Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
IL TERRITORIO
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL TERRITORIO
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Bolzano.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Veneto.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.
La Lombardia da Bere?
Succede a Milano.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Valle d’Aosta.
Succede a Torino.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Liguria.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)
Succede a Bologna.
Si vota a “Ad Minchiam”.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Firenze.
SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sardegna.
SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Roma.
Succede a Latina.
SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Molise…che non esiste.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Napoli.
SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Puglia.
Succede a Bari.
Si vota a “Ad Minchiam”.
SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Foggia.
SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Taranto.
ArcelorMittal, Ex Ilva. Chi non vuole lavorare.
Succede a Sava.
Succede a Manduria.
Avetrana. La Rivendicazione di Torre Colimena: luogo bistrattato da Manduria.
Succede ad Avetrana.
SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Brindisi.
SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Lecce.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Calabria.
I Buoni ed i Cattivi.
Succede a Reggio Calabria.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sicilia.
Succede a Palermo.
Succede a Messina.
Succede a Siracusa.
Succede ad Agrigento.
IL TERRITORIO
PRIMA PARTE
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede a Bolzano.
Da il "Corriere della Sera" il 17 giugno 2020. Un consiglio di classe riconvocato in fretta e furia dopo la consegna delle pagelle per correggere due voti. Lo si potrebbe definire solamente un caso raro, non fosse che il padre del ragazzo in questione è il sovrintendente scolastico della Provincia di Bolzano. E che quei due voti «sbagliati», un sei e un sette, sono diventati due otto. In Alto Adige il caso è esploso venerdì, con la consegna delle pagelle, e nel mirino è finito il sovrintendente Vincenzo Gullotta. Nato a Catania 50 anni fa, un curriculum ricco di titoli ed esperienze universitarie che gli hanno consentito di fare una carriera lampo. Fino a che, lo scorso anno, l'assessore alla scuola italiana Giuliano Vettorato lo ha voluto al vertice della Sovrintendenza, scelta validata subito dall'ex ministro dell'istruzione Marco Bussetti. Ora però è arrivata la classica buccia di banana che rischia di fargli perdere il posto. Gullotta ha diffuso una nota in cui si dice amareggiato prima «come padre e come cittadino, poi come funzionario» e minaccia azioni legali. «Sono accuse false - scrive -. Comprendo la divergenza di opinioni e anche le critiche sull'operato professionale, ma ritengo estremamente scorretto strumentalizzare la famiglia e in particolare un minore per screditare una figura professionale, per di più senza alcun fondamento di verità, sulla base di fatti mai accaduti. Ho intenzione di tutelare mio figlio, la mia famiglia e me stesso, valutando anche di intraprendere le azioni legali del caso». Tuttavia, il verbale del consiglio di classe lascerebbe poco spazio ai dubbi: si fa infatti riferimento a una comunicazione telefonica ricevuta dalla famiglia e a una conseguente comunicazione scritta arrivata al dirigente scolastico che ha portato il consiglio di classe a decidere a maggioranza di modificare le valutazioni contestate portandole da 6 e 7, a 8. Ma se uno dei due docenti ha ammesso l'«errore formale», l'altro si è rifiutato di fare altrettanto, rimettendo la decisione al consiglio che ha deciso lo stesso di alzare il voto. Una vicenda che, specialmente ora che le valutazioni sono incerte a causa dell'emergenza coronavirus, rischia di innescare una valanga di ricorsi. Dopo che il Corriere dell'Alto Adige ha reso pubblica la storia del cambio dei voti, hanno iniziato a fioccare le richieste di dimissioni. E anche la Provincia ha avviato un'indagine interna. «Se la spiegazione di Gullotta non sarà convincente, il sovrintendente dovrà riflettere seriamente sulle dimissioni» tuona il segretario provinciale del Partito democratico, Alessandro Huber spalleggiato dal consigliere regionale Sandro Repetto che ha già presentato un'interrogazione urgente. E anche i verdi chiedono se sia prassi «riconvocare i consigli di classe dopo la pubblicazione delle pagelle». «Questa vicenda getta una luce inquietante sul mondo della scuola» avverte il consigliere regionale Riccardo Dello Sbarba. Gullotta sembra anche sul punto di perdere l'appoggio dell'assessore leghista Vettorato che ha avviato un'indagine interna: «Faremo tutte le verifiche».
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Veneto.
«BATTERIO KILLER A VERONA, L’OSPEDALE SAPEVA MA NON AVVISÒ LA REGIONE PER MESI». Secondo gli ispettori, il focolaio che uccise quattro neonati era in un lavandino usato dal personale di Terapia intensiva. Giuseppe Pietrobelli il 2 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il batterio-killer che in due anni ha ucciso quattro piccoli ricoverati nella Terapia intensiva neonatale ospedale di Verona, era annidato in un rubinetto. Una prima verità emerge nel caso delle infezioni al Borgo Trento, in una struttura considerata d’eccellenza nella sanità del Veneto che ogni anno impiega più di 10 miliardi di euro.
LA DENUNCIA. La notizia, anticipata da un giornale locale, ha subito suscitato forti reazioni. A cominciare dalla mamma di una delle bambine infettate, Francesca Frezza. Che ha dichiarato: «È stata una strage di neonati che si sarebbe dovuta evitare, perché le infezioni sono cominciate nel 2018 e i reparti sono stati chiusi solo a metà giugno, dopo che io avevo manifestato davanti agli ingressi. Se li avessero chiusi prima, la mia Nina sarebbe viva». La signora Frezza si è poi recata con il fratello, l’avvocato Matteo, ancora una volta davanti al nosocomio scaligero, chiedendo che vengano rimossi dai loro posti i responsabili dei reparti dove si verificarono i contagi e anche i vertici della direzione sanitaria. «Non è possibile che i reparti riaprano con gli stessi medici al loro posto», hanno dichiarato.
IL FOCOLAIO. Il focolaio di Citrobacter si trovava in un lavandino utilizzato dal personale della Terapia intensiva neonatale per prendere l’acqua da dare ai neonati. In due anni ha causato quattro vittime: Leonardo a fine 2018, Nina nel novembre 2019, Tommaso a marzo di quest’anno e Alice il 16 agosto scorso. Ma l’elenco è drammaticamente completato da 9 cerebrolesi e da 96 piccoli colpiti dal batterio.
LA RELAZIONE DELLA COMMISSIONE. La relazione è stata consegnata in Regione Veneto dal professor Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’università di Padova e coordinatore della commissione di verifica nominata il 17 giugno dal direttore generale della Sanità del Veneto, Domenico Mantoan. Il giorno precedente erano stati chiusi i reparti di Ostetricia, di terapia intensiva pediatrica e terapia intensiva neonatale. L’organo ispettivo è composto dai professori Elio Castagnola, primario degli Infettivi dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, Gian Maria Rossolini, docente di Microbiologia dell’ateneo di Firenze, e Pierlugi Viale, ordinario di Malattie infettive a Bologna, dal direttore di Pediatria e Neonatologia dell’usl Berica, Massimo Bellettato, e dai dirigenti di Azienda Zero Mario Saia ed Elena Narne. La relazione parla di una “colonia” di batteri nel lavandino e sarà inviata anche alla Procura della Repubblica di Verona che ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. Il Citrobacter sarebbe arrivato dall’esterno, forse a causa del mancato o parziale rispetto delle misure d’igiene imposte al personale nei reparti ad alto rischio. Ovvero: lavaggio frequente delle mani, cambio dei guanti, utilizzo di sovrascarpe, sovracamici, calzari e mascherina. La conclusione è frutto del controllo sulle cartelle cliniche e procedure seguite, sui protocolli, sugli ambienti e impianti. Ma anche delle audizioni di medici, infermieri, operatori sociosanitari. Nella relazione si afferma anche che l’ospedale di Verona non avrebbe informato le strutture regionali sanitarie e nemmeno quelle ministeriali delle infezioni da Citrobacter, se non a giugno. L’epidemia inoltre, sarebbe stata sottovalutata e sottostimata. Nonostante i numeri drammatici, l’unità di crisi si sarebbe attivata con ritardo.
LA BATTAGLIA DEI FAMILIARI. La mamma di Nina non si era mai arresa. Mentre la piccola era in vita aveva ottenuto di trasferirla a Genova, perché in quell’ospedale le sarebbero state garantite e cure palliative, visto che soffriva terribilmente. La sua denuncia è anche un atto d’accusa- al di là dell’infezione – contro l’atteggiamento che alcuni medici avrebbero tenuto nei suoi confronti. «Sono arrivati al punto di dirmi che avrei potuta dare la mia piccola in adozione!». Il 12 giugno scorso il direttore generale Francesco Cobello aveva il Punto nascite (il più grande del Veneto), la Terapia intensiva neonatale e la Terapia intensiva pediatrica. Il giorno dopo aveva nominato una commissione di esperti. La Regione ne ha aggiunta un’altra di esterni. Nel frattempo durante l’estate è stata avviata la bonifica complessiva dei locali, con particolare attenzione all’aria, alle condutture d’acqua e alla situazione ambientale. Bonificati i filtri dell’aria, gli impianti di condizionamento e sanificazione. Poi è stata effettuata l’iperclorazione della rete idrica, controllando la carica batterica e quella del cloro nell’acqua. I locali sono stati sanificati con il perossido di idrogeno. E’ per questo che è stato riaperto ieri il Punto nascite per i parti dalla 34ª settimana, cioè non a rischio. Entro un mese è prevista anche la riapertura degli altri due reparti.
LA FORZA DI “MAMMA CORAGGIO”. Davanti all’ingresso dell’ospedale di Verona, mentre chiedeva le dimissioni dei responsabili dei reparti, Francesca Frezza, “mamma coraggio” ha ribadito: «Questo è un massacro, una strage di innocenti che si sarebbe dovuto evitare. Ciò che è accaduto è gravissimo. L’ospedale di Verona andava chiuso subito, per sanificarlo e trovare l’origine del Citrobacter. Le infezioni ci sono in tutti gli ospedali, ma si devono prendere provvedimenti, quando avvengono. Invece non si è fatto niente. Dal 2018 si è aspettato fino al 12 giugno scorso prima di chiudere i reparti». Le stesse parole sono state messe a verbale qualche giorno fa, durante un interrogatorio in Procura. «Alla fine la decisione è stata presa perché io ho chiesto la chiusura. Sono andata davanti alle porte dicendo che non mi sarei mossa finché non prendevano provvedimenti».
C’è un’inchiesta, in che cosa spera? «Ho fiducia nella magistratura, che riusciranno ad accertare cosa è accaduto e quali sono le responsabilità. Dopo il secondo caso avrebbero dovuto chiudere tutto. Chiedo: perché non l’hanno fatto? Intanto mia figlia ha sofferto in modo indicibile. I medici l’hanno intubata, volevano operarla, non hanno mai usato cure compassionevoli, nessuna terapia del dolore. La piccola era al limite delle forze quando, finalmente, sono riuscita a portarla via, al Gaslini di Genova. Ha passato i suoi ultimi giorni in un hospice, serena. Almeno se n’è andata senza urlare di dolore».
Paolo Giordano per il Giornale il 27 agosto 2020. Sulla carta era il concerto più spettacolare della storia: i Pink Floyd su di un palco galleggiante a Venezia davanti a San Marco. In realtà si è rivelato lo show più contestato di sempre, roba che oggi ci farebbero decine di talk show e miliardi di post sui social, ma che allora sfociò «soltanto» in interpellanze parlamentari e polemiche sui giornali. Dunque. Dopo alcuni concerti italiani, i Pink Floyd accettarono la proposta del promoter Fran Tomasi di tenere proprio a Venezia uno dei concerti conclusivi del A Momentary Lapse of Reason European Tour. Il 15 luglio 1989. Festa del Redentore, tradizione massima della Laguna. Il palco era galleggiante nel bacino di San Marco davanti al Palazzo Ducale. Gli spettatori che effettivamente seguirono l'evento, tra quelli sulle imbarcazioni e quelli stipati nella piazza della Basilica, furono poi circa duecentomila. Il concerto fu trasmesso in mondovisione per circa cento milioni di spettatori, compresi quelli dell'Urss alla vigilia della fine e quelli delle due Germanie (Est e Ovest) alla viglia della riunificazione. Solo negli Stati Uniti il kolossal dei Pink Floyd fu seguito da 20 milioni di spettatori. In Italia furono più di tre milioni e mezzo, con uno share del 30 per cento per un investimento della Rai pari a un miliardo di lire circa, insomma mica bruscolini. Ma a fare la differenza tra un concerto-evento e un concerto-caso è stata come sempre la politica. Tanto per capirci, il sindaco di Venezia non firmò mai l'ordinanza che autorizzava il concerto. Ci pensò il vicesindaco Cesare De Piccoli ma appena un'ora prima che la band salisse sul palco, quando ormai molti avevano perso le speranze anche se la piazza era già strapiena di pubblico. Fu il momento più teso dopo mesi di polemiche sull'opportunità di tenere un concerto rock in uno dei luoghi più suggestivi del mondo e di tenerlo davanti a così tante persone che avrebbero potuto danneggiare il patrimonio artistico di uno dei posti più belli e invidiati da secoli. L'amplificazione dei Pink Floyd fu pesantemente penalizzata, visto che non avrebbe potuto superare la barriera dei sessanta decibel (oggi sarebbe quasi ridicolo). E la stessa scaletta del concerto fu compressa e ridotta per esigenze televisive e satellitari. Come abituale in Italia, i Pink Floyd interessavano alla politica soltanto in vista di qualche scadenza elettorale o di qualche programma di investimenti. In questo caso, l'allora vicepresidente del Consiglio Gianni De Michelis sognava di candidare la sua Venezia a Expo 2000 e quindi era stra favorevole alla vetrina planetaria che la città si sarebbe garantita in tutto il mondo. Mezza Democrazia Cristiana e i proto ambientalisti non erano invece d'accordo e c'è da capirli: le prospettive musicali erano superlative, ma quelle logistiche lo erano molto meno. E difatti il concerto dei Pink Floyd si è trasformato in uno dei casi più eclatanti della storia del rock. Attenzione: la musica c'entra poco. Il concerto dei Pink Floyd è stato superlativo, anche se compresso nei tempi, con un set di luci e una scaletta da mettere i brividi a chiunque ami la musica. Per capirci, la scaletta prevedeva soltanto 14 brani tra i quali Shine On You Crazy Diamond, Learning to Fly, The Great Gig in the Sky, Wish You Were Here, Money, Another Brick in the Wall (Part 2) e Comfortably Numb. Ossia praticamente una benedizione rock. Ma, una volta andato in scena il concerto, a scatenare le vere polemiche fu ciò che le telecamere inquadrarono dopo che la musica era finita. Uno sfacelo. Immondizia dappertutto. Ragazzi per terra in mezzo alle bottiglie vuote. Le immagini sono impietose e circolano ancora adesso dopo trent' anni. Si calcolarono circa trecento tonnellate di rifiuti e cinquecento metri cubi di lattine e bottiglie vuote, che peraltro l'Amiu locale iniziò a raccogliere soltanto due giorni dopo, con l'aiuto dell'Esercito. Patatrac. La giunta comunale si dimise, anche se pochi giorni dopo il Consiglio comunale rielesse una nuova giunta sostanzialmente identica. In ogni caso, il concerto di Venezia dei Pink Floyd è probabilmente l'evento rock politicamente più contestato di sempre ed è diventato «il caso principe» nelle discussioni in merito agli eventi musicali in luoghi d'arte aperti a un pubblico immenso. David Gilmour, che non è soltanto uno dei chitarristi più decisivi del rock ma è anche il vero depositario della storia di questa band, ha fatto così il proprio bilancio: «Ci siamo divertiti molto, ma le autorità cittadine che avevano accettato di fornire i servizi di sicurezza, i servizi igienici e il cibo hanno completamente rinnegato tutto quello che dovevano fare e poi hanno cercato di incolpare noi di tutti i problemi successivi». Insomma il solito copione: il rock va in scena ma il concerto delle polemiche inizia sempre dopo.
Banca Popolare di Vicenza, il Tribunale civile annulla le donazioni di Zonin a moglie e figlio. Per il giudice "ha posto in essere la cessione in un momento in cui non soltanto aveva la piena consapevolezza delle condotte attuate negli anni precedenti, ma esse erano altresì già state evidenziate dagli organi ispettivi e rese di pubblico dominio dai mezzi di informazione". Giuseppe Pietrobelli il 7 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Il Tribunale civile di Vicenza ha annullato le donazioni di parte di una lussuosa tenuta alla moglie, di un palazzo e di una villa di residenza anche ad un figlio da parte di Giovanni Zonin, presidente della Banca Popolare di Vicenza nell’imminenza del crack che ha travolto l’istituto di credito. Il giudice monocratico Giovanni Genovese ha così accolto le istanze formulate dalla Banca Popolare di Vicenza che si trova nello stato di liquidazione coatta amministrativa. Si tratta di provvedimenti che tutelano, per quanto poco – rispetto all’effettivo buco di bilancio causato durante la gestione di Zonin – il patrimonio della banca. La prima sentenza ha dichiarato l’inefficacia delle donazioni, sottoscritte il 15 gennaio 2016 e il 13 maggio 2016 con cui Zonin aveva trasferito al figlio Michele e alla moglie Silvana Zuffellato alcuni immobili: un palazzo nel centro storico di Vicenza e una villa a Montebello Vicentino. Il nucleo economico finanziario della Guardia di finanza ha accertato che il valore dichiarato dei beni ceduti al figlio era di 320mila euro e di 680mila euro quello degli immobili donati alla moglie. La seconda sentenza ha dichiarato, invece, l’inefficacia della cessione di partecipazione al capitale sociale della Tenuta Rocca di Montemassi S.r.l. siglata il 22 dicembre 2015. In quel caso Zonin aveva ceduto alla moglie il 2 per cento, pari a un valore di 340mila euro. Si tratta di una tenuta di 430 ettari con una enorme dimora nobiliare che si trova in provincia di Grosseto, nel cuore della Maremma. Il valore totale della società è quindi di circa 15 milioni di euro. Per inquadrare l’epoca della donazioni bisogna ricordare che Zonin fu presidente di PopVicenza fino al 23 novembre 2015. Ne giro di due mesi perfezionò le donazioni, quando la tempesta giudiziaria era al culmine. La banca nel ricorso sostiene che egli fu “responsabile di atti di cattiva gestione che causarono il tracollo dell’istituto”, con un danno di centinaia di milioni. La sola Consob gli ha irrogato una sanzione di 370mila euro e la Banca d’Italia di 234mila euro. Il bilancio 2016 della banca ha registrato nel 2016 una perdita di un miliardo 901 milioni di euro. Il giudice scrive che “la responsabilità di Zonin per il tracollo è accertata da numerosi provvedimenti sanzionatori”, a prescindere dal processo penale che è in corso. Inoltre egli “ha posto in essere la cessione in un momento in cui non soltanto aveva la piena consapevolezza delle condotte attuate negli anni precedenti, ma esse erano altresì già state evidenziate dagli organi ispettivi e rese di pubblico dominio dai mezzi di informazione”. “Del tutto fuori luogo” è definita la giustificazione di aver ceduto i beni “per favorire il passaggio generazionale ed anticipare le disposizioni successorie” visto che la moglie all’epoca era settantenne. Mentre la cessione a favore del figlio “appare incontestabilmente effettuata nella consapevolezza di tutto quanto era successo nell’anno precedente”, ovvero la grande crisi della banca. Secondo il giudice, la moglie “era consapevole che la sottrazione di beni aggredibili del patrimonio del marito avrebbe determinato un pregiudizio per i creditori del medesimo, la cui incombenza era evidente a chiunque, a prescindere dall’eventuale convinzione soggettiva sull’effettiva sussistenza di responsabilità, e dunque sulla fondatezza del credito risarcitorio”.
Zonin, la Parrocchia e la donazione della villa in collina lunga 45 anni. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. La legge dice che la donazione si perfeziona solo nel momento in cui l’atto di accettazione è notificato al donante altrimenti può essere revocata. Se il donante è morto la notifica deve essere fatta ai suoi eredi. Nel caso dei sette fratelli Zonin gli eredi sono un piccolo esercito che tra l’altro, molto probabilmente, comprende anche Gianni, per lungo tempo alla guida del gruppo vinicolo (con successo) ma anche della Banca Popolare di Vicenza (un disastro per il quale è sotto processo e con i beni sotto sequestro in attesa di eventuali risarcimenti). Dunque l’attuale parroco, don Lidovino Tessari, una volta accortosi del prolungato «disguido» ha messo la pratica in mano a un architetto della zona e a un notaio di Vicenza. Ora la casa sulla collina, tra i vigneti di Agugliana, pochi chilometri da Gambellara, paese d’origine degli Zonin, è in vendita, anzi è già stato sottoscritto un preliminare. Però, c’era il problema donazione. Non potendo individuare e raggiungere tutti gli eredi, il notaio Tommaso de Negri di Vicenza aveva deciso di procedere con una notifica per pubblici proclami, una sorta di urbi et orbi. E così la vicenda della parrocchia e degli Zonin è planata pochi giorni fa sulla Gazzetta Ufficiale nazionale. Nessuno degli eredi Zonin la legge, ma tanto basta per perfezionare la donazione del 1974. «All’epoca ci fu un cambio di parroci - dice don Lidovino al telefono - e devono aver tralasciato una firma, poi è andato tutto nel dimenticatoio». La parrocchia, nel frattempo, ha sempre mantenuto il possesso dell’immobile, a lungo abitato da sacerdoti e utilizzato per riunioni e attività parrocchiali. Che poi nelle carte ufficiali del notaio sia indicata come «San Nicolò» mentre in quelle della diocesi «San Nicola», speriamo sia un dettaglio che non faccia perdere qualche altro decennio. Due ragazzi hanno già pagato la caparra.
Carreri, il libro dell’ex toga che voleva processare Zonin. Vvox.it il 23 Giugno 2017. Torna alla ribalta mediatica l’ex magistrato Cecilia Carreri, il cui nome è legato al processo che non si fece mai a Gianni Zonin e ad altri ex dirigenti della Banca Popolare di Vicenza. Lo fa con un libro in uscita il 29 giugno dal titolo “Non c’è spazio per quel giudice“, in cui ha voluto – come ha detto lei stessa ad Andrea Priante sul Corriere del Veneto del 21 giugno a pagina 21 – «tracciare un bilancio conclusivo del mio lavoro di magistrato, comprese le nuove indagini sul crack della Popolare di cui ebbi a occuparmi anni fa». Sull’inchiesta in corso sulla BpVi e i suoi ex vertici, la Carreri commenta: «per un crack bancario di così grandi dimensioni, avremmo eseguito misure cautelari del carcere, intercettazioni telefoniche e rogatorie, sequestri e perquisizioni a sorpresa. Ma anche il tema delle indagini sarebbe stato più esteso, non limitato ai risparmiatori truffati. Così si faceva ai miei tempi». «La procura di Milano ha un elevato livello di specializzazione ma anche la guardia di finanza ha nuclei specializzati che però non vedo a Vicenza – continua l’ex magistrato -. Dietro il crack della banca ci sono state per anni operazioni finanziarie complesse, collegate anche a società private ed estere, un quadro che richiederebbe un impegno investigativo di notevole livello tecnico. Mi sorprende infine lo scollamento delle indagini di Vicenza con Banca Nuova presente in Sicilia e Calabria, una realtà che poteva aprire scenari nuovi». Riprendiamo alcuni stralci del libro della Carreri pubblicati dal Corriere del Veneto: «Quando nel 1997 arrivò Antonio Fojadelli come nuovo procuratore di Vicenza iniziò subito a prendermi di mira. S’intrometteva di continuo nell’organizzazione dell’Ufficio indagini preliminari»; «Nel 2001 la procura di Vicenza aprì un fascicolo a carico di Zonin e altri, scaturito da alcune segnalazioni e da un’ispezione di Bankitalia. Le accuse andavano dal falso in bilancio alla truffa. (…) Balzava evidente l’assoluta mancanza di controlli istituzionali su quella gestione:
un collegio sindacale completamente asservito, un Cda che non faceva che recepire le decisioni di quell’imprenditore, padrone incontrastato della banca. Nessuno si opponeva a Zonin, nessuno osava avanzare critiche, contestazioni»;
«Si capiva perfettamente, leggendo gli atti, che il procuratore (di Vicenza, ndr) non aveva voluto approfondire. Avrebbe dovuto procedere con intercettazioni, sequestri, verifiche bancarie, rogatorie, ordini di cattura. Il materiale poteva consentire indagini di alto livello. I reati balzavano agli occhi»;
«La procura (…) chiese l’archiviazione. Nelle scorse settimane, Fojadelli ha difeso il suo operato: “La magistratura fece il suo dovere. Semplicemente, all’epoca non furono evidenziati comportamenti illegali”»;
«Il gup che alla fine aveva celebrato l’udienza, Stefano Furlani, anziché limitarsi a valutare se disporre il rinvio a giudizio, aveva subito prosciolto Gianni Zonin e il consigliere delegato Glauco Zaniolo. Decisione impugnata dalla procura generale, secondo la quale “il gup Furlani ha palesemente travalicato i limiti delle sue funzioni appropriandosi in modo non consentito del ruolo e dei compiti del giudice del dibattimento”. Ma non cambiò nulla e Zonin alla fine ne uscì “pulito”. Nel 2005 un nuovo rivolo dell’indagine finì in Corte d’appello “dove all’epoca vi erano diverse conoscenze, come il famoso pg Ennio Fortuna, Gian Nico Rodighiero, quello che mi aveva giurato vendetta e che si diceva andasse a caccia con Gianni Zonin, e Manuela Romei Pasetti, diventata presidente della Corte e che nel 2012 sarebbe stata cooptata nel Cda della siciliana Banca Nuova del Gruppo Popolare di Vicenza»;
«I fatti erano chiari: in un modo o nell’altro ero fuori dalla magistratura. Se volevano eliminarmi, ci erano riusciti facendo in modo che fossi io, disperata, a dare le dimissioni. Il linciaggio mediatico mi aveva dato il colpo di grazia e poteva aver avuto una regia occulta».
Pfas nelle acque del Veneto, i medici: “Un disastro sanitario”. Le Iene News il 17 gennaio 2020. Con Nadia Toffa vi abbiamo raccontato la bomba ecologica e sanitaria legata all’infiltrazione di Pfas nei terreni agricoli delle province venete. Un’associazione di medici ambientali accusa: “È una delle emergenze italiane più gravi, occorre una legge per limitare i fanghi di depurazioni”. Quella da Pfas è una delle più gravi emergenze ambientali, che necessita di approfonditi studi epidemiologici e di una accurata mappatura dei pozzi. Lo sostiene l'Associazione Italiana Medici per l'Ambiente, che durante una conferenza stampa alla camera dei Deputati ha fatto il punto sul grave inquinamento di una parte del territorio della regione Veneto. Un allarme, quello che riguarda le province di Vicenza, Verona e Padova, di cui ci ha parlato più volte nei suoi servizi Nadia Toffa, come potete vedere sopra. Per l’associazione dei medici ambientali “gli acidi usati nei processi industriali e poi sversati per decenni nel suolo e nelle falde acquifere hanno causato una delle emergenze sanitarie e ambientali più gravi che il nostro Paese abbia mai dovuto affrontare". Le richieste alla politica sono chiare: “Una legge nazionale che obblighi a dosare le Pfas prima che i fanghi di depurazione siano sparsi sui terreni agricoli come fertilizzanti e che il limite di Pfas nell'acqua sia pari a zero". Il presidente di Isde Veneto, Vincenzo Cordiano, ha spiegato che “i limiti di 100 ng/l per tutte le Pfas previsti in Europa nell'accordo preliminare sulla direttiva acque sono altissimi perché basta un solo nanogrammo per litro nell'acqua di acido perfluoroottanoico, una delle molecole più tossiche, per raggiungere nel sangue, nel giro di un paio di anni, concentrazioni potenzialmente tossiche specie per neonati, gravide e anziani". Intanto al tribunale di Vicenza si tengono le udienze sulla contaminazione dell'acqua da Pfas in Veneto, che sarebbe stato causato in maniera dolosa dall’azienda Miteni. Con Nadia Toffa, già nel 2016, vi abbiamo raccontato la situazione dell’acqua nelle aree attorno a quell’azienda, che produce proprio Pfas. Parliamo di pericolose sostanze usate come impermeabilizzanti per pentole, tessuti, scarpe, cartoni per le pizze. Il processo che sta per iniziare vede numeri da record: 13 imputati, decine di richieste di costituzione di parte civile tra enti pubblici e persone fisiche in rappresentanza di più di 200mila residenti. Anche il danno stimato dai primi riscontri dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, purtroppo, sono da record: 136,8 milioni di euro. Come vi abbiamo raccontato con Nadia Toffa, secondo studi americani, i Pfas possono provocare malattie come diabete, problemi alla tiroide, aumento del colesterolo con rischi di ictus e infarto, gestosi e varie forme di tumore. Nelle zone interessate, abitate da 300mila persone, è stato riscontrato un aumento della mortalità dal 10 al 30%. Le acque contenenti Pfas non solo sono state bevute dagli abitanti dell’area ma sono state usate anche per irrigare i campi, con pericolo di inquinamento per ortaggi e verdure, con rischi anche per l'acqua e il cibo degli animali. In pratica, potrebbero aver inquinato frutta, verdura e carni che potrebbero essere finite nei supermercati e sulle tavole di tutta Italia. Alcuni degli abitanti di quelle zone, incontrati dalla nostra Nadia, ci hanno raccontato che dalle loro analisi risulta presenza di Pfas nel sangue. Tra queste persone ci sono Michela e sua figlia: “Quando io vado al supermercato come faccio a comprare le cose che vengono da qua?”, ci ha detto Michela, che ha smesso di bere l’acqua del rubinetto per paura della contaminazione. “Al giorno siamo in quattro e consumiamo 12 litri d’acqua. Uso quella comprata non solo per bere e cucinare, ma anche per fare il caffè o fare l’ultimo risciacquo della verdura. Non so come certa gente quando la sera chiude gli occhi possa dormire”. Le accuse su cui si basa il processo sono due: avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana sia di falda che di superficie e disastro innominato. Dalla contaminazione, secondo l’accusa, sarebbe infatti derivato “un pericolo per la pubblica incolumità consistito, in particolare, in un elevato bio-accumulo dei contaminanti Pfas-Pfoa nella popolazione esposta”.
Il Veneto. Venezia, Padova, Verona: tre province unite dallo stesso veleno. Si chiamano Pfas le sostanze perfluoro-alchiliche che usate per decenni dalle industrie della zona, hanno contaminato 300 mila persone. E ora un’azienda chimica è finita alla sbarra. Davide Martello il 31 dicembre 2019 su L'Espresso. C’è una cosa che accomuna tutti le persone che abitano questo pianeta o quasi. Sono i Pfas, molecole composte di fluoro e carbonio usate nella creazione di un’infinità di prodotti industriali. Con il tempo sono passate dalle fabbriche ai corsi d’acqua e da lì nel sangue del 95 per cento della popolazione mondiale. Nella maggior parte dei casi la presenza di Pfas negli organismi umani è minima, con effetti sulla salute difficili da determinare. In altri casi le concentrazioni sono massicce, con conseguenze sanitarie potenzialmente gravi. C’è una ragione se i Pfas si sono diffusi così capillarmente in tutto il globo. La loro composizione li rende molto stabili dal punto di vista termico e chimico, idrorepellenti e solubili nelle sostanze oleose. Questo li ha portati, a partire dagli anni ‘60, a essere sintetizzati in più di 3.000 varianti e inseriti in un numero crescente di prodotti: detersivi, imballaggi alimentari, shampoo, dentifrici, pellicole fotografiche, schiume per estintori e, più recentemente, Teflon e Gore-Tex. In sessant’anni di produzione - e dispersione - i Pfas sono finiti in ogni angolo della Terra, tanto che sono presenti anche negli organismi di animali selvatici come orsi polari e foche. Si dibatte su quali siano i rischi legati alla presenza di Pfas in grande concentrazione nell’organismo umano. A livello internazionale l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ritengono che il Pfoa (uno dei Pfas di più largo uso industriale) sia «possibilmente collegato» all’emergere di alcuni tipi di tumore. Oltre alla cancerogenicità si sospetta che i Pfas abbiano altri effetti nocivi sull’organismo umano come interferenza endocrina, aumento del colesterolo, malattie cardiocircolatorie, problemi durante la gravidanza (soprattutto sulla salute del feto). Il tutto per arrivare a una questione italiana: ci sono 300 mila persone che, in Veneto, in un’ampia fascia a cavallo tra le province di Vicenza, Padova e Verona, a partire dal 2016 hanno scoperto nel loro sangue concentrazioni anomale di Pfas. Come mai una larga fetta di veneti si ritrova nel sangue un accumulo fuori norma di Pfas? Tutto inizia nel 2013, quando il Consiglio Nazionale delle Ricerche pubblica un corposo studio sulla dispersione degli Pfas nei maggiori fiumi italiani, soffermandosi in particolare sulla abnorme presenza di questi nei bacini fluviali del Veneto. Risalendo verso le Alpi per capire il luogo da cui le sostanze provenivano la ricerca è arrivata a Trissino, paese di 8.000 abitanti in provincia di Vicenza. E sede di un’importante fabbrica di produzione di Pfas, la Miteni S.p.a. La relazione del Cnr ha ritenuto la Miteni responsabile della dispersione dei Pfas nelle acque dei fiumi veneti, mentre successive indagini mostreranno che dalla sede dell’azienda i Pfas erano penetrati anche nella falda acquifera sotterranea, dalla quale pescavano molti impianti idrici di tutta la Regione.La contaminazione - che potrebbe essere in atto sin dall’apertura dello stabilimento negli anni’60 - porta all’inizio di un’opera di bonifica della zona, che a parere di molti è però tardiva e insufficiente. Ci vuole tempo, ma lentamente la notizia passa dalle sale chiuse di amministrazioni e centri ricerca al dibattito pubblico. In una terra storicamente poco portata alle proteste collettive iniziano a nascere comitati spontanei che chiedono chiarezza su quanto successo. I primi sono le Mamme No Pfas, nate nel comune di Lonigo e poi sbocciate un po’ dappertutto dentro i confini della “zona rossa”, l’area a cavallo tra le tre province più colpite dalla contaminazione. Le Mamme No Pfas chiedono di capire cosa si può fare per la salute dei loro figli, dato che i Pfas sembrano avere effetti più pesanti sulle fasce più giovani della popolazione. La mobilitazione si fa via via più forte, coinvolgendo sempre più persone, associazioni e gruppi spontanei. Nel dicembre 2016 la pressione pubblica si fa sentire anche sulla Regione Veneto che dispone un massiccio screening della popolazione, per quantificare l’estensione della contaminazione. Su 300 mila persone potenzialmente contaminate 89 mila vengono invitate a sottoporsi a delle analisi per verificare la presenza dei Pfas nei loro organismi. Secondo una ricerca pubblicata a maggio del 2019 dall’Isde (International society of doctors for environment) hanno preso parte allo screening circa il 60 per cento degli invitati e in una larga parte di essi è stata trovata una concentrazione anomala degli inquinanti. A questo punto la vicenda travalica i confini della Regione e arriva direttamente al Parlamento, alla Commissione sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti che, nel febbraio del 2018, pubblica una relazione che fa il punto su tutta la vicenda. La relazione riporta in particolare gli inquietanti dati sui possibili effetti della contaminazione nella zona rossa. Posta la difficoltà statistica e scientifica di provare il nesso tra inquinamento e malattie, dagli studi emerge un aumento della mortalità generale nella all’area rossa rispetto alle zone vicine, soprattutto per alcune patologie che la letteratura ha già accostato ai Pfas, come malattie cerebrovascolari, infarti, diabete e Alzheimer (le ultime due soprattutto per le donne). Durante il 2018 si consumano gli ultimi atti della vicenda: a marzo viene dichiarato lo stato di emergenza nelle zone contaminate (con uno stanziamento di 56 milioni di euro per la bonifica) e in ottobre la Miteni dichiara fallimento, anche a causa dell’ormai insostenibile pressione dell’opinione pubblica. Manca l’ultimo attore del dramma. Un attore che fino ad ora è stato sullo sfondo ma che ha seguito tutto l’accaduto: la Procura di Vicenza. Il primo atto pubblico nel processo che tutti si aspettavano è del luglio del 2019 ed è la richiesta di rinvio a giudizio per dieci amministratori della Miteni per i fatti compiuti fino a quando la contaminazione è diventata di dominio pubblico, nel 2013. Tra gli imputati ci sono sia figure apicali delle società che detenevano la maggioranza delle quote della Miteni - la Mitsubishi fino al 2009 e successivamente la multinazionale della chimica Icig - che alcuni tra i dirigenti dello stabilimento stesso. Le imputazioni formulate dai Pm sono pesantissime: avvelenamento di acque e disastro doloso, accuse che potrebbero portare a condanne superiori ai 15 anni di carcere. La prima udienza si è tenuta l’11 novembre scorso e per il momento il processo è fermo alla fase di costituzione delle parti civili. A chiedere di essere risarciti sono in più di 200 tra famiglie, ex operai, associazioni, enti pubblici, sindacati; un indicatore significativo del turbamento che la vicenda ha portato a tutti i livelli della società veneta. Il processo si preannuncia come parte di un’iniziativa dell’autorità giudiziaria che dovrà necessariamente essere più ampia. Ci sono due aspetti di tutta la vicenda finora ignorati e che prima o poi dovranno finire sotto gli occhi dei giudici. Il primo riguarda quello che è successo dopo il 2013, momento in cui si è scoperta la contaminazione ma non in cui questa è stata fermata. Il secondo riguarda le responsabilità pubbliche in tutto l’accaduto: finora sono stati chiamati in causa solo gli amministratori della Miteni, ma sarà necessario valutare le responsabilità dell’amministrazione pubblica nel mancato controllo su un inquinamento che è proseguito per decenni. In altre parole, gli stessi enti pubblici che oggi siedono tra i banchi dei danneggiati, domani potrebbero finire su quello degli accusati. Questo processo non potrà raddrizzare tutti i torti causati dalla contaminazione dei Pfas. Potrà individuare delle responsabilità, disporre dei risarcimenti, dare alla vicenda la pubblicità che finora per molti aspetti è mancata ma non restituirà la salute a chi l’ha persa, né sarà in grado di risanare l’ambiente intaccato dall’inquinamento. Forse l’aspetto più incisivo di un processo come questo si trova nell’assunzione di responsabilità di una comunità che decide di guardare in faccia i danni causati da un sistema produttivo che ha beneficiato tanti e che ora presenta il conto da pagare. Su questo punto c’è un piccolo fatto laterale che va preso in considerazione. Il 13 novembre, due giorni dopo la prima udienza del caso Pfas, sempre davanti al Tribunale di Vicenza è iniziato un altro processo. Gli imputati sono cinque tra i più noti attivisti del movimento No Pfas. L’accusa è quella di aver organizzato una manifestazione di protesta pacifica davanti alla sede della Miteni senza averlo comunicato alla questura. Non è mai facile, nonostante tutto, voler bene a chi dice delle scomode verità.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.
Fondi europei in pasto ai maiali: la Lombardia fa il pieno. Anche di inquinamento. Sono 168 i comuni della Regione a rischio ambientale per eccessivi carichi di azoto legati agli allevamenti intensivi. Eppure continua il flusso di denaro pubblico, mentre le piccole aziende che producono in modo ecologico scompaiono in silenzio. L'indagine dell’Unità investigativa di Greenpeace. Elisa Murgese e Diego Gandolfo, Unità Investigativa di Greenpeace, il 09 giugno 2020 su L'Espresso. Un comune su dieci in Lombardia è a rischio di inquinamento a causa degli allevamenti intensivi. Eppure l'Europa continua a finanziare questo settore produttivo, tanto che metà dei fondi europei per la zootecnia destinati alla Lombardia finiscono proprio nelle tasche degli allevamenti che si trovano nei territori a maggiore rischio ambientale. A rivelare questo cortocircuito è l' inchiesta dell'Unità Investigativa di Greenpeace Italia che ha analizzato il flusso di denaro pubblico che dall'Europa arriva in Lombardia, regione capofila della zootecnia in Italia, dove sono allevati il 50 per cento dei suini e il 25 per cento dei bovini del nostro Paese. Tanti animali significa tanti liquami, deiezioni che stanno mettendo a rischio inquinamento il territorio. A dirlo la stessa Regione Lombardia che, alla fine dello scorso anno, ha diffuso una relazione tecnica con una mappa puntellata di rosso : ben evidenziati i 168 comuni dove nel 2018 si è superato il limite legale annuo di azoto per ettaro. Si tratta di un calcolo fatto a tavolino: il Pirellone ha preso in mano l'elenco dei capi allevati in Lombardia e ha calcolato la quantità di azoto prodotta dagli allevamenti. Da notare che il carico di azoto al campo è definito per legge in quanto il suo accumulo eccessivo mette i territori a rischio di inquinamento. Eppure, nell'11 per cento dei comuni lombardi il numero dei capi allevati è talmente alto che il limite di legge non viene rispettato. Non solo. Nei comuni lombardi "fuorilegge" arriva quasi la metà dei soldi pubblici europei destinati alla regione per la zootecnia, ossia ben 120 milioni di euro: lo si scopre confrontando la relazione tecnica con il database dei finanziamenti europei per l'agricoltura (PAC). L'immagine tradizionale è quella del letame come risorsa, distribuito nei campi come fertilizzante. Tuttavia, dobbiamo immaginarci ogni campo agricolo come una vasca da bagno: infatti, ogni terreno - in base alle sue caratteristiche e al tipo di coltivazione - può assorbire un dato quantitativo di deiezioni animali, oltre il quale è come se strabordasse. Ed è proprio quando l'accumulo è eccessivo, che il letame può diventare un pericolo per l'ambiente e per la salute. «Esiste una relazione tra l'esposizione cronica a nitrati (derivati dell'azoto, ndr.) e una maggiore incidenza di cancro negli adulti”, dichiara Carlo Modonesi, membro del Comitato scientifico dell'Associazione Medici per l'Ambiente (ISDE). Tanto che l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), emanazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha inseriti i nitrati nel gruppo dei « probabili cancerogeni per l'uomo». Com'è possibile che i nitrati provenienti dagli allevamenti finiscano a contatto con l'uomo? «Per esempio, se l'acquedotto preposto all'approvvigionamento di acqua potabile di una certa città attinge da falde sotterranee che sono state inquinate», spiega Modenesi. Per scongiurare il rischio di cancro, in realtà, «non esistono limiti minimi di sicurezza perché, nel caso specifico, il rischio zero è associato a concentrazioni pari a zero» chiude l'esperto.
In Lombardia "mezzo maiale" pro capite. Secondo la Commissione europea, nell'ultima Relazione sull'applicazione della Direttiva nitrati , i liquami degli allevamenti, se non correttamente gestiti, possono essere causa di “notevoli rischi per l'ambiente”, soprattutto quando si ha “un numero elevato di capi concentrato in uno stesso luogo”. È il caso della Lombardia, dove si trovano in media quasi un maiale ogni due abitanti e circa 180 suini per chilometro quadrato. Stando alla Commissione europea, un territorio con una così alta densità di animali è esposto a elevati rischi ambientali. «Il problema è la densità molto alta di allevamenti in poche zone circoscritte - spiega Pierluigi Viaroli, docente all'Università di Parma ed esperto di eutrofizzazione e qualità delle acque - Quando si comincia ad avere un allevamento da mille capi bovini o da 5-10 mila capi suini, trovare una modalità sostenibile di spandimento delle deiezioni è difficile». Così lo spandimento di effluenti zootecnici, da risorsa utile al terreno agricolo, rischia di diventare un fattore inquinante.
I comuni lombardi "fuorilegge". Per evitare il rischio di inquinamento, l'Europa ha regolamentato lo spandimento dei liquami con la Direttiva Nitrati (91/676/CEE) , fissando il limite di carico di azoto che ogni terreno può assorbire. Tenendo presenti questi limiti, la relazione tecnica di Regione Lombardia evidenzia che nel 2018 un comune lombardo su dieci ha più capi rispetto alla capacità del suo territorio di assorbire l'azoto derivato dalle loro deiezioni. Un eccesso di effluenti - e quindi di carico di azoto - che aumenterebbe il rischio di inquinamento con conseguenze sulla salute pubblica. Un quadro che non stupisce, visto che l'Italia è già sotto procedura di infrazione da parte della Commissione europea proprio per mancato adeguamento alla Direttiva Nitrati. In particolare Bruxelles contesta carenze nella designazione delle ZVN, nei monitoraggi delle acque e nell'adozione di misure supplementari per contrastare l'inquinamento da nitrati. Infatti "il limite di 170 chili/ettaro di azoto è superato in gran parte delle aree agricole di pianura delle province di Bergamo e Brescia, nella parte sudoccidentale e nordoccidentale (al confine con la provincia di Brescia) della provincia di Mantova, nel settore settentrionale della provincia di Cremona e in alcuni comuni della provincia di Lodi; in alcuni comuni viene frequentemente superato anche il limite di 340 chili/ettaro" si legge nei documenti della Regione. Nei comuni che hanno sforato, dunque, «se l'utilizzo e la gestione dei reflui zootecnici non sono effettuati correttamente, si può incorrere in danni all'ambiente», spiega Sabrina Piacentini, consulente ambientale per diversi comuni lombardi, e precedentemente parte del pool del Nucleo intervento tutela ambientale (NITA). Il rischio, continua Piacentini, è che ci sia «un inquinamento dell'aria e del suolo, dove si possono accumulare elementi minerali poco solubili, metalli pesanti e fosforo», ma si può arrivare anche a una contaminazione «dell'acqua superficiale e della falda con possibile compromissione della potabilità e aumento del grado di eutrofizzazione». Eppure, è proprio in questi comuni che, secondo l'indagine di Greenpeace, finisce la maggior parte dei finanziamenti europei destinati al settore zootecnico della Lombardia.
Fondi Ue, 120 milioni ai comuni fuorisoglia. Oltre ad avere analizzato la mappa degli sforamenti di Regione Lombardia, dopo mesi di richieste e un accesso civico generalizzato (FOIA), l'Unità Investigativa dell'associazione ambientalista è riuscita a ottenere dall'Organismo pagatore di Regione Lombardia il database dei fondi europei della Politica Agricola Comune (PAC) erogati alle aziende lombarde. Dati alla mano, degli oltre 250 milioni di euro che nel 2018 sono stati destinati agli allevamenti della Lombardia, ben 120 milioni (quasi il 45 per cento) sono finiti nei 168 comuni che il Pirellone segnala come territori dove è stato sforato il carico legale di azoto. Nei documenti si scopre anche che i 40 comuni lombardi in cui gli allevamenti hanno ricevuto più fondi rientrano tutti nelle ZVN e più dell'80 per cento di essi ha sforato il limite di carico di azoto. Inoltre, stando al Sistema Informativo Lombardo Silva, tra dicembre 2018 e gennaio 2020, in 33 di questi comuni sono stati approvati almeno dieci progetti di costruzione o di ampliamento di allevamenti. Un dato sottostimato poiché non contempla i progetti minori che non entrano nel sistema di valutazione regionale e provinciale. Insomma: un meccanismo che non sembra destinato a fermarsi nel breve periodo.
Ispezioni quasi nulle. La PAC, e nello specifico i finanziamenti europei alla zootecnia, potrebbe avere un ruolo nella riduzione dell'impatto degli allevamenti. «Per anni, soprattutto dal 1964 al 2004, la Politica Agricola Comune ha finanziato gli allevamenti intensivi; l'ottica era quella di incentivare la produzione poiché era il cibo ad essere scarso. Adesso, invece, la risorsa scarsa è l'ambiente» spiega Angelo Frascarelli, professore di Economia ed Estimo Rurale presso l'Università di Perugia, tra i massimi esperti della PAC. Il meccanismo potrebbe essere corretto se l'accesso ai finanziamenti europei fosse rigidamente subordinato al rispetto di norme ambientali da parte degli allevatori. Invece dobbiamo ancora fare i conti con un sistema di ispezioni particolarmente debole. «Molti controlli sono fatti sulla carta più che sul campo, e spesso risultano inefficaci» prosegue Frascarelli. Sono i dati a confermarlo: in Lombardia, le ispezioni in loco si effettuano solo nel 4 per cento degli allevamenti mentre solo l'1 per cento dei trasporti di refluo è ispezionato. Anche se è proprio la Regione Lombardia a indicare una sovrabbondanza di deiezioni nel suo territorio, il Pirellone lo scorso dicembre ha fatto richiesta di innalzare ulteriormente i limiti dello spandimento di liquami. In poche parole, invece di ridurre l'impatto degli allevamenti, si è chiesto di potere andare in deroga alla Direttiva nitrati e spandere ancora più letame, come conferma l'assessore all'Agricoltura, alimentazione e sistemi verdi Fabio Rolfi. «Abbiamo chiesto all'Unione europea che il limite allo spandimento venga innalzato oltre l'attuale di 250 chili/ettaro concesso fino a oggi per le aziende in deroga» dichiara Rolfi. «Di fronte a una situazione di carichi di azoto già eccessivi, la soluzione non può essere una ulteriore deroga - commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura e Progetti Speciali di Greenpeace Italia - La nostra analisi mette chiaramente in luce come l'origine del problema sia l'eccessivo numero di animali allevati, soprattutto se a concentrazioni così elevate come in Pianura Padana. I rischi per l'ambiente e la salute non possono più essere più ignorati». Secondo Greenpeace, parte della soluzione è fermare proprio il flusso di denaro pubblico verso gli allevamenti intensivi, a favore di metodi di produzione ecologici . «Per rispettare l'Accordo di Parigi ed evitare il disastro ambientale e climatico è necessario ridurre drasticamente la produzione e il consumo di carne e latticini». In Italia, questo significherebbe valorizzare le tante produzioni di qualità su piccola scala per renderle ancora più sostenibili e resilienti anche a crisi come quella legata al Covid-19. «È il momento di agire per produrre meno e meglio, in questo modo ne beneficerà sia la qualità dell'ambiente che del cibo e anche le condizioni di lavoro del settore agricolo» conclude Federica Ferrario.
Inquinamento atmosferico, il Bacino Padano fra le aree peggiori d'Europa. Pubblicato mercoledì, 03 giugno 2020 da La Repubblica.it. Il Bacino padano è una delle aree dove l'inquinamento atmosferico è più pesante in Europa. Lo rivela l'Annuario dei dati ambientali 2019 dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), il centro studi del ministero dell'Ambiente che ha fotografato la situazione in Italia. Guardando ai dati del 2019, il valore limite giornaliero del PM10 è stato superato nel 21% delle stazioni di monitoraggio (50 microgrammi per metro cubo, da non superare più di 35 volte l'anno). Rispettati invece i limiti per i PM2,5 nella maggior parte delle stazioni di rilevamento. Uno degli effetti del lockdown è stata la riduzione del biossido di azoto tra il 40 e 50% nelle regioni del Nord e nella Pianura padana. Ambiente Coronavirus, Crea: in Italia -1.500 morti grazie al calo dello smog.
Inquinamento elettromagnetico. Per quanto riguarda l'inquinamento elettromagnetico, tra luglio 2018 e settembre 2019 i casi di superamento dei limiti di legge sono aumentati (+ 6%) sia per gli impianti radio televisivi (RTV) sia per le SRB - Stazioni Radio Base della telefonia mobile (+4%). Per le sorgenti ELF (a bassa frequenza, cioè elettrodotti ed elettrodomestici) i dati risultano sostanzialmente invariati.
Inquinamento delle acque: allarme pesticidi. Per quanto riguarda le sostanze chimiche, a preoccupare sono soprattutto i pesticidi: nelle acque superficiali il 24,4% dei punti monitorati mostra concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientale. Il 6% nelle acque sotterranee. L'Ue è il secondo produttore mondiale di sostanze chimiche dopo la Cina. L'Italia è il terzo produttore europeo, dopo Germania e Francia, con più di 2.800 imprese attive e 110.000 addetti.
La situazione in Italia. L'Annuario Ispra ci dice anche che le temperature crescono in Italia più che in altre parti del mondo: +1,71 gradi Celsius nel 2018 contro +0,98 globale. Diminuiscono però i gas serra (-17,2% dal 1990 al 2018). Il dossier segnala anche una grave situazione per fauna e flora, minacciate da inquinamento e specie aliene, mentre appare in buono stato solo il 48% dei fiumi e il 20% dei laghi italiani. Bene le aree protette del nostro Paese. Inoltre, con il 18,3% di energie rinnovabili, Italia supera obiettivo 2020 fissato dalla Ue. Quest'anno le informazioni sull'ambiente in Italia si confrontano con i recenti trend europei elaborati dall'Agenzia europea dell'ambiente e illustrati lo scorso dicembre a Bruxelles nel "SOER 2020 - State of the Environment Report". A questi report, si aggiunge un altro documento, il ''Rapporto Ambiente di Sistema'', che propone alcuni focus regionali. Il quadro nazionale e le esperienze regionali vengono delineate nei tre report ambientali. Nonostante le politiche climatiche e ambientali dell'Unione europea abbiano portato vantaggi sostanziali negli ultimi decenni, il nostro continente deve affrontare questioni di grande portata: perdita della biodiversità, uso delle risorse, impatti dei cambiamenti climatici e rischi ambientali per la salute e il benessere. "Presentiamo oggi questi rapporti in un momento in cui la politica italiana ed europea guarda con occhi nuovi allo European Green Deal - ha dichiarato il presidente Ispra ed Snpa Stefano Laporta - un obiettivo ambizioso ma non impossibile, a patto che si attui una profonda trasformazione industriale, ambientale, economica e culturale in Europa. Un'occasione per rilanciare un nuovo modello economico, con una maggiore attenzione all'ambiente e alla biodiversità. Abbiamo tutti compiti importanti e sfide ambiziose per accompagnare il Paese verso quello sviluppo sostenibile che è l'unica strada da percorrere per il rilancio economico e sociale". L'Annuario Ispra esce nel momento in cui il mondo intero è impegnato nella sfida senza precedenti del Covid-19. Dalla contrazione forzata delle attività economiche è venuto un miglioramento delle condizioni ambientali, con un costo sociale altissimo. La sfida oggi è far sì che tali condizioni non siano transitorie, ma socialmente sostenibili. La "ripartenza" riceve un nuovo e ambizioso impulso dalla Commissione europea grazie anche al Green Deal europeo.
Green Deal: gli obiettivi per l'ambiente. Tre le priorità politiche ambientali indicate dall'Ue nel Settimo programma di azione per l'ambiente: proteggere, conservare e migliorare il capitale naturale dell'Unione europea; trasformare l'Unione in un'economia a basse emissioni di carbonio, efficiente nell'impiego delle risorse, verde e competitiva; proteggere i cittadini da pressioni legate all'ambiente e da rischi per la salute e il benessere. Vediamo nel dettaglio come l'Italia risponde alla sfida. In base alle elaborazioni del Soer 2020, solo 2 dei 14 indicatori utilizzati per monitorare il 'capitale naturale' - l'insieme delle risorse naturali essenziali per lo sviluppo del Paese, in termini economici e sociali - mostrano andamenti auspicabili per l'Europa : solo le aree protette sono in buono stato, sia terrestri che marine, mentre va male la tutela della flora, fauna, degli ecosistemi e del suolo.
Un patrimonio di biodiversità. Con le sue 60 mila specie animali e 12 mila vegetali, l'Italia è uno dei Paesi europei più ricchi di biodiversità in Europa e con livelli elevatissimi di endemismo (specie esclusive del nostro territorio). Un patrimonio che vede alti livelli di minaccia per flora e fauna. Forte argine al degrado sono la Rete Natura 2000 e il Sistema delle aree protette italiane: quelle terrestri sono 843 e coprono il 10,5% del territorio nazionale, 29 le aree marine protette, 2.613 i siti della Rete Natura 2000 (19,3% del territorio nazionale). Quanto allo stato di salute della fauna in Italia, tra i vertebrati sono i pesci d'acqua dolce quelli più minacciati (48%), seguiti dagli anfibi (36%) e dai mammiferi (23%). Tra le piante più tutelate dalle norme Ue, il 42% è a rischio. Le minacce più gravi vengono, però, dal costante aumento delle specie esotiche introdotte in Italia - più di 3300 nell'ultimo secolo - dal degrado, dall'inquinamento e dalla frammentazione del territorio.
Fiumi e laghi. Lontana dagli obiettivi europei la salute di fiumi e laghi in Italia. Neanche la metà dei 7.493 corsi d'acqua raggiunge uno "stato ecologico buono o elevato" (43%), ancora più grave la situazione dei laghi (solo il 20%). Va meglio la situazione se si analizza lo stato chimico: è buono per il 75% dei fiumi (anche se il 18% non è ancora classificato), e per il 48% dei laghi. Il consumo di suolo e dissesto idrogeologico.
C'è anche il consumo di suolo a gravare sulla perdita di biodiversità. Sono ormai persi 23.000 km2, con una velocità di trasformazione di quasi 2 m2/sec tra il 2017 e il 2018. Sebbene il fenomeno mostrasse segnali di rallentamento, probabilmente a causa della congiuntura economica, dal 2018 il consumo di suolo ha ripreso a crescere. Nel 2018 è stato sottratto anche il 2% delle aree protette. Il territorio italiano è fortemente esposto al dissesto idrogeologico. La popolazione a rischio frane che risiede in aree a pericolosità elevata e molto elevata ammonta a 1.281.970 abitanti, pari al 2,2% del totale. Rispetto all'Europa, l'Italia cresce molto di più nell'uso circolare dei materiali. E' terza nell'Ue per la cosiddetta "produttività delle risorse", un indice usato in Europa per descrivere il rapporto tra il livello dell'attività economica (prodotto interno lordo) e la quantità di materiali utilizzati dal sistema socio-economico (CMI - consumo di materiale interno).
Brescia, la terra dei veleni che dopo il Covid vuole guarire dal cancro. Fabrizio Gatti il 10 giugno 2020 su L'Espresso. Rifiuti radioattivi, fertilizzanti, scorie di alluminio. Che contaminano terreno, acqua e aria. Causano un record nei casi di tumori e leucemie. E sembrano uccidere anche cani e gatti. È così da anni. Ma ora è il momento di cambiare. La prima medicina che Cristina dà alle sue pazienti è un abbraccio. «Sì, le abbraccio forte», dice lei: «Ma adesso, con il coronavirus ancora in giro, non so come farò». Cristina Furnari, 28 anni, non è un medico. Nel suo studio di estetista, in via Noce 13 nel quartiere Chiesanuova a Brescia, cura l’aspetto delle tante donne giovani e meno giovani che lottano contro il cancro. Ora che il Covid-19 lascia il tempo per riflettere, in Lombardia si torna a fare i conti con l’epidemia di sempre: l’inquinamento del cielo, della terra e dell’acqua. Il virus Sars-CoV-2 nel mondo e in Italia ha colpito soprattutto dove le vie respiratorie di adulti e bambini erano già provate da polveri sottili e diossido di azoto: da Wuhan in Cina alla Pianura Padana d’inverno si respira la stessa aria. Ma a Brescia, come in tutte le zone dove fabbriche e coltivazioni convivono, le sostanze tossiche vanno oltre. Penetrano nel sottosuolo, contaminano la prima falda che alimenta l’irrigazione nei campi. E riappaiono nella catena alimentare. Tutta la provincia bresciana è contemporaneamente assediata dai rifiuti industriali e dai fertilizzanti agricoli. Queste campagne, così verdi e fiorite in primavera con il loro cielo grande e la vista mozzafiato sulle Prealpi, non si fanno mancare nulla: Brescia è anche la provincia dove si concentra il maggior numero di siti inquinati da rifiuti radioattivi. Quando alla fine dell’impero sovietico la Russia ha svenduto i ferri arrugginiti delle sue infrastrutture militari e civili, le acciaierie della città hanno riempito gli altiforni di rottami per trasformarli in barre e tubi. Ma parte di quelle tonnellate di metallo proveniva da installazioni o impieghi a contatto con radionuclidi. Alla disgregazione dell’Urss sono poi seguiti i commerci mondiali della globalizzazione. E il risultato della fusione accidentale di lamiere contaminate o addirittura di sorgenti radioattive è oggi elencato nell’inventario dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione. L’ultimo aggiornamento del dicembre 2019 riporta ben nove “eventi incidentali” in provincia di Brescia dal 1990 al 2018 sui diciotto avvenuti in Italia. Una massa totale di circa 85.533 tonnellate di materiali e rifiuti derivanti dalla successiva bonifica: con una radioattività complessiva stimata in 1216 Giga Becquerel. Un Becquerel è il sistema di misura ed equivale all’attività di un radionuclide che ha un decadimento al secondo. A ogni disintegrazione, viene emessa energia. La maggiore radioattività è concentrata in due siti inquinati da cesio 137. Uno è l’ex cava Piccinelli, a ridosso dei laghi del Parco delle cave alla periferia di Brescia, dove 1.800 tonnellate di scorie di fonderia scoperte nel 1998 hanno lasciato una radioattività di 120 Giga Becquerel. L’altro è la discarica Capra, a Capriano del Colle, tra fattorie e campi coltivati nel parco agricolo regionale Monte Netto: dal 1990 qui 82.500 tonnellate di scorie saline, alluminio e terra raggiungono ancora oggi i 1.000 Giga Becquerel, ovvero mille miliardi di decadimenti al secondo. Come paragone: è poco meno della metà dell’attività dei rifiuti e delle sorgenti dismesse inventariate nel 2019 nella centrale nucleare di Caorso. In entrambi i siti bresciani, il terreno di copertura impedisce la dispersione di polvere radioattiva in atmosfera. La preoccupazione riguarda le infiltrazioni di acqua piovana che potrebbe contaminarsi e trascinare il cesio fino alla falda superficiale. La Regione ha smentito che le scorie radioattive possano finire nei rubinetti, poiché l’acqua potabile viene pompata da profondità maggiori, anche se non tutti i geologi sono dello stesso parere. Ma quello della falda superficiale è comunque lo strato a più stretto contatto con la rete di canali irrigui della pianura. A questo si aggiungono i decenni di diossine e policlorobifenili finiti nel suolo di Brescia dagli impianti dell’industria chimica Caffaro, le tonnellate di fertilizzanti disperse nei campi, i vapori del principale inceneritore di rifiuti urbani, le scorie tossiche nascoste nei terrapieni delle nuove tangenziali, i gas di scarico delle autostrade e le grandi discariche autorizzate a cielo aperto intorno all’aeroporto di Montichiari. Un paesaggio, questo, che ha dato alla zona il soprannome di Terra dei buchi, con paure nella popolazione non diverse da quelle provocate in Campania dalla Terra dei fuochi. I primati economici nell’industria pesante e nell’agricoltura intensiva hanno le loro evitabili conseguenze. Cristina Furnari ha cominciato a lavorare giovanissima come estetista. Si è poi specializzata in estetica oncologica per necessità: «Una zia e la mia nonna si sono ammalate insieme», racconta: «Durante la chemio perdevano i capelli e le unghie. Mi sono chiesta cosa potessi fare per loro. Allora avevo una cliente ogni tanto che si ammalava. Ora sono aumentate. Vengono da me e mi dicono: mi hanno trovato un tumore, farò intervento e chemio. All’inizio non sapevo cosa potevo e non potevo fare. Poi ho seguito un corso di specializzazione e mi si è aperto un mondo». Secondo uno studio dell’azienda sanitaria pubblicato nel 2019, “Incidenza tumorale nell’Ats di Brescia: andamento temporale e caratterizzazione territoriale 1999-2015”, l’incidenza è quasi sempre al di sopra della media nazionale e macroregionale, pur nel contesto di una lenta riduzione dei casi dovuta soprattutto alle campagne di prevenzione. Le differenze sono evidenti se si analizza l’andamento per singoli tipi: i tumori della testa e del collo colpiscono tra i bresciani 34,6 uomini e 9,9 donne ogni centomila abitanti contro una media del Nord Italia di 27,8 e 7; i tumori allo stomaco 40,6 e 20,5 contro i 33,7 e 16,7; i tumori al fegato 42,5 e 13,6 contro 31,6 e 10,3; i tumori al pancreas 27,9 e 18,3 contro 24,1 e 18. Sono invece poco meno della media i tumori al polmone con un tasso di 104,6 e 32,9 contro 107 e 35,1 del Nord Italia. Ma per i tumori al seno la differenza torna a essere netta: nel periodo 2010-2015 nella zona di Brescia hanno colpito 170,6 donne ogni centomila, contro la media di 161,9 al Nord, 141,7 al Centro e 124,9 al Sud. Mentre per gli uomini le leucemie salgono a 21,3 casi ogni centomila abitanti contro 16,8 della media al Nord, 17,8 al Centro e 17,1 al Sud. E nelle donne i tumori alla tiroide raggiungono i 35,4 casi, contro 25,6 del Nord, 29,6 del Centro e 27,2 del Sud. «Quando vengono da me e mi fanno vedere che hanno perso i capelli, io me le abbraccio tutte, a volte piangiamo insieme. Subito dopo cominciamo il colloquio, chiedo di cosa hanno bisogno», spiega Cristina Furnari: «Mi consulto con il loro medico per capire cosa si può fare. Collaboro con la Lega italiana per la lotta contro i tumori. Il supporto psicologico che diamo è forte. La cosa che fa più male in una donna è la perdita di capelli. Mi dicono: guarda, si vede che sono malata. Il nostro supporto alleggerisce gli effetti collaterali, aiuta a vedersi belle. Il contatto della mia mano coperta dai guanti sulla loro pelle è un legame intenso. Ho a che fare con la loro speranza e la lotta. Alla fine piangiamo insieme di gioia perché è arrivata la vittoria. Altre volte piangiamo e basta. Ma quello che vedo oggi sono età sempre più basse». Le conseguenze dell’inquinamento in provincia di Brescia si osservano anche negli animali da compagnia, come cani e gatti. «Servirebbero studi mirati per verificare il legame diretto», avverte Anna Basso, 35 anni, veterinaria di Bagnolo Mella, paese a otto chilometri da Capriano del Colle: «Ma la sensazione è che negli ultimi anni siano aumentati nei cani e nei gatti i tumori epatici e polmonari e i linfomi. Anche le forme allergiche sono in crescita e non solo nei cani di razza». Claudio Giacoboni, 38 anni, è un veterinario che si occupa di oncologia negli animali: «La vita più breve di cani e gatti», spiega, «rappresenta un modello per indagare l’accumulo di sostanze potenzialmente tossiche per metalli come cadmio e piombo oppure, negli animali domestici e da reddito, di erbicidi e pesticidi. Notiamo nel tempo un aumento della casistica oncologica. È anche vero che la medicina veterinaria ha aumentato la capacità diagnostica. Per questo servirebbe uno studio specifico, ma finora non esistono pubblicazioni di questo tipo sulla zona di Brescia». Gli animali da compagnia vivono a stretto contatto con il terreno e per questo potrebbero dare il primo allarme sulla qualità dell’ambiente in cui respirano e mangiano i loro padroni. Uomini e donne infatti sviluppano infiammazioni, allergie e tumori in tempi molto più lunghi. Soprattutto se con l’inquinamento si è costretti a convivere. In via Cerca a Brescia, a pochi metri dalla ex cava Piccinelli contaminata da cesio 137, è stato addirittura costruito il parcheggio per i visitatori del Parco delle cave. «Qualche anno fa hanno trasferito i fusti con le scorie radioattive in uno dei depositi dell’Enea», racconta Alessandra Cristini, 60 anni, tra le fondatrici di uno dei comitati che si battono per la bonifica dell’area: «Ma il terreno contaminato è rimasto lì. L’ultima volta i teli sono stati sostituiti nel 2012 dopo la nostra segnalazione al Comune. Da anni denunciamo che i piezometri messi per misurare il livello della falda sono troppo pochi e spesso fuori uso. Ma nessuno ci risponde. La radioattività nell’acqua non viene controllata e quel cesio oggi potrebbe essere arrivato ovunque».
· La Lombardia da Bere?
Lega, il potere di Fontana e quelle carriere decise ai tavolini di un bar di Varese. La Repubblica il 20/10/2020. Un sistema di relazioni e affari nato nel cuore del leghismo, la città di Varese, e cresciuto fino a conquistare il governo della regione più ricca d'Italia. Di quel potere, Attilio Fontana è oggi il volto e la rappresentazione, e ieri sera la puntata di Report su Rai 3 ne ha raccontato la trama. Intessuta di conflitti di interessi, regie occulte dietro le nomine, carriere decise non nei luoghi istituzionali della politica ma ai tavolini di un bar.
Caianiello decide, Fontana nomina. Sono quelli dell'Haus Garden Cafè, un pub di Gallarate diventato nel tempo l'ufficio di Nino Caianiello e il centro della politica del centrodestra in Lombardia. Caianiello, detto il "mullah", il "ras delle nomine", ma anche "mister dieci per cento" per la "decima" che pretendeva dai politici che piazzava nelle amministrazioni locali e nelle municipalizzate, viene arrestato per corruzione il 7 maggio 2019 nell'inchiesta "Mensa dei poveri". Report lo ha intervistato sui suoi rapporti con Attilio Fontana e sulla genesi di alcune nomine nella giunta che oggi governa la Lombardia. Sollecitato dal giornalista Giorgio Mottola, Caianiello definisce Fontana un "front office", un politico che mette la faccia su decisioni di altri. "Hai visto che i tuoi.. i tuoi consigli li hi seguiti quasi tutti.." dice Fontana a Caianiello, intercettato, dopo aver definito la lista dei suoi assessori. "Non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.." risponde Ninuzzo, come lo chiamava il governatore. "Non è male, non è male la giunta secondo me" dice ancora Fontana. "Assolutamente.. no.. no è messa bene..", asseconda Caianiello che - nonostante una precedente condanna per concussione nel 2016 - per vent'anni è rimasto il padrone del centrodestra in Lombardia. "Io ho vissuto più la gestione politica del partito - spiega Caianiello a Report -. Mentre Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così". Il "mullah" spiega come sono nate le nomine di due tra gli assessori più influenti in Regione, Raffaele Cattaneo (all'Ambiente) e Giulio Gallera (alla Sanità), confermando quanto emerso dalle intercettazioni di "Mensa dei poveri". "Attilio disse: "vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l'incarico all'ambiente"". E su Gallera: "Sapevo che c'era questa legittima aspettativa da parte di Gallera. Io dico: per me Gallera va bene". "Risponde un po' agli ordini Fontana?" chiede Mottola. "Non ordini, agli accordi". "Attilio Fontana è un po' un front office?". "E' un front office".
Il sindaco Fontana e il terreno della figlia. Lo scandalo dei camici in piena pandemia, con l'affare da 250mila euro affidato alla società della moglie e del cognato Andrea Dini, è ancora lontano. Report racconta come molti anni prima la giunta comunale di Varese, guidata da Attilio Fontana, abbia modificato la destinazione d'uso - da area a verde a edificabile - di un terreno di 4000 metri quadrati ereditato nel 2012 dalla figlia del sindaco, Maria Cristina Fontana. La trasmissione riporta la testimonianza di un ex dirigente del comune di Varese e del consigliere comunale del Pd Andrea Civati. "All'epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde - dice il funzionario -. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili". "Dai verbali del consiglio comunale - aggiunge Civati - non risulta una dichiarazione sul conflitto d'interessi del sindaco Fontana".
Le consulenze dagli ospedali della Regione. Molti anni dopo, l'avvocato Maria Cristina Fontana risulta beneficiaria di alcuni incarichi legali dalle azienda sanitarie lombarde, i cui vertici sono stati nominati dalla Regione Lombardia e in alcuni casi sono di esplicita fede leghista. Tre incarichi nel 2017 arrivano dall'Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni, cinque arrivano nel 2018 e altri tre nel 2019, mentre un'altra consulenza arriva dall'ospedale Sacco di Milano. Per i contratti del 2019, l'azienda ospedaliera introduce una voce sui conflitti d'interessi. Ma in relazione all'avvocato Fontana non ne vengono indicati. E poi nell'aprile 2020, in piena pandemia, l'Asst Nord Milano aggiorna l'elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali. Tra i professionisti c'è sempre Maria Chiara Fontana.
Il maneggio abusivo alla moglie di Giorgetti. Un'altra storia, tutta varesina e tutta leghista, riguarda la moglie di Giancarlo Giorgetti e un maneggio all'interno dell'ippodromo della città. A parlare è sempre un ex dirigente del comune di Varese. "In questo ippodromo c'era effettivamente un maneggio abusivo - dice il funzionario -. Vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti". Si tratta di Laura Ferrari, che nel 2008 ha patteggiato una condanna per truffa. Appassionata di equitazione, riceve mezzo milione di euro da Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. Ma i corsi non sono mai stati fatti. A difendere la moglie di Giorgetti, l'avvocato Attilio Fontana. Durante la sua giunta, nel 2014, le sorelle Ferrari ottengono dalla società che gestisce l'ippodromo la gestione del centro della pista con il loro maneggio. Il contratto è un comodato d'uso gratuito: la moglie e la cognata di Giorgetti non pagano nulla. Poi nel 2018 cambia l'amministrazione e al maneggio arrivano i vigili. Chiedono le autorizzazioni comunali, ma i documenti non si trovano. "Quell'attività non era autorizzata - ha ricostruito Civati - ed è stata elevata una sanzione". Per quattro anni, moglie e cognata di Giorgetti utilizzano lo spazio all'interno dell'ippodromo di Varese, trasferiscono le loro stalle private, organizzano corsi di equitazione, vengono sponsorizzate dal Comune. Ma grazie al contratto di comodato d'uso, non pagano un euro.
Daniele Capezzone per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Attilio Fontana, il presidente leghista della Regione Lombardia, è di nuovo in trincea. Per un verso, per la nuova ondata Covid; per altro verso, per gli attacchi mediatici che lo mettono nel mirino con accuse sempre più gravi e - parrebbe - fantasiose, addirittura con evocazioni di influenze dalla 'ndrangheta. Ma è la recrudescenza del coronavirus a preoccuparlo: «Avevo iniziato a girare la Lombardia per presentare il nostro piano di rilancio, e avevo trovato ovunque, anche nelle categorie più colpite dalle difficoltà economiche, una gran voglia di reagire e di ripartire, di rimettersi in gioco. La cosa mi entusiasmava, avevo il morale a mille. E invece è arrivata questa seconda botta, un' accelerazione fortissima in appena due o tre giorni». Il governatore lombardo, a partire da qui, ha accettato una conversazione a tutto campo con La Verità.
Allora presidente, davvero si sarebbe fatto condizionare nientemeno che dalla 'ndrangheta per le sue scelte in materia di sanità? Stasera una trasmissione Rai lancerà questa accusa, secondo le indiscrezioni già circolate nei giorni scorsi...
«Queste sono illazioni vergognose fatte per suggestioni incomprensibili ed inaccettabili. Mi riservo comunque di agire sia in sede penale che in sede civile».
Ma, a maggior ragione se fossimo alla rimasticatura di materiale giudiziario già esaminato e da cui non è venuto fuori nulla su di lei, secondo lei come nascono accuse mediatiche di questa pesantezza nei suoi confronti dalla trasmissione Report? Siamo a una campagna con un livello di gravità con pochi precedenti...
«Ah non so, forse perché hanno già cavalcato il cosiddetto caso dei camici. Per citare Stalin, pensano di affondare il coltello nel ventre. Ma non trovano un ventre molle, trovano l' acciaio».
E allora parliamo dei camici. Ci aiuti a fare chiarezza. Alla fine l' azienda di suo cognato ha fatto una donazione alla Regione, i lombardi non hanno pagato un euro, e lei aveva dato disponibilità a mettere dei soldi di tasca sua. La cosa può piacere o no, ma è materia penale?
«Mio cognato aveva fatto altre donazioni in quel periodo. Quando ho capito che la fornitura era onerosa, gli ho chiesto di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e ho cercato di corrispondergli il 50 per cento del mancato incasso. Il prezzo era il più basso fra quelli in quel momento pagati. Mio cognato ha accettato e quindi la Regione non ha pagato nulla. Ed è proprio lui che ad oggi ci ha rimesso».
Proseguiamo con le accuse. Da ultimo, sono state evocate consulenze per sua figlia. Di che si tratta?
«Di questo non parlo: parla mia figlia, che ha già inviato delle risposte che per ora la trasmissione non ha preso in considerazione... Aveva degli incarichi assolutamente trasparenti da un' assicurazione che poi era anche un' assicurazione di un' Asst».
Possibile che per colpire lei e la Lega si tenti una specie di assalto alla Lombardia?
«Lei capisce che l' operazione prevede due obiettivi appetitosi: provare a mettere nel mirino la Lega e tentare di prendere la Lombardia. Anche perché con il voto democratico in Lombardia non riescono a vincere, e allora tentano altre strade».
Al di là delle cose giudiziarie, lei vede un accanimento particolare verso la sua regione? Lo dico in modo ancora più esplicito: quando a marzo e ad aprile la prima regione italiana era in difficoltà, ha percepito qualche compiacimento di troppo da parte di alcuni a Roma e non solo? Lo dico in termini calcistici: se il più forte giocatore della squadra sta male, gli altri compagni dovrebbero preoccuparsi, non le pare?
«Non è che si sia solo percepito. Alcuni, giornalisti e politici, lo hanno proprio esplicitato, pronunciando parole pesanti».
Senta, hanno crocifisso lei e Bertolaso per l' ospedale in Fiera. Dicevano che non serviva più, che era una cattedrale nel deserto. Qualcuno l' ha chiamata per scusarsi e dire che avevano torto?
«Assolutamente no, non mi ha chiamato nessuno. Né per scusarsi per avermi dato del razzista quando chiedevo semplicemente di sottoporre a controlli chiunque fosse di ritorno dalla Cina. Né per avermi attaccato in modo assurdo perché in un video indossai una mascherina. Né per la storia dell' ospedale in Fiera. Devo anche dirle che se alcuni chiamassero, li riterrei in malafede, dopo tutto quello che hanno detto. La cosa più giusta l' ha detta uno dei finanziatori privati che hanno reso possibile quella realizzazione: siamo orgogliosi di aver preparato un' opera che speriamo non debba essere utilizzata per un' emergenza».
Quanti cittadini non lombardi vengono ogni anno a curarsi in Lombardia per motivi ordinari, Covid a parte?
«Prima del Covid erano 165-170.000».
Lei è pronto, se altre regioni saranno nei guai a causa del coronavirus, a ospitare i loro pazienti?
«Sì, se ce ne sarà bisogno e se saremo in condizione di farlo, cioè se non saremo a nostra volta sotto pressione».
Nel weekend il commissario Domenico Arcuri e il ministro Francesco Boccia hanno attaccato le regioni, sostenendo che molti ritardi siano colpa dei governatori. Scaricabarile o c' è del vero?
«Peggio che scaricabarile. Noi abbiamo sempre fornito in tempo i nostri dati. Sento anche che ci viene rimproverato di avere respiratori inutilizzati. Noi non ne abbiamo nessuno inutilizzato, tranne venti, ma solo perché non hanno la certificazione. Li teniamo da parte e li utilizzeremo solo se ci sarà un' urgenza drammatica».
Perché il governo ha atteso ottobre per far partire il nuovo bando sulle terapie intensive?
«Non lo so proprio. Bisognerebbe chiederlo a loro».
Vi hanno dato risorse in più per il trasporto pubblico locale?
«La risposta è semplice: no».
Su questo piano, come ve la caverete per potenziare il numero dei mezzi in circolazione?
«Noi stiamo cercando comunque di dare una risposta.
Però voglio dire, anche a difesa dei sindaci, che se hai una metro, non è possibile aumentare le corse oltre una certa misura. E quanto agli accordi con i bus privati, servono risorse per farli. Non solo il governo non ha dato soldi in più, ma a livello locale ci si ritrova con soldi in meno dalla bigliettazione per evidenti ragioni».
Non le pare che il governo, da maggio a oggi, abbia perso tempo? Anziché colpevolizzare i ragazzi o le famiglie che si sono fatte tra luglio e agosto una settimana di vacanza, non potevano pensare a tutte queste cose? Che hanno fatto questa estate, oltre che predicare? Dicevano che poteva arrivare una seconda ondata, ma non hanno fatto nulla per prepararsi, mi pare.
(Sorride). «Se mi chiede che hanno fatto, le dico: non lo so Non mi faccia dire altro, non voglio alcun tipo di polemica. Ho promesso di essere collaborativo».
Come siete messi con i vaccini influenzali?
«Mi permetta di fare chiarezza, perché ho letto tante polemiche urlate, insensate e strumentali. Come Regione, abbiamo acquistato 2.9 milioni di dosi, di cui solo 100.000 sub iudice, perché attendono la certificazione Aifa. Sono numeri più che doppi rispetto all' anno scorso: anche in considerazione del fatto che quest' anno molte più persone vogliono vaccinarsi. Segnalo che altre regioni confinanti, dall' Emilia Romagna al Veneto, hanno acquistato percentualmente gli stessi numeri».
Ci spiega la ratio delle restrizioni che scatteranno in Lombardia? Non teme di avere esagerato?
«Guardi che, con l' accelerazione e la crescita esponenziale dei casi che c' è stata negli ultimi giorni, semmai ho dovuto fare una mediazione rispetto alle richieste ancora più dure che venivano dal Comitato tecnico scientifico».
Non teme il colpo di grazia a bar, ristoranti e commercio? Chi li risarcisce questi imprenditori? Anche prima delle ultime misure nazionali, Confcommercio già stimava in tutta Italia un rischio di chiusura di 270-000 esercizi da qui a fine anno, un' ecatombe. Darete battaglia su questo punto rispetto al governo?
«Noi come Regione, in ogni occasione, ad ogni Dpcm governativo, presentando le nostre richieste o le nostre subordinate, abbiamo sempre chiesto un ristoro economico per le imprese dei settori oggetto delle misure restrittive. Ma vedo che non c' è stata risposta adeguata. Per questo continueremo a chiederlo in ogni occasione».
Consulenze negli ospedali della Regione alla figlia di Fontana, un altro conflitto di interessi per il governatore. Sono tre incarichi di consulenza per attività giudiziaria, ottenuti tra il 2018 e il 2019 presso le asst di Milano. Maria Cristina Fontana le ha avute da quando è subentrata al posto del padre nello studio legale di famiglia, a Varese. Sandro De Riccardis e Luca De Vito su su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Una serie di consulenze legali incassate dalla figlia di Attilio Fontana dalle aziende sanitarie della Lombardia, i cui vertici sono stati nominati proprio dalla giunta regionale guidata dal governatore lombardo. Un nuovo conflitto di interessi per Fontana, dopo il caso della fornitura di camici da parte del cognato Andrea Dini (Fontana è indagato per frode in pubbliche forniture), e la nomina dell'ex socio di studio Luca Marsico nel Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici del Pirellone, che era costata al governatore un'indagine per abuso d'ufficio, poi archiviata. A imbarazzare ora il numero uno della Regione Lombardia sono tre incarichi assegnati a Maria Cristina Fontana, primogenita del governatore, subentrata al posto del padre alla guida dello studio legale di famiglia, uno dei più noti a Varese. La prima consulenza è stata assegnata con la delibera numero 526 del 6 settembre 2018 dall'Azienda socio sanitaria Nord Milano per un importo di 6.383,65 euro. Un secondo incarico parte il 20 settembre dello stesso anno: una consulenza di cui non si conosce il costo perché la spesa è coperta dall'assicurazione dell'ente sanitario. Una terza consulenza viene assegnata con una delibera del 31 gennaio 2019 dall'ospedale Sacco: 5.836,48 euro per occuparsi della "costituzione nel giudizio promosso davanti al tribunale di Milano" per la difesa dell'ente in una causa di lavoro. Ma c'è di più. Il rapporto con l'Azienda socio sanitaria Nord Milano diventa ancora più stretto, anche per il 2020, visto che il 29 aprile la stessa Asst, guidata dal direttore generale Elisabetta Fabbrini, delibera l'elenco dei professionisti legali cui affidarsi. Anche qui Maria Cristina Fontana risulta presente in due elenchi, quello degli avvocati da chiamare in caso di "medical malpractice" (ovvero casi di negligenze mediche) e quello dei legali esperti in "diritto fallimentare e procedure concorsuali". A rendere più delicata la faccenda, il fatto che le nomine dei dirigenti della sanità sono fatte proprio dalla giunta regionale: nel caso del Sacco Alessandro Visconti, nominato al vertice dell'azienda ospedaliera in quota Lega, mentre Fabbrini alla guida della Asst nord è stata nominata in quota Forza Italia. "Non si tratta di consulenze, ma di incarichi in procedimenti giudiziari - ha detto all'Ansa Maria Cristina Fontana - Inoltre, dal 2015 (in epoca ben antecedente all'elezione di mio padre) sono fiduciaria di una compagnia di assicurazione privata che fra i suoi assicurati ha anche Asst Nord Milano. Nell'ambito del rapporto lavorativo con la compagnia assicurativa, ho svolto degli incarichi di difesa della Asst a spese della stessa compagnia". Il nome di Visconti compare negli atti dell'inchiesta "Mensa dei poveri" sugli appalti pilotati nella sanità lombarda dal "burattinaio" delle nomine di Forza Italia Nino Caianiello. Ne parla proprio Attilio Fontana nel suo esame, da testimone, di fronte ai magistrati. I pm chiedono se la nomina di Alessandro Visconti alla guida del Sacco-Fatebenefratelli sia in quota Lega. "All'inizio del mio mandato - risponde Fontana - l'unico criterio seguito per la nomina dei dg delle Ats e delle Asst è stato esclusivamente quello delle professionalità e non di appartenenza politica", per il dottor Visconti, "non escludo che sia un simpatizzante della Lega". Ma qualche anno prima, dopo le nomine del 2014, è stato proprio Visconti ad ammettere la sua militanza leghista. " "Dal 1995 dono alla Lega il mio tempo, il mio impegno e in certi casi dei contributi in denaro: per tredici anni sono stato assessore a Sumirago, ho passato le domeniche nei gazebo, alle feste della Lega ho aiutato in cucina. Ho sempre sostenuto che i partiti più che sui soldi pubblici debbano contare sui finanziamenti della gente".
Mogli, camici e cavalli dei paesi tuoi. Report Rai PUNTATA DEL 19/10/2020 Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara, Federico Marconi, Giovanni De Faveri. Dietro allo scandalo dei camici del cognato di Fontana Report ha scoperto un sistema di potere che da anni avvolgerebbe la Regione Lombardia: appalti truccati, nomine pilotate e infiltrazione della ‘ndrangheta. Con interviste e documenti esclusivi l’inchiesta fa luce su nuovi e inediti conflitti di interesse del governatore Fontana. Viene ricostruita inoltre la presunta rete di corruzione messa in piedi tra Varese e Milano da una delle eminenze grigie più potenti della Lombardia: un politico di altissimo profilo, detto il Mullah, legato a Marcello Dell’Utri e consigliere di Attilio Fontana nella formazione della giunta regionale. In questo scenario la ‘ndrangheta avrebbe trovato terreno fertile. Deciderebbe giunte comunali, nomina sindaci e non sente più alcun bisogno di nascondersi.
MOGLI, CAMICI E CAVALLI DEI PAESI TUOI di Giorgio Mottola collaborazione Giovanni De Faveri - Norma Ferrara – Federico Marconi Immagini di Alfredo Farina – Davide Fonda – Andrea Lilli – Fabio Martinelli Montaggio e Grafica Giorgio Vallati.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Intorno a questo grano si sta consumando un’insensata guerra, che rischia di comprometterne il recupero, ed è un peccato, perché è un grano tutto italiano e ha anche delle proprietà benefiche. Questo è quello che emergerebbe da uno studio che vi mostreremo in via del tutto esclusiva questa sera. Però, dopo esser tornati sui nostri passi. Nell’aprile scorso, in piena emergenza virus, Report ha scoperto che la Regione Lombardia aveva affidato senza gara, attraverso una procedura negoziata, una fornitura di camici, 75 mila, del valore di mezzo milione di euro alla Dama, una società che faceva riferimento alla moglie del governatore Fontana e a suo cognato. Incalzato dalle domande del nostro Giorgio Mottola, Dini aveva risposto “È avvenuto tutto a mia insaputa. Appena ne sono venuto a conoscenza, ho trasformato quel contratto in donazione”. Stessa versione del governatore Fontana. Insomma, a sua insaputa da governatore e anche da marito. Tuttavia, i magistrati, invece, sospettano che quel contratto di fornitura si è trasformato in donazione solo dopo che Report aveva cominciato a fare domande in Regione. Per questo ha indagato il governatore Fontana, per frode nella pubblica fornitura, perché non ha informato chi di dovere del conflitto di interessi. Indagato anche il suo manager, Filippo Bongiovanni, che è il direttore della stazione appaltante, Area. Perché è indagato? Per turbata libera scelta del contraente, perché ha assegnato la fornitura pur sapendo del conflitto di interessi. È indagato anche il cognato, Dini, per frode nell'adempimento della pubblica fornitura, perché, rispetto a quanto stabilito dal contratto mancano all’appello oltre 25 mila camici. In un sms, poi, anche la moglie di Fontana scrive al fratello e dice: cerca di recuperare più camici possibili. A svelare il velo dell’ipocrisia è stato chi beneficenza la fa sul serio: Emanuela Crivellaro. È la presidente di un’associazione, una Onlus che assiste bambini malati. Lei si presenta nell’ufficio di Dini proprio mentre sta chiudendo il contratto con la Regione. E gli dice: “Mi presti un po’ di camici? Mi dai un po' di camici, me li regali, che li distribuisco negli ospedali che hanno bisogno?”. Cosa ha risposto Dini? Lo sentiremo dalla sua voce, quella che è diventata la super testimone della procura di Milano ha deciso di raccontarci la sua storia dopo che il governatore Fontana ha cercato di chiarire la sua posizione in un infuocato consiglio regionale di mezza estate. Il nostro Giorgio Mottola.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 A seguito di una inchiesta di “Report” annunciata con toni scandalistici si è molto parlato della vicenda fornitura camici, divulgata dalla più faziosa informazione con il refrain ripetuto all’inverosimile: “Dama l’azienda del cognato del presidente cui partecipa al 10 per cento sua moglie Roberta”.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’estate Attilio Fontana era stato chiamato a dar conto della fornitura di camici da mezzo milione di euro assegnata al cognato ma il governatore piuttosto che dare chiarimenti ha preferito attaccare duramente “Report”. E molti punti della vicenda sono quindi rimasti oscuri.
ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA No, guardi, no no è una donazione, ci sono tutti i documenti.
GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, in realtà, leggendo le carte, sembra in realtà una… Non è una donazione. È un appalto, in realtà. Cioè, lei ha venduto dei camici.
ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Effettivamente, i miei quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se n’è occupato ha male interpretato la cosa, ma poi dopo io sono tornato, me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione.
GIORGIO MOTTOLA L’hanno fatto a sua insaputa, insomma…
ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Sì. Appena l’ho saputo ho detto no, no, in Lombardia assolutamente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche Attilio Fontana con un post assicura che fin dall’inizio si trattava di una donazione. Ma a smentire la loro versione c’è un importante testimone. Mentre stava chiudendo l’affare con la Regione il cognato del governatore incontra Emanuela Crivellaro, presidente della fondazione benefica “Il Ponte del Sorriso” in quei giorni era alla ricerca di mascherine e camici da donare agli ospedali lombardi e per questo si era rivolta anche ad Andrea Dini.
EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” Me ne ha dati 300 e mi ha detto poi vedrò di dartene altri. Poi non ne sono arrivati più neanche uno. Io più volte l’ho sollecitato e lui mi ha risposto non posso perché sono sotto contratto con la Regione. Cioè, contratto esclusivo. Ho detto: guarda che anche l’ospedale è disposto a comprarli ma, non… lui ha detto che non poteva venderceli perché aveva un contratto con la Regione. Quindi…
GIORGIO MOTTOLA E qui siamo a metà aprile.
EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E qui siamo… no. Al 10 aprile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque contratto e non donazione. Ma come faceva Andrea Dini a sapere che avrebbe avuto un contratto con la Regione già il 10 aprile? L’esito della procedura negoziata è stato reso noto infatti solo sei giorni dopo, il 16 aprile. Come faceva a saperlo? Alla Crivellaro Andrea Dini racconta di avere un gancio diretto in Regione Lombardia.
EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E lui mi ha detto che era in trattativa con la Regione. E io gli ho detto: ah, sì tra l’altro so che è Cattaneo… insomma, o ce lo siamo detti a vicenda, a me pare di averlo tirato fuori io: è Cattaneo? E lui mi ha risposto sì, è proprio il mio riferimento.
GIORGIO MOTTOLA In Regione?
EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” In Regione, è proprio il mio riferimento in Regione.
GIORGIO MOTTOLA Cattaneo, l’assessore?
EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” L’assessore Cattaneo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Raffaele Cattaneo è uno degli uomini più fedeli del presidente della Lombardia. Esponente di Comunione e liberazione, a sorpresa due anni fa è stato nominato da Fontana assessore all’Ambiente sebbene alle regionali non avesse ottenuto preferenze sufficienti a farsi eleggere consigliere.
GIORGIO MOTTOLA Come mai lei ha fatto da intermediario tra il cognato di Fontana e la Regione Lombardia?
RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma perché io sono stato incaricato di far fronte all’emergenza di dispositivi di protezione individuali, quindi mascherine, camici.
GIORGIO MOTTOLA Lei sapeva che Dini fosse il cognato di Fontana?
RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sapevo che Dini fosse il cognato di Fontana, sì. Non lo conoscevo, non lo conosco di persona, lo conoscevo di fama.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi l’assessore Cattaneo era a conoscenza del conflitto, ma non lo denuncia.
GIORGIO MOTTOLA Bastava segnalare che fosse il cognato del presidente Fontana.
RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì, certo. Certo.
GIORGIO MOTTOLA Questa segnalazione non è mai stata fatta.
RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma non è vero, non è vero. Cosa dove essere fatto. Quale, insomma, quale…
GIORGIO MOTTOLA Ci sono delle leggi sui conflitti di interessi.
RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì appunto, ma questi…
GIORGIO MOTTOLA Cioè la società non è solo del cognato, ma anche della moglie di Fontana.
RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Però vede, in una istituzione, come lei ben sa ci sono responsabilità diverse. La mia responsabilità è stata quella di coordinare una task force che si occupava di garantire la disponibilità di Dpi (Dispositivi di protezione individuale ndr).
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come ha fatto Dini a entrare in contatto con un assessore della Giunta regionale? La risposta l’hanno trovata gli investigatori nel suo telefono. Esattamente tre settimane prima della procedura negoziata, il 27 marzo Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana, e proprietaria del 10 percento di Dama spa, scrive al fratello: “Prova a chiamare assessore Cattaneo di Varese. Sembra siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini”, che sarebbe Davide Caparini, assessore al Bilancio nella giunta regionale presieduta da Fontana. Poi Roberta Dini aggiunge: “Ho avvisato la moglie di Cattaneo, che conosco un po’, vuol dare una mano”. Di tutto questo Attilio Fontana assicura di non averne saputo nulla, almeno fino a una certa data.
ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Dei rapporti negoziali Aria-Dama nulla ho saputo fino al 12 maggio scorso, data in cui mi si riferiva che era stata concordata una rilevante fornitura di camici a titolo oneroso.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 12 maggio è la data cruciale di tutta la vicenda. Il giorno prima, l’11 maggio, dalla redazione di Report abbiamo mandato alla segreteria di Fontana questa richiesta di intervista con alcune domande che facevano genericamente riferimento al ruolo dei privati nell’emergenza sanitaria. Secondo quanto ritengono i pm, sarebbe questa nostra mail a far scattare il campanello d’allarme nell’ufficio del presidente Fontana, che ordina al cognato di restituire i soldi e trasformare la commessa in una donazione.
ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Ma poiché il male, così come il bene è negli occhi di chi guarda, ho chiesto a mio cognato di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e strumentalizzazioni.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque, a differenza di quello che Fontana e il cognato ci hanno raccontato all’inizio, l’idea della donazione è venuta solo in un secondo momento. E tra l’altro, l’idea non sembra entusiasmare troppo né Dini, né la moglie di Fontana. Scrive, infatti, Roberta Dini al fratello: “Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può”. E suggerisce di farsi restituire una parte dei camici già donati: “Stamattina consegnati 6mila camici. Almeno quelli possono essere resi”. Ed è forse per questa ragione che Attilio Fontana prova a rimborsare di tasca sua il cognato con un bonifico da 250 mila euro.
ATTILIO FONTANA Si è trattata di una decisione spontanea e volontaria, e dovuta al rammarico nel constatare che il mio legame di affinità aveva solo arrecato svantaggio a un’azienda legata alla mia famiglia. E così quel gesto è diventato sospetto, se non addirittura losco.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A sospettare in realtà sarebbe stata la sua stessa banca, che ha bloccato il bonifico da 250 mila euro segnalandolo come operazione sospetta. Quei soldi infatti vengono da un conto svizzero di Fontana che porta direttamente nei Caraibi, alle Bahamas, dove la famiglia del presidente ha avuto per anni un trust anonimo da 5 milioni di euro, la Montmellon Valley.
GIORGIO MOTTOLA Ma chi c’è dietro Montmellon Valley?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Uno studio di avvocati di Panama che si chiama “Morgan y Morgan”, antagonista di Mossak Fonseca, famoso per i Panama Papers, che operano proprio per creare, gestire strutture offshore. Quindi strutture che garantiscono gli anonimati bancari e societari dentro i quali ci sono un sacco di soldi.
GIORGIO MOTTOLA E che tipo di reputazione ha “Morgan y Morgan”?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO È come Mossak Fonseca, che reputazione devono avere? Cioè gestore di strutture offshore che servono per riciclare. Insomma, questo è.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Attilio Fontana, che aveva una delega per gestire il trust, sostiene che i 5 milioni di euro fossero i risparmi della madre dentista e del padre dipendente della mutua. La società anonima alle Bahamas viene chiusa dopo la morte della signora Fontana nel 2015.
GIORGIO MOTTOLA Dopo il 2015 Fontana chiude il trust alle Bahamas.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Proprio nel 2015 entra in vigore in Italia la normativa per la cosiddetta voluntary disclosure che consentiva a chi occultava denaro all’estero di poterlo regolarizzare pagando, come sempre succede, imposte pari a due cocomeri e un peperone. Era l’ultima spiaggia. Perché poi entravano in vigore delle normative penali che rendevano impossibile detenere denaro proveniente da delitto anche in Svizzera.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come mai tutte queste bugie? Che cosa nasconde questa vicenda?
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi quello che nasconde lo nascondete voi nella vostra testa.
GIORGIO MOTTOLA Però lei nascondeva anche dei soldi all’estero in paradisi fiscali, presidente.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Io nascondevo?! Stia attento a quello che dice, stia molto attento. Io ho dichiarato. Io ho dichiarato, quindi lei deve stare attento a quello che dice perché io per questa cosa io la querelerò.
GIORGIO MOTTOLA Però come mai?
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, non c’è come mai. Non c’è nessun come mai.
GIORGIO MOTTOLA No, però le chiedo. No, perché lei ha anche mentito sui conti offshore, eh Presidente.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ma che offshore. Lei dovrebbe conoscere meglio...
GIORGIO MOTTOLA Però lei che le conosce bene, ce lo spieghi meglio lei.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No no. Ve lo spiegherà il magistrato. Ci vediamo… Ci vediamo…
GIORGIO MOTTOLA Anche sui conti offshore ha detto delle bugie, perché ha detto che non erano movimentati, ha detto che non c’erano state movimentazioni, invece nel 2005.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Lei non conosce niente e continua parlare.
GIORGIO MOTTOLA E ci aiuti a capire, come ha fatto sua madre e suo padre, un dentista e un dipendente della mutua…
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando la società alle Bahamas viene chiusa, i cinque milioni di euro finiscono, almeno in parte, su un conto svizzero dell’Ubs. Il conto è di proprietà di Fontana ma intestato all’ “Unione Fiduciaria”. È da qui che sarebbe dovuto partire il bonifico da 250mila euro per il cognato.
GIORGIO MOTTOLA Presidente non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle…
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, lei mi sta assalendo. E quindi, eh…
GIORGIO MOTTOLA Non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle come mai ha fatto partire questo bonifico da 250mila euro da un conto schermato in Svizzera. Risponda solo a questa domanda. Cioè perché ha provato a partire i soldi da un conto schermato per suo cognato, perché non lo ha fatto partire da un conto italiano?
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Perché non ne avevo 250 mila sul conto italiano.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il gruzzoletto l’ha tenuto in Svizzera, cinque milioni di euro che emergono solo nel 2015, quando Fontana decide di aderire alla Voluntary Disclosure. Dice: “Sono i risparmi di una vita dei miei genitori”. Madre dentista, padre dipendente della mutua. Però, insomma, noi di Report abbiamo avuto modo di leggere la relazione che ha accompagnato la sua adesione alla Voluntary Disclosure. Intanto emerge che lui autodenuncia il fatto di non aver denunciato alcuni dei suoi investimenti, dal 2009 al 2013, sui conti all’estero, e poi sono stati sanati - come ha detto il nostro Gian Gaetano Bellavia - con un cocomero e due peperoni, se uno li confronta con i cinque milioni di euro. Ma lo spirito della Voluntary Disclosure era anche quello di far emergere le attività con cui erano stati accumulati i capitali occultati all’estero. Nella relazione che ha potuto leggere Report, nella casella che riguarda la relazione di accompagnamento di adesione alla Voluntary fatta dal governatore Fontana, quella casella è vuota. Non si sa, almeno se è l’unico modello, perché non sappiamo se quello è l’unico modello, se qualcuno dell’Agenzia delle Entrate nel tempo abbia poi chiesto al governatore: da dove vengono, da quali attività provengono quei soldi? È una domanda che è rimasta senza risposta, per quello che ci riguarda. Mentre invece è chiaro che il governatore Fontana proviene da Varese. Da Varese proviene anche il suo predecessore, Roberto Maroni. E anche Bossi, e anche i dirigenti più importanti della Lega. Perché Varese è la roccaforte del potere leghista. Un potere che intimorisce al punto che, se un funzionario pubblico vuole denunciare un semplice conflitto di interessi, è costretto a farlo con la faccia mascherata. Andando a ritroso, alle origini di quel potere, si scopre che il conflitto di interesse non è tanto inteso come la violazione di una norma, ma una predisposizione dell’animo umano.
EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Ho notato in alcune circostanze un uso improprio dei beni della collettività, dei soldi pubblici e dell’incarico pubblico.
GIORGIO MOTTOLA Quali sono le vicende che lei ha riscontrato?
EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Noi abbiamo verificato l’esistenza di un cambio di destinazione d’uso per un terreno di famiglia, se non ricordo male intestato alla figlia, che poi è diventato qualche mese prima, terreno edificabile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed ecco il terreno dei Fontana: 4000 metri quadrati in una delle zone più pregiate di Varese. La figlia del governatore, Maria Cristina Fontana, lo ha ereditato nel 2012 insieme alla villa di famiglia da 15 vani immersa nel verde. All’epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili.
GIORGIO MOTTOLA All’epoca Attilio Fontana ha dichiarato che aveva un conflitto di interessi su quei terreni?
ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Dai verbali del consiglio comunale non risulta una dichiarazione in questo senso del sindaco Fontana.
GIORGIO MOTTOLA Quindi, in consiglio comunale nessuno sapeva che quello fosse il terreno della figlia?
ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD No, no, nessuno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie al cambio di destinazione d’uso il valore del terreno si modifica di quasi dieci volte. E dai documenti che abbiamo ritrovato, il giorno in cui il consiglio comunale approva le modifiche al piano regolatore, Attilio Fontana risulta presente e partecipa al voto senza segnalare il suo conflitto d’interesse. Il copione si ripete identico anche quando un consigliere di minoranza presenta un emendamento per bloccare i permessi a costruire sul terreno della figlia.
GIORGIO MOTTOLA Lei presenta quell’emendamento per bloccare il cambio di destinazione d’uso?
ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Esattamente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Fontana non dichiara il suo conflitto di interesse neppure quando con il suo voto contribuisce a bocciare l’emendamento della minoranza ad hoc sul terreno. L’area della figlia diventa ufficialmente edificabile.
GIORGIO MOTTOLA E lei questo lo ha segnalato?
EX DIRIGENTE COMUNE DI VARESE Questa come tante altre cose sono state segnalate in Procura, in due esposti. Uno a Varese, e l’altro a Milano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A distanza di anni, la Procura di Varese ha aperto un’indagine a carico di Attilio Fontana per abuso di ufficio. Ma le accuse sono state subito archiviate, come annuncia lo stesso Fontana con una conferenza stampa.
ATTILIO FONTANA – Da TGR55 - intervista di Matteo Inzaghi del 10/10/2017 Sono molto contento anche perché l’unica cosa che ho avuto sempre come riferimento è stata la legalità e il rispetto delle norme. Sono perfettamente cosciente di chi sia l’autore della lettera anonima e lui sa che io lo so.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Intanto Maria Cristina Fontana ha iniziato a seguire le orme paterne. Avvocato in carriera, ha ereditato le quote dello studio legale del padre e iniziato ad assumere incarichi legali anche per la Regione Lombardia. In particolare, per l’Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo.
GIORGIO MOTTOLA Queste sue consulenze si intensificano proprio nel momento in cui suo padre diventa presidente della Regione Lombardia dal 2018.
MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questa è un’affermazione molto grave e molto falsa, per cui se la ripete assumerà le responsabilità.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma i documenti che abbiamo trovato sembrano smentirla. Per conto dell’Azienda sanitaria Nord Milano, Maria Cristina Fontana svolge tre incarichi nel 2017 e poi a partire dal settembre 2018, vale a dire poco dopo la nomina del padre, ne fa cinque. E altri tre nel 2019, a cui va aggiunto un altro incarico legale da 5800 euro all’ospedale Sacco. GIORGIO MOTTOLA Guardi noi abbiamo controllato e si intensificano dal 2018.
MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questo non è assolutamente vero. Comunque lei non si deve permettere di telefonare così, anche perché sto lavorando.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei documenti inediti del 2019, le tabelle dell’Asst Nord Milano aggiungono una voce sui conflitti di interesse dei consulenti legali. E in corrispondenza del nome di Maria Cristina Fontana, viene specificato che non c’è nessun conflitto di interesse da segnalare. Nell’aprile 2020, invece, in piena emergenza Covid, la dirigenza dell’ospedale trova il tempo di riunirsi ed estendere l’elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali per l’Asst Nord Milano. Il provvedimento riguarda anche Maria Cristina Fontana, che grazie a quella deliberazione, sembra allargare il campo di azione in cui può effettuare incarichi legali. A firmare il documento sono massimi dirigenti dell’Asst Nord Milano, nominati dalla giunta Fontana appena un anno prima.
GIORGIO MOTTOLA Ma come mai proprio nel pieno dell’emergenza Covid le è stato ampliato l’ambito in cui può fare consulenze per L’Asst Nord Milano.
MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Senta, lei non ha nessuna autorità, quindi non le devo nessuna spiegazione. Cortesemente se mi lascia lavorare. Ripeto cosa che magari lei non sa cosa voglia dire.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma a Varese, durante l’amministrazione Fontana, c’è un’altra “questione di famiglia”. Stavolta però riguarda i familiari di un altro altissimo dirigente nazionale della Lega. Un conflitto di interessi pubblico e sotto gli occhi di tutti, di cui però finora nessuno ha mai parlato. È andato avanti per quattro anni e ha avuto come teatro l’ippodromo comunale di Varese.
EX DIRIGENTE – COMUNE VARESE In questo ippodromo c’era effettivamente un maneggio abusivo. Questo maneggio, cosa strana, vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie di Giorgetti si chiama Laura Ferrari e insieme alla sorella si occupa da anni di equitazione. Passione che già qualche anno le fu fatale. Laura Ferrari nel 2008 ha infatti patteggiato una condanna per truffa: aveva ricevuto mezzo milione di euro dalla Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. I soldi sono arrivati, ma i corsi non sono mai stati fatti. L’avvocato scelto all’epoca dalla moglie di Giorgetti fu il principe del foro di Varese, Attilio Fontana. E proprio durante l’amministrazione Fontana, Laura Ferrari e sua sorella ottengono dalla società privata che ha in concessione l’ippodromo comunale di occupare il centro della pista con il loro maneggio.
DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 PRESENTATRICE Partiamo da Laura, e così, raccontaci un po’ che cosa accade, che cosa succede all’interno del vostro centro ippico.
LAURA FERRARI Allora la nostra è una scuola di equitazione e quindi è rivolta principalmente a bambini e abbiamo anche adulti.
GIORGIO MOTTOLA Con la loro associazione “Pony Club Le Bettole” impiantano nell’ippodromo box per i cavalli, un tendone per svolgere le attività anche d’inverno e organizzano corsi a pagamento, sponsorizzati dentro le scuole con brochure ufficiali del Comune di Varese.
DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 LAURA FERRARI Questo ci consente di avere anche una buona pubblicità in tutto il comune di Varese, diciamo che è un bacino abbastanza, grande, importante.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, dai documenti ufficiali che abbiamo ritrovato non siamo riusciti a comprendere quanto la moglie di Giorgetti pagasse di affitto. Per usare l’ippodromo come stalla per i loro cavalli e per i corsi di equitazione a pagamento. GIORGIO MOTTOLA La moglie di Giorgetti per quell’ippodromo quanto pagava d’affitto?
ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Noi non lo sappiamo perché l’amministrazione comunale semplicemente dà in concessione a una società la gestione di tutto l’ippodromo, che è appunto il concessionario, che poi gestisce le sue attività, i suoi ricavi autonomamente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo chiesto alla società concessionaria dell’ippodromo e ci ha spiegato che il rapporto con l’associazione “Pony Club le Bettole” era regolato da un contratto di comodato d’uso gratuito. Vale a dire che la moglie e la cognata di Giorgetti, per tutti gli anni in cui hanno occupato l’ippodromo, non hanno pagato nemmeno un euro. Le attività della loro associazione vanno avanti fino al 2018. Solo due anni fa, quando l’amministrazione non è più in mano alla Lega, scatta un controllo dei vigili. Chiedono alla cognata di Giorgetti di presentare la Scia, vale a dire le autorizzazioni comunali per il maneggio, ma la presidente dell’associazione risponde di non essere in grado di esibirla.
GIORGIO MOTTOLA Quell’attività di maneggio dell’associazione della moglie di Giorgetti era abusiva?
ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Secondo la ricostruzione dell’amministrazione, quell’attività non era autorizzata, e per questo è stata elevata una sanzione.
GIORGIO MOTTOLA Pronto Laura Ferrari?
LAURA FERRARI – PONY CLUB LE BETTOLE Si?
GIORGIO MOTTOLA Salve, sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.
LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE No, adesso io non posso parlare grazie.
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sulla sua associazione.
LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE Grazie. Non posso, non posso, salve. Salve, salve.
GIORGIO MOTTOLA Perché c’è arrivata notizia che occupaste abusivamente l’ippodromo di Varese. Pronto?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie e la cognata di Giorgetti hanno presentato un ricorso contro la sanzione inflitta dal Comune. E ora la questione pende davanti al giudice di Pace. Ma che qualcosa non andasse forse non era un segreto di Stato.
EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Tutti sapevano, nessuno ha fatto nulla, compreso il comandante dei vigili, compreso il prefetto, compreso il Comune.
GIORGIO MOTTOLA Come fa a sapere che gli altri erano al corrente?
EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Perché ho parlato con il prefetto, dottor Zanzi, lo stesso Prefetto su diversi argomenti ma anche su questo, mi ha detto che era già a conoscenza. Io ho detto testuali parole al prefetto: “dottor Zanzi, secondo lei cosa avremmo dovuto fare, cosa avrei dovuto fare, girare la faccia dall’altra parte”?
GIORGIO MOTTOLA Salve senatore sono Giorgio Mottola di Report Rai3.
GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Però i giornalisti li facciamo tutti dopo.
GIORGIO MOTTOLA Però vorremmo farle soltanto una domanda perché ci risulta che sua moglie e sua cognata abbiano occupato abusivamente l’ippodromo di Varese per diversi anni mentre Fontana era sindaco.
GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma figurati, dai su.
GIORGIO MOTTOLA C’è stata anche una denuncia in procura, una denuncia in prefettura. E alla persona che la ha denunciato questa cosa è stato risposto che tutti sapevano tutto.
VOCE ALTRO SOGGETTO Andiamo di là un attimo a parlare?
GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma che… è tutto regolare…
GIORGIO MOTTOLA Eh no, sembra abusivo…Non mi spinga però!
GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma perché la devi chiedere a me questa roba qua?
GIORGIO MOTTOLA Perché si tratta di sua moglie e sua… Che sta facendo? Con la pancia?
SICUREZZA? Mi sta spingendo!
GIORGIO MOTTOLA È lei che mi sta spingendo con la pancia. Facciamo pancia contro pancia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pancia contro pancia. Per fortuna che il nostro Giorgio è attrezzato. Però è stato bravo a ricostruire la mappa di un potere che si muove a proprio agio nell’ambito del conflitto d’interessi. A partire da quel voto che, in consiglio comunale, ha cambiato la destinazione di alcuni terreni e che hanno di fatto moltiplicato il valore dei beni immobiliari delle proprietà di famiglia. Su quei fatti sono stati presentati due esposti. Uno presso il tribunale di Varese che si è concluso con una archiviazione. Abbiamo letto, noi di Report, le motivazioni ed emerge un particolare singolare: i magistrati hanno preso in considerazione il primo voto, quello che era sulla modifica dell’intero piano regolatore della città e hanno chiesto l’archiviazione perché “Il consiglio comunale” compreso Fontana “si è espresso cumulativamente”. Mentre le indagini, però, in maniera singolare, non hanno preso in considerazione il secondo voto, quello che riguarda un emendamento specifico, presentato dal consigliere di opposizione Civati, che avrebbe di fatto bloccato i permessi a costruire sui terreni della figlia. Lì Fontana ha partecipato al voto nei duplici panni di padre e sindaco della città e ha contribuito a bocciare l’emendamento. Questo, non si sa perché, non è stato preso in considerazione. Non sappiamo neanche che fine poi abbia fatto l’altro esposto, quello presentato presso la procura di Milano. Mentre, invece, sull’ipotetico conflitto di interessi che riguarda i rapporti dell’avvocato figlia del governatore con l’Azienda Sanitaria Milano Nord, ci scrive, ci fa sapere che i suoi sono stati “incarichi a spese della compagnia assicuratrice della quale è fiduciaria dal 2015”. Scrive anche che le sue aree di competenza “non sono aumentate ma sono state” – in qualche modo – “rimodulate”. Però né lei né i responsabili dell’azienda sanitaria milanese hanno detto nulla su un ipotetico, possibile conflitto di interessi che riguarda la parentela fra lei e il governatore, cioè con colui che di fatto nomina i dirigenti che le affidano gli incarichi. Per quello che riguarda, invece, l’altro conflitto scoperto da Report, quello di casa Giorgetti, che cosa è successo? È successo che nel 2014 moglie e cognata di Giorgetti, con una associazione, si infilano nell’ippodromo comunale di Varese. Gli spalanca le porte un privato, sostanzialmente. Loro lì che cosa fanno? Infilano le loro stalle private, fanno dei corsi di equitazione, a pagamento, che vengono anche sponsorizzati da brochure del Comune. Tutto questo possono farlo senza pagare un euro, questo perché il concessionario privato ha firmato con loro un contratto di comodato gratuito. Tutto regolare. Fino a quando, dopo un po’ di anni, cambiata la giunta, il colore della giunta, arriva un’ispezione dei vigili. E secondo i vigili c’è un’irregolarità. Quel maneggio non aveva l’autorizzazione per svolgere le attività. L’associazione che fa riferimento alla moglie di Giorgetti ci scrive “Noi però siamo una Onlus, non abbiamo bisogno di autorizzazioni”. Vedremo. Vorrei vedere se al suo posto ci fosse stata un’altra associazione, di un’altra signora, se avrebbe potuto godere di 4 anni dell’ippodromo gratuitamente. Pare che fosse il segreto di Pulcinella, come ha detto il funzionario pubblico che ha denunciato tutto questo. Però il prefetto Zanzi che, tirato in ballo lui stesso, ha detto: no, a me nessuno ha mai detto niente. Comunque si ha la percezione che probabilmente la rete avrebbe continuato a coprire se fosse rimasto lo stesso colore politico. Come anche nel caso, per esempio, della moglie di Fontana, che non ha avuto bisogno di chi parlare direttamente con il marito per la fornitura dei camici, lo ha fatto con la moglie dell’assessore Cattaneo. Chi è che ha scelto l’assessore Cattaneo? E Gallera, per esempio, che è assessore della Sanità in un momento così delicato, chi l’ha scelto? Chi vota pensa che chi viene eletto vada in assemblea a rappresentarlo. In realtà è più facile che sia il terminale di una ragnatela. Chi è il consigliere occulto di Fontana? L’uomo che tesse la ragnatela? Lo vedremo. È uno che… “Non si muove foglia senza che Nino non voglia”.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Del sistema di potere che governa la Regione Lombardia riusciamo a vedere solo la facciata esterna. Ma nel chiuso delle stanze e nella quiete delle telefonate riservate si affollano figure oscure e consiglieri occulti in grado di condizionare alcune delle scelte più importanti di Attilio Fontana. Ricostruzione intercettazione
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Presidente, volevo farti gli auguri di buona Pasqua.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Auguri anche a te caro Ninuzzo, tutto bene?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ninuzzo, come lo chiama Fontana, è Nino Caianiello, per quasi vent’anni capo occulto di Forza Italia a Varese ed eminenza grigia del centrodestra Lombardo. Sebbene non ricopra alcun incarico ufficiale è stato per anni molto vicino all’attuale governatore.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ho avuto tante occasioni di incontrare, di lavorare e di confrontarmi con Nino che anche nei momenti di difficoltà Nino ha saputo sempre trovare una soluzione ed è sempre stato assolutamente coerente con quello che ha detto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nome di Nino Caianiello ai più non dice nulla. Ma per vent’anni è stato uno degli uomini più potenti della Lombardia. Molto legato a Marcello Dell’Utri, non c’è nomina o incarico pubblico tra la Provincia di Varese e la Regione che non sia stato discusso prima con lui. Per la sua fama di tagliatore di teste si è conquistato il soprannome di Mullah.
ANTONIO RAZZI IN VIDEO Caro Clerici, vedi che sono con Nino e ti do un bel consiglio da amico, fatti li cazzi tuoi.
NINO CAIANIELLO Hai capito o no?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nino Caianiello è circonfuso da una misteriosa aura di potere. Nel 2016 ha subito una condanna definitiva per concussione e da allora è scomparso dai radar. Assente nelle foto ufficiali della politica, ha continuato tuttavia a partecipare a tutti i tavoli che contano compreso quello per la composizione della giunta nel 2018. Sulla scelta degli assessori regionali, Caianiello sembra aver avuto una grossa voce in capitolo. Ricostruzione Intercettazione
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Hai visto che i tuoi… i tuoi consigli li ho seguiti quasi tutti, nel senso che….
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Non te ne… non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.
ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non è male, non è male la giunta secondo me.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Assolutamente… no… no è messa bene.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per capire quali siano stati i consigli dati a Fontana, siamo andati a chiederlo direttamente al Mullah.
GIORGIO MOTTOLA Pronto salve Nino Caianiello?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì.
GIORGIO MOTTOLA Io volevo fare una chiacchierata con lei.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Eccomi qua. Ultimo piano.
GIORGIO MOTTOLA Ok, d’accordo, grazie.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la prima volta, dopo il suo arresto, Nino Caianiello accetta di parlare davanti a una telecamera.
GIORGIO MOTTOLA Leggendo le telefonate fra lei e Fontana, sembra che il presidente sia lei, che i ruoli siano in qualche modo invertiti.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Per motivi diversi, perché io ho vissuto più la gestione politica del partito. Mentre invece Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così.
GIORGIO MOTTOLA Risponde un po’ agli ordini, Fontana?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non ordini, agli accordi.
GIORGIO MOTTOLA Attilio Fontana è un po’ un front office?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È un front office.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dalle telefonate sembra che i consigli di Caianiello a Fontana abbiano riguardato in particolare la nomina ad assessore di Raffaele Cattaneo, l’assessore chiave per far ottenere il contratto dei camici alla ditta del cognato e della moglie. Ma soprattutto Caianiello sembra ispirare la nomina di Giulio Gallera, a cui il presidente Fontana darà il delicato assessorato alla sanità.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Attilio disse vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l’incarico all’ambiente.
GIORGIO MOTTOLA Lei con Fontana parla anche di Gallera.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì, parlo di Gallera perché sapevo che c’era questa legittima aspettativa da parte di Gallera.
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei dà in qualche modo lei dà il suo benestare.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io dico per me Gallera va bene.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella tra Fontana e Caianiello non era soltanto un rapporto tra alleati di coalizione. Quando il futuro governatore nel 2018 deve mettere in piedi per le regionali la sua lista personale è al Mullah che si rivolge.
GIORGIO MOTTOLA Lei è stato uno degli organizzatori della lista civica di Fontana?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io diedi una mano.
GIORGIO MOTTOLA Lei era un po’ il deus ex macchina di questa…
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io fui coinvolto da Matteo Bianchi e gli diedi una mano. Tant’è che alcune persone…
GIORGIO MOTTOLA Matteo Bianchi è il segretario provinciale della Lega.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Segretario provinciale della Lega. Gli demmo una mano nell’organizzare la lista.
GIORGIO MOTTOLA La lista. La lista per il presidente.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA La lista per trovare i candidati. La lista del presidente Fontana.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se da una parte dispensava consigli a Fontana su nomine e incarichi, dall’altra Caianiello tesseva anche un’altra ragnatela occulta di potere in cui finivano mazzette e corruzione. La sua tela avviluppava molti comuni della provincia di Varese e avvolgeva persino il cuore della regione Lombardia. La procura di Milano ha individuato il Mullah come il regista della nuova Tangentopoli lombarda.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Non si muove foglia che Nino non voglia o che Nino non sappia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E nella sua ragnatela c’era anche l’ex sindaco e dirigente di Forza Italia, Danilo Rivolta, per anni uno degli uomini più fedeli di Nino Caianiello. Trascorreva le giornate con il Mullah nel suo quartier generale, l’Hausgarden. Un bar di Gallarate, ribattezzato l’ambulatorio per la fila di gente che ogni giorno si formava nel locale per parlare, omaggiare e chiedere favori a Nino Caianiello.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Da me arrivava di tutto lì. Io ho ricevuto dal Pd alla Lega a… c’è stato di tutto e di più lì quindi. Poliziotti, carabinieri, guardia di finanza. Io ho ricevuto di tutto.
GIORGIO MOTTOLA Poliziotti, finanzieri veniva a chiederle favori?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA E mica li chiedevo io a loro.
GIORGIO MOTTOLA Chi veniva all’ambulatorio?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ah veniva di tutto. Io ho visto passare di tutto, guardi, dall’operaio al dirigente sanitario.
GIORGIO MOTTOLA Per chiedere che cosa?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Le più svariate cose. Chi un posto di lavoro, chi una sistemazione, chi la sorella, chi un posto in giunta, chi un appalto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ambulatorio, per favorire un appalto, piazzare un incarico o sollecitare una variante urbanistica, Caianiello intascava anche le mazzette. Intercettazione ambientale Manca solo il,uno , mille e son quelli del... dell’ultimo giro… m’ha combinato un casino quel deficiente.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO L’ho sempre saputo io. Sempre.
GIORGIO MOTTOLA Tutti pagavano la mazzetta.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO La decima. Le percentuali non le conoscevo. Però io politicamente lo ammiravo.
GIORGIO MOTTOLA Lei lo ammirava nonostante sapeva che prendesse le mazzette?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si, perché, comunque aveva messo in piedi un sistema, gliel’ho detto, che funzionava. Non era tanto legittimo però diciamo che l’hanno lasciato andare avanti per tanti anni questo sistema.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Le cifre delle cosiddette tangenti che si sono sentite e viste nel ‘92… oggi queste cose non esistono.
GIORGIO MOTTOLA Sono cifre molto più basse.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non esiste assolutamente. Gli stessi professionisti fanno fatica. A…
GIORGIO MOTTOLA A sborsare.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA A tirare fuori i soldi e tutto il resto. E tanti, per esempio, si giustificavano a fronte dì dicendo, noi non riusciamo a muoverci in un modo o nell’altro.
GIORGIO MOTTOLA E quindi davano di meno rispetto a quello pattuito.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Uno diceva noi il sette percento non riusciamo a darlo, diamo il quattro percento, dicevamo vabbè fai se tu dici che è cosi è così.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Caianiello ammette di aver preso mazzette, tuttavia li chiama contributi e giura che servivano solo a finanziare la macchina del partito e le campagne elettorali.
GIORGIO MOTTOLA Lei li chiama contributi, i magistrati le hanno chiamate tangenti.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È per quello che sono le tangenti io pagherò nelle sedi opportune. Per fare una manifestazione politica devi pagare la sala, devi fare i manifesti, devi pagare il microfono, se prendi i fiori perché arriva Maria Stella Gelmini anziché un deputato per fare un omaggio, queste cose costano. GIORGIO MOTTOLA Si però lì il giro dei soldi sembrava molto più ampio rispetto alla sala, i fiori……
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA No!
GIORGIO MOTTOLA …non era soltanto per le spese minime.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Noi abbiamo fatto le campagne elettorali e le campagne elettorali sono costate. E la campagna elettorale era per il partito e per il candidato.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tanto il candidato lo decide lui. E gli sarà anche riconoscente. Perché Nino Caianiello, che per la prima volta ha svelato il suo ruolo di consigliere occulto nella formazione della giunta Fontana, rappresenta la cruna di quell’ago del potere dove devi passare, devi infilarti se vuoi candidarti o semplicemente se vuoi un favore. Davanti al bar dove lui accoglieva la gente, si formavano lunghe file, per questo si chiamava, veniva definito “l’ambulatorio”, anche perché Caianiello si prendeva cura di tutti quelli che bussavano alla sua porta, a partire dagli uomini delle forze dell’ordine, lo abbiamo sentito, anche a chi voleva candidarsi. E anche Fontana gli ha chiesto consigli. Non solo ha piazzato l’assessore Cattaneo e l’assessore Gallera, ma ha seguito quasi tutti i consigli nella formazione della giunta. È per questo che Caianiello si sente autorizzato a dire: guardate che Fontana è un semplice gestore della politica, non la fa lui. La politica si fa altrove da quel palazzo di vetro che è la Regione. Che di trasparente ha ben poco, ormai, se è vero che Caianiello, come dice la magistratura, è il regista della nuova tangentopoli lombarda. Lui si lamenta un po’ perché le percentuali sono passate dal 7 al 4 per cento, tempi magri anche per chi riceve le mazzette. Ma lui le chiama “contributi alla politica”. Sembra di ascoltare un vecchio refrain. Ma si può definire politica, questa, quando c’è chi paga per ottenere in cambio un favore che quasi mai coincide con l’interesse pubblico? È l’erosione lenta della legalità, e di questo passo poi è scontato che alla porta di Caianiello possa arrivare a bussare anche il diavolo senza aver bisogno di mascherarsi.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha fatto un patto con il diavolo a Lonate?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Diciamo di sì.
GIORGIO MOTTOLA Per farsi eleggere sindaco di Lonate ha accettato un accordo con la ‘ndrangheta.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO È vero. Si finisce in questa nuvola in cui si perdono un po’ le dimensioni. Ti sembra di salire in alto, in alto, in alto e si accettano certe cose.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2014 Danilo Rivolta è stato eletto sindaco di Lonate Pozzolo, comune di 11 mila abitanti che sorge a ridosso dell’aeroporto internazionale di Malpensa. Qui, nel cuore della provincia di Varese da tempo spadroneggia una delle locali di ‘ndrangheta più potenti e sanguinose di tutta la Lombardia. Negli ultimi 20 anni, gli abitanti di Lonate hanno assistito a incendi, esecuzioni per strada e cadaveri carbonizzati.
ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non ho alcun timore a definirlo, una sorta di laboratorio, laboratorio di ‘ndrangheta al Nord.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ombra dell’aeroporto di Malpensa la ‘ndrangheta fa affari d’oro con il business dei parcheggi e dell’edilizia. Non controlla solo politici, professionisti e imprenditori. Negli anni ha infiltrato il tessuto sociale.
ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non mi è mai capitato, Presidente, e come è noto ho lavorato per anni in Calabria, che in un processo noi abbiamo avuto 17 testimoni, su 17 testimoni 12 sono falsi. Ecco neanche in Calabria succede questo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L ‘ndrangheta qui come nel resto della Lombardia, gestisce un consistente pacchetto di voti che a ogni elezione porta in dote al candidato che è più in grado di soddisfare le loro esigenze.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha incontrato esponenti di famiglie calabresi di Lonate per fare questo accordo? DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Prima viene un rappresentante della famiglia De Novara che chiede di potersi candidare. Io gli dissi Franco pensaci bene forse meglio magari mettere un rappresentante giovane, sai…
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei sapeva che Franco De Novara fosse vicino agli ambienti della ‘ndrangheta insomma.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Sì lo avevo letto. Concordammo poi alla fine di mettere la figlia Francesca in lista.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Franco De Novara, all’anagrafe Salvatore, è un imprenditore attivo nel settore del movimento terra e dell’edilizia. Risulta imparentato con i boss della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Alle elezioni la figlia Francesca è tra le più votate e grazie alle sue preferenze Rivolta riesce a vincere di misura.
GIORGIO MOTTOLA Per la sua elezione a sindaco i voti della ‘ndrangheta si rivelano alla fine decisivi. DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si rivelano decisivi sì.
GIORGIO MOTTOLA E quando scopre di aver vinto grazie ai voti dei calabresi, che cosa pensa?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Cominciano i problemi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il suo primo atto da sindaco è la nomina ad assessore di Francesca De Novara, sposata con Cataldo Malena, braccio destro dell’allora capo della cosca di Lonate Pozzolo.
GIORGIO MOTTOLA Lei subisce pressioni mentre è sindaco dalle famiglie calabresi?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ho avuto delle richieste strane. Loro chiedevano in un certo senso legittimamente per quello che avevano fatto però non potevo garantire spudoratamente così.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Lonate le famiglie originarie della Calabria occupano un intero quartiere con le loro villette. È qui che incontriamo Franco De Novara.
GIORGIO MOTTOLA Diciamo che il suo nome è un po’ chiacchierato.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Il mio nome? A me non mi risulta.
GIORGIO MOTTOLA Nella vicenda anche del sindaco Danilo Rivolta. Mi ha detto insomma degli accordi che avete fatto nel 2014.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Noi abbiamo fatto accordi?
GIORGIO MOTTOLA Eh. Lui dice che all’epoca faceste un accordo per portare i voti dei calabresi.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma lascia stare…dai.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Accanto a De Novara, notiamo un volto che ci sembra subito familiare.
GIORGIO MOTTOLA Lei è Francesca, giusto?
FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io sono Francesca.
GIORGIO MOTTOLA Ah ecco, l’assessore.
FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Eh…
GIORGIO MOTTOLA Lei si è candidata in lista? Francesca.
FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io mi sono candidata in lista perché Danilo Rivolta mi ha rotto i coglioni fino a casa per farmi candidare perché aveva bisogno delle quote rosa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque stando ai De Novara, si sarebbero ritrovati nella giunta comunale di Lonate Pozzolo non perché l’avrebbero chiesto ma perché pregati da Danilo Rivolta.
GIORGIO MOTTOLA Inizialmente era lei Franco che voleva candidarsi con lui?
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Io sono 40 anni che lavoro, io sono venuto in Lombardia con la valigia di cartone. Vedi come sono nero? Diglielo a Rivolta.
GIORGIO MOTTOLA Ma si parla anche di rapporti.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma quali rapporti?
GIORGIO MOTTOLA Con le cosche della ‘ndrangheta qui a Lonate.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Quali rapporti? Qua si lavora, qua sei vuoi mangiare, devi lavorare.
GIORGIO MOTTOLA Alfonso Murano era suo parente, no?
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Se c’era Alfonso Murano mo’ ti… ti picchiava.
GIORGIO MOTTOLA No, non mi dica così. Perché mi dovrebbe picchiare.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Non dire ‘ste minchiate.
GIORGIO MOTTOLA Anche suo marito Francesca è in carcere per ndrangheta.
FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma dico io come cazzo ti permetti tu di andare in giro per le case a suonare.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alfonso Murano è lo zio di Francesca De Novara, ma particolare non trascurabile, era anche uno dei massimi capi della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Una sera di febbraio del 2006 è stato ucciso in un agguato. Sarebbe stato senz’altro orgoglioso di vedere otto anni dopo sua nipote Francesca occupare un posto in giunta nel comune che controllava. Ma nell’ascesa politica dei calabresi, avrebbe avuto un ruolo importante anche un altro politico sconosciuto ai più.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Non li ho incontrati direttamente, è stato fatto il tramite.
GIORGIO MOTTOLA Chi è stato questo tramite?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Corrisponde al nome di Peppino Falvo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo in Lombardia è conosciuto come il re dei Caf di Milano e provincia. È stato il coordinatore regionale dei Cristiano Popolari, il partito meteora fondato da Mario Baccini, ma nel momento del bisogno è corso in sostegno elettorale a tutto il centrodestra, da Forza Italia a più recentemente la Lega di Salvini.
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Peppino se decideva di portare “X” persone a una manifestazione ci metteva il battito di una farfalla, ecco.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le doti di Peppino nel riempire di sue claque le assemblee politiche sono di dominio pubblico. Il capolavoro lo compie nella prima convention dei Cristiano Popolari. Quando Falvo riempie la sala di gente che non aveva idea di dove si trovasse.
INTERVISTE DI MARCO BILLECI – 03/12/2012
UOMO M’hanno portato qua, non so cosa dobbiamo fare.
MARCO BILLECI Chi lo ha portato, scusi?
UOMO Siamo venuti con un pullman.
MARCO BILLECI Un pullman da dove?
UOMO Da Lonate Pozzolo.
MARCO BILLECI Perché ha deciso di essere qua oggi?
DONNA Non lo so.
MARCO BILLECI Come non lo sa, è arrivata in pullman?
DONNA Sì, in pullman.
MARCO BILLECI Da?
DONNA Da Lonate.
UOMO 2 Io sono un carissimo amico di Falvo.
MARCO BILLECI Chi è, scusi?
UOMO 2 Falvo.
MARCO BILLECI Eh, mi dica chi è Falvo.
UOMO 2 È un calabrese che, è un mio carissimo amico.
GIORGIO MOTTOLA Falvo era l’intermediario fra le famiglie calabresi, gli ambienti di ‘ndrangheta e la politica?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Diciamo che era un collegamento, sì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo ruolo opaco di cerniera tra politica e ‘ndrangheta, Peppino Falvo è finito sotto indagine a Milano. Incontriamo il re dei Caf proprio davanti a uno dei suoi sportelli.
GIORGIO MOTTOLA Lei sembra lì l’intermediario tra la politica e la ‘ndrangheta.
PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente, lo decideranno i magistrati, tranquillo.
GIORGIO MOTTOLA Rivolta dice che nel 2014 lei si è presentato a casa sua con Franco De Novara.
PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti stretti con Franco De Novara.
PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA Non può negare.
PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Ci sarà la magistratura, tranquillo, non ci sono problemi.
GIORGIO MOTTOLA Però lei nega di avere avuto anche rapporti con i De Novara?
PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No assolutamente, li conosco.
GIORGIO MOTTOLA E sa anche che Francesca era la nipote del boss che è stato ucciso?
PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No, questo non lo sapevo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo nega tutto, ma l’accordo tra Rivolta e le famiglie calabresi sarebbe stato suggellato anche da un livello politico superiore: Nino Caianiello, l’uomo che non si muove foglia a Varese che lui non voglia.
GIORGIO MOTTOLA Nino Caianiello, cosa sapeva del suo accordo con la ‘ndrangheta?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ogni accordo lui lo avallava, ogni lista lui doveva controllarla. Ogni lista doveva convalidarla.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai incontrato i De Novara?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, li ho incontrati nell’ufficio a Gallarate di Peppino Falvo.
GIORGIO MOTTOLA Falvo fece da intermediario fra lei e De Novara?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E Falvo mi rappresentò la necessità di poter dare delle garanzie che a livello locale i rappresentanti di Forza Italia non riuscivano a dare ai De Novara sul fatto che non sarebbero stati trattati male ma che comunque c’era una continuità del rapporto con Rivolta. GIORGIO MOTTOLA Però lei, diciamo, immaginava che fossero vicini agli ambienti di ‘ndrangheta?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Che erano sul filo sì, questo sì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lonate non è solo un microcosmo. È lo specchio di quello che accade anche a Milano e nel resto della Lombardia. Quanto la presenza della ‘ndrangheta sia pervasiva lo spiega un boss di Lonate in un’intercettazione. Intercettazione
CATALDO CASOPPERO La ‘ndrnangheta, ogni paese c’è una ‘ndrangheta.
GIORGIO MOTTOLA Se si fa politica si può non avere rapporti con la ‘ndrangheta?
DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ritengo che siano pochi i comuni che non hanno questo tipo di influenza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così quando Danilo Rivolta viene arrestato ed è costretto a dimettersi, il copione rimane lo stesso. Alle ultime elezioni comunali di Lonate, nel 2019, la ‘ndrangheta si è limitata a cambiare cavallo, puntando su Enzo Misiano, il capo locale di Fratelli d’Italia che prova a minare il monopolio politico di Nino Caianiello. Intercettazione
ENZO MISIANO – EX SEGRETARIO FRATELLI D’ITALIA LONATE POZZOLOFERNO Cioè qualunque cosa fa, devo chiamare Caianiello. Ed io gli ho detto guarda chiama chi vuoi cioè non è un problema mio, non è il mio referente. Io non devo chiamare nessuno. Se tu devi chiamare Caianiello, chiama.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al suo arresto Enzo Misiano è stato il referente locale di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. Ma il suo primo lavoro era autista e tuttofare del boss della cosca Giuseppe Spagnolo. Alle comunali di Lonate del 2019, Enzo Misiano convoglia i voti della ‘ndrangheta sulla lista di Ausilia Angelino, candidata sindaco del centrodestra e della Lega.
GIORGIO MOTTOLA Da quello che risulta, la ‘ndrangheta ha sostenuto dei candidati nella sua lista?
AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, se ha sostenuto me io su queste cose qui assolutamente non condivido. Perché io non sapevo nulla e di conseguenza ognuno si prenda la responsabilità personale.
GIORGIO MOTTOLA Ma Enzo Misiano però lo conosceva?
AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Enzo Misiano certo lo conoscevo, come lo conoscevano tutti.
GIORGIO MOTTOLA E lo frequentava quindi.
AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Lavora in Comune. Lo conosce anche l’attuale sindaco.
GIORGIO MOTTOLA Prende le distanze da Enzo Misiano?
AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Ma stiamo scherzando. Adesso che sono saltati fuori i fatti prendo le distanze non solo da Misiano, ma da tutti. Mi dispiace. Perché io non li conosco, nessuno.
GIORGIO MOTTOLA Forse doveva fare più attenzione nella composizione della lista, probabilmente, no?
AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Innanzitutto, io su questo non desidero, glielo dico sinceramente, che venga messa in onda perché a me non interessa…
GIORGIO MOTTOLA Perché no? Lei era candidata sindaco mi scusi, non è che è un fatto privato è un fatto pubblico.
AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, perché lei sta… allora poi… basta…
GIORGIO MOTTOLA E’ normale che un politico incontri figure border line, vicine alla ‘ndrangheta?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Questa gente vota. Allora o stabiliamo che chi è in odore o è fra virgolette di…non votano e quindi non li contattiamo. Questi vanno, votano.
GIORGIO MOTTOLA Cioè lei dice votano, quindi anche se sono ‘ndranghetisti ma votano qualcuno deve andarli a prendere poi quei voti.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, e come si fa? Si vince anche per un voto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E poco importa se quel voto rischia di essere puzzolente. Lo ammette candidamente Nino Caianiello. D’altra parte, se lo smentisse, sarebbe come sminuire un po’ quel ruolo di playmaker della politica del centro destra in Lombardia. Alla corte del consigliere occulto di Fontana si sono presentati il candidato sindaco, i familiari di ‘ndranghetisti, tutti a braccetto con il facilitatore, l’uomo, il re dei Caf in Lombardia, l’uomo che riusciva a riempire, in caso di necessità, le sale per un convegno politico e portare consenso: Peppino Falvo. Poi, poco importa se chi si trascinava dietro non sapesse neppure che cosa stesse facendo lì dentro. L’importante è intercettare il loro voto, meglio ancora, anzi, se è un voto inconsapevole. Nella distrazione si riesce meglio magari a far eleggere i familiari di ‘ndranghetisti o, addirittura, l’ex autista di un boss. E tutti benedetti dalla politica. La ‘ndrangheta è in tutte le città, l’abbiamo sentito da chi ci vive dentro. E si presenta anche senza più bisogno di mascherarsi, di travestirsi. Questo da una parte. Dall’altra, invece, abbiamo funzionari dello Stato che per denunciare un semplice conflitto di interessi sono costretti a farlo a volto coperto. C’è migliore rappresentazione del degrado della politica? Chissà come Franca Valeri avrebbe oggi descritto la sua Milano.
Vassalli, valvassori e valvassini. Report Rai PUNTATA DEL 26/10/2020 di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara e Federico Marconi. Report torna a occuparsi della Lombardia, dove Tangentopoli sembra non essere mai finita. Per entrare nel giro che conta degli appalti pubblici, come confermano anche alcune inchieste giudiziarie, bisogna pagare: in esclusiva a Report imprenditori, politici e amministratori locali raccontano come la corruzione in Lombardia sia diffusa dai piccoli comuni fino agli scranni del consiglio regionale. Parlano di finanziamenti occulti alla politica, mazzette sugli incarichi pubblici, bandi sistematicamente truccati. Report svela il lato oscuro della politica lombarda, avvolta da una ragnatela di imprenditori spregiudicati legati alla 'ndrangheta, faccendieri che pilotano le nomine ed eminenze grigie che, dietro alla Lega, avrebbero fatto man bassa di incarichi e consulenze. Un malaffare che avrebbe condizionato le scelte sulla sanità e in particolare sui test sierologici nel pieno dell'emergenza Covid-19, causando ritardi e aumento dei contagi.
“VASSALLI, VALVASSORI E VALVASSINI” Di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara- Federico Marconi Riprese di Alfredo Farina- Davide Fonda Immagini di Andrea Lilli- Fabio Martinelli Montaggio di Giorgio Vallati.
GIORGIO MOTTOLA Il partito che ha provato a boicottarla di più a ostacolare i test sierologici è stata la Lega?
RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Sì, di fatto sì, da parte della Lega abbiamo proprio notato questo isolamento.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per fermare il sindaco di Robbio, il segretario della Lega Lombarda manda messaggi agli amministratori del suo partito. In questo, che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, scrive: “Ho parlato con Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”.
GIORGIO MOTTOLA Lei dice addirittura in questo messaggio che ha parlato con Salvini, quindi la questione era molto importante.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Guardi io Salvini lo sento tutti i giorni, francamente mi sta chiedendo una roba di marzo.
GIORGIO MOTTOLA Ma in Lombardia soltanto voi leghisti avete provato a ostacolare in modo così forte i test sierologici rapidi. Perché? Forse perché stavate difendendo Diasorin? Difendevate gli interessi di Diasorin?
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, allora, se dici una cosa così, io ti querelo. Ma querelo te, querelo te.
GIORGIO MOTTOLA Guardi che io le sto facendo una domanda. Con chi stava parlando?
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Informati, studia, perché non sai una beata minchia.
GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi perché la Lega si è accanita così tanto sui test sierologici rapidi.
UOMO DELLA SICUREZZA C’è un evento, c’è un evento… GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi solo questo. E’ un parlamentare, è un onorevole, e la vicenda… sono morte 35mila persone, anche perché non hanno potuto fare i tamponi. Perché soprattutto con voi della Lega, vi siete accaniti così tanto contro i test sierologici rapidi.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Anche qui formuli una domanda sbagliata. Non siamo noi della Lega, ma sono le linee guida del ministro Speranza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in realtà Emilia Romagna e Veneto nello stesso periodo avevano già iniziato i test sierologici. Grimoldi, invece, in un altro messaggio definisce Francese, che li stava facendo, “quella merda di Robbio”. E l’effetto degli interventi del deputato sembra farsi sentire subito: “mi taccio”, risponde infatti l’amministratore leghista, ma avverte: “occhio che prima o poi verrà fuori che ha ragione lui”. Quasi tutte le amministrazioni leghiste non proseguono con i test sierologici nei loro comuni e alla maggior parte dei lombardi non resta che aspettare Diasorin.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lunedì abbiamo mandato in onda le dichiarazioni di Nino Caianiello, considerato il nuovo regista della nuova tangentopoli lombarda. Ecco. Lui ha ammesso ai microfoni del nostro Giorgio Mottola, di essere stato il consigliere occulto nella formazione della giunta regionale a guida Fontana. Lui che ha anche formato la lista civica che ha supportato il governatore. Ha ammesso di aver incassato tangenti e ha ammesso anche di aver ricevuto alla sua corte, familiari di ‘ndranghetisti che poi lo hanno anche supportato nel corso degli anni in varie elezioni perché la ‘ndrangheta ha detto candidamente “vota”. Ecco tutto questo ci ha sottoposto ad un tiro incrociato durante la settimana: il Governatore Fontana ci ha accusato, con i suoi assessori, ci hanno accusato di aver fatto una falsa rappresentazione dei fatti, una costruzione artefatta, un vile complotto. Insomma, ecco, secondo loro il problema alla fine siamo noi che quei fatti li abbiamo raccontati. Noi avevamo solo la presunzione di sollevare una questione morale che invece è rimasta in sottofondo come un fastidioso rumore. Ecco, per fortuna la procura di Milano la pensa diversamente: i magistrati Furno, Scudieri e Bonardi sono stati quelli che hanno scoperto questo sistema corruttivo nell’inchiesta “Mensa dei Poveri”. E poche ore fa la DDA ha inviato i suoi investigatori ad acquisire il materiale originale della nostra inchiesta. Questo perché le dichiarazioni di Nino Caianiello, sono l’istantanea, la fotografia della Tangentopoli 4.0, che supera quel sistema anche banale fatto di mazzette. È un sistema molto più sofisticato: è un sistema che prevede intanto la scelta del candidato, poi quello di affiancargli un professionista e tutto questo per formare un cerchio magico che è teso a drenare denaro pubblico e a esercitare un potere. Anche una gestione spregiudicata del potere che incide anche su quello che è un valore estremo: la salute. È una questione di vita e di morte. Ecco insomma, un sistema che ha reminiscenze feudali. Il nostro Giorgio Mottola
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Milano è stata l’epicentro dell’inchiesta giudiziaria più sconvolgente della storia recente: Tangentopoli. Ma più di un quarto di secolo dopo, in città e nel resto della Regione la corruzione sembra essersi soltanto evoluta.
GIORGIO MOTTOLA La sensazione è che Tangentopoli non sia mai finita.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Io dico che secondo me non finirà mai.
GIORGIO MOTTOLA Perché tangentopoli, secondo lei, non finirà mai?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Perché la politica ha un costo. Questo paese ha una serie di gangli che inevitabilmente anche attraverso la burocrazia la si alimenta. E poi il problema non è chi riceve in questo Paese, è chi propone.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi per farsi strada negli appalti a Milano e in provincia bisogna pagare. Lo sa bene Daniele D’Alfonso, giovane imprenditore milanese che fa di tutto per entrare nel giro che conta.
DANIELE D’ALFONSO – INTERCETTAZIONE Faccio una figura della Madonna, c’ho mezza Forza Italia cazzo questa sera. Tutti quelli di Varese. I numeri uno di Forza Italia e di Varese sono lì. Faccio una figura, faccio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per D’Alfonso i politici del comune di Milano e della Regione Lombardia sono una vera e propria ossessione. Paga loro feste in discoteca, le vacanze, le campagne elettorali e, secondo la procura di Milano, paga anche un fiume di tangenti. Per questo qualche mese fa, D’Alfonso è stato arrestato, ma ai magistrati finora non ha mai confessato nulla.
GIORGIO MOTTOLA Perché cercavi così spasmodicamente rapporti con la politica?
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Beh, perché volevo lavorare sempre di più. Se vado da solo, ci sono dieci Daniele che fanno il lavoro…
GIORGIO MOTTOLA …che fanno la tua stessa cosa.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo.
GIORGIO MOTTOLA Non è pazzesco che si debbano usare i politici per fare questa roba?
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Se vuoi lavorare a Milano è così. Perché è pazzesco puoi anche stare in giro a cercare altri lavoretti, provare a tribolare.
GIORGIO MOTTOLA Però nel giro grande senza i politici non ci entri.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo, per i lavori un po’ grossi come quello che ho preso io. Io ho preso… Quando mi hanno arrestato avevo 18 milioni di lavori firmati tra privato e pubblico.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per entrare nel giro che conta Daniele D’Alfonso prova ad agganciarsi al treno di Nino Caianiello, assumendo, il suo pupillo: Pietro Tatarella, consigliere comunale di Forza Italia e astro nascente della corrente del Mullah.
PIETRO TATARELLA – EX CONSIGLIERE COMUNALE MILANO (CONSIGLIERE COMUNALE DI MILANO DAL 2011 AL 2019) Nino hai un grande pregio che è quello di saper sempre puntare sui giovani e anche andando controcorrente. Un difetto però ce l’hai: gli spaghetti come me li fai mangiare tu proprio, non si riescono a digerire. Stai senza pensieri. Ciao.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma evidentemente senza pensieri non sono stati a lungo visto che poi li hanno arrestati tutti. A partire dal consigliere Tatarella, a cui ogni mese D’Alfonso versa 5000 euro per procacciargli contatti e lavori.
GIORGIO MOTTOLA Gli hai dato veramente un botto di soldi a Tatarella…
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Mi ha presentato dei gruppi grossi!
GIORGIO MOTTOLA Ti ha presentato anche tanti politici.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Eh sì, certo, dieci anni siamo stati insieme.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è così che D’Alfonso riesce a ottenere appalti anche con l’Amsa, l’azienda dei rifiuti del comune di Milano, per il quale la sua ditta si occupa di spazzamento neve e soprattutto smaltimento di rifiuti speciali.
GIORGIO MOTTOLA Sarebbe stato più complicato senza Tatarella entrare in quel giro.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo, è ovvio. Non sarei proprio entrato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Daniele D’Alfonso non ha rapporti solo con la politica. La sua ditta ha legami molto stretti con alcune aziende della ‘ndrangheta lombarda. In particolare, con una società di movimento terra di Buccinasco che fa riferimento al capomafia Giosafatto Molluso. Per conto di Molluso e del figlio Giuseppe, D’Alfonso ha assunto ex appartenenti alle cosche e portato a termine lavori edili.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Siamo amici da una vita.
GIORGIO MOTTOLA Hai degli amici belli pericolosi, però.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE A me non hanno mai messo una mano addosso, te lo direi. Non mi hanno mai toccato.
GIORGIO MOTTOLA E dovevi lasciargli anche qualcosa?
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE No niente, no mai dato un euro, mai chiesto un euro.
GIORGIO MOTTOLA Però è pazzesco, gli ‘ndranghetisti non ti hanno mai chiesto soldi, i politici sì.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pietro Tatarella non è l’unico ad aver ricevuto denaro da Daniele D’Alfonso. Soldi in nero sono arrivati anche al gruppo di Fratelli d’Italia in Regione Lombardia e a diversi consiglieri regionali di Forza Italia, molto vicini a Nino Caianiello.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Io ho conosciuto Daniele D’Alfonso tramite Pietro Tatarella.
GIORGIO MOTTOLA E voleva una mano?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E voleva una mano. Sì. Perché lui per esempio a me chiese: dice io non riesco a lavorare in provincia di Varese. Perché voglio partecipare ai bandi ma non mi invitano.
GIORGIO MOTTOLA E venne a chiedere da lei la chiave d’ingresso.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Lo misi in contatto con un amministratore della società. E dissi: invitatelo, no?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nonostante la cattiva reputazione, il portafoglio di D’Alfonso torna utile per le regionali del 2018. Caianiello mette infatti in contatto l’imprenditore milanese con alcuni dei suoi candidati.
GIORGIO MOTTOLA E D’Alfonso le espresse l’intenzione di finanziare la campagna elettorale di Forza Italia per le regionali?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Ma D’Alfonso si sapeva che dava una mano alla campagna elettorale. Lui stesso propose, dice, io poi ricambierò … per ricambiare devi dare solo i contributi quando ci sono le campagne elettorali.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle elezioni regionali del 2018 che decreteranno il successo di Fontana e del centrodestra, Daniele D’Alfonso si scatena. Sperando di essere entrato finalmente nel giro che conta inizia a sborsare in nero decine di migliaia di euro per la campagna elettorale.
GIORGIO MOTTOLA Il 2018 per te diventa una specie di pesca per trovare altri politici che possono darti una mano alle elezioni regionali.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Si, è così se vuoi lavorare. Cioè allora, cosa vuoi fare? Devi morire di fame o devi lavorare? Io ho 60 famiglie da mantenere, cosa faccio?
GIORGIO MOTTOLA Quindi per te le elezioni regionali sono un momento in cui puoi andare lì e trovare… DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE È 15 anni che li conosco, è quindici anni che ho rapporti privati…
GIORGIO MOTTOLA Che paghi qui, paghi là.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Che se io ho una campagna elettorale da dare una mano, devo dare una mano alla campagna elettorale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i candidati che D’Alfonso sostiene con più soldi in nero c’è Fabio Altitonante. Delfino di Caianiello, riesce a farsi eleggere consigliere regionale ed ottiene da Fontana la nomina a sottosegretario della giunta regionale con la pesantissima delega alla rigenerazione dell’area Expo.
GIORGIO MOTTOLA 20mila euro ad Altitonante sono… diciamo…
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Sono venuti dopo però…
GIORGIO MOTTOLA Però sono di riconoscimento per quello che aveva fatto prima.
DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Sono questioni di rapporti. Che ti dico di no? Cioè è vero. Sarei un pazzo a dirti non è vero.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per i soldi presi da D’Alfonso, Fabio Altitonante è stato arrestato. Costretto a dimettersi da sottosegretario della giunta Fontana, ha conservato lo scranno nel consiglio regionale. Ma nonostante l’arresto e l’imminente processo quest’estate si è anche candidato sindaco in un piccolo comune abruzzese, Montorio al Vomano.
GIORGIO MOTTOLA Posso fare qualche domanda?
FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Chi sei?
GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report, Rai3.
FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Ah.
GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle: lei si dimette da sottosegretario alla Regione Lombardia e si viene a candidare a sindaco qui, non le sembra un enorme controsenso?
FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Mi hanno chiesto se con la mia esperienza potevo supportarli in questa rinascita del paese.
GIORGIO MOTTOLA È accusato di aver intascato 25 mila euro.
FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA No, io sono accusato di traffico di influenze.
GIORGIO MOTTOLA Perfetto, però sempre 25mila euro sono. Comunque.
FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Traffico… no, però non sono mazzette, tutt’ora sono consigliere regionale della Lombardia. Ho appena votato un bilancio da 25 miliardi di euro in consiglio regionale.
GIORGIO MOTTOLA Come giustifica quei 25mila euro dati da D’Alfonso?
FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Io non sono mai entrato nel merito. Io credo nella giustizia, ci sarà un processo e sono certo che ne uscirò pulito.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Glielo auguriamo perché sarebbe una bellissima notizia anche per tutti i cittadini lombardi. Altitonante però è stato arrestato, si è dimesso da sottosegretario della giunta, ha conservato però il suo posto da consigliere e anche lo stipendio. Nelle more del processo, ha ritenuto opportuno candidarsi a sindaco. Pare che in Abruzzo non possano fare a meno della sua esperienza. A questa altezza hanno fissato l’asticella dell’etica o se volete semplicemente quella dell’opportunità. Nella campagna elettorale dell’ex sottosegretario alla giunta ha contribuito, ha avuto un ruolo anche D’Alfonso con i suoi 25mila euro. Ecco lui ha pagato, D’Alfonso, gettoni - così chiama le mazzette come se i politici fossero dei jukebox – anche all’altro delfino Pietro Tatarella, l’altro delfino di Caianiello. Gli erano indigesti gli spaghetti che cucinava il suo mentore però digeriva meglio invece i cinque mila euro in nero che ogni mese gli dava D’Alfonso. Ma proprio grazie a questo rapporto che D’Alfonso aveva creato con Caianiello, che era riuscito a incamerare diciotto milioni di euro di lavori. Dentro ci era finito dentro anche un boss con la sua ditta. “Però” dice D’Alfonso “a me non hanno mai torto un capello né chiesto un euro a differenza dei politici”. Ma quello che abbiamo raccontato è ancora a un livello basico del sistema molto più sofisticato che aveva messo in piedi Caianiello, fatto da professionisti fedeli e anche riconoscenti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei comuni e nelle società pubbliche della provincia di Varese e di mezza Lombardia ogni singolo incarico, ogni consulenza affidata a un avvocato, a un commercialista, a un ingegnere, a un tecnico o uno studio professionale doveva avere il benestare di Nino Caianiello.
GIORGIO MOTTOLA Tutte le nomine, tutti gli incarichi, tutte le consulenze date da enti pubblici sono oggetto di una spartizione…
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Beh, c’è un accordo politico… perché poi, chi li nomina?
GIORGIO MOTTOLA Tutti i bandi sono truccati, praticamente.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ci sono degli amministratori che poi fanno delle scelte. Gli amministratori che fanno riferimento alla propria area politica, propongono i propri.
GIORGIO MOTTOLA Quindi vengono scelte persone di fiducia dei partiti.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Se io concordavo con i partiti “va bene, allora ognuno fornisce il proprio nome, c’è lo spazio per tutto il resto”, ognuno sapeva, per propria quota, che il mio candidato si chiamava Giovanni e gli altri proponevano Nicola e ognuno se ne faceva carico.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in questo spoil system a cui avrebbero partecipato tutti partiti, quando il professionista riceveva l’incarico in quota Caianiello, gli toccava pagare anche una tassa occulta.
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Avevo degli amici professionisti che me l’avevano confessato loro che…
GIORGIO MOTTOLA Che pagavano la mazzetta.
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Che retrocedevano, sì. Ad esempio un professionista mi ha raccontato che veniva chiamato dal commercialista di turno che rappresentava la partecipata e diceva “guarda ti ho mandato in pagamento la fattura, sai cosa devi fare”. Lui capiva e andava, prelevava i contanti e portava dove doveva portare.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel sistema Caianiello, chi veniva nominato da un’amministrazione pubblica era tenuto a retrocedere una percentuale sul compenso che riceveva per l’incarico. L’accordo veniva esplicitato al professionista immediatamente prima della nomina.
GIORGIO MOTTOLA Chi otteneva una nomina, un incarico, una consulenza in percentuale sul proprio compenso quanto doveva retrocedere?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Il professionista quando veniva nominato in un consiglio di amministrazione, in un ente pubblico e tutto il resto gli dicevamo “bene, quando farete il… prenderete ‘st’incarico, sapete che dovete versare, se potete, se potete, il 10 per cento”.
GIORGIO MOTTOLA Questa però, formalmente, Caianiello, si chiama mazzetta.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Mazzetta riconosciuta al sottoscritto, sì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E se la mazzetta deriva dall’incarico dato a un professionista di fiducia per far lievitare i finanziamenti occulti basta moltiplicare gli incarichi, i lavori e le consulenze.
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Ma lui mi ha costretto a inventarmi dei lavori a Lonate per collocare professionisti per fare. Una roba. Ma guardi che a pensarci cose da pazzi. Cioè, uno non ci arriva mai. GIORGIO MOTTOLA Cioè si inventava l’incarico solo per dare i soldi a quel professionista.
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Sì.
GIORGIO MOTTOLA Perché poi il professionista doveva girare i soldi a Caianiello.
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Sì. GIORGIO MOTTOLA Ma quanto erano le percentuali?
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Il 5%… parliamo dal 5% al 10%, dipende.
GIORGIO MOTTOLA Dal 5% al 10%.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E a volte i contributi alle spese venivano consegnati cash direttamente a Caianiello, come hanno documentato le registrazioni degli investigatori.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Questa persona venne, mi portò il quid, che era intorno ai 500 euro, e tutto il resto, dicendo: questa è la decima per l’incarico e tutto il resto.
GIORGIO MOTTOLA Lei però se li è presi.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io li presi e poi li ho riversati nelle spese della gestione corrente del partito.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in provincia di Varese alla spartizione di nomine e appalti non partecipavano solo gli uomini e il partito di Nino Caianiello.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma questa è una cosa, mi permetto di dirle, che in modo diverso, o comunque magari anche uguale, lo fanno tutti i professionisti, non solo quelli che venivano, facevano riferimento all’area di Forza Italia. GIORGIO MOTTOLA Anche gli altri professionisti pagavano la decima agli altri partiti…
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Secondo me sì. Anche perché, come si fa a reggere un partito? Quando si faceva una nomina del collegio sindacale, i membri del collegio sindacale di solito erano tre: uno della Lega, uno di Forza Italia e uno del Pd. E questi professionisti solo a Forza Italia riconoscono queste cose?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comune di Gallarate è stata la roccaforte del sistema Caianiello. Qui il Mullah aveva uno dei suoi uomini di fiducia: il segretario di Forza Italia Alberto Bilardo. Arrestato per aver preso mazzette, ai magistrati ha raccontato un altro pezzo della storia: “nella Lega – ha spiegato durante un interrogatorio - non c’è una sola persona che prende soldi direttamente ma c’è una suddivisione degli incarichi, ad esempio, quando Mascetti prende un incarico poi fa lavorare altri professionisti”. Il riferimento è ad Andrea Mascetti, uno degli esponenti più misteriosi e più potenti della Lega in Lombardia.
GIORGIO MOTTOLA Ai magistrati ha detto che anche la Lega aveva un sistema simile a quello che avevate voi.
ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) Quello che c’è scritto e che ho detto io nelle carte è sicuramente vero. È a prova di smentita.
GIORGIO MOTTOLA Rispetto ad Andrea Mascetti, Mascetti si è accaparrato…
ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) È un serio e capace professionista.
GIORGIO MOTTOLA Assolutamente, che si è accaparrato tutti quanti gli incarichi della consulenza della provincia di Varese.
ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) Perché è di una preminenza assoluta. Assoluta. Perché è il riferimento sicuramente di tutta la provincia di Varese e anche oltre. Io capisco e mi piacerebbe tantissimo poterle raccontare qual è la mia opinione su queste cose… ma le racconterei anche qualcosa di più, ma non posso farlo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma qualcosa in più su Andrea Mascetti e su come funzionava il sistema di spartizione sul fronte Lega lo scopriamo grazie a un altro esponente del centrodestra di Gallarate, ex assessore all’Urbanistica in comune e compagna di Danilo Rivolta.
ORIETTA LICCATI – EX ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI GALLARATE (VA) La Lega dava solo incarichi a Mascetti.
DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Studio Mascetti, attenzione!
ORIETTA LICCATI – EX ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI GALLARATE (VA) Studio Mascetti. Tutti, quindi praticamente Forza Italia li dava a loro e questo li dava a Mascetti. Per quanto riguarda l’A336 Ospedale Unico dove lì c’è un altro casino che verrà fuori, tutti gli incarichi sono stati dati a Mascetti per conto Lega. Poi lei dice, retrocede la Lega? Non lo so cosa fanno a casa loro, però sono stati imposti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra il 2016 e il 2019 nel solo comune di Gallarate Andrea Mascetti ha avuto incarichi per oltre 85mila euro. Ma la sua rete di consulenze sembra estendersi anche in molti altri comuni della provincia, come sa bene Nino Caianiello.
GIORGIO MOTTOLA Per conto della Lega in provincia di Varese chi si accaparrava la maggior parte degli incarichi?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA So dove vuole arrivare. Lo studio legale che veniva dato come riferimento leghista in provincia di Varese viene vagheggiato nello studio dell’avvocato Mascetti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La rete di consulenze dell’avvocato Mascetti che siamo riusciti a ricostruire comprende una decina di comuni nella sola provincia di Varese e altrettanti nel resto delle province lombarde. Andrea Mascetti è uno degli avvocati più rinomati di Varese, agli inizi della sua carriera ha collaborato con lo studio di Attilio Fontana e da allora non si sono più separati. Quando è stato eletto presidente della Lombardia, uno dei suoi primi atti è stato nominare Mascetti suo consulente per gli affari legali a 50.000 euro all’anno.
GIORGIO MOTTOLA Andrea Mascetti è un uomo di Attilio Fontana?
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Io direi che Attilio Fontana è un uomo di Andrea Mascetti. Andrea Mascetti è sempre stato una potenza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Monica Rizzi, ex assessore regionale in Lombardia, è una dirigente storica della Lega Nord. Vicinissima a Umberto Bossi, ha osservato da vicino l’ascesa politica di Andrea Mascetti, che in Lega entra negli anni ’90 ma non ricopre mai né incarichi pubblici né dentro al partito.
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Lui non faceva parte del nazionale, non faceva parte del federale però si sapeva che esisteva, un po’ un’eminenza grigia che girava.
GIORGIO MOTTOLA Da dove deriva tutto questo potere di Mascetti?
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Beh, lui ha questa associazione sua che ha indirizzato molto le politiche culturali, eccetera, all’interno della Lega.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’associazione di Andrea Mascetti si chiama Terra Insubre, un’associazione culturale che rivendica le origini celtiche della Lombardia, pubblica una rivista trimestrale e organizza convegni e iniziative in giro per la Lombardia, strizzando l’occhio al secessionismo della vecchia Lega.
ANDREA MASCETTI - AVVOCATO Abbiamo certamente raggiunto un obiettivo, quello di far conoscere l’Insubria a livello popolare. Prima era qualcosa di relegato agli studiosi di storia, alcuni ambienti accademici o economici. Oggi molte persone sono consapevoli di essere in qualche modo insubri.
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io ho anche aderito a quella associazione.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha aderito a Terra Insubre?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io ero riuscito a diventar socio di Terra insubre.
GIORGIO MOTTOLA E un napoletano come lei che ci fa in un’associazione che si chiama Terra insubre?
NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Lì in quella sede c’erano le opportunità per poter fare determinati incontri, lì incontravi gran parte del mondo leghista, ecco.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quale fosse lo spirito di questi incontri ce lo racconta un leghista che è stato per 20 anni membro delegato all’assemblea di Terra insubre.
MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui è stato bravo perché si è inventato questa associazione culturale e da lì ha creato un sistema che io l’ho definito una CL della Lega, una compagnia delle opere della Lega.
GIORGIO MOTTOLA Perché? MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Prima ha cominciato a creare dei gruppi di professionisti e se li è fidelizzati.
GIORGIO MOTTOLA Terra insubre serve soprattutto a fare relazioni tra i professionisti?
MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE È un centro di lobby
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in questa presunta lobby sembra che ci fosse un grande interesse innanzitutto per il settore sanitario.
MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui aveva creato un gruppo di sanità forte a Varese che contava un centinaio di medici e con questo è entrato negli ospedali.
GIORGIO MOTTOLA Mascetti è uno in grado di condizionare le nomine dei direttore sanitari?
MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Si, si è stato sicuramente…
GIORGIO MOTTOLA E direttori generali nelle ASST?
MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Sì, sì.
GIORGIO MOTTOLA Lui che cosa ottiene in cambio?
MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui intanto prende le consulenze come avvocato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E di consulenze per gli ospedali lombardi Andrea Mascetti ne ha fatte diverse negli ultimi anni. Una da 47mila per l’azienda sanitaria di Melegnano. 36 mila per l’ospedale di Monza, 22 mila Bergamo Ovest, 10mila euro azienda sanitaria 7 Laghi, 23 mila Asl di Varese e altri 50 mila quella di Como. Ma per Andrea Mascetti e Terra Insubre non sono stati sempre tempi d’oro. All’epoca della Lega Nord di Umberto Bossi, l’associazione dell’avvocato varesotto era infatti finita nel libro nero.
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA I rapporti di Umberto Bossi con Terra Insubre erano pari a zero, proprio non se l’è mai filata per nulla. Ha effettivamente detto è un covo di fascisti.
GIORGIO MOTTOLA Bossi ha definito Terra Insubre un covo di fascisti?
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Sì, un covo di fascisti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è una foto inedita di Andrea Mascetti da giovane. Con una mano regge il tricolore e con l’altra fa il saluto fascista. Il passato da estremista di destra dell’avvocato varesotto è condiviso da un altro illustre frequentatore di Terra Insubre.
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA E se poi pensiamo che un Savoini che aveva il duce in busto in ufficio in Lega viene da lì.
GIORGIO MOTTOLA Savoini viene da Terra Insubre?
MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Sì, era in Terra Insubre.
GIORGIO MOTTOLA Savoini e Mascetti hanno un rapporto molto stretto?
MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Sì sì. Io Savoini devo averlo conosciuto le prime volte penso tramite Terra Insubre.
GIORGIO MOTTOLA Li vedevi insieme?
MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Si, si. Anche per l’identità.
GIORGIO MOTTOLA Neofascista?
MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Ahahah.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Savoini è l’ex portavoce di Matteo Salvini. Come vi avevamo mostrato l’anno scorso, aveva l’ufficio alla Padania tappezzato di simboli nazisti e foto di SS. Lo scorso anno, durante un incontro d’affari al Metropol di Mosca, Savoini avrebbe contrattato con alcuni emissari russi una compravendita di petrolio che doveva servire a far arrivare alla Lega di Salvini oltre 65 milioni di euro in nero. Nelle conversazioni registrate al Metropol di Mosca spunta anche il nome di Andrea Mascetti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché spunta il nome del super legale Andrea Mascetti? Il super legale della Lega? È il 18 ottobre del 2018. Mosca, all’hotel Metropol è in atto una trattativa per una partita di gasolio. Ecco. Secondo i magistrati della procura di Milano, che indagano per corruzione internazionale, quella trattativa avrebbe dovuto portare 65 milioni di dollari in nero nelle casse della Lega per finanziare la campagna elettorale delle europee. Noi lo diciamo chiaramente: quei soldi non sono mai stati trovati. Però a condurre quella trattativa c’è Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini. Dialoga con dei russi, in mezzo c’è anche un esponente di un partito politico fondato dall’ultranazionalista, il filosofo Dugin, vicino a Putin. E parlano di questa compravendita di petrolio che sarebbe dovuto avvenire anche attraverso dei mediatori. Ora. C’è un uomo affianco a Savoini che indica anche la banca idonea per fare questo tipo di operazione: Banca Intesa. Perché dice: noi abbiamo all’interno di quella banca uno che sedeva nel comitato direttivo. Si chiama Andrea Mascetti, con lui possiamo parlare. Ora, Andrea Mascetti, all’epoca Mascetti sedeva nel comitato direttivo di Banca Intesa e siede ancora oggi in quel comitato, è anche nel cda di Banca Svizzera, Banca Intesa Svizzera. Lui dice: quando ho letto queste dichiarazioni mi è venuto da sorridere perché insomma non mi aspettavo mi tirassero in ballo in una vicenda nella quale io non c’entro assolutamente nulla. Però con Savoini lui ha condiviso un percorso, ha condiviso delle ideologie, ha condiviso anche l’appartenenza a Terra Insubre. Terra Insubre è questa associazione culturale che secondo un ex membro avrebbe l’ambizione di essere un po’ la versione leghista di Comunione e Liberazione, di fare lobby. Che è molto attenta anche alla parte della sanità, agli affari della sanità e addirittura Mascetti, secondo lui, sarebbe in grado anche di influenzare le nomine per ricevere poi in cambio delle consulenze. Ora; noi lo premettiamo subito: Mascetti è un professionista di grande qualità però, insomma ha scalato posizioni importanti; è riuscito ad arrivare anche a capo di quella che è la fondazione più ricca e importante del paese. Ha fatto tutto da solo? Se vai in giro a fare già questa semplice domanda, trovi degli interlocutori terrorizzati.
EX PARLAMENTARE LEGA NORD Mascetti è sempre stato molto legato a Giorgetti.
GIORGIO MOTTOLA Fin dall’inizio.
EX PARLAMENTARE LEGA NORD Fin dall’inizio si, si. Cioè non è che abbia avuto un percorso diverso da quello di Giorgetti.
GIORGIO MOTTOLA Procedono insieme, insomma, il percorso. Più quota politica prende Giorgetti.
EX PARLAMENTARE LEGA NORD La risposta è la domanda che mi hai fatto all’inizio.
GIORGIO MOTTOLA Cioè che il suo potere dipende da Giorgetti.
EX PARLAMENTARE LEGA NORD Non è che viene dal cielo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il rapporto tra i due risale molto nel tempo. Nella foto di gruppo in cui Mascetti e altri camerati fanno il saluto romano, c’è anche Giancarlo Giorgetti, all’epoca militante del Movimento Sociale Italiano. Quando la Lega va al Governo con i 5 Stelle e Giorgetti diventa sottosegretario alla presidenza del Consiglio, non sembra essersi dimenticato dell’amico. Mascetti viene nominato consigliere di amministrazione di una delle più importanti aziende di Stato, l’Italgas.
GIORGIO MOTTOLA Io volevo farle un’altra domanda sui suoi rapporti con Andrea Mascetti.
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA È un mio amico, certo.
GIORGIO MOTTOLA Molto stretto però.
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Certo.
GIORGIO MOTTOLA Andrea Mascetti in tutti i comuni, in tutte le partecipate lombarde ha incarichi. Come mai?
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA E perché lo vieni a chiedere a me?
GIORGIO MOTTOLA Forse perché anche l’incarico all’Italgas.
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ma figurati.
GIORGIO MOTTOLA É stato favorito da lei, no?
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ah, questo…
GIORGIO MOTTOLA Chiedo, chiedo…
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Assolutamente falso.
GIORGIO MOTTOLA Lei non ha mai fatto il nome di Mascetti per incarichi pubblici?
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Assolutamente falso.
GIORGIO MOTTOLA Però lei fa parte anche di Terra Insubre giusto?
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA È un’associazione e come tanti altri anche io certo.
EX PARLAMENTARE LEGA NORD Giorgetti è quello che ha gestito tutte le nomine quando c’era Bossi, tutte.
GIORGIO MOTTOLA Le nomine delle banche dice…
EX PARLAMENTARE LEGA NORD Delle banche… Era l’uomo dei soldi e delle nomine. Sempre Stato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quando Bossi esce di scena e cade il veto su Terra Insubre, Mascetti ottiene la sua prima nomina cruciale nel settore bancario, entrando a far parte degli organi di indirizzo della Fondazione Cariplo: la più importante e ricca fondazione bancaria del paese, azionista di Banca Intesa.
GIORGIO MOTTOLA Che in Fondazione Cariplo… c’è una sua mano rispetto all’incarico che ha avuto Mascetti?
GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ma voi pensate, ma io… che cosa cazzo c’entro io con queste cosa qua. Che voi pensate che io faccio tutte queste cose? Adesso basta, grazie. Comunque chiedete a lui perché i suoi incarichi li prende lui, mica li prendo io.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Varese i membri della diramazione locale di Fondazione Cariplo vengono decisi formalmente dalla Provincia e nell’ultima tornata di nomine Andrea Mascetti era nella terna dei consiglieri indicati. Con chi ha trattato la sua riconferma?
NINO CAINIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Ci fu un incontro per fondazione Cariplo, la Lega chiese di poter ottenere i tre posti che la provincia avrebbe nominato in quota Lega. Dissi per me va bene. A condizione che in cambio prendo un assessore in più o un posto in consiglio di amministrazione in meno.
GIORGIO MOTTOLA Con chi fece questo incontro sulla Fondazione Cariplo?
NINO CAINIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Con Matteo Bianchi e con Mascetti. C’era forse anche Gambini.
ANDREA MASCETTI AVVOCATO Fondazione Cariplo da tantissimi anni interviene su molte aree di interesse che sono l’ecologia, la ricerca scientifica, l’assistenza sociale, i servizi sociali alla persona e la cultura. Quindi per noi intervenire sui territori è proprio una missione che è dentro di noi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Fondazione Cariplo gestisce un budget di 250 milioni di euro all’anno che vengono distribuiti tra donazione e contributi a enti di ricerca, fondazioni benefiche e associazioni. Su una parte di questi soldi, Andrea Mascetti ha voce in capitolo, in quanto membro della Commissione Centrale di beneficienza di Cariplo. Quando abbiamo chiesto a un membro della commissione informazioni sulle attività di Mascetti in Fondazione, al solo sentirne il nome si è spaventata e ha preteso l’anonimato.
GIORGIO MOTTOLA Quando io le ho detto di Andrea Mascetti lei mi ha detto una cosa e mi ha fatto…
DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Che c’è da averne paura. Si.
GIORGIO MOTTOLA Di Andrea Mascetti?
DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Dei mondi con cui Andrea Mascetti credo sia in contatto.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quando Mascetti è in Cariplo la Fondazione ha finanziato progetti alla associazione Terra Insubre per quasi 100mila euro. E altri soldi sono poi arrivati dalla diramazione locale di Cariplo a Varese, la Fondazione Comunitaria del Varesotto, in cui Mascetti è consigliere.
DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Fondazione Varesotto. Lì i conflitti di potere sono… tantissimi oltre anche a qualche problema di trasparenza negli investimenti fatti da quella fondazione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alcune delle iniziative finanziate dalla Fondazione Comunitaria del Varesotto sono state proprio quelle di Terra Insubre: 5000 euro per un progetto sui celti in Lombardia, 6600 sull’alimentazione dei Celti, 1500 sempre sulla presenza dei celti nel varesotto, 6600 euro per un progetto sul dialetto lombardo e 11 mila per la festa di Terra Insubre. E dalla fondazione non sono mancati finanziamenti neanche alla Corte dei Brut, l’associazione dell’estremista di destra Rainaldo Graziani, alle cui iniziative partecipano Gianluca Savoini e il filosofo legato a Putin, Alexander Dugin.
DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO È la logica classica della Lega. Su tutti i posti che si aprono noi dobbiamo esserci e portarli a casa. Poi dall’interno della Lega, si ridistribuiscono secondo equilibri… che è la logica feudale. Prima riconosco chi è il nemico e mi oppongo e porto a casa quello che posso. Poi del malloppo che ho portato a casa io che sono il vassallo distribuisco ai valvassori e ai valvassini.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mascetti, con noi ha preferito non parlare. Però ci ha scritto. Nega ingerenze da parte dell’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giorgetti per quello che riguarda le sue nomine. Quella nella fondazione Cariplo – scrive - è stata decisa da 40 consiglieri. Banca Intesa invece l’ha indicato come consigliere indipendente per le sue indiscusse qualità professionali. Su quanto aveva invece affermato Caianiello, in merito alla spartizione delle nomine all’interno della Fondazione Varesotto, Mascetti ci ricorda che quei nomi sono, il suo nome è nella terna espressa dall’allora presidente della provincia di Varese in quota centro sinistra. Poi, in merito ai finanziamenti e alle donazioni alla sua associazione Terra Insubre, Cariplo ci scrive che non ci sono conflitti di interesse che riguardano Mascetti. Mascetti stesso ci ricorda: guardate io l’ho fondata quella associazione, ma oggi sono socio ordinario. Mentre in merito alla nomina nel cda di Italgas ci scrive che è arrivata su proposta di Assogestioni che rappresenta i fondi internazionali. Nega poi di aver avuto, Mascetti, ruoli per quello che riguarda le nomine di dirigenti negli istituti sanitari o negli istituti di altra natura. Ci scrive infine che a lui interessa fare cultura, non politica e che non ha da tempo alcun ruolo attivo nella Lega. Ora, noi, fino a prova contraria, gli crediamo. Tuttavia abbiamo ritrovato delle email all’interno del database del consorzio di giornalismo investigativo OCCRP, indirizzate al senatore Armando Siri, dalle quali si evincerebbe una realtà un po' diversa da come Mascetti ce l’ha raccontata: un ruolo nella Lega di Salvini nei mesi precedenti alle elezioni, Mascetti lo avrebbe avuto. Tra il 2017 e il 2018 è stato il supervisore del programma culturale della Lega; gli avrebbe anche dato una mano l’ex vice direttore del Foglio Alessandro Giuli, un nostro collega. Un programma culturale un po' esoterico, che avrebbe alla base, al centro la sacralità di un simbolo: il sole delle alpi. Poi il 29 settembre del 2017 Mascetti a Varese fa da link tra Salvini e un esponente di un movimento dell’estrema destra, Generazione Identitaria, che in Francia organizza anche campi paramilitari. Emerge anche che Mascetti invia degli spunti per la campagna elettorale provenienti da alcuni dirigenti della Fondazione Cariplo. E a chi li invia questi spunti? Li invia alla responsabile della segreteria del governatore Fontana, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini. Ora, al di là del ruolo che ha avuto Mascetti, insomma che cosa emerge da questa storia? Che la politica è un po’ come un magnete: pretende che tutto graviti intorno a lei. È un po’ la logica del vassallo, del valvassore e valvassino, insomma. E a questo principio non c’è deroga neppure quando in ballo c’è un valore alto come la salute pubblica.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel periodo più nero dell’emergenza Covid, quando le bare dei morti di Bergamo venivano portate via dai camion dell’esercito, in Regione Lombardia era quasi impossibile sottoporsi a un tampone. E così alcuni sindaci coraggiosi hanno deciso di fare da soli.
ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Non venivano fatti i tamponi alle persone, la gente veniva lasciata in casa da sola, avevamo famiglie intere con sintomi, famiglie intere disperate perché si continuavano a contagiare l’uno con l’altro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Roberto Francese è il sindaco di Robbio, cittadina immersa nelle risaie della provincia di Pavia. Lo scorso marzo il primo cittadino ha deciso di rimediare alla mancanza dei tamponi con una campagna di test sierologici aperta a tutta la popolazione.
GIORGIO MOTTOLA Alla fine quanti test è riuscito a fare qui a Robbio?
ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Ma qui ne abbiam fatti, solo i cittadini di Robbio, 4500. Quindi praticamente a tutti.
GIORGIO MOTTOLA Al comune quanto è costato?
ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Zero perché è partita una gara di solidarietà. Molti hanno pagato anche per chi non poteva.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così se all’inizio i positivi erano solo 20, a Robbio grazie ai test sierologici ne vengono scoperti altri 400, senza pesare su ospedali e casse pubbliche.
GIORGIO MOTTOLA Per un’iniziativa di questo tipo avrà avuto il pieno plauso da parte della Regione?
ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Eh, purtroppo la Regione ha mandato diverse pec e e-mail dove comunque ci diceva di non andare avanti perché non eravamo autorizzati.
GIORGIO MOTTOLA E per quale ragione?
ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Ci hanno risposto che non si poteva prelevare il sangue.
GIORGIO MOTTOLA Cioè la regione Lombardia ha di fatto vietato, in quel periodo, i test sierologici sul territorio?
ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Di fatto sì. Molti, come Cisliano, dalla sera alla mattina hanno dovuto dire a migliaia di persone di stare a casa loro perché, comunque, questi divieti erano perentori, tassativi e poco interpretabili.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cisliano è uno dei comuni della provincia di Milano che ha seguito l’esempio di Robbio, organizzando in proprio, a costo zero per le casse del Municipio, una campagna di test sierologici di massa. Ma neanche qui l’iniziativa è stata presa bene dalla regione.
LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Alla fine mi è arrivata una diffida. Quindi più chiaro di così non si poteva essere.
GIORGIO MOTTOLA Da chi?
LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Da parte di Ats che ci ha bloccato per una serie di ragioni. Io li ho chiamati cavilli burocratici.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al comune di Robbio è arrivata la stessa mail. Ve la mostriamo in esclusiva. Il direttore sanitario dell’Ats di Pavia definisce l’iniziativa inopportuna e quindi il sindaco è pregato di soprassedere agli accertamenti programmati. In un’altra mail, è ancora più esplicito e specifica che l’Ats di Pavia non dà l’autorizzazione alla ricerca di anticorpi antivirus avviata dal sindaco nel comune di Robbio.
RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Noi abbiam detto guardate non spendendo un euro di soldi pubblici andiamo avanti comunque seguendo i protocolli sanitari nazionali. Se quelli regionali son diversi spiegateci il perché. Non ci han più risposto e noi siamo andati avanti fino alla fine.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In diverse mail le aziende sanitarie lombarde spiegano che bisogna attendere i test ufficiali della regione. Vale a dire il test sierologico che il Policlinico San Matteo di Pavia stava mettendo a punto con Diasorin. La società italiana di biotecnologia che aveva da poco chiuso un contratto in esclusiva con la Lombardia. Ma quando i sindaci si muovono per fare i test ai propri cittadini, il test di Diasorin non era ancora pronto. E non lo sarebbe stato prima di un mese.
LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Non si capiva perché bisognava aspettare la certificazione di un test di Diasorin quando c’erano già dei test certificati.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 3 marzo, sei giorni prima che fosse ufficiale la scelta di Diasorin, il Policlinico San Matteo, riceve una mail da Technogenetics. Una società di biotecnologie che all’epoca aveva a disposizione test sierologici già certificati e già usati in Veneto e in Emilia Romagna. Vista l’emergenza Technogenetics li mette a disposizione del San Matteo.
GIORGIO MOTTOLA E che cosa le è stato risposto dal San Matteo?
SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Nulla.
GIORGIO MOTTOLA Nulla?
SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Nulla, neanche ricezione del messaggio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene i test di Technogenetics fossero già pronti a inizio marzo, la Regione Lombardia non li prende neanche in considerazione e, senza fare una gara d’appalto, acquista per 2 milioni di euro 500.000 test da Diasorin che però saranno disponibili solo a fine aprile. E visto che quei test si basavano su una tecnologia sviluppata inizialmente dal San Matteo, Diasorin lascia alla Regione royalties pari all’1 percento.
SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Chi sta in questo settore sa benissimo che non si parla meno del 10 per cento in questi casi in termini di royalties; bastava fare una gara e a quel punto probabilmente il San Matteo avrebbe spuntato sicuramente delle condizioni migliori facendo l’interesse pubblico.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mesi dopo la Procura di Pavia ha aperto un fascicolo sull’appalto a Diasorin. La Guardia di finanza a sorpresa si è presentata anche a casa di Andrea Gambini ex segretario della Lega a Varese, che però non risulta indagato, ma soprattutto direttore dell’Istituto Insubrico per la vita. I cui uffici sorgono in questo parco in provincia di Varese accanto a quelli di Diasorin. Diasorin infatti è uno dei più importanti clienti dell’ Istituto Insubrico per la vita. Negli ultimi tre anni ha versato nelle sue casse oltre 700mila euro e lo scorso anno, con un versamento da 1 milione 100 mila euro ha rappresentato da sola oltre il 90 per cento del fatturato di Servire srl, una partecipata dell’Istituto Insubrico, che conta solo 7 dipendenti ed è presieduta sempre da Andrea Gambini.
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda rispetto all’attività dell’Istituto Insubrico e Servire S.R.L.?
ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Tutto pubblico.
GIORGIO MOTTOLA L’Istituto Insubrico ha avuto poi un ruolo rispetto a Diasorin?
ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Può vedere le fatture elettroniche tutte depositate all’agenzia delle entrate. Né l’Istituto Insubrico, né io, né niente abbiamo fatto niente di particolare, infatti non risulto indagato. Quindi, per me la cosa finisce qui. GIORGIO MOTTOLA Ha subito delle perquisizioni
ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Buona giornata.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la testimonianza di ex dirigenti apicali della Lega, l’ascesa politica e manageriale di Andrea Gambini sarebbe legata a doppio filo alla figura di Andrea Mascetti.
EX PARLAMENTARE LEGA NORD È quello che è stato in questi giorni perquisito per la storia della Diasorin, Andrea Gambini, per esempio.
GIORGIO MOTTOLA Anche Andrea Gambini è vicino a lui?
EX PARLAMENTARE LEGA NORD Eh, è stato lui a volerlo capogruppo e commissario della sezione di Varese della Lega. È stato lui a metterlo prima vicepresidente della lega e poi al Besta.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a poco tempo fa, Andrea Mascetti, è stato vice presidente dell’Istituto Insubrico e con Andrea Gambini, oltre al passato in Cariplo, ha condiviso fino al 2017 le quote di una società che si occupa di genetica e ha sede in Svizzera, la Suisse Regenerative.. Ma due anni fa Gambini ha ricevuto dalla giunta Fontana un’altra nomina in campo scientifico: presidente dell’Istituto Besta, uno dei più importanti centri di ricerca neurologica d’Europa, per il quale abbiamo scoperto che Andrea Mascetti svolge consulenze legali. Quella di Andrea Gambini sembra davvero una fulgida carriera soprattutto se si considera che, leggendo il suo curriculum, il suo ultimo lavoro non assegnato dalla politica, è stato addetto alle vendite di questa farmacia a Tradate, in provincia di Varese.
GIORGIO MOTTOLA Solo una domanda.
ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Mi costringe a chiamare i carabinieri che è fuori da tre giorni.
GIORGIO MOTTOLA Si ma una sola domanda, come ha fatto da semplice farmacista a diventare dirigente di alcuni…
ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Non sono un semplice farmacista.
GIORGIO MOTTOLA Sì, lei ha lavorato in farmacia prima di diventare un dirigente del Besta.
ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Legga il curriculum. Non ho autorizzata l’intervista.
GIORGIO MOTTOLA Ma quali sono i suoi rapporti con Mascetti? È vero che Mascetti, aspetti!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’inchiesta Diasorin, Alessandro Venturi, presidente del San Matteo indagato per l’appalto dei test, ha affidato la sua difesa legale a un avvocato dello studio Mascetti. Ma nella vicenda dei test è buona parte del mondo leghista lombardo che sembra aver giocato un ruolo. Quando i sindaci ribelli disobbediscono al divieto delle aziende sanitarie e proseguono lo screening, scendono in campo i pezzi da novanta.
RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Addirittura due deputati della Lega in quei giorni anziché pensare a capire perché in Regione Lombardia non venivano fatti i test, la gente non veniva ricoverata, la gente veniva lasciata a casa a morire, si sono impegnati per fare diverse pagine di interpellanza parlamentare al ministro della Salute Speranza, dicendo che quello che veniva fatto nei comuni come Robbio e gli altri non era giusto e andava monitorato ed eventualmente fermato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’interpellanza ha come primo firmatario Paolo Grimoldi, deputato e segretario della Lega Lombarda. Non si limita agli atti ufficiali in Parlamento. Ai sindaci leghisti arrivano infatti molte pressioni anche da altri dirigenti del partito.
GIORGIO MOTTOLA Il partito che ha provato a boicottarla di più a ostacolare i test sierologici è stata la Lega?
RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Sì, di fatto sì, da parte della Lega abbiamo proprio notato questo isolamento.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per fermare il sindaco di Robbio, il segretario della Lega Lombarda manda messaggi agli amministratori del suo partito. In questo, che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, scrive: “Ho parlato con Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”. PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Non mi ricordo perché mando tanti messaggi dopodiché il sindaco di Robbio, non mi pare che… Dov’è Robbio?
GIORGIO MOTTOLA Lei ci ha fatto un’interpellanza quindi la geografia almeno dovrebbe conoscerla.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Io firmo le interpellanze degli altri, dubito che io sia primo firmatario.
GIORGIO MOTTOLA Lei dice addirittura in questo messaggio.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Si.
GIORGIO MOTTOLA Che ha parlato con Salvini, quindi la questione era molto importante.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Guardi io Salvini lo sento tutti i giorni, francamente mi sta chiedendo una roba di marzo, ma...
GIORGIO MOTTOLA Ma in Lombardia soltanto voi leghisti avete provato a ostacolare in modo così forte i test sierologici rapidi. Perché? Forse perché stavate difendendo Diasorin? Difendevate gli interessi di Diasorin?
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, allora se dici una cosa così io ti querelo, ma querelo te.
GIORGIO MOTTOLA Io le sto facendo una domanda. Solo i consiglieri e i parlamentari della Lega si sono accaniti così tanto con i test sierologici rapidi.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Scusa non ti rispondo più perché sei un maleducato e continui a cambiare la formulazione della domanda perché ti ho già dimostrato che hai torto marcio.
GIORGIO MOTTOLA Lei non sta rispondendo per questo riformulo.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No sei tu che non stai rispondendo. Mi hai chiesto del sindaco di Robbio della Lega, cioè mi hai anche detto una cosa sbagliata perché mi formuli le domande senza sapere l’a b c.
GIORGIO MOTTOLA Con chi stava parlando allora?
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Informati e studia perché non sai una beata minchia!
GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi perché la Lega si è accanita così tanto sui test sierologici rapidi? Mi spieghi questo, mi spieghi solo questo.
VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA C’è un evento, c’è un evento scusa, c’è un evento
GIORGIO MOTTOLA No però! É un parlamentare, è un onorevole e la vicenda… Sono morte 35 mila persone anche perché non hanno potuto fare i tamponi. Perché, soprattutto voi della Lega, vi siete accaniti così tanto contro i test sierologici rapidi?
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Anche qua formuli una domanda sbagliata.
GIORGIO MOTTOLA E la riformuliamo.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Non siamo noi della Lega ma sono le linee guida del ministro Speranza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in realtà Emilia Romagna e Veneto nello stesso periodo avevano già iniziato i test sierologici. Grimoldi, invece, in un altro messaggio definisce Francese, che li stava facendo, “quella merda di Robbio”. E l’effetto degli interventi del deputato sembra farsi sentire subito: “mi taccio”, risponde infatti l’amministratore leghista, ma avverte: “occhio che prima o poi verrà fuori che ha ragione lui”. Quasi tutte le amministrazioni leghiste non proseguono con i test sierologici nei loro comuni e alla maggior parte dei lombardi non resta che aspettare Diasorin.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Va bene, mi dai il nome, tu hai il nome di questo?
GIORGIO MOTTOLA Giorgio Mottola, Report, Rai3.
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Perfetto perché tu ogni volta che associ me a Diasorin io ti querelo.
GIORGIO MOTTOLA Ma può chiedere scusa per il fatto che ha vietato…
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, tu chiedi scusa per le domande assolutamente infondate che fai.
GIORGIO MOTTOLA … per aver vietato, per aver ostacolato così tanto i test rapidi che potevano consentire di scoprire tanti positivi in quel momento?
VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA Dobbiamo iniziare l’evento
PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Però scusa dobbiamo iniziare l’evento.
GIORGIO MOTTOLA Mi dica solo questo, chiede scusa o no? Ha sbagliato o no a ostacolare i test rapidi? Mi dica.
VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA Deve iniziare un evento per favore
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non parlano. Viene da chiedersi perché il gotha della Lega chiede lo stop dei test sierologici agli amministratori della Lombardia, quelli del centro-destra. Ecco. Siamo in piena emergenza, a marzo. Non c’è la possibilità di fare i tamponi; alcuni sindaci prendono l’iniziativa, fanno i test sierologici alla popolazione. Quello di Robbio per esempio dopo alcuni giorni passa da 20 positivi a ben 400. Si scatena la reazione del segretario della Lega Nord in Lombardia, Paolo Grimoldi ecco manda, invia un sms minaccioso a tutti gli amministratori della Lega “ho parlato con Salvini” dice “se seguite l’esempio del sindaco di Robbio, siete fuori dal partito”. Un amministratore gli risponde, dice vabbè “non possiamo però fare la guerra ai sindaci che promuovono i test sierologici sul territorio, perché la gente e tutto il mondo della sanità chiede quei test”. Ma l’anomalia degli sms coinvolge anche il presidente del San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi. È indagato anche lui in questa vicenda; si avvale per la tutela legale, dello studio Mascetti. Perché è colui che ha in qualche modo dialogato esclusivamente con Diasorin. Non ha neppure risposto al telefono al competitor Technogenetics. Nel pieno delle indagini, gli investigatori scoprono che il professor Venturi ha cancellato dal telefono tutte le sue chat su WhatsApp. Questo “con l’obiettivo” scrivono, “di celare informazioni estremamente rilevanti e compromettenti” per quello che riguarda lui, ma anche altri soggetti. Quali? Per questo, La Guardia di Finanza ha sequestrato i telefonini del governatore Attilio Fontana e anche quelli della responsabile della sua segreteria, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini. Adesso noi non sappiamo se riusciranno a recuperare quelle chat e cosa emergerà, se emergerà da quelle chat. Certo è che, se dovessero emergere delle responsabilità, degli interessi su questa vicenda, sarebbe veramente triste, triste, triste che l’avidità umana sovrasti un bene come quello della salute dei cittadini.
· Succede a Milano.
Luci sulla città. Lorenzo Viganò su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2020. L’immortalità gliel’ha data un classico del cinema: la scena finale del film «Miracolo a Milano» di Vittorio De Sica, quando i senza tetto volano in cielo oltre le guglie del Duomo, a cavallo delle scope da strega sottratte agli spazzini. A fare da sfondo al loro viaggio poetico «verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno!» compare (più o meno di sfuggita) Palazzo Carminati, quando era ancora vestito delle sue caratteristiche insegne luminose, simbolo tra gli anni 50 e 70 della modernità di Milano, capitale del commercio e forza motrice del boom economico. La signorina della Kores (prodotti per ufficio) che batteva instancabilmente sulla macchina per scrivere; l’omino del lucido da scarpe Brill, così efficace da farle brillare; e poi i marchi di Cinzano, Vov, Candy, Coca Cola, Idrolitina, Facis…Chiunque arrivava per la prima volta in piazza Duomo ne rimaneva incantato, bambini in testa. E anche chi le aveva sotto gli occhi da sempre aveva imparato ad amarle, a sentirle parte viva e irrinunciabile dell’arredo urbano. Sia di giorno, quando i neon erano spenti e se ne scopriva lo scheletro, sia, soprattutto, di sera, quando le luci coloravano l’aria, riflettendosi a intermittenza sull’asfalto bagnato o filtrando attraverso la nebbia. La convivenza - morale e artistica - di sacro e profano in una sola piazza, la principale di Milano, era vissuta con naturalezza. Come una cosa normale, forse addirittura rassicurante. Da una parte il Duomo, simbolo religioso della città, dall’altra la pubblicità, voce del consumismo. I bisogni del corpo in dialogo con quelli dell’anima. Le «luminose», come erano chiamate dai milanesi, fanno la loro comparsa in piazza Duomo prima che a New York, a Times Square, e a Londra, a Piccadilly Circus. Palazzo «del» Carminati, dal nome del caffè della Belle Époque che ne occupò a lungo una gran parte (era nato su un altro caffè-birreria, il Casanova), comincia a ospitarle negli anni Venti, probabilmente per coprire la facciata di una costruzione considerata non all’altezza della piazza. Eretto nel 1867 su progetto dell’architetto Rabbi, l’edificio, nel progetto di Mengoni, avrebbe dovuto essere coperto da un’altra costruzione. Ma non accadde. E così diventò una sorta di grande schermo architettonico dedicato alla comunicazione - celebre la fotografia in cui sulle sue finestre campeggia gigantesca la scritta Dux per accogliere l’arrivo a Milano di Mussolini. Le insegne al neon piacciono agli spiriti che guardano al futuro - Filippo Tommaso Marinetti si schiera convinto dalla loro parte; piacciono ai poeti – scrive Umberto Saba in «Milano»: «Mi riposo in piazza del Duomo. Invece di stelle ogni sera si accendono parole». Piacciono agli attori come Alberto Sordi, che quando arriva per la prima volta nel capoluogo lombardo gli sembra di sbarcare a New York: «una città sfavillante di luci, piazza del Duomo sfolgorava di insegne pubblicitarie». Ma ad altri invece non piacciono e le vogliono togliere, una volta per tutte. Accanto a chi, come Carlo Castellaneta, vede la loro sparizione «come un’inutile ferita alla milanesità», c’è chi vuole, proprio con la loro rimozione, recuperare l’aspetto austero, tipicamente milanese, della piazza. Così la giunta guidata dal sindaco Marco Formentini decide di mandarle in pensione, cosa che avviene nel 1999 quando la città è guidata da Gabriele Albertini. Una decisione che suscita approvazioni e soprattutto bocciature, da Arturo Carlo Quintavalle a Vittorio Sgarbi. «Si è perduto un grande episodio della cultura moderna, qualcosa di terribilmente milanese che nessun’altra città aveva», dichiara nel 2000 al «Corriere della Sera» Carlo Bertelli, storico dell’arte e soprintendente a Milano dal ’78 all’84. E quattro anni più tardi, dopo la ripulitura e il restauro della facciata di Palazzo Carminati, l’architetto Italo Lupi suggerisce di rimettere «questi gioielli d’arte» dov’erano, di ripristinare «questo quadro vivente», ricordato con nostalgia anche da colleghi come Fabio Novembre e Cino Zucchi. Da allora le gigantografie pubblicitarie di borse e cellulari sono tornate a invadere la piazza, affisse addirittura sul Duomo. Ma le luminose, «quelle» luminose, sono sparite per sempre e non torneranno più. Se non nei ricordi di chi le ha guardate, incantato. Chissà che fine avrà fatto la dattilografa stakanovista…
Da leggo.it l'8 ottobre 2020. Un branco di sei cinghiali finiti nel Naviglio fuori città, ha seguito la corrente del canale è si è avventurato fino a Milano, arrivando in Darsena nel cuore della metropoli. Lo hanno comunicato i Vigili del fuoco. I cinghiali erano stati segnalati già poco prima di mezzanotte a una decina di chilometri, nel comune agricolo di Gaggiano, ma stamani sono stati notati da alcuni passanti in Darsena, dove sono usciti cominciando a girovagare. Al loro inseguimento si sono messi i Vigili del fuoco, che ne hanno catturati due. Sono state allertate le varie forze dell'ordine per collaborare alla “caccia”. I Vigili del fuoco hanno dovuto narcotizzare i due esemplari in attesa dei veterinari.
Quel branco di cinghiali a nuoto fino in Darsena: strana scoperta a Milano. Due esemplari sono stati recuperati e uno è stato abbattuto. Il branco, finito nel Naviglio, era stato trasportato dalla corrente fino alla Darsena. Valentina Dardari, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. Brutta avventura a Milano per un branco di cinghiali che, dopo essere finito nelle acque del Naviglio, è arrivato fino alla Darsena trasportato dalla corrente. Uno di loro sarebbe stato abbattuto.
Cinghiali a mollo nel Naviglio. Si tratta di sei cinghiali che erano stati avvistati nella serata di ieri, mercoledì 7 ottobre, verso la mezzanotte, all’altezza di Gaggiano, a circa 10 chilometri dal luogo del ritrovamento. Le bestiole erano tutte cadute nelle acque del Naviglio. Due di loro sono arrivati fino alla Darsena dove due passanti che li hanno notati hanno subito allertato le forze dell'ordine. Sono intervenuti i vigili del fuoco con due squadre. Grazie all’arrivo del personale veterinario, i cinghiali sono stati sedati e poi recuperati. Un esemplare, secondo quanto riportato dal Corriere, sarebbe stato abbattuto. Il branco di sei cinghiali sarebbe finito nel Naviglio fuori città. In seguito sarebbe stato trasportato dalla forte corrente del canale fino alla Darsena, in centro a Milano e, una volta arrivati, alcuni di loro avrebbero deciso di uscire e girovagare per le vie cittadine. Uno è stato perfino ritrovato all’interno di un'autorimessa sita in via Tobagi, in zona Barona. I vigili del fuoco sono riusciti a catturarne due e hanno chiamato i rinforzi per riuscire a prendere anche gli altri. In attesa dei veterinari, i due esemplari sono stati narcotizzati. La caccia è terminata con due catture e un abbattimento. Gli altri tre esemplari invece sarebbero riusciti a scappare, forse ancor prima di arrivare nella città meneghina. I due cinghiali recuperati verranno affidati alle autorità competenti che provvederanno a liberarli in campagna. Si tratterebbe di esemplari di circa un quintale di peso.
L'allarme di Coldiretti. Alessandro Rota, presidente della Coldiretti di Milano, Lodi e Monza Brianza, ha commentato la notizia del branco di sei cinghiali che attraverso il Naviglio è giunto fino alla Darsena, nel cuore del capoluogo lombardo: "Non erano mai arrivati in una zona così centrale, ma non è la prima volta che i cinghiali vengono avvistati nel tessuto urbano di Milano e di altri comuni dell'area metropolitana. Visto che non si è mai voluto intervenire in maniera decisa, gli animali selvatici rappresentano ormai un pericolo enorme per la sicurezza dei cittadini e della circolazione stradale, oltre che per il lavoro nei campi. Senza contare il rischio sanitario che rappresentano. La situazione è diventata intollerabile".
F. Gug. Per il “Corriere della Sera - Milano” il 10 settembre 2020. Più che una nuova emergenza, una conferma. Se si scorrono le «apparizioni» di topi in città durante il 2019, il problema è generalizzato, proprio come negli ultimi giorni. E si susseguono le segnalazioni : la prima è arrivata dalla materna di via Verga, pochi giorni fa; le mamme hanno subito scritto al Comune su Facebook ma senza esito. I ratti si sono poi visti in piazza Vetra, mentre la segnalazione più eclatante risale a ieri l' altro e riguarda piazza San Babila , dove i ratti si muovevano a decine fra i passanti prima della chiusura dei negozi. Il tutto ripreso da una cittadina che ha inviato il video, via Instagram, al sindaco Giuseppe Sala. Tre casi accomunati da una motivazione: la presenza di lavori in corso o cantieri nella materna di via Verga, in San Babila e Vetra. Ci sono poi gli Sos continui dai Navigli e dalla Martesana; ai soliti perché se ne aggiunge uno inedito: due biologi, Bobby Corrigan e Michael H. Parsons, hanno descritto un cambiamento nelle abitudini dei roditori, dovuto al lockdown, per la rivista Insider : chiude un ristorante e una colonia perde le proprie risorse. Soluzione: i ratti si convertono al cannibalismo e dopo questa selezione forzata, escono in strada ancora più aggressivi. Infine i numeri: secondo l' associazione Aidaa (Associazione difesa animali e ambiente, 2015) i topi a Milano sono circa 5milioni, una stima allora respinta da Comune e Mm.
A Milano vive il degrado con i topi in Piazza San Babila. La città del Sindaco Sala, invece di volare alla pari di altre città europee, vive il suo inferno. Carlo Franza il 17 settembre 2020 su Il Giornale. Milano, la grande Milano, la Milano europea, dov’è? Dovremmo dire, c’era una volta Milano. Milano non è più oggi la grande Milano! Visto che vivo ormai da quarant’anni a Milano, dirò che una Milano così imbruttita e sporca, per non dire lercia, non l’avevo mai vista. Tutto ciò grazie alla giunta di Sinistra diretta dal Sindaco Sala. Di questo passo meglio andare a vivere a Il Cairo o a Istanbul. Il degrado nella capitale economica italiana è alle stelle. E badate bene, non lo si nota a Quarto Oggiaro, alla Comasina o a Corvetto, lo si nota nel pieno centro della città. Proprio in Piazza San Babila. I topi sono il segnale più forte del degrado. E non si tratta di un topolino che si è sperduto fra le vie cittadine, ma di colonie di ratti che qui hanno nidificato, ovvero di decine di animali di una certa stazza che girano tra le persone sedute sulle panchine e tra chi passeggia. Il video-denuncia è stato girato martedì sera 8 settembre 2020 da Sharon Cappelli una lettrice del Corriere della Sera. Ma non era notte fonda, anzi: i negozi erano ancora aperti. Sono immagini che fanno veramente impressione e lasciano a bocca aperta. La lettrice ha inviato il video anche al sindaco Beppe Sala attraverso il social Instagram. Record di topi a Milano. Cinque milioni di topi vivono nel sottosuolo di Milano. Diverse le segnalazioni che sono giunte in queste settimane anche all’associazione Aidaa ed al telefono amico, prevalentemente da persone che ci chiedono cosa fare quando incontrano un topo (nel caso specifico “pantegane”) sulla loro strada. Negli ultimi giorni le segnalazioni si sono moltiplicate e colonie di topi a spasso sono state avvistate sia in Piazza Firenze, Via Montefeltro, Via Malaga, vicino al sottopasso di via Cassala. Una colonia che viene all’aperto tutte le sere in cerca di cibo è quella dei topi che vivono in piazza Sigmond Freud a pochi passi dalla stazione ferroviaria di Milano porta Garibaldi, qui i topi belli pasciuti, pasteggiano ogni sera nei cestini dell’immondizia. L’ultima segnalazione in ordine di tempo riguarda infine la presenza di una colonia di pantegane nei giardini di Piazza Prealpi, ed in via Vallagrina a Quarto Oggiaro qui però si tratta prevalentemente di topi di campagna. “I topi – dice Lorenzo Croce presidente di Aidaa – per noi sono animali come tutti gli altri, anche se ovviamente la loro presenza in quantità cosi elevate spesso è un segnale di degrado ambientale. I topi vengono in superficie prevalentemente per due motivi, perchè spaventati dai lavori che sono in corso in molti cantieri milanesi, e che disturbano l’habitat naturale di questi roditori, ed come secondo ma non meno importante motivo che li spinge dal sottosuolo alla superficie è la ricerca di cibo, ed i topi sanno, perchè sono animali assolutamente intelligenti, dove gli umani lasciano i resti di cibo e li arrivano a colonizzare moltiplicandosi a volta a dismisura”. “Quindi – prosegue Croce – il primo suggerimento è quello di non abbandonare mai resti di cibo nei parchi o nei cassonetti dei rifiuti, i topi fiutano ed arrivano a banchettare, il secondo consiglio è rivolto al comune di Milano perchè provveda ad una maggiore raccolta differenziata dell’umido, in quanto spesso anche i rifiuti indifferenziati lasciati per strada in attesa della raccolta diventano banchetti per colonie di ratti”. Ma il degrado viaggia anche sul versante dei disservizi. Una petizione on line per chiedere un metrò accessibile a tutti, anche ai disabili. L’ha promossa l’Associazione Milano Positiva con Ledha Milano. E ha già raccolto 1.200 firme. L’appello al Comune e ad Atm è di cominciare dalla stazione della linea rossa di Rovereto, attrezzandola con un ascensore. Giovanni Zais, presidente dell’associazione di promozione sociale Milano Positiva, spiega: “La città in questi anni ha fatto passi avanti da gigante ma va fatto di più. In tre fermate consecutive della linea M1, Pasteur, Rovereto e Turro, non esiste nessuna entrata/uscita adibita alle persone con disabilità. Questa è una vera e propria emergenza: vuol dire che tutti i passeggeri con disabilità che vivono o si muovono tra Pasteur e Gorla (la prima metro disponibile) di fatto non sono autonomi negli spostamenti, ma devono addirittura percorrere, con tutte le difficoltà del caso, due chilometri e mezzo”. Ancora i promotori della petizione in Comune. “Chiediamo un impegno per adeguare le tre fermate, porteremo l’esperienza di alcuni disabili che lì vivono. Questo è un atto di civiltà”. Ci rendiamo conto, scrivono ancora nella petizione, “che sistemare in tempi brevi la situazione in tutte e tre le fermate della metro è complesso. La proposta per rispondere immediatamente a questo bisogno è rendere subito accessibile almeno la stazione di Rovereto, posta in mezzo rispetto le altre due fermate”. Che è poi la stazione che porta dritto al parco Trotter dove il Comune “sta investendo molto per la riqualificazione e che per questo – conclude Zais – deve essere usufruibile da tutti. Milano è una città Stato, che in quanto tale necessita di continua “manutenzione” e attenzione. Milano Positiva, Ledha Milano e il Terzo Settore possono essere d’aiuto, creando un rapporto sinergico con il Comune e con i Municipi. Un ponte in grado di permettere a tutti di vivere la propria città al 100%». Qualche stazione della metropolitana ha un montascale ma per utilizzarlo il disabile deve prenotarsi 48 ore prima, perché solo il personale Atm lo può azionare e va programmato. Ecco la Milano del terzo millennio. Il degrado passa attraverso mille luci. La giunta Sala ha ormai da tempo abbandonato la città a se stessa, in una sofferenza senza fine. Carlo Franza
Claudia Guasco per “il Messaggero” il 21 agosto 2020. Treni vecchi, con una vita media superiore ai vent' anni, corse tagliate a dispetto dei pendolari ammassati come sardine, una gestione in conflitto di interessi con la Regione Lombardia, che è contemporaneamente proprietaria e cliente di una sua azienda. Della quale, per altro, sceglie da sempre i vertici e i manager senza concorsi pubblici, ma con cooptazione diretta. C'è tutto questo dietro il disastro del treno fantasma Trenord 10776, partito senza macchinista alle 11.45 di due giorni fa dalla stazione di Paderno d'Adda e fatto deragliare dopo 10 chilometri dalla centrale operativa a Carnate con il ferimento dell'unico passeggero, un nordafricano seduto nell'ultima carrozza. La Procura di Monza, guidata da Claudio Gittardi, ha sequestrato il locomotore e la scatola nera, ha ascoltato il capotreno e ha rinviato ai prossimi giorni l'audizione del macchinista, sotto shock. Dai rilievi della Polfer emerge un primo elemento certo: il convoglio era come una «macchina in folle in discesa senza il freno a mano tirato», spiegano gli investigatori, i freni che bloccano i vagoni in sosta sui binari non erano inseriti. È una delle manovre base che compie ogni macchinista prima di scendere dal treno, tanto che i ferrovieri non credono alla dimenticanza, piuttosto a un guasto meccanico. Altro aspetto su cui si concentrano i pm, che hanno acquisito i regolamenti di Trenord, riguarda i doveri di sorveglianza del capotreno: non può mai abbandonare il mezzo, nemmeno quando è in sosta. E invece né lui né il conducente ora sospesi dall'azienda erano a bordo, bensì al bar a bere il caffè. Negligenza aggravata dal fatto che il treno fosse obsoleto: non disponeva nemmeno di un sistema frenante di emergenza. La linea ferroviaria Monza-Lecco che passa da Carnate è una delle più antiche e risale a metà dell'Ottocento, anche i convogli che la percorrono sono vetusti: «La Regione, anziché fare operazioni azionarie con Ferrovie Nord Milano, Milano Serravalle e Autostrade Pedemontana Lombarda, potrebbe dedicare più tempo e più fondi al trasporto ferroviario», denuncia Nicola Di Marco (M5S), capogruppo in commissione infrastrutture e trasporti. Grazie a un finanziamento di 1,6 miliardi di euro garantito dal Pirellone, Ferrovie Nord - che detiene il 50% di Trenord ed è controllata al 57% da Regione Lombardia - ha acquistato 176 nuovi treni da Hitachi, ma la fornitura va a rilento. «In commissione, tra maggio e giugno, abbiamo chiesto chiarimenti e non abbiamo ottenuto alcuna risposta, se non vaghi accenni al lockdown. Eppure le aziende strategiche potevano lavorare», sottolinea Di Marco. A novembre 2018 Trenord ha soppresso 100 corse sostituendole con i pullman, scatenando l'ira dei pendolari. Motivo: mancavano 200 lavoratori tra macchinisti e capo. Nonostante la gestione non brillasse per efficienza, si arriva al 23 dicembre 2019. Si riunisce la giunta presieduta da Attilio Fontana, seduta numero 85, che assegna a Trenord il Contratto di servizio per il trasporto pubblico ferroviario per il periodo 1° gennaio 2021-31 dicembre 2030 senza passare da una gara d'appalto. L'articolo 5, paragrafo 6, del regolamento CE n. 1370/2007 consente di farlo, tuttavia le modalità hanno l'aspetto di un blitz: la decisione non viene comunicata e il Comitato degli utenti lo scopre solo il 27 gennaio, a cose fatte, con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della Comunità europea, nel supplemento appalti. La Regione avrebbe quantomeno dovuto illustrare per quale motivo era più conveniente l'affidamento diretto anziché una gara che avrebbe potuto innalzare la qualità. Che non è il fiore all'occhiello della gestione Trenord, alla luce di quanto pagato dall'azienda per inefficienza solo nel 2019: 7.717.650,59 euro di penali e 6.719.156,07 euro per servizi non resi come la soppressione dei treni. Penali, tra l'altro, versate alla stessa Regione oltre che ai viaggiatori.
Giampiero Rossi per il "Corriere della Sera" il 21 agosto 2020. Non potevo immaginare che il treno viaggiasse da solo. Fino alla stazione di Carnate sembrava tutto normale. Poi è successo quel casino... Come una bomba. Ho ancora paura adesso, non ho dormito». Il ricordo è frammentato in fotogrammi sparsi che si sovrappongono nella concitazione del racconto. Ma nonostante un italiano non sempre fluido, il quarantanovenne marocchino Salah M. non si sottrae a ripetere la sua testimonianza di unico passeggero del convoglio Trenord 10776, il «treno fantasma» che è partito da solo e ha terminato la sua corsa sbattendo contro un muro della stazioncina brianzola di Carnate. «Ho già detto tutto alla polizia», si premura di sottolineare. E in effetti gli agenti della Polfer - che quando hanno inserito le sue generalità nel terminale hanno scoperto un passato con qualche «inciampo» giudiziario - lo hanno sentito subito dopo averlo estratto dalle lamiere.
Innanzitutto come sta?
«Mi fa male il collo, il piede sinistro, il ginocchio, non sono riuscito a dormire, non mi sento bene...».
Però per fortuna, visto come si è accartocciato quel treno, se l'è cavata con conseguenze lievi.
«Sì lo so, per fortuna ero nell'ultimo vagone, ma che casino...».
Ma lei come mai si trovava a bordo di quel treno già molto prima dell'orario di partenza dalla stazione di Paderno-Robbiate?
«Io sono partito da Milano e dovevo andare a Carnate. ma poi mi sono addormentato e ho perso la fermata e poi mi sono svegliato che il treno era arrivato all'altra stazione e tutti sono scesi».
Quindi lei non avrebbe neanche dovuto trovarsi lì?
«No, no, io dovevo scendere a Carnate, tutto questo è successo perché ho dormito troppo. E allora sono rimasto seduto sul treno fermo aspettando di ritornare indietro».
Quindi il treno è partito. Ma in anticipo e a bordo c'era soltanto lei.
«Nel mio vagone ero solo, sì, ma io non ho guardato se c'era altra gente e non ho fatto caso all'orario. E come potevo pensare che non c'era nessuno a guidare? Se un treno va vuole dire che c'è qualcuno che lo fa andare».
Le porte erano aperte o chiuse?
«Erano aperte, ma dopo un po' si sono chiuse».
Quindi a lei sembrava un viaggio normale?
«Normale, sì. Ma alla stazione di Carnate è diventato strano».
Cosa ha notato?
«Che il treno non si fermava e passava su un binario lontano dalla stazione».
E cosa ricorda del momento dello schianto?
«Come quando scoppia una bomba, tutto rotto, i vetri addosso, un rumore forte, un disastro. Ho sentito male alla gamba e non riuscivo a camminare. Sono venuti a prendermi i pompieri e quelli dell'ambulanza, che mi hanno aiutato a uscire dal vagone che era finito in alto».
Cosa farà adesso?
«Non lo so, sono a casa da mio fratello a Lecco, sento ancora male forte al collo e non sono riuscito a dormire».
Chiederà il risarcimento dei danni?
«Io non lo so cosa devo fare. Ho detto tutto alla polizia ho fatto tutto quello che dovevo, dopo non lo so. Chiederò a mio fratello di aiutarmi. Che casino...».
SOTTO LA MADUNINA, DI MILANESE, E' RIMASTA SOLO LA SPOCCHIA. Da "lastampa.it" il 12 agosto 2020. E' il cinese Hu il cognome più diffuso in assoluto a Milano, sia tra i maschi che tra le femmine e dunque anche nella classifica totale. Secondo quanto comunica l'Anagrafe del capoluogo, a metà 2020 la novità più rilevante e che il cognome Hu supera Rossi nella graduatoria femminile, 2210 contro 2133, mentre tra i maschi il sorpasso era avvenuto da tempo e il conto è di 2454 Hu contro 1873 Rossi. Il totale è così di 4664 Hu e 4006 Rossi. Al terzo posto figura il cognome Colombo (1543 maschi e 1832 femmine, totale 3375), al quarto Ferrari (1506 maschi e 1720 femmine, totale 3226). Chi ha bimbi piccoli se ne sarà già accorto, l'anagrafe milanese lo certifica: anche nel primo semestre del 2020, come accade stabilmente dal 2015, per molti dei nuovi piccoli residenti la scelta dei nomi è ricaduta su Leonardo, Sofia e Giulia. Tra i 4.856 nati dal primo gennaio al 30 giugno spiccano 213 Leonardo, 108 Sofia e 106 Giulia. Seguono Tommaso (153), Riccardo (123), Alessandro (122) e Lorenzo (120) per i maschietti, Ginevra (90), Alice (84), Camilla e Beatrice per le femminucce (79). Anche le mamme e i papà stranieri preferiscono il nome Leonardo (58), che l'anno scorso era solo al quarto posto, molto dietro Mohamed (34), che quest'anno ha ceduto la prima posizione. Seguono Tommaso (28), Alessandro (25), Lorenzo (24). Tra le scelte per le bambine trionfa Sofia (28), davanti a Maria (21), Aurora (21), Ginevra (19), Sara, Giulia e Alice (18). Amati anche i nomi legati alla mitologia come Ettore (33), Enea (44) e Diana (31) e nomi biblici, come Noah (32), Samuele (48), Davide (44 bimbi italiani e 19 stranieri) e Rebecca (43), fino ai nomi più tradizionali come Francesco (75 italiani e 16 stranieri), Anna (64 italiani e 17 stranieri), Maria (35 italiani e 21 stranieri), Marco (48) e Matteo (66 italiani e 20 stranieri).
Zita Dazzi per "la Repubblica" il 12 agosto 2020. (...)Hu, da alcuni anni, non è solo il cognome più diffuso fra i residenti del Comune, ma anche nel registro delle imprese lombarde e milanesi, superando i classici Sciur Brambilla. (...) Un cinese su cinque a Milano fa l'imprenditore e agli 8 mila titolari di ditte ed aziende, la manodopera "interna" alla comunità non basta. Quindi sono loro ormai a dare lavoro agli italiani. Tanto che il direttivo di Confcommercio ha dato la delega per l'imprenditoria straniera. (...) Si sono italianizzati i cinesi di Milano, tanto che anche per i nomi di battesimo scelgono nel repertorio classico locale. All'anagrafe la maggior parte delle famiglie straniere ha scelto Leonardo come nome per il proprio bambino nato quest' anno, superando in curva Mohamed che l'anno scorso era il nome più gettonato. Fra le femmine vince Sofia.
Alberto Mattioli per “la Stampa” il 27 giugno 2020. Le metafore variano: una sberla, una mazzata, una débâcle. Però è certo che a Milano la pandemia ha colpito forte, forse più che altrove. La città si è trovata stretta fra i due peggiori focolai italiani, le provincie di Lodi e Bergamo, e le prove non esaltanti della sanità lombarda. E dopo anni di primati e trionfalismi, grattacieli e Saloni da record, insomma dopo un decennio in cui correva mentre il Paese arrancava, si scopre fragile. Con l'aggravante di non risultare nemmeno troppo simpatica. La Schadenfreude del resto d'Italia - il piacere provocato dalla sfortuna altrui - si nota fin troppo: per una volta, il primo della classe indossa il cappello da asino. È una battuta d'arresto o l'arresto definitivo delle smisurate ambizioni cittadine? Prevale quello che l'antica saggezza democristiana definiva «cauto ottimismo». In fondo al tunnel si inizia a vedere la luce. Ma il tunnel è ancora lungo. Il commercio ha sofferto moltissimo. Secondo la Confcommercio, il 64% degli esercizi ha riaperto e il 21 non ha mai chiuso. Resta un 15% di serrande ancora abbassate. La situazione varia da settore a settore: l'alimentare accusa un calo del fatturato del 20%, il non alimentare del 60, bar e ristoranti del 70, gli alberghi del 90. Per il turismo è Waterloo. Molti hotel non hanno ancora riaperto, fiere, saloni e congressi sono stati tutti cancellati e in maggio il calo era del 98% sul 2019. E tuttavia, turismo a parte, qualche segnale di ripresa si vede. Nelle previsioni di Marco Barbieri, segretario generale di Confcommercio, ci sono molti "se": «Se non ci sarà una seconda ondata della pandemia, se il turismo ripartirà, se gli uffici riapriranno, e se tutto questo succederà da settembre, torneremo ai livelli del '19 nel maggio '21». Appunto: se. Per inciso, Beppe Sala avrà sbagliato il tono, un po' troppo da milanese imbruttito, quando ha detto che bisogna farla finita con lo smart working e tornare a "lavurà" in ufficio. «Però ha ragione - chiosa Barbieri - perché se la gente non va in ufficio tutto l'indotto soffre». Nel frattempo, Milano «fa un bagno di umiltà», come dice l'assessore alla Cultura, Filippo Del Corno. «Il Covid ci ha resi consapevoli dei limiti dello sviluppo degli Anni Dieci. La città dinamica era talvolta frenetica. E la sua attrattiva globale una narrazione patinata, quindi fragile. Abbiamo chiamato il piano di ripresa "Un passo alla volta", ed è una novità in una città che ne faceva tre. Attenzione: non era sbagliato quel modello. Era sbagliato pensare che fosse l'unico possibile. Pensiamo ai grandi eventi, le settimane, i saloni: benissimo, ma bisogna riscoprire anche una cultura diffusa. E con le altre città passare dalla competizione alla collaborazione». Guarda caso, il cartellone per l'estate si chiama "Aria di cultura": per una volta, uno slogan cittadino è scritto in italiano e non in inglese. Le ciclabili approntate in fretta e furia perché nessuno voleva più prendere i mezzi (talvolta così in fretta da provocare ingorghi e polemiche) diventeranno strategiche, simbolo di una città che si ripensa più verde e più lenta, più a misura d'uomo e meno di fatturato. Resta il problema di recuperare i "dané" perduti. Un indizio infallibile dello stato di salute economica è il mercato della casa, che poi nella Milano pre-Covid andava così bene da trasformarla nella Disneyland degli agenti immobiliari. E qui, sorpresa: il business è ferito ma vivo. «Prevedevamo per il 2020 un aumento del 7%, poi abbiamo rivisto la percentuale a meno 20 - spiega Alessandro Ghisolfi del Centro studi di Abitare Co -. Due segnali inducono però all'ottimismo. Primo: si è tornato a rogitare, insomma chi era interessato prima della fase 1 nella fase 3 ha poi comprato. Secondo: dopo la clausura, i milanesi chiedono appartamenti magari meno centrali ma più grandi e con il terrazzo». La Scala riapre il 6 luglio In questa altalena di speranze e paure, c'è anche chi dalla crisi non esce. Come Pier Galli, titolare dello storico ristorante "Galleria", lì dal 1968. Ha chiuso il 7 marzo, dopo che il fatturato era calato del 95%. E, insieme ad altri locali storici della Galleria, come Marchesi o Biffi, ha scritto al Comune che, se tutto va bene, non riaprirà prima di settembre. «Io vivevo di turisti, che sono spariti. A pranzo avevo i bancari, che sono in smart working, e a cena gli spettatori della Scala, che è chiusa. Con 33 dipendenti e quasi mezzo milione di affitto all'anno al Comune, alzare la serranda mi costa 8 mila euro al giorno. Se, come negli ultimi giorni, ne incasso meno di mille, tanto vale restare chiuso». La Scala però riaprirà, il 6 luglio. Niente opera, per ora, ma concerti da camera per seicento persone, circa un terzo della capienza. Un altro sintomo di guarigione. E poi, recita un detto milanese, piuttosto che niente è meglio piuttosto.
COM’ERA QUELLA STORIA SULLA CAPITALE MORALE? Da ilmessaggero.it il 23 giugno 2020. Tangenti e appalti truccati a Milano: dodici persone sono state arrestate dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano. Tra gli arrestati figura Paolo Bellini, dirigente dell'Atm, responsabile degli impianti di segnalamento e automazione delle linee metropolitane. Tangenti in Lombardia, liberi i deputati di FI Caianiello e Tatarella: scaduti termini custodia cautelare Tangenti nella sanità a Milano, sei arresti. Ci sono 8 appalti da 150 milioni di euro al centro dell'inchiesta della Procura di Milano che stamani ha portato in carcere 13 persone, tra cui il dirigente Atm (Azienda trasporti milanesi) Paolo Bellini, e una ai domiciliari con accuse, a vario titolo, di associazione per delinquere, corruzione, turbativa d'asta, peculato, abuso d'ufficio. Trenta persone fisiche e otto società indagate. Tra gli arrestati due manager di Alstom Ferroviaria e uno di Siemens Mobility. A Bellini vengono contestate presunte tangenti per 125mila euro tra il 2018 e il 2019. Le indagini sugli appalti della metro a Milano, che hanno portato a 13 arresti, «hanno accertato l'esistenza di un sistema di metodica alterazione di gare ad evidenza pubblica indette da Atm spa gravitante attorno alla figura» di Paolo Bellini, «pubblico ufficiale con il ruolo di Responsabile dell'Unità amministrativa complessa sugli impianti di segnalamento e automazione delle linee metropolitane 1,2, 3 e 5», e «alle società Ivm srl e Mad System srl», create da Bellini per «interferire» negli appalti. Lo spiega il procuratore di Milano Francesco Greco.
Metro & mazzette – Vizio capitale (morale). “Tutte le gare truccate”: 13 arresti a Milano. Davide Milosa il 24 giugno 2020 su Il Fatto Quotidiano. - Di nuovo la Metropolitana di Milano, di nuovo tangenti. Ventotto anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, sulla ex Capitale morale si allunga l’ombra di Mani Pulite. E come allora si ragiona di conti esteri. “Prima della pensione vorrei farmi un conto Gabbietta”. Lo stesso nome del “salvadanaio occulto” che nel 1992 i pm riferirono a Primo Greganti, cassiere del Pci-Pds. A parlarne oggi, con “omaggio a Tangentopoli” e “chiaro riferimento alla vendita della propria funzione” è Paolo Bellini, dominus dell’indagine della Procura di Milano, che ieri ha coinvolto 13 persone. Bellini, dal 2013, ha ricoperto il ruolo di responsabile di Atm per le linee della metropolitana. Un semplice funzionario in grado di pilotare le gare della più importante municipalizzata italiana per il trasporto pubblico sotto il naso di politici e dirigenti:8 bandi per 150 milioni. Questi i numeri dell’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza. Le accuse vanno dalla turbativa d’asta alla corruzione fino all’associazione per delinquere. Un “sistema” dove Bellini era regista assoluto, capace di “giocare su più tavoli” e di allacciare rapporti illeciti con i big del settore, come Alstom e Siemens, indagati sulla base della legge 231. Bellini si proponeva come consulente portando in dote notizie riservate. L’indagine è un’istantanea di un intreccio più ampio. Scrive il giudice: “La mole di elementi acquisiti descrive un fenomeno criminale in essere da ben più tempo rispetto all’inizio delle investigazioni. Non è emersa neppure una procedura di gara pubblica negli ultimi due anni che non sia stata attinta dall’intervento abusivo di Bellini”. Il funzionario pubblico spiega anche di una maxi tangente presa nel 2006 per i lavori sulla linea 1. Tra le gare finite nell’indagine c’è quella per arginare il fenomeno delle brusche frenate dei treni. La gara viene affidata alla Ivm poi Med system di cui Bellini è “socio occulto”. Il rapporto con questa società è il trampolino di lancio di Bellini che con il tempo affinerà i metodi per incassare le tangenti (125 mila euro in due anni), da auto e cellulari, a stipendi mensili. Sulla gara per la manutenzione, ad esempio, Bellini prenderà mille euro di tangente al mese per un totale di 36 mila euro. È lui stesso a descrivere il suo ruolo all’interno di Atm: “L’altro mio compito è fare la puttana, porto a casa il lavoro. Il mio guadagno? Un quid mensile come se prendessi uno stipendio, tutto occulto. Io ho sempre fatto questo. Certo a livello deontologico non è piacevole”. Senza scrupoli dunque. Tanto da intessere rapporti con diverse aziende sul maxi appalto da 127 milioni per il nuovo sistema di segnalamento della linea 2. “Io – spiega Bellini – mi sto muovendo da prostituta, sto lavorando per tutte e tre. Devo governare questa situazione, sai come le tre scimmiette”. Bellini si interfaccia anche con Edoardo Lupi, imprenditore ligure vicino all’ex premier D’Alema e citato nell’inchiesta della Procura di Potenza sull’ex compagno dell’ex ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. Secondo il pm, Lupi (indagato) con la sua Link consulting partners media un appalto di Atm. Così lo descrive Bellini: “Questo naviga a livelli superiori, è come se fosse un piccolo Agnelli che conosce i presidenti di Siemens e di Ansaldo. Ci serve perché questa è soprattutto una gara politica”. In modo sciagurato, il funzionario Bellini approverà anche la posa di “un cavo sbagliato” da parte di un’azienda favorita. Il cavo non è quello previsto da Atm. Dice Bellini: “Bisogna falsificare le carte e io faccio finta di niente. L’unica cosa è che quando tu lo posi (…) la stampigliatura è quella. O ti metti lì e la gratti come è già successo”. Il rischio di essere scoperti è se capita “un incendio”, ma “per arrivare a quello deve bruciare la galleria”. Bellini è instancabile. Annuncia al suo interlocutore: “C’è la gara di 18 milioni, sarebbe un bel lavoretto da fare”. O ancora: “Minchia, ma quanto mi devi pagare per tutte queste robe?”. Il manager: “Facciamo conto unico”. Di nuovo la Metropolitana di Milano, di nuovo tangenti. Ventotto anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, sulla ex Capitale morale si allunga l’ombra di Mani Pulite. E come allora si ragiona di conti esteri. “Prima della pensione vorrei farmi un conto Gabbietta”. Lo stesso nome del “salvadanai...
Tangenti metro di Milano, Bellini come Palamara: ha fatto tutto da solo? Frank Cimini su Il Riformista il 26 Giugno 2020. Paolo Bellini come Luca Palamara. Bellini è un impiegato dell’ATM l’azienda milanese dei trasporti al centro dell’inchiesta per tangenti dove sono state appena arrestate 13 persone. Sembra, a leggere molti resoconti giornalistici e titoli (in molti leggono solo quelli), che il funzionario abbia fatto tutto da solo. Esattamente come Luca Palamara l’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm trattato come la “mela marcia” per antonomasia ed espulso dal sindacato dei magistrati senza rispettare nemmeno il suo diritto a essere sentito. Palamara sostiene di averne piazzati 84 tra i quali i capi di molti uffici giudiziari. Sulle nomine in questione lui aveva messo la propria impronta anche votando chi stava per vincere, nonostante fosse diverso dal candidato appoggiato originariamente. Insomma, un furbo. Bellini trattava lui, che non aveva neanche la qualifica di dirigente, con tutte le aziende interessate agli appalti dell’Atm per 150 milioni di euro, una cifra enorme. E di una di queste ditte, la Ivm, captato dalle cimici il funzionario si era vantato di essere socio occulto e di poter contare su un ufficio al suo interno. Contava, inoltre, su varie “talpe” che gli fornivano informazioni che poi lui provvedeva a girare alle ditte interessate alle gare al fine di favorirle per poi incassare. A Bellini sono stati sequestrati 67 mila euro di cui 17 mila in contanti e 50 mila presso una società nella sua disponibilità. Bellini aveva come Palamara molti complici e soprattutto si giovava sempre, come il magistrato, di un sistema dove non funzionavano gli anticorpi e i controlli. Gli inquirenti sostengono che in pratica si faceva fatica a trovare una gara d’appalto regolare. E qui, al di là delle responsabilità penali, emerge un quadro di responsabilità politiche dal quale tutti gli interessati sembrano tirarsi fuori, a cominciare dal sindaco Beppe Sala. Atm è una società partecipata dal Comune. Presentare la nuova “tangenti story” come un one man show significa non voler ricostruire le ragioni di un fenomeno che a trent’anni di Mani pulite si ripresenta tomo tomo e cacchio cacchio, anche se adesso i soldi illeciti non sono per i partiti ma per le fortune e le spese personali come quelle di Bellini, che deve pagare gli studi della figlia a Bologna. Ma Bellini è solo uno che ne approfittava perché c’era un sistema che glielo permetteva. Roba politica, come sempre.
Tangenti e appalti truccati sulla Metro di Milano, 13 arresti per gare da 150 milioni. Redazione su Il Riformista il 23 Giugno 2020. Tredici persone sono state arrestate dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano nell’ambito di un’inchiesta della Procura milanese su presunte tangenti e appalti truccati. Tra i coinvolti ci sarebbero alcuni dirigenti dell’Atm, l’azienda di trasporti milanese. Nell’indagine sono stati ricostruiti episodi di corruzione e di turbativa d’asta in particolare nel settore degli appalti per l’innovazione e la manutenzione delle Metropolitane milanesi. Al centro dell’inchiesta della Procura di Milano ci sono 8 appalti da 150 milioni di euro che ha portato all’arresto in carcere per 12 persone, con un tredicesimo indagato ai domiciliari. Le accuse sono a vario titolo di associazione per delinquere, corruzione, turbativa d’asta, peculato, abuso d’ufficio. L’indagine ha riguardato 30 persone fisiche e otto società. I provvedimenti di custodia cautelare emessi dal Gip di Milano Lorenza Pasquinelli hanno interessato anche alcuni manager dell’Atm e alcuni manager di imprese private, esponenti di Siemens Mobility, Alstom Ferroviaria, Emgineering Informatica, Cait, Gilc e Ctf, tutte società iscritte nel registro degli indagati insieme a Ivm e Mad System nei confronti delle quali sono in corso perquisizioni. Sono in corso perquisizioni e sequestri di documentazione amministrativo-contabile e di supporti informatici nelle abitazioni degli indagati, gli uffici di Atm, e le sedi delle società coinvolte, nelle province di Milano, Monza, Savona, Lodi, Parma, Reggio Emilia, Bologna, Firenze, Latina, Caserta, Napoli, Salerno, Benevento, Pescara e Chieti. Le indagini, scrive il procuratore di Milano Francesco Greco, “hanno accertato l’esistenza di un sistema di metodica alterazione di gare ad evidenza pubblica indette da Atm spa gravitante attorno alla figura” di Paolo Bellini, “pubblico ufficiale con il ruolo di Responsabile dell’Unità amministrativa complessa sugli impianti di segnalamento e automazione delle linee metropolitane 1,2, 3 e 5″, e “alle società Ivm srl e Mad System srl”, “occultamente create” da Bellini per “interferire nell’assegnazione ed esecuzione degli appalti”.
Dopo 30 anni torna la corruzione che Mani pulite non ha sconfitto: tangenti sulla metro di Milano. Frank Cimini su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Tredici arresti per tangenti sui lavori della metropolitana di Milano per 150 milioni di euro. Il gip Laura Pasquinellli che ha firmato le misure cautelari scrive che gli elementi raccolti evidenziano come gli indagati agissero “con grandissima disinvoltura”. Il procuratore capo Francesco Greco aggiunge che si tratta di un sistema di metodica alterazione di gare a evidenza pubblica. Tangenti sulla metropolitana di Milano. Fu il titolo dei giornali agli albori di Mani pulite, ormai quasi 30 anni fa. Sembra di tornare al 1992. Ma si tratta solo di apparenza. Adesso non esiste neanche l’ombra di soldi finiti nelle casse dei partiti che allora furono coinvolti tutti, compresi quelli di opposizione a livello nazionale proprio mentre tifando per i pm puntavano a ottenere vantaggi dalla bufera giudiziaria. È invece la corruzione diffusa quella che proprio Mani pulite, insieme alla politica e alla cosiddetta società civile tanto evocata allora come onesta, non è riuscita a sconfiggere. E il giudice per le indagini preliminari scrive anche che il sistema degli appalti era vulnerabile, lasciava e ovviamente lascia tuttora molto a desiderare. Insomma non c’erano e non ci sono gli anticorpi nella pubblica amministrazione affinché non si ripetano episodi corruttibili che durano da decenni. Il sindaco Giuseppe Sala invoca pene esemplari per i responsabili dei misfatti, aggiunge che proprio non ci voleva un fatto del genere mentre si cerca di uscire dalla crisi del Covid 19. Atm arriva addirittura a minimizzare spiegando che si tratta solo di comportamenti individuali. L’azienda si dichiara “del tutto estranea ai fatti” scaricando le colpe sui due principali indagati, i funzionari Paolo Bellini e Stefano Crippa. L’opposizione di centrodestra a Palazzo Marino afferma che ci vogliono maggiori controlli sulle società partecipate. Matteo Salvini invita il primo cittadino Sala “a chiarire”. «Posa cavo sbagliato, tanto si nota solo in caso di incidente», è una delle frasi intercettate mentre dalle carte dell’inchiesta emerge che sono in corso accertamenti anche sulle brusche frenate di emergenza dei treni del metrò che recentemente avevano portato al ferimento di molti viaggiatori. Le cimici hanno captato le parole di Paolo Bellini che si proclama socio occulto di una società, la Ivm, dicendo: «Chiunque venga mi darà il lavoro sono sicuro». Insomma emerge lo spaccato di una corruzione diffusa, anche se ovviamente le responsabilità dovranno essere accertate dagli sviluppi futuri dell’indagine e dal processo. Ma c’è materia di riflessione per tutti. Da molti commenti invece purtroppo sembra non sia così. C’è un generale orientamento a tirarsi fuori che non promette nulla di buono. Mani pulite e la politica continuano, ognuno dal suo canto, a fallire l’obiettivo. Il problema come sempre è politico e nessuna inchiesta nessun processo lo risolverà.
L'ombra delle tangenti sui bruschi stop della metro. Nel 2019 una raffica di "brusche frenate" avevano fatto fermare i convogli della metropolitana di Milano. Ora gli accertamenti sugli incidenti si intrecciano con l'inchiesta sulle presunte gare d'appalto truccate. Il dirigente Atm arrestato si era interessato ai lavori: "Due settimane, smantelliamo una banchina". Francesca Bernasconi, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. Decine di episodi nel giro di un anno, che hanno portato al ferimento di diversi passeggeri. La causa, in tutti i casi, è da attribuire alle brusche frenate della metropolitana. Una vicenda che ora si intreccia con l'inchiesta su presunte tangenti e gare di appalto truccate, che hanno portato all'arresto, questa mattina, di 13 persone, tra cui anche uno dei dirigenti di Atm, Paolo Bellini.
Gli incidenti in metropolitana. Il 4 marzo del 2019, un brusco arresto aveva bloccato il traffico tra le fermate di Cimiano e Caiazzo, sul treno che portava ad Abbiategrasso-Assago sulla linea verde della metropolitana di Milano (linea 2). Intorno alle 7.45 della mattina, l'improvvisa frenata di emergenza aveva causato diverse contusioni ad alcuni passeggeri e una persona era stata traspostata in ospedale in codice rosso. Pochi giorni dopo, il 9 marzo, la seconda frenata improvvisa in pochi giorni aveva causato il ferimento di 9 passeggeri, molti portati in ospedale. Il treno che viaggiava sulla linea rossa (M1), proveniente da Cairoli, si è fermato bruscamente mentre entrava nella stazione di Cadorna. Poi, l'11 marzo, una situazione analoga aveva fatto fermare improvvisamente la metropolitana della linea M2, vicino alla stazione Cassina dè Pecchi, nella zona sud del capoluogo lombardo. Nel corso dell'anno, incidenti simili si erano verificati diverse volte e altre brusche frenate era stata registrata nei mesi successivi. Il 2 ottobre, nella stazione di Cadorna, due passeggeri erano rimasti feriti, mentre il 7 era stata la volta della stazione Bisceglie quando, intorno alle 20.30, una frenata improvvisa aveva causato 5 feriti, due dei quali trasferiti in ospedale in codice giallo. Poi, ancora il27 novembre si era ripetuto il medesimo incidente, anche questa volta avvenuto sulla linea rossa (M1): diversi passeggeri erano stati sbalzati a terra.
Il 6 dicembre del 2019, la storia si era ripetuta: il treno che viaggiava sulla linea rossa di Milano si era fermato all'improvviso all'ingresso della stazione San Babila, provocando la caduta di diversi passeggeri: quella volta, una quindicina di persone erano rimaste ferite, tra cui 7 trasportate in pronto soccorso.
L'inchiesta sugli appalti truccati. E ora, gli accertamenti sugli incidenti causati da stop improvvisi dei convogli della metropolitana di Milano sembrano intrecciarsi con un'altra inchiesta. Si tratta di quella che, questa mattina, ha portato all'arresto di 13 persone, tra manager di aziende e dirigenti di Atm, l'azienda che si occupa dei trasporti milanesi. Gli investigatori, infatti, hanno spiegato che, nel corso dell'indagine "sono stati raccolti elementi relativi ad un ulteriore e più risalente episodio di corruzione, avvenuto nel 2006 per l'assegnazione dell'appalto relativo al sistema di segnalamento della linea Metropolitana M1, nel cui contesto sono emerse le recenti criticità (frenate brusche d'emergenza) che hanno investito la linea rossa". Il sistema di segnalamento è uno dei nodi più importanti per il funzionamento delle linee metropolitane e per la circolazione dei treni. È formato da un sistema a semaforo che indica quando ci sono degli ostacoli e quando è necessario far rallentare o bloccare i treni. In un'intercettazione, inoltre, il dirigente Atm Paolo Bellini, considerata la figura centrale dell'inchiesta, parlava dei lavori da effettuare per risolvere il problema degli incidenti sulla metropolitana, causati dagli stop improvvisi dei convogli. Nel marzo 2019 un altro dirigente dell'Atm aveva riferito a Bellini che l'azienda intendeva eliminare le porte di banchina alla fermata M1 di Sesto San Giovanni, indicate come possibili concause delle brusche frenate, e gli aveva chiesto un preventivo: "Lascia attiva solo una banchina e l'altra la demolisco. Tieni conto ci vogliono almeno due settimane piene a smantellare", diceva Bellini. Subito dopo questa conversazione, Bellini aveva effettuato un'altra chiamata, per avvisare del lavoro: "Può darsi che Atm dopo gli incidenti che ci sono stati in metropolitana abbia forse deciso di smantellare le porte di Sesto, m'han chiesto più o meno di preventivare". "Eh tu fai quattro conti, tieni conto che hai due settimane compreso sabato e domenica". Il fascicolo degli inquirenti potrebbe gettare un'ombra sull'appalto relativo al sistema di segnalamento della linea M1 e sui lavori per la risoluzione dei problemi legati all'incidente. Un'eventualità respinta da Atm, che afferma: "A oggi per quello che abbiamo letto non abbiamo trovato nelle carte una correlazione diretta tra le frenate e i fatti spiacevoli di oggi". Il dirigente arrestato, infatti, "è stato tentato di turbare le gare, ma non ha influenzato il contenuto. Il tema delle frenate sino ad oggi a noi non risulta, è un tema che abbiamo affrontato da un punto di vista tecnico". In merito agli incidenti della metro "abbiamo contestato ai produttori problemi tecnici e intimato a questi signori di risolverli, cosa che sta avvenendo nei tempi e nei modi previsti". Il tema della frenate, ribadisce, "non ha correlazione diretta con i tentativi di turbare il corretto svolgimento della gare".
Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 24 giugno 2020. «Devi falsificare le carte e io la coperta te la metto: se sul cavo è stampigliato FC-16 o RG-16, deve essere scartavetrato e ristampigliato R-18... ci sono le macchine apposta, lo facevamo 30 anni fa in ferrovia... Neanche vengo a fare i collaudi messa a posto la carta e non vengo a sindacarla... e neanche Atm viene a sindacare, perché alla fine sono garante io di questo...». Ai passeggeri in metropolitana dell'Azienda dei trasporti del Comune di Milano (10 mila dipendenti, 800 milioni di passeggeri trasportati e quasi 1 miliardo di ricavi l'anno, 9 milioni di utile) farà piacere apprendere che, quando una azienda non aveva un cavo del diametro richiesto da Atm ad esempio per lo smantellamento dei sezionatori di deviatoio della linea «M1 rossa», proprio il responsabile Atm del settore suggeriva alla ditta come falsificarne la stampigliatura e assicurava che tanto nessuno se ne sarebbe mai accorto, perché per offrire ai magistrati l'occasione di scoprirlo ci sarebbe stato bisogno della super sfortuna che andasse a fuoco una galleria: «Si falsifica le carte e nessuno va a rompere le scatole... Da un punto di vista di incidente non succede niente, cioè qui il cavo non ha mai preso fuoco in 40 anni... per succedere qualcosa deve proprio succedere che ci sia un incendio... un cortocircuito... che venga giù il magistrato a prendere un pezzo di cavo... cioè se viene il magistrato prende il pezzo di cavo e lo manda a una società per l'analisi chimica tecnica e dice "ah... questo non è"... Ma per arrivare a quello deve bruciare la galleria... insomma in tanti anni non ho mai visto...». «In tanti anni» è espressione che, oltre a far scattare qui tutto il campionario possibile di gesti scaramantici (il disastro di Pioltello docet), racconta la ventennale esperienza interna di Bellini: alla quale attinge (in un pranzo con manager della Engineering Informatica al ristorante «Giglio Rosso» il 29 gennaio 2019) proprio per evocare l'aggiustamento nel lontano (e coperto da prescrizione) 2006 di un altro appalto vinto da Alstom, sensibile perché riguarda il sistema di sicurezza della linea «M1 rossa», quello che nel 2018-19 ha manifestato (anche con feriti tra i passeggeri) misteriose e immotivate frenate di emergenza. «Succederà come è successo in "linea 1"... perché i tempi son cambiati ma le modalità non son cambiate...», prevede Bellini a proposito dell'appalto gemello nel 2019 per la «linea 2 verde», andato nel 2020 a Siemens unica offerente: «Lo ricordo perché forse ero un po' più giovane o comunque son rimasto, nonostante sia passato per Tangentopoli», che curiosamente partì nel 1992 proprio da altre tangenti all'Atm. «Io lavoravo in Metropolitana Milanese», rievoca Bellini nell'intercettazione in cui per il gip il funzionario «confessa una maxicorruzione di Alstom, che aveva di fatto comprato il suo sostegno commissionando a una "sua" società un progetto di 700.000 euro ed elargendo al dg una tangente da un milione di euro». Ecco il flash-back di Bellini, «non mi bastavano le lezioni. Era il 19 dicembre 2006, aperta la busta tecnica, Alstom aveva un punto e mezzo rispetto a Siemens... Aprono la parte economica, questo succede alle 10 di sera con il vecchio direttore generale: Alstom 64 milioni e qualcosa, Siemens 12 milioni in meno... Panico... Io lavoravo per Alstom, gli avevo preparato le carte... scusate il termine, con una valigetta. A mezzanotte e qualcosa si è incontrato con il direttore generale... Alle 2 di mattina ha vinto Alstom... È andato via un milione eh...». Un investimento conveniente, pubblicizza all'impresa in vista del nuovo appalto, «io credo che con queste cifre qua... perché è vero che siam partiti a 64 (milioni di valore, ndr ), ma dopo 10 anni è diventato 112... questo qua parte 127 tra 7 anni che è il tempo tecnico arriverà a 200... perché son tante le varianti e le condizioni non valutate da un punto di vista progettuale».
Sandro De Riccardis e Luca De Vito per ''la Repubblica'' il 24 giugno 2020. «Adesso stiamo affrontando la linea 2... stiamo preparando tutte le carte per uscire col contratto... mi raccomando: quello che ti sto dicendo te lo tieni per te un attimo... il direttore generale vuole uscire a fine anno con la gara... ». Dal cuore della gestione degli appalti dell'Azienda dei trasporti milanese, Paolo Bellini, 55 anni, responsabile dell'Unità tecnica sugli impianti di segnalamento e automazione delle metropolitane, parla con uno dei pretendenti ai ricchi appalti del trasporto pubblico milanese. Un «livello di spregiudicatezza» tale, scrive il gip Lorenza Pasquinelli, che Bellini propone la posa di un cavo sui binari privo dei requisiti tecnici, certo che nessuno se ne accorgerà. «Un incendio, un cortocircuito... per arrivare a quello deve bruciare la galleria». «Mi aspetto provvedimenti immediati da parte dell'azienda», ha detto ieri il sindaco Giuseppe Sala. "Intervento su tutte le gare" Sono otto, dall'ottobre 2018 al luglio 2019, per un valore di 150 milioni, le gare sotto inchiesta. Che gli sono valsi 125mila euro in stipendi mensili e commesse alle sue due società e promesse di appartamenti e future dazioni. E che ieri, a seguito dell'indagine del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Giovanni Polizzi, hanno portato a tredici arresti (tre in Atm), in un'indagine che conta 35 indagati per corruzione, turbativa, falso e peculato. «I collaboratori van pagati di più... sennò fai perdere i sentimenti alle persone...» diceva Bellini a Gerardo Ferraioli, senior project manager di Engineering Informatica, una delle società che ambiva, insieme a Alstom Ferroviaria, Siemens (indagato un manager tedesco), Ansaldo/Hitachi (per mezzo di Link consulting) a spartirsi appalti e subappalti della metro. Bellini puntava a intrecciare rapporti a tutti i livelli, dalle grandi multinazionali alle piccole società. Per il gip Lorenza Pasquinelli. «non è emersa neppure una procedura di gara pubblica, negli ultimi due anni circa, che non sia stata attinta, in misura più o meno penetrante, dall'intervento abusivo di Bellini in favore di una o più imprese interessate ai lavori». «Noi parte lesa», ha comunicato ieri Atm. La memoria di Tangentopoli Il gip lo definisce «un omaggio alla memoria di Tangentopoli». Bellini confida di voler aprire un conto e chiamarlo "Gabbietta", come quello aperto a Lugano dall'allora tesoriere del Pci-Pds Primo Greganti. «A me mancano sette, otto anni per la pensione, vorrei farmi un conto Gabbietta, e far qualcos' altro poi... c'ho in testa un agriturismo, i cavalli, la caccia...». Intanto si preoccupa degli affari di oggi. «Spero che esca la linea 2, guarda, perché se esce chiunque avrà bisogno di un pirla come me... e non me ne frega, vado a fare gli ultimi anni in Mercedes...». È lui stesso però a raccontare, intercettato, di una presunta maxicorruzione, ai tempi di Tangentopoli, su cui non sono state fatte verifiche perchè ormai i reati sono prescritti. Le frenate d'emergenza «Succederà come è successo in linea 1 - racconta Bellini - perché i tempi sono cambiati ma le modalità non son cambiate... lo ricordo perché forse ero un pò più giovane o comunque son rimasto, nonostante sia passato per Tangentopoli... io lavoravo in Metropolitana Milanese... 19 dicembre 2006... aperta la busta tecnica, Alstom aveva un punto e mezzo rispetto a Siemens, aprono la parte economica...Alstom 64 milioni, Siemens 12 milioni in meno, panico... io lavoravo per Alstom.. gli avevo preparato le carte, scusate il termine, con una valigetta... alle 2 di mattina ha vinto Alstom». Il caso viene messo in relazione dalla procura con «le recenti criticità», ossia «le brusche frenate d'emergenza che hanno investito la linea rossa ».
Dall'articolo di Gianni Santucci per il ''Corriere della Sera'' il 24 giugno 2020. Eccoli, dietro quel sorriso, i due Bellini in uno: funzionario di Atm e direttore lavori ombra della ditta che prende i lavori da Atm: «Facciamo che sono un socio occulto». In un passaggio ostenta spavalderia imprenditoriale: «Perché se stai in Atm ti fossilizzi, invece io ho una mentalità imprenditoriale, quando vedo il soldo e l'affare... lo faccio». Per questo è sempre alla ricerca del «cavallo da cavalcare». E lancia la seconda auto rappresentazione (alter ego del «pirla»): «L'altro mio compito è far la pu..., cioè io procaccio, porto a casa il lavoro, ho altre società per cui lavoro. Qual è il mio guadagno? Un quid mensile, come se prendessi uno stipendio, però è tutto molto occulto, perché io tra l'altro non avendo partita Iva è sempre un problema farsi pagare». L'onestà è una preoccupazione passeggera: «Certo, a livello deontologico, non è piacevole in azienda far questo».
Frank Cimini per ''il Riformista'' il 24 giugno 2020. Tredici arresti per tangenti sui lavori della metropolitana di Milano per 150 milioni di euro. Il gip Laura Pasquinellli che ha firmato le misure cautelar i scrive che gli elementi raccolti evidenziano come gli indagati agissero "con grandissima disinvoltura". Il procuratore capo Francesco Greco aggiunge che si tratta di un sistema di metodica alterazione di gare a evidenza pubblica. Tangenti sulla metropolitana di Milano. Fu il titolo dei giornali agli albori di Mani pulite, ormai quasi 30 anni fa. Sembra di tornare al 1992. Ma si tratta solo di apparenza. Adesso non esiste neanche l' ombra di soldi finiti nelle casse dei partiti che allora furono coinvolti tutti, compresi quelli di opposizione a livello nazionale proprio mentre tifando per i pm puntavano a ottenere vantaggi dalla bufera giudiziaria. È invece la corruzione diffusa quella che proprio Mani pulite, insieme alla politica e alla cosiddetta società civile tanto evocata allora come onesta, non è riuscita a sconfiggere. E il giudice per le indagini preliminari scrive anche che il sistema degli appalti era vulnerabile, lasciava e ovviamente lascia tuttora molto a desiderare. Insomma non c' erano e non ci sono gli anticorpi nella pubblica amministrazione affinché non si ripetano episodi corruttibili che durano da decenni. Il sindaco Giuseppe Sala invoca pene esemplari per i responsabili dei misfatti, aggiunge che proprio non ci voleva un fatto del genere mentre si cerca di uscire dalla crisi del Covid 19. Atm arriva addirittura a minimizzare spiegando che si tratta solo di comportamenti individuali. L'azienda si dichiara "del tutto estranea ai fatti" scaricando le colpe sui due principali indagati, i funzionari Paolo Bellini e Stefano Crippa. L'opposizione di centrodestra a Palazzo Marino afferma che ci vogliono maggiori controlli sulle società partecipate. Matteo Salvini invita il primo cittadino Sala "a chiarire". «Posa cavo sbagliato, tanto si nota solo in caso di incidente», è una delle frasi intercettate mentre dalle carte dell' inchiesta emerge che sono in corso accertamenti anche sulle brusche frenate di emergenza dei treni del metrò che recentemente avevano portato al ferimento di molti viaggiatori. Le cimici hanno captato le parole di Paolo Bellini che si proclama socio occulto di una società, la Ivm, dicendo: «Chiunque venga mi darà il lavoro sono sicuro». Insomma emerge lo spaccato di una corruzione diffusa, anche se ovviamente le responsabilità dovranno essere accertate dagli sviluppi futuri dell' indagine e dal processo. Ma c' è materia di riflessione per tutti. Da molti commenti invece purtroppo sembra non sia così. C'è un generale orientamento a tirarsi fuori che non promette nulla di buono. Mani pulite e la politica continuano, ognuno dal suo canto, a fallire l' obiettivo. Il problema come sempre è politico e nessuna inchiesta nessun processo lo risolverà.
Dagospia il 24 giugno 2020. Da ''Radio Cusano Campus''. Il magistrato Gian Carlo Caselli è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. Sul caso corruzione a Milano. “Se guardiamo le prime pagine dei giornali di oggi sono tutte legate al caso Emilio Fede e pochissime al caso corruzione di Milano, che ricorda Tangentopoli e che avrebbe meritato molto più spazio. La corruzione purtroppo c’è sempre stata e sempre ci sarà, il problema è cercare di contrastarla sempre più efficacemente. Molti pensano che il post Covid potrebbe comportare un aumento della corruzione perché la crisi può avere effetti criminogeni. E questi casi sono già sotto la lente d’ingrandimento di molte procure italiane. Il fenomeno ha proporzioni globali che non sfuggono a Strasburgo. C’è un organismo che si chiama Greco nel Consiglio Ue e che ha dato delle linee guida agli stati membri per prevenire la corruzione. Il rischio corruzione interessa soprattutto il settore sanitario pubblico e privato. L’allarme è stato lanciato anche dall’Ocse, che ha sottolineato come la corruzione possa travalicare i confini nazionali. C’è anche il controcanto. Sono in azione, in perfetta buonafede, agguerriti sostenitori dei sistemi snelli e veloci. Si sentono proclami del tipo: se dobbiamo seguire tutte le procedure è finita, l’attuale codice degli appalti va derogato. Come ha scritto il Prof. Vannucci, premesso che le farraginosità dell’apparato burocratico sono frutto di politiche scientemente perseguite, va detto che la scelta pubblica in deroga a norme e disposizioni vigenti, figlia primogenita di qualsiasi emergenza, è la via maestra della corruzione e dell’infiltrazione mafiosa”. Sul caso Palamara. “Io sono in pensione, ma mi sento ancora magistrato. Questo spettacolo è orrendo. Questo contesto di manovre, di baratti, di scambi fa del male all’intero Paese, alla nostra immagine, ma soprattutto alla magistratura che nella sua stragrande maggioranza è formata da persone per benissimo. L’unico punto di riferimento del magistrato non può che essere il rispetto delle regole, il rispetto della Costituzione, che è la stella polare del magistrato. Occorre in tutta la magistratura uno scatto d’orgoglio e mettere in campo antidoti completi che funzionino davvero contro questo suk che è venuto fuori. Nel mio carniere ho due proposte. Se il problema sono le correnti, la degenerazione dei correnti, occorre cambiare i sistemi di nomina, di elezione dei componenti del Csm togati. Bisognerebbe partire da una consultazione preliminare prima delle elezioni. Si potrebbe formare una rosa di magistrati ordinari, onorari, ma anche tutto il personale amministrativo ed una robusta rappresentanza dell’avvocatura, entro la quale poi scegliere le persone giuste, non quelle nominate ed indicate dalle correnti sulla base dell’appartenenza. Poi, quando si è formato il Csm e si tratta di nominare i dirigenti, si tratta di valutare le capacità e la valutazione è una vera e propria scienza. Propongo una struttura di consulenza formato da professori universitari, tecnici della valutazione, che dovrebbero fare una vera e propria istruttoria, compilando delle schede con tanto di valutazioni scientificamente eseguite che il Csm dovrà tenere in conto quando si tratterà di scegliere i dirigenti. La separazione delle carriere secondo me è una vera e propria sciagura. Quando ero procuratore di Palermo, mi hanno invitato a Vienna i magistrati austriaci dell’anticorruzione. Lì c’è la separazione delle carriere e il pm dipende dall’esecutivo, deve ubbidire agli ordini del ministro della Giustizia. Quando sono andato a Vienna ho trovato i miei colleghi entusiasti, euforici, perché era successa una cosa che per loro rappresentava una rivoluzione positiva, era entrata in vigore una norma che imponeva al ministro di dare ordini ai pm ma per iscritto, affinché ne rimanesse traccia nei fascicoli. Vogliamo arrivare a questo? Ma ci conviene? Secondo me no, perché significherebbe la fine dell’indipendenza della magistratura, che è un bene irrinunciabile. In alcuni Paesi la separazione delle carriere funziona, ma attenzione, in quei Paesi la politica funziona in un certo modo, ha saputo bonificarsi”.
Marco Fallisi per gazzetta.it il 10 giugno 2020. Quello di Samu Castillejo è un annuncio shock. Lo spagnolo sceglie Instagram per raccontare una drammatica rapina che ha subito questo pomeriggio a Milano: “Ma a Milano - si legge nel post - è tutto a posto? Mi hanno derubato due ragazzi puntandomi una pistola in faccia”. Lo spagnolo si trovava a bordo della sua macchina quando è stato avvicinato dai due rapinatori (in scooter) che gli hanno puntato la pistola in faccia e si sono fatti consegnare un prezioso orologio. Poi la fuga, tra le vie del centro di Milano (la rapina è avvenuta nella zona della movida, tra Porta Nuova e Gae Aulenti). Il giocatore non ha subìto alcuna conseguenza fisica, ma ovviamente è rimasto piuttosto scosso anche se non si è ancora recato alla Polizia per sporgere denuncia. In serata nuova story su Instagram in cui ha voluto tranquillizzare i suoi numerosi followers scrivendo che ora "è tutto a posto" e che lui sta bene. Aggiunge anche il "bottino" dei malviventi: "Si sono portati via l'orologio".
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2020. Una parte delle banconote aveva le prime tracce di muffa. Segno che negli ultimi due anni nessuno era andato a controllare il tesoro. E farlo sarebbe stato impossibile, perché quei 28 scatoloni dovevano restare lì fino alla «pensione». Fino a quando, come racconta la viva voce di Massimiliano Cauchi, 46 anni, «mi faccio fare i documenti e me ne vado via». Una sorta di vitalizio per una carriera da trafficante di droga quasi immacolata. Se non fosse per due inchieste, la prima della Dda di Bologna e la seconda di Milano, che indicavano Cauchi come il capo di un traffico di hashish dal Marocco da tre tonnellate e sei milioni di euro all'anno. Perché lui, nonostante una condanna in primo grado a 17 anni e 4 mesi, era praticamente incensurato. E a lungo un fantasma nel mondo criminale milanese dominato da narcos calabresi e trafficanti di cocaina. Massimiliano Francesco Cauchi, arrivato trent' anni fa con il padre da Scicli (Ragusa), invece aveva scelto un altro mercato. Quello di una droga che per molti è roba da «ragazzini», ma che garantisce rischi bassi e guadagni milionari. Nei 28 scatoloni trovati dietro l'intercapedine di un muro realizzato nella casa del padre in via Casoretto 33 a Milano, i poliziotti della Mobile hanno trovato la cifra «stimata» di 15 milioni di euro. Tutti in contanti, tutti in banconote di vari tagli: esclusi 5 e 10 euro. Il più grande sequestro di contanti mai fatto in Italia. Quantità «stimata» perché i poliziotti sono riusciti a contare solo il primo degli scatoloni: 551.340 euro precisi. Il resto è finito nei forzieri della Banca d'Italia, la sola struttura in grado di sanificare le banconote e di contarle tutte. Un sequestro che per il procuratore capo Francesco Greco rilancia l'allarme sul contante: «Una disponibilità simile di denaro cash è destabilizzante rispetto ai rapporti economici legali. Così la criminalità in una fase di crisi può acquistare tutto». «Ha talmente tanti soldi che i suoi figli possono stare bene per otto generazioni», diceva la compagna a un'amica. Parole che insieme alle dichiarazioni di un pentito hanno convinto i poliziotti della Narcotici, guidati da Marco Calì e Domenico Balsamo, a non mollare le indagini dopo l'arresto dell'ottobre 2019. Da allora Cauchi era prima finito in una comunità, poi ai domiciliari nella casa di viale Monza. Il tutto nella speranza prima o poi di «mollare» e ritirarsi alla meritata pensione. La svolta dopo aver scoperto nel padre Giuseppe e in un muratore, Carmelo Pennisi, i complici del riciclaggio. «Spesso si ipotizza che i pagamenti dei narcos avvengano in bitcoin, ma la realtà è che il grosso è fatto con il contante, l'unico a non lasciare traccia», le parole del capo della Dda di Milano, Alessandra Dolci che ha coordinato l'inchiesta con i magistrati Adriano Scudieri e Francesca Crupi. La banda di Cauchi teneva la droga dietro alle pareti dei box (1.100 chili nel 2018). La svolta è arrivata dall'analisi delle mappe catastali e da quei 40 centimetri mancanti in camera da letto, proprio dietro un armadio a sei ante. Li era nascosto il tesoro. È l'ammontare di denaro in banconote di vario taglio custodito all'interno di scatoloni e poi nascosto in una intercapedine ricavata all'interno di una parete dell'appartamento, a Milano, del padre del trafficante Francesco Massimiliano Cauchi.
