Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Burocrazia Ottusa.

Burocrazia retrograda.

L’abuso d’ufficio: il reato temuto dagli amministratori.

Dipendenti Pubblici. La sciatteria e la furbizia non è reato.

La Trasparenza è un Tabù.

Le province fantasma.

L’Insicurezza. Difendersi da Buoni e Cattivi.

I Disservizi nella viabilità e nei trasporti.

Banda “Ladra”: Gli Sfibrati.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Il Volontariato: tra buoni e cattivi.

Morire di Lavoro.

Morire di Povertà.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

La Disabilità oltre le barriere.

I medici ignoranti danneggiano tutti noi.

I Medici pestati.

La Cattiva Sanità.

La Buona Sanità.

In Montagna si invecchia prima.

Salute: Carcere e Caserma. 

Tumore ed altro: i malati abbandonati senza sussidio.

Alcool e Riflessi.

Medicinali e riflessi.

Le Malattie neurodegenerative.

La resistenza agli antibiotici.

Tumore: scoprirlo in anticipo.

L'anemia.

Tumore allo stomaco.

Il Tumore del Pancreas.

Tumore esofageo.

Prostata e Prostatite.

Tumore della vescica.

Il Cancro al Seno.

Il Cellulare provoca il tumore?

Tumore al Cervello.

Tumori, in Italia sopravvivenza più alta che nel resto d’Europa.

Ecco il santo protettore dei malati di cancro.

L’Amiloidosi.

La Brucellosi.

L’Infarto.

La trombosi venosa.

Sindrome aerotossica: il sistema di areazione degli aerei fa male?

L’encefalomielite mialgica (ME):  sindrome da fatica cronica CFS.

La meningite.

L’emicrania.

I Colpi di Testa.

Cefalea invalidante.

Il Fegato Malato.

Il Colesterolo.

La Sla. Sclerosi laterale amiotrofica.

La Fibromialgia.

L’Epilessia.

La dislessia è anche un business.

Lo stress (fa anche venire i capelli bianchi).

Riposare o dormire?

Il Sonniloquio.

Psoriasi.

L’Herpes Zoster: «Fuoco di Sant’Antonio».

La Mononucleosi: la "malattia del bacio".

L’Autismo.

La sindrome di Asperger.

Tricotillomania, il disturbo ossessivo di strapparsi i capelli.

La Disfunzione Erettile.

L’Infertilità.

Tocofobia, Contraccezione ed Aborto.

La Menopausa.

Le Malattie sessuali.

La Vulvodinia

La sindrome da odore di pesce marcio.

Il Mento sfuggente.

Questione di Lingua…

La Glossofobia.

Gli Integratori.

Gli alimenti salutari.

L’Obesità.

La dieta.

L'Anoressia.

La canizie.

L’Alopecia.

L’Anzianità.

La Frattura del Femore.

La Balbuzie.

L’ittiosi epidermolitica.

La cura tradizionale alternativa.

Ti cura Internet.

Preservare la vista.

Ipoacusia: deficit uditivo.

Le Puzzette.

La puzza e le Ascelle.

La stipsi: La stitichezza.

Le Urine svelatrici.

La Demenza. La Sindrome di Korsakoff.

La distimia e la Depressione.

L’ictus cerebrale.

Mente sana in Corpo sano.

Il cervello è l’ultimo a morire.

La Ludopatia.

Il Mancinismo.

L’Evoluzione del naso.

Benessere e Calzature.

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Fare volontariato e partigianeria. Onori ai cooperanti partigiani. Oneri per la comunità.

Spese di sostentamento delle ONG; spese di riscatto per il rapimento e costi per il rimpatrio del rapito; lesione dell'immagine della società occidentale e propaganda e proselitismo per i terroristi. Giuliana Sgrena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, Silvia Romano. Chissà perché rapiscono quasi sempre solo giovani donne?

Valentina Errante Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 10 ottobre 2020. Sono tornati a casa gli ultimi due ostaggi italiani nelle mani dei terroristi islamici. Provati, magri, ma in buona salute. Erano stati rapiti in Niger due anni fa, in momenti diversi e in situazioni diverse. Ieri hanno raccontato la loro prigionia ai pm Sergio Colaiocco e Francesco Dall'Olio. Padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, silenzioso e riflessivo il primo, espansivo e loquace il secondo. Barbe lunghe, capo coperto da un cappello e la mascherina sul viso. «Abbiamo saputo del Covid da una radio che ci è stata data dai sequestratori», hanno spiegato. Ad accoglierli il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in un aeroporto reso off limits dall'epidemia in corso. Sono stati anni difficili, di paura. «A un certo punto - hanno raccontato ai magistrati - c'è stato un bombardamento con elicotteri e si credeva che fosse un'operazione di liberazione, che ci fossero venuti a prendere. Ma invece era un'altra situazione. La gente scappava». «Anche io sono fuggito - aggiunge Chiacchio - Avevo percorso un bel tratto, ma poi sono stato ripreso».

LE PUNIZIONI. Non sono stati picchiati, ma a volte, per punizione, gli venivano messe le catene ai piedi, oppure li facevano stare scalzi. Come quando è riuscito a fuggire Luca Tacchetto, il padovano tornato libero a marzo dopo 15 mesi di prigionia. «Il momento peggiore è stato proprio quello - raccontano - ci hanno tenuti per alcuni giorni incatenati agli alberi. Ci hanno detto che uno degli ostaggi era stato ucciso, la donna svizzera. Ma non abbiamo saputo se fosse veramente morta». Chiacchio, sequestrato mentre faceva un giro dell'Africa in bicicletta, ha anche tentato di convincere i rapitori: «Ho detto che mi volevo convertire - dice ai pm - ma l'ho fatto perché volevo essere trattato meglio». Ha scelto realmente l'Islam, invece, l'ostaggio francese, la 75enne operatrice umanitaria Sophie Petronin. Dopo 4 anni di prigionia è tornata con il capo coperto e, come Silvia Romano, ha cambiato nome: si chiama Mariam. Ha rischiato la vita per motivi di salute, ma fa progetti per tornare in Mali, per il quale «implora le benedizioni e la misericordia di Allah». Subito dopo la liberazione, i due italiani hanno raccontato di essere stati trasportati in auto per 5 ore fino all'aeroporto. Poi 3 ore di volo verso Bamako, dove sono stati accolti dal presidente del Mali, il colonnello Goita, che, per ottenere la liberazione degli ostaggi, ha rilasciato 180 prigionieri.

LA TRATTATIVA. Le trattative non si sono mai interrotte, in questi due anni sono arrivate diverse prove dell'esistenza in vita degli ostaggi, ma l'annunciata liberazione non avveniva. La svolta è stata politica: oltre alla francese Petronin, infatti, tra i rapiti c'era anche il politico maliano Soumaila Cisse, leader dell'opposizione sequestrato la scorsa primavera alla vigilia delle elezioni. I disordini interni e la recente pronuncia della Corte Costituzionale, che ha ribaltato il risultato elettorale, hanno costretto il presidente a trattare con i sequestratori. Resta ancora sotto sequestro il medico australiano Ken Elliott, la suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti (per la quale stava mediando anche il Vaticano), il cittadino sudafricano Christo Bothma, il romeno Julian Ghergut e la svizzera Beatrice Stockly, che sarebbe stata uccisa durante la detenzione, perché si sarebbe ribellata.

I RAPITORI. «Siamo stati gestiti da tre gruppi, in particolare da Jnim, tutti appartenenti alla galassia jihadista legata ad al Qaeda - è ancora la ricostruzione fatta con i pm - Il primo è stato quello dei pastori fulani, il secondo composto da rapitori di origine araba e il terzo da tuareg. Siamo stati sottoposti a lunghi spostamenti, che duravano giorni, anche su moto e barche, attraversando il Burkina Faso per arrivare fino in Mali. Siamo stati tenuti insieme da marzo del 2019 fino alla liberazione». Il religioso, sacerdote della Società delle Missioni Africane, è stato prelevato intorno alle 23 del 17 settembre 2018. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti sarebbe stato «venduto» da un soggetto che aveva avuto contatti con la missione Bomoanga, a circa 150 km dalla capitale nigerina Niamej. «L'uomo bianco è tornato», la frase recapitata al gruppo di jihadisti, i pastori fulani, che hanno gestito il primo mese di sequestro. «Un gruppo di uomini armati, a bordo di sei moto, ha fatto irruzione all'interno del locale parrocchia e mi ha portato via», ricorda Maccalli. I familiari aspettano ora i due ex ostaggi a casa. «Felicissima» la sorella del missionario (il fratello Walter è pure lui missionario, in Liberia): «Non vedo l'ora di riabbracciarlo», ha detto. La notizia tanto attesa è stata accolta dai rintocchi a festa delle campane dell'intera Diocesi di Crema.

Alice Brignoli, la vedova dell’Isis da Bulciago a Raqqa: «La Siria non era come pensavo». Alice Brignoli: la fuga in Siria con i figli, il marito ucciso, la resa: «Ci portarono via sul carro bestiame». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2020. Più di 3.400 chilometri a tappe forzate su una vecchia macchina attraverso i Balcani, i proiettili dell’esercito turco che fischiano sulle loro teste mentre, trascinandosi dietro i tre figli, passano di notte il confine con la Siria accecati dal sogno dello stato islamico e della guerra all’Occidente, lo stesso che si trasformerà nell’incubo dei campi profughi e del carcere in Italia. Arrestata in Siria per terrorismo internazionale dopo la morte del marito sotto le bombe, trasportata in Italia Alice Brignoli racconta 5 anni di vita e guerra nel Califfato ai pm milanesi Francesco Cajani e Alberto Nobili che la interrogano per la prima volta. La donna, 42 anni, ha lasciato Bulciago (Lecco) il 21 febbraio 2015con il marito disoccupato e i loro tre bambini (allora di 6, 4 e 2 anni) ai quali se ne aggiungerà un quarto nato in Siria. Ammette di aver condiviso le idee integraliste del marito Mohamed Koraichi. «Mi disse che voleva partire per la Siria per rispondere all’appello di al Bagdadi (giugno 2014, ndr.) di recarsi nei territori del proclamato Califfato», dichiara rispondendo alle domande dei magistrati assistita dall’avvocato Carlotta Griffini. Si era radicalizzato sul web, dice. «Abbiamo preso quello che c’era in casa», e sono partiti su una vecchia Citroen Xara con i tre bambini e la spesa fatta al supermercato. I Carabinieri del Ros seguiranno le loro tracce in Bulgaria e in Turchia fino a pochi chilometri dal confine con la parte della Siria allora in mano all’Isis. Lì il marito incontra un uomo che «fa da intermediario con quelli dell’Isis». Fornite le credenziali di jihadista avute chissà come, ottiene l’autorizzazione ad entrare nel Califfato.

L’attraversamento del confine. «Arrivarono due persone con una macchina. Mio marito mi disse di prendere solo lo stretto necessario, anche perché dovevamo camminare. Era notte e ci lasciarono a 20 minuti circa (dal confine, ndr). C’erano ad aspettare anche altre cinque famiglie con figli piccoli come i nostri e donne, se ben ricordo, francesi dal loro accento». Il gruppo si avvia a piedi per un difficile cammino di due ore. «Dovevamo stare attenti, c’erano i controlli dell’esercito turco». Fino al confine. «Abbiamo tagliato un filo spinato e abbiamo sentito degli spari, nessuno è rimasto ferito». Ancora a piedi finché non li recupera un pulmino che li porta a Tel Abiab da dove andranno a Raqqa, sede del quartier generale Isis, e da lì a Resafa dove Mohamed verrà addestrato alle armi e indottrinato ulteriormente.

Vita quotidiana nei territori dell’Isis. Qual era la vostra vita, chiedono i pm. «All’inizio era tranquilla a Raqqa, io a casa con i figli che andavano a scuola». Condivideva le scelte del marito. «Sapevo che se si cresceva in quell’ambiente anche per i miei figli, con il tempo, sarebbe arrivato il momento dell’addestramento: ne ero consapevole e concordavo anche su questo». Mohamed viene incorporato in un battaglione. «Per tre volte nel primo anno non ha partecipato a combattimenti veri ma solo ad azioni militari come supporto logistico», dichiara Alice provando a confutare l’accusa di aver supportato un uomo agli ordini dell’Isis, che ha partecipato ad «azioni violente». Anzi, dice, Mohamed lascia il battaglione «perdendo il sussidio, meno di 100 dollari al mese, che riceveva dallo Stato». Per riaverlo si arruola in un reparto che ripara mezzi militari.

La decisione di consegnarsi. Con l’avanzare dei curdi sul suolo siriano la situazione precipita: «Ci siamo spostati a Medine (così la cita, ndr) perché a Raqqa era iniziato l’attacco militare. Mio marito aveva forse capito che qualcosa stava cambiando in senso militare e che era oramai impossibile ritornare a casa. Abbiamo passato un altro anno e mezzo in questa situazione e poi anche Medine è stata attaccata». La ritirata dell’Isis in rotta li trascina in un’altra area dove «mio marito è stato ferito alla testa da un pezzo di bomba». Il verbale non mitiga il senso di sconfitta. «Appena iniziata la tregua abbiamo deciso di consegnarci (...). Arrivarono camion bestiame per portarci via e consegnarci al campo» di al-Hawl, Nord della Siria. Era il 21 marzo 2019. «A giugno c’è stato un nuovo controllo e sono stata incarcerata per due mesi e dieci giorni, sempre insieme ai miei figli e con altre donne e bambini. Alla fine siamo stati trasferiti in un altro campo».

Mattarella “in apprensione” per Silvia Romano. Ecco cosa sappiamo del suo rapimento. Alessandro Barcella su Le Iene News il 07 febbraio 2020. La giovane cooperante milanese è stata rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e da allora di lei non si sa più nulla. Il presidente della Repubblica: “Siamo in apprensione, il nostro pensiero si unisce al costante impegno per liberarla”. Iene.it ha pubblicato testimonianze esclusive e documenti che raccontano di un rapimento forse legato a una denuncia per pedofilia che Silvia aveva presentato 9 giorni prima di essere sequestrata. "Desidero ribadire l'apprensione per le sorti di Silvia Romano, la giovane rapita in Kenya mentre svolgeva la sua opera generosa di solidarietà e di pace". Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto questa mattina alla cerimonia per "Padova capitale europea del volontariato", ha ricordato la giovane milanese misteriosamente rapita a 23 anni in Kenya il 20 novembre del 2018 di cui non si sa più nulla. "Non può mancare per lei il nostro pensiero che si unisce al costante impegno delle istituzioni per la liberazione". Della 24enne Silvia Romano, che faceva la volontaria per la onlus marchigiana “Africa Milele”, non si hanno più notizie da quando un commando di uomini armati l’ha rapita nel piccolo villaggio di Chakama. Qualche mese fa è iniziato a Malindi il processo a carico dei due indiziati, Moses Luari Chende e Abdulla Gababa Wari, di origine somala. Proprio di un possibile rapimento a opera di estremisti somali si è parlato negli ultimi tempi, anche se l’ipotesi che la ragazza sia in mano ai miliziani islamici di Al Shabaab appare poco probabile. Silvia Romano è ancora viva e nelle mani dei suoi rapitori? È stata venduta a qualcun altro? È difficile riuscire a dare una risposta certa in un caso in cui, da oltre un anno, non si hanno che voci spesso incontrollate e infondate. Noi torniamo sugli elementi e le testimonianze esclusive che Iene.it ha raccolto con le sue inchieste. Inchieste che erano finite anche sui banchi del Parlamento e che erano partite dall’indiscrezione di un rapimento forse collegato a una denuncia fatta dalla ragazza milanese contro atti di pedofilia, appena 9 giorni prima della sua sparizione. Vi avevamo fatto ascoltare la testimonianza esclusiva di uno dei due volontari italiani che avrebbero accompagnato Silvia a fare la denuncia contro un prete keniota: “C’era questa struttura affittata da Africa Milele, erano alcune stanze, noi dormivano lì. La stanza di questo prete era a tre metri dalla nostra, nello stesso nostro complesso, la Guest House. Abbiamo visto palpeggiamenti, strusciamenti, cose assolutamente non consone per nessuno, soprattutto per un prete. All’inizio me ne sono accorto solo io, e poi l’ho detto a Silvia e all’altra volontaria, e siamo stati tutti più attenti. Abbiamo visto le ragazzine che entravano nella stanza di quest’uomo e ci stavano pochissimo, due, tre, cinque minuti. Non so fino a che punto arrivasse, però atti pedofili c’erano eccome. Vedere certe cose e rimanere fermo… Io sono arrivato al punto di dire: ‘Facciamo qualcosa in fretta o io da qui me ne vado!’” Il volontario, che aveva raccontato di non essere mai stato sentito dagli inquirenti italiani, aveva aggiunto alcuni dettagli su quella denuncia: “È stata fatta a nome di Silvia, firmata e presentata. Avevamo fatto il nome di quel prete e c’era anche un mandato d’arresto per lui… L’11 novembre, nove giorni prima che Silvia venisse rapita, facciamo questa denuncia e subito dopo torniamo a Chakama. Il prete però non c’era più, tutto era finito in una bolla di sapone”. Un racconto poi confermato, sempre a Iene.it, anche da Lilian Sora, presidente della Onlus per cui Silvia Romano lavorava: “A Chakama sono arrivati Silvia e gli altri due volontari. Nella casa dove ci siamo noi, ci sono altre camere. Di solito insieme a noi ci sono gli insegnanti della scuola secondaria che affittano altre due stanze. Quando i ragazzi sono arrivati, nella stanza numero 1 c’era un altro signore, che noi non conoscevamo, quello che chiamavano 'father'. I ragazzi si sono accorti di alcuni atteggiamenti di questa persona, e cioè hanno raccontato che faceva entrare nella sua camera, con la porta aperta, delle bambine attorno ai 10 anni. Ho chiesto subito a Silvia di confrontarsi con Joseph, il mio compagno di etnia Masai che è sul luogo, perché è il referente africano di Africa Milele. Joseph si è preoccupato e ha parlato subito con il padrone della guest house, un uomo che noi chiamiamo il boss. Lui ci ha spiegato che questo prete era un pastore anglicano. Lì in Kenya il fatto che sia un prete mette fine ad ogni discussione, soprattutto se si parla di pedofilia, una cosa che dunque è da escludere a priori. Il boss ci ha detto che il 'father' sarebbe andato via nel giro di un  paio di giorni, e che era lì come commissario d’esame per la scuola primaria, perché era un prete ma anche un insegnante. Il boss ci ha detto che le bambine andavano in stanza da lui a fare catechismo, a pregare. Il giorno dopo i miei ragazzi hanno ripreso a dirmi che il prete aveva atteggiamenti non adeguati, e che loro avevano fatto in modo che le bimbe non entrassero. Il 'father' però usciva dalla stanza e stava con loro, sfiorandole. Era però difficile capire quanto i miei volontari si fossero lasciati prendere e quanto invece fosse vero. Non è facile andare a dire che c’è un pedofilo!” Lilian Sora, su quella denuncia per pedofilia, aveva anche aggiunto un dettaglio che sembrerebbe gettare un’ombra sulle modalità d’indagine degli inquirenti kenioti. “I ragazzi sono usciti dalla centrale di polizia di Malindi con in mano un mandato di arresto per il ‘father’. I ragazzi avrebbero dovuto portare quel mandato il giorno dopo alla polizia di Langobaya, che è referente per il villaggio di Chakama. Insieme a loro sarebbe dovuta partire una poliziotta per andare a sentire le presunte vittime a Chakama. A Langobaya la polizia ha chiesto ai tre volontari 30 euro per pagare la benzina per le loro moto che dovevano andare a Chakama… Mi sono confrontata telefonicamente con i volontari e abbiamo detto: ‘ci pensiamo, ma anche no’. E allora il mandato d’arresto per il prete presunto pedofilo è rimasto in mano alla polizia di Langobaya”. E così la polizia, davanti a quel rifiuto dei 30 euro, non sarebbe partita per andare a cercare il prete. Vi avevamo anche raccontato di un italiano che forse si nascondeva dietro l’identità di uno sciacallo che aveva chiesto il riscatto per la giovane, pochi giorni dopo la sua sparizione. Uno sciacallo di cui sempre Lilian Sora aveva spiegato:  “Da sei mesi questa persona manda email: la prima è arrivata il giorno dopo il rapimento e la seconda il 25 novembre. Io ci ho parlato, mi ha chiamato una mattina da un numero americano dello stato dell’Illinois, penso uno di quei numeri che si comprano su Internet. Si è presentato come Yusuf Aden: è una persona non giovane, direi di mezza età. Dal suo inglese e dal modo di parlare credo che sia un keniano, però noi pensiamo che dietro di lui ci sia un italiano". E aveva aggiunto: “Questa persona scrive da un'email fornita da un provider svizzero, che non consente di risalire all’indirizzo Ip di provenienza e dunque di essere localizzato. Un provider altamente criptato, che neanche i i Ros dei Carabinieri sarebbero riusciti a identificare. Negli ultimi messaggi poi questa persona sta scrivendo che io me ne sarei fregata…”. Infine, se non ce ne fossero già abbastanza, c’è il mistero sulla cauzione pagata da uno degli arrestati. Si tratta di circa 25mila euro regolarmente versati da uno dei presunti componenti del commando di rapitori, un uomo che però proviene da una famiglia di poverissime origini. Qualcuno ha pagato la cauzione per tenere l’uomo lontano dai riflettori e per assicurarsi il silenzio sulla sorte di Silvia Romano?

Troppi misteri nel rapimento di Silvia Romano? Le Iene News l'1 dicembre 2020. Con Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera, analizziamo le troppe cose che sembrano non tornare nella vicenda del sequestro di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano sulla vicenda di Silvia Romano, la cooperante milanese sequestrata in Kenya il 20 novembre del 2018 e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia l’8 maggio del 2020. Una vicenda che ha letteralmente diviso l’opinione pubblica e sulla quale sembrano ancora tante le cose che non tornano. Incontriamo Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera, consulente delle Nazioni Unite incaricato di investigare sul traffico d'armi in Somalia e oggi direttore della testata online Africa-Express sulla quale continua a pubblicare le sue inchieste. “Io ho cercato di capire cosa stesse succedendo…”, racconta Alberizzi, che per lunghi mesi è stato sul campo, in Kenya, per cercare di sciogliere alcuni di questi misteri. “Non conveniva liberare Silvia Romano. L’Italia non aveva nessun interesse a liberarla in fretta…”, esordisce il giornalista. Sono tante le cose che dobbiamo chiederci a proposito del rapimento di Silvia Romano: Silvia poteva essere liberata prima? È stato fatto tutto il possibile per portarla presto a casa? Dove sono stati, se ci sono stati, gli errori? Partiamo dalla cronaca: è il 20 novembre del 2018 quando verso le sette di sera un gruppo di uomini armati con fucili e machete piomba nel villaggio di Chakama, dove Silvia vive e lavora come cooperante e dopo avere aperto il fuoco per spaventare i presenti, la preleva con la forza per poi scappare a piedi scomparendo nella foresta. Dopo il rapimento un gruppo di ranger della zona si mette sulle tracce del commando e, seguendo le urla della ragazza, arriva fino al fiume Galana dove sulla sponda opposta vede Silvia insieme ai suoi rapitori. Massimo Alberizzi racconta che un ranger “aveva individuato il bivacco, chiama con la radio dicendo "possiamo arrivare, l’abbiamo trovata!, e rispondono "no, aspettate i rinforzi…”. Insomma Silvia sarebbe stata lì, davanti a loro,  ma dai piani alti sarebbe arrivato il primo stop. “Li lasciano praticamente andare, questi scompaiono…”,  aggiunge Alberizzi. E così la prima occasione buona per togliere Silvia dalle mani dei suoi aguzzini svanisce insieme a loro. La polizia keniota fa partire delle ricerche serratissime con gli elicotteri che iniziano a sorvolare la zona del rapimento da una parte all’altra del fiume. Vengono interrogate molte persone, ne vengono arrestate altrettante per poi scoprire che Silvia è in mano a tre dei rapitori che puntano verso nord, dritti al cuore della foresta.

“Boni Forest è al confine tra Kenya e Somalia, dove non ci va neanche la polizia… È un covo di Al Shabaab”, racconta ancora Alberizzi. Stiamo parlando della cellula somala di Al Qaeda, gli stessi che qualche anno prima del rapimento di Silvia erano entrati in un campus dell’università di Garissa in Kenya, e avevano trucidato 147 ragazzi a sangue freddo.  È anche per questo che inizialmente si pensa ad un rapimento con finalità terroristiche piuttosto che per un semplice riscatto. Una cosa che però a Massimo non torna…“No perché in questi casi, li ho visti, ammazzano prima tutti, anche perché ci sono i testimoni quindi è meglio togliere di mezzo i testimoni, invece qui, mi ha sempre dato l’idea che fosse una banda armata…”. E in effetti, stando ai racconti dei testimoni, i rapitori avrebbero sparato in aria, ferendo delle persone ma casualmente. E, come ha raccontato alla tv un testimone, parlando del dialogo tra i rapitori e Silvia, “le chiedevano i soldi, vogliamo i soldi, vogliamo i soldi non ti faremo del male”. La polizia a distanza di una settimana dal rapimento pubblica le foto di 3 uomini mettendo sulla loro testa una taglia da un milione di scellini. “È ridicolo, sono 7mila euro”, spiega ancora Alberizzi, “non puoi dare due anni di stipendio ad uno che rischia di fuggire tutta la vita perché si trova tra due fuochi”. D’informazioni infatti ne arrivano ben poche ma nonostante questo i rapitori sembrano sentire il fiato sul collo… “Stanno facendo molti errori”, ha detto il capo della polizia locale al Corriere della Sera. Ma a un certo punto, stando sempre alle scoperte di Massimo Alberizzi, per la seconda volta si intravede un barlume di speranza. “C’è uno che viene chiamato come scout dai ranger, trova i rapitori con Silvia febbricitante. Cosa fa lo scout? Va in un villaggio dove c’è un presidio dell’esercito e dove sono tra le altre cose ospitati i servizi italiani. Arriva lì e dice ‘ragazzi io li ho trovati ma ho bisogno assolutamente di antibiotici’. Invece di dargli gli antibiotici e magari seguirlo, i kenyoti arrestano lo scout…”. Una decisione ancora una volta inspiegabile, che non farebbe altro che dare un ennesimo vantaggio ai rapitori di Silvia. “Come son scappati la prima volta quando sono stati bloccati riscappano un seconda volta, probabilmente a quel punto trovano rifugio in Somalia”. Alberizzi sostiene: “Secondo i comunicati ufficiali tra la nostra intelligence e il governo kenyota c’era grandissima collaborazione. Questa cosa mi ha insospettito perché sul campo non li vedevo…” Massimo racconta di essere andato a Chakama in agosto e di avere chiesto se qualche italiano fosse arrivato lì, ma gli avrebbero detto che era venuto solo il console il giorno dopo il rapimento e più nessun altro. Non sappiamo se sia vera questa circostanza, certo magari la nostra intelligence si stava muovendo cercando di non dare nell’occhio… Qualcosa però succede, perché verso gli inizi di dicembre vengono arrestate 3 persone. Il primo è Ibrahim Omar, considerato dalle autorità kenyote capo del commando armato che ha rapito la giovane Silvia a Chakama e che viene trovato in un rifugio, riconducibile ai terroristi di Al Shabaab, assieme a parecchie munizioni e a un kalashnikov. “Un altro è noto per essere il bracconiere della zona e quindi era già stato arrestato più volte”, spiega ancora il giornalista italiano. “Il terzo era un poveraccio che viene arruolato come manovalanza e non ha voce in capitolo”. Di Silvia però neppure l'ombra e tra gli investigatori kenyoti si fa sempre più insistente il pensiero che alla fine la ragazza sia stata ceduta davvero ai terroristi somali che stanno per attraversare il confine verso il loro paese. A questo punto succede l’ennesimo colpo di scena, che riguarda un aspetto della storia che non è mai stato chiarito fino in fondo. Emerge da un documento esclusivo degli inquirenti kenioti, che Massimo pubblica sul suo sito e che recita: “rapimento al fine di richiedere un riscatto all’ambasciata italiana per riscatto chiesti all’ambasciata italiana come unica condizione per il rilascio”. Una circostanza che dopo la liberazione della ragazza, verrà smentita a gran voce dall’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che dice: “È legittimo farsi domande, a me non risultano riscatti altrimenti dovrei dirlo”. La cosa certa però è che dopo gli arresti dei 3 rapitori il riserbo che cala sulla questione Silvia Romano diventa assordante. Nessuno parla più, né dal Kenya né tanto meno dall’Italia. Gli unici aggiornamenti infatti arrivano proprio dai pochissimi giornalisti italiani che sono sul posto e che seguono udienza dopo udienza il processo che si apre nei confronti dei 3 arrestati. Un processo dal quale saltavano fuori altre stranezze, perché per esempio dopo le prime udienze, come ci dice Massimo, “i signori vengono rilasciati su cauzione… il poveraccio non ha i soldi quindi resta in galera”. A essere liberati su cauzione sono Moses Chende, che versa la cifra molto alta, almeno in Kenya, di 25 mila euro, e Ibrahim Omar il più pericoloso della banda, quello trovato con munizioni e kalashnikov, per il quale la cauzione viene pagata misteriosamente. Pagata, come spiega ancora Alberizzi, “da un sarto che guadagna due lire…”. È infatti una circostanza incredibile se pensiamo che lo stipendio medio in quelle zone del Kenya è di circa 70 euro al mese. Nonostante questo, un perfetto sconosciuto che sostiene essere amico del rapitore mette in pegno la bellezza di 26 mila euro per farlo uscire di galera…. “E l’uomo dopo essere stato scarcerato scompare”, aggiunge il giornalista italiano. Il processo, seppur senza uno degli indagati più importanti continua, i due rapitori che non sono fuggiti collaborano ma poco tempo dopo accade che sia la procuratrice che un capo della polizia vengono trasferiti.. “A pensare male si va all’inferno ma ci si azzecca”, dice ancora Alberizzi. Insomma, l’impressione è che qualcosa, soprattutto nei primi mesi sia andato come non doveva, troppe sono le coincidenze e altrettanti i misteri che, a oggi, restano tali e quali. Il resto della storia lo conosciamo tutti: la ragazza viene liberata grazie a un'operazione congiunta tra i nostri servizi segreti e le forze speciali turche che la recuperano in un villaggio a pochi km da Mogadiscio e il 10 maggio del 2020 Silva tocca il suolo italiano dove può finalmente riabbracciare la sua famiglia. Da quel giorno di questa storia se n’è parlato pochissimo e nessuno ha veramente capito come siano andate le cose. Noi però una strada potremmo averla trovata. E se lo stop alle ricerche fosse arrivato direttamente dall’Italia? Massimo trova questa ipotesi possibile e allora gli chiediamo di riconoscere delle persone in una fotografia e il giornalista, visibilmente turbato, dice: “Ragazzi se questa cosa è vera è una bomba”…Che cosa abbiamo scoperto? Ve lo racconteremo nel corso della prossima puntata di questa nostra inchiesta sui troppi misteri nel rapimento della cooperante italiana Silvia Romano.

Silvia Romano poteva essere liberata prima? Le dichiarazioni shock di un testimone a Le Iene. Le Iene News il 2 dicembre 2020. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli raccolgono la testimonianza di una persona che sostiene di aver partecipato alle ricerche di Silvia Romano, rapita in Kenya  e liberata in Somalia dopo oltre 500 giorni di prigionia. “Poteva essere liberata prima, un mio contatto sapeva al 90% dove si trovava”. Non perdetevi il servizio giovedì dalle 21.10 su Italia1  Silvia Romano poteva essere liberata prima? Ci sono state interferenze nelle sue ricerche? Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli, nel servizio in onda domani sera a Le Iene su Italia 1, tornano sul rapimento di Silvia Romano, dopo avervi raccontato nel servizio di martedì i tanti misteri di questa vicenda. Lo fanno raccogliendo le dichiarazioni esclusive e inedite di un testimone, che sostiene di aver preso parte alle ricerche della giovane milanese rapita in Kenya il 20 novembre del 2018 e liberata in Somalia l’8 maggio 2020. Si tratta di un uomo che dice di conoscere molti dettagli sulla vicenda e che per la prima volta racconta la trattativa che c’è stata per la liberazione della Romano, fornendo anche dettagli sul riscatto richiesto dai suoi rapitori. Un racconto con contenuti clamorosi che, se fosse confermato, darebbe una lettura alternativa rispetto a ciò che fino ad oggi è stato detto su questo sequestro.  Il servizio, attraverso le clamorose dichiarazioni di questa persona, se confermate, potrebbe dare una versione dei fatti alternativa, cercando di dissipare la coltre di dubbi e misteri che, fin dai primi giorni del rapimento, sembrano accompagnare gli accadimenti. La iena intervista la persona che avrebbe partecipato alle ricerche della cooperante milanese, che racconta alcuni elementi molto interessanti.

Iena: “Silvia Romano poteva essere liberata prima?” 

Testimone: “Sì, ne sono sicuro”.

Iena: “Cos’è successo nei primi mesi successivi al suo rapimento?”.

Testimone: “C’erano troppe interferenze sul campo, chi doveva scegliere non poteva farlo con serenità perché aveva troppe proposte da troppe angolazioni”.

Iena: “Come mai da un certo punto in poi di questa storia non se ne è più parlato?”. 

Testimone: “Bisognerebbe chiederlo a chi effettivamente stava cercando Silvia”.

(…)

Testimone: “Se sapevo dove era tenuta nascosta Silvia Romano? Sì, avevo un contatto nella foresta che mi avrebbe dato questa informazione”.

Iena: “Quanto eri certo di questa informazione”.

Testimone: “Al 90 percento. Perché non si arriva al dunque (liberazione dell’ostaggio, ndr.)? C’erano interferenze da tutte le parti, chi doveva prendere una decisione non ha potuto farlo con tranquillità. Per la libertà di un ostaggio tutto è possibile, il “come” è un altro discorso”.

Silvia Romano poteva essere liberata molto prima? Le Iene News il 3 dicembre 2020. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli raccontano un retroscena sul rapimento di Silvia Romano che se fosse vero sarebbe clamoroso e gravissimo: qualcuno dall’Italia ha frenato la sua liberazione per intascarsi parte dei soldi stanziati per il riscatto? Dopo avervi raccontato dei troppi misteri nella vicenda del rapimento di Silvia Romano, la volontaria milanese tenuta in ostaggio per 535 giorni tra il Kenya, dove è stata sequestrata e la Somalia, dove invece, è stata liberata, vi mostriamo alcune testimonianze e documenti che, se confermati sarebbero davvero clamorosi. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli lo fanno intervistando un uomo, che per oltre un decennio ha vissuto e lavorato nelle zone dove è avvenuto il rapimento di Silvia. Un uomo che, il giorno dopo il suo sequestro della ragazza, riceve una chiamata molto particolare. Dall’altra parte della cornetta c’è una persona, che chiameremo “il funzionario”, che dice di essere stato autorizzato a trattare per la sua liberazione e di essere interessato a utilizzare i contatti che Stefano ha nel paese africano. Poi il funzionario butta lì una strana storia, che non abbiamo ovviamente modo di verificare: Silvia avrebbe avuto un gps inserito nell’orecchino, un microchip che poteva essere monitorato tra l’altro da un sistema satellitare, chiamato Telespazio, in uso anche alla nostra difesa. Un’ipotesi che ci sembra poco credibile e che fa calare drasticamente la credibilità del “funzionario”. Decidiamo quindi di approfondire le ricerche su di lui. Partiamo dal nome e cognome con il quale si è presentato. Sul web scopriamo il volto dell’uomo e troviamo diverse immagini di repertorio, che lo ritraggono in occasione di altri rapimenti di connazionali, accanto ad esponenti politici di alto rango. Dobbiamo però essere sicuri che quella voce sia davvero la sua quindi troviamo il modo di farci chiamare e, con una scusa, lo teniamo al telefono per qualche minuto, registrando la sua voce che porteremo in un laboratorio di periti fonici che da oltre 30 anni effettua perizie vocali per vari tribunali e procure d’Italia. L’analisi forense parla chiaro, il perito ci dice: “Diciamo che è molto probabile che sia lui…”. Cioè la stessa persona in entrambe le chiamate. Il contatto tra il nostro testimone e il funzionario prosegue. Il 24 novembre 2018, 96 ore dopo il sequestro di Silvia Romano, l'uomo riceve una nuova chiamata da parte del funzionario, che però non fa più riferimento alla storia dell’orecchino ma dà appuntamento in un luogo vicino Roma, nel quale si sarebbe presentato anche un capitano del Ros, ovvero il reparto operativo speciale dei carabinieri, l'unico organo investigativo dell'Arma che ha competenza sia sulla criminalità organizzata che sul terrorismo. Un uomo, racconta Stefano, con il quale il funzionario avrebbe dovuto organizzare la liberazione di Silvia Romano. Le circostanze sembrano tornare, perché proprio nei giorni seguenti i telegiornali raccontano l’arrivo in Kenya degli uomini del Ros e non solo: l’incontro tra Stefano, il funzionario e un capitano del Ros avviene il 24 novembre 2018, lo stesso giorno in cui la polizia keniota pubblica le foto dei 3 principali ricercati mettendo sulla loro testa una taglia da 1 milione di scellini ciascuno. Ma a quel punto però accade una cosa davvero strana: la taglia per i tre ricercati viene aumentata da 1 a 3 milioni di scellini per ciascuno. Una circostanza davvero strana: se come aveva detto il funzionario e la stessa polizia keniota si era ad un passo dalla liberazione di Silvia, perché allora offrire più soldi per trovarla? Una chiave di lettura per questo controsenso, in parte, la riceve proprio Stefano, quando 4 giorni dopo riceve un messaggio dal funzionario, che fa riferimento proprio a quella strana decisione. “Sono stato costretto ad accettare le idee di altre persone. Altri brillanti consiglieri hanno ritenuto opportuno aumentare le taglie a 3 milioni…In questi casi obbedisco…” Pare di capire dunque che secondo il funzionario la richiesta di aumentare le taglie sui tre ricercati sarebbe partita direttamente dall’Italia su consiglio di alcuni “brillanti consiglieri”, dei quali però ovviamente non si fa alcun nome. Il messaggio continua e il funzionario sembra scocciato dalla piega che stanno prendendo le cose. I suoi vertici, sostiene, avrebbero accettato di tentare una liberazione seguendo la strada proposta lui ma qualcuno sarebbe intervenuto. “Anche se ***** aveva accettato di buon gusto la mia ipotesi dopo una riunione con  gli altri... ha cambiato parere in quanto si è dovuto allineare con le volontà degli... a che hanno ritenuto mettere in campo AISE”. Vale a dire i servizi segreti italiani che si occupano di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero. Il funzionario, che da quel che ci risulta non farebbe parte dell’organigramma del Ros, ribadisce di essere lì come “ufficiale pagatore”. Insomma, stando a ciò che scrive funzionario, 8 giorni dopo il rapimento di Silvia, in Italia succede qualcosa, ovvero che vengono messi più soldi sul piatto delle taglie e contemporaneamente sarebbero entrati in gioco i nostri servizi segreti esterni. I messaggi però vanno avanti e lui con Stefano si dimostra contrariato, perché convinto che con i contatti di Stefano sul territorio keniota si sarebbe potuti arrivare a Silvia pagando le informazioni il giusto, senza buttare via soldi. Soldi che invece, come lui stesso scrive servirebbero in realtà ad altro  “come già capitato in altre circostanze non escludo qualcuno che se ne torna  a pancia piena”. Vuole forse dire che c’è il rischio che qualcuno si possa intascare una parte di quei soldi messi in campo per la liberazione di Silvia? Stefano dice a Matteo Viviani: “Così è la sua supposizione, qualcuno avrebbe approfittato di questo movimenti di denari”. Un qualcuno all’interno del territorio italiano, è evidente da quello che scrive”. Ma è davvero possibile che gli interessi economici di qualcuno possano aver influito sul salvataggio di Silvia? Dopo qualche giorno, siamo arrivati al 4 dicembre 2018, il funzionario torna a farsi sentire, dando a Stefano alcuni particolari riguardanti, con molta probabilità, l’ennesima e imminente operazione per la liberazione di Silvia. “Il contatto col capo della polizia penetra nella foresta, ci danno la certezza..” La voce è più tranquilla rispetto alle altre volte, anche se ad un certo punto dice di volersi prendere 4 giorni di riposo, di averne bisogno, che tanto “la ragazza sta in buone mani”. E aggiunge: “A livello di coscienza era da intervenire subito per farle passare qualche notte in meno in mano a quella gente… però caro Stefano pensiamo pure ai cazzi nostri…” Ciò che sostiene Stefano è che quella frase, “la ragazza sta in buone mani “, non vada intesa come “sappiamo dov’è ma aspettiamo a liberarla”, bensì come un “sappiamo che è viva e abbiamo avuto un contatto con i sequestratori”. Il funzionario comunque sembra essere in procinto di organizzare l’ennesima partenza verso l’Africa tanto che chiede a Stefano di rispolverare i suoi contatti in loco. La sua speranza è che, tramite un gancio di Stefano in Kenya, si potesse individuare la zona dove tenevano nascosta Silvia, cercando nello stesso tempo di aprire un canale di comunicazione con i rapitori. Ma considerando che il funzionario gli aveva appena detto di sapere che “Silvia era in buone mani” non si capisce davvero perché l’uomo avesse bisogno di un’ulteriore possibilità di individuarla. Stefano chiede però al funzionario che la polizia kenyota non  faccia “cretinate”, cioè non mandi a  rotoli in qualche modo tutto questo intenso lavoro sottotraccia e allora lui ribadisce di avere tutto sotto controllo. E ad una domanda precisa di Stefano su chi lui sia, fa capire di non appartenere all’Arma dei Carabinieri. “lasciali perdere”. E poi aggiunge: “io sono della parrocchia numero 1”. Che avrà voluto significare? Il funzionario dice a Stefano “non le abbiamo provate tutte”, facendo forse intendere di avere le mani legate, come se qualcuno o qualcosa ostacoli il suo lavoro. Stefano parla a Matteo Viviani di possibili interferenze da parte della polizia keniota, e del fatto di essere in grado di portare il funzionario direttamente al capo della polizia del paese africano. Qualche giorno dopo, siamo al 10 dicembre, un blogger keniota pubblica per primo una notizia dirompente: l’arresto di uno dei presunti rapitori di Silvia Romano. E quella stessa sera il funzionario scrive a Stefano una mail molto importante, che probabilmente segna un punto cruciale nella vicenda. “Esco adesso da una riunione ai limiti della diplomazia, così come si usa dire, la notte dei Lunghi coltelli. Ritengo corretto e doveroso aggiornarti su quanto è scaturito da questo incontro .. Vista la situazione che si è venuta a UVB creare su richiesta del …..  e di qualche suo collega pur di evitare imbarazzanti situazioni. Ho convenuto una collaborazione con Aise…” L’Aise in realtà sarebbe stata già in campo ma il funzionario aveva proseguito il suo lavoro indipendentemente. Motivo per il quale Stefano intanto continua a raccogliere le informazioni per lui e poco dopo gli fa sapere che Silvia sarebbe “rapata” e con una “gamba gonfia”. Un particolare questo che solo Silvia e chi l’ha sequestrata potrebbero confermare ma che da quanto ci risulta non verrà citato su nessuna fonte di stampa fino a Marzo 2019, cioè 3 mesi dopo il messaggio di Stefano. Deve essere chiaro che questa è la versione dei fatti di Stefano ma è anche vero che i messaggi tra i due, dopo quella famosa mail dove si ribadisce l’entrata in gioco dei nostri Servizi Segreti Esterni, prendono una piega abbastanza particolare… Il funzionario gli scrive un messaggio in lingua swahili, la lingua nazionale del Kenya, in cui dice: “Quando c’è il rumore dei soldi tutto tace”. Che voleva intendere? Erano forse tutti in attesa del pagamento del riscatto? In quel momento sul campo a seguire le tracce di Silvia c’erano i nostri servizi segreti esterni, c’era il ROS dei Carabinieri, la nostra magistratura, la diplomazia, l’esercito Keniota, la polizia e le guardie forestali. Insomma, come Stefano scrive al funzionario: “troppi a parlare”  - “Nel pollaio solo un gallo ci deve stare”. L’uomo chiede a Stefano un piacere: “Io avrei necessità di riuscire a parlare di nuovo personalmente col vicepresidente…” La voce del funzionario in questa telefonata è molto decisa, sembra ci siano dei problemi, e ha bisogno di un incontro con i piani alti kenioti. Stefano spiega: “Io quello che so è che c’erano parecchie interferenze da parte delle forze di polizia keniote”. Secondo lui infatti, il sistema di pagamento delle informazioni che fino a quel punto si era utilizzato sarebbe andato fuori controllo. Stefano dice: “Considera che anche le persone in Kenya avevano il loro vantaggio economico… derivante da informazioni, gestione, logistica, e quindi avevano interesse che questa cosa andasse un po’ prolungata nel tempo. Questo è quello che posso pensare io...Lo penso perché è la storia del mondo non l’unico caso dove gli interessi economici hanno prevalso su tante altre situazioni”. Insomma il problema potrebbe essere stato questo cortocircuito pazzesco, che se fosse vero avrebbe lasciato Silvia Romano nelle mani dei rapitori molto più del dovuto. E il funzionario sembrerebbe spiegarlo bene: “Adesso il casino è la quantità di denaro che tu sai benissimo che è in ballo…” E quando Stefano gli chiede se l’uomo in carcere, uno dei tre sequestratori, collabori, lui risponde in modo secco: “Non lo vogliono far collaborare, capisci?” Ma a quanto direbbe il funzionario, in Kenya non sarebbero stati gli unici a volerci guadagnare dalla liberazione di Silvia. “Perché si sarebbe interrotta la catena di dazioni”, sostiene Stefano, aggiungendo: “si è messa in mezzo tanta di quella gente sia del Kenya che dell’Italia che non te ne rendi conto forse. Ci sta una fila di sciacalli da ambo le parti…”  Il problema però sarebbe nel mancato accordo sui soldi del riscatto, sembrerebbe di capire dalle parole del funzionario del 19 dicembre. Lui con 500mila euro avrebbe liberato Silvia accontentando la richiesta dei rapitori kenioti, ma a quanto riferisce “gli italiani invece vogliono 20 milioni”. Quindi Silvia non sarebbe stata liberata a quell’epoca perché forse dall’Italia qualcuno voleva mettersi in tasca milioni di euro? A quanto ci risulta, dopo questa telefonata, seguono alcuni giorni di silenzio trai due ma il giorno della vigilia, il telefono di Stefano squilla di nuovo. “Siamo già in territorio di operazione – dice l’uomo -. La polizia ci ha dato già indicazioni sicure. Abbiamo localizzato tutti i loro telefonini, abbiamo localizzato la ragazza, Adesso è una questione di denari e basta”. Quando Stefano chiede al funzionario cosa avrebbero fatto con i rapitori, il funzionario dice: “Abbiamo pattuito che li portiamo via, sani e salvi. Poi li portiamo in Europa, con le famiglie”. “E all’opinione pubblica in Kenya che gli raccontano?” chiede Stefano. “Gli diamo dei corpi di qualche malcapitato che è stato messo al bando, non lo so. È un problema che si sta organizzando la loro struttura”. Silvia Romano avrebbe potuto essere liberata nel dicembre del 2018? Qualcuno ha ostacolato di fatto la sua liberazione perché interessato ai soldi messi in campo per il suo riscatto? La cooperante, intanto, passerà altri 500 giorni nelle mani dei suoi rapitori…

Ecco chi è il “funzionario” che avrebbe trattato per Silvia Romano. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Nel precedente servizio Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli ci avevano raccontato del rapporto telefonico, durante la prima fase del sequestro di Silvia Romano, tra un imprenditore italiano che ha vissuto in Kenya 30 anni, e un presunto funzionario dello Stato, che diceva di dirigere le  trattative per la liberazione dell’ostaggio. Matteo Viviani ci svela chi è il funzionario, ma il mistero, anziché terminare, si infittisce ancora di più.  Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano sul caso del rapimento di Silvia Romano, la volontaria milanese tenuta in ostaggio per 535 giorni tra il Kenya, dove è stata sequestrata e la Somalia dove è stata liberata. Lo fanno dopo avervi raccontano, nell’ultimo servizio, le dichiarazioni riportate da un uomo che ha lavorato e vissuto a lungo in Kenya, e che ha intrattenuto per mesi una conversazione con chi sosteneva di essere stato incaricato dalla presidenza del Consiglio di dirigere le operazioni per la liberazione di Silvia Romano. Una persona che avrebbe, in sostanza, lasciato intendere che qualcuno dall’Italia stava frenando la liberazione di Silvia Romano, per intascarsi parte dei soldi stanziati per il riscatto. Abbiamo scoperto l’identità di quella persona e il mistero, invece che terminare, sembra essersi infittito ancora di più. Si chiama Valter Tozzi, è un geometra e stando a quando racconta il quotidiano “La Verità” il suo passato sarebbe decisamente opaco. Matteo Viviani lo chiama, per farsi spiegare il perché di quella lunga conversazione con Stefano Saraceni sulle trattative per la liberazione di Silvia Romano. L’uomo però respinge le accuse, spiegando di avere preso parte ad un “teatrino” che nulla ha a che fare con le Istituzioni dello Stato. Un teatrino a suo dire nato quando Stefano Saraceni sarebbe andato da un amico comune (“un semplice corazziere di basso livello, un povero Cristo che vive una vita umilissima, neanche un graduato”) a proporsi per aiutare lo Stato nelle ricerche della giovane ragazza milanese. E così Tozzi e il corazziere, avrebbero deciso di tirare “un bidone” proprio a Saraceni. Tozzi ribadisce con Matteo Viviani la sua assoluta estraneità e partecipazione attiva alla vicenda del rapimento di Silvia. “Non ho mai diretto nessuna operazione, non ho mai messo piede in terra keniota capisce?”, ribadendo che si è trattato di una “scenetta goliardica”. Qualcosa però, comunque, a noi sembra non tornare. Se l’uomo, come vorrebbe fare intendere, è assolutamente estraneo a ogni legame con lo Stato, come si spiega il suo continuo apparire in immagini televisive, accanto a quelle stesse istituzioni, in occasione di eventi normalmente riservate alle più alte autorità? Lo vediamo in immagini di repertorio: è il 6 settembre 2009, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è in visita in una zona terremotata, assieme all’allora commissario per la ricostruzione Guido Bertolaso: dietro di loro c’è proprio Valter Tozzi. E sempre Tozzi compare anche nelle immagini televisive del 22 dicembre del 2012, il giorno in cui i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone tornano in Italia a bordo di un volo di stato. Eccolo Valter Tozzi: lo vediamo in prima fila, davanti a tutti, addirittura agli stessi familiari dei due marò. A un certo punto l’uomo, che continua a sostenere di essere solo un geometra, entra nell’aereo. Poi esce, si guarda intorno, rientra, esce nuovamente e si mette in attesa assieme a tre graduati della Marina Militare, con i quali sembra anche scambiare due battute. Ma non finisce qui, perché il 28 maggio del 2016, al ritorno in Italia del solo Salvatore Girone, Tozzi è ancora lì, nella sala d’attesa dell'aeroporto. E dopo aver chiacchierato proprio con il padre del militare, si piazza ai piedi della scaletta insieme all’allora ministro della difesa Roberta Pinotti e all’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Ma è davvero possibile che questa persona sia solo un geometra? Tozzi incredibilmente racconta a Matteo Viviani di essere stato invitato lì come giornalista freelance, ma non lo troviamo sull’albo nazionale dei giornalisti e non c’è nemmeno alcuna traccia di suoi articoli in Rete. Il 2 giugno 2018, lo ritroviamo in video accanto al nostro attuale Presidente del Consiglio, mentre tutte le cariche più importanti dello Stato stanno assistendo alla parata per la festa della nostra Repubblica. L’uomo sostiene di essere “pazzo per la collezione di foto con personaggi importanti!”, spiegando che qualsiasi persona può compilare un apposita scheda per entrare a Palazzo Chigi. Noi allora abbiamo provato a contattare alcune delle persone di cui aveva parlato nelle sue telefonate con Stefano durante quelle che lui stesso definiva trattative per la liberazione di Silvia Romano. A partire dall’uomo che, stando al suo racconto, avrebbe ideato lo scherzo a Saraceni. Quando gli spieghiamo il motivo della telefonata, dice di non avere visto il nostro servizio e di non voler sapere nulla di tutta questa storia, e attacca il telefono in faccia a Matteo Viviani. Una reazione simile a quella avuta con un contatto che ricopre una posizione importante in Kenya, e che Valter Tozzi nelle telefonate con Stefano sosteneva di avere sentito: “Non rispondo, per favore, non voglio nessun tipo di coinvolgimento”. Sentiamo anche l’uomo che secondo il racconto fatto da Valter Tozzi a Stefano, sarebbe stato un capitano dei Ros, Un uomo che Stefano ha incontrato ma che Tozzi sostiene essere solo un professore di topografia. Lo cerchiamo e lo troviamo. È davvero un professore ma nega categoricamente di avere mai preso parte ad uno scherzo simile tantomeno di aver finto di essere un Capitano del Ros : “Non faccio niente di queste cose”. E poi smentisce anche di conoscere Valter Tozzi. Chi è veramente Valter Tozzi? Noi ci auguriamo seriamente che sia solo un mitomane ma le domande che vorremmo rivolgere a tutte le Autorità sono poche ma precise. Conoscete quest’uomo? In che veste ha presenziato a tutti questi eventi importanti? Ha ricoperto davvero un ruolo nel caso di Silvia Romano? E se così non fosse, siete coscienti che di quello che dice e di quello che fa?

Silvia Romano è stata rapita per caso oppure no? Le Iene News il 10 novembre 2020. Il nostro Gaston Zama ci parla dei dubbi sollevati dai media sull’attività di Africa Milele, l’organizzazione presso cui operava Silvia Romano quando è stata rapita in Kenya da Al-Shabaab. Nel servizio potete sentire la versione dei fatti di Lilian Sora, presidentessa dell’organizzazione, confrontata con il parere di un esperto di cooperazione internazionale. Lo scorso maggio, dopo 18 mesi di prigionia, Silvia Romano è stata liberata ed è tornata in Italia. Tra i tantissimi messaggi di gioia e qualche stonato messaggio di hater e razzisti, adesso per lei il peggio è passato. Il nostro Gaston Zama, nel servizio che potete vedere qui sopra, ci parla di Africa Milele, l’organizzazione per la quale Silvia Romano stava operando in Kenya. Sui media sono state infatti sollevate ombre e dubbie su questa organizzazione.  Gaston Zama è andato a parlare direttamente con la presidentessa di Africa Milele, Lilian Sora, che ci ha raccontato la sua versione di quanto accaduto in quei giorni e ha replicato ai presunti dubbi e critiche sollevate sull’operato della sua organizzazione. Ci siamo poi confrontati con Diego Battistessa, docente universitario ed esperto di cooperazione internazionale, per capire come dovrebbe funzionare un’organizzazione che opera in quel settore e in zone a rischio.

Silvia Romano diventa testimonial di un progetto contro l'islamofobia. Dopo il sequestro e la conversione la giovane ha scelto di impegnarsi contro l'odio religioso. Zita Dazzi su La Repubblica l'11 settembre 2020. Testimonial e operatrice di un nuovo progetto europeo per contrastare l'islamofobia. Silvia Romano, la giovane cooperante rapita in Kenya e tenuta prigioniera in Somalia per un anno e mezzo, dopo il rientro a Milano l'11 maggio, si rimette al lavoro nel campo che lei ha scelto e per cui ha studiato, la mediazione interculturale. "Yes", è il nome del programma europeo nel quale lavorerà nei prossimi mesi. Di discriminazione religiosa, Silvia Romano, 24 anni, purtroppo se ne intende, essendo lei stessa vittima di un linciaggio sui social che non le ha concesso una tregua, nemmeno quando in agosto era in vacanza con la sua famiglia in Liguria. Lei non ne vuole parlare, anche se si fa ritrarre sorridente in una foto promozionale che viene rilanciata sulle pagine Facebook dell'iniziativa contro l'odio religioso e in quelle delle associazioni giovanili musulmane. "Credo che il mio nome possa arrecare più danni che benefici al progetto, alla comunità e alla mia famiglia", si schermisce, con quella serietà che le deriva da mesi vissuti suo malgrado sotto i riflettori, inseguita dalle telecamere, bersaglio di insulti e di minacce a causa della sua conversione all'Islam. Criticata persino dalle femministe per il velo che indossa quando esce di casa, dal giorno del suo rilascio e rientro in Italia. Nasce proprio con l'obiettivo di contrastare questo clima minaccioso e di aggressività, il progetto "Yes" di sostegno ai giovani della comunità islamica. Silvia è stata inserita in squadra come "master equity defender". Con lei altri sette giovani lombardi, quasi tutti immigrati di seconda generazione e un project manager, Domenico Altomonte, 38 anni, esperienze passate con Fondazione Progetto Arca e Albero della vita, associazione di riferimento anche per la campagna "Yes". "Silvia si è candidata e abbiamo ritenuto che il suo profilo e anche le sue capacità fossero perfette per entrare nel nostro gruppo di lavoro - spiega Altomonte - . L'impegno è quello di partire dai giovani per contrastare l'islamofobia, raccogliendo segnalazioni di casi, denunce, ma fornendo anche supporto psicologico ed eventualmente legale, con la consapevolezza che la discriminazione può avere una sua tutela legale anche se esiste poco nell'ordinamento". Dentro al progetto in partnership con Albero della vita e Le Reseau, associazione romana che si occupa di diaspora africana, c'è anche Progetto Aisha di Milano, guidata da quel vulcano che è Amina Al Zeer, mediatrice culturale, esperta in diritti delle donne e lotta alle discriminazioni sessuali. "Questo fine settimana abbiamo finalmente potuto incontrare di persona i Master Equity Defender, gli 8 giovani rappresentanti della comunità islamica milanese selezionati che saranno impegnati in attività di supporto alle vittime di islamofobia oltre che nel primo Forum giovanile internazionale che organizzeremo presto - spiega Al Zeer - . Ci auguriamo di poter contribuire a sensibilizzare l'opinione pubblica su un tema che raramente viene trattato dai media e che invece ha un impatto quotidiano sulla vita delle donne musulmane". Silvia Romano era la candidata ideale per le attività di aiuto alle vittime, con canali di telefono e online per raccogliere le segnalazioni e poi orientare chi deve tutelarsi.

La nuova vita di Silvia Romano: sarà la "testimonial" per l'islam. La cooperante rapita in Kenya seguirà un progetto Ue per supporto psicologico e legale alle vittime di islamofobia. Luca Sablone, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Ora Silvia Romano scende in campo per combattere e contrastare l'islamofobia: per la cooperante rapita in Kenya e tenuta prigioniera in Somalia per un anno e mezzo è giunto il momento di tornare a condurre una vita "normale" e perciò ha deciso di essere in prima linea per promuovere un progetto europeo dal nome "YES – Youth Empowerment Support for Muslim communities". La 24enne milanese è così pronta a impegnarsi per il sociale sposando la causa del progetto in questione, co-finanziato dalla Commissione europea e realizzato dalle associazioni Fondazione L'Albero della Vita, Le réseau e Progetto Aisha. Stando a quanto riportato da La Repubblica, Silvia nei prossimi mesi si dedicherà all'iniziativa che punta a coinvolgere alcuni giovani rappresentanti della comunità islamica "che saranno impegnati in attività di supporto alle vittime di islamofobia". Tra gli otto giovani lombardi selezionati - con il ruolo di "Master equity defender" - è spuntato anche il profilo della ragazza; il loro principale compito sarà quello di raccogliere le segnalazioni di casi di islamofobia e denunce, fornendo alle vittime un supporto di tipo psicologico ed eventualmente anche legale. Come si legge in un post pubblicato sul profilo Facebook dell'associazione "Progetto Aisha", la volontà è quella di "poter contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema che raramente viene trattato dai media e che invece ha un impatto quotidiano specialmente sulla vita delle donne musulmane del nostro Paese". Il progetto coinvolge anche altri attori del settore pubblico, privato, profit e no-profit principalmente in Italia. I principali obiettivi previsti sono la sensibilizzazione e il coinvolgimento dei giovani nella lotta contro l'islamofobia, l'acquisizione di competenze e strumenti efficaci nel nostro Paese e in Europa, lo scambio di esperienze e buone pratiche tra i giovani a livello europeo. La partnership a cui ha aderito Silvia Romano ha lo scopo di creare un ambiente favorevole per la promozione della diversità culturale e per ridurre la diffusione degli stereotipi: "Senza una grande consapevolezza della società civile, nessun tentativo di aumentare l’integrazione, il reporting e l’applicazione della legge può essere realizzato". In tal modo si vogliono anche prevenire i fattori di rischio e promuovere i fattori protettivi per le comunità: "È sicuramente una soluzione per mitigare il problema principale che le comunità musulmane affrontano attualmente". Infine vi è l'intento pure di gettare le basi per dare vita a nuovi progetti, pianificati dai partner e da tutte le parti interessate, "creando nuove opportunità per costruire un’Europa più inclusiva".

LA LIBERAZIONE.

La cooperante finalmente libera. Chi è Silvia Romano, la volontaria italiana liberata in Africa. Redazione su Il Riformista il 9 Maggio 2020. L’Italia intera festeggia oggi la liberazione di Silvia Romano, la volontaria milanese rapita il 20 novembre del 2018 da un commando di criminali mentre stava lavorando in un orfanotrofio con la onlus Africa Milele in Kenya, a Chakama, 80 chilometri da Malindi. Silvia aveva 23 anni ed era carica di aspettative e voglia di aiutare chi era nato in una parte del mondo dove fame, guerre e malattie da decenni sono una lotta quotidiana per la popolazione. Dopo la laurea nel febbraio 2018 in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, la Ciels, Silvia vola per la prima volta in Kenya, fa poi ritorno in Italia e poi riparte verso l’Africa. Il 20 novembre l’assalto armato e il rapimento da parte di un commando di otto uomini: tre membri della banda sono attualmente sotto processo in Kenya. La giovane cooperante finisce quindi nelle mani di Al Shabab, gruppo terrorista somalo affiliato ad al Qaeda. Nella notte è scattata l’operazione di salvataggio dell’Aise, i servi segreti italiani, con la collaborazione dei colleghi turchi e somali. Il blitz è avvenuto a 30 chilometri da Mogadiscio, in Somalia, in una zona ridotta in condizioni estreme per le alluvioni degli ultimi giorni. Silvia è stata quindi trasportata in un compound a Mogadiscio, dove la attende l’aereo dei servizi segreti che la riporterà in Italia, probabilmente già domenica pomeriggio. “Sono stata forte e ho resistito, sto bene e non vedo l’ora di tornare in Italia”, sono state le prima parole di Silvia.

Fiorenza Sarzanini per il ''Corriere della Sera'' il 10 maggio 2020. «Sono Silvia Romano, sto bene...». È il 17 gennaio 2020, la giovane volontaria appare in un video. È la prova in vita che l’intelligence attendeva per dare il via libera all’ultima fase della trattativa e autorizzare il pagamento del riscatto. Da allora sono trascorsi altri tre mesi e mezzo segnati da un gioco al rialzo che in alcuni momenti ha fatto temere il peggio. Fino a venerdì notte, quando in un’area a 30 chilometri da Mogadiscio avviene lo scambio. La giovane arriva vestita con gli abiti tradizionali delle donne somale e il capo coperto, appare in buone condizioni di salute. Viene subito trasferita nell’ambasciata italiana in Somalia e quando le chiedono di cambiarsi spiega di essere «una convertita», chiarisce di volerne «parlare subito con mia mamma appena la rivedrò». Già nei mesi scorsi era circolata la notizia che fosse stata costretta a sposare uno dei carcerieri e aderire all’Islam. Si tratta di una giovane donna fiaccata da una prigionia durata un anno e mezzo e da pressioni psicologiche atroci, dunque soltanto dopo il rientro in Italia si capirà se sia davvero questa la sua scelta. Forse già domenica pomeriggio quando sarà interrogata dai magistrati e dai carabinieri del Ros proprio per ricostruire questi drammatici 18 mesi.

La svolta a novembre. Il vero segnale che tutti attendono arriva sei mesi fa, pochi giorni prima dell’anniversario del rapimento. È una prova in vita, forse un altro filmato. Le informazioni giunte fino ad allora sono contraddittorie, in alcuni momenti accreditano addirittura la possibilità che sia morta. Alcuni informatori locali e gli stessi rapitori che l’avevano catturata nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavorava per la Onlus “Africa Milele”, avevano raccontato di averla ceduta alla fazione fondamentalista somala dopo un viaggio nella foresta durato settimane. L’esame del filmato di gennaio conferma la matrice jihadista. Diplomazia e intelligence coordinati dal direttore dell’Aise Luciano Carta capiscono così che il canale aperto per arrivare al gruppo fondamentalista di Al Shabab è buono. Dunque si procede, consapevoli che più passa il tempo più sale il prezzo del riscatto. I servizi segreti somali sono collaborativi, le “fonti” che hanno consentito di procedere sono diverse. Alcune sono state attivate dalla Turchia che ha un controllo forte su quell’area.

