di marcia del Suv, ora sotto sequestro, non potranno quindi basarsi sui segni rimasti sull'asfalto, ma, partendo dal tipo di danno sull'auto, dal punto in cui sono stati sbalzati i corpi e anche dal luogo esatto in cui si è fermata la Renault dopo l'impatto, indicheranno la velocità dell'auto al momento del drammatico incidente. I tecnici terranno anche conto delle testimonianze. Il margine di approssimazione nei calcoli e nella ricostruzione della dinamica dell'incidente, sarebbe praticamente nullo se nella Koleos, immatricolata nel 2018 e guidata da Genovese, fosse stata installata una scatola nera. Lo strumento previsto nei modelli di auto più moderni, in caso di incidente, rileva l'accelerazione massima, il tipo di crash, il luogo in cui si è verificato e l'ultima velocità rilevata oltre alle accelerazioni ed alle decelerazioni. Non solo, al data base centrale vengono inviati anche i dati sullo storico delle marce inserite nel corso del tempo. Dati preziosissimi per la ricostruzione, che potrebbe raccontare esattamente quanti metri prima dell'impatto l'auto fosse ripartita dal semaforo e quale velocità avesse raggiunto. Gli inquirenti, però, non sanno ancora se la Renault fosse dotata di scatola nera. Secondo la maggior parte delle testimonianze, Gaia e Camilla non avrebbero attraversato sulle strisce pedonali, ma ad alcuni metri dal semaforo verde per gli automobilisti. Per di più, in un punto con scarsa visibilità, in piena notte e mentre pioveva. Centrale è però il video, oramai acquisito agli atti su richiesta dell'avvocato Cesare Piraino difensore dei Romagnoli. Dalle immagini risulta chiaro come, nel punto di attraversamento per i pedoni, il semaforo non segni mai il giallo, ma solo una brevissima intermittenza di verde che un secondo dopo si trasforma in rosso. Gli inquirenti, oltre a Davide, uno dei ragazzi che viaggiava con Genovese sulla Koleos, potrebbero risentire anche l'uomo che guidava la Smart e marciava dietro all'auto che ha frenato vedendo le due ragazzine. La macchina ha coperto la visuale di Genovese, che ha superato a sinistra, e di Gaia e Camilla che, rassicurate vendendola ferma, anziché procedere con cautela, sono scattate in una corsa.
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2020. Non chiede l' annullamento della misura cautelare Pietro Genovese. I difensori rinunciano all' udienza davanti ai giudici del Tribunale del Riesame. Il ventenne romano che, la notte tra il 21 e il 22 novembre, ha travolto con la sua auto le sedicenni Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann mentre attraversavano di corsa Corso Francia, hanno deciso di affidarsi al proseguo delle indagini della procura per dimostrare l' impossibilità di evitare l' impatto dopo essere regolarmente partito col verde dal semaforo. Un' indagine che si dimostra delicata. E che ieri ha messo il primo punto fermo. Il procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e il pm Roberto Felici hanno affidato a un esperto in infortunistica stradale, l' ingegnere Mario Scipioni, la perizia che dovrebbe chiarire la dinamica dell' incidente.
LA PERIZIA. Un accertamento irripetibile a cui parteciperanno anche i consulenti di tutte le parti processuali, ossia dell' indagato e dei familiari delle vittime. Nel frattempo è stato accertato che la Renault Koleos guidata da Genovesi era sprovvista di scatola nera. La perizia collegiale quindi diventerà ancora più cruciale. Al consulente tecnico è stato chiesto - presa visione del veicolo, dello stato dei luoghi, dei rilievi effettuati dalla polizia locale di accertare quale fosse la velocità e il punto d' urto, la corsia percorsa, la sincronizzazione delle lanterna semaforica pedonale e veicolare. Ma anche accertare le condizioni di visibilità al momento del sinistro. Uno degli snodi dell' inchiesta resta la velocità. La circostanza della velocità contestata come aggravante dalla procura era stata respinta dal giudice che pure per il giovane ha disposto i domiciliari proprio perché non accertata. Gli esiti della maxiperizia si conosceranno tra un paio di mesi. Ci si aspettava che gli accertamenti fossero più semplici se appunto la Renault Koleos, intestata a una concessionaria della provincia di Milano e in comodato d' uso a Pietro Genovese, il regista, papà del ragazzo, fosse dotata di una scatola nera, circostanza ora esclusa. Un altro punto oscuro resta il luogo esatto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato. La maggior parte dei testimoni riferisce che non fossero sulle strisce e che il semaforo segnasse il verde per le auto.