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2020. L'uomo da 15 milioni di euro alla ricchezza sconfinata aveva aggiunto una pazienza quasi monastica. La convinzione che prima o poi quei soldi sarebbe riuscito a goderseli. Massimiliano Cauchi aveva un tenore di vita «normale»: una casa in una zona semicentrale, niente macchinoni, nessun colpo di testa. Solo il padre Giuseppe, 68 anni, che lui stipendiava e che per conto del figlio stava trattando l'acquisto di un piccolo appartamento in periferia, aveva invece la passione per le auto d'epoca. Mercedes, vecchie Fiat 500 e il sogno di possedere una Maserati. Robetta per chi, l'avesse voluto, avrebbe potuto comprarsi un top player di calcio e goderselo per qualche mese nel giardino di casa. Cosa significhi trovarsi davanti a 15 milioni di euro lo raccontano gli investigatori della Narcotici che hanno dato la caccia al tesoro di Cauchi: «Un milione di euro, in banconote di vario taglio, sta in due scatoloni. Tutto quello che nessuno di noi riuscirà a guadagnare nella vita chiuso dentro due scatole di cartone». Il blitz è scattato il 2 giugno. Il giorno prima i poliziotti hanno setacciato la casa della compagna e l'officina (abusiva) del padre in via Deruta. Qui sono sbucati, poco alla volta, i primi soldi: 26 mila euro. «A un certo punto sono saltate fuori diverse valigie. Erano vuote, ma in una c'erano 250 euro. Dimenticati come succede con un paio di calzini al ritorno dalle vacanze. Abbiamo capito che il tesoro era stato lì». Quarantacinque anni, da 12 alla Narcotici, a parlare è l'agente che ha dato i primi colpi al muro: «Il martello l'ho portato da casa la mattina. Così come il righello per misurare le piantine catastali». Com' è trovarsi davanti a 15 milioni? «Per noi è stata la sensazione di aver chiuso il cerchio. Perché quasi mai dopo un'operazione antidroga si riesce a mettere le mani sul tesoro dei narcos. Certo, poi ci ripensi e capisci cosa significhino tanti soldi...Ma nessuno ha avuto tentennamenti, non scherziamo». Per chi pensa male, magari viziato da qualche fiction americana, va detto che come ormai da prassi ogni operazione viene videoripresa. «Non siamo riusciti a contarli tutti, anzi. Il sospetto è che chi li ha nascosti abbia fatto lo stesso. Probabilmente pesando le scatole o considerando che in ogni confezione ci stavano 500 mila euro». L'uomo che li ha murati, secondo le indagini della Dda di Milano e della Mobile, è stato il più importante fornitore di hashish della piazza milanese. Una droga che spesso si pensa relegata a criminalità straniere. In questo caso era Cauchi a gestire i rapporti con i produttori in Marocco: acquisto a 300 euro al chilo, rivendita all'ingrosso a 3 mila. I pacchi di hashish viaggiavano su yacht fatti attraccare a Bocca di Magra (La Spezia) o a Rapallo (Genova). Poi con macchine caricate su carri attrezzi la droga arrivava a Milano. Dopo la scoperta del tesoro il 46enne è tornato in carcere su disposizione del gip Raffaella Mascarino. Mentre era ai domiciliari i poliziotti avevano nascosto una cimice sotto al lavandino. Nelle intercettazioni Cauchi parlava di soldi da spedire in Spagna tramite «un cinese» e dell'acquisto di un ristorante. «Quando uscirà di prigione con tutti i soldi che ha potrà garantire l'autosufficienza a 8 generazioni», diceva la compagna al telefono. La stessa che, forse non conoscendo la reale disponibilità del marito, lo invitava: «Vai a prendere i soldi da chi te li deve che ti devono dare un milione di euro e non hai fatto niente». Qualche settimana dopo un tubo rotto ha fatto scoprire la cimice e da allora Cauchi è stato molto più guardingo. Soprattutto con il padre Giuseppe. Era lui il guardiano del tesoro. Una parte dei soldi, 130 mila euro, erano nascosti in una cassaforte a casa sua, insieme a diverse armi di cui è regolare collezionista. Soldi per le spese di tutti i giorni. «Se mi girano i c.... me ne vado proprio fuori dal c..., te lo giuro», diceva Cauchi alla compagna. Ora i 15 milioni finiranno nelle casse del Fondo unico giustizia.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 maggio 2020. Detto in francese, la Sovrintendenza ha scritto una corriva cazzata che poteva esprimere con un lessico più felice. Per essere superficiali e sbrigativi ci siamo già noi giornalisti, coadiuvati da una classe politica (questa) che per vacuità pare inarrivabile: non c' era bisogno che ci si mettesse anche la commissione regionale per il patrimonio culturale (noi superficiali la chiamiamo Sovrintendenza) secondo la quale «lo stadio di San Siro non presenta interesse culturale e come tale è escluso dalle disposizioni di tutela». È orribile, letta così. Ma è la risposta che la Sovrintendenza ha dato al Comune di Milano che il 13 novembre scorso aveva chiesto di verificare se pendesse appunto un interesse culturale sullo stadio, visto che da tempo si paventa la possibilità di abbatterlo per far posto a una più modesta struttura per Milan e Inter. Significa, in concreto, che il glorioso Meazza potrebbe essere tranquillamente abbattuto: questo si legge nel documento secondo il quale «le persistenze dello stadio originario del 1925-'26 e dell' ampliamento del 1937-'39 risultano residuali rispetto ai successivi interventi di adeguamento e ampliamento, realizzati nella seconda metà del Novecento e non sottoposti alle disposizioni perché non risalenti ad oltre settanta anni». Quali interventi? Quelli del 1953-'55 e quelli del 1989-'90, più qualche intervento successivo al Duemila. In altre parole, sono gli interventi che servivano per poter continuare a giocare mantenendo standard di sicurezza in continua evoluzione. Viceversa - si arguisce - l' unica maniera di mantenere un «interesse culturale» sarebbe quella di abbandonare a se stessa una struttura per oltre settant' anni: lasciarla marcire, soprattutto non usarla perché sennò non diventa decrepita, e quindi non culturalmente interessante.
PARCO PER LO SPORT. Il parere della Sovrintendenza ha un che di irritante ma va detto che probabilmente non farà danni: in Comune ha già preso forza l' idea di «rifunzionalizzare» il Meazza (speriamo) per farlo diventare un parco per lo sport e che perciò vengano salvati almeno il primo e secondo anello dello stadio. L' ha ripetuto, ieri, anche l' assessore all' urbanistica Alessandro Maran. Resta il fatto che il primo sindaco che passi, un domani, in teoria anche oggi, sarebbe liberissimo di far saltare San Siro con il tritolo e spazzolare poi tutto con le ruspe. Non accadrà, a meno che siano davvero scemi. Il perché è semplice. Qui non si tratta ovviamente di ridiscutere che cosa possa definirsi «culturale» o di ridefinire una pedante differenza tra «interesse culturale» e «interesse storico»: si tratta di osservare una realtà che prescinde dalle opinioni personali e persino dalla passione per il calcio. Ed è questa: centinaia di migliaia di persone (chiamasi turisti) ogni giorno passano da Milano e, dopo aver visitato quello che c' è da vedere o che vogliono vedere (che è moltissimo), a un certo punto passano in gran parte anche allo stadio di San Siro, magari dopo aver visitato, chessò, il museo del Teatro alla Scala. Forse non è un caso che il San Siro-Meazza sia anche chiamato «La Scala del calcio». È uno stadio che ogni giorno viene visitato attraverso il «San Siro Museum» (biglietto 18 euro, un po' caro) che assicura un tour, la visione di una selezione delle maglie dei più importanti calciatori che hanno calcato quel terreno di gioco, i dietro le quinte dello stadio, gli spogliatoi, e il tunnel d' accesso in fondo al quale si apre la magica vista sul campo: la più grande emozione per tanti tifosi di calcio di tutto il mondo. Si va da soli, a gruppi, con guide che parlano anche Inglese, Francese, Tedesco, Spagnolo, Portoghese, Indonesiano, Cinese, Giapponese, Arabo e Russo. E se credete che siano tifosi fanatici che prendono un aereo dal Giappone solo per visitare uno stadio, beh, vi sbagliate: non è un luogo o un museo per impallinati, è parte integrante delle attrazioni storiche e culturali di Milano, parte di un percorso, dopodiché se la sovrintendenza gli rifiuta il patentino di «interesse culturale» ce ne faremo una ragione: basta che nessun cretino culturale o storico o semplicemente demente pensi di abbattere lo stadio più famoso del mondo (questo sostengono alcuni) come si abbatterebbe un eco-mostro.
LE PARTI VINCOLABILI. Dall'infelicissima espressione della Sovrintendenza («San Siro non presenta interesse culturale») per fortuna possiamo emanciparci per volgerla in positivo: perché significa, in concreto, che lo stadio non è integralmente «intoccabile» e che quindi si può aprire la strada a un progetto semi-conservativo che sia compatibile con la parallela costruzione del nuovo stadio per Milan e Inter. Purché il tutto sia fatto bene: il paradosso, infatti, è che le uniche parti vincolabili sono proprio quelle che non interessano a nessuno: quelle cioè risalenti alle origini architettoniche (1926) e al primo ampliamento (anni '30-'40) mentre a non essere vincolabili, perché più recenti, sono paradossalmente proprio quelle che interessano di più, le più recenti: le rampe elicoidali e le torri perimetrali che sono pura avanguardia architettonica firmata Ragazzi e Hoffer. È quella la parte famosa in tutto il mondo, ed è quella che l' amministrazione - che sia, o che sarà - deve salvaguardare: pena dissensi che probabilmente sarebbero corali, anzi, veri e propri cori da stadio.
Quando Gianni Mura raccontava i Navigli di Milano, dai "trani" al lunapark. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su La Repubblica.it. Due mesi fa, il 21 marzo, ci lasciava Gianni Mura. In pochissimi giorni Repubblica ha raccolto in “Il Mondo di Gianni Mura” (a cura di Angelo Carotenuto e Giuseppe Smorto) un'antologia di suoi articoli tra reportage dal Tour de France, interviste, incursioni gastronomiche e la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri. Oltre 30 mila copie vendute finora in edicola con il giornale, tante prenotazioni in coda. E tra i tanti articoli, anche uno che Gianni Mura dedicò a Milano e ai suoi Navigli l'8 gennaio 2006. L'ultimo barcone con le bobine di carta per le rotative arrivò sotto il Corriere il 15 marzo 1929. Le cartiere, la Burgo, la Binda, erano oltre le mura, verso Corsico. Ma ancora nel '51 alla Darsena di Porta Ticinese si contarono 697.130 tonnellate di merce e questo faceva di Milano il dodicesimo porto italiano, dopo Ancona e prima di Palermo. Parlare di Navigli oggi, a Milano, ha qualcosa di scivoloso. Un po' per l'inevitabile gioco passato-presente (che poi non è un gioco), un po' perché i Navigli non sono due, come molti credono (il Naviglio grande e il Pavese, uniti dalla Darsena) ma cinque. Quando il tassista dice "va bene se facciamo la Cerchia dei Navigli?" uno risponde distrattamente di sì e non pensa che una volta si diceva Cinta dei Navigli e quello della Martesana arrivava a Milano in pieno centro: entrava da via Gioia, fiancheggiava la Cassina di Pomm (dove Casanova ebbe le grazie della bella Zenobia il giorno prima delle di lei nozze), passava il Ponte delle Gabelle, arrivava in San Marco, dove formava un laghetto, e poi avanti, via Fatebenefratelli, via Senato, via san Damiano verso corso Monforte: lì c'era il ponte detto delle Sirenette, in ghisa, tanto che per la gente divennero familiarmente le sorelle Ghisoni. Adesso sono al Parco Sempione. "I cà di sciori", le case dei signori, cioè dei nobili, dei ricchi o di tutt'e due le cose insieme, sono concentrate qui, e la più bella, la più dipinta era quella dei Visconti di Modrone, col suo splendido giardino e le preziose balconate. Un altro laghetto era in Santo Stefano, realizzato intorno al 1388, al tempo di Giangaleazzo Visconti, dalla Fabbrica del Duomo. Già, il Duomo, "una cava di marmo vestita da sposa" cantava Dario Fo. Tutto il marmo di Candoglia, sul lago Maggiore, arrivava a Milano sull' acqua, e i barconi che trasportavano materiale per la costruzioni non pagavano dazio e recavano la scritta A.U.F. (ad usum Fabricae) e da qui deriva (a designare gli scrocconi) l'espressione "andare a ufo". Ancora da quel mondo ci arriva "non dare corda", perché "dare corda" per i barcaioli era sciogliere le funi che assicuravano il natante alla riva, mentre un altro con una pertica lo indirizzava nel giusto senso della corrente. Non dare corda significa non dare spazio a un tale che presumibilmente è un seccatore, non incoraggiarlo. Dalle vecchie piantine di Milano (c' è una bellissima incisione del Matthaus, seconda metà del Seicento) si capisce com'era: circondata dall' acqua e con un cuore navigabile. Nessuna città europea aveva queste caratteristiche. Il Naviglio Grande fu il primo canale navigabile, al mondo. Esce dal Ticino a Tornavento, va a morire nella Darsena dopo 57 chilometri. I lavori di scavo cominciarono nel 1179 e terminarono dopo 32 anni. Secondo Guido Lopez, storico milanese, "nel 1929 fu perduta un' isola pedonale già bella e pronta". In sostanza, da allora ci si sbatte per la vivibilità di un centro storico che la doppia cintura d'acqua garantiva, pur con qualche inconveniente (gli scarichi, le zanzare), e che adesso non garantisce più nessuno. Come nessuno, tranne qualche artista, protestò davanti all' interramento del Naviglio, una sepoltura vera e propria (progetto dell' ingegner Cesare Albertini). La contestazione più forte uscì sul Marzocco, giornale di Firenze, a firma di Luca Beltrami, senatore del Regno, architetto, l'uomo che recuperò il Castello Sforzesco. Questo Naviglio centrale viene inumato e festeggiato da una mostra di 301 dipinti sui Navigli. Ospite d'onore il padre della modernizzazione, il Podestà Giuseppe Capitani d' Arzago, che non è un pesce piccolo: sottosegretario al Tesoro nel ministero Facta, ministro dell'Agricoltura nel primo ministero Mussolini. Giuseppe Pontiggia ha riassunto molto bene il tutto: "Le città attraversate da fiumi e da canali ne traggono una linfa vitale e segreta: ma gli uomini, nella loro tendenza proterva a ridurre l'ideale al materiale, la interpretano come efficienza dei trasporti. Anche Milano è stata vittima di questa allucinazione. Ha impiegato secoli di lavoro geniale per trasformarsi in una città acquatica, rendendo sempre più capillare la trama dei canali e la civiltà dei rapporti. Ma poi, nel giro di un secolo, dominata da due miti moderni, la macchina e la velocità, ha iniziato e in gran parte coperto il percorso contrario. Trasformare le vie d'acqua in vie asfaltate appariva un'operazione coerente con lo sviluppo della città; non si capiva che se ne tradiva la storia, se ne spegneva la bellezza, se ne impoveriva l'umanità". Secondo Stendhal (annotazione del 4 ottobre 1816), "Milano è la città d' Europa con le strade più comode e i più bei cortili. Questi cortili, quadrati come quelli dei greci, sono circondati da colonne di granito. In tutta Milano si trovano ben ventimila colonne di granito. Arrivano dal lago Maggiore su un canale che sta nella città come un boulevard, dalla Bastille alla Madeleine, canale cui mise mano anche Leonardo. Noi non siamo che dei barbari". E noi, chissà. Anche Simenon amava il Naviglio, specie con la nebbiolina vaga d'inverno. Il suo studio era in vicolo dei Lavandai, ancora ci sono i lavatoi di pietra dove le lavandaie appoggiavano "el brellin", un'asse di legno che le riparava dal freddo e dal ruvido. Le lavandaie lavavano ancora, fino agli anni Sessanta. Quando Ivan Della Mea compose una canzone contro la retorica del Naviglio: "Gh'è chi dis che l'è bela/ quest'acqua marscia/'sto scarich pubblich/ de cess, de ruera". Ruera è l'immondizia, i rifiuti in genere. Dice: "In quella zona ci ho vissuto e le lavandaie, i barcaioli, i cavatori di sabbia e di ghiaia facevano un lavoro da bestie. Nelle acque non cristalline c'erano già delle pantegane grosse così. Ricordo che in viale Gorizia abitava Elio Vittorini e faceva lunghissime passeggiate notturne, da solo, specie dopo che gli era morto il figlio. Era una zona viva, dove sentivi il milanese vero e quello arioso, si andava alla Magolfa dalla sciora Maria a sentir cantare qualcuno, adesso è inutile muoversi, non c'è da sentire nessuno e soprattutto non c'è parcheggio". Nanni Svampa, un altro che ha molto cantato Milano, rievoca la Briosca, col Pinza a cantare e la Wanda che ballava sui tavoli: era un ballerino gay della compagnia Osiris, di lì il soprannome. Quegli anni un po' li ho vissuti, ricordo il Meazza che suonava i bicchieri, il Praticello sotto lo svincolo per l'autostrada di Genova. Andare sui Navigli la sera, specie con una ragazza, era considerato trasgressivo. Perché più o meno il mangiare era sempre quello (molti salumi, pasta e fagioli, polenta, trippa), il bere anche (Barbera, non sempre all'altezza, ma anche vino pugliese, da cui "trani", non sempre a gogò, come cantava Gaber). E poi partivano le canzoni, che erano sporche e in dialetto. Questo consentiva alle signore di non cogliere le decine di doppi sensi, e ai signori di farglieli notare. Si cominciava con Porta Romana, La povera Rosetta e il piatto forte era El gir del mond, di cui sono state incise versioni purgate, castissime. Il tutto per poche lire. Chi aveva più soldi andava al Derby, verso San Siro, e lì era cabaret, spesso grande cabaret. Sui Navigli, canzoni popolari o canzonacce spacciate come "della mala". Gli appassionati di jazz andavano al Capolinea. Joe Venuti suonava il violino e diceva di sentirsi come a New Orleans, ma forse voleva solo essere gentile o coglieva un'atmosfera che c'era, effettivamente, lungo quei corsi d'acqua, e derivava dalle persone che ci abitavano e da quelle che ci andavano la sera. Un'operazione-nostalgia può idealmente portare a una nuova mostra, e far rivedere i quadri di Angelo Inganni, di Emilio Gola, di Giovanni Segantini, di Filippo De Pisis, di Umberto Lilloni, o le incisioni di Federica Galli: sono scorci, frammenti, pezzi di Naviglio. Che belli. E rileggere due righe di Dino Buzzati: "Il buon odore del Naviglio, che veniva su al tramonto con quel sapore di salsedine che sembrava di essere a Venezia". Il buon odore del Naviglio non so cosa sia, non l'ho mai trovato e non l'ho mai cercato. Però mi piaceva quella sorta di melting pot, quel sentirsi insieme a Milano e fuori Milano. Era un quartiere non ricco, se non di umanità. L'ideale per milanesi anziani, famiglie numerose di immigrati, artisti e bohémien, ma anche grandi e piccole fabbriche (scomparse una dopo l'altra) e piccolissimi, geniali artigiani. Lasciamo perdere Parigi, la rive droite e la rive gauche. C'era un'identità, questo c'era. Magari erano case di ringhiera, con problemi di umidità e, talvolta, i servizi sul ballatoio. Ma teneva caldo, in qualche modo. Il Naviglio della Martesana ha mantenuto qualcosa del suo fascino, nel fine settimana si vedono intere famiglie che pedalano sulla pista ciclabile e sono felici di mostrare ai piccolini la bellezza di un giardino, di una casa. Parlo della zona intorno allo Zelig. E ancora le bici servono per passeggiate lungo l'argine, risalendo verso Castelletto di Cuggiono, Cassinetta di Lugagnano, per ammirare le cà di sciori ancora in piedi, ma attraversando prima un orizzonte di fabbriche dismesse, da destinare chissà a che, di palazzi sventrati per comodi loft. Perché adesso la zona è modaiola, o trendy, e i prezzi si sono impennati. I milanesi affollano i Navigli di notte, fino a tardi, fra una finta osteria e un ristorante che ha esposto il menù solo in inglese, tra decine di locali tutti uguali che hanno trasformato i Navigli in un divertimentificio quasi obbligatorio. E ogni casa è imbrattata dallo spray: se ci fosse un concorso per nominare i più stupidi sporcamuri d'Europa, lo vincerebbero quelli di Milano, non ho dubbi. All'8 di via Alzaia Naviglio Grande c'è la botteghina di Giorgio Pastore (trovarobato, piccolo antiquariato, curiosità varie). "Una volta veniva Moratti, e la principessa Trissino, e la contessa Borromeo che faceva collezione di bambole antiche". Genovese, Pastore è qui dal '67. Ancora cinque mesi e sarà sfrattato. "Prima è toccato a quelli del 12, poi a quelli del 10. Sono andati via l'Adolfo Valtorta, galvanotecnica, lo stracciaio Crespi, il Dino che restaurava da dio avori e tartarughe, il lattoniere Brechet, il Negretti vinaio dell'Oltrepò, un panettiere, un parrucchiere, una scuola di yoga, un calzolaio, è rimasto un fruttivendolo ma sta facendo fagotto anche lui. E vengono su come funghi questi locali tutti uguali, sono cinquantotto da qui al ponte di via Valenza, poche centinaia di metri, ed erano undici, sono cinquanta sul Naviglio Pavese e una quarantina nelle stradine laterali. E sa cosa significa? Che c'è fracasso fino a dopo le 4 e alle 6.30 passa il camion della pulizia". Di fianco c'è la bottega d'arte di Maria Teresa Piantanida, che pure dipinge. Con Pastore e altri ha fondato Gente per il Naviglio: per resistere, per non andare via, per sensibilizzare gli altri milanesi. "Vede, è molto semplice. Qui non ti rinnovano l'affitto oppure sì, ma quadruplicato. Comprare, per un pittore o un piccolo artigiano, è impossibile. Ne deriva uno spopolamento di giorno e un superaffollamento di notte, che ha poco di milanese, davvero. Sembra un lunapark". Sembra anche peggio, un non-luogo, un posto senz'anima, un guscio vuoto. La Darsena è quasi asciutta, stanno costruendo un maxiparcheggio per i nottambuli. "Restituiamo dignità a questi luoghi che sono stati umiliati e che devono tornare a essere espressione del vivere civile di un tempo e memoria storica di una città", così c'è scritto sull'appello. Hanno già raccolto 4.500 firme da marzo. "Non cavalchiamo la nostalgia ma la voglia di dignità" dicono. Hanno ragione, firmo anch'io, ma aver ragione in questa città incanaglita, incanalata e immemore è il modo più sicuro di aver torto. Finché il modello è una Las Vegas di plastica, almeno.
La Giustizia in fiamme. FILIPPO FACCI per Libero Quotidiano il 29 marzo 2020. Eccolo il focolaio. Si può ridere del virus e figurati se non si può (anche) sorridere dell' incendio che è scoppiato a Palazzo di giustizia, visto che di morti e feriti, per fortuna, non ce ne sono stati. Paradossalmente non poteva esserci momento migliore per un incendio - si fa per dire: s' intende alle 5 del mattino, in un periodo di lavoro ridotto al lumicino - però i danni fisici ci sono eccome: il focolaio infatti è divampato al settimo importante piano del palazzaccio dove si trovano uno degli archivi che affaccia su un cortile interno oltre alla segreteria dell' ufficio dei gip (giudici per le indagini preliminari) che lì hanno sede, assieme al Tribunale di sorveglianza. Poi i pompieri (diciotto squadre) hanno spento tutto, ma l' acqua ha contagiato anche il sesto piano dove c' è la Direzione Distrettuale Antimafia e qualche sezione civile, rendendo tutto inagibile. Il fuoco ha letteralmente distrutto la cancelleria centrale dei gip perché è partito proprio da lì, e la terapia intensiva dei vigili del fuoco è intervenuta ormai in fase terminale. Sono intervenuti anche i carabinieri e il pm antiterrorismo Alberto Nobili, l' aggiunto Eugenio Fusco e anche il procuratore Francesco Greco, tutti a commentare un disastro inaspettato e asintomatico: nessuno l' immaginava, e le prime ipotesi incolpano un sovraccarico elettrico connesso agli impianti informatici. Anche nei due piani sotto c' è oltretutto una grande quantità di fuliggine, ma non è per questo che i pm e i pompieri indossavano una mascherina. chiuso al pubblico In pratica si parla di un cortocircuito ai sistemi informatici spesso in sovraccarico, ma le indagini sono ancora in corso e la polizia brancola nel fumo. In mattinata era anche presente un' unità mobile per la protezione delle vie respiratorie (chissà dove l' hanno trovata, di questi tempi) ma per fortuna nelle prime ore del mattino all'interno del Palazzo non c' era nessuno, a parte i presidi di vigilanza delle guardie private posti agli ingressi. Ora ovviamente l' edificio è chiuso al pubblico e si potrà entrare solo per le urgenze, presumiamo distanziati, e anche la presenza di magistrati e del personale amministrativo è ridotta al minimo, come spesso capita in un qualsiasi pomeriggio dell' anno. «È stato un incendio violentissimo con danni terribili», ha detto Francesco Greco. Per il presidente dell' Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, il rogo «ha distrutto il cuore pulsante dell' attività giudiziaria penale, per fortuna il digitale ci assiste. Le cause non le sappiamo, certo che effettivamente è un disastro. Gli atti sono tutti digitalizzati, ma non ci sono più le copie originali». Quindi non dovrebbe essere un problema. intercettazioni in fumo «È tutto recuperabile», ha detto il giudice per le indagini preliminari Guido Salvini, «quelli bruciati sono fascicoli in transito, attività recente. In particolare sentenze, decreti di condanna e anche di intercettazioni, atti in uscita dalla procura. Tutte carte che dovrebbero essere state digitalizzate». «Comunque è un disastro», ha detto ancora Nardo, «e le copie originali sono andate perse». A seconda delle situazioni, gli imputati sperano diversamente.
INCENDIO IN TRIBUNALE, ERA GIA’ TUTTO SCRITTO. Testo di Frank Cimini pubblicato da giustiziami.it il 29 marzo 2020. Già prima del varo e dell’entrata in vigore delle direttive europee in tema di sicurezza il palazzo di giustizia non era in regola. Figurarsi in epoca successiva e adesso in uno stabile che ha 90 anni di vita. In pratica ci si dovrebbe meravigliare se non accadesse nulla a mettere a repentaglio le cose e la vita delle persone. Il problema era riemerso in epoca recente quando restava paralizzato un avvocato colpevole di essersi sbilanciato nel tentativo di sporgersi. Mancavano protezioni adeguate. I responsabili dei vari uffici procura generale corte d’appello procura facevano osservare giustamente di non avere capacità di spesa e quindi di essere impossibilitati a predisporre misure adeguate comunque molto difficili da attuare data la vetustà del palazzo. La procura generale ovviava acquistando delle piante verdi allo scopo di nascondere la mancanza di strutture adeguate suscitando anche ilarità. Bisogna ricordare a proposito del sesto e del settimo piano che la sopraelevazione, accertarono le indagini di Mani pulite, era stata realizzata utilizzando materiali scadenti allo scopo di risparmiare e di realizzare il massimo profitto. Dei lavori si occupò la Grassetto società del gruppo di Salvatore Ligresti anche pagando tangenti. Nei giorni di vento molto forte i vetri del palazzo tremano e continuano a tremare mettendo a repentaglio la vita delle persone. Il palazzo non è “riformabile” più di tanto. A un certo punto la soluzione era sembrata quella di costruire una cittadella giudiziaria in periferia ma poi il discorso era caduto “per mancanza di piccioli”. L’incendio scoppiato alle 22.55 di ieri sera, registrato dalle telecamere di sicurezza, ma scoperto solo sei ore e mezza dopo, attorno alle 5 di stamattina, ripropone un vecchio e drammatico problema. Adesso si tratta di salvare il salvabile a livello di atti processuali sperando che una gran parte sia stata informatizzata. La motivazione dolosa sembra esclusa. Non ci sono elementi che vanno in tale direzione tanto che uno dei magistrati intervenuti, Alberto Nobili, ha parlato apertamente di cortocircuito, e ciò appare più che plausibile. In ogni caso, si tratterebbe del terzo principio di rogo in pochi anni. Negli altri due casi era andata bene. (frank cimini)
Alessia Gallione per “la Repubblica” il 19 febbraio 2020. Che sarebbe stata una corsa al rialzo si era capito subito. Quando, dopo una manciata di minuti, tre giri di cronometro e altrettanti rilanci, Hermes aveva puntato fortissimo, facendo improvvisamente schizzare l' asticella dal milione e 250 mila euro appena offerti dal gruppo Maxima Srl (Max Mara) a due milioni tondi. Una alzata di mano da 750 mila euro. Ma la scalata era appena iniziata. Con il tentativo dell' attuale inquilino, Versace, di difendere la possibilità di rimanere in quello spazio d' oro, l' ulteriore prova di volata di Prada che in un colpo solo ha messo sul piatto un chip da altri 600 mila euro. E una gara tra sette marchi di moda diventata un testa a testa tra tre giganti del lusso come Hermes, appunto, ma anche Dior e Yves Saint Laurent. Perché per aggiudicarsi l' asta dei record anche per i già stellari parametri della Galleria Vittorio Emanuele, ci sono voluti 38 rialzi da almeno 50 mila euro ogni tre minuti. È così che un negozio da 253 metri quadrati nel cuore di Milano è diventato una sorta di Van Gogh delle vetrine. Alla fine l' ha spuntata Dior, disposto a spendere più di cinque milioni all' anno di affitto, cinque volte la base d' asta fissata a 950 mila euro, la cifra più alta (sin ora) in relazione alla grandezza di un "lotto". Anche se, in questa partita, il vero vincitore sembra essere il Comune, proprietario di casa di quei 59 mila metri quadrati e 149 vetrine, che dal suo gioiello ormai incassa più di 40 milioni all' anno. Al posto di una sala di Sotheby' s, la stanza "formazione" al secondo piano del palazzo dell' Anagrafe. Invece del battitore un notaio; come martelletto un cronometro proiettato su uno schermo con finestre da tre minuti per i rilanci. E soprattutto, seduti al tavolo da gioco, i big del lusso. I sette che si sono contesi l' ormai ex negozio di Versace. E altri cinque, da Prada a Bottega Veneta, che si sono messi in fila per conquistare un altro negozio strategico: 326 metri quadrati attualmente occupati da Armani - che a sua volta si è appena aggiudicato uno spazio molto più grande per 1,9 milioni - passati di mano a Fendi, che è riuscito a sbarcare in Galleria offrendo dopo 28 rilanci 2,4 milioni. Molto più degli 872 mila euro chiesti inizialmente. Risultato: in una sola mattina e con due aste all' incanto, come si chiamano le gare con rilanci, il Comune è riuscito ad avere un bottino di quasi 7,5 milioni: più o meno la stessa cifra (8,2) che, nel 2007, ai tempi della sindaca Letizia Moratti, Milano guadagnava in un anno per l' intero complesso monumentale. È un' altra scalata, quella degli affitti del "Salotto" della città, che ha accompagnato la corsa di una Milano che sta continuando ad attrarre turisti, residenti, investitori internazionali. E i marchi della moda. È anche così che l' assessore al Bilancio Roberto Tasca spiega la gara tra maison: «La Galleria è il simbolo di Milano e se vuoi portare il tuo marchio in città è qui che devi stare». Una cassaforte per il Comune che vuole incassare il massimo dal suo bene più prezioso e redditizio «per avere risorse da reinvestire ne lla città e nei servizi pubblici». È l' operazione «valorizzazione commerciale» partita con Giuliano Pisapia nel 2011, che adesso è esplosa con il meccanismo delle aste. «Per gli enti pubblici italiani è stato un esperimento - continua il guardiano dei conti del sindaco Beppe Sala - , ma viene guardato come esempio da seguire da altre città e dallo stesso Ministero delle Finanze ». Tanto che, ormai ogni nuovo spazio nobile in Galleria che si avvicina alla scadenza, verrà messo a gara così. Vince chi offre di più.
Sergio Gobbi. Il cantastorie di Chinatown. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Cevasco. Ci vuole coraggio, ci vuole molto coraggio. È quello che aveva Sergio Gobbi. Il coraggio di scrivere il libro più pazzo del mondo. Scritto di qua in milanese. E di là, nella pagina a fianco, in inglese. E, perdipiù, in un inglese inciso con il colore verde. Gobbi, era nato lo stesso giorno che, «9 de avril 1931, a Milan se inaugurava el gran Teater Smeraldo». Papà morto in Africa Orientale, fame nella pancia, Martinitt, la guerra, bombardamenti, «vit d’inferno in d’óna adólescenza rubada», tipografo «impressór» con la coscienza sporca «per i milioni de foeui de carta bianca imbrattada de inciòster negher». Poi con quell’inchiostro nero ha smesso di stampare le parole degli altri e ha scritto le sue. Ne è uscito il libro «Ministori foeura da l’Isóla. A storyteller at the Cantine Isola». Sono piccole storie della grande storia di Milano. Quelle storie che Sergio Gobbi raccontava a voce. Andavano a scivolare spesso nella strada che amava di più. Via Paolo Sarpi, l’ombelico di Chinatown. E lì le recitava alle Cantine Isola dove Luca Sarais lo presentava insieme con i suoi vini al mondo: «Non solo milanesi, e sardi, siciliani, calabresi e cinesi, ciprioti, greci, brasiliani, bulgari, polacchi, turchi e tedeschi, norvegesi e islandesi». Anche un suddito del regno di Tonga ha ascoltato felice i racconti di Gobbi. Con quel po’ di recita che i milanesi danno alle parole riusciva a far capire a tutti che un giorno a Chinatown ci fu una — esagerata dal passaparola — sommossa, rivolta, rivoluzione! Tutto per una multa ingiustamente appioppata a una «tosa» cinese. O che e come la fermata del tram «Sarpi-Bramante» diventò «Fermata Pechino» perché quell’arancione numero 12 «lóng cóme la fam» si riempiva di cinesi, si stava in piedi e il mondo si fermava lì: «alla fermata Pechino». O si fermava poco lontano al bar Nacka, inteso come Skoglund il mitico calciatore, ritrovo di interisti dove Walter Chiari andava a fare il provocatore ai tempi di barbera e champagne (e vodka). Ma il sorriso di Sergio Gobbi a volte si spegneva. Era quando leggeva o recitava a memoria il canto tragico degli studenti morti a Milano durante la seconda guerra mondiale. Diceva «Gorla» e poi si commuoveva al ricordo di tanti bambini morti sotto le bombe. Sussurrando in dialetto versi e racconti della vecchia Milano riusciva a far zittire frotte di ragazzi ed ex giovani che — calice in mano — si intrattenevano con amici e amanti davanti al bancone. «Ricordo il suo stupore per quella magia che si ripeteva nei nostri martedì letterari, “mi stanno anche ad ascoltare”, diceva sbalordito» ricorda Luca Sarais, che gestisce il locale di famiglia. In questo stupore c’è tutto Sergio Gobbi, il poeta del «borg di scigulatt», il «quartiere delle cipolle», poi «degli ortolani»,ora Chinatown. Lui se n’è andato la settimana scorsa, a 89 anni.
Gianni Santucci per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 13 febbraio 2020. Hanno trovato due carcasse di lamiera ed erano le loro case. Una vecchia Opel «Meriva» abbandonata e un altro rottame d'auto dietro la stazione di Porta Genova. Dormivano là. Quando i poliziotti hanno fatto portar via le macchine, hanno spaccato una porta e una finestra di un magazzino in disuso, sempre vicino ai binari, l' hanno occupato per passare la notte (anche quello poi, qualche mese fa, è stato sgomberato e murato). Non s' allontanavano mai dal «loro» quartiere: il quadrante che va dalla stazione in fondo a via Vigevano, alla Darsena, alle Colonne di San Lorenzo. Qui bivaccavano di giorno, rapinavano di sera, spacciavano di notte. Sono ragazzini senza famiglia e s' erano creati una specie di «famiglia» alternativa e criminale di soli adolescenti. Hanno commesso nove rapine dal 22 febbraio al 21 luglio 2019 (queste sono quelle accertate, ma potrebbero averne fatte almeno altrettante). Aggressioni violentissime, con i cocci delle bottiglie spaccate, sempre cinque contro uno. Le vittime: ragazzini soli scelti a caso, circondati e terrorizzati, derubati di soldi e cellulari, uno scaraventato sui binari di Porta Genova con la minaccia di tenerlo a terra all' arrivo di un treno. E poi le droghe, vendute e consumate nei pomeriggi e nelle notti in strada, hashish e farmaci, stupefacenti «poveri». Un ragazzino rapinato, di fronte ai poliziotti del commissariato di Porta Genova guidati dal dirigente Manfredi Fava, ha riferito una sua impressione che però racconta molto degli imputati in questa indagine durata mesi: «Era come se volessero dimostrare un riscatto attraverso una violenza eccessiva e ostentata». Eccola, la deriva di cinque ragazzini egiziani (uno appena maggiorenne, altri tutti minorenni all' epoca dei fatti) arrivati in Italia come «minori non accompagnati», categoria che alimenta un flusso costante e ben identificato all' interno della più vasta migrazione dal Nord Africa. Adolescenti a cui le famiglie fanno affrontare il viaggio da soli e che, per l' età, quando arrivano in Italia hanno diritto a un permesso e all' accoglienza in comunità, con la scuola e l' avviamento al lavoro. Ogni tanto qualcuno si perde, si raggruppa con altri ragazzini connazionali e altrettanto perduti. «Pur se non sono parenti, tra loro si chiamavano fratelli - riflette Manfredi Fava - La percezione che abbiamo avuto è che si fossero ricreati una famiglia, ma aggregata intorno ad attività criminali». I dettagli degli arresti rivelano molti aspetti di questa storia. Negli ultimi mesi i poliziotti della squadra investigativa mettono insieme molte denunce, trovano i dettagli che le collegano, costruiscono i capi d' accusa contro la gang seguendo il filo della serialità, raccolgono i filmati, ascoltano testimoni. Tutta l' indagine viene seguita costantemente dal capo della Procura del Tribunale per i minorenni, Ciro Cascone. Alla fine, la settimana scorsa, arrivano i mandati d' arresto. Si scopre che uno, il maggiorenne e leader del gruppo, è stato già fermato per spaccio qualche mese fa ed espulso, accompagnato in Egitto. Un altro s' è dileguato (ha di certo lasciato Milano ed ora a suo carico nelle banche dati delle forze dell' ordine c' è un rintraccio). Restano gli altri tre: il primo viene arrestato in tutt' altra attività, tra venerdì e sabato scorsi, in una serie di controlli della Squadra mobile alle Colonne di San Lorenzo. Stava spacciando. Gli altri due li trovano un paio di notti dopo proprio i poliziotti del commissariato, sempre alle Colonne, uno intorno alle 3 e il secondo intorno alle 6 del mattino. Si incontrano tutti al carcere minorile Beccaria, un paio scoppiano a piangere e confessano altre rapine, alcuni furti, qualche aggressione (tutti reati sui quali ora saranno fatti accertamenti). Le storie dei «minori non accompagnati» dall' Egitto hanno tutte caratteristiche quasi identiche. Provengono da alcuni distretti a Sud del Paese arabo, zone molto povere, a maggioranza di religione cristiano-copta: in alcune di quelle cittadine la migrazione ha provocato una trasformazione sociale lacerante, perché in certi quartieri non ci sono quasi più adolescenti maschi, tutti partiti da quando, nel corso del tempo, s'è radicato il convincimento comune che in Italia i giovani minorenni hanno diritto a essere accolti e alla completa assistenza. Un flusso che per anni, gonfiandosi sempre più, ha mandato in crisi la rete d' assistenza in Italia. Anche i ragazzi che s' erano riuniti nella famiglia/gang erano stati all' inizio accolti in comunità (è un obbligo di legge) in Sicilia e in Calabria, poi anche a Milano. Sono sempre scappati. Hanno trovato un' unica strada in cui identificarsi e rappresentarsi: la violenza di gruppo.
Gianni Santucci per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 14 febbraio 2020.
Le pistole. «Ci prendiamo Milano». Le mitragliette. «Fanculo la tua gang». I coltelli (a scatto, a serramanico, da combattimento). «Affamati come i lupi». Un tirapugni d' acciaio («indossato» in primo piano su una foto scattata in metrò). Didascalia: «Pugni in faccia». L' immagine di un braccio che punta un' arma su piazza Duomo, con l' annuncio: «La Zona in trasferta». Si moltiplica ogni giorno su Instagram un' ansia ostentata di esibizionismo violento. La spavalderia dell' arma è attraente. E pur se le armi sono sempre finte, diventano il feticcio comune da mostrare per costruire un profilo di minaccia. Identità intimidatorie.
E poi banconote, ciuffi di marijuana, canne già rollate. Eccolo l' immaginario comune di gruppi di ragazzi di periferia che sempre più si auto-rappresentano come gang. La prima nacque un paio d' anni fa: «Zona 4», o «Z4» (via Mecenate). Poi col tempo sono comparse «Z2», «Z3», «Z6», «Z9» (con riferimento ai municipi di Milano), fino a un' evoluzione successiva ancor più localizzata: «Crvt» (per Corvetto), «Pdv» (via Padova), «Gl27» (il gruppo delle case di via Gola finito in una recente indagine della polizia per il mega incendio in strada di Capodanno e l' aggressione ai vigili del fuoco). C'è stata la stagione (non chiusa, ma in buona parte contenuta dalle inchieste) delle pandillas sudamericane. Replica più o meno fedele delle bande nei Paesi d' origine riproposta da ragazzi di Ecuador, Perù, Salvador con risse e accoltellamenti. Altra espressione dello stesso fenomeno sono le piccole gang con derive criminali (spaccio, rapine in serie) di ragazzini che si trovano in totale marginalità sociale e si uniscono per la violenza, come quella di minorenni egiziani arrivati in Italia come «minori non accompagnati» e appena arrestati dal commissariato di «Porta Genova». E infine, è la tendenza più recente, si moltiplicano nuove aggregazioni di ragazzi (di nazionalità diverse) che fluttuano tra una radicatissima territorialità - Zona, quartiere, via, «blocco» inteso come singolo palazzo di case popolari - e il continuo esibizionismo social , che si riversa soprattutto nelle stories su Instagram , ma anche in graffiti e tatuaggi. Rivalità finora molto più virtuali che reali, ma che colpiscono come sostrato di aggressività diffusa e intensa. È da questa quotidianità di violenza «parlata» che a volte emergono fatti di violenza reale: «Le gang milanesi nascono sul territorio e lì si radicano - spiega Ciro Cascone, capo della Procura del Tribunale per i minorenni -. Ultimamente è capitato di incappare in nuove bande di ragazzi di origine straniera dove il collante che genera l' aggregazione è il quartiere o persino la via, più che il Paese d' origine. Etnie diverse e mescolate, dunque. Sono ragazzi e sempre di più ragazze anche molto giovani, di 14 o 15 anni. A volte stringono patti di "fratellanza" tra gang che diventano amiche. Nei casi più estremi la trasgressione e la violenza sono esibite attraverso video e immagini che rimbalzano sui social , piene di simboli non banali da decifrare per chi sta fuori. Le piattaforme web diventano vetrine per magnificare la potenza di gruppo e scatenano la rivalità sul piano virtuale e, nelle derive peggiori, anche su quello della realtà cittadina». Frasi così (estratte da una lunga ricognizione su profili Instagram ): «Puoi togliermi dalla piazza ma sai che non togli la piazza da me» (gruppo del quartiere «Tre Torri»); «Prega solo di non finire in zona mia e dintorni, perché lo vengo a sapere e ti uccido»; «Il gruppo sopra il corpo come fosse familia» (a commento di un tatuaggio della «Z4»); «Z3 porta la drogue »; «Fra' di zona» (scritto su lunga lama di coltello). Espressioni, e aggregazioni, con una radice unitaria: «Il fenomeno delle baby gang richiama una degenerazione degli schemi di aggregazione tipici dell' età evolutiva - riflette Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni -, caratterizzata da un codice di appartenenza che consiste nell' assumere comportamenti antisociali, distruttivi verso le cose, deturpanti verso l' ambiente, umilianti e prevaricanti verso le persone, specialmente quelle più deboli, oppositivi ed insofferenti nei confronti dell' Autorità. Le cause di tale deriva sono complesse, di natura tanto sociale che familiare e personale». Dai canali virtuali ai muri della città, si nota sempre più spesso una corrispondenza con i graffiti: «Sono in aumento nei quartieri i segni delle "Z", spesso accompagnati a frasi di una semantica aggressiva - spiega Fabiola Minoletti, che da anni studia il writing vandalico milanese ed ha registrato l' emersione di nuovi "filoni" - Il legame con il proprio quartiere, o il proprio "blocco" (inteso come casa popolare) è sempre più forte e la comparsa di scritte riconducibili addirittura alle vie di appartenenza, come via Gola, ne è una nuova ed ulteriore conferma».
L'ultima sparata di Sala: "Ci serve l'immigrazione contro calo delle nascite". Il sindaco di Milano, ospite di Piazzapulita, dichiara che all’Italia servono gli immigrati per combattere la denatalità. Pina Francone, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. "A Milano, diciamo anche questa semplice verità, noi abbiamo il 20% di immigrati. Ma apriamo gli occhi: noi con questa decrescita e denatalità che abbiamo, abbiamo bisogno di immigrazione. Non è buonismo, è intelligenza…". Ecco la ricetta di Beppe Sala, sindaco del capoluogo lombardo, per ovviare al fatto che gli italiani ormai - da anni - non facciano più figli. La sparata del primo cittadino meneghino è arrivata nello studio di Piazzapulita, il programma di approfondimento politico condotto da Corrado Formigli ogni giovedì sera su La7. In soldoni, visto che il Belpaese è in decrescita demografica – le nascite, infatti, sono ai minimi storici dall’Unità d’Italia a questa parte – secondo l’esponente del Partito Democratico l'immigrazione è un bene e una risrsa erché aiuta lo Stivale a non morire, sostenendo anche l'economia nostrana. "L’ultimo follia di Sala! C’è il calo delle nascite? Abbiamo bisogno di immigrazione! Ecco come ragiona il sindaco di Milano", Così su Twitter Alessandro Morelli, capogruppo Lega a Palazzo Marino, pubblicando la dichiarazione di Giuseppe Sala nel corso della puntata di Piazzapulita di ieri, 20 febbraio, commenta l'uscita del dem. Che come si sa è sindaco molto attento alle tematiche dell'immigrazione, prevedendo in città anche uno sportello dedicato agli extracomunitari, anche se questi ultimini non ne fanno granché uso.
Emergenza denatalità. Nei giorni scorsi anche ilGiornale.it aveva scrito dell'allarme demografico, visto che per un lustro è diminuita in modo continuo la popolazione italiana, calata rispetto all'anno scorso di 116mila unità secondo le rilevazioni dell'Istat. La riduzione della popolazione - ha spiegato l'Istituto Nazionale di Statistica - è provocata dal bilancio negativo della dinamica naturale (nascite-decessi) risultata nel 2019 pari a -212mila unità, solo parzialmente attenuata da un saldo migratorio con l'estero ampiamente positivo (+143mila). Per ogni cento residenti che muoiono ne nascono appena sessantasette; dieci anni fa, invece intenderci erano 96, ventinove in più. Insomma, avanti di questo passo, poco a poco, il Paese è destinato a morire.
Da ilmessaggero.it il 31 gennaio 2020. La presa di posizione del sindaco Sala di Milano che ha affisso un cartello davanti alla porta di casa sua per sottolineare la sua posizione antifascista sembra essere contagiosa. Anche un parroco in un paese alle porte di Torino ha attaccato al portone della chiesa un cartello: "Juden hier, qui abita un ebreo, Gesù". Il quotidiano Avvenire ha raccolto la sua testimonianza: «Le persone che passano si fermano, leggono e alcune mi cercano per darmi una sorta di testimonianza positiva. Era quello che mi premeva di più: scuotere le coscienze» dice don Ruggero Marini, parroco della chiesa di San Giacomo di La Loggia. La scelta del parroco fa seguito alle scritte antisemite comparse a Mondovì e a Torino nei giorni scorsi. L'arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, si è mostrato molto preoccupato per questi rigurgiti di antisemitismo. «In tutte le sue forme, ha prodotto tragedie immani che dobbiamo non solo condannare, ma fare in modo che non si ripetano più. È grave che ci troviamo, nel nostro paese, fra la nostra gente, senza più ragioni forti per ricordarci che non solo siamo tutti fratelli, ma che condividiamo cittadinanza e interessi economici, lingua e territori». L'Osservatore Romano ha riportato il fatto di cronaca con un titolo significativo: «Smuovere le coscienze».
Milano, Sala copre i migranti di servizi ma loro li snobbano quasi tutti. Il sindaco coccola gli extracomunitari, ma lo sportello comunale della Casa dei Diritti non viene preso in considerazione dagli stranieri. Alberto Giorgi, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Nata a fine 2013 sotto l'allora giunta arancione di Giuliano Pisapia, e fortemente voluta dall'allora assessore alle Politiche Sociali Pierfrancesco Majorino, la Casa dei Diritti del Comune di Milano ha lo scopo di "creare un 'Laboratorio di pratiche sociali e civili' sui diritti che coniuga servizi tradizionali, sportelli informativi e nuove offerte ed opportunità" (come si può leggere sul sito istituzionale della stessa realtà meneghina).
Il tutto per aiutare, anche, i tanti migranti presenti in città. Ecco all'interno della Casa dei Diritti è stata creato uno sportello "Diritti e diritti per orientarsi meglio", che grazie alla presenza e al lavoro di consulenza di alcuni avvocati, aiuta i cittadini – con un occhio di riguardo speciale per quelli stranieri – su svariate tematiche: casa, lavoro, diritto penale, famiglia e, appunto, immigrazione. Ecco, c'è però un dato che stona e che non farà certo contento Beppe Sala, sindaco particolarmente attento ai migranti che vivono all'ombra della Madonnina. In soldoni, gli immigrati – nonostante le tante-troppe coccole del sindaco – continuano a snobbare i servizi comunali a loro disposizione. Sul caso, il consigliere comunale della Lega Silvia Sadone ha presentato un'interrogazione comunale: "Dai numeri degli accessi allo sportello 'Diritto e diritti per meglio orientarsi', presente all'interno della Casa dei Diritti, che mi sono stati forniti dall'assessorato alle Politiche Sociali in risposta a una mia interrogazione comunale risulta ancora una volta evidente l'ingiustificata ossessione della sinistra per gli stranieri". Entrando nel merito della questione, e dei numeri, l'esponente del Carroccio affonda il colpo: "Ebbene, il numero minore di accessi è stato proprio quello riguardante le tematiche legate all'immigrazione sia nel 2018 che nel 2019. Nello specifico, nel 2018, si sono contati 89 accessi per consulenze sula casa, 76 sulla famiglia, 29 sul lavoro, 16 sul diritto penale e 16 sull'immigrazione. Numeri ancora più bassi nel 2019, quando si sono contati appena 11 accessi per discutere di tematiche relative all'immigrazione, contro i 73 sulla casa e i 52 sulla famiglia". L'europarlamentare della Lega, dunque, aggiunge: "Di fatto gli immigrati continuano a snobbare il servizio comunale, nonostante le esagerate attenzioni che la giunta Sala riserva loro. La sinistra dovrebbe smetterla con questo approccio ideologico e cominciare a pensare a risolvere problemi concreti veramente sentiti dai cittadini, italiani o stranieri che siano". E, infine, conclude così: "È abbastanza ipocrita tenere in piedi uno sportello di consulenze sull’immigrazione quando ogni angolo della città è pieno di extracomunitari che bivaccano in mezzo al degrado perché qualcuno si riempie la bocca con l'accoglienza e l'integrazione, ma nei fatti li abbandona al proprio destino".
Salice piangente. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Eleonora Lanzetti. Lungo il viale alberato che porta al centro di Salice Terme, un tempo capitale turistica dell’Oltrepò Pavese, le porte di locali e discoteche sono serrate. Il fermento dei mesi estivi, la musica, i tavolini affollati dei bar all’aperto, stridono con il silenzio di oggi. Per ristoranti e pub non è conveniente tenere aperto durante il resto dell’anno. Lo dicono i cartelli appesi alle saracinesche abbassate con la scritta «Ci vediamo in primavera». Lo si capisce da terrazze e dehor ricoperti di foglie secche e sedie accatastate. Che durante la stagione invernale si registri un calo delle presenze di turisti, è sempre stata una costante per la cittadina delle acque benefiche, ma commercianti ed albergatori arrancano e, in molti casi, si arrendono e chiudono. Tre mesi non sono sufficienti per far quadrare i conti. Il grande colpevole di questo inesorabile declino iniziato sul finire degli anni Novanta sembra avere un nome: Terme di Salice, fallite due anni fa con un buco di 10 milioni di euro. La prima asta dell’8 ottobre 2019 con base a 5 milioni era andata deserta, così anche la seconda con il ribasso a 3,7 milioni, e la possibilità di offerte fino a 2.798.437,50 euro. Ora ci si riprova in terza battuta, auspicando nell’investimento di imprenditori disposti a fare l’affare: «Stiamo vivendo un inverno sempre più lungo, che dura nove mesi l’anno, sebbene d’estate Salice sia molto viva — spiega il sindaco Fabio Riva —. Il 17 marzo si terrà la terza asta, e l’intero patrimonio che comprende Terme, Grand Hotel, Parco di Salice, l’antico maneggio, concessioni minerarie per l’estrazione delle acque e licenze, verrà battuto a 2,8 milioni di euro con possibilità al ribasso sino a 2,1 milioni. Un rilancio in chiave moderna delle terme, con spa all’avanguardia ed ospitalità di livello, darebbe ossigeno al paese e all’intero territorio, fondamentale per l’indotto turistico». «A Salice si sogna e si guarisce», così scriveva la poetessa Ada Negri, alla quale è dedicata la quercia secolare del Parco salvato dall’abbandono. L’amministrazione comunale, in accordo con il curatore fallimentare, continua ad occuparsi della sua manutenzione per garantire a locali ed attività di aprire almeno per la stagione estiva. La fotografia della Salice di oggi, però, è ben diversa: «Il mio negozio è stato aperto 30 anni fa da mia madre che aveva addirittura una commessa. Ora entrano due persone al giorno, quindi tengo aperto solo al mattino e ho cercato un secondo lavoro per il pomeriggio — spiega Simona Merli, titolare di una boutique e presidente dell’Associazione Operatori Turistici —. Tutto a Salice è nato attorno alle terme, e ora ci troviamo davvero in difficoltà. Speriamo nella prossima asta». Qualche metro più in là, tra porte chiuse e serrande abbassate, si entra nella panetteria di Sara che, mentre batte uno dei pochi scontrini della mattinata, allarga le braccia sconsolata: «È difficile pensare di poter sopravvivere con un incasso decente da giugno a metà settembre. Non c’è nessuno in giro, è desolante. È inutile negare l’evidenza: il fallimento delle terme ha messo in ginocchio l’economia di Salice». Nel periodo di massimo splendore qui era un continuo via vai. Grazie ai prodigiosi effetti delle acque, all’aria pulita e al buon cibo, i turisti trascorrevano nella cittadina della Valle Staffora rilassanti periodi di vacanza. Era la Salice del ritiro della Juventus e dei concorsi ippici, degli imprenditori che acquistavano ville in mezzo al verde. Poi il termalismo di Stato ha lasciato il posto alla privatizzazione e sono iniziate le note dolenti. I mutuati che arrivavano con i pullman a fare i fanghi sono passati da diverse migliaia a qualche centinaio, e gli alberghi da una decina diventarono i quattro che resistono ancora oggi: «Parliamo di oltre 300 posti letto, di paesaggi naturalistici meravigliosi, di buon cibo: le potenzialità ci sono — prosegue il sindaco Riva —. Rispetto a quanto fatto in passato, assicureremo massima collaborazione a futuri acquirenti, seri e capaci, che ci presenteranno progetti mirati ed intelligenti per salvare le terme».
Lombardia, il paradosso delle case Aler: per molti, ma non per i più poveri. Andrea Sparaciari su it.businessinsider.com il 25 gennaio 2020. Se sei indigente, non puoi pagare l’affitto e quindi mi aumenti la morosità dell’ente. Ragion per cui noi la casa popolare non te la diamo. È la paradossale politica abbracciata da Regione Lombardia nello stabilire i criteri di assegnazione degli immobili destinati alle fasce più povere della popolazione. Le quali, per ottenere un tetto, devono essere sì povere, ma non troppo. La quota riservata dal Pirellone ai nuclei familiari indigenti – ovvero quelli con Isee non superiore ai 3 mila euro – a norma della legge regionale 16/2016 è infatti scesa dal 40 al 20%. Il motivo è che Aler non riesce a tappare i suoi buchi, quindi ha deciso di affittare le case alla “classe media”, in grado cioè di assicurarle un entrata sicura e costante. Come una qualunque impresa immobiliare. «È come se gli ospedali smettessero di accettare i casi più gravi, perché i pazienti spesso muoiono», ha commentato Giambattista Anastasio su “Il Giorno”, centrando perfettamente la questione che è filosofica, ma soprattutto esistenziale. Basta ricordare che ALER Milano, Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale – azienda nata nel 1908 come IACP, Istituto Autonomo Case Popolari, una delle grandi conquiste della Milano progressista – è proprietario e gestore di un patrimonio di edilizia pubblica di 70.057 unità immobiliari, per oltre 200 mila inquilini, tanto da essere l’azienda per la casa più grande d’Italia e fra le maggiori in Europa. Che ora ha cambiato pelle e mission. Una decisione giustificata anche da quanto riportato sul bilancio Aler 2019: “Anche per il 2019 i livelli di morosità, con riferimento alla morosità cosiddetta incolpevole, si sono confermati preoccupanti e, ad oggi, le richieste di morosità incolpevole ancora in istruttoria, ammontano a n. 2172. (…) Fino a tutto il 2018, oltre l’87% dei casi trattati dalla competente Commissione per la verifica della morosità incolpevole, ha riguardato situazioni caratterizzate da effettiva fragilità sociale che, nel 2019, aumentano ad oltre il 90%”. Per capire la situazione, basta dire che morosità incolpevole è sei volte più numerosa di quella colpevole, come certifica la Commissione deputata ad esaminare le motivazioni delle morosità, la quale ha individuato:
292 morosità “colpevole”, per complessivi 6.656.033,09;
1693 morosità “incolpevole”, per complessivi 23.019.858.
Un dramma sociale, insomma, che fa riconoscere alla stessa Aler che questa situazione deve essere “oggetto di valutazione rispetto alle ormai improcrastinabili misure di sostegno, da prevedersi nell’ambito delle politiche del welfare. Il contributo di solidarietà regionale che, secondo gli stanziamenti previsionali annuali di Regione Lombardia, si attesta a circa 8 milioni di euro per anno, attenua almeno in parte, l’impatto economico di questa particolare tipologia di morosità”. Però poi la soluzione del Pirellone è cambiare la legge e lasciare fuori dalle assegnazioni i più poveri per evitare di impoverire il già traballante bilancio. Come è avvenuto per il bando chiuso il 12 dicembre scorso, che sta assegnando 457 unità immobiliari, 240 di Aler e 217 del Comune (nel 2020 saranno in totale 2.550 gli alloggi popolari disponibili totali, 1.134 di Aler e 1416 di Palazzo Marino), a fronte di una lista d’attesa “storica” e consolidata (cioè famiglie ritenute rientranti nei requisiti secondo le vecchie regole) che supera quota 25 mila. Solo per questo primo giro di assegnazioni erano arrivate in Regione poco meno di 11 mila domande (10.789, per essere esatti), con una media di 132 richieste giornaliere. Pochissimi godranno, un’immensità dovrà aspettare. E tra questi, naturalmente, gli indigenti, che se prima potevano contare sul 40% di case destinate loro, ora si sono dovuti accontentate di un misero 20%. Per non dare via libera alle proteste, Regione Lombardia ha sottolineato con molta enfasi come le procedure di assegnazione degli alloggi partiranno proprio “dai nuclei familiari indigenti, che rivestono carattere prioritario nelle assegnazioni”. Poi verranno gli altri (i benestanti, ndr) in graduatoria. Un successo per l’assessore regionale alle Politiche Sociali, abitative e Disabilità, Stefano Bolognini – recentemente assurto all’onore delle cronache per aver tentato di abbassare del 60% i fondi a favore delle famiglie disabili, manovra poi abbandonata dopo il voto contrario della sua stessa maggioranza –, il quale ha definito il bando come “un grande risultato, frutto del grande lavoro fatto con il nuovo Regolamento regionale che, insieme alla piattaforma informatica, archiviano definitivamente la vecchia procedura della domanda cartacea e la graduatoria infinita”. Stessi toni trionfalistici usati dal presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, per il quale «Il metodo sta funzionando, sta dando buoni risultati e potremo riempire quelle realtà che potrebbero diventare luogo di degrado se lasciate vuote. Questa è la Lombardia che ho in mente». Una Lombardia dove più che il (non) reddito, conta l’anzianità di residenza. Altro aspetto fondamentale delle assegnazioni, infatti, è che le case sono state date a quanti vantano una residenza anagrafica o lo svolgimento di attività lavorativa in Lombardia da almeno cinque anni. “Tra le prime 500 domande in graduatoria, l’88% dei richiedenti è residente nel territorio del Comune di Milano da più di 10 anni, mentre l’82% risiede in Lombardia da più di 15 anni”, ha attestato una nota del Pirellone. Molto leghista come approccio, ma che non convince tutti. Primo fra tutti, il Tribunale di Milano, il quale ha impugnato la norma davanti alla Corte Costituzionale (l’esame del testo partirà il 29 gennaio). E a dirla tutta, lo stesso Fontana non dorme proprio sogni tranquilli: «Noi speriamo che la nostra legge possa essere conservata» ha risposto a quanti chiedevano se fosse fiducioso sull’esito della Consulta, «fiducioso no, ma siamo seriamente attenti alle decisioni che verranno prese». In attesa che i giudici decidano, la famiglie con l’Ise sotto i tre mila euro cosa possono fare? A parte aspettare e pregare, possono sperare di rientrare nelle graduatorie del Comune di Milano, che gestisce tramite la controllata MM, le proprie case di Edilizia Residenziale Pubblica (Erp). La giunta Sala il 16 gennaio ha approvato il piano annuale dell’offerta Sap (Servizi abitativi pubblici), che ha mantenuto al 40% la percentuale delle proprietà comunali destinate all’indigenza. Un altro 10% sarà dedicato ai familiari delle forze dell’ordine, mentre Palazzo Marino ha definito anche una terza categoria di persone di particolare rilevanza sociale cui riservare in via prioritaria gli alloggi: nuclei familiari in uscita da strutture di protezione sociale e assistenziale (come Comunità genitore/figlio, residenzialità leggera e Comunità educative per minori provenienti da enti con accreditamento regionale, Rst, inquilini di alloggi convenzionati con il Comune per emergenza abitativa) o da strutture di reclusione. Infine, saranno 150 gli appartamenti destinati a nuclei familiari sfrattati o il cui appartamento è stato pignorato, con provvedimenti già eseguiti o in via di esecuzione. Scelte apprezzate dai sindacati degli inquilini che però non lesinano critiche neanche a Sala. “La delibera comunale”, recita una nota congiunta di Sunia, Sicet, Unione inquilini, Uil Uniat e Asia, “inserisce modifiche importanti nell’applicazione della pessima legge regionale”, tuttavia “è del tutto assente nella delibera ogni tipo di intervento riguardante la nuova edificazione di alloggi pubblici”. Questo “a causa della grave sottovalutazione del fabbisogno abitativo di case popolari nei piani urbanistici e di governo del territorio”. Insomma, il Comune di Milano fa ciò che può, ma deve vedersela con i pesanti vincoli di bilancio, pur avendo investito oltre 120 milioni nell’edilizia Erp negli ultimi 4 anni. Il grande assente resta il Pirellone. Sia come aiuti al reddito, sia come progetti di edificazione di nuove case popolari. Per fortuna, Aler almeno ha abbandonato il piano di vendita del patrimonio fortemente criticato dagli inquilini, dai sindacati e da tutte le opposizioni, deciso per fare cassa. Ci si è resi conto, infatti, che a essere alienate erano solo quelle unità immobiliari “decorose”, acquistate solo da quella fascia di inquilini che potevano assumersi un mutuo, cioè i meno poveri. Risultato: il bilancio Aler ha tratto solo benefici momentanei e non strutturali, in compenso, il patrimonio Aler si è impoverito ulteriormente e nella “platea” degli inquilini sono rimasti solo i più poveri. Proprio quelli che Aler ha deciso di non volere più nelle proprie case…
L’immobiliare delle case popolari occupate: a San Siro 260 alloggi in mano al clan di egiziani. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. Un piccolo impero immobiliare fondato sulle occupazioni abusive di case popolari e su mutui bancari generosi. Un business vivace e in costante sviluppo che prospera lungo l’asse che unisce due province egiziane e il quadrilatero Aler della zona San Siro, ma che non avrebbe potuto decollare senza la benedizione di istituti di credito da Paese di Bengodi e di qualche compiacenza strategica. Sono stati necessari tre mesi di lavoro, negli uffici di viale Romagna, dove la squadra addetta alla sicurezza ha incrociato dati su dati, mettendo insieme un puzzle che ha rivelato un disegno sconcertante: alcune famiglie di inquilini abusivi sono proprietarie di 130 appartamenti sparsi in tutta Milano, comprati alle aste pubbliche, oltre ai 130 in cui abitano irregolarmente. L’hanno chiamata operazione «Sharkia’s home», prendendo il nome dal governatorato egiziano a Nord del Cairo da dove provengono molti dei protagonisti. Tutto è cominciato con una di quelle percezioni che maturano a sensazione, a colpo d’occhio, osservando tabelle, elenchi e numeri. Parlando con i responsabili della sicurezza, il presidente di Aler, Angelo Sala si è soffermato sulla casella relativa alle origini di diverse famiglie che occupano abusivamente decine di alloggi dell’Azienda regionale per l’edilizia popolare tra via Tracia, via Abbiati, via Preneste, piazza Selinunte, via Morgantini , via Gigante, via Civitali, via Paravia e — in misura minore — altre strade del vecchio quartiere San Siro. Molte di quelle persone arrivavano dall’Egitto. Ma considerando che si tratta di un Paese che si avvicina rapidamente alla soglia dei cento milioni di abitanti era ancora poco per tentare di individuare un legame tra quelle famiglie. Qualcosa di più, tuttavia, lo suggeriva la riga successiva: il governatorato, cioè la provincia di provenienza. La grande maggioranza si concentrava su due località: Sharkia e Asyut. Ancora non era molto, ma abbastanza da stimolare la voglia di provare a vederci più chiaro. Così, incrociando i dati anagrafici con quelli catastali, una dopo l’altra sono spuntate una serie di proprietà di immobili intestati ai diversi componenti di quelle famiglie. Gli investigatori dell’Aler ne hanno contati (finora) 130. Tutti acquistati da aste pubbliche, pagati con mutui bancari e poi messi a reddito. Perché loro, i proprietari, hanno continuato ad abitare negli appartamenti popolari occupati abusivamente, affittando gli immobili di proprietà a inquilini paganti. Ma le coincidenze interessanti non finiscono qui. Dal successivo giro di approfondimenti è emerso che a consentire questa fitta serie di compravendite sono stati i mutui concessi soprattutto da tre istituti di credito. Una banca, in particolare avrebbe prestato alla rete degli immobiliaristi egiziani quasi un milione e centomila euro. E un altro milione circa è arrivato da altre due importanti marchi bancari. «Non sappiamo se quei mutui siano stati accesi nelle stesse agenzie, o magari dagli stessi funzionari — spiegano i detective di Aler — forse lo potrà scoprire un’indagine giudiziaria». E l’altro interrogativo aperto riguarda l’eventuale esistenza di qualche «basista» all’interno del sistema che governa le aste pubbliche. Intanto la grande truffa dell’agenzia immobiliare clandestina di San Siro ha prodotto un primo effetto: le famiglie che occupano abusivamente gli alloggi Aler sono salite in cima alla lista degli sgomberi, dal momento che ormai è evidente che hanno a disposizione più di una casa di proprietà. Restano da quantificare i danni economici (e sociali), ma il presidente Angelo Sala è soddisfatto «per l’ottimo lavoro di questi ragazzi che non si sono risparmiati». Oltre all’operazione «Sharkia», l’attività investigativa interna di viale Romagna ha portato alla luce un altro caso clamoroso di business illegale all’ombra dell’edilizia pubblica: al Corvetto, un giovane occupante abusivo affittava le tre stanze del «suo» appartamento Aler a studenti, incassando affitti mensili da 400 euro per ospite. E per trovare i clienti pubblicava annunci su siti di annunci come Booking e Subito.it. Ma qualcuno ha riconosciuto la casa dalle foto.
Case (di pregio) del Comune di Milano assegnate ad amici e parenti: Mm apre un’indagine interna. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. La funzionaria, la custode e il vigile inquilini in case gestite da Metropolitana milanese. La figlia dell’autista di un manager in quella intestata alla zia. L’ispettore «coperto» dalla moglie. La funzionaria della «Divisione casa» di Metropolitana milanese che vive in una casa popolare gestita dalla stessa Mm. Alloggio «nobile»: vicino Sant’Eustorgio. La custode di Mm che abita in un alloggio del Comune, in mano a Mm: davanti a piazza Fontana. Il vigile, commissario della Polizia locale, che occupava un altro appartamento comunale di prestigio: dietro la Biblioteca Ambrosiana. E poi la figlia di un autista del management Mm che risiede in una casa con contratto intestato a una zia: qui ci sono dubbi sulla parentela (e dunque sulla legittimità dell’assegnazione). Infine, l’ispettore Mm che abita in una casa popolare comunale dove, sulla carta, non è residente. Nella Milano che si dibatte nell’«emergenza abitativa», e che s’è affidata alla sapienza manageriale Mm (società al 100 per 100 del Comune), si scopre questo «grappolo» di assegnazioni ad amici e dipendenti. Assegnazioni che aprono interrogativi di varia natura: dal sospetto dell’illegalità, a considerazioni sulla (in)opportunità. Il Corriere ha cercato per settimane le conferme su questo sottobosco di assegnazioni tra le 29 mila case popolari di proprietà di Palazzo Marino che Mm gestisce da fine del 2014 (quando vennero tolte all’Aler). Verifiche «porta a porta» nei palazzi. Consultazione di documenti del «Sepa», il software per la gestione degli alloggi in mano a Mm e all’assessorato alla Casa. Infine la scoperta che tutte le vicende ricostruite in questo articolo sono note alla Procura, elencate in un esposto presentato alla Guardia di finanza. Il Corriere s’è confrontato su tutte le informazioni con la società, che ieri ha spiegato: «Come da regola consolidata di Mm, attiveremo tempestivamente le indagini interne per verificare eventuali profili di irregolarità». È una storia che inizia a cento metri dalla Darsena: in via Scaldasole 5, pieno centro storico. Nell’ottobre 2012 la donna firma con l’Aler (allora gestore) il contratto per un appartamento popolare del Comune. Nel nucleo familiare, compare con il padre. Primo aspetto anomalo: l’uomo, stando all’anagrafe del Comune, risulta deceduto nel 2006. Nel 2017, secondo i documenti interni di Mm, l’alloggio le costa 230 euro al mese; l’anno dopo, 205 euro. Nel nucleo familiare ormai figura solo la donna: che non è una sconosciuta, ma ha un posto nell’organigramma di Mm, in una «casella» di un certo rilievo: alle dirette dipendenze del direttore della «Divisione casa». È allora legittimo domandarsi: non esiste una sorta di conflitto di interessi, o almeno una questione di opportunità, che suggerirebbe di evitare a un dipendente di Mm con un ruolo di livello nella «Divisione casa» di vivere in un uno degli alloggi popolari che la sua società gestisce? Sulla chiusura del contratto del padre, ancora registrato in «Sepa» nel 2018, risultava un debito di decine di migliaia di euro. Secondo alcune informazioni la donna ha vinto una causa contro il Comune e ora la sua posizione (assegnazione, affitto e vecchi debiti), sarebbe del tutto in regola. In via Zecca Vecchia 4, c’è un altro stabile comunale «nobili», a pochi metri dall’Ambrosiana. In quel palazzo, al secondo piano, si trova un piccolo alloggio assegnato un tempo a un pensionato, poi deceduto. Mm lo «eredita» da Aler nel 2014 e in banca dati figura come appartamento vuoto, non assegnato. Solo che non si trovano le chiavi: durante gli accertamenti, gli ispettori scoprono però che qualcuno ha ristrutturato l’appartamento, lo frequenta e spesso di notte ospita ragazze. Chi è l’inquilino «fantasma»? Ad alcune vicine si è presentato con nome e cognome, un commissario della Polizia locale. Ha anche spiegato che la casa gli era stata assegnata, ma di questo non esiste traccia in «Sepa». Mm è venuta a conoscenza dei dettagli di questa vicenda tra 2015 e 2016. Fin qui, il quadro cristallizzato sui documenti: secondo due testimonianze raccolte nel palazzo, nei mesi scorsi, il vigile ancora usava l’appartamento. In questa carrellata si incontra poi un autista di alti dirigenti Mm, che è stato impiegato anche in alcuni interventi contro le occupazioni. L’uomo ha una figlia che, tra 2014 e 2015 (a cavallo del passaggio Aler-Mm) va a vivere con il compagno (assunto nel servizio idrico Mm) e i due figli, in una casa popolare di via Inganni, 67. All’epoca, la casa è da ristrutturare. Secondo la testimonianza di un ex dipendente dell’Aler raccolta dal Corriere, già al momento dei lavori emerge qualcosa di anomalo: «La richiesta esplicita di Aler fu quella di ristrutturarlo “senza badare a spese”». Ma c’è un elemento ancor più strano: nell’anagrafe interna Mm, il contratto per quell’alloggio di via Inganni è intestato a una pensionata, 85 anni. La ragazza (e «a caduta» la sua famiglia) è registrata in quella casa come nipote della pensionata; grazie a questa parentela, ha diritto a convivere nello stesso alloggio. Il 18 maggio del 2016 però, dopo una verifica, un funzionario Mm inserisce in sistema questa nota: «Alla prima pratica di anagrafe aggiornare il grado di parentela dei componenti del nucleo famigliare in quanto errato». Secondo i documenti depositati in Procura, quella parentela in realtà non esisterebbe e l’anziana non avrebbe vissuto nella casa di via Inganni. L’intera famiglia di recente s’è spostata in via Bezzecca: qui il compagno sulla carta non compare più («migrato» in un’altra residenza), resta invece presente la zia pensionata, anche se nel palazzo nessuno ha mai visto un’anziana. In alcune schede anagrafiche dell’85enne inserite in «Sepa», infine, alla voce «contatti» compare un cellulare: è quello dell’autista. Collegato all’autista, attraverso un rapporto d’amicizia che molti in azienda conoscono, c’è il nome di un’altra dipendente Mm, una custode. La donna, a metà 2015, presenta la domanda per la casa popolare (17mo bando). Non ottiene subito un alloggio, tanto che il suo nome compare anche nella graduatoria del 19mo «bando»: qui occupa una posizione arretrata, numero 4.147 (su 25.706). Nonostante il posto così basso (a Milano vengono assegnate meno di mille case popolari l’anno) a gennaio 2018 la donna (col figlio) firma un contratto. Quel che spicca è l’indirizzo: via Bergamini 1, palazzo d’epoca in pieno centro, attaccato alla «Statale». Anche in questo caso, è possibile che le pratiche di assegnazione siano perfettamente in regola, ma senza dubbio è una gran «fortuna» che, tra le quasi 60 mila case popolari di Milano, per la maggior parte in periferie «difficili», il caso porti qualcuno a vivere nella zona più pregiata della città. In piazza Dateo 5, palazzo popolare signorile in zona Risorgimento, abita una famiglia molto legata alle case popolari. Lei è animatrice di comitati inquilini, vicina alle ultime due giunte comunali; lui è un ispettore, dipendente della «security Mm», il settore che si occupa di occupazioni e sgomberi. Stando ai documenti dell’anagrafe, i due sono «coniugati»; ma quando si passa alla residenza, le strade si dividono: la donna risiede in Dateo e, sia nella sua «famiglia anagrafica», sia per il «Sepa» Mm, occupa quella casa solo con i figli (a gennaio 2018, su quel contratto, figurava anche un debito consistente). Secondo alcune testimonianze raccolte nel palazzo, anche l’ispettore vive in Dateo, pur se all’anagrafe risulta residente in un altro stabile popolare, in Alzaia naviglio pavese, dove fino a qualche anno fa viveva la suocera.
Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 3 febbraio 2020. La svolta ambientalista di Giuseppe Sala nasce da una chiara esigenza d' immagine: è l'ennesimo tentativo di cancellare la destra che cova dentro per cercare di accreditarsi a sinistra. Parliamo di un manager di Varedo che ogni giorno si trova costretto a dialogare con i consiglieri comunali del Pd, soggetti strani che il nostro uomo osserva come fossero i cugini logorroici di ET. D'altra parte anche gli alieni democratici lo guardano male: di fronte a lui chiunque intuisce di avere a che fare con una persona convinta che la periferia sia quella roba piena di poveri che sta tra casa sua e la strada per andare a Saint Moritz. Così per camuffarsi Giuseppe ha scelto di vestire il verde. Fa il Gretino e lo fa male: prima se l' è presa con chi fuma alle banchine dell' autobus. Comportamento pericoloso per il clima del pianeta quanto un peto (come già illustrato su questo quotidiano da Paolo Del Debbio). Ora ci riprova blocco del traffico. E fino a qui niente di strano per una giunta democratica. Il problema però è aver deciso di imporlo in una delle rarissime settimane dell' inverno milanese in cui le centraline non hanno praticamente mai riportato livelli di pm10 sopra la soglia di attenzione. Aria cristallina: tutti a piedi perché è bello andare a piedi. Che è come ammettere che di fatto questi stop non servono assolutamente a nulla, ma sono soltanto un' operazione di marketing per tener buoni gli elettori più fricchettoni che girano in ciabatte Birkenstock anche con -10 e si spostano solo in tram (mezzo che per uno come Giuseppe deve risultare esotico quanto una carovana di cammelli). E chissà che nella sua stanzetta a Palazzo Marino anche il sindaco non l'abbia pensato: "Massì mandiamoli a piedi anche se non c'è smog, che tanto quegli imbecilli di comunisti mica s'accorgono della differenza". D' altra parte che il primo cittadino non abbia preso sul serio la cosa si è capito quando ha spiegato «io ho la macchina elettrica e potrei circolare, ma siccome voglio dare il buon esempio girerò a piedi». Altra notizia importante: «Penso che farò una gita con la famiglia al Cimitero Monumentale». E il cittadino nel suo piccolo si chiede: ma chi se ne frega? Il problema di Sala in realtà non è l'aria ma l'erba, perché quella del suo vicino di casa - Giorgio Gori - è davvero molto più verde della sua. Fuor di metafora, il sindaco di Bergamo partendo da una città più piccola - 120mila abitanti contro la milionata e oltre di milanesi - è riuscito ad accreditarsi come possibile leader nazionale del Pd. E va sottolineato che l'orobico ha un profilo identico al milanese, ex manager prestato alla politica. Tra i due c'è però una differenza: Giorgio nel partito sta simpatico a tutti, Beppe invece non lo vuole nessuno. Dicono di lui i suoi detrattori: è distaccato, ride poco, manca di spontaneità, dopo 5 minuti smette di ascoltare l'interlocutore, si atteggia più da imprenditore che da politico. Tutti giudizi discutibili in realtà. Per esempio, non è poi così freddo: parliamo di uno che può vantare ben tre ex mogli e un numero di gossip su passati flirt che neanche Leonardo DiCaprio. Nessuno però ha voglia di scommettere su un suo futuro da capo politico. I colleghi del Pd hanno paura che fuori da Milano rischi di risultare come il classico milanese fighetto e che fa il figo a livelli imbarazzanti. E così Sala, che di comunicazione ne sa, ha deciso di cambiare strategie mediatiche. In pratica, ha iniziato a cercare di sporcare la sua serissima immagine provando a sguazzare in mezzo al volgo. Per rendersene conto basta studiare come gestisce i suoi social network. Dalle foto si riconoscono una lunga serie di tentativi di emulazione di Matteo Salvini che risultano credibili come una Sardina sul pratone di Pontida. Salvini pubblica foto in mutandoni dalla Romagna. Sala con costumino di classe a Formentera. Salvini posta la foto mentre divora pezzi di carne di animali selvatici coperti da burro in un qualche rifugio in montagna. Sala si mostra con il cane Whisky al guinzaglio sulle nevi dell' Engadina. Salvini posta la maglietta di Franco Baresi o degli azzurri e polemizza come un comune ultrà con arbitri e società. Sala, in posa da principe Carlo, si fa immortalare con la casacca della nazionale inglese. Salvini si fa la foto con un birrone da Oktoberfest. Sala con la bottiglietta presa in un laboratorio artigianale con un' etichetta di design in milanese. Insomma, ci siamo capiti, quindi evitiamo di commentare le immagini col sindaco al timone di una barca a vela modello Tronchetti Provera o con i calzettini arcobaleno su una sedia di design. E Beppe se ne vanta pure: "Su instagram faccio tutto io, niente staff, è tutta roba mia". Beh, caro sindaco, si vede benissimo. Un certo miglioramento, comunque, va riconosciuto. I primi tentativi di Sala di mimetizzarsi nella folla di centrosinistra avevano rasentato il patetico. Resta indelebile la sua foto ritratto con il magliettone di Che Guevara. Molto curioso per uno che ha passato le prime vacanze dopo aver diretto l'Expo in pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Nel suo guardaroba era spuntato pure un eskimo, probabilmente prestato da qualche amico di Giuliano Pisapia. Una mossa talmente convincente che perfino Dario Fo aveva suggerito di votare il suo avversario di centrodestra, Parisi. Così, di fallimento in fallimento, ieri a tutti i milanesi è toccato subire l'ennesimo tentativo di svolta rossa. Via tutte le auto. Mentre il sindaco annuncia che il prossimo sabato lo passera a Chinatown, per mostrare a tutti che non c' è nulla da temere dal Coronavirus. Una giornata in mezzo a cinesi venuti da un Paese comunista, per prendere ripetizioni. Ma probabilmente questo esame Sala non lo passerà mai.
ANSA il 18 gennaio 2020. - "Entro il 2030 non permetteremo più di fumare all'aperto" e "subito o a breve alle fermate dell'autobus o durante le code per i nostri servizi non si fumerà". Lo ha detto il sindaco di Milano Giuseppe Sala, durante l'incontro con i cittadini nel quartiere Isola, spiegando che questo provvedimento è inserito all'interno del Regolamento Aria-Clima, che sarà discusso prossimamente dal Consiglio comunale e che spera sia approvato entro marzo. "Questa è la visione della Giunta - ha detto -, ogni proposta dovrà passare dal Consiglio comunale" e il possibile stop al fumo potrebbe essere introdotto "attraverso un'ordinanza, se viene approvato il regolamento che conterrà regole su tanti aspetti, perché il vero rischio è che si riduca" la questione ambientale "a traffico e riscaldamento, ma c'è altro" come ad esempio fuochi d'artificio o i forni a legna delle pizzerie. "Devono essere introdotti molti obblighi perché ciascuno faccia la sua parte", ha concluso Sala.
Lettera di Paolo Del Debbio a ''Libero Quotidiano'' il 22 gennaio 2020. Caro Vittorio, il tuo articolo di ieri sulle intenzioni proibizioniste del sindaco Sala di vietarci di fumare per strada – poiché “inquinerebbe più di una locomotiva o di alcune automobili” -, mi ha stimolato (mai parola fu più appropriata) una riflessione profonda, la cui profondità non è data da mie supposte – e non verificate - virtù intellettuali, ma dal suo contenuto, che affonda nelle viscere dell’uomo. Desidererei, per il tramite di Libero, farle arrivare – se tu ritieni - all’attenzione del primo cittadino. Andando al nòcciolo del problema: e con le scorregge come la mettiamo, sindaco Sala? Perché, tutti, ma proprio tutti, le fanno, anche a Milano. Anche chi lo nega, soprattutto le appartenenti al sesso femminile. Siccome, poi, a dato si risponde con dato, eccoci al punto. A Milano vivono un milione e trecentomila abitanti circa. Se aggiungiamo una media di ottocentomila pendolari al giorno, raggiungiamo la ragguardevole cifra di oltre due milioni di potenziali, anzi reali emittenti di ventosità, flatulenze o, per non escludere il Meridione d’Italia, fetecchie. Ma andiamo avanti nel nostro ragionamento, e qui – intendiamoci bene - son numeri, non discorsi. I ricercatori dell’Human Gastrointestinal Physiology and Nutrition Department del Royal Hallamshire Hospital di Sheffield, in Inghilterra, hanno stabilito che, in media, ogni giorno vengono emessi tra i 476 e i 1491 millilitri di gas, per via delle – sempre medie – 11 scorregge giornaliere, per un peso totale di 0,11 grammi a puzzetta. Per arrivare a questo risultato, i ricercatori inglesi, hanno arruolato 10 volontari che, dopo aver mangiato 200 grammi di fagioli, sono rimasti attaccati per 24 ore, tramite apposito catetere rettale, all’apposito recipiente di raccolta dei miasmi, a sua volta collegato alle apposite macchine calcolatrici. Ma andiamo ancora avanti, caro Vittorio, e arriviamo al numero che ci interessa. Ogni scorreggia contiene vari gas nella seguente percentuale: ossido di carbonio 9%, metano 7%, ossigeno 3%, idrogeno 21%, azoto (molto inquinante, come noto) 59%, altro (non vogliamo neanche immaginare cosa) 1%. Facciamo un calcolo: supponendo che i pendolari emettano, in parte, nel loro comune di residenza e che i residenti, sempre in parte, emettano a casa (il sindaco Sala non vuole proibire di fumare a casa, quindi – deduciamo – neanche di ivi scorreggiare), diciamo che realisticamente, a Milano, finiscano per flatulescere, quotidianamente, mille millilitri a orifizio, i quali, moltiplicati per 6 flatulenze al giorno (il 60% di quelle realmente emesse), e per i 2 milioni di residenti o avventizi, viene fuori la seguente cifra: 12 milioni di litri di gas da scoreggia al giorno, emessi alla velocità media di 11,8 km orari. Caro sindaco, le pare poco? Non le pare che occorra un urgente ripensamento in Giunta e, forse, anche in Consiglio comunale, al riguardo? Non sarebbe il caso di coinvolgere anche i Consigli di zona, le associazioni categoria (ad esempio i produttori di fagioli), e molti altri soggetti certamente interessati? Da buoni milanesi (nel mio caso di adozione), comunque, non perdiamoci in chiacchiere (che, tra l’altro ci fanno ingurgitare aria che poi dal medesimo buco in questione dobbiamo espellere), ma andiamo subito a vedere le possibili contromisure da adottare con provvedimenti caratterizzati da necessità ed urgenza. A priori: limitazione immediata, imposta da un’ordinanza a firma del primo cittadino, dell’alimentazione di alimenti gasogeni, ad esempio i succitati fagioli. A posteriori: (luogo dove generalmente è collocato l’orifizio emittente): fornire a tutti, residenti e pendolari, un catetere anale da tenere sempre collegato, nelle ore diurne, e contestuale predisposizione di luoghi di raccolta dei gas di scarico anale; predisporre, al contempo, una organizzazione per la raccolta differenziata (è scientificamente provato che il vegetariano emette gas maggiormente tossici dell’onnivoro); predisposizione di sacchetti da collegare permanentemente al catetere anale in caso di comprovata difficoltà del soggetto – soprattutto in età avanzata - al controllo dello sfintere di emissione. Infine, creazione di una “Area S”, dove è fatto divieto assoluto di scorreggiare, salvo pagamento di un ticket progressivo, adeguato alla capacità contributiva del petante, in relazione all’ultima dichiarazione dei redditi e nel rispetto dell’art. 53 della Costituzione. Sono solo alcuni possibili rimedi, ce ne rendiamo conto, ma sono improvvisati e frutto dell’urgenza della situazione da fronteggiare. Ci riserviamo di approfondire. Con immutata stima. Paolo Del Debbio
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2020. Conosco Sala, sindaco di Milano da parecchi anni e l'ho apprezzato in particolare modo allorché organizzò in maniera magistrale il famoso Expo che contribuì a rilanciare alla grande la città. Quindi mi imbarazza ora parlarne male, però non posso trattenermi. Non so cosa gli sia passato per la mente, ma dicono voglia impedire alla gente di fumare per strada. Io capisco che a lui stiano sulle balle le sigarette e gli riconosco il diritto di combatterle con ogni mezzo tranne uno: vietarle per legge. In casa sua non è lecito accenderne neanche una? Bene, può pretendere questo ed altro: entro le sue mura si vive come egli comanda. Non esiste problema. Un problema invece sorge nel momento in cui il primo cittadino ambrosiano esige che noi ci si astenga dall' aspirare nuvole azzurre per strada, alle fermate dei mezzi pubblici eccetera. È evidente che l' annuncio dei suddetti provvedimenti proibizionistici abbia allarmato i milanesi, i quali si domandano angosciati: Sala sta bene o gli è dato di volta il cervello? Perché al posto di romperci l' anima con certe mattane non si fa i cazzi suoi? Interrogativi non del tutto illegittimi viste le ragioni che lo avrebbero indotto a studiare l'opportunità di strapparci la cicca di bocca. Il sindaco, in sostanza, dichiara che il fumo inquina l'atmosfera della metropoli e la rende irrespirabile. In tale sua convinzione egli è supportato da un medico, pneumologo di fama, il quale asserisce che una sigaretta è più nociva dello scarico di una locomotiva e di alcune automobili. Sarà vero? Nonostante io abbia fiducia nella scienza e perfino, talvolta, negli scienziati non credo a certe esagerazioni che sconfinano nella scemenza. Forse è più salubre l'aria di una pineta che non le nuvolette prodotte dal tabacco combusto, tuttavia da qui a sostenere che esse ne ammazzino di più degli impianti di riscaldamento gestiti dal Comune ce ne corre. Prima di vietare il fumo, che io aspiro da 60 anni e non sono ancora morto, si spengano le caldaie che soffocano la cittadinanza e impongono il blocco della circolazione solo d'inverno. Infatti quando in primavera esse si fermano, lo smog non c'è più.
Sala vuol vietare il fumo in strada. Ma svuota il cielo col cucchiaino. Francesco Maria Del Vigo, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Probabilmente frequentare Grillo nuoce gravemente alla salute. Altrimenti l'ultima sortita del solitamente assennato Giuseppe Sala è inspiegabile. Perché, proprio nel giorno in cui La Repubblica rivela che i contatti tra il fondatore dei Cinque Stelle e il sindaco sarebbero sempre più stretti, Sala se ne esce con una gretinata degna delle migliori teste d'uovo dei grillini: vietato fumare all'aperto. «Entro il 2030 non permetteremo più di fumare all'aperto - ha annunciato con tono trionfalistico il primo cittadino -, e subito, o a breve, sarà vietato alle fermate dell'autobus o durante le code per i nostri servizi». A prima vista sembra il solito delirio dello stato salutista, che tratta i propri cittadini come scolaretti da educare. Salvo poi spacciargli le stesse sigarette che vorrebbe vietare. Ma questa volta è molto peggio, se possibile. Perché la motivazione è ambientale. Non bisogna fumare per non inquinare. Beh, certo, ovvio. A chiunque si faccia un giro per Milano viene subito in mente che la puzza di smog e il cielo grigio siano prodotti da quei quattro cretini che si fumano un pacchetto di sigarette al giorno (chi scrive, a scanso di equivoci, fa parte del club dei cretini). Praticamente, nell'idea di Sala, dalla mia sigaretta escono cirri e nembi carichi di polveri sottili e la mia bocca è un tubo di scappamento. Tra poco ci impediranno anche di digerire, vuoi che la digestione non inquini? Cara Greta, come avevi fatto a non pensarci anche tu? Forse ti converrebbe iniziare a frequentare Grillo. Il problema è che la crociata ambientalista è sempre più una battaglia politica e antiscientifica, nella quale chi meno sa più pontifica. Secondo i dati Ispra (l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) le voci più importanti dell'inquinamento da particolato PM 2,5 sono il riscaldamento (38%), gli allevamenti intensivi di animali (15,1%), l'industria (11,1%) e poi i veicoli (9%). Toh, le sigarette non sono nemmeno contemplate in questa triste hit parade. Non solo, da questi dati si deduce che le politiche ambientali tanto amate a sinistra sono velleitarie e di bandiera. Non servono a nulla se non a rompere le balle ai cittadini, a partire dal blocco saltuario delle auto, che sono solo la quarta fonte di inquinamento. Se Sala vuole fare davvero l'ambientalista, allora dica ai suoi cittadini: da domani spegnete il riscaldamento, dormite col cappotto e il cappello di lana in testa, uscite con quattro maglioni e smettete di mangiare cotolette e bistecche. Pensare di risolvere un problema complesso come l'inquinamento vietando il fumo, è come pensare di svuotare il mare con un cucchiaino da caffè. Basta gretinate. Anche loro nuocciono gravemente alla salute.
Lega incastra Sala sul blocco delle auto: "È fasullo ambientalista". Mozione della Lega in consiglio regionale della Lombardia per annullare lo stop al traffico deciso dal sindaco di Milano. E Senna lo attacca. Alberto Giorgi, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Serve a poco, ma male non fa…". Nonostante abbia ammesso gli effetti risibili nell'ottica di combattere l'inquinamento a Milano, il sindaco Beppe Sala ha comunque annunciato l'intenzione di bloccare il traffico delle automobili sotto la Madonnina. Con il risultato di non abbattere neanche un po' lo smog e di mandare invece in tilt l'intera città, a rischio paralisi per colpo di una misura che si è rivelata ormai essere solo propagandistica e per nulla efficiente contro l'inquinamento dell'aria. E così quella di domenica 2 febbraio sarà la prima domenica senz'auto per i milanesi dal 2015 a oggi. Ai microfoni di Radio Deejay, il primo cittadino ha dichiarato:"Non è che una giornata di blocco totale, tra l'altro bloccheremo il traffico solo dalle 10 alle 18, cambi la situazione…". Ecco, ciò nonostante la su giunta ha optato per lo stop della circolazione. A tirare le orecchie all'inquilino di Palazzo Marino, raccogliendo le istanze di tanti milanesi, ci ha pensato la Lega che oltre a contestare la scelta dell'amministrazione di centrosinistra è riuscita a depositare una mozione urgente in Consiglio regionale contro il blocco del traffico. Gianmarco Senna, consiglio regionale del Carroccio, ha così parlato: "I milanesi sono ormai in balia della pioggia per sapere se il blocco delle auto domenica 2 febbraio ci sarà oppure no, e questa situazione è insostenibile perché sottolinea la totale mancanza di progettualità in tema ambientale". Il presidente Commissione attività produttive di Regione Lombardia ha aggiunto: "Politiche vecchie, fatte di blocchi e divieti, si sono rivelate inutili e dannose. Chiediamo al sindaco Sala di gettare la sua maschera da fasullo ambientalista e di impegnarsi realmente perché Milano diventi una città green, tenendo però conto delle esigenze di chi lavora". Dunque, Senna chiosa: "Il tempo delle promesse (mai mantenute) e delle iniziative di facciata è finito. Ne va della salute dei cittadini…". Duro anche il compagno di partito Andrea Monti, "Il sindaco Sala pensa di poter decidere per tutti gli altri, senza coordinarsi con nessuno, ma soprattutto attuando misure spot, che non risolvono nulla ma servono soltanto ad andare sui giornali…". Nel mentre i valori del Pm10 sono tornati sopra i livelli di guardia e le previsioni del meteo per i prossimi giorni – in cui la pioggia non arriverà – non lasciano scampo alla speranza di potere vedere una sensibile diminuzione delle polveri sottili nell'aria di Milano. E di sicuro costringere i milanesi a tenere nel box o parcheggiate per strada le proprie vetture non è certo il modo per agire in modo sensato e ficcante contro lo smog...
Marta Bravi per “il Giornale” il 30 gennaio 2020. Norme ridicole, obblighi kafkiani e regole folli ecco il bestiario che i consiglieri comunali di opposizione stanno cercando di «normalizzare» a colpi di buon senso ed emendamenti in consiglio comunale. Tra le prescrizioni più paradossali del «Regolamento per il benessere e la tutela degli animali domestici» varato il 3 agosto dalla giunta guidata dal sindaco di centrosinistra Beppe Sala spiccano «l' obbligo, sancito dall' articolo 10, di assicurare agli uccelli da affezione in cattività la presenza di uno o più compagni, salvo i casi di accertata incompatibilità» o al contrario il divieto di «tenere animali in acquari sferoidali» (pena una multa da 100 a 450 euro)». Gli acquari devono avere una lunghezza pari ad almeno «10 volte la misura della specie più lunga ospitata», mentre ai rettili nei terrari va garantita «al minimo una superficie di 100 centimetri quadrati per ogni centimetro di lunghezza dell' animale». Ma chi controlla? La discussione sulla liceità della norma ha tenuto banco per almeno mezz' ora in consiglio comunale ieri pomeriggio: fatta salva l' inviolabilità del domicilio, secondo il parere della segreteria generale, starà al vigile dotato di mandato di perquisizione, o inviato a controllare i lavori all' interno di un' abitazione o accertare l' istanza di residenza controllare le forme e o le dimensioni di eventuali acquari o terrari. Siete padroni di razze canine considerate «pericolose»? Allora dovrete conseguire un patentino dopo aver frequentato un corso di 3 giorni, obbligatorio anche per imparare a portare a spasso il cane. Come la mettiamo con razze come il pitbull? Non è riconosciuta in Italia...Così se il Comune stila la «black list» per certe razze, vieta allo stesso tempo l' utilizzo del collare a strozzo per i cani perché doloroso e nocivo per la salute dell' animale. Merito della tenacia di Forza Italia, con Gianluca Comazzi se il divieto ora prevede delle deroghe dando la possibilità ai cittadini di scegliere se utilizzarlo o meno per l' incolumità e la pubblica sicurezza. Tradotto: in certi casi deve esserci un modo per il padrone per contenere il proprio animale. Altra norma dal sapore kafkiano è quella che prevede per anziani che vengono ricoverati per lungo tempo o soli, o persone poco abbienti o in difficoltà la possibilità di affidare il proprio animale di compagnia al canile o al gattile comunale, non potendo più occuparsene, previo pagamento della «diaria» per l'animale. Una tassa pari a 3/6 euro al giorno, o una somma tra i 200 e i 500 euro per la cessione dell' animale. Così tra le richieste di modifica del regolamento l' introduzione dell' obbligo per i mendicanti di iscrivere i propri compagni di strada in un registro, pena la multa o il sequestro dell' animale. Obiettivo: limitare lo sfruttamento dei cani per l' accattonaggio. Ancora da discutere la proposta di introduzione del divieto di fumo, dopo quello annunciato dal sindaco Beppe Sala alle fermate dei mezzi, nelle aree cani per «tutelare i bronchi degli animali dai danni del fumo passivo e per una questione di decoro e di igiene: i cani e i proprietari vanno rispettati e oggi non è affatto così. Basta mozziconi, che rischiano di essere ingeriti dai cani con enormi rischi per la loro incolumità». «Più che una discussione sul regolamento, oggi la sinistra ha messo in scena un capolavoro da teatro dell' assurdo. Qualcuno dovrebbe spiegare al Pd che i cittadini non necessitano di essere rieducati con obblighi, divieti e inutili bizantinismi. Chi possiede un animale - commenta Comazzi - sa bene come prendersene cura».
Arriva il patentino obbligatorio per cani ritenuti pericolosi. Il consiglio comunale entro la fine del mese dovrebbe approvare il patentino obbligatorio per i proprietari di determinate razze di cani, considerate pericolose. A livello nazionale tutto è gestito dal ministero della salute che però rilascia i corsi su base volontaria senza alcun obbligo, tranne in determinati casi. Salvatore Di Stefano, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Una notizia che certamente interesserà i tantissimi cittadini di Milano proprietari di cani: entro la fine del mese infatti il consiglio comunale del capoluogo lombardo dovrebbe approvare, fra le altre cose, l'obbligo di ottenimento di un patentino per i proprietari di determinati cani, appartenenti a razze ritenute pericolose. In questo elenco compaiono i Pitbull, i Cani Lupo, i Rotweiller, i Bull terrier, gli American Staffordshire Terrier, gli Amstaff, i Corsi e i Doghi argentini. Il corso, al termine del quale verrà rilasciato questo patentino, dovrebbe durare circa tre giorni e sarà curato dal Comune, dall'Ats e dall'Ordine dei veterinari. L'obiettivo che si sono prefissati quelli del comune è quello di consentire ai padroni di conoscere meglio il proprio cane, di essere formati sulla cura e il benessere dell'animale e sulla sua conduzione, basandosi sulle caratteristiche del nostro amico a 4 zampe. Se la proposta dovesse passare è prevista anche la comminazione di una sanzione amministrativa pari a 500 euro per coloro i quali non conseguiranno il patentino. Non sono certamente mancate le polemiche per questa proposta anche in considerazione del fatto che, a livello nazionale, tutto questo è regolamentato direttamente dal ministero della Salute, il quale però a differenza del comune del capoluogo lombardo prevede che a questo corso si possa partecipare in modo facoltativo, senza alcun obbligo, salvo casi ritenuti particolari e per i quali un veterinario ha riconosciuto un determinato animale come a elevato rischio per l'incolumità pubblica. Nello specifico il ministero della Salute ha regolamentato tutto grazie all'ordinanza del 3 agosto 2015, la quale dispone che i comuni e i servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali hanno la facoltà di organizzare percorsi formativi per i proprietari di cani, con rilascio di relativo attestato di partecipazione o, per l'appunto, di patentino. I percorsi formativi avvengono su base volontaria e possono essere promossi e organizzati autonomamente anche dai medici veterinari libero professionisti, informandone però il comune, il Servizio veterinario dell'Azienda sanitaria locale e l'Ordine professionale. L'iniziativa milanese però sta attirando l'attenzione anche a livello nazionale, visto che nel luglio dello scorso anno è stata assegnata alla Commissione Affari sociali una proposta di legge che vuole introdurre il patentino obbligatorio per i proprietari di razze potenzialmente pericolose specificamente elencate, con anche l'obbligo di stipulare una polizza assicurativa per gli eventuali danni cagionati dall'animale. Per chi non rispetta le regole la proposta prevede sanzioni che, per determinate infrazioni, può raggiungere anche i mille euro.
Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2020. Questa storia inizia e finisce con un numero di telefono. Un numero ogni volta diverso, ma sempre attivo. Un cellulare con una rubrica telefonica che vale centinaia di migliaia di euro. Nel 2017, il «Nokietto» con i numeri dei clienti della banda della Comasina al quale rispondeva il centralinista «Frank» è stato venduto a un altro gruppo di narcos per 200 mila euro. Un numero di telefono, un centralinista che smista le chiamate, una rete di «cavallini» già in strada, ciascuno con una zona di competenza e con in tasca 15 dosi di cocaina da vendere a 30 euro ciascuna. Il compenso di ogni cavallo incaricato delle consegne porta a porta è prestabilito: 3 dosi ogni 15 consegnate. Al pusher restano 90 euro, oppure può tenersi le 3 dosi e pipparsele per conto suo. Così si risolve il problema della cresta sulle consegne, della droga che sparisce. Eccola qui la Milano coca delivery. La più grande, redditizia e invisibile industria criminale del capoluogo lombardo. Un sistema che ha cancellato lo spaccio in strada, riservato ad alcune zone della movida e sempre a pusher stranieri. E che, come per miracolo, ha fatto sparire la cocaina dagli occhi dei milanesi. Perché in quella che dieci anni fa era «Coca city», oggi la bamba è un'emergenza inesistente: se ne parla pochissimo, la diffusione è aumentata e grazie a un' enorme operazione di marketing criminale l'acquisto di coca non passa più dai fortini della mala, ma da un semplice numero memorizzato nella rubrica. Gianni, Frank o Natalino. Ogni gruppo di narcos ha il suo, ogni cliente può passarlo a un altro, ogni contatto è rigorosamente anonimo: niente fronzoli, solo la quantità e un indirizzo per la consegna. «La vera piazza di spaccio a Milano non è al bosco di Rogoredo . Ma è nella rubrica dei cellulari di qualcuno» , sostiene il procuratore aggiunto Laura Pedio che coordina le inchieste sulla droga. E nelle sue parole c' è l' evoluzione di un mondo criminale. A tenere le fila sono le storiche famiglie di malavita, quelle calabresi e siciliane, la piazza di spaccio è un mondo virtuale e indefinito saldamente nelle loro mani. Senza allarmi per la sicurezza, senza attenzione da parte della politica.
Quartiere Isola, le 18.16 di giovedì 5 aprile 2018. Al cellulare la voce di una donna di 42 anni, lavora all' Agenzia delle Entrate. Dall' altro capo del telefono c' è lui, Gianni. Accento meridionale, 46 anni, precedenti per narcotraffico e legami con i clan calabresi: «Questo è il numero nuovo, l' altro lascialo stare». Gianni ha cambiato scheda. Ogni volta che accade, per precauzione o per necessità, avverte i clienti. Uno a uno. Lo ha fatto anche alle 3 di notte del 17 settembre 2018, un sms identico inviato a tutta la rubrica: «Ciao ragazzi, sono Gianni. Sono tornato per voi. Preparate gli occhiali da sole, solito menù, lunedì dalle 17 in poi. A presto». Lo riceve una ragazza di 18 anni, origini comasche, studi scientifici e famiglia in Svizzera: «Dal 2017 a fine aprile 2018 ho contattato Gianni per acquistare dosi di cocaina. Ogni volta che cambiava mi scriveva un sms dicendomi che era la sua nuova utenza». Il 6 aprile, in una delle conversazioni intercettate dai carabinieri del Nucleo investigativo nell' inchiesta coordinata dal pm Francesca Crupi (13 arresti), la ragazza chiede a Gianni di mandare qualcuno a «salutarla» in viale Premuda, vicino a piazza Cinque Giornate: «Mi sapresti dire più o meno che macchina ha? Perché se no ogni macchina che passa, che si ferma... vado lì come una cogliona». L' sms con il nuovo numero di Gianni arriva anche a un ragazzo di 31 anni che abita a Porta Venezia: imprenditore, studi di lingue, istruttore di volo. «Ritengo che il riferimento agli occhiali da sole sia relativo allo stato di alterazione post assunzione di cocaina». Il «pediatra» ha invece 42 anni, chirurgo con 11 pagine di curriculum, un incarico di prestigio in un ospedale milanese, abita vicino all' Arco della Pace: «Non conosco Gianni di persona. Dopo la separazione con la mia ex moglie ho avuto importanti manifestazioni dolorose che mi hanno portato ad assumere farmaci che mi provocavano una forte sonnolenza. Per tali ragioni ho deciso in alcune e sporadiche occasioni di assumere cocaina per cercare di stare meglio e lenire il dolore». Nella rubrica c' è anche un ragazzo di 31 anni, casa in Porta Romana: «Il costo era di 30 euro a dose. Ricordo che in più circostanze mi era stato proposto uno sconto: una dose omaggio ogni 5 acquistate». Tra lui e Gianni ci sono 260 contatti solo nel mese di marzo 2018. Poi c' è una donna di 40 anni, giornalista con un lavoro nell' ufficio stampa di una casa di moda. Dice di aver avuto il numero di Gianni «attraverso conoscenze personali» e di «averlo contattato con cadenza settimanale». Ce n'è un' altra di 41 anni che ha avuto il contatto tramite «un vecchio amico di Roma» e inizialmente solo per comprare «hashish a 70 euro al pezzo». C' è l' imprenditore, l'agente di commercio, lo studente, il barista. Tutti con l' identica versione della storia. La banda di piazza Prealpi aveva invece «Natalino». I suoi uomini coprivano due zone della città: da piazzale Zavattari a piazzale Maciachini e da piazza Roserio a corso Sempione. Le consegne avvenivano in orari quasi da ufficio. Identico portafoglio dei clienti. Come la manager di una multinazionale di 48 anni, casa vicino a corso Sempione: «Compro da lui da un anno, due dosi a settimana. L' ultima l' ho presa ieri», mette a verbale una volta interrogata dai carabinieri. Da Natalino si riforniva anche uno studente pugliese, oggi 39enne rampante e stimato avvocato e una informatrice scientifica di 53 anni, casa in zona Portello: «Faccio uso saltuario di coca da vent' anni, da quattro compro solo da Natalino». Non esistono statistiche in grado di quantificare l' enormità del fenomeno. Nel 2018 la sola polizia ha sequestrato a Milano 265 chili di cocaina. Tra gli investigatori si ipotizza che si riesca a intercettare solo il dieci per cento dei carichi. Le proporzioni sono presto fatte. È come se a Milano, su 1 milione e 400 mila abitanti compresi anziani e bambini, si consumasse una media di 2 grammi di polvere bianca a testa. Il tutto senza evidenti conseguenze sul fisico, sulla capacità di lavorare, e soprattutto sulle reti relazionali. Non è più lo status symbol degli anni Novanta, la «botta» di coca è percepita come un doping lavorativo, un «volano» per amicizie, affari e relazioni. L' ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa) dice che in Lombardia si è concentrato il 16% delle operazioni contro il narcotraffico: 4.098 indagini nel 2018, con un incremento del 13,5%. Più di una su due riguarda Milano (2.426). L' attività antidroga della Procura è affidata al coordinamento tra la Dda di Alessandra Dolci e il dipartimento guidato dall' aggiunto Laura Pedio: «Rogoredo è un discount, abbiamo una qualità di bassissimo livello e anche prezzi da svendita - ha spiegato il magistrato lo scorso 22 ottobre davanti alla commissione antimafia guidata da David Gentili -. Basta un telefonino per avere una piazza di droga, in un telefono ci sono contatti che equivalgono a una piazza di spaccio». Una volta il sistema della consegna a domicilio o del pusher di fiducia era riservato ad ambienti di un certo livello. Oggi il coca delivery è su larga scala, è diventato un' enorme piazza di spaccio virtuale. Il capo, un personaggio di alto livello criminale spesso rifornito da trafficanti calabresi legati alla 'ndrangheta, risponde al telefono-centralino. Il meccanismo è spiegato dall' ex trafficante e oggi collaboratore di giustizia Laurence Rossi, 42 anni: «Costoro gestivano i cavallini i quali svolgevano turni h-24 di 8 ore ciascuno al termine dei quali si passavano tra loro il Nokietto con il nominativo e il numero dei clienti». Sono almeno dieci le organizzazioni che in questo momento «coprono» con una suddivisione rigorosa tutto il territorio di Milano. Il cavallo spesso è incensurato, si muove in auto o in motorino. I clienti ne descrivono a decine: abiti casual, capelli curati, modi garbati. A volte arriva con la fidanzata al seguito. La droga viene consegnata in bustine ricavate dai sacchetti gelo e «saldati» con un accendino. Il cavallo arriva, saluta, prende i soldi, passa il pacchetto e riparte. In alcuni casi la coca viene lasciata dietro a una cabina o a una cassetta postale. Senza neppure bisogno di uno scambio a mano. Questo aspetto è rilevante anche da un punto di vista sociologico perché ha eliminato la commistione tra i due mondi: quello dei consumatori e quello criminale. Tra il mondo di sopra e quello di sotto.
Via Gola, la zona franca dell’illegalità: tra incendi dolosi, occupazioni abusive e droga. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 da Corriere.it. Non si “limitano” al lancio di bottiglie e oggetti vari contro un vigile del fuoco impegnato a spegnere un incendio appiccato a un cumulo di rifiuti in mezzo alla strada. I delinquenti - come dimostra un video girato la notte di San Silvestro in via Gola - insultano ripetutamente l’uomo con l’idrante in mano, fatto oggetto di cori di scherno e risate. La strada del quartiere Ticinese, anche l’ultimo dell’anno, conferma la sua fama di fortino dell’illegalità, nonostante gli sforzi continui delle forze dell’ordine. Una strada di caseggiati popolari dove - grazie a un sistema di occupazioni abusive consolidato negli anni - spacciatori nord e centro africani hanno eretto una sorta di quartier generale, dal quale viene gestito il commercio di droga al dettaglio nelle zone della Movida milanese, a partire dai vicinissimi Navigli. Un “sistema” descritto dal Corriere della Sera a giugno 2019, a seguito dell’arresto di sei spacciatori africani, presi dai carabinieri. Gambiani senegalesi e ivoriani, di solito, sono attivi di notte sui ponti del Naviglio pavese, dove piazzano soprattutto microdosi di marijuana. Ma i padroni della piazza sono i marocchini, le cui bande contano su abitazioni, covi e appoggi logistici nel reticolo di palazzi Aler occupati illegalmente proprio in via Gola. Sono i nordafricani, secondo fonti di polizia e carabinieri, a reggere le fila della vendita di cocaina, le cui dosi vengono consegnate all’interno di cortili sorvegliati da vedette e sempre più difficilmente penetrabili da parte delle forze dell’ordine. La notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio 2020, invece, la strada è stata teatro di vandalismi e teppismo di strada, come testimoniato dai vigili del fuoco. Ci hanno accerchiato. Tirato bottiglie e rubato le chiavi dell’autopompa, non permettendoci di fare il nostro lavoro» si legge nella pagina Facebook che racconta l’accaduto. Nelle immagini si vede un operatore intento a spegnere l’incendio che scansa un oggetto lanciatogli contro, poi numerosi giovani che urlano e si prendono gioco delle forze dell’ordine intervenute. «Solo l’intervento delle Volanti della PS e una Botte a supporto ci ha permesso di spegnere l’incendio di rifiuti buttati in mezzo alla strada. subito dopo la mezzanotte» conclude il post.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Valle d’Aosta.
Da "Ansa" il 16 dicembre 2020. Sono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa due ex presidenti della Regione Valle d'Aosta, Renzo Testolin, attuale consigliere regionale dell'Union valdotaine, e Laurent Viérin, con l'ex consigliere regionale Luca Bianchi. Un atto dovuto, da parte della Dda di Torino, dopo la trasmissione degli atti della sentenza del processo Geenna da parte del Tribunale di Aosta, che segnala "indizi del reato" a loro carico. Sono stati iscritti nel fascicolo dell'inchiesta Egomnia sulle elezioni regionali del 2018.
Daniele Mammoliti per “la Stampa” il 9 dicembre 2020. L'occhio elettronico della webcam immortala quello che ha tutta l'aria di essere un assembramento di alcune centinaia di persone su un piazzale innevato in attesa della seggiovia. Le immagini diventano oggetto di passaparola e dopo qualche giorno quella stessa webcam resta sì accesa, ma con una spiazzante pennellata di pixel grigi ben localizzati, a impedire di vedere ancora i movimenti sul piazzale. Accade a Cervinia, nella valdostana Valtournenche, una delle regine delle località sciistiche italiane già finita nella bufera quando, alla fine di ottobre, aveva dato il via alla stagione - poi immediatamente chiusa - in una folle giornata di code e gente ammassata. Il nuovo presunto «incidente di percorso» risale a quasi una settimana fa, ed è ricostruibile attraverso le immagini di un servizio di webcam panoramica in grado di mostrare, ogni giorno dalle 7,30 alle 17, tutto il comprensorio di Cervinia, con vista a 360 gradi, in pochi click tramite pc o smartphone. Esplorando le immagini dello scorso 3 dicembre - quando, peraltro, la valle d' aosta era ancora zona rossa - l' attenzione si ferma, in particolare, sulla partenza della seggiovia di Plan Maison, a quota 2500 metri. Fino alle 8,20 del mattino, con il sole che albeggiando dipinge d' oro le nevi della montagne, non si vede nessuno. Poi, però, qualcosa inizia a muoversi. Alle 8,30 si notano almeno due gruppi, tra loro ben distanziati ma ognuno costituito da qualche decina di persone tutte vicine. Dieci minuti dopo i due gruppi diventano una sorta di serpentone che alle nove meno dieci torna a dividersi in due frazioni, tuttavia sempre più numerose. Quello più vicino alle partenza della seggiovia, in particolare, è tanto denso da apparire come un' unica macchia scura sulla neve. Tra le 9 e le 9,10, quando il sole è sorto del tutto e illumina il piazzale, si arrivano a contare almeno 300 persone. La folla alla spicciolata sale sulla seggiovia e bisognerà aspettare le 9,50 perché sul piazzale non si veda più nessuno. A sorprendere ancora di più, tuttavia, è quel che accade due giorni dopo. Nella mattina di sabato 5 dicembre quella stessa webcam panoramica inizia ad avere un comportamento quantomeno anomalo: si vede tutto, tranne la partenza della seggiovia di Plan Maison, letteralmente cancellata da quella che gli esperti di fotoritocco chiamano «pixellatura», cioè il mascheramento di una porzione di immagine, come quella che viene utilizzata per rendere irriconoscibili i volti. Da quel momento ogni movimenti sul piazzale della seggiovia è celato. «Sinceramente non so di cosa stiate parlando» è la prima reazione di Matteo Zanetti, presidente e amministratore della Cervino spa, la società che gestisce gli impianti non solo di Breuil-Cervinia e Valtournenche ma anche di Chamois e Torgnon. «A noi - dice Zanetti - non risulta alcun assembramento. Stiamo controllando in maniera maniacale tutto il comprensorio e siamo sicuri. Se c' era gente alla partenza della seggiovia erano atleti, visto che si allenano da noi» in virtù di quanto prevede il dpcm del 3 novembre. «Certo, sono tanti, anche 600-700. Ma voglio sottolineare che ogni sera ci viene mandato un elenco di chi arriverà al mattino e scaglioniamo i gruppi per le partenze. Poi non so se quel giorno l' impianto ha avuto problemi». E sulla webcam che rimanda immagini modificate risponde: «per quel che ne so c' è una telecamera puntata su Plan Maison che è stata spenta perché il vento la faceva traballare». Ma la web cam non è spenta, riporta solo immagini parziali: «Non so cosa dire, verificheremo. Cado dal pero e mi sembra che si voglia scavare nel torbido. Sono 40 giorni che lavoriamo perché tutto funzioni per il meglio e forse c' è un tentativo di strumentalizzazione».
Partiti e ’ndrangheta, Aosta sotto shock: condanne fino a 10 anni per i politici ritenuti collusi. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 18 settembre 2020. In Valle d’Aosta adesso sono stati condannati anche i politici collusi con la ‘ndrangheta. È una sentenza storica quella pronunciata dal Tribunale penale di Aosta, che si aggiunge a quella emessa nel luglio scorso col rito abbreviato nell’ambito di un altro troncone del processo scaturito dall’inchiesta che portò all’operazione Geenna. Il collegio giudicante ha condannato tutti e cinque gli imputati che hanno scelto il rito ordinario: dieci anni sono stati inflitti al consigliere regionale sospeso Marco Sorbara, altrettanti all’ex assessore di Saint-Pierre Monica Carcea, undici al consigliere comunale di Aosta Nicola Prettico, 13 al ristoratore Antonio Raso e undici al dipendente del Casinò di Saint-Vincent Alessandro Giachino. Mentre i primi due erano imputati di concorso esterno in associazione mafiosa, gli altri erano accusati di essere organici alla ‘ndrangheta della Valle d’Aosta. Raso, però, è stato assolto dall’accusa di voto di scambio politico-mafioso per le elezioni comunali del 2015 a Saint-Pierre, anche se per lo stesso reato è stato condannato in relazione alle elezioni di Aosta. Il Tribunale ha disposto il risarcimento per la Regione Valle d’Aosta, i Comuni di Aosta e Saint-Pierre e l’associazione Libera, costituitisi parte civile. Soltanto due mesi fa, nell’altro filone processuale, il primo riconoscimento giudiziale dell’ndrangheta in Valle D’Aosta”: furono tutti condannati i dodici imputati che avevano optato per il rito abbreviato. Tra gli imputati comparsi davanti al gup distrettuale di Torino c’erano anche i presunti vertici di un “locale” di ‘ndrangheta accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione tentata e consumata, traffico di droga, detenzione e ricettazione di armi, tentato scambio elettorale politico-mafioso. La pena più elevata, a 12 anni e 8 mesi di reclusione, era stata inflitta a Bruno Nirta. Fra gli imputati c’era anche un avvocato penalista torinese, Carlo Maria Romeo, condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione. Ma il processo può vantare un altro primato. E’ il caso del Comune di Saint Pierre in Valle d’Aosta, il primo in assoluto sciolto per mafia nella regione, le cui vicende non possono essere lette in maniera disgiunta da fatti giudiziari che si intrecciano con lo scioglimento del Comune di San Giorgio Morgeto, nel Reggino, in quanto in entrambe le amministrazioni – coinvolte nell’inchiesta “Geenna” – sono state riscontrate infiltrazioni della stessa cosca di ‘ndrangheta. “Geenna”, nome in codice per il blitz scattato nel gennaio 2019, è una citazione dalla Bibbia: significa luogo di eterna dannazione, luogo dove gettare le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti. Nirta, del resto, detto “la bestia”, 62 anni, di San Luca, è l’imputato di maggiore caratura criminale. Ma sarebbe un errore pensare che la ‘ndrangheta, dopo aver allungato i tentacoli su tutto lo Stivale, sia arrivata soltanto ora in Valle d’Aosta, visto che ormai andava a braccetto, a quanto pare, con pezzi di istituzioni, professionisti e imprenditoria di quella regione facendoci affari. Il pentito Daniel Panarinfo, un giovane di Torino ma di origini calabresi e precisamente di San Luca, che trafficava droga dal Sudamerica in Italia ed era legato ai Nirta, ha svelato che ad Aosta esisteva un “locale” di ‘ndrangheta da molto tempo. “Da una vita”, ha detto letteralmente in aula.
· Succede a Torino.
Torino, il giudice conferma: "In procura la cricca dei favori esisteva davvero". Sentenza del tribunale civile respinge la richiesta di risarcimento di uno dei protagonisti. Ottavia Giustetti il 02 marzo 2020 su La Repubblica. Non c'è dubbio che una cricca sia esistita davvero, e abbia trovato terreno fertile all'interno della procura di Torino, quantomeno da gennaio 2016 ad aprile del 2018. E' un giudice civile il primo ad affermarlo, in una sentenza che riconosce la legittimità di quella espressione giornalistica - " cricca" - usata per raccontare le cronache di quanto è accaduto intorno ad alcuni uffici al sesto piano del Palazzo di giustizia in quei mesi. Si tratta di un pronunciamento che mette un primo punto fermo in quella storia dolorosa, che ha inaspettatamente travolto l'ufficio giudiziario e tutti suoi equilibri nella primavera del 2018. In molti, allora, avevano tentato di sminuire la gravità dei fatti, raccontati sulla scia di una indagine penale partita sempre dalla procura di Torino. E avevano stigmatizzato i giornali che ne riportavano gli episodi, più che le persone che se ne erano rese protagoniste. Il tribunale di Torino invece, con la sentenza del 18 febbraio spazza via ogni precedente indulgenza, respingendo le lamentele dell'avvocato indagato, che si era sentito danneggiato da quella lettura dei fatti e chiedeva un risarcimento a Repubblica. " Nel bilanciamento tra diritto all'informazione e diritti della persona alla reputazione e alla riservatezza - obietta il giudice Giacomo Oberto - , il primo tendenzialmente prevale sui secondi, atteso che l'esercizio della sovranità popolare, solo in presenza di una opinione pubblica compiutamente informata può correttamente dispiegarsi ". La cricca, dicevamo. Impossibile sostenere che non sia mai esistita. Anche solo per il fatto che l'espressione è stata utilizzata dagli stessi protagonisti della vicenda. "Gli atti di indagine, poi, dimostrano in modo lampante l'esistenza di un complesso intreccio di favori reciproci aventi, secondo gli inquirenti, rilevanza penale, all'interno degli uffici della Procura della Repubblica di Torino, fra l'avvocato Bertolino e l'appuntato Renato Dematteis (assegnato all'ufficio del pubblico ministero dott. Padalino), e gli altri imputati - scrive il Tribunale - . Tale intreccio di favori giustifica, senza ombra di dubbio, l'utilizzo dell'espressione giornalistica "cricca di favori"". I fatti sono riassunti brevemente: è " una circostanza incontestabile " che l'appuntato Renato Dematteis, violando i propri doveri d'ufficio e i criteri di assegnazione automatica dei procedimenti, "facesse in modo che determinati procedimenti penali fossero assegnati in carico al pm Padalino e che l'avvocato Bertolino fosse, effettivamente nominato difensore, fornendo al medesimo informazioni sui procedimenti a cui non avrebbe dovuto avere accesso. Così, di fatto, piegando le procedure giudiziarie a scopi di natura personale dei soggetti coinvolti". Ne deduce il giudice che non sono illegittime nemmeno espressioni come " organizzazione parallela", "volte a evidenziare come i soggetti coinvolti nelle indagini facessero in modo di deviare il normale corso dei procedimenti penali " . Nessun dubbio neppure sulla "veridicità " dei fatti raccontati. E riguardo alla " pertinenza " , dice il tribunale, " potrebbe veramente dirsi che res ipsa loquitur ( i fatti parlano da soli)". Infine, risponde il giudice a chi obiettava che nessun personaggio pubblico fosse coinvolto nei fatti, e che perciò il diritto alla riservatezza dovesse prevalere: " Allorquando si è protagonisti ( o co- protagonisti) di avvenimenti del genere, inevitabilmente, piaccia o meno, personaggi pubblici si " diventa" ".
Giulia Ricci per il “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2020. «Non è possibile, non è proprio possibile». Sono le prime parole che il papà di Filomena, Francesco Nerone, ha pronunciato, prima incredulo e poi arrabbiato, davanti all' ascensore guasto alla stazione della metropolitana di Torino. Poi, la decisione: ha preso la figlia disabile di 46 anni in braccio e l' ha portata su per le scale mobili, la carrozzina abbandonata al fondo della rampa. È questa l' immagine che ha fatto il giro del web, immortalata in un video dalla moglie, Marisa. «So che non si dovrebbe fare - racconta il papà - perché è pericoloso, ma io sono anni che faccio questa vita, so come muovermi. All' inizio non avrei neanche dovuto accompagnarle, ringrazio di aver cambiato idea». La moglie è presidente dell' associazione «Isola che non c' è», che si occupa di insegnare ai ragazzi disabili come affrontare gli ostacoli quotidiani. Proprio come quello che le si è parato davanti ieri, mentre cercava di fare una cosa che lei stessa definisce «semplice»: portare la figlia dal dentista. «Erano le dieci e dieci del mattino - spiega Marisa - l' appuntamento era alle dieci e mezzo: ci siamo ritrovati davanti all' ascensore rotto, senza un cartello, un' indicazione, niente. A quel punto, avevamo due opzioni: la prima era quella di tornare indietro e salire da un' altra stazione, per poi fare un pezzo a piedi. Ma noi siamo persone puntuali. E così abbiamo scelto la seconda, anche se io non ero del tutto d' accordo». E così, la carrozzina è rimasta al fondo delle scale, e il padre ha preso in braccio la figlia: con una mano la teneva forte, con l' altra si appoggiava al mancorrente. Poi, finita la rampa, è stata Marisa a reggere Filomena tra le proprie braccia, perché il marito potesse andare a recuperare la carrozzina. «Mia figlia sembra una ragazzina - continua -, ma ha 46 anni. E mio marito è appena uscito da un infarto. Facciamo tutto quello che possiamo, anche se non è giusto. Ed è assurdo che tutto ciò accada nel 2020». Non è la prima volta che la coppia si ritrova ad affrontare una situazione del genere: «Sono problemi all' ordine del giorno - spiega Francesco -; ci si riempie la bocca dell' eliminazione di barriere architettoniche, ma chi lo vive sa che si fa ben poco. Ma mia moglie è combattiva». Così Marisa ha mandato il video a Silvio Magliano, capogruppo dei Moderati in Consiglio regionale e in Comune: «Evidentemente - dice Magliano - è questa l' attenzione che la giunta della sindaca Chiara Appendino dimostra di avere per le persone con disabilità». Lunedì, la prima cittadina di Torino dovrà rispondere del tema. E, come per magia, dopo tre mesi di stop, ieri sera l' azienda di trasporto pubblico torinese, Gtt, annuncia: «L' ascensore è stato riparato. Chiediamo scusa alla famiglia». Ma intanto la vita di chi ha una disabilità continua a essere irta di ostacoli. E non tutti hanno la forza di Marisa e Francesco: «Arrivata dalla dentista - conclude la donna - mi ha raccontato di quanti suoi pazienti, disabili, non riescano a raggiungerla per i problemi dei mezzi pubblici. E allora mi chiedo: se fosse successo a un ragazzo da solo, quei ragazzi che lottano per essere autonomi?».
Torino, falso in atto pubblico e abuso d'ufficio: i pm chiedono un anno e 2 mesi per la sindaca Appendino. La sindaca Appendino stamattina a Palazzo di giustizia con l'avvocato Chiappero. La requisitoria per il processo Ream. Stessa richiesta per l'assessore al Bilancio, Rolando, un anno per l'ex capo di gabinetto Giordana. Prima cittadina in aula: "Era giusto esserci". Sarah Martinenghi il 06 febbraio 2020 su La Repubblica. “Condannate la sindaca Chiara Appendino a un anno e due mesi”: così la procura ha chiesto questa mattina la condanna per falso in atto pubblico e abuso d’ufficio nel processo Ream che si sta celebrando con rito abbreviato. La richiesta è stata invece di un anno e due mesi anche per l’assessore al Bilancio Sergio Rolando e di un anno all’ex capo di gabinetto, Paolo Giordana. "Sono stata qui solo per ascoltare la pubblica accusa. Era giusto esserci". E' quanto ha detto Chiara Appendino lasciando Palazzo di giustizia dopo la richiesta di condanna. "Abbiamo ascoltato i pm, esporremo le nostre ragioni. Siamo convinti del corretto operato dei nostri assistiti. Vedremo cosa deciderà il giudice". Così Luigi Chiappero, difensore della sindaca. I procuratori aggiunti Enrica Gabetta e Marco Gianoglio hanno parlato a lungo, oltre quattro ore, per convincere il giudice Alessandra Piffner della responsabilità degli imputati nell’aver “cancellato” il debito da 5 milioni di euro con Ream dal bilancio del 2017 della città. Il procedimento ruota intorno alla lunga vicenda sull’acquisto dell’area ex westing house, che aveva portato ream a versare una caparra da 5 milioni di euro per assicurarsi un diritto di prelazione. Ad aggiudicarsi l’area era stata invece un’altra società, la Amteco&Maiora per 19,7 milioni di euro. Nel 2017 il Comune avrebbe dovuto restituire il debito a Ream inserendo la relativa voce nel bilancio pubblico. Ma ciò non avvenne, ottenendo così un pareggio dei conti. Appendino, Rolando e Giordana hanno chiesto il rito abbreviato; un quarto imputato, il direttore finanziario di Palazzo Civico, Paolo Lubbia, ha scelto invece il rito ordinario.
Torino, l'ex parlamentare diventa netturbino: "Sono per l'economia circolare, a forza di narrazioni mi perdevo le azioni". Davide Mattiello, Pd, a Montecitorio dal 2013 al 2018, da sempre impegnato per l'ambiente, ora raccoglie carta da riciclare per la coop Arcobaleno. Camilla Cupelli il 04 febbraio 2020 su La Repubblica. Da parlamentare a netturbino "per l'economia circolare": Davide Mattiello, ex parlamentare Pd torinese e presidente della Fondazione Benvenuti in Italia, si reinventa diventando autista e raccoglitore di carta e cartone in giro per la città, per conto della cooperativa Arcobaleno. "Il 2020 è iniziato con questa scelta di campo. Obiettivi: non pesare sui bilanci del movimento, ritrovare la strada, le periferie, le persone in carne ed ossa… insomma: la realtà, perché a forza di narrazioni stavo rischiando di perdermi le azioni. È un lavoro complesso, ci prendiamo cura dell’ambiente mettendo in pratica l’economia circolare che tende al rifiuto-zero" spiega lo stesso ex parlamentare su Facebook. Mattiello, un passato nel mondo del sociale torinese tra Acmos e Libera, è stato parlamentare dal 2013 al 2018. Durante l'ultimo anno è stato (ed è ancora) presidente della Fondazione Benvenuti in Italia e ha invece iniziato la sua nuova occupazione due giorni fa. Un nuovo seguace di Greta Thunberg? Certamente, anche se proprio con Acmos, associazione della quale è stato per anni presidente, ha iniziato da tempo a proporre laboratori e attività di sensibilizzazione sul tema del cambiamento climatico e dell'ecologia. Casa Acmos, in via Leoncavallo, è infatti da ormai quasi 20 anni laboratorio di esperienze dove giovani universitari provano a vivere in modo diverso dal comune, facendo attenzione ai consumi e cercando di ridurre al minimo il proprio impatto ambientale.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede in Liguria.
Da today.it il 9 settembre 2020. Due nuovi fascicoli aperti dai pubblici ministeri di Genova e Savona dopo una denuncia della Rete L'Abuso, associazione fondata da Francesco Zanardi, chiamano in causa Padre Luca Bucci, fratello del sindaco di Genova Marco. Ma lui nega ogni coinvolgimento. L'esposto datato 30 luglio è fondato sulla testimonianza di un operaio di un piccolo comune del savonese che, come racconta oggi Il Fatto Quotidiano, nel 1994, quando aveva 12 anni, dice di aver subito abusi da "Padre Luca", ovvero uno degli educatori dei campi dei frati cappuccini a Loano. Tramite una fotografia, l'operaio riconosce il presunto abusatore in Luca Maria Bucci, frate nel convento di Santa Margherita Ligure, medico e cappellano all’ospedale di Rapallo. E fratello minore del sindaco di Genova, Marco. Venerdì 4 settembre, la Squadra Mobile di Savona, su delega del pm Giovanni Battista Ferro, ha ascoltato la presunta vittima in audizione protetta, alla presenza di uno psicologo. Anche se i fatti del 1994 sarebbero prescritti, gli investigatori vogliono vagliare l’attendibilità della denuncia e ricostruire i contorni della vicenda, che potrebbe dar luogo a responsabilità civile. Non solo. Nell’esposto, Zanardi fa riferimento a una segnalazione più recente che coinvolgerebbe sempre padre Bucci, arrivata – dice – alla sua associazione all’inizio del 2017: “La sottovalutammo in quanto a Genova si svolgevano le elezioni comunali e pensammo a una strumentalizzazione di carattere politico”, scrive. Inoltre, “per i presunti fatti (…) che si sarebbero consumati in Genova, non avevamo nessun nominativo di presunte vittime”. Raggiunto dal Fatto, padre Luca nega qualsiasi coinvolgimento nella vicenda e dice di non essere a conoscenza di accuse a suo carico.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)
· Succede a Bologna.
Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 15 dicembre 2020. Grassa, laida e bottegaia. L' ho incontrata così nel 1974. Gli affittacamere ti strozzavano per una stanza malconcia e con «uso moderato» della cucina. Ero una studente che arrivava dalla bassa provincia milanese, e Bologna era la città più attrattiva del mondo. A sedurmi fu la gioia, la creatività vivace e trasgressiva di quella marea di universitari fuorisede, e l' autobus gratis per gli studenti. Non c' è più nulla di tutto questo, nemmeno il grasso dei bottegai, diventati più cupi, preoccupati, diffidenti. Da anni è diventata sporca, e ci sono strade infrequentabili per la quantità di immondizia che la giovane umanità riesce a produrre in una serata davanti ai baretti. È diventata anche avara. Vuole la fattura? Allora costa un po' di più, perché non ci si sta dentro, sa con tutte le spese che abbiamo! Eppure sono ancora lì. D' accordo, è una città comoda, ci sono i portici, non usi l' ombrello, vai dove devi andare a piedi, perché è tutto a portata di mano, anche in collina ci arrivi in un quarto d' ora camminando. Non ti annoi: tanti musei, molto cinema, musica per strada, attività in Piazza Maggiore... e sempre tanti studenti dappertutto. Sembra perfino una città giovane. In un' ora sei a Milano, in due a Roma, in 1 e mezzo a Venezia. Più voli al giorno ti portano a Parigi, Bruxelles, Londra, Francoforte, e da lì vai dove vuoi. Più comodo che andare a Malpensa. Tutto questo ovviamente in tempi normali. Tuttavia la pandemia non l' ha trasformata in una città piagnucolosa. È così e basta. Ora ho un' altra età, e prenotare un appuntamento per fare il vaccino antinfluenzale con il medico di base oggi, e lui te lo fa dopodomani, non è banale. Quando devi tirare le fila, avere dei servizi che tutto sommato funzionano, perfino l' asilo nido, sembra quasi una benedizione. Ma se devo dire perché non andrei ad abitare da un' altra parte, i motivi sono due. Il primo è un legame drammatico: ero lì il 2 agosto dell' 80. L' altro è romantico: le donne di una certa età il sabato sera hanno voglia di andare a ballare.
· Si vota a “Ad Minchiam”.
Perché l'Emilia-Romagna è la cerniera d'Italia. È una regione che da sempre unisce e divide il paese. Oggi può diventare una frattura, non solo politica. Se il pragmatismo si capovolge nel massimo cinismo del voto: E se per decenni è stato un modello di economia, welfare e sindacato, il nuovo millennio ha cambiato tutto. Marco Belpoliti l'8 gennaio 2020 su L'Espresso. Non sono in molti a farci caso, perché nelle cartine geografiche appese a scuola la Penisola sembra dritta, quasi verticale; in realtà è più inclinata di quanto venga raffigurata, e in questa piccola pendenza l’Emilia-Romagna è la regione cerniera. Sebbene situata al di qua dell’Appennino, la vera spina dorsale del Paese, luogo oggi abbandonato da tutti, questa regione dal doppio nome è la zip che unisce o separa, a seconda dei casi, l’Italia. Lì è nato il socialismo, la cooperazione e poi il Fascismo, lì la Resistenza è durata almeno altri tre anni dopo il 25 aprile 1945, lì è nata la Democrazia cristiana riformista e keynesiana e il monachesimo di don Giuseppe Dossetti, lì è sorto il nucleo fondatore delle Brigate Rosse e lì il terrorismo nero ha colpito in profondità facendo esplodere la stazione del suo capoluogo. Una regione doppia, collegata da un segno paragrafrematico, la lineetta o trattino lungo, che unisce due realtà territoriali e storiche assai diverse. La prima, l’Emilia, Aemilia, nasce da una strada che il console Marco Emilio Lepido crea nel 189 a.C. per collegare Rimini a Piacenza, un asse che è rimasto ancora oggi quasi identico nel suo tracciato, tanto da attraversare come una lancia i centri storici delle città edificate su antichi accampamenti romani, che si succedono le una alle altre con un ritmo identico. Dopo le guerre puniche i Romani hanno disegnato alla pianura, che si estende da un lato e dall’altro della via, attraverso il sistema della centuriazione, che essi usavano per colonizzare e distribuire le terre conquistate: un modo mediante cui lo Stato romano controllava la proprietà privata dei cittadini. La Romagna attuale nasce invece come Flaminia e, a differenza di quello che si sarebbe portati a credere per via dei suoi confini – Appennino a sud, Mare Adriatico di fronte e Po come limite verso Nord - è solo nel 1894 che un ingegnere di Forlimpopoli, Emilio Rossetti, ne dà la definizione quasi stabile includendovi Ravenna, Forlì e Cesena. Nessuna regione ha infatti avuto i confini così instabili come questa porzione di terra che oggi tutti noi abbinano al mare, alla piadina e a Pantani. Certo, c’è Ravenna, antica capitale dell’Impero, dove Augusto aveva posto la sua flotta, scegliendola per la sua facile difesa: il mare davanti per la fuga e alle spalle le paludi, che portarono alla morte il sommo poeta Dante. La Romagna dei mangiapreti, dei socialisti, dei repubblicani, degli anarchici e degli anticlericali trae la propri origine dalle Legazioni pontificie, che includevano anche Bologna la dotta con la sua Alma Mater, la più antica università del mondo. Lì regnavano i Papi e i loro legati. I confini di questa Romagna, prima socialista e poi fascistissima, li definì il Duce stesso, nato a Predappio, che spostò in provincia di Forlì le foci del Tevere, fiume fatale dell’Impero. Come spesso accade sono ancora una volta gli stereotipi a dare l’impronta alle due regioni che oggi sono una sola, e che tuttavia mantengono caratteristiche diverse nel dialetto e nel costume. Gli emiliani sono diretti, pratici, edonisti e materialisti; i romagnoli sono sanguigni, pugnaci e rissosi. Piero Camporesi in un suo scritto sullo stereotipo dei romagnoli ha smontato e insieme confermato questa seconda identità, Di certo entrambi, emiliani e romagnoli, aderirono quasi immediatamente ai sommovimenti della rivoluzione francese nel 1789. In molte città dell’Emilia s’eresse l’Albero della libertà e il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia nacque il tricolore, bandiera della Repubblica Cispadana. Ma cosa definisce l’Emilia e la Romagna, cosa c’è nel loro Dna oltre al Lambrusco e al sangiovese, al parmigiano-reggiano e alla piada? Di sicuro la nebbia è stata a lungo uno degli aspetti che più ha segnato il paesaggio d’entrambe. La nebbia cantata da Giovanni Guareschi come da Gianni Celati, descrive il confine esteriore e quello interiore degli emiliani e dei romagnoli; questo è lo spazio in cui ci si perde e ci si ritrova, come accade nella celebre scena di Armarcord di Federico Fellini. L’idea stessa di provincia, come luogo di solitudine e insieme di riflessione, di grandi attese e di decisioni improvvise, nasce lungo la via Emilia, vicino agli argini del Po, in un territorio storicamente complesso. Sino alla pace di Lodi del 1454, che segna la fine della guerra tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano e pone le basi per il Rinascimento artistico, vivevano uno accanto all’altro numerosi piccoli ducati, principati, signorie, feudalità antiche con altrettante corti. Questo è l’ambito da cui nasce la cultura civica italiana, e di conseguenza il campanilismo delle piccole città. Dentro questo aspetto si conserva nel tempo una forma endemica di xenofobia propria di molti luoghi dell’Italia, per cui lo straniero non è il lontano e il diverso, ma colui che abita al di là del fiume, del torrente, dietro le colline o in cima alla montagna. Le lotte fratricide che insanguinano per secoli l’Italia - i guelfi contro i ghibellini, i bianchi contro i neri - traggono origine dalla frammentazione seguita alla fine dell’Impero romano e proseguita nel corso del Medioevo anche in Emilia e in Romagna. Ci sono territori per cui la lunga durata è riconoscibile in aspetti che permangono nel corso dei secoli. L’Emilia è uno di questi territori, una regione-città, un continuum edificato che Francesco Guccini ha cantato in un suo celebre album, Tra la via Emilia e il West, e Pier Vittorio Tondelli ne ha proseguito la mitologia con Rimini, il romanzo uscito nel 1985, e poi con Un weekend postmoderno, cronaca vivacissima degli anni Ottanta, pubblicato poco prima della sua morte nel 1990. Celati, uno dei maggiori narratori italiani della seconda metà del Novecento, professore di Tondelli al Dams di Bologna insieme al poeta, romanziere e teatrante Giuliano Scabia, con il suo diario di viaggio Verso la foce, del 1988, dedicato alle terre che si incontrano andando in direzione del Delta del Po, ha aperto la strada a un’altra visione del territorio padano attraversato dal Grande fiume, posto ai confini con il Veneto e le zone definite dalle Valli di Comacchio. Un paese che la fotografia di Luigi Ghirri, oggi uno dei più famosi fotografi italiani, ha trasformato attivamente con il suo obiettivo. Le altalene sulla spiaggia, i canali nella nebbia, le chiese abbandonate lungo le campagne, le case coloniche in rovina, i distributori di benzina, le autostrade, i cavalcavia, sono i soggetti attraverso cui Ghirri ha modificato la percezione di questo spazio. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila la Romagna ha conosciuto una serie di compagnie teatrali, che hanno introdotto nuovi linguaggi espressivi: Teatro della Valdoca, Raffaello Sanzio, Albe, Fanny&Alexander, Motus. Tra Cesena, Ravenna e Forlì, questi gruppi composti da attrici e attori locali hanno parlato romagnolo non solo in tanti teatri italiani, ma anche in Europa. Questa regione può poi vantare alcuni dei più straordinari poeti in dialetto: Tonino Guerra e s Raffaello Baldini, quest’ultimo uno dei maggiori poeti italiani. Il tema della nostalgia e quello del male di vivere, detti con ironia e insieme con passione, sono i temi fondamentali dei versi romagnoli. Cosa è rimasto oggi di tutta questa formidabile storia letteraria e culturale che ha avuto a Bologna un suo baricentro con l’università, con Pasolini e i suoi amici, come il poeta Roberto Roversi, il Dams di Eco, Furio Colombo, Roberto Leydi, Omar Calabrese, Paolo Fabbri e tanti altri? Difficile dirlo con esattezza. Come molte delle città italiane Bologna ha avuto stagioni alte e stagioni basse, spesso legate alla vita sociale e politica italiana del dopoguerra. Il comunismo emiliano è stato nella città capoluogo un esempio di buon governo che ha attirato studiosi e osservatori da tutto il mondo negli anni Cinquanta e Sessanta. Sono state soprattutto però le città come Reggio Emilia e Modena a determinare il cambiamento nel corso dei decenni passati - il famoso “modello emiliano” - praticando per la prima volta in Italia l’uso del disavanzo in bilancio per finanziare scuole e servizi sociali, ospedali e asili, centri culturali e teatri. La politica del buon governo ha significato distribuzione della ricchezza attraverso il cinema, i teatri, i festival e le stagioni musicali. Il consenso del Partito Comunista era legato a una politica dei ceti medi teorizzata da Palmiro Togliatti. Un sogno durato oltre quarant’anni e che è andato pian piano in crisi con le trasformazioni sociali e ideologiche del nuovo millennio. Una prima crepa fu quella che oppose nel 1977 la città degli studenti universitari al Pci, poi fu la volta degli ideali socialisti e comunisti del dopoguerra trascinati dal crollo dell’Urss, mito su cui il comunismo emiliano, pur nella sua diversità, aveva prosperato. L’arrivo negli anni Novanta della nuova immigrazione dal resto del mondo, la fine del Welfare state con la crisi fiscale degli enti locali, la nuova ideologica consumistica, che Pasolini aveva appena fatto in tempo a intravedere e descrivere nei suoi Scritti corsari, sono altrettante tappe della trasformazione. L’Emilia e la Romagna non sono più state un’isola felice e lentamente è cominciata l’erosione del consenso elettorale su cui si reggeva l’intera impalcatura. L’Emilia uguale alla confinante Lombardia o al vicino Veneto? Tutto si è mescolato e nonostante che le diversità culturali e le tradizioni linguistiche si mantengano ancora, perché Verona non è uguale a Ferrara e Parma è diversa da Milano, il mito delle piccole patrie è andato via via scemando. Per quanto esista ancora una narrativa emiliana rappresentata da scrittori come Ermano Cavazzoni, Daniele Benati, Paolo Nori, Ugo Cornia, che fa capo alla collana “Compagnia Extra” di Quodlibet diretta da Cavazzoni e Jean Talon, l’Emilia appare in bilico tra il ritorno al passato e il futuro post-postmoderno: massimo pragmatismo e massimo cinismo nel voto politico. “Emilia di notti tranquille/ in cui seduzione è dormire/ Emilia di notti ricordo/ senza che torni la felicità/ Emilia di notti d’attesa di non so più/ quale l’amor mio che non muore/ e non sei tu e non sei tu/ EMILIA PARANOICA/ EMILIA PARANOICA/ PA. RA. NOI. CA. PA. RA.NOI. CA./Aspetto un’emozione/ sempre più indefinibile/ sempre più indefinibile”, così cantavano Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni e i CCCP. Era il 1986. Il Muro era ancora in piedi, ma presto sarebbe crollato. E ora?
Elezioni Emilia-Romagna, una partita tra palco e realtà e il rischio di votare "ad minchiam". Le prossime regionali si decideranno ancora una volta sulle emozioni. E anche se 4 leghisti du 10 giudicano positivamente la giunta uscente, voterano comunque per Salvini. Luca Bottura l'8 gennaio 2020 su L'Espresso. Borgonzoni e BonacciniLo cantava Guccini: Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano e il culo sui colli. I portici le fanno da cosce. E ce n’è uno, quello di San Luca, 666 archi, che unisce il diavolo e il cielo, la città all’empireo, il mio bar di riferimento alla mia pizzeria d’affezione. Il primo è rimasto agli anni Cinquanta, con i banconi in acciaio e le luisone di Benni nella vetrina delle brioche. La seconda, se hai avuto la forza e la voglia di inerpicarti fino al Colle della Guardia, ti accoglie con la bonomia interessata, eppure onesta, del vero oste emiliano. Sincero ma guardingo. Consapevole, ecco. E lì siamo un paio di decenni dopo. Piombo e vin rosso. Lucio Dalla e lo studente Lorusso ammazzato dalla polizia di Cossiga. L’isola felice e le bombe sui treni, e nelle stazioni. Comunque: casa. Cosa c’entra, questo, con le elezioni in Regione? Tutto e niente. Ché l’Emilia-Romagna, col trattino, dacché nel 1970 si scannarono se metterlo o no, non è solo il suo capoluogo. Ma la rappresenta, crocevia com’è di un modello trascinato verso il rischio della dissoluzione dal partito che sopravvive al proprio declino qui e in rari altri luoghi. Milano, direi. Poco più. E siccome a Bologna vivo, e là spesso lavoro, sovente mi sento l’allegro ostaggio di un corridoio dell’efficienza. Ciò che potevamo essere e non siamo quasi mai. Non fosse perché per percorrerlo, quel corridoio, viaggio su treni perennemente in ritardo, sembrerebbe quasi di stare in Giappone. Senza nemmeno i manga tra le balle. Giorni fa un avannotto salviniano ha dimenticato in un hotel della prima periferia il foglio con le quattro frescacce - mi scuso per il numero cardinale - che il Caporale aveva affidato agli adepti durante un summit sulla propaganda. Li invitava a picchiare “con la clava” su Bibbiano, a rivangare la vicenda di Banca Etruria, a scovare un terremotato ancora non ricollocato, a non buttarla mai e poi mai sul buongoverno. Traduco: a non entrare nel merito. Che stavolta, come ormai tutte le volte, si vince o si perde sulle emozioni. Non si fa campagna elettorale, si fa Pomeriggio Cinque. Solo che il famoso caso Bibbiano si sta rivelando per quel che è: storture portate dall’esterno in un sistema scintillante. I terremotati del 2012 un tetto ce l’hanno. Di più: basta percorrere la Bassa e le case ricostruite si riconoscono, ché sono belle abitazioni coloniche, fiammanti, nella loro architettura da Novecento. E Banca Etruria, con tutto che gli Etruschi stanziavano pure qui… beh, pare sia in Toscana. Sarebbe sin troppo facile celiare sulla ragazza immagine scelta da Salvini per fargli da valletta in campagna elettorale. Sarebbe troppo semplice ricordarla in radio, mentre sostiene che la sua regione confina col Trentino, magari con qualche bello ski-lift che parte direttamente da Ferrara Nord. Sarebbe un gioco da ragazzi, quindi perché evitarselo. Ma la palmare inadeguatezza di Lucia Borgonzoni, la superficialità con cui Salvini è venuto a prometterci che avrebbe aperto gli ospedali anche al sabato alla domenica, è il punto cardinale dell’intera vicenda: i fatti separati dalle suggestioni. Quelle che hanno portato il leghista Alan Fabbri a governare Ferrara perché la sera intorno alla stazione ferroviaria c’era qualche africano così poco scenografico, signora mia, o il podestà Zattini a guidare Forlì con vista Predappio. Che poi certo, settant’anni di governo ininterrotto consumerebbero le menti migliori, figurarsi il Pd, che in zona predilige da decenni una classe dirigente ossequiente, da promuovere per anzianità e ubbidienza. I salti della quaglia da questo a schieramento a quello - almeno finché c’era Renzi a rendere il tutto parossistico - ricordano i Politburo dei bei tempi andati. Lo stesso Bonaccini, il presidente, un buon presidente, ha cambiato più casacche interne che paia di Rayban, almeno da quando ha cancellato il look da ottavo fratello Cervi, si è fatto crescere un barbone hipster, e sembra un modello di Dolce e Lasagna. Pure lui ha tolto dall’agenda temi divisivi come l’immigrazione, senza la quale le Pmi locali chiuderebbero domani pomeriggio. Temeva di spaventare il Centro. Come se esistesse ancora. Però qui più che altrove la partita si gioca tra palco e realtà. Il 45 per cento dei leghisti esprime un buon giudizio sulla Giunta ma voterà la Borgonzoni. Come allo stadio. Come un tempo si faceva alle Europee, che si pensava non contassero un tubo. E come da un po’ si fa alle Politiche. Ad minchiam, poi tutti a vedersi Mario Giordano e a lamentarsi che sono tutti uguali. Se l’Emilia-Romagna riuscisse a invertire la tendenza, se a chi riceve la sedia a rotelle e la fisioterapista gratis per nonna riuscisse il miracolo di soppesare quale vigorosa botta di culo sia abitare qui, ma anche che certi diritti acquisiti non lo sono per sempre, ecco, ancora una volta saremmo l’avanguardia silenziosa del Paese. Che senza menarsela come la Lombardia, o senza bestemmiare lamentosa come il Veneto, si carica una piccola diversità sulle spalle. Resiste. E prova a farne paradigma.
L'ultima di Bonaccini: regalare ai migranti i beni confiscati ai boss. Il piano del Pd in Emilia Romagna: usare gli edifici sequestrati per l'accoglienza. Antonella Aldrighetti, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. L'Emilia Romagna si sta muovendo per accogliere la nuova ondata migratoria della prossima primavera. Serviranno altri posti letto, aree di smistamento per le derrate alimentari, ambulatori socio sanitari, aule per i corsi di italiano e, soprattutto, risorse finanziarie fresche. E sul primo punto all'ordine, ossia l'alloggio, l'idea del governatore dem uscente Stefano Bonaccini (sfiderà la leghista Lucia Borgonzoni il prossimo 26 gennaio) sembra più che chiara: utilizzare gli edifici sequestrati alle mafie per accogliere gli immigrati. A oggi risultano 41 confische nella regione tra ville appartamenti e case indipendenti che potranno essere facilmente riadeguate a centri di accoglienza. Tant'è che sul territorio proprio negli ultimi due mesi è stato dato il via ai nuovi bandi per l'assegnazione dei servizi di ospitalità agli stranieri: 400 posti a Bologna, 830 a Forlì e Cesena, tra i 300 e i 400 sia a Modena che a Ravenna. Circa 2.000 persone in tutto al momento. E la strada per utilizzare i beni confiscati alla criminalità al fine di accogliere gli immigrati sarebbe favorita anche da un documento regionale: il Testo unico sulla legalità approvato addirittura nel 2016. «La regione Emilia Romagna non solo è pronta a mettere in moto il sistema ma ha già collaudato questa possibilità, tant'è che per il 2017 aveva stanziato 600mila euro per il recupero per usi sociali dei beni confiscati, come previsto dal Testo denuncia Matteo Rancan, consigliere regionale della Lega e capolista a Piacenza del Carroccio - L'articolo 19 del provvedimento consente infatti di cedere i beni immobili alle cooperative che si occupano di richiedenti asilo. Se penso ai salti mortali che fanno i sindaci per mettere da parte ogni singolo euro per le case popolari mentre la Regione appena ha nuovi alloggi li dà ai migranti, mi cascano le braccia». Altrettanto ai cittadini italiani che sono in graduatoria per ottenere una casa popolare. Ma non sembra sufficiente. Perché l'idea di consegnare questi beni immobili agli immigrati era già una proposta dell'ex ministro dell'Interno, Marco Minniti che aveva dato il via allo studio di nuove linee guida sugli sgomberi. Se tornasse in auge questa linea di pensiero, a partire dall'ancora rossa Emilia a tutto il resto della Penisola, per organizzare un campo profughi pressoché permanente, non ci vorrebbe nemmeno troppo impegno. Si contano circa 5mila edifici residenziali compresi quelli che risultano veri e propri conglomerati urbani posizionati nel Mezzogiorno. A Palermo, e quindi nemmeno troppo lontano dalle aree di sbarco ce ne sono addirittura 868 a disposizione del Viminale. Segue Napoli con 172, Reggio Calabria con 166 e Milano con 160. A Roma sono invece 101. Senza contare che sia nell'hinterland lombardo come nell'area metropolitana della capitale insistano comuni con almeno un bene confiscato. Se passasse la linea Bonaccini & C. cooperative e onlus impegnate nell'accoglienza incrementerebbero i già fiorenti affari d'oro.
La linea Maginot nei comizi di Bonaccini: «Non credete alla Lega, non sanno di cosa parlano». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. La targa appesa al muro è rimasta coperta da un velo nero. Sul piccolo palco da cui Stefano Bonaccini avrebbe dovuto inaugurare lo spazio «Davanti a Villa Emma», un luogo per la memoria dei ragazzi ebrei salvati dalla gente di Nonantola, piove come se non ci fosse un domani. Il terreno è zuppo, dai bocchettoni della provinciale che scorre davanti escono torrenti d’acqua. Almeno questa tappa l’hanno risparmiata, al presidente uscente, che per altro ha la faccia segnata da un’influenza che si trascina da giorni. La posa simbolica della pietra d’inciampo è avvenuta all’asciutto, dentro il teatro comunale, nel centro della città. Ma è proprio da qui che si capisce la durezza di questa campagna elettorale. Mezzogiorno di un sabato mattina di pioggia battente, le strade, che hanno nomi di un certo spessore, da Anna Kuliscioff a Rosa Luxemburg, sono deserte. Si cerca di non buttare via niente, in queste elezioni che comunque vada segneranno la fine di un’epoca. La passeggiata di primo mattino al mercato di Sassuolo è ormai un lontano ricordo. All’inaugurazione della Camera del lavoro, Bonaccini si ferma tre quarti d’ora, giusto per incassare l’appoggio del segretario della Cgil Maurizio Landini. A Nonantola ha fatto coppia con David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, più tardi parlerà a Scandiano, paese natale di Romano Prodi, infine chiuderà la giornata a Ravenna con Nicola Zingaretti. Quasi a comporre una specie di presepe giornaliero della storia recente della sinistra, che fino a poco tempo fa era sempre stato sufficiente per vincere, almeno qui. «La parola che si sente di più in giro è “speriamo”, quindi significa che questa volta di fifa ce n’è tanta». Domenico Zanni ha ottant’anni, e dall’età adulta tiene nella tasca dei pantaloni la tessera del partitone, declinato in tutti i suoi cambi di nome. «A me piaceva tanto il primo, quando eravamo comunisti...». Nella piazza Aldo Moro di Scandiano ci sono quasi 200 persone, e danno tutte l’idea di non appartenere certo agli indecisi. Bonaccini ribatte agli attacchi che Salvini gli manda da Maranello riportando ogni scoria nazionale a una dimensione locale. La Lega propone l’abolizione dell’Irpef? «Non sanno neanche di cosa parlano, e poi c’è bisogno che dici prima quali sono i servizi che andrai a tagliare». E giù l’elenco degli asili nido, della sanità pubblica, «che con noi resterà tale, mentre la Lega la vuole privata», dell’Emilia-Romagna virtuosa. «Chissà se basta». Le due signore in ascolto danno voce a quella fifa appena citata dal pensionato Zanni. La cintura intorno a Reggio Emilia è la linea Maginot del centrosinistra. Se Salvini sfonda qui, la notte del 26 gennaio si può anche fare a meno del pallottoliere. È come se Bonaccini intuisse l’ansia che lo circonda, e per questo talvolta cambia canone, per quanto non gli venga naturale. Non è un animale da palco, ma cerca più spesso l’impennata, anche retorica. «Lo dico nella terra dei fratelli Cervi, che la smettano di ripetere che libereranno l’Emilia-Romagna. Per dire cretinate del genere significa che c’è davvero tanta libertà, ottenuta 75 anni fa con il sangue di questa regione». All’aperitivo pubblico in quel di Salvaterra, frazione di Casagrande, c’è davvero tanta gente, considerati anche il buio, l’ora tarda e la temperatura proibitiva. «Ci dicono di portare la gente a votare, come si faceva nel passato. Ma allora sapevi cosa pensavano i tuoi compaesani, oggi invece non sai nulla». Luciano Branchetti, ex sindaco, ora maturo militante, confessa con candore di non capire più il suo mondo. Bonaccini gli risponde in modo indiretto, prendendo di petto la questione più scottante: «L’unica campagna della Lega fatta sul territorio è stata quella su Bibbiano. E hanno fatto una speculazione vergognosa, indecente. Lo dico da padre di famiglia: si stanno comportando da sciacalli». Ovazione, per quanto infreddolita. «Salvini si vanta di aver candidato una donna, ma poi la umilia cancellandola dalla campagna elettorale, altro che femminismo leghista». Ma è un attimo. L’enfasi polemica lascia subito spazio alla regionalizzazione del comizio, il suo terreno preferito. Sergio Luppi, pensionato, sciarpa a metà faccia e ombrello che usa per reggersi, ogni tanto approva, ogni tanto scuote la testa. «Salvini ha tre bombe atomiche contro di noi: gli immigrati, le tasse e l’Europa. E le sa usare. Purtroppo conta la percezione». Manco il tempo di finire la frase, e dal Barottolo, il locale accanto alla piazza, parte un urlo. Un certo Ciccio rinfaccia a Bonaccini gli «immigrati dappertutto». Dopo vengo a risponderti, è la replica. «Avete solo quell’argomento». Alla fine Bonaccini ci va davvero, armato delle migliori intenzioni. Ma Ciccio tiene duro. «Siete tutti uguali, ci riempite di stranieri». Il signor Luppi assiste immobile alla scena. Poi se ne torna sui suoi passi, in silenzio.
Quando Salvini disse: «Il sistema Coop fa schifo, è il male assoluto». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 da Corriere.it. L’Emilia-Romagna val bene una giravolta sulle Coop. Non c’è neppure bisogno di frugare molto negli archivi, basta tornare a fine 2015-inizio 2016, quando Matteo Salvini era di casa a Bologna per supportare la sua candidata sindaca, Lucia Borgonzoni, proprio lei. Era una corsa difficile, contro un sindaco uscente, Virginio Merola, e con una Lega ai minimi termini, ben lontana dall’essere la furiosa macchina da guerra sovranista di oggi. Quando non puoi vincere, tanto vale cercare la «bella morte», in senso politico, s’intende. E così, il mondo cooperativo emiliano-romagnolo era «il male assoluto», parola del futuro ministro degli Interni. «Il sistema delle Coop è un sistema clientelare che mi fa schifo, dove lavora solo chi è amico del Pd e della Cgil». Questo è un Salvini d’annata, settembre 2015, nel centro di Bologna. Ma c’è l’imbarazzo della scelta. Due settimane più tardi, Salvini tornò nel capoluogo e in uno slancio ecologista attaccò Pd e Coop rosse, «tenute insieme dall’amore per il cemento e per gli affari». Lucia Borgonzoni taceva, anche allora, perché chi resta sul territorio sa bene che sulle Coop è meglio andarci cauti. Le cose sono cambiate, in questi cinque anni. Oggi Salvini/Borgonzoni giocano per vincere. E senza la neutralità delle Coop, qui non vinci. Venerdì a Imola la candidata leghista si è prodotta in un elogio del mondo cooperativo, «una eccellenza della nostra regione che il mondo ci invidia», e si è proposta come sua paladina. «Io sarò sempre dalla vostra parte», ha detto.
"O muoio di dolore oppure pago". Ecco la sanità di Bonaccini. Il governatore si vanta del sistema emiliano. Ma i pazienti si lamentano dei tempi di attesa. Il caso di una donna incinta: esame disponibile solo dopo il parto. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. "Siamo la regione con i più brevi tempi di accesso alle prestazioni sanitarie". Lo dice il sito istituzionale dell’Emilia Romagna, lo ripete a più non posso pure Stefano Bonaccini: la sanità funziona, checché ne dicano i detrattori. In parte è vero, certo. Inutile mentire: tra Cesena e Piacenza i cittadini possono godere di un discreto servizio. Ma nasconderne le criticità sarebbe sciocco. E in una Regione che si avvicina alle urne, è proprio su quei dettagli che ci si concentra. È la legge della campagna elettorale. Uno dei nei della sanità emiliana si chiama "tempi di attesa", cioè le lunghe file che i pazienti sono costretti a fare prima di vedersi assegnare un appuntamento. Un report pubblicato online dalla Regione sostiene che l'indice di performance sfiora il 100% in quasi tutti i campi rivelati. Questo significa la quasi totalità delle prestazioni vengono garantite entro i tempi "standard" stabiliti dalla Regione stessa (30 giorni per le visite, 60 per la diagnositica). Vista solo da questo punto di vista, l'Emilia sembra in ottima salute. Un successo? Dipende. Non sempre i numeri riflettono come uno specchio la realtà. Dietro infatti c'è un mondo tutto da scoprire. "Se questa è l’eccellenza - dice Patrizia G. - non voglio immaginare come sono le altre Regioni". Iniziamo dall'Usl di Bologna. Cosimo D. tre anni fa avrebbe dovuto fare un intervento alla prostata. Si presenta alle visite, poi gli dicono che per l'operazione "c’è da aspettare qualche anno". Cosimo si mette in lista, aspetta e spera. Alla fine decide di rifugiarsi in Calabria: "Due settimane ed ero sotto i ferri", racconta. In Emilia resta tutto fermo, fino a un paio di mesi fa quando riceve la chiamata dall’ospedale per iniziare le analisi pre-intervento. "Ormai erano passati tre anni - sorride lui - e io mi ero già operato altrove". Non è l’unico caso. In Emilia gli appuntamenti, in teoria, si possono prenotare online tramite il Fascicolo sanitario elettronico. Peccato che il sistema non copra tutte le prestazioni, per cui spesso occorra rivolgersi alle farmacie, al Cup oppure telefonare. "Se chiami non rispondono mai", lamenta Graziella R.. Lei di esami da fare ne avrebbe parecchi, ma l’attesa è lunga. Circa due mesi fa ha prenotato un paio di appuntamenti: per l'ecografia dovrà attendere il 27 aprile, per la visita dall'endocrinologo l'11 maggio. Alla fine fanno quasi sei mesi di attesa. Alla faccia dell'indice di performance. La domanda è: perché allora Bonaccini può vantarsi di guidare la "Regione con i tempi più brevi di accesso"? Semplice: è possibile che il caso di Graziella non rientri nelle fantastiche statistiche regionali. La signora ha deciso di farsi curare a Bologna, visto che è avanti con l’età e non può muoversi troppo. "Quando ho potuto mi sono mossa, ma a volte ti mandano lontanissimo…", dice. Le prenotazioni infatti riguardano l'ambito territoriale del'Usl, che in provincia di Bologna comprende anche località a 60-70km di distanza dal centro. Un esempio: il Cup ti assegna l'appuntamento entro i 30 giorni canonici, ma l'unico posto disponibile è a Porretta Terme (oltre 1 ora di auto dalla città). Sei anziano e non puoi andarci? C'è sempre l’opzione B: aspettare che si liberi un posto in un ospedale più vicino. In questo caso, però, il "sistema" di controllo non registra alcun ritardo perché, "in caso di scelta della struttura o del professionista", il tempo di attesa potrebbe "non essere garantito". La vicenda di Patrizia G. è emblematica. "A settembre - racconta - mio padre è stato dimesso dall'ospedale con l'indicazione di un intervento per colicistectomia. Quindi è andato a fare la visita pre-operatoria e gli hanno prescritto una serie di accertamenti". Negli ospedali di Bologna non ci sono posti liberi in tempi brevi, così in farmacia le prenotano le visite stile via crucis. "A Porretta abbiamo fatto l'esame citologico delle urine, poi a Vergato la visita cardiologica. A Castiglion De Pepoli quella pneumologica e a Bazzano l'urologica". Qui i medici non riescono a leggere l'esito della risonanza magnetica, chiedono al paziente di ritirare il dischetto dell'esame e lo rimandano a casa (pagando il ticket). "Ho dovuto spostare l’appuntamento - conclude Patrizia - E ora me l'hanno segnato per aprile 2020". Una beffa. Molti alla fine sono costretti ad arrendersi o a rivolgersi alle cliniche private pagando cifre salate. Benedetta B., giovane in gravidanza, l’ha raccontato poco tempo fa al Carlino: "Il mio ginecologo mi ha prescritto l'esame della curva da carico di glucosio da eseguire tra la 24esima e la 28esima settimana". Si è rivolta al Cup per prenotare ed è arrivata la brutta notizia: "La prima giornata utile in una struttura della città è risultata in gennaio". Cioè dopo il parto. L'unica alternativa era andare a Porretta, 60 km dalla città, oppure rivolgersi a un privato. Come lei, molti si trovano sulla stessa barca. Patrizia G., per esempio, temeva di avere un tumore ma per avere una visita dall'oncologo, due anni fa, avrebbe dovuto attendere un mese. "A pagamento, invece, la potevo fare il giorno dopo a 180 euro. Ed era la stessa struttura, nello stesso ospedale, dallo stesso medico". Un caso non isolato. "Mi avevano prescritto un'infiltrazione di ozono per un'ernia che toccava il nervo sciatico ma c'era da aspettare un anno - racconta Antonio O. - Allora come per incanto la segretaria ha preso un biglietto con i nomi di quattro medici e mi ha spiegato che potevo andare a pagamento. Privatamente i medici erano disponibili nel giro di 3-4 giorni, ma al costo di 1.200 euro". Troppi, per un pensionato: "Mi sono trovato di fronte a un bivio: o muoio dal dolore o vado in banca a fare una rapina".
Sanità, quel dossier con oltre 300 casi: "Le visite? Si fa prima a morire". Nelle interrogazioni le proteste dei cittadini di presunti disservizi in Emilia Romagna. Dalle agende chiuse alle liste di attesa, tutti i punti critici. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Ne abbiamo contati 380, uno più o uno meno. Sono i documenti che compongono il fornito dossier sulla sanità emiliana, fulcro dell'infuocata campagna elettorale in vista del voto del 26 gennaio. Si tratta di segnalazioni e richieste di spiegazioni in merito a presunti disservizi su visite, operazioni, liste di attesa, agende chiuse, organizzazione, problemi dei lavoratori e chi più ne ha, più ne metta. L’assessore alla sanità, Sergio Venturi, aveva promesso di fare "il nostro lavoro fino in fondo" per vagliare le segnalazioni e dare delle risposte "nei tempi giusti". Ad oggi, però, la giunta Bonaccini non ha ancora battuto il colpo. Le interrogazioni sono state depositate in viale Aldo Moro dal consigliere della Lega Daniele Marchetti. Il primo documento è stato consegnato il 21 novembre 2019, l’ultimo è stato iscritto al protocollo il 10 dicembre. Ricorderete forse che, durante il faccia a faccia a Cartabianca su Rai3, Lucia Borgonzoni mostrò alle tv un voluminoso pacco di carte contenente le 300 segnalazioni raccolte tra i cittadini (altre sarebbero arrivate successivamente). Bonaccini in diretta si disse pronto a esaminarle, perché "rispondiamo a tutti". Disponibilità ribadita anche dall’assessore alla sanità. Il fatto è che a 10 giorni dalla data del voto, ancora non c'è traccia della replica della Regione. Per quanto riguarda gli atti presentati a novembre, la prima scadenza per la risposta era stata fissata al 21 dicembre. Cinque giorni prima, però, è stato richiesto un raddoppio del tempo, che ha sposato così il termine al 20 gennaio 2020. Lasciando solo una settimana per l'inevitabile dibattito che ne seguirà. Ecco la sanità di Bonaccini. Come rivelato nell’inchiesta del Giornale.it (leggi qui), non è tutto oro quel che luccica nella sanità emiliano romagnola. Per carità: il servizio è buono e le eccellenze non mancano. Ma ci sono anche le zone d’ombra. "Nell’ultimo anno - denuncia un cittadino - dopo aver dovuto sottomettermi a un ciclo di radio, ho riportato una serie di ustioni e in reparto non avevano materiale sufficiente e idoneo per potermi medicare". Le segnalazioni presentate alla giunta sono tante, sarebbe sciocco riportarle tutte, quindi ci limiteremo a segnalarne alcune. Ad esempio, a Reggio Emilia una paziente sostiene di aver provato a prenotare l'anno scorso il "test alla Metacolina prescritto dal mio pneumologo". La risposta dal Cup del Santa Maria Nuova è che "l'agenda era chiusa", cioè risultava impossibile fissare l'appuntamento. Alla fine la malcapitata ha deciso di rinunciare a fare l'esame. E non è l'unico inciampo. La signora infatti voleva prenotare "una visita ginecologica a Scandiano al nuovo centro per la menopausa". Risultato: "Sempre la stessa risposta, agenda chiusa". Molte delle segnalazioni oggetto di interrogazione derivano da commenti pubblicati su Facebook dagli stessi cittadini. C'è da sbizzarrirsi. "Mio padre - scriveva un utente a ottobre - deve fare un esame al cuore, gli hanno dato l’appuntamento nel 2020 ad aprile. Ha 88 anni". Un paziente denuncia che in Emilia "l'unico modo per avere una visita veloce è pagare", un altro sostiene di essere dovuto andare a Monselice (in Veneto) "per una risonanza" e un altro ancora che una "MOC (Mineralometria Ossea Computerizzata, ndr) prenotata un mese fa è stata fissata a giugno 2021". C'è chi lamenta le "attese lunghe e stressanti ai pronto soccorso", chi il fatto che "per fare la Tac per sospetto tumore" servono "otto mesi e campa cavallo che l'erba cresce". Una "Regione che non funziona più", si sfoga sui social qualcuno. "Anche a Ferrara è uno schifo - scrive un altro - 3 anni per una visita pneumatologica". All'ospedale di Cento si parla di "tempi biblici" per le gastroscopie, fino a "14 mesi". Al Maggiore di Bologna, invece, due segnalazioni riguardano l’oculistica: chi per una esame ha atteso 5 mesi e chi sarebbe stata "tenuta in lista d'attesa sei mesi, poi quando mi hanno telefonato altri sei mesi per avere l'appuntamento". Non mancano le lamentele per gli spostamenti fuori città per fare le visite. Oppure quelle di chi sostiene che per eliminare la coda basta mettere mano al portafogli: "Due anni per fare una cataratta", mentre "privatamente" si risolverebbe tutto in un mese versando "1.800 euro". "Una persona anziana che conosco bene - si legge tra le testimonianze raccolte - ha prenotato una visita e gli toccava quasi dopo un anno. A pagamento, con lo stesso dottore, l'ha fatta 4 giorni dopo. A 79 anni, avendo la possibilità, ha preferito pagare non sapendo se all'anno dopo ci arrivava". È uno sfogo: "Si fa prima a morire che a fare una visita".
Un documento incastra il Pd. Ecco il bluff di Bonaccini sui punti nascita. Chiuse le sale parto in montagna. Bonaccini annuncia la riapertura e ringrazia Speranza. I comitati: "Nel Patto della salute dei punti nascita neanche l'ombra". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 16/01/2020, su Il Giornale. Leggi le dichiarazioni di questi giorni e ti convinci che i "punti nascita" sull’Appennino emiliano siano ormai un problema del passato. Tutto risolto. Stefano Bonaccini l'ha annunciato ("li riapriremo"), ringraziando il ministro Speranza per aver introdotto nel "Patto della salute" la revisione dei "parametri" che ne avrebbero provocato la chiusura. Poi però vai a leggere il documento e qualcosa sembra non tornare: "Nel Patto - evidenzia uno dei comitati - non c'è neanche l'ombra dei punti nascita". Breve riassunto. Tra il 2014 e il 2017, nelle zone montane dell'Emilia Romagna chiudono i battenti quattro presidi. Si tratta di Porretta Terme (Bologna), Castelnuovo ne’ Monti (Reggio Emilia), Pavullo (Modena) e Borgo Val di Taro (Parma). La decisione, in tre casi su quattro, viene presa dalla giunta di Bonaccini, oggi candidato di nuovo a governatore. L'accordo Stato-Regioni, infatti, prevede che le strutture debbano realizzare almeno 1000 parti l'anno, riducibili a 500 in caso di "specifiche condizioni geografiche". Le tre strutture "incriminate" ne realizzano di meno (nel 2016 dalle 122 alle 197 gravidanze), quindi per tenerle aperte occorrerebbe una deroga. La Regione chiede al Comitato Percorso Nascita del ministero della Salute un "parere", ma il responso è negativo. E così dà "indicazioni alle aziende sanitarie di sospendere le attività" delle sale parto. Fine dei giochi. Nel lontano 2017, al netto delle proteste dei comitati locali, la questione sembrava ormai un caso chiuso. "Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare", disse Bonaccini. La Regione sostiene di aver dovuto prendere atto del diniego alla deroga arrivato da Roma, anche se il ministero non può "imporre alcuna chiusura". "Sono stata quattro volte al ministero - rivela Emanuela Cioni, del comitato di Porretta - e i miei interlocutori mi hanno sempre detto che la Regione avrebbe potuto decidere diversamente". Giusto o sbagliato, il Pd rivendicò la propria scelta: "Fra qualche anno - dichiarò convinto l'assessore Sergio Venturi - quando saremo tutti più calmi, ce lo riconoscerete". Le cose però non sono andate così, anzi. A rivedere la propria posizione alla fine è stato proprio il Pd, che ha sposato la campagna per la riapertura dei punti nascita dopo averne decretato la chiusura (leggi qui l’inchiesta).
Partorienti senza punti nascita: la verità sul piano Bonaccini. La "svolta clamorosa", come scriveva Repubblica, arriva a febbraio 2019, quando il centrosinistra approva una risoluzione per riaprire i punti maternità in montagna. Le opposizioni accusano il Pd di un "cambio di strategia in vista delle elezioni", mentre Bonaccini chiede un incontro all’allora ministro Giulia Grillo senza ricevere risposta. Passano i mesi, dal Conte I si passa al Conte II, e a settembre si arriva a un vertice tra Bonaccini il nuovo ministro Speranza. Infine, l’annuncio di pochi giorni fa: "Riapriremo i punti nascita". Il merito viene dato alla firma del Patto della salute in cui è prevista la "revisione del decreto ministeriale 70 per la disciplina dei punti nascita" (vero colpevole, secondo i dem, della chiusura delle sale parto di montagna). Bonaccini esulta e ringrazia l’esecutivo M5S-Pd per aver realizzato ciò che il "precedente governo non aveva saputo o voluto fare". Ma i comitati locali sono scettici. Il motivo è semplice. In verità il Patto per la salute, siglato da ministero e Conferenza delle Regioni (di cui Bonaccini è presidente), non cita mai i punti nascita. Mai. Basta verificare qui. Alla scheda 15 si parla solo di una generica "revisione" del decreto sugli standard dell'assistenza ospedaliera. Per il resto è tutto da vedere. Anzi: a quanto pare il riferimento alle sale parto prima c'era, ma col Pd è scomparso dall’accordo. Nella bozza pubblicata dal quotidiano sanità (leggi qui) del 27 maggio 2019 (quindi governo Conte I), all'articolo 16 si parlava chiaramente dei "punti nascita" e le parti si impegnavano addirittura a trovare una soluzione "entro 180 giorni dall’approvazione delle presente intesa". Insomma: tutto nero su bianco. "Nel frattempo - ricorda il Comitato Salviamo le Cicogne - è caduto il governo (gialloverde, ndr) e in quello attuale, con il Pd tornato al governo, quell'impegno è sparito dal Patto per la salute". In effetti, sfogliando le bozze via via rese note, i riferimenti ai punti nascita non ci sono più. E lo stesso vale per la versione definitiva sbandierata da Bonaccini e Speranza. "Per ora sappiamo solo che gli standard verranno ‘rivisti’ - conclude Cioni - ma questo non ci assicura che riapriranno i presidi. Tra il dire e il fare, in mezzo c’è il mare”. O almeno le elezioni.
Regionali, campagna elettorale su Facebook: Lucia Borgonzoni spende tremila euro al giorno. La candidata del centrodestra investe più di tutti in questi giorni che precedono il voto, seguita dal suo capo di partito Matteo Salvini. Più contenuti i budget del centrosinistra, con Elly Schlein davanti a Stefano Bonaccini. Quasi nulli gli investimenti in Calabria. Mauro Munafò il 15 gennaio 2020 su L'Espresso. Le elezioni regionali sono un vero affare, almeno per Facebook. Nell'ultimo mese tutti i candidati della sola Emilia-Romagna hanno infatti speso circa centomila euro in contenuti sponsorizzati sul social network più usato in Italia: investimenti che servono ad aumentare il numero di persone raggiunte dai propri messaggi elettorali. A guidare la classifica della spesa, con ampio distacco sugli inseguitori, è la candidata di centrodestra Lucia Bergonzoni. La leghista nell'ultimo mese ha speso 23mila euro, con una significativa accelerazione nell'ultima settimana in cui i suoi investimenti digitali hanno in alcuni giorni superato i tremila euro. Andando a guardare i messaggi che Borgonzoni ha voluto con più insistenza far arrivare ai suoi potenziali elettori si trovano tanti selfie sorridenti e, soprattutto, attacchi contro le Sardine e frequenti richieste di verità sul "caso Bibbiano". Questi ultimi messaggi in particolare sono stati indirizzati anche a un pubblico minorenne, con investimenti fino ai duemila euro per un singolo post. Una scelta né casuale né fortuita: le impostazioni automatiche delle pubblicità su Facebook prevedono infatti come pubblico da raggiungere quello tra i 18 e i 65 anni. Per puntare ai ragazzi tra i 13 e i 17 anni serve quindi selezionarlo manualmente. Il secondo maggiore investitore in Emilia-Romagna non è il rivale di Borgonzoni, ma il suo leader Matteo Salvini. L'ex ministro ha infatti speso nell'ultimo mese 13mila euro in sponsorizzazioni dirette agli elettori dell'Emilia Romagna, sostenendo la sua candidata nel suo tour del territorio e anche sul fronte digitale. Per trovare il primo esponente di centrosinistra si deve arrivare alla terza posizione, con l'ex eurodeputata del Pd Elly Schlein, oggi candidata al consiglio regionale con la lista di sinistra "Emilia-Romagna Coraggiosa" che sostiene Bonaccini. Per Schlein la spesa è stata di circa cinquemila euro. Si ferma invece a poco più di 4.500 euro il governatore uscente Stefano Bonaccini, che promuove in gran parte i punti del suo programma o gli appuntamenti sul territorio. La differenza tra i due principali concorrenti alla carica di presidente della Regione si vede quindi sia sul lato dei budget sia su quello dei contenuti promossi: più tradizionali quelli di Bonaccini, più aggressivi, virali e legati all'esperienza della "bestia" salviniana quelli di Bergonzoni. Spese minori, tra i tre e i quattromila euro, per i candidati di centrosinistra Emma Petiti, Federico Amico, Alessio Mammi e per il partito +Europa. Se in Emilia-Romagna la campagna elettorale si fa anche su Facebook, con cifre investite piuttosto interessanti, non altrettanto si può dire per le altre regionali, quelle in Calabria. Qui infatti sono stati spesi appena cinquemila euro in totale da tutti i candidati che, a quanto pare, non credono molto nell'utilità dello strumento. La lista "Io resto in Calabria" a sostegno del candidato di centrosinistra Pippo Callipo si ferma poco sotto i mille euro, seguita da investimenti nell'ordine di poche decine di euro per gli altri.
Regionali Emilia Romagna, è guerra social: Borgonzoni spende 6 volte più di Bonaccini. Carmine Di Niro il 20 Gennaio 2020 su Il Riformista. La battaglia per le Regionali in Emilia Romagna? Si combatte sui social network. L’appuntamento chiave per la politica italiana, soprattutto per la tenuta del già traballante esecutivo giallo-rosso, vede infatti i due candidati Lucia Borgonzoni e Stefano Bonaccini sfidarsi "a colpi di social". Un confronto però impietoso per la potenza, anche economica, della senatrice leghista. La fedelissima di Matteo Salvini può contare infatti sulle capacità di fare engagement della Bestia salviniana. A dirlo sono i numeri forniti da Facebook, che resta il principale mezzo di propaganda social della politica italiana.
LA BESTIA DI SALVINI SURCLASSA BONACCINI – Nella settimana dall’11 gennaio al 17 gennaio Lucia Borgonzoni ha investito in Facebook ads 18.515 euro, spesi per la senatrice e candidata governatrice dalla Lega Salvini Premier. Il presidente della Regione Stefano Bonaccini nella stessa settimana di riferimento ne ha investiti solamente 3.636: la Borgonzoni in una sola settimana, praticamente a ridosso del voto, ha speso 6 volte la cifra investita dal suo rivale.
LE DUE STRATEGIE SOCIAL – I numeri evidenziano anche una diversa strategia di campagne social. Il Dem Bonaccini ha infatti investito 27.776 euro in ads tra il marzo 2019 e gennaio, ‘soltanto’ 11mila in meno rispetto alla leghista Borgonzoni. Cifre che fanno capire come la fedelissima di Salvini abbia puntato ad un vero e proprio rush finale per cercar di convincere l’elettorato, investendo una grossa cifra a ridosso del voto. Diversa la strategia di Bonaccini, che ha spalmato gli investimenti su un periodo di tempo maggiore.
L’AIUTO DEL LEADER LEGHISTA – A dare manforte alla Borgonzoni non sono solo i soldi investiti dalla “Lega Salvini Premier” nella sua campagna di Facebook ads. È infatti lo stesso leader del Carroccio, con la sua seguitissima pagina Facebook da 4 milioni di ‘mi piace’, a fare campagna per la senatrice. Nella settimana dall’11 al 17 gennaio l’ex ministro dell’Interno ha investito 35.352 euro in post sponsorizzati: di questi 12 campagne attive riguardano proprio le Regionali in Emilia Romagna, tra annunci di comizi e video dalla campagna elettorale.
Il Viminale non paga più la "Bestia" di Matteo Salvini. E risparmia mezzo milione di euro. La ministra dell'Interno Luciana Lamorgese si libera dello staff scelto dal leghista suo predecessore e opta per una squadra molto più ridotta. Che costa un quinto. Mauro Munafò il 10 gennaio 2020 su L'Espresso. Mezzo milione di euro l'anno. Anzi, anche di più: 560mila euro per essere precisi. È questo quanto si risparmia grazie alle scelte della ministra dell'Interno Luciana Lamorgese rispetto a quanto Matteo Salvini spendeva per i suoi fedelissimi. Il leader della Lega aveva portato con sé al Viminale, negli uffici di diretta collaborazione del ministro, quattordici persone tra segreteria politica e ufficio stampa e comunicazione. Uno squadrone che alle casse statali costava 718mila euro l'anno e che comprendeva, tra i suoi elementi, alcuni degli uomini della cosiddetta “bestia” , il team dedicato alla comunicazione attraverso i diversi canali sui social network di Salvini. La nuova ministra Luciana Lamorgese, che non ha neanche una pagina Facebook, ha preferito invece un approccio radicalmente differente come si può vedere anche dal numero di persone che ha assunto nel suo staff. Al momento risultano infatti solo due i professionisti incaricati direttamente da Lamorgese, per un costo complessivo di 152mila euro l'anno. Grazie al doppio incarico di ministro dell'Interno e di vicepremier del primo governo Conte, Matteo Salvini ha potuto assumere con il budget dell'esecutivo quattordici persone al Viminale per un costo complessivo di 718mila euro, a cui si devono aggiungere altre sette persone presso gli uffici della Presidenza del Consiglio per un importo di 538mila euro l'anno. In totale fanno oltre 1,2 milioni di euro l'anno per la sua squadra. Agli uffici della vicepresidenza del Consiglio Salvini aveva portato Susanna Ceccardi come consigliere per i programma di governo: 65mila euro l'anno che Ceccardi ha lasciato una volta eletta all'Europarlamento. Gli altri staffisti erano: Alessandro Amadori, consigliere per l'analisi politica e sociale (65mila euro), Lorenzo Bernasconi, segretario particolare (100mila euro) Claudio D'Amico, consigliere per le attività strategiche internazionali (65mila euro), Iva Garibaldi, storica responsabile stampa del leghista (120mila euro), Massimo Villa, consigliere per l'esame delle questioni attinenti alle funzioni esercitate dal Vicepresidente (65 mila euro) e il capo di gabinetto Paolo Visca (35mila euro oltre al compenso come consigliere parlamentare). Al ministero dell'Interno Matteo Salvini ha costruito una squadra ancora più corposa: Stefano Beltrame, consigliere diplomatico (95mila euro), Gianandrea Gaiani consigliere per le politiche sulla sicurezza (65mila euro) e i collaboratori Giuseppe Benevento, Luigi Peruzzotti e Andrea Pasini (41mila euro ciascuno). A questi si aggiungono Gennaro Terraciano che ha svolto l'incarico a titolo gratuito e Cristina Pascale, collaboratrice di lungo corso del ministero dell'interno, retribuita 30mila euro. Un discorso a parte lo merita la già citata “Bestia”, in parte gestita da professionisti retribuiti con i fondi ministeriali (altri sono invece a libro paga dei gruppi parlamentari della Lega). Durante la sua permanenza al Viminale, Salvini ha assunto il suo responsabile dei social network Luca Morisi come “consigliere strategico per la comunicazione” per 65mila euro l'anno, a cui si aggiungono gli 85mila euro annui per Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini e socio di Morisi nella società di comunicazione Sistema Intranet Srl, al lavoro dal 2014 per Salvini. Nell'ufficio stampa del ministero dell'Interno sono stati assunti come collaboratori Leonardo Foa (figlio del presidente della Rai Marcello ), Daniele Bertana, Fabio Visconti e Andrea Zanelli, ognuno con un contratto da 41mila euro l'anno. Tutti i contratti citati, trattandosi di uffici di diretta collaborazione con personale scelto a chiamata dal ministro, sono ovviamente decaduti con la fine del mandato governativo di Salvini. Rispetto ai numeri di Matteo Salvini, la ministra Lamorgese ha optato per una squadra assai ridotta. A cinque mesi dal suo insediamento, la titolare del Viminale ha nominato solo il giornalista del Corriere della Sera Dino Martirano come suo portavoce e capo ufficio stampa (120mila euro annui), e ha riconfermato la collaboratrice e già citata Cristina Pascale (con un lieve aumento di stipendio a 32mila euro l'anno).
Borgonzoni: «Chi mi attacca è maschilista». La sfida di Lucia ai «comunisti». Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. La giornata tra aziende e dibattiti della candidata del centrodestra: «Quattro anni fa non ci invitava nessuno. La gente ci passava davanti che sembravamo invisibili». Lucia Borgonzoni ha in testa un’idea meravigliosa. «Se scrive una cosa del genere, i suoi colleghi comunisti, quindi tutti o quasi, le tolgono il saluto». La candidata leghista del centrodestra è troppo giovane, beata lei, per sapere l’effetto che fa entrare al suo seguito alla Cesare Ragazzi Laboratories, azienda di eccellenza nel campo tricologico, che ormai porta solo il nome del baffuto fondatore nonché personaggio televisivo di culto negli anni Ottanta. In compenso, ha una tendenza a vedere rosso quasi ovunque, anche se spesso scherza nel farlo notare, come fosse un tormentone. Siamo a Zola Predosa, zona industriale, uno dei tanti scrigni produttivi dell’Emilia-Romagna. Il quartier generale della Faac, il colosso di automazione per cancelli e barriere ora di proprietà della curia, è proprio qui accanto. Nel settembre del 2015, quando correva come sindaca di Bologna, Borgonzoni manifestò con Matteo Salvini davanti a quei cancelli. «La gente ci passava davanti che sembravamo invisibili, che avessimo la peste addosso, non ci filava nessuno — ricorda —. Oggi le aziende non si vergognano, e fanno la fila per invitarci, non so più dove mettere gli appuntamenti». Stefano Ospitali, amministratore delegato della Cesare Ragazzi, una cosa da 120 punti di rinfoltimento dei capelli in 25 Paesi diversi, altro che le televendite degli anni ruggenti, la guida nei laboratori dove le operaie, sono in prevalenza donne, cuciono le parrucche. «Incredibile» dice ogni tanto. Il dirigente parla, lei annuisce. «Accidenti». Interviene poco, ascolta. Si rivolge a un suo collaboratore non esattamente foltocrinito. «Abbiamo trovato una soluzione per te...». I dirigenti dell’azienda ridono. Ospitali la accompagna all’uscita congedandola con l’augurio di rivederla presto, «ma da presidente della Regione». La toccata e fuga fino a Coccolia di Ravenna per visitare la Molino Spadoni Spa, un’altra delle tante aziende familiari diventate colossi nel loro settore, in questo caso le farine di grano tenero, segue lo stesso copione. «Veramente inimmaginabile, bravissimi». Borgonzoni lascia parlare gli altri, interviene per fare complimenti. Perché questa è la funzione non detta della spartizione fatta con Salvini. Lui fa le piazze emiliano-romagnole, a tergicristallo, per asciugare il voto disgiunto. Lei invece deve rassicurare imprese e associazioni che non cambierà nulla in un sistema consolidato da quasi ottant’anni, che non ci sono i barbari alle porte. «Dicono che non ho mai amministrato nulla, ma andate a chiedere di come ho gestito i fondi che avevo quando era sottosegretaria alla Cultura. Dicono che Salvini andrà via, che sta facendo lui la campagna elettorale. Matteo è sempre venuto qui, anche quando la Lega era al due%. Adesso che siamo al trenta cosa si fa, lo lasciamo a casa? Ci sarà anche dopo, quando al governo ci sarò io». L’appuntamento che conta è quello del pomeriggio. Ore 17, dibattito tra i candidati all’assemblea annuale della Cna Emilia-Romagna, la confederazione dell’artigianato e della piccola media impresa con oltre 140.000 realtà sul territorio. Una corazzata. Borgonzoni si chiude nel suo rifugio di queste ultime settimane, una stanza d’hotel dove riposa e si prepara agli incontri. L’espressione del volto è provata. Anche lei con l’influenza, come Bonaccini. «Con me ha un atteggiamento paternalista», racconta dopo l’ennesimo caffè al bar. All’inizio di questa campagna ci soffrivo, quando dicevano che Salvini mi oscurava. Ora capisco che è un problema loro, di maschilismo. Il centrosinistra ha un problema a confrontarsi con il genere femminile». Sul palco del teatro Arena del sole sono in 7, con due minuti a testa per parlare. Borgonzoni siede accanto a Potere al popolo, Bonaccini al campione della lista contro i vaccini. In mezzo, un sorridente Simone Benini di M5S, che rivela una evidente preferenza per lei, chissà come saranno contenti i suoi a Roma. L’incidente avviene quando Borgonzoni accenna agli emiliano-romagnoli «che sono costretti ad andare fuori dalla Regione per curarsi». Arriva una salva di fischi, urla e buuu. Lei invia subito un messaggio a Salvini. «Qui sono tutti comunisti». Poi reagisce con carattere, non è una che incassa senza replicare. «Se va bene tutto così com’è, non votateci, se invece volete correre invece di camminare, fatelo. Buonasera». Nei corridoi arriva la risposta del capo leghista. «Te l’avevo detto...». Intanto nell’atrio si è creata una coda composta da una decina di imprenditori e dirigenti di Cna. Qualcuno chiede scusa, dando la colpa «ai soliti comunisti». Qualcun altro implora pietà.
Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 20 gennaio 2020. Lucia Borgonzoni è la sorridente favilla del maglio leghista che vuole abbattersi su quel che resta dell' Emilia rossa (la Romagna si dà ormai per espugnata), conquistare in un colpo solo la Regione e sbaraccare l' equivoco governo demostellato asserragliato nei Palazzi romani da settembre. Ufficialmente Lucia B. è soltanto la candidata del centrodestra unito per le elezioni del 26 gennaio 2020; nella realtà è molto di più: figlia di una Bologna borghese di lignaggio e alternativa per estro naturale, leghista per capriccio di famiglia e vocazione anticonformista, lei che è nata nella seconda metà dei Settanta, nipote per via paterna del pittore comunista Aldo, intimo di Renato Guttuso e Ottone Rosai. Avrebbe potuto essere una fra le tante raccomandabili fanciulle di "Quel gran pezzo dell'Emilia" ritratta da Edmondo Berselli e invece ha preferito la strada politica più impervia. Colpa o merito di sua madre Nadia che votava Carroccio dal 1989, quando la Lega era quasi solo lombarda e i Borgonzoni abitavano a San Lazzaro. Noi la ricordiamo come fresca sottosegretaria ai Beni culturali con delega al cinema nella tempestosa maggioranza gialloverde, un' amazzone scelta proiettata nella prima fila ministeriale accanto a Matteo Salvini insieme a un blocco generazionale compatto e variegato: Nicola Molteni, Stefano Candiani, Gianmarco Centinaio, Erika Stefani e così via; ovvero l'ondata dei quarantenni della Lega 2.0 concepita in Padania, svezzata nei Comuni e nei Consigli regionali e infine fiorita nella stagione ultima del risorgimento sovranista. Come i suoi colleghi, Lucia ha conosciuto la gavetta della provincia e si è misurata da consigliera bolognese (2008-2011) per azzardare nel 2016 la sfida a Palazzo d' Accursio contro il sinistro Virginio Merola: finì al ballottaggio con un dignitoso fotofinish (lei al 45,4 per cento) che le valse il rango per volare due anni dopo su Roma come senatrice e sottosegretaria. È la politica nazionale come logica prosecuzione del cursus honorum amministrativo, agevolata da una grazia particolarmente televisiva, dalla serissima spensieratezza di chi non patisce complessi d' inferiorità perché prima di arrivare al Palâz ha saputo destreggiarsi nel mondo rurale delle mondine e delle risaie dipinte da nonno Aldo così come fra gli stucchi gentilizi dei Marcionneschi di Montescudaio, ramo materno insediato in Toscana, là dove il nonno Virgilio militò fra i partigiani. Nella Lega dell' antifascista Umberto Bossi, dell'ex demoproletario Roberto Maroni e dell'acerbo leoncavallino Salvini, nessuno avrebbe potuto eccepire sul curriculum di Lucia, laureata all' Accademia delle Belle Arti con una tesi in Fenomenologia degli stili, pittrice d'occasione e barista perfino negli anni in cui i centri sociali della Bologna gruppettara erano covi di creatività anarco-nichilista, sperimentalismo musicale ed estetica underground. Lei all'eversione artistica ha preferito la militanza politica e adesso, "va là", si gode la sua campagna on the road, con la colonna sonora di Franco Battiato e Lucio Dalla la cui mamma fu sua vicina di casa in via delle Fragole, e in questa cavalcata emiliana tutto lo stato maggiore leghista è mobilitato. Dal capo supremo Matteo al neosindaco di Ferrara Alan Fabbri. Parole d'ordine: efficienza e concretezza, sicurezza e competenza, molti contenuti e zero ideologia per convincere un elettorato abituato a standard elevatissimi nella ricca regione in cui - diceva sempre Berselli - il socialismo non è altro che il capitalismo governato dalla sinistra. Ma è così da troppi decenni e allora, come in Umbria però al netto degli scandali, s'indovina una formidabile voglia di cambiare. E si mormora che il modenese governatore Stefano Bonaccini, amministratore tosto dal fenotipo palestrato e volitivo, abbia già invocato il soccorso armato dei Cinque stelle e stia mettendo mano alle nomine in scadenza per porre in sicurezza la nomenclatura uscente. A dispetto delle liti romane giallorosse: un modo per minare i tralicci del potere in vista della sconfitta? Ma sono appunto voci. Di sicuro, al momento, c'è che la settimana scorsa, a Parma, Borgonzoni e Salvini hanno richiamato tanta di quella gente da lasciare sgomento Federico Pizzarotti, il sindaco ex grillino che per concedere l' apertura di un passo carrabile esige un certificato di sana e robusta costituzione antifascista, nemmeno fossimo fra le barricate del 1922 che sbarrarono il passo all' avanzata della colonna d' Italo Balbo. Ma questa volta è forse la volta buona: Borgonzoni si affaccia nelle piazze con il profilo istituzionale di chi vanta l'esperienza di governo con gli improvvisati Cinque stelle e ora vuole dare più ossigeno alle imprese e svecchiare l'apparato di una burocrazia sovietizzante che dal caso Bibbiano alla ricostruzione post sismica ha mostrato i suoi limiti chiaroscuri. Ci sono meno di novanta giorni per incontrare tutti i mondi emiliani e romagnoli, 4 milioni e mezzo di abitanti ai quali rivolgersi tra un tavolo di lavoro e una tavolata di provincia (settimana prossima appuntamento al "November pork" nel parmense e poi alla Festa dei Becchi a San Martino sotto le gigantesche corna dell' Arco in piazza Ganganelli). Obiettivo: strappare l' Emilia-Romagna al suo grasso torpore socialista e ristabilire il diritto sovrano di riaprire le urne nazionali. Non senza divertirsi un po', come ai tempi belli dell' anarchia giovanile bolognese.
Emilia Romagna, padre di Borgonzoni: “Lucia dice che non ci vediamo da quando aveva 5 anni? Bugia assoluta e dimostrabile, si vergogni”. Gisella Ruccia il il 20 gennaio 2020 su Il Fatto Quotidiano. “Se avete occasione di sentire mia figlia Lucia, ditele semplicemente che dovrebbe provare un po’ di umana vergogna nel raccontare balle, del tipo che non ci parliamo da quando lei aveva cinque anni. È assolutamente falso, una bugia sesquipedale. E’ proprio una falsità a livello documentale ed è dimostrabile. Se Lucia vincerà le elezioni regionali, cosa più che possibile, il mio sarà uno dei primi telegrammi. Non c’è problema”. Sono le parole pronunciate ai microfoni de La Zanzara, su Radio24, da Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia Borgonzoni, candidata leghista del centrodestra alla presidenza della Regione Emilia Romagna. Emilia Romagna, Borgonzoni (Lega): “Mio padre voterà Bonaccini e non me? Veramente non gli parlo da quando avevo 5 anni”. L’architetto bolognese, notoriamente sostenitore del candidato di centrosinistra Stefano Bonaccini, esprime il suo supporto al movimento delle Sardine, a cui ha donato alcuni quadri di famiglia (“portano una ventata di aria fresca nella sinistra italiana e questo lo trovo eccezionale“) e attacca frontalmente il leader della Lega: “Quando vedo il panzone lì, Salvini, mi chiedo una cosa: ma lui ha pagato i diritti e le royalty ad Antonio Albanese, che nel 2008 ha inventato la figura del ministro della paura? Il panzone usa anche dei termini e delle locuzioni che si richiamano al Ventennio, ma io credo che comunque il nostro Paese possa resistere”. Gregoretti, Salvini: “È una barzelletta. Chiederò ai senatori della Lega di mandarmi a processo. I giudici? Non rompano le scatole a chi lavora”. A Cruciani che gli ricorda l’antitesi assoluta tra le Sardine e Lucia Borgonzoni, il padre della parlamentare risponde: “Ma secondo voi ascendenti e discendenti devono avere necessariamente gli stessi orizzonti culturali e politici? Non mi dà affatto dolore il fatto che mia figlia si sia candidata con la Lega, Penso che Lucia sia una persona molto “borgonzoniana”. Quindi, scusatemi per la supponenza, ma penso che mia figlia sia una persona di qualità. Ma, se c’è un dramma in Italia, è il familismo. Io in realtà dovrei ricevere dalle persone di cultura di centro, di destra e di sinistra una bella medaglia, magari una patacca di rame e sentirmi dire: ‘Quanto sei bravo Borgonzoni che rompi questo tabù orrendo del familismo’. Il familismo sta distruggendo l’Italia, vi rendete conto?”. Battuta finale anche sulla leader di Fratelli d’Italia: “Giorgia Meloni? Mi è più simpatica di Salvini per la sua vitalità: è donna e anche ruspante. Certo, è una fascistella. Salvini e Meloni al governo? Spero di non essere impiccato, visto che sono un padre che esprime opinioni dissenzienti da quelle della figlia”.
Emilia Romagna, il padre della leghista Borgonzoni brinda con il leader delle Sardine. Giambattista Borgonzoni, ancora una volta, si è schierato contro la figlia e ha dichiarato: "Santori è ragazzo in gamba che, insieme ad altri giovani, sta animando un movimento con principi sani e civili". Infine l'augurio di "arrestare le politiche della Lega". Lavinia Greci, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. Che fosse schierato dalla parte politica opposta alla figlia non lo aveva mai nascosto. Ma nelle ultime ore, Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia Borgonzoni, candidata della Lega alle elezioni regionali in programma per il 26 gennaio in Emilia Romagna contro Stefano Bonaccini, ha fatto un passo in avanti. E si è fatto fotografare insieme al leader del movimento delle Sardine, Mattia Santori, nel capoluogo emiliano. L'immagine, che è stata postata sul suo profilo Facebook ieri, ritrae il padre della candidata leghista insieme al giovane leader e a Roberto Morgantini, mente di Cucine popolari, che ogni anno prepara decine di migliaia di pasti ai più poveri e ai bisognosi. La foto dell'incontro tra i tre ha fatto subito il giro della rete, soprattutto per la frase riportata, che presenta chiari riferimenti al partito di cui fa parte la figlia Lucia. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, Giambattista Borgonzoni, dichiarato sostenitore del Partito democratico, ancora una volta, non avrebbe nascosto la sua posizione: "Ho voluto incontrare Mattia Santori, ragazzo in gamba che, insieme ad altri giovani, sta animando un movimento con principi sani e civili, per augurare di centrare l'obiettivo: arrestare le politiche della Lega". Già a novembre scorso, Giambattista Borgonzoni, aveva ribadito la sua intenzione di non votare la figlia Lucia ma di scegliere Stefano Bonaccini, che ha definito "un eccellente governatore di una regione che, per qualità e per gestione, è pari ai migliori lander tedeschi". Nel 2016, infatti, in occasione delle comunali di Bologna, il padre aveva dato il suo voto all'avversario, dichiarando: "Lucia è brava, ma io Salvini non lo voto". E proprio sulla figlia Lucia, a novembre, aveva detto: "È naturale che ascendenti e discendenti non sempre devono avere opinioni collimanti, altrimenti vivremmo in un mondo di zombie. Lei ha qualità ma è sul cavallo sbagliato. Forse non se ne rende conto. Per caratteristica è una persona che sa vivere la politica". E nelle ultime settimane, a pochi giorni dall'appuntamento elettorale, la candidata leghista, a Radio cusano campus, aveva replicato: "C'è una narrazione dell'Emilia Romagna che non corrisponde alla realtà. Hanno chiuso tantissime imprese e la Regione non ha messo in campo le strategie per fermare questa emorragia. Quello che funziona, funziona nonostante il Pd. Permane la suggestione che tutto funzioni alla perfezione come in passato quando, in realtà, oggi funziona tutto meno bene".
Grande pena per il genitore zero della Borgonzoni. Schifo per la sinistra che fa sciacallaggio. Cavaliere Nero venerdì 17 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Fa davvero pena questa sinistra che si attacca alle stupidaggini di papà Borgonzoni. E’ immiserita dal punto di vista etico, morale. Per carità, un padre che punta a fare male alla figlia impegnata nella battaglia per la presidenza della regione Emilia Romagna è davvero un pessimo esempio. Roba da nascondersi per la vita. Ma è la sinistra che lo trasforma in eroe che deve far riflettere chi ha un minimo di buonsenso. Vagheggiavano di genitore 1 e genitore 2 adesso esaltano genitore zero. Sui social si legge la frase più stupida: “Neanche suo padre la vota”. E che ne sapete dei rapporti familiari, sciacalli che non siete altro? E lui, quello che si fa intervistare come “padre” e dice che ha le prove che parla con la figlia. Noi abbiamo le prove che lei è uno svergognato, caro signore. Perché ci sta che in famiglia si possa non andare più d’accordo, ma è roba davvero schifosa prestarsi a strumentalizzazioni politiche come quelle a cui assistiamo attonite. Persino quel Mattia Santori, il cicisbeo che sarebbe a capo delle Sardine, insegue Borgonzoni senior per farsi selfie con lui (vedi foto), illudendosi con questi espedienti di avvantaggiare il presidente uscente, anzi in uscita, Bonaccini. E’ una politica orrenda. Candidatelo a capo della sinistra senza leader, questo anziano signore che deve aver perso il lume della ragione. Non sa, poverino, che dal 27 gennaio sarà gettato a mare da Bonaccini e compagnia dopo essere stato usato da loro. Succede a tutti i servi sciocchi della compagnia che dal Pci è arrivata al Pd… E quanto ha ragione Pietrangelo Buttafuoco nel suo tweet: “È legittimo votare Bonaccini, ci mancherebbe, ma la ricerca di visibilità di Borgonzoni padre nel suo prendere distanze dalla figlia non è autonomia di pensiero ma solo voglia di sfregiarla”. Con tanto di risposta da applausi da parte di un suo follower. Quel “padre” è solo un “concentrato di miseria umana che sfocia in vomitevole ripicca”. Nulla da aggiungere.
La legge Bonaccini sui nomadi che fa "moltiplicare" i campi rom. La norma approvata dalla giunta Pd regolamenta le microaree. A Bologna da un campo a due. A Rimini ne nascono cinque. Giuseppe De Lorenzo ed Eugenia Fiore, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. La domanda è: che senso ha "superare" un campo nomadi, "fonte di disagio e tensione sociale", per poi aprirne altri più piccoli? Se lo chiedono i cittadini dell'Emilia Romagna, che negli ultimi anni si sono trovati sul groppone una legge regionale il cui obiettivo è sì quello di chiudere i grossi insediamenti rom, ma che per farlo permette di spezzettarli in tanti mini-campi di ridotte dimensioni. Della serie: lasci uno e prendi chissà quanti. La norma è stata approvata nel 2015 dalla giunta guidata da Stefano Bonaccini, oggi di nuovo candidato alla presidenza della Regione. La legge prevede che i Comuni possano offrire ai nomadi residenti nel proprio territorio "una pluralità di soluzioni abitative" alternative ai grandi campi: si va dalle forme abitative tradizionali alle famigerate "microaree familiari pubbliche o private". Una microarea non è altro che un nuovo accampamento (con piazzole, case mobili e bagni in comune) solo più piccolo e ben costruito. A Bologna, per esempio, la giunta Pd per licenziare la problematica area sosta di via Erbosa ha ben pensato di edificarne due (al modico prezzo di circa 300mila euro) in altrettante zone della città. Così oggi i cittadini si ritrovano a dover convivere con due insediamenti al posto di uno. Un colpo di genio. Secondo i vertici di viale Aldo Moro, le microaree ridurrebbero ghettizzazione e degrado. "Non mi pare che i casi già sperimentati dicano questo", sussurra ironico il consigliere comunale leghista di Rimini, Matteo Zoccarato. Nella città costiera, per esempio, la maggioranza dem propose costruzione delle microaree così da chiudere la baraccopoli di via Islanda. Il progetto iniziale prevedeva la creazione di tre nuovi insediamenti, poi diventati cinque. "A un certo punto avevano pensato addirittura di aprirne undici", racconta Zoccarato che insieme ai comitati cittadini "di centro, destra e sinistra" si è opposto al progetto dal costo di circa 200mila euro. Ad oggi il piano risulta bloccato e "difficilmente faranno ripartire a un anno dalle elezioni comunali". Già, le elezioni. In tempo di regionali era inevitabile che il tema "nomadi" entrasse prepotentemente in campagna elettorale. Gli schieramenti in fondo sono su posizioni inconciliabili: da una parte chi quella legge ha contribuito ad approvarla (Bonaccini); dall’altra chi la contesta apertamente e in un campo rom è stata pure aggredita (Lucia Borgonzoni). Il tema è scottante. In Emilia Romagna a fine 2017 erano presenti qualcosa come 2.784 nomadi, divisi in 144 insediamenti di cui 32 grandi aree sosta e ben 112 microaree (37 pubbliche e 75 private). Numeri consistenti, che la stessa Regione definisce come il frutto di "un fenomeno peculiare" emiliano in cui molti nuclei sinti hanno avuto "la tendenza" ad "uscire dalla aree sosta pubbliche" per "stabilirsi in piccoli appezzamenti agricoli di loro proprietà". Propensione cui si è aggiunta la scelta di alcune amministrazioni già da diversi anni di "sperimentare" microaree comunali "in cui far risiedere i nuclei familiari". Non è un caso se il rapporto annuale 2018 dell'Associazione 21 luglio definisce l'Emilia Romagna la "Regione che conta il maggior numero" di microaree e quella che, insieme al Piemonte, vanta la concentrazione più alta di baraccopoli formali in Italia (ben 19). Con la sua legge, dunque, il Pd ha disciplinato questa tendenza e poi l’ha fatta propria. Investendoci sostanziose risorse economiche. Nel 2016 , infatti, Bonaccini&Co mettono a bilancio circa 1 milione euro per il superamento delle grandi aree sosta, la costruzione delle microaree e le transizioni abitative. Al bando partecipano le città di Camposanto, Carpi, Bologna, Casalecchio di Reno, Ferrara e Rimini. Tutti comuni (al tempo) governati da amministrazioni Pd o di centrosinistra. "Questa legge è assurda - sottolinea Zoccarato - perché così fa moltiplicare i campi nomadi". Il bello (o il brutto) è che per quanto l'Emilia piddina consideri le microaree una soluzione "innovativa" in grado di migliorare la vita dei sinti, la realtà rischia di essere ben diversa. A certificarlo è la stessa Associazione 21 Luglio, che nel rapporto assicura come le microaree non facciano altro che reiterare "la segregazione abitativa e sociale di famiglie su base etnica". Un completo autogol.
"I nomadi? Sono stanziali". E Bonaccini "regala" altri campi ai rom. Il documento della Regione guidata da Bonaccini: i rom e sinti non sono più "nomadi". La scelta di una legge sulle microaree pubbliche e private. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. Avete presente quando Giorgia Meloni sosteneva che i nomadi dovrebbero "nomadare"? E che quindi l’esistenza dei campi degradati non sarebbe giustificata? Ecco: in Emilia Romagna questo assunto non si può applicare. Il motivo è semplice: nella terra dei tortellini, i nomadi sono considerati "stanziali". Sembra un ossimoro, ma non lo è. La rivoluzione è certificata a pagina 26 della Strategia regionale per l'inclusione dei rom e dei sinti, approvata nel 2016 dalla giunta di Stefano Bonaccini. La comunità, si legge, "non è più definibile come nomade" perché solo "una esigua percentuale conduce uno stile di vita itinerante". A certificarlo ci sono i numeri: tra Rimini e Piacenza, l'89,1% della popolazione è "stabilmente presente nelle aree di sosta", mentre appena "l'1,7% si ferma per periodi brevi" fino a tre mesi. La "stanzializzazione", così viene definita, è dovuta a tre fattori: burocratici, di scolarizzazione dei figli e soprattutto il fatto che i nuovi lavori prevedono "presenza nello stesso luogo" mentre "i mestieri praticati precedentemente si basavano sulla possibilità di praticare uno stile di vita nomade".
La legge Bonaccini sui nomadi che fa "moltiplicare" i campi rom. La differenziazione non è di poco conto. In passato le regioni, tra cui l'Emilia, avevano edificato delle zone dove i sinti potessero sostare per poi ripartire. Come noto, quelle che dovevano essere aree di transito si sono trasformate in veri e propri accampamenti. Con tutto il corollario di degrado che ne consegue. Visto dunque che "lo stile di vita nomade non è più funzionale alla maggior parte di queste comunità", secondo la Strategia regionale decade "la necessità di aree transito di vecchia concezione". Così, invece di convincere i nomadi a "nomadare", come direbbe Meloni, il Pd emiliano ha preso atto della trasformazione sociale e ha deciso di approvare una "disciplina speciale" (qualcuno dice "razzista" verso gli italiani) che permette di "spezzettare" le aree transito e costruire tanti piccoli campi in giro per la regione. L'obiettivo ufficiale è quello di superare le grandi aree sosta, puntando ad un successivo "accesso a forme abitative simili a quelle della comunità maggioritaria". Ma in attesa che i nomadi si convincano a vivere negli appartamenti, la paura dei cittadini è quella di ritrovarsi con due (o tre) campi al posto di uno. Come nel caso di Bologna (leggi qui), dove un’area sosta produrrà due microaree; in quello di Rimini (leggi qui), dove si prospettano cinque insediamenti al prezzo di uno. Direte: magari un giorno verranno chiusi. In teoria è così: le microaree (pubbliche o private che siano) dovrebbero essere "temporanee". Ma la legge non dà una data di scadenza. Inoltre in Emilia Romagna le microaree "spesso gravate da irregolarità e abusi edilizi" esistono già da tempo (la legge ha fornito un quadro normativo) ed è la stessa Regione ad ammettere che nella comunità non c'è grossa "propensione" a vivere nelle case. Se infatti i rom "accettano l'opzione dell’abitare in casa" (al netto delle morosità e della difficile relazione col vicinato), per i sinti si registra una "generalizzata tendenza al rifiuto di soluzioni abitative tradizionali" e "un alto tasso di fallimento degli inserimenti di questo tipo". Peccato che in Emilia - dicono gli ultimi dati regionali disponibili - il 98,9% dei nomadi siano sinti. Dunque non è folle pensare che quei micro-campi alla fine diventeranno eterni. Con buona pace dei cittadini.
Emilia Romagna, arrestato sostenitore di Bonaccini: permessi di soggiorno falsi e 200mila € in contanti. Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Scoppia lo scandalo dei permessi di soggiorno falsi a Bologna. È stato arrestato Fabio Loscerbo, un avvocato specializzato in pratiche legate all'immigrazione e vicino agli ambienti di sinistra. Nel 2019 si era candidato a sindaco di Malalbergo con una lista definita "multietnica", mentre negli ultimi mesi aveva espresso il proprio sostegno a Stefano Bonaccini nella corsa per la guida dell'Emilia Romagna. L'avvocato 39enne è finito ai domiciliari per i reati di falso ideologico in atto pubblico per induzione in errore, contraffazione e utilizzo di documenti al fine di determinare il rilascio del permesso di soggiorno e favoreggiamento della permanenza in clandestinità nel territorio italiano. Lo stesso provvedimento ha raggiunto anche Farouk Zoghlami, un 57enne tunisino che era ritenuto il braccio destro dell'avvocato. Nel corso delle perquisizioni la squadra Mobile della Questura bolognese ha sequestrato circa 200mila euro in contanti a Loscerbo. L'indagine era partita a giugno del 2018 su segnalazione dell'ufficio Immigrazione, che aveva registrato un aumento anomalo delle domande di protezione internazionale: tra le comunità di stranieri si era diffusa la voce che rivolgendosi all'avvocato 39enne sarebbe stato facile ottenere un permesso di soggiorno. Un vero e proprio sistema di permessi falsi che è stato commentato anche da Matteo Salvini con un tweet: "Bell'esempio di campione della sinistra buonista dei porti aperti... per mangiarci su! Vergogna dell'Emilia Romagna e dell'Italia".
Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 21 gennaio 2020. “Perché qui da noi cresce la Lega? C' è voglia di cambiamento». Michele esce dalla libreria-edicola di via Giovanni Pico con la Gazzetta di Modena in mano e si infila in macchina. «Dopo 74 anni di Pci e Pd, permette che si abbia voglia di qualcosa di diverso, proviamo no? E guardi che io prima votavo a sinistra». La signora Gemma lavora in banca ed è in pausa caffè. Dall' altra parte del bancone la barista con i capelli corti e biondi con un ciuffo viola ci invita a guardare quanti edifici sono ancora in ricostruzione dopo il sisma del 2012. Usciamo per le vie di Mirandola e andiamo a vedere. Molti palazzi sono nuovi, alcuni in piena lavorazione con le gru che ruotano sui tetti, il Duomo è come nuovo di zecca. C' è ancora molto da fare, dopo quel terremoto che causò 28 morti e lo sfollamento di 45 mila persone nelle province di Modena, Ferrara, Bologna e Reggio Emilia. Ma oggi oltre 15 mila famiglie sono rientrate nelle proprie case. Eppure da queste parti, dove operano 115 mila imprese che danno occupazione a 450 mila lavoratori e creano il 2,4% del Pil nazionale, il mantra è "cambiamento". È la periferia contro le città. La provincia delle montagne e della bassa modenese attaccata al mantovano dove vive chi si sente dimenticato. Alcuni giorni fa in televisione Pierluigi Bersani aveva detto di sentire vicino il popolo di Salvini. Ieri sera avrebbe avuto una grande occasione, sarebbe dovuto andare nel ristorante dello chef stellato Massimo Bottura, nel salotto di Modena. Ospite d' onore della cena elettorale il candidato Dem Bonaccini. Per essere presente bisognava mettere mano al portafoglio: mille euro. «Le persone non vogliono cambiare per il gusto di cambiare», spiega il trentaduenne deputato di Mirandola Guglielmo Gollinelli, che coltiva meloni e alleva suini. Nel tempo libero fa i salami con il sindaco del suo paese, il leghista Alberto Greco, eletto sette mesi fa dopo 74 anni di impero Pci-Pd. Greco è una vistosa macchia verde nella cintura sempre meno rossa di Modena. Miranda come San Felice e Finale Emilia che cambiarono colore politico nel 2016. Gollinelli sta aspettando agricoltori e cacciatori per una cena elettorale offerta dal candidato Roberto Lodi. C' è pure l' ex ministro dell' Agricoltura Gianmarco Centinaio. La loro analisi è semplice. Dicono che i "signori delle tessere" hanno investito in infrastrutture solo lungo la via Emilia. Attendono da anni la strada cispadana che dovrebbe collegare Ferrara a Parma incrociando la A22 Modena-Brennero: in una zona piena di aziende biomedicali, meccaniche e agricole. «Quando piove ed esonda il Secchia, chiedono i ponti e il traffico impazzisce», precisa Golinelli. Ci spostiamo a Concordia sulla Secchia. Incontriamo Renzo Belli. Dopo il sisma è stato nominato farmacista dell' anno e la presidenza della Repubblica gli ha riconosciuto la medaglia d' oro per merito civile. Ci fa vedere il parco della sua villa antica dove ha ospitato e dato da mangiare a 150 sfollati. «Io ho visto l' assalto della strada che si alzava davanti ai miei occhi come un' onda alta quasi un metro, sembrava la coda di un drago. Non è vero che sono stati svelti a fare la ricostruzione, tutte bugie. I capi del Pd stanno nelle città, i loro parenti pure, si fanno i piaceri tra di loro». Il dottor Belli, cattolico e moderato, prima votava Forza Italia e Berlusconi, ora Lega e Salvini. Lasciamo la pianura e saliamo sugli Appennini. L' ondata leghista ha espugnato Pievepelago, Fiumalbo e soprattutto Pavullo nel Frignano, 15 mila abitanti e un ospedale nel quale è stato chiuso il Punto Nascita. I parti sono scesi sotto quota 500 e il Punto è stato considerato "pericoloso" perché i ginecologi con pochi pazienti avevano perso la mano in sala parto. Sono venuti sia Bonaccini sia Borgonzoni a promettere che verrà riaperto. È scettico Gaetano Vandelli, barba bianca e faccia simpatica. È lo storico presidente del comitato 95 (anno di fondazione) che interpreta il sentimento di abbandono in queste valli. «A Pavullo serve un territorio e un bacino montano di 40 mila persone. Non lo so se la Borgonzoni potrà fare meglio. So però che a chiudere il Punto Nascita è stato Bonaccini. È venuto in campagna elettorale a dirci che l' avrebbe riaperto se non fosse stato osteggiato dall' ex ministro dei 5 Stelle Grillo. Ora sostiene che potrà farlo perché il nuovo ministro Speranza gli dà ascolto. Vedremo». L'unico modo per riaprirlo ed evitare che le donne partoriscano in autoambulanza, dicono i leghisti, è di derogare ai parametri nazionali dei 500 parti considerando i problemi che ha una popolazione di montagna. Su queste montagne è venuto a rifugiarsi Francesco Guccini. In questi giorni ha dichiarato di «sentirsi circondato».
(ANSA il 22 gennaio 2020) "Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni". L'endorsement alla candidata di centrodestra alle elezioni regionali in Emilia-Romagna arriva da Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna reduce da un trapianto di midollo osseo per battere la leucemia che lo ha colpito l'estate scorsa. Intervistato dal Resto del Carlino afferma: "Mi piace la grinta di Salvini, ottima la scelta di una donna".
L'assist di Mihajlovic alla Lega: "Tifo per Salvini e Borgonzoni". L'allenatore del Bologna si schiera con la Lega in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Alberto Giorgi, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "Matteo Salvini è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, dai tempi del Milan. Mi piace la sua forza, la sua grinta, è un combattente". Sinisa Mihajlovic esce allo scoperto e fa il proprio endorsement al leader della Lega. "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni", spiega nell'intervista rilasciata al Resto del Carlino. L'allenatore del Bologna sta combattendo da mesi come un leone contro un brutto male e come spesso gli capita non ha paura di esporsi. Neanche se si tratta di politica. E infatti nella chiacchierata con il quotidiano locale, il serbo si lascia andare a parole al miele verso il segretario del Carroccio: "Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene. I grandi uomini fanno questo, nello sport e nella politica". Dunque, il mister dei rossoblù entra nel merito della tornata elettorale nella regione "rossa" per eccellenza, dove il centrosinistra governa senza sosta da cinquant'anni: "Cambiare tanto per cambiare non serve. Io posso solo dire che sono in Italia dal 1992 e anche se non è il mio Paese di origine, è come se lo fosse diventato. E, da allora, trovo l'Italia peggiorata. Quindi bisogna avere idee e la forza di migliorare…". Da questo presupposto, ecco l'appoggio totale al capo politico della Lega e alla candidata (leghista) del centrodestra unito contro il dem Stefano Bonaccini: "Salvini è intelligente e capace, è all'altezza di guidare il Paese. E le donne – come Lucia Borgonzoni, ndr – beh le donne sono più forti degli uomini: le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all'altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". L'ultima battuta dell'intervista di Mihajlovic al Carlino è dedicata alla querelle sul caso della nave Gregoretti e al processo a Matteo Salvini: "Normale. Silvio Berlusconi quanti processi ha avuto? È normale che quando cerchi di cambiare molte cose e magari usi metodi forti, qualcuno possa chiedere di valutare il tuo operato. Di Matteo io dico: 'Fidatevi. E vedete quello che fa'".
ALBERTO MATTIOLI per la Stampa il 22 gennaio 2020. Vuoi vedere che le importantissime, decisive, epocali regionali dell' Emilia-Romagna si decideranno (anche) a tavola? Si sa: la vocazione della regione più godereccia e "grassa" d' Italia è questa. Qui non si mangia per vivere, si vive per mangiare. E anche per votare conta come i candidati si mettono a tavola e cosa si mettono nel piatto. Solo così si spiega la polemica scatenata dalla cena organizzata a favore di Stefano Bonaccini, lunedì sera a Modena. Nulla di strano, di cene elettorali è pieno il mondo. Ma stavolta a cucinare per il governatore piddino uscente è stato Massimo Bottura, il modenese miglior chef del mondo (però non nel suo tristellato ristorante, evidentemente troppo piccolo, ma in un' altra sede) e i partecipanti, una cinquantina, hanno versato ognuno mille euro per godersi i suoi manicaretti e finanziare la campagna di Bonaccini. Sia dal punto di vista mondano che gastronomico siamo un po' lontani dalle feste dell' Unità, dove le rezdore comuniste, volontarie in cucine da campo dove Dio non le vedeva ma Stalin sì, cucinavano tortellini democratici e tagliatelle antifasciste indimenticabili anche per i democristiani. E certo la distanza è forte fra Bottura, cuoco-intellettuale per pochi (ma molto impegnato nel sociale con le sue mense per i poveri apprezzate anche da Bergoglio) e un altro papa Francesco, quell' Amadori re del pollo che Salvini cita un comizio sì e l' altro pure come esempio delle virtù imprenditoriali emiliano-romagnole, anzi solo romagnole perché il cavaliere del Lavoro è di Cesena. Come del resto si capiva benissimo dall' accento del suo celebre "Parola di Francesco Amadori" negli spot dove ci metteva la faccia. Così, il fundraising per happy few ha riacceso inevitabilmente le polemiche sul Pd partito dell' élite contrapposto al popolo già rosso e oggi, pare, molto leghista, che delle rivisitazioni di Bottura non sa che farsene, e in ogni caso non può permettersele. E magari a tavola vuole la cucina ruspante, anzi sovranista, dei piatti ancestrali della gloriosa tradizione locale. Infatti la Lega spara a zero sulla cena da mille euro, anche se più che sul gastronomico attacca sul sociale: «Se il Pd intende rappresentare in questo modo la sinistra operaia e le classi meno abbienti, viene da pensarla come il segretario Zingaretti: questo Pd s' ha da sciogliere», tuona il suo segretario regionale, Stefano Bargi. Ma il menù dem non lo digeriscono nemmeno a sinistra. «Un vero e proprio schiaffo alle disuguaglianze», dicono quelli di Potere al popolo (raccattando una brioche?). Dal Comitato Bonaccini ribattono che, visto che i fondi per fare çampagna servono, è meglio trovarli così, in maniera trasparente. E accusano Lucia Borgonzoni di aver speso 18 mila euro su Facebook per la sua propaganda. Però ancora una volta i simboli sono potenti. A un Bonaccini attovagliato davanti alle squisitezza del Massimo corrisponde un Salvini che mai come in questa campagna ha assaggiato di tutto e di più. Lo si è visto a colazioni, pranzi, merende, aperitivi, spuntini, cene, mentre assaporava ogni possibile prodotto tipico di una regione che ne ha moltissimi, si sdilinquiva davanti al parmigiano-reggiano, si esaltava sul cappelletto, si estasiava sul tortellino. Il capolavoro è stato probabilmente il video dove, in piena fase Silvio Pellico, il Capitano si aggirava per un salumificio chiedendo di commutare le sue ipotetiche prigioni per il caso Gregoretti in un soggiorno obbligato lì e concludeva baciando una coppa. Intesa come l' insaccato. Qui però bisogna farsi informare bene su usi e consumi locali. Sergio Cofferati rischiò di non diventare sindaco di Bologna perché fu beccato a versare il lambrusco nel brodo dei tortellini, usanza da riva lombarda del Po, là dove ci sono i barbari. E lo stesso Salvini, qualche mese fa, twittò la foto di un piatto di tortellini al ragù, roba che può mangiare solo un turista cinese o una bestia di Satana (in brodo, i tortellini si mangiano in brodo: come dobbiamo dirvelo?). E del resto gli effetti di questo continuo divorare in giro si sono visti sul suo girovita. Lui ammette soltanto di aver preso «due chiletti», ma forse sono anche di più, a vedere come "tira" il maglione populista. Di certo il digiuno gandhiano proclamato dopo l' autorizzazione a procedere non potrà che fargli bene. Anche se forse non all' immagine: noi emiliano-romagnoli perdoniamo tutto, tranne l' inappetenza.
Mihajlovic e le elezioni in Emilia Romagna: “Sto con Salvini”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. In vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna, Sinisa Mihajlovic ha fatto sapere da che parte è schierato. Sinisa Mihajlovic ha espresso la sua opinione in merito alle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna in programma per domenica 26 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna ha dichiarato di voler sostenere Matteo Salvini e la sua candidata Lucia Borgonzoni. Il leader leghista ha ringraziato Sinisa tramite social, definendolo un “grande campione” e un “uomo coraggioso“. Pur non votando per il rinnovo del Consiglio regionale, Sinisa ha espresso la sua preferenza politica schierandosi dalla parte della Lega. Ha infatti raccontato di essere amico di Salvini da qualche anno, precisamente dal 2015, “i tempi del Milan“. Ha poi avuto recentemente un incontro con il leader del Carroccio, che ha sempre espresso ammirazione nei suoi confronti e che è passato a trovarlo per vedere come stesse. “Un incontro piacevole“, ha spiegato l’allenatore. “Mi piace la sua forza e la sua grinta, è un combattente“, ha continuato. Ha poi aggiunto che ritiene Salvini un uomo tosto che fa quello che dice, ribadendo il sentimento di amicizia che lo lega a lui. Mihajlovic ha poi espresso il suo apprezzamento anche nei confronti della candidata presidente del centrodestra. Pur non conoscendola personalmente, la ritiene una donna all’altezza in virtù del suo carattere e della sua determinazione. “Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio“, ha precisato, sostenendo che Lucia Borgonzoni sia un’ottima scelta per la regione per il suo carisma e per la fiducia che si è meritata. Non è tardato ad arrivare il ringraziamento della leghista all’allenatore del Bologna. Queste le sue parole condivise in un post su Facebook: “Grazie di cuore, Mister, speriamo, insieme alla nostra squadra, di riuscire a meritare questa fiducia, per il cambiamento dell’Emilia Romagna, con umiltà ma tanta passione“. Anche Matteo Salvini ha ringraziato Sinisa per il coraggio che ha avuto nell’esprimere la preferenza per il suo partito.
Mihajlovic si schiera con Salvini e gli heaters gli augurano la morte. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna si era schierato con la candidata del centrodestra. Dopo l’endorsement per Matteo Salvini e Lucia Bergonzoni in vista delle elezioni emiliane di domenica prossima, l’alleantore del Bologna Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli heaters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. L’allenatore serbo sta combattendo la sua battaglia contro la leucemia che lo ha colpito l’estate scorsa ed è reduce da un trapianto di midollo osseo. Tra coloro che si sono scagliati contro di lui per l’intervista pro-Salvini vi è anche chi gli rimprovera scarsa riconoscenza nei confronti di Stefano Bonaccini, presidente uscente dell’Emilia Romagna e candidato del centro sinistra alle elezioni di domenica, per il fatto di essere stato curato in un ospedale pubblico di Bologna. Sull’altro versante, non manca chi prende le difese di Mihajlovic stigmatizzando il comportamento di chi si è spinto fino ad augurargli la morte. “Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola”, “Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d’Italia”, sono alcuni dei commenti che circolano su twitter.
Il leone Sinisa e i conigli rossi. Andrea Indini su Il Giornale il 22 gennaio 2020. Ha visto di tutto nella sua vita Sinisa, figuriamoci se si fa scalfire da quattro conigli rossi che lo insultano e gli augurano la morte. Lui resterà sempre un leone, loro degli ignobili roditori che si attaccano a una tastiera per inveire contro chi non la pensa come loro. Ne ha viste tante Mihajlovic e oggi non si fa certo problemi a rilasciare un’intervista per dire che appoggia in tutto e per tutto Matteo Salvini. Non se li fa anche se siede sulla panchina di una squadra, il Bologna, la cui curva è più rossa che non ce n’è. E poi: perché mai dovrebbe farsene? Ha detto quello che pensa. Punto. Si chiama libertà. La violenza con cui gli sono piombati addosso era prevedibile. E sono andati a colpirlo là dove, fino a qualche settimana fa, tutti gli si stringevano attorno: la malattia che gli divora dentro, quel tumore che non lo ha fermato. Se non lo ha fatto il cancro figuriamoci se ci riusciranno quei quattro idioti che gli augurano la morte perché ha fatto un endorsement al Capitano leghista. Gli rinfacciano di appoggiare Lucia Borgonzoni e gli ricordano che nel frattempo “si fa curare con la sanità di Bonaccini”. Per questo dovrebbe tacere. “Sosterrà Salvini in Emilia Romagna – scrivono – con un tumore già ci convive”. Da brividi. E ancora: “Speriamo muoia entro domenica”. Per Sinisa sono tutti moscerini. Lui che è cresciuto nella Jugoslavia del generale Tito, che ha vissuto sulla propria pelle due guerre violentissime, che ha visto le bombe americane radere al suolo le città serbe e gli amici cadere come foglie, non si lascia certo smuovere da un augurio di morte. La morte, appunto, l’ha guardata in faccia più volte e più volte l’ha sconfitta. Con un unico rimpianto. “Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto – ha raccontato tempo fa – il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre”. Tutto il resto sono bassezze che non lo toccano ma che a noi dicono, ancora una volta, che le anime belle che vogliono i tribunali contro le destre sono i primi, feroci odiatori che metterebbero alla gogna chiunque non la pensi come loro.
Sinisa tifa Salvini e la sinistra impazzisce: "E poi ti curi con la sanità di Bonaccini". Dopo l'endorsement dell'allenatore del Bologna Siniša Mihajlović a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, c'è chi lo accusa: "Si cura con la sanità di Bonaccini". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Sinisa Mihajlovic, ex giocatore di Sampdoria, Lazio e Inter e ora allenatore del Bologna, è finito nel mirino della stampa di sinistra dopo l'endorsement a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni dato in un'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino. "Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni" ha dichiariato Sinisa, sottolineando che Salvini "mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi". Apriti cielo! Da notare che Sinisa Mihajlovic è uno dei pochissimi "vip" a fare il tifo per Salvini e Borgonzoni in Emilia-Romagna: se dovessimo stilare la lista di quelli apparsi sui giornali in favore di Bonaccini, a cominciare da quelli saliti sul palco con le sardine a Bologna, non finiremmo più.
"Si cura con la sanità di Bonaccini". La notizia, oltre a scatenare i social (insulti compresi), ha anche acceso la stampa di sinistra e progressista. Next Quotidiano, testata edita da Nexilia, titola così: "Sinisa Mihajlovic appoggia Borgonzoni ma si cura con la sanità di Bonaccini", in riferimento alla battaglia contro la leucemia che l'allenatore del Bologna sta conducendo con grandissima tenacia e dignità dopo essersi sottoposto al trapianto di midollo osseo. Una malattia terribile che Mihajlovic sta combattendo sin dal primo giorno con la forza di un leone, senza peraltro mai abbandonare la sua squadra, il Bologna. Nell'articolo Next Quotidiano si chiede "cosa vorrebbe cambiare Mihajlovic in Emilia-Romagna" probabilmente "non l’equipe medica dell’Ospedale Sant’Orsola che lo ha avuto in cura. L’istituto di ematologia Seragnoli è considerato una delle eccellenze della Sanità pubblica italiana. Ma probabilmente all’allenatore del Bologna poco importa che il progetto della Lega sia quello di una progressiva privatizzazione del comparto sul modello della Lombardia". Oltre all'inopportunità di scomodare la malattia e questioni personali estremamente delicate per criticare una legittima opinione politica, va rilevato che la sanità "non è di Bonaccini" ma dell'Emilia-Romagna e dello stato italiano. Il fatto che un suo diritto sia stato garantito significa che Sinisa, peraltro cittadino onorario di Bologna, debba per forza di cose pensarla come l'attuale governatore su tutto? Si fa davvero fatica a comprendere la logica di un'argomentazione del genere. Lo stesso quotidiano osserva, inoltre: "Nessuno a quanto pare lo ha avvertito che in Emilia-Romagna vincerà Lucia Borgonzoni e non il leader della Lega, ma sono dettagli dei quali non si curano nemmeno i più convinti elettori della Lega". Peccato che Mihajlovic sappia benissimo chi è Lucia Borgonzoni, come spiega lui stesso nell'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino: "Le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all’altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". Ci sarebbe poi molto da discutere e da obiettare sulla paventata privatizzazione della sanità menzionata nell'articolo, oggetto di dibattito politico (e scontro) fra lo stesso Bonaccini e la Lega in Emilia-Romagna. Bonaccini aveva commentato così sulla sua pagina Facebook l’intervista del segretario della Lega Emilia, Gianluca Vinci, andata in onda su Telereggio: "Il segretario della Lega Emilia ci spiega il loro progetto per la sanita’ in Regione: privatizzazione del 50% dei servizi. Dice inoltre che il loro programma e’ stato scritto con i presidenti di Lombardia e Veneto". Affermazioni per le quali il governatore uscente dell'Emilia-Romagna è stato querelato dallo stesso Vinci: "Bonaccini pubblica sul suo profilo una fake news creata con un copia incolla di parti di una mia intervista distorcendone il significato. Complimenti al governatore ‘uscente’ per questa ennesima dimostrazione del fatto che è in estrema difficoltà".
Insulti sui social contro Sinisa: c'è chi gli augura la morte. Nel frattempo, Sinisa è stato oggetto di pesanti attacchi sui social network dopo il suo endorsement per Matteo Salvini in vista delle elezioni regionali di domenica. Come riporta l'Adnkronos, l'allenatore del Bologna è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". A scagliarsi contro il il mister dei rossoblù anche la pagina SatirSfaction. "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive", si legge su Twitter. E ancora "Mihajlovic sostiene Salvini: "Darei il mio sangue per lui". Frasi forti che non hanno fatto per nulla sorridere. Anzi, hanno attirato le critiche degli utenti. "Questa non è satira, è assoluta mancanza di rispetto", "Fai schifo", "Non è satira, è stronzaggine pura", "Vi dovreste vergognare", "Mi viene il voltastomaco", alcune delle reazioni al post. Senza dimenticare la gaffe dell'assessore regionale della giunta Bonaccini, Massimo Mezzetti: "E pensare che, se dessimo retta a chi dice “negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri”, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi" ha scritto sulla sua pagina Facebook. Dichiarazioni a cui ha prontamente risposto Matteo Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona".
Gli insulti shock a Mihajlovic: "Malato mentale, meriti la morte". Vergognosi attacchi all'allenatore del Bologna dopo l'endorsement alla Lega: "Ha alcuni danni cerebrali irreversibili, speriamo che muoia". Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Una vergogna assoluta: commenti deplorevoli ai danni di Sinisa Mihajlovic, "colpevole" di aver espresso parole positive nei confronti della Lega. Il serbo, che sta combattendo contro la leucemia ed è reduce da un trapianto di midollo osseo, ha strizzato l'occhio a Matteo Salvini: "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni. Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene". Appoggiare una linea politica di destra, come al solito, ha scatenato tutta la violenza dei leoni da tastiera della sinistra. Coloro che si dichiarano antifascisti e antiviolenti hanno messo in campo un'ondata di minacce contro l'allenatore del Bologna. Tra l'altro è spuntata anche la battuta choc della pagina di SatirSfaction: "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive". Gli haters lo hanno ricoperto di offese, arrivando addirittura ad augurargli la morte. "Speriamo muoia entro domenica. Fatti curare da Casapound. Sei un fascista. Laziale. Ti davano dello zingaro e te lo sei scordato e quindi non mi sorprende che tu abbia fatto propaganda per Salvini. Ai bolognesi tifosi però dispiace. Se ti levi dalle palle a me sta bene", scrive un utente. C'è chi ha espresso felicità per il travaglio che ha passato: "Mi auguro sinceramente che la chemio aiuti Mihajlovic ad uscire dalla malattia! Purtroppo però debbo constatare che alcuni danni cerebrali irreversibili sembra che li abbia già fatti". Un'altra utente ha invece twittato: "Questo per farvi capire che a volte le disgrazie uno se le merita". Ovviamente non sono mancate le difese a sostegno del tecnico: "Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola"; "Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d'Italia".
Salvini replica all'uscita di Massimo Mezzetti su Sinisa Mihajlovic: "Non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "E pensare che, se dessimo retta a chi dice negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi". È il commento, pubblicato su Facebook, di Massimo Mezzetti, assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità nella giunta Bonaccini, in Emilia-Romagna. Il riferimento dell'assessore regionale è alle recenti dichiarazioni dell'allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che ha confessato in un'intervista a Il Resto del Carlino di fare il tifo per il leader leghista Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni. Parole, quelle dell'assessore, destinate ad alimentare nuove polemiche. Durissima la replica del leader del Carroccio, Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona" osserva Salvini in una nota. "Orgogliosi di governare tante Regioni con Sanità d’eccellenza, onorati della stima di Sinisa e fieri di poter liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra di Bonaccini e Mezzetti. Speriamo - prosegue Matteo Salvini - che Bonaccini censuri la scemenza del suo assessore, e che magari ci parli anche di Jolanda di Savoia". Sui social network alcuni uteni hanno espresso dure critiche nei confronti dell'uscita (a dir poco infelice) dell'assessore regionale. "Questa te la potevi risparmiare" scrive un utente sotto il post, mentre un altro rimarca: "Sono di sinistra. Ma questa è pessima". Mezzetti prova a difendersi: "Non mi sembra di essere stato offensivo nei confronti di [Mihajlovic] in quanto uomo. Ho messo in evidenza una sua contraddizione fra ciò che sostiene (forse meglio dire, chi sostiene) e l'esperienza che ha vissuto". E ancora: "Ho fatto una constatazione semplice. I cattivi sono quelli che non l'avrebbero curato, mica io. Io voglio che possa continuare a usufruire della nostra buona sanità, non sono come quelli che vogliono cacciare gli stranieri dai nostri ospedali". Dopo l'assist a Matteo Salvini e alla Lega, l'allenatore del Bologna ed ex calciatore è stato oggetto di una vera e propria campagna d'odio via social. Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". La sua colpa? Non essere di sinistra o, perlomeno, non simpatizzare per la sinistra italiana. Quella dei "buoni", delle sardine e di chi rigetta l'odio.
ELEONORA CAPELLI per bologna.repubblica.it il 23 gennaio 2020. Le regionali in Emilia si trasformano in un derby tra allenatori rossoblù. Dopo l'endorsement di Sinisa Mihajlovic per la Lega alle elezioni del prossimo 26 gennaio, l'ex allenatore del Bologna, Renzo Ulivieri scende in campo per Bonaccini e per la coalizione di centrosinistra. In particolare a sostegno del candidato Igor Taruffi della lista "Coraggiosa". "Sono un estimatore di Mihajlovic, in tante occasioni ci siamo conosciuti e abbiamo parlato - dice l'allenatore toscano, sulla panchina del Bologna dal 1994 al 1998 e successivamente dal 2005 al 2007 - non condivido chi sostiene che non dovesse parlare, chi è nel mondo del calcio può parlare e sosterrò sempre la sua libertà di farlo. Però poi dico: non gli date retta". Ulivieri, che in passato è stato anche candidato alle elezioni con Sel, difende la dimensione dell'impegno politico ma anche idee completamente diverse da quelle di Sinisa. "Il nostro è un pensiero completamente diverso - spiega - riguardo l'uomo, l'umanità, riguardo al senso di stare insieme. Sostengo che l'Emilia è un modello, sono per Bonaccini e Taruffi, per quella coalizione che porta avanti un discorso cominciato tanti anni fa, di democrazia, di partecipazione, di scelte". Per questo Ulivieri chiede: "Non statelo a sentire". "Le cose in Emilia stanno in un'altra maniera, non come dice Salvini - sostiene Ulivieri - i cittadini dell'Emilia lo sanno e non si faranno incantare".
Tony Damascelli per il Giornale il 23 gennaio 2020. Non c' è dubbio che Benito Mussolini fosse tifoso della Roma così come, in seguito, Giulio Andreotti, mentre Palmiro Togliatti si scaldasse per la Juventus, come Luciano Lama, gente di sinistra, quest' ultima, vicina al simbolo del capitalismo, Giovanni Agnelli. Ai tempi, nessuna speculazione o rivolta di popolo per il tifo calcistico dei personaggi politici ma è vero il contrario, quando un calciatore illustra la propria idea e ideologia, allora la musica cambia, Bruno Neri si rifiutò di alzare il braccio per il saluto romano, era l' anno millenovecentotrentuno e si inaugurava lo stadio di Firenze alla presenza dell' autorità del fascio, quell' immagine restò non soltanto nelle fotografie ma fu il simbolo di una ribellione che portò Neri a diventare partigiano ed essere poi fucilato dai nazisti. Venne poi la democrazia che, comunque accetta con fatica, alcune posizioni politiche degli atleti. Si discute della dichiarazione pro Salvini e Lega di Sinisa Mihajlovic, allenatore simbolo del Bologna, cioè del club che è stato allenato negli anni da Renzo Ulivieri la cui appartenenza al partito comunista viene ribadita con il busto di Vladimir Ilic Uljanov, per i compagni di tutto il mondo, Lenin, collocato sulla credenza di casa. Lo stesso Uliveri, vice presidente della Federcalcio e presidente degli allenatori, si è fotografato a Chicago, posando con il dito medio rivolto alla Trump Tower. Affollato, come una gradinata, è l' elenco di figure illustri che passano dal pugno chiuso di Paolo Sollier a quello di Cristiano Lucarelli, così come Riccardo Zampagna apertamente schierato con gli operai della ThyssenKrupp, acciaierie di Terni, fabbrica nella quale lui stesso aveva lavorato prima di darsi al football. Non figurine ma persone e personaggi di rilievo per la tifoseria che, spesso, si manifesta con nomi da battaglia, dai commandos ai feddayn, dagli ultras alle brigate. Quando il portiere del Milan, Christian Abbiati, dichiarò di condividere il fascismo per i valori della Patria, il senso dell' ordine e della sicurezza, garanzie del vivere quotidiano, provocò il subbuglio anche se tentò di rimediare dicendo di non poter assolutamente accettare le leggi razziali e l' alleanza con Hitler e l' entrata in guerra. Fu timbrato, come Paolo Di Canio che, tra tatuaggi duceschi e saluto romano, non abbisogna di passaporto diplomatico. Idem come sopra per Stefano Tacconi che si presentò per le liste di Alleanza Nazionale che fu. Di destra è Sergio Pellissier che ha ammesso di rispettare il fascismo «per le cose belle, accanto a quelle brutte». Se la squadra va verso la squadraccia, in campo corrono anche molti compagni e affini, Simone Perrotta si è innamorato dei 5Stelle, Massimo Mauro era entrato nel giro dell' Ulivo, Sacchi e Lippi amano il garofano rosso, mentre la battuta più felice rimane quella di Eugenio Fascetti: «L' unica cosa di sinistra che mi piace è la colonna della classifica di serie A». Aggiungo ai passionari della politica, Giovanni Galli e Giuseppe Giannini e Angelo Peruzzi, in formazione tra Forza Italia e Popolo delle Libertà. A sorpresa, Antonio Cabrini aveva aderito all' Italia dei Valori di Di Pietro. Un album che non solletica i collezionisti ma dimostra che il football tenta di nascondersi nel canneto. Se i politici usano il calcio per aumentare il consenso e salire a bordo della diligenza quando la loro squadra, nazionale o di club, vince, i calciatori, sulla stessa diligenza preferiscono non salire, per evitare fischi e ingiurie del favoloso pubblico dei tifosi. Che sono anche elettori.
Alessandro Barbano per il ''Corriere dello Sport'' il 23 gennaio 2020. Disse, Sinisa Mihajlovic, tornando dopo tre mesi di cure: “Mi sorprende aver unito tutti con la mia malattia, io sono stato sempre divisivo. E forse tornerò a esserlo”. La promessa l’ha mantenuta con l’endorsement a Matteo Salvini, fatto ieri in un’intervista al Carlino. Chi lo conosce bene non si è stupito, perché sa che la divisività è una cifra irredimibile del suo carattere. Ma per un Sergente serbo che si schiera a destra, c’è subito uno Zar russo che gli risponde dal lato mancino. È Ivan Zaytsev, campione del volley modenese e nazionale, in piazza Grande con le sardine fin dalle prime adunate: sul suo profilo Instagram da ieri compare una foto di Stefano Bonaccini, con una eloquente didascalia: “Il mio Presidente”. Lo sport si è schierato. Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla valenza di questa sfida elettorale, eccolo servito: la competizione tracima dalle segreterie politiche fino agli spogliatoi più prestigiosi. L’Emilia Romagna è una roccaforte che neanche gli incerti della Seconda Repubblica avevano messo in discussione. Su questo confine mai conteso, e oggi improvvisamente contendibile, si giocano non solo gli equilibri di governo, ma le visioni e gli schemi con cui il Paese si è raccontato e in parte ancora si racconta da settant’anni. Non c’è da stupirsi che la battaglia delle battaglie abbia assoldato l’intera platea dei riservisti. Ma quanto pesa l’opinione dei campioni dello sport? Molto, secondo le aspettative degli spin doctor dei due sfidanti, che se li sono contesi con un corteggiamento scientifico. Meno, a giudicare dalle reazioni sui social: la sovraesposizione ha sempre un effetto paradosso. Così, sulla community “Lo spettro della bolognesità”, che conta su Facebook 17mila utenti, c’è chi arriva a rimproverare a Mihajlovic di sputare nel piatto di quel modello emiliano che lo ha assistito con tempestività taumaturgica. “Mica l’ha operato Bonaccini”, replica un altro cibernauta. E da più parti ci si chiede in che misura la sortita del tecnico chiami in corresponsabilità anche il club: in tempi in cui le società regolano il diritto di parola dei loro campioni, è difficile pensare che il Bologna non sapesse e non volesse. D’altra parte Sinisa non è uno abituato a chiedere il permesso di parlare. E certamente parlare di politica è un suo diritto. Ma che cosa accadrebbe se il tecnico della Spal Leonardo Semplici, contro cui il Bologna giocherà a Ferrara il giorno prima dell’apertura delle urne, dichiarasse la sua fede per Bonaccini? Il derby emiliano rischierebbe di trasformarsi in un antipasto bollente delle elezioni. In nome di un tirannia che assoggetta ambiti della vita pubblici abitualmente separati, il calcio cesserebbe di essere quella valvola di decantazione che è. Certamente questo Mihajlovic e Zaytsev e le loro scuderie politiche di riferimento non l’hanno pensato. A questa soffocante polarizzazione di bandiere e stati d’animo viene in soccorso un motto di Blaise Pascal, a cui si ispira il filosofo statunitense Michael Walzer nel suo libro “Sfere di giustizia”: «Dobbiamo onori diversi ai diversi meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza». E, si può aggiungere, ammirazione all’impresa sportiva. Questo per dire che il 4-2-3-1 del Sergente e l’ace in battuta a 120 all’ora dello zar restano una fenomenologia del corpo, e non una religione dello spirito e del sapere assoluto. Per nostra fortuna.
Sacchi come Mihajlovic: ha scelto Salvini e Borgonzoni. Stasera a Bologna presenterà il suo libro in un incontro organizzato da Forza Italia. La senatrice Bernini: ''Ci aspettiamo il suo appoggio''. Antonio Prisco, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Anche Arrigo Sacchi in appoggio alla Lega di Matteo Salvini e della candidata Lucia Borgonzoni, in vista delle prossime elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Dopo le dichiarazioni di Sinisa Mihajlovic, dal mondo del calcio potrebbe arrivare un nuovo endorsement a favore di Lucia Borgonzoni. Arrigo Sacchi, romagnolo di Fusignano, l'indimenticato allenatore del primo Milan di Silvio Berlusconi e della Nazionale italiana, potrebbe lanciare da Bologna il proprio endorsement al centrodestra in vista del voto di domenica. Questa sera, nelle sale del Museo della storia di Bologna, Sacchi presenterà il libro La coppa degli immortali Sottotitolo: Milan 1989: la leggenda della squadra più forte di tutti i tempi raccontata da chi la inventò, scritto con Luigi Garlando. A quanto si sa, Arrigo non ha mai aderito ad alcun partito, rifiutando sempre qualsiasi tessera in tasca. Tuttavia non ha mai nascosto di avere votato sempre per Silvio Berlusconi, da quando il Cavaliere scese in campo nel 1994. Sugli inviti, il simbolo Forza Italia-Berlusconi per Borgonzoni, che si troverà anche sulle schede elettorali delle regionali non lascerebbe alcun dubbio sulla scelta dell'ex tecnico milanista. Con Sacchi, all’incontro intervengono Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di FI, Adriano Galliani, ex vicepresidente del Milan, senatore di FI, e Marino Bartoletti, giornalista, nel 2004 candidato sindaco civico a Forlì, sostenuto dal centrodestra. Non sarebbe la prima volta che il nome di Sacchi viene associato alla Lega. L’agosto scorso, il grande tifoso rossonero Matteo Salvini, allora Ministero dell’Interno, dalla spiaggia del Papeete, a Milano Marittima, pubblicò su Instagram un selfie proprio in suo compagnia con il commento: ''Arrigo Sacchi, numero uno!''. Inutile nascondere che tutti, questa sera, si attendono dall'ex allenatore rossonero un sostegno esplicito a favore del centro destra. ''Sarei molto delusa se non lo facesse'', afferma la senatrice Anna Maria Bernini, che con grande entusiasmo aggiunge: ''Il mondo pallonaro è con noi, con un presidente così, se il mondo del pallone non fosse con noi avremmo veramente sbagliato tutto''. Intanto sponda Pd arrivano a sorpresa le dichiarazioni di Andrea Corsini, assessore regionale al turismo dell'Emilia-Romagna: ''Arrigo Sacchi ha partecipato a due iniziative organizzate dal Partito Democratico di Cervia e Fusignano, per promuovere e sostenere la mia candidatura alle elezioni regionali di domenica prossima. In entrambe le occasioni e in una importante trasmissione radiofonica nazionale Arrigo ha dichiarato che lui sostiene le persone che hanno lavorato bene e quindi sosterrà Andrea Corsini e Stefano Bonaccini''. Questa sera la soluzione del giallo?
Emilia Romagna, Lucia Borgonzoni inchioda Bonaccini: "Pubblica l'audio, sono sicura che dici la verità. O no?" Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Stefano Bonaccini cerca di ignorare la vicenda in tutti i modi, ma il caso di Jolanda di Savoia lo sta esponendo ad una pessima figura. Il vicesindaco del piccolo comune, Elisa Trombin, si è candidata con Lucia Borgonzoni e dichiara di aver subito una ritorsione pesantissima: tre amministrazioni limitrofe a guida Pd hanno tagliato le risorse al suo comune ferrarese. Il sindaco Paolo Pezzolato ha presentato un esposto alle istituzioni giudiziarie e si parla di una telefonata tra la Trombin e Bonaccini, con quest'ultimo che le avrebbe detto "se vinco io, tu e il tuo comune siete finiti". La Borgonzoni ha chiesto ufficialmente allo sfidante del Pd di rendere pubblico l'audio della telefonata, chiarendo così la vicenda che riguarda Jolanda di Savoia. "Il mio avversario - scrive la candidata leghista in una nota - ha detto che è surreale parlare di un comune di 3mila abitati. Io invece penso che i piccoli comuni meritino rispetto e impegno particolare da parte della Regione. Non stiamo parlando di questioni private, ma di rispetto delle istituzioni e dei ruoli che si ricoprono nell'ambito di una vicenda che, se confermata, sarebbe gravissima". Per fugare ogni dubbio, la Borgonzoni chiede a Bonaccini di "dare l'ok alla diffusione dell'audio. Ieri, in occasione dei nostri confronti, ha detto di aver chiamato il sindaco solo per discutere del personale tagliato. Sono sicura - conclude - che la registrazione confermerà quanto detto dal mio avversario del Pd. O no?".
Giuseppe De Lorenzo per il Giornale il 23 gennaio 2020. Si colora di nuovi particolari la querelle su Jolanda di Savoia. Forse ricorderete: la Lega denunciò il "boicottaggio del Pd" ai danni del Comune emiliano romagnolo, che si è trovato a pochi giorni dalle elezioni regionali senza tre dipendenti su cui sperava di contare. Non sono mancate polemiche, accuse a Bonaccini e esposti ai carabinieri. Ma ora, dopo essersi dichiarato disponibile a diffondere il contenuto delle telefonate con gli esponenti dem, il sindaco di Jolanda ha deciso di "puntualizzare alcune circostanze". Rivelando il contenuto di quei nastri. Tutto inizia quando il vicesindaco, Elisa Trombini, riceva l'offerta da parte di Bonaccini di candidarsi nelle liste di centrosinistra. Lei non rifiuta né accetta, ma poi sceglie di schierarsi con la Borgonzoni e di accettare l'invito della leghista a presentarsi alle regionali. Nell'esposto consegnato ai carabinieri, Pezzolato mette nero su bianco la propria ricostruzione dell'intera vicenda. Racconta che il 19 dicembre Trombini telefona al governatore dem per comunicargli la decisione finale. "Elisa visivamente turbata - si legge - riferiva a me e agli altri commensali che Bonaccini, avendo appreso del suo diniego e della sua adesione alla lista contrapposta, aveva assunto un tono irritato, tanto da chiudere la comunicazione con una frase che lei ci riportò testualmente: 'Se vinco io, tu e il tuo Comune siete finiti'".
La telefonata di Bonaccini. Il giorno successivo il presidente della Regione telefona allora al sindaco di Jolanda, che registra la conversazione. Parole che oggi Pezzolato ha riportato "testuali" su Facebook. "Io ieri sera ho parlato con Elisa… - è il discorso attribuito a Bonaccini - dalla telefonata non mi ha detto che si candida con la civica della Borgonzoni… se la scelta è quella è chiaro che poi succede qualcosa nei rapporti con voi… te lo volevo dire perché se è così, se per caso vinco io come è probabile, dopo però non mi cercate più… io non ho detto che deve candidarsi con me… diceva di no punto… sto dicendo che se me la ritrovo candidata di là… io il punto è parlane con lei e dille che ti ho chiamato… la cosa che dico solo è che dal candidarsi con me al trovarmela di là…. chiaro che dopo allora c'è un giudizio". Per il sindaco di Jolanda si tratta di un "atteggiamento minatorio", non adatto a chi riveste un ruolo nelle istituzioni. Sul momento lascia passare, convinto che il tutto non possa avere "pregiudizi verso la mia amministrazione". Poi però lo doccia fredda. Alcuni comuni limitrofi decidono "sottrarre in maniera anomala risorse di personale importantissime per il mio Comune che mi erano state appena concesse". Il sindaco infatti aveva chiesto "l'utilizzo condiviso di cinque dipendenti", ma "dopo la pubblicazione delle liste" un Comune rifiuta "il nulla osta", un altro revoca "la precedente adesione" e un altro ancora anticipa "la scadenza concordata". Solo un caso?
Il dialogo con l'altro sindaco. Pezzolato sul suo profilo Fb entra allora nel merito della questione. "Alla fine - scrive - è risultato chiaro il senso di quella telefonata (di Bonaccini, ndr) tendente a farmi convincere Elisa a non candidarsi con nessuno se non volevo avere ritorsioni". A quel punto telefona al sindaco di Riva di Po, Andrea Zamboni (csx), per avere spiegazioni. E anche in questo caso registra la conversazione e la trascrive sui social: "In campagna elettorale - sono le frasi attribuite a Zamboni - purtroppo la situazione è questa…. Paolo io ti ho dato dei messaggi deve passare la campagna elettorale…io capisco la tua situazione ma tu capisci anche la mia che avevo il coltello puntato nella schiena…la rimandiamo di due settimane poi andrà come andrà…saranno 15 giorni di inferno…quando fai discorsi di carattere politico essendo tesserato di un partito bisogna anche di... ho il fiato puntato sul collo di chi diciamo governa più in alto… siccome io non devo fare carriera a me non me ne frega niente…ma un po' di disciplina la vuole". Al collega, Pezzolato fa presente che la decisione di revocare la collaborazione gli erano sembrate "ritorsioni comandate da Bonaccini". Chiede a Zamboni di intercedere per lui presso il presidente, ma non è possibile. "Te l'ho già detto - risponde lui - devono passare questi 15 giorni... vedrò se riesco a muovere in quel senso lì…dico che provo, sicuramente, certo". Una vicenda che Salvini considera "pazzesca". E di cui non resta che attendere gli sviluppi.
"Ritorsioni volute da Bonaccini". Ecco la chiamata che lo incastra. Bufera sul caso Jolanda. Il vicesindaco si candida con la Lega, il Comune si vede "sottrarre risorse di personale" dai comuni limitrofi di centrosinistra. Il sindaco pubblica il contenuto delle telefonate. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Si colora di nuovi particolari la querelle su Jolanda di Savoia. Forse ricorderete: la Lega denunciò il "boicottaggio del Pd" ai danni del Comune emiliano romagnolo, che si è trovato a pochi giorni dalle elezioni regionali senza tre dipendenti su cui sperava di contare. Non sono mancate polemiche, accuse a Bonaccini e esposti ai carabinieri. Ma ora, dopo essersi dichiarato disponibile a diffondere il contenuto delle telefonate con gli esponenti dem, il sindaco di Jolanda ha deciso di "puntualizzare alcune circostanze". Rivelando il contenuto di quei nastri. Tutto inizia quando il vicesindaco, Elisa Trombini, riceva l'offerta da parte di Bonaccini di candidarsi nelle liste di centrosinistra. Lei non rifiuta né accetta, ma poi sceglie di schierarsi con la Borgonzoni e di accettare l'invito della leghista a presentarsi alle regionali. Nell'esposto consegnato ai carabinieri, Pezzolato mette nero su bianco la propria ricostruzione dell'intera vicenda. Racconta che il 19 dicembre Trombini telefona al governatore dem per comunicargli la decisione finale. "Elisa visivamente turbata - si legge - riferiva a me e agli altri commensali che Bonaccini, avendo appreso del suo diniego e della sua adesione alla lista contrapposta, aveva assunto un tono irritato, tanto da chiudere la comunicazione con una frase che lei ci riportò testualmente: 'Se vinco io, tu e il tuo Comune siete finiti'".
La telefonata di Bonaccini. "Il vicesindaco sta con Borgonzoni. E il Pd revoca i servizi al Comune". Il giorno successivo il presidente della Regione telefona allora al sindaco di Jolanda, che registra la conversazione. Parole che oggi Pezzolato ha riportato "testuali" su Facebook. "Io ieri sera ho parlato con Elisa… - è il discorso attribuito a Bonaccini - dalla telefonata non mi ha detto che si candida con la civica della Borgonzoni… se la scelta è quella è chiaro che poi succede qualcosa nei rapporti con voi… te lo volevo dire perché se è così, se per caso vinco io come è probabile, dopo però non mi cercate più… io non ho detto che deve candidarsi con me… diceva di no punto… sto dicendo che se me la ritrovo candidata di là… io il punto è parlane con lei e dille che ti ho chiamato… la cosa che dico solo è che dal candidarsi con me al trovarmela di là…. chiaro che dopo allora c'è un giudizio". Per il sindaco di Jolanda si tratta di un "atteggiamento minatorio", non adatto a chi riveste un ruolo nelle istituzioni. Sul momento lascia passare, convinto che il tutto non possa avere "pregiudizi verso la mia amministrazione". Poi però lo doccia fredda. Alcuni comuni limitrofi decidono "sottrarre in maniera anomala risorse di personale importantissime per il mio Comune che mi erano state appena concesse". Il sindaco infatti aveva chiesto "l'utilizzo condiviso di cinque dipendenti", ma "dopo la pubblicazione delle liste" un Comune rifiuta "il nulla osta", un altro revoca "la precedente adesione" e un altro ancora anticipa "la scadenza concordata". Solo un caso?
Il dialogo con l'altro sindaco. Un sindaco accusa Bonaccini: "Atteggiamento minatorio". E spunta un audio. Pezzolato sul suo profilo Fb entra allora nel merito della questione. "Alla fine - scrive - è risultato chiaro il senso di quella telefonata (di Bonaccini, ndr) tendente a farmi convincere Elisa a non candidarsi con nessuno se non volevo avere ritorsioni". A quel punto telefona al sindaco di Riva di Po, Andrea Zamboni (csx), per avere spiegazioni. E anche in questo caso registra la conversazione e la trascrive sui social: "In campagna elettorale - sono le frasi attribuite a Zamboni - purtroppo la situazione è questa…. Paolo io ti ho dato dei messaggi deve passare la campagna elettorale…io capisco la tua situazione ma tu capisci anche la mia che avevo il coltello puntato nella schiena…la rimandiamo di due settimane poi andrà come andrà…saranno 15 giorni di inferno…quando fai discorsi di carattere politico essendo tesserato di un partito bisogna anche di... ho il fiato puntato sul collo di chi diciamo governa più in alto… siccome io non devo fare carriera a me non me ne frega niente…ma un po' di disciplina la vuole". Al collega, Pezzolato fa presente che la decisione di revocare la collaborazione gli erano sembrate "ritorsioni comandate da Bonaccini". Chiede a Zamboni di intercedere per lui presso il presidente, ma non è possibile. "Te l'ho già detto - risponde lui - devono passare questi 15 giorni... vedrò se riesco a muovere in quel senso lì…dico che provo, sicuramente, certo". Una vicenda che Salvini considera "pazzesca". E di cui non resta che attendere gli sviluppi.
Il soccorso rosso dei sindacati per Bonaccini: "Vogliamo una regione antifascista". È il momento di dire basta, scrive il sindacato dei metalmeccanici, "a chi individua nello straniero il responsabile di ogni male nel Paese. Vogliamo un'Emilia-Romagna antifascista". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Che in Emilia-Romagna Lucia Borgonzoni debba sfidare un sistema di potere ben collaudato da decenni è noto. È ciò rende la sua sfida ancora più complessa e difficile. A pochi giorni dal voto, ora i sindacati lanciano il loro appello a favore del candidato del centro-sinistra, il governatore uscente Stefano Bonaccini sostenuto dal Pd e dalla sinistra. La Fiom-Cgil della regione rossa, pur senza mai nominare direttamente Bonaccini né la Lega, in un documento che circola in queste ore (leggi e scarica) sottolinea che, come sempre in occasione di appuntamenti elettorali, approccia la discussione politica con "oggettività rispetto allo stato delle cose" e "con autonomia ed indipendenza rispetto a partiti e candidati". È evidente, ammette il sindacato da sempre legato alla sinistra, che l'appuntamento del 26 gennaio "avrà una risonanza nazionale e conseguenze per la politica del nostro Paese". La Storia della Fiom, rimarca il documento, "è quella di un sindacato che non si è mai chiuso dentro i cancelli delle fabbriche" ma che "ha sempre avuto l'ambizione di trasformare la società a partire dagli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori". Oltre all'approccio sul lavoro, la distanza con Lucia Borgonzoni appare a dir poco siderale leggendo tra le righe del documento redatto dalla Fiom. A cominciare dalla partita dell'immigrazione e dell'accoglienza. A tal proposito il sindacato ha le idee chiare e vuole "una regione accogliente e solidale" perché l'Emilia Romagna "o è una regione accogliente e solidale oppure non è l'Emilia Romagna. Nessuno nasce migrante". È il momento di dire basta, scrive il sindacato dei metalmeccanici, in affermazioni che sembrano riferirsi proprio alla Lega, senza essere troppo maliziosi, a "chi individua nello straniero il responsabile di ogni male nel Paese per non voler affrontare i veri nodi che da sempre condannano l'Italia alle periferie dell'Europa: evasione fiscale, illegalità diffusa, clientelismi, finanza pervasiva ed invasiva nell'economia reale". Insomma, l'immigrazione non è un problema, ma una risorsa. La solita storia. Naturalmente, non poteva mancare l'appello a battersi contro l'avanzata del nuovo fascismo. La Fiom, insiste, "è per una regione antifascista: mai come oggi, infatti, i rigurgiti fascisti, razzisti, omofobi e sessisti in tal senso risultano numerosi, pericolosi e, purtroppo, troppo spesso sdoganati anche da un'informazione colpevolmente sopita su questo tema". Curioso pensare che, se si parla di Fiom, soltanto un mese fa, come riporta Il Manifesto, è nata una polemica tutta interna alla coalizione di Bonaccini: da una parte un ex segretario della Fiom candidato nella lista "Emilia-Romagna Coraggiosa" di Elly Schlein e Vasco Errani. Dall’altra un imprenditore, candidato direttamente nella cosiddetta lista del presidente. L'imprenditore, Carlo Fagioli, è finito sotto accusa per il suo passato. A puntare il dito Sergio Guiaitolini, una vita nella Fiom-Cgil e oggi candidato in Coraggiosa. Una bella grana per Bonaccini, nonostante il soccorso rosso di queste ore.
Emilia, 1.2 milioni di euro alla coop della moglie del capogruppo Pd. A Ferrara si infuoca lo scontro politico. La Lega attacca: “Scandaloso”. Il capogruppo Pd Aldo Modenesi: "Solo propaganda politica". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Osservi la campagna elettorale in Emilia Romagna e quasi sembra che il baricentro dello scontro si sia spostato da Bologna a Ferrara. È nei territori della città estense, conquistata a giugno dal leghista Alan Fabbri, che le parti si colpiscono senza esclusione di colpi. In principio fu l'audio di PiazzaPulita sul "caso Solaroli", poi la querelle sul "boicottaggio del Pd" ai danni di Jolanda di Savoia e adesso lo scontro sul "sistema coop" in terra rossa. Il j'accuse leghista riguarda una cooperativa gestita dalla moglie di un ex assessore del Pd ferrarese. Un tema che scotta. La coop in questione si chiamava "ACLI Coccinelle", fondata da Aldo Modenesi (oggi capogruppo Pd in Consiglio comunale) e negli anni gestita anche dalla moglie Paola Coluzzi. La coperativa ora è fallita: la liquidazione coatta amministrativa risale al 2016 e parlava di un "patrimonio netto negativo di 491mila euro". Una vicenda annosa, con liti politiche che si protraggono da tempo tra interrogazioni, interpellanze e via dicendo. Nel 2018 la Coluzzi è stata rinviata a giudizio con l'accusa di illecita influenza sull'assemblea della cooperativa. Secondo la procura avrebbe redatto falsi verbali per "continuare a gestire autonomamente le decisioni" per la coop, come riporta la cronaca locale. Poi a ottobre 2019 si torna a parlare del processo e riesplode la polemica tra partiti. "C’è un processo in corso e non riguarda me - si difende Modenesi - e non riguarda illeciti che fanno riferimento all'attività del Comune di Ferrara o di altre amministrazioni pubbliche". Spetterà ovviamente ai giudici decidere. Ma guai giudiziari a parte, è la parentela con l'ex assessore a scaldare lo scontro politico. Soprattutto a fronte alla "cifra importante" che nel tempo la città ha elargito alla coop. Il gruppo consigliare leghista a ottobre ha chiesto all’attuale giunta di fornire tutti i dati in merito ai "rapporti intercorsi tra il Comune di Ferrara e la cooperativa negli anni dell’amministrazione Tagliani, quando il consigliere Aldo Modonesi ricopriva la carica di assessore". Gli uffici si sono messi al lavoro e i numeri finali parlano di una cifra complessiva di circa 1,2 milioni di euro. Dai dati dell'Istituzione scolastica risulta che dal 2009 la coop - spiegava in aula l'assessore all'Istruzione Dorota Kusiak - è stata diretta destinataria di somme erogate dal Comune di Ferrara per 617mila euro. Ci sono poi i soldi ricevuti indirettamente tramite consorzi e associazioni vincitrici di bandi (di cui la coop era componente) per oltre 200mila euro. Mentre intorno ai 430mila euro riguardano servizi svolti per altri settori del Comune o precedentemente alla formazione dell'Istituzione scolastica (che ha bilancio a parte). A somme fatte, il registratore di cassa tra fatture e contributi segna quindi circa 1,2 milioni di euro dal 2002 al 2016. Il Giornale.it ha potuto leggere alcuni dettagli dei fondi destinati negli anni da Ferrara alle Coccinelle. Per l'appalto di cinque posti in convenzione presso un asilo nido a Monestirolo, per esempio, dai documenti risultano tra il 2014 e il 2015 ben 41.762 euro assegnati dalla coop. Per un'altra convenzione (2008-2015) al nido di Gualdo di Voghiera, invece, ha ricevuto 32.480 euro. Ci sono poi i contributi alle scuole paritarie dell'infanzia ("Le Coccinelle" e "SS Vincenzo e Anastasio") dal 2010 al 2015, per un totale di 60.737 euro. E i "vaucher conciliativi" per "l'abbattimento della retta dei nidi" in sei anni scolastici da 63.657 euro. Va detto che parte delle cifre sono state versate a Equitalia e in altri il pagamento è stato sospeso. Ma la sostanza cambia di poco. Le somme più consistenti riguardano gli appalti per il pre-scuola degli alunni delle primarie: dal 2010 al 2013 sono stati erogati circa 109mila euro. Infine, a completare il quadro, ci sono i centri ricreativi estivi per cui, tra il 2013 e il 2014, il Comune ha versato alla ACLI altri 18mila euro. Per Modenesi l'affondo leghista è solo "propaganda politica" che "guarda un po'" esce "in occasione di ogni campagna elettorale". Ma per il Carroccio è "gravissimo e scandaloso" che "negli anni in cui la situazione della coop Coccinelle andava emergendo e anche successivamente quando era ormai evidente e conclamata, nessun assessore della giunta Pd, né tantomeno l'ex assessore Modonesi ritenne di rilevare nei rapporti tra il Comune e la cooperativa nulla di eccepibile, e anzi fu lo stesso sindaco Tagliani a negare la presenza di un qualsiasi conflitto di interessi". Insomma: Ferrara è di nuovo il campo di battaglia. Almeno fino a domenica.
Giuliano Ferrara: "Il popolo smette di pensare e vota Lucia Borgonzoni". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. L'anatema di Giuliano Ferrara contro Matteo Salvini dalle colonne de Il Foglio non piacerà certamente agli elettori emiliano-romagnoli che voteranno Lucia Borgonzoni. Implicitamente costoro vengono definiti "depensanti", perché - parafrasando l'incipit dell'articolo - "se il popolo sente, anziché pensare, sarà Salvini a vincere". Il fondatore de Il Foglio, prima comunista poi berlusconiano e adesso anti-Salvini, esalta l'operato dell'amministrazione Bonaccini su sanità, trasporti, servizi al cittadino, cultura, urbanistica, formazione, export e, al contempo, avverte dai pericoli di un Salvini rivitalizzato da una eventuale vittoria elettorale. Lo spread, la minaccia dei pieni poteri, i toni anti europeisti di chi "un giorno invoca l'immunità e il giorno dopo si ammanetta ganzo e spavaldo, sta sempre lì tra l'euro irreversibile e la reversibilità del rublo, si scatena nei comizi e incontra branchi di sardine affollate tra le correnti". Insomma, non è auspicabile un trionfo della "meno esperta e sperimentata" Borgonzoni sull'ottimo Bonaccini, che a "Bologna, Modena e Reggio Emilia va a cavallo". Se il Truce- come lo definisce Ferrara- la spunterà, vorrà dire che gli elettori non avranno utilizzato il cervello: ecco il Ferrara-pensiero.
DAGONEWS il 23 gennaio 2020. Ma allora Lucia Borgonzoni ha un passato! C’è qualcuno che a malapena sa che è la candidata per l’Emilia-Romagna della Lega, visto che a fare campagna elettorale girando la regione in lungo e in largo e nazionalizzando l’appuntamento elettorale è Matteo Salvini, che ha tenuto il doppio dei comizi della candidata. Ma in realtà un programma (scritto) c’è. E se Bonaccini l’accusa di non avere una storia nemmeno a livello locale, in realtà qualche indizio esce fuori. Figlia di un famoso pittore e partigiano, Borgonzoni si tessera precoce con la Lega Nord a 16 anni, sale alla guida dei Giovani Padani e nel 2016 perde la sfida a sindaco di Bologna con Vittorio Merola. Nel frattempo una laurea alle Belle Arti e un lavoro come designer di interni e, come si vede in queste foto che girano sui social e datate 2004 (quando Lucia aveva 28 anni), anche un piercing sulla lingua e una passione per le feste e i barboncini.
Emilia Romagna, Giuliano Ferrara: "Non voglio vedere le facce di merda tristi per Salvini". Libero Quotidiano il 26 Gennaio 2020. Matteo Salvini a Giuliano Ferrara non è mai piaciuto e non ne ha mai fatto mistero. E l'Elefantino lo fa capire in modo durissimo e diretto poco prima della mezzanotte di domenica 26 gennaio, quando iniziava a delinearsi la vittoria di Stefano Bonaccini e del centrosinistra in Emilia Romagna. Ferrara, su Twitter, ha commentato: "Buonanotte e sogni d'oro (a Bonaccini e alle sardine). Non voglio vedere in tv quelle facce di merda che per calcoletti di bottega mondana e di potere sono fisicamente infastidite dall'ipotesi che le prenda il partito del citofono SA (Sturm Abteilungen)". Ovvio il riferimento a Salvini, durissimo l'attacco alle "facce di merda" che sperano nella vittoria della Lega. Ferrara, per inciso, aggiunge l'hashtag #pienipoteri, altro sfottò al leader della Lega.
Salvini citofona al cittadino tunisino: “Scusi lei spaccia?” La campagna porta a porta dell’ex ministro è senza limiti. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La campagna elettorale di Matteo Salvini prosegue senza limiti. Stavolta a farne le spese è un cittadino tunisino residente in Emilia. Raccolto alcune voci di quartiere che lo indicavano come spacciatore, l’ex ministro dell’Interno, circondato dai microfoni e dalle guardie del corpo, ha citofonato e ha chiesto: “E’ lei il tunisino che spaccia nel quartiere?”. “A che titolo l’ho fatto? – ha spiegato poi Salvini ai giornalisti -. In qualità di cittadino. Le forze dell’ordine fanno meglio di me il loro mestiere, quindi hanno gli elementi per decidere se quel tizio spaccia o non spaccia. Mi volevo togliere una curiosità, visto che una signora di 70 anni mi dice "mi minacciano di morte perchè lì spacciano”. Intorno a Salvini molti sostenitori, ma anche diversi contestatori che gridavano: “Cosa fai qui? Tornatene al Papeete”.
Salvini e il citofono a Bologna: “L’ho fatto per aiutare una mamma”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. Continua la campagna elettorale di Matteo Salvini in Emilia Romagna in vista delle elezioni regionali di domenica 26 gennaio 2020: nel corso di una diretta Facebook da Bologna con i cittadini del quartiere Pilastro, ha suonato il citofono di un cittadino per chiedere se, come su segnalazione di una residente, fosse uno spacciatore di droga. Il motivo del gesto – che ha suscitato non poche polemiche, prima fra tutte quella dello scrittore Fabio Volo – è stato rivelato dallo stesso leader della Lega.
Il motivo del gesto. “Quando una mamma chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante protesta“. All’indomani dell’episodio nel quartiere Pilastro, Salvini è intervenuto a Mattino 5 spiegando le motivazioni del gesto al citofono. “Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa” ha continuato il leader leghista. “Abbiamo segnalato a chi di dovere che là si spaccia droga. C’è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato la proposta Droga zero, perché la droga è morte“.
Matteo Salvini al citofono, il tunisino Yassin a tutto campo: "Perché la signora mi ha segnalato". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Dopo 24 ore esatte è arrivata la replica di Yassin, il 17enne tunisino, che, mentre Matteo Salvini citofonava, giocava a calcio. Il video di risposta è stato pubblicato dal profilo Facebook dell'avvocato e attivista Cathy La Torre, e ritrae il giovane di spalle, in quanto minorenne. Yassin afferma di esserci "rimasto male" quando, al suo ritorno, i genitori gli hanno comunicato la comparsata di Salvini alla ricerca di un ragazzino spacciatore. Lui che non ha mai spacciato in vita sua ed entro 4-5 mesi diventerà padre e maggiorenne. Per approfondire leggi anche: Matteo Salvini al citofono e la Tunisia si indigna. Sapete chi è questo parlamentare? Molto sospetto..."Non ho mai spacciato, non ho precedenti penali, non sono indagato", riferisce Yassin, che poi spiega la possibile ragione per cui quella donna lo ha indicato come spacciatore: "Ho avuto a che fare con la signora perché scoppiavamo petardi sotto casa". Quindi, secondo il 17enne, la signora lo avrebbe associato agli spacciatori del quartiere Pilastro. Infine arriva l'appello indirizzato direttamente al leader della Lega: "Salvini, togli quel video".
SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano il 23 gennaio 2020. La signora Annarita Biagini ha dato fastidio. Prendendo Matteo Salvini sotto braccio e portandolo per un giro "panoramico" sul suo quartiere degradato, il Pilastro di Bologna, ha acceso un faro dove non doveva. Una piazza di spaccio dove i pusher vogliono continuare la propria attività al riparo dal clamore. Ed eccola la ritorsione: la sessantenne bolognese ieri mattina si è ritrovata la macchina con il parabrezza e i vetri laterali in frantumi. Un dispetto. Una intimidazione. Indagano le forze dell' ordine. D' altronde che il suo fosse un rione difficile, lo sapeva: «Io la sera, quando esco a portare il cane, tengo sempre la pistola in tasca. È regolarmente denunciata, mi dispiace ma è così», ha confessato al Corriere. «Vivo qui da trent' anni e le cose negli ultimi tempi sono solo peggiorate. Tutti sanno quello che succede ma nessuno parla, ho spesso denunciato queste cose alle forze dell' ordine», ha detto la donna mostrando un dossier con foto e segnalazioni sulle attività degli spacciatori. «Chiedo semplicemente di poter uscire di casa tranquillamente e qui da un po' non mi sento sicura» (...)
Da La Stampa il 23 gennaio 2020. Anna Rita Biagini vive da trent' anni al Pilastro, un quartiere difficile oltre l' anello della tangenziale bolognese, a duecento metri dal punto in cui la banda della Uno Bianca ammazzò tre carabinieri nel 1991. L' altra notte, dopo la visita di Salvini e le accuse di spaccio alla famiglia tunisina via citofono, qualcuno ha spaccato i vetri della sua auto con un mattone. Sul gesto del leader leghista e sulle sue conseguenze su un ragazzo di 17 anni e sul padre, denigrati in diretta tv, non ha alcuna riserva: «Io avrei fatto la stessa cosa, avrei suonato al citofono come ha fatto Salvini, perché quando uno ha ragione è giusto fare così. Ho denunciato queste persone, le ho fotografate insieme ad altri e consegnato le foto alle forze dell' ordine. Spacciano qui sotto, dappertutto, e nessuno mi leva dalla testa che siano stati loro a rompermi i vetri della macchina».
Non si sente strumentalizzata politicamente?
«Non mi aspettavo che ci sarebbero state telecamere e giornalisti, così come lo schieramento di polizia. Pensavo che ci sarebbe stato solo un colloquio con Salvini, poi è stato lui a trasformarlo in un evento pubblico. Può aver sbagliato, ma conosciamo Salvini e sappiamo com' è spontaneo. Io comunque non mi sento usata, mi sento dalla sua parte, e l' importante è che questa storia sia venuta fuori».
Com' è nata l' idea di incontrare il leader della Lega qui al Pilastro?
«Martedì ho ricevuto una telefonata del maresciallo dei carabinieri che mi ha detto che sarei stata avvisata del suo arrivo da un collaboratore di Salvini. Si fidava ciecamente di me perché sapeva che ho tutto in mano sulla situazione dello spaccio in quartiere, foto e prove».
Ma se suonassero al suo di campanello, accusandola di un reato grave, come reagirebbe?
«Non ho niente da nascondere, li farei entrare e mi farei spiegare com' è nata quella voce. Sono schietta e pulita».
Sì ma la privacy delle persone?
«E la mia privacy dove sta quando questi tipi sono qui sotto a spacciare?».
È vero che gira armata?
«Solo di sera, quando esco col cane, porto con me una pistola regolarmente denunciata. Ce l' ho da 6-7 anni, da quando mi hanno minacciata di morte». (fra.giu.)
Bologna, distrutta la macchina della donna che ha denunciato lo spaccio. Offese e minacce alla signora che ha perso il figlio per droga: "Lei fa schifo, spero vi lascino in mutande, ti butterei un secchio di merda." Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Chi denuncia spaccio di droga rischia non solo di avere serie ripercussioni, ma di essere vittima di gravi offese e minacce. È successo ad Anna Rita Biagini, la signora che ha indicato a Matteo Salvini a quale citofono suonare in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna, per chiedere al presunto pusher tunisino se spacciasse. Questa mattina i familiari della donna hanno scoperto che la sua vettura è stata oggetto di un atto violento: parabrezza danneggiato e vetri laterali della macchina in frantumi. Perciò è stata subito presentata una denuncia ai carabinieri della Stazione Bologna Mazzini, che hanno tempestivamente provveduto ad avviare le indagini per danneggiamento aggravato, al momento contro ignoti. Si tenterà dunque di risalire al colpevole o ai vandali. Il leader della Lega, intervenuto in una diretta sul proprio profilo Facebook, si è schierato a sostegno della Biagini: "Ieri ho avuto l'onore di incontrare una madre coraggiosa che si batte con una motivazione in più, perchè ha perso un figlio di overdose e su di lei la politica si divide, qualcuno arriva a fare polemica su di lei, ma noi siamo andati a disturbare la piazza dello spaccio". Poco dopo su Twitter ha aggiunto: "Questa è la dura verità. Il mio abbraccio alla signora, onore al suo coraggio. Chi vota Lega domenica in Emilia-Romagna sa che da parte nostra ci sarà lotta dura e senza quartiere agli spacciatori di morte".
Offese e minacce. Il profilo Facebook della donna è stato tempestato e invaso da vergognosi commenti, con tanto di offese e minacce. "Che schifo di persona che è..mi vergognerei a girare se fossi in lei...spero vi lascino in mutande..schifosi"; "Ignobile ....che essere umano spregevole ....vieni a citofonare a me ... Te jett nu sicchie e merd ncuoll....Lota di femmina ....mi fa orrore"; "Spero che venga denunciata, che debba pagare di tasca sua le spese processuali e il risarcimento, magari la prossima volta eviterà di fare la spia al suo impresentabile capitone felpato"; "Le hanno sfondato l'auto. Sarà pure brutto da dire, ma siamo contenti".
Francesco Cancellato per fanpage.it il 22 gennaio 2020. Non era in casa, quando Matteo Salvini ha citofonato a casa dei suoi genitori, la sera di martedì 21 gennaio, chiedendo se in quella casa al primo piano ci fosse una centrale di spaccio del quartiere Pilastro di Bologna. E ora vuole denunciare la donna che ha portato il leader della Lega a diffamarlo in diretta Facebook. Perché lui, il 17enne di origine tunisina accusato dal leader leghista non spaccia droga. Non più, in realtà, perché ammette “sono pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più”, ma ora “vado a scuola, sono un ragazzo normalissimo, non mi manca niente”. Abbiamo intercettato il ragazzo sotto casa dei genitori, sconvolti dal blitz di Salvini: “Mia madre ha 67 anni, mio padre si spacca il culo, se vai a casa trovi i vestiti di Bartolini – spiega il ragazzo a Fanpage.it – Lui ci è rimasto molto male”. Difende anche il fratello, “che non fa queste cose, lui gioca a calcio”. È anche per questo che il ragazzo ha deciso di sporgere denuncia nei confronti della signora che ha portato Salvini sotto casa sua:“Io incontro questa signora qua dietro nel parcheggio – racconta – Lei ha il cane, io ho il cane, a volte ci incrociamo. Domani vado in procura e la denuncio per diffamazione”. Seguendo le indicazioni di una residente della zona, il leader della Lega, Matteo Salvini, era andato a citofonare a casa di alcune persone ritenute “presunti spacciatori”. L'ha fatto in diretta su Facebook, facendo i nomi di queste persone e mostrando il palazzo in cui vivono. Andando a chieder loro se è vero che spacciano e se può salire a casa loro. Salvini si trovava nella zona periferica del Pilastro a Bologna. Seguendo sempre le indicazioni della donna, ha suonato al citofono di una famiglia di origine tunisina su indicazione della signora. Al citofono ha risposto un uomo e Salvini l'ha interrogato: “Buonasera. Lei è al primo piano? Ci può far entrare cortesemente? Perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole e volevano che lei la smentisse, ci hanno detto che da lei parte lo spaccio del quartiere. Giusto o sbagliato?”.
Salvini e la signora Biagini, la sua guida al Pilastro: «Quando esco col cane porto sempre con me una pistola». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it. È piombata nel cuore della campagna elettorale dell’Emilia-Romagna. A pochi giorni dal voto anche lei, accompagnata dal leader della Lega, Matteo Salvini, si è presa i riflettori per una sera, guidando l’ex ministro dell’Interno nei meandri del Pilastro, quartiere alla periferia di Bologna. Era con lui anche di fronte al citofono di una presunta famiglia di spacciatori stranieri diventato nelle ultime ore il nuovo caso con relative polemiche della propaganda salviniana. Anna Rita Biagini, 61 anni, ammette di «non avere paura per essersi mostrata vicino a Salvini, anche perché tutti sanno che denuncio gli spacciatori e il degrado della zona, piuttosto ho paura certe sere a uscire». Davanti alle telecamere ha ammesso: «La sera quando porto il cane a fare una passeggiata mi porto una pistola in tasca, è regolarmente denunciata. Mi spiace ma è così». La signora è stata portata al presidio annunciato da Salvini da alcuni esponenti della Lega, che l’hanno poi «scortata» quando l’evento elettorale è finito. Lei si è apertamente dichiarata fan del Capitano, ricevendo la promessa di Salvini di una nuova visita: «Tornerò». «Mio figlio è morto di overdose a trent’anni, per questo combatto lo spaccio – racconta la signora –. In realtà lui era malato di Sla e purtroppo era tossicodipendente. Quando le suoi condizioni erano pevauggiorate tanto da ridurlo su una sedia rotelle ha deciso di farla finita e lo ha fatto nel modo che conosceva, facendosi una dose letale». La 61enne racconta di vivere al Pilastro da trent’anni e ha consegnato al segretario leghista un dossier con foto e segnalazioni fatte in zona contro i pusher. Il quartiere è da sempre etichettato come una delle zone più difficili di Bologna, noto anche per la strage del Pilastro ad opera della Uno Bianca: il 4 gennaio 1991 i carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini rimasero vittime della scia di sangue dei fratelli Savi e dei loro complici. La Biagini ha parlato a Salvini dei pusher che infestano il quartiere. «Tutti sanno quello che fanno – ha sottolineato la signora all’ex capo del Viminale –. Ho più volte denunciato a polizia e carabinieri la situazione». Poi ha mostrato le aiuole e i muretti dove verrebbe nascosta la droga. Con lei hanno solidarizzato altri residenti ma le sono piovute addosso anche le critiche di altri abitanti del Pilastro perché «facendo in questo modo vuoi raccontare questa zona sempre allo stesso modo». Lei si è difesa, spiegando anche di non essere mai stata un’elettrice di sinistra riconvertita alla Lega. «Ho visto questa zona peggiorare nel tempo – ha ammesso –. E quello che mi dispiace è che dal presidente di quartiere mi sento dire che invece qui le cose vanno bene, ma non vanno bene per niente. Per questo apprezzo Salvini, mi è sembrato che su questi problemi abbia le idee chiare e mi convince. Qui da tempo ci promettono una nuova caserma dei carabinieri, ma rimandano sempre. E la cosa non la sopporto».
Il ragazzo a cui ha citofonato Salvini: «Non siamo spacciatori, solo pregiudizi» E Tunisi protesta: deplorevole provocazione. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Mauro Giordano e Cesare Zapperi. Il 17enne nordafricano vive con la sua famiglia nel quartiere Pilastro. «Io e la mia famiglia siamo scossi per quello che è successo, intendiamo andare avanti per vie legali». Il vicepresidente del parlamento tunisino: «Salvini è razzista e mina i rapporti tra i nostri Paesi». «Non sono uno spacciatore e non lo sono nemmeno i miei parenti, siamo scossi per quello che è successo e intendiamo andare avanti per vie legali». A parlare è il 17enne accusato di spaccio insieme al padre nel quartiere Pilastro di Bologna. L’accusa è arrivata dal leader della Lega, Matteo Salvini, che durante un evento elettorale ha citofonato alla famiglia chiedendo: «È vero che qui spacciate?». Il tutto mentre veniva ripreso dai giornalisti che stavano seguendo l’appuntamento della campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia-Romagna. Il tour anti-spaccio dell’ex ministro dell’Interno è stato guidato da una residente della zona, alla quale alcune ore dopo è stata danneggiata l’auto. La famiglia si è rivolta allo studio dell’avvocato Cathy La Torre e ha intenzione di presentare delle denunce per quanto accaduto sia nei confronti di Salvini che della 61enne che lo ha accompagnato.
Cosa rispondi a queste accuse?
«Che non c’è nulla di vero. Sono un ragazzo tranquillo che vive in quel quartiere, non ho precedenti penali. Mio fratello, di qualche anno più grande, ha invece degli arretrati con la giustizia per furto e rissa. Niente a che vedere con lo spaccio di droga».
C’erano già stati dei contrasti con la vostra vicina di casa?
«In passato sì, ma per questioni di altro tipo. Lei ha da ridire con tutti nel quartiere non solo con me, mio padre e gli altri familiari. Soprattutto quando c’era un bar sotto casa nostra lei si lamentava di tutto. Ma non capisco come sia arrivata ad accusarmi di questo».
Perché, secondo te, sono venuti a citofonare proprio a voi?
«Questo è quello che mi domando dall’altra sera. O meglio, me lo spiego così: è vero che in strada ci sono degli spacciatori, ma cosa ci posso fare io se qualcuno che frequenta i miei stessi posti spaccia? Noi abbiamo una casa, un indirizzo, un posto dove venirci a cercare e lo hanno fatto solo sulla base di pregiudizi. Ma in ogni caso nessuno autorizza Salvini a fare quello che ha fatto».
Oggi, spiega l’avvocata La Torre, c’è stato un incontro con il giovane per valutare i primi aspetti con la vicenda. Domani ci sarà invece un confronto con i genitori del ragazzo.
Da fanpage.it il 31 gennaio 2020. Durante un blitz a Bologna, nel quartiere periferico del Pilastro, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha citofonato alla casa di una famiglia di origine tunisina accusata, da una residente della zona, di spacciare droga. Tutto è avvenuto in diretta su Facebook, coi nomi delle persone coinvolte ripetuti più volte. "Ho 17 anni, faccio la vita di qualsiasi altro studente" dice il giovane indicato come presunto spacciatore. "Ho precedenti, ma sono pulito da un bel po'" aggiunge suo fratello maggiore, che fra l'altro non vive più nella zona già da tempo.
Da “la Stampa” il 31 gennaio 2020. «Ho 17 anni, studio e gioco a calcio. A Imola. Sono stato convocato in nazionale, è stata una grandissima esperienza». Il ragazzo del citofono a cui ha suonato il leader della Lega Matteo Salvini durante la campagna elettorale per le Regionali dell' Emilia Romagna è stato ieri intervistato a Piazza Pulita su La7. «Non ho mai avuto precedenti, non sono uno spacciatore. Ogni giorno mi chiedo: perché proprio me? A un 17enne gli hai rovinato la vita in cinque minuti da un giorno all' altro. Un politico che è venuto in periferia così...Cioè da pizzaiolo, postino, a suonare e dire "tu spacci". Ma cos' è?»
Karima Moual per “la Stampa” il 31 gennaio 2020. Al civico 16, tra una delle tante palazzine del Pilastro, quartiere popolare e multietnico alla periferia di Bologna, non c' è solo un citofono al quale ha suonato l' ex ministro dell' interno Matteo Salvini, ma un appartamento dove già al suo ingresso si respira l' aria di un' Italia che difficilmente viene raccontata. Quella della contaminazione che si fa famiglia. Una famiglia, Labidi - Razza, che si scopre solo dopo essere italo - tunisina, ribaltando un finale che sembrava scontato, quando in piena campagna elettorale, la sera del 22 gennaio l' ex Ministro dell' interno Matteo Salvini si fece guidare da una cittadina di quartiere, che gli indicava una famiglia tunisina, accusandola di spaccio. Il resto lo conosciamo ed è testimoniato in un video sul web, che Facebook ha già rimosso perchè inneggia all' odio: «Buonasera, ci hanno detto che da lei parte una parte dello spaccio nel quartiere». Sono le parole di Matteo Salvini. Risate, clack e poi, il sipario doveva scendere. E invece no. Entriamo nella casa della famiglia Labidi - Razza: «Quando dalla Tunisia sono arrivato in Italia nel '79, Matteo Salvini forse non era ancora nato - racconta il signor Labidi, 58 anni, oggi autista ma con alle spalle 20 anni come cuoco. E' scosso, fatica a dormire perché amareggiato e molto stanco per quella famosa citofonata, che non fece solo il giro delle reti italiane, ma fu trasmessa anche in lingua araba nei social network e nei maggiori canali televisivi arabi, facendo montare tanta rabbia, sdegno e un intervento del governo tunisino, trascinando il nostro paese in un incidente diplomatico con un paese amico. «Perché proprio a noi?». E' la domanda che si continua a chiedere Labidi, da più di 40 anni in Italia e residente al quartiere Pilastro da sempre. Lì ha conosciuto la moglie Caterina, e lì sono nati i loro 4 figli. Due figlie che vivono all' estero, il figlio più grande con la sua famiglia in un altro quartiere, mentre con loro è rimasto solo il figlio più piccolo, Yassin, 17 anni, calciatore, preso di mira dall' ex ministro dell' interno, dal momento in cui lo ha indicato come spacciatore. Ma perché proprio a voi? Ci pensa ancora un po', ma a rispondere è Caterina, seduta nel salottino di casa, grondante sino a toccare il kitch, di Tunisia e Italia, Islam e cristianesimo. Quadri di sure del corano, insieme a croci, angeli e un ritratto di Madre Teresa di Calcutta, insieme a trofei coppe e medaglie del figlio calciatore. «Salvini ci ha citofonato, facendoci passare per una famiglia di spacciatori, a scopi propagandistici per la sua campagna elettorale, ma la verità è che non pensava fossimo una famiglia italo-tunisina. Non pensava che io fossi italiana, perché purtroppo, finché si trova di fronte a minoranze, stranieri che non conoscono i loro diritti, che magari hanno paura, allora gli va bene - spiega Caterina. E gli è sempre andata bene - rincara - ma questa volta no, questa volta gli è andata male perché ha trovato me, italiana, che conosco i miei diritti, e porterò fino in fondo la mia battaglia contro questo uomo, che ha rovinato una famiglia intera». Caterina è un fiume in piena, mentre Labidi con occhi bassi, continua a ripetere: «Ma l' Italia non è così! qui nel quartiere mi conoscono da anni, sanno chi sono, mi rispettano e mi vogliono bene e mai come in questa occasione li ho sentiti vicino. Ci è arrivata tanta solidarietà. Certo, qualche sbaglio - confessa Labidi - l' ho fatto anch' io in passato quando ero molto giovane, ma io sono ormai un uomo di famiglia e da anni, pulito, che si sveglia all' alba lavorando onestamente 8- 9 ore come autista. Guadagno anche bene e non mi posso lamentare». E mentre lo dice, si premura di tirare fuori le sue busta paga come a dimostrare la sua innocenza. Un gesto che evidenzia la consapevolezza di sentire sulla pelle come la sua storia sia stata sporcata. «Siamo stati processati in mondo visione, senza aver fatto nulla, abbiamo subìto una violazione dei nostri diritti ma anche una violenza inaudita verso di noi e un minore di 17 anni, mio figlio Yassin - si sfoga ancora Caterina - che oggi è rovinato psicologicamente. È spento, non ha più voglia di uscire, di fare nulla, un ragazzo che era energia pura». Dietro alla famiglia c' è più di un avvocato. «Abbiamo denunciato Salvini - dice Caterina - perché ciò che ha fatto non può passare impunito in quanto pericoloso non solo per il male che ci ha fatto ma anche per il messaggio che manda agli italiani, la libertà di processare chiunque, soprattutto se straniero e indifeso, anche solo per sentito dire». Buona parte del quartiere Pilastro si è sollevata nei giorni dopo. Lo racconta Mohamed, che spiega come ha sensibilizzato la famiglia, amici e tutti quelli delle comunità straniere con in tasca la cittadinanza per andare a votare Bonaccini per non far vincere Salvini. «A casa mia - spiega Fadoua oggi 25 anni nata al Pilastro ma di origine marocchina - abbiamo riunito tante persone per spiegargli come votare. Persone che avevano la cittadinanza ma non avevano mai votato». Riunioni, appelli via social, telefonate messaggi, anche in lingue straniere, il passa parola è stato una valanga. «A Salvini - continua Flavia - la citofonata, gliel' abbiamo suonata noi. Basta fare carne da macello con i più deboli, gli immigrati, perché se la loro voce è più debole, ci penseremo noi italiani, che con loro conviviamo fianco a fianco».
Parla il padre del presunto pusher tunisino: "Ora denunciamo Salvini". Il ragazzo respinge tutte le accuse: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell'Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Noi non spacciamo". Luca Sablone, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Ancora polemiche sulla citofonata di Matteo Salvini al presunto pusher in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna. Nella giornata di ieri sono arrivate le forti reazioni da parte di Moez Sinaoui: l'ambasciatore della Tunisia a Roma ha espresso la propria "costernazione per l’imbarazzante condotta", che viene definita come una "deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato". In scena però è entrato anche il ragazzo in questione, che ha smentito tutte le accuse sullo spaccio. La famiglia ha annunciato una battaglia legale contro l'ex ministro dell'Interno: "Non siamo spacciatori, con quella pagliacciata Salvini ci ha rovinato la vita e per questo lo denunceremo". Il 17enne si difende dopo essere stato additato praticamente in diretta nazionale: "Come si è permesso di fare una cosa simile, siamo brave persone". Il giovane ha fornito alcuni dettagli anche per quanto riguarda la sua vita privata: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell’Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Tra qualche mese avrò anche io una bambina. Non capisco perché se la siano presa con noi". Intanto nella giornata di ieri ha incontrato l'avvocato Cathy La Torre e oggi è prevista una riunione del legale con i genitori del ragazzo: in tale occasione verranno presentate denunce contro il leader della Lega e contro Anna Rita Biagini, la 61enne che ha indicato a quale citifono suonare e a cui hanno distrutto la macchina.
Scatta la manifestazione. Come riportato dal Corriere della Sera, padre e figlio hanno fatto sapere: "Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c’è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi". Pare che il baby tunisino sia incensurato, mentre il fratello - che vive in un altro appartamento nel quartiere - ha già avuto problemi con la giustizia: una denuncia per furto e rissa. Il padre ha ammesso: "Io invece più di vent’anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente". Di professione fa il corriere. Domani i residenti e le associazioni del Pilastro organizzeranno una manifestazione in strada per protestare e per rispondere "all'immagine negativa che è stata proiettata da chi vuole strumentalizzare una zona con problemi ma anche ricca di cose positive".
Blitz di Salvini al citofono, Yassin difeso da Cathy La Torre: “Non spaccio, studio e gioco a calcio. Ora ho paura”. Redazione de Il Riformista 23 Gennaio 2020. “Ancora una volta, al Capitano, ha detto male. Si è scusato per il video in cui ha preso in giro un ragazzo dislessico. Questa volta le scuse non credo basteranno”. L’avvocato bolognese Cathy La Torre, attivista per i diritti civili, torna ad accusare Matteo Salvini. Al legale si è rivolto infatti Yassin, il 17enne tunisino che lunedì sera si è visto citofonare dall’ex ministro dell’Interno e chiedere se spacciava. “Ci sono rimasto, è una brutta cosa – spiega il ragazzo nel video -. Mi viene da pensare ‘adesso la gente come mi guarda? I miei amici come mi guardano?’. Molto probabilmente mi guarderanno con occhi diversi, ma voglio far capire che io non sono uno spacciatore, gioco a calcio, tra 5 mesi divento padre”. Yassin si rivolge allo stesso Salvini e lancia un appello. “Vorrei far capire questo: che non sono uno spacciatore e voglio far levare quel video lì. Salvini togli quel video, sono cose non vere, tu dici ‘spacciatore, padre e figlio che spacciano’ e questo non è vero… Voglio continuare la mia vita di prima, voglio uscire di casa. Prima la gente non mi conosceva, ora dicono ‘Iaia lo spacciatore’ (Iaia è il soprannome di Yassin, ndr). Ma cos’è?”, si chiede il 17enne. In un post che accompagna la video-intervista, l’avvocato (che difenderà Sergio Echamanov, il ragazzo dislessico bullizzato da Salvini durante un comizio in una cittadina alle porte di Ferrara, ndr) ricorda che Yassin “è italiano, figlio di un matrimonio misto, che mi vergogno pure a doverlo dire che si, si è pure figli di matrimoni misti! Iaia – spiega – nella vita gioca a calcio e lo fa pure discretamente bene tanto da essere stato convocato 3 volte dalla nazionale giovanile a Coverciano, e aver giocato nel Sassuolo, nel Modena e no: non spaccia. Non ha precedenti penali, di nessun tipo. Zero. Nada. Niente. Vuole solo vivere la sua vita, giocare a calcio, studiare per ottenere la stessa patente del padre (che è un autista della Bartolini) e fare lo stesso lavoro. Perché tra 5 mesi diventa papà anche lui. Ma da ieri – sottolinea ancora -, per tanti, è solo ‘Yassin lo spacciatore’. Perché un ex Ministro dell’Interno ha citofonato a casa sua chiedendogli ‘lei è uno spacciatore’. Perché serviva dare in pasto ai suoi fan l’immigrato delinquente”, conclude l’avvocato.
Monica Rubino per repubblica.it il 22 gennaio 2020. "Siamo sbalorditi, la Tunisia non merita un trattamento del genere". A nome del Parlamento tunisino, il deputato Sami Ben Abdelaali chiede a Matteo Salvini scuse ufficiali nei confronti della famiglia tunisina coinvolta nel "blitz" al quartiere Pilastro di Bologna. Ieri, l'ex ministro dell'Interno in campagna elettorale in Emilia Romagna, ha inscenato un tour nella periferia bolognese citofonando - mentre veniva ripreso dalla telecamere e circondato dalle forze dell'ordine - a una famiglia tunisina di via Deledda su indicazione di alcuni residenti e chiedendo: "A casa sua si spaccia?". Dopo le contestazioni dei giovani del quartiere, del Pd e dello stesso sindaco di Bologna Merola, contro il leader leghista si è sollevata un'ondata di indignazione anche fra i deputati del Parlamento tunisino. "In Tunisia quest'azione vergognosa di Salvini ha scatenato una grande protesta - spiega Sami Ben Abdelaali - unita a manifestazioni di solidarietà nei confronti della famiglia tunisina e del minore citati per nome dall'ex (per fortuna) ministro dell'Interno".
Il Parlamento tunisino. "Siamo sbalorditi per l'attacco diffamatorio nei confronti di una famiglia di lavoratori, oltretutto sferrato da una persona che in Italia ha ricoperto incarichi di governo. Anche se un parente di questa famiglia ha avuto precedenti penali, questo non giustifica una tale campagna di odio. Chi sbaglia deve pagare, ma non possiamo tollerare il discredito sull'intera comunità tunisina che è sana e lavoratrice", aggiunge Abdelaali, ex presidente di un istituto bancario siciliano, residente a Palermo e sposato con una siciliana, eletto al Parlamento tunisino nelle liste dei tunisini all'estero. "Trattare così nostri immigrati è una vergogna - conclude - difendo la dignità e diritti dei nostri cittadini. Se ci fosse stato un problema si poteva segnalare alle autorità competenti, senza alcun bisogno di messinscene a favore di telecamere. Salvini capisca che queste azioni per ottenere qualche voto in più non sono più di moda, i rapporti internazionali fra Italia e Tunisia vanno bel al di sopra dei suoi incitamenti discriminatori".
Blitz di Salvini al citofono, il Parlamento tunisino: «Gesto razzista, chieda scusa». Simona Musco su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La replica del leader della Lega: « la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere». Crisi diplomatica tra Italia e Tunisia dopo che Matteo Salvini, su segnalazione di alcuni cittadini, ha citofonato ad una famiglia tunisina del quartiere Palazzo, a Bologna, per chiedere se le persone residenti nell’appartamento spacciassero droga. Un gesto ripreso dalle telecamere a seguito del senatore, impegnato nella campagna elettorale per le regionali in Emilia, che ha suscitato l’indignazione del vicepresidente del Parlamento di Tunisi, Osama Sghaier, che in un’intervista rilasciata a Radio Capital ha parlato di «atteggiamento razzista e vergognoso che mina i rapporti tra Italia e Tunisia». Salvini, ha aggiunto Sghaier, «è un irresponsabile, perché non è la prima volta che prende atteggiamenti vergognosi nei confronti della popolazione tunisina. Lui continua a essere razzista e mina le relazioni che ci sono tra la popolazione italiana e la nostra. I nostri paesi hanno ottimi rapporti. I tunisini in Italia pagano le tasse e quelle tasse servono anche a pagare lo stipendio di Salvini. Dunque, si tratta di un gesto puramente razzista». Duro anche il commento del deputato Sami Ben Abdelaali, che a nome del Parlamento tunisino ha chiesto le scuse ufficiali di Salvini nei confronti della famiglia, definendo quella del leader del Carroccio «un’azione vergognosa, fatta per ottenere qualche voto in più alle regionali». A rincarare la dose anche l’ambasciatore tunisino a Roma, Moez Sinaoui, che in una lettera inviata alla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, ha espresso la sua «costernazione per l’imbarazzante condotta» del leader della Lega, una «deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato» da parte di un «pubblico rappresentante dell’Italia», paese che vanta «un’amicizia di lunga data con la Tunisia». Sinaoui ha accusato Salvini di aver«illegittimamente diffamato una famiglia tunisina», atteggiamento che ha «stigmatizzato l’intera comunità tunisina in Italia».
Ma Salvini non torna sui suoi passi. «Il vicepresidente del Parlamento tunisino mi accusa di razzismo? Io ho raccolto il grido di dolore di una mamma coraggio che ha perso il figlio per droga – ha replicato – un atto di riconoscenza che dovremmo far tutti: la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere. Tolleranza zero contro droga e spacciatori di morte: per noi è una priorità. In Emilia Romagna e in tutta Italia ci sono immigrati per bene, che si sono integrati e che rispettano le leggi. Ma chi spaccia droga è un problema per tutti: che sia straniero o italiano non fa nessuna differenza».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2020. Nell' ambito delle comunicazioni di massa, scarso rilievo hanno avuto gli studi sul citofono. Una sottovalutazione imperdonabile, relegata ad ambito condominiale: «Tra il balcone e il citofono ti dedico i miei guai», canta Tiziano Ferro. La bravata di Matteo Salvini (com' è noto ha citofonato a una famiglia di origine tunisina della periferia di Bologna per chiedere se in quella casa abitasse uno spacciatore) è stata paragonata a una forma di linciaggio (con telecamere a seguito). Ma è anche figlia, come ha sottolineato Mattia Feltri, «di un giornalismo che si acclama da sé con la schiena diritta perché insegue la preda per strada, e a microfono e telecamera spianati gli chiede se sia un pedofilo o se non si senta un genocida a riscuotere il vitalizio». Una decina d' anni fa, in questo spazio, mi è capitato di scrivere: «Lo strappa-opinioni non recede di fronte a nulla: l'umanità dolente gli si presenta come uno sterminato campionario, un' inesauribile collezione di vicende personali, facce, accenti, gesti, manie cui porre una sola e unica domanda: "Cosa ha provato in quel momento?" Se non c' è la persona si accontenta anche di un citofono: il microfono davanti a un citofono, dal punto di vista espressivo, è il livello più basso del mestiere». Il citofono è stato nobilitato dai comici (Chiambretti a Complimenti per la trasmissione ; Aldo, Giovanni e Giacomo a Mai dire gol ; Andrea Rivera a Parla con me , Enrico Brignano a A Sproposito di noi ) e mortificato dai «cronisti d' assalto» che hanno trasformato lo strumento nel surrogato dello scalpo. Un genere, come scrive Il Foglio , «portato alla gloria dalle Iene : si suona al portone di qualcuno sospettato o indicato di qualcosa, che non sa bene con chi sta parlando, e gli si fa l' interrogatorio al citofono». Con una mossa tracotante, Salvini è riuscito a citofonare a sé stesso, cioè a far parlare di sé anche negli ultimi giorni di campagna elettorale.
Simone Di Meo per la Verità il 24 gennaio 2020. Aveva annunciato: «Rifarei tutto». Ed è stato di parola Matteo Salvini, per nulla intimorito dalla tempesta mediatica (con strascico diplomatico) che si è abbattuta dopo la citofonata di martedì scorso, al Pilastro, quartiere bordeline di Bologna, a un' abitazione di presunti spacciatori. Ieri, nel tour elettorale a Modena, è andato nuovamente in scena. Puntando un esercizio commerciale. «Dov' è questo negozio, è qui al civico 38?» ha domandato il leader leghista in diretta Facebook. La segnalazione, pure in questa circostanza, è arrivata dalle donne del rione. «Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla Procura e alle forze dell' ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché qua dentro si spaccia la droga», ha aggiunto. «Speriamo che la nostra presenza di oggi possa portare a fare i controlli del caso, possa portare a qualche chiusura e a qualche arresto. Ringrazio le mamme e le nonne che ci hanno messo la faccia. È dal 1999 che c' è questo negozio? Sono vent' anni? Visto che sono testone, tornerò tutte le volte, finché non sarà chiuso definitivamente», è stata la sua promessa. Resta aperta, anzi apertissima, invece la questione bolognese con la famiglia tunisina di via Grazia Deledda, additata dall' ex vicepremier come presunta centrale di smercio di stupefacenti. Al Corriere della Sera, il padre e il figlio minorenne hanno annunciato di voler trascinare davanti al giudice sia Salvini sia la signora che gli ha indicato il loro appartamento. «Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c' è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi», hanno riferito. Il diciassettenne, che studia e gioca a calcio, risulta incensurato, ma il papà, oggi corriere per la Bartolini, ha ammesso qualche problema: «Io invece più di vent' anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente». Pure il fratello maggiore, che non vive più al Pilastro, ha trascorsi giudiziari. Al quotidiano online Fanpage.it, ha ammesso di essere «pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più, adesso sto facendo il bravo». La donna a cui fanno riferimento il genitore e il figlio nordafricani si chiama Anna Rita Biagini, ed è stata la «guida» di Salvini nel giro per le strade a caccia di pusher. Il giorno dopo il tour, l' anziana ha trovato la sua auto vandalizzata. Ma non si è scomposta. A Radio Capital, la Biagini ha rincarato la dose: «Io so che quel ragazzo spaccia, ho le foto. Ora Salvini mi ha regalato i soldi per ripagare i vetri della macchina che mi hanno danneggiato». Suo figlio, malato di Sla, è morto per un' overdose a trent' anni. Qualcuno l' ha accusata di essere una visionaria. Lei ha replicato: «Ho già fatto chiudere un bar qui vicino per stupefacenti». Appena possibile, racconta tutto quel che può alle forze dell' ordine. «Ho iniziato a ricevere minacce, così ho deciso di prendere una pistola, regolarmente detenuta (da lei soprannominata «l' amica Mafalda», ndr). Saranno ormai sei o sette anni che la porto sempre con me quando esco. Mi spiace, ma è così». Lo stesso leader leghista non ha alcuna intenzione di indietreggiare e, davanti alle dichiarazioni della famiglia tunisina, ha ribattuto: «Se c' è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore». E ha difeso quelli che lo hanno accompagnato a Bologna: «I cittadini non hanno dubbi, hanno certezze». La sortita dell' ex ministro dell' Interno ha scatenato una ridda di reazioni. Oltre a quella delle autorità tunisine, che hanno protestato ufficialmente con una lettera al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, esprimendo «costernazione per l' increscioso episodio», è arrivata la rampogna (non la prima, a dire il vero) anche da parte del capo della polizia, Franco Gabrielli. «Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la polizia in maniera indiscriminata», è stata la bordata del massimo responsabile nazionale di pubblica sicurezza. Concetti che risuonano anche nel monito del segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo. «Non è stato un atteggiamento particolarmente felice», ha spiegato. I vescovi dicono «basta con la costante campagna elettorale», il clima di «conflittualità» va avanti da troppo tempo. Al fianco del capo del Carroccio si è schierato però Vittorio Sgarbi. «Il tunisino è uno studente, ma occorrerà fare un' indagine. Gli untori sono gli spacciatori, l' altro è un cittadino normale», ha attaccato il parlamentare. «Se tu avessi un figlio che prende droga data da un pusher a scuola, avresti un solo desiderio: picchiare il pusher. È il pensiero di ogni genitore. Il politico rappresenta i cittadini nel modo più umano e diretto, è questa la sua grandezza». Difficile che tutti la pensino così.
Dagospia il 24 gennaio 2020. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori). Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ha suscitato un vespaio di polemiche la citofonata di Matteo Salvini in un quartiere a rischio di Bologna, dove si spaccia droga. Io stessa, nel mio piccolo, per aver difeso, con motivazioni politiche, quel gesto estremo sono stata presa di mira da alcuni, anche colleghi molto politically correct, che sui social hanno provato a spiegarmi il garantismo. Proprio a me che andavo a trovare in privato, ero ancora inviato speciale a L'Unità, Bettino Craxi vivo a Hammamet. Ma da giornalista politica poi di Panorama del Gruppo Mondadori sono stata e sono tuttora anche per altri giornali inviata sulla Lega. Approvo il gesto di Salvini perché così ha gettato un sasso politico nello stagno del silenzio di quel quartiere dove una madre coraggio, che ha perso il figlio per droga, è costretta a girare armata, nell'indifferenza delle istituzioni locali e nazionali. E lo analizzo da giornalista esperta anche di Lega, dalla Lega Nord di Umberto Bossi a quella nazionale di Salvini, primo partito italiano. L'allievo ha superato il maestro Umberto nei voti. Ma la tecnica, rivista e aggiornata, anche attraverso un geniale mix di linguaggio senza intermediazione tra territorio e internet, segue di fatto il canovaccio base del Senatùr. Ovvero "spararla" o farla grossa quando nessuno ti ascolta. Bossi a me allora a Panorama, a margine di una delle prime interviste esclusive, dopo la malattia del 2004, rivelò: "Chiedevo la secessione in realtà per ottenere la Devoluzione. Quando nessuno ti ascolta, devi gridare più forte". Era il Bossi che parlava di "bergamaschi armati", di "proiettili a 30 lire" che in realtà così, bucando il video, voleva ottenere più autonomia, mettendo in guardia dal fatto che se non l'avessero concessa allora sì che ci sarebbe stata la secessione. Certo, anche lì linguaggio non era esattamente in punta di diritto. Ma era linguaggio politico. Così come politico io ritengo il gesto estremo di Salvini, da me intervistato tante volte da 15 anni, che, per sua stessa natura e non solo perché allievo del "Barbaro di Gemonio", è proprio così. Come ha scritto su Twitter Annalisa Chirico, confermo: avrebbe citofonato anche a un camorrista. La notizia anche secondo me non è la citofonata, ma quel quartiere abbandonato dalle istituzioni. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori)
Matteo Salvini e la citofonata a Bologna, Pietro Senaldi: "Nostalgia del Viminale?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Dagli allo spacciatore. Salvini l' ha rifatto. Martedì sera, nella periferia bolognese, a favore di telecamere e attorniato da elettori festanti aveva citofonato a casa di una famiglia tunisina con un figlio carico di precedenti penali. «Scusi, è vero che in famiglia smerciate droga? Perché nel quartiere si dice così e ad accusarla è anche la madre di un ragazzo morto per overdose». Da sinistra si sono alzate subito migliaia di avvocati d' ufficio per il ragazzo pregiudicato e altrettanti pm pronti a incriminare il leader leghista per violazione della privacy e delazione. Il bailamme suscitato non ha intimorito lo sponsor numero uno di Lucia Borgonzoni, candidata presidente dell' Emilia-Romagna. Ieri a ora di pranzo l' ex ministro dell' Interno ha concesso la replica. Evidentemente nostalgico dei tempi in cui sedeva al Viminale, il Matteo, sempre attorniato da due cordoni di folla adorante, ha puntato la saracinesca abbassata di un negozio di proprietà di immigrati nigeriani e ha allungato l' indice accusatorio: «La gente, i residenti, mi dicono che qui dentro si spaccia. Non se ne può più, invito la Questura e la Procura a indagare». Più che pentito, recidivo. Le accuse della sinistra mirano a screditare Salvini e additarlo agli occhi degli elettori come una sorta di teppista della politica, forse cercano anche di demoralizzare e far vacillare il rivale, ma sull' interessato ottengono l' effetto opposto. Il leader leghista non si scusa, anzi, si eccita e alza la posta.
IL GARANTISMO. Chi ha ragione? Vedremo domenica sera, è la risposta più facile. Ma noi di Libero vogliamo dire la nostra anche a partita in corso. Esteticamente, e pure sostanzialmente, il gesto ci piace poco. Siamo garantisti con tutti, perfino con gli immigrati in odore di spaccio. Temiamo peraltro che la denuncia pubblica, indipendentemente dal fatto che risponda o meno al vero, procurerà più noie giudiziarie al leader leghista che agli individui di origine extracomunitaria messi alla gogna. Penalmente parlando quindi, la mossa potrebbe rivelarsi un autogol. Però questo non significa che ci sfugga il significato politico del comportamento di Salvini, che va letto esclusivamente come un momento della sua campagna elettorale. Proprio quello che i suoi denigratori non riescono a fare. Il ragionamento di Matteo è piuttosto semplice. Gli spacciatori non votano e se proprio lo fanno, scelgono gli altri a prescindere da qualsiasi cosa che io possa dire o fare. Quanto agli immigrati, quelli integrati e che rispettano la legge sono normalmente più inflessibili degli italiani da venti generazioni verso i nuovi arrivati che delinquono e screditano tutta la categoria. Pertanto, sono d' accordo con me. Il ragionamento salviniano si estende poi ai cosiddetti residenti, siano delle periferie o anche dei quartieri centrali infestati dai trafficanti e dai loro clienti. Il leader leghista sa che essi hanno ben chiaro che la droga gli rovina la vita e ritengono la soluzione del problema più impellente del rispetto del galateo politico e, anche se è brutto dirlo, sono insensibili alle ragioni giuridiche di chi viene messo all' indice, perché lo detestano e ritengono di non potersi trovare mai al suo posto. Per quel che riguarda gli altri, gli elettori del centrodestra benpensanti, che pure esistono anche se la sinistra li ignora, Matteo sa che sono disponibili a pagare il prezzo delle sue intemperanze verbali e comportamentali se la ricompensa è liberarli dalla sinistra. E non solo per le tasse, la politica migratoria dissennata, la guardia abbassata sulla sicurezza nelle strade, la connivenza con le organizzazioni di natura sociale che agiscono, come a Bibbiano, ispirate più dall' ideologia che dai bisogni e tutto l' armamentario di mal governo pratico e teorico che il Pd e i suoi alleati si portano dietro ovunque.
REAZIONI SCOMPOSTE. Le provocazioni di Salvini gli portano voti anche per le reazioni che suscitano nella sinistra, della quale esaltano il moralismo, l' ipocrisia e l' atteggiamento di chi la sa sempre giusta e pretende di dirti come comportarti. E se non la ascolti si scatena, mentre tace quando il suo popolo augura a Mihajlovic che la leucemia lo uccida solo perché ha detto che gli piace il leader della Lega. Pure i vescovi ieri hanno attaccato l' ex ministro per il suo tour anti-spaccio, sostenendo che è stato un comportamento infelice. Certo non è stato ineccepibile, e noi di Libero non lo sottoscriviamo. Ma ce ne fosse uno tra i detrattori che, con Salvini, avesse premesso anche una doverosa condanna della droga e di chi la spaccia. Se non altro, avrebbe tolto all' ex ministro dell' Interno l' esclusiva della lotta alla criminalità e forse avrebbe diminuito nella maggioranza degli italiani il desiderio impellente di vedere tornare al Viminale l' oggetto della disapprovazione delle sardine e degli altri branchi di pesci rossi. Pietro Senaldi
Dagospia il 22 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. Matteo Salvini, leader della Lega, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.
Sulla citofonata. “Se c’è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede di dargli una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre –ha affermato Salvini-. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Però era giusto squarciare il silenzio che purtroppo c’è in tanti quartieri italiani. Per me che sono stato a San Patrignano a parlare con ragazzine di 15 anni che si facevano di eroina, gridare che la lotta alla droga debba essere un obiettivo primario della politica è mio dovere. Che poi uno spacciatore sia tunisino, italiano o finlandese non è importante. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore. I residenti del quartieri non hanno dubbi, hanno certezze. Travaglio parla di giustizia citofonica? Secondo Travaglio io dovrei andare in galera, con una pena maggiore rispetto a quella degli spacciatori di droga, perché il reato per cui sono imputato prevede fino a 15 anni di carcere. E’ assurdo che i Travaglio e il Pd di turno ritengano che sia normale una roba del genere, secondo me è un enorme spreco di denaro pubblico questa roba qui. Mi chiedono di citofonare ai mafiosi? Sono andato a bermi un caffè con Nicola Gratteri che è uno dei principali nemici delle mafie, che si batte ogni giorno contro la ‘ndrangheta. Ricordo poi che la villa ai Casamonica con la ruspa l’ho abbattuta io, non Fabio Volo o Fabio Fazio. E a Corleone il commissariato di polizia confiscato alla mafia l’ho inaugurato io. Se c’è qualcuno a cui sto sulle palle sono proprio mafiosi e camorristi”.
Sul caso Gregoretti. “Ho chiesto ai miei di votare per il processo. Di sbarchi ne avrò bloccati una trentina. Non l’ho mai fatto di nascosto né da solo. Oggi Conte e compagnia fanno come le 3 scimmiette, non vedo non sento non parlo, per me vale più la dignità, per Conte evidentemente vale di più la poltrona”. Sulle elezioni in Emilia Romagna. “Un anziano partigiano a Brescello mi ha detto: se ci fosse ancora Peppone voterebbe te. Lui ha la tessera del PCI e domenica voterà Lega. Mi ha detto che il PD ormai è il partito del sistema, delle banche, non è più il partito della tradizione contadina, operaia, degli artigiani. Noi vinceremo domenica perché ci votano quelle persone lì, non perché sbarcano gli alieni. Il M5S nasce a Bologna con il Vaffa Day contro il sistema del Pd, oggi governano col Pd quindi è chiaro che oggi anche molti delusi del M5S voteranno Lega. Mi sento di rappresentare una certa tradizione della sinistra vicina agli ultimi. Modello emiliano? I successi delle imprese emiliane dipendono dagli imprenditori emiliani, nonostante la burocrazia imposta dalla Regione e nonostante il sistema non fondato sul merito, perché se sei amico corri se non hai l’amico al posto giusto fai fatica. Non vogliamo insegnare niente a nessuno, ma nelle regioni in cui governiamo abbiamo dimostrato che le liste d’attesa si possono accorciare, si possono assumere più medici e infermieri”.
Su Bibbiano. “Stasera sono a Bibbiano, splendido comune agricolo. Ma quello che è successo in quel comprensorio con 26 indagati e troppi bambini portati via con l’inganno alle famiglie secondo l’accusa, è indegno per una splendida regione come l’Emilia Romagna. La responsabilità penale è dei singoli. Quello che noi contestiamo da anni è di non aver visto e, quando è esploso tutto, averlo liquidato come un fatto da poco. A parte che anche un singolo bambino portato via con l’inganno a una mamma e un papà è un dramma, l’obiettivo dei bimbi dati in affido è lavorare per riconsegnarli alle famiglie di provenienza e questo purtroppo, a Bibbiano e non solo, accade solo nella minoranza dei casi. Questo vuol dire che l’intero sistema di affidi va rivisto”. “Si parla molto di Emilia Romagna perché vincere qua sarà un fatto clamoroso e commovente, ma c’è anche la Calabria che di problemi ne ha di enormi. Pensate che non c’è l’assessore al turismo. E’ come se in Arabia Saudita non ci fosse un ministro che si occupa del petrolio. Secondo me qui vinceremo con almeno 20 punti di distacco e per la Lega sarà una prima volta in assoluta. Sarà un’emozione anche quella”.
Sul retroscena secondo cui Di Maio avrebbe accettato di fare il premier con la Lega ma Grillo glielo avrebbe impedito. “Onestamente non so se sia vero. Sia Grillo che Di Maio mi sembra che abbiano scelto l’abbraccio mortale col PD contro la volontà del loro popolo. Evidentemente Grillo ha fatto le sue valutazioni, però io non ho mai parlato direttamente né con Grillo né con Di Maio. Se si fossero sciolte le Camere e si fosse andati al voto, oggi avremmo un governo diverso, che rappresenta la volontà popolare, stabile e non litigioso”.
Rivalità con Meloni? “Assolutamente no. Più cresce tutto il centrodestra meglio è, più cresce FDI, FI, la lista di Toti meglio è. Chiaro che la Lega al 30% ormai da mesi per me è un enorme responsabilità ma è anche il premio a tanti amministratori della Lega. Anche nel Lazio. Zingaretti teoricamente è pagato per fare il governatore del Lazio, invece fa il segretario di partito in giro per l’Italia. Vedremo di restituire il prima possibile parola ai cittadini di Roma e del Lazio perché l’accoppiata Zingaretti-Raggi sta producendo disastri”.
Simone Pierini per leggo.it il 22 gennaio 2020. Fabio Volo tuona contro Matteo Salvini. Nel corso della sua trasmissione su radio Deejay, Il Volo del Mattino, il conduttore si è scagliato contro l'ex ministro dell'Interno. Motivo scatenante il gesto di Salvini che citofona a casa di un tunisino a Bologna chiedendo se fosse uno spacciatore. Fabio Volo non usa giri di parole: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Lo sfogo ha raccolto l'approvazione del popolo di Twitter che ha apprezzato la dura presa di posizione del conduttore di Radio Deejay. Ma già nella serata di ieri era montata la protesta contro il leader della Lega. Il primo ad accusarlo il sindaco di Bologna Virginio Merola su Facebook: «Io credo che si debba vergognare, caro Salvini. Lei non è un cittadino qualunque. Ha fatto il ministro dell'interno, come mai in quel caso non ha avuto lo stesso interesse? Forse perché adesso è solo propaganda e si comporta da irresponsabile per qualche voto in più». Contro Salvini si era espressa anche il sottosegretario di Stato al Ministero dello Sviluppo Economico Alessia Morani: «Ecco il video di #Salvini che suona al campanello di una casa a #Bologna chiedendo se li abita uno spacciatore. Fa anche il nome. Poi chiede: è tunisino? È un cialtrone, un provocatore pericoloso. Ha passato ogni limite. Sta cercando l’incidente, è evidente. Guardate voi stessi». Questa mattina l'ex ministro ha voluto spiegare i motivi del gesto. «Abbiamo segnalato a chi di dovere che là c'è chi spaccia droga. C'è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato una proposta di Droga zero, perchè droga è morte». Ha affermato Matteo Salvini in collegamento con Mattino 5, tornando sulla sua scelta di citofonare, ieri sera, a casa di un presunto spacciatore, nel quartiere Pilastro. «Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa. Quando una mamma mi chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante - conclude - protesta».
Linus si scusa per l'attacco di Fabio Volo a Salvini: "Parole condivisibili ma ha sbagliato i toni". Dopo le dure critiche di Fabio Volo a Matteo Salvini in diretta radiofonica, il direttore di radio Deejay ha pubblicato sui social un messaggio di scuse agli ascoltatori pur condividendo il punto di vista di Volo. Novella Toloni, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Non si smorza la polemica intorno a Fabio Volo dopo le pesanti affermazioni rivolte dallo speaker radiofonico a Matteo Salvini. L'attacco frontale al leader della Lega per aver citofonato a un privato accusato di spaccio di droga a Bologna ha diviso il popolo social ma anche scatenato una reazione interna all'azienda per cui lavora. A poche ore dalle sue dichiarazioni fatte nel corso del suo programma mattutino, il direttore di radio Deejay, Linus, è intervenuto per smorzare i toni della polemica, ma soprattutto per chiedere scusa agli ascoltatori per i toni usati dal bresciano. Pasquale Di Molfetta, noto come dj Linus, ha bacchettato pubblicamente il suo speaker parlando di "comizio scomposto" e confermando che Fabio Volo non era autorizzato a fare dichiarazioni simili in radio. Con un post pubblicato sulla sua pagina Instagram, Linus ha così detto la sua sulla vicenda: "Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. [...] Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa". Linus ha però ribadito che l'opinione espressa da Volo sull'azione di Matteo Salvini a Bologna è "condivisibile", ma sbagliata nei toni, per questo ha chiesto scusa: "Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere". Il direttore di radio Deejay, alla fine del post, non ha risparmiato una stoccata finale a chi accusa la radio di essere di sinistra: "Il mio "padrone" da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete".
Simone Pierini per leggo.it il 23 gennaio 2020. Il "capo" bacchetta il "suo ragazzo". Linus, direttore artistico di Radio Deejay, se la prende con Fabio Volo per le parole usate, il modo e il tema affrontato ieri mattina durante la sua trasmissione "Il Volo del Mattino". «Non era autorizzato, mi scuso a nome di Radio Deejay», dice Linus in un lungo post su Instagram dove spiega i motivi della strigliata a Fabio Volo che nei confronti di Matteo Salvini si era espresso così: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Il riferimento era chiaramente al gesto dell'ex ministro di citofonare a casa di una famiglia di origine tunisina colpevole, secondo Salvini, di spacciare droga nel quartiere Pilastro a Bologna. «Due parole sulla vicenda Volo / Salvini - scrive Linus su Instagram - Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa». «Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile - aggiunge il direttore artistico di Radio Deejay - da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere». «Una piccola cosa però ci tengo a precisare - conclude su Instagram - che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete».
IL POST SU INSTAGRAM SU LINUS SU FABIO VOLO E SALVINI. Due parole sulla vicenda Volo / Salvini. Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa. Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere. Una piccola cosa però ci tengo a precisare, che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete. Grazie
Da leggo.it il 23 gennaio 2020. Anche Fedez ha commentato il gesto di Matteo Salvini sotto la casa di un giovane tunisino, presunto spacciatore. Il video del leader della Lega al citofono è diventato virale e ha riempito le bacheche social. «Stamattina mi imbatto in questo video dove, in sostanza una signora dice al buon Salvini che il tipo del primo piano spaccia e lui decide di dare vita a questo teatrino», ha dichiarato su Instagram il cantante. Critici contro l'ex ministro degli Interni, anche altri personaggi dello spettacolo come Fabio Volo. «Sembra banale dirlo, ma in uno stato di diritto non dovrebbe essere la portinaia del condominio a dare l'etichetta di spacciatore. Il buon Matteo forse voleva vestire i panni del giustiziere, mi è sembrato più un testimone di Geova mancato», ha scritto nelle storie. «Questa scena è comica eppure non mi viene da ridere», aggiunge il marito di Chiara Ferragni, che accompagna il suo commento con lo screenshot di una foto in cui si vede Salvini che parla con il capo ultras del Milan, condannato per spaccio di droga. «Chissà se si sono conosciuti durante il tour dei citofoni», scrive Fedez sull'immagine.
Salvini ci ricasca, teatrino e gogna davanti negozio a Modena: “Qui dentro si spaccia”. Redazione de Il Riformista il 23 Gennaio 2020. Matteo Salvini ci ricasca. Il leader della Lega, impegnato nel tour elettorale per le Regionali in Emilia Romagna, ha ripetuto a Modena il teatrino messo in piedi già martedì sera a Bologna, quando ha citofonato ad una abitazione nella periferia del capoluogo cercando presunti spacciatori. Durante una diretta Facebook Salvini si è fatto indicare un esercizio commerciale dove, secondo i residenti della zona, in maggioranza mamme, si spaccerebbe droga. “Al civico 38 spacciano, non serve citofonare, l’hanno già chiuso. Ogni volta che posso dare una mano a mamme e persone che denunciano queste cose, io la do. La sinistra invece continua a non farlo nemmeno in Parlamento”, ha detto Salvini davanti ai microfoni e alle telecamere dei giornalisti. ”Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla procura e alle forze dell’ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché stando a residenti e commercianti qua dentro si spaccia la droga, chi spaccia deve stare in galera e non a passeggio per Modena”, ha aggiunto il leader del Carroccio.
IL CAPO DELLA POLIZIA CONTRO SALVINI – Una stoccata alla strategia mediatica di Salvini è arrivata al capo della Polizia Franco Gabrielli. A margine di un evento sulla sicurezza ha infatti commentato con durezza il gesto dell’ex ministro dell’Interno di citofonare a un presunto spacciatore a Bologna: “Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la Polizia in maniera indiscriminata”.
Salvini a Bologna fa un passo indietro: “Se il ragazzo è innocente avrà le mie scuse”. Laura Pellegrini il 24/01/2020 su Notizie.it. Matteo Salvini fa un passo indietro sul caso della citofonata al 17enne tunisino di Bologna: potrebbero arrivare delle scuse al giovane. Il leader della Lega fa marcia indietro sul caso del 17enne tunisino di Bologna: dopo le polemiche scoppiate per la citofonata, Salvini potrebbe porgere le sue scuse. Sul web continua a girare il video del leghista che chiede al 17enne: “Scusi lei spaccia?”, mentre il dibattito pubblico si divide. L’ex ministro, dunque, ospite ad Agorà su Rai 3 ha annunciato: “Avrà le mie scuse”, ma con una condizione. Si continua a parlare del blitz di Matteo Salvini nel quartiere di Pilastro, a Bologna: il leghista aveva citofonato a un ragazzo tunisino per chiedere se fosse uno spacciatore. Tra una polemica e l’altra, però, Salvini ha annunciato che potrebbe porgere le proprie scuse al ragazzo ma ad una condizione. Ospite ad Agorà, il leader del Carroccio ha ammesso le proprie responsabilità e si è detto pronto a fare un passo indietro. “Contro la droga non sono garantista, è morte – ha detto -. Se questo ragazzo non sarà ritenuto una spacciatore avrà le mie scuse”. Poi, però, il leghista ha proseguito: “In quel palazzo si spaccia. Punto. E non vado io a fare gli arresti. ma sono contento che l’Italia sappia che là si spaccia”. Nella giornata del 23 gennaio, inoltre, da Piacenza il leghista aveva dichiarato: “Adesso mi manca solo di essere denunciato da uno spacciatore e le ho viste tutte”. Tuttavia, ribadiva anche: “Sono orgoglioso di essere andato in una zona della periferia bolognese dove non vedevano un politico da anni a dare una mano a madri e padri nella loro lotta alla droga”. Il giovane tunisino di 17 anni, infatti, aveva dichiarato a Tpi: “Sono andato a denunciare. Non spaccio, non ho nessun precedente”.
Salvini al citofono, Maroni: “Questioni di campagna elettorale”. Veronica Caliandro il 24/01/2020 su Notizie.it. Maroni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. Ospite a Piazzapulita, Roberto Maroni ha espresso il proprio parere in merito al gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni regionali, l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader del Carroccio, fatta dopo la segnalazione di una signora del posto. Immediate le polemiche conseguenti a questa vicenda, con i vari esponenti politici che a loro volta hanno espresso il loro parere. Nella giornata di ieri ci ha pensato Giorgia Meloni, affermando che lei, al posto del leader leghista, non lo avrebbe fatto. A commentare la vicenda, oggi, ci ha pensato Roberto Maroni che, ospite a Piazzapulita ha affermato: “Io la lotta allo spaccio di droga e alla criminalità l’ho fatta con uno stile diverso, però l’importante è che si faccia. Salvini ha voluto sottolineare questo fatto e che se ne parli sempre avendolo fatto in campagna elettorale vuol dire che ha fatto una scelta che fa parlare. Giusta o sbagliata fa parlare… sono questioni di campagna elettorale“. Per poi aggiungere: “Io non l’avrei fatto”. Per quanto riguarda il caso Ferrara sollevato dal servizio del programma ha poi affermato: “La sensazione è che per la prima volta nella storia di quella regione, nella prima volta nella storia della sinistra ci sia un testa a testa che potrebbe determinare una sconfitta storica, come avvenne a Bologna per altri motivi. Perché là fu un errore della sinistra, qui invece sarebbe proprio un giudizio negativo sul governo. Un giudizio politicamente molto pesante che dovrebbe avere conseguenze sul governo, Naturalmente questa è la mia opinione”. Per poi aggiungere: “Salvini fa sei comizi al giorno: quello è lo stile che può portare alla vittoria. Se quello che ha fatto può avere rilevanza penale lo vedremo…”.
Blitz al citofono, azione squadrista di Salvini ma non è l’unico. Iuri Maria Prado il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quando un fatto di inciviltà irrompe sulla scena pubblica di questo Paese bisogna evitare accuratamente di far finta che si tratti del classico caso isolato, dell’eccezione additata a esempio di una perversione accidentale e minoritaria. O peggio: dare a intendere che che le involuzioni incivili del Paese siano il frutto di colpi di mano addebitabili a una parte cattiva, mente l’Italia democratica, l’Italia perbene, viva e resistente, soffre soltanto la pena inflitta da episodiche prevalenze di sentimenti estranei e maligni. Su queste contraffazioni si è retto tutto il corso democratico di un Paese – il nostro – inerte di fronte alle leggi razziali, e tra i padri della patria repubblicana stanno tutti quelli che hanno prestato giuramento di fedeltà al regime ventennale, mentre i tredici che non hanno giurato sono estromessi – et pour cause – da quel Pantheon balordo e mistificatorio. Tutto questo per dire che bisogna stare molto attenti quando, pur doverosamente, si denuncia il fatto di squadrismo di cui si è reso responsabile il senatore Matteo Salvini, che, ripreso dalle telecamere, a capo di un codazzo di cittadini inferociti, si è attaccato al citofono di un abitante di un quartiere bolognese per chiedergli se è vero che spaccia stupefacenti. E’ un fatto di gravità incommensurabile, perché a presidio del rispetto della legge dovrebbero esserci le forze dell’ordine, non i parlamentari-agitatori che si mettono alla guida di ronde che vogliono processare sotto casa il “tunisino” di turno. Ma, per favore, evitiamo di contrassegnare la faccenda come se fosse la dimostrazione che l’Italia è un bel Belpaese incomprensibilmente esposto a un imprevedibile ed esclusivo vento, come si dice, “di destra”. Il capo leghista che minaccia di ruspa la zingaraccia non è diverso, manco d’un grammo, rispetto al democratico Walter Veltroni che dice che Roma era una città sicura finché non l’hanno invasa i romeni, e il ministro diessino che vanta il calo degli sbarchi grazie all’inconfessata politica di finanziamento dei lager libici, giustificata dal pericolo di smottamento democratico del Paese, non è migliore del leghista truce che li vuole tutti respinti perché prima vengono gli italiani. Il razzismo, lo Stato di diritto violentato, la maniera spiccia della giustizia, non sono in questo Paese denunciati per quello che sono e a prescindere da chi sia responsabile di queste violazioni: ma secondo che a rendersene responsabile sia l’uno o l’altro, con lo sfregio, con lo scempio, con l’insulto civile che si giustifica perché, alternativamente, difende il confine italiano della Padania allargata o la democrazzia con due zeta del circolo progressista. I commenti sui giornali di domani (oggi, per chi legge) ce li immaginiamo, con gli editorialisti giudiziosamente democratici a spiegarci che i tunisini spacciatori, in effetti, bisogna arrestarli senza tante storie ma deve pensarci la magistratura combattente, non il leghista sostituito al governo dalla lungimirante sinistra che si toglie il cappello davanti all’avvocato del popolo, quello che non è più un mascalzone per i decreti sicurezza e l’abolizione della prescrizione approvati in gialloverde, e anzi diventa uno statista quando si tratta di mantenerli, uguali uguali, in maggioranza giallorossa. O come al tempo delle proposte di “segnalazione” del Movimento 5 Stelle, poco più di un anno fa, quando i capi grillini istituivano un sistema di denuncia dei responsabili di comportamenti “che non rispettano i principi che stanno alla base del Movimento”, il partito dell’onestà per via di delazione. Una iniziativa che spiegava molto bene quale fosse il concetto di ordine sociale e di convivenza civile coltivato da quella pericolosa schiatta di analfabeti. Era l’immagine dello Stato che ci propongono, della società che ci offrono, dell’ordinamento civile che ci promettono: l’immagine riflessa del loro Movimento. E nessuno a dirne nulla. Per cui: piano, piano. Quel che ha fatto l’altra sera Salvini (tra l’altro con giornalisti al seguito, tutti zitti) merita ogni censura. E’ una cosa che fa vergogna, e non si capisce come anche solo quell’iniziativa di sostanziale istigazione al linciaggio possa non revocare gli intendimenti di voto di chi ancora oggi si affiderebbe al potere di governo di quel signore. Ma l’alternativa a quelli che oggi gli si oppongono sta in gente che considererebbe perfettamente legittimo citofonare al presunto corrotto piuttosto che al nordafricano: a telecamere aperte e sulla cima di un analogo corteo di italiani perbene. E non che si tratti di un’ipotesi, perché la pratica di fare picchetti davanti al portone di casa del mascalzone di turno per esporlo alla giustizia di piazza – sia il furbetto del cartellino, sia il politico indagato, sia l’extracomunitario che ruba l’alloggio ai figli della Nazione, sia l’imprenditore corrotto – costituisce qui da noi una tradizione ben diffusa a destra e a manca. E a fronteggiarsi sono due opposte ma identiche pretese di forca, due politiche e due giornalismi uniti nell’identico disprezzo per i diritti della persona.
Vittorio Sgarbi: "Fabio Volo non ha capito il gesto di Salvini, occhio che un giorno non suoni suo citofono". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Vittorio Sgarbi le suona a Fabio Volo che ha sfidato Matteo Salvini invitandolo ad andare "a suonare il campanello di un camorrista". Una "irritazione incomprensibile", sbotta il critico d'arte. Volo "sopravvaluta o sottovaluta Salvini. Si tratta di colpi di teatro e di provocazioni. D'altra parte se Volo avesse un figlio di cui si può identificare il pusher, dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo. Questo ha voluto dire, con il suo gesto, Salvini, avendo anche il vantaggio di seguire una pista che lo portava verso un presunto spacciatore tunisino". Volo, continua Sgarbi, "non ha pensato che Salvini è candidato anche in Calabria e presto lo sarà in Campania. Nessun dubbio che risponderà positivamente alla sfida di Volo e andrà, con molti sostenitori, a suonare il campanello di un pusher della camorra o della 'ndrangheta. Ne sono certo". E conclude: "Vorrà insistere Volo fino a che punto arriva Salvini? Non è detto che un giorno non suoni anche il suo campanello. Con molti auguri".
Blitz di Salvini al citofono, Giorgia Meloni: “Io non lo avrei fatto”. Veronica Caliandro il 22/01/2020 su Notizie.it. Giorgia Meloni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni, che si svolgeranno domenica 26 gennaio, Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader leghista, fatta dopo la segnalazione da parte di una signora del posto, scatenando un bel po’ di polemiche, come ad esempio quelle di Fabio Volo. A prendere le distanze dal gesto del leader leghista anche Giorgia Meloni. Ospite a Stasera Italia su Rete 4, infatti, la Meloni ha a commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno, affermando che lei non lo avrebbe mai fatto. In particolare ha affermato: “È sicuramente una mossa forte, di quelle a cui lui ci ha abituato; credo volesse dare voce a un problema diffuso nelle periferie, di fronte al quale la gente si sente lasciata sola. Lo spaccio è sostanzialmente impunito in Italia”. Per poi aggiungere: “Il dubbio che ho è che quando sei una persona in vista il rischio emulazione potrebbe non essere controllabile. Io non lo avrei fatto, ma non lo trovo così incredibile”. Dichiarazioni, quella della leader di Fratelli d’Italia, che dimostrano una linea di pensiero diversa da quella di Salvini, volta a mettere ben in evidenza le differenze tra i due partiti. D’altronde, come dichiarato poco tempo fa dalla stessa Meloni a Lucia Annunziata su Rai Tre: “ Noi, dico proprio il centrodestra diciamo che quello che prende più voti all’interno della coalizione è il leader del centrodestra. Salvini l’ultima volta ha vinto quella competizione. La prossima volta vediamo chi le vince”.
Da linkiesta.it il 24 gennaio 2020. Dopo mesi di silenzio sulle tematiche Lgbti, Lucia Borgonzoni, candidata presidente dell’Emilia Romagna per il centrodestra, è stata pubblicamente sollecitata di un parere a pochi giorni dalle elezioni del 26 gennaio. A incalzarla nella trasmissione Dritto e rovescio di Paolo Del Debbio, c’era Marco Tonti, presidente di Arcigay Rimini, il quale ha parlato di omofobia di Salvini e della Lega, facendo esplicito riferimento alle dichiarazioni del consigliere regionale uscente e ricandidato dal Carroccio, Massimiliano Pompignoli, sull’abrogazione, in caso di vittoria di Borgonzoni, della recente legge emiliano-romagnola contro l’omotransfobia. Bagarre in studio, dove Tonti è stato sopraffatto dalle reazioni del pubblico e degli ospiti della trasmissione come anche di Lucia Borgonzoni che, in collegamento, non ha in realtà replicato nulla, se non dicendo ripetutamente: «No, vabbè. Ma ci vuole un limite». Una non risposta l’ha data poco dopo su Facebook, pubblicando una foto di Tonti, che è stato così travolto dalla gogna social. Borgonzoni si è così defilata, ancora una volta, su questioni che forse potrebbero essere scivolose per lei come quella, appunto, relativa alle persone Lgbti. Questioni che rimandano al suo passato, quello in cui frequentava i centri sociali e lavorava come barista al Link di Bologna. La senatrice non ne ha mai fatto mistero, aggiungendo: «Lo sapevano tutti che ero leghista». Ma uno degli storici fondatori del Link Project, Mauro Borella detto “Boris”, ritratto in una foto in un casolare occupato insieme a Borgonzoni che aveva già fatto il giro del web, commenta a Linkiesta: «Se ci avesse detto che era leghista l’avremmo cacciata». Anche il dj Max, il quale ha frequentato dalla metà degli anni 90 al 2005 l’attuale senatrice, è dello stesso avviso: «Non era della Lega, era di sinistra e, da buona bolognese, anche anticlericale - dice a Linkiesta - Frequentavamo posti che non erano di persone di destra: centri sociali, discoteche e serate dichiaratamente gay friendly all’Adrenaline a Reggio Emilia o al Ciak e a Livello 57 di Bologna». Come testimoniano i flyer promozionali delle serate gay Make Up al Link Project con tanto di un “programma stragay” e Smalto al Kinki, la candidata della Lega compare nel cast dell’organizzazione insieme con il Mit – Movimento Identità Trans (all’epoca Movimento Italiano Transessuale), Antagonismo Gay e Arcigay Cassero. In queste serate l’artista alternativa Lucia Borgonzoni, nipote del celebre pittore Aldo Borgonzoni, esponeva le sue opere a promozione della causa Lgbti. «Era una grande sostenitrice della causa Lgbti - dice dj Max - Ricordo che se qualcuno parlava male dei gay, lei reagiva molto male, prendendone subito le difese. E poi le piaceva sostenere le loro serate esponendo i suoi quadri». Eppure almeno dal 2013, due anni dopo la sua prima elezione a consigliera comunale a Bologna, Borgonzoni ha intensificato le dichiarazioni contro la collettività Lgbti sia da politica locale sia da membro del governo Conte uno. Tra dichiarazioni contro le unioni civili e post contro la lobby Lgbti, negli anni Borgonzoni ha chiesto anche di togliere «immediatamente il Cassero all’Arcigay», lei che aveva sostenuto e partecipato a serate organizzate da queste due realtà. Certo, cambiare idea è lecito. Ma sarebbe interessante capire come sia avvenuta una conversione così radicale da artista anticlericale, amica dei gay e dei centri sociali a pasionaria leghista, ossequiosa verso una Chiesa non progressista e critica verso il bergogliano cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna.
Giulio Gambino per tpi.it il 25 gennaio 2020. Nella campagna elettorale per le regionali in Emilia Romagna estremamente polarizzata c’è una storia nella Storia. Un’opposizione famigliare, oltre che politica. Un padre e una figlia che non si parlano da diversi anni e che hanno idee molto diverse. Lucia e Giambattista Borgonzoni: la candidata leghista che aspira a vincere le elezioni domenica 26 gennaio e suo padre, che invece ha manifestato in piazza con le Sardine e contro Matteo Salvini. Siamo andati a trovare il padre di Lucia Borgonzoni nella sua casa di Bologna e, tra i quadri del nonno pittore, ha letto a TPI una lettera esclusiva, in cui si rivolge direttamente alla figlia. “La gente deve sapere che in questa campagna elettorale hai detto falsità e hai diffamato tuo padre, scatenando la macchina del fango leghista contro di me”, dice Giambattista. “Il mio giudizio su di te – continua Borgonzoni – è positivo per come sai destreggiarti nell’agone politico, anche se abbiamo idee diverse. Ma sulle tue pagine Facebook hai lasciato che mi infamassero e hai accettato che fossi massacrato senza alcun motivo”. Papà Borgonzoni conclude la lettera con un auspicio: “Se vincerai questa tornata elettorale riceverai senz’altro i miei complimenti. Con l’augurio di non essere menzognera in futuro in pubblico come sei stata in privato contro tuo padre e contro la memoria del nonno”.
Emilia, il piano della Borgonzoni: "Stracceremo le leggi del Pd". Sanità, rom, immigrati: parla Lucia Borgonzoni alla vigilia del voto. Il piano per l'Emilia: "Meno burocrazia e più meritocrazia". Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi Sabato 25/01/2020, su Il Giornale. Dicono sia stata oscurata da Salvini. Che non conosca abbastanza l'Emilia Romagna da aspirare a governarla. Eppure Lucia Borgonzoni, giuste o sbagliate che siano, di idee su come ribaltare il "sistema Emilia" ce l’ha. "Meno burocrazia" e più "meritocrazia", innanzitutto. Ma anche lotta alle “false cooperative”, ai campi nomadi degradati e una sanità dove le persone siano "storie" e non "numeri". "Quello che funziona va conservato - dice - ma ci sono molte cose da mettere a posto e le cambieremo".
Borgonzoni, se domenica dovesse vincere, quale sarà il primo dossier da affrontare?
"Il primo punto sarà alleggerire la burocrazia. Le faccio un esempio: nella zona del terremoto alcune aziende hanno rinunciato a prendere i fondi disponibili perché l’ordinanza emessa era troppo complicata. Lo stesso vale per i bandi regionali: neanche un ingegnere aerospaziale riesce a capirli, a meno di avere un amico nell’ufficio dove è stato scritto…".
Però l’economia emiliano romagnola regge.
"La cassa integrazione è volata alle stelle. Dal 2018 al 2019 è aumentata del 270%. Per questo Bonaccini non ha potuto visitare molte aziende. Perché quando vai dagli imprenditori ti dicono: Lasciateci lavorare, qui c’è una burocrazia che ci piega".
Anche il Pd sostiene di poter migliorare ciò che non funziona.
"In campagna elettorale la sinistra sta facendo le solite promesse, come se negli ultimi 50 anni avessimo governato noi e non loro".
Il vero scontro è sulla sanità. In Emilia ci si cura bene?
"Vantiamo certo grandissime eccellenze. Abbiamo medici, infermieri e tecnici che fanno tantissimi straordinari per far funzionare gli ospedali. Però ci sono alcuni problemi".
Quali?
"Le liste di attesa sono lunghissime. Quando chiedi una visita, se hai i soldi e paghi te la danno dopo una settimana. Altrimenti magari te la concedono a 70km di distanza da casa tua: una persona anziana o un disabile non possono accettarla e così dovranno aspettare anche un anno e mezzo. Questo non è tollerabile".
I dati però sembrano certificare che i tempi di attesa sono in regola.
“Vengono usati dei trucchi per far sembrare la sanità migliore di quella che è”.
Ad esempio?
"Può succedere che una persona vada a chiedere un appuntamento e le rispondano che l’agenda del medico è chiusa. Quindi non può prenotare la visita. In questo modo la lista di attesa non si allunga, certo. Ma quella persona la visita non l’ha mica avuta. Noi abbiamo sempre denunciato tutto questo. All’inizio hanno cercato di dire che erano casi marginali, ma adesso sono loro stessi a ammettere che qualcosa va migliorato".
E allora come si interviene?
"Il sistema è strutturato male, serve una riorganizzazione. Viviamo in una Regione dove il Pd ha per anni considerato le persone come numeri. Noi invece vogliamo tenere gli ospedali aperti di notte e nei fine settimana per visite ed esami. E poi interverremo sui servizi per l'Appennino".
Parla dei punti nascita chiusi dalla giunta Bonaccini?
"Ci dicevano che col tempo avremmo capito che era giusto chiuderli. Poi a tre giorni dal voto hanno scoperto che vanno riaperti. La loro è solo propaganda".
Una legge regionale favorisce la creazione di tanti micro-campi nomadi nelle città. Anche qui userete la ruspa?
"Se vinciamo, stracceremo immediatamente la legge. Tutti i campi sono nati “piccoli” e poi si sono ingranditi. Quindi se prendi un accampamento e lo dividi in tre, tra qualche anno avrai tre posti sovraffollati. E poi c’è un’altra questione”".
Dica.
"In Emilia Romagna vivono nomadi di etnia sinti, che sono italiani. Quindi come tutti gli altri devono partecipare alle graduatorie per le case popolari. Se ne hanno il diritto, avranno l’accesso al servizio. Altrimenti non lo otterranno. Non capisco perché dobbiamo pagare tutti noi una loro scelta di vita".
A proposito di case popolari: spesso finiscono agli stranieri e ci sono state polemiche.
"I criteri ostativi, che sono la base per decidere chi può accedere o meno a una casa popolare, vengono decisi dalla Regione. Quindi noi introdurremo subito il controllo dei beni all’estero. Oggi se un italiano ha una casa oltre confine viene penalizzato. A uno straniero invece basta un’autocertificazione e nessuno va a controllare se anche lui è proprietario. Servono regole uguali per tutti. Peraltro, in Emilia-Romagna ci sono circa 5mila alloggi popolari vuoti perché in attesa di manutenzione: la Regione ha dormito, vanno rese disponibili al più presto".
Emilia Romagna significa anche "coop rosse".
"Ci sono cooperative e cooperative. Ci sono quelle sane, che sono servite a tenere in piedi il nostro tessuto quando c’è stata una crisi diffusa. Le altre invece vanno allontanate. Quelle per bene non devono avere paura. Ma chi ha fatto le cose in malafede, assolutamente sì".
Le sardine dicono che lei è "incompetente".
"Si devono mettere in fila con tutta la sinistra, che ha un problema serio con le donne. Ho ricevuto diversi attacchi maschilisti: mi hanno dato della velina, dell’incapace e della muta. All’inizio ci rimanevo anche male. Poi mi sono resa conto della pochezza delle persone che non sanno entrare nel merito delle questioni".
Qualcuno degli avversari l’ha chiamata per esprimere solidarietà?
"Non mi faccia ridere. Se ad essere offesa è una persona che non la pensa come loro, sembra che tutto sia lecito. In fondo in fondo è come se ci meritassimo di essere insultate. Ed è molto molto triste. Alcune volte gli insulti hanno raggiunto un livello tale che sono intervenute Emma Bonino e Elisabetta Gualmini per placare i loro".
Emilia Romagna, lo stretto legame tra Pd e lobby gay. La giunta di centrosinistra di Stefano Bonaccini, negli ultimi anni, ha finanziato festival e progetti con l'obiettivo di diffondere le teorie gender delle lobby gay. Francesco Curridori, Sabato 25/01/2020, su Il Giornale. Mentre si avvicina il voto per le Regionali, in Emilia Romagna si riaccende lo scontro sul caso Bibbiano con le sardine che, fino all’ultimo, cercheranno di boicottare la manifestazione leghista nel paese in provincia di Reggio Emilia.
La vicenda Bibbiano imbarazza la sinistra. Il portavoce delle sardine Mattia Sartori, appena qualche settimana fa, lo aveva detto chiaramente: “Io ritengo assurdo che si continui a parlare di Bibbiano”. Prima di lui la regista Francesca Archibugi, intervistata da Radio Capital, aveva osato dire addirittura: “Difendo il partito di Bibbiano, i bambini non sono dei genitori ma dello Stato”. E, infine, Giuliano Limonta, presidente della commissione tecnica regionale sui minori, al termine dei lavori, ha dichiarato: “L'organismo dell'Emilia-Romagna è sano, nonostante alcuni raffreddori”. Un’affermazione contro cui si è scagliato Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia, partito che in Emilia si presenta alleato con il centrodestra: “Su Bibbiano - dice interpellato da ilgiornale.it - io non ho mai sentito un esponente del Pd portare la sua solidarietà a quei bambini o ai loro genitori, ma solo al sindaco Carletti che comunque resta un imputato”. E aggiunge: “Altro che raffreddore, quello è un sistema malato altrimenti non ti trovi con i diavoli della Bassa dove ci sono i genitori suicidi e i preti morti e, dopo 20 anni, non ti ritrovi un caso come Bibbiano. Lì - ribadisce - c’è un sistema malato che è figlio di un’ideologia antifamilista che io rintraccio in tutte le ultime scelte di governo di Bonaccini”.
La legge contro l'omofobia, bancomat per le lobby gay. Uno dei provvedimenti più controversi è la legge “contro la omotransnegatività e le violenze determinate dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere", approvata lo scorso luglio dopo 39 ore di dibattito ininterrotto con i voti della maggioranza di centrosinistra e dei consiglieri grillini. Tale legge in teoria ha lo scopo di combattere l’omofobia, ma in realtà è solo uno strumento per finanziare le lobby gay e la propaganda della teoria gender nelle scuole e nelle amministrazioni pubbliche. L’articolo 4 relativo alla “Promozione di eventi culturali”, infatti, al primo comma, prevede che la Regione e gli enti locali promuovano “eventi socio-culturali che diffondono cultura dell'integrazione e della non discriminazione, al fine di sensibilizzare la cittadinanza al rispetto delle diversità e di ogni orientamento sessuale o identità di genere”. In altre parole, si tratta di fondi per finanziare i gay pride. Nel secondo comma si precisa che “la Regione può avvalersi della collaborazione, anche concedendo contributi, di organizzazioni di volontariato e di associazioni iscritte nei registri previsti dalla legislazione vigente in materia, impegnate in attività rispondenti alle finalità di cui alla presente legge”. Tradotto: le lobby gay. Ma non solo. La legge, in più punti, prevede l’avvio di corsi d’aggiornamento per insegnanti, genitori, medici, infermieri e dipendenti pubblici per “favorire inclusione sociale, superamento degli stereotipi discriminatori, prevenzione del bullismo e cyberbullismo motivato dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. "La legge contro l’omotransnegatività serve semplicemente per finanziare corsi e promuovere all’interno dei Comuni la rete Ready (Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere ndr)”, spiega Umberto La Morgia, consigliere comunale della Lega a Casalecchio di Reno.
La diffusione delle teorie gender in Emilia Romagna. La Regione Emila Romagna, d’altronde, è attiva da molti anni nella promozione di iniziative pro Lgbt come, per esempio, il Festival Gender Blender ideato dall’Arcigay Cassero Lgbt Center di Bologna. Si tratta di un festival realizzato col patrocinio della Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, della Ministero dei Beni Culturali, della Coop e di vari fondazioni ed enti locali privati. Dieci giorni (23 ottobre-3 novembre 2019) in cui vi sono stati ben 120 eventi tra spettacoli teatrali, film e proiezioni per le scuole. Solo per citarne alcuni basta ricordare il film Little Miss Westie che ha come protagonista un bambino transgender oppure la rappresentazione teatrale dal titolo Giochi di stereotipi’ della regista israeliana Yasmeen Godder dedicato ai ragazzini dai 12 anni in su in cui si invita a rileggere gli stereotipi di genere. Ad aprire il Festival è stata Eve Ensler l’autrice dei Monologhi della vagina. “Gli attivisti del Cassero, fino a qualche anno fa, non pagavano neppure l’affitto della loro sede di Bologna, mentre quest’anno hanno ricevuto 100mila euro dalla Regione per il loro festival”, dice La Morgia. “Una parte di questi fondi vengono usati per la propaganda gender perché ormai il gender è un cardine su cui certe politiche si sviluppano perché in questa Regione c’è il desiderio di sradicare il concetto tradizionale di famiglia”. “Loro hanno tutti i mezzi e i finanziamenti pubblici per insegnare ai bambini delle scuole elementari la teoria gender. La priorità educativa dei genitori viene messa in discussione da queste iniziative e noi, ogni volta, dobbiamo cercare di capire che tipo di festival o spettacoli si tratta e, poi, magari si scopre che si tratta di opere che vanno contro i valori che vogliamo trasmettere”, dice Giovanna Benassi, candidata di Fratelli d’Italia riferendosi in particolare all’evento Uscire dal guscio, festival di letteratura gender per bambini giunto ormai alla terza edizione. Infine, la Regione Emilia-Romagna nel 2013 ha lanciato il progetto ‘W l’amore’ grazie al quale ha avviato percorsi formativi sull’educazione sessuale nelle scuole. Percorsi che sono guidati dalle Asl competenti della Regione le quali attraverso varie iniziative diffondono materiali rivolti a “operatori socio-sanitari, educatori, insegnanti, peer educator” che, come si legge sul sito, “consentono approfondimenti su diversi temi: emozioni, crescita, corpo, prima volta, contraccezione, gravidanza, Infezioni sessualmente trasmissibili, innamoramento, orientamento sessuale e identità di genere, modelli e stereotipi di genere, amicizia, violenza, genitori e figli, immagine di sé, identità culturali, web e social media”.
La natalità trascurata. Tutto questo si inserisce nel contesto di una Regione dove non solo si fanno sempre meno figli mentre gli asili nido scarseggiano, ma dove la giunta Bonaccini ha varato il piano per il Nipt, il not invalid pregnant test. Un esame che solitamente costa circa 700 euro e che è stato reso gratuito per la provincia di Bologna in via sperimentale con l’obiettivo di renderlo gratuito su tutta la Regione Emilia Romagna. Il nipt, attraverso il prelievo di una piccola goccia di sangue, cerca le anomalie cromosomiche del bambino: trisomia 21 (sindrome di down) e la trisomia 13 e 18 che sono altri tipi di malattie cromosomiche più rare. “È chiaro che, dal nostro punto di vista, proporre uno screening così generalizzato, gratuito e non invasivo di un’anomalia cromosomica ha una sola finalità: quella di sopprimere i nascituri con un’anomalia cromosomica. È il meccanismo con cui è stato azzerato il livello di nascite dei bambini down in Islanda e Danimarca. Un’altra motivazione per investire decine di milioni di euro non ne vedo”, attacca Adinolfi.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 25 gennaio 2020. Ve l'avevo detto che l'Emilia Romagna sarebbe stata la madre di tutte le battaglie e non una elezione regionale qualunque da ascrivere fingendo disinvoltura nell'elenco ormai lunghissimo delle perdite del centro-sinistra. Adesso che tutti ma proprio tutti spiegano che lunedì mattina, comunque vada, nulla sarà come prima, vale la pena di ricordare che nel mese di settembre qualcuno come la sottoscritta, rifiutandosi di vestire in gramaglie per la fine precoce ma giusta del governo lega 5stelle e l'arrivo della coalizione improbabile 5 stelle PD, indico' le elezioni di domenica prossima come il vero macigno sul cammino di quelli che si sono accucchiati, messi insieme senza amore e per forza, in attesa di un pacchettone di nomine che li dovrebbe sistemare tutti o quasi, e addirittura aspettandosi di governare tre anni per poter ancora una volta, a dispetto dell' articolo 1 della Costituzione, essere loro ad eleggere il presidente della Repubblica legato, aradanga, al centro-sinistra. Ancora oggi TV e giornaloni costretti a dire che domenica l'evento è eccezionale, si riprendono dal colpo descrivendo ostinatamente una ineluttabilità che viene data per scontata; raccontano come un mantra lo spettacolo di quelli che si blindano, si attaccano alle poltrone, e del Popolo se ne fregano, perché sarà pur vero che a lui appartiene la sovranità, ma loro la esercitano. Sullo sfondo, a conferma del mistero doloroso, vengono agitati poteri forti che se li evochi tu sei dietrologo e anche un po' paranoide, ma ai cronisti della maggioranza inevitabile sono invece evocazioni consentite; seguono affermazioni spesso non spiegate sulla Merkel e Macron, poteri inamovibili, su l'Europa che non fa passare Salvini, su il presidente che le Camere non le scioglierà mai. Fino a qualche settimana fa si citava anche l'endorsement a Giuseppi di Trump, bagatella per fortuna non più in uso. Sono tutti argomenti validi e pertinenti, per carità, solo che una si domanda dove sia finita la capacità di pensare in modo non convenzionale, figurarsi quella tanto mancante di un tantino di "lateral thinking", elementi di imprevedibilità negli eventi così pedissequamente prefigurati del nostro povero Paese. Niente di tutto ciò, a muovere le considerazioni della vigilia in Emilia-Romagna sembra essere solo la paura. Scommettiamo che non andrà in questo modo? Sono anni ormai che gli italiani percepiscono con durezza sulla propria pelle la schizofrenia dell'articolo 1 della Costituzione. Degli ultimi è diventato più chiaro che la prima parte è incarnata dall'agenda politica di Matteo Salvini e ora del centrodestra Unito, perché la società che si occupa degli interessi nazionali, che rispetta i confini, che esalta la nostra identità e cultura, è quella basata sulla sovranità che appartiene al popolo. Gli altri, le sinistre, i progressisti, sono attaccati alle forme e limiti dell'esercizio, ovvero alla stretta gestione da parte di governo e Parlamento della sovranità popolare. In questi ultimi mesi quando si parla di maggioranza parlamentare contrapposta anche in contrasto con l'articolo 88 della Costituzione al sentimento popolare, tutto ciò diventa plasticamente evidente. Ai progressisti, in barba alle richieste delle Regioni, e anche alla loro autorità, ha appena dato ragione la scelta della Corte Costituzionale di bocciare il referendum sulla modifica maggioritaria del Rosatellum, aprendo la via ad una ridicola legge proporzionale. Va nella stessa direzione la decisione di 5Stelle-Pd-Italia Viva-Leu, di pronunciarsi a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, una decisione nella quale il contrasto con il sentimento popolare è diventato vistoso e stridente nella melina per cercare di non votare nella Giunta delle immunità prima delle elezioni regionali di Emilia-Romagna e Calabria, tentativo stanato proprio da Matteo Salvini e dalla Lega. Non dimenticate infine la pronuncia della Cassazione, che ha considerato non legittimo l’arresto di Carola Rackete, elevata a eroina della battaglia contro i “porti chiusi”; senza tenere nel minimo conto il suo gesto criminale di speronare una imbarcazione della guardia di finanza che tentava di opporsi all'ingresso in porto Last but not least, ii cultori della maggioranza parlamentare contro la sovranità del popolo hanno imposto .la entrata in vigore della legge blocca-prescrizione, che significa un processo senza fine. Come si può, di fronte a un fuoco di sbarramento di questo tipo, tanto illiiberale e autoritario, tanto indifferente alla volontà popolare espressa in tutte le elezioni amministrative, e rotondamente in quelle europee della primavera scorsa, pensare che abbia sbagliato Matteo Salvini a indicare in Emilia-Romagna e, sia pur meno, in Calabria, la svolta, il punto di crisi di questo metodo? Lo ha fatto buttandosi corpo a corpo nella conquista di quei paesini nei quali a lungo ha comandato il segretario di sezione del PCI, di quei caseggiati in cui ci si rivolgeva al capo caseggiato, e che sono stati lasciati abbandonati, per andare ad ascoltare e a promettere una possibilità di riscatto. L'Emilia è campione, o si racconta come tale, di servizi pubblici resi in base alle vostre richieste. Bene, se gli italiani sono tra i i popoli più tartassati da un fisco iniquo e mortificati da uno Stato quasi ostile, ormai è chiaro che in cambio si offre poco, sempre meno. Sono crollati i miti dell'assistenza sanitaria modello emiliana, franato quello delle infrastrutture, il modello sociale è avvelenato dalla brutta storia di Bibbiano e dal tentativo di farla passare per un complotto politico. Quando c'è uno scandalo vergognoso, che l'avversario lo utilizzi è legittimo, che tu finga che Cristo sia morto di raffreddore e criminale. Matteo Salvini ha giocato la sua partita fino allo stremo con lucidità e generosità, impiccarlo a un citofono suonato su richiesta di un gruppo di cittadini in uno dei tanti quartieri abbandonati dalle istituzioni lascia il tempo che trova. E' come con le sardine, il movimento clonato dall'alto a suon di milioni di euro come non accadeva dai tempi del minculpop o dai tempi dei progetti maoisti di pianificazione della società cosiddetta civile. Quando ho visto il povero Guccini su un palco, ho capito che avevano toccato il fondo. Hanno soltanto raggiunto lo scopo di mettere al centro della scena politica ancora una volta Matteo Salvini. Ma ci hanno messo anche Lucia Borgonzoni, che ha cominciato la campagna elettorale da candidata relativamente meno forte, che cercava inutilmente all'inizio di ricordare la sua ottima performance ai Beni Culturali durante l'esperienza di governo, e 70mila voti raccolti a Bologna in tempi non sospetti da candidato sindaco. Niente, l'insulto ha prevalso per tutta la campagna elettorale, ma lei ha frapposto il coraggio e l'intelligenza, il suo spirito di sacrificio, il modo in cui ha reagito agli insulti sessisti e discriminatori dai suoi avversari, gli stessi che si sentono di solito i grandi sponsor delle donne, i non adagiandosi sul vittimismo ma girando in lungo e in largo la regione esponendo ili suo programma, La stampa l’ha relegata a un ruolo di secondo piano solo per favorire sfacciatamente il candidato del Pd, presentato come il più adatto a ricoprire quel ruolo. Io non so se Bonaccini sia stato un amministratore tale da essere riconfermato, questo lo dicono domenica gli emiliani, so che è un uomo poco abituato al dibattito e al confronto, che reagisce in modo isterico e inappropriato a qualunque contraddittorio. Certo, la battaglia di Bologna è stata soprattutto la battaglia di Salvini per affermare che gli italiani vogliono le elezioni politiche. Ma l'inadeguatezza degli avversari, l'incapacità di un leader del PD di stare in Emilia accanto al candidato, hanno reso tutto ciò evidente. A lunedì
L'ex distilleria della politica dove c'era il "socialcapitalismo". La sinistra può perdere la terra che governa da sempre Ma Bonaccini sogna di diventare il nuovo anti Salvini. Carmelo Caruso, Domenica 26/01/2020 su Il Giornale. È speciale perché è tornata a essere la distilleria ideologica d'Italia, la politica portata al suo stato di ebollizione: «Avete la possibilità di fare la storia se votate la Lega» e dall'altra parte «Cantiamo tutti insieme Bella ciao per fermare il nemico leghista». E infatti solo in Emilia, il voto elettorale è alcool, brandy, naturalmente Vecchia Romagna, e non solo perché più invecchia e più ubriaca come ormai si ubriaca Romano Prodi di novità («Magari avessi inventato io le sardine! Avrei voluto» ha detto lui che è il finto calmo emiliano, l'uomo che ancora sogna il Quirinale), ma perché qui più che altrove la fede si esaspera diventando giudizio di Dio, divide le famiglie (vedi il papà-sardina di Lucia Borgonzoni), un Comune e due piazze (la Lega a Bibbiano e Bibbiano non si Lega), ancora anarchici a Bologna ma già uomini d'ordine a Ferrara. E dunque se la sfida è oggi leghisti contro Sardine pure i trigliceridi sono oggi a duello: la mortadella che è naturalmente di sinistra perché è cibo da «Professore» contro il salame che invece è di destra perché lo bacia Matteo Salvini che a sua volta è stato baciato da Sinisa Mihajlovic («Voterò per la Borgonzoni»), allenatore del Bologna che lotta contro il male e che incarna lo spirito di una città dove rimane forte il governatore Stefano Bonaccini, che per piacere di più ha cambiato però aspetto, (esteticamente sembra di destra ma vuole essere l'anti Salvini) un po' come Pier Francesco Favino lo ha mutato per interpretare meglio la maschera di Craxi. «Ma l'Emilia non è solo Bologna» dice Giancarlo Mazzuca ex direttore del Giorno e autore insieme a suo fratello Alberto di Romagna Nostra, viaggio in quel territorio che il Pd sa essere passato alla Lega in maniera irreversibile e che è sempre materia di studio per gli scienziati del Mulino. È il pensatoio progressista dove è nato l'Ulivo, all'Emilia si deve pure questo, e poi la «vocazione maggioritaria», corposi studi sulla terza via, sulle fabbriche di Bristol, perché come disse una volta Renato Zangheri, ex sindaco di Bologna, comunista, ma di mente libertina: «Quelli del Mulino sanno tutto dei puritani del Massachusetts e niente delle mondine di Molinella...». E allora, la campagna, l'Appennino, potrebbe fare vincere Salvini («Qui abbiamo visto solo lui» dicono i residenti), ma la città, dove il malessere è sempre meno, potrebbe cambiare il risultato grazie alle Sardine che per Pier Luigi Bersani (vecchio emiliano, vino frizzante e stuzzicadenti dopo pranzo) sono addirittura dei geni perché capaci di dire due cose: «Alla destra: guarda che non sarà una passeggiata, e alla sinistra, non state lì a pettinare le bambole». Alla sinistra poco importa se le Sardine non sono state capaci di fornire un'idea per la loro Emilia («Fareste o no la prescrizione?») e che le loro risposte sono schiuma da impreparati («Ma lei sa se a un bambino autistico gli passano un pallone e questo ritrae le mani, come riesce a passargli la palla?» così ha farfugliato Mattia Santori in tv). La verità è che così come l'Emilia ha incubato il M5s di Beppe Grillo (qui il primo Vaffa Day) e che ormai ha esaurito la sua spinta propulsiva, ci consegna adesso questo movimento nuovo simbolicamente ma antico nelle rivendicazioni, sintetizzabili un po' tutte nel fare di questa regione quella che Giovannino Guareschi chiamò il «Messico d'Italia». Amministrata dal dopoguerra a oggi da Pci-Pds-Ds-Pd, l'Emilia è l'unica dove la sinistra è longeva per la semplice ragione che qui la sinistra ha provato a fare la destra ma senza essere liberale come la destra. Militarizzata attraverso uno più radicati sistemi cooperativistici d'Occidente, l'economia regionale è tuttora un compromesso tra funzionari del Pd toccati più volte dagli scandali, una commistione fra finanza e partito (a proposito: «Abbiamo una banca?» chiedeva Piero Fassino a Giovanni Consorte, prima alle cooperative e poi a Unipol). Quando gli studiosi anglosassoni provarono a spiegare ai propri lettori che cosa insomma rendesse unico il socialismo emiliano, si sentirono rispondere dai funzionari del Pci che il socialismo «non era altro che il capitalismo gestito da noi». Per Giovani Salizzoni, che è stato vicesindaco di Giorgio Guazzaloca, il primo sindaco di destra di Bologna, purtroppo «la sinistra ha agitato la paura che con la vittoria della Lega possa finire il mondo. Il sole sorgerà anche in Emilia comunque vada. Lo sanno anche quelli di sinistra». Sarà ancora, questa sì, vecchia Romagna, quella dove per Ugo Ojetti «si finisce sempre a tavola. Lì dove, almeno, la politica è sempre leale e salubre».
Mattia Feltri per la Stampa il 26 gennaio 2020. Intanto che i candidati si contendono sino all' ultimo respiro e maniche rimboccate piazze e citofoni di periferia, si fa incalzante anche la blasonata sfida dentro la ztl. E infatti in quello che ormai sembrava il feudo del Pd - più consensi laddove cresce il reddito - i leghisti rispondono colpo su colpo. Voi avete Raul Casadei? E noi rilanciamo con Serena Grandi. Vi giocate un Francesco Guccini? Eccovi un Luca Toni. E naturalmente viceversa, perché all' appoggio a Lucia Borgonzoni dell' allenatore del Bologna, Sinia Mihajlovic, a sinistra si è replicato con l' appoggio dell' ex allenatore del Bologna, Renzo Ulivieri. Questo frullare di elevati endorsement, uno via l' altro, di ora in ora, persino annunciati come imminenti, come il colpo di scena finale e decisivo (ieri l' altro era girata voce che in serata Arrigo Sacchi avrebbe schioccato il suo bacio sulla guancia di Borgonzoni, e invece lui si è ritratto: non parlo di politica) dipenderanno senz' altro dal valore glocal di queste elezioni, per cui, se cadesse il Muro di Bologna, le pietre finirebbero su parecchie teste a Roma. La caccia è dunque aperta e fitta, e si può offrire un parziale consuntivo. Vip per Bonaccini: Francesco Guccini, cantautore; Carlo Lucarelli, scrittore e uomo di tv; Julio Velasco, ex allenatore della nazionale italiana di pallavolo; Ivan Zaytsev, campione di volley; Renzo Ulivieri, allenatore di calcio; Luca Bottura, chef ultrastellato; Raul Casadei, celeberrimo re del liscio. Vip per Borgonzoni: Sinisa Mihajlovic, allenatore di calcio; Gianluca Pagliuca, ex portiere della nazionale azzurra; Luca Toni, centravanti campione del mondo; Serena Grandi, attrice molto apprezzata (fra gli altri) dagli adolescenti degli anni Ottanta; Francesco Amadori, incontrastato re del pollo. Restano in posizione vaga (solo un poco) la mitologica Aquila di Ligonchio, Iva Zanicchi - gran rivale di Mina e Milva, poi europarlamentare di Forza Italia, che ha pronosticato la vittoria di Bonaccini («ha governato bene») ma annunciato il sostegno a Borgonzoni («serve ricambio»), poi ritirato per motivi non precisissimi («l' ho vista in tv, non m' è piaciuta») - e Pif, regista e attore siciliano, e dunque a Bologna non vota, ma s' è fatto vedere in piazza con le Sardine, e indosso aveva la felpa della Padania («vesto vintage», l' estrosa spiegazione). Lo straordinario di questo derby sono stati i modi. Sarà che si parla di gente di mondo. Ma mentre i rivali politici se le danno di santa ragione, e i tifosi-elettori peggio che peggio, loro hanno esposto le preferenze con un garbo degno di un ballo del Settecento. Sentite, per esempio, che ha detto Velasco: «E' vero che nella sinistra ci sono esponenti e simpatizzanti pronti a giudicare con aria di superiorità morale, e questo spesso dà molto fastidio a chi la pensa diversamente. Ma è altrettanto vero che Bonaccini non è uno di loro. Lui è un uomo del popolo». Oppure Serena Grandi: «Penso che Matteo Salvini ci possa ridare la nostra identità e la nostra cultura. Mi sembra che lotti per cose ben definite, come nella Prima Repubblica». E infatti, quando Mihajlovic, stentoreo sostenitore a suo tempo della Tigre Arkan (al secolo, eljko Ranatovi, paramilitare serbo dalla fama un po' più plumbea di quella di Barbablù), si è detto dalla parte di Salvini («è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene»), contro di lui si è snocciolata una delle più spettacolari e desolanti serie di insulti, oltre ad auguri di contrarre, in sovrapprezzo alla leucemia che già sta combattendo, un intero compendio di morbi più o meno incurabili. Intanto il collega Ulivieri inorridiva («non dategli retta, ma sono un estimatore di Sinia, e come tutti ha il diritto di esprimere la sua opinione»), e Bonaccini si produceva nel piccolo capolavoro della sua battaglia elettorale: «Mihajlovic sostiene chi gli pare. Io gli auguro di guarire, per lui, per la sua famiglia e per tutti quelli che gli vogliono bene, fra i quali c' è il sottoscritto». Il far play non sarà di moda, ma veste ancora bene.
Da liberoquotidiano.it il 27 gennaio 2020. Lucia Borgonzoni ha portato a casa oltre il 43% delle preferenze degli elettori, ma non è riuscita a far crollare il dominio rosso in Emilia Romagna, arrendendosi per quasi 8 punti a Stefano Bonaccini. Nonostante ciò, la candidata della Lega non ci sta ad apparire solo come una meteora lanciata da Matteo Salvini ed è pronta ad impegnarsi anima e corpo in Regione. Tanto che ha avanzato la richiesta di dimettersi da senatrice in modo da andare a guidare l'opposizione nel consiglio regionale emiliano-romagnolo. "Il ruolo di Lucia lo decideremo insieme", ha dichiarato Salvini nella conferenza stampa bolognese. "Lei mi ha espresso il desiderio di rimanere qua - ha aggiunto - di mollare il Parlamento per stare insieme alla sua gente. Farò le mie valutazioni, mi riservo la possibilità di decidere io. Vi diremo venerdì 31 gennaio cosa succederà". L'intenzione della Borgonzoni era emersa chiaramente prima dell'intervento di Salvini, quando nella conferenza al comitato elettorale della Lega aveva dichiarato che "la prossima volta andremo a vincere visto l'aumento che c'è da elezione a elezione. La coalizione è unita".
Da liberoquotidiano.it il 27 gennaio 2020. "Non mi dispiace per mia figlia". Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia, candidata leghista in Emilia Romagna, durante lo spoglio dei voti si trova al Comitato per Bonaccini allestito a Casalecchio di Reno per le regionali. Da qui dice: "E' una democratica gara politica, non dobbiamo avere necessariamente le stesse opinioni", dice papà Borgonzoni: "Mia figlia che è molto borgonzoniana rappresenta l'anima democristiana di proposte inaccettabili". Già nelle scorse settimane il papà della candidata leghista non aveva fatto mistero di votare per Bonaccini, sostenuto dal Pd e dal centrosinistra. Ai giornalisti che gli chiedevano se avesse sentito la figlia ha risposto di "no" anche perché i due non si sentono da tempo.
Elezioni regionali, Bonaccini incassa il risultato: «L’arroganza non paga mai». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio e Maria Teresa Meli. Il governatore dopo la conferma: «L’Italia assomigli all’Emilia». A mezzanotte e mezza parte un urlo dalla stanza dal guardaroba. «Ce l’abbiamo fatta». (Tutti i dati) Fino a quel momento gli uomini della comitato elettorale di Stefano Bonaccini avevano fatto la spola tra il palco al centro della Casa dei popoli di Casalecchio di Reno e la sala più lontana, diventato il punto di raccolta dei fedelissimi. Non erano bastati gli exit poll, e neppure la prima proiezione. «Abbiamo avuto tanta paura, come mai prima d’ora» riconosce Andrea Rossi, il deputato reggiano del Pd che ha tirato le fila di questo mese così intenso. La paura stava mangiando l’anima del centrosinistra di una regione che fu rossa. Forse è stata la benzina sul fuoco di una mobilitazione che ha deciso queste elezioni così importanti e così incerte. L’argine dell’Emilia-Romagna ha tenuto. In un modo che ha sorpreso anche i diretti interessati. Stefano Bonaccini arriva quasi due ore dopo quell’urlo, sulle note di Un mondo migliore, del suo amato Vasco Rossi. Gli applausi, gli abbracci che non finiscono più, hanno qualcosa di liberatorio. La verità è che non se l’aspettava nessuno, una vittoria così netta. E invece. «Questa terra libera e grande ha decretato la prima, vera sconfitta di Matteo Salvini. Grazie a tutti quelli che ci hanno dato una mano in questa straordinaria campagna elettorale. L’abbiamo affrontata a modo nostro, con correttezza, senza cadere in basso. Tanta gente, donne e uomini, ci hanno messo la faccia, perché sapevamo tutti che sarebbe stata una partita decisiva, non solo per noi». La giornata era cominciata con le foto delle chat della sinistra radicale e dei Cinque stelle che in extremis invitavano al voto disgiunto. Ma soprattutto c’erano le immagini delle code ai seggi, la variabile che avrebbe potuto cambiare l’esito di elezioni che altrimenti sarebbero state rassegnate allo spirito del tempo, come in fondo lo è stata l’ultima settimana di campagna elettorale. Una mobilitazione imponente, qualcosa che non si vedeva da decenni. «Stiamo facendo il pieno dei nostri voti» facevano sapere dal campo di Bonaccini. Se si muove il popolo per una elezione regionale, questa la tesi di fondo, deve essere per forza la nostra gente. Ma non c’erano certezze. Perché quel ragionamento appartiene al mondo di ieri. A una certa idea di Emilia-Romagna che non esiste più da tanto, se non nelle teche dei nostalgici. Ci si vede a sera tardi, a Casalecchio di Reno. I primi exit poll sottobanco riportano numeri addirittura insperati che nessuno prende davvero sul serio. «Cauto ottimismo» ripeteva Rossi. Anche Stefano Bonaccini non ci credeva. «Casa per casa, voto su voto» dice. «Secondo me è così che finirà». Nel 2014, quando ancora c’erano elezioni senza storia e la Lega correva per fare bella figura, si presentò in sala stampa alle due del mattino, quando i suoi 20 punti di vantaggio divennero ufficiali. «Si figuri questa volta, che ho combattuto direttamente contro Darth Vader» metteva le mani avanti nel tardo pomeriggio. Ogni parola, ogni gesto in questa sala di militanti e addetti ai lavori raccontava di una paura così grande che neppure numeri in apparenza definitivi erano riusciti a dissolvere. Ai primi annunci non si leva una voce. Soltanto una presa d’atto, ci stavamo dando per morti, invece siamo vivi. Nella sala si aggirano vecchi militanti, che occupano le prime file, Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, qualche parlamentare emiliano, il sindaco di Bologna Virginio Merola, che entra nella sala del guardaroba e ne esce con un sorriso che gli va da un orecchio all’altro. «Qui Salvini non passa». L’ottimismo non abitava più qui. E invece ha vinto Bonaccini, l’ultimo erede della filiera emiliana del partitone, che dopo tanti dubbi, a notte fonda, parla come un leader, non solo regionale. «Dovevamo recuperare tante gente che era rimasta a casa. L’abbiamo fatto, andando a bussare a tante porte. Abbiamo ridato fiducia al centrosinistra. E abbiamo dimostrato che l’arroganza non paga mai. Salvini ha deciso di giocare su un altro terreno, nascondendo la sua candidata. Ha usato l’Emilia-Romagna per altri fini. Noi siamo andati avanti per la nostra strada. Siamo tornati nelle piazze, a parlare con la gente, una cosa che il centrosinistra aveva dimenticato. E abbiamo vinto”.
Il “sistema Emilia” dietro la vittoria di Bonaccini. Luca Morini, consigliere comunale Castel San Pietro Terme. Redazione di Nicola Porro.it il 28 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa lettera di un Consigliere comunale di una città emiliana di ventimila anime (Castel San Pietro Terme), eletto con il centrodestra. Congratulazioni ai vincitori, le scelte democratiche degli elettori non si discutono. Congratulazioni soprattutto al sistema politico locale per aver dato a tutti una lezione di gestione delle proprie “armi”. Ammesso che il fine sia la conservazione del potere in sé e per sé. Abbiamo assistito ad una prova di grande strategia politica. Strategia fatta di prove sottratte allo sguardo indiscreto dell’elettore. Strategia fatta di dialoghi nei corridoi, nelle stanze lontane dalle telecamere e dai giornalisti, fatta di retro accordi, strette di mano e pianificazioni strategiche e comunicative. Una strategia politica legittima, che non si racconta, che non piace all’elettore, ma che non è vietata da nulla, si è sempre fatta e sempre si farà. L’elezione appena conclusa in Emilia Romagna ha avuto indicazione di voto e sostegno:
dal Cardinale e Vescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi in persona;
del Pd, rinato grazie ad un movimento di sardine artatamente quanto, diciamolo, genialmente creato, sostenuto nelle piazze tramite CGIL, ANPI e partito stesso;
di Italia Viva, che ha comunque in alcuni esponenti locali un suo peso in termini di voto;
dei centri sociali, ragazzi che si ritengono portatori del Sacro Verbo, difensori della Libertà e della Democrazia, ma che non sanno ancora nulla della vita, del mondo, delle difficoltà e della politica (con le dovute eccezioni);
dei 5 Stelle, di cui il Pd ha ora riassorbito l’elettorato dissidente, definitivamente fagocitando l’intero movimento, facendo peraltro creder loro di aver contribuito a chissà quale nobile causa.
Senza voler aggiungere altro od altri – anche se ce ne sarebbero – dobbiamo tutti soltanto riconoscere il merito del vincitore. Mi vien, peraltro, quasi da pensare che la diretta conseguenza di questa sparizione, in termini di voti, dei grillini, avrà ora un peso anche sugli equilibri di Governo. In fondo non esistono praticamente più i 5 Stelle, poverini. Non è che il Pd farà ora valere questo evidente maggior peso politico? Sia in Calabria che in Emilia Romagna i grillini sono spariti infondo, sono spariti in Umbria, stavano già sparendo alle europee, lo si respira, lo si sente, lo si sa, lo sanno loro per primi. Sta a vedere che ora assisteremo ad un Governo sostanzialmente monocolore Pd. Bhé, due volte bravi quindi. Ammesso, lo ripeto, che il fine sia o debba essere il potere in sé e per sé, perché qui, il bene pubblico, le competenze, le capacità c’entrano zero. Il muro che il sistema politico locale è riuscito a creare, ha retto alla forza del messaggio politico di due leader, uno soprattutto, monumentale per impegno e dedizione anche in questa campagna elettorale, in grado di parlare alle persone dimenticate, a chi ha i calli sulle mani, a chi è dimenticato dal sistema di potere dei “salottini buoni”. Continuerò, nel mio piccolo, a sperare e lavorare per l’alternanza, nella mia regione, perché le dinastie al potere crollino democraticamente. Non c’è altra via perché anche questa terra, che mi appare sempre più dinastica, sempre più condannata ad essere gestita da una sola fazione, possa vivere una vera, genuina e sacrosanta alternanza nella gestione delle decisioni, delle scelte, degli indirizzi. Alternanza che però, non dovrebbe aver fine nella mera gestione del potere, ma nell’acquisizione quotidiana del consenso popolare attraverso una sana competizione tra opposte visioni politiche. Senza mezzucci, senza retrobotteghe, senza chiamata alle armi destinata e sorretta da chi con i partiti ed i presidenti di regione non dovrebbe aver nulla a che fare. Praticamente un sogno ad occhi aperti. Luca Morini, consigliere comunale Castel San Pietro Terme.
Attilio Fontana (Lega): «In Emilia-Romagna portati a seggi centenari e disabili». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. «Era difficile, per la sinistra era l’ultima ancora di salvezza, è stata fatta una mobilitazione degna dei tempi andati, si è vista in tv gente di più di 100 anni portata ai seggi, disabili accompagnati con i pulmini, una mobilitazione per salvare quel che resta di un’idea che ormai è svanita». Lo ha detto il presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, parlando delle elezioni regionali in Emilia Romagna, vinte dal candidato del centrosinistra, il presidente uscente Stefano Bonaccini. Fontana non considera che la Lega abbia commesso errori in campagna elettorale: «Se errore è riuscire ad arrivare al 42% in Emilia Romagna, ben vengano errori di questo genere. Spero che se ne ripetano altri, che si riesca a prendere ancora una massa di voti così imponente. Fin dall’inizio ho detto che per me era già un successo grande poter dire che si poteva combattere ad armi pari, poi è chiaro che se si fosse vinto sarebbe stato sicuramente meglio». Ora il Carroccio e Matteo Salvini «devono continuare sulla strada che hanno intrapreso, sulle prossime elezioni regionali, e ribadire l’assoluta impossibilità che questo governo vada avanti a non fare nulla e a continuare a vivacchiare in questa maniera grave e perniciosa per il nostro Paese». «Il presidente della regione Lombardia si era sempre contraddistinto per la misura rispetto ad alcuni suoi compagni di partito. Dispiace vedere che oggi abbia perso con questa dichiarazione tale cifra. Disabili ed anziani hanno diritto al voto quanto tutti gli altri cittadini». Lo scrive su Fb il vicesegretario dem, Andrea Orlando. «Dubito, avendo partecipato alla campagna elettorale, che ci sia stato un apposito servizio trasporti del Pd in Emilia Romagna ma in ogni caso leggere una sconfitta come quella subita dalla Lega in questi termini è solo un goffo tentativo di rimozione degli errori di Salvini e dei meriti dei suoi avversari a partire da Bonaccini. Se un centenario va a votare è anche perché non vuole che torni l’odio, essendo stato, magari, testimone oculare di ciò che può provocare». «Se un presidente di Regione, in cui vivono disabili, anziani e molti cittadini che votano per un partito diverso dal suo, si produce in dichiarazione come questa, cessa di essere un uomo delle istituzioni e diventa soltanto un propagandista di partito», conclude Orlando. «Nel giorno della visita dell’Arcivescovo di Milano Delpini in consiglio regionale Fontana manca di rispetto agli elettori dell’Emilia-Romagna. Pur di nascondere la sonora sconfitta della Lega mette in imbarazzo l’istituzione che rappresenta. Ci permettiamo di dire al presidente Fontana che se una o più persone disabili hanno votato per confermare il governatore Bonaccini è perché in Emilia Romagna si sentono tutelate e non volevano essere trattate come i disabili gravi lombardi, privati con un tratto di penna di contributi essenziali per la loro assistenza per colpa delle decisioni di una giunta guidata dalla Lega». Così Vinicio Peluffo e Fabio Pizzul, segretario regionale e capogruppo in Regione del Pd replicano al presidente lombardo Attilio Fontana. «Il presidente Fontana, che dovrebbe rappresentare tutti i cittadini lombardi, si abbassa al livello della più becera propaganda, quando dice che abbiamo vinto in Emilia Romagna perché abbiamo portato a votare i centenari e i disabili. Il livello di questa dichiarazione si commenta da solo. Noi invece vogliamo continuare a battere questi avversari, anche per le frasi come queste che esprimono questo livello culturale per il Paese. Se posso dare a un avversario un consiglio, pur se non richiesto, cerchi di capire le ragioni di una sconfitta invece che raccontarsi e raccontarci delle orribili invenzioni». Così Emanuele Fiano, della presidenza del gruppo Pd alla Camera. «Voler far passare le mie parole come un attacco agli elettori emiliano-romagnoli o, peggio ancora come un attacco addirittura ad anziani e disabili, è puerile e semplicemente spiega il livello di chi usa queste argomentazioni»: è quanto il governatore della Lombardia Attilio Fontana ha replicato alle critiche provenienti dall’opposizione in merito alle sue frasi sul voto in Emilia Romagna. «Una mia estrema sintesi sul risultato delle elezioni, utile a rendere l’idea di quanto fossero decisive per il Pd, è stata ripresa e strumentalizzata - in maniera qualche volta isterica - da molti esponenti regionali e nazionali dello stesso partito, per indicarmi al pubblico ludibrio», ha scritto Fontana su Facebook. «Le mie dichiarazioni volevano solo rendere evidenti e spiegare la straordinaria mobilitazione messa in campo dalla macchina elettorale emiliano-romagnola per non perdere il governo di quella Regione, divenuta come si è visto, contendibile. Lascio agli altri gli insulti e - ha concluso - mi scuso se qualcuno si è sentito offeso».
Il voto in Emilia-Romagna è lo specchio del Paese: campagne contro città. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. «Come va?». «Molto meglio, grazie!» Sono due giorni che sotto le due Torri, la vera piazza del paese, dove si incrocia ogni tipologia umana, accademici e disgraziati, mamme con il passeggino e manager in ansia, pensionati e universitari, è tutto un sorriso. Anche Virginio Merola, che di mestiere fa il sindaco e lavora poco distante, a Palazzo d’Accursio, non riesce a trattenersi. «Beh, sono contenti perché hanno fatto un bel lavoro». D’accordo, s’era capito già al mattino presto del giorno fatidico. La mobilitazione nei seggi del centro come in periferia, non era dettata da pulsioni leghiste ma seguiva un richiamo che veniva da più lontano, quasi ancestrale. Bologna, la capitale dei moderatoni, come li chiamava il compianto Edmondo Berselli, quelli che non bisogna esagerare e per questo si erano inventati il socialismo riformista, ai tempi quasi un ossimoro, aveva deciso di tornare a schierarsi, che è cosa ancora diversa dal semplice votare. Ma nessuno poteva immaginare con quale forza. Non c’è molto da girarci intorno e fare tabelle. Stefano Bonaccini, peraltro modenese, ha vinto qui la sua battaglia elettorale. In tutta la regione il presidente uscente e riconfermato ha ottenuto 181.209 mila voti in più della sua avversaria. Solo a Bologna il divario tra i due candidati principali, va ricordato che nel 2016 Lucia Borgonzoni aveva anche corso da sindaca, è stato di 132.776 mila preferenze. Anche i quartieri più borghesi che fino a poco fa erano attratti da Silvio Berlusconi, hanno fatto una scelta netta contro il centrodestra, irretiti da una campagna elettorale con un profilo che più leghista non si poteva. Tra le varie ed eventuali, va aggiunto il fatto che nel capoluogo quasi tre elettori su quattro dei Cinque Stelle hanno scelto il voto disgiunto. Bona lè, come dicono qui per chiudere ogni discussione. «Un mio illustre predecessore, Renato Zangheri, diceva che questa è la città dell’incontro e del dialogo. Mi permetto di aggiungere il buon senso, quello vero. Salvini non si è reso conto che comportandosi come ha fatto, stava dimostrando una completa mancanza di rispetto nei nostri confronti. Si è comportato come un invasore che non sapeva nulla della storia e dell’indole locale. Ha esagerato, inducendo così una reazione forte». In tutta la provincia di Bologna, l’affluenza ha raggiunto quota 70,98%, il dato più alto. «Prendiamo il Pilastro, il quartiere della citofonata. Salvini pensava che fosse una periferia abbandonata, invece esistono da anni comunità con reti forti, che hanno reagito. Bisognerebbe studiare, prima di parlare». La madre del sindaco, figlio di una coppia emigrata da Santa Maria Capua Vetere nel 1961, abita a due palazzi di distanza da quello dove Salvini è andato a suonare. L’Emilia-Romagna ha smesso da tempo di essere una anomalia. Queste elezioni confermano e accentuano un trend nazionale. Le città, le loro periferie o aree metropolitane che siano, contro il resto del territorio, come la campagna e le montagne più lontane. Una frattura quasi insanabile. Una Regione spaccata in due, come quasi tutto il resto d’Italia. E non da ieri. «Ragazzi, state veramente a casa di Dio». Quando Roberto Calderoli scese dalla macchina con lo stomaco in subbuglio per ringraziare gli abitanti del buon risultato elettorale alle Politiche del 2006, e già che c’era per premiare la vincitrice della tappa di Miss Padania, divenne il primo politico «nazionale» a farsi vedere dai tempi di Giorgio Almirante, di passaggio nel 1981. Fiumalbo sta in cima all’Appennino modenese, mille metri di altezza per mille abitanti. Due anni dopo, sempre alle Politiche, la Lega fece il 29,4 per cento, il dato più alto dell’intera regione. Domenica scorsa è arrivata al 77,4%.
Aree interne escluse. Alla vigilia di queste elezioni fine di mondo, a Goro non ce n’era alcuna traccia. L’unica bacheca con le facce dei candidati era sull’argine del Po, fuori dal centro abitato. Se anche Ferrara è tornata a essere in bilico, con Borgonzoni che ha prevalso solo di 142 voti, questo paese in fondo alla provincia e al Delta del Po, diventato celebre nel 2016 per la rivolta contro l’arrivo di dodici migranti, non ha avuto dubbi: 78,7% per la Lega, primato assoluto. Dice Merola che le aree interne si sentono sempre più escluse. Ma non è solo una domanda di rappresentanza. Forse c’è qualcosa di più profondo e intimo a dividere le due Emilia-Romagna, e le due Italie. «Un senso di abbandono e di solitudine che noi del centrosinistra abbiamo sottovalutato» conclude Merola. A Goro, sabato scorso non c’era una persona in giro. Sul viale principale c’erano ancora le luminarie spente che auguravano Buone feste. Alla vigilia di queste elezioni fine di mondo, a Goro non ce n’era alcuna traccia. L’unica bacheca con le facce dei candidati era sull’argine del Po, fuori dal centro abitato. Se anche Ferrara è tornata a essere in bilico, con Borgonzoni che ha prevalso solo di 142 voti, questo paese in fondo alla provincia e al Delta del Po, diventato celebre nel 2016 per la rivolta contro l’arrivo di dodici migranti, non ha avuto dubbi: 78,7% per la Lega, primato assoluto. Dice Merola che le aree interne si sentono sempre più escluse. Ma non è solo una domanda di rappresentanza. Forse c’è qualcosa di più profondo e intimo a dividere le due Emilia-Romagna, e le due Italie. «Un senso di abbandono e di solitudine che noi del centrosinistra abbiamo sottovalutato» conclude Merola. A Goro, sabato scorso non c’era una persona in giro. Sul viale principale c’erano ancora le luminarie spente che auguravano Buone feste.
Da ansa.it il 29 gennaio 2020. I carabinieri di Bologna stanno verificando con accertamenti interni cosa sia successo il pomeriggio del 21 gennaio, in relazione alla passeggiata di Matteo Salvini al Pilastro, quando il leader della Lega è andato a suonare a un citofono chiedendo se lì abitasse uno spacciatore. Da parte del comando provinciale non viene commentato quanto riportato da alcuni quotidiani locali sul possibile ruolo avuto nella vicenda da un sottoufficiale dell'Arma. Secondo alcune ricostruzioni la donna che ha accompagnato Salvini al Pilastro avrebbe riferito di essere stata messa in contatto con lo staff della Lega grazie alla telefonata di un maresciallo che conosce. Potrebbe peraltro trattarsi, secondo i quotidiani, di un militare indagato per stalking e depistaggio ai danni di un avvocato e sospeso dal servizio con una decisione del Riesame di fine anno, non esecutiva in attesa della Cassazione. Al momento non sarebbe comunque aperto in merito un procedimento disciplinare, né risultano esserci fascicoli penali.
Nei guai il carabiniere che “favorì” la citofonata di Salvini. Giulia Merlo il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il militare fece da tramite tra lo staff elettorale della Lega e la donna che accompagnò il Capitano al Pilastro di Bologna. Sono in corso indagini e potrebbe scattare anche un procedimento disciplinare per il carabiniere che fece da tramite tra la Lega e la signora Anna Rita Biagini, che accompagnò Matteo Salvini nel quartiere Pilastro di Bologna e gli indicò a quale campanello citofonare per parlare con un presunto spacciatore. Oggi il video è stato oscurato da Facebook, ma è stato uno dei contenuti virali della campagna elettorale per le Regionali in Emilia, cui seguirono polemiche sulla modalità e sulle accuse senza alcun riscontro mosse dal capo leghista al diciassettenne. Ora la questione è finita sulla scrivania della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, grazie a un’interrogazione del deputato Pd Andrea De Maria. Il sospetto che l’evento non fosse stato casuale ma orchestrato era sorto al parlamentare leggendo un’intervista della signora Biagini, in cui lei dichiarava:“Mi ha contattato un esponente delle forze dell’ordine martedì a mezzogiorno ,dicendo che qualcuno della Lega mi avrebbe chiamato perché Matteo voleva venire qui”. Per questo De Maria scrive nella sua interrogazione: “A prescindere da azioni legali a propria tutela che possano assumere i cittadini interessati, il Senatore Salvini ha compiuto un atto evidentemente molto discutibile e anche foriero di generare conflitti e tensioni, alla presenza di numerosi operatori delle forze dell’ordine”, dunque chiede al Ministro degli Interni “se sia a conoscenza di quanto accaduto e se le autorità competenti abbiano richiesto a chi era presente sul luogo, a tutela della sicurezza di tutti, informazioni relative a quanto accaduto e quali siano nel caso i riscontri ricevuti”. Come riporta il Corriere della Sera, parallelamente all’interrogazione è in corso anche un’indagine dell’Arma a partire sempre da quanto dichiarato dalla donna. Secondo la ricostruzione, la sera stessa della citofonata la signora Biagini aveva fatto il nome di un maresciallo al quale si rivolge per i problemi di spaccio al Pilastro. Poichè il giorno successivo all’incursione di Salvini il marito della donna aveva trovato l’auto danneggiata, l’uomo aveva sporto denuncia e dichiarato anche che l’incontro con Salvini sarebbe avvenuto dopo la telefonata del maresciallo di sua conoscenza. «Lo staff di Salvini mi ha chiesto il contatto di una persona che conosce le dinamiche del quartiere e ho pensato a lei» sarebbero state le parole del militare, secondo la ricostruzione di Biagini. Proprio ascoltando queste dichiarazioni, i carabinieri che hanno raccolto la denuncia hanno informato i superiori e l’autorità giudiziaria. Se a livello penale il militare non ha commesso alcun reato, sotto il profilo disciplinare invece potrebbe aver violato il dovere di imparzialità nei confronti dei partiti politici e delle competizioni elettorali. Il maresciallo in questione, qualora risultasse confermata la sua identità di “mediatore” tra lo staff della Lega e la signora, è già indagato insieme ad un collega per stalking e depistaggio ai danni di un avvocato bolognese.
Ecco la verità sul voto in Emilia. Dove la Lega ha asfaltato il Pd. Il Pd si conferma anche in Emilia Romagna il partito della “zona Ztl”, forte nelle grandi città e debole in provincia. La Lega lo ha praticamente accerchiato e assediato nel cuore della Val Padana, lungo la via Emilia. Francesco Curridori, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. Il Pd si conferma anche in Emilia Romagna il partito della “zona Ztl”, forte nelle grandi città e debole in provincia. La Lega lo ha praticamente accerchiato e assediato nel cuore della Val Padana, nella parte più emiliana che romagnola.
Il Pd confinato nel "rettangolo allargato" della Val Padana. Le province di Piacenza, Parma, Ferrara e Rimini sono rimaste saldamente nelle mani della Lega, mentre il consenso del Pd è racchiuso nelle sue roccaforti storiche come Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ravenna e Forlì-Cesena. In questa specie di rettangolo allargato Stefano Bonaccini ha costruito la sua vittoria, confermando il consenso che la sinistra ha sempre avuto nelle grandi città. Il candidato del Pd ha ottenuto il 61,8% nella sua città natale, Modena, mentre ha sfiorato il 65% a Bologna, il capoluogo che non ha mai tradito la sinistra ad eccezione della parentesi Guazzaloca. Più contenuto il successo a Reggio Emilia (59%), Ravenna (52,4%), Cesena (54,6%) e Forlì (52,6%) che dal giugno dello scorso anno è amministrata, per la prima volta, dal centrodestra. Grazie al supporto del sindaco ex grillino Federico Pizzarotti, oggi leader di Italia in Comune, Bonaccini ha vinto anche a Parma città col 53,2%, sebbene la provincia abbia premiato Lucia Borgonzoni. Un esito praticamente speculare si è verificato a Rimini città dove il governatore dem ha preso il 48,8%, superando di tre punti percentuali la candidata leghista. Un successo dovuto soprattutto alla conquista del voto dei grillini delusi. "Molti elettori pentastellati (il 71,5% a Forlì, il 62,7% a Parma, il 48,1% a Ferrara) hanno scelto la candidatura di Bonaccini e solo una minoranza ha deciso di optare per il candidato del M5s (Simone Benini) o per il centrodestra di Borgonzoni. Nello specifico, gli elettori del M5s alle Europee 2019 che hanno scelto Benini sono stati il 23,4% a Ferrara, il 16,6% a Parma, il 12,6% a Forlì", si legge nell’analisi dei flussi elettorali stilata dall’Istituto Cattaneo.
Le vittorie simboliche della Lega. Nel complesso la maggior parte dei comuni emiliano-romagnoli si tinge di blu, il colore scelto da Matteo Salvini per la nuova Lega sovranista. L’intera provincia di Piacenza non conosce il Pd. Qui l’unico comune conquistato da Bonaccini (55 voti a 20) è Cerignale dove, però, la lista più votata è Emilia Romagna Coraggiosa, guidata dall’ex eurodeputata Elly Schlein. Bettola, il paese piacentino di Pier Luigi Bersani, ha premiato la Lega, mentre Scandiano, la città d’origine di Romano Prodi, ha continuato a dare fiducia al Pd. In provincia di Reggio Emilia, Matteo Salvini ha, invece, coronato il sogno di espugnare Brescello, il paese di ‘Peppone e don Camillo’ dove nel 2018 il Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. E se è vero che a Bibbiano, il paese della provincia di Reggio Emilia travolto dall’inchiesta ‘Angeli e Demoni’, ha vinto il Pd, a Finale Emilia, nota per il caso dei ‘diavoli della bassa modenese’, ha prevalso la Lega. A Mirandola, paesino del modenese colpito dal terremoto nel 2012 ed espugnato dai leghisti alle comunali dello scorso giugno, il Carroccio si è confermato primo partito. Nel ferrarese la Lega ha spadroneggiato vincendo in tutti i Comuni arrivando a percentuali bulgare come a Goro (77,4% per la Borgonzoni), località rinomata perché nel 2016 i cittadini si opposero all’arrivo dei migranti. A Predappio, città in cui riposa la salma di Benito Mussolini, la Lega è al 37,4%. Nella provincia di Rimini spicca la vittoria del ‘Papeete’, dal momento che, a Cervia, dove sorge il noto stabilimento da cui Salvini ha annunciato la fine del governo gialloverde, è stato il Carroccio il partito più votato.
L'Emilia Romagna non è più una "Regione rossa". A livello regionale, stavolta, il Pd ha preso appena 3 punti percentuali in più rispetto alla Lega, ma è complessivamente calato rispetto a tutte le recenti elezioni Regionali. Un rapporto del Cise (Centro italiano studi elettorali) della Luiss conferma come il recupero dei democratici dipenda, come abbiamo già spiegato, dalle lusinghiere performance ottenute nei “grandi” comuni, mentre i piccoli centri restano leghisti, ma “in realtà la frattura tra le periferie (a destra) e il centro (a sinistra) non è affatto nuova nel panorama emiliano-romagnolo”. Secondo il Cise “più che sorprendersi ora, si sarebbe dovuti rimanere impressionati alle passate elezioni, dove questo trend era già presente”. Già prima delle elezioni, infatti, il professor Marco Valbruzzi, coordinatore dell’Istituto Cattaneo, aveva messo in evidenza questo fenomeno nel suo saggio ‘Allerta rossa per l’onda verde’. Ora, dopo il voto, anche un’altra analisi dell’Istituto Cattaneo conferma la maggior penetrazione del Carroccio nelle aree rurali.“La Lega ottiene i suoi maggiori successi, sfiorando il 50% dei consensi, nei comuni sotto i 2mila abitanti, ma i suoi consensi decrescono man mano che ci si avvicina ai comuni maggiori, con una popolazione superiore ai 60mila abitanti. In quest’ultimo caso, il partito di Salvini scende sotto il 30% dei voti, perdendo in questo passaggio oltre 20 punti percentuali”, si legge nel rapporto dell’Istituto Cattaneo che pone l’accento sull’accerchiamento nel quale si trova il Pd. Al di fuori dei comuni presenti lungo la via Emilia che collega Parma a Ravenna e Rimini, ossia “nei comuni appenninici e più marginali delle province di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, risulta prevalente la candidatura di Borgonzoni”. Pertanto descrivere l’Emilia Romagna come una “regione rossa” risulta essere“ulteriormente fuorviante, data la profonda frattura tra una area “centrale” ancora rossa ed aree ‘periferiche’ che paiono avere assunto stabilmente un altro colore”.
Emilia Romagna, la vicepresidente Elly Schlein: «Ho amato uomini e donne. Ora sto con una ragazza». Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Rosano. Ospite mercoledì sera di Daria Bignardi a «L’Assedio» sul Nove, Elly Schlein - dopo aver ripercorso le tappe del suo percorso politico che l’hanno portata a diventare vice presidente della Regione Emilia Romagna e aver commentato la situazione politica attuale - ha raccontato anche aspetti inediti della sua vita privata. «Premetto che di solito non parlo mai della mia vita privata, sono molto riservata però faccio un’eccezione. Sì sono fidanzata, ho avuto diverse relazioni in passato: ho amato molto uomini e ho amato molte donne. In questo momento sto con una ragazza e sono felice finché mi sopporta..». Alla domanda se la compagna cammini un passo avanti o indietro, la vicepresidente ha replicato: «Sempre fianco a fianco. Questo è l’importante».
Bologna, muore in bici a 18 anni Matteo Prodi: l'auto guidata dall'ex assessore Grandi. Il nipote di Vittorio e pronipote di Romano stava preparando l'esame di maturità. L'incidente fra via Barbiano e via degli Scalini. Al volante il presidente di Bologna Musei: "Sono distrutto". La Repubblica il 28 febbraio 2020. E' morto il ciclista 18enne rimasto ferito ieri pomeriggio in un incidente sui colli di Bologna, all'angolo fra via di Barbiano e via degli Scalini. SI chiamava Matteo Prodi, figlio di Giovanni e Mariangela, nipote di Vittorio e pronipote dell'ex premier Romano. Lo studente si stava preparando all'esame di maturità scientifica al Liceo Fermi e aveva già superato un test per entrare a Ingegneria. Il ragazzo era in sella alla propria bicicletta che è stata colpita da un'auto. Dalla prima ricostruzione, la macchina stava salendo dalla città verso la zona collinare mentre la bici procedeva nel senso opposto, quando c'è stato l'impatto che ha fatto sbalzare a terra il ciclista. La Toyota rossa era guidata da un personaggio molto noto in città e amico della famiglia Prodi, cioè dall'ex assessore alla cultura, prorettore e ora presidente di Bologna Museo, il massmediologo professor Roberto Grandi: "Sono distrutto". Soccorso dal 118, è stato ricoverato in gravissime condizioni all'ospedale Maggiore, dove è deceduto in tarda mattinata di venerdì. Entrambi i mezzi sono stati posti sotto sequestro dalla Polizia Locale che ha eseguito i rilievi. Maggiore di sei fratelli, abitava con la famiglia in via Siepelunga dove era un assiduo frequentatore della parrocchia di Sant'Anna, oltre a fare parte dell'Azione Cattolica. "Un ragazzo gioioso e al tempo steso mite, che sapeva stare con tutti" lo descrive don Mario Fini, parroco della chiesa. Il nonno di Matteo è il Vittorio Prodi, fratello di Romano e già presidente della Provincia di Bologna (dal '95 al 2004) e deputato del Parlamento europeo con l'Ulivo. A quanto si apprende, la famiglia ha autorizzato l'espianto degli organi del ragazzo. La Comunità del Fermi - si legge sul sito della scuola - piange la prematura e improvvisa scomparsa di Matteo Prodi (studente della classe 5F). “Ciao Matteo, ci mancherai, ci mancherà tutto di te: il tuo sorriso sornione, la tua parola garbata, la tua sobria imponenza. E questo ricordo, silenzioso e discreto, ogni mattina, ci accompagnerà in classe. Il Dirigente, i Docenti e tutto il Personale della scuola si uniscono in un grande abbraccio al dolore della famiglia".
Da "ilrestodelcarlino.it" l'1 marzo 2020. "Sono distrutto. Distrutto. Mi perdoni, ma è un momento terribile". Roberto Grandi, ex docente universitario e presidente dell’Istituzione Bologna Musei, non si dà pace. Era lui alla guida della Toyota Hybrid che, giovedì mattina, ha travolto in via degli Scalini Matteo Prodi, morto il giorno dopo l’incidente, dopo una notte disperata al reparto di Rianimazione dell’ospedale Maggiore. Lo studente di 18 anni, nipote di Vittorio Prodi, ex presidente della Provincia, e pronipote dell’ex premier Romano, era uscito per un giro in bicicletta sui Colli, approfittando della vacanza forzata da scuola. Frequentava l’ultimo anno del liceo scientifico Fermi, si sarebbe diplomato a giugno. Grandi, che conosceva sia il ragazzo che la sua famiglia, adesso è indagato per omicidio colposo e dovrà nominare un avvocato di fiducia. Le indagini, affidate alla polizia municipale che ha effettuato i rilievi, sono coordinate dal pm Marco Imperato, che probabilmente nei prossimi giorni dovrà disporre l’autopsia. Per questo ancora una data per i funerali non c’è, come spiega, con la voce strozzata dal dolore, il papà di Matteo, Giovanni Prodi: "Non abbiamo fissato i funerali. È tutto in mano alla medicina legale, non sappiamo nulla". La famiglia del diciottenne è stretta nel silenzio, per uno strazio troppo grande da sopportare. Matteo era il primo di sei fratelli. Il suo ultimo gesto d’amore è stato quello di donare gli organi. "Un ragazzo solare, gioioso ma mite", come lo ricorda don Mario Fini, il parroco di Sant’Anna di Siepelunga, chiesa che Matteo frequentava attivamente assieme alla sua famiglia e dove probabilmente si terrà la cerimonia funebre. Nella parrocchia, la sera dell’incidente, i compagni di scuola e gli amici di Matteo si erano riuniti per una veglia di preghiera, sperando in un miracolo che purtroppo non c’è stato. Adesso, tra i ragazzi e i prof del Fermi c’è spazio solo per lacrime e ricordi. E cordoglio nel mondo della politica. "La drammatica notizia della morte di Matteo Prodi ci addolora profondamente. Esprimiamo il nostro profondo cordoglio e la vicinanza alla famiglia Prodi in questo difficile momento", ha detto la senatrice della Lega Lucia Borgonzoni. Sul fronte delle indagini, la polizia municipale dovrà stabilire la dinamica esatta dell’incidente e chiarire se, come emerso, Grandi non abbia dato la precedenza al diciottenne. Il liceale stava percorrendo via di Barbiano in discesa, diretto verso il centro; l’auto di Grandi, svoltando verso via degli Scalini, l’ha travolto. Nello schianto, il ragazzo è volato prima sul parabrezza dell’utilitaria e poi sull’asfalto. Un impatto violentissimo, che gli ha causato traumi devastanti. Il presidente di Bologna Musei era stato subito sottoposto ad alcoltest – risultato negativo – dagli agenti della municipale.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Succede a Firenze.
Enrico Rossi, indagato il governatore Pd della Toscana: "Accuse infamanti e ridicole, querelo". Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Indagato Enrico Rossi, il governatore della Toscana del Pd, sotto inchiesta a Firenze per la gara regionale per il trasporto pubblico locale, un bando da 4 miliardi per una durata di 11 anni. La notizia dell'indagine ai danni di Rossi è stata data da differenti quotidiani. Da par suo, Rossi risponde alle accuse su Facebook, scacciando ogni responsabilità: "Accuse infamanti e ridicole. Aspetto il momento giusto per procedere e querelare i calunniatori". Secondo quanto rivela Rossi, l'indagine muoverebbe da un esposto "fatto dalla cordata di imprese che ha perso la gara" e che mette "sotto accusa oltre a me, l'intera commissione regionale e i dirigenti del settore mobilità", conclude il piddino.
Da repubblica.it il 17 giugno 2020. Il governatore toscano Enrico Rossi è indagato a Firenze per la gara regionale per il trasporto pubblico locale (Tpl), bando da 4 miliardi per 11 anni. Il nome di Rossi si aggiunge ad altri sei indagati: 2 dirigenti regionali dell’area trasporti e dell’ufficio gare, Riccardo Buffoni e Ivana Malvaso, l'intera commissione che aggiudicò il bando di gara, cioè il professor Mario Sebastiani, la dirigente Irpet (istituto regionale programmazione economica) Patrizia Lattarulo, l’ingegnera Gabriella Rolandelli e il professor Stefano Pozzoli. Per loro l’ipotesi di reato è quella di turbativa d’asta. Il governatore dem Enrico Rossi risponde questa mattina su Facebook: "Accuse infamanti e ridicole. Aspetto il momento giusto per procedere a querelare i calunniatori". Poi ricostruisce: spiegando che tutto è partito da "un esposto fatto dalla cordata di imprese che ha perso la gara regionale per il trasporto pubblico locale su gomma. Questa associazione di imprese non solo ha strumentalmente usato la giustizia amministrativa perdendo regolarmente tutti i ricorsi, facendo così ritardare il contratto con l’impresa vincente e quindi la partenza del servizio ma, come ultimo colpo di coda per bloccare le regolari procedure, ha fatto anche un esposto alla procura mettendo sotto accusa oltre a me, l’intera commissione regionale e i dirigenti del settore mobilià". Insomma Rossi non ci sta e prosegue nella sua difesa: "Aspetto il momento giusto per procedere a querelare i calunniatori a cui consiglio di prepararsi a pagare per le loro diffamazioni. Per quanto mi riguarda l’accusa è di avere rilasciato, il 13 novembre 2015, dichiarazioni sull’esito provvisorio della gara, prima della sua conclusione formale". Prosegue affermando che la notizia era "già da un mese di pubblico dominio e che la stampa e le agenzie nazionali l’avevano ampiamente riportata, poiché la seduta della commissione per l’apertura delle buste era stata pubblica, come prevede la legge". Poi attacca: "La cosa più vergognosa e triste di questa vicenda è che con la strumentalizzazione della giustizia amministrativa e ora persino di quella penale si è sviluppato un contenzioso che ha ritardato di almeno 4 anni la partenza del nuovo servizio di trasporto pubblico locale, provocando un danno alle casse regionale di due milioni di euro per ogni mese, e impedendo ai cittadini di beneficiare da anni di un trasporto pubblico locale moderno e con autobus nuovi".
Le perquisizioni. L’inchiesta è esplosa a fine maggio con alcune perquisizioni, presso uffici della Regione ma anche nella sede della società aggiudicatrice del bando, Autolinee Toscana, a Villa Costanza a Scandicci. Secondo quanto emerso, al centro degli accertamenti c’è l’iter che ha portato il consorzio a superare “Mobit Scarl”, il raggruppamento dei gestori attuali -14 consorzi e 26 imprese toscane, da Cap ad Ataf a Linea- capeggiato da Busitalia ferrovie. L'appalto, che avrebbe dovuto diventare operativo l'1 giugno, data slittata di un mese a causa dell'emergenza Coronavirus, riguarda tutto il servizio di trasporto pubblico locale su gomma della Toscana, assegnato dalla Regione per la durata di 11 anni (1 giugno 2020-31 maggio 2031) per la cifra record di 4 miliardi di euro. Gli inquirenti stanno cercando di capire se il percorso che ha portato all’aggiudicazione del bando sia stato aderente ai criteri di legge o se, come segnalato da un esposto di Mobit, vi siano state storture. La vicenda è stata infatti caratterizzata da un complesso contenzioso amministrativo, aperto dal consorzio sconfitto contro la stessa Autolinee Toscane spa, società che fa parte del gruppo francese Ratp (la stessa che gestisce la tramvia a Firenze).
Svenditalia. Report Rai. PUNTATA DEL 08/06/2020 di Giuliano Marrucci. Insieme a Venezia, Firenze è la città italiana che più ha svenduto la sua anima per assecondare i capricci dei turisti, a partire dai più facoltosi. Ma i tempi in cui Firenze era semplicemente in vendita sono ormai passati. Con Covid-19 è arrivato il momento dei saldi. E così proliferano iniziative come quella degli israeliani di Webuyhotel73.com, che dichiarano apertamente di voler “approfittare della crisi”.
NOTA DEL 09/06/2020. In merito all’inchiesta a firma di Giuliano Marrucci “Svenditalia” riguardante la vendita del patrimonio immobiliare storico di Firenze, pubblichiamo con piacere le precisazioni di Cecilia Del Re, assessore all'urbanistica del Comune di Firenze, delle quali non avevamo dato conto nell’inchiesta. L'immagine di Firenze che emerge dal servizio trasmesso ieri da Report e dagli intervistati non corrisponde alla realtà di quanto sta avvenendo in città, e non si dà conto dell'operato del Comune per limitare interventi dediti solo alla rendita e favorendo altri tipi di trasformazioni. Già nel 2015, il Comune di Firenze è stato il primo Comune in tutta Italia a bloccare cambi di destinazione d'uso nel centro storico verso il turistico ricettivo. Ed infatti negli ultimi 5 anni non hanno più aperto nuove strutture alberghiere dentro i confini del centro storico. Per attrarre altri tipi di investimenti in città, la giunta comunale ha già annunciato che con l'approvazione del nuovo regolamento urbanistico (piano operativo) la regola che attualmente vieta il cambio di destinazione d’uso a turistico ricettivo all’interno dell’area Unesco sarà estesa a tutta la città. La norma sarà inserita nel nuovo Piano urbanistico (quello in vigore scade il 3 giugno 2021) e non potrà ovviamente avere efficacia retroattiva. Pertanto si riassume la situazione relativa ai vari immobili citati nel servizio. Il recupero dell’ex Teatro Nazionale ha ricevuto il nulla osta della Soprintendenza per la realizzazione del centro benessere. Secondo le normative nazionali, i teatri hanno una destinazione d’uso “direzionale”, al pari dei “servizi alla persona” (centri benesseri, spa, etc): pertanto l’amministrazione non ha strumenti per impedire l'eventuale cambio di destinazione d’uso. L’unico soggetto che può impedire tale progetto è la Soprintendenza trattandosi di bene culturale. Nell’ex Teatro comunale verranno realizzate abitazioni e sono stati corrisposti al comune 2 mln di euro da investire in alloggi sociali diversi dall’edilizia residenziale pubblica; anche per Palazzo Portinari la residenza è la destinazione d’uso prevalente e non è previsto alcun albergo. Per quanto riguarda l'ex ospedale militare di via San Gallo, in questo caso, al pari della Caserma Vittorio, la previsione della funzione turistico ricettiva risale al protocollo del 2014 con cui il Ministero della Difesa alienava beni demaniali in stato di abbandono da oltre 20 anni, definendo anche le destinazioni d’uso che avrebbero assunto gli immobili. Il Comune dunque si è trovato a gestire situazioni in cui beni demaniali erano stati venduti a privati, con la previsione di un mix di funzioni dove era prevista anche la destinazione turistico-ricettiva. Nell'unica Caserma di proprietà del Comune di Firenze all'interno del centro storico, la Caserma di Santa Maria Novella, saranno realizzati alloggi su una superficie di 4.000 mq per affitti a canone calmierato per giovani coppie (progetto già deliberato). Nell’ambito del processo di alienazione di beni demaniali militari, l'altra unica Caserma ceduta al Comune è la Caserma Lupi di Toscana: per questo complesso il Comune di Firenze ha attivato un percorso partecipato e un concorso di idee, arrivando a selezionare un progetto vincitore che prevede il 60% di housing sociale. Nel centro storico sono stati realizzati su beni di proprietà comunale (Le Ex Murate) progetti di recupero con un mix di funzioni che prevedono e ospitano attualmente numerosi alloggi di edilizia residenziale pubblica, oltre a caffè letterario, centro arte contemporanea, incubatore imprese innovative, esercizi di vicinato. Altre operazioni recentemente deliberate dalla giunta comunale riporteranno residenze e uffici in immobili storici di pregio del centro storico: l'ultima è di un mese fa nell’ex Palazzo delle Poste dell’Architetto Michelucci. Nel Palazzo Buontalenti, sede della Ex Corte d'Appello, arriverà la Scuola di Alta formazione per dirigenti europei gestito dall'Istituto Universitario Europeo. Si segnala, al proposito, che proprio il trasferimento di funzioni fuori dal centro storico (come Università e Palazzo di Giustizia) è avvenuto a seguito di atti approvati negli anni 80-90 e poi realizzatisi nei primi anni 2000 portando progressivamente a una minore frequentazione del centro storico da parte dei suoi cittadini. Per quanto riguarda il tema dei recuperi urbanistici, a parlare è direttamente il Tar Toscana che ha riconosciuto la legittimità degli interventi rigettando il ricorso di Italia Nostra con queste parole: “Non si può in alcun modo affermare che il Comune abbia dato il via libera ad una indiscriminata operazione di liberalizzazione degli interventi sul patrimonio edilizio del centro storico, esorbitando dai confini (peraltro ampi) della propria discrezionalità”. Il centro storico di Firenze, essendo sito patrimonio dell’Unesco, è anche sottoposto al piano di monitoraggio previsto dall’Unesco. Sia gli esiti della visita ICOMOS del 2017 che il monitoraggio del dicembre 2019) hanno dato risultati positivi con apprezzamento per le azioni promosse per la tutela del sito. Nel report si trovano considerazioni positive anche sul Piano strutturale del Comune di Firenze, in relazione anche al tema della residenza e del centro storico. Firenze, ad esempio, dal 2015 impedisce frazionamenti di immobili al di sotto dei 50 mq (proprio per evitare un eccessivo frazionamento del patrimonio edilizio a servizio solo della rendita immobiliare; Milano come dimensione minima ha 28 mq). Sul tema degli affitti turistici brevi, Firenze è attiva da tempo per chiedere una normativa che regolamenti questo fenomeno a livello nazionale ed europeo. L'iter per la nuova norma nazionale da inserire nel collegato Turismo si è fermato per lo scoppio della pandemia; il Ministero ha però fatto sapere che riprenderà a breve il lavoro sulla regolamentazione degli affitti turistici. Non appena arriverà la norma nazionale Firenze è pronta ad agire per porre dei limiti al proliferare di queste locazioni. A livello europeo, Firenze e Bologna sono le uniche due città italiane presenti al tavolo di Bruxelles delle città europee per chiedere all’Europa un intervento in materia, reso ancora più urgente dopo l'allarme suscitato dalla sentenza della Corte di Giustizia sul primo caso AirBnB. Sul fronte dei controlli, dal 2016 il Comune ha siglato un protocollo con la Guardia di Finanza per svolgere tutti i controlli in materia di locazioni turistiche. In questi giorni, l’amministrazione comunale fiorentina, dopo aver aperto un tavolo con gli host (che hanno adesso gli appartamenti vuoti) e con le associazioni dei proprietari di casa e degli inquilini, sta lavorando ad un “Piano Casa” per garantire gli affitti a lungo termine con un fondo di morosità. Ancora sul tema della tutela del centro storico, Firenze è stato il primo Comune in Italia a bloccare nel 2017 l’apertura di nuovi ristoranti, bar, gelaterie in centro storico (misura impugnata ma con esito favorevole per il Comune), dopo che per effetto della normativa delle liberalizzazioni (normativa nazionale) era esploso il commercio alimentare a danno degli altri tipi di attività (artigianato, esercizi di vicinato, che dopo il blocco sono raddoppiati). Firenze ha per primo approvato una Regolamento per la tutela delle attività storiche, sempre in ottica anti-rendita, e più volte ha chiesto insieme alle altre città una legge speciale a favore delle città d’arte, che però non è mai arrivata.
“SVENDITALIA” Di Giuliano Marrucci.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Con il coronavirus, a Firenze, è arrivata la stagione dei saldi.
GIULIANO MARRUCCI Quindi l'appartamento che mi dicevi sarebbe quello là, giusto?
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Quello là, sì, compreso la terrazza sul lato destro, sopra il tetto, appena sotto l'appartamento vedo il Corridoio Vasariano, quella là è la Galleria degli Uffizi e il palazzo dopo è il museo di Galileo Galilei.
GIULIANO MARRUCCI Cioè in assoluto il miglior appartamento che si affaccia sul Ponte Vecchio.
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Per location sì, un luogo del genere è inestimabile e veramente difficile a trovare.
GIULIANO MARRUCCI Di quanti metri quadrati parliamo?
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE 290 metri quadri.
GIULIANO MARRUCCI Sei mesi fa voi avete più o meno calcolato il prezzo di questo appartamento qui, che era? JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Quattro milioni e mezzo.
GIULIANO MARRUCCI E invece è stato venduto per?
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Due milioni e mezzo.
GIULIANO MARRUCCI E chi l'ha comprato?
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Una coppia di americani.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E più che i giorni passavano, più i prezzi crollavano. A pochi metri dal nostro attico, nel cuore del prestigioso Borgo San Jacopo, c’è la Torre dei Marsili. Risale al XII secolo, ed è impreziosita dAlle splendide terracotte della scuola di Giovanni della Robbia. Una copia all’esterno e, nell’atrio, l’originale.
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE 1 Chiunque acquisisce la porzione di palazzo che è in vendita dovrebbe anche offrire accesso al pubblico.
GIULIANO MARRUCCI Eh, questo da solo è un patrimonio…
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Inestimabile.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO In questo complesso Jeremy sta seguendo la vendita di questo appartamento al pian terreno di oltre 200 metri quadrati, con tanto di decorazioni ottocentesche e un prezioso giardinetto.
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE La stima che avevamo fatto pre-pandemia era di 4 milioni e 350.
GIULIANO MARRUCCI Ed era arrivata qualche offerta?
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Sì, dal Qatar, e ora penso se il proprietario potesse tornare indietro la accetterebbe.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Con l’arrivo della pandemia, le trattative in corso si sono bloccate, e sono arrivati gli squali veri.
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE C’è stata un'offerta molto bassa, quasi il 70 percento meno della richiesta.
GIULIANO MARRUCCI Quindi per voi non era nemmeno da comunicare...
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE No. Giusto per essere trasparenti, l’abbiamo comunicato e il proprietario c'ha comunicato che tutte le offerte saranno considerate.
GIULIANO MARRUCCI Ti era già successa una roba del genere in passato?
JEREMY ONSLOW-MACAULAY – AGENTE IMMOBILIARE Mai, neanche durante la crisi del 2008, 2009.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È l’erosione della memoria e dell’identità del nostro Paese. Una grande spallata era già arrivata nel 2008, con la crisi economica, quando la exit strategy era stata quella di vendere, svendere pezzi del nostro patrimonio, per monetizzare. Ecco, abbiamo trasformato nel tempo le nostre città più prestigiose, i loro centri storici, in supermarket del turismo. Ora invece con la crisi economica provocata dal virus c’è stata un’improvvisa accelerazione. Rischiamo di perdere per sempre i nostri gioielli anche solo per una manciata di spicci.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Antonio, Francesca e Roberto sono tre architetti e urbanisti. L’erosione di pezzi della loro città non l’hanno mai digerita, per questo hanno messo in piedi un osservatorio che da cinque anni monitora le principali operazioni di svendita del patrimonio della città, a partire dall’ex Teatro Nazionale.
GIULIANO MARRUCCI … che per Firenze ha un valore particolare.
FRANCESCA CONTI – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Sì, perché si facevano appunto gli spettacoli in vernacolo di Stenterello, che è la maschera di Firenze. E questa struttura si progetta di trasformarla in un grande centro benessere. Dove ci sarà una piscina al posto della platea.
GIULIANO MARRUCCI E questa è una delle poche operazioni che ha come protagonisti imprenditori italiani.
FRANCESCA CONTI – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Sì, BL Consulting.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO I capitali stranieri puntano a progetti ancora più invasivi ed imponenti, come quello che riguarda l’ex sede della Cassa di Risparmio di Firenze di via Bufalini.
ROBERTO BUDINI GATTAI - LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ È stato comprato da una multinazionale dell’investimento immobiliare, con a capo Tom Barrack, è uno dei principali contributori della campagna elettorale di Trump.
GIULIANO MARRUCCI E la destinazione qua?
ROBERTO BUDINI GATTAI - LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Ben 140 suite.
GIULIANO MARRUCCI Quindi una ristrutturazione veramente massiccia.
ROBERTO BUDINI GATTAI - LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Sì, veramente imponente.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sempre a pochi metri dal Duomo c’è quest’altro imponente cantiere.
GIULIANO MARRUCCI E dietro tutto questo cantiere qua cosa si nasconde?
ANTONIO FIORENTINO – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Si nasconde il palazzo di Beatrice.
GIULIANO MARRUCCI La Beatrice di Dante.
ANTONIO FIORENTINO – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ La Beatrice di Dante.
GIULIANO MARRUCCI E invece a chi è stato venduto?
ANTONIO FIORENTINO – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Al magnate del cemento taiwanese, la LDC.
GIULIANO MARRUCCI E quindi alla fine cosa ci verrà?
ANTONIO FIORENTINO – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Un giornale locale parla di suite da circa 10, 15 mila euro a notte.
GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Questo invece è l’ex convento seicentesco di San Paolino.
GIULIANO MARRUCCI È passato di mano diverse volte.
ROBERTO BUDINI GATTAI – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ È passato di mano, sì.
GIULIANO MARRUCCI E tra tutti questi passaggi ce n’è uno abbastanza clamoroso, del 2003.
ROBERTO BUDINI GATTAI – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ Si passa da un acquisto a 11 milioni e una rivendita due settimane dopo per 14,5 milioni e mezzo, quindi un profitto di 3,5 milioni senza far nulla.
GIULIANO MARRUCCI E invece l’ultimo passaggio risale al 2017.
ROBERTO BUDINI GATTAI – LABORATORIO URBANISTICA PERUNALTRACITTÀ L’ha comprato una società tedesca: Art-Invest Real Estate.