Nella grotta. Gli emissari del gruppo indicano come sede della prigione la zona di Bay, nel villaggio di Buulo Fulaay. Dicono che per un periodo è stata chiusa in un grotta con altri ostaggi. Fissano il prezzo finale, dopo i soldi versati per pagare i vari contatti. Non c’è una cifra precisa. Per avere un’idea, nel 2012 la liberazione di un ostaggio inglese costò al suo Paese l’equivalente di un milione e 200mila euro. Il problema non è il denaro da versare, ma avere la certezza di trattare con le persone giuste. Ecco perché ci si coordina con somali e turchi nei passaggi più delicati. Le condizioni di sicurezza in Somalia sono pressocché inesistenti, si chiede di fare in fretta. Qualche settimana fa arriva l’ultima prova, il negoziato è ormai alle battute conclusive.

Lo scambio. Nei giorni scorsi un gruppo di 007 si trasferisce in Somalia e affianca chi ha seguito la vicenda sin dall’inizio. Bisogna organizzare l’appuntamento, avere la certezza che la consegna dell’ostaggio avvenga senza rischi, sapendo bene che quello dello scambio è il momento più delicato. Si sceglie una zona a 30 chilometri da Mogadiscio, di sera. Ci sono esplosioni di mortaio, c’è soprattutto un’alluvione. Comunque si procede. L’incontro viene fissato per venerdì sera. È già notte quando Silvia arriva accompagnata dagli emissari dei sequestratori.  È provata fisicamente e psicologicamente. Il viaggio verso la capitale presenta ancora alcuni ostacoli. Ma qualche ora dopo, in Somalia è ancora notte, arriva la notizia che Silvia è finalmente al sicuro in ambasciata. Libera. Viene interrogata dagli 007 poi parla al telefono con il premier Conte e il ministro Di Maio. Parla con la mamma, con il papà. Li rivedrà oggi a Ciampino. E sarà il ritorno alla vita.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. Ai suoi carcerieri Silvia Romano aveva chiesto un quaderno. Voleva appuntare ogni dettaglio, annotare date e spostamenti, esprimere sensazioni. È diventato il suo diario. I carcerieri glielo hanno preso prima di liberarla, ma adesso, seduta di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, le consente di ricostruire i suoi 18 mesi di prigionia. Lo fa con la voce squillante, il tono sereno, anche se il movimento delle mani tradisce l' emozione e le sofferenze patite. Un racconto angosciante che la giovane volontaria catturata il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya aveva cominciato con la psicologa che l' ha accolta all' ambasciata di Mogadiscio e le è rimasta sempre accanto anche sul volo che l' ha riportata in Italia. A lei Silvia ha confermato di essersi convertita. Soltanto a lei ha rivelato che «adesso mi chiamo Aisha». Torna indietro nel tempo Silvia e ricorda i momenti della cattura, i tre uomini che la portano via dal villaggio Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavora per la Onlus «Africa Milele». Sono gli esecutori, la consegnano subito alla banda che ne ha ordinato il sequestro. Comincia il viaggio per arrivare in Somalia. «È durato circa un mese. All' inizio c' erano due moto, poi una si è rotta. Abbiamo fatto molti tratti a piedi, attraversato un fiume. C' erano degli uomini con me, camminavamo anche per otto, nove ore di seguito. Erano cinque o sei». Quando si sparge la notizia che sia rimasta ferita nel conflitto a fuoco e qualcuno ipotizza che possa essere morta, la ragazza è già arrivata nel primo covo. È l' unica donna, la chiudono in una stanza. I primi giorni sono drammatici. «Ero disperata, piangevo sempre. Il primo mese è stato terribile». Poi piano piano si tranquillizza. «Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata». Diplomazia e intelligence sono già al lavoro, cercano un canale per la trattativa convinti che sia ancora in Kenya. È stata la polizia locale ad assicurare che la giovane è sul loro territorio, invece a Natale del 2018 Silvia ha già passato il confine. È stato evidentemente anche questo a ritardare l' attivazione dei canali giusti, ma gli specialisti dell' Aise guidati dal generale Luciano Carta dopo qualche mese riescono comunque ad afferrare un filo. La traccia porta al gruppo fondamentalista Al Shabaab. Il negoziato comincia con la richiesta di una prova in vita. Silvia intanto è già stata spostata in una nuova prigione. «Stavo sempre in una stanza da sola, dormivo per terra su alcuni teli. Non mi hanno picchiata e non ho mai subito violenza». Mentre lo dice Silvia non sa che fuori dalla caserma c' è chi dice che l' abbiano fatta sposare con uno dei carcerieri, addirittura che sia incinta. Non lo sa ma le sue parole bastano: «Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto». Lei chiede di poter leggere. «Uno di loro, solo uno, parlava un po' di inglese. Gli ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano». È in questo momento che inizia, probabilmente, il suo percorso di conversione. «Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera». Passano le settimane, Silvia viene spostata di nuovo. «Non ho mai visto donne, soltanto quegli uomini che mi tenevano prigioniera». Il canale di trattativa intanto rimane aperto, sia pur tra mille difficoltà. Ma evidentemente funziona perché Silvia racconta che le hanno fatto girare un video in cui deve dire il suo nome, la data, assicurare che sta bene. L' intelligence italiana collabora con i colleghi somali, ma ottiene aiuto anche dalla Turchia che in quell' area ha un' influenza molto forte ed evidentemente sa attivare i contatti giusti. Le «fonti» sono rassicuranti, per avere informazioni certe sono necessarie settimane. Gli 007 tengono costantemente informati il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il premier Giuseppe Conte che ha la delega ai servizi segreti. L' unità di crisi della Farnesina gestisce i rapporti con i familiari. A novembre, pochi giorni prima del primo anniversario della cattura, arriva la certezza che Silvia è viva. Il video è evidentemente arrivato a destinazione. «Durante la prigionia - racconta adesso Silvia - ne ho girati tre». C' è la guerra civile in Somalia, gli spostamenti sono difficoltosi. I rapitori decidono comunque di cambiare prigione. Alla fine Silvia ne conta sei, annota tutto nel diario. Lo ripete ora. «Ci muovevamo a piedi o in macchina. Trasferimenti lunghi, faticosi». Il 17 gennaio gira un altro video. Non lo immagina ma alla fine sarà proprio quel filmato a garantirle la salvezza. Intanto si è convertita. «Leggevo il Corano, pregavo. La mia riflessione è stata lunga e alla fine è diventata una decisione». Soltanto il tempo dirà se e quanto su questa scelta abbia influito la pressione psicologica subita in questi 18 mesi, la sindrome che spesso lega gli ostaggi alla realtà dei rapitori. Il magistrato e i carabinieri la lasciano parlare senza fare domande, se non quelle che riguardano eventuali violenze. E lei nega di nuovo. I suoi ricordi sono precisi, il suo racconto è zeppo di date e circostanze. E mentre lo fa appare calma, seppur provata. «Venivo spostata ogni tre, quattro mesi, ma a quel punto non avevo più paura». Di riscatto dice di non aver mai sentito parlare «ma avevo capito che volevano soldi». Il gruppo è accusato di aver rapito altri occidentali. «Io non ho mai visto nessun altro», assicura Silvia. All' inizio di quest' anno la trattativa entra nella fase finale. Si pagano altre fonti, ci si prepara a versare il riscatto. La cifra totale potrebbe oscillare tra i due e i quattro milioni di euro, fondi riservati di cui nessuno avrà mai traccia come sempre accade in questi casi. Poi arriva l' epidemia da coronavirus, il mondo entra in lockdown , la gestione dei contatti appare più difficoltosa, ma comunque prosegue. A metà aprile l' intelligence ottiene il video della prova in vita. «Sono Silvia Romano, è il 17 gennaio...». È trascorso del tempo ma dalla Turchia arrivano nuovi riscontri, il via libera a trattare ancora. Fino a una settimana fa. Quando vengono presi gli accordi per lo scambio. Silvia viene avvisata dai carcerieri: «Ti liberiamo». Lo conferma adesso lei al magistrato. È l' inizio della fine, il conto alla rovescia per tutti. Venerdì 8 maggio, mentre a Mogadiscio ci sono diverse esplosioni gli emissari dell' intelligence prelevano l' ostaggio. Un viaggio in macchina di circa 30 chilometri e dopo una sosta intermedia Silvia entra in ambasciata. «Sto bene, sono stata trattata bene», assicura all' ambasciatore Alberto Vecchi. Indossa gli abiti locali, non vuole toglierli. Mangia una pizza, dorme finalmente in un letto. Accanto a lei ci sono sempre gli uomini dell' intelligence e la psicologa che raccoglie il suo primo racconto, la assiste se ha bisogno di rimettere a posto i pensieri. Le parla della conversione, le rivela come ha deciso di chiamarsi. Le spiega che di tutto questo parlerà con la sua famiglia, con sua mamma. «A lei, spiegherò ogni cosa», dice prima di scendere dalla scaletta dell' aereo di Stato che l' ha riportata a casa.

Da open.online l'11 maggio 2020.  - Proprio grazie al Corano, per la verità, Silvia alla fine un po’ di arabo l’ha imparato: «Mi sono convertita all’Islam ma è stata una mia libera scelta – ripete – non ho subito condizionamenti, non mi hanno spinta a cambiare fede». È accaduto a metà della prigionia, poco dopo che ad un primo gruppo di tre carcerieri ne è seguito un altro: «Ho chiesto di leggere il Corano, me ne hanno portato uno che aveva il testo italiano a fronte, questo mi ha permesso di capire meglio e alla fine di scegliere la religione». (…)  «Riconosco i miei rapitori nei tre che mi sono stati mostrati, uno è effettivamente un volto che conoscevo», comincia. L’uomo di cui parla Silvia era residente nel villaggio di Chakama in cui ha sede la Ong preso cui lavorava la ragazza, Africa Milele. È stato lui a fare da basista per il colpo, perché frequentava una ragazza del villaggio: «Mi hanno portato fuori, pochi chilometri più avanti è arrivato un secondo gruppo, tre uomini a volto coperto. Si capiva che erano stati loro a organizzare perché davano indicazioni agli altri tre. Con questi ultimi, quelli a volto coperto, ho passato quasi metà della prigionia».

Dal rapimento al riscatto, come è stata liberata Silvia Romano: oggi il rientro in Italia. Redazione su Il Riformista il 9 Maggio 2020. Il rilascio di Silvia Romano è arrivato dopo mesi di estenuanti e complicate trattative portate avanti dai servizi segreti italiani e con la fondamentale collaborazione dei colleghi somali e turchi. Così si è arrivati alla liberazione della volontaria 24enne, rapita il 20 novembre del 2018 in Kenya, a Chakama, 80 chilometri da Malindi, in un raid armato nel quale restarono ferite cinque persone, dove lavorava per la onlus Africa Milele per seguire un progetto di sostegno all’infanzia con i bambini di un orfanotrofio. La consegna di Silvia, come racconta Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, è arrivata questa notte dopo la lunga trattativa con il gruppo terrorista islamico di Al Shabaab, con la liberazione avvenuta a circa 30 chilometri da Mogadiscio, dove gli emissari dei sequestratori hanno consegnato la cooperante ai ‘contatti’ dell’intelligence italiana. Soltanto lo scorso novembre le autorità italiane e i servizi segreti hanno avuto la conferma che Silvia stesse bene: per lungo tempo infatti erano mancate le notizie sulla sue condizioni, dopo il passaggio di mano tra i rapitori kenioti che l’avevano sequestrata e i fondamentali somali che l’hanno poi tenuta in custodia. Una volta ottenuta la prova che Silvia era viva, è stata avviata la trattativa per il pagamento del riscatto, con la mediazione dei servizi segreti turchi. Venerdì sera lo scambio decisivo, complicato dalla zona dove è avvenuto, ridotta in condizioni estreme per le alluvioni degli ultimi giorni. Per Silvia Romano il ritorno a casa è atteso per oggi pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, dove per le 14 dovrebbe atterrare un aereo speciale.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2020. «L' operazione è conclusa, ti liberiamo». È il 5 maggio 2020, il carceriere entra nella stanza di Silvia Romano. Le consegna un vestito e appena un' ora dopo inizia il viaggio: tre giorni a bordo di un trattore per arrivare sul luogo concordato per la consegna dell' ostaggio. Venerdì sera la giovane volontaria è al sicuro in ambasciata a Mogadiscio. Nulla sa della contropartita versata ai sequestratori, di quella triangolazione tra Italia, Turchia e Qatar che ha consentito di chiudere la partita con il gruppo fondamentalista che l' ha tenuta prigioniera per 18 mesi. Su quel quaderno trasformato nel diario del suo incubo Silvia annotava ogni dettaglio. E adesso sono proprio i dettagli a comporre il quadro di una trattativa giocata sempre sul rialzo del prezzo. Quando il 18 novembre 2018 Silvia viene catturata nel villaggio di Chakama in Kenya da tre uomini armati, si accredita la matrice dei criminali locali. E invece è stato tutto pianificato, sono i terroristi ad aver ordinato il sequestro. Fanno un primo tratto di strada in moto, si addentrano nella foresta. «Mi hanno dato dei vestiti, un paio di pantaloni, una maglietta e un maglione. Poi mi hanno tagliato i capelli. Dovevamo camminare tra i rovi, mi hanno detto che era meglio». Un mese dopo, mentre tutti la cercano in Kenya, Silvia è già in Somalia. Gli estremisti hanno già pronte le condizioni per ottenerne il rilascio. Soldi, molti soldi. Da quel momento cominciano a giocare sulla paura, diffondono notizie facendo credere che Silvia sia morta. Prima viene detto che è stata coinvolta in una sparatoria, poi che potrebbe essere rimasta vittima di un' infezione a un piede che non si è riusciti a curare. In Kenya la cercano con i droni e con le battute nella foresta. Più volte la polizia locale annuncia che «la liberazione della cooperante italiana è imminente». Ma è soltanto un bluff. In realtà Silvia è lontana e ha cambiato almeno due covi. A maggio 2019, quando arriva il primo video per provare che è viva, l' intelligence si fa portavoce della risposta del governo italiano: trattiamo le condizioni. «Ero tenuta in ostaggio da sei persone. Arrivavano a gruppi di tre. Avevano sempre il volto coperto ma con il tempo ho imparato a capire le differenze tra loro. Soltanto uno parlava inglese, e credo fosse il capo. È stato lui a ordinare che cosa dovevo dire mentre mi riprendeva con il telefonino. Il mio nome e la data del giorno. Io tenevo il tempo scrivendo il diario». Su quel quaderno Silvia annota quel che accade quotidianamente. I mesi trascorrono, e lei adesso ricorda «quel momento in cui ho sentito il bisogno di credere in qualcosa. Ho chiesto di leggere e mi hanno portato il Corano. Così ho trovato conforto». Così è diventata Aisha. Si sposta ancora, la fanno viaggiare a bordo di macchine e camioncini. La chiudono in una stanza dove le portano da mangiare. È sempre da sola. «Però sentivo vociare nelle altre stanze, il richiamo del muezzin, quindi credo fossero villaggi». Ad agosto il capo del gruppo le chiede di girare un altro video. È la seconda prova in vita chiesta dall' intelligence . Il 19 settembre Il Giornale pubblica la notizia che «Silvia è stata costretta al matrimonio islamico con uno dei suoi aguzzini, obbligata alla conversione». Dopo mesi di silenzio arriva la conferma che è nelle mani dei fondamentalisti. Sale l' angoscia. E anche il prezzo per la sua liberazione. I negoziatori fanno capire che si trova a sud della Somalia, in quell' area del Jubaland dove gli estremisti sono gli unici padroni. Gli 007 dell' Aise guidati dal generale Luciano Carta lavorano in collaborazione con i servizi segreti somali, ma è soprattutto sulla Turchia che si fa affidamento. Su quei contatti che certamente si sono rivelati decisivi per tenere aperto il canale e riportare Silvia a casa. L' ultimo video del 17 gennaio 2020 arriva in Italia a metà aprile. Ma non basta, in questi tre mesi di lockdown mondiale da coronavirus Silvia potrebbe essere morta. La carta decisiva, come del resto è accaduto anche in altri sequestri, si gioca attraverso il Qatar. È lì, tra fine aprile e i primi giorni di maggio, che i mediatori consegnano l' ultima prova in vita e ottengono il via libera al pagamento del riscatto. Poi viene dato il segnale che la partita è chiusa. Martedì scorso il capo della banda entra nella prigione dove Silvia è segregata. Sarà proprio lei a ricordare quel momento domenica pomeriggio, a Roma, nella caserma dei carabinieri dove è stata portata per l' interrogatorio dopo il rientro in Italia. La voce di Silvia tradisce emozione mentre dà forma al ricordo di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi. «Mi ha detto "è finita, ti liberiamo". Poi mi ha caricato su un trattore dove c' era un altro uomo e abbiamo viaggiato per tre giorni». Due notti all' addiaccio, tre giorni prima della fine del dramma. Venerdì pomeriggio, a una trentina di chilometri da Mogadiscio, Silvia scende dal trattore e viene caricata su un auto dove l' aspettano altri due uomini. Sono i rappresentanti dello Stato che la porteranno in ambasciata. Componenti della squadra che in questi 18 mesi non ha mai smesso di cercarla. Mentre entrano nella sede diplomatica vengono sparati alcuni colpi di mortaio. Scatta l' allarme, ma Silvia è ormai in salvo. All' alba comincia il viaggio verso casa dove arriva ieri sera. E in quell' appartamento dove si chiude con la mamma e la sorella comincia la nuova vita di Aisha.

Grazia Longo per “la Stampa” il 13 maggio 2020. Ho capito subito di essere finita nelle mani dei terroristi di Al Shabaab, affiliati ad Al Qaeda a caccia di un riscatto. Perché quando, un mese dopo il sequestro, sono arrivata in una nuova casa, mi hanno detto: "Ora sei in Somalia, noi siamo un' organizzazione militare. Stai tranquilla, non ti faremo del male e sarai liberata". E io sapevo che la Somalia era assediata dagli islamici di Al Shabaab». Nuovi particolari emergono dall' interrogatorio di Silvia Romano - la cooperante milanese liberata sabato scorso dopo 18 mesi di prigionia - di fronte al pm Sergio Colaiocco e al colonnello Marco Rosi dei carabinieri del Ros, guidato dal generale Pasquale Angelosanto, domenica pomeriggio a Roma. A partire dalla consapevolezza di avere a che fare con terroristi che insanguinano la popolazione somala e puntano ai sequestri di persone occidentali per ottenere denaro finalizzato a foraggiare la jihad. «Poiché i mesi passavano e non succedeva niente, ho chiesto più di una volta se per liberarmi stessero aspettando un riscatto. Ma la riposta era sempre la stessa: "Noi eseguiamo solo gli ordini. Non sappiamo altro, siamo qui solo per farti da guardia". In tutto i miei carcerieri erano 6, facevano turni in tre alla volta. Soltanto uno parlava un po' di inglese. Con lui quindi cercavo di capire se volevano liberarmi in cambio di soldi». Diciotto mesi sono lunghi, un' eternità quando sei detenuta da uomini che non ti picchiano, non ti legano, ma ti costringono a dormire per terra su un materasso di fortuna e ti negano ogni forma di libertà. «Con il trascorrere dei mesi ho trovato un equilibrio e una forza interiore, grazie anche alla conversione all' Islam, ma più trascorreva il tempo e più temevo che la mia famiglia mi credesse morta. Per questo ho supplicato ripetutamente di farmi fare una telefonata a mia madre, ma mi hanno sempre risposto che non era possibile. Ho capito però che volevano dimostrare che fossi ancora viva quando mi hanno girato i due video». Anche in quelle occasioni, nel maggio e agosto 2019, Silvia torna sul tema del riscatto. «"Volete dimostrare che sono ancora viva?" domandavo, ma la risposta era sempre la stessa. Erano lì solo per controllarmi».

Il diario. Silvia annotava tutte le sue ansie su un diario. «Avevo chiesto e ottenuto un quaderno e una penna per poter scrivere. E grazie al diario sono anche riuscita ad avere il senso del tempo che trascorreva. Prima del rilascio però ho dovuto consegnarlo ai carcerieri». Quelle pagine custodiscono anche i motivi veri e profondi che l' hanno convinta a convertirsi all' Islam e a prendere il nome di Aisha, la moglie-bambina favorita di Maometto. «Dovunque fossimo, abbiamo cambiato sei covi, i miei carcerieri pregavano cinque volte al giorno. Dopo la conversione lo facevo anche io, ovviamente per i fatti miei, perché i musulmani non prevedono che gli uomini preghino insieme alle donne». Dopo la conversione, cambia anche l' abbigliamento di Silvia che deve nascondere i capelli. Inizia quindi ad indossare l' jilbab, l' abito delle donne somale con il capo coperto. Tipo quello verde che aveva quando è atterrata all' aeroporto di Ciampino con un volo di Stato. La fede in Allah nasce in lei lentamente, in maniera progressiva grazie alla lettura di un Corano su un computer portatile scollegato a Internet. Ma non modifica il comportamento dei terroristi nei suoi confronti. «Quando mi sono convertita mi hanno detto "Brava hai fatto la scelta giusta", ma non hanno cambiato atteggiamento. Non mi hanno cioè trattato meglio di prima. Hanno approvato la mia scelta, ma ogni cosa è rimasta com' era». Tutto fino al giorno del rilascio. Il 5 maggio Silvia viene informata che sarà liberata, il 6 parte con uno dei suoi carcerieri. Per tre giorni viaggiano, anche su un trattore, per raggiungere Mogadiscio. Qui avviene il primo scambio: Silvia viene consegnata a due uomini che su un' auto la conducono a trenta chilometri di Mogadiscio. E qui, sabato scorso, viene finalmente affidata a due uomini dell' Aise guidata dal generale Luciano Carta. «Dai, sali in macchina. È finita. Siamo dell' intelligence, ora ti portiamo in ambasciata e domani torni a casa, in Italia».

Silvia Romano assalita dai fotografi, l'ira della madre: "Sono matta, ve le spacco tutte". Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. Silvia Romano, nella sua uscita, si è recata in un centro estetico. La cooperante milanese, dopo la liberazione in seguito a 18 mesi di prigionia in Africa, è stata infatti costretta alla quarantena di 14 giorni scattata quando l'11 maggio è atterrata in Italia. La giovane è uscita insieme alla madre dalla sua abitazione verso le 14.30 per poi, con un taxi, raggiungere il posto. Un'ora, circa, prima che uscisse da una porta secondaria. Fuori dal salone di bellezza la attendevano però una decina di giornalisti e fotografi, nel tentativo di intervistarla e fotografarla. Immediata l'ira della madre Francesca Fumagalli che, infastidita ha iniziato a urlare e a colpire la macchina fotografica di un giornalista. "Sono matta, ve le spacco tutte così vediamo se non la smettete".

Elisabetta Andreis e Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2020. Silvia indossa pantaloni blu di una tuta, un vestito scuro a fiori e una felpa sportiva. Ai piedi un paio di Superga nere e a cingere il capo un hijab realizzato con una pashmina rossa, arancione e dorata. Sale i cinque gradini di casa e sparisce verso l' ascensore. Accanto a lei c'è la madre Francesca che come a proteggerla le poggia una mano sulla schiena mentre apre la porta. Non sorride, e neppure ne ha il tempo. Anche perché è appena tornata da un interrogatorio durato quasi un' ora e mezza nella caserma di via Lamarmora del Ros dei carabinieri. Mancano pochi minuti alle 18 di una giornata che fino a lì aveva trascorso in casa senza mai alzare le tapparelle. Con la sua famiglia, con il papà che dopo pranzo arriva a trovarla, con i fiori che per tutta la mattina vengono portati dai fiorai della zona. Fiori di amici, di compagni di scuola e di viaggio che per rispetto e per pudore non osano rompere la fragile serenità del suo secondo giorno di libertà milanese. Perché Silvia Romano da sabato non è più nelle mani dei rapitori, ma al suo rientro in Italia ha dovuto affrontare una prova altrettanto dura che lei, con i suoi 24 anni e i sogni violati di ragazza, non avrebbe mai immaginato di vivere. Non qui almeno, nella sua Milano. Dove oggi esce di casa per andare a testimoniare dai carabinieri che indagano sulle minacce di morte che, senza che neppure lo sapesse, le sono piovute addosso da tutta Italia. La sua «colpa» è quella di essersi convertita, di avere sceso la scaletta dell' aereo con uno jilbab, l'abito tradizionale islamico delle donne somale, diventato oggi quasi il simbolo di un alto tradimento per una nazione che le ha salvato la vita e pagato un riscatto. È la mamma Francesca Fumagalli, quando nel primo pomeriggio scende a portare il cagnolino ai giardini di piazza Durante, a chiudere con una frase tutte le polemiche che in queste ore sono esplose sulla scelta religiosa della figlia: «Come vuole che stia? Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito», dice con un moto di esasperazione. Chiede di «usare il cervello» di fronte alle scelte di vita di una ragazza che per 18 mesi è rimasta nelle mani feroci dei rapitori fondamentalisti di Al-Shabaab. Silvia chiede «tempo». Tempo per «ritrovare se stessa» e anche la sua libertà: «Datemi tempo per elaborare quello che è successo in questi mesi. Tempo tranquillo per ritrovarmi», dice ai familiari. Lo zio Alberto, fratello della mamma, è ancora scosso come tutta la famiglia dallo «tsunami di odio» arrivato dal web: «Bisogna avere rispetto per quello che ha passato Silvia e per quello che è come persona -ripete -. Adesso Silvia ci chiede molto umanamente e con semplicità queste cose. E noi tutti gliele dobbiamo regalare. Ha vissuto situazioni che neanche possiamo immaginare e di cui ancora non riesce a parlare con noi». Davanti al pm Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo, e al tenente colonnello Andrea Leo del Ros di Milano, Silvia Romano dice di essere «serena», di non avere paura per le minacce. Racconta di essere contenta per la sua liberazione, di essere tornata a casa con la mamma e la sorella Giulia. E quei messaggi di odio non sa da dove provengano. La privacy del suo profilo social è stata rafforzata contro gli haters . In queste ore non ha letto i giornali, non ha guardato le trasmissioni televisive che mostravano le immagini di lei, in mezzo a un fiume di fotografi e telecamere, mentre varcava la porta di casa. «L' abbiamo tutelata», dice la famiglia. La madre Francesca non sa ancora quando «Silvia sarà pronta per parlare, per una conferenza stampa»: «Per adesso deve fare la quarantena sanitaria, lasciateci tranquilli in queste due settimane». In casa Silvia-Aisha riposa e prega in questi giorni di Ramadan. Accanto a lei ha l' affetto di chi sta facendo ogni sforzo per proteggerla. «È una ragazza di 24 anni, ma è come se non avesse mai vissuto gli ultimi due. Ora deve ritrovarsi e recuperare la sua vita».

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 13 maggio 2020. Ora ha paura, Silvia, ma non per se stessa, soprattutto per la sua famiglia, per il clima di odio che si è creato intorno alla scelta di diventare musulmana. Mai avrebbe potuto immaginare, questa venticinquenne di Milano, di dover fare i conti con un rientro così pesante e difficile, tra mille polemiche e insulti. Di quei 18 mesi passati a pensare ai suoi parenti, a quanto potessero essere preoccupati senza sapere nulla della sua sorte, ricorda ogni momento. E al pm Sergio Colaiocco e al colonnello Marco Rosi del Ros, che la hanno ascoltata al ritorno in Italia, ha riferito i particolari. Il verbale di interrogatorio è stato fatto tutto d'un fiato. Parlava senza fermarsi, ancora carica dell'adrenalina scatenata dalla liberazione, dalla nottata passata in ambasciata a Mogadiscio, dal viaggio di ritorno. Sin dal primo momento in cui è arrivata a Roma ha ripetuto come un mantra di essere serena, ribadendo di non essere stata maltrattata e di aver avuto garanzia dai suoi carcerieri che non l'avrebbero uccisa. Del resto, al Shabaab finanzia da sempre il gruppo con il denaro dei sequestri. E Silvia non doveva essere toccata. Durante gli spostamenti tra un luogo e un altro - ha raccontato lei stessa - «mi facevano salire in auto, in moto, o anche su un carretto. Mai a piedi. E una volta raggiunto il nuovo posto dove fermarsi, mi ritrovano da sola in una stanza, dove, non molto distante, c'era un bagno. Non ho visto altri occidentali, né ho vissuto con altre donne. Ho sentito parlare di altri rapiti, ma non mi è capitato di incontrarne». Nelle varie fasi della trattativa per il suo rilascio, sembra che i carcerieri abbiano provato a cedere più di un ostaggio, in cambio di dieci milioni di dollari. Ma l'accordo non ha mai avuto seguito e l'Italia ha proseguito per la sua strada. Nell'aprile del 2019 il gruppo terroristico ha sequestrato in Kenya due medici cubani, parte di un gruppo di 100 medici arrivati nel Paese nel 2018 per potenziare il sistema sanitario nazionale. Sono tuttora nelle mani dei jihadisti insieme a una infermiera tedesca, del Comitato internazionale della Croce rossa, rapita nel maggio del 2018 a Mogadiscio. Ed è certo che anche per loro sia in corso una trattativa. Silvia ha passato molto tempo nella regione del basso Shabelle e nella regione di Bay. Era nelle mani di Amniyat, le unità di elite di al Shabaab, ed è proprio per questo che è stata trasferita più volte, almeno sei, perché era con una fazione che conosce e controlla molto bene il territorio e sa come anticipare le operazioni delle forze di sicurezza. La conversione è arrivata dopo circa 5 mesi dal giorno del sequestro, ed è avvenuta con una vera cerimonia, alla quale erano presenti anche due dei carcerieri. «Avevo bisogno di credere in qualcosa - ha dichiarato la cooperante agli inquirenti - Di conoscere le ragioni di quanto mi stava accadendo. Ho espresso la volontà di diventare musulmana. Ho recitato le formule e ho dichiarato che Allah è l'unico Dio. È durato tutto pochi minuti. Nessuno mi ha obbligata, è stata una mia scelta. E in quel momento ho scelto di chiamarmi Aisha». Gli inquirenti ora stanno verificando se esistano contatti tra il commando e i somali e in che occasioni siano stati girati i tre video che poi sono stati inviati come prova in vita. I video, soprattutto l'ultimo del 22-23 aprile, potrebbero fornire elementi utili anche per agire sulla rogatoria con la Somalia: sono tutti stati fatti con un telefonino e girati dal carceriere che parlava inglese. «Mi spiegava cosa dovevo dire, premettendo sempre nome, cognome e data», ha ricordato la ragazza. La procura e il Ros stanno anche analizzando i documenti in loro possesso. Tra questi una serie di tabulati telefonici recuperati nell'estate del 2019 nel corso di una missione effettuata in Kenya nell'ambito dell'accordo di collaborazione tra gli inquirenti dei due paesi culminato con un vertice a piazzale Clodio nel luglio dell'anno scorso.

Gian Micalessin per “il Giornale” il 14 maggio 2020. Silvia Romano sarebbe finita nella mani dei volontari jihadisti stranieri, che combattono per Al Shabaab. I più pericolosi, legati ad Al Qaida compresi cittadini americani e inglesi con taglie milionarie sulla testa. I buchi neri sul rapimento di Silvia Romano emergono fra le righe della deposizione dell' ex ostaggio alla procura di Roma trapelata a singhiozzo negli ultimi giorni. A tal punto che adesso l' ordine draconiano dell' autorità giudiziaria sarebbe il silenzio assoluto. Il primo punto da chiarire è che i rapitori, probabilmente non sono somali. Silvia sostiene che «parlavano in arabo». La marmaglia locale di Al Shabaab, che vuole dire «gioventù» parla i dialetti somali. L' arabo è la lingua principale degli adepti internazionali di Al Qaida giunti in Somalia per la guerra santa. Si calcola che siano fra i 200 e 300 provenienti dallo Yemen, Arabia Saudita, Iraq, Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. E anche dagli Stati Uniti, Canada, Inghilterra e altri paesi europei. Uno dei più famosi e ricercato dall' Fbi con 5 milioni di dollari sulla testa è Jehad Serwan Mostafa. Classe 1981, nato a San Diego parla arabo e inglese. Dalle deposizioni Silvia spiega che «il capo parlava inglese». Ed è stato proprio lui a portarla sulla strada della conversione. Anche se era incappucciato l' ex ostaggio potrebbe riconoscerlo perchè secondo le informazioni dell' Fbi «ha un' evidente cicatrice sulla mano sinistra, gli occhi blu e porta gli occhiali». Nome di battaglia Anwar al-Amriki è un comandante senior degli Al Shabaab, che guida i combattenti stranieri, manipolatore e specialista dei media. Un altro buco nero è capire se Silvia, diventata Aisha, abbia subito un lavaggio del cervello in stile sindrome di Stoccolma o sia stata sottoposta ad un vero e proprio tentativo di radicalizzazione. Nelle deposizioni trapelate la cooperante sostiene che i terroristi le facevano vedere «video tratti da Al Jazeera». Non si trattava certo di Topolino, ma dei soliti filmati sulla guerra santa in Somalia. «Le regole fisse della manipolazione con l' obiettivo di radicalizzare è la conversione per scelta, come ha ammesso Silvia, l' imbonimento con filmati che mostrano come il nemico infedele ammazza i bambini a differenza dei mujaheddin che si immolano con gli attacchi suicidi per difendere il vero Islam» spiega al Giornale una fonte operativa. Poi, come è accaduto con tutte le giovani jihadiste italiane partite dall' Italia, c' è sempre la calamita dell' amore, il matrimonio con un mujahed e i figli che cementano il legame con la guerra santa. Silvia avrebbe subito i primi due passaggi della manipolazione, che ha già ottenuto un risultato con il suo discusso rientro in Italia. «La conversione e la tunica verde sono tutti messaggi interpretati come una vittoria dal mondo jihadista in rete - spiega la fonte - E serve anche ad attirare proseliti da una parte e scatenare gli anti islamici contro Silvia facendola apparire come una vittima». Obiettivo almeno in parte raggiunto, che si intreccia con il buco nero tutto da esplorare a livello internazionale. Gli inquirenti sono al lavoro su tabulati, contatti telefonici e documenti acquisiti dalle autorità del Kenya. Il rapimento sarebbe avvenuto su commissione e pianificato in Somalia grazie da appoggi oltre confine, dove la polizia ha cercato Silvia a vuoto. E soprattutto bisognerà capire la contropartita chiesta dal Mit, i servizi segreti di Ankara, per l' aiuto nella liberazione dell' ostaggio che potrebbe riguardare lo scacchiere libico.

C. Man. per “il Messaggero” il 14 maggio 2020. Voleva tornare libera, Silvia. Sognava ogni giorno di ritrovare la sua famiglia. E lo ripeteva in quei tre video-appello che sono stati inviati agli 007 dell'Aise, il nostro servizio segreto esterno, nei quali diceva: «Vi imploro, liberatemi». Nei 18 mesi di prigionia, chiusa da sola in una stanza, sentiva le voci all'esterno e annotava tutti i particolari in un quaderno che aveva chiesto ai carcerieri. Quello stesso diario che, al momento della liberazione, le hanno vietato di portare con sé. Un elemento importante per la ricostruzione del rapimento e di tutte le fasi che ne sono seguite. Tanto che, durante l'interrogatorio che la giovane cooperante ha avuto con il pm Sergio Colaiocco e con il colonnello del Ros, Marco Rosi, si è molto insistito sul contenuto. Dove si trovava? Che rumori sentiva? Aveva vicino una moschea? È vero che i servizi di intelligence avevano ben chiara la zona dove la ragazza era tenuta prigioniera, ma la scelta di segregarla in una casa è stata presa proprio per rendere più difficile l'individuazione precisa del luogo. E ora, gli inquirenti stanno cercando di mettere insieme tutti gli elementi che possano aiutare a individuare i componenti di al Shabaab che hanno gestito la sua prigionia: dai tabulati telefonici recuperati dal Ros durante una missione in Kenya, alle indicazioni fornite dalla giovane cooperante sui luoghi e i percorsi seguiti. Al centro delle indagini anche i contatti tra il commando e i somali, avvenuti prima del rapimento. Un lavoro che punta a individuare chi ha tradito Silvia. I video sono stati tutti registrati con il telefonino del carceriere che parlava inglese. «Mi diceva cosa dovevo dire, premettendo sempre nome, cognome e data - è ancora il ricordo della cooperante - Non lo ho mai visto in faccia, anche se ormai avevo imparato a riconoscere le loro voci. Erano sei e si davano il cambio, in gruppi di tre». E proprio da quello stesso telefonino sono stati inviati i messaggi per la trattativa. Indicazioni sulle quali è puntata l'attenzione degli investigatori, perché potrebbe fornire elementi utili all'individuazione dei rapitori. Gli inquirenti stanno confrontando le dichiarazioni di Silvia con i documenti in loro possesso. Tra questi un serie di tabulati telefonici che potrebbero fornire risposte sui mandanti e gli organizzatori del sequestro. Si tratta di atti acquisiti dal Ros nell'estate del 2019 nel corso di una missione effettuata in Kenya nell'ambito dell'accordo di collaborazione tra i due paesi culminato con un vertice a piazzale Clodio nel luglio dell'anno scorso. I tabulati dimostrano come i componenti della banda criminale che ha eseguito il sequestro il 20 novembre del 2018, abbiano avuto numerosi contatti con la Somalia sia prima che dopo il blitz avvenuto nelle vicinanze del villaggio Chakama a circa 80 chilometri da Malindi. Un elemento che avvalora ulteriormente l'ipotesi che quello della Romano sia stato un sequestro su commissione, pianificato in Somalia. Un altro fronte sul quale la procura sta lavorando è quello che riguarda la onlus Africa Milele dove Silvia lavorava. Ha garantito i livelli di sicurezza? I magistrati hanno sentito anche i vertici della onlus per verificare le modalità del viaggio e della permanenza della volontaria nel villaggio africano. E ora, dopo il suo racconto e alcune dichiarazioni rese dalla responsabile della ong la procura potrebbe volere proseguire su questo filone. Silvia era reduce da un'esperienza come volontaria in Africa, aveva fatto un colloquio e un corso on line e successivamente è stata mandata nel villaggio in Kenya. Conosceva l'inglese e aveva la qualifica di referente con diverse responsabilità. «Non fu mai lasciata sola - ha detto la fondatrice della ong Lilian Sora sottolineando che per la sicurezza c'erano due «masai armati di machete» ma uno di loro «era al fiume» quando è stata rapita. Silvia era arrivata il 5 novembre: «Non avevamo fatto in tempo ad attivare l'assicurazione», ha concluso.

Silvia Romano, l'ambasciatore Pupi D'Angeri: "Ad un certo punto non era più prigioniera". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. C'è qualcuno che sulla liberazione di Silvia Romano ha delle idee differenti, peculiari, inquietanti. Si tratta di Pupi D'Angeri, ambasciatore del Belize presso l'Unione europea, che ha detto la su a La Zanzara di Radio 24: "Quando è scesa dall’aereo sembrava Sofia Loren, non una prigioniera. E’ uscita che è una meraviglia", ha subito sparato. E ancora: "Sono stato capo dei negoziatori di Yasser Arafat  - rimarca - e qualcosa di questo mondo so. Credo sia stata fatta un’offesa, soprattutto ai militari che combattono il terrorismo. Perché questa è una vittoria dei gruppi terroristici. Sappiamo benissimo che una donna che abbraccia la religione musulmana lo fa per sposare l’uomo che ama. Sicuramente  ha una relazione, di questo siamo certi". Parole pesantissime. Ma non è finita. Perché D'Angeli aggiunge anche: "Vi rivelo una cosa, a un certo punto lei è stata acquistata e non è stata più in prigionia. Anzi, lei è una signora dalle uova d’oro. Perché ha portato in dote 4 milioni di euro al gruppo terroristico. Lei è una dell’Al Shabab, è una donna straordinaria". L'ambasciatore, poi insiste sul fatto che a suo parere l'arrivo a Ciampino sarebbe stata un'offesa ai nostri militari. Perché? "Perché è scesa dall’aereo vestita prettamente araba, dicendo che si è convertita all’islamismo dei terroristi somali contro i quali combattiamo. E poi la signorina si è trovata così bene, ed io sono felice per lei, che è diventata una fonte di guadagno, in più una moglie. Lei non è mai stata rapita da loro, lo è stata i primi giorni. Non è solo una mia intuizione. E’ stata rapita, ma poi portata in Somalia, dove è scattato l’amore. Cosa che può succedere", ha concluso Pupi D'Angeri. Parole destinate a far molto discutere. 

Dagospia il 14 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Quando è scesa dall’aereo sembrava Sofia Loren, non una prigioniera. E’ uscita che è una meraviglia”. Così Pupi D’Angeri, ambasciatore del Belize presso l’Unione Europea, a La Zanzara su Radio 24. “Sono stato capo dei negoziatori di Yasser Arafat – dice - e qualcosa di questo mondo so. Credo sia stata fatta un’offesa, soprattutto ai militari che combattono il terrorismo. Perché questa è una vittoria dei gruppi terroristici. Sappiamo benissimo che una donna che abbraccia la religione musulmana lo fa per sposare l’uomo che ama. Sicuramente  ha una relazione, di questo siamo certi”. “Vi rivelo una cosa – dice Pupi D’Angeri – a un certo punto lei è stata acquistata e non è stata più in prigionia. Anzi, lei è una signora dalle uova d’oro. Perché ha portato in dote 4 milioni di euro al gruppo terroristico. Lei è una dell’Al Shabab, è una donna straordinaria”. Perché è un’offesa ai militari?: “Perché è scesa dall’aereo vestita prettamente araba, dicendo che si è convertita all’islamismo dei terroristi somali contro i quali combattiamo. E poi la signorina si è trovata così bene, ed io sono felice per lei, che è diventata una fonte di guadagno, in più una moglie. Lei non è mai stata rapita da loro, lo è stata i primi giorni. Non è solo una mia intuizione. E’ stata rapita, ma poi portata in Somalia, dove è scattato l’amore. Cosa che può succedere”. E l’abito lo potevano evitare?: “Vorrei saperlo. Come mai non le hanno detto: togliti questa cosa dalla testa?  Perché probabilmente lei sta facendo una vera e propria propaganda all’Islam. E’ come se domattina liberassero un padre gesuita che si presenta vestito da imam. E poi un’altra cosa”. Cosa?: “Voi sapete che per la legge del ricongiungimento familiare lui domattina può venire qua? Perché una donna per legge musulmana deve essere musulmana per sposarsi con un musulmano”.

LO SPOT…

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 15 maggio 2020. «Conte e Di Maio sono stati due pagliacci. Indegni di rappresentarci». Chi lancia queste accuse gravissime dopo aver visto la «miserabile passerella» di Ciampino non è un quisque de populo spuntato dai bassifondi di Internet e protetto dall' anonimato. È un uomo delle istituzioni, un servitore dello Stato abituato a pesare le parole prima di pronunciarle: il generale Carlo Jean. Curriculum stellare, il suo: 83 anni, incarichi di altissimo prestigio nell' esercito italiano e nella Nato, medaglie e onorificenze che non si contano. È stato direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare di Francesco Cossiga al Quirinale, presidente del Centro alti studi per la Difesa. Dalla sua cattedra universitaria ha insegnato a generazioni di diplomatici cosa sono gli Studi Strategici, è autore di decine di libri e di un numero imprecisato di saggi sulla geopolitica e la geoeconomia. È uno dei maggiori esperti italiani in materia di jihad e terrorismo internazionale. Ne ha viste tante, tenendo per sé i giudizi più aspri. Stavolta, no. Ha appena scritto un articolo su Start Magazine, rivista online diretta da Michele Arnese. Eccolo: Carlo Jean per startmag.it il 15 maggio 2020. In Italia tutto viene messo in politica. Il risultato sono pagliacciate. Da parte dei “cretini di turno” con le critiche alla conversione della ragazza e alla somma pagata, negata dal nostro ineffabile ministro degli Esteri, con la stessa “faccia di tolla” con cui smentiva di sapere che l’azienda di cui possiede al 50% avesse lavoratori in nero. Dal governo, con la miserrima – a parer mio “miserabile” – passerella fatta a Ciampino per ricevere Silvia Romano. Tanto di cappello al senso dell’onore e della dignità del ministro della difesa Guerini che ha rifiutato di partecipare a tale indegna sceneggiata ”borbonica”. Sapeva bene quanto male essa facesse al prestigio internazionale dell’Italia, ma se ne è chiaramente fregato…Detto questo, sia i “soliti idioti” che se la prendono con la ragazza sia parte del governo hanno cercato di sfruttare l’occasione per guadagnare consenso. Non esiste differenza etica fra i due. Ma restano molti interrogativi. I liberatori di Silvia e certamente anche la ragazza non sono dei cretini. Erano sicuramente consapevoli dell’intenzione di riceverla in pompa magma. Ne hanno informato il governo. Per amore della “passerella” esso se ne è fregato e ha organizzato un comitato d’accoglienza, per celebrare la sua gloria. Le sue immagini avrebbero fatto il giro del mondo. Nei paesi civilizzati hanno a ragione suscitato disprezzo e sarcasmo. Sono poi state abilmente sfruttate dalla propaganda jihadista. Allora, perché nostri governanti si sono prestati al gioco? Ho studiato abbastanza il terrorismo per sapere quanto sia efficiente nelle sue comunicazioni e nello sfruttare ogni occasione favorevole e quanto curi i particolari per evitare effetti boomerang. Penso che, con ogni probabilità, Silvia Romano sia stata liberata non solo con riscatto, ma anche sotto ricatto. Se non si fosse comportata come detto dai suoi carcerieri, essi avrebbero giustiziato qualche ostaggio, suo compagno di prigionia. Questo spiega anche perché i drones Usa schierati nel Corno d’Africa non abbiano bombardato per rappresaglia il villaggio in cui si trovava, tanto per dire allo Shabab di non “scherzare” troppo. Se nei confronti della ragazza vanno usati il massimo rispetto e comprensione, essi non possono esserlo nei confronti dei “pagliacci”, che indegnamente ci rappresentano e che hanno scelto di esibirsi nella sceneggiata di Ciampino, noncuranti del danno che facevano a tutti noi.

DAGONOTA il 12 maggio 2020. Sul caso Silvia Romano, la figura di merda l’hanno fatta Conte e Di Maio. La spettacolarizzazione che hanno messo in opera della liberazione della cooperante diventata Aisha – tweet a pioggia, tutte le tv collegate a Ciampino, portavoce trasformati in paparazzi – ha mostrato ancora una vota che il premier e il ministro degli Esteri sono due dilettanti allo sbaraglio, privi dei fondamentali della politica. Non hanno capito che i tempi del Coronavirus sono diversi, che la pandemia ha esacerbato gli animi e lo stomaco di tanti italiani che hanno visto un futuro prossimo senza lavoro, senza soldi, senza frigo pieno. Questa super esposizione del “trofeo” Silvia Romano si è trasformata in boomerang letale. Pur essendo stati avvisati dagli agenti dell’Aise che la cooperante aveva abbracciato l’Islam, che non aveva nessuna intenzione di abbandonare per l’arrivo a Ciampino il vestito da donna musulmana, Conte e Di Maio hanno fatto la passerella. Mentre “i paesi anglosassoni da tempo non diffondono video del ritorno a casa degli ostaggi liberati e persino dei funerali dei propri caduti militari per non far circolare immagini preziose per la propaganda e le operazioni psicologiche del nemico. Alla fine del 2001 in una lettera che gli statunitensi sostengono di aver trovato in un covo di al-Qaeda in Afghanistan, scritta da Osama bin Laden al mullah Omar, il capo di al-Qaeda sosteneva che “la guerra dei media è uno dei metodi più forti per ottenere la vittoria finale …. Il 90 per cento della preparazione per le nostre battaglie deve essere affidato al bombardamento mediatico”. (vedi articolo a seguire) Ma basta osservare attentamente la foto che oggi il Corriere pubblica a pagina 10, dove si vede “l’ansia da prestazione” che porta Di Maio, conciato con grottesca mascherina tricolore, ad essere un passo avanti alla Romano, che è affiancata da Conte, mentre i genitori di Aisha sono relegati in fondo, come due imbucati, per capire che i 5Stelle hanno come fondamentali della politica il “Grande Fratello”, starring Rocco Casalino, e gli show di Beppe Grillo. 

Silvia Romano, il retroscena: Luigi Di Maio non sapeva nulla della liberazione. Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Dopo 18 mesi, Silvia Romano è stata liberata. La cooperante milanese, rapita nel novembre 2018 in Kenya e in mano da mesi ad Al Shabaab, tornerà in Italia oggi, domenica 10 maggio, l'atterraggio è previsto a Fiumicino per le 14. Una bellssima notizia, quando da tempo ormai in molti avevano perso le speranze di riportarla a casa e sottrarla alle grinfie del gruppo jihadista. Ma, si apprende, dalla fine di novembre i servizi segreti italiani avevano la certezza che fosse viva. E in questa bella storia, però, c'è un dettaglio che fa riflettere. E che riguarda Luigi Di Maio. Un dettaglio di cui dà conto Repubblica: il grillino, ministro degli Esteri, non sapeva nulla. Il quotidiano infatti fa sapere che Silvia romano dopo la liberazione è stata portata al compound delle forze internazionali, da dove gli uomini dell'Aise - che fino a quel momento avevano mantenuto il massimo riserbo - hanno dato la notizia della sua liberazione. A quel punto, Giuseppe Conte ha twittato: "Silvia è libera". Ma in quel momento, quando il premier comunicava la notizia all'Italia, Di Maio ancora non era stato informato di nulla: circostanza che ci permette di comprendere in modo plastico, istantaneo, quanto Di Maio alla Farnesina non venga preso sul serio. Poco più di una figurina... 

Francesco Bei per ''La Stampa'' l'11 maggio 2020. La photo opportunity all'aeroporto militare di Ciampino, con Silvia Romano stretta fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, non è bastata a sciogliere il gelo che nelle ultime 48 ore è sceso tra palazzo Chigi e la Farnesina. Uno scontro dietro le quinte che ha avuto per oggetto la "gestione" mediatica del rilascio della rapita più famosa d' Italia, senza dubbio un bel colpo d' ala per un governo in affanno. Il fatto è che l' Aise del generale Luciano Carta già nella serata di venerdì aveva comunicato a palazzo Chigi l' avvenuta consegna della prigioniera, ricevendo però il caldo "consiglio" di aspettare prima di riferire ad altri - in particolare al ministero degli Esteri - la notizia. Così è stato il premier ad annunciare alla nazione l' avvenuta liberazione della cooperante, lasciando di stucco Di Maio, i cui uomini avevano lavorato per mesi sul caso. Dalla corsa a farsi una foto con Silvia, anzi con "Aisha", si è sottratto invece il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il quale ad amici avrebbe anzi confidato tutto il suo stupore per «la gara di presenzialismo» a Ciampino intorno alla giovane velata e alla sua famiglia. Sta di fatto che Di Maio - ed è questa la notizia più clamorosa - è arrivato al "31esimo Stormo senza sapere che ad accogliere Silvia-Aisha ci sarebbe stato anche il premier. In serata diverse fonti raccontano che tra i due ci sarebbe stato un chiarimento e la questione sarebbe stata diplomaticamente archiviata come uno «spiacevole equivoco». A suggellare la tregua è arrivato l' accordo su chi promuovere all' Aise dopo l' imminente uscita di Carta nominato alla presidenza di Leonardo. La scelta sarebbe caduta sul generale Giovanni Caravelli, da sei anni numero due del controspionaggio. Caravelli ha gestito in prima persona, con i suoi uomini, la partita a scacchi con i rapitori della Romano.

Manuel Fondato per ''Il Tempo'' l'11 maggio 2020. La liberazione di Silvia Romano, cercata o meno, non poteva giungere in un momento migliore per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, fornendogli la possibilità di un nuovo momento di visibilità e popolarità e distrarre l'opinione pubblica con una splendida notizia. Tuttavia la sua fuga in avanti solitaria nel comunicare la liberazione della ragazza, non è piaciuta a molti. In primis a Luigi Di Maio. Come ministro degli Esteri avrebbe dovuto avere, oltre alla regia, perlomeno informazioni migliori rispetto al tweet del premier, che pare lo abbia colto di sorpresa, in quanto totalmente ignaro dell'accaduto. L'entusiasmo social dello staff di Conte è stato tale da far dimenticare anche la famiglia Romano, all'oscuro di tutto, come è stato confermato dal padre di Silvia, Enzo. La fretta di intestarsi un successo, dopo giorni di polemiche e tensioni, è stata, come spesso accade, cattiva consigliera.

Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 12 maggio 2020. Il governo non può chiudere il caso Silvia Romano con un semplice «lasciamola in pace», soprattutto dopo l' inopportuno ritorno a casa in salsa islamica.

Perché il governo ha deciso di spettacolarizzare il rientro dell' ostaggio con la sindrome di Mogadiscio, che rischia di essere un boomerang? L' imbarazzante rientro non solo ha alimentato una marea di dubbi, ma è servito a sollevare la rivolta sui social e nella politica contro l' esecutivo. La scelta è stata doppiamente azzardata perché ha fatto il gioco dei terroristi, che ne sono usciti quasi con una bella figura mediatica senza un solo cenno di condanna dall' ex ostaggio. Il difetto di coordinamento fra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ha ulteriormente ingarbugliato la decisione di accendere i riflettori sul ritorno a casa della cooperante. La stessa intelligence preferiva stendere un pietoso velo sul ritorno vittorioso della convertita.

Perché, oltre all' intelligence turca, non risulta che abbiamo chiesto aiuto agli americani più che operativi in Somalia? Ai servizi italiani non poteva mancare l' avallo politico da Roma per coinvolgere, anche se non in maniera fondamentale, le barbe finte turche ben radicate in Somalia. Peccato che qualche fuso orario più in là, in Libia, i giannizzeri di Erdogan sono riusciti a scalzare l' Italia e fare quello che vogliono con il governo di Tripoli. L' appoggio agli americani è stato evitato o chiesto solo in parte perché la linea di Washington è di incenerire i terroristi con i droni piuttosto che trattare per liberare gli ostaggi. I turchi sono serviti per la linea morbida, mentre il Pentagono avrebbe proposto un blitz armi in pugno. Il comando americano di Africom ha fatto fuori circa 800 terroristi e civili in 110 raid dal cielo dall' aprile 2017. Uno degli ultimi bersagli centrati, l' 8 marzo, è Bashir Mohamed Qorga, comandante degli Al Shabaab che aveva una taglia Usa sulla testa di 5 milioni di dollari.

Come mai non è saltato fuori neppure uno dei video della prova in vita di Silvia? I filmati delle due Simone velate e rapite in Irak o delle «Vispe Terese» sequestrate in Siria sono venuti alla luce come altri video, più o meno drammatici, di ostaggi italiani sotto tiro dei terroristi. Al momento non è saltato fuori nulla del genere per Silvia. Forse nei filmati che gli Al Shabaab hanno girato era già evidente la sindrome di Mogadiscio. E tirarla fuori significava non tanto liberare un ostaggio trattenuto in condizioni terribili, ma evitare che i cugini somali di Al Qaida continuassero a manipolare la cooperante. Non solo il governo, ma l' antiterrorismo dei carabinieri e la procura di Roma dovrebbero seriamente chiedersi fino a che punto è arrivata questa manipolazione. E se Silvia è una vittima e testimone attendibile.

È stato giusto pagare il riscatto? Nessuno deve restare indietro, come insegnano gli israeliani, ma un' ampia fetta della pubblica opinione si chiede se valeva la pena aprire il cordone della borsa. Forse sarebbe stato il momento di invertire la tendenza italica a pagare e non a sparare per liberare un ostaggio.

Lo Stato chiederà il rimborso a chi ha mandato Silvia in Kenya? La famiglia di Silvia Romano avrebbe rotto i rapporti con l' onlus Africa Milele, che l' ha ingaggiata come volontaria in Kenya. Sicuramente non era coperta da un' assicurazione per «recupero e riscatto», che costa molto. Ma è giusto che paghi sempre Pantalone, o meglio i contribuenti italiani? 

Gabriele Carrer per formiche.net il 13 maggio 2020. In molti, a partire da Formiche.net e Il Foglio, hanno evidenziato due stili comunicativi diversi e opposti in occasione dell’arrivo all’aeroporto di Ciampino di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya e rimasta per un anno e mezzo nelle mani dell’organizzazione terroristica Al Shabaab. Da una parte la comunicazione quasi ossessiva del Movimento 5 Stelle con il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio presenti sul luogo. Dall’altra quella più istituzionale del Partito democratico, in particolare del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, assente nell’occasione. Una differenza evidenziata anche da Filippo Sensi, ex portavoce dei premier dem Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, in un tweet: “E poi c’è lo stile di Lorenzo Guerini”. Formiche.net ne ha parlato con Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, saggista e docente alla Luiss, editorialista de La Stampa e autore del libro Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi (Marsilio, 2018).

Come valuta la comunicazione del governo sul caso di Silvia Romano?

«La gestione comunicativa del rientro della cooperante, una notizia bellissima, ha evidenziato una seria di criticità. È in qualche modo il punto di arrivo di una divaricazione nella gestione di alcune tematiche della politica estera italiana, soprattutto su temi di sicurezza nazionale e il posizionamento del Paese nel sistema delle alleanze internazionali».

Ha parlato di una divaricazione. In che senso?

«Da un lato abbiamo una forte spinta comunicativa ai limiti dell’ossessione, che vede una competizione tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, figli di una cultura comunicativa molto marcata che trova nella proiezione esterna, nella forma un elemento più importante spesso della sostanza. Dall’altro un understatement e una propensione a rispettare una serie di equilibri e silenzi comunicativi che sono molto importanti in materie così delicate da parte del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini».

La comunicazione del ministro degli Esteri e del premier è in linea con la tradizione pentastellata?

«Entrambi arrivano dalla tradizione politica del Movimento 5 Stelle, che ha trasformato la sua carica antipolitica in una spinta governista d’emblée, senza maturare un processo di istituzionalizzazione che esso stesso ha rifiutato giocando sull’ambiguità tra movimento, leadership forte ma non definita, assenza di catena precisa di comando e presenza di centri di influenza esterni (un’azienda privata, la Casaleggio associati). E questo crogiolo oggi è entrato nelle istituzioni, con un ruolo per giunta dominante. L’elemento di continuità in questo cambiamento — avvenuto nell’arco di pochissimi anni e che ha portato il Movimento 5 Stelle a essere la prima forza rappresentata in Parlamento, con un ruolo decisivo anche nella gestione di questa crisi pandemica — è per l’appunto la centralità della comunicazione e della propaganda. Sulla base di un retaggio ideologico, quello della trasparenza, e di un’idea di centralità della costruzione di un consenso — che è volatile e volubile — la dimensione della comunicazione fa premio rispetto a qualunque altro elemento».

Lo abbiamo visto anche nella gestione del rientro di Silvia Romano?

«Sì. Da due punti di vista: la questione della sicurezza e il fatto che la guerra terroristica sia innanzitutto comunicativa — e non è un fatto recente, basti pensare agli anarchici dell’Ottocento. E un’esposizione mediatica così forte rischia di regalare cartucce propagandistiche ai terroristi. Per questo, l’ansia prestazionale comunicativa degli esponenti del Movimento 5 Stelle ha trasformato tutto questo in un problema in un Paese che già tra attraversando le difficoltà di questa crisi pandemica. La sobrietà e la gestione senza toni sopra le righe sarebbero state estremamente più opportune».

Arriviamo quindi alla comunicazione di Guerini…

«Esatto. In questo contesto spiccano la mancata presenza del ministro della Difesa e la continuità di uno stile comunicativo molto sobrio e istituzionale, che si addice a chi ha a che fare con la sicurezza nazionale e l’esercizio della forza, basato sulla discrezione e il controllo della situazione. È la comunicazione del premier e del ministro degli Esteri che ha offerto lo spazio a un diverso modello non urlato, che non cavalca l’emozione e che può presentarsi come un punto di ancoraggio e riferimento in una fase che si preannuncia molto difficile anche per quanto riguarda lo spirito delle democrazie liberal-rappresentative».

In che senso?

«Dall’uso della decretazione d’emergenza alla limitazione delle libertà personali, questi processi che vanno contro il senso della democrazia liberale possono essere accettati nella misura in cui vengono definiti nel tempo, spiegati, argomentati nel nome di un bene superiore, in questo caso la lotta alla pandemia e la tutela della salute. Ma nel momento in cui queste restrizioni — che producono anche una serie di aggravamenti della situazione economica e sociale — vengono prolungate e non si ricostruiscono nel Paese fiducia, prospettiva e senso del futuro, la democrazia liberale, che è inseparabile dall’idea della società aperta, delle libertà individuali e del mercato, è in difficoltà. E rispetto a questo abbiamo visto diverse forme di sbavature che minano non soltanto il nostro quadro di relazioni internazionali ma anche la nostra visione della democrazia liberale e rappresentativa. Penso che tutti coloro che hanno a cuore la democrazia liberale debbano preoccuparsi di tutta la retorica sull’efficienza del modello asiatico, cioè delle autocrazie illiberali nella lotta alla pandemia, cosa tra l’altro non vera in termine scientifici».

Torniamo al premier Conte. Ieri sul Sole 24 Ore il professor Roberto D’Alimonte osservava alcune affinità tra lui e uno dei suoi predecessori, Romano Prodi, per i loro sforzi a unire due mondi molto lontani fra loro. Che cosa ne pensa?

«Il premier Conte sa di essere l’elemento di sutura, in un contesto di grande scompaginamento del quadro politico, di un fronte “contro la destra populista”. Ma in Italia assistiamo a uno scenario inedito: in nessun Paese al mondo vediamo la presenza di una forza populista di governo così come di una forza populista di opposizione, entrambe decisive nei numeri. Conte coltiva un’ambizione riconducibile al modello prodiano, una figura senza partito che vuole fare da anello di congiunzione tra due mondi. Ma le differenze sono profonde dal punto di vista politico. Il premier, che insiste molto sulla comunicazione, vede però una finestra da cogliere per fare da primo attore in un contesto in cui le bocce sono in grande movimento. E per altro si fa forza di una serie di ripetute dichiarazione di Nicola Zingaretti e di una parte del Partito democratico che lo aveva fotografato come il leader di un campo progressista».

Ma possiamo davvero chiamarlo campo progressista?

«Naturalmente no. La componente populista è troppo forte e la cultura di governo che si esprime attraverso quelle posizioni che un tempo avremmo definito di centro liberale-moderato è molto minoritaria nella maggioranza. Fattori che la crisi pandemica ha evidenziato in maniera chiarissima».

Esiste una continuità comunicativa tra il ministro Guerini e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella?

«Mi pare ci sia un’assonanza dal punto di vista della cultura e della tradizione politiche, che ci sia un’idea molto forte del ruolo sobrio e fermo delle istituzioni, specie in momenti di crisi come questo, per evitare lacerazioni. Provengono da una cultura politica collocata in un quadro costituzionale e politico che a lungo è stato un elemento di presidio democratico e istituzionale del Paese nell’ambito dell’atlantismo e dell’europeismo. A tal proposito è sufficiente leggere le parole del ministro Guerini, pronunciate in un contesto difficile come la pandemia, per la fine della missione russa in Italia: frasi molto istituzionali e di ringraziamento nel modo dovuto, che però hanno ribadito con nettezza la nostra collocazione internazionale. Altro tema di politica estera a cui si può applicare questo ragionamento è la Cina, verso cui il Movimento 5 Stelle dimostra particolare consonanza».

Silvia Romano, i servizi segreti italiani contro Giuseppe Conte: gli errori imperdonabili. Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Se invece di cedere al protagonismo avesse ascoltato i consigli dei servizi segreti italiani, pronti a garantire un rientro discreto di Silvia Romano, Giuseppe Conte avrebbe risparmiato una pessima figura all’Italia e un bel po’ di gogna accusatoria alla ragazza. Ne è convinto Il Giornale, che nell’edizione odierna ricostruisce tutti i passi falsi del premier dalle indiscrezioni sul riscatto alla collaborazione con gli 007 turchi fino al ritorno di Silvia in vesti islamiste. Il peggio di sé Conte lo ha dato nell’epilogo del caso, quando ha perso di vista la differenza tra l’azione dell’intelligence, per definizione oscura e discreta, e quella pubblica della politica. Non c’è nulla di strano che la nostra Aise abbia lavorato con servizi segreti concorrenti o addirittura nemici, né che si sia accordata per un riscatto (anche se è illegale): ma tutto ciò doveva rimanere sepolto nelle stanze oscure dei servizi, come accade sempre per casi come questi. Oltre agli errori sul riscatto e sulla spettacolarizzazione del ritorno di Silvia, che si è rivelata un clamoroso omaggio propagandistico ai terroristi di Al Shaabab, secondo Il Giornale sono state disastrose anche le indiscrezioni sulla collaborazione con i servizi segreti turchi e con il Qatar: “Anche qui esecutivo e premier non sembrano aver colto l’essenziale differenza tra il livello della politica e quello dell’intelligence”. Questi, di fatto, i rilievi mossi dai nostri 007 contro un premier sempre più nel mirino.

Gian Micalessin per “il Giornale” il 14 maggio 2020. Sopra i servizi il nulla. È l' amara verità del caso Silvia Romano. Un caso in cui alla consueta efficienza della nostra intelligence è corrisposta la goffaggine, la sconsideratezza e l' improvvisazione di un Giuseppe Conte assolutamente inadeguato a quella delega sui servizi a cui tanto sembra tenere. L' improvvisazione del premier in un settore così delicato era già apparsa evidente ad agosto quando mise i vertici della nostra intelligence a disposizione del ministro della Giustizia statunitense William Barr. Ma il peggio di sé Conte l'ha dato nell'epilogo del caso Silvia Romano quando è sembrato perdere di vista la differenza tra l' azione dell' intelligence, per definizione oscura e discreta, e quella pubblica della politica. Collaborare con un un'altra intelligence, anche se concorrente o addirittura nemica, non è per servizio segreto né un tabù, né una mancanza. È la sua ragion d' essere visto che gli 007 nascono proprio per realizzare operazioni politicamente inconfessabili. Quindi nulla di strano se sotto traccia la nostra Aise lavora con gli agenti di un Erdogan pronto a buttarci fuori dal Mediterraneo e dalla Libia. E nulla di male se un agente segreto discute il prezzo del riscatto e va poi a consegnarlo in un emirato come il Qatar dove i grandi affari si mescolano al finanziamento del terrorismo jihadista. Tutto questo deve però rimanere rigorosamente sepolto nelle stanze oscure dei servizi. La liberazione di Silvia Romano è invece stata accompagnata da indiscrezioni sul pagamento del riscatto e sulla sua entità tracimate non dall' estero, ma dai palazzi governativi. Il tutto senza che l' esecutivo si preoccupasse di diffondere, come sempre in passato, un' ufficiale e vigorosa smentita. L' esecutivo e il premier si sono comportati insomma come se quel pagamento fosse un' operazione lecita o addirittura meritoria nell' ottica della risoluzione del caso e quindi degna di venir fatta conoscere all' opinione pubblica. Ma pagare un riscatto a un' organizzazione terroristica - oltre a essere vietato in ambito internazionale in base all' articolo 2 della Convenzione di New York del 1979 sottoscritta dell' Italia - potrebbe risultare perseguibile sul piano nazionale in base alle leggi sui sequestri di persona. Tanta sprovveduta superficialità rischia di mettere nei guai e coinvolgere in un' eventuale indagine giudiziaria anche gli esecutori materiale del pagamento, ovvero i nostri 007. Gli errori non si fermano qui. La spettacolarizzazione del ritorno di Silvia Romano in vesti islamiste trasformatasi in un clamoroso omaggio propagandistico ai terroristi di Al Shaabab è un autogol mediatico senza precedenti. Se invece di cedere al protagonismo avesse ascoltato i consigli di un'Aise pronta a garantire un rientro discreto dell' ostaggio Giuseppe Conte avrebbe risparmiato una pessima figura all' Italia e un bel po' di gogna accusatoria a Silvia Romano. E altrettanto disastrose sono state le indiscrezioni sulla collaborazione con i servizi segreti turchi e con il Qatar. Anche qui esecutivo e premier non sembrano aver colto l' essenziale differenza tra il livello della politica e quello dell' intelligence. Un' incapacità già emersa in Libia dove da tempo si pretende che l'Aise sopperisca alle assenze del governo. Un' incapacità a cui non sopperisce nemmeno un Pd di Nicola Zingaretti che - come rilevano in ambienti vicini all' intelligence - lascia a «leggere i giornali» esponenti di spessore come l' ex ministro dell' interno Marco Minniti.

LA TRATTATIVA.

Silvia Romano, il giallo della trattativa: drammatica conferma dai servizi. Prigioniera dell'orrore islamico. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Silvia Romano sarebbe stata rilasciata dopo il pagamento di un riscatto. La consegna dell’ostaggio, rivela Fiorenza Sarzanini su Corriere.it, è avvenuta venerdì 9 maggio notte a in una zona a trenta chilometri da Mogadiscio. La giovane cooperante milanese, rapita un anno e mezzo fa in Kenya, sarebbe stata lasciata “nelle mani del contatto trovato dall’intelligence italiana guidata dal generale Luciano Carta grazie alla collaborazione con i colleghi somali” e a una “sorta di triangolazione con gli 007 turchi”. La trattativa con il gruppo jihadista di Al Shabaab è durata mesi. Venti giorni fa poi è finalmente arrivata la prova che Silvia era viva. Una conferma importante dopo mesi in cui si erano susseguite “voci e illazioni che secondo l’intelligence avevano soltanto l’obiettivo di far salire il prezzo del rilascio”, scrive ancora la Sarzanini.

Quindi, sei mesi fa, quindi, “è stata avviata la trattativa per il pagamento del riscatto. Un negoziato che è entrato nel vivo a metà aprile. Fino al via libera ottenuto grazie alla mediazione dei turchi”. Venerdì notte la svolta con lo scambio in un momento peraltro tragico per la zona in ginocchio per le alluvioni. 

Silvia Romano è libera: i retroscena della trattativa. Veronica Caliandro il 09/05/2020 su Notizie.it. Silvia Romano è libera grazie ad un blitz dell'intelligence condotto con la collaborazione dei servizi turchi e somali. Dopo un anno e mezzo dal rapimento finalmente Silvia Romano è libera. Ad annunciarlo è stato il Premier Conte, con fonti dei Servizi che hanno spiegato come l’operazione di recupero sia iniziata all’alba di sabato 9 maggio 2020. Soltanto qualche settimana fa un’amica di Silvia Romano, nel corso di un’intervista a Libero, aveva rilasciato delle dichiarazioni secondo cui la ragazza fosse viva e presto sarebbe tornata in Italia. Ebbene, finalmente la buona notizia è giunta e Silvia Romano è libera. La prova che la ragazza fosse viva era giunta una ventina di giorni fa dopo una trattativa durata mesi con il gruppo jihadista di Al Shabaab, mentre a novembre si era avuta la certezza che stesse bene, seppur provata dalla prigionia. Fino ad allora, infatti, non vi era alcuna certezza che dopo il passaggio dai criminali kenyoti che l’aveva sequestrata ai fondamentalisti che l’hanno custodita, fosse ancora viva. Anzi, quasi un anno fa si era diffusa la voce secondo la quale Silvia Romano fosse deceduta in seguito ad un’infezione dopo essere rimasta ferita nel corso di uno dei trasferimenti da una prigione all’altra. Voci che secondo l’intelligence erano state diffuse con il solo intento di far salire il prezzo per il riscatto. Sei mesi fa, dopo aver ottenuto la prova che la Romano fosse viva, quindi, è stato dato il via alla trattativa per il pagamento del riscatto. Una trattativa entrata nel vivo verso metà aprile, fino al via libero giunto grazie alla mediazione dei turchi. Agli 007 che erano già sul posto si sono poi aggiunti nel corso degli ultimi giorni altri specialisti partiti da Roma e venerdì sera è avvenuto finalmente lo scambio. La consegna dell’ostaggio è avvenuta venerdì 9 maggio notte in un’area a 30 chilometri da Mogadiscio. L’operazione dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna diretta dal generale Luciano Carta, infatti, è scattata nella notte tra l’8 e il 9 maggio. Un blitz, quello dell’intelligence, condotto con la collaborazione dei servizi turchi e somali. In Somalia, infatti, Ankara gestisce una grande base militare dove soldati turchi addestrano militari locali. Silvia Romano si trova al momento in sicurezza nel compound delle forze internazionali a Mogadiscio. Un’operazione di salvataggio, in base a quanto riportato da Globalist, resa possibile dal fatto che Silvia Romano non fosse più nelle mani di un gruppo jihadista, bensì fosse finita nelle mani di una banda di criminali comuni il cui unico interesse erano i soldi. Si attende nel primo pomeriggio l’arrivo a Ciampino dell’areo che riporta a casa la giovane volontaria, previsto per le ore 14 di domenica 10 maggio. Ad accoglierla ci sarà anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e in seguito Silvia Romano sarà sentita dai pm di Roma. Il rilascio è giunto o dopo una lunga trattativa con il gruppo fondamentalista di Al Shabaab ed è stato organizzato dai servizi italiani in collaborazione con quelli somali e turchi.

Luigi Guelpa per ''il Giornale'' il 10 maggio 2020. «Mi sento bene e non vedo l' ora di tornare in Italia. Sono stata forte e ho resistito». Silvia Romano l' ha fatto per 536 interminabili giorni di prigionia, nonostante il movimento vorticoso di voci, di smentite, e, purtroppo, di notizie poco attendibili confezionate dai media subsahariani. L' annuncio del suo rilascio è arrivato ieri pomeriggio dal premier Giuseppe Conte, che in un tweet ha rivelato la notizia, ringraziando «le donne e gli uomini dei servizi di intelligence esterna. Silvia, ti aspettiamo in Italia!».  La volontaria della onlus Africa Milele era stata rapita il 20 novembre del 2018 in Kenya, nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma e dai carabinieri del Ros, era tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista Al Shabaab, l' organizzazione somala affiliata ad Al Qaida e considerata ostaggio politico. Silvia è stata portata ieri pomeriggio in un compound a Mogadiscio, dopo essere stata liberata venerdì notte a 30 chilometri dalla capitale nel corso di un' operazione a cui hanno preso parte agenti somali, turchi e italiani. In Somalia, infatti, Ankara gestisce una grande base militare dove soldati turchi addestrano militari locali. L'aereo dei servizi segreti che la riporterà in Italia oggi alle 14 a Roma era decollato ieri mattina da Ciampino. La trattativa del rilascio è stata condotta dall' Aise diretta dal generale Luciano Carta e si sarebbe sbloccata a metà aprile. Una volta che i nostri 007 hanno avuto la prova che fosse in vita, sono partite le trattative per stabilire il prezzo del rilascio. Il governo italiano ha negato almeno per il momento che sia stata versata una cifra per la liberazione, anche se funzionari vicini al ministro degli Esteri somalo Ahmed Isse Awad sostengono che l' Italia abbia pagato ai rapitori una cifra vicina ai 4 milioni di euro. Dopo la liberazione la volontaria ha parlato al telefono con la mamma Francesca e con il premier Conte. «È provata ovviamente dallo stato di prigionia, ma le sue condizioni di salute si possono considerare buone», ha riferito il presidente del Copasir, Raffaele Volpi. Il rapimento di Silvia Romano era stato pianificato a Eastleigh il quartiere somalo di Nairobi, chiamato anche «la piccola Mogadiscio». All'apparenza un immenso bazaar, ma soprattutto sede della Moschea della Sesta Strada, conosciuta come la più oltranzista, covo di miliziani di Al Shaabab e di loro simpatizzanti. Da Eastleigh proveniva Said Abdi Adan, l' uomo che arrivò a Chakama assieme a due complici per affittare una casa a pochi passi dalla sede dell' Ong Africa Milele, dove viveva e lavorava Silvia. Il loro incarico era quello di tenere sotto controllo la situazione, tentando di valutare il momento propizio per rapire la giovane. I sospetti che Silvia fosse stata «venduta» a più bande fino a raggiungere una roccaforte qaidista hanno trovato con il trascorrere dei mesi decisivi riscontri. Qualcosa del genere era accaduto in un recente passato con i rapimenti della turista britannica Judith Tebbutt, di quella francese Marie Didieu e delle cooperanti spagnole Montserrat Serra Ridao e Blanca Thiebaut, tutte sequestrate in Kenya da predoni locali, affidate ad Al Shaabab e trasferite nel Sud della Somalia (in una logica di controllo del territorio) in attesa del pagamento del riscatto. Il mondo delle istituzioni ha gioito alla notizia della liberazione della ragazza. Su tutti il presidente Mattarella, che in una nota del Quirinale ha fatto sapere che «la notizia della liberazione di Silvia Romano è motivo di grande entusiasmo per tutti gli italiani. Invio un saluto di affettuosa solidarietà a Silvia e ai suoi familiari, che hanno patito tanti mesi di attesa angosciosa».

LE FAKE NEWS.

Silvia Romano: gravidanza, orologio e riscatto, tutte le bufale sulla cooperante rapita. Carmine Di Niro su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Il ritorno in Italia di Silvia Romano, la cooperante 24enne rapita il 10 novembre 2018 in Kenya e rimasta prigioniera per oltre 500 giorni in mano al gruppo terrorista islamico somalo di al-Shabab, ha generato un numero impressionante di fake news sulla sua prigionia. Dalla sua conversione all’Islam alla sua presunta gravidanza, dagli orologi Rolex alle foto false della ragazza in giro nuda o in totale libertà nel 2019, il web è stato invaso da un mare magnum di bufale che ancora oggi stanno spopolando sui social network.

MATRIMONIO E GRAVIDANZA –  Iniziamo dal suo presunto matrimonio con uno dei suoi carcerieri e col lavaggio del cervello alla quale sarebbe stata sottoposta per la conversione alla fede islamica. Teorie smontate dalla stessa Silvia Romano nel corso dell’interrogatorio avvenuto domenica col magistrato della Procura di Roma Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta sul suo rapimento. La volontaria ha riferito come durante i 18 mesi di prigionia “non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata”.

RISCATTO CON I SOLDI DELLA CASSA INTEGRAZIONE – Altra bufala virale è il video di un presunto agente dei servizi segreti che avrebbe lavorato per la liberazione di Silvia. Secondo la testimonianza il denaro per il pagamento del riscatto dalla cooperante sarebbe arrivato dai fondi per la cassa integrazione: una ricostruzione totalmente falsa e creata ad arte per cavalcare anche un tema di attualità come la crisi economica dovuta al Coronavirus e ai ritardi del Governo nell’aiutare i lavoratori italiani che hanno perso il lavoro.

IL ROLEX D’ORO – Silvia Romano indossava un Rolex d’oro al ritorno dalla Somalia? Ovviamente no. Ma sul web è diventata virale una immagine della ragazza al momento della sua discesa dall’aereo che l’ha riportata a Ciampino, con tanto di freccia rossa ad indicare l’orologio al polso, che secondo i bufalari era un Rolex Lady Oro. Peccato che con una semplice ricerca sul web si può chiaramente riconoscere come l’orologio al polso di Silvia e il Rolex non corrispondano neanche lontanamente.

NUDA IN STRADA – Sta girando invece su Telegram la foto fake di una presunta Silvia Romano nuda in mezzo ad un strada, con tanto di messaggio indignato: “Silvia Romano che manifesta a favore degli immigrati prima di partire per l Africa….. questa abbiamo pagato 4.000.000,00”. L’immagine utilizzata è in realtà risalente al 2017, quando una ragazza fece scalpore girando per le strade di Bologna con addosso soltanto una borsa. Ma basta fare un semplice confronto tra le foto della ragazza senza vestiti e con quelle disponibili sul web di Silvia Romano per notare evidenti differenze: la foto virale mostra una ragazza con un importante tatuaggio sopra il seno sinistro, lì dove anche Silvia ha un tatoo, di dimensioni però notevolmente più piccole.

LA FOTO IN AFRICA DA LIBERA – Altro giro, altra foto. Sul web è finita una immagine di Silvia Romano con un ragazzo di colore su una spiaggia, foto utilizzata come prova che la ragazza fosse libera e non sottoposta a prigionia in quanto “datata 2019”. La foto è tratta dal sito Africa ExPress, ma decontestualizzata ad arte. La foto, come è evidente leggendo l’articolo firmato dal giornalista Massimo Alberizzi, mostra Silvia in compagnia di Alfred Scott, fisioterapista dell’ospedale di Mombasa, in un selfie scattato durante un periodo precedente al rapimento.

IL GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE TURCO – Anche la foto diffusa dall’agenzia di stampa turca AnadoluLe è un clamoroso falso. Nelle immagini viene mostrato una sorridente Silvia indossare lo jilbab verde e un giubbotto antiproiettile riportante la stella e la Mezzaluna, simboli della Turchia. Peccato che la stessa intelligence italiana, che ha riconosciuto l’importanza dell’aiuto turco nella trattativa per riportare a casa la 24enne, abbia precisato che “il giubbetto antiproiettile indossato da Silvia Romano è una dotazione rigorosamente italiana, senza alcun simbolo, ed è stato fornito nell’immediatezza della liberazione dagli 007 italiani che l’hanno recuperata”.

Silvia Romano e il Rolex Lady Oro, la verità sul giallo dell’orologio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Il mare magnum di fake news apparse in Italia dalla liberazione di Silvia Romano, la volontaria 24enne tornata in Italia dopo 18 mesi da prigioniera del gruppo islamista al-Shabab, i terroristi che l’avevano rapita nel novembre 2018 in Kenya, continua ad aumentare. L’ultima della serie riguarda un presunto Rolex “Lady Oro” che la cooperante milanese indossava al polso al momento del ritorno in Italia, mentre scendeva dall’aereo che l’ha riportata a Ciampino. La bufala è pensata e realizzata ad arte, con tanti di freccia ad indicare l’orologio. La ragazza indossava effettivamente un orologio all’atterraggio, ma basta zoomare le immagini per notare come il modello di Silvia non corrisponda neanche lontanamente al “Lady Oro”, dal quadrante ovale, mentre quello indossato dalla 24enne ha una forma rettangolare e di colore nero.

I FAMILIARI.

Silvia Romano, il padre non sapeva nulla. La liberazione annunciata da Conte su Twitter prima che ai suoi familiari. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Silvia Romano è stata liberata ma dietro questa bellissima notizia se ne nasconde una davvero misera. I familiari della giovane cooperante milanese rapita un anno e mezzo fa in Kenya, infatti, non hanno saputo dell'avvenuta liberazione dalle autorità ma dai mezzi di informazione. Evidentemente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte per primo e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio poi, hanno preferito darne l’annuncio su Twitter. “Lasciatemi respirare, devo reggere l'urto. Finché non sento la voce di mia figlia per me non è vero al 100 per cento”, dice infatti all’Ansa il padre di Silvia, Enzo Romano, all'ignaro di tutto. “Devo ancora realizzare, mi lasci ricevere la notizia ufficialmente da uno dei mie referenti”.

Silvia Romano, il papà: “Non era in Africa per diventare un’icona”. Riccardo Castrichini l'11/05/2020 su Notizie.it. Il papà di Silvia Romano parla con orgoglio di sua figlia, lei che era andata in Africa per seguire ciò che sentiva nel cuore. Silvia Romano, la ragazza italiana rapita in Kenya nel 2018, è finalmente stata liberata e ieri, 10 maggio è tornata in Italia. Ad attenderla all’aeroporto c’erano il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e naturalmente la sua famiglia. Il papà di Silvia Romano, Enzo, ha così commentato al Quotidiano Nazionale il ritorno a casa di sua figlia: “Ho riabbracciato mia figlia, e non vedevo l’ora di farlo, ma sentivo, e ho sentito anche nelle ore precedenti, che l’accoglienza era collettiva: delle istituzioni, che ringrazio immensamente per il lavoro e il supporto, e di centinaia di migliaia di persone che come noi attendevano questo ritorno. Silvia in quel momento era la figlia e la sorella d’Italia. Tantissime persone si sono immedesimate in lei e nella nostra famiglia, condividendo la nostra gioia”. “Ho voluto accogliere Silvia come meritava – ha aggiunto il signor Enzo – inchinandomi davanti a una figlia di cui sono orgoglioso”. Il papà di Silvia Romano ha poi speso parole per la scelta della figlia di andare a lavorare in Africa: “Penso che, come lei, ci siano tanti ragazzi che si danno da fare per il prossimo e che sono in prima linea per conquistare il mondo che vorrebbero: un mondo diverso e più giusto. Ma mia figlia non è andata in Africa per diventare un’icona, è partita perché era quello che sentiva nel cuore. Era quello che voleva fare: lavorare per gli altri, mettersi al servizio di persone meno fortunate e aiutarle grazie alle sue capacità e al suo sorriso. Poi si è trovata a diventare un’icona, per ciò che le è capitato. Ma, ripeto, ci sono tanti giovani attivi per il cambiamento. Ora, l’importante è che sia tornata da noi sana e salva”. Nelle parole del signor Enzo Romano anche uno stralcio delle sue sue emozione al momento della notizia della libertà della figlia: “Il mio cuore scoppiava di gioia. Poi sono stato subissato di telefonate e messaggi da parte di familiari, amici e giornalisti. Impossibile rispondere a tutti, anzi mi scuso se non sono riuscito a dare retta a molti. Ma a un certo punto ho dovuto pensare a me stesso e a come organizzare la partenza per Roma. Oggi (ieri per chi legge, ndr) è stata una giornata intensa. Felice ma lunghissima”.

Silvia Romano, il padre Enzo: "Ha le palle e cerca di reagire, ma non confondete il suo sorriso". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. “Noi vogliamo stare in pace, abbiamo una ragazza da proteggere e abbiamo solo bisogno di ossigeno”. Così Enzo Romano ha parlato della figlia Silvia a due giorni dalla liberazione in Somalia, dove è stata tenuta prigioniera per un anno e mezzo. “Come sta mia figlia? Come una che è stata prigioniera per diciotto mesi”, è la risposta del padre, che appare ovviamente sfinito e anche un po’ irritato per tutta l’attenzione mediatica. Comprensibile, ma d’altronde quello della figlia è un caso grosso, che ha fatto finire in secondo piano persino il coronavirus e lo scontro durissimo tra il ministro Bonafede e il magistrato Di Matteo sulla scarcerazione dei boss mafiosi. A chi le fa notare che Silvia è tornata in Italia sorridente, il padre Enzo risponde così: “Non è che se uno sorride sta benissimo. Non confondiamo il sorriso con la capacità di reagire per rimanere in piedi dignitosamente in una situazione di cui sei preda e che ti porta poi ad andare nella depressione più totale. Meno male - ha chiosato - che ha un po’ di palle e cerca di reagire, ma è la sopravvivenza”. 

Silvia Romano, lo sfogo dello zio: "Chi vuole far carriera sulla sua pelle. Gli appostamenti fuori dal supermercato". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Un nuovo sfogo dello zio di Silvia Romano, Alberto Fumagalli, fratello della madre della ragazza liberata dopo 18 mesi di prigionia, Francesca Fumagalli. Una famiglia sotto assedio, quello delle persone che non lasciano tregua sotto casa e soprattutto quello delle minacce, degli insulti, dell'odio. "Siamo in silenzio stampa - attacca Alberto -, nessuno ci vuole aiutare ma solo fare carriera sulla nostra pelle e speculare", accusa. E ancora, aggiunge di aver staccato il telefono e di aver visto giornalisti anche fuori dal supermercato ne quale lavora e in giro per il quartiere con la sua fotografia in mano. Caccia ad ogni singola parola, a ogni dichiarazione, in un assedio insostenibile. Poi, riportate dal Corriere della Sera, le parole di un altro familiare, che però sceglie l'anonimato: "Silvia oggi non è più vittima di un rapimento, ma un simbolo, un pretesto, un feticcio da bruciare in piazza in nome di una visione politica". Poi la madre, Francesca, che spiega: "Non le stiamo facendo vedere i telegiornali, usa pochissimo i social e internet. Non vogliamo che tutto quello che sta succedendo interno a lei possa causare ancora più dolore". Poche parole, consegnate dopo aver sbottato contro i giornalisti che non le davano tregua: "Che palle"...

Monica Serra per lastampa.it il 12 maggio 2020. “Come pensate che stia? Provate a mandare un vostro parente là due anni e vedete se non torna convertito”. La mamma di Silvia Romano, la signora Francesca Fumagalli, era andata al parco vicino casa, al Casoretto, periferia nord est di Milano, per portare il cane. Quattro passi all’aria aperta in una giornata di sole. Ha detto solo queste parole e poco più. È tornata a chiedere “pace per la sua famiglia” e per sua figlia. Poco prima, rispondendo alle domande del Tg3, la mamma di Silvia aveva dichiarato: “Cerchiamo di dimenticare, di chiudere un capitolo e aprirne un altro”, ribadendo di aver preso da tempo le distanze dalla onlus Africa Milele per la quale sua figlia ha lavorato in Africa, ma “non sono io l’ordine preposto per parlare di queste cose, c’è una procura che indaga e ci pensano loro, io non rilascio dichiarazioni sull’argomento”. E mentre il pm Alberto Nobili, che coordina il pool antiterrorismo della procura di Milano, ha aperto un fascicolo contro ignoti per minacce aggravate (al punto che Silvia ha deciso di chiudere il suo profilo Facebook) , in mattinata, il medico di famiglia ha visitato Silvia. “Sta bene, come l'avete vista quando è arrivata, anche psicologicamente”, ha detto quando è uscito. “Un controllo va sempre fatto dopo tanti mesi che si manca dall'Italia, è doveroso”. Altre persone sono passate a portarle fiori e anche il papà Enzo è venuto a trovarla.

Da ansa.it il 14 maggio 2020. Vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi, il peggio per me è passato, godiamoci questo momento insieme". Lo scrive la cooperante 24enne Silvia Romano, rapita in Kenya nel 2018 e liberata sabato dopo un anno e mezzo di prigionia su Facebook. "Sono felice - si legge - perché ho ritrovato i miei cari ancora in piedi, grazie a Dio, nonostante il loro grande dolore. Perché ho ritrovato voi, tutti voi, pronti ad abbracciarmi. Io ho sempre seguito il cuore e quello non tradirà mai" Nel post, la giovane ha voluto dire "grazie, grazie, grazie" a "tutti gli amici e le amiche che mi sono stati vicini con il cuore in questo lungo tempo". E ha ringraziato anche "chi non era un amico, ma un conoscente o uno sconosciuto e mi ha dedicato un pensiero. A tutti coloro che hanno supportato i miei genitori e mia sorella in modo così speciale e inaspettato: scoprire quanto affetto gli avete dimostrato per me è stato ed è solo motivo di gioia, sono stati forti anche grazie a voi e io sono immensamente grata per questo". "Non vedevo l'ora di scendere da quell'aereo, perché per me contava solo riabbracciare le persone più importanti della mia vita, sentire il loro calore e dirgli quanto le amassi, nonostante il mio vestito". ha scritto Silvia Romano su Facebook.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 14 maggio 2020. La tenda del salotto si scosta per un attimo. Mamma Francesca butta un occhio verso la strada, come a prepararsi a quello che le si parerà incontro. L' assedio mediatico è qualcosa a cui non si è mai preparati, ma al quale in qualche modo si riesce a trovare una misura. Alla mattina Francesca Fumagalli sbotta davanti ai microfoni e all' ennesima domanda a cui non ha intenzione di dare risposta: «Che palle». Al pomeriggio però, quando si incammina verso i giardini di piazza Durante, trova il tempo per sorridere davanti ai fotografi che le chiedono il nome della cagnolina che tiene al guinzaglio: «Si chiama Alma, così la fate diventare famosa». Sono battute e piccole parole che inevitabilmente si scambiano tra chi, da una parte e dall' altra della barricata, sta vivendo l' assedio di questi giorni. Mamma Francesca, che da qualche anno si era trasferita in Liguria, sta cercando in ogni modo di proteggere Silvia. Come di isolarla da quel che le sta accadendo intorno. Sa perfettamente che poche ore prima l' onorevole leghista Alessandro Pagano ha definito sua figlia, rientrata in Italia dopo 18 mesi di prigionia, una «neo terrorista» all' interno dell' aula di Montecitorio. Ma davanti ai giornalisti glissa nascondendo rabbia e dolore: «Non ho sentito e non mi interessa. Perché l' assedio dal quale ora deve difendersi la famiglia di Silvia Romano non è solo di telecamere e fotografi, ma è quello di una politica che ha trasformato l' immagine di sua figlia 24enne che scende la scaletta di un aereo con gli abiti tradizionali islamici usati dalle donne somale in una sorta di alto tradimento allo Stato. «Silvia oggi non è più la vittima di un rapimento, ma un simbolo, un pretesto, un feticcio da bruciare in piazza in nome di una visione politica», racconta un familiare. Invece Silvia è viva, con le fragilità di una giovane donna che per oltre cinquecento giorni è rimasta nelle mani dei rapitori. «Non le stiamo facendo vedere i telegiornali, usa pochissimo i social e Internet. Non vogliamo che tutto quello che sta succedendo intorno a lei possa causare ancora più dolore». Anche lo zio Alberto, fratello della mamma, che per primo ha denunciato il clima d' odio e paura nel quale vive la sua famiglia dopo il rientro in Italia, adesso chiede tranquillità: «Siamo in silenzio stampa, nessuno ci vuole aiutare ma solo fare carriera sulla nostra pelle e speculare». Dice di aver dovuto staccare il telefono, di aver visto giornalisti fuori dal supermercato nel quale lavora o in giro per il quartiere con la sua foto in mano. La paura è che nelle prossime ore il clima d' odio intorno a Silvia possa addirittura peggiorare. L' inchiesta aperta dalla Procura di Milano per minacce potrebbe prendere in considerazione anche l' aggravante dell' odio razziale e religioso. Sono decine i commenti social analizzati dai carabinieri. Per quelli meno gravi la famiglia di Silvia potrebbe sporgere querela per diffamazione. Una scelta che però, finora, è stata scartata proprio nella speranza che tutto questo si fermi. Che questa pagina si possa presto chiudere e cancellare. Anche davanti agli investigatori che martedì le hanno ascoltate in caserma, Silvia e mamma Francesca hanno cercato in ogni modo di smorzare paure e tensioni: «Sono serena, ho bisogno solo di un po' di tempo per riprendermi», ha raccontato la 24enne. Lei per ora resta chiusa nell' appartamento di via Casoretto insieme alla sorella Giulia. Deve superare le due settimane di quarantena Covid imposte a chi rientra in Italia. In pochi sono potuti andare a trovarla. Gli amici si sono limitati a qualche breve telefonata e a molti mazzi di fiori che per tutta la giornata sono arrivati dai fiorai della zona. Solo il papà Enzo, che vive poco lontano dopo la separazione, ha avuto la possibilità di stare qualche ora accanto alla figlia. Anche i vicini si sono accontentati di qualche rapido saluto: «Siamo contenti che sia qui. Quello che le sta succedendo è assurdo, vergognoso. Devono lasciarla in pace, è soltanto una ragazza». Ieri il sopralluogo della polizia Scientifica dopo il ritrovamento dei cocci di una bottiglia scagliata contro la finestra di un vicino, ha involontariamente aggiunto ulteriore drammaticità. C' è il timore che nelle prossime ore si possano verificare altri gesti o azioni di protesta. Si guarda soprattutto ai gruppi di estrema destra, ma il clamore potrebbe creare un pericoloso effetto di emulazione. «Devono proteggerla, ci vuole più sorveglianza», si sfoga un vicino del quinto piano. L' assedio, insomma, non è finito.

Silvia Romano, lo zio a La vita in diretta: "Torna in Africa? Le brucio il passaporto. È stata drogata". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Dopo la liberazione di Silvia Romano, le parole dello zio, uno dei pochi a parlare nella famiglia della cooperante milanese di 24 anni tenuta in prigionia per 18 mesi e tornata in Italia da convertita all'islam con il nome di Aisha. Lo zio, Alberto Fumagalli, è stato raggiunto telefonicamente da La Vita in Diretta, il programma di Rai 1 del pomeriggio, dove per prima cosa ha smentito che la nipote fosse incinta: "No, non lo è. Non è incinta". Il dubbio aveva iniziato a montare dopo che, scesa dall'aereo a Ciampino, Silvia continuava ad accarezzarsi la pancia. Lo zio ha poi definito il periodo del rapimento "un film dell'orrore". Dunque ha aggiunto: "L’importante è che è viva, sana e salva". Fumagalli nutre però seri dubbi sulla conversione all'islam e lo dice chiaro e tondo: "Lei è stata inquadrata e addestrata, quelli sono esperti, le hanno fatto il lavaggio del cervello. Le avranno anche dato delle droghe. L’avranno anche drogata". Quando l'inviata chiede se reputa possibile una conversione spontanea, taglia corto: "No, assolutamente". Dunque, altri particolari inquietanti: "Ma poi le dico anche che, avendola sentita, non parla neanche nello stesso modo di prima. Non è lei che vuole farsi chiamare Aisha, e questo non l’ha mai detto. Di certo non tornerà più la Silvia che era". Infine, una risposta che sta facendo molto discutere. Pare che Silvia Romano abbia già espresso la volontà di tornare in Africa: la famiglia come la prenderebbe: "Eh, la famiglia come la prende? Che nessuno la fa tornare in Africa, penso. Il passaporto glielo brucio io, così vediamo se torna in Africa", ha concluso, durissimo.

Dagospia il 14 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. Lo zio di Silvia Romano, Alberto Fumagalli, ha parlato con La Zanzara su Radio 24. Ecco i punti principali dell’intervista. Le bottiglie lanciate. “Saranno stati  degli ubriachi alle due, tre di notte che hanno lanciato delle bottiglie. Sapevano già dove abitava lei, è diventata un simbolo. Sono arrivati al primo piano ed i cocci sono arrivati alla vicina, poveraccia.  Erano degli ubriachi con lo scooter che urlavano ed hanno lanciato delle bottiglie. Ma non abbiamo paura, figurati se Silvia ha paura dopo quello che ha passato. Purtroppo è dovuta venire la scientifica, sono venuti i Ris ed hanno creato fastidio a noi, così, nella nostra privacy. Poi ci sono le telecamere 24h, ne ho contate dodici, puntate alle loro finestre. Tutto è sotto controllo, ma credo sia una cretinata, non è un gesto dimostrativo, ma un gesto di due ubriaconi”.

Minacce su Internet. “Silvia non ha paura delle minacce su internet, assolutamente. Noi ridevamo sul divano nella nostra intimità. Ma avete capito che siamo delle persone normali? Abbiamo sofferto tanto nella vita, questa è l’ultima cosa che non ci aspettavamo e ci ha solo rinforzato. E l’amore è amore, l’odio è odio. I due sentimenti più grandi. Noi non sappiamo che cos’è l’odio. Ieri mi mandavano un video di una pseudo Silvia nuda. E’ tutto falso. Quella ha un tatuaggio e poi non assomiglia a Silvia. Ma l’avete guardata bene in faccia quella lì o no?  E’ un video che girava da anni. Girano foto di foto in spiaggia con i kenyoti, ma è tutto falso anche quello. In spiaggia con negri che fa turismo sessuale, ma dai, finiamola”.

Conversione: “Sono rimasto colpito dalla conversione, certo. Già era un simbolo politico, adesso è diventata un simbolo religioso. Io mi devo sincerare se lei vuole veramente questa cosa. Se tu vuoi bene ad una persona, se mio figlio diventa gay, non posso mica ammazzarlo se diventa gay. Qui è lo stesso discorso. Se è una scelta sua indipendente, fatta volontariamente, io voglio bene a Silvia, cosa faccio...? Io le posso bruciare il passaporto, ma se so che lei ci vuole andare veramente, non glielo brucio più sto passaporto.

Soldi riscatto. “Quando parlo dei soldi del riscatto nessuno mi fa dire certe cose. I soldi, indipendentemente che l’abbiano pagato o no il riscatto, sono quelli dei servizi segreti e sono indipendenti dalle tasche degli italiani. Quindi non è che leviamo i soldi agli italiani. Però non me lo fanno dire”.

Lavaggio cervello. “Ho detto che le hanno fatto il lavaggio del cervello. Adesso aspettiamo del tempo per accertarci se lo vuole veramente. Poi ,se tu ami tua nipote, tua figlia, accetterai. Anche se io non condivido la sua scelta, la accetto. Non è che la posso ammazzare, no? Se mio figlio diventa romanista e tu sei laziale, cosa facciamo?”. Pagano. “Ho letto che un certo Pagano ha detto che Silvia è una terrorista. Guarda Cruciani, io vorrei che tutti i terroristi fossero come Silvia”. Sgarbi. “Ha detto che vuole metterla in galera, sì, certo, torturatela, portatela a Guantanamo ,dai”.

Ong.  “Ma lo sapete che stanno indagando sulla Ong, Africa Milele, che non l’aveva registrata, la Farnesina non sapeva neanche fosse in quel posto. I bambini orfani lì venivano toccati senza neanche i guanti in lattice. Siamo a dei livelli mai visti. Principianti allo sbaraglio che mandano in mezzo ai leoni e ai coccodrilli tredici ragazzi. Bisogna fare un albo in cui ci sono le ong, timbrate e verificate. Questi ragazzi devono essere sicuri di non andare a morire”. Sposata? “Altra cazzata quella della relazione. Non è incinta e non ha avuto nessuna relazione. Per loro  il sequestrato è la cosa più preziosa che hanno. La trattano con i guanti”.  Aeroporto. “La cosa è stata gestita male da loro quando è scesa dall’aereo. Non dovevano esporla. Almeno lasciatela abbracciarsi nell’intimità in una saletta. E’ stata gestita male in partenza. Non so se avete notato la passerella con tutti i fotografi come a Cannes, ma cos’è sta stronzata?

Ma perché no la mandate subito dai genitori? Non so se avete visto quanto tempo ci ha messo Silvia a scendere dall’aereo. Ci ha messo tanto perché lì c’è stata una discussione. Vestita così non andava bene. La discussione ci sarà stata perché non volevano farla scendere conciata così. Perché era pronto tutto il loro star system.  Era meglio scendere vestita diversamente? E’ quello che sto dicendo. E’ stata gestita male. E poi lei è testarda. Non doveva scendere vestita in quel modo ed in più le doveva scendere ed andare subito in una stanzetta per raggiungere la famiglia. Non doveva essere un atto trionfale. Doveva essere una cosa intima, trionfale tra di noi che non la vedevamo da un anno e mezzo.

Parole contro terroristi. “Lei festeggia di vedere la madre e la sorella, il padre. Logico, dopo due anni è logico che sorrida. Vi sareste aspettati una parola contro i sequestratori, gli aguzzini? Avete ragione. Ma non le hanno dato modo, l’hanno sbattuta in prima pagina. Ma vi rendete conto? Lei non stava capendo, lei cercava solo i genitori. Lei non sa neanche chi è Antonio (sbaglia, ndr) Conte e Di Maio Luigi. Questa si è ritrovata sconcertata. Avrebbero dovuto preparare un discorso, una conferenza stampa che sbolliva il tutto con quattro parole di routine, di rito, ed eravamo tutti a posto. Ci sarebbe stato l’odio sui social lo stesso, ma non in questo modo. Una parola contro i terroristi? Ma non le hanno dato la parola”.

Islam. “Sono stato adesso quattro ore con lei a parlare sul divano. Se la conversione secondo me è sincera? Si. Secondo me non tornerà indietro da questa cosa. Come vuole sviluppare il suo islamismo? Normalmente, come tutti i musulmani integrati in italia. Non c’è niente di male. In più è cresciuta in un quartiere multietnico. E non andrà in giro sempre vestita così. Anche qui non hanno capito un cazzo”.

L’ACCOGLIENZA A CASA.

Cesare Giuzzi per corriere.it l'11 maggio 2020. «Sto bene, sto bene», poche parole scendendo dall’auto. È tornata a casa, nel quartiere Casoretto di Milano, Silvia Romano, la 24enne volontaria catturata il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya, liberata venerdì 8 maggio dopo 18 mesi di prigionia e rientrata domenica in Italia. La giovane cooperante ha lasciato Roma lunedì mattina in automobile e pochi minuti dopo le 17 è arrivata a casa, insieme con la madre e la sorella, su una vettura grigia, scortata dai carabinieri. Numerosi giornalisti si erano appostati sotto casa della giovane, con la presenza anche della polizia locale: l’affollamento era tale che la via per alcuni minuti è stata chiusa al traffico. Ad accogliere Silvia anche don Enrico Parazzoli, da pochi mesi parroco della chiesa di Santa Maria Bianca della Misericordia frequentata dalla famiglia della ragazza. Silvia, sempre vestita con l’abito tradizionale somalo di colore verde, la madre e la sorella in pochi istanti hanno varcato il portone del palazzo, scortate dai carabinieri e nell’assedio delle telecamere. Silvia è stata accolta da un applauso di tutti i presenti e dai saluti dei vicini affacciati ai balconi. Un quarto d’ora dopo la 24enne si è affacciata a una finestra, sempre con il capo coperto dal velo verde, ha salutato con la mano sorridendo, a chi chiedeva «Cone stai Silvia?» ha risposto mostrando il pollice in su, ha mandato un bacio sulla punta delle dita. Poi è sparita di nuovo dietro i vetri. «Tutti, in questo momento, la sentiamo nostra figlia»: il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha parlato così di Silvia Romano. Lo ha fatto intervistato dal sito Umbria24. «Una nostra figlia che ha corso dei pericoli enormi, che ha avuto coraggio e forza d’animo» ha aggiunto l’arcivescovo di Perugia. Lunedì pomeriggio anche il Consiglio comunale di Milano, in apertura di seduta in videoconferenza, ha salutato la liberazione e il ritorno a casa di Silvia con un «bentornata a casa» da parte di tutta l’aula. «Sono grandissime la gioia e l’emozione per la liberazione di Silvia - ha detto il presidente del Consiglio comunale, Lamberto Bertolé -. L’abbiamo aspettata per 18 mesi e auguriamo a lei e alla sua famiglia di riuscire a recuperare la serenità dopo questa grande prova. Noi come città e come Consiglio comunale siamo orgogliosi della forza con cui ha affrontato questa prova durissima. Davvero di cuore bentornata a casa da parte di tutta l’aula».

Dagospia l'11 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ovviamente alle decine di tweettaroli che si chiedevano se Silvia Romano fosse incinta, ne sono seguite migliaia di utenti scandalizzati per la morbosità. In effetti non è stata una discussione di buon gusto, ma purtroppo non era di buon gusto neanche la diretta tv/streaming dell'arrivo della ragazza a Ciampino. Nessuno ha chiesto al governo di mandare premier e ministro degli esteri a fare quella celebrazione, con tanto di discorsi. Se mandi le telecamere, avrai la morbosità: come sta, com'è diventata, è ingrassata, è dimagrita, eccetera. Il problema più serio è che non c'è niente da celebrare, perché una vittoria privata della famiglia Romano, che ha potuto riabbracciare la figlia, si accompagna a una sconfitta politica per il governo italiano, che ha appena finanziato con 4 milioni la strategia di morte di uno dei gruppi più sanguinari e spietati del mondo. Sarebbe stato più corretto tenere tutto riservato: Ciampino è chiuso per coronavirus, il volo era militare e dunque poteva essere tenuto segreto, così come sono stati tenuti segreti i volti degli uomini dei servizi che sono scesi dalla scaletta con lei. Avrebbero potuto fare un comunicato sulla liberazione e sul ritorno in Italia, lasciando questo momento solo a Silvia e alla sua famiglia, dando loro la possibilità di fare una conferenza stampa nei prossimi giorni, in un momento di maggiore calma e lucidità. Invece vuoi la spettacolarizzazione, la diretta, la festa? E allora ti becchi anche i tweet sulle gravidanze, sull'impatto che fa vedere una ragazza per 18 mesi ''conosciuta'' attraverso le sue foto in canottiera e hot pants, che ora scende dall'aereo con una tunica islamica. Se qualcuno ha una responsabilità per aver scatenato gli odiatori da tastiera, è il governo. Filippo Giusti

Gianluca Nicoletti per “la Stampa” l'11 maggio 2020. Silvia Romano si era appena affacciata al portellone dell' aereo che l' aveva riportata a casa; chi l' attendeva sulla pista di Ciampino ha immediatamente realizzato che l' effetto della cerimonia mediatica avrebbe preso una piega di non semplice gestione. Il Presidente Conte è restato immobile. A molti sarà persino sembrato d' indovinare l' espressione attonita del Ministro Di Maio sotto la mascherina tricolore. Inutile far finta di nulla, è chiaro che nessuno potesse prevedere che la cooperante italiana che una brillante operazione d' intelligence aveva liberato dai suoi rapitori si presentasse indossando lo Jilbab. Prima ancora che Silvia potesse dare una minima spiegazione di questo particolare, indubbiamente «forte» e non casuale, è partita la carica dei leoni da tastiera. Sin troppo facile immaginarlo, diciamocelo.

L' equazione banale. L'equazione era di una semplicità disarmante, persino il più sprovveduto analfabeta funzionale ha immediatamente considerato un' occasione più che mai ghiotta per arrivare dritto alla soluzione più scontata. L' idea che si fosse convertita all' Islam cancellava ogni minimo senso di soddisfazione per una cittadina italiana, tornata in patria dopo diciotto mesi di prigionia. Il fronte estremo del partito odiatore si è subito coalizzato su Twitter facendo svettare la tendenza #convertita, che prevede citazioni dal Corano sulla condizione femminile subordinata, confronti storici con il caso Moro, inviti a toglierle la cittadinanza, ironia sulla nuova "brand ambassador della fede islamica".

I tre fotogrammi. I più acuti osservatori da tre fotogrammi della sua prima intervista hanno anche dedotto che, sotto quel tendone verdolino, potesse esserci la prova evidente che fosse incinta. Un secondo livello, apparentemente meno truce, è quello che ha raccolto, sotto l' insegna #stoccolma, una nuova categoria di specialisti. Dopo l' inflazione d' epidemiologi, virologi, psicologi che hanno letto con scrupolo Wikipedia, è apparsa dal nulla la competenza diffusa di esperti nell' omonima sindrome. Naturalmente si cita anche per dire che è una panzana inventata dagli psichiatri, dai buonisti ecc. Non sono mancati spiritosi paragoni con il voto dei meridionali, o chi l' ha buttata in schiamazzo con doppi sensi infami. Forse però sarebbe stato troppo chiedere a tutti quanti di aspettare almeno una versione ufficiale dell' accaduto.

La lettura consigliata. Lo scrittore Shusaku Endu nel suo capolavoro "Silenzio" racconta la conversione forzata e sofferta del padre Ferreira, gesuita portoghese vissuto nel XV° secolo, divenuto apostata dopo atroce tortura in Giappone, dove era andato per evangelizzare. Non è certo un libro assimilabile alla realtà di cui stiamo parlando, ma ne è comunque consigliabile la lettura per chi se la sente di giudicare dalla sua comoda poltrona, come dall' indubbia libertà d' esprimere ogni suo pensiero, le circostanze che potrebbero esistere dietro alle scelte di vestiario di una giovane ragazza. Soprattutto se finita in mano a feroci e spietati integralisti, per cui la vita di una donna non sottomessa vale meno di zero.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” l'11 maggio 2020. «Ringraziamo Dio. Silvia è sana e salva e questa è una bella notizia. Se è tornata in buone condizioni vuol dire che è stata trattata bene. Essendo donna considerata la sua esperienza e la sua giovane età non sarebbe stato facile resistere se non si fosse convertita». E' il commento che sgorga a caldo, a padre Paolo Latorre, classe 1967, Cavaliere della Repubblica e missionario comboniano in Kenya da 16 anni, una vita dedicata ai miseri negli slum di Nairobi dove la realtà supera di gran lunga la fantasia. La vicenda della cooperante italiana la ha seguita da Nairobi, a oltre settecento chilometri di distanza da dove Silvia Romano è stata rapita. «In Kenya c'è una forte radicalizzazione islamica, un fenomeno che viaggia veloce ed è carsico. Si concentra soprattutto sulla costa dove è più alta la disoccupazione e si stanno creando le condizioni per un ulteriore peggioramento della situazione».

In che modo?

«Mi riferisco alla situazione di blocco dovuta al Covid. E' chiaro che gli effetti economici negativi finiranno per produrre altra disoccupazione e miseria tra i giovani ed è in queste sacche di disperazione e rabbia che vanno a pescare gli Shabab. Per quello che vedo non potrà che essere così purtroppo».

Anche a Nairobi la situazione di radicalizzazione dell'Islam avanza così tanto?

«Qui è meno accentuato. Certo ci sono problemi, ma il quadro è meno evidente e drammatico. Il fenomeno si concentra sulla costa con modalità abbastanza evidenti».

In che modo?

«Esistono fondazioni attive che hanno tantissimo denaro, forse fondazioni finanziate dai paesi del Golfo e poi ci sono gruppi che hanno il controllo del commercio. Sulla costa in passato sono state chiuse moschee che reclutavano e all'interno sono stati trovati materiali e armi».

Per i cristiani, dopo la strage di Garissa, nel campus universitario dove nel 2015 gli Shabab decapitarono 148 studenti cristiani, c'è pericolo?

«Stragi così non ci sono più state. Garissa però è lontana da Nairobi (ed è la zona dove è stata rapita anche Silvia ndr). Ogni tanto a noi arrivano degli allarmi specifici sul telefonino. L'ultimo tre mesi fa; ci metteva in guardia di evitare i luoghi affollati, di non andare negli hotel, nei mercati. Fortunatamente non è accaduto nulla. L'ultimo attacco è avvenuto l'anno scorso in un hotel frequentato da stranieri».

Anche nella sua parrocchia ci sono controlli?

«Oggi le celebrazioni sono sospese in tutto il paese per contenere la pandemia, ma fino a dicembre anche la mia chiesa era soggetta a controlli. Chi entrava veniva controllato con attenzione. C'erano metal detector per vedere se qualcuno portava dentro materiale esplosivo, pistole o altro. I controlli venivano effettuati a volte dall'esercito a volte da volontari. Ma la stessa cosa capitava nelle moschee. La radicalizzazione è un problema anche per l'Islam moderato».

Silvia Romano, lo striscione davanti a casa: "Perdona l'umano". La ragazza sotto-shock: "Ha capito cosa sta accadendo". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Un inquietante "bentornata" per Silvia Romano, uno striscione definito "inquietante". Davanti a casa sua al Casoretto, quartiere popolare di Milano, i vicini hanno applaudito commossi quando la cooperante è rientrata insieme ai familiari dopo un anno e mezzo da sequestrata in Somalia. Come spesso accade in questi casi, la ragazza è stata letteralmente "lapidata" sui social sia per il riscatto di 4 milioni che lo Stato ha pagato ai terroristi di Al Shabaab per liberarla, sia soprattutto per la sua sorprendente conversione all'islam durante la prigionia. Sussulti di odio che secondo il Corriere della Sera avrebbero fatto valutare alla Prefettura (che ha smentito) l'opportunità di mettere sotto sorveglianza l'intero palazzo "per il timore di qualche gesto di intolleranza da gruppi neofascisti o xenofobi". "Per alcuni Silvia è diventata un simbolo di conversione all'Islam e adesso ci sono quelli che la vogliono ammazzare. È una situazione molto pesante per tutti noi", è l'allarme dello zio. E poi c'è quello striscione che Silvia ha trovato appeso vicino alla propria abitazione, con parole scritte a spray: "Perdona l'umano, bentornata Silvia Romano". Un messaggio definito dal Corriere "dal sapore ambiguo e amaro, che ha molto turbato Francesca, la mamma. "Si è resa conto del clima intorno a lei - spiega ancora lo zio di Silvia/Aisha - quando è scesa dalla macchina e ha visto quello striscione...".

Silvia Romano, vergognoso assembramento sotto casa sua: ne paga le conseguenze il poliziotto. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Immagini clamorose che arrivano dal quartiere Casoretto, a Milano. Frame rilanciati su Twitter della diretta del Corriere.it per l'arrivo di Silvia Romano, la cooperante tornata a casa dopo un anno e mezzo in mano ai suoi rapitori. Immagini clamorose e sconcertanti: pur di strapparle una parola, e di riprenderla, si scatena una clamorosa gazzarra proprio davanti all'ingresso della palazzina della famiglia Romano. Il tutto in barba a distanziamento sociale e distanze di sicurezza. Immagini che anche Pierluigi Battista, firma proprio del Corsera, ha bollato come "vergognose". In mezzo alla folla scatenata si nota un agente di polizia, sommerso dalla folla, suo malgrado in mezzo a simile delirio nei giorni della Fase 2 del coronavirus.

Da ansa.it il 13 maggio 2020. Al vaglio dei pm di Milano, che indagano sugli insulti e sulle minacce a Silvia Romano, c'è anche un post di Vittorio Sgarbi, il quale ha scritto che la giovane "va arrestata" per "concorso esterno in associazione terroristica". Del post, tra l'altro, ha parlato, da quanto si è saputo, la stessa 24enne nell'audizione di oggi pomeriggio, come persona offesa, davanti al pm di Milano Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo, e agli investigatori del Ros dei carabinieri.

Da repubblica.it il 13 maggio 2020. La polizia scientifica sta effettuando rilievi all'interno dell'appartamento al piano di sotto rispetto a quello dove vive Silvia Romano, la cooperante milanese tornata lunedì a casa dopo essere stata sequestrata per un anno e mezzo fra Kenya e Somalia. Secondo quanto filtra, la famiglia che abita nell'appartamento avrebbe trovato dei cocci di vetro sospetti vicino a una finestra. Ieri sera c'è stato un tentativo di intrufolarsi nel palazzo da parte di un uomo egiziano, che voleva dimostrare la propria solidarietà a Silvia Romano. E intanto sono al vaglio degli investigatori del Ros di Milano decine di messaggi social indirizzati a Silvia Romano e contenenti frasi d'odio. L'analisi è appena cominciata, dopo che ieri la giovane cooperante milanese liberata dopo un rapimento durato un anno e mezzo è stata ascoltata per più ore in procura, nell'ambito dell'indagine per minacce aperta dalla sezione antiterrorismo guidata dall'Aggiunto di Milano Alberto Nobili. Stamattina gli investigatori si sono recati in via Casoretto, dove abita insieme alla madre e alla sorella: c'era anche il comandante del Ros Andrea Leo, ma la visita, durata circa mezz'ora, sarebbe stata "solo di cortesia". Ora le indagini puntano a individuare con precisione gli autori delle intimidazioni online e delle minacce. Gli inquirenti stanno anche verificando eventuali collegamenti tra autori di messaggi e gruppi dell'estrema destra. Sotto il palazzo dove Silvia Romano è rientrata domenica pomeriggio passano di frequente le pattuglie delle forze dell'ordine: finora, infatti, non è stata decisa una tutela fissa, ma da prefettura e questura è arrivata la decisione di mantenere un controllo continuo delle pattuglie. Continua anche la presenza dei cronisti anche stranieri sotto casa della cooperante. Ieri Silvia Romano accompagnata dalla madre Francesca Fumagalli è stata sentita dal responsabile dell'antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dai carabinieri del Ros che indagano per minacce aggravate e sono in contatto con i colleghi di Roma che invece hanno aperto un fascicolo sul sequestro vero e proprio. Un lungo colloquio con gli inquirenti e gli investigatori milanesi ai quali ha confidato di sentirsi "serena" nonostante tutto. Si è trattato di un'audizione in cui la giovane cooperante si è fatta conoscere e nella quale, oltre a parlare del suo periodo di volontariato trascorso in Kenya, ha messo in fila le minacce e gli insulti che, da quando è scesa dalla scaletta dell'aereo a Ciampino, sono andati moltiplicandosi e che l'hanno convinta ad aumentare la privacy anche sul suo profilo Facebook.

Silvia Romano, le donne dell'Anpi: "Attacchi razzisti e sessisti". Il Coordinamento Nazionale Donne Anpi "condanna con fermezza gli attacchi mediatici che in queste ore sono stati lanciati, soprattutto attraverso i social, a Silvia Romano. Sono attacchi non solo razzisti, ma anche e soprattutto sessisti. Mai, in passato, per ostaggi uomini liberati grazie ad un pagamento (alcuni poi anche convertiti ad altre religioni), c'è stata una così violenta aggressione e un tentativo così marcato di delegittimazione. Sotto accusa il modo di vestire di Silvia, la conversione, il riscatto, persino la sua felicità per il ritorno a casa e il suo sorriso. Silvia resta una giovane donna coraggiosa e generosa che si è messa al servizio dei bambini di un orfanotrofio in Kenya. Un meraviglioso esempio di solidarietà e altruismo, valori fondamentali del vivere civile. Silvia resta una donna libera in tutte le scelte personali, intime e pubbliche. Noi antifasciste e resistenti siamo state felici di averla rivista viva .- grazie all'impegno del Governo - e abbracciare commossa i genitori, la sorella, la famiglia e quanti volendole bene l'aspettavano con ansia".

Silvia Romano, il nordafricano e il tentativo di irrompere a casa della ragazza: "Cosa non torna". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Come se non bastassero polemiche, insulti e minacce, a turbare Silvia Romano dopo il ritorno a casa al termine di 18 mesi di prigionia tra Somalia e Kenya, anche il misterioso tentativo di intrusione di un uomo nordafricano, poco prima delle 20 di martedì, nel palazzo dove abita la ragazza. Come è noto, l'uomo è stato sorpreso sul pianeorottolo della casa dei Romano, al secondo piano. Gli investigatori hanno sequestrato un filmato che era stato realizzato da una troupe televisiva che si trovava davanti al palazzo e che, per puro caso, ha ripreso l'intruso. Secondo quanto si apprende, nel video si vede il nordafricano con jeans e cappuccio della felpa alzato uscire rapidamente dallo stabile, in fuga. L'uomo però non è ancora stato identificato. Ma soprattutto non si comprende perché, dopo essere stato sorpreso da alcuni vicini di casa, si sia messo a urlare affermando che voleva vedere Silvia. Dunque, prima della fuga, ha provato anche una reazione brandendo un ombrello. Un gesto che sembra quello di un folle, un mitomane, uno squilibrato. Eppure dalla procura fanno sapere che ci sono diverse cose che non tornano, a partire - rivela il Corriere della Sera - dal fatto che conoscesse il piano e la porta dell'appartamento della famiglia Romano.

Da repubblica.it il 15 maggio 2020. Un videomessaggio corale per esprimere a Silvia Romano solidarietà e gioia per la sua liberazione: la comunità dei musulmani d'Italia lo ha pubblicato sulla pagina Facebook “La luce news”, e Silvia Romano, la cooperante milanese liberata dopo un lungo rapimento, ha risposto con un commento in arabo e italiano: "Assalamualaikum wa rahmatullahi, a tutti voi che Allah vi benedica per tutto questo affetto che mi state dimostrando. Grazie a Dio, grazie grazie!!!!! E' bellissimo questo video, è un'emozione grande. Ciao fratelli! A presto in sha Aallah!", ha scritto la ragazza, usando la formula tradizionale del saluto arabo, l'equivalente di "la pace sia con voi". Nel video numerosi cittadini musulmani che vivono in Italia salutano Silvia Romano, che ha spiegato appena rientrata in Italia di essersi convertita e di aver preso il nome di Aisha. Una scelta che è diventata ulteriore bersaglio di insulti e minacce web per la ragazza, tanto che la procura di Milano ha aperto un'inchiesta e le forze dell'ordine vigilano sulla casa in cui abita con la madre e la sorella e in cui sta trascorrendo la quarantena. Nel post si legge: "La giovane cooperante Silvia Romano è tornata domenica in Italia dopo aver vissuto la drammatica esperienza del sequestro in Somalia per 18 mesi per mano del gruppo estremista armato Al Shabab. Il suo ritorno all'Islam le ha attirato non solo critiche ma veri e propri attacchi carichi d'odio e violenza, escalation che ha portato a minacce e ad un inquietante episodio di aggressione nei suoi confronti. I musulmani italiani hanno voluto perciò testimoniare a Silvia tutto il loro affetto, tutta la loro vicinanza e solidarietà con questo video".

Monica Serra per “la Stampa” il 15 maggio 2020. Tre maghrebini sono andati sotto casa di Silvia a farle una serenata. È successo pure questo martedì sera: uno suonava musica islamica alla chitarra, gli altri due cantavano. Erano professionali, sembrava un gesto commissionato da qualcuno per fare un regalo alla cooperante 24enne appena liberata in Somalia dopo diciotto mesi di prigionia. Così l' episodio non ha inquietato la famiglia Romano. Perché, alla fine, non fa male come le minacce e gli insulti social: parole feroci e insensate. E non spaventa quanto la misteriosa incursione di uno straniero nel palazzo, quella stessa sera. O, peggio, come il lancio della bottiglia di birra contro la finestra dei vicini la notte successiva. Per non parlare di quanti, quand' è buio, suonano il campanello o, dalla strada, invocano il nome di Silvia Romano. Tutti episodi che hanno allarmato le istituzioni. Al punto che, ieri pomeriggio, il comitato provinciale per l' ordine e la sicurezza pubblica ha disposto la «vigilanza generica radiocontrollata». Una misura d' urgenza, che sarà ratificata al prossimo incontro ufficiale in prefettura. È la forma più lieve di protezione per garantire la sicurezza della ragazza: la ronda di pattuglie dedicate, di polizia e carabinieri, che passano sotto il palazzo al Casoretto, quartiere multietnico della periferia Nordest della città. Se ci sono movimenti sospetti si fermano, appuntano ogni cosa, la comunicano alla centrale. Se c' è necessità, intervengono. «Per il momento - precisa la prefettura - è una misura assunta in via cautelare: una valutazione dei rischi personali che Silvia corre sarà fatta solo al termine della quarantena di quindici giorni». Magari la decisione riuscirà a ridurre gli episodi preoccupanti. Così come l' inchiesta per minacce aperta dal pm Alberto Nobili - che sta valutando l' aggravante dell' odio razziale - ha attenuato il numero di insulti sui social. Molti commenti sono stati rimossi dagli autori. Per la maggior parte profili fake: in tanti usano come foto la faccia di Mussolini. E tra i giornalisti, come Vittorio Sgarbi, i politici, i poliziotti e i carabinieri, ci sono anche neofascisti, xenofobi ed estremisti che iniziano a essere identificati dagli investigatori del Ros, diretti dal comandante Andrea Leo. Sui social circola di tutto: fotomontaggi della ragazza nuda, o abbracciata a kenioti in spiaggia, becere illazioni e parole volgari. La violenza è inaudita. Alle indagini non risulta, ma è lo zio Alberto Fumagalli a raccontare che a lanciare sul palazzo la bottiglia di birra, che si è infranta sulla finestra dei vicini, sarebbero stati «due ubriachi in scooter alle tre di notte. Mia sorella Francesca li ha sentiti. Urlavano a squarciagola: Silvia!». La signora Fumagalli non avrebbe avvisato la polizia. A chiamarla sono stati i vicini di casa, i signori Parisi, dopo aver trovato i cocci. Sull' episodio indaga la Digos, che sta visionando le immagini delle telecamere del Comune per individuare gli autori del gesto, mentre attende gli esiti delle analisi della Scientifica sui quindici pezzi di vetro repertati. E anche sulla strana «visita» del maghrebino che è entrato nel palazzo per cercare Silvia, ed è stato cacciato da un condomino, qualche novità potrebbe arrivare. La questura ha acquisito le immagini raccolte dalla telecamera di Quarto Grado, piazzata davanti alla finestra di Silvia, che riprendono la fuga dell' uomo. Aveva circa trent' anni, jeans e felpa blu col cappuccio in testa. Intanto, a difendere la giovane cooperante ci pensa anche lo zio, che in un' intervista radio alla Zanzara precisa: «L' Ong che ha mandato Silvia in Africa è di dilettanti allo sbaraglio». Poi, un dettaglio su Silvia: «Lo sapete perché ha aspettato tanto prima di scendere dalle scalette dell' aereo? Perché non volevano che scendesse con quel vestito, ma lei è testarda. Sulla conversione non tornerà indietro».

Quel retroscena su Silvia Romano: "Gli 007 volevano farle togliere il velo". Per la ragazza scatta la vigilanza generica radiocontrollata: "Lei è a rischio". La rivelazione dello zio: "Così ha conquistato i rapitori". Luca Sablone, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. Lancio della bottiglia di birra contro la finestra, campanello suonato a più riprese, nome urlato ripetutamente sulla strada, minacce e insulti: la situazione che sta vivendo Silvia Romano ha fatto scattare l'allarme. Per la ragazza si temono gravi ripercussioni non solo da un punto di vista fisico, ma anche da quello psicologico. Proprio per questo nel pomeriggio di ieri il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica ha disposto la "vigilanza generica radiocontrollata": si tratta di una misura d'urgenza che verrà ratificata in occasione del prossimo incontro ufficiale in prefettura. È la forma più lieve di protezione che consentirà alla giovane cooperante, liberata dopo quasi 2 anni di reclusione tra Kenya e Somalia, una maggiore sicurezza: polizia e carabinieri osserveranno e appunteranno ogni cosa, anche i movimenti sospetti nei pressi del palazzo al Casoretto, il quartiere multietnico della periferia Nordest di Milano. Come riportato da La Stampa, la prefettura ha sottolineato che per il momento è da intendersi come una misura presa in via cautelare: "Una valutazione dei rischi personali che Silvia corre sarà fatta solo al termine della quarantena di quindici giorni". E poi c'è l'inchiesta per minacce aperta dal pm Alberto Nobili. Gli insulti ricevuti sui social - dove circolano pure fotomontaggi - pare stiano diminuendo: molti commenti sono stati rimossi dagli autori; in altri casi si trattava di profili falsi. Intanto gli investigatori del Ros, diretti dal comandante Andrea Leo, continuano a tentare di identificare neofascisti, xenofobi ed estremisti.

La bottiglia e il velo. Secondo Alberto Fumagalli sarebbero stati due ragazzi ubriachi in scooter verso le tre di notte a lanciare una bottiglia contro le finestre dell'abitazione della 25enne: "Mia sorella Francesca li ha sentiti. Ma non abbiamo paura, figurati se Silvia ha paura dopo quello che ha passato". Le immagini delle telecamere del Comune sono al vaglio della Digos, che sta lavorando per individuare gli autori del gesto; nel frattempo si attendono anche gli esiti delle analisi della Scientifica sui 15 pezzi di vetro rinvenuti. Lo zio della giovane però, intervenuto ai microfoni de La Zanzara su Radio 24, ha assicurato: "Tutto è sotto controllo, ma credo sia una cretinata, non è un gesto dimostrativo, ma un gesto di due ubriaconi". Il signor Fumagalli, si legge sul Corriere della Sera, ha inoltre rivelato un retroscena sul vestito indossato dalla ragazza che ha fatto tanto discutere: "Ha 'litigato' per tutto il tempo del viaggio di ritorno con i Servizi perché voleva tenersi la veste islamica e il velo. Quando doveva scendere dall' aereo, e loro le chiedevano di toglierla forse perché faceva più comodo un altro tipo di immagine, ha insistito che avrebbe tenuto quella. Irremovibile". Sono stati mesi lunghi, duri e difficili: nel diario della prigionia di Silvia sono contenuti tutti i racconti di quei drammatici attimi. Ma lo zio ha fatto sapere che i rapitori hanno avuto pieno rispetto nei confronti di sua nipote: "Non le hanno torto un capello. Dice che avevano un atteggiamento protettivo". E infine ha svelato come è riuscita a "conquistare" i rapitori: "Quando è stata consegnata alla banda di rapitori per prima cosa ha chiesto come si scrivevano in arabo i loro nomi e loro, stupefatti, glieli hanno disegnati con i bastoncini sulla terra, mentre calava il sole".

Per Silvia Romano scatta la vigilanza 24 ore su 24. Antonino Paviglianiti il 15/05/2020 su Notizie.it.  Lo ha disposto il Prefetto di Milano: sotto casa di Silvia Romano ci sarà sempre una pattuglia presente, 24 ore su 24. Silvia Romano dovrà convivere con la vigilanza speciale. Almeno, al momento è così. Lo ha deciso la prefettura di Milano dopo i recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto la cooperante milanese liberata da diciotto mesi di prigionia lo scorso 9 maggio. Per la giovane, infatti, non solo insulti e minacce sui social network, ma anche gesti eclatanti. Al Casoretto, nella giornata di mercoledì, sono stati lanciati cocci di bottiglie di vetro contro l’appartamento di Silvia Romano. Inoltre, come riportato dallo zio della cooperante, c’è stata anche gente che ha provato a entrare nel condominio dove abita la famiglia della giovane. Insomma, tanti piccoli segnali che preoccupano la prefettura di Milano. La prefettura di Milano, infatti, ha scelto di innalzare il livello di guardia nei confronti della giovane cooperante dopo quanto avvenuto nei giorni scorsi. Così, è stata stabilita una misura di Vigilanza generica radiocontrollata. Si tratta del primo passaggio delle misure di protezione personali. Successivamente ci sarà la tutela e, infine, se la situazione non dovesse placarsi, toccherà la scorta per Silvia Romano. Da venerdì 15 maggio, dunque, polizia e carabinieri vigileranno la casa dove la giovane vive con la madre e la sorella per l’intero periodo di quarantena al quale è obbligata la cooperante milanese. Continuano le indagini sugli insulti e le minacce rivolti via social a Silvia Romano che hanno portato all’apertura di un fascicolo d’inchiesta in Procura. Al momento non ci sono iscrizioni nel registro degli indagati, mentre si sta valutando se aggiungere l’aggravante di istigazione all’odio razziale. Molti degli insulti infatti, tutti provenienti da account fake così come spiegato dal capo dell’Antiterrorismo Alberto Nobili, sono a sfondo razzista.

IL DIARIO.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2020. «Sono Silvia Romano, è il 17 gennaio 2020. Mi appello a voi... Vi imploro... Liberatemi, fatemi tornare a casa». Lo sguardo è fisso, la testa coperta dal velo. Nel video consegnato ad aprile la voce della ragazza è pacata, ma lo sguardo tradisce la disperazione. E nel racconto che Silvia ha consegnato al magistrato Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi, emerge la stessa ansia, anche se lei ripete in continuazione «sto bene, ho avuto paura solo all' inizio, dopo no. Mi trattavano bene». «Qualche giorno prima del rapimento erano venuti a cercarmi due uomini al villaggio di Chakama in Kenya. Quando l' ho saputo non ho dato importanza alla cosa». E invece poi arrivano in quattro con due moto e la portano via. «Il viaggio nella giungla è stato tremendo. Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c' era freddo e dormivamo all' aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese».

Quando arrivano nella prima casa Silvia è stremata.

«Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. Ho chiesto anche di poter leggere, libri».

Le portano un computer non collegato e un quaderno.

«Volevo pregare e mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano. Mi hanno anche dato dei libri. Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po' di arabo». In quel momento la conversione è già cominciata. Silvia ne parla con il suo carceriere che conosce l' inglese, quello che «per me era il capo». E alla fine c' è anche lui quando si celebra la shahada , la cerimonia per l' adesione all' Islam. Lei recita la formula e in quel momento si converte. «Pregavo e guardavo video. Mi mettevano filmati su quello che accadeva fuori, li prendevano da Al Jazeera. Io vivevo chiusa nella stanza ma sentivo vociare fuori e il richiamo del muezzin. Questo mi ha fatto pensare che fossero caseggiati, erano villaggi con altre persone anche se io ho visto soltanto i sei uomini che mi tenevano prigioniera. Erano divisi in due gruppi da tre. Non ho mai visto donne». Le fanno cambiare rifugio e ogni viaggio lo fa a piedi «oppure sui carretti, qualche volta abbiamo usato la macchina. Sono sempre stata nelle case, chiusa in una stanza». Per due volte sta male, tanto male. «Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte». Lentamente Silvia si abitua a stare con i suoi carcerieri. «Non li ho mai visti perché entravano con il volto coperto, però ormai li riconoscevo dalla voce anche se parlavano solo arabo». I video li gira invece davanti a un telefonino. Sono tre, cambia la data ma il testo che le fanno recitare è lo stesso. Lei annota tutto sul diario. «Volevo sapere la data, volevo sapere quanto tempo passava». All' improvviso entra l' uomo che parla inglese. «Mi disse che l' operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c' era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte». Arrivano all' appuntamento con chi deve prenderla in consegna, lei sale su una macchina. «C' erano due uomini, erano somali. Abbiamo fatto un tratto che non è durato tanto». Sono circa 30 chilometri. La portano prima in un compound militare, poi la trasferiscono nell' ambasciata italiana a Mogadiscio.

La riceve l' ambasciatore Alberto Vecchi. Quando entra nella sede diplomatica Silvia indossa gli abiti delle donne somale e una lunga tunica. Ha il volto coperto. le chiedono se ha desideri. Chiede di mangiare una pizza. Mentre preparano la cena le viene chiesto se vuole cambiarsi, se ha bisogno di altri abiti. Lei sorride e risponde sicura: «No, sto bene così. Adesso mi chiamo Aisha, tornerò in Italia con questi vestiti. Continuerò a tenere il velo. Ne parlerò poi con mamma». Quando scende dalla scaletta sorride e vola ad abbracciare i genitori e la sorella. «Sto bene fisicamente e psicologicamente», ripete.

Il "diario" della prigionia di Silvia Romano, dal mese nella giungla all’Islam: “Non sono stata violentata”. Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2020. “Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. Ho chiesto anche di poter leggere, libri”. È questo parte del racconto che Silvia Romano, la cooperante 24enne liberata venerdì scorso dopo oltre 500 giorni di prigionia a seguito del suo rapimento, avvenuto il 20 novembre 2018 in Kenya, ha consegnato durante l’interrogatorio avvenuto domenica davanti al magistrato della Procura di Roma Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi. Silvia è tornato sui 18 mesi vissuti con i suoi rapitori, il gruppo terrorista somalo al-Shabab. I momenti immediatamente successivi al rapimento sono i peggiori, con il “tremendo” viaggio nella giungla, le moto che si rompono subito costringendo Silvia e i rapitori a continuare a piedi “per un mese”. La ragazza racconta di come i terroristi le hanno tagliato i capelli “perché dovevamo passare in mezzo ai rovi“. “Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’ era freddo e dormivamo all’aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese“, spiega nel suo diario della prigionia. Arrivati nella prima casa i suoi carcerieri le portano anche un computer, non collegato alla rete internet, e un quaderno. La 24enne milanese quindi, come spiega il Corriere della Sera, chiede di poter pregare: “Mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo”. È così che inizia la sua conversione all’islam, che culminerà poi nella shahada , la cerimonia per l’ adesione all’Islam, e con il cambio del suo nome in Aisha. Quanto ai suoi carcerieri di al-Shabab, dal racconto di Silvia la conferma di non averne mai visto il volto. Quello che la volontaria considera “il capo” conosceva l’inglese, mentre a sorvegliarla era un gruppo di “sei uomini”, divisi in due gruppi da tre, senza alcuna presenza femminile. “Non li ho mai visti perché entravano con il volto coperto, però ormai li riconoscevo dalla voce anche se parlavano solo arabo”, conferma a Colaiocco Silvia, che racconta anche dei due periodi peggiore della prigionia. In due occasioni infatti la ragazza si sentirà male: “Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte”, spiega la volontaria. Oltre 500 giorni dopo il rapimento arriverà quindi la liberazione, frutto di un estenuante e faticoso lavoro di intelligence dei servizi segreti italiani con la collaborazione dei colleghi turchi e somali. A comunicare a Silvia il rilascio è il carceriere che parla inglese. “Mi disse che l’operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte”. La cooperante viene consegnata a due uomini somali a bordo di un’auto, dopo trenta chilometri l’arrivo in un compound militare e quindi l’arrivo all’ambasciata italiana, dove ad aspettarla c’è l’ambasciatore Alberto Vecchi.

Il diario della prigionia di Silvia Romano: “Vi imploro, liberatemi”. Antonino Paviglianiti il 13/05/2020 su Notizie.it. Il diario di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita nel novembre 2018 e liberata a maggio 2020. Silvia Romano, durante la sua prigionia, ha affidato i propri pensieri, i propri timori e le proprie speranze alle pagine di un diario. Nei diciotto mesi lontani da casa, da novembre 2018 a maggio 2020, la paura più grande era quella di non tornare più a casa: “Vi prego – si legge in uno dei tanti passaggi del diario di prigionia – liberatemi. Vi supplico!” Questo messaggio è del 17 gennaio 2020, dopo un anno pieno di carcerazione. E fa emergere tutta la paura di Silvia Romano che – stando a quanto sostenuto da chi l’ha interrogata domenica 10 maggio – soffre di stati d’ansia e non è per nulla tranquilla. L’incubo per la giovane cooperante, come si legge nel suo diario, è iniziato così: “Qualche giorno prima del rapimento erano venuti a cercarmi due uomini al villaggio di Chakama in Kenya. Quando l’ho saputo non ho dato importanza alla cosa”. Ma è il segnale che qualcosa stava per succedere. Nel diario di Silvia Romano si legge il primo viaggio da rapita: “Il viaggio nella giungla è stato tremendo. Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’era freddo e dormivamo all’aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte. Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita. Dopo ho saputo che siamo stati in cammino un mese”. Al suo arrivo nel primo covo dove i rapitori l’hanno tenuta, Silvia Romano racconta cosa ha provato: “Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata. Però ho chiesto un quaderno. Volevo tenere il tempo, capire quando era giorno e quando scendeva la notte. Volevo scrivere tutto. E sulla conversione, nel diario di Silvia Romano si legge come tutto sia iniziato perché voleva leggere qualcosa: “Volevo pregare e mi hanno messo il Corano scritto in arabo e in italiano. Mi hanno anche dato dei libri. Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo”. I rapitori le mostravano video “su quello che accadeva fuori, li prendevano da Al Jazeera. Io vivevo chiusa nella stanza ma sentivo vociare fuori e il richiamo del muezzin. Questo mi ha fatto pensare che fossero caseggiati, erano villaggi con altre persone anche se io ho visto soltanto i sei uomini che mi tenevano prigioniera. Erano divisi in due gruppi da tre. Non ho mai visto donne”. Nelle pagine del diario di anche il racconto di quando ha scoperto di essere salva: “All’improvviso entra l’uomo che parla inglese. Mi disse che l’operazione era finita, che mi liberavano. Dopo qualche giorno è venuto a prendermi. Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte”. E sulla consegna racconta: “C’erano due uomini, erano somali. Abbiamo fatto un tratto che non è durato tanto”. Fino ad arrivare all’ambasciata italiana: “Sto bene fisicamente e psicologicamente, adesso mi chiamo Aisha”.

IL RUOLO DEI TURCHI.

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 maggio 2020. […] Nel frattempo gli 007 la cercavano tra mille difficoltà. Per fortuna, a Mogadiscio le nostre forze armate hanno un agguerrito contingente di 200 istruttori tra carabinieri, paracadutisti e varie altre specialità. Il loro lavoro quest'anno è stato doppio, dovendo istruire i somali e fare da scorta agli agenti dell'Aise. Nonostante ciò, i limiti erano evidenti. Raccontano le voci di dentro: «In un territorio fuori controllo come la Somalia, dove c'è una guerra non dichiarata, un occidentale non può muoversi inosservato. Occorre trovare il mediatore giusto». Sottolineano l'aggettivo: «Ci sono tanti sciacalli e velleitari». Tra quelli che si sono proposti all' Aise, pure un italiano famoso che da qualche anno si è trasferito in Somalia: quel Mario Scaramella, già consulente della Commissione Mitrokhin, oggi direttore della scuola di diritto dell' Università Statale del South West, che vanta buone entrature, ma il cui attivismo non è stato gradito. […]

Silvia Romano, retroscena sulla liberazione: oltre alla Turchia spunta il Qatar e i Fratelli musulmani. Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Emergono nuovi dettagli sulla liberazione di Silvia Romano, la giovane cooperante tenuta in ostaggio per un anno e mezzo dai terroristi somali di Al Shabaab. Nella fase finale infatti è stato cruciale il ruolo del Qatar. Eppure - come riporta Il Giornale - l'Emirato non è mai stato neutrale nell'ambito dei rapporti con lo jihadismo e il terrorismo. Lo stesso Dipartimento del Tesoro americano segue i finanziamenti usciti dalle casse dell'Emirato e destinati a quelli di Al Qaida prima e dello Stato islamico poi. Non solo, perché nel 2012 le forze speciali francesi, mandate a preparare l'intervento nel Mali occupato dalle cellule jihadiste, scoprirono che l'Emirato era tra i grandi sostenitori del nemico. Oltretutto Doha (capitale del Qatar) risulta essere anche la grande finanziatrice delle moschee legate ali Fratelli musulmani (una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali ndr). Come se non bastasse - prosegue il quotidiano di Alessandro Sallusti - il Qatar è anche il grande alleato della Turchia nella partita libica. In conclusione, ad ogg sia Ankara che Doha puntano a tagliarci fuori dallo scenario libico in modo da annullare qualsiasi dipendenza di Tripoli dall'Europa e dall'Occidente e garantirsi l'egemonia dei gruppi islamisti legati alla Fratellanza. 

Silvia Romano, servizi segreti americani esclusi dall'Italia: "Avrebbero incenerito i terroristi anziché trattare". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Perché, oltre ai servizi segreti della Turchia, non risulta che l’Italia abbia chiesto aiuto agli Stati Uniti, più che operativi in Somalia, per liberare Silvia Romano? È la domanda alla quale Il Giornale offre una risposta piuttosto convincente. “L’appoggio agli americani - scrive Fausto Biloslavo - è stato evitato o chiesto solo in parte perché la linea di Washington è di incenerire i terroristi con i droni piuttosto che trattare per liberare gli ostaggi”. Di conseguenza non sarebbero stati utili gli 007 a stelle e strisce per l’intento dell’Italia, che è stato quello di ottenere la liberazione tramite il pagamento di un riscatto da 4 milioni di dollari. “I turchi sono serviti per la linea morbida - si legge su Il Giornale - mentre il Pentagono avrebbe proposto un blitz armi in pugno. Il comando americano di Africom ha fatto fuori circa 800 terroristi e civili in 110 raid dal cielo dall’aprile 2018”. Neanche a farlo apposta, uno degli ultimi bersagli centrati è un comandante degli Al Shabaab, il gruppo che ha sequestrato la 25enne milanese. 

Felici per Silvia Romano, un po’ meno per il ministro degli Esteri Di Maio.  Toni Capuozzo il 10/05/2020 su Notizie.it. La generosità di una giovanissima ragazza va capita, apprezzata e sempre difesa. Ma è il caso di raccontare alcuni retroscena della liberazione di Silvia Romano. Non viviamo nel paese dei balocchi, e anche il lieto fine della favole non può essere privo di lati oscuri. È triste vedere molti commenti perplessi sulla liberazione di Silvia Romano, che va accolta con gioia, anche perché libera un po’ noi tutti dal peso opprimente, nei media e nelle nostre teste, di Covid 19. Altra cosa, ma per favore in un altro momento, sono i discorsi sul volontariato fai da te. Sarebbe costato di più, forse, preparare e pagare un’educatrice locale a seguire quei bambini kenjoti, ma avrebbe aggiunto una busta paga alla misera economia locale. Possiamo però permetterci di dire che la generosità di una giovanissima ragazza va capita, apprezzata, e comunque difesa? Sì, i soldi del riscatto poi li paghiamo tutti. E quanto vale una vita? Quanto sarebbe stato bello poter pagare per Fabrizio Quattrocchi, per padre dall’Oglio, per Enzo Baldoni…. Lasciamo perdere gli odiatori di destra, speculari a quelli di sinistra (ricordate il ricovero di Boris Johnson, o quello di Bertolaso?), forse è il caso di raccontare alcuni retroscena della liberazione. Non l’ammontare del riscatto che si conosce, ormai, ma su cui è meschino fare i conti. Ma il ruolo dei servizi di intelligence turca, cui dobbiamo essere grati. Badate bene: la Turchia di Erdogan, che lascia morire in carcere musicisti, che arresta giornalisti, combatte i curdi…. Non esattamente i lancieri bianchi della democrazia. Nel 2017 la Turchia ho aperto a Mogadiscio la più grande base militare fuori dai suoi confini nazionali. Una presenza ingombrante, che ha provocato, lo scorso dicembre, un attacco terroristico, che aveva nel mirino degli “ingegneri” turchi, ma ha ucciso almeno un’ottantina di persona, in grande maggioranza studenti e un numero imprecisato di feriti. Curati da medici e infermieri turchi. Ma cosa ci fa la Turchia in Somalia? Più o meno quello che ci fa in Libia. Scalzare la presenza altrui, ad esempio italiana, per affermare il proprio ruolo di potenza regionale, campione di un islamismo radicale – stile Fratelli musulmani – ma non estremo come quello degli Shebaab, i “ragazzi” di Al Qaeda. E ci sta, anche, per fare affari. A gennaio è stato annunciato un accordo per garantire alla Turchia l’esplorazione di risorse energetiche, sula terraferma e in mare, e del resto il porto di Mogadiscio è gestito da una società turca. Qualcosa che ricorda le pretese turche su giacimenti off shore in cui operava l’Eni nel Mediterraneo?). E l’Italia si fa sempre più in là. I più giovani non possono ricordare che fino al 1960, in quanto ex colonia, la Somalia è stata “amministrata” dall’Italia. E qualcuno ricorderà, almeno per aver visto Black Hawk Down che la Somalia è stata teatro di una infelice missione Onu, Restore Hope, nel corso della quale a un posto di blocco nella capitale – il check point PASTA – vennero uccisi tre soldati italiani. Non è che non ci siano militari italiani o uomini dell’intelligence italiana, in Somalia, oggi. Sono loro ad aver chiesto ai turchi di liberare alcuni detenuti di Al Shebaab, quasi come uno scambio di prigionieri, che si è cumulato al riscatto. Felici per Silvia, un po’ meno per il ministro degli Esteri Di Maio.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 maggio 2020. È stata una lunga corsa a ostacoli, la liberazione di Silvia Romano, ad opera di una cellula dei servizi segreti che si era trasferita in Kenya 48 ore dopo il rapimento, sperando di chiudere subito la partita assieme alle forze di polizia locali e con droni potenti, proseguita poi in Somalia per quasi un anno e mezzo. Una corsa che non s'è mai interrotta neppure tra silenzi, inganni e false piste. Era l' agosto dell' anno scorso, per dire, quando agli uomini dell' intelligence italiana a Mogadiscio arrivò un video. Una sorta di pizzino di un minuto scarso. Silvia Romano diceva poche parole, aria smunta. Sul momento sembrò che il sequestro fosse sul punto di concludersi. Invece no; quella pista si rivelò vana. Gli agenti però da allora furono forti di una certezza: «Silvia era un ostaggio prezioso». Ci sono stati momenti brutti. La giovane è stata molto male: ha sofferto di malaria o febbre gialla. Intere settimane trascorse da sola con il febbrone, buttata sul giaciglio che le avevano preparato. La conversione all'Islam matura in questa solitudine e disperazione estrema. Nel frattempo gli 007 la cercavano tra mille difficoltà. Per fortuna, a Mogadiscio le nostre forze armate hanno un agguerrito contingente di 200 istruttori tra carabinieri, paracadutisti e varie altre specialità. Il loro lavoro quest'anno è stato doppio, dovendo istruire i somali e fare da scorta agli agenti dell'Aise. Nonostante ciò, i limiti erano evidenti. Raccontano le voci di dentro: «In un territorio fuori controllo come la Somalia, dove c'è una guerra non dichiarata, un occidentale non può muoversi inosservato. Occorre trovare il mediatore giusto». Sottolineano l'aggettivo: «Ci sono tanti sciacalli e velleitari». Tra quelli che si sono proposti all' Aise, pure un italiano famoso che da qualche anno si è trasferito in Somalia: quel Mario Scaramella, già consulente della Commissione Mitrokhin, oggi direttore della scuola di diritto dell' Università Statale del South West, che vanta buone entrature, ma il cui attivismo non è stato gradito. Dopo il video di agosto e il fallimento inaspettato, la cellula dell' Aise che dipende per catena gerarchica dal vicedirettore Giovanni Caravelli (che s' è conquistato la promozione sul campo) è dovuta ripartire, ma con un dettaglio in più. Ha capito che per arrivare all' altro capo del filo occorreva «rivolgersi ai colleghi turchi», ovvero il servizio segreto, il Mit. Un passo indietro: a livello di intelligence, tra Aise e Mit le cose filano a meraviglia. Il direttore uscente Luciano Carta ha coltivato il rapporto con il suo collega Hakan Fidan in nome della comune appartenenza alla Nato, consapevole che i turchi hanno notevolmente esteso la loro rete nel Medio Oriente e nel Corno d'Africa. In effetti Ankara non lo ha deluso. Di qui i pubblici ringraziamenti dal primo minuto. Ma qualcuno ha voluto esagerare. All' Aise non hanno apprezzato la fotografia che il Mit ha voluto far circolare, con Silvia che indossa un giubbotto antiproiettile a marchio turco. La foto suggerisce che il lavoro l' avessero fatto tutto i turchi. E invece no. «Quella foto potrebbe essere un fake - fanno sapere - perché è stata recuperata dagli uomini dell intelligence italiana con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana, e che le è stato dato nell' immediatezza senza alcun simbolo». Verissimo, insomma, che grazie alla filiera «turca», attivata a dicembre, dopo poche settimane c' è stato un balzo in avanti nella gestione del rapimento ed è giunto ai nostri 007 un secondo video. Una nuova prova che Silvia era in vita e anche «che si stava trattando con le persone giuste». Assai ingeneroso, invece, sostenere che il lavoro difficile lo abbiano fatto gli altri perché la cellula italiana è stata sul campo, eccome. Per un lavoro d' intelligence alla vecchia maniera. Oltretutto i sequestratori sono stati sempre molto accorti. «Non le hanno mai concesso una telefonata alla madre, come pure aveva chiesto». Pensavano, non a torto, che sarebbe stato facile intercettarli e localizzarli. Alla fine, sono stati gli italiani che l' hanno portata al sicuro nel compound militare di Mogadiscio. E se mai servisse una controprova di quali pericoli si corrono da quelle parti, si racconta che la telefonata con Conte s' è interrotta perché gli insorti sparavano con i mortai e sono dovuti correre tutti ai ripari. «Perché questa è Mogadiscio».

Silvia Romano, la guerra tra gli 007 italiani e quello turchi sulla sua liberazione: quel dettaglio sul giubotto antiproiettile. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Silvia Romano, liberata dalla prigionia, ha sfoggiato un giubotto antiproiettile con un patch con la bandiera della Turchia. Una foto divulgata dall’agenzia turca Anadolu per celebrare il ruolo svolto dai servizi segreti turchi nell'operazione che ha riportato la cooperante milanese in Italia. Un dettaglio, quello dello "stemma", che la nostra intelligence si è prestata a smentire: Silvia infatti - scrive Il Giornale - sarebbe stata recuperata nella notte tra venerdì e sabato dai nostri 007 “con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo” e “quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake”. Eppure con ogni probabilità i segreti italiani si sono affidati a quelli turchi per cercare di ricostruire gli spostamenti della giovane e, infine, per ottenere la sua liberazione. Ed ecco che ora Recep Tayyip Erdogan è pronto a prendersi i suoi meriti e, quello accaduto oggi non è solo che l'inizio.

La guerra tra gli 007 turchi e italiani sulla liberazione di Silvia Romano. Matteo Carnieletto su Inside Over l' 11 maggio 2020. La “bomba” è stata sganciata oggi dall’agenzia turca Anadolu, che ha pubblicato una foto in cui si vede Silvia Romano mentre, subito dopo esser stata liberata, indossa un giubbotto antri proiettile con, attaccato, un patch raffigurante la bandiera turca. L’articolo, chiaramente una velina gentilmente offerta da Ankara, è molto scarno ed è confezionato solamente per celebrare il ruolo svolto dai servizi segreti turchi nell’operazione che ha portato alla liberazione della cooperante italiana. Servizi segreti che o hanno direttamente scattato la fotografia alla Romano oppure hanno provveduto a modificarla ad hoc, in modo tale da accentuare il lavoro svolto. La versione di Ankara è stata ovviamente smentita dall’intelligence italiana: la cooperante italiana, infatti, sarebbe stata recuperata nella notte tra venerdì e sabato dai nostri 007 “con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo” e “quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake”, fanno sapere i nostri servizi. Che poi precisano: “Gli uomini dell’intelligence italiana che hanno compiuto l’operazione di liberazione sono gli stessi che nel novembre 2018, 48h dopo il sequestro, sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove, in collaborazione con le forze locali, hanno iniziato le operazioni di ricerca anche con l’ausilio di sofisticati droni” e che, “dopo aver avuto contezza del trasferimento della rapita in Somalia, si sono trasferiti stabilmente in quel paese, senza mai interrompere le attività di ricerca, fino all’operazione dell’altra notte, quando, in silenzio e con professionalità, hanno recuperato Silvia Romano”. Molto probabilmente, però, i servizi segreti italiani si sono affidati a quelli turchi per cercare di ricostruire gli spostamenti della giovane e, infine, per ottenere la sua liberazione. Come scrivevamo su queste pagine, infatti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha saputo tessere una fitta rete di rapporti con i governi e i gruppi somali che in quest’occasione sono risultati parecchio utili. Ankara è infatti presente nel Corno d’Africa da 19 anni e qui ha creato una rete che tocca i principali snodi politici e commerciali di quest’area. Tutto è iniziato nel 2011, come ricorda l’Agi, “a seguito di una visita del presidente Recep Tayyip Erdogan in una Mogadiscio devastata dalla carestia”. Il Sultano, proprio come cercherà di fare anni dopo in Siria, sfrutta il vuoto di potere che si è creato in Somalia e, grazie all’agenzia per la cooperazione Tika (Turk Isbirligi ve Koordinasyon Idaresi Baskanligi) Ankara fa arrivare a Mogadiscio finanziamenti, avvia progetti di sviluppo e apre scuole, sostenendo il governo del presidente Mohamed Abdullahi Farmajo. Con questa operazione Erdogan cerca di raggiungere due obiettivi: allargare la propria sfera di influenza in Africa e contrastare i Paesi del Golfo rivali: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Come ricorda l’Agi, “le aziende turche gestiscono le rotte aeree e marittime di Mogadiscio e addestrano soldati del governo somalo. Gli sforzi di Ankara per sostenere il governo somalo sono stati premiati lo scorso gennaio con la proposta di Mogadiscio a effettuare esplorazioni petrolifere in acque somale, come annunciato dallo stesso Erdogan il 20 gennaio scorso di ritorno dal vertice di Berlino sulla Libia, altro paese in cui Ankara è fortemente impegnata, anche militarmente, a sostegno del Governo di accordo nazionale (Gna)”. Ma non solo. In seguito allo scoppio della pandemia da Coronavirus, la Turchia ha inviato due carichi di aiuti e dispositivi sanitari in Somalia. Un’ottima occasione per il presidente turco per mostrarsi un valido alleato per Mogadiscio. Come abbiamo visto, il presidente turco è abile a destreggiarsi nel caos politico. E ora che l’operazione per liberare Silvia Romano è andata a buon fine, il Sultano è pronto a giocarsi il suo credito nei confronti del governo italiano. La foto pubblicata oggi da Anadolu potrebbe essere solo il primo asso nella manica di Erdogan.

Dietro le quinte dell’“intelligence”. I retroscena della liberazione di Silvia Romano. Il Corriere del Giorno l'11 Maggio 2020. L’Italia dopo questa liberazione si è messa in un gioco complicato di equilibri e a Washington non piace sicuramente questo espansionismo dell’”intelligence” turca senza una chiare definizione dei ruoli. E’ abbastanza chiaro che questa “operazione” per liberare Silvia Romano non sia molto vista di buon occhio dal comando Usa per l’Africa . Infatti per gli Stati Uniti è essenziale coordinare i due alleati nella Nato, in quanto esistono degli equilibri e delle strategie che non si possono trascurare o ignorare . La liberazione di Silvia Romano sta per diventare un vero e proprio “problema” per le diplomazie occidentali, e soprattutto per i “servizi”. Il suo rilascio sembra avere un solo vincitore dietro le quinte: i servizi della Turchia. Infatti negli ambienti dell’intelligence il coinvolgimento dei “servizi” del governo turco si è subito dimostrato essenziale per la complicata gestione della trattativa tra i sequestratori e l’AISE l’agenzia dei servizi esteri del governo italiano. Il ruolo fondamentale della Turchia emerge chiaramente dalla fotografia fatta circolare non casualmente dall’ agenzia di stampa turca Anadolu nelle ultime ore, che mostra Silvia Romano sorridente dopo la liberazione con indosso un giubbotto anti proiettile con i simboli della bandiera turca. Una fotografia che dice e spiega tante cose. E se qualcuno avesse avuto qualche dubbio sul ruolo turco e sull’importanza “politica” di questa liberazione, ci hanno pensato gli 007 di Erdogan a rimuovere ogni dubbio e fare chiarezza. L’operazione era necessaria al Governo italiano per far rientrare in patria una concittadina rapita, ma serviva soprattutto nel mondo dell’intelligence per far capire pubblicamente i nuovi equilibri in quella parte del mondo. Giusto e legittimo farsi qualche domanda. Per quale motivo è stato necessario passare dalla Turchia quando Mogadiscio è ben nota nota per avere rapporti proficui con le nostre unità di intelligence sin dai tempi della decolonizzazione ? E come mai non stati allertati in maniera chiara gli americani della CIA? Ma soprattutto occorrerà capire quale sarà il prezzo politico pagato con questo intervento risolutore dei “servizi” turchi? Domande a cui non è facile rispondere chiaramente, ma per le quali è possibile iniziare ad identificare e tracciare degli scenari partendo da una premessa: in Somalia è andata in corso una vera e propria operazione diplomatica e di spionaggio che ha consentito di portare alla luce un imponente movimento strategico nel territorio somalo. E’ questo quindi il primo punto su cui ragionare per cercare comprendere perché l’Italia ha di fatto dovuto delegare l’operazione alla National Intelligence Organization meglio nota come Mit (il “servizio segreto” turco) ed ai “servizi” della Somalia. E come si è pervenuti a questa conclusione è facile capirlo. Una fonte “qualificata” ha rivelato al Fatto Quotidiano il retroscena del dietrofront negli ultimi anni della diplomazia e dell’”intelligence italiana” dal territorio somalo, con l’effetto controproducente che la vecchia rete di rapporti invidiata da tutti ai nostri “servizi”, persino dagli stessi americani della C.I.A. e dai servizi europei, al momento risulta essere completamente depotenziata. Un depotenziamento che coincide con la fine del mandato di capo dei servizi segreti somali di Abdullai Ghafow che era stato “addestrato” anche dagli italiani. Di conseguenza al momento l’Italia conta sempre di meno a Mogadiscio. E non è un caso accidentale che proprio a seguito di questa ritirata che non si può valutare “strategica” sia arrivata in Somalia la forte penetrazione dei “servizi” di un Paese come la Turchia che invece da anni ha avviato un lento e costante processo di inserimento al punto tale tanto che Erdogan ha ormai vestito le vesti di protettore delle sorti internazionali della Somalia. Una presenza che va di traverso soprattutto agli Emirati Arabi Uniti, che invece volevano sfruttare la debolezza politica dell’Africa orientale per entrare in un conflitto politico in cui da un lato c’è la Turchia di Erdogan e dall’altro lato il suo finanziatore occulto: il Qatar . Infatti Roma sembrerebbe aver chiesto anche informazioni ad Abu Dhabi, che però stando ad alcune indiscrezioni, avrebbe chiesto in cambio un ruolo più importante in una partita dalla posta ben più elevata e che riguardava la Libia. Il vero punto punto dolente è infatti proprio la Libia. Perché se è assodato che la Turchia ha dimostrato di poter decidere le sorti della Somalia, è altrettanto veritiero che il prezzo da pagare non riguarderà soltanto l’immagine di un’Italia che si ritira dai territori del Corno d’Africa, ma una possibile e pericolosa contropartita libica. Gli Emirati Arabi avrebbero chiesto all’Italia il cambio di sponda con un appoggio politico internazionale a Khalifa Haftar e non all’avversario libico di Tripoli. La Turchia mentre si trova a convivere difficilmente accanto all’ Italia il sostegno a Fayez al Sarraj, otterrà sicuramente una maggiore libertà operativa in territorio libico. Va ricordato però che “operazione Irini” permettendo al momento si nota la presenza solo di una nave francese nelle acque del Mediterraneo. Questo complicato incrocio di servizi e diplomazia tra l’ Italia e la Turchia ovviamente non poteva non coinvolgere gli Stati Uniti e gli inglesi del Regno Unito che sembrano non aver assolutamente condiviso le decisioni assunte dal Governo italiano con quello turco ad Ankara. Secondo il quotidiano La Repubblica il Governo italiano si aspetta nei prossimi giorni una richiesta di chiarimenti ed informazioni dagli alleati Usa. E’ abbastanza chiaro che questa “operazione” per liberare Silvia Romano non sia molto vista di buon occhio dal comando Usa per l’Africa . Infatti per gli Stati Uniti è essenziale coordinare i due alleati nella Nato, in quanto esistono degli equilibri e delle strategie che non si possono trascurare o ignorare. Come si fa giustificare il pagamento del riscatto milionario a dei terroristi affilati ad Al Qaeda che gli americani bombardano sempre maggiore intensità con i loro caccia e droni da qualche anno? E soprattutto vogliono capire il presunto scambio di favori in Libia quando gli stessi americani dubitano sia dell’interventismo turco che della leadership di Sarraj? L’Italia dopo questa liberazione si è messa in un gioco complicato di equilibri e a Washington non piace sicuramente questo espansionismo dell’”intelligence” turca senza una chiare definizione dei ruoli. In particolar modo se a guidare il gioco è una persona come Erdogan che ha dimostrato più volte di non voler seguire e rispettare la linea guida dalla Nato in Siria così come anche nel Mediterraneo orientale. La foto di Silvia Romano con il giubbotto antiproiettili scattata sabato 9 maggio qualche secondo dopo la liberazione di Silvia Romano in Somalia, mostra l’ostaggio italiano a bordo di un veicolo mentre indossa un giubbotto antiproiettile con al centro il simbolo turco della Mezzaluna e la stella. L’immagine fotografica è stata diffusa dall’Agenzia di stampa turca Anadolu, ed è un documento fornito da Ankara in modo ufficiale. Così è stato anche pubblicato da molti altri media turchi, fra cui la Trt, la televisione di Stato, citando sempre l’Anadolu. Fonti dell’ Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, dl Governo italiano, hanno successivamente fatto circolare una versione differente: “Silvia Romano è stata recuperata dagli uomini dell’intelligence italiana con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana, e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo, quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake“. Il “non è da escludersi” è una maniera subdola di smentire senza alcuna ufficialità. Un Paese serio a parere nostro una smentita la fa secca e chiara. Quando dice la verità!

L’ombra di Erdogan dietro la liberazione di Silvia. Lorenzo Vita su Inside Over il 10 maggio 2020. La liberazione di Silvia Romano è un risultato fondamentale di tre fattori: lavoro di intelligence, opera di diplomazia e capacità operative sul campo in uno dei teatri più difficile del mondo, il Corno d’Africa. Un’operazione che si è svolta all’alba del nove maggio a trenta chilometri da Mogadiscio, in Somalia, e che è il completamente di un lavoro cominciato subito dopo le 19.30 del 20 novembre del 2018, quando la cooperante italiana venne rapita da una banda armata nel villaggio di Chakama in Kenya. Le cose hanno subito una decisa accelerazione nel novembre dell’anno scorso, quando i servizi segreti italiani hanno avuto la certezza che Silvia Romano fosse viva. Una sicurezza che ha permesso al numero uno dell’Aise, Luciano Carta, di muovere le pedine definitive nelle scorse settimane, con l’invio dei suoi uomini a Nairobi, in Kenya. Il contatto era quello giusto, spiegano le fonti di Repubblica, tanto che in pochi giorni è arrivata la svolta per il negoziato. L’appuntamento viene fissato nella notte tra l’8 e il 9 maggio sotto la pioggia battente di Mogadiscio. E mentre nella capitale somala esplodevano colpi di mortaio, non lontano dalla sua periferia avveniva lo scambio per riavere Silvia. Uno scambio che indica due elementi che hanno rappresentato da sempre i binari del lavorio degli 007 italiani. Da una parte la questione dei soldi: perché quello di Silvia Romano era stato da subito un sequestro a scopo di estorsione. Dall’altro lato, non va sottovalutato un fattore essenziale mai taciuto nemmeno dalle prime agenzie di stampa, ma anzi quasi volutamente ribadito dalle fonti dei servizi: l’apporto dell’intelligence turca. Un elemento importante perché fa comprendere quanto profondo sia il radicamento della Turchia nel Corno d’Africa: un tempo territorio “di caccia” delle potenze europee, con l’Italia in prima linea grazie ai contatti ereditati dal fu impero coloniale, e che ora si trova al centro di una guerra che ha tutto il sapore mediorientale. Lo Stato africano è un complesso ginepraio di interessi strategici e di lotte per il controllo del territorio. I signori della guerra, i pirati, bandi di predoni, i terroristi di Al Shabaab e un governo fragile fanno da sfondo a una vera e propria sfida per il controllo delle aree del Paese. Gli Emirati Arabi Uniti hanno da tempo avviato una loro politica di penetrazione nella parte settentrionale, quella che si affaccia sul Golfo di Aden. Mentre più a Sud, nella capitale Mogadiscio, è con i turchi che bisogna trattare. E gli italiani lo sanno benissimo.

Recep Tayyip Erodgan è stato uno dei primi leader mediorientali e mondiali a intessere rapporti estremamente proficui con i governi somali. E ha saputo sfruttare la debolezza degli esecutivi per imporre la propria agenda. Il sogno neo ottomano del sultano si costruisce su solide basi storiche che non possono non tener conto che i contatti tra la Sublime Porta e il mondo africano arrivavano proprio fino al Corno d’Africa. Ed è così che tra aiuti economici, investimenti, basi militari e contatti con il mondo islamico locale (non estraneo anche alla Fratellanza musulmana), Erdogan ha di fatto reso la Somalia un avamposto della strategia turca. E ancora una volta l’Italia ha dovuto avere a che fare con gli agenti di Ankara: come nel Mediterraneo orientale e a Tripoli, dove ormai sembra impossibile non coinvolgere anche gli uomini del Sultano. La tattica sembra non troppo diversa da quella adottata in Libia: si lascia che la guerra faccia il suo corso, si penetra fra le macerie ripercorrendo i confini dell’antico impero ottomano, si utilizzano le vie della cooperazione, dello sfruttamento energetico e del retroterra culturale, e infine arrivano i militari. Una presenza, quella turca, che ha scatenato da tempo i terroristi di Al Shabaab, che hanno più volte preso di mira lavoratori e unità inviate da Ankara per inviare un segnale a Mogadiscio ma soprattutto al governo turco. Il lieto fine del rapimento di Silvia Romano è in realtà il segnale eloquente di questa realtà. Come in Libia così in Somalia, quelle che un tempo erano colonie italiane – e con cui Roma aveva necessariamente rapporti eccellenti anche una volta diventata indipendenti – ora sono territorio in cui è l’influenza turca a prevalere. Ed è a tutti gli effetti una vittoria di Erdogan: l’unico leader a sapere mantenere e rafforzare i rapporti del proprio Paese nel mono africano confermandosi nella sua strategia neo-ottomana e grazie a un sapiente gioco di diplomazia, strategia militare e alleanze. E per l’Italia c’è poco da sorridere, a eccezione della vittoria di riavere a casa la nostra ragazza. Tanto è vero  che già qualcuno inizia a temere che il favore ricevuto dagli 007 turchi in Somalia possa avere importanti ripercussioni sull’altro teatro dove Ankara e Roma si trovano a dover convivere: Tripoli. E lì un lasciapassare italiano agli interessi turchi potrebbe cambiare radicalmente i piani del nostro Paese. in tutto il Mediterraneo allargato.

IL RAPIMENTO.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 19 maggio 2020. Ora che è tornata in Italia, Silvia Romano può contare su illustri personalità pronte a difenderla. Ad esempio Luciana Littizzetto, la quale, domenica a Che tempo che fa, ha deciso di ringraziarla pubblicamente. «Cara Silvia, cara Aisha, perché tutti abbiamo il diritto di farci chiamare come ci pare, volevo dirti grazie», ha detto. «Grazie per aver resistito un anno e mezzo in mano a gentaglia armata, senza perdere quel bel sorriso che hai. E grazie perché continui a sorridere nonostante le ingiurie, gli sputi di odio e i cocci di bottiglia sulla tua finestra. Tutti vogliono sapere se sei stata costretta a convertirti o è stata una scelta tua, io no, non lo voglio sapere, sono affari tuoi». In realtà, se sia stata convertita a forza o meno, e soprattutto come, è un affare di tutti. Se non altro perché saperlo aiuterebbe a capire meglio che cosa significhi essere sequestrati in uno Stato africano da un gruppo di jihadisti, cosa non esattamente equivalente all' abbracciare una nuova fede dopo un pellegrinaggio estivo. Purtroppo per lei (e in parte anche per l' Italia), Silvia può tranquillamente fare a meno dei solerti difensori presenti sul nostro suolo - specie se retorici e banalotti - ma avrebbe avuto un grande bisogno di qualcuno che la difendesse mentre si trovava in Kenya. E invece lì è stata abbandonata in un luogo oscuro, ostile, pieno di figure ambigue. Ci sono indagini in corso sulla Onlus Africa Milele, di cui abbiamo dato conto nei giorni scorsi, e speriamo vivamente che gli investigatori riescano a chiarire che cosa sia realmente accaduto nei giorni del sequestro. I due «masai con il machete» che avrebbero dovuto proteggere la ragazza, infatti, proprio nel momento in cui i rapitori si sono presentati al suo villaggio erano altrove: uno al fiume l' altro in giro a fare chissà cosa. Toccherà ai Ros capirci qualcosa, ammesso che sia ancora possibile. Non sarà facile uscire dal pantano kenyano, e non per nulla questo caos ha già prodotto conseguenze. Karibuni, una delle Onlus italiane più conosciute e più attive in Kenya, ha scelto di non accettare più volontari nelle proprie sedi nello Stato africano. «Abbiamo deciso di non prendere più volontari», spiega alla Verità Gianfranco Ranieri, presidente dell' organizzazione. «Questo nonostante il nostro livello di sicurezza sia elevato. Da questo punto di vista siamo la Onlus più preparata. Abbiamo tantissimi progetti che si possono vedere sul nostro sito e ovunque abbiamo aumentato le misure di protezione. Abbiamo personale masai a gestire la sicurezza, ed è una garanzia. Ci sono sempre due o tre persone che dormono nei luoghi in cui siamo presenti, e che anche la sera controllano». Karibuni agisce in Africa con molta cautela. È presente in Kenya dal 2004, e ha ottenuto parecchi risultati: «Oggi le scuole che abbiamo costruito ospitano oltre 5.000 ragazzi, 60 persone ricevono ogni mese un salario, serviamo più di 1100 pasti al giorno preparati grazie alla verdura, frutta, uova, prodotti nelle fattorie di Karibuni», dicono i responsabili. «Abbiamo curato 15.000 bambini dalla tungiasi, 300 persone al mese visitate da medici locali del Karibuni medical team e decine di attività avviate con il microcredito». Nonostante questo, e nonostante il radicamento sul territorio, hanno modificato il loro approccio con i giovani che arrivano dall' Italia. «Abbiamo preso questa decisione anche in conseguenza del caos che si è creato», dice Ranieri. «Qui stanno riaprendo locali e ristoranti, gli occidentali spesso sono visti come bancomat che camminano, non solo dai terroristi, ma anche dalla delinquenza comune. Proprio nei giorni scorsi ho avuto un incontro con la polizia locale: se noi costruiamo una piccola caserma si sono resi disponibili a mandare personale». Misure imponenti, che la Onlus Africa Milele non ha preso nei giorni in cui Silvia si trovava nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. «Il discorso è diverso per le grandi Ong che hanno un mucchio di soldi. In tutti gli altri casi, i volontari per lo più arrivano con il visto turistico», continua Ranieri. «Si fermano uno o due mesi. Il problema riguarda il luogo in cui vanno e le cose che vanno a fare. Secondo me far giocare dei bambini non è un progetto di cooperazione. Qui i bambini non hanno quasi nulla, hanno tantissima fantasia, sono abituati a giocare anche da soli, senza bisogno che qualcuno li faccia giocare. Quando i volontari vengono da noi, vengono a fare cose, a portare competenze che poi possono essere trasferite alla popolazione locale. Bisogna fare del bene sapendo farlo bene». Già: per portare aiuto bisogna avere le necessarie competenze tecniche, la necessaria esperienza. E a volte anche questa non basta. Quando parla di Chakama, Ranieri si fa serio. A suo dire, quel villaggio è «un puttanaio». Delle ombre su Africa Milele abbiamo detto nei giorni scorsi: referenti che in Italia hanno avuto problemi con la giustizia, polizze che mancavano, tensioni all' interno del gruppo. Il tutto in un luogo già difficile di suo. «Chakama è uno dei centri della coltivazione di marijuana», spiega Ranieri. «È un piccolo villaggio, eppure negli anni sono venuti qui in tanti, e forse bisogna chiedersi come mai arrivino tutti qui». Sì, forse bisogna chiederselo. E bisogna anche chiedersi perché Silvia è stata lasciata da sola in un posto del genere.

Anticipazione da “Oggi” il 20 maggio 2020. «Dopo il nostro rilascio, la sola vista di un niqab mi faceva andare il sangue al cervello», rivela a Oggi Raad Abdul Aziz, l’ingegnere iracheno rapito a Baghdad nel 2004 con Simona Torretta e Simona Pari, come lui cooperanti. «Di Islam non volevo sapere più nulla, non riuscivo nemmeno a parlare arabo in pubblico, mi sono serviti anni per fare la pace con la mia cultura di origine», spiega Aziz, che subito dopo la liberazione si trasferì in Svizzera.  In un’intervista esclusiva rilasciata al settimanale Oggi, in edicola da domani, Aziz racconta la sua reazione dopo il sequestro da parte dei guerriglieri iracheni, un’esperienza molto diversa da quella di Silvia Romano. E sulle polemiche che investirono “le due Simone” al loro ritorno, additate per aver detto che mancava loro l’Iraq, dice: «Portavamo aiuti e speranza a un Paese massacrato da anni di embargo e dalla guerra, sentivamo di fare qualcosa di importante e ognuno di noi credeva profondamente in ciò che faceva. Così come immagino ci credesse Silvia, anche se il volontariato e la cooperazione internazionale, fatta di professionisti, sono due realtà molto diverse». Quanto a Simona Torretta e Simona Pari, Aziz racconta di non aver mai perso i contatti con loro: «Entrambe hanno portato avanti con passione il loro lavoro di cooperanti in giro per il mondo. Dopo un periodo in Guatemala, Simona Torretta oggi lavora per l’Onu in Colombia. Simona Pari invece si è sposata, ha una bambina, e dopo alcune missioni in Libano e in Giordania l’ultima volta che ho avuto sue notizie lavorava in Africa con il marito italiano, un funzionario dell’Unicef».

Marco Leardi per davidemaggio.it il 20 maggio 2020. Il rapimento in Kenya con un raid nel villaggio di Chakama. La lunga prigionia in mano ai fondamentalisti islamici. I passaggi di mano, le trattative, le piste seguite dai servizi segreti. Infine la liberazione: dai terroristi sì, ma non dai giudizi. Al suo rientro in Italia, Silvia Romano è infatti diventata oggetto di attenzioni, polemiche e speculazioni spesso ben superiori alla gioia che si sarebbe dovuta riservare alla notizia della sua giovane vita salvata. Parole talvolta di troppo, quelle nei suoi confronti. “Nessuno può giudicare. Nessuno potrà mai sapere quello che ha visto e sopportato questa ragazza“: Stella Pende lo afferma senza giri di parole e lo ribadirà questa sera alle ore 23.30 su Rete4 nello speciale di Confessione Reporter da lei dedicato alla cooperante milanese. La giornalista ripercorrerà la vicenda di Silvia Romano partendo da un colpo di scena inedito che l’ha coinvolta in prima persona e che lei stessa ci anticipa. Nello speciale, la reporter romana proverà a “mettere alcuni punti fermi su questa storia“, senza nascondere il proprio punto di vista. Non a caso, il titolo della puntata sarà “Siamo tutti Silvia”. Anzi no: “tutte”, al femminile, come tiene a precisare. Abbiamo litigato fino ad adesso sul titolo, perché si sono sbagliati: il promo dice "Siamo tutti Silvia", invece sarebbe "Siamo tutte Silvia", al femminile. Ho chiarito in trasmissione che questo è un abbraccio maternale di tutte le donne, di tutte le madri, le mogli e le figlie che, come noi, aspettavano il ritorno di una ragazza di venticinque anni che è stata per quasi due anni sequestrata da pericolosi terroristi. Questo è il senso del mio titolo.

Su Silvia Romano si è già detto tanto; voi che taglio darete allo speciale?

«Mostreremo qualcosa che non ha nessuno: un report che ci è arrivato da un’investigazione fatta da Andrea Crosta dell’Earth League International, un’Ong americana molto famosa che ha fatto delle indagini sui crimini ambientali. Lavorando sui rapporti tra Al-Shabaab e il contrabbando di avorio – perché i terroristi campano anche di questo – Crosta aveva chiesto alle sue fonti somale dove fosse Silvia Romano. Un anno fa, di notte, ricevetti un messaggio che mi diceva dove stava la ragazza. Era una dritta fondata».

Credi che da quel momento si sia sbloccato qualcosa per la liberazione di Silvia?

«Giornalisticamente ci ho riflettuto e credo che questo non dimostri che i servizi italiani o il governo non stessero lavorando bene, ma spieghi cosa significhi passare di mano in mano, da una banda all’altra. Chissà quante volte si sono venduti questa ragazza nell’anno che ha separato quel messaggio dalla sua liberazione. Questo report che ho avuto apre anche il giallo della conversione».

Altro aspetto su cui si è discusso molto. Che idea ti sei fatta?

«Questa ragazza è stata due anni con i somali e magari è stata una volta assieme a un pastore, un’altra con un capo villaggio… Gli Al-Shabaab pagano le persone per nascondere gli ostaggi, non li tengono in casa propria, e magari la sua è stata una conversione arrivata nella quotidianità. E poi, come ci dice giustamente Domenico Quirico (rapito a sua volta nel 2013, ndDM), nessuno può capire quello che ha provato una ragazza sequestrata, lasciata in vari tuguri, privata della libertà. Questo voglio dimostrare. Nessuno può giudicarla!»

Televisivamente, come è organizzata questa puntata?

«Avremo una parte in studio e dei servizi. Abbiamo intervistato anche Alessandra Morelli dell’UNHCR, che è stata l’unica sopravvissuta di un attacco kamikaze di Al-Shabaab e che, quando è tornata in Italia, ha chiesto il silenzio stampa perché non voleva rischiare di essere mal interpretata. Evidentemente sapeva che tutte le donne che sono tornate dai rapimenti, dalle due Simone a Silvia, hanno ricevuto questo trattamento. Come mai non hanno rotto le scatole agli uomini che sono stati liberati in questi mesi e sono tornati con la barba rossa di henné, vestiti da islamici?»

Secondo te ci sono buone speranze per gli altri italiani attualmente rapiti?

«Su Padre Gigi Maccalli, che rapirono in Niger proprio quando io ero lì, c’è stata una prova video del fatto che sia vivo, quindi stanno trattando. I terroristi fanno sempre queste cose: registrano dei video, fanno dire delle frasi agli ostaggi. Ci sono delle trattative… Del resto come ci si spiega che in Italia abbiamo avuto un centesimo del terrorismo jihadista che hanno avuto la Francia, la Spagna o l’Inghilterra? Perché i nostri servizi lavorano bene, è inutile dirlo. Sul caso di Silvia Romano, in puntata parleremo anche del giallo del giubbotto antiproiettile turco: Andrea Margelletti ci dice che sono stati gli italiani ad andare a prenderla. I turchi hanno molto aiutato ma il pick-up l’abbiamo fatto noi. Ho camminato in questo giallo e ho cercato di togliere il velo – è proprio il caso di dirlo – su certi aspetti che nei tremila talk show trasmessi erano stati lasciati aperti. Spero di esserci riuscita, anche se questo rapimento resterà sempre un mistero».

Silvia, retroscena sul villaggio: "Succedevano cose strane lì..." Chakama è il "luogo oscuro" dove avvenne il sequestro. Gianfranco Ranieri della Onlus Karibuni ha dei sospetti. Giovanni Giacalone, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Il caso di Silvia Romano ha portato al centro della questione il villaggio di Chakama, dove nel novembre del 2018 avvenne il sequestro. Un luogo precedentemente pressochè sconosciuto ai più, per poi ritrovarsi improvvisamente catapultato al centro dell'attenzione mediatica. Inoltre, potrebbe essere proprio a Chakama una delle "chiavi" per capire alcuni di quegli aspetti ancora avvolti nel mistero sul sequestro della Romano. Abbiamo dunque parlato con Gianfranco Ranieri, imprenditore e "veterano" del Kenya nonchè presidente della Karibuni Onlus che da anni opera nel Paese con una serie di iniziative che vanno dalla costruzione di scuole che ospitano più di 5mila ragazzi, alla coltivazione e produzione di alimenti, alla preparazione di team medici ma anche con decine di attività avviate grazie al micro-credito. Chakama ha assunto un po' dei tratti contrastanti dalle descrizioni mediatiche che ne vengono fatte; un piccolo villaggio spensierato dell'Africa rurale che poi improvvisamente assume le sembianze di un "buco nero" dove può accadere di tutto. È proprio per questo che ci ha incuriosito il suo riferimento al villaggio come “puttanaio”.

Ci potrebbe spiegare cosa c’è realmente a Chakama?

«In realtà non ricordavo di averlo detto, ma se anche l’avessi fatto, vorrei chiarire che non mi riferivo al villaggio in sé, perchè Chakama è uno dei tantissimi che ci sono in Kenya, povero, come ce ne sono tantissimi. Con puttanaio mi riferisco a una situazione precisa sulla quale mi pongo una domanda e cioè perché in tutti questi anni ci sono state alcune onlus italiane, private, che hanno concentrato la loro voglia di solidarietà proprio su questo villaggio? È una cosa strana, perché non è che Chakama sia più povero o più problematico di altri villaggi. E’ un’attrazione strana, particolare».

Tanti soldi, quindi tanti progetti e strutture?

«A Chakama sono stati spesi tanti soldi, ma non si capisce per cosa, visto che oggi nel villaggio è rimasta una piccola scuola costruita da italiani ma presa in carico dal governo kenyota perché altrimenti sarebbe stata chiusa; poi ci sono alcuni bambini sostenuti da una signora italiana. Orfanotrofi non mi risulta che ce ne siano. Mi dica lei se c’è da esserne orgogliosi. Sono dunque soldi che sono stati spesi male, senza una logica, senza un controllo, senza un qualcosa che potesse giustificare questa attenzione, questi impegni, queste raccolte fondi, perché ce ne sono state diverse in Italia per progetti orientati su questo villaggio. Quando dico puttanaio, non mi riferisco alla gente di Chakama, ma a questa stranezza. Ci sono stati anni in cui tutti gli italiani andavano a Chakama ma non si capiva per fare cosa. Chakama è un villaggio come tanti, un classico villaggio africano con un po’ di case, ma non ci sono né bar e neanche ristoranti, come invece ho letto su alcuni giornali».

Dunque la vita di Chakama su quali attività si basa?

«Chakama vive prevalentemente di un po' di agricoltura, di allevamento. Non ci sono coltivazioni intensive, nessun allevamento particolare. E’ come tanti altri villaggi che ci sono qua; c’è un’economia piccola, non c’è turismo perché è fuori da quei circuiti, anche se pian piano alcuni turisti iniziavano a venir portati a Chakama dalla costa. Si vedono situazioni brutte, ma non strane perché sono tipiche di ogni villaggio. Si vedono situazioni di povertà e dunque la gente è più propensa poi ad aprire il portafoglio; c’è Chakama come ce ne sono tanti altri. Il territorio è arido seppur vicino a un fiume che sarà largo cento o duecento metri, a volte in piena per via delle alluvioni, ma in altri periodi c’è mezzo metro d’acqua e si passa a piedi».

Il fiume citato nelle ricostruzioni dove si sarebbe recato uno dei due Masai in quel breve tratto di tempo in cui Silvia venne lasciata da sola?

«Esatto. Quel fiume è un po’ una “deadline”, se fossero riusciti a fermare i sequestratori prima che oltrepassassero il fiume, si sarebbe riuscito a riportare Silvia a casa. Oltrepassando il fiume diventa tutto più complicato perché si passa in una zona boscosa e inizia un territorio che si inoltra poi sempre più verso la Somalia».

Sul sequestro di Silvia Romano che idea si è fatto?

«Silvia è capitata lì per caso; è successo a lei perché era lì in quel momento, ma poteva capitare a chiunque. La cosa però non è stata improvvisata, tenevano d’occhio la situazione; io ne ho visti di questi ragazzi di etnia “Orma” (pastori nomadi originari della Somalia ma insediatisi da tempo in territorio kenyota), tutti molto giovani, erano sia a Malindi che a Chakama. Magari avevano qualcuno nel villaggio che controllava la situazione e vedendo una persona sola si sono mossi. Lì probabilmente c’era un meccanismo già attivo e programmato da tempo. Un’azione del genere non si improvvisa. Tra l’altro a Chakama non c’è neanche il posto di polizia e questo loro lo sapevano, quindi non hanno avuto difficoltà ad attivarsi, sparando anche con le armi, perché hanno tra l'altro causato il ferimento di cinque persone. Oltretutto questo è il primo caso. Io vengo qui da anni e ve lo posso assicurare. Non solo a Chakama, ma in tutta la zona non si sono mai verificati fatti del genere. Episodi di delinquenza ci sono sempre stati, in particolare sulla costa, un po’ come ovunque del resto, ma io mi sento molto più tranquillo qua che in Italia. Purtroppo è stata data un’idea sbagliata di questa zona che è sempre risultata tranquilla».

La onlus con cui lavorava Silvia, la Africa Milele, era nota a Chakama?

«Si certo, a Chakama era conosciuta perché sono bravi a fare marketing via web, via social, però cose concrete se ne sono viste poche. Io sono un imprenditore e abbiamo creato un’associazione con l’obiettivo di dare lavoro e questo significa gestire le cose in un certo modo e con quello che produciamo diamo da mangiare a mille e duecento persone. Loro facevano giocare i bambini, ma questo non è un progetto sociale di cooperazione. I bambini africani sono talmente abituati a non avere nulla che giocano tranquillamente da soli con quello che trovano. Poi sui costi, mandare a scuola un bambino per un anno costa un centinaio di euro; il pasto di un bambino costa sui 40 centesimi di euro. Sarebbe sufficiente andare a vedere i bilanci e chiedere con una certa somma cosa si è fatto, quanti bambini sono stati mandati a scuola, quanti bambini hanno mangiato. Con i numeri e i dati si vede cosa si è lasciato di concreto. Occupandomi del settore, mi dà fastidio che si parli della cooperazione italiana in quel modo lì (Africa Milele) quando ci sono fior di organizzazioni che lavorano in modo serio. Non è un'immagine piacevole per l’Italia e se ne sta tra l’altro parlando tanto su giornali e telegiornali».

Da liberoquotidiano.it il 19 maggio 2020. Emergono dettagli sempre più agghiaccianti sul rapimento di Silvia Romano e sulla onlus che l'ha mandata allo sbaraglio in Kenya per prendersi cura dei bambini dell'orfanotrofio. Dopo la perquisizione dei carabinieri del Ros nella sede di Africa Milele, Le Iene aggiungono informazioni a quello che risulta tutt'ora un mistero: perché la giovane milanese è stata rapita dal gruppo terroristico di Al Shabaab? La diretta interessata aveva più volte ribadito che il masai chiamato a proteggerla, nonché marito di Lilian Sora (fondatrice dell'associazione), non fece nulla dopo l'arrivo di due uomini che la cercavano nel villaggio. Ma i dubbi investono anche altri personaggi come Tiziana Beltrami che, sempre per Le Iene, "a Malindi gestisce insieme con il marito Roberto un notissimo ristorante e locale da ballo, il Karen Blixen, che è diventato un punto di ritrovo per la movida malindina e in particolare per gli italiani". Ma sulla donna, che è "anche la referente logistica de facto di Africa Milele", pesa un passato non del tutto limpido. Nel 2016 infatti le sarebbe stato "contestato il concorso in truffa aggravata per due episodi che ammontano ad una cifra di circa centomila euro". Ma di punti oscuri ce ne sono a iosa. Uno in particolare, perché nove giorni prima del rapimento, Silvia sarebbe andata a Malindi per sporgere una denuncia per pedofilia. Le Iene parlano di un prete, forse un pastore, che avrebbe avuto rapporti con le ragazzine del villaggio in cui operava la 24enne. "Palpeggiamenti, strusciamenti, cose assolutamente non consone per nessuno, soprattutto per un prete - aveva raccontato alla trasmissione di Mediaset un altro volontario -.. All’inizio me ne sono accorto solo io, e poi l’ho detto a Silvia e all’altra volontaria, e siamo stati tutti più attenti. Abbiamo visto le ragazzine che entravano nella stanza di quest’uomo e ci stavano pochissimo, due, tre, cinque minuti. Non so fino a che punto arrivasse, però atti pedofili c’erano eccome". Punti bui che potrebbero scoperchiare un vero e proprio scandalo e far chiarezza su quanto davvero accaduto.

Giulio Melis per  iene.mediaset.it del 21 giugno 2019. Perché Silvia Romano è stata rapita? Forse perché in Kenya ha assistito a episodi di violenza sessuale? Iene.it ha raccolto in esclusiva la testimonianza di un volontario che ha accompagnato Silvia Romano a sporgere una denuncia alla polizia di Malindi. Era l’11 novembre, nove giorni prima del rapimento. “Ho visto atti di pedofilia su bambini di tre, cinque, dieci anni… Io a questo qua lo volevo ammazzare”. Il volontario, che lavorava per Africa Milele con Silvia Romano, oggi si trova in Italia e ci chiede di rimanere anonimo. Avrebbe assistito a questi episodi quando si trovava a Chakama, il villaggio dove è stata rapita la giovane milanese. “Me ne sono accorto subito appena arrivato, attorno al 7-8 novembre”, continua il volontario. “Attirava i bambini con le classiche cose: caramelle, monetine... Lui non era stupido, aveva capito che ce ne eravamo accorti”. “Lui” è un pastore anglicano che in quei giorni si trovava a Chakama in qualità di prete e di commissario d’esame per la scuola, e veniva chiamato da tutti “Father”. “Un giorno gli ho strappato una bambina dalle mani”, ci svela il ragazzo. “E in quel momento con me c’era anche Silvia”. A confermare che la volontaria italiana sarebbe stata testimone di un episodio di pedofilia è Tiziana Beltrami, una donna laziale che a Malindi gestisce insieme al marito Roberto un notissimo ristorante e locale da ballo, il Karen Blixen, che è diventato un punto di ritrovo per la movida malindina e in particolare per gli italiani. Tiziana Beltrami è anche la referente logistica de facto di Africa Milele, nonostante da statuto non abbia alcun ruolo ufficiale. Il suo locale, il Karen Blixen, è stato infatti in questi anni il punto di arrivo dei materiali spediti per aiutare le popolazioni locali, nell’ambito di quello che viene definito “un ponte solidale Italia-Kenya”. Gli aiuti mandati ad Africa Milele per mezzo del ristorante-pizzeria Karen Blixen sono vari: dai farmaci all’abbigliamento per bambini, fino al materiale ospedaliero. La Beltrami pubblicizza il suo impegno a favore di Africa Milele anche sulla pagina Facebook del ristorante, dove posta numerosissimi messaggi con le foto dei prodotti arrivati al Karen Blixen, destinati a ospedali, missioni e orfanotrofi. Post e immagini che da qualche tempo sono stati cancellati, ma che noi di Iene.it siamo in grado di farvi vedere, e che trovate nella gallery qui sotto. Tiziana Beltrami raccontava del suo ruolo chiave in Africa Milele anche in un audio-messaggio in cui, rivolgendosi a una nuova volontaria della onlus, parlava del sequestro di Silvia Romano, come potete ascoltare qui: “Purtroppo il direttivo di Africa Milele ha deciso di tenere il silenzio stampa", spiega la Beltrami su WhatsApp, "e io sono l’unica persona di riferimento per Africa Milele, sono quella che sta qui lavorando per Africa Milele, sono la custode di alcune cose di Africa Milele, di Silvia, etc.”. E sono diverse le fotografie che ritraggono Tiziana Beltrami nel villaggio di Chakama e in altri villaggi della zona, impegnata insieme alla presidentessa di Africa Milele, Lilian Sora, a distribuire pacchi alla popolazione locale. Tiziana Beltrami conosceva personalmente Silvia Romano, come dimostra questa fotografia postata su Facebook da un altro volontario. È ancora Tiziana Beltrami in un audio messaggio su WhatsApp a raccontare della denuncia per pedofilia, che Silvia avrebbe provato a presentare alla polizia di Malindi. “Silvia quando è arrivata [in Kenya, dopo che era rientrata in Italia, ndr.] è andata direttamente ad Africa Milele. È tornata a Malindi l’11 novembre per fare una denuncia di pedofilia”. Nove giorni prima del rapimento, quindi, la Beltrami dice che appena arrivata in Kenya da Milano, Silvia si reca a Chakama e poi da lì sarebbe andata a Malindi per la denuncia. Secondo la donna altri due volontari, oltre a Silvia, avrebbero sporto denuncia. Tiziana Beltrami, la referente logistica di fatto per Africa Milele, aggiunge anche una pesante accusa: Lilian Sora, la presidentessa di Africa Milele, avrebbe in qualche modo tentato di evitare questa denuncia, perché questo sarebbe andato contro gli interessi del chairman, il capo villaggio di Chakama. Uno dei due volontari di cui parla Tiziana Beltrami racconta a Iene.it del suo arrivo a Chakama: “C’era questa struttura affittata da Africa Milele, erano alcune stanze, e noi dormivano lì. La stanza di questo prete era a tre metri dalla nostra, nello stesso nostro complesso, la Guest House”. Ed è lì che i volontari avrebbero assistito agli episodi di pedofilia da parte del prete. E il ragazzo entra nei particolari: “Palpeggiamenti, strusciamenti, cose assolutamente non consone per nessuno, soprattutto per un prete. All’inizio me ne sono accorto solo io, e poi l’ho detto a Silvia e all’altra volontaria, e siamo stati tutti più attenti. Abbiamo visto le ragazzine che entravano nella stanza di quest’uomo e ci stavano pochissimo, due, tre, cinque minuti. Non so fino a che punto arrivasse, però atti pedofili c’erano eccome. Vedere certe cose e rimanere fermo… Io sono arrivato al punto di dire: ‘facciamo qualcosa in fretta o io da qui me ne vado!’” Ed è così che decidono di andare alla polizia di Malindi. “La denuncia è stata fatta a nome di Silvia, firmata e presentata. Avevamo fatto il nome di quel prete e c’era anche un mandato d’arresto per lui… L’11 novembre, nove giorni prima che Silvia venisse rapita, facciamo questa denuncia e subito dopo torniamo a Chakama. Il prete però non c’era più, tutto era finito in una bolla di sapone”. La polizia aveva detto di avvisare se si fosse ripresentato il prete. “Mandarono però una volontaria che collaborava con la polizia, che avrebbe dovuto aiutarci ad andare più fondo su questa cosa”. E cioè avrebbe dovuto fare domande ai bambini che sarebbero stati vittime delle attenzioni del prete. Ma dopo poco la donna sarebbe stata allontanata dal capo villaggio. “Io non sono mai stato interpellato dalla Farnesina”, lamenta il volontario. “Mi sono dovuto recare spontaneamente dai Ros dei carabinieri, che non mi avevano chiamato. Siamo andati di nostra iniziativa sia io che l’altra volontaria di Africa Milele”. Sempre sulla denuncia per pedofilia, raccogliamo un’altra importante conferma. È quella riferita da una nostra fonte, che racconta alcuni dettagli che le sarebbero stati rivelati da un alto ufficiale della polizia di Malindi. Stando alle rivelazioni dell’ufficiale di polizia, Silvia e altri due volontari di Africa Milele, accompagnati da Tiziana Beltrami, il giorno 11 novembre sarebbero andati alla CID di Malindi, il dipartimento di polizia criminale, per presentare la denuncia. Però, secondo la nostra fonte che riporta quanto spiegato dall’ufficiale keniota, la denuncia non sarebbe stata presentata perché mancavano i nomi del presunto pedofilo e di altri testimoni. Quell’informazione di reato, avrebbe detto ancora l’alto ufficiale,  sarebbe poi passata a un altro dipartimento, che si occupa di crimini sui minori. Da lì la pratica sarebbe andata a finire a Mombasa, la capitale. Da quel momento, avrebbe spiegato ancora il poliziotto, di quella denuncia non si sarebbe più saputo nulla. Iene.it ha contattato quell’ufficiale della polizia criminale di Malindi, ma l’uomo dopo averci detto che non è autorizzato a parlare ha riattaccato il telefono. Rispetto alle accuse di Tiziana Beltrami a Lilian Sora, sul fatto di aver in qualche modo cercato di insabbiare quella denuncia, Iene.it ha interpellato la stessa presidentessa di Africa Milele, che ci racconta invece la sua versione dei fatti: “A Chakama sono arrivati Silvia e gli altri due volontari. Nella casa dove ci siamo noi, ci sono altre camere. Di solito insieme a noi ci sono gli insegnanti della scuola secondaria che affittano altre due stanze. Quando i ragazzi sono arrivati, nella stanza numero 1 c’era un altro signore, che noi non conoscevamo, quello che chiamavano 'father'. I ragazzi si sono accorti di alcuni atteggiamenti di questa persona, e cioè hanno raccontato che faceva entrare nella sua camera, con la porta aperta, delle bambine attorno ai 10 anni. Ho chiesto subito a Silvia di confrontarsi con Joseph, il mio compagno di etnia Masai che è sul luogo, perché è il referente africano di Africa Milele. Joseph si è preoccupato e ha parlato subito con il padrone della guest house, un uomo che noi chiamiamo il boss. Lui ci ha spiegato che questo prete era un pastore anglicano. Lì in Kenya il fatto che sia un prete mette fine ad ogni discussione, soprattutto se si parla di pedofilia, una cosa che dunque è da escludere a priori. Il boss ci ha detto che il 'father' sarebbe andato via nel giro di un  paio di giorni, e che era lì come commissario d’esame per la scuola primaria, perché era un prete ma anche un insegnante. Il boss ci ha detto che le bambine andavano in stanza da lui a fare catechismo, a pregare. Il giorno dopo i miei ragazzi hanno ripreso a dirmi che il prete aveva atteggiamenti non adeguati, e che loro avevano fatto in modo che le bimbe non entrassero. Il 'father' però usciva dalla stanza e stava con loro, sfiorandole. Era però difficile capire quanto i miei volontari si fossero lasciati prendere e quanto invece fosse vero. Non è facile andare a dire che c’è un pedofilo!” E sulla denuncia per pedofilia Sora spiega: “Io ero nel mezzo, tra i volontari italiani e le persone africane del villaggio. Per il mio compagno Joseph e per il padrone di casa, il boss, la situazione era chiarita: questa persona era un prete, una persona conosciuta, che aveva referenze e le bambine entravano da lui per pregare. Non c’era nella loro testa la malizia di dire che queste bambine potessero essere abusate: sono modi molto diversi di ragionare. Ho parlato subito di questa cosa con Tiziana Beltrami, che mi ha detto di conoscere una poliziotta del Children Department, una certa Mariam. Tiziana l’ha sentita e Mariam le ha detto di fare venire subito i miei tre volontari . Ho mandato un messaggio a Silvia e le ho detto se se la sentivano di andare in polizia a Malindi. Loro con grande entusiasmo mi hanno detto: ‘certo che sì’. Anche Tiziana è andata con loro dalla polizia di Malindi.” Lilian Sora aggiunge inoltre un dettaglio che se fosse vero getterebbe un’ombra sulle modalità d’indagine degli inquirenti kenioti. “I ragazzi sono usciti dalla centrale di polizia di Malindi con in mano un mandato di arresto per il ‘father’”, sostiene la presidentessa di Africa Milele. “I ragazzi avrebbero dovuto portare quel mandato il giorno dopo alla polizia di Langobaya, che è referente per il villaggio di Chakama. Insieme a loro sarebbe dovuta partire una poliziotta per andare a sentire le presunte vittime a Chakama. A Langobaya la polizia ha chiesto ai tre volontari 30 euro per pagare la benzina per le loro moto che dovevano andare a Chakama… Mi sono confrontata telefonicamente con i volontari e abbiamo detto: ‘ci pensiamo, ma anche no’. E allora il mandato d’arresto per il prete presunto pedofilo è rimasto in mano alla polizia di Langobaya”. E così la polizia, davanti a quel rifiuto, non sarebbe partita per andare a cercare il prete. Iene.it ha contattato Tiziana Beltrami che però ci ha detto di non voler rilasciare alcuna dichiarazione sulla vicenda, spiegando che ci sono autorità ufficiali deputate a questo. Su di lei, però, dobbiamo dirvi ancora una cosa: Tiziana Beltrami, in realtà, si chiama Mariangela. Non siamo a conoscenza del motivo preciso per cui in Kenya la donna si faccia chiamare con un altro nome di battesimo. Sappiamo però che in Italia il marito di Mariangela Beltrami, Roberto, con cui gestisce il Karen Blixen di Malindi, è coinvolto in un’indagine della Guardia di Finanza chiamata “Easy Gain”. Si tratta di un procedimento in cui si ipotizza la truffa aggravata ai danni di alcuni risparmiatori della zona di Latina. Attualmente a carico del marito di Mariangela Beltrami, che per le autorità italiane non sarebbe reperibile, ci sono diverse pendenze anche in sede civile. Non si hanno più notizie della volontaria italiana dal 20 novembre 2018, il giorno in cui è stata rapita nel villaggio di Chakama. Un villaggio povero e isolato. Verso le 19.30 di quel giorno si materializza un commando di una mezza dozzina di uomini armati, che si dirige a colpo sicuro verso la guest house dove alloggia Silvia Romano, che vedete sotto. In quel momento con lei avrebbe dovuto esserci anche un keniota di etnia masai, che generalmente è di guardia all’edificio gestito da Africa Milele: quel giorno però, secondo alcune testimonianze, l’uomo sarebbe arrivato dopo il sequestro. Gli uomini del commando armato non hanno esitazioni: cercano la “mzungu”, la ragazza europea, la bianca. I rapitori di Silvia, dopo averla caricata in spalla con la forza, sparano diversi colpi di kalashnikov nell’area del Chakama Trading Center, per aprirsi un varco tra la folla, e feriscono almeno cinque persone. Silvia viene portata via dal commando, e da allora scompare nel nulla. Nel corso di questi sei mesi sono emerse diverse piste investigative. La prima è quella del rapimento ad opera degli integralisti somali di Al Shabaab (il confine somalo dista 200 km da Chakama). L’ipotesi però è smentita dai principali esperti di terrorismo internazionale perché mancano rivendicazioni da parte del gruppo islamista. C’è anche quella, surreale e oltraggiosa, che vedrebbe nella volontaria italiana una trafficante d'avorio. I primi a ipotizzare l'ombra di un episodio di violenza di cui sarebbe stata testimone la volontaria nel periodo precedente al suo rapimento è stato Il Fatto Quotidiano. Ora  noi di Iene.it abbiamo aggiunto nuovi elementi che confermerebbero questa pista, che porterebbe dunque a un collegamento tra il rapimento di Silvia Romano e ciò che avrebbe visto a Chakama: atti di pedofilia commessi da un prete keniano.

LE ONG - ONLUS.

Ex volontaria di Africa Milele: "Nessuna formazione o sicurezza, ero abbandonata a me stessa". La onlus: "Impossibile". Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Raffaella Scuderi. Un'ex collaboratrice della onlus per cui lavorava Silvia Romano racconta la sua esperienza a Chakama, il villaggio kenyano dove è stata rapita la giovane milanese. Lilian Sora, la fondatrice dell'organizzazione marchigiana, respinge ogni accusa. "Sono andata via dopo quattro giorni. Non c'era organizzazione. Non c'era un progetto. Mi sono sentita inutile". Questi sono i ricordi di una giovane ragazza che quattro anni fa ha prestato volontariato a Chakama. Sceglie di non rivelare la sua identità e racconta a Repubblica i suoi quattro giorni da volontaria in quello stesso villaggio dove due anni dopo otto criminali armati avrebbero rapito Silvia Romano. Entrambe si trovavano nel piccolo villaggio rurale, a pochi chilometri da Malindi in Kenya, per fare un'esperienza di volontariato con la piccola onlus di Fano, Africa Milele. Chi si imbarca in un'esperienza di volontariato con la onlus marchigiana, racconta, non ha bisogno di firmare né sottoscrivere nulla. Non deve fare corsi di formazione e neanche dimostrare le proprie competenze.

"Sono stata da loro per pochi giorni e me ne sono andata via. La casa di Africa Milele a Chakama, quella che ospita i volontari, in quel periodo era sporca: letti spaccati, zanzariere rotte e buchi nei materassi. Non si hanno mai grandi aspettative sull'Africa in quanto a igiene, ma il minimo indispensabile per lavorare in sicurezza sì", ricorda la giovane, che in quel periodo si trovava già in Kenya. Facebook e il passaparola sono stati i canali attraverso cui aveva sentito parlare di Milele. Gliene avevano parlato bene. "Volevo conoscere meglio la realtà delle ong sul posto e fare più esperienze". Per avviare la collaborazione è stato sufficiente uno scambio di messaggi su Whatsapp, ricorda la volontaria. "Ho sentito Lilian (la fondatrice della onlus, ndr) al cellulare. Mi disse che chiunque poteva unirsi come volontario ad Africa Milele. E che se avessi avuto qualsiasi tipo di progetto, bastava che glielo dicessi". "Non è possibile che non sia stata selezionata e valutata prima di essere coinvolta in un nostro progetto", replica a La Repubblica  ilian Sora, fondatrice della onlus. Arrivata a Chakama, ad accogliere la "volontaria" ci sarebbero stati "solo" un responsabile Masai e un ragazzo del posto che occasionalmente dava una mano, secondo quanto racconta la giovane: "Mi aspettavo che qualcuno mi illustrasse il progetto della onlus. Niente. Ero abbandonata a me stessa. Organizzavano raccolte fondi. Ma quello che ho visto io è stato solo un magazzino dove tenevano perline, medicine, t-shirt e gadget".

Si occupava dei bambini, giocava con loro al fiume e li accompagnava a casa. Ricorda che non ha mai avuto paura: "La gente era pacifica e amichevole". Tuttavia la giovane puntualizza che "non c'era nessun tipo di sicurezza, ad eccezione del masai che ogni tanto ci dava una mano". Nonostante ci fossero insieme a lei altri due volontari di Africa Milele, non c'era alcuna condivisione, perché, insiste, "non c'era un progetto. Nessuna organizzazione. Ognuno era lasciato a se stesso". Ed è per questa ragione che dopo soli quattro giorni ha deciso di andarsene via. Contattata da La Repubblica, Lilian Sora respinge categoricamente questa ricostruzione dei fatti: "Mai nessuno nella storia di Africa Milele se n'è andato prima di terminare il periodo di volontariato. È impossibile. È impossibile che le cose siano andate in questo modo".

Silvia Romano, i sospetti del cooperante: "Che puttanaio al villaggio di Chakama, che fine hanno fatto i soldi?" Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. Potrebbe essere proprio a Chakama, il luogo dove lavorava Silvia Romano come cooperante e dove fu sequestrata nel novembre del 2018, una delle "chiavi" per capire alcuni di quegli aspetti ancora avvolti nel mistero sul sequestro.  Gianfranco Ranieri, imprenditore e "veterano" del Kenya nonchè presidente della Karibuni Onlus che da anni opera nel Paese, in una intervista all'edizione on line del Giornale svela i molti lati oscuri legati alla zona.. "A Chakama sono stati spesi tanti soldi, ma non si capisce per cosa, visto che oggi nel villaggio è rimasta una piccola scuola costruita da italiani, ma presa in carico dal governo kenyota perché altrimenti sarebbe stata chiusa; poi ci sono alcuni bambini sostenuti da una signora italiana. Un po' un puttanaio, ma non mi riferisco alla gente di Chakama, ma a questa stranezza. Ci sono stati anni in cui tutti gli italiani andavano a Chakama ma non si capiva per fare cosa. Chakama è un villaggio come tanti". Ranieri critica anche l'operato di Africa Milele, la onlus per cui lavorava la Romano: "Loro facevano giocare i bambini, ma questo non è un progetto sociale di cooperazione. I bambini africani sono talmente abituati a non avere nulla che giocano tranquillamente da soli con quello che trovano. Poi sui costi, mandare a scuola un bambino per un anno costa un centinaio di euro; il pasto di un bambino costa sui 40 centesimi di euro. Sarebbe sufficiente andare a vedere i bilanci e chiedere con una certa somma cosa si è fatto, quanti bambini sono stati mandati a scuola, quanti bambini hanno mangiato. Con i numeri e i dati si vede cosa si è lasciato di concreto. Occupandomi del settore, mi dà fastidio che si parli della cooperazione italiana in quel modo lì (Africa Milele) quando ci sono fior di organizzazioni che lavorano in modo serio. Non è un'immagine piacevole per l’Italia e se ne sta tra l’altro parlando tanto su giornali e telegiornali". 

Da liberoquotidiano.it il 15 maggio 2020. Blitz nella sede della Onlus Africa Milele, quelle per cui Silvia Romano si trovava in Africa al momento del rapimento. Secondo quanto si apprende, i carabinieri dei Ros la hanno passata al setaccio nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Roma sul sequestro della ragazza. La notizia è stata anticipata dal Tg3 e poi confermata all'Agi fa fonti investigative. La sede della Onlus si trova a Fano, provincia di Pesaro, dove vive Lilian Sora, la responsabile dell'associazione che aveva organizzato di Silvia, che era stata rapita il 20 novembre 2018. Ad ora, l'inchiesta della procura di Roma è a carico di ignoti: i militari hanno acquisito documenti e materiale informatico contenuto in computer e telefoni. Al vaglio le condizioni di sicurezza in cui la cooperante milanese era stata mandata a lavorare.

Silvia Romano, "difesa con un machete". Scatta blitz del Ros nell'Ong. Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Sono in corso a Fano le perquisizioni dei carabinieri del Ros nella sede della onlus "Africa Milele", nell'ambito dell'inchiesta della procura di Roma sul sequestro di Silvia Romano. Gli investigatori indagano sulle attività della onlus e  avrebbero copiato alcuni hard disk e il contenuto dei telefoni. La Procura, infatti, vuole verificare se al momento del rapimento, Silvia fosse stata messa in condizioni di svolgere le sue attività in sicurezza. L'associazione che si occupa di infanzia fondata da Lilian Sora, 42enne marchigiana è infatti accusata dalla famiglia Romano di aver mandato la ragazza "allo sbaraglio". Dopo il rapimento della 25enne, la fondatrice di "Africa Milele" per giustificarsi aveva spiegato alle autorità che, fino al momento del rapimento della ragazza, "non c'era ancora stato il tempo materiale per fare la polizza. La ragazza non fu mai lasciata sola e a pensare alla sua sicurezza c'erano due masai armati di machete, ma che uno di loro si trovava al fiume al momento del rapimento". 

Francesco Borgonovo per la Verità il 18 maggio 2020. Venerdì i carabinieri del Ros sono entrati nella sede di Africa Milele, la Onlus di Fano per conto della quale Silvia Romano operò in Kenya, lavorando con i bambini di un orfanotrofio. I sospetti su questa organizzazione umanitaria sono tanti, e piuttosto brutti. Gli investigatori - come ha riportato ieri il Corriere della Sera - si chiedono se Silvia sia stata tradita o addirittura venduta da qualcuno che si trovava con lei nel villaggio di Chakama. Di sicuro che c' è che la ragazza italiana è stata lasciata sola. A occuparsi della sua sicurezza doveva essere Joseph, il marito masai di Lilian Sora, la responsabile della Onlus. Ma Joseph, a quanto pare, non si premurò nemmeno di indagare su due uomini misteriosi, che, qualche giorno prima del rapimento, si presentarono a Chakama in cerca di Silvia. Insomma, la protezione era per lo meno carente, tanto più che mancava la registrazione sul sito «Viaggiare informati» e forse anche le polizze assicurative di Africa Milele non erano del tutto a posto. Si indaga a Fano, dunque. Ma anche sul suolo del Kenya si allungano parecchie ombre. Il luogo in cui Silvia è stata «lasciata sola», come dicono i suoi genitori, è popolato da figure ambigue, che sollevano fin troppi interrogativi. E non da oggi. Già nel 2019, infatti, il sito delle Iene dedicò vari articoli ad Africa Milele e ai personaggi che in qualche modo le ruotavano intorno. Leggendo quell' inchiesta ci si trova catapultati in un' Africa conradiana, oscura e limacciosa. Tra le storie che più colpiscono c' è quella di Tiziana Beltrami, il cui nome ricorre spesso negli articoli pubblicati su siti e quotidiani online di italiani che vivono in Kenya o che comunque conoscono bene l' ambiente. La Beltrami, spiegavano Le Iene, è «una donna laziale che a Malindi gestisce insieme con il marito Roberto un notissimo ristorante e locale da ballo, il Karen Blixen, che è diventato un punto di ritrovo per la movida malindina e in particolare per gli italiani». Soprattutto, però, «Tiziana Beltrami è anche la referente logistica de facto di Africa Milele, nonostante da statuto non abbia alcun ruolo ufficiale. Il suo locale, il Karen Blixen, è stato infatti in questi anni il punto di arrivo dei materiali spediti per aiutare le popolazioni locali, nell' ambito di quello che viene definito "un ponte solidale Italia-Kenya". Gli aiuti mandati ad Africa Milele per mezzo del ristorante-pizzeria Karen Blixen sono vari: dai farmaci all' abbigliamento per bambini, fino al materiale ospedaliero». A confermare l' impegno della Beltrami erano volantini e post su Facebook che pubblicizzavano la sua militanza umanitaria. La diretta interessata, a un certo punto, li cancellò, ma gli inviati della trasmissione Mediaset riuscirono a entrarne in possesso. Tiziana Beltrami e Silvia si conoscevano: lo testimonia un' altra immagine, pubblicata sempre da Giulio Melis sul sito delle Iene. La ragazza è seduta a un tavolo del ristorante Karen Blixen assieme alla responsabile e ad altri volontari. Ma chi è davvero Tiziana Beltrami? Lo possiamo scoprire scavando un po' negli archivi dei quotidiani laziali. La signora compare nelle cronache di Latina come Mariangela Beltrami. Nel 2016 le fu «contestato il concorso in truffa aggravata per due episodi che ammontano ad una cifra di circa centomila euro. Il raggiro è stato commesso ai danni di alcuni risparmiatori pontini». E qui entra in scena un altro personaggio: Roberto Ciavolella, il marito della Beltrami. Costui è un ex promotore finanziario di Latina, accusato di aver evaso circa due milioni di euro e di aver truffato una trentina di risparmiatori per cifre milionarie. Anche lui era atteso al processo, nel 2017, ma è magicamente svanito dal suolo italiano per ricomparire appunto in Kenya. Nel frattempo il processo si è avviato ad ampie falcate verso la prescrizione. Anche nel Paese africano pare che ci siano procedimenti pendenti a suo carico, e nell' ambiente degli italiani che vivono a Malindi circolano parecchie storie sul suo conto. Ciavolella, oltre ai guai per i raggiri finanziari, si è guadagnato un' altra accusa per violazione degli obblighi di assistenza familiare e di bigamia. La sua prima moglie, come spiega Il Caffè di Latina, lo ha denunciato, dichiarando «di essere rimasta con due figli minori senza ricevere più il pagamento degli alimenti da parte dell' ex marito che, nonostante legalmente sia ancora coniugato con lei, a Malindi si sarebbe risposato con una donna sempre di Latina, che con lui gestisce un' attività ricettiva». La donna in questione è appunto Tiziana Beltrami. Aspettate, però, perché non è mica finita. Le Iene, ancora nel 2019, hanno puntato un faro su un altro lato oscuro della vicenda di Silvia Romano. Una faccenda confermata proprio dalla Beltrami oltre che da almeno un altro volontario. Silvia, 9 giorni prima di essere sequestrata, si diresse a Malindi per sporgere denuncia per pedofilia. A Chakama, spiegò un volontario ai giornalisti di Mediaset, «c' era questa struttura affittata da Africa Milele, erano alcune stanze, e noi dormivano lì». Nello stesso stabile viveva un prete (probabilmente un pastore anglicano), un kenyano che veniva indicato come «father». «La stanza di questo prete era a tre metri dalla nostra, nello stesso nostro complesso, la Guest House», disse ancora il volontario. A quanto risulta, questo prete (o pastore) aveva rapporti molto strani con le bambine del posto. Silvia e altri decisero di denunciarlo. Tiziana Beltrami spiegò di aver accompagnato personalmente la ragazza a sporgere denuncia, e insinuò che Lilian Sora, la responsabile di Africa Milele, avesse cercato di mettere tutto a tacere per non indispettire le autorità del villaggio. Lilian, dal canto suo, diede una versione diversa. Saranno, si spera, i pm a chiarire che cosa è davvero accaduto a Silvia in Kenya. A noi, per ora, resta una certezza: la ragazza è stata lasciata sola in un luogo pieno di ombre.

Silvia Romano, l'interrogazione parlamentare di FdI che mette in imbarazzo Luigi Di Maio. Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Fratelli d'Italia ha presentato al governo un'interrogazione sul caso Silvia Romano. La richiesta riguarda soprattutto Africa Milele, la ong per cui lavorava la cooperante milanese. Si punta e si chiedono lumi sulla sicurezza che le Ong come Africa Milele dovrebbero sempre garantire quando si tratta di predisporre, coordinare ed accompagnare azioni di volontariato nelle zone a rischio del mondo. Quello che FdI ha domandato al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è quello di effettuare più controlli su queste ong. Augusta Montaruli, che è l'autrice dell'interrograzione, ne ha parlato a IlGiornale.it. Viene sollevata la questione del villaggio kenyota in cui era stata inviata: Chamaka. Senza la vicinanza di centrali di polizia. La Montaruli  segnala pure come "la ONG avrebbe sede nella casa della fondatrice di Africa Milele e sarebbe priva di dipendenti". E ancora Africa Milele si "avvallerebbe solo di volontari" e non sarebbe "sufficientemente strutturata per operare in zone a rischio", in quanto "priva di standard di sicurezza". Ma anche la presunta mancata segnalazione da parte di Africa Milele all'ambasciata della presenza della Romano in quel territorio.

Di Maio contro l'ong di Silvia: "Operava senza informarci". Il ministro punta il dito su Africa Milele. Secondo la Farnesina eludeva ''qualsiasi potere d'indirizzo e informazione". Federico Giuliani, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Luigi Di Maio ha attaccato l'ong per la quale operava Silvia Romano. ''L'Associazione Africa Milele – ha dichiarato il ministro degli Esteri, rispondendo al Question time alla Camera - non rientra nell'elenco previsto dalla legge 125 e non era destinataria di alcun sostegno della cooperazione italiana".

L'attacco di Di Maio. Questa associazione, a detta di Di Maio, avrebbe operato ''in totale autonomia'' senza informare la Farnesina ed eludendo ''qualsiasi potere d'indirizzo e informazione dei propri associati o collaboratori sotto il profilo della sicurezza". Ricordiamo che la citata legge 125 prevede che il comitato congiunto della Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri stabilisca i criteri in base ai quali è sancita l'idoneità delle organizzazioni della società civile. ''In caso di progetti realizzati da organizzazioni della società civile con contributi della Cooperazione italiana – ha aggiunto il ministro - le organizzazioni vengono selezionate alla luce della loro idoneità a lavorare all'estero e i bandi prevedono espressamente che le attività possano essere svolte solo previa valutazione delle condizioni di sicurezza da parte delle ambasciate''. Il capo della Farnesina ha inoltre precisato che "l'attività nell'ambito della quale Silvia Romano operava'' non era destinatario di ''alcun sostegno della cooperazione italiana''. ''Per l'espatrio e lo svolgimento all'estero da parte di cittadini italiani di attività di volontariato, così come di ogni altra attività lecita, si prevedono le norme dell'articolo 16 della Costituzione. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi salvo gli obblighi di legge", ha concluso Di Maio.

La posizione dell'ong. Dal canto suo l'associazione ha salutato con felicità la liberazione della cooperante italiana con un eloquente post su Facebook: ''La gioia! Bentornata Silvia, tutti noi ti abbiamo aspettata, sempre". In un'intervista rilasciata a Repubblica nei giorni scorsi la fondatrice della onlus, Lilian Sora, aveva respinto le prime accuse ricevute: ''La sicurezza a Chakama c'era: Silvia non è stata mandata da sola. Ci hanno buttato addosso tanto fango ma la protagonista ora è Silvia e risponderà lei, sono sicura. Per tramite dei volontari mi sono arrivate parole carine, da parte di Silvia". "Davvero i familiari hanno preso le distanze dalla onlus? - ha proseguito Sora - Dovremo assolutamente parlare, in questo anno e mezzo anche io mi sono avvicinata all'Islam. Suo papà non l'ho mai conosciuto, sono separati e io parlavo con la mamma, che non sapeva neppure dove si trovasse esattamente sua figlia in Kenya. Non avevamo i numeri l'una dell'altra, evidentemente Silvia non lo riteneva necessario... strano no? Se stavo zitta per rispettare il loro dolore dicevano che me ne infischiavo, se parlavo di Silvia mi dicevano di rispettare il silenzio per le indagini". Al momento le autorità sono al lavoro per ricostruire la complessa vicenda. Certo, le prime dichiarazioni rilasciate da Silvia Romano sono emblematiche: ''Mi hanno mandata allo sbaraglio''.

Silvia Romano in Kenya con Africa Milele a insaputa della Farnesina: l’anticipazione di Di Maio. Carmine Gazzanni il 18/05/2020 su Notizie.it. Africa Milele, con cui Silvia Romano è partita per Chakama, non fa parte dell'elenco delle onlus idonee secondo il Ministero degli Esteri. C’era da aspettarselo: il caso Silvia Romano è approdato anche in Parlamento, con le opposizioni che, al di là delle varie dichiarazioni rese alla stampa, hanno presentato atti parlamentari che ora rischiano di minare la cooperazione tout-court. Ma è soprattutto dalle risposte fornite dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio che si aprono ora nuovi interessanti scenari soprattutto sulla onlus “Africa Milele” per cui operava la Romano: si sarebbe mossa, infatti, in totale autonomia rispetto alla Farnesina. E, dunque, a sua insaputa.

Forza Italia e Lega all’assalto. Facciamo, però, un passo indietro. Diversi, come detto, sono gli atti parlamentari depositati negli ultimi giorni. A presentare un’interrogazione, ad esempio, sono stati alcuni deputati di Forza Italia che hanno chiesto tra le altre cose «a quanto ammonti il riscatto versato per la liberazione» e «se la Procura di Roma fosse stata informata in merito all’eventuale decisione di pagare un riscatto». E l’ha fatto soprattutto la Lega, con un’interrogazione parlamentare a prima firma Eugenio Zoffili ma cofirmata da tutti i deputati del Carroccio, che sicuramente creerà discussione dato che va a colpire il mondo della cooperazione internazionale. Nell’atto – che Notizie.it ha visionato – si ricostruisce l’intera vicenda della cooperante sequestra il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chakama, in Kenya, «dove si trovava per realizzarvi un progetto umanitario per l’infanzia promosso dalla onlus Africa Milele». Ma Zoffili va oltre e ricorda che il sito viaggiaresicuri.it – servizio dell’unità di crisi del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale – definisce il Kenya un Paese nel quale «permane elevata la minaccia terroristica di matrice islamica», paventando il «persistente pericolo di atti ostili contro cittadini stranieri e raccomandando a coloro che vi si rechino di evitare gli spostamenti via terra e il soggiorno in alcune regioni di quello Stato». Ed ecco il punto: partendo da queste premesse la Lega ha chiesto al governo Conte, e nella fattispecie al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, quali iniziative ritengano opportuno assumere «per scoraggiare in modo efficace gli interventi della cooperazione volontaria italiana nelle zone in cui sia concreto il pericolo del verificarsi di atti ostili nei confronti dei cittadini del nostro Paese». Insomma, per la Lega qualunque Ong che voglia andare in Paesi a rischio non dovrebbe farlo. E non caso il Carroccio, come emerge dal resoconto della discussione parlamentare del 13 maggio, ha già annunciato una proposta di legge «contro il rischio sequestri».

Il controllo della Farnesina. Ma c’è di più. Perché Di Maio ha già provveduto a fornire risposte ai quesiti leghisti, lasciando intendere che la onlus Africa Milele non si era mossa in collaborazione con la Farnesina. Il titolare degli Esteri, infatti, ha specificato che la Farnesina «opera costantemente mediante l’unità di crisi per tutelare i cittadini italiani all’estero in situazioni di emergenza, terrorismo, tensioni sociopolitiche, calamità naturali e pandemie». Nel caso di progetti realizzati da organizzazioni della società civile con contributi della cooperazione italiana, non a caso, «le organizzazioni vengono selezionate alla luce della loro idoneità ad operare all’estero e i bandi per la scelta dei progetti prevedono espressamente che le attività possano essere svolte solo previa valutazione delle condizioni di sicurezza da parte delle ambasciate». Esiste una legge d’altronde (la numero 125 del 2014) che prevede che un Comitato ad hoc stabilisca parametri e criteri in base ai quali «è sancita l’idoneità delle organizzazioni della società civile», mentre l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo «conduce gli aggiornamenti periodici dell’elenco delle organizzazioni idonee». Quell’elenco è fondamentale: solo chi è iscritto può infatti ricevere fondi e, soprattutto, «briefing di sicurezza che forniscono puntuali indicazioni sulla situazione del Paese, sul livello di rischio e sulle possibili misure da intraprendere per la sua mitigazione».

Il giallo della Onlus di Silvia Romano. Ed ecco il punto: per quanto detto da Di Maio, l’associazione “Africa Milele Onlus” non rientra tra le organizzazioni iscritte nell’elenco. In altre parole, «l’attività nell’ambito della quale Silvia Romano operava non è destinataria di alcun sostegno della cooperazione italiana” e, dunque, ha «operato in totale autonomia, senza informare la Farnesina, eludendo qualsiasi potere di indirizzo e di informazione dei propri associati o collaboratori sotto il profilo della sicurezza». Un dettaglio, quest’ultimo, che aggiunge un tassello in più rispetto anche alle indagini portate avanti a Fano dalla magistratura.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2020. «Mi hanno mandata allo sbaraglio». Il sorriso di Silvia Romano nasconde anche qualche dente aguzzo. E forse i 535 giorni di prigionia hanno cancellato un po' d' ingenuità: domenica pomeriggio, interrogata dai magistrati, la ragazza milanese ha detto chiaro e tondo d' essersi sentita in un avamposto solitario, il giorno in cui fu rapita. E che a Chakama, nella scuoletta della savana, forse non era il caso di trovarsi in quelle condizioni. L'unica bianca. Senza scorta, senza collaboratori. Abbandonata lì, con la sua straordinaria inesperienza. Il racconto di Silvia ha fatto infuriare i genitori: la famiglia Romano aveva già rotto i rapporti con l' onlus Africa Milele di Fano, e con la responsabile Lilian Sora che aveva ingaggiato la loro figlia, ma ora domanda che si faccia qualcosa di più. Non c' è ancora una delega formale ai Ros dei Carabinieri, ma la Procura di Roma intende riprendere in mano il dossier della Farnesina e i controlli che l' Unità di crisi aveva intrapreso dopo il rapimento su quell' attività di volontariato messa in piedi a decine di chilometri da Malindi. I contratti d'assicurazione, le registrazioni in ambasciata, le certificazioni delle autorità keniote: i Romano vogliono sapere se si sia fatto davvero tutto, per evitare che Silvia venisse sequestrata. Africa Milele significa Africa per sempre. Ma dal 20 novembre 2018, l'Africa della minuscola onlus è senza futuro. «Questa vicenda per noi ha voluto dire molto», spiega Lilian Sora, una marchigiana di buona volontà che nel 2009 era andata in Kenya in viaggio di nozze ed era rimasta colpita dalla povertà, decidendo di fondare la sua onlus: «I nostri beneficiari ne hanno risentito e, a gennaio, abbiamo dovuto lasciare a casa i bambini che sostenevano la scuola. I fondi non bastavano più». Il giorno della liberazione di Silvia, Lilian ha fatto capire quanto fosse scossa: «Alla vigilia del rapimento ero stata svegliata da un brutto sogno, quasi una premonizione. Sabato, il mio sogno è stato bellissimo». Le polemiche di questi mesi l' hanno travolta: s' è detto di tutto su di lei e sulla sua vita sentimentale, su quella strana scelta di piazzarsi a Chakama dove operava già un' altra onlus, sulle valigie piene di medicinali e di latte in polvere che affidava ai suoi volontari - anche a Silvia - perché portassero in Kenya aiuti low cost Tanti veleni, nella comunità italiana di Malindi che sapeva poco di Africa Milele, eppure sparlava molto della sua attività. Lilian non ha mai risposto e anzi, rivela, «nel tempo in cui Silvia è stata rapita, non ho mai smesso d'indagare». Una certezza: «Era controllata». La donna racconta un dettaglio già noto, ma che a suo parere riveste grande importanza: «Sospetto che alcuni componenti del commando abbiano dormito vicino alla nostra casa, prima del rapimento» (chi scrive, l' aveva già verificato sul posto: la Chakama Guest House è una baracca di lamiera a trenta passi dalla scuola dove viveva Silvia, le camere portano i nomi dei Paesi africani, e i sei banditi avevano alloggiato nella stanza «Togo»). «Silvia non è stata mandata da sola a Chakama - si difende Lilian -. È partita con due volontari e ad aspettarli c' era il mio compagno con un altro addetto alla sicurezza, entrambi masai». Gli uomini «dovevano rientrare a Malindi il 19 novembre e Silvia doveva andare con loro», ma ci fu un intoppo, la ragazza rimase sola a Chakama e il 20 fu sequestrata: «Qualcuno la spiava», è convinta Lilian, e sapeva quando entrare in azione. Dall' appartamento del Casoretto, Silvia non ha chiamato nessuno a Fano. «Aspetto di poterle dire quanto sono felice», manda un messaggio Lilian: è probabile che aspetti e speri per un bel po'.

“Silvia Romano non è una cooperante. Le "Ong" fai-da-te mandano giovani come lei allo sbaraglio”. TPI ha intervistato Daniela Gelso, Project manager di alcune delle principali Ong italiane e francesi, sul caso Silvia Romano: "Questo mestiere non si improvvisa, altrimenti si rischia la vita". Lorenzo Tosa il 13 Maggio 2020 su TPI.

“Silvia Romano non era una cooperante e, tecnicamente, neppure una volontaria, ma una ragazza neolaureata, inesperta, che è stata incautamente esposta a rischi enormi da chi l’ha mandata in un villaggio sperduto del Kenya senza la minima sicurezza, né il rispetto dei più elementari protocolli di cooperazione internazionale. Silvia è vittima due volte: dei rapitori e di chi non l’ha protetta”. Ogni parola è pesata, ogni virgola è frutto di anni di esperienza sul campo: dodici anni per l’esattezza – dal 2005 al 2017 – che Daniela Gelso, 43 anni, originaria di Saronno, ha trascorso in Africa occidentale e centrale, tra Guinea Bissau, Burundi e Costa d’Avorio, come Project manager per conto di alcune delle principali Ong italiane, francesi e portoghesi, prima di rientrare in Europa, in Francia, nel 2017, continuando a lavorare come manager in ambito sociale. E, di fronte al clamore mediatico suscitato dal caso di Silvia Romano, offre una chiave di lettura nuova, fino ad oggi rimasta in sottofondo, coperta dalle urla da stadio, i commenti degli hater e le posizioni ideologiche su una vicenda in realtà molto complessa. “Facciamo subito una premessa” chiarisce Daniela. “A fronte della liberazione di una venticinquenne che per 18 mesi è stata tenuta in ostaggio da un gruppo armato, non posso che provare un profondo sentimento di gioia. Senza se e senza ma. A prescindere dall’abito indossato e dalla religione adottata e indipendentemente dal valore del riscatto pagato, perché la vita di un essere umano non ha prezzo”.

Ma…

«Ma sono rimasta colpita dall’estrema superficialità con cui, in questa delicata vicenda, è stato trattato il mondo della solidarietà internazionale, già vittima di una vera e propria campagna di delegittimazione nel nostro Paese. Tutti i mezzi d’informazione, nessuno escluso, definiscono Silvia “una giovane cooperante, in Kenya per conto di una ONG marchigiana”».

Cosa c’è di sbagliato in questa definizione?

«Più o meno tutto. 1) Silvia Romano non è una cooperante. Anzi, per essere precisi, non è nemmeno una volontaria, nell’accezione oggi in vigore nel mondo della cooperazione. Per intenderci, un Volontario delle Nazioni Unite beneficia di un contratto remunerato ed opera all’interno di uno specifico programma di sviluppo. 2) Africa Milele, la onlus con cui collaborava, non è una Ong».

D’accordo, fermiamoci per un attimo al ruolo di Silvia Romano. Chi era allora e cosa faceva questa giovane ragazza milanese nel villaggio di Chakama, dove il 20 novembre 2018 è stata rapita.

«Se ci atteniamo ai fatti, Silvia è arrivata in Kenya a 23 anni, con un semplice visto turistico che non le consentiva di dedicarsi a nessuna attività di cooperazione internazionale. Neolaureata, inesperta, non aveva all’attivo nessuna esperienza professionale pertinente. Durante la sua permanenza a Chakama, il suo impegno umanitario consisteva semplicemente nel far giocare i bambini del villaggio».

Che differenza c’è esattamente con un cooperante internazionale?

«La differenza è abissale. I cooperanti sono professionisti retribuiti e altamente specializzati. Hanno un contratto di lavoro e sono coperti da un’assicurazione internazionale. I programmi di sviluppo in cui sono inseriti non consistono in opere di carità o assistenzialismo. Si tratta di strategie con obiettivi ben precisi».

Lei, ad esempio, che mansioni ha svolto nei suoi 12 anni in Africa?

«In qualità di capoprogetto, le mie competenze spaziavano dalla gestione di attività complesse alla scrittura progetti nell’ambito di bandi internazionali, dalla rendicontazione finanziaria alla gestione di partenariati strategici, dal team management al reporting ufficiale. Il mestiere di cooperante, insomma, non si improvvisa: sono richieste specifiche competenze, una formazione ad hoc, tra cui anche – come nel mio caso – un master di secondo livello in Cooperazione e sviluppo, oltre alle varie specializzazioni, e ovviamente tanta esperienza sul campo. Anche la mia esperienza è iniziata nell’ambito del volontariato internazionale, seppure con qualche anno in più rispetto a Silvia ed una prima, significativa esperienza professionale in Italia».

Quell’esperienza che a Silvia mancava…

«Vede, l’Africa è piena di villaggi come Chakama. Le associazioni fai-da-te che pretendono di salvare il mondo proliferano in tutta Europa. Ed ogni anno sono centinaia i ventenni che si affidano a sedicenti “Ong” per vivere un’esperienza di solidarietà in un Paese in via di sviluppo. Questo fenomeno in rapida crescita ha addirittura un nome: “volonturismo”».

In pratica, sta dicendo che Silvia Romano si è affidata a un’organizzazione improvvisata che l’ha mandata in Africa a suo rischio e pericolo?

«Purtroppo è esattamente ciò che è avvenuto. Africa Milele Onlus è un’associazione piccolissima, sconosciuta, non accreditata dall’AICS (Associazione Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, ndr), non iscritta a nessuna delle federazioni che raggruppano la quasi totalità delle Ong italiane. L’organigramma consultabile sul sito dell’associazione fa pensare ad una struttura a gestione familiare. Ho notato che ricorrono gli stessi cognomi (un caso?) e che la persona indicata come referente dei progetti in Kenya è la stessa persona che, al momento del rapimento di Silvia, era stato indicato come il guardiano che avrebbe dovuto vegliare sulla guest house di Chakama».

Com’è stato possibile?

«L’anno di svolta, il “liberi tutti”, è arrivato nel 2014 con la riforma della legge sulla cooperazione internazionale che ha, di fatto, riunito Ong, Onlus, fondazioni, cooperative sociali e associazioni culturali sotto un’unica etichetta, quella di Enti del Terzo Settore. Col risultato che tutti, anche le associazioni di provincia sono abilitate ad operare nell’ambito della solidarietà internazionale, anche in continenti difficili e complessi come l’Africa, mettendo a rischio in primis le ragazze come Silvia che si avventurano con tanti sogni e nessuna esperienza».

Di quali numeri parliamo?

«I numeri sono impressionanti. Oggi in Italia esistono 336mila enti di terzo settore. Di questi solo 233 sono registrati presso l’AICS e, dunque, riconosciuti idonei ad operare nel settore ed a ricevere finanziamenti pubblici».

Di cosa si occupa precisamente Africa Milele?

«È difficile saperlo con certezza. Il sito dell’associazione menziona generiche azioni rivolte ai bambini, alludendo agli ambiti della salute, dell’istruzione, dell’igiene, dell’alimentazione. Nessun bilancio certificato che rendiconti la gestione dei fondi raccolti, nessun rapporto annuale delle attività, nessun indicatore quantitativo e qualitativo. Non conosco direttamente né l’associazione né i suoi operatori, ma l’assenza di un qualsiasi dato concreto inerente le attività realizzate ed i risultati raggiunti è un messaggio eloquente per chi lavora nel settore. La cosa più importante di cui si è occupata quest’associazione è il sostegno scolastico di qualche bambino e la costruzione di uno spazio giochi all’aperto costato poche centinaia di euro, anche se l’informazione non è più disponibile, perché dopo il rapimento di Silvia tutti i contenuti del sito sono stati rimossi».

Che misure di sicurezza sono state prese dalla onlus a Chakama per tutelare Silvia? C’è stata una valutazione dei rischi?

«La Presidente di Africa Milele Onlus, Lilian Sora, ha dichiarato a più riprese che Chakama non si trova in una zona a rischio e che il rapimento di Silvia non ha precedenti. Tanto basta per trarre un giudizio. Il fatto che il panorama della solidarietà internazionale sia in gran parte costituito da piccole realtà associative non esenta queste ultime dall’obbligo di garantire la sicurezza dei suoi operatori. Qualsiasi Ong seria assicura il suo personale in missione all’estero, ne segnala la presenza all’Ambasciata italiana, applica scrupolosamente un piano di gestione dei rischi, partecipa ai cluster nazionali (comitati tecnici che identificano priorità d’azione e linee di condotta), concorda i propri programmi di sviluppo con le autorità locali».

Cosa le ha dato più fastidio di tutta questa vicenda?

«Il modo in cui è stata trattata dai media. Ogni volta che la stampa evoca i cooperanti italiani rapiti negli ultimi anni, dovrebbe citare Rossella Urru, capoprogetto del CISP sequestrata in Algeria nel 2011. Oppure Francesco Azzarà, operatore di Emergency, rapito in Darfur nello stesso anno. Dovrebbe parlare di Giovanni Lo Porto, cooperante in Pakistan per conto di una Ong tedesca, che purtroppo non ce l’ha fatta e non ha mai fatto ritorno in patria. Colleghi competenti e preparati, consapevoli dei rischi a cui andavano incontro e – soprattutto – inseriti in organizzazioni in cui il rispetto di norme e procedure di sicurezza è primordiale. La vicenda di Silvia Romano si avvicina piuttosto a quella di Greta e Vanessa, le due ragazze sequestrate (e poi liberate) in Siria qualche anno fa, che tanto clamore ha suscitato».

Cosa possiamo imparare dalla vicenda di Silvia Romano?

«Lungi da me esprimere un giudizio di valore sulle motivazioni – certamente nobili – che hanno spinto questa ragazza a partire. Semplicemente, la convinzione erronea che dei ventenni privi di un’adeguata preparazione possano contribuire significativamente allo sviluppo locale sottende un atteggiamento paternalistico e perpetua gli stereotipi negativi legati al concetto di beneficenza. Idealizzare il loro impegno, anche se sincero, significa screditare il lavoro di chi opera sul campo con professionalità e abnegazione».

In conclusione, cosa si sente di dire alle tante (o ai tanti) Silvia che sognano di andare in Africa o in zone remote del pianeta ad aiutare il prossimo?

«Di unire sempre i propri sogni e il proprio sano altruismo a una buona dose di coscienza e competenza, fondamentale in situazioni del genere. Di appoggiarsi ad una struttura credibile, solida e ben organizzata, un punto sul quale hanno già insistito autorevoli esperti del settore. Facciamo in modo che la vicenda di Silvia Romano – conclusasi fortunatamente con un lieto fine – diventi spunto di riflessione costruttivo sull’argomento, affinché nessun giovane venga più mandato allo sbaraglio sotto il paravento del No Profit. Perché, se è vero che “si può fare del bene solo se lo si fa bene”, le buone intenzioni – ahimè – non bastano».

Federico Capurso per “la Stampa” il 14 maggio 2020. Quando si abbandona l'Occidente e si entra nelle periferie del mondo, si lascia alle spalle la propria vita, regolata dal diritto, per mettere piede dove il "non diritto" è quotidianità. Ai 22 mila cooperanti italiani all' estero, dunque, non si può più chiedere di essere animati solo da uno spirito di fratellanza, ma serve anche preparazione e professionalità. Lo ha reso evidente il caso di Silvia Romano, che ha acceso in questi giorni un riflettore sulla sicurezza di chi opera nelle zone a rischio. Così, dal fondo della pila di dossier che giace sul tavolo del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è tornata in superficie anche questa riflessione e con essa delle proposte, ancora in fase di studio, per provare ad illuminare alcune zone d'ombra del mondo della cooperazione allo sviluppo. Insomma, si sta studiando una stretta sul mondo del volontariato. Necessaria - ragionano Di Maio e il viceministro Emanuele Del Re, che ha la delega alla Cooperazione allo sviluppo - per mettere al primo posto la formazione dei volontari e la loro sicurezza, senza che però questo diventi un cappio al collo per chi vuole fare del bene. Il primo spartiacque per comprendere questa enorme e variegata realtà è quello che divide le organizzazioni iscritte a un apposito registro della Farnesina - obbligate per operare all' estero a seguire una serie di protocolli di sicurezza e costantemente monitorate - da quelle associazioni non iscritte, che non devono dare conto, né al ministero né all' ambasciata del Paese in cui operano, dei propri progetti di sviluppo e dei protocolli di sicurezza adottati per i loro cooperanti. La Africa Milele Onlus, all' interno della quale operava Silvia Romano, è tra queste ultime. «Non rientra tra le organizzazioni accreditate presso la Farnesina - sottolinea infatti Di Maio durante un' interrogazione alla Camera - e la sua attività, dunque, non è stata sostenuta dalla cooperazione italiana, ma ha operato in autonomia senza informare la Farnesina ed eludendo qualsiasi potere di indirizzo associato ai profili di sicurezza per l' onlus e per i propri collaboratori». Questo è il primo problema che si vuole risolvere. Sono 225 le organizzazioni iscritte al registro dell' Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ma altre 500, approssimativamente, ne restano fuori. Essere accreditati permette di presentare i propri progetti per essere finanziati dal ministero, ma impone anche degli obblighi. «Quando mandiamo un cooperante o un volontariato - spiega Silvia Stilli, portavoce dell' Aoi, Associazione delle Organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale che riunisce più di 100 associazioni - siamo monitorati e dobbiamo attenerci a mille procedure: ogni due anni dobbiamo presentare una corposa relazione delle nostre attività, dimostrare che non abbiamo pendenze con il fisco o cause giudiziarie aperte, dobbiamo poi pubblicare alcuni requisiti, avere protocolli di sicurezza e quando entrerà in vigore il registro unico del terzo settore saremo anche tenuti a esporre il nostro codice etico, il bilancio sociale, la relazione di missione». Da questo mare magnum di doveri navigano più o meno al largo le realtà di volontariato non iscritte al registro della Farnesina, come quella di Africa Milele. «Imporre l' iscrizione sarebbe però impossibile», ragionano al ministero. Per problemi organizzativi ed economici, tante realtà non potrebbero far fronte agli impegni burocratici previsti e scomparirebbe così un pezzo importante del volontariato italiano. Si sta quindi ipotizzando di arrivare a metà strada e rendere obbligatorio per tutti solo un protocollo di sicurezza da far sottoscrivere al volontario e un corso di formazione in cui lo si prepari a gestire situazioni di pericolo nelle aree a rischio. Sul tavolo ci sono attualmente varie possibilità: organizzare corsi online o seminari gestiti direttamente dalla Farnesina o, ancora, da parte del ministero, destinare una quota del proprio bilancio su progetti di formazione per la sicurezza presso altre strutture come l' istituto superiore Sant' Anna di Pisa, che già collabora con alcune realtà di volontariato più solide...La preparazione qui in Italia non basterebbe, però, ad attenuare sufficientemente alcuni rischi che si corrono sul posto. È per questo che Di Maio e Del Re vorrebbero risolvere la questione legata al monitoraggio dei cooperanti da parte delle ambasciate del Paese in cui si trovano, estendendo anche alle realtà non accreditate alcuni obblighi previsti da un accordo di collaborazione stilato con l'Unità di crisi della Farnesina nel 2015 al quale le altre 225 realtà associative hanno già aderito. Si dovrebbero quindi comunicare le generalità del cooperante, le date di arrivo e di partenza, gli spostamenti e le coordinate dei campi, sia al sito dovesiamonelmondo.it sia all'ambasciata di riferimento, oltre ad avere un referente di base per ogni comunicazione. Ultimo punto, quello che riguarda le assicurazioni per chi si reca nelle zone a rischio, che dal Pd vorrebbero estendere non solo alle onlus non iscritte al registro, ma anche a giornalisti free lance e agli studenti universitari, sulla scia del caso di Giulio Regeni. Il principio viene accolto con un «se ne può ragionare» dalla Farnesina, ma sul punto non ci sono ancora proposte sul tavolo. La direzione generale, però, sembra ormai tracciata: più sicurezza e più formazione. Con l' obiettivo di rendere i cooperanti «delle vere e proprie professionalità, senza - sottolineano dalla Farnesina - snaturare la vocazione che li anima».

Dagospia il 13 maggio 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Anni fa una brava persona è morta per salvare una donna andata in Iraq per scrivere male dei soldati italiani in Iraq. Vorrei dire che gli operativi dell’Aise sono operativi sul serio e chiunque critichi queste cose, non deve criticare loro. I loro colleghi di altri servizi sono molto operativi nei film, ma in pratica non sono operativi. Il peggior aspetto di questo è la collaborazione con i servizi turchi, gli agenti di Erdogan e dell’islamismo. Gli italiani avrebbero dovuto sputargli in faccia, a questi del servizio turco. Questa è una cosa terribile”. Lo dice Edward Luttwak, politologo americano, a La Zanzara su Radio 24. “Queste persone italiane che si auto nominano Ong – dice Luttwak -  e che vanno a mettersi nei guai, non hanno diritto di esigere questi grandi sforzi. Più dei soldi c’è il rischio per il personale, che non sono lì per fare le bambinaie di queste disgraziatissime persone che vanno proprio lì dove c’è il pericolo. Vi assicuro che quello che questa signora faceva in Kenya non aveva nessun impatto su nessuno. Io vi do una lista di quartieri a Napoli dove c’è un enorme bisogno di lei…invece lei va a fare  un’avventura personale e poi si fa salvare dallo Stato italiano, e poi com’è successo quella volta con quelle due disgraziatissime Simone, il padre diceva che se vogliono poi tornare in Iran, non è che le blocco. Hanno il diritto di farlo. E così ogni volta lo Stato italiano va lì e paga milioni”. “Queste  Ong – aggiunge Luttwak -  sono ragazze e ragazzi che vanno in giro con Toyota Land Cruiser da 70.000 dollari, parlano a vanvera, non parlano la lingua, non sanno fare sono alcune ong importanti accreditate? La parola ong vuol dire non governativa. Vuol dire cioè che non è sorvegliata da nessuno. Questi sono giovanotti e giovanotte che non hanno una collocazione nella loro società, e sotto il nome di ong vanno a vanvera nel mondo. Ero in Bolivia e nell’Amazzonia boliviana, ho la mia fattoria di mucche. E vedo questi sbandati delle ong che vanno in giro a fare programmi cretini e poi scompaiono. Raccolgono soldi da qualche cretino e poi scompaiono. Sono una piaga”. Silvia Romano si vuol far chiamare Aisha: “Un po’ di rispetto, Aisha è la moglie di Mohammed. L’ha sposata quando Aisha aveva sei anni, ma nella biografia ufficiale spiegano che non ha consumato fino all’età di nove anni. Quindi è un glorioso nome Aisha. Un orrore?  No, è una cosa bellissima. Adesso sento che questa vuole ritornare lì per farsi catturare di nuovo per essere liberata di nuovo. E magari c’è un genitore in giro, come ha fatto con le due disgraziatissime, che dice se mia figlia vuole ritornare io non è che la blocco. Se dovremmo impedire a queste persone di tornare lì? No, no, bisogna pubblicare una notizia oggi, in giro per il mondo, che se tu sei un cittadino italiano, che ti chiami ong o non ti chiami ong, Ciro o Giro, tu devi contattare il consolato italiano più vicino, e se il consolato ti avvisa che è pericoloso essere dove sei, se tu non ritorni a casa il consolato italiano non può più tutelarti”. Molti italiani sono rimasti infastiditi nel vedere la Romano vestita in maniera islamica? Tu sei un razzista del peggior tipo, sei un anti islamico. Lei si chiama Aisha che era la moglie di Mohammed. Che ha sposato a sei anni, consumato a nove. Questa è una parte importante. Io sto citando la biografia ufficiale del mondo religioso islamico. Lui ha detto guarda che non sono un pedofilo perché non ci ho fatto niente fino all’età di nove anni. Ma a me preoccupa solo un fatto, di aver collaborato coi puzzolenti turchi, i peggiori turchi del mondo, ci sono turchi belli e brutti. I più brutti sono quelli del servizio turco”.

Luttwak attacca: "Ong? Sbandati, non meritano questi grandi sforzi". Il politologo americano ricorda i casi delle due Simone e quello della giornalista Giuliana Sgrena, allargando il discorso ai riscatti ed ai rischi per gli agenti dei servizi segreti: "Queste persone italiane che si auto nominano Ong e che vanno a mettersi nei guai, non hanno diritto di esigere questi grandi sforzi". Federico Garau, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Intervistato a "La Zanzara", trasmissione radiofonica in onda su Radio 24, il politologo statunitense Edward Luttwak commenta l'episodio della liberazione della collaborante milanese Silvia Romano. Nel fare ciò, si ricollega anche a simili episodi del recente passato avvenuti ad altri nostri connazionali e quindi allarga il discorso colpendo quanti, con lo "scudo" della denominazione Ong, si arrischiano in territori non di certo esenti da pericoli. "Anni fa", esordisce Luttwak, "una brava persona è morta per salvare una donna andata in Iraq per scrivere male dei soldati italiani in Iraq". Il riferimento è a Nicola Calipari, funzionario e agente dei servizi segreti, ucciso poco dopo aver concluso con successo l'operazione per liberare la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, sequestrata dall'organizzazione del Jihad islamico mentre si trovava a Baghdad per girare un reportage. "Queste persone italiane che si auto nominano Ong e che vanno a mettersi nei guai, non hanno diritto di esigere questi grandi sforzi", aggiunge il politologo americano, come riportato da "Dagospia". "Più dei soldi c’è il rischio per il personale, che non sono lì per fare le bambinaie di queste disgraziatissime persone che vanno proprio lì dove c’è il pericolo. Vi assicuro che quello che questa signora faceva in Kenya non aveva nessun impatto su nessuno", attacca Luttwak. "Io vi do una lista di quartieri a Napoli dove c’è un enorme bisogno di lei. Invece lei va a fare un’avventura personale e poi si fa salvare dallo Stato italiano.", aggiunge ancora, prima di spostarsi sulla vicenda delle "due Simone", come le definisce lo stesso Luttwak. Si riferisce in questo caso a Simona Pari e Simona Torretta, rapite negli uffici di una Ong a Baghdad nel 2004 e liberate 20 giorni dopo dietro il pagamento di un riscatto, anche questo, come quello per salvare la giornalista Giuliana Sgrena, sempre negato dal governo. "E poi, com'è successo quella volta con quelle due disgraziatissime Simone, il padre diceva che se vogliono poi tornare in Iran, non è che le blocco. Hanno il diritto di farlo. E così ogni volta lo Stato italiano va lì e paga milioni". Sarebbe giusto impedir loro di tornare? Luttwak ha le idee chiare. "No, no, bisogna pubblicare una notizia oggi, in giro per il mondo, che se tu sei un cittadino italiano, che ti chiami ong o non ti chiami ong, Ciro o Giro, tu devi contattare il consolato italiano più vicino, e se il consolato ti avvisa che è pericoloso essere dove sei, se tu non ritorni a casa il consolato italiano non può più tutelarti", spiega il politologo. "Queste Ong sono ragazze e ragazzi che vanno in giro con Toyota Land Cruiser da 70mila dollari, parlano a vanvera, non parlano la lingua, non sanno fare nulla. La parola ong vuol dire non governativa. Vuol dire cioè che non è sorvegliata da nessuno", attacca ancora Luttwak. "Questi sono giovanotti e giovanotte che non hanno una collocazione nella loro società, e sotto il nome di ong vanno a vanvera nel mondo. Ero in Bolivia e nell’Amazzonia boliviana, ho la mia fattoria di mucche. E vedo questi sbandati delle ong che vanno in giro a fare programmi cretini e poi scompaiono. Raccolgono soldi da qualche cretino e poi scompaiono. Sono una piaga", accusa. E sul fatto che anche Silvia Romano (Aisha dopo la conversione) voglia tornare ancora in Africa? "Un po’ di rispetto, Aisha è la moglie di Mohammed. L’ha sposata quando Aisha aveva sei anni, ma nella biografia ufficiale spiegano che non ha consumato fino all’età di nove anni. Quindi è un glorioso nome Aisha. Un orrore? No, è una cosa bellissima. Adesso sento che questa vuole ritornare lì per farsi catturare di nuovo per essere liberata di nuovo", replica ancora Luttwak. "E magari c’è un genitore in giro, come ha fatto con le due disgraziatissime, che dice se mia figlia vuole ritornare io non è che la blocco", dice con amarezza. "Ma a me preoccupa solo un fatto, di aver collaborato coi puzzolenti turchi, i peggiori turchi del mondo, ci sono turchi belli e brutti. I più brutti sono quelli del servizio turco", affonda ancora il politologo statunitense. "Gli operativi dell’Aise sono operativi sul serio e chiunque critichi queste cose, non deve criticare loro. I loro colleghi di altri servizi sono molto operativi nei film, ma in pratica non sono operativi. Il peggior aspetto di questo è la collaborazione con i servizi turchi, gli agenti di Erdogan e dell’islamismo. Gli italiani avrebbero dovuto sputargli in faccia, a questi del servizio turco. Questa è una cosa terribile", conclude.

Da ilmessaggero.it il 16 maggio 2020. Con quale preparazione, garanzie e coperture assicurative è stata mandata Silvia Romano in Kenya dall'onlus Africa Milele a novembre del 2018? A questo interrogativo vuole dare una risposta la procura di Roma. Perciò ieri i carabinieri del Ros hanno perquisito per 9 ore la sede della Ong, a Fano, su mandato del pm Sergio Colaiocco. Lo stesso magistrato che è il titolare dell'inchiesta sul rapimento della cooperante. I militari hanno acquisito la documentazione relativa alle attività della onlus. Lilian Sora la presidente dell'associazione ha spiegato agli inquirenti che la giovane aveva sostenuto un colloquio e compilato un questionario seguendo un corso online. Tuttavia non era stata stipulata ancora l'assicurazione contro malattie e infortuni quando la 24enne è andata in Africa. La sicurezza della ragazza era garantita da due masai muniti di machete, ma in quel momento uno era al fiume e l'altro in giro per il villaggio. La presidente ha detto che fino a 20 minuti prima dell'assalto aveva parlato al telefono con Silvia e ha aggiunto di sapere chi avrebbe spiato e tradito la volontaria. Intanto ha generato un nuovo dibattito un post pubblicato dalla stessa 24enne per ringraziare i musulmani d'Italia per la solidarietà dimostrata per il suo ritorno a casa. «Assalamualaikum wa rahmatullahi a tutti voi che Allah vi benedica per tutto questo affetto che mi state dimostrando. Grazie a Dio, grazie, grazie! È bellissimo questo video, è un'emozione grande. Ciao fratelli! A presto in sha Aallah!». La cooperante ha scritto il messaggio sotto un video pubblicato sulla pagina Facebook La Luce News. Nel video, di oltre 5 minuti, sono tanti i volti che si alternano per darle il bentornato dopo la prigionia di 18 mesi in Somalia, per mano dei terroristi islamici di Al-Shabaab. Sull'argomento è intervenuto anche Abu Shwaima, il presidente del centro Islamico di Milano e Lombardia: «Se Silvia vuole venire in moschea è libera di farlo». Sulla scelta della ragazza di convertirsi alla fede musulmana, Shwaima sottolinea che «è personale». E sul polverone di polemiche sollevato nei giorni scorsi, osserva: «siamo in un Paese democratico, dove ognuno sceglie la religione che ritiene più adatta a sé». Chi invece si sofferma sulla scelta della Romano di abbracciare l'Islam è Giorgia Meloni presidente di Fratelli d'Italia: «non sono d'accordo che la conversione della ragazza sia stata libera, perchè le scelte libere le fanno persone libere non quelle che sono in catene. Mi è dispiaciuto che la comunità islamica in Italia, a partire dall'Ucoii, non sia riuscita a dire chiaramente che la conversione durante un rapimento non è una bella cosa». Infine la Meloni ha ricordato che «siamo di fronte ad un vittima del terrorismo fondamentalista».

Grazia Longo per ''la Stampa'' il 12 maggio 2020. Il sequestro di Silvia Romano si sarebbe potuto evitare? E ancora: qualcuno dovrà rispondere per i soldi spesi dallo Stato durante le indagini e le trattative? L' associazione onlus marchigiana Africa Milele, per conto della quale la venticinquenne milanese prestava volontariato nel villaggio di Chakama in Kenya, finisce nel mirino della Procura di Roma e del Ministero degli Esteri. Da un lato, il pool antiterrorismo guidato dal pm Sergio Colaiocco punta a verificare se alla cooperante erano state garantite condizioni di sicurezza dall' Africa Milele. Dall' altro, la Farnesina potrebbe chiedere all' Ong i danni economici in sede civile. Non certo per il riscatto, che il nostro governo nega di aver versato - mentre fonti dell' intelligence somala smentiscono e parlano di 1 milione e mezzo al rilascio più i pagamenti durante il passaggio di informazioni - quanto per le spese sostenute per i vari viaggi dei nostri 007 e degli inquirenti. Infatti, in base all' articolo 19 bis della legge 43 del 2015, a proposito «dell' incolumità dei cittadini italiani che intraprendono viaggi in Paesi stranieri, resta fermo che le conseguenze dei viaggi ricadono nell' esclusivo responsabilità individuale di chi assume le decisione di intraprendere o di organizzare i viaggi stessi». Ma il condizionale resta d' obbligo, innanzitutto per ragioni che afferiscono alla sfera politica e all' opportunità di creare un precedente nei casi di sequestri simili a quello di Silvia Romano. Inoltre la ragazza non era dipendente, ma una volontaria dell' onlus di Fano. E poi c' è l' indagine penale. La Procura di Roma, oggi diretta da Michele Prestipino, è quella che per la prima volta è riuscita a inchiodare alle proprie responsabilità i vertici della Bonatti spa di Parma, dopo il sequestro, nel 2015, di quattro tecnici (due dei quali persero la vita) in Libia. Al processo di primo grado sono stati condannati cinque persone tra cui i primi dirigenti della società. Il tribunale ha accolto la tesi del pm Colaiocco per il quale il rapimento dei quattro tecnici si sarebbe potuto evitare se l' impresa avesse adottato le misure di sicurezza necessarie. Certo, in quel caso si trattava di una società con lavoratori dipendenti, mentre nella circostanza di Silvia Romano siamo di fronte ad un' associazione di volontariato. Ma gli inquirenti vogliono comunque verificare se la ragazza operasse in condizioni di sicurezza o meno. La presidente dell' Africa Milele, assicura che non mancava la salvaguardia e la tutela della persona. «Ci tengo a precisare che Chakama non era zona rossa e che Silvia non è stata mai lasciata sola - esordisce -. È partita dall' Italia il 5 novembre con due volontari. Ad aspettarli inoltre c' era il mio compagno, che è il referente in Kenya dei progetti e della sicurezza, e un altro addetto alla sicurezza, entrambi Masai. I due volontari partiti con Silvia dovevano rientrare il 19 novembre e lei doveva andare con loro a Malindi per accogliere i nuovi che però hanno ritardato di due giorni perché avevano trovato un volo più economico. Così Silvia per caso è rimasta sola a Chakama. Il 20 è stata rapita». Per Silvia, tra l' altro, non era stata ancora stipulata l' assicurazione che l' Ong in genere attiva e che copre da infortuni e malattia «perché non c' era stato il tempo materiale». In questi mesi, precisano gli inquirenti, Lilian Sora è stata più volte ascoltata dai carabinieri del Ros, sia su sua richiesta sia su convocazione, ma ha fornito notizie «non di prima mano» e sulle quali si stanno ancora cercando riscontri. Sul fronte delle indagini il pm Sergio Colaiocco attende risposte dalle autorità somale dopo l' invio di una rogatoria internazionale. Da Mogadiscio fanno sapere che sulla vicenda è stata avviata una indagine e Sulaymaan Maxamed Maxmuud, giudice federale della Corte Suprema e procuratore generale della Repubblica federale della Somalia, ha chiesto ufficialmente «supporto all' Italia per le indagini e nello sviluppo della azione penale contro i sequestratori».

Silvia Romano, la fondatrice dalla Onlus: droga e violenza sui bimbi, la testimonianza sul villaggio in Kenya. Libero Quotidiano il Dopo il ritorno a casa di Silvia Romano, l’onlus Africa Milele avrà molto da spiegare: la procura di Roma indaga sull’associazione, che non avrebbe adottato alcun protocollo di sicurezza per proteggere la ragazza. La fondatrice Lilian Sora si è difesa in un’intervista rilasciata a Repubblica e ha anche sganciato una bomba a metà: “Certo che so chi ha tradito Silvia”, ha dichiarato senza però fare nomi o allusioni. “L’ho detto soltanto a familiari e inquirenti. Ho fatto le mie indagini, non per cercare di liberare Silvia ma per capire cosa fosse successo. E penso di averlo scoperto”. Una scoperta che però Lilian non ha voluto condividere pubblicamente, e quindi per ora non si può far altro che congetture: una riguarda i masai, che erano a guardia del villaggio di Chakama, dove Silvia è stata rapita. Le parole della fondatrice della onlus sembrano però escludere una complicità dei masai: “Il villaggio era tranquillo, non ci saremmo mai aspettati quello che è successo. Al massimo poteva passare qualcuno con troppo liquore di cocco in corpo, niente più, e ci pensava il masai”. Quest’ultimo era armato di machete e si occupava di istruire i volontari che arrivavano dall’Italia per vivere l’Africa “vera”, quella rurale: “Hanno una grande energia, è bello poterli accogliere ma uno si faceva i selfie nel campo di marijuana, l’altro lo scopri ‘affettuoso’ coi bambini, un altro ancora… lasciamo perdere, ci domandavamo se fosse meglio avere solo cooperanti”. Inoltre Lilian ha spiegato che ogni volontario prima di partire firmava un regolamento, ma l’ipotesi di rapimento o assalto violento non era contemplata: “Non ci abbiamo mai pensato. Se conoscete quel villaggio e la sua gente capireste”. 

Silvia Romano tradita o venduta? I carabinieri setacciano l’Onlus. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. «Nostra figlia è stata lasciata da sola»: è stata questa accusa pesante e diretta lanciata dai genitori di Silvia Romano a portare i carabinieri del Ros negli uffici della Onlus «Africa Milele». Accusa confermata dalla stessa ragazza domenica pomeriggio quando nel suo interrogatorio davanti a magistrati e investigatori ha raccontato di essere rimasta in Kenya, nel villaggio di Chakama, senza alcuna misura di sicurezza. La perquisizione ordinata ieri dai magistrati serve dunque a controllare la documentazione relativa alla missione, ad accertare quali precauzioni siano state adottate per proteggere i volontari. Perché il vero interrogativo è fin troppo evidente: il sequestro poteva essere evitato? Non ci sono indagati al momento, ma se fosse stabilito che non sono stati seguiti i protocolli di sicurezza per questo tipo di missioni la fondatrice Lilian Sora e i responsabili dell’associazione rischiano l’accusa di favoreggiamento nei confronti dei rapitori. Anche Silvia dovrà essere nuovamente ascoltata dai magistrati, ma in questi giorni si sta cercando di farle ritrovare serenità con la sua famiglia. E dunque la convocazione è prevista nelle prossime settimane. La prima segnalazione di «anomalie e criticità» arriva dall’Unità di crisi della Farnesina e dal suo responsabile Stefano Verrecchia subito dopo il sequestro avvenuto nel novembre 2018. Il diplomatico si fa portavoce dello stato d’animo della famiglia che accusa «Africa Milele» di non aver dato a Silvia «alcun aiuto a gestire una situazione complicata come può essere quella di un villaggio africano». Si scopre così che sono state omesse anche le regole minime. Manca la registrazione al sito «Viaggiare informati» e presso l’ambasciata ci sono dubbi anche sulle polizze assicurative stipulate per chi accetta di andare in Kenya per accudire i bambini e insegnare loro a leggere e scrivere. Quando agli inizi del 2019 i carabinieri del Ros vanno a Malindi per ricostruire le fasi della cattura di Silvia scoprono che la sicurezza del villaggio era stata affidata a Joseph, un masai. In realtà si tratta del marito di Lilian Sora. La donna era arrivata in Kenya nel 2000 per una vacanza con il marito italiano ma aveva deciso di rimanere e aprire un orfanatrofio per accudire i piccoli orfani, ma anche altri bambini occupandosi della loro educazione, di consegnare alle famiglie cibo e medicine. E aveva sposato Joseph al quale aveva affidato l’organizzazione del villaggio. Su questo Silvia adesso ha fornito dettagli ritenuti fondamentali dal procuratore Michele Prestipino e dal pubblico ministero Sergio Colaiocco per decidere di verificare tutte le possibili omissioni. «Qualche giorno prima della mia cattura - ha spiegato la giovane - due uomini vennero a cercarmi nel villaggio. Io lo seppi dopo ma il masai che doveva essere con noi non fece nulla su questo episodio». Ecco allora che diventa fondamentale ricostruire che cosa accadde in quei giorni per scoprire se qualcuno, anche inconsapevolmente, possa aver tradito Silvia raccontando che al villaggio c’era una ragazza bianca. O se invece la volontaria sia stata «venduta» come ipotizzano sin dai primi momenti i poliziotti kenyoti. Del resto è noto che gli occidentali sono merce preziosa per i gruppi criminali e ancor più per i fondamentalisti. E dunque si deve stabilire se fossero state predisposte scorte e misure di sicurezza per evitare che Silvia cadesse preda dei rapitori. I carabinieri hanno sequestrato i computer per acquisire le mail, i protocolli, i contratti di assicurazione. Venerdì la giovane volontaria ha pubblicato un post di ringraziamento ai musulmani d’Italia che le hanno espresso solidarietà con un video dove si alternano le persone che le danno il bentornata. «As-Salamu Alaikum wa rahmatullahi a tutti voi che Allah vi benedica per tutto questo affetto che mi state dimostrando. Grazie a Dio, grazie grazie! È bellissimo questo video, è un’emozione grande. Ciao fratelli! A presto In sha’ Allah!».

Francesco Battistini per corriere.it il 12 maggio 2020. Si chiama Karen Blixen, ma ha poco dell’esotismo africano che incantò la scrittrice danese: è la pizzeria degli italiani a Malindi, il ritrovo d’expat e di pettegolezzi. Ventilatori sospesi, wi-fi a manetta, spaghetti all’aragosta. Per mesi è stato anche l’ultimo deposito dello zainetto di Silvia Romano. Poche cose lasciate lì, qualche sera prima di partire per Chakama e per il suo destino di rapita. Come le altre volontarie dell’onlus Africa Milele, la ragazza spesso passava dal Karen Blixen a vedere qualcuno. «Le chiamavamo le ragazze con la valigia», dice un assicuratore veneto in pensione: «Atterravano dall’Italia con queste borse piene di medicinali e di latte in polvere da portare a Chakama. Facevano un po’ da postine. Perché lavoravano per un’organizzazione piccola e, insomma, dovevano arrangiarsi…». Arrangiarsi, la parola giusta. Africa Milele e la sua fondatrice, Lilian Sora, 42 anni, fanese di Falcineto Castracane, così sono sempre state percepite nel mondo del volontariato. Ultime arrivate, poco conosciute, un filo improvvisate. Anche un po’ troppo sorde ai consigli di chi già lavorava da anni in Kenya e predicava prudenza, nell’adozione di misure di sicurezza e nella scelta dei collaboratori: «Io per esempio smisi nel 2013 d’accettare volontari, perché sono pericolosi», fu il commento a caldo di Popi Fabrizio, dopo il sequestro. Lui è un ex discografico che collaborava con Renato Zero e che a Chakama aveva aperto una fattoria solidale, prima d’avere discussioni proprio con Lilian Sora e d’andarsene. Esiste una responsabilità di chi manda questi ragazzi e una tendenza di molti volontari a mettersi nei guai, è sempre stato il pensiero di Fabrizio. Perché sono «pericolosi per la loro leggerezza, per la loro ingenuità, per la mancanza assoluta di rispetto delle regole del Paese che li ospita, per l’esagerato amore nei confronti dei bambini, solo perché sono scalzi, sporchi, affamati e fanno tanta tenerezza. Pensano a una bella vacanza, pensano alla novità, pensano alle foto, ai milioni di video che poi di sera postano sui social. Pensano di essere immuni da tutto e quasi ogni giorno, senza saperlo, rischiano grosso. Sono pericolosi e controproducenti, anche se apprezzo il loro grande impegno, che riconosco spontaneo e genuino». Spontanea e genuina, la figlia diciannovenne coinvolta, la bambina di tre anni e due cagnolini a trotterellarle intorno, Lilian in questi anni ha messo tutta se stessa nel progetto africano. «Devo dire che s’è data molto da fare», le riconosce un’elegante signora romana che da quindici anni frequenta Malindi e che per un po’ aveva collaborato con Africa Milele: «Anch’io ho portato queste famose valigie. Poi ho smesso. A un certo punto — ride —, qualcuno malignava che assieme agli aiuti servissero a trasportare anche qualche prosciutto…». Cattiverie della comunità italiana, probabilmente, che un po’ sospettosa soprannominava «la Sora Lella» quest’esuberante marchigiana piombata dal nulla in vacanza a fine anni Zero, ancora con l’ex marito italiano, e poi folgorata dal Kenya e dall’amore per un masai, Joseph, messo subito a capo della missione a Chakama. Il progetto d’un orfanotrofio, l’educazione dei piccoli, la raccolta di cibo, il sostegno a distanza, le bomboniere solidali. «Lilian ha aiutato decine di bambini — racconta l’ex volontaria romana —. Una volta ne ho incontrato uno in Italia, che aveva portato per curarsi: felice, ben accudito, amato…». Proprio quest’entusiasmo di Lilian aveva forse attratto Silvia, giunta via Facebook pochi mesi prima del sequestro e dopo un’esperienza con un’altra onlus, la Orphan’s Dream. Senza troppa attenzione ad alcune possibili leggerezze organizzative, come ipotizzano i Ros che in questi mesi hanno ascoltato più volte «la Sora Lella» e hanno riscontrato, per esempio, come Silvia fosse in Kenya senza nemmeno uno straccio d’assicurazione per le malattie e gli infortuni («non c’era stato ancora il tempo materiale di fare la polizza», la spiegazione). La mamma della volontaria milanese non vuole più sentir parlare di Lilian Sora, «da mo’», e la famiglia Romano ha chiesto alla Farnesina di fare qualcosa contro questa onlus che ha mandato «allo sbaraglio» la figlia, lasciandola sola nella savana la notte del sequestro. Lei, Lilian, ha tentato in mille modi e inutilmente di parlare con l’appartamento di via Casoretto: si difende, spiegando che Silvia era rimasta in compagnia di Joseph e d’un altro masai fino al giorno prima, che solo un contrattempo aveva creato quelle ore di buco organizzativo, d’abbandono solitario, in cui s’erano infilati rapidamente gli otto banditi. Ora Lilian dice d’avere fatto indagini sue sul sequestro, scoprendo dettagli come l’alloggio dei sequestratori a Chakama, peraltro ampiamente descritto sui giornali a suo tempo. Sostiene d’essere sicura su chi abbia «incastrato» Silvia, senza però fare nomi. Tempo fa, raccontò in tv d’un keniano che mandava richieste di riscatto e alludeva a un misterioso italiano — mai identificato — come organizzatore della truffa. L’ultimo compleanno della ragazza, a settembre, Lilian aveva fatto gli auguri da lontano e accennato alle difficoltà nate dal sequestro: «Nonostante l’amarezza, non abbiamo mai smesso di lavorare, in silenzio, con lo stesso impegno e la coerenza di sempre». Il giorno del rilascio, dopo tanto silenzio, è ricomparsa sul suo sito con due parole in maiuscolo: «LA GIOIA». Nessuno dalla famiglia ha condiviso con lei tanta contentezza. I suoi progetti si sono fermati, i donatori si sono eclissati, la scuoletta di Chakama è semichiusa. Il ricordo della sua Africa Milele, Africa per sempre, resterà per sempre legato a questa brutta storia.

Estratto dell’articolo di Paolo G. Brera per “la Repubblica” il 12 maggio 2020.  «Certo che so chi ha tradito Silvia», sorride amaro Lilian Sora, fondatrice della Onlus Africa Milele con cui collaborava Silvia Romano: «Ma l' ho detto a familiari e inquirenti e basta. Ho fatto le mie indagini, non per cercare di liberare Silvia ma per capire cosa fosse successo. E penso di averlo scoperto». (…) La sicurezza, sostiene Lilian, a Chakama c' era: «Lo so, ci hanno buttato addosso tanto fango ma la protagonista ora è Silvia e risponderà lei, sono sicura». Ma ora Silvia è libera, e i familiari hanno preso le distanze dalla Onlus. «Davvero? Per tramite dei volontari mi sono arrivate parole carine, da parte di Silvia. (…) Dovremo assolutamente parlare, in questo anno e mezzo anche io mi sono avvicinata all' Islam. Suo papà non l'ho mai conosciuto, sono separati e io parlavo con la mamma, che non sapeva neppure dove si trovasse esattamente sua figlia in Kenya. (…) Non avevamo i numeri l' una dell' altra, evidentemente Silvia non lo riteneva necessario... strano no? Se stavo zitta per rispettare il loro dolore dicevano che me ne infischiavo, se parlavo di Silvia mi dicevano di rispettare il silenzio per le indagini». «il villaggio era tranquillo, non ci saremmo mai aspettati quello che è successo. Al massimo poteva passare qualcuno con troppo liquore di cocco in corpo, niente più, e ci pensava il masai ». «Possono avere solo il machete, la legge vieta le armi da fuoco». Mai una minaccia, dagli islamisti? «Nel villaggio sono quasi tutti anglicani, la prima moschea è nata un anno fa e ha successo solo perché dà da mangiare». (…)

Quarta Repubblica, Guido Bertolaso su Silvia Romano: "18 mesi di rapimento? Non può essere un caso". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. A Quarta Repubblica di Nicola Porro, in onda su Rete 4 lunedì 11 maggio, tiene banco il rapimento e il rilascio di Silvia Romano. A parlarne anche Guido Bertolaso, presente in collegamento, che punta il dito contro onlus e ong che mandano ragazzi allo sbaraglio in territori pericolosi, come l'Africa: "I cooperanti italiani devono andare con organizzazioni serie e strutturate, che mai manderebbero ragazzi allo sbaraglio. Facciamo un'analisi seria su quelle organizzazioni che mandano questi ragazzi in situazioni a rischio", premette l'ex capo della protezione civile, ora impegnato nella battaglia al coronavirus. Dunque, riferendosi ai terroristi islamici di Al Shabaab, aggiunge: "Non ci possono essere assoluzioni verso questi criminali, sono professionisti del terrorismo e non credo che sia stato casuale che abbiano tenuto questa povera ragazza per 18 mesi". Insomma, un tempo che potrebbe essere necessario e sufficiente per far tornare Silvia da convertita, col nome di Aisha.

Dritto e Rovescio, Pietro Senaldi su Silvia Romano: "Nessun grazie all'Italia, ci ha parlato dei carcerieri". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. La furia di Pietro Senaldi a Dritto e Rovescio sul caso di Silvia Romano. Nella puntata in onda su Rete 4 giovedì 14 maggio, il direttore di Libero parla della liberazione della ragazza, rimarcando come sia mancato un "grazie all'Italia" che la ha liberata. "Non c'è bisogno di essere islamofobi per amareggiarsi della vicenda di Silvia - premette il direttore -. Abbiamo pagato un sacco di soldi per questa ragazza, per averla qui con noi. E le sue prime parole sono servite a tranquillizzarci del fatto che i carcerieri la hanno trattata bene, anziché dire grazie Italia che hai pagato il riscatto", conclude Pietro Senaldi.

Pietro Senaldi, rissa con Karima Moual a Dritto e rovescio: "Silvia Romano ha ringraziato i carcerieri e non l'Italia". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Durissimo scontro in diretta tra Pietro Senaldi e Karima Moual a Dritto e rovescio. "Non c'è bisogno di essere islamofobi per stupirsi e amareggiarsi per la vicenda di Silvia Romano - spiega il direttore di Libero in collegamento con Paolo Del Debbio -. Noi abbiamo pagato un sacco di soldi per questa ragazza. Le sue parole appena arrivata qui, forse perché scossa, ha detto che i carcerieri l'hanno trattata bene anziché dire grazie Italia, viva l'Italia". "Ma sarà libera di esternare quello che vuole, questa ragazza?", lo interrompe la giornalista italo-marocchina, esperta di Islam e questioni mediorientali. E Senaldi, impossibilitato a concludere il suo ragionamento, sbotta: "Mi scusi? Mi scusi? E va bene, ha ragione lei, hanno ragione i terroristi...". 

Quarta Repubblica, Alessandro Sallusti contro Silvia Romano: "Nemmeno una parola di critica contro i carcerieri". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Non fa sconti, non arretra di un millimetro, Alessandro Sallusti sul caso di Silvia Romano, una vicenda sulla quale continua ad usare toni molto critici e duri. Non arretra neppure a Quarta Repubblica, la trasmissione di Nicola Porro in onda su Rete 4, nella puntata di lunedì 11 maggio. Il direttore, infatti, attacca: "Qui ai terroristi non gliene frega niente di nessuno, per la cultura italiana una vita umana non ha prezzo, bisognerebbe fare una legge che impedisca a persone di andare in posti a rischio". Insomma, dito puntato contro onlus e ong e contro chi commette scelte imprudenti. Poi, però, un'accusa diretta alla giovane cooperante milanese, a quella Silvia che ora si fa chiamare Aisha: "Mi ha colpito che non ha avuto una parola di critica per i suoi sequestratori", ha aggiunto Sallusti. Certo, non si conoscono ancora le circostanze, l'accordo per il rilascio e soprattutto le condizioni psicologiche di Silvia. Ma quel silenzio, quelle parole mancate, per ora stanno lì, restano e si fanno notare.

C. Gu. per “il Messaggero” il 12 maggio 2020. Fissare le regole, non cadere nella trappola dei facili entusiasmi. «Ogni volta che un ragazzo vuole entrare nel nostro gruppo, prima di tutto gli diciamo: Se ne parla tra un mese, ripresentati con le tue motivazioni. Trascorso un mese, non tutti coloro che parevano così determinati a unirsi a noi ritornano». Ernesto Olivero ha ottant'anni e con la stessa forza di quando cominciò l'avventura guida il Sermig, il Servizio missionario giovani fondato a Torino nel 1964 con la moglie Maria. Oggi l'Arsenale della Pace è il cuore di una realtà di solidarietà presente in ogni angolo del mondo, 3.420 progetti di sviluppo in cinque continenti dal Libano al Brasile, dall'Iraq al Rwanda, dalla Georgia al Bangladesh. Oltre settanta le missioni di pace condotte nelle zone più calde, che sono valse a Olivero la candidatura al Nobel per la pace da parte di Madre Teresa di Calcutta.

L'esperienza internazionale in territori difficili non vi manca. Che errori ha commesso chi ha mandato Silvia Romano in Kenya?

«Cominciamo dai candidati. Chi torna da noi dopo un mese con motivazioni solide, viene accolto per una prova trimestrale. È essenziale che chi è in difficoltà si raffronti con persone equilibrate. Perciò dopo la prova lo rimandiamo a casa e gli diciamo Torna tra un mese. Ci vogliono sei, sette anni per entrare e far parte del gruppo e intraprendere missioni all'estero. Del resto, se si vuole diventare geometra quanti anni si studia? Per diventare volontario servono equilibrio e saggezza. Inoltre è un impegno che può durare tutta la vita, perciò chi vi si dedica deve trovare motivazioni nuove ogni giorno. E infatti i nostri volontari hanno periodici momenti di confronto e di approfondimento, è un lavoro che richiede dedizione e non consente mai cali di attenzione».

E soprattutto che non si improvvisa.

«Mai, questo bisogna tenerlo sempre ben presente. Quando ci hanno chiesto di andare in Giordania e in Brasile, la prima cosa che ho fatto è stata partire per conto mio. Sono andato a studiare il territorio, conoscere la gente, capire a fondo la realtà. Siamo andati dapprima in modo riservato, per approfondire le abitudini di questi Paesi e chiarirci le idee su cosa avremmo potuto fare. Quando l'abbiamo capito, abbiamo accettato l'incarico. Oggi a San Paolo accogliamo ogni giorno quasi 2.000 persone, in Giordania abbiamo una casa per decine di bambini disabili, sia cristiani che musulmani. Abbiamo sperimentato che l'umanità e la sofferenza dei piccoli sono il banco di prova per coltivare amore, rispetto, aiuto reciproco. Il mondo arabo è molto più complicato, all'inizio siamo stati rifiutati. Noi abbiamo portato ragazze giovani, per dimostrare che uomo e donna hanno le stesse possibilità di comandare. Ma prima hanno imparato l'arabo. Non vai in un Paese di cui non conosci la lingua».

Altre condizioni?

«Non mandiamo una persona da sola e dobbiamo avere un punto di riferimento sul posto. Anche noi ci siamo trovati in situazioni molto difficili, i nostri volontari però non erano mai soli. Ogni giorno si può sbagliare, serve sempre qualcuno accanto. Ancora, entusiasmo è una parola terribile, noi vogliamo la convinzione: è ciò che ti fa capire davvero che situazioni stai vivendo. Ai nostri volontari, per prima cosa, non facciamo incontrare le persone disagiate. Devono fare le pulizie, mettere in ordine le nostre case. Un passo alla volta».

Il pagamento del riscatto, nel rapimento dei volontari, è un tema che divide.

«Non mi permetto di giudicare. Dico solo che se si entra in un meccanismo che non si può dominare, serve saggezza. Se non sono in grado di gestire una situazione, sto bene attento a non infilarmici. Ci sono dolori, sofferenze di mezzo. Ora la polemica non serve a niente».

LA CONVERSIONE.

Silvia Aisha Romano: “Il velo è simbolo di libertà”. Il Dubbio il 6 luglio 2020. Silvia Romano, la volontaria milanese rapita in Kenya e liberata lo scorso maggio raccontata i mesi della prigionia e la sua conversione all’Islam: “Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”. “Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”. Con queste parole Silvia Aisha Romano, la volontaria milanese rapita in Kenya e liberata lo scorso maggio dopo un anno e mezzo di prigionia, ha raccontato per la prima volta in una intervista i mesi della prigionia e la sua conversione all’Islam al giornale online “La Luce”, di cui è direttore Davide Piccardo esponente della comunità islamica di Milano. “Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio”, ha spiegato Silvia Aisha Romano: “Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’ATM c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa viva”E sul rapimento: E sulla sua partenza come volontaria racconta: “Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”. L’idea che avevo dell’Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere”.

Il racconto del rapimento. “Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso?”, racconta Silvia Aisha Romano. E poi: “Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso”.

La conversione. “Il passaggio successivo – spiega Silvia – è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno. Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso.”

Silvia Romano: "Ecco come sono diventata Aisha. Il velo è per me simbolo di libertà". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Zita Dazzi. "Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l'arabo, vivevo nella paura dell'incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come...". Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel novembre 2018 e rimasta prigioniera dei terroristi in Somalia per un anno e mezzo, parla per la prima volta a quasi due mesi dal rilascio. La ragazza, che ora si trova fuori Milano per un periodo di riposo, ha parlato con Davide Piccardo, direttore del giornale online "la Luce", già portavoce del coordinamento delle moschee di Milano e della Brianza, esponente di spicco della comunità islamica lombarda, a cui Silvia si è avvicinata dal giorno del suo ritorno a Milano. Silvia frequenta la moschea di Cascina Gobba e le associazioni ad essa legate. Al centro del colloquio con Piccardo soprattutto i temi spirituali e legati alla conversione all'Islam maturata durante la prigionia in Somalia. La cooperante spiega che prima della partenza e prima ancora del rapimento era "completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male ... quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore. Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando - appunto - mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri".

Silvia Romano spiega anche la sua scelta di indossare il velo islamico: "Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un'imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C'è qualcosa di molto sbagliato se l'unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale". Oggi Silvia che è stata oggetto di una violenta campagna di odio social per la sua conversione, spiega di sentirsi "gli occhi della gente addosso: non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio". La scelta del nome Aisha, come oggi Silvia si fa chiamare, deriva da qui: "Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell'Atm c'era scritto Aisha e poi è un nome che significa "viva".  Dopo il rapimento nel piccolo villaggio di Chakama in Kenya dove si trovava per un periodo di volontariato per conto dell'associazione Miele, Silvia Romano racconta di aver cambiato idea sulla religione e di aver chiesto ai suoi carcerieri un Corano per poter leggere e ingannare il tempo. "Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab!", dice, riferendosi al gruppo terroristico che l'ha tenuta prigioniera. "Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell'esistenza di Dio", racconta la giovane.

Altri dettagli sul periodo passato in prigionia li racconta quando spiega da dove ha avuto origine la sua conversione: "Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; gli chiedevo un'altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui". Silvia Romano, come già aveva fatto subito dopo la liberazione, ascoltata dai pm che indagano sul suo rapimento, conferma di non essere stata obbligata né plagiata dai suoi aguzzini, ma di esser diventata musulmana per libera scelta. Di qui la decisione di mostrarsi al suo rientro a Ciampino il 9 maggio scorso indossando la veste tradizionale delle donne musulmane, con un velo verde, il colore dell'Islam. Silvia spiega che la scelta di partire per l'Africa è maturata dopo il "terzo ed ultimo anno di università" e che facendo la tesi si interessò "moltissimo all'argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie. Sono sempre stata compassionevole, molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate, ho sempre sentito molta empatia, ma il passo successivo, quello di agire davvero, di rendermi utile all'altro con l'azione l'ho fatto solo alla fine dell'università. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l'altro nel concreto. L'idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un'esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri". Silvia nata a cresciuta al Casoretto, parla anche della zona di via Padova a Milano, il quartiere multietnico dove in tanti l'hanno aspettata pregando e organizzando manifestazioni per chiedere la liberazione. E parla della sua famiglia che in queste settimane l'ha protetta dall'aggressione dei social: "Mio padre e mia madre sono sempre stati aperti mentalmente, tolleranti, non hanno mai discriminato e io ho sempre avuto amici di provenienze diverse. I miei genitori mi hanno sempre insegnato a considerare il diverso come un arricchimento, con mia mamma ho sempre viaggiato tantissimo. Ogni estate andavamo in un paese diverso, dal Marocco alla Repubblica Dominicana, all'Egitto, a Capo Verde".

Spiega che all'inizio era diffidente verso i musulmani: "L'idea che avevo dell'Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l'oppressione della donna da parte dell'uomo". La conversione non era maturata in Kenya durante la sua missione da cooperante: "C'era una moschea, c'erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì. C'erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c'era proprio interesse da parte mia". Il primo campanello verso l'Islam è suonato, spiega Silvia Romano, "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un'altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali". Il passaggio successivo sarebbe avvenuto durante la lunga marcia verso la Somalia: "Quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui".

Silvia Romano, la confessione sul velo: "Pensavo poverine, invece è un simbolo di libertà". Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. Silvia Romano ha rilasciato la prima intervista dal rapimento, dalla sua conversione all’Islam e dalla conseguente liberazione. E lo ha fatto al sito La Luce, in cui ha spiegato la scelta di andare volontaria in Africa, l’avvicinamento alla fede e soprattutto il modo in cui ha cambiato il suo pregiudizio sulle donne con il velo. “Per me è un simbolo di libertà - ha dichiarato la cooperante milanese - perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”. La Romano ha ammesso di sentire gli occhi della gente addosso quando esce di casa: “Non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo. In metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio, sento la mia anima libera e protetta da Dio”. Poi la riflessione sull’Islam, che ha scoperto diverso da quello che pensava: “Quando vedevo le donne col velo in via Padova avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società. Pensavo poverine, per me quelle donne erano oppresse. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere”. 

Ida Artiaco per fanpage.it il 6 luglio 2020. Sono passati quasi due mesi da quando Silvia Romano è stata liberata ed è tornata in Italia. Era il 9 maggio scorso quando il premier, Giuseppe Conte, rivelò che la cooperante milanese, rapita nel novembre del 2018 mentre si trovava in Kenya con l'associazione Africa Milele, e tenuta prigioniera per oltre un anno e mezzo in Somalia, stava bene e che poteva rientrare a casa e riabbracciare i suoi genitori. Oggi, Silvia, che intanto si è convertita all'Islam e si fa chiamare Aisha, ha raccontato per la prima volta i mesi della prigionia e la decisione di diventare musulmana. Lo ha fatto rilasciando una lunga intervista al giornale online La Luce, di cui è direttore Davide Piccardo esponente della comunità islamica di Milano.

La decisione di partire per il Kenya. "Prima di essere rapita – ha dichiarato la ragazza – ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male". E neppure il volontariato era tra le sue priorità: "Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato. Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri". Così è nata l'idea di andare in Kenya. Un'esperienza che le ha letteralmente cambiato la vita. "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso o qualcuno lo ha deciso? – ha continuato Silvia -. Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali".

È così che ha cominciato un percorso di avvicinamento alla religione: "Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia. Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Poi a un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno".

Il velo come simbolo di libertà: "Mi sento protetta da Dio". Infine, ha concluso la giovane milanese: "Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere". Sulla questione velo, che ha indossato sin dal suo ritorno in Italia a maggio, ha detto: "Per me il velo è simbolo di libertà. Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio".

Davide Piccardo per laluce.news il 6 luglio 2020. Incontro Aisha Silvia Romano in zona Via Padova a Milano, non faccio in tempo a salutarla che una signora egiziana la riconosce: “sei Silvia?” le chiede. Per discrezione non mi avvicino e quindi non sento molto di ciò che si dicono in quei pochi secondi, vedo solo che dagli occhi della signora scendono due lacrime di commozione.  Aisha Silvia sorride e si salutano. Inizia così la nostra intervista».

Prima della partenza e prima ancora del rapimento, che visione avevi della religione?

«Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male … quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore. Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando – appunto – mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri».

Però avevi già un’etica?

«Per me il giusto, prima, era semplicemente fare ciò che mi faceva sentire bene; non avevo un criterio diverso relativamente a ciò che fosse giusto e sbagliato; il bene per me corrispondeva a ciò che mi faceva sentire bene. In realtà ora capisco che mi illudevo mi facesse stare bene».

Hai sempre avuto uno slancio verso i più deboli, una spinta che ti faceva agire per rimediare all’ingiustizia o avevi più un moto di pietà? Cosa ti ha spinto a partire?

«Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, poco prima della mia tesi di laurea, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato. Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie».

Sei diventata più empatica in quel momento?

«Sono sempre stata compassionevole, molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate, ho sempre sentito molta empatia, ma il passo successivo, quello di agire davvero, di rendermi utile all’altro con l’azione l’ho fatto solo alla fine dell’università. Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri».

Sei cresciuta in un quartiere multietnico, come si poneva la tua famiglia di fronte a questa realtà?

«Sono cresciuta in un ambiente multietnico, il contesto del Parco Trotter dove sono andata a scuola e di Via Padova. Mio padre e mia madre sono sempre stati aperti mentalmente, tolleranti, non hanno mai discriminato e io ho sempre avuto amici di provenienze diverse. I miei genitori mi hanno sempre insegnato a considerare il diverso come un arricchimento, con mia mamma ho sempre viaggiato tantissimo. Ogni estate andavamo in un paese diverso, dal Marocco alla Repubblica Dominicana, all’Egitto, a Capo Verde».

Quindi i musulmani li avevi già conosciuti?

«Sì, ma l’idea che avevo dell’Islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente. Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo»

Quindi Silvia Romano avrebbe potuto essere una fra i tanti islamofobi?

«Io non avevo paura del diverso e nemmeno ostilità, ma quel pregiudizio negativo c’era. Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l’Islam, pensa queste cose.  All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere. Vivi a contatto,  ti fai un’idea ma non vai mai a porre una domanda direttamente alle persone, nonostante siano vicine a te.

A Chakama, il villaggio in Kenya dove facevi volontariato, c’erano dei musulmani?

«Sì, c’era una moschea, c’erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì». C’erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c’era proprio interesse da parte mia.

Quando è suonato il primo campanello rispetto a Dio? C’è stato un momento in cui hai sentito qualcosa? Un pensiero che ti ha aperto un varco nella coscienza, nel cuore?

«Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla».

Farti questa domanda era un modo per sentirti meglio?

«No, più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c’era e ci dovevo arrivare. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso. Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui. Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione,  da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui».

Le persone che ti tenevano prigioniera, per quanto possano essere state gentili con te, stavano commettendo un’ingiustizia nei tuoi confronti; la loro azione è illegittima quindi non è facile comprendere come si possa abbracciare la fede di quanti ti stanno facendo un simile torto.

«Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab! Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell’esistenza di Dio. A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno.

Chiedevi forza per resistere in quella situazione?

Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come…»

Qual è stato tuo rapporto con il Corano?

«La prima volta ci misi due mesi a leggere il Corano, mentre la seconda mi fermavo a riflettere più seriamente e sentivo sempre più il bisogno di leggerlo, fino a quando ho abbracciato l’Islam. Di fronte a molti versetti avevo la sensazione che Dio si rivolgesse a me, mi colpivano al cuore. Avevo anche letto alcuni versi della Bibbia e appreso i punti in comune del Cristianesimo e dell’Islam. In definitiva, il Corano mi era parso un testo sacro con dei principi chiari che guidavano verso il bene».

C’è qualche surah a cui sei particolarmente affezionata?

«Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso.” Imparai anche la prima surah del Corano, al Fatihah, e iniziai a pregare pur non sapendo come pregare. Un altro versetto che mi colpì molto fu:“Come potete essere ingrati nei confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato la vita? Poi vi farà morire e vi riporterà alla vita e poi a Lui sarete ricondotti.” Corano 2/28. E anche: “Se Dio vi sostiene, nessuno vi può sconfiggere. Se vi abbandona, chi vi potrà aiutare? Confidino in Dio i credenti.” Corano 3/160. Nella mia condizione leggevo questi versetti e li sentivo come rivolti direttamente a me».

Quando sei diventata musulmana ed hai iniziato a pregare, che atteggiamento avevi verso il tuo destino? Pensavi che sarebbe comunque andata bene? Eri pronta ad accettare qualsiasi cosa?

«La fede ha diversi gradi e la mia si è sviluppata con il tempo. Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere. Più aumentava la mia fede e più – quando ero triste – chiedevo a Dio la pazienza e la forza, chiedevo a Dio che rafforzasse ulteriormente la mia fede»

Ti sei posta il problema di ritrovarti una persona diversa, di aver accettato qualcosa fino a prima estraneo a te e di aver fatto una scelta che avrebbe modificato radicalmente la tua vita?

«Prima di accettare l’Islam avevo avuto delle fasi in cui avevo intuito che l’Islam fosse la strada giusta. In un momento in particolare credevo di esser convinta di poter accettare la religione, ma mi fermò la paura delle reazioni degli altri. Ho pregato tantissime volte Dio affinché rafforzasse la mia fede per quello a cui sarei andata incontro, che rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto».

Quindi eri consapevole di questa ostilità?

«Sì, certo. Avevo sviluppato la consapevolezza attraverso lo studio della vita del Profeta Muhammad, la vita dei suoi Compagni e me n’ero già fatta un’idea».

I musulmani sin dall’inizio dell’Islam sono stati perseguitati. Perché, secondo te?

Perché l’Islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo. Molte delle reazioni negative nei tuoi confronti nascono fondamentalmente da questo pensiero: questa ragazza era libera di andare dove voleva di fare quello che voleva, stare con chi voleva vestirsi come voleva e va a scegliersi una condizione in cui è meno libera, è sottomessa, è considerata inferiore rispetto all’uomo … com’è possibile? Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti».

C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo.

«Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale».

Ora ti senti meno libera di fare le cose, di muoverti, di lavorare, di incontrare le persone, di girare?

«Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio».

La scelta del nome com’è avvenuta?

«Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’ATM c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa “viva”».

In cosa ti senti una persona migliore oggi?

«Oggi sono molto più paziente, sono molto più rispettosa nei confronti dei miei genitori, mentre talvolta, nel passato, non lo ero stata; mi sento più generosa e molto più compassionevole perché quando qualcuno mi fa un torto, quando qualcuno sbaglia nei miei confronti, anche di fronte  ad offese e contrasti, sento il mio cuore completamente privo di rancore, di rabbia. Non mi viene da rispondere con le stesse offese ma cerco sempre il motivo per comprendere quella persona, penso che quella persona faccia così perché soffre e quindi io la posso e la devo aiutare».

Rispetto alla comunità islamica, invece, che aspettative avevi?

«Non vedevo l’ora di conoscere i musulmani, ma pensavo che sarebbe stato difficile. La mia idea era di andare in Via Padova, entrare in qualche negozio o in qualche  macelleria islamica e dire: “Assalamu aleikum”. Non avevo ancora la consapevolezza di essere così tanto conosciuta; pensavo di dover passare la festa di Ramadan da sola. Invece ho ricevuto regali, moltissime lettere e il video pubblicato su La Luce dove c’erano tantissimi musulmani da tutta Italia mi sono sentita sconvolta dalla felicità».

Cosa ti ha colpito della comunità?

«Innanzitutto non mi aspettavo che ci fossero tutti questi italiani musulmani; mi immaginavo di entrare in contatto subito con egiziani, marocchini, africani musulmani… invece, prima degli arabi ho conosciuto gli italiani musulmani ed è stata una sorpresa enorme. Mi ha colpito la fratellanza nei miei confronti da parte di tutti i musulmani qua a Milano, e non solo a Milano; la solidarietà e l’affetto mi hanno fatto sentire parte di una seconda famiglia. Poi ho scoperto una realtà di cui non avevo minimamente idea, fattà di tantissime associazioni della comunità musulmana di Milano, e non solo, che ogni giorno si impegnano nell’aiutare i più deboli, i più vulnerabili, le vittime delle ingiustizie; in particolare mi è piaciuto molto il Progetto Aisha che si occupa di donne, tutte queste iniziative hanno accresciuto in me la voglia di partecipare»

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 7 luglio 2020. La scelta delle parole dice tutto. Nella prima lunga intervista rilasciata da Silvia Romano (anzi Aisha, come si fa chiamare ora) dopo il sequestro in Kenya, non compare mai una volta il termine «terroristi». L'unico riferimento ai jihadisti sanguinari di Al Shabaab che l'hanno tenuta prigioniera è estremamente blando, e ha uno scopo preciso: dimostrare che l'islam non ha nulla a che fare con i guerriglieri. «Il Corano non è la parola di Al Shabaab!», dice la Romano, e le cosa finisce lì. Niente critiche all'islam radicale, niente riprovazione per i macellai. Non stupisce. Silvia Aisha ha deciso di confidarsi con La Luce, ovvero il giornale online creato da Davide Piccardo, uno dei pezzi grossi dell'islam milanese, già noto per essere il volto del Caim. Non appena la ex cooperante è rientrata in Italia, la galassia islamica più o meno direttamente legata alla Turchia l'ha subito trasformata in un simbolo. E, a quanto pare, Silvia si trova piuttosto bene nelle vesti di propagandista. Se da un lato è avara di parole sui suoi rapitori e sul volto violento dei fedeli di Allah, dall'altro appare ben contenta di dilungarsi sulle gioie che l'islam ha portato nella sua vita. L'illuminazione, racconta, si è verificata in prigione: «Lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui». A un certo punto, durante la reclusione, è avvenuto il cambiamento: «Sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell'esistenza di Dio. Ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno». Ora, se Silvia si limitasse a dipingere le bellezze della sua nuova fede, poco male: libera la ragazza di convertirsi al credo che le pare, anzi è apprezzabile che qualcuno si dedichi alle questioni dello spirito in questi tempi aridi. Il problema è che la ritrovata Aisha - così compassionevole verso i terroristi che l'hanno sequestrata - non è altrettanto dolce nei confronti dell'Italia e degli italiani, che fino a prova contraria hanno speso soldi, tempo ed energie per salvarle la pelle. La fanciulla spiega quale fosse il suo atteggiamento verso i musulmani prima del sequestro. «L'idea che avevo dell'islam era quella che in molti purtroppo hanno quando non ne sanno niente», dice. «Quando vedevo le donne col velo in via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l'oppressione della donna da parte dell'uomo». Il messaggio è chiaro: gli italiani non sanno nulla dell'islam e sono pieni di pregiudizi. Non per nulla, l'intervistatore Davide Piccardo incalza: «Quindi Silvia Romano avrebbe potuto essere una fra i tanti islamofobi?». E lei lesta risponde: «Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l'islam, pensa queste cose. All'epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l'islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere».

Ecco la prima lezione: in Italia esiste una islamofobia strisciante. Tanto che la Romano, al momento di abbracciare definitivamente la nuova fede, ha vacillato: «Mi fermò la paura delle reazioni degli altri. Ho pregato tantissime volte Dio affinché [...] rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto».

Di nuovo, Piccardo le domanda: «Quindi eri consapevole di questa ostilità?». Risposta: «Sì, certo. [...] I musulmani sin dall'inizio dell'islam sono stati perseguitati. Perché l'islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo». Beh, talvolta sono i musulmani a perseguitare gli altri, ma questo a Silvia non sembra interessare. Meglio dare un'altra lezioncina agli italiani, in particolare alle donne: «Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme», spiega.  «Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un'imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C'è qualcosa di molto sbagliato se l'unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. [...] Il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale». Forse la Romano ignora l'esistenza di donne che non hanno bisogno di indossare una tunica per essere libere: possono scoprirsi il capo e il corpo senza risultare delle poco di buono. A quanto ci risulta, poi, la «mercificazione» non è un'esclusiva occidentale. È sgradevole da dire, ma la stessa Silvia è stata trattata come una merce: rapita e segregata per ottenere un riscatto. A farle questo non è stato qualche italiano islamofobo o qualche italiana di facili costumi. Sono stati dei signori che uccidono in nome di Allah e che con l'islam, piaccia o no, hanno molto a che fare.

L’intervista di Silvia “Aisha” Romano a Piccardo trasuda propaganda per l’Islam militante. Mirko Giordani il 6 luglio 2020 su Il Giornale. Lo dico sinceramente: a Silvia Romano non sembra una cima di intelligenza, tutt’altro, mi sembra non troppo sveglia e con il cervello ormai impinzato di stupidaggini molto probabilmente imparate sotto il periodo della prigionia. Oppure sotto ricatto dai suoi stessi rapitori, che forse la minacciano affinché continui con la propaganda stucchevole che ha iniziato non appena scesa da quell’aereo. In un passo di un’intervista che concede a Davide Piccardo, noto esponente dei Fratelli Musulmani (di cui fa parte anche Hamas, per farvi rendere conto di che soggetti sono questi qua). La Romano dice di “essere stata sempre compassionevole” nei confronti delle donne. E qui, la poca intelligenza della Romano, perché forse non se n’è mai accorta ma il velo è proprio una costrizione nei confronti della donna. Poi parla della sua vita in quartiere multietnico, dove Piccardo “sospetta” che Silvia Romano, senza il viaggio “salvifico” in Kenya, sarebbe potuta diventare come un qualsiasi islamofobo brutto e ignorante. Invece poi Silvia dice che l’idea dell’Islam che aveva era “quella che in molti hanno quando non ne sanno niente”. Invece lei giustamente per capire cosa fosse l’Islam e per innamorarsene follemente è dovuta andare in Kenya e finire rapite da, nientepocodimeno, Al Shabab, estremisti islamici sunniti proprio come Hamas, gli amichetti di Hamza Piccardo. E poi il climax, la frase che più mi ha fatto ridere e che disvela quanta propaganda stia facendo la Romano, o quanto poco sia intelligente. Durante la prigionia, ha detto la Romano a Piccardo, “più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia…Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in lui, perché ero anni luce lontana da lui.” E allora che fa la Romano: si converte alla religione dei suoi aguzzini, dicendo che “il Corano non è la parola di Al Shaabab”.

Silvia Romano non dia lezioni di libertà.  Andrea Indini il 7 luglio 2020 su Il Giornale. Parla di “ingiustizie”, Silvia Romano. Parla anche di abusi e soprusi. Ma dimentica alcuni passaggi nel farlo. Se oggi può raccontare la sua verità, che spazia dalla conversione all’islam alla decisione di indossare il velo, può farlo perché vive in una società libera: l’Occidente. Altrove, per esempio in una delle tante teocrazie ispirate alla legge coranica, un’intervista in cui si difendono i valori dell’Occidente non sarebbe affatto possibile. Per questo appaiono ipocriti i moralismi contro le donne, che scoprono il proprio corpo, o i piagnistei sui musulmani perseguitati. Nessuno contesta le scelte della Romano, la cooperante rapita in Kenya e tornata, dopo mesi di prigionia, convertita a quella stessa religione in nome della quale i suoi carcerieri ammazzano anime innocenti. Tuttavia le dichiarazioni, raccolte da Davide Piccardo sul sito La Luce, lasciano parecchi dubbi sulla sua onestà intellettuale. Nella lunga intervista Silvia, che ora si fa chiamare Aisha, denuncia più volte le ingiustizie subite dall’islam e i preconcetti che l’Occidente ha nei confronti dei musulmani. Eppure lei, che è “cresciuta in un ambiente multietnico”, nella periferia di Milano, dovrebbe sapere come stanno le cose. Soprattutto quando parla delle donne e della loro libertà. Dovrebbe sapere, per esempio, che per molte ragazzine l’orizzonte è un matrimonio combinato e che, qualora dovessero rifiutarsi, rischierebbe di pagare la propria emancipazione con la vita. Dovrebbe, poi, sapere che le violenze sulle giovani che si atteggiano “all’occidentale” sono all’ordine del giorno e che per molte di loro lo studio e la vita sociale sono del tutto preclusi. In uno studio pubblicato ormai qualche anno fa già si denunciava la “re-islamizzazione della comunità migrante”. Si tratta di una sorta di “forma di difesa dell’identità in un contesto culturale estraneo” che costringe le musulmane alla segregazione in casa. La maggior parte di loro non esce per lavorare, non impara l’italiano e può guardare soltanto programmi nella lingua del marito. Dov’è la libertà di cui tanto parla la Romano? In quello studio già si intuiva come la segregazione non solo miri a sottrarre mogli e figlie dagli sguardi di altri uomini, ma anche a impedire che queste di frequentino donne occidentali e vengono quindi considerate “pericolose e corrotte”. Per la Romano “il concetto di libertà è soggettivo e relativo”. Per me non lo è. Secondo Silvia la scelta di indossare il velo islamico ha a che fare con la libertà. Ed è vero. E questa sua scelta va difesa. Ma lo deve fare con la consapevolezza che molte musulmane non hanno la stessa libertà di decidere di non portarlo. Ci sarà sempre un padre, un fratello, un marito che imporranno con la forza quel fazzoletto di stoffa che le copre il viso. Non solo. Deve anche capire che la sua libertà finisce dove inizia quella delle altre ragazze. “C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo – sentenzia – per me il mio velo è un simbolo di libertà”. Poi conclude: “Per me la libertà è non mercificare, non venire considerata un oggetto sessuale”. E così cade inesorabilmente nell’ideologia radicale che acceca i musulmani. Un pensiero, poi, sulla conversione. Come ogni moto verso il divino, si entra in una sfera privata, che non può e non deve essere giudicata. Che in una situazione di difficoltà lei si sia avvicinata alla religione, non deve meravigliare. Chiunque lo avrebbe fatto. Che però abbia trovato nel Corano la giustificazione di quello che le stava accadendo, è quantomeno assurdo. “A un certo punto – racconta – ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno”. E a quel punto inizia ad aggrapparsi al versetto 70 della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso”. Va bene la misericordia. E pure il perdono. Ma è possibile che in tutta l’intervista non abbia trovato il coraggio di condannare i soprusi, le violenze, i sequestri e gli spargimenti di sangue compiuti dai musulmani proprio in nome di Allah? Infine, la sottomissione. L’islam è “sottomissione, abbandono, consegna totale (di sé a Dio)”. Da qui una domanda scomoda: la sottomissione totale dell’islam a Dio presuppone la libertà o è la sua negazione?

Silvia Romano, il commento di Renato Farina: ribalta la realtà, musulmani vittime e Occidente carnefice. Renato Farina su Libero Quotidiano il  07 luglio 2020. Silvia Aisha Romano, la ragazza milanese rapita in Kenia, dove cercava di far del bene come volontaria, trascinata in Somalia dai musulmani di Al Shaabab, quindi liberata per mano dei turchi, e giunta tra noi con l'uniforme di Al Shaabab, ha raccontato per la prima volta la sua conversione all'islam. Ci sono momenti in cui è impossibile non provare compassione per questa giovane donna in balia di un potere assoluto, ed allora supplica un Dio finora nascosto di rivelarsi, di dare un senso a quanto le sta capitando, di consolarla, di farle ritrovare i suoi cari. E tutto questo - accade. Si converte, trova la pace e il sorriso. Buon per lei, sul serio. C'è qualcosa però di angosciante, e che non è possibile tacere. Il rapimento infatti è trattato come un fatto provvidenziale per la sua conversione all'islam. C'è un giustificazionismo dell'orrore che arriva persino a farle sentire l'abominio da lei subito come un giusto castigo per la sua miscredenza. Il suo sequestro, l'annichilamento di lei come persona per un tempo infinito, è stata un'opera voluta da Allah per spingerla a ravvedersi. Nel momento decisivo Allah attraverso il Corano le avrebbe infatti rivelato che tramite gli Al Shaabab era prigioniera non di terroristi ma misticamente di Muhammad, il Profeta in persona. Racconta Silvia Aisha: «Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70 della surah al Anfal: "O Profeta, di' ai prigionieri che sono nelle vostre mani: - Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso"». Non è che lei perdona i rapitori, no, è lei ad essere perdonata, è lei che da, proprio in quanto prigioniera!, ottiene la misericordia si converte. Che razza di operazione di ribaltamento della realtà è questa? Il male è il male. L'unico qui che viene riconosciuto come tale dalla Romano consiste nella sua vita precedente in quanto tale, lei era incarnazione del peccato dell'Occidente. I cristiani? Mai nominati.

STRAGE DI CRISTIANI. La strage fatta dai suoi rapitori così gentili che hanno assassinato a sangue freddo 148 studenti universitari come lei, a Garissa, in Kenia, solo perché cristiani? Inesistenti. Ininfluenti. Accidenti che capitano agli infedeli? Invece dice: «I musulmani sin dall'inizio dell'islam sono stati perseguitati». Anche l'essere rapiti, l'essere privati della libertà in quanto "non musulmani", è parte di una giusta reazione alla persecuzione? Questo non è chiaro. Non è detto. Lei nomina una volta soltanto i terroristi, non per accusarli ma per dire: «Il Corano non è la parola di Al Shabaab!». Secondo me sottoscriverebbe anche Bin Laden. L'intervistatore Davide Piccardo non approva il rapimento, ci mancherebbe, neppure però - diciamo così - si strappa le vesti per il ratto di una ragazza sottoposta a una violenza atroce: parla delicatamente di «ingiustizia», «torto», «azione illegittima». Insomma, se volete leggerla tutta, l'intervista la trovate su internet, anche nella traduzione inglese, sotto la testata "La Luce - una voce che illumina". Noterete così che, con una simpatica incoerenza il sito ospita, proprio accanto alle parole durissime di Aisha Silvia contro i costumi occidentali che costringono le donne a mostrare «le loro forme», riducendole «a desiderio sessuale», una pubblicità di bikini a buon prezzo con modelle bene attrezzate allo scopo, e un'altra con il prezioso culetto di una ragazza reclamizzante «calze e collant a graduazione graduata», ma per fortuna nessuno è perfetto.

PICCARDO E I TURCHI. L'intervista-racconto è in realtà una clamorosa operazione di raffinata propaganda, perfettamente organizzata dall'autore, Davide Piccardo, spregiudicato e abile sostenitore dei Fratelli musulmani e "manus longa" degli interessi ideologici e strategici di Erdogan in Italia e nel mondo islamico, di cui il leader dei turchi vuole essere unico faro mondiale. Non ci stupisce a questo punto che siano stati i servizi di Ankara e di Doha - sostenitori dei Fratelli musulmani - a organizzare una liberazione molto serena. Piccardo è il direttore di laluce.news, punta mediatica del Caim (Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano) che è molto ben accreditato a sinistra. Le posizioni espresse da Piccardo (le ritrovate anche su Huffington.post), non c'entrano nulla, per intenderci, con le posizioni islamiche cosiddette moderate, tipo quella cui ha dato credito il Papa, il quale ha stretto rapporti di dialogo e collaborazione con il Grande Imam dell'università al-Azhar del Cairo, Ahmed al Tayeeb. Queste distinzioni dicono poco a chi - e non gliene facciamo una colpa - non ha nessuna intenzione di informarsi sulle diverse appartenenze musulmane e sulle inimicizie tra le scuole sunnite.

TARIQ RAMADAN. È forse utile sapere che al-Azhar propose la pena di morte per crocifissione dei miliziani dell'Isis (questi sono i costumi coranici, ahimè), sostiene Al Sisi, e considera terroristi buoni per la galera i locali sostenitori dei Fratelli musulmani. Tutte cose viste come fumo negli occhi da Piccardo. Il quale è allievo prediletto in Italia di Tariq Ramadan, l'intellettuale svizzero di origine egiziana che predica per vie morbide e sinuose la progressiva islamizzazione dell'Occidente. La tecnica è quella del revisionismo storico. Gli ultimi due articoli di "La Luce" sono espressione proprio di questo metodo. 1. La narrazione da Fioretti di San Francesco del terrorismo islamico, dove il lupo di Gubbio è la sciagurata ragazza che grazie a questo incontro con gli Al Shaabab si è redenta al modico prezzo di uno sciampo dell'anima. 2. La vera storia della famosa strage degli ebrei a Medina: tra i 600 e i 900 tra ragazzi e adulti furono decapitati (non tutti da lui, non era Ercole) dallo stesso Maometto. Che però si sostiene fu comunque molto misericordioso. P.S. Mi ero ripromesso di non disturbare più Silvia Aisha. Ha diritto alla sua pacifica privatezza. Ma quando si accetta di diventare testimonial di una propaganda menzognera, al di là della buona fede della Romano che nessuno può giudicare, allora ciao.

Quel velo islamico non è simbolo di libertà. Silvia Romano spiega la sua conversione. Un'altra Aisha ruppe l'imposizione del velo. Ora stiamo tornando indietro. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. L’immagine va ripescata nel portale storico della Presidenza della Repubblica. Venerdì 21 febbraio 1969. Al Quirinale ci sono Giuseppe Saragat e Sua Altezza Reale la Principessa del Marocco. Non servono i colori alle fotografie per notare un particolare che allora banale non era. La sovrana, neo ambasciatrice in Italia, non indossa alcun velo in testa. Né hijab, né burqa, né chador. Se ne era liberata pochi anni prima, nel 1947, quando aveva tenuto un discorso storico per il Marocco e per l’intero mondo femminile musulmano. Quando il padre Muhammad V andò a Tangeri a chiedere l’indipendenza dalla Francia, la figlia si presentò di fronte alla comunità musulmana conservatrice senza velo in testa e vestita come una moderna donna occidentale. Il suo discorso divenne iconico, ruppe gli schemi. Un messaggio di liberazione che il Time celebrò con la copertina sull’emancipazione delle donne musulmane. Quella principessa si chiamava Lalla Aisha. Raccontiamo questa storia perché, per chi crede nel destino, l’incrocio di nomi non può essere causale. Decine di anni dopo quel gesto rivoluzionario, infatti, un’altra Aisha ha riportato il dibattito pubblico ancora lì, sull’opportunità di indossare o meno la copertura islamica. Silvia Aisha Romano - così si è voluta chiamare dopo il rapimento in Kenya, la prigionia e la conversione - oggi è tornata a parlare della sua scelta religiosa. “Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossarlo per elevare la mia dignità e il mio onore - ha detto - Perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima”. In sostanza, visto che “il concetto di libertà è soggettivo” (siamo sicuri?) e “per questo è relativo” (ne siamo certi?), Silvia non vuole essere "considerata un oggetto sessuale” e quindi si copre. Scelta legittima, per carità. Ma da qui trasformare il velo in una icona di libertà ce ne passa.

"Cosa c'era sulla tessera Atm" Il sogno islamico della Romano. Se infatti nessuno potrà mai imporre a Silvia di togliere l'hijab, è purtroppo altrettanto vero che in Italia, in Europa e nel mondo esistono (troppi) esempi in cui quello stesso velo simboleggia oppressione. Pensate ai casi di cronaca di figlie uccise, picchiate o rasate a zero perché non vogliono coprirsi. Oppure sfogliate l’album delle immagini della guerra all’Isis, quando le donne siriane hanno gettato via il burqa loro imposto dai tagliagole. Un giorno un Tabligh Eddawa, gruppo radicale operante in Italia, mi disse che Dio chiede alla donna di coprirsi perché "è come una banana: se togli la buccia dopo due giorni diventa marcia”. Posto dunque che quella di Aisha Romano sia stata davvero una decisione “libera”, e non dettata dalla tremenda condizione in cui si trovava, si può definire "scelta autonoma" quella di una ragazza il cui un uomo (marito, padre o figlio che sia) la mette nelle condizioni di sentirti impura se non indossa un hijab? "Il velo per me, in quanto donna iraniana, è simbolo di oppressione, simbolo del male", ha detto Atussa Tabrizi, oggi residente in Italia e una volta arrestata dalla polizia morale in Iran perché vestita non adeguatamente. "Nei paesi musulmani le donne che decidono di mettere il velo sono la minoranza, se non proprio inesistenti. La maggioranza delle donne sono obbligate a metterlo, e non appena ne hanno l’occasione se lo tolgono". Ecco perché è sbagliato elevarlo tout court a monumento della libertà, come fatto dalla Romano. Nel 1994, durante la guerra civile algerina, Katia Bengana venne ammazzata da un islamista con tre colpi di fucile alla testa. Giovane ragazza delle scuole superiori, si era rifiutata di coprirsi nonostante le ripetute minacce. "Giurava che non avrebbe mai portato l'hijab, anche a costo di morire", raccontò la sorella. Pochi giorni dopo venne trucidata in strada. Allora occorre chiedersi: si può dimenticare il sacrificio Katia, e quello di molte altre, di fronte alle parole odierne della Romano? Certo Silvia ha pieno diritto di vestire come vuole. Ma riconoscere la libertà di indossare il velo non significa trasformare il velo nel simbolo della libertà. Altrimenti faremmo un torto a Katia e alla principessa Aisha.

"Cosa c'era sulla tessera Atm" Il sogno islamico della Romano. La 25enne parla della sua conversione e del sogno sul suo nuovo nome: "Passavo ai tornelli e sulla tessera Atm c'era scritto Aisha". Federico Garau, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. Torna a parlare Silvia Romano, divenuta Aisha dopo la conversione religiosa all'Islam seguita al rapimento in Kenia avvenuto nel 2018, e lo fa in un'intervista concessa al portale "La Luce", il più adatto per poter parlare dei cambiamenti avvenuti nella sua vita. "Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente", racconta la 25enne, che parla anche della comunità musulmana presente nel villaggio di Chakama in Kenia, dove operava come volontaria. "C’era una moschea, c’erano i musulmani, un mio grande amico era musulmano ma io non mi sono mai posta molte domande. Il venerdì lo vedevo con la tunica e sapevo che andava alla moschea, ma la cosa è rimasta lì. C’erano anche delle ragazzine che il venerdì vedevo con il velo ma non c’era proprio interesse da parte mia". Tutto questo, almeno, fino all'avvenuta conversione. "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente". La prigione, poi la paura di morire, infine la lettura del Corano e la folgorazione religiosa. "Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab!". Aver abbracciato l'Islam, rivela Silvia Romano/Aisha, avrebbe comportato per lei il passaggio attraverso offese e dileggiamenti, che si diceva certa di subire. "Avevo sviluppato la consapevolezza attraverso lo studio della vita del Profeta Muhammad, la vita dei suoi Compagni e me n’ero già fatta un’idea. I musulmani sin dall’inizio dell’Islam sono stati perseguitati", perchè "l’Islam è la religione che va contro un sistema basato sulle ingiustizie, sul potere del dio denaro, la corruzione e la falsità, e questo spesso è scomodo". L'attenzione si sposta poi sul concetto di libertà e sul velo nello specifico, due elementi assolutamente affini nella vita della 25enne, come da lei stesso riferito nell'intervista. "Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale". Un passaggio singolare del racconto di Silvia Romano è proprio quello relativo alla scelta del nome dopo la conversione. "Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’Atm c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa viva".

Silvia Romano e il velo "della libertà", l'islamica Karima Moual: "Perché non c'è da stare sereni". Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. Silvia Romano ha rotto il silenzio rilasciando un'intervista, dopo il rilascio che le ha concesso di tornare in patria, al sito islamico "La Luce". Qui la giovane milanese rapita e indottrinata dal gruppo terroristico somalo di Al Shabaab ha detto senza mezzi termini: "Per me il velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale". Frase che non è andata giù a Karima Moual, giornalista italo-marocchina spesso ospite di Dritto e Rovescio, che su La Stampa verga una lezioncina alla Romano. "Quello che non può passare in sordina è il messaggio - tutt' altro che democratico - che le sue parole rivelano. Parla di libertà, onore e dignità nel suo velo, ma mette le altre donne nella gabbia di parole come “mercificazione del corpo”, “oggetto sessuale” e “femminilità delle forme”". È proprio questa in soldoni la morte della democrazia. Si tratta per lo più - prosegue la Moual che di immigrazione ne è esperta - "di sintomi di radicalizzazione". Se infatti "la sua conversione ha prodotto questa radicale divisione, tra donne velate e non velate, allora non c'è da stare sereni".

Silvia Romano, Rula Jebreal e lo sfregio all'Italia: "Ora vive esattamente come in Somalia", quando era prigioniera. Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Parole che pesano come macigni, quelle di Rula Jebreal, che sul caso di Silvia Romano è tornata a fare la morale un po’ a tutti. “Andava protetta, le autorità e le istituzioni avrebbero dovuto farlo - ha dichiarato la giornalista - purtroppo così non è stato. Sono state divulgate anche informazioni sensibili che, per motivi di sicurezza, non avrebbero mai dovuto essere di dominio pubblico”. La Jebreal è molto critica sulla gestione del rientro in Italia della cooperante milanese, rapita in Kenya e liberata dopo 18 lunghi mesi: “L’incitamento all’odio e alla violenza sono sintomi di una malattia grave che può prendere nomi diversi: sessismo, razzismo e islamofobia. Silvia rischia di essere oggetto di violenza, è stata minacciata e girerà sotto scorta. Esattamente come viveva in Somalia”. Quanto all’autenticità della conversione di Silvia Romano, la Jebreal non ha dubbi: “Non spetta a nessuno mettere in discussione le scelte personali di una giovane donna. Silvia ha il diritto di elaborare in serenità non solo i suoi trami ma anche le sue scelte”. Pesa, però, quel paragone terrificante della Jebreal, secondo la quale oggi Silvia Aisha Romano, in Italia, nell'Italia che la ha liberata, vive "esattamente come in Somalia".

Silvia Romano, sulla sua pagina Facebook "mi piace" a pagine che inneggiano alla "propaganda filo-turca e al suprematismo islamista". Libero Quotidiano il 28 maggio 2020. Studiando il profilo Facebook di Silvia Romano si scopre che su 27 "like" della cooperante, 18 sono riconducibili ad ambito islamico, secondo un'analisi effettuata tra il 24 e il 27 maggio. Lo rivela l'edizione on line del Giornale che segnala che questo interesse è  nei confronti di un islamismo politico ben noto in Italia e anche per alcuni predicatori radicali e controversi. Per prima cosa è presente un "like" nei confronti della pagina "Siamo fieri di essere musulmani"; fin qui nulla di strano se non fosse per il fatto che in questa pagina il contenuto religioso è mescolato con pesante propaganda filo-turca e violenti attacchi verbali contro il presidente egiziano Abdelfattah al-Sisi, contro Israele, contro i reali sauditi e contro Bashar al-Assad. In altri like della Romano, compaiono Nouman Ali Khan, controverso predicatore accusato nel settembre del 2017 di molestie. Altra pagina che "piace" alla Romano è quella di Zakir Naik, apologeta del suprematismo islamista favorevole alle pene corporali nei confronti delle donne, ai rapporti sessuali con le “schiave” ed a cui è stato vietato l’ingresso in UK e Canada.

Silvia Romano, nuovo profilo Facebook con il nome musulmano: Aisha. Nella foto sorride con il velo. A breve termina la quarantena.  Ilmessaggero.it Sabato 23 Maggio 2020. Silvia Romano, la cooperante italiana rapita dai miliziani di Al Shabaab e rimasta prigioniera per 18 mesi, ha aperto un nuovo profilo Facebook con il nome acquisito in seguito alla conversione all'Islam: Aisha S. Romano. A due settimane dal rientro in Italia, la giovane ha scelto come foto profilo un'immagine che la vede sorridente in un negozio di stoffe, con un telo a coprirle il capo. Sullo sfondo, una foto della Porta Blu della città marocchina di Fes. Sul vecchio profilo Facebook, bersagliato da commenti carichi d'odio, Aisha Silvia Romano aveva invitato i suoi amici a non arrabbiarsi per l'ondata d'odio che la sua conversione aveva generato. Nel frattempo, finita la quarantena, continuerà il servizio di vigilanza sulla ragazza. La sorveglianza andrà avanti con passaggi più frequenti delle pattuglie delle forze dell'ordine, davanti alla palazzina dove abita. A breve, la giovane potrà uscire di nuovo. Dopo la liberazione e l'arrivo in Italia all'aeroporto di Ciampino, è tornata a casa a Milano l'11 maggio, giorno in cui è cominciato l'isolamento di 14 giorni per via delle misure di sicurezza sanitarie obbligatorie. All'inizio, viste anche le minacce che ha ricevuto via social per la sua conversione all'Islam e su cui sta indagando la procura, si era pensato di disporre una sorveglianza più stretta, a fine quarantena. 

Silvia Romano cita il Corano  in un post su Facebook. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 da Corriere.it. Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel novembre 2018 e liberata sabato scorso dopo un anno e mezzo di prigionia, cita il Corano in un post su Facebook, sul suo profilo che non è pubblico ma è visibile soltanto agli amici. La giovane si è convertita all’Islam durante la prigionia e qualche giorno fa, in un commento a un video, aveva ringraziato i musulmani d’Italia per la solidarietà dimostrata per il suo ritorno a casa. Nell’ultimo post, pubblicato domenica sera, la 24enne ha scritto che «non sono certo uguali la cattiva (azione) e quella buona. Respingi quella con qualcosa che sia migliore: colui dal quale ti divideva l’inimicizia, diventerà un amico affettuoso. Ma ricevono questa (facoltà) solo coloro che pazientemente perseverano; ciò accade solo a chi già possiede un dono immenso». E infine: «Il Corano, capitolo “Esposti chiaramente”, verso 34-35». A tre giorni dal suo rientro a Milano, e dopo essere stata travolta da una vergognosa campagna di odio social (e politico), Silvia Romano aveva scritto un primo messaggio su Facebook, rivolto agli amici più stretti, per dire grazie per l’affetto ricevuto. Nel post un appello a chi le sta vicino: «Non arrabbiatevi per difendermi, il peggio per me è passato». Nel post su Facebook, Silvia Romano faceva riferimento anche al vestito tradizionale indossato il giorno del rientro in Italia. «Non vedevo l’ora di scendere da quell’aereo perché per me contava solo riabbracciare le persone più importanti della mia vita, sentire ancora il loro calore e dirgli quanto le amassi, nonostante il mio vestito». E ancora: «Sentivo che loro e voi avreste guardato il mio sorriso e avreste gioito insieme a me perché alla fine io sono viva e sono qui. Sono felice perché ho ritrovato i miei cari ancora in piedi, grazie a Dio, nonostante il loro grande dolore. Perché ho ritrovato voi tutti pronti ad abbracciarmi. Io ho sempre seguito il cuore e quello non tradirà mai. Vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi - è l’appello finale - il peggio per me è passato. Godiamoci questo momento insieme. Vi abbraccio tutti virtualmente forte e spero di farlo presto anche dal vivo. Vi voglio bene».

Silvia Romano e i suoi "like" a islamisti e predicatori radicali. Un'attenta analisi del profilo Facebook di Silvia Romano ha mostrato come ben 16 dei 21 "like" cliccati dall'utente sono di matrice islamica, tra cui una pagina con contenuti estremisti e ben tre predicatori radicali e controversi. Presente anche l'ambito dell'islamismo politico attivo in Italia. Giovanni Giacalone, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. Emergono elementi interessanti sul profilo Facebook di Silvia Romano, in particolare per quanto riguarda i cosiddetti "mi piace" cliccati dall'utente, soltanto 27, di cui 18 riconducibili ad ambito islamico, secondo un'analisi effettuata tra il 24 e il 27 maggio. Un aspetto interessante, visto che gli elementi non mostrano soltanto un interesse per l'Islam in generale, ma in particolare nei confronti di un islamismo politico ben noto in Italia e anche per alcuni predicatori radicali e controversi. Ma è bene procedere con ordine. Per prima cosa è presente un "like" nei confronti della pagina "Siamo fieri di essere musulmani"; fin qui nulla di strano se non fosse per il fatto che in questa pagina il contenuto religioso è mescolato con pesante propaganda filo-turca e violenti attacchi verbali contro il presidente egiziano Abdelfattah al-Sisi, contro Israele, contro i reali sauditi e contro Bashar al-Assad; un contenuto accompagnato spesso da teorie sconclusionate di stampo complottista come l'appartenenza al Mossad dell'ex leader dell'Isis, al-Baghdadi o di Bin Laden alla Cia con i rispettivi nomi di Simon Elliot e Tim Osman. Di materiale raccolto ce n'è veramente tanto ed ecco alcuni esempi: un post del 23 aprile mostra il principe saudita Mohammad Bin Salaman al-Saud con sopra la scritta "Tu sei maledetto" e il commento "la famiglia maledetta saudita hanno aperto di tutto nella terra sacra dell'islam, locali notturni, club, pub, discoteche e cocktail bar concerti, festeggia Halloween e dicono che tutto halal.." In un post del 29 gennaio 2019 i gestori della pagina, infastiditi dal concerto di Marayah Carey in Arabia Saudita, scrivono: "Mariah Carey, in concerto in arabia saudita il concerto previsto giovedì prossimo a Gedda che si trova a circa 70 Km. di distanza dal-Masjid al-Haram Mecca.. Che Allah maledica e scateni la sua rabbia contro la famiglia sionista Saudita servi di satana". Chissà se la Romano lo avrà visto? In un post del 22 maggio 2020 il presidente egiziano Al-Sisi viene accusato di aver distrutto 35 moschee ad Alessandria d'Egitto, con tanto di commento: "Allah l'altissimo dice: Chi è più ingiusto di chi impedisce che nelle moschee di Allah si menzioni il Suo nome e che, anzi, cerca di distruggerle? Per loro ci sarà ignominia in questa vita e un castigo terribile nell'altra". Accuse anche contro il presidente indiano Modi, definito "terrorista" e ancora contro al-Sisi e i regnanti sauditi ed emiratini, definiti "servi di Satana", "maledetti" e "peggiori nemici dell'Islam". Contenuti inquietanti anche contro il presidente americano Donald Trump: "annuncia agli ipocriti un castigo doloroso". Immancabile poi il riferimento al voler cancellare Israele dalla mappa con tanto di commento "Palestine. No Israele" ed una serie di post inneggianti al presidente turco Erdogan e all'ex presidente islamista egiziano Mohamed Morsy, definito "martire". Tornando ai like della Romano, compaiono Nouman Ali Khan, controverso predicatore accusato nel settembre del 2017 di molestie, conversazioni inappropriate con donne e abusi spirituali al punto che anche un comitato formato da leader islamici del Nord America si espresse contro Khan. Altra pagina che "piace" alla Romano è quella di Zakir Naik, apologeta del suprematismo islamista favorevole alle pene corporali nei confronti delle donne, ai rapporti sessuali con le “schiave” ed a cui è stato vietato l’ingresso in UK e Canada. I suoi sermoni sono tra l'altro stati vietati in diversi Paesi tra cui India e Bangladesh. Zakir Naik appare tra l'altro anche nella già citata pagina Facebook "Siamo fieri di essere musulmani" con tanto di scritta "La loro guerra contro l'Islam è destinata a fallire. Se l'Islam non fosse la vera religione di Allah, sarebbe già estinta". Altro personaggio con tanto di "like" della Romano è Yusuf Estes, ex predicatore cristiano convertitosi all’Islam ed ora considerato un predicatore di odio vicino a Zakir Naik. Vi è poi il "like" alla pagina "Nquran", sito di dottrina islamista di stampo salafita totalmente in arabo. Lasciando i predicatori radicali e spostandosi verso gli altri "like", emergono subito una serie di preferenze della Romano per l'islamismo politico italiano, in primis l'Associazione Islamica di Milano, null'altro che la moschea di Cascina Gobba, definita da Maher Kabakebbji, suocero di Sumaya Abdel Qader, "la moschea più vicina a casa tua", durante un video-invito per recarsi in moschea fatto a Silvia pochi giorni dopo il suo rilascio. Sumaya Abdel Qader è consigliere comunale del PD milanese ed è già finita al centro di polemiche per un suo precedente ruolo nella Fioe, riconosciuta dal magistrato Guido Salvini come gruppo collegato ai Fratelli Musulmani. Il marito della Abdel Qader, Abdallah Kabakebbjji, si era invece distinto per un suo post su Facebook dove scriveva di voler applicare allo Stato di Israele la procedura "Ctrl+Alt+ Canc". Un'altra pagina che "piace" alla Romano è "Musulmani in Italia", dove compaiono immagini di diversi personaggi legati all'ambito Ucoii, come il presidente Yassine Lafram, l'ex esponente del Caim Yassine Baradei, Aboulkheir Breigheche (imam di Trento, comparso in foto in moschea assieme a un gruppo di fedeli tra cui due jihadisti balcanici poi arruolati nell'Isis da Bilal Bosnic e che recentemente aveva difeso l'offensiva turcaa in Siria), ma anche Roberto Hamza Piccardo, ben noto anche per la sua apologia nei confronti della poligamia. Tra gli altri "like" vi è poi quello alla pagina di Hind Lafram, stilista di moda islamica apprezzata dalla Boldrini nonché sorella del già citato presidente Ucoii Yassine Lafram ma anche due pagine di al-Jazeera, emittente televisiva del Qatar, considerata vicina alla Fratellanza Musulmana.

Giuliano Guzzo per “la Verità” il 19 maggio 2020. «Colui dal quale ti divideva l'inimicizia, diventerà un amico affettuoso». Sono le parole con cui ieri su Facebook Silvia Romano, la cooperante milanese di 25 anni rapita in Kenya nel novembre 2018 e rimpatriata il 10 maggio, ha scelto di rompere il suo silenzio. Più che di parole, per la verità, trattasi di versetti coranici, come la stessa Aisha - questo, come noto, il nome scelto dalla giovane dopo la sua conversione all' islam - ha tenuto a precisare: «Il Corano, capitolo "Esposti chiaramente", verso 34-35». Ora, non serve esser fini islamologi per sapere che i versetti cari ai musulmani vanno maneggiati con cura, se non altro perché contengono tutto e il loro contrario, inclusi inquietanti inviti alla violenza quali, ad esempio, il fin troppo esplicito: «Uccidete gli infedeli ovunque li incontriate. Questa è la ricompensa dei miscredenti» (Sura 2:191). Ciononostante, la citazione coranica di Romano è stata subito salutata da più fonti come lodevole invito alla distensione. D' altra parte, la canonizzazione mediatica della giovane procede a tappe forzate e il mondo islamico fa letteralmente a gara per contendersela. La vuole Maher Kabakebbji, presidente della moschea Mariam, l'associazione di Cascina gobba, alle porte di Milano, non distante dall' abitazione della giovane cooperante: «Aspetto Silvia Romano a braccia aperte, per farle conoscere la realtà della comunità islamica in Italia e farle da supporto spirituale». Di tenore analogo le parole di Ali Abu Shwaima della moschea di Segrate - «Se Silvia vuole venire in moschea, sarebbe la benvenuta» - e dell' imam di Milano Yahya Pallavicini: «Sarei disponibile e contento di accoglierla». Ma a battere tutti sul tempo è stata l' Ucoii, l' Unione delle comunità e organizzazioni islamiche cui fanno capo circa 80 moschee e 300 luoghi di culto, che già nelle ore successive all' atterraggio di Aisha in Italia ha diffuso una nota con cui, nel darle il benvenuto, stigmatizzava i «pesanti e vigliacchi attacchi a Silvia», descritti come segno di «un certo tipo di razzismo islamofobo». Ora, è evidente come la nostra connazionale sia reduce da un'esperienza tragica, come un rapimento inevitabilmente è, motivo per cui è opportuno abbassare i toni. Tuttavia, nel momento in cui, da una parte, la giovane diviene giorno dopo giorno sempre più la beniamina di certo mondo islamico, e dall' altra, è la stessa Romano a fare esternazioni appoggiandosi a passaggi coranici, qualche considerazione appare doverosa. Soprattutto in relazione a un dato di fatto centrale che in tanti sembrano aver già dimenticato, ossia l' identità dei sequestratori della cooperante. Infatti, anche volendo omettere ogni valutazione sull' effettiva spontaneità della conversione all' islam di Aisha - sulla quale ha espresso perplessità, tra gli altri, perfino qualche imam, come Mahmoud Asfa -, va ricordato come ad averla rapita siano stati i guerriglieri di Al Shabaab, gruppo jihadista tra i più sanguinari del mondo, autore di attentati di ferocia inaudita. Come quello dell' ottobre 2017 con cui, in Somalia, con l' esplosione di due automezzi carichi di esplosivo furono uccise in un solo giorno quasi 600 persone e oltre 300 rimasero ferite. Per non parlare dei cristiani, verso cui Al Shabaab ha sempre mostrato la massima crudeltà. Lo si rammenta, si badi, non per gusto del macabro, ma perché sono appunto i militanti di quella sigla ad aver convertito Romano. Il che dovrebbe consigliare a tutti maggior prudenza nel magnificare quanto dice o fa una giovane tornata dall' inferno, con tutte le immaginabili conseguenze del caso.

Virginia Piccolillo per il Corriere della Sera il 17 maggio 2020. Silvia Romano? «L'hanno trattata come una signora. Ma quali terroristi? I terroristi siete voi che buttate le bombe sopra i bambini insieme agli americani. Ma quale Al-Shabab?». Saranno i carabinieri ora a indagare sulle dichiarazioni-shock di un membro della comunità islamica della moschea di Torpignattara di Roma. Il deputato di Fratelli d' Italia, Giovanni Donzelli, ha presentato venerdì sera, alla caserma di Prato dove abita, un esposto nel quale chiede di «verificare se i fatti, la persona e i luoghi possono significare pericolo per la sicurezza e siano da considerare questi a termini di legge». Il servizio realizzato inizialmente per Il Giornale online, è stato rilanciato dalla trasmissione «Il diritto e il rovescio» di Paolo Del Debbio e ha suscitato indignazione nel partito di Giorgia Meloni per la teoria del sequestro a fini di «rieducazione» propugnata dall' intervistato che, secondo le informazioni raccolte dall' autrice, si farebbe chiamare Mohammed e sarebbe un membro molto influente della comunità islamica. Rivendica quel gesto di violenza che ha tenuto diciotto mesi Silvia nel terrore: «Quando le rapiamo noi - dice - non le violentiamo, non gli facciamo le porcherie, gli insegniamo». E infatti, dice orgoglioso: «Stando lì ha capito, ha preso l' educazione con la prigionia. E' educata, ha studiato». E aggiunge: «Hai visto come é arrivata? Felice». «Va arrestato per istigazione all' odio e al terrorismo», ha gridato in trasmissione, collegato da casa sua, Donzelli. E subito dopo, nella più vicina caserma, ha presentato la denuncia mentre un gruppo di colleghi del partito di Giorgia Meloni annunciavano un' interrogazione parlamentare alla Camera contro quelle «parole gravissime». «Vorrei che fosse arrestato e cacciato, ma il punto - spiega al Corriere - è se questa persona ha un ruolo. E se quella stupidaggine la dice anche alla comunità musulmana di quella zona. Se divulga quelle idee. Perché un conto è se una persona istiga alla violenza o al terrorismo. Un altro se in quella moschea si fa proselitismo di questo tipo». Intanto le polemiche sulla conversione islamica della ragazza non si placano. Spuntano imam che festeggiano la sua scelta. Maher Kabakebbji, presidente della moschea Mariam alle porte di Milano, la «aspetta a braccia aperte per supporto spirituale». E malgrado la stessa Silvia abbia chiesto «non arrabbiatevi per me», i toni sui social sono alti. Caterina Bini, responsabile Enti locali del Pd, esprime «vergogna» per un post, poi rimosso, nel quale il capogruppo FdI in Comune a Pistoia, Lorenzo Galligani, formulava il sogno che «i servizi scovassero nelle loro capanne sudici e puzzolenti, i rapitori collaboratori mediatori santoni e gli ideologi e li ammazzassero come cani rabbiosi possibilmente insieme ai loro familiari fino al sesto grado».

I vescovi: “Silvia Romano è una nostra figlia”. Ma Salvini: “Ora risposte sul riscatto”. Il Dubbio l'11 maggio 2020. Le parole del presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, smorzano le polemiche sulla conversione della giovane rapita. “Il ritorno di questa ragazza è il ritorno di una giovane che tutti in questo momento sentiamo la nostra figlia”. Così il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, intervistato da Umbria24, commenta la liberazione di Silvia Romano. “Questa – ha detto il presidente dei vescovi italiani – è una ragazza che ha una grande grinta e questa forza interiore sicuramente l’ha salvata, una ragazza spinta da fortissimi motivi anche religiosi ma umanitari e questo l’ha aiutata a sopravvivere. Poi c’è la serietà della nostra politica estera perché i nostri servizi segreti, la politica nel senso più nobile ha fatto la sua parte. Il ritorno di questa ragazza è il ritorno di una giovane che tutti in questo momento sentiamo la nostra figlia. C’è stata un’accoglienza, una festa da parte di tutti perché è stata una nostra figlia che ha corso pericoli enormi, che ha avuto coraggio e l’abbiamo potuta abbracciare almeno col cuore perché ora non si può fare con le braccia e con le mani e io che sono un tipo affettuoso patisco tanto”.

La critica di Salvini. “Ieri era la Festa della Mamma e quindi della gioia per quella famiglia. Quando si libera una ragazza di 24 anni dopo 18 mesi è il momento della festa. Certo, qualche domanda deve avere una risposta”, commenta Salvini a Rtl 102.5. “Ho letto – ha aggiunto il leader della Lega – che si è convertita all’Islam. Ricordo che in Kenya l’Islam è fuorilegge ed è punito con la prigione (falso, perché in Kenya vige la libertà di culto e i musulmani sono una minoranza importante. Inoltre la conversione di Silvia Romano è avvenuta in Somalia, ndr), e i soldi del riscatto sarebbero stati incassati da questa organizzazione terroristica,  Al-Shabaab, che coi suoi attentati ha ucciso centinaia di persone”.

«Cara Silvia, so bene che quegli abiti sono un guscio. Ignora le polemiche e prenditi cura di te». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Susan Dabbous, giornalista e scrittrice italo- siriana, fu rapita in Siriai nsieme a tre colleghi della Rai. «Ora Silvia deve solo pensare a sé stessa, a normalizzare la nuova situazione, la discussione sulla sua conversione mi sembra insensata». Susan Dabbous, giornalista e scrittrice italo- siriana, liquida così le polemiche sulla conversione di Silvia Romano, come un elemento assolutamente secondario e personale, all’indomani della sua liberazione. Lei, del resto, sa perfettamente cosa significhi trascorrere del tempo nelle mani di gruppi islamisti. Nel 2013, furono 11 i suoi giorni di prigionia in Siria, sequestrata dai qaedisti di Jabhat al- Nusra, insieme a tre colleghi della Rai. Un’esperienza indelebile, raccontata nel libro Come vuoi morire? ( Castelvecchi).

Cosa ha pensato appena ha saputo della liberazione di Silvia Romano?

«Ogni volta che viene liberato un ostaggio mi commuovo, ancor di più se si tratta di una donna. Tornano a galla una serie di sentimenti difficili da definire e allo stesso tempo impossibili da rimuovere, non mi capita spesso di ripensare a quell’esperienza».

Cosa significa esser donna e finire nelle mani di gruppi islamisti?

«Non so dire se sia un’aggravante o addirittura un aiuto in certe circostanze. A volte può anche capitare che una certa lettura fondamentalista ti metta al riparo, ad esempio, da abusi sessuali. Ma è impossibile generalizzare, ogni caso è a sé. Non credo comunque che essere sequestrati da gruppi islamisti sia di per sé un fattore più traumatico per una donna rispetto a qualsiasi altro sequestro».

Come ha trascorso la sua prigionia?

«Il mio caso è molto particolare. Sono di origini siriane da parte di padre, dunque nata musulmana, ma figlia di una cattolica, un “dettaglio” per loro inaccettabile. E la mia provenienza è stata messa sul banco del giudizio, per questo sono stata io stessa a chiedere di poter pregare».

È religiosa?

«No. Praticavo la religione per andare incontro ai loro “gusti” e continuare a vivere, ma anche per poter essere separata dagli uomini e lavarmi, perché l’Islam prevede le abluzioni e in una prigione in cui c’era solo una latrina a disposizione era l’unico modo».

È possibile che un pensiero simile, almeno in un primo momento, sia scattato anche nella mente di Silvia Romano?

«Non credo. Io vengo da una famiglia musulmana e le ho viste fare le abluzioni, per me era una cosa familiare. Non mi azzardo a fare alcuna ipotesi sui percorsi degli altri. Per me dimostrare un avvicinamento all’Islam era parte di un bagaglio culturale, ognuno reagisce a suo modo. Magari Silvia si è messa a leggere il Corano perché nella lettura ha trovato conforto dalla solitudine e ha potuto tenere in esercizio il proprio intelletto, è fondamentale durante un sequestro».

Ha fatto scalpore vedere una persona scendere dall’aereo con un hijab in testa, nonostante la ragazza abbia parlato di una conversione volontaria.

«È davvero una polemica senza senso. Questo è il momento in cui Silvia deve solo prendersi cura di sé e normalizzare la nuova situazione, un processo che non avviene con uno schiocco di dita. È quello che ha detto a me uno psicologo all’indomani della liberazione. In ogni caso, gli abiti con cui è scesa dall’aereo sono i vestiti indossati durante la prigionia. Neanche io volevo levarmeli all’inizio, perché sono ciò che ti protegge dal mondo esterno, sono il tuo guscio in cui scomparire, lo strumento attraverso cui ti guadagni il rispetto degli altri, quelli che hanno in mano la tua vita. Sono cose che nella vita normale non si possono spiegare».

Che rapporto ha avuto con i suoi carcerieri?

«All’inizio ho trascorso la prigionia insieme agli altri colleghi, ma gli ultimi quattro giorni sono stata trasferita in un appartamento, sorvegliata da una donna. E con lei ho stretto un rapporto psicologico particolare. I suoi modi gentili, femminili, emotivamente mi hanno condizionata: era una jihadista ma aveva migliorato le mie condizioni di detenzione. Del resto, venivo da una prigione in cui si sentivano le urla di altri detenuti torturati.

Cosa si pensa in quei momenti, sentiva che sarebbe finita bene o temeva il peggio?

«Non ho mai avuto certezze. Alternavo momenti di positività, negatività e razionalità. Il pensiero si divideva in tre direzioni costantemente».

In Italia soprattutto i partiti di centrodestra si scagliano contro l’eventuale pagamento di un riscatto per liberare Silvia Romano. Sono preoccupazioni legittime? 

«Non esiste una dottrina che metta d’accorda tutti nel dibattito internazionale. C’è chi dice che i riscatti possano innescare una spirale nuovi rapimenti e chi invece sostiene che davanti a una vita non bisogna andare troppo per il sottile. Sono tanti i Paesi, dal Nord Europa all’Asia, che con grande discrezione pagano i riscatti. C’è chi poi aggira l’ostacolo facendolo sborsare formalmente ad altri governi. Ma sono sicura che se chiedessimo a ogni singolo cittadino la sua disponibilità a pagare meno di un centesimo di euro, perché di questo parliamo, per la liberazione di una persona risponderebbero tutti sì».

Anche alla sua liberazione ci furono polemiche?

«La mia salvezza, tra virgolette, fu di essere stata sequestrata insieme a dei grandi professionisti uomini. Ero una donna ma in un team di maschi, non ero “quella partita all’avventura”, e questo mi ha messa al riparo da una serie di giudizi indecenti come non è accaduto a Silvia».

Cosa succede quando dicono: vi stiamo liberando?

«Uno dei momenti più brutti della prigionia, non capisci mai come andrà a finire. Sei bendato e pensi che ancora possa accadere di tutto, sono momenti interminabili».

Ora è tutto alle spalle?

«La mia vita è cambiata radicalmente da allora. Ho avuto due figli bellissimi che mi hanno consentito di andare avanti e non pensare più a quell’esperienza».

L'islamologo sulla conversione di Silvia Romano: "Potrebbe aver chiesto il Corano per capire meglio i suoi rapitori". Al suo ritorno, la cooperante milanese ha confermato la scelta di essersi convertita. L'islamologo Paolo Branca ha provato a spiegare i passaggi della vicenda: "È evidente che se i rapitori fossero stati di un'altra religione o atei, sarebbe stata meno probabile la richiesta di una copia del Corano, seguita addirittura da una conversione". Giovanna Pavesi, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. È arrivata alle 14.10 di una domenica pomeriggio di maggio, a Ciampino, dopo 18 mesi di prigionia, divisa tra il Kenya e la Somalia. Silvia Romano, la cooperante milanese rapita nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi il 20 novembre 2018, e liberata due giorni fa vicino a Mogadiscio, ha potuto riabbracciare la sua famiglia. La prima immagine di lei che scende le scalette del volo che l'ha riportata a casa, è quella di una ragazza stretta in un lungo abito della tradizione somala, color smeraldo, e il velo sul capo, che non si è mail tolta. Alla psicologa dei servizi segreti che, per prima, in Somalia, ha ascoltato il suo racconto, Silvia Romano avrebbe confidato di essersi convertita all'islam. Senza, però, alcuna costrizione da parte dei suoi sequestratori. La giovane volontaria, infatti, sentita dal pubblico ministero della procura di Roma, Sergio Colaiocco, e dagli uffici antiterrorismo che, in questi mesi, hanno seguito il suo caso, avrebbe confermato la sua scelta. "È vero, mi sono convertita", avrebbe spiegato la 25enne durante la sua lunga audizione di ieri pomeriggio. Ai carabinieri del Ros avrebbe detto di aver pianto per tutto il primo mese di prigionia e di aver abbracciato la religione islamica a metà del suo sequestro, senza alcuna costrizione: "Ho chiesto di poter leggere il Corano e sono stata accontentata". Come riportato questa mattina dal Corriere della sera, la cooperante avrebbe anche scelto di cambiare il suo nome in Aisha. "Leggevo il Corano, pregavo. La mia riflessione è stata lunga e alla fine è diventata una decisione", avrebbe chiarito la giovane. Paolo Branca, islamologo e docente di Storia delle religioni all'Università cattolica di Milano, interpellato dal Giornale.it, ha spiegato come, in casi come questo, ci sia spesso un trauma all'origine del distacco dalla fede, magari, dei propri familiari e ha provato a interpretare i segni (visibili e nascosti) di quanto raccontato da Silvia nelle sue prime ore di libertà.

Professor Branca, la conversione di Silvia è oggetto di grande discussione in queste ore. Casi di questo genere sono frequenti nella storia dei rapimenti?

"Per esperienza personale, avendo conosciuto sia cristiani convertiti all'islam che musulmani divenuti cristiani, mi pare di poter dire, in generale, che un passo del genere non è mai banale. Non si cambia religione come bere un bicchiere d'acqua. Anche in condizioni normali, c'è spesso un trauma all'origine del distacco dalla fede dei propri genitori e non a caso molti si vedono poi impegnati più a denigrare la religione abbandonata che a magnificare la nuova".

Amanda Lindhout, la freelance canadese rapita nell'agosto del 2008 da una cellula islamica in Somalia, tornò libera nel 2009 dopo mesi di prigionia in cui venne seviziata e stuprata. Anche lei apparve velata e soltanto tempo dopo dichiarò di essersi convertita per sopravvivere. Fino a che punto un ostaggio può dirsi libero di scegliere e totalmente svincolato dalle pressioni dei suoi carcerieri, secondo lei?

"Impossibile dirlo. Anche per i messaggi video cui militari catturati sono stati costretti, le singole personalità emergono, dando vita a una serie infinita di casi distinti".

Perché, secondo lei, la cooperante ha chiesto il Corano e non la Bibbia, per esempio?

"Non credo che gliel'avavrebbero data. E comunque, conoscere il testo sacro dei suoi rapitori può averla aiutata a capirli meglio e a usare un linguaggio a loro noto. Dato il suo impegno parrocchiale, penso inoltre che la Bibbia la conoscesse già bene".

Ci spieghi il concetto di "capire meglio" i suoi rapitori. Silvia, per esempio, durante le sue ore di interrogatorio, avrebbe dichiarato di aver imparato anche un po' di arabo.

"Conoscere le lingue altrui è sempre un vantaggio, anche in chiave difensiva. Maometto, per esempio, diceva: 'Chi conosce la lingua di un popolo si mette al riparo dalle loro astuzie'".

Quindi, ritiene sia stato più un adattamento o una scelta?

"Posto che non è detto che i rapitori abbiano parlato arabo ma forse più un dialetto con qualche parola araba (come spiegato anche dalla giovane cooperante durante l'audizione, ndr), impadronirsi un po' la lingua del mio avversario mi aiuta a conoscerlo meglio, sicuramente. Imparare il linguaggio con cui interagisce, aiuta a comprendere".

Quale meccanismo psicologico può essersi avviato in lei nei 18 mesi di prigionia? Perché una conversione proprio a metà del sequestro? Possibile sia stata "vittima" di quella sindrome che lega gli ostaggi alla realtà dei suoi sequestratori?

"Non conoscendo la ragazza è impossibile dirlo. Ma è nota la cosiddetta sindrome di Stoccolma, il meccanismo per cui un prigioniero può addirittura innamorarsi del proprio carceriere".

Quindi, la conversione all'islam può essere stata influenzata dal fatto che i suoi sequestratori appartenessero molto probabilmente a un gruppo fondamentalista?

"Mi pare evidente che se i rapitori fossero stati di un'altra religione o atei, sarebbe stata meno probabile la richiesta di una copia del Corano, seguita addirittura da una conversione".

C'è il rischio di una forma di radicalizzazione, in casi come questo? È presto per dirlo?

"In generale, i neoconvertiti sono più scrupolosi dei credenti comuni, ma ci sono anche forme di avvicinamento spirituale che non comportano né risentimento verso la fede precedente, né atteggiamenti radicali".

Silvia Romano è atterrata a Ciampino con un lungo abito che, forse, più di ogni altro elemento ha destato l'attenzione di molti. In casi come questo, l'abbigliamento può essere considerato un simbolo? Che significato ha?

"Il velo, nelle sue varie forme, per esempio, è simbolo di modestia e castità, oltre che di sottomissione a Dio. Al di là di questo, però, credo che chi esce da una simile esperienza possa anche sentirsi protetto dal velo dai molti sguardi che si vedrà puntati addosso".

La giovane cooperante, durante la sua lunga audizione ieri, avrebbe riferito di aver sentito il canto del muezzin più volte al giorno, durante le fasi della sua prigionia. Crede che quell'appuntamento possa averla influenzata nell'abbracciare la fede islamica?

"In situazioni di grave privazione della libertà, qualsiasi suono, immagine e persino odore possono diventare ossessivi o consolatori. Molta letteratura araba moderna concentrazionaria lo testimonia ampiamente".

Il Corano potrebbe aver avuto una funzione "consolatoria" nel suo caso?

"Tutti i testi sacri di ogni religione hanno parole di conforto e speranza per gli esseri umani che vivono l'esperienza del limite, del dolore e della morte. Il Corano, in particolare, sottolinea l'abbandono fiducioso al volere divino anche nelle avversità, fino a un certo grado di fatalismo che, in situazioni estreme e senza uscita, può risultare consolatorio".

Alla psicologa che l'ha accolta in Somalia e che ha volato con lei nel viaggio di ritorno la volontaria milanese avrebbe confidato di aver cambiato il suo nome in Aisha. Che idea si è fatto di questa scelta?

"Aisha è il nome della più giovane e amata moglie del Profeta, che era dotata però anche di un carattere forte, vivace e persino un po' ribelle".

Professor Branca, c'è chi ha parlato di una vittoria propagandistica di al Shabaab, in queste ore, dovuta sia alla conversione (senza apparenti costrizioni) della ragazza, sia al comportamento "compassionevole" avuto con lei. In tanti, adesso, temono che il gruppo fondamentalista possa essere visto sotto un'altra luce. Lei che cosa ne pensa?

"Persino i nazisti chiesero a Freud, prima di lasciarlo partire da Vienna per la Gran Bretagna, una dichiarazione scritta di essere stato trattato bene. Da genio quale era, la vanificò aggiungendo al testo già scritto una frase di suo pugno: Posso sinceramente raccomandare le Ss a chiunque. In futuro, vedremo se Silvia aggiungerà particolari alla storia che, per ora, conosciamo poco, magari ribaltandone il senso apparente".

Silvia Romano, il pentito di al Shabaab: «Così gli islamisti fanno il lavaggio del cervello». Parla un ex miliziano dell'organizzazione che ha rapito la cooperante: «Metodi molto persuasivi che possono affascinare. Io ci sono caduto, poi ho capito che vogliono solo più potere». Antonella Napoli il 10 maggio 2020 su L'Espresso. Ottenere la liberazione di Silvia Romano non è stato facile, sono stati necessari 535 giorni di ricerche, contatti, trattative. L’operazione congiunta, che ha visto lavorare insieme tre diverse intelligence, italiana, somala e turca, è riuscita a portare in salvo la cooperante milanese 25enne, rapita in Kenya il 20 novembre del 2018, solo grazie a un serrato negoziato segreto con mediatori locali in contatto con il gruppo islamista. «Il passaggio di mano dai sequestratori che l’hanno prelevata a Chakama ai terroristi somali», racconta Omer Abdullah, giornalista keniota che ha seguito tutte le fasi del sequestro, «è avvenuto poco dopo il rapimento della Romano, quindi lei ha trascorso un tempo lunghissimo con i miliziani di al Shabaab. Inoltre è stata esposta a rischi continui. Gli estremisti islamici somali da mesi stanno mettendo in campo tutte le loro forze per espandere il loro potere con l'obiettivo di allargare il loro raggio di azione in Kenya e negli altri paesi confinanti. La Somalia è per loro il trampolino di lancio per il resto dell'Africa dell'est, anche grazie all'aiuto di forze esterne che in qualche modo interferiscono nelle questioni somale. Non a caso le armi continuano ad arrivare facilmente nelle loro mani».   Le azioni di al Shabaab si abbattono su istallazioni e contingenti militari ma anche sui civili, obiettivi di attentati simbolici compiuti al fine di assumere un ruolo di maggiore rilevanza nel panorama dell’estremismo jihadista regionale. Come l’assalto a un hotel internazionale di Mogadiscio nell’ottobre del 2017, che ha provocato più di 500 vittime: il più micidiale attacco terroristico dall'11 settembre del 2001 negli Stati Uniti. A raccontarci dal di dentro al-Shabaab è un "pentito", Ahmed (utilizziamo uno pseudonimo per non esporre l’ex combattente al rischio di rappresaglie), 24 anni, nato in Kenya. Nel 2017, quando ha saputo che avrebbe dovuto attaccare il villaggio in cui era nato, Ahmed ha deciso di disertare. Ha preferito fuggire piuttosto che uccidere suoi familiari e amici. Si è allontanato di notte, percorrendo a piedi il tratto di foresta che dal confine somalo porta in Kenya. Ha camminato per chilometri fino a raggiungere, dopo cinque giorni, il primo centro abitato.

Da lì è arrivato a Malindi dove ha chiesto alle autorità il diritto di asilo.

«Mi è stata concessa l'amnistia per i crimini commessi e sono stato inserito nell'ambito di un programma del governo keniota per riabilitare i disertori di al-Shabaab che, come me, erano stati arruolati nelle moschee da reclutatori che si erano inseriti nelle comunità locali per fare proseliti da mandare sui campi di battaglia somali», ricorda l’ex terrorista, che oggi vive a Nairobi e si occupa di cooperazione.

«La mia era stata una scelta di fede, ho combattuto per questo, non per soldi. Ma il mio credo è stato insanguinato da troppe atrocità. Ora vivo nella paura che prima o poi mi trovino e mi uccidano, ma non tornerei indietro», spiega sicuro della sua scelta. La sua lealtà verso al-Shabaab comincia a vacillare nel giugno 2017, dopo uno degli attacchi più sanguinari di sempre, a cui partecipa, del gruppo terroristico. In un doppio assalto a Mogadiscio, a due ristoranti, vengono trucidate decine di civili, tra cui donne e bambini.

«Era il mese del Ramadan, un momento sacro per noi musulmani», racconta Ahmed. «Il giorno prima ci dissero che dovevamo essere pronti a tutto, anche a non tornare. Uno di noi si è fatto esplodere all’interno di un’automobile di fronte al ristorante Post Treats, attorno alle 20, l’ora più affollata dalle famiglie. Il commando di cui facevo parte ha invece assaltato un secondo locale, il Pizza House, a pochi metri di distanza, che di solito era frequentato da stranieri ma durante le sere del Ramadan, quando i fedeli dopo l’ultima preghiera si riuniscono per mangiare dopo una giornata di digiuno, ci andavano tanti musulmani».

Da quel momento qualcosa in lui si rompe. Tornato nel campo di addestramento di Chisimaio, dove aveva trascorso gli ultimi tre anni della sua vita, alla notizia che presto l’obiettivo da colpire sarebbe stato il suo villaggio di origine comincia a progettare la fuga.

«Quando sono stato riabilitato ho deciso che dovevo fare qualcosa per impedire ad altri ragazzi di entrare in questo vortice di violenze e terrore. Oggi vado nelle scuole per mettere in guardia i più giovani dal "lavaggio del cervello", il sistema di coercizione, che il gruppo terroristico usa per suscitare assoluta devozione tra i potenziali seguaci» conclude l’ex terrorista. Metodi talmente persuasivi che un’alta percentuale di nuove reclute, soprattutto le più giovani. quando viene chiesto loro se si sentono pronte a eventuali atti kamikaze si offre volontariamente. Un orrore nell’orrore.

 “Conversione Silvia Romano non è scelta di libertà”, la lettera di Maryan Ismail. Redazione su Il Riformista l'11 Maggio 2020. Il ritorno in Italia di Silvia Romano sta creando non poche polemiche. Tra riscatto, conversione e passerelle dei politici il dibattito è aperto su più fronti. In questo contesto pubblichiamo la lettera che Maryan Ismail ha scritto a Silvia Romano sul proprio profilo Facebook. Ho scelto il silenzio per 24 ore prima di scrivere questo post. Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa. Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosidetto volto “perbene”. Gente capace di trattare, investire, fare lobbing, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.

Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi. Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa. Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro. Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura , l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare? Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche , yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda. Comprendo tutto di Silvia. Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere. E in un nano secondo. Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti. Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito ( che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura. La sua non è una scelta di LIBERTA’, non può esserlo stata in quella situazione. Scegliere una fede è un percorso così intimo e bello, con una sua sacralità intangibile. E poi quale Islam ha conosciuto Silvia? Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti? No non è Islam questa cosa. E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE. E’ puro abominio. E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime. I simboli, sopratutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta. Quando e se sarà possibile , se la giovane Silvia vorrà , mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti. Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego,macawis, kooffi. I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano). Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia. Adoriamo i colori della terra e del cielo. Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni. Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale) , ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano. Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno. Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo...Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato. Della fierezza e gentilezza del popolo somalo. E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro. In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore. Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione...Soo dhowaw, gadadheyda macaan.

Silvia Romano, padre Albanese sulla conversione: “Non mi convince”. Jacopo Bongini l'11/05/2020 su Notizie.it. Parlando del difficile contesto somalo, il missionario comboniano padre Giulio Albanese non si dice convinto della conversione di Silvia Romano. Intervistato dal Corriere della Sera, il missionario comboniano padre Giulio Albanese esprime scetticismo in merito alla conversione all’islam di Silvia Romano, la volontaria milanese rientrata in Italia nella giornata del 10 maggio dopo 18 mesi trascorsi in Somalia come ostaggio delle milizie jihadiste di Al-Shabaab. Il sacerdote, giornalista e da anni impegnato nel continente africano, ha infatti spiegato che quello dell’estremismo islamico è un ambiente che può mettere a dura prova la salute mentale di qualunque vittima di rapimento.

Silvia Romano, il parere di padre Albanese. Sulle pagine del Corriere, il missionario cerca di inquadrare la vicenda di Silvia Romano nel difficile contesto dello jihadismo in Africa, dicendosi però non convinto della reale consapevolezza nella conversione della ragazza: “Bisogna capire che cos’è successo. L’Islam fanatico ti spinge a uno scambio: la tua conversione in cambio della tua vita. Ne ho conosciuti tanti, di ‘convertiti’. Ho scritto anche un libro sui bambini costretti a combattere, sul lavaggio del cervello che subiscono. Ho visto il sorriso di Silvia, all’aeroporto di Ciampino. Ma quel sorriso non mi dice nulla. Non mi convince. C’è sotto qualcosa di molto più complesso. Io una volta sono stato sequestrato solo pochi giorni, e mi sono bastati per capire come si esca con le ossa rotte, da quelle esperienze”. Nell’intervista, padre Giulio Albanese rammenta inoltre come molti di quelli che stanno commentando la storia di Silvia Romano in queste ore non sappiano nulla della storia della Somalia negli ultimi trent’anni; un paese che dopo la caduta del dittatore Siad Barré nel 1991 è precipitato in una guerra civile che dura ancora oggi: “Ci si dovrebbe rendere conto di che cosa significhi finire nelle mani di Al Shabaab. È l’equivalente di Boko Haram in Nigeria. Gente che te ne fa di cotte e di crude […] Non sappiamo quali siano le condizioni spirituali e mentali di una giovane che sopravvive a un anno e mezzo con gente che ti può far fuori. Non sappiamo quanto sia stata libera. Leggo che si parla di sindrome di Stoccolma. Ma è prematuro. Chi spara giudizi con tanta leggerezza, non sa che cosa sia vivere in Somalia. Un Paese che dal 1991 è in uno stato spaventoso”. In conclusione, il sacerdote esprime il suo parere in merito alle decine di ragazzi e ragazze che ogni anno partono per l’Africa in progetti di volontariato: “Preferiamo i giovani pieni d’alcol e di droga che si schiantano in macchina il sabato sera o questi ragazzi che fanno una scelta di volontariato? So anch’io che le Ong andrebbero meglio in una rete di network, che ci vuole senso di responsabilità, forse questa ragazza non doveva stare sola nella savana, che molto va rivisto… Ma serve moderazione”.

Silvia convertita all'islam, Bux: "Il vero cristiano non teme il martirio". La conversione di Silvia Romano all'islam fa discutere. Per Monsignor Nicola Bux il "vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo". Francesco Boezi, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Silvia Romano si è convertita all'islam. La questione suscita almeno una domanda. Mentre buona parte dei commentatori si interrogano sulla vicenda in sé, noi abbiamo chiesto un parere a Monsignor Nicola Bux, già collaboratore di Benedetto XVI. Bux è convinto che i cristiani non debbano temere la persecuzione. E che anche le conversioni possano avere delle attenuanti in caso di mancata consapevolezza del soggetto che intraprende un percorso di quel tipo. Ma per il monsignore l'Europa sta correndo dei rischi, che non dovremmo evitare di tenere a mente.

Mons. Bux, possibile che Silvia Romano sia stata convertita o magari sia stata manipolata dagli islamici?

«La giovane sostiene che la sua adesione all'islam sia stata una scelta spontanea...Il Concilio ricorda che la libertà religiosa riguarda l'immunità dalla coercizione nella società civile. Ma anche che ciò lascia intatta la dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica chiesa di Cristo. Una persona cosciente del suo battesimo conosce tutto questo».

Le risulta normale che una persona finita nelle mani di estremisti islamici finisca per convertirsi?

«Dipende dal soggetto. Un cattolico dalla coscienza ben formata sa qual'è la vera religione e, di conseguenza, che il suo abbandono, cioè l'apostasia è uno dei peccati più gravi. Si badi che l'islam punisce l'apostasia con la morte. Pertanto, il vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo. Se invece la coscienza non fosse ben formata o facesse ciò per ignoranza, esiste l'attenuante davanti a Dio».

Quale messaggio per l'identità europea arriva dalla storia di Silvia Romano?

«Ricordo un documentario prodotto dalla Rai dieci anni fa. L'indimenticabile Luca De Mata lo intitolò Dio: pace o dominio, perché dal reportage in giro per l'Europa aveva ricavato che l'islam stesse avanzando scaltramente, presentandosi come religione di pace, in realtà puntando al dominio del continente. Celebre l'avvertimento dell'allora vescovo di Izmir (Smirne, ndr) agli europei: i promotori islamici dell'immigrazione in Europa pensano: con le vostre leggi vi invaderemo, con la sharia vi sottometteremo. Che vi cooperino gli europei, è masochismo. La Rai dovrebbe riproporre quel documentario in cinque puntate».

Teme per i cattolici in giro per il mondo?

«Dalle statistiche è noto che il cristianesimo cattolico è la religione più perseguitata al globo. Ma i cristiani non temono la persecuzione, perché è la condizione ordinaria del cristianesimo. Gesù Cristo ha detto: "Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi". Perciò il cristianesimo vince sempre quando è sconfitto. Papa, cardinali, vescovi, sacerdoti e fedeli lo dovrebbero sapere a memoria, non solo, ma anche che alla fine solo la croce di Cristo vince. Lo ricorda Giovanni Paolo II nell'enciclica missionaria Redemptoris missio».

Quindi?

«Quindi, i programmi di neo-umanesimo, di fratellanza universale, di dialogo interreligioso senza Cristo, sono destinati al fallimento. Meglio farebbero le chiese europee a spendere tutte le forze, anche finanziarie, anzi la loro vita, nell'unico compito che Cristo ha affidato loro: far conoscere il vangelo a tutte le genti e chiamarle a conversione. Solo l'estensione della fede cattolica può compattare il globo secondo i tempi di Dio. Questo passerà attraverso la persecuzione, la croce, la vera "teologia della liberazione"».

Esistono fenomeni di proselitismo studiati ad hoc? Magari adatti pure per gli europei che fanno cooperazione all'estero?

«Circa vent'anni fa, ho conosciuto ad Amman dei giovani sauditi che ogni tre mesi, muniti di visto, uscivano dall'Arabia per venire a catechizzarsi per diventare cristiani. Mi mostrarono il materiale propagandistico stampato in arabo, che dal loro paese veniva inviato fino a Londra, documentando il piano di dominio islamico in Europa. Per attuarlo è necessaria l'immigrazione ma anche il proselitismo tra gli europei, specialmente delle Ong, in cui l'identità cristiana o è inesistente o è annacquata. Oggi sappiamo che Londra è in gran parte musulmana, complice anche la pressoché totale sparizione degli anglicani. Ma c'è una pattuglia di cattolici che resiste e vincerà, a costo del martirio».

Silvia ha scelto di chiamarsi Aisha, come una delle mogli di Maometto...

«Chissà se prima di cambiar nome e credo, sapeva che santa Silvia è la madre di san Gregorio Magno. E chissà se conosce quanto conclude uno studioso di prima grandezza, dell'islam e della tradizione araba cristiana, della cui amicizia mi onoro, il gesuita egiziano Samir Khalil Samir - citando il Corano al versetto 228 della sura della Vacca e al 34 di quella delle Donne: "Mentre nella concezione cristiana l'uomo e la donna sono messi su un piano di sostanziale parità, in quella musulmana si stabilisce una differenza a livello ontologico, come affermano ancora oggi gli autori musulmani, che presentano il ruolo della donna nell'Islam spiegando che essa, essendo per sua natura più debole fisicamente, più fragile psichicamente e più emotiva che razionale, è inferiore all'uomo e deve sottostare a lui"».

Silvia Romano cambia nome dopo la conversione: “Ora mi chiamo Aisha”. Antonino Paviglianiti l'11/05/2020 su Notizie.it. Dopo la conversione, Silvia Romano annuncia di avere anche un nuovo nome: la cooperante italiana adesso si fa chiamare Aisha. Silvia Romano ora è Aisha. Nel lungo interrogatorio con i Pm di Roma, nella giornata di domenica 10 maggio ha annunciato di avere un nuovo nome. La giovane cooperante – rimasta prigioniera in Somalia per ben 18 mesi – ha raccontato di come è avvenuta la sua conversione alla religione islamica e, di conseguenza, quale sia adesso il suo nuovo nome. Silvia Romano agli inquirenti ha raccontato: “Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata. Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto. A uno di loro ho chiesto di leggere qualcosa, ho chiesto il Corano”. Ed è da qui che inizia il suo processo di conversione all’Islam. Durante la prigionia, infatti, Silvia Romano ha raccontato di aver letto attentamente le sacre scritture della religione islamica e di aver deciso, di sua spontanea volontà e senza alcuna violenza da parte dei suoi aguzzini: “Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera”. E alla psicologa presente all’interrogatorio ha confidato: “Adesso il mio nuovo nome è Aisha“. Ma qual è il significato di questo nuovo nome di Silvia Romano? Questo nome islamico significa: “Madre dei credenti”. E secondo la tradizione della religione islamica, Aisha è stata la sposa di Maometto: i due, secondo i racconti religiosi, convolarono a nozze quando la ragazza aveva poco più di 6 anni.

Viviana Mazza per corriere.it l'11 maggio 2020. A’isha è un nome arabo, significa «viva»: lo ha scelto Silvia Romano. Si chiamava così la compagna più intima e amata di Maometto, dopo la morte della prima moglie Khadija, ed è per questo un nome popolarissimo tra i musulmani di tutto il mondo. A’isha bint Abi Bakr era la figlia di Abu Bakr, uno dei capi più influenti della prima comunità musulmana, che divenne uno dei compagni del Profeta e poi, dopo la sua morte, il primo califfo dell’Islam. L’età del fidanzamento e delle nozze è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi: secondo alcuni fu promessa in sposa al Profeta a sei anni, secondo altri a nove anni, e non è chiaro se il rapporto sia stato consumato quando raggiunse la pubertà.

L’influenza di Aisha. A’isha era una donna estremamente influente: quasi un sesto di tutti gli hadith «attendibili» (non solo sulla vita privata di Maometto, ma anche su questioni che vanno dall’eredità al pellegrinaggio) possono essere ricondotti a lei. Fungeva da leader politica, accompagnava a dorso di cammello il marito, che andasse in battaglia o a negoziare un trattato. ‘A’isha, come attestano tutte le tradizioni, era l’unica persona che poteva permettersi di rispondere a tono a Maometto. È tra le sue braccia che il Profeta dell’Islam è morto.

Sunniti e sciiti. L’antagonismo tra le fazioni di A’isha e ‘Ali, cugino e genero del Profeta, segnerà poi le divisioni tra sunniti e sciiti e la renderà un personaggio odiato da questi ultimi, al punto che ai nostri giorni hanno preso il suo nome anche brigate anti-sciite che hanno rivendicato attacchi contro l’Hebzollah. Gli ultimi vent’anni della sua vita, fino alla morte a 62 anni, trascorsero a Medina, lontano dalla politica, e si riconciliò con Ali. Oggi A’isha viene spesso citata da fronti opposti: da chi si richiama a lei per difendere la pratica delle spose bambine, ma era anche per esempio diventata simbolo delle femministe saudite che rivendicavano il diritto a condurre l’auto ricordando che lei «guidava» il cammello.

Silvia Romano adesso si chiama "Aisha" Ecco cosa significa per l'islam. La scelta del nome "Aisha" ha un significato profondo nel mondo islamico. Chi era la "madre dei credenti". Ignazio Stagno, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. Silvia Romano ora è un’islamica. Il suo percorso di conversione, come lei stessa ha raccontato, non è avvenuto sotto costrizione. A metà della sua prigionia ha chiesto un Corano e da lì avrebbe iniziato un percorso di fede che l’ha portata a credere in Allah e nel suo profeta, Maometto. Ma dalle pieghe del suo racconto emerge anche un altro aspetto. Dopo la conversione, la Romano avrebbe anche cambiato nome. Non è più Silvia, adesso si chiama “Aisha”. Sarebbe questo il nome islamico che la ragazza ha scelto durante la sua prigionia e che ha rivendicato una volta tornata a casa, nel suo Paese. Ma perché ha scelto proprio il nome Aisha? Cosa significa nell’islam? Il nome è un omaggio ad Aisha bint Abi Bakr, figlia di Abu Bakr, primo califfo dell’islam. Ma Aisha è stata anche la più importante delle spose di Maometto. Secondo quanto riportato dal testo islamico, Aisha sposò Maometto per superare il lutto della amata moglie Khadija nel 619. Aisha quando venne promessa in sposa a Maometto aveva solo sei anni e a quanto pare era la figlia di uno dei migliori amici del profeta. A far scattare il matrimonio sarebbe stata la visione dell’Arcangelo Gabriele che avrebbe dato l’ordine a Mamometto di sposare Aisha. Il matrimonio tra il profeta e Aisha sarebbe stato consumato quando la sposa aveva nove-dieci anni. Mamometto al momento delle nozze aveva 50 anni. Secondo alcuni studiosi dell’islam però l’età di Aisha al momento delle nozze si attesterebbe in una fascia che va dai 14 ai 24 anni e una parte degli studi colloca l’età di Aisha al momento delle nozze a 19 anni. Aisha divenne, secondo i testi dell’islam, la favorita di Maometto. Il legame tra Maometto e Aisha proseguì anche dopo la morte del profeta. Infatti secondo la tradizione, Maometto venne sepolto al momento della sua morte (a 62 anni) nella “camera di Aisha”, all’interno della sua stanza. Lì sarebbe stata tratta la Moschea del Profeta. Al momento della morte di Aisha venne posto un sacello vicino al marito. Ma a quanto pare era vuoto. Il corpo della donna, morta a 62 anni, sarebbe stato collocato nel cimitero medinese di Al Baqi al-Ghrarqad. In arabo il nome di Aisha significa “Madre dei credenti”. E dopo la morte di Maometto, la donna divenne un punto di riferimento importante per tutto il mondo islamico. Quanto appreso da Maometto lo confidò al nipote Urwa ibn al-Zubayr. Insomma la scelta di Silvia Romano di farsi chiamare Aisha ha di certo un significato profondo che di fatto spiega anche il percorso di conversione affrontato durante la prigionia in Somalia.

NOBILE: SILVIA ROMANO, CONVERSIONE (?) SU LAVAGNA VUOTA…Pubblicato da Marco Tosatti l'11 Maggio 2020. Marco Tosatti. Carissimi Stilumcuriali,  a tamburo battente -questa notte – Agostino Nobile ci ha scritto un commento molto interessante, provocatorio e documentato sulla storia di Silvia Romano, la cooperante riscattata a suon di milioni dal governo italiano dopo molti mesi di prigionia presso un gruppo di terroristi islamici, Al Shabaab, responsabili di una lunga serie di crimini efferati in nome dell’islam. Buona lettura. 

  La conversione all’islam di Silvia Romano. Sindrome di Stoccolma o ignoranza? A Stoccolma, nell’agosto del 1973, due rapinatori tennero in ostaggio per 131 ore quattro impiegati nella camera di sicurezza della Sveriges Kreditbank. Una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori, che durò anche dopo l’antefatto. Nonostante durante il sequestro la loro vita fosse stata continuamente in pericolo, al processo la ragazza e alcuni degli ostaggi testimoniarono in favore dei sequestratori. In seguito alla vicenda l’agente speciale dell’FBI Conrad Hassel, utilizzò per la prima volta il termine sindrome di Stoccolma. Ma, come sappiamo, fatti analoghi non mancano nella cronaca, nella letteratura e nella storia. Gran parte degli strizza cervelli sono convinti che questo atteggiamento non faccia parte di quello che possiamo definire ordinaria follia, ma di meccanismi mentali guidati dall’istinto di sopravvivenza. Ciò accade perché la vittima sente la propria vita nelle mani di un possibile carnefice. Così, cercando di evitare la morte e nella speranza che l’aguzzino possa impietosirsi, sviluppa un meccanismo psicologico di totale attaccamento verso di lui. È forse il caso di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya nel novembre 2018 e rilasciata lo scorso 9 di maggio in Somalia? I quotidiani riportano un suo commento che, oggettivamente, lascia alquanto perplessi: «È vero, mi sono convertita all’Islam. Ma è stata una mia libera scelta, non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori, che mi hanno trattato sempre con umanità. Non è vero, invece, che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche, né violenze.» Dando un’occhiata al sito Africa Milele, la Onlus per la quale lavora la giovane Romano, si legge: “Significa soprattutto rispettare e valorizzare le diversità insite in ogni tradizione ed in ogni essere umano, per conferire a qualsiasi forma di vita la dignità e la posizione che merita all’interno della propria esistenza. Per attuare tutto ciò il nostro operato seguirà sempre valori quali Rispetto, Libertà ed Uguaglianza, per avere, appunto, la Possibilità di vivere concretamente in un mondo moralmente accettabile.” Parole che non fanno dubitare sul radicale laicismo dell’Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (solo gli ingenui credono che le Onlus siano non lucrative). A questo punto la conversione di Silvia non crea nessuna meraviglia. L’amico Piero Gheddo diceva che su una lavagna vuota chiunque può scriverci quello che vuole. Fosse anche un aguzzino, aggiungo. Infatti le coscienze di milioni di giovani rappresentano lavagne vuote, non solo per l’aspetto religioso. Dagli anni Sessanta la scuola, i media e la Chiesa sono diventate cose che appartengono alla santa Moda. Una lavagna nera. Tornando alla giovane Silvia, pare ovvio che della dottrina cristiana e islamica sa poco o niente.  Se poi, come sembra aver affermato, lei stessa ha chiesto di leggere il Corano, ci chiediamo: era un testo in italiano o in inglese? Una traduzione addolcita per gli occidentali o quella originale? Forse le hanno detto che dev’essere interpretato? O forse le hanno raccontato le malefatte degli occidentali, nascondendo quelle musulmane protratte per mille e quattrocento anni. O forse è costretta a presentarsi come musulmana per salvare qualcuno che si trova ancora nelle mani degli islamisti? Al momento non lo sappiamo. Siamo tuttavia sicuri che la conversione di Silvia ha galvanizzato milioni di musulmani e stimolato molti giovani occidentali senza arte né parte a farci un pensierino. Non solo. Dato che i soldi per il riscatto vengono dalle tasche dei contribuenti, la ragazza ha dato simbolicamente un calcio in faccia ai cristiani, dimostrando fiducia ai rapitori musulmani (che hanno eseguito alla lettera il Corano) e non a chi gli ha salvato la vita. A questo punto permettetemi di riportare alcuni versetti del Corano relativi alla donna.

Sura LXXVIII: 31-34: Ma per gli osservanti [in paradiso] ci sarà il successo! Parchi e vigne, vergini dal seno turgido, coetanee, e calici ricolmi. [E per le donne? Boh!]

Sura IV:15: Se ci sono femmine vostre che si rendono colpevoli di scandalo, cercate fra voi quattro testimoni contro esse. Se in realtà la loro testimonianza è vera, tappatele in casa, nei recessi segreti, fino a che morte non sopravvenga, o che il Dio porga loro una via di uscita.

Maschietti misogini, non montatevi la testa, ce n’è anche per voi.

Sura IV:16: Se si tratta di due maschi, sotto con la tortura!

Sura LXVI: 5: S’egli vi darà il libello del ripudio [secondo la sharia il marito può ripudiare la moglie quando e come vuole privandola di tutti i diritti] è molto probabile che il Signore lo faccia innamorare di altre donne, certamente migliori di voi. Saranno musulmane, piene di fede, devote, col cuore pentito.

Sura IV:11: Riguardo ai vostri figli Iddio vi raccomanda di lasciare al maschio la parte di due femmine: se i figli sono solo femmine e più di due, loro spettano i due terzi dell’eredità.

Oltre a 15 spose, il Profeta ebbe a una ventina di concubine. Dopo la morte della prima moglie Khadigia, ricca commerciante con più anni di Maometto, sposò la piccola A’isha. Lo storico e devoto Salhi Muslim, nel Libro 8 numero 3310, a tal proposito scrive: “A’isha (che Allah sia compiaciuto di lei) ha riportato: l’Apostolo di Allah (che la pace sia su di lui) mi ha sposata quando avevo sei anni, e sono stata ammessa in casa sua quando ne avevo nove”.

Sahid Bukhari, Volume 7, Libro 62, Numero 88: “Narrato da ‘Ursa: Il Profeta scrisse (il contratto di matrimonio) con A’isha quando lei aveva sei anni e consumò il suo matrimonio con lei quando ne aveva nove e lei rimase con lui per nove anni (fino alla morte del Profeta)”.

Beh, dirà qualcuno, nell’AT troviamo fatti analoghi. Ma se in Israele non troviamo ombra (grazie anche ai cristiani) delle usanze tribali dei loro antenati, nei paesi musulmani le cose vanno diversamente. Per gli esegeti del Corano il testo sacro non può essere interpretato ma accolto alla lettera, e il Profeta rappresenta il modello di vita da seguire. Capita così che oggi, secondo l’Unicef, nel mondo musulmano le spose bambine sono oltre 60milioni. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo. Agostino Nobile

I matrimoni della Sharia non sono validi per la legge britannica. Così hanno deciso i Tribunali del Regno Unito. Carlo Franza il 10 maggio 2020 su Il Giornale. La Corte d’Appello, il secondo tribunale più alto nel sistema giuridico di Inghilterra e Galles, dopo la Corte Suprema, ha stabilito che il contratto di matrimonio, noto come nikah in arabo, non è valido ai sensi della legge britannica, e quindi i matrimoni della Sharia non sono validi per la legge britannica.  E’ una  notizia storica, importantissima, per tutti i paesi d’Europa che possono guardare ora all’Inghilterra come un faro da seguire. E dunque questa storica sentenza ha implicazioni di vasta portata, perchè se  da un lato, la decisione compromette i tentativi di sancire questo aspetto della legge della Sharia nel sistema giudiziario britannico,  dall’altro lato, nega a migliaia di potenziali donne musulmane in Gran Bretagna la possibilità di ricorrere alle vie legali in caso di divorzio. Un esempio pratico da cui è partita l’attuazione si è avuta in occasione di quanto verrò narrando. Partiamo dal caso oggettivo di  una coppia separata, tali Nasreen Akhter e Mohammed Shabaz Khan, entrambi di origini pakistane, che avevano contratto un nikah con una cerimonia officiata da un imam di fronte a 150 invitati, in un ristorante di Londra, nel dicembre del 1998. Nel novembre del 2016,  la signora Nasreen Akhter  avvocato 48enne, aveva  chiesto il divorzio, presumibilmente perché Mohammed  Shabaz Khan voleva prendere una seconda moglie.L’uomo un agente immobiliare di 48 anni, ha cercato di bloccare l’istanza di divorzio sostenendo che non erano legalmente sposati ai sensi della legge britannica. Khan ha dichiarato che erano marito e moglie solo “secondo la legge della Sharia” ed è ricorso in giudizio per impedire alla Akhter di pretendere da lui denaro o proprietà, come un coniuge legalmente sposato ha diritto di fare. La donna ha riferito  che lei e Khan, che hanno quattro figli, intendevano far seguire alla cerimonia del nikah un’altra cerimonia civile che sarebbe stata conforme alla legge britannica,  ma ciò non è mai avvenuto e  c’è mai stata  nessuna cerimonia civile perché, secondo l’ avvocatessa  Akhter,  il signor Khan si è rifiutato di procedere in tal senso.Il 31 luglio 2018, la Family Division dell’Alta Corte  asseriva che il nikah rientrava nell’ambito del Matrimonial Causes Act 1973, che stabilisce tre categorie di matrimonio: valido, nullo e inesistente. I matrimoni validi possono essere sciolti con un decreto di divorzio; i matrimoni nulli con un decreto di nullità e quelli inesistenti non possono essere sciolti perché il matrimonio non è mai esistito a livello legale. Il giudice ha difatti stabilito che il matrimonio celebrato tra le parti doveva qualificarsi come “nullo”, in quanto “celebrato in violazione di alcuni requisiti riguardanti la formazione del matrimonio”; e che quindi la ricorrente aveva diritto a un “decreto di nullità del matrimonio”. Il procuratore generale, a nome del governo britannico, ha presentato appello sul presupposto che era sbagliato riconoscere il matrimonio come “nullo” anziché come “inesistente”. E veniamo alla storica sentenza, perché il 14 febbraio 2020, la Corte d’Appello con sede a Londra ha annullato la decisione dell’Alta Corte e ha stabilito che i nikah sono matrimoni “inesistenti” nell’ambito della legge britannica. Nella sua sentenza, l’Alta Corte così dichiarava :”La Corte d’Appello ritiene che la cerimonia di nikah celebrata nel dicembre del 1998 non ha creato un matrimonio nullo perché non era una cerimonia valida. Le parti non hanno contratto matrimonio, secondo le disposizioni della legge britannica (Parte II del Marriage Act 1949). La cerimonia non è stata officiata in una struttura abilitata. Peraltro, non è stata data alcuna comunicazione al sovrintendente ufficiale di stato civile, non sono stati rilasciati dei certificati e non era presente alla cerimonia nessun ufficiale di stato civile o persona autorizzata. Inoltre, le parti sapevano che la cerimonia non aveva alcun valore legale e che avrebbero dovuto celebrare un’altra cerimonia che fosse conforme ai pertinenti requisiti per essere validamente sposati. Secondo la Corte, la determinazione del fatto che un matrimonio sia nullo o meno dipende da futuri eventi, come l’intenzione di officiare un’altra cerimonia o se ci sono figli. Non è giustificato considerare la cerimonia civile, che le parti intendevano celebrare, come di fatto avvenuta, quando non è stato così. Questo può avere come conseguenza che una coppia risulti sposata anche se a un certo punto cambia idea durante il processo di formalizzazione del matrimonio. Ciò sarebbe in contraddizione con l’abolizione del diritto di proporre azioni per la violazione di una promessa di matrimonio come definito dalla section 1 del Law Reform (Miscellaneous Provisions) Act 1970. Le intenzioni delle parti non possono trasformare quella che altrimenti sarebbe una cerimonia non valida in una che rientra nell’ambito di applicazione del Marriage Act 1949“. Nel gennaio del 2019, il Consiglio d’Europa, la principale organizzazione di difesa dei diritti umani del continente,  ha manifestato grande preoccupazione in merito al ruolo delle corti della Sharia nell’ambito del diritto familiare, ereditario e commerciale britannico. E così ha chiesto al governo di eliminare gli ostacoli che impediscono alle donne musulmane di accedere alla giustizia; eccone il testo: “Sebbene non siano considerati parte del sistema giuridico britannico, i consigli della Sharia cercano di fornire una forma alternativa di risoluzione delle dispute, per cui i membri della comunità musulmana, a volte volontariamente, spesso sotto una fortissima pressione sociale, accettano la loro giurisdizione religiosa principalmente in questioni coniugali e nelle procedure di divorzio islamiche, ma anche in questioni legate alle eredità e ai contratti commerciali islamici. L’Assemblea è preoccupata del fatto che le regole dei consigli della Sharia discriminino chiaramente le donne in materia di divorzio e di successione”. Il Consiglio d’Europa ha inoltre  stabilito come termine il prossimo giugno 2020 affinché il Regno Unito riferisca all’Assemblea in merito alle misure atte a rivedere il Marriage Act, il che renderebbe obbligatorio per le coppie musulmane contrarre un matrimonio con rito civile come attualmente previsto per le nozze cristiane ed ebraiche. Infine un portavoce del ministero dell’Interno ha così risposto alla risoluzione del Consiglio d’Europa: “La legge della Sharia non è parte integrante della legge in Inghilterra e nel Galles. Indipendentemente dal credo religioso, siamo tutti uguali davanti alla legge. Laddove esistono i consigli della Sharia, devono conformarsi alla legge. Vigono leggi per tutelare i diritti delle donne e prevenire le discriminazioni, e lavoreremo con le autorità competenti per garantire che tali leggi vengano pienamente ed effettivamente applicate”. Al momento, né il governo britannico né il Parlamento britannico hanno introdotto una legislazione che imponga ai musulmani di contrarre matrimoni civili prima o durante la cerimonia del nikah. La sentenza della Corte d’Appello, tuttavia, pone un freno all’ulteriore sconfinamento della legge della Sharia nel sistema giuridico britannico. Pertanto la decisione della Corte d’Appello con sede a Londra   ribadisce con efficacia il principio che gli immigrati che si stabiliscono nel Regno Unito devono conformarsi alla legge britannica, e non il contrario. Ritengo infine che tale decisione sia stata  indice della grande civiltà e democrazia che hanno gli inglesi, specie oggi che hanno finalmente messo in piedi la Brexit. Carlo Franza  

Guido Bertolaso: “Silvia Romano? 18 mesi di prigionia non casuali”. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Sulla durata del rapimento di Silvia Romano si è espresso anche Guido Bertolaso, che reputa i 18 mesi di prigionia non casuali. Sulla durata del rapimento di Silvia Romano si è espresso anche Guido Bertolaso. L’attuale Commissario straordinario di Regione Lombardia per la lotta al Coronavirus è stato ospite, lunedì 11 maggio, di Quarta Repubblica. Nel salotto di Nicola Porro l’argomento del giorno è stato il ritorno di Silvia Romano, la cooperante milanese tenuta ostaggio per 18 mesi. Per Bertolaso i principali responsabili di questa storia sono le Ong che mandano allo sbaraglio i ragazzi, in realtà difficili come quelle del Kenya o della Somalia: “I cooperanti italiani devono andare con organizzazioni serie e strutturate, che mai manderebbero ragazzi allo sbaraglio. Facciamo un’analisi seria su quelle organizzazioni che mandano questi ragazzi in situazioni a rischio”.

Guido Bertolaso: il pensiero su Silvia Romano. Per Guido Bertolaso, ex capo della Protezione Civile, chi ha rapito Silvia Romano (Al Shabaab) non va assolutamente assolto. Anche perché il suo pensiero è molto chiaro anche in merito alla conversione: “Non ci possono essere assoluzioni verso questi criminali, sono professionisti del terrorismo e non credo che sia stato casuale che abbiano tenuto questa povera ragazza per 18 mesi”. Per Bertolaso, infatti, un anno e mezzo è il tempo corretto per poter convincere una persona a convertirsi alla religione islamica. Ed è per questo che il rapimento di Silvia Romano è durato ben 18 mesi. “L’hanno convinta anche a cambiare nome. È tornata dalla sua famiglia e si chiama Aisha, non più Silvia” conclude un amareggiato Guido Bertolaso.

Alessandro Sallusti e Vittorio Sgarbi. Tra gli ospiti di Nicola Porro a Quarta Repubblica si contano anche Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, e Vittorio Sgarbi, deputato e critico d’arte. Il primo ha evidenziato come: “Qui ai terroristi non gliene frega niente di nessuno, per la cultura italiana una vita umana non ha prezzo, bisognerebbe fare una legge che impedisca a persone di andare in posti a rischio“. E sul cambio nome, da Silvia ad Aisha, Sallusti sottolinea: “Mi ha colpito che non ha avuto una parola di critica per i suoi sequestratori”.

"Quali terroristi? L'hanno solo rieducata", le frasi shock degli islamici su Silvia Romano. Nella kasbah romana di Tor Pignattara nessuno crede che la conversione di Silvia Romano sia stata forzata e c'è persino che dà ragione agli al Shabaab: "Quali terroristi? Quella è gente che prega, i terroristi siete voi che lanciate le bombe sui bambini". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Ci sono tanti aspetti della storia di Silvia Romano ancora da chiarire, ma uno di quelli che sembra aver suscitato maggior interesse nell'opinione pubblica è il segreto della sua conversione. La scelta di abbracciare la stessa religione dei suoi carcerieri, di quelli che hanno fatto irruzione nella sua vita strappandola alla libertà e agli affetti per 18 mesi, è una cosa che sfugge all'umana comprensione. Non esistono spiegazioni razionali che ci mettano al sicuro da ciò che non riusciamo a decifrare. E così ognuno ricorre alla sua suggestione. Chi prega Allah se ne compiace e lo prende come un segno della sua grandezza. È il caso dei tanti utenti che in queste ore stanno commentando la notizia sui social arabi tirando in ballo la divina provvidenza: "Grazie ad Allah che le ha indicato la retta via dell'Islam". Qualcun altro, come riferisce Askanews, esulta per "l’impresa dei giovani mujaheddin". "Le strade del Signore sono infinite", ci dice un giovane studioso del Corano che incrociamo davanti alla moschea di via della Marranella, nel quartiere romano di Tor Pignattara, dove la concentrazione di musulmani è altissima. Impossibile, secondo il ragazzo, che la sua conversione sia stata forzata. "È stata una sua decisione, nell'Islam la conversione forzata - spiega - non esiste". E poi, aggiunge: "Se fosse stata costretta, perché quando è tornata in Italia non si è tolta il velo?". È la stessa versione che ci dà Omar, un medico libico sulla trentina che frequenta la moschea di via Capua. "La prova è stata il suo rientro in Italia, era velata e sorridente, credo che Allah le abbia toccato il cuore", spiega. "Secondo me - aggiunge - ha trovato qualcosa che forse le mancava". Il giovane non crede alla versione del rapimento né che il governo italiano abbia pagato un riscatto ai terroristi. "Non sono convinto, per ora le informazioni sono poche e non ci sono certezze, per come la vedo io la ragazza non sembrava particolarmente provata". In ogni caso, ci tiene a precisare, "se si fosse trattato davvero di un sequestro è chiaro che lo condannerei". Ma non tutti qui la pensano così. Nella kasbah romana c'è anche chi legittima i jihadisti somali di al Shabaab e si surriscalda quando ci sente chiamarli "terroristi". "Quali terroristi? Quella è gente che prega, i terroristi siete voi che lanciate le bombe sui bambini assieme agli americani", ci risponde piccato un musulmano sulla settantina. "Lei è andata lì per seminare discordia e invece ha ricevuto un'educazione e si è arricchita spiritualmente, adesso è libera e felice", continua. Capito come? Secondo il nostro interlocutore ci sarebbe pure da ringraziarli questi tagliagole per aver "educato" Silvia all'Islam facendola uscire dal "buio". "Non è stata una conversione - insiste - ma un ritorno alle origini, il battesimo e la cresima quelli sì che sono atti terroristici perché tutti noi nasciamo musulmani". Nel momento in cui Silvia ha sposato la fede coranica, ci assicura, "è diventata come una sorella, ed i mujaheddin morirebbero per lei". L'anziano non ha dubbi: "È stata trattata da signora, noi le donne le rispettiamo". Affermazioni forti da cui Siddique Nure Alam, presidente dell'associazione Dhuumcatu e punto di riferimento della comunità islamica di Tor Pignattara, che lo conosce come Batchu, prende le distanze. "La questione della conversione di Silvia è stata esasperata, si sono create delle tifoserie da stadio, io - spiega - sono contento che sia stata liberata, il resto sono affari suoi". "Non credo - aggiunge - che l'abbiano trattata male, sennò non si spiegherebbe il suo atteggiamento disteso". Il fatto che la cooperante si sia uniformata ai costumi religiosi dei suoi carcerieri, per Batchu, potrebbe essere dovuto anche al vuoto di valori della società occidentale. "Secondo me - conclude - questa ragazza ha sentito una mancanza di spiritualità, ci sono tanti cattolici che si definiscono tali ma non praticano, credo che venendo in contatto con una religione più forte abbia finito per esserne ispirata".

Silvia Romano, l'Imam di Milano: "Conversione spontanea? Impossibile, i rapitori non rappresentano l'Islam". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Da quando ha messo piedi in Italia dopo 18 mesi di prigionia, Silvia Romano è al centro del dibattito pubblico per la conversione all’Islam che, a suo dire, è avvenuta di sua spontanea volontà. Una spiegazione che non convince affatto Mahmoud Asfa, presidente del consiglio direttivo della casa della cultura islamica di Milano e Imam. In Italia da 35 anni, appartiene alla moschea dello stesso quartiere della 25enne cooperante. Ma che cos’è che lo lascia perplesso nella vicenda di Silvia? “Alcune questioni. Innanzitutto - ha spiegato in un’intervista a La Stampa - mi chiedo come sia possibile considerare libera l’adesione a una religione mentre sei da mesi nelle mani di sequestratori tanto violenti come quelli di Al Shabaab. Poi, il fatto che abbia scelto di diventare musulmana dopo aver letto il Corano in italiano. Ricordiamo che tante traduzioni sono imprecise, sbagliate”. Secondo Mahmoud è un libro molto complesso, anche per chi è madrelingua arabo, ma non è tutto: “Sappiamo che Al Shabaab è uno dei più violenti gruppi terroristici, affiliato ad Al Qaeda. Non so che tipo di Islam le hanno proposto, visto che non rappresentano questa religione. Ragionando - ha concluso - non riesco a comprendere come una persona che è stata rapita possa poi abbracciare la religione dei suoi rapitori”. 

Ma presto Silvia capirà che l'islam annulla la dignità. Io, convertito al cristianesimo, grazie a Ratzinger so cosa significa il sodalizio tra fede e ragione. Magdi Cristiano Allam, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. La mia conversione dall'islam al cristianesimo si è concretizzata quando c'è stato il concorso di tre fatti: la forza della persuasione insita nel contenuto dei Vangeli, il testo sacro del cristianesimo che racconta la vita di Gesù; il fascino del carisma di autentici testimoni di fede cristiana che hanno saputo coniugare in modo armonioso la verità che affermano, i valori in cui credono, le opere buone che compiono; la constatazione della negatività e dell'incompatibilità sul piano della ragione e della morale naturale dei contenuti dell'islam, che corrispondono a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Sin da bambino mi piaceva scrivere e leggere, e nel contesto della mia crescita in collegi cristiani cattolici, pur essendo nato musulmano, da genitori musulmani e in un Egitto a maggioranza islamica, i Vangeli erano la mia lettura preferita. Amavo le parabole di Gesù che, anche al di là della fede, sono delle perle di saggezza umana. Nutrivo ammirazione per gli insegnanti religiosi e laici, che ispirandosi all'esempio di Gesù, si prodigavano per fare il bene di noi bambini a prescindere dal fatto che fossimo cristiani, musulmani o ebrei, italiani, egiziani o di altra nazionalità. Solo a 56 anni, dopo essere stato il musulmano che più di altri si era impegnato per affermare in Italia un «islam moderato», di fronte a delle condanne e minacce di morte da parte di altri musulmani che ottemperano letteralmente e integralmente al Corano e a Maometto, mi sono arreso prendendo atto che i musulmani come persone possono essere moderati, se sono sostanzialmente laici, ma che l'islam come religione non è moderato. Fu così che, dopo aver deciso di liberarmi dall'islam, nella notte della Veglia Pasquale il 22 marzo 2008 ebbi il dono immenso di ricevere il battesimo, la cresima e l'eucarestia dalle mani del Papa Benedetto XVI, il Papa che più di altri ha incarnato il sodalizio armonioso di fede e ragione, che da musulmano ammirai quando il 12 settembre 2006 a Ratisbona disse la verità in libertà sull'islam, denunciando la violenza perpetrata da Maometto e sostenendo che se una fede è in contrasto con la ragione non è una vera fede. Confrontando la mia esperienza a quella di Silvia Romano, assumendo i tre parametri a cui ha fatto riferimento la mia conversione, quella di Silvia alias Aisha mi lascia perplesso. Per quanto concerne il Corano, il testo sacro dell'islam, che lei dice di aver richiesto e letto in una traduzione in italiano, non è credibile che possa averle ispirato una «conversione spontanea». Oltre ad essere un testo difficile da comprendere perché scritto in modo involuto con dei contenuti che si susseguono senza un filo logico e si ripetono in modo insensato, è indubbio che nel Corano Allah, che è un dio pagano preesistente all'islam, ordina l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei miscredenti, che sono tutti i non musulmani. Per quanto concerne i suoi carcerieri, che lei esalta sostenendo che l'hanno trattata bene e che assumerebbero il ruolo dei testimoni che attesterebbero la bontà dell'islam, si tratta di terroristi islamici somali di Al-Shabab, responsabili di stragi efferate di cristiani e di musulmani che non si sottomettono al loro potere sanguinario. Infine, per quanto concerne l'abbandono della precedente fede, non so se prima di convertirsi all'islam Silvia alias Aisha fosse atea, agnostica o se avesse il dono della fede in Dio, così come non so se fosse cristiana solo formalmente o se praticava il culto in modo consapevole e convinto. Ma è indubbio che il cristianesimo è del tutto compatibile con la morale naturale, si fonda sull'amore del prossimo, contempla il sodalizio di fede e ragione. Così come è difficile immaginare che una giovane tra i 23 e i 25 anni possa liberamente rinnegare una civiltà laica, che garantisce la pari dignità tra uomo e donna, per abbracciare una religione maschilista e misogina che concepisce la donna come un essere antropologicamente inferiore che vale la metà dell'uomo. Lo stesso nome islamico scelto, Aisha, è quello della moglie-bambina prediletta di Maometto, che lui sposò nel 630 quando aveva 50 anni e lei appena 6 anni. Per l'insieme di queste ragioni non credo affatto che la conversione all'islam di Silvia Romano possa essere stata spontanea e libera.

Magdi Cristiano Allam. Redazione de Il Giornale Off il 14/05/2020. Magdi Cristiano Allam è stato uno dei primi a denunciare l’Islam radicale. Il rientro in Italia di Silvia Romano, secondo quelle modalità, sta dando dei segnali pericolosi. La Turchia sostiene l’islamismo radicale in Iraq, in Siria e, in Somalia, al Shabaab, il gruppo terrorista che ha rapito la giovane cooperante milanese. Preoccupa la sua conversione, che lei sostiene essere stata spontanea. Quando gli estremisti islamici prendono il potere, per prima cosa impongono il velo alle donne: non è affatto vero che il velo sia una libera scelta. Gli estremisti islamici, che hanno le mani grondanti il sangue sia dei cristiani che dei musulmani, non possono in alcun modo essere additati come testimoni di una adesione libera all’Islam: la lettura del Corano mostra che Allah ordina in modo esplicito la guerra contro i miscredenti, cioè i non musulmani. Aisha, che è il nuovo nome di Silvia Romano, è il nome della seconda moglie di Maometto, che lui sposò a 50 anni quando lei ne aveva 6. L’Eurabia è già una realtà. Oriana Fallaci fu testimone della tragedia epocale del crollo delle Torri Gemelle: la radice del male è l’Islam stesso. Quando noi non diciamo la verità in libertà vuol dire che stiamo morendo interiormente, rinunciando alla nostra dignità e alla nostra libertà. La donna nell’Islam. Negli ultimi della sua vita, Maometto entrò in moschea dalla parte posteriore, dalla parte delle donne. E disse loro: ho visto in sogno l’inferno e in gran parte è popolato dalle donne, perché la donna è manchevole sul piano dell’intelletto e della ragione. I versetti coranici dicono esplicitamente che la donna vale la metà dell’uomo e che l’uomo può avere fino a 4 mogli e che può ripudiare e picchiare le sue mogli. La donna nell’Islam è antropologicamente inferiore. Il Paradiso è un bordello per soli uomini. O il musulmano è totalmente laico o la conseguenza è la violenza verso la donna. Dove sono le femministe? Il ritorno in Italia di Silvia Romano si è tradotto in uno straordinario successo dei terroristi somali di al Shabaab, sia sul piano mediatico che sul piano finanziario che sul piano propagandistico. Questo ci fa capire che l'islam è uno solo: non ce n’è uno moderato e uno per i terroristi. I musulmani possono assumere posizioni diverse solo se hanno percentuali diverse di ragione e di cuore: l’Islam come religione, in Italia, è fuori legge, perché totalmente incompatibile con le leggi di questo Paese.

La scelta di diventare cristiano da musulmano. Condannato a morte da Hamas, Magdi Cristiano Allam vive da anni sotto scorta. L’incontro con Benedetto XVI a San Pietro: la capacità di coniugare fede e ragione. La fede senza ragione non è vera fede. Bergoglio: il relativismo religioso di Bergoglio mette sullo stesso piano il Cristianesimo e l’Islam. Ma l’Islam non predica nè l’amore nè la pace. Storicamente ha sempre cercato di sottomettere l’Europa con la violenza. Senza la Reconquista e senza Lepanto anche l’Europa avrebbe fatto la fine della sponda del Mediterraneo. Ma il nemico è dentro casa nostra: l’Islam non ottempera l’articolo 8 della nostra Costituzione. Ma lo Stato italiano si comporta come se l’Islam fosse una religione riconosciuta. Ci stiamo comportando come se fossimo già sottomessi all’Islam. Le lacrime del Ministro Bellanova ricordano le lacrime della Fornero. Ci si commuove assumendo degli atti contro gli Italiani. Gli italiani in Italia sono discriminati rispetto agli stranieri. Come disse Ratzinger, l’Occidente odia se stesso: recuperiamo l’amor proprio attraverso la rinascita culturale. Dovrebbe essere un fatto ovvio dire che l’Italia è la casa degli italiani, invece è quasi un reato. Dobbiamo reimparare l’abc della nostra cultura e della nostra umanità: se non vogliamo bene a noi stessi non ne vorremo nemmeno per il nostro prossimo e ci sottometteremo a lui. Dobbiamo riscattarci dal nuovo ordine mondiale attraverso un processo politico culturale che ridia voce alla nostra dignità: andiamo avanti forti di libertà con il coraggio della verità: ce la faremo.

LA SINDROME DI STOCCOLMA.

Sindrome di Stoccolma: cos’è e perché si chiama così. Redazione su Il Riformista l'11 Maggio 2020. La sindrome di Stoccolma è un particolare tipo di stato di dipendenza psicologico-affettiva che si verifica dopo aver subito degli episodi di violenza fisica, verbale o psicologica come nel caso di un sequestro o di abusi sessuali. Quando accade un clamoroso evento in cui le vittime sono tenute prigioniere o in ostaggio per un lungo periodo, spesso questo termine ritorna alla ribalta soprattutto se le reazioni di chi ha subito questo trattamento danno dei campanelli d’allarme. Infatti, chi è affetto dalla sindrome di Stoccolma prova un paradossale sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando così una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice. La serie tv spagnola La casa di carta può essere riportata come uno degli esempi più lampanti per spiegare questa sindrome. Una banda di rapinatori si introduce per diversi giorni nella Zecca Reale di Spagna, a Madrid, prendendo in ostaggio numerosi collaboratori della banca. Molti di loro hanno reazioni confuse e di rigetto, ma altri invece hanno reazioni totalmente opposte. Tra cui una dipendente della Zecca che finisce per innamorarsi e sposarsi con uno dei rapinatori diventando una di loro. Per quanto sia solo la storia raccontata in un telefilm, la sindrome di Stoccolma è in realtà più comune di quanto possiamo pensare.

LA STORIA – L’espressione sindrome di Stoccolma è stata coniata dall’agente dell’FBI Conrad Hassel in seguito ad un episodio avvenuto in Svezia nel 1973, quando quattro impiegati, di una banca di Stoccolma, tre donne e un uomo, vennero presi in ostaggio da due rapinatori. Il sequestro durò sei giorni, oltre 130 ore al termine dei quali grazie a gas lacrimogeni lanciati dalla polizia i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza subire nessun tipo di violenza. Infatti, fu proprio la reazione di questi ultimi a stupire: una volta rilasciati, espressero sentimenti di solidarietà verso i loro sequestratori arrivando a testimoniare in loro favore, e anzi dimostrandosi ostile nei confronti di chi li aveva salvati. Questo fu il primo caso in cui si intervenne a livello psicologico sullo stato degli ostaggi, cercando di capire la loro reazione e le loro motivazioni. In seguito, quando ci sono stati casi simili, secondo l’FBI, nel circa il 30 % dei casi gli ostaggi hanno sviluppato la sindrome di Stoccolma. Anche se si parla anche di sindrome a doppio senso, ovvero che non sono solo gli ostaggi ad essere “vittime” della sindrome, ma i rapitori stessi possono sviluppare un legame con loro. Oggi la sindrome di Stoccolma viene associata alla sindrome da stress post-traumatico e può durare anche parecchi anni, senza però che sia nota una durata specifica. Come la sindrome da stress post-traumatico anche questa può essere trattata con farmaci e psicoterapia. Gli ostaggi con la sindrome possono presentare tra i sintomi più comuni disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione. I CASI – Una volta superato il trauma iniziale, la vittima per sopportare quella situazione estrema cerca di sopperire attraverso un isolamento e una “sottomissione” al suo carnefice. Nella storia si sono verificati molti casi, tra cui anche in Italia. Un esempio sono le due cooperanti della Ong Un ponte Simona Pari e Simona Torretta, che vennero rapite a Baghdad il 28 agosto del 2004. Nel loro caso la prigionia durò un mese, ma una volta libere annunciarono di voler tornare presto dove erano state rapite e ringraziarono i loro sequestratori. Anche nel caso della cooperante milanese Silvia Romano liberata l’8 maggio 2020, le sue dichiarazioni sulla conversione all’Islam hanno fatto discutere. Infatti la volontaria ha dichiarato di essersi convertita liberamente all‘Islam, sebbene sia stata ostaggio del gruppo jihadista estremista islamico al-Shabaab in Somalia. Le fonti investigative hanno subito pensato che questo possa derivare da “una situazione psicologica legata al contesto in cui la ragazza ha vissuto in questi 18 mesi, non necessariamente destinata a durare nel tempo“. Ma uno dei casi più famosi al mondo è sicuramente quello di Natascha Kampusch, la quale ha vissuto segregata col suo rapitore dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si erano presi cura di lei aveva confessato che non si sentiva privata di niente e che era dispiaciuta della morte del carnefice, il quale si era suicidato quando lei è scappata. La ragazza, però, ha sempre negato di aver sofferto della sindrome di Stoccolma.

Estratto dell’articolo di Tahar Ben Jelloun per “la Repubblica” - Traduzione di Fabio Galimberti il 12 maggio 2020. La conversione all' islam di Silvia Romano pone diversi interrogativi. […] quali rapporti intrattenevano con lei i jihadisti somali del gruppo al-Shabaab, che l'hanno rapita il 20 novembre 2018 […] Che cosa è successo nello spirito di questa giovane operatrice umanitaria durante i 536 giorni della sua prigionia? Perché […] aderire a questo islam che rapisce, terrorizza e ti priva della libertà […]? Silvia Romano è comparsa in tenuta islamista, vale a dire la tenuta di un islam rigorista, integralista e antioccidentale. Il velo, l'ibaya (una sorte di djellaba lunga) sono dei simboli recenti di un islam duro, un islam protestatario e identitario. […]  […] Silvia/Aisha è diventata un personaggio che confonde le piste. Convertirsi a una religione dopo una riflessione matura, con cognizione di causa, […] è una cosa assolutamente […] ammessa. Ma convertirsi dopo aver passato così tanti mesi sotto la pressione di mercenari che utilizzano l' islam come copertura per estorcere denaro a uno Stato, è una scelta che apre un dibattito. L' isolamento, il terrore, la paura di essere uccisi sono ingredienti che a volte perturbano la ragione e la libertà di spirito. […]

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” il 12 maggio 2020. Chi «la Silvia» la conosce come una figlia dice che «tutto non va bene per niente». Che non sembra più lei. Che «è stata strumentalizzata anche politicamente», in un momento in cui l' Italia sconvolta dal coronavirus […] Lo zio Alberto Fumagalli spiegava: «[…] Non sappiamo bene neanche cosa abbia passato Silvia in questi mesi. Lei, una persona candida, pulita, pura. Non sembra più lei, le hanno fatto il lavaggio del cervello». […] Nel frattempo Silvia sarà seguita da un team di psicologi che l' aiuteranno a provare a tornare a una vita normale, mentre la prefettura per il momento esclude di sottoporla a una vera forma di protezione. Di sicuro ci sarà attenzione nei suoi confronti, con poliziotti e carabinieri che hanno l' indicazione di passare più spesso sotto casa della ragazza.

Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per “la Stampa” il 12 maggio 2020. «Onestamente non capisco». Mahmoud Asfa è presidente del Consiglio direttivo della Casa della Cultura Islamica di Milano e Imam. In Italia da 35 anni, appartiene alla moschea di Padova 144, lo stesso quartiere di Silvia Romano. La notizia della sua liberazione l' ha riempito di gioia ma non nasconde dubbi sulla sua conversione.

Cosa la lascia perplesso?

«Alcune questioni. Innanzitutto, mi chiedo come sia possibile considerare libera l'adesione a una religione mentre sei da mesi nelle mani di sequestratori tanto violenti come quelli di Al Shabaab. Poi, il fatto che abbia scelto di diventare musulmana dopo aver letto il Corano in italiano. Ricordiamo che tante traduzioni sono imprecise, sbagliate In più, io stesso, che sono madrelingua arabo, spesso faccio fatica a comprendere cosa c' è scritto nel Testo Sacro».

In che senso?

«È un libro complesso. Anche conoscendo perfettamente l' arabo serve il supporto di altri testi per interpretarlo». […] […] Sappiamo che Al Shabaab è uno dei più violenti gruppi terroristici, affiliato ad Al Qaeda. Non so che tipo di Islam le hanno proposto, visto che non rappresentano questa religione. Ragionando, non riesco a comprendere come una persona che è stata rapita possa poi abbracciare la religione dei suoi rapitori. […]».

Storia di Patricia Hearst, la miliardaria rapita che divenne gangster e guerrigliera. David Romoli su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Cosa avrebbero fatto i fucilatori del web in servizio permanente effettivo e i politici che sul rancore s’ingrassano se al posto di una ragazza tornata da un anno e mezzo di prigionia sbandierando una legittima conversione all’Islam come Silvia Romano – e si saprà solo col tempo se frutto di Sindrome di Stoccolma o del Corano – si fossero trovati alle prese con quello che a tutt’oggi resta il caso di scuola per ogni interrogativo sul margine tra coercizione e libera scelta nei casi di sequestro: il rapimento di Patricia Campbell Hearst, ereditiera, prigioniera e poi militante del gruppo armato di estrema sinistra Symbionese Liberation Army, (SLA) terrorista latitante, imputata che rivendicava la propria innocenza in nome del cervello lavato dai simbionesi. Patty fu rapita il 4 febbraio 1974 dalla casa di Berkeley dove viveva con il boyfriend di allora. Aveva 19 anni ed era nipote del multimiliardario William Randolph Hearst, proprietario nel ‘900 della più estesa potenza mediatica del mondo, aspirante candidato su posizioni populiste “di sinistra” alla presidenza della Repubblica per il partito democratico contro Roosevelt, poi, dopo la rivoluzione Russa, paladino della caccia alle streghe rosse. Il modello del Citizen Kane di Orson Welles. I rapitori facevano parte di un gruppo armato fondato l’anno precedente da Donald DeFreeze un nero di 30 anni politicizzatosi nel penitenziario di Soledad, dove scontava una condanna per rapina e da dove era evaso nel ‘73. Il nome voleva evocare la “simbiosi”: tra bianchi e neri, uomini e donne, vecchi e giovani. De Freeze si era ribattezzato “maresciallo Cinque” in omaggio al capo degli schiavi neri ribellatisi sulla nave Amistad ai primi dell’ottocento. Era in realtà l’unico nero del gruppo della SLA. Tre mesi prima del sequestro Hearst i simbionesi avevano ucciso Marcus Foster, il primo preside nero di una scuola di Oakland, accusato di voler introdurre nella sua scuola strumenti per identificare gli studenti in funzione repressiva. Il rapimento di Patty Hearst doveva servire proprio a ottenere la liberazione dei due militanti arrestati per quell’omicidio. La trattativa non decollò neppure e i simbionesi ripiegarono sulla richiesta di distribuzione gratuita di cibo ai poveri della città. Il costo si aggirava, nella fase più esosa della trattativa, sui 400 mln di dollari. La famiglia accettò di distribuire cibo per 2 milioni, poi, in una seconda tranche, per altri 4 milioni.  Patty non fu liberata. In compenso il 3 aprile arrivò una cassetta registrata in cui la sequestrata annunciava l’adesione al gruppo col nome di battaglia Tania. “Tania” fu ripresa dalle videocamere di sicurezza di una banca mentre, col mitra spianato, partecipava a una rapina. Qualche settimana dopo aprì il fuoco per proteggere altri due militanti del gruppo, i coniugi William e Emily Harris, che stavano per essere arrestati. I tre fuggirono e si rifugiarono in un motel. Il giorno seguente , guardando la Tv, assistettero alla diretta dell’assedio da parte della polizia alla base simbionese. Quel giorno il gruppo subì un colpo mortale. Furono uccisi sei militanti tra cui DeFreeze e il suo braccio destro Willie Wolfe. Entrambi avevano avuto relazioni e rapporti sessuali con l’ex miliardaria.

I simbionesi restarono attivi ancora un anno prima che Patty fosse arrestata, con gli Harris, il 18 settembre 1975. Si dichiarò prigioniera politica. Rifiutò per 42 volte di rispondere alle domande appellandosi al Quinto emendamento. Aveva perso decine di chili, era magrissima, il Quoziente di intelligenza, secondo i periti, era precipitato da 130 a 122, gli psichiatri la descrissero come “una zombie”. Al processo si difese impugnando il lavaggio del cervello. Disse di essere rimasta a lungo legata e con una benda sugli occhi, minacciata di morte, costretta a scegliere tra l’adesione alla SLA o l’uccisione, stuprata da vari militanti del gruppo. La difesa mostrò il video della rapina: si vedeva Emily Harris minacciarla con la pistola. Il caso, in America, tenne banco, divise l’opinione pubblica, occupò le prime pagine. A far pendere il piatto della bilancia dalla parte della condanna fu un ciondolo che l’ereditiera aveva conservato, regalo di Willie Wolfe. A segnalarne l’esistenza fu proprio la compagna detenuta Emily Harris, per dimostrare che non c’era stato stupro: chi conserverebbe gelosamente il regalo di uno stupratore? La giuria convenne. Patty Hearst fu condannata a 35 anni di carcere. A darle una mano, in un certo senso, fu il reverendo Jim Jones, quando convinse oltre 900 seguaci del suo Tempio del Polo, in Guyana, a suicidarsi con un’aranciata al veleno distribuita dallo stesso Jones, il 18 novembre 1978.  L’opinione pubblica, che fino a quel momento era stata ostile alla Hearst, rovesciò la posizione. John Wayne in persona s’imbufalì con i duri: “Siete pronti ad accettare che una sola persona eserciti il lavaggio del cervello su 900 seguaci spingendoli a uccidersi e non ad accettare che possa succedere a una ragazzina rapita e tenuta prigioniera?”. Il presidente Carter concesse poco dopo la commutazione della pena. Patty Hearst uscì dopo 21 mesi di carcere, sia pure in condizioni di vigilanza ancora molto strette. Poi fu Reagan ad allentare la presa con l’indulto e infine Bill Clinton chiuse la vicenda con la grazia. Su Patricia Hearst sono stati scritti libri e fatti film ma una risposta certa su quanto la si possa considerare responsabile di quei quasi due anni di militanza armata ancora non c’è.

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 13 maggio 2020. Durò 743 interminabili giorni, ossia oltre 2 anni, dal 18 gennaio 1988 al 30 gennaio del 1990, il sequestro di Cesare Casella, che costituisce uno dei più lunghi rapimenti a scopo di estorsione mai avvenuto in Italia, i cui mandanti non sono mai stati individuati. Cesare, allora diciottenne, mentre rincasava dopo una serata trascorsa con gli amici fu bloccato da un commando di uomini armati ed incappucciati, costretto a scendere dalla sua vettura e caricato su un' altra automobile, dove trascorse le due settimane seguenti chiuso in un box in compagnia di alcuni banditi. In seguito, fu trasferito a bordo di un camion negli impenetrabili boschi dell' Aspromonte, in cui passò il resto della sua prigionia sepolto, con caviglie e collo incatenati senza tregua, in un tana di 2-3 metri quadrati da cui intravedeva a stento le albe dorate, i tramonti rossi e le penombre turchine delle sere in montagna. In estate e in inverno. In un tempo dilatato all' infinito che è il tempo dei sequestrati. Per il rilascio di Casella fu pagato un riscatto di un miliardo di lire, tuttavia la banda lo cedette ad altri farabutti che rimisero in vendita il ragazzo come fosse nient' altro che una merce di scambio. Oggi Casella fa l' imprenditore e abita a Milano. Da poche settimane, con la nascita di Marcus, è diventato padre per la seconda volta. «Ho completato la famiglia. Ora la mia piccola Chloe, che ha compiuto 9 anni, ha un fratellino. Non potrei essere più felice», ci confida Cesare. I ricordi legati alla sua detenzione sono ormai lontani, da subito Casella ha voluto lasciarseli alle spalle per ricominciare a vivere una esistenza che gli è stata in parte rubata da perfetti sconosciuti. Tuttavia, i segni restano, poiché il sequestro di persona è «un atto bestiale, il reato più vile e più crudele che si possa commettere». Chi lo subisce è una sorta di reduce di guerra, un individuo che ha attraversato gli inferi, visto in faccia il male, tornando indietro ammaccato e salvo. Non si è più gli stessi dopo. Non si può più essere quelli di prima. «Sono contento per il rientro in Italia di Silvia Romano, ma sono estraneo alle polemiche sulla vicenda. Che si sia convertita sono fatti suoi. Del resto, quando ti confronti con la morte faccia a faccia, non puoi prevedere le tue reazioni. Silvia ha abbracciato la religione dei suoi sequestratori? Non possiamo giudicare la sua scelta, ci tocca soltanto comprenderla», osserva Cesare, il quale condanna la leggerezza con cui alcune associazioni inviano in teatri tanto rischiosi giovani senza esperienza, che probabilmente sottovalutano i pericoli a cui vanno incontro.

«SERVE TEMPO PER CAPIRE». A proposito della sindrome di Stoccolma, meccanismo dell' inconscio che induce i sequestrati a familiarizzare con i propri aguzzini nel tentativo di umanizzarli al fine di sedare panico e angoscia, Casella esclude di averla sviluppata, però ritiene che la mente di Silvia, mossa dall' istinto di sopravvivenza, abbia potuto ricalcare gli usi e sposare il credo dei suoi carcerieri per esorcizzare tutte quelle paure che braccano il rapito: paura di essere trucidato, di ammalarsi, di non rivedere mai più i suoi cari. «Tra un po' di tempo la fanciulla analizzerà la situazione che ha vissuto e valuterà la decisione della conversione. Solo in quella fase ella capirà se tale risoluzione è stata momentanea nonché dettata dal terrore di ciò che avrebbe potuto patire oppure autentica», spiega l' imprenditore, che aggiunge: «Certo, se non fosse stata sequestrata, sarebbe rientrata in patria con pantaloncini e rossetto. Però spetta a lei maturare la sua verità».

VITTIMA E CARNEFICE. Ha stupito un po' tutti il fatto che Silvia abbia narrato che i suoi rapitori, soggetti dalla elevata caratura criminale, l' abbiano «trattata con grande umanità». Domandiamo a Cesare quale tipo di rapporto si instauri tra detenuto e detentore, tra vittima e carnefice. Egli non appare affatto meravigliato dalla testimonianza di Romano. Insomma, pure per Casella un delinquente che ti tiene incatenato in una fossa scavata in maniera rudimentale nel terreno, tra topi e scarafaggi ed animali selvatici che nella notte fanno irruzione nel tuo lurido giaciglio, può essere capace di gesti di magnanimità. Ci sembra di capire che, allorché i sequestrati parlano di umanità a proposito dei loro rapitori, non intendano riferirsi a quel concetto dominante di umanitarismo che alberga nella testa della collettività. Per chi non ha riportato certi traumi, è umano chi perdona, chi aiuta il prossimo, chi fa la carità, chi si batte per gli ultimi, chi si dedica agli altri rinunciando a se stesso. Per il sequestrato, invece, il suo sequestratore è umano quando non lo uccide, quando gli garantisce da mangiare e da bere, quando non ne ignora i bisogni elementari. «I carcerieri con cui entravo in contatto, i quali non avevano ruolo di comando, mi dimostravano umanità nelle occasioni in cui, ad esempio, mi portavano il giornale, che per me valeva oro e rappresentava una specie di dono. Ogni cosa extra che mi veniva concessa si trasformava dal mio punto di vista in una dimostrazione di grande umanità», racconta Cesare. Ecco allora che può avvenire che oppressori ed oppresso giochino a carte insieme, ridano, discutano di calcio, proprio come è accaduto tra Casella ed i suoi rapitori. «Provavamo ad attutire l' assurdità di quella condizione con la normalità, se non addirittura la banalità, delle conversazioni», specifica l' imprenditore. «Avvertivo altresì un certo imbarazzo, una sorta di remora nel fare trapelare quella umanità, che restava in alcuni seppellita. Altri, invece, non ce l' avevano proprio. Rammento che qualcuno mi strappò le catenine d' oro, mi sentii deprivato di qualcosa di intimo che mi legava alla mia famiglia», continua Cesare. Ma come si supera una esperienza tanto drammatica? Il tempo lenisce ogni dolore, eppure non basta. Occorre il sostegno di familiari ed amici. «E soprattutto bisogna guardare avanti, sforzandosi di trarre qualcosa di positivo da quello che ci appare essere un furto di vita che nessuno potrà restituirci mai più. Adesso non ho più la sensazione che mi sia stato sottratto qualcosa. Mi considero arricchito da quello che ho vissuto, anzi persino privilegiato. Difronte a qualsiasi difficoltà, mi ripeto che non c' è ostacolo che non possa valicare. E cerco di trasmettere questa fiducia nelle proprie risorse anche a mia figlia», confessa Cesare. «A Silvia consiglio di scovare la maniera di volgere in bene ciò che di malvagio le è stato fatto. È il nostro modo di vincere. Sono ancora convinto che l' amore trionfi sul male. Ed è ciò che mi ha insegnato mia madre, che si recò in Calabria per sensibilizzare le altre donne sulla sorte di suo figlio di cui non aveva più notizie. Questa sua tenacia contribuì alla mia liberazione», conclude Casella.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 12 maggio 2020. Non si sa quando, ma Silvia Romano tornerà tra noi. «Con questo non intendo dire che abiurerà la conversione all' Islam. Questa scelta, soprattutto se la ragazza inizierà a frequentare la comunità musulmana, potrà anche diventare permanente. Ad essere reversibile, fortunatamente, sarà l' atteggiamento mentale cui assistiamo in queste ore: la simpatia per i suoi sequestratori, per i suoi aguzzini. Questo è spiegabile solo come un frutto delle sofferenze mentali e fisiche cui è stata esposta, e, anche se a fatica, riuscirà a liberarsene». Guglielmo Gulotta, ordinario di psicologia forense, studia da sempre i meccanismi complessi che intercorrono tra vittima e colpevole, ancora di più tra sequestrato e carceriere. Fu tra i primi a leggere una lettera di Aldo Moro ostaggio delle Br. «La grafia era la sua, ma era chiaro che non era libero. La stessa cosa avviene oggi con Silvia. Non sta fingendo. Quando dice di essere stata trattata bene ne è davvero convinta. Ovviamente non è così, per mesi e mesi è stata in mano a uomini spietati che decidevano al posto suo quando poteva mangiare, riposarsi, andare in bagno. La sua percezione attuale di questa esperienza è figlia di una percezione alterata».

Parliamo della famosa sindrome di Stoccolma?

«Prima ancora dei fatti di Stoccolma, Anna Freud identificò con chiarezza i meccanismi di identificazione con l' aggressore. Un bambino in un corridoio buio che faceva gesti strani e rumori senza senso spiegava: io ho paura dei fantasmi, ma se sono un fantasma anch' io allora non devo più avere paura di loro. Silvia ha reagito allo stesso modo, mettendo in atto un meccanismo di regressione dell'io allo stato infantile, in cui i suoi sequestratori diventavano figure genitoriali. Sviluppare un sentimento affettivo verso queste figure è stato un meccanismo di difesa».

Nonostante le vessazioni di cui c'è prova, e che oggi lei nega?

«Sapeva che avrebbe potuto venire uccisa, ha dovuto convivere fin dall' inizio con questa consapevolezza E se invece non vieni ucciso il resto non ti importa, ti sembra di essere trattato bene, sviluppi addirittura una forma di gratitudine».

Possiamo ipotizzare che prima abbia simulato per sopravvivere, e che un po' per volta si sia autoconvinta?

«Non credo, semplicemente si è adattata progressivamente alle circostanze in cui si è venuta a trovare. L'essere umano ha capacità di adattamento straordinarie».

Adesso quanto può essere difficile per lei ritornare alla realtà?

«Molto. Patricia Hearst, l' ereditiera americana che si era schierata con i suoi rapitori, impiegò tempo per fare marcia indietro. La libertà può fare paura. Lo vediamo anche in questi giorni con la fase due delle misure anti-Covid: c' è gente che fa psicologicamente fatica a uscire di casa. Figuriamoci Silvia, che viene da una deprivazione della libertà ben più lunga e più totale».

Quindi oggi, a suo modo, questa ragazza è sincera quando descrive il suo inferno quasi come una vacanza.

«Credo proprio di sì. Ovviamente esiste, in teoria, un' altra possibilità: che oggi sia costretta a dire così, che stia recitando una parte perché in qualche modo obbligata a farlo. È una ipotesi che in questi casi chi interroga il soggetto è obbligato a tenere presente. Ma, per quanto ne sappiamo, non ci sono indizi in questo senso. E quindi sì, devo rispondere che Silvia Romano è sincera».

Francesca Paci per “la Stampa” il 12 maggio 2020. Ci vorranno settimane prima che la conversione all' islam di Silvia Romano scivoli via dai social network e resti a lei, soltanto a lei, lo specchio in cui cercarsi. Perché la fede è cosa intimissima, ma quella discesa scenografica dall' aereo che la riportava a casa, con l'abaya verde così ingombrante da far pensare sul principio a uno scafandro sanitario, ha confuso l' Italia, autorizzando molti a partecipare della scelta di Silvia come della sua liberazione. Perché sposare il credo dei rapitori? Come? A che prezzo? Per quanto tempo? «Senza entrare nel merito della sfera privata, è plausibile che si tratti di una conversione spontanea, ci sono donne che dopo aver divorziato dal marito musulmano manesco e violento hanno abbracciato il Corano» ragiona Stefano Allievi, lo studioso italiano più ferrato in tema di convertiti. E non è detto che sia una meteora: sono passati quasi due lustri da quando la giornalista inglese Yvonne Ridley raccontò di aver scoperto l' islam mentre era prigioniera dei talebani in Afghanistan e fino a due anni fa portava ancora il velo. Silvia Romano ha letto, in qualche modo, il Corano. Molte donne italiane, una buona parte dei circa 60 mila nostri connazionali convertiti all' islam, si sono avvicinate così. Soprattutto le più giovani. Fino a qualche anno fa i convertiti erano figli degli anni '70, musulmani compiutisi lungo un percorso politico, eredi dell' esoterismo destrorso di René Guénon o della sinistra extra-parlamentare alla riscossa sull' occidente capitalista. Poi c' era chi sposava uno straniero e, umile, indossava il niqab. Ora, continua Allievi, la spinta è più relazionale che razionale: «Aumentano le conversioni che maturano in classe, dove gli adolescenti si mescolano con curiosità e le seconde generazioni d' immigrati portano la loro esperienza valoriale». Da due giorni la storia di Silvia Aisha Romano è l' argomento più dibattuto durante la rottura dell' iftar, il digiuno di questo Ramadan offuscato dal coronavirus. I musulmani d' Italia hanno salutato il suo ritorno come una festa doppia, perché la conversione è definita «ritorno all' Islam». Ma si discute, eccome se si discute. La povera Silvia, con i suoi fantasmi, non c' entra, e per lei si sono spese voci autorevoli come lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, rinato alcuni anni fa con il nome di Giafar al Sikilli. Il tema, però, scotta. Molti, i più vicini alla dottrina saudita, non hanno apprezzato affatto il marchio anche religioso impresso da Erdogan, cui è dedicato uno dei due ospedali di Mogadiscio. Altri brindano. L' antropologa e sufi somala Maryam Ismail ha scritto alla ragazza una lettera aperta per dirle che la comprende, che al suo posto si sarebbe convertita «in un nano secondo a qualsiasi cosa pur di resistere», che si dissocia da chi ne contesta l' abaya così come da chi inneggia alla nuova conversione ma che esclude si tratti «di una scelta di libertà, non può esserlo stata in quella situazione». E' dunque sindrome di Stoccolma? Allievi pensa piuttosto che possa essere un misto di condizioni traumatiche e fascinazione culturale, una sorta di sindrome di Lawrence d' Arabia, il mistero magnetico dell' altro che assomiglia al mal d' Africa, il té nel deserto, l' ambiguità messa a nudo da Edward Said, un senso d' inconscia superiorità espiato perdendosi nello specchio, oltre il mito pre-moderno dell' autenticità. «Per me l' illuminazione fu una vacanza in Marocco, mi colpì la preghiera dei musulmani, interi mercati che si fermavano al richiamo del muezzin, l' autista che accostava il pullman e s' inginocchiava nel silenzio generale» racconta Amal Maria, impiegata lombarda di poco più grande di Silvia Romano. Hussein Morelli, 39 anni, ha abbracciato l' islam sciita appena maggiorenne in cerca di «un' alternativa alla società cristiana desacralizzata, areligiosa, troppo laica». Carlo Delnevo, il padre del giovane genovese morto in Siria combattendo con l' Isis, non è un ragazzo in cerca d' identità ma si è fatto musulmano nell' assenza del figlio. «Faccio gli auguri a Silvia, è la prova che la fantomatica sudditanza femminile serve solo alle polemiche sterili» chiosa Omar Camilletti, ex portavoce della Grande Moschea di Roma e classificato come "musulmano sovranista", vicino cioé a quella destra italiana che in gran parte, a eccezione di Francesco Storace sull' Huffington Post, ha puntato l' indice severo contro la ragazza. Lei, Aisha, ieri sera si è mostrata ancora, da casa, nascosta dietro il grande velo verde che copre tutto.

LO JILBAB.

Perché scandalizza tanto Silvia Romano - Aisha vestita così. L'Italia vede ancora l'Islam come qualcosa di esterno a sé, se non ostile. Mentre più della metà dei musulmani italiani sono nati nel nostro Paese. Quando capiremo che ormai siamo una società multireligiosa? Pegah Zohouri il 12 maggio 2020 su La Repubblica. (Pegah Zohouri è dottoranda presso l’Università di Oxford in cui si occupa di Islam in Europa). La conversione di Silvia Romano all’Islam, durante la sua prigionia, porta al centro del dibattito italiano un quesito fondamentale per la nostra società e, soprattutto, per ciò a cui aspiriamo: cosa vuole dire essere italiani? Ma soprattutto che ruolo ha oggi il rispetto della libertà di fede in questa identità? Certo, la libertà di fede coinvolge in primo luogo la libertà di Silvia di convertirsi senza alcun tipo di costrizione fisica né psicologica. Per quanto lei stessa abbia affermato di non essere stata costretta alla conversione, la condizione di prigionia in primis è problematica; i responsabili di tale prigionia vanno perseguiti; così come vanno affrontate le radici economiche, sociali e politiche alla base dell’emergere di tali gruppi, islamisti e non (inclusa la responsabilità storica dell’Italia che colonizzò e sfrutto per mezzo secolo la Somalia). Ma, la questione della libertà di fede si riflette anche nelle reazioni in Italia alla sua conversione. Tale decisione infatti viene vissuta da una parte della società italiana come un tradimento. L’abito di Silvia ci “umilia” poiché il jilbab che indossa al momento dell’arrivo in Italia viene letto come irriverenza verso le istituzioni italiane, una ingratitudine verso le forze che l’hanno liberata. Tale visione denota due aspetti. Non ha fatto in tempo a scendere dal volo militare dopo un anno e mezzo di prigionia, che una cospicua parte del Paese si è lasciata andare al suo peggio. Dall'affondo di Salvini («Nulla accade gratis») a Vittorio Sgarbi («o si pente o è complice»)  una raccolta da non credere. Della serie, siamo contenti ma...Primo, una prospettiva che oppone un monolitico Islam a un talvolta altrettanto monolitico “occidente/Italia;” echeggiando così l’idea di “scontro di civiltà” resa celebre da Samuel Huntington: un occidente liberale, pluralista in opposizione ad un Islam opprimente, che sottomette le donne. La pluralità di realtà esistente nell’Islam (che, cosi come altre religioni ed ideologie, include anche minoranze radicali) viene appiattita a conferma della tesi del “noi contro voi.” In questa prospettiva un abito usato negli ultimi decenni dalle donne somale musulmane (e quindi in uno specifico contesto politico culturale e geografico), viene trasposto ad emblema delle milizie Islamiche, e poi assurto a simbolo di tutto l’Islam: e Silvia che lo indossa – per usare le parole di Alessandro Sallusti – torna “come un prigioniero dai campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista” (e poco importa se i campi di concentramento in Somalia, come il lager di Danane, fossero stati creati proprio dal regime Italiano). Il senso di tradimento è indice anche di una percezione dell’Islam come esterno, se non addirittura ostile a noi, che non riflette la vera condizione della popolazione musulmana in Italia e in Europa. Nel 2016 secondo l’ISMU i musulmani residenti in Italia erano un milione e quattrocentomila. Ormai da anni gli studiosi parlano di Islam Europeo, di seconde, terze e quarte generazioni di musulmani nati e cresciuti in Europa (il 52% dei musulmani cittadini italiani sono nati qui), che non vedono alcun conflitto tra la loro identità italiana e la loro fede: la maggioranza silenziosa di questa demografica è ormai parte integrante della nostra società, si sente italiana, e contribuisce all’arricchimento economico e culturale del nostro paese. Questo è quanto emerge anche dal report Gallup Coexist Index del 2009. Eppure, tali reazioni rendono palese che, almeno per una parte della società italiana, l’Islam ancora è visto come un fenomeno esterno ed estraneo. Quasi ad affermare che non si possa essere Italiani e musulmani. Ma in questo nuovo contesto, un’idea inclusiva di italianità emerge sempre più come una presa d’atto di una realtà sociale e demografica già esistente. La conversione di Silvia Romano dunque ci pone davanti ad una sfida: l’accettazione della sua scelta costituisce parte integrante della trasformazione del pluralismo italiano da realtà sociale esistente ad un progetto politico, ovvero, la promozione del rispetto della diversità e delle scelte individuali, incluse quelle di fede.

"Sacco dell'immondizia..." Ecco l'odio femminista sulla Romano islamica. Il post lasciato su Facebook dalla nota attivista femminista Nadia Riva ha scatenato un'ondata di polemiche. Raggiunta telefonicamente si è giustificata: "Ho avuto un conato di tristezza e di dolore, vedendo questa giovane sorridente messa in un sacco come a volerla eliminare, cancellandone l’identità". Federico Garau, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Nella forte ondata di polemiche seguite dopo la liberazione di Silvia Romano s'inserisce a sorpresa anche la nota femminista Nadia Riva, che ieri sera ha affidato ai social network un commento relativo ai vestiti indossati dalla giovane cooperante al momento del rientro nel nostro Paese. Quell'abito verde, che era stato immediatamente associato all'idea della conversione all'Islam annunciata dalla giovane dopo lo sbarco a Ciampino, aveva fin da subito attirato l'attenzione dei giornalisti e posto degli interrogativi circa un ipotetico significato dello stesso. "Si chiama jilbab", aveva riferito il direttore di malindikenya.net, sito dedicato agli italiani in Kenya, come riportato da TgCom24. "Non è un abito religioso, ma chiaramente è indossato da donne islamiche. È più un abito da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani". Una definizione che non aveva trovato tutti d'accordo. "Quel vestito non ha nulla di somalo", riferisce infatti Maryan Ismail, attivista musulmana per i diritti delle donne. "Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che non ha nulla di somalo, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza) né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura", aggiunge la donna, ricordando come le vesti somale siano invece caratterizzate da stoffe preziose e variopinte. L'opinione fornita invece da Nadia Riva, attivista femminista di lungo corso, tra le fondatrici del Circolo Cicip e Ciciap, ha un taglio decisamente diverso. Poco orientato alla ricerca delle origini dell'indumento, e più indirizzato al senso che trasmette relativamente al ruolo della donna nel mondo islamico. "La struggenza di una donna sorridente in un sacco verde della differenziata", attacca la femminista, elemento di spicco di uno dei gruppi più intransigenti nel contesto nazionale. Una frase che ha scatenato la reazione di numerosi internauti. "Struggente è avere paragonato un abito, che è indossato da donne di altra cultura e tradizione religiosa, associandolo alla "differenziata" e dunque dando un accezione offensiva e dispregiativa. Spesso il razzismo esce fuori anche quando lo si vuole celare dietro termini inadeguati quale ‘struggente’, però non ci riesce. Sei stata molto squallida e inopportuna, ma almeno ti sei svelata", attacca un'utente. "Io sono raggelata da questo post. Non ci trovo nulla di femminista, penso che chi lo ha scritto in questi termini percepisca esattamente come immondizia i corpi e le menti delle donne suo malgrado. Che orrore", replica un'altra donna. Una frattura, dunque, anche nell'ambito degli ambienti femministi più radicali. Contattata da Repubblica, la Riva si è giustificata. "Ho scritto quelle frasi come provocazione, non è certo contro quella ragazza, non so perché l’hanno letto come un attacco a Silvia Romano", dice l'attivista, come riportato da Tpi. "Io mi propongo il tema del corpo delle donne che da una vita gli uomini cercano di cancellare. Io ho avuto questo conato di tristezza e di dolore, vedendo questa giovane sorridente messa in un sacco come a volerla eliminare, cancellandone l’identità. Questo solo volevo dire, non attaccare lei, poi detto da me, evidentemente non mi conoscono come persona", conclude.

Silvia Romano, Maryan Ismail a Fuori dal coro: "Non è un vestito tradizionale, cosa identifica". Giordano: "Uno spot per il terrorismo". Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Quello indossato da Silvia Romano durante il suo ritorno in Italia "non è un abito tradizionale della Somalia, ma identifica un gruppo specifico, quello che ha coperto il gruppo terroristico di al Shabaab". A spiegarlo, ospite di Mario Giordano nello studio di Fuori dal coro, è Maryan Ismail, professoressa di origini somale trapiantata da anni in Italia. Insomma, la situazione è più complessa rispetto a una "normale" conversione all'islam. "Allora voi capite che uno si può chiedere se queste immagini non possano essere vendute nel mondo islamico come un grande spot per il terrorismo", si domanda sconcertato Giordano. Interrogativo che tutti dovrebbero porsi, al di là dei colori politici impropriamente indossati in una vicenda come quella della cooperante milanese liberata dopo 2 anni di sequestro in Africa.

Silvia Romano, parla l'attivista musulmana: "Quel vestito non era somalo, è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza". Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Silvia Romano e il suo ritorno in veste musulmana fa ancora discutere. Questa volta a voler fare chiarezza ci pensa Maryan Ismail, musulmana e attivista per i diritti delle donne. "Quel vestito non ha nulla di somalo", scrive la donna in una lettera indirizzata alla diretta interessata. "Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che non ha nulla di somalo, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza) né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura". La Ismail vuole precisare che la Somalia "tradizionale" erano drappi sgargianti, sete preziose e colorate che esaltavano le donne. Non solo, anche Layla Yusuf imprenditrice italo-somala vuole dire la sua verità all'attivista milanese rapita per 18 mesi dal gruppo terrorista di Al Shabaab: "Noi portiamo i capelli scoperti se vogliamo, scegliamo liberamente i vestiti. Facciamo qui quello che si faceva allora. Era una vita bella e felice, ora è drammatica". Il motivo è ben noto: Mogadiscio - come scrive Il Giornale - ora è ostaggio degli islamisti. "A casa mia comandava mia madre - prosegue Layla - mio padre lavorava fuori e gestiva tutto lei. Sono sempre state matriarche. Guidavano casa e famiglia. La nostra Africa non c'entra niente con gli arabi, nella nostra tradizione ci sono i vestiti colorati delle donne, come il guntino, elegante fatto e a mano, che si usava normalmente o anche nelle cerimonie, di seta". Poi è arrivata la guerra civile che ha portato con sè anche gli abiti che Silvia crede tradizionali. "Quelle che di noi - conferma l'imprenditrice - hanno continuato a vestirsi normalmente, hanno cominciato a essere stigmatizzate, denigrate come troppo occidentali". Insomma, della tunica lunga che ha indossato la Romano atterrata a Ciampino non c'è nulla di tradizionale.

Per Vittorio Sgarbi, invece, “Silvia Romano ha messo il costume della banda terroristica, quindi ha fatto propaganda ai terroristi. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Vittorio Sgarbi ancora contro Silvia Romano. La cooperante sarebbe complice dei terroristi: il pensiero del parlamentare. Continua l’attacco di Vittorio Sgarbi nei riguardi di Silvia Romano. Per il deputato, infatti, la giovane cooperante – liberata dal Governo italiano con l’ausilio dell’intelligence dopo 18 mesi di prigionia – si deve assolutamente pentire sennò va arrestata. Un pensiero già espresso in un post social nella serata di domenica 10 maggio e ribadito, ancora una volta, ventiquattro ore dopo negli studi di Quarta Repubblica, ospite di Nicola Porro. Per Vittorio Sgarbi, infatti, Silvia Romano rischia di essere ‘complice’ dei propri aguzzini qualora non dovesse pentirsi. E a non andar giù al deputato è anche lo jilbab: “Silvia Romano ha messo il costume della banda terroristica, quindi ha fatto propaganda ai terroristi. Abbiamo abbracciato chi ha messo le insegne del nemico dello Stato”. Per Vittorio Sgarbi, dunque, la cooperante italiana è un soggetto da tenere sott’occhio. Per il critico d’arte il Governo italiano ha anche sbagliato a pagare il riscatto, considerata la conversione all’islam della cooperante milanese. “Silvia Romano va arrestata – ribadisce Sgarbi sui social network -. Se mafia e terrorismo sono analoghi e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata (in Italia è comunque agli arresti domiciliari) per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi”. Il pensiero di Vittorio Sgarbi non è passato inosservato. Tant’è che c’è chi gli risponde a tono. Tra questi Andrea Scanzi: sono note le querelle tra i due. E proprio sulla questione Silvia Romano si è acceso lo scontro tra il parlamentare e il giornalista.

Silvia Romano, Alessandro Morelli rincara la dose: "Covertita all'Islam? Come se nel 1992, Farouk