GLI ACCERTAMENTI. La polizia municipale ha già verificato che, sul luogo dell' incidente, non c' erano tracce di frenata. E, del resto, lo stesso Pietro Genovese, nel corso dell' interrogatorio davanti al gip Bernadette Nicotra, che il 26 dicembre ha disposto per il ragazzo i domiciliari, ha riferito di essersi accorto delle due sedicenni solo dopo l' impatto. I calcoli, per stabilire la velocità di marcia del Suv, ora sotto sequestro, non potranno quindi basarsi sui segni rimasti sull' asfalto, ma, partendo dal tipo di danno sull' auto, dal punto in cui sono stati sbalzati i corpi e anche dal luogo esatto in cui si è fermata la Renault dopo l' impatto, indicheranno la velocità dell' auto al momento del drammatico incidente. Intanto in città cresce la preoccupazione per il gioco del semaforo rosso. Attraversare giorno e notte lontano dalle strisce pedonali. Una scena che si è riproposta pochi giorni fa anche in viale Angelico, tra liceali. 'Voglio fare come Camilla e Gaia'', ha detto uno studente mentre attraversava col semaforo rosso. Un gioco pericolosissimo. Anche se è più probabile che le due giovani non avessero azzardato volutamente a rischio la strada, ma solo sottovalutato i rischi. Le tre famiglie, quella di Genovese e dei Romagnoli e dei von Freymann, ognuno col proprio dramma, restano atterrite nel dolore. Gli accertamenti serviranno solo a calcolare l' imprevedibilità di una disgrazia, fatta di attimi e combinazioni, ed errori che lievitano in tragedie, purtroppo per le due ragazze senza chance.
Omicidio stradale, le differenze tra Pietro Genovese e Alice Nobili. Frank Cimini il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. L’eccesso di informazione finisce per disinformare soprattutto quando ci sono mille pesi e mille misure. Sull’omicidio stradale di corso Francia a Roma i giornaloni si stanno sbizzarrendo a fornire un diluvio di particolari anche saccheggiando dai profili social dei protagonisti e celebrando un vero e proprio processo mediatico. Voglio ricordare qui un altro omicidio stradale che invece fu secretato dalla procura di Milano e dai media. A ottobre del 2018 Alice Nobili figlia di due magistrati Alberto Nobili e Ilda Boccassini investì e uccise in viale Montenero un medico. Il capo dei vigili urbani ex responsabile della polizia giudiziaria della procura intervenne personalmente sul luogo dell’incidente e non è credibile che lo faccia per tutti i sinistri. Non venne eseguito l’alcol test che fanno a tutti i comuni mortali. L’indagine affidata a un pm sostituto procuratore quindi sottoposto dei due aggiunti fu blindata e non si è saputo più nulla. Abbiamo avuto a che fare con una vicenda da nomenklatura tipo Unione Sovietica che non fa certo onore né alla procura e nemmeno ai giornali che spesso quando ci sono di mezzo i magistrati chiudono un occhio e l’altro pure. Come è accaduto di recente per i mutui agevolati concessi dalla banca di Bari insieme agli scoperti fino al 26 per cento e come è successo per il silenzio calato sul “mercato delle vacche” dell’estate scorsa. Ed è di quel Csm che si chiede l’intervento adesso a tutela del procuratore Gratteri al quale nessuno spiega che il suo incarico non comporta pure quello di redattore capo nei quotidiani del mandamento giudiziario.
Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 22 gennaio 2020. Trenta giorni oggi. I fiori sono ancora lì, come le dediche, i peluche lasciati dagli amici ma anche da semplici passanti, cittadini del quartiere, profondamente toccati dalla tragedia che si è portata via in un soffio, un mese fa, la vita di due sedicenni. Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann disegnate su un muro, mentre si tengono per mano, guardano ancora Corso Francia e lo vedono uguale a come era la notte del 22 dicembre. Dopo che attraversando la strada non sulle strisce pedonali sono state travolte dal Suv di Pietro Genovese. In questa porzione di Roma nord che sembra ancora «un'autostrada», «i pedoni, soprattutto di sera o durante la notte, complice anche il minor traffico continuano ad attraversare con il rosso o in mezzo alla strada», commenta Marilena di fronte all'edicola di Corso Francia. «Vivo qui vicino, in via Flamina e lo vedo quello che succede ancora come se la morte di quelle due povere ragazze non fosse avvenuta». «Se la gente non fa attenzione devono provvedere, Comune o Municipio o non so chi altro, a bloccare questo sistema», rincara Giovanni uscendo dall'Ovs. Che fine hanno fatto le rassicurazioni di amministratori e assessori pronunciate per voce del Comune o del XV Municipio per rendere più sicuro Corso Francia? Finora è arrivato un autovelox di quelli mobili per controllare la velocità dei veicoli nell'attesa che facciano la loro comparsa i decreti prefettizi per dar seguito all'istallazione di quelli fissi (una trentina in città, compreso un apparecchio in Corso Francia). Come fanno sapere dal II e dal XV Gruppo dei vigili urbani i controlli, almeno sulle auto, sono aumentati. Il dispositivo per stanare coloro i quali premono sull'acceleratore, seppur mobile, viene attivato quasi giornalmente per diverse ore. È collocato a metà del ponte per chi entra in città dalla Cassia o dalla Flaminia. E per i pedoni indisciplinati? Tra i guard-rail crescono le erbacce e la gente continua a scavalcarli. Le barriere non sono arrivate. Nonostante, all'indomani dell'incidente, dal Campidoglio garantivano studi di fattibilità per impedire i salti o gli attraversamenti indisciplinati. Per quanto riguarda i semafori, invece, anche dopo le osservazioni sulla ristrettezza dei tempi per l'attraversamento sollevate dai legali di una delle due sedicenni, il Comune ha fatto sapere che il tempo per i pedoni è corrispondente alle normative vigenti. Specificando, tuttavia, come gli apparecchi di Corso Francia rientrano in un piano di ammodernamento precedente alla morte di Gaia e Camilla. Un progetto che prevede la sostituzione dei vecchi impianti con dispositivi più moderni, dotati della luce gialla e del count-down che sarà finanziato al più presto con 450 mila euro. La cifra servirà per cambiare non solo i semafori di Corso Francia ma anche quelli di altre ottanta strade di Roma. Il Consiglio del XV Municipio ha approvato, il 17 gennaio, un documento condiviso da tutti i gruppi nel quale si chiedono misure urgentissime a Palazzo Senatorio soprattutto per frenare i pedoni. Intanto sono in partenza degli incontri per i ragazzi incentrati sulla sicurezza stradale. La scorsa settimana un primo appuntamento si è tenuto alla scuola Nitti alla presenza dei genitori di Gaia e Camilla, nel prossimi giorni, con l'ausilio del II e XV Gruppo della polizia locale, ne saranno organizzati degli altri nelle scuole e nell'oratorio della chiesa del Preziosissimo Sangue al Fleming dove questa sera si terrà la messa del trigesimo per Gaia e Camilla.
La madre di Gaia, uccisa dal Suv: ponte pedonale in corso Francia. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. I ragazzi ce la fanno. Non serve il passo svelto, ma è imperativo che sia regolare. Altrimenti quei quaranta metri davanti alle auto pronte a scattare non bastano nemmeno a loro. Per chi è più in là con gli anni, invece, le mamme con i passeggini, chi trascina un trolley o le buste della spesa, i 30 secondi di verde riservati ai pedoni dai semafori su corso Francia sono appena sufficienti. Ci sarebbe l’appendice del verde lampeggiante. Ma, cronometro alla mano, concede solo altri tre secondi prima che diventi rosso. Un conto alla rovescia che mette ansia solo a guardare l’omino che si accende cinque volte a intermittenza prima sparire: chi non coglie l’attimo per sfruttare i 30 secondi iniziali, corre il rischio di ritrovarsi all’improvviso in mezzo alla strada, con auto e moto che sopraggiungono. Dalla notte fra il 21 e il 22 dicembre scorsi, dalla tragica fine di Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, le sedicenni travolte e uccise dal Suv guidato da Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, positivo all’alcoltest e finito ai domiciliari, sotto accusa ci sono anche i semafori di corso Francia, strada — e «autostrada» — simbolo di Roma nord, che collega i Parioli con Cassia e Flaminia. I vigili urbani sono in attesa di una delega dalla Procura per accertare il corretto funzionamento almeno dell’impianto all’incrocio con via Flaminia, vicino al quale — secondo la Municipale — Gaia e Flaminia sono state investite, e se i tempi del verde pedonale siano giusti. Intanto alla richiesta degli abitanti di installare autovelox fissi (da Natale i vigili urbani hanno posizionato quelli mobili, facendo multe a raffica) ha fatto seguito la proposta dei lettori del Corriere della Sera, sulla rubrica di Paolo Conti «Una città, mille domande» in Cronaca di Roma, di un ponte pedonale per salvaguardare chi attraversa. Qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi che possa essere dedicato a Gaia e Camilla. Cento i firmatari per ora, compresa la madre di Gaia, Gabriella Saracino, anche lei residente in zona. All’iniziativa, si aggiunge oggi — sempre sul Corriere Roma — quella di due architetti, Alessandra De Cesaris e Alessandro Franchetti Pardo, che vanno oltre, con il progetto di un sottopasso per riqualificare il quartiere. Con una rivelazione: nel 2010 il loro progetto «Percorso Francia», ultimato nell’ambito di un concorso bandito dall’Ordine degli ingegneri, fu presentato al XX Municipio. Da allora è rimasto in un cassetto. Come del resto l’adeguamento della durata del verde e del rosso ai semafori di corso Francia, tenendo presente comunque che il Codice della strada prevede che quelli pedonali lampeggino almeno per tre secondi in un tratto dove il limite di velocità è 50 chilometri orari. Come sull’«autostrada» dove Gaia e Camilla hanno perso la vita. Ma se da un punto di vista formale non ci sarebbe da eccepire — sarà l’indagine a confermarlo —, basta osservare cosa accade nei cinque attraversamenti fra il viadotto di via del Foro Italico e via di Vigna Stelluti per rendersi conto che lamentele e segnalazioni dei residenti, ormai decennali, se non più datate, sono condivisibili: 33 secondi in tutto per percorrere a piedi 40 metri non sono sempre sufficienti e possono mettere a rischio i pedoni.
Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'11 febbraio 2020. La chiusura è scattata alle 22 di ieri sera dopo l'annuncio dei giorni scorsi e in Corso Francia si è tornati alla notte tra il 21 e il 22 dicembre quando persero la vita - investite dal Suv di Pietro Genovese - le due sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Gli agenti del XV gruppo Cassia hanno circoscritto il luogo dell'incidente dove nella notte i vari periti di parte - insieme al ctu Mario Scipione nominato dal pm Roberto Felici - hanno provveduto a compiere rilievi importanti. Lo stradone dove le persone continuano ad attraversare senza regole è stato chiuso al traffico veicolare nel tratto compreso tra via Luigi Bodio e il viadotto Ponte Flaminio per permettere così la superperizia. L'Atac da parte sua ha contributo a rendere possibile la ricostruzione, deviando sei linee di autobus. In strada una società di Firenze nominata dalla madre di Gaia ha compiuto le analisi con un laser scanner. «Il dispositivo - spiegavano gli architetti - è servito a registrare il contesto per riprodurlo poi in 3D». Nella superperizia di ieri sono stati impegnati sei periti, tra cui un ingegnere aerospaziale. Nel dettaglio, a compiere le misurazioni - tra cui quelle sul semaforo di Corso Francia - sono stati il perito nominato dalla Procura, quello per la famiglia di Camilla, due per quella di Gaia e un altro, infine per Genovese, figlio del regista Paolo. Tutti hanno compiuto le stesse analisi che saranno poi utilizzate in tribunale partendo dai rilievi effettuati nella notte della tragedia dai vigili del II gruppo Parioli. «Questi rilievi sono serviti a prendere le misure per confrontarle con quelle rilevate dalla polizia la notte dell'incidente - spiegavano i periti - Sono state individuate le posizioni statiche raggiunte dai corpi dopo l'investimento, verificati i capisaldi della polizia, le condizioni di visibilità e sono state scattate diverse fotografie». Misurazioni, in sostanza, che serviranno a definire il punto di impatto tra il Suv e le due sedicenni con l'obiettivo di capire se le ragazzine stessero scavalcando il guard-rail centrale con il semaforo verde per le auto, come hanno riportato finora più testimoni, oppure fossero poco distanti dalle strisce pedonali. Più fattori sono stati presi in considerazione e su questi si baseranno le nuove proiezioni che, raccolte ieri notte, saranno riportate su pc e analizzate. Su Corso Francia non dovrebbero tenersi altri esami mentre - confermano i periti - si svolgerà una seconda analisi sull'auto di Genovese dopo la prima, condotta alcune settimane fa nel deposito di Settebagni, che ha visto l'impiego di un drone. Le perizie potranno proseguire fino al 7 marzo, ultimo giorno previsto per le analisi salvo prolungamenti decisi dal pm. Chi ieri sera è passato su Corso Francia ha pensato che ci fosse stato un nuovo incidente. «Poi abbiamo capito - spiegavano alcuni passanti - che non era così e abbiamo tirato un sospiro di sollievo». La morte di Gaia e Camilla ha provato molti cittadini che abitano in questa zona di Roma. I periti scrupolosamente hanno ognuno avuto il tempo di compiere i propri rilievi, la strada è stata riaperta al traffico dopo circa due ore: alle 24. Ad essere conteggiati, anche i tempi dell'impianto semaforico che di fatto dà 36 secondi totali di tempo ai pedoni per attraversare una carreggiata di 18 metri: 30 secondi di luce fissa verde, quasi 4 secondi di lampeggiante e 2 secondi luce rossa fissa per pedoni e automobili. Proprio il semaforo era entrato nel mirino di alcuni legali che ritenevano troppo breve il tempo totale per l'attraversamento. Il Comune di Roma ha sempre specificato che la tempistica era regolare aggiungendo che si sarebbe provveduto alla sostituzione degli apparecchi ma non a causa dell'incidente. L'ammodernamento dei semafori di Corso Francia rientra in un progetto più ampio iniziato già nel 2014 per la sostituzione di oltre mille semafori in città con dispositivi più moderni dotati del count-down e del suono. Per procedere con i lavori ora il Campidoglio deve isolare all'incirca 400 mila euro per acquistare i nuovi semafori da istallare su Corso Francia. Oggi alle 17, a Ponte Milvio, ci sarà una fiaccolata in ricordo delle due sedicenni.
C. R. per “il Messaggero” il 12 febbraio 2020. Quando il gruppo compatto e coeso raggiunge il murales che raffigura Gaia e Camilla mentre si tengono per mano, in Corso Francia le voci smettono di far rumore. È il tempo della preghiera e delle lacrime che ancora oggi - a quasi tre mesi dalla tragedia - scendono dagli occhi di molti. Proprio lì davanti le due sedicenni sono state investite la notte tra il 21 e il 22 dicembre dal Suv di Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, mentre provavano ad attraversare la strada fuori dalle strisce. E ieri, dopo la super-perizia della notte precedente che è servita ai consulenti delle famiglie delle due ragazze, Romagnoli e Von Freymann, e a quella di Genovese, per ricalcolare le misure, le distanze, acquisire materiale fotografico e immortalare la scena con un laser-scanner per ricostruirla poi in 3D, molti amici, parenti, semplici cittadini e compagni di scuola, hanno preso parte alla fiaccolata che è partita da Ponte Milvio. Alla testa i genitori delle due vittime, con il papà di Gaia costretto da un'invalidità alla sedia a rotelle che teneva in mano come tutti gli altri una candela. «Ci mancano tanto, troppo», ha sussurrato più di un amico mentre il corteo ha attraversato il piazzale sotto la Torretta del Valadier, percorso via Flaminia fermandosi poi nel punto dove permangono i fiori, i peluche, le dediche e le foto lasciate in ricordo delle due ragazzine. «Saremo tanti a ricordare i nostri piccoli angeli» aveva scritto su Fb la mamma di Gaia annunciando la fiaccolata di ieri che da Corso Francia è arrivata nella chiesa dove si sono celebrati i funerali delle due sedicenni. «Resteranno sempre con noi, nei nostri cuori», ha ripetuto più di un partecipante mentre l'inchiesta prosegue. Nei prossimi giorni saranno svolte altre perizie, tra cui una seconda sull'auto di Genovese, ferma nel deposito di Settebagni. I consulenti - guidati dal Ctu del tribunale Mario Scipione - avranno tempo fino al prossimo 7 marzo per acquisire materiale e svolgere ulteriori analisi. Poi le conclusioni a meno che il pm Roberto Felici non autorizzi un supplemento di perizie laddove vengano richieste.
Perizia sulla morte di Gaia e Camilla, dubbi sui freni dell’auto. Gli esperti vogliono capire perché il sistema di sicurezza non ha funzionato. Nominato dalla procura un ingegnere esperto di infortunistica stradale. Michele Di Lollo, Giovedì 05/03/2020 su Il Giornale. Un fatto tragico avvenuto a Roma una manciata di giorni prima di Natale. S’indaga ancora sull’incidente avvenuto a Corso Francia la notte tra il 21 e il 22 dicembre. In quell’occasione morirono due sedicenni: Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann. Si allungano i tempi per la superperizia che potrebbe chiarire una volta per tutte la dinamica dello schianto. Resta uno snodo chiave da appurare, scrive il Messaggero: i sensori radar proteggi pedoni dell’auto guidata dal ventenne Pietro Genovese erano attivi? E se lo erano, allora perché non hanno funzionato nonostante il tentativo del conducente di arrestare il mezzo? Per stabilirlo è stato nominato dalla procura un ingegnere esperto di infortunistica stradale. Si chiama Mario Scipioni e ha bisogno di chiarimenti dai tecnici della società costruttrice che per quel Suv ha ottenuto grandi riconoscimenti proprio per i sistemi di sicurezza. Un punto cruciale per accertare se non fossero funzionanti, oppure disattivati o, infine, non entrati in funzione per un guasto. Il sistema di frenata di emergenza autonoma, infatti, non si è attivato. In assenza della scatola nera sarà un elemento centrale per accertare l’approccio alla guida del conducente che aveva ripreso la marcia appena scattato il semaforo verde. La perizia sulla dinamica dell’incidente era attesa per domani, così come concordato col procuratore aggiunto, Nunzia D’Elia, e il pm, Roberto Felice. Un accertamento irripetibile a cui stanno partecipando anche gli altri consulenti delle parti processuali, cinque in tutto, considerati i due nominati dall’indagato e i tre dei familiari delle vittime. Qualcosa però è già chiaro. È stato accertato che la Renault Koleos guidata da Genovesi era sprovvista di scatola nera. La perizia quindi diventerà ancora più cruciale. Al consulente tecnico era stato chiesto di accertare quale fosse la velocità e il punto d’urto, la corsia percorsa, la sincronizzazione delle lanterne semaforica pedonale e veicolare. Ma anche accertare le condizioni di visibilità al momento del sinistro. Il fulcro, così, rimane la dinamica. Ci si aspettava che gli accertamenti fossero più semplici, se appunto il Suv fosse dotata di una scatola nera, circostanza adesso esclusa. Un altro punto oscuro resta il luogo esatto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato. La maggior parte dei testimoni riferisce che non fossero sulle strisce pedonali e che il semaforo segnasse il verde per le auto, così come riferito da Genovese e da uno dei due amici in auto con lui. Il ragazzo, intanto, resta ai domiciliari. La difesa non ha chiesto l’annullamento della misura cautelare.
G.D.S. per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 16 marzo 2020. La notte dell' impatto mortale in cui hanno perso la vita Gaia e Camilla i freni d' emergenza con riconoscimento pedoni della Renault Koleos che ha investito le due 16enni sarebbero stati disattivati. L' ipotesi è all' esame del consulente della Procura, l' ingegnere Mario Scipione, nominato dal pm Roberto Felici per ricostruire la dinamica dell' incidente avvenuto tra il 21 e il 22 dicembre a corso Francia. È bene subito precisare che la disattivazione non ha rilevanza penale perché il codice della strada non impone di tenere attivi i freni d' emergenza con riconoscimento pedoni. Pertanto anche se Pietro Genovese, 20 anni, indagato con l' accusa di duplice omicidio stradale, li avesse spenti, non avrebbe commesso alcuna violazione. Tuttavia stabilire se fossero (o meno) in funzione è essenziale per capire cosa è successo quella sera. Perché qualora la consulenza dovesse accertarne la disattivazione, la domanda che si porrebbe è: la tragedia sarebbe stata evitabile con il riconoscimento pedoni in funzione? Va ricordato che dai rilievi effettuati dai vigili del II gruppo Parioli non risulta alcun segno di frenata. E va aggiunto come la sera del dramma Genovese - ai domiciliari dal 26 dicembre - è stato trovato positivo all' alcoltest con un valore di 1,4, quasi tre volte il limite consentito. I freni d' emergenza di solito vengono disattivati per avere una guida scorrevole, poiché se sono attivi rendono la guida poco fluida. La questione è una delle ragioni per cui l' ingegner Scipione - consulente della Procura anche nel caso della morte di Claudio Salini, deceduto in un incidente il 30 agosto del 2015 - ha chiesto e ottenuto una proroga per la consegna della relazione finale. Il deposito, fissato al 7 marzo, è slittato a inizio aprile. E non è escluso che la pandemia da coronavirus comporti un' ulteriore richiesta di proroga, qualora emergesse la necessità di un quarto confronto tra il consulente del pm, la difesa di Genovese, figlio del regista Paolo, e le famiglie delle due giovani vittime. Confronto che, in questo momento, non potrebbe tenersi per via del divieto di assembramento imposto dal decreto del governo per contenere l' emergenza sanitaria. I nodi della ricostruzione sono due: la velocità tenuta quella sera da Genovese e il punto d' impatto. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono emerse delle divergenze con significativi scostamenti tra la difesa e le parti offese: pertanto sarà fondamentale cosa scriverà nel merito il consulente della Procura perché la sua conclusione indirizzerà le scelte del pm. Su dove esattamente sia avvenuto l' incidente invece non filtra alcuna anticipazione.
Maria Elena Vincenzi per "la Repubblica" il 7 aprile 2020. Gaia e Camilla non erano sulle strisce e sono sbucate dal buio. Era difficile vederle, soprattutto per un' auto che correva. E stata depositata in procura la consulenza del perito del pubblico ministero sull' incidente in cui, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso hanno perso la vita, a Roma, le sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. A travolgerle, su corso Francia, grande arteria a nord della citta, Pietro Genovese, ventenne figlio del regista Paolo. La relazione arrivata ai pm conferma la velocita, ma parla anche di concorso di colpa. Ovviamente bisognerà chiarire in quale percentuale, anche sulla base dei calcoli e della perizia sul mezzo. Perchè, questa la tesi dei pm, l' incidente avrebbe comunque potuto essere evitato se la macchina fosse andata piano e se Genovese non avesse bevuto. Ma la consulenza potrebbe alleggerire la posizione a processo (e quindi la futura pena) del ragazzo che, dal 26 dicembre, e ai domiciliari con l' accusa di duplice omicidio stradale: il tasso di alcol nel suo sangue era superiore ai limiti (lo era anche quello di stupefacenti ma non gli e stato contestato perchè non si può dire con certezza se li avesse assunti quella notte). Per studiare bene cosa e accaduto quella tragica notte a pochi giorni dal Natale, il perito nominato dal procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e dal sostituto Roberto Felici, aveva anche chiesto l' autorizzazione ad alcune prove sul posto. L' undici febbraio scorso, i vigili hanno chiuso corso Francia, di notte, per lasciare ai periti (erano presenti anche quelli delle parti, ossia le famiglie delle vittime e dell' indagato) la possibilità di fare tutte le verifiche in loco, cercando di ricreare la stessa scena. Tante le attrezzature usate tra cui anche un dispositivo per ricostruire la scena in 3D e per fare chiarezza sulle divergenti testimonianze raccolte dai vigili del II gruppo quella notte e durante le indagini. C' era infatti chi sosteneva che le adolescenti avessero attraversato sulle strisce e chi, invece, diceva che avevano scavalcato il guardrail in un tratto buio e dove non era previsto l' attraversamento pedonale. E ora, dopo meno di due mesi, la relazione e arrivata a piazzale Clodio. Gli elementi da analizzare sono molti. Certo, c' e il dato del concorso di colpa. Ma in un processo in cui l' ingegneria e i calcoli matematici la faranno da padroni, un peso avrà anche il rispetto dei limiti di velocita: la consulenza dice che sono stati superati. Genovese, anche durante il suo interrogatorio di garanzia, al giudice ha raccontato di aver colpito le ragazze poco dopo essere ripartito da un semaforo rosso. E che, quindi, la sua velocita non era sostenuta. Ma per l' esperto il Suv andava veloce. Tanto che la procura, che con questa perizia considera chiuse ormai le indagini, nei prossimi giorni chiederà il giudizio immediato per Genovese.
Giulio De Santis per il ''Corriere della Sera - Roma'' l'11 aprile 2020. La notte fra il 21 e il 22 dicembre scorso, Pietro Genovese non si è fermato dopo aver investito e ucciso Gaia e Camilla. Dopo averle travolte, ha proseguito per altri 200 metri la sua corsa con il suv che si è poi fermato solo per la rottura del motore sulla rampa della via Olimpica, in direzione Salaria. Un comportamento che ha convinto il pm Roberto Felici a contestare una nuova accusa al 20enne, ipotizzata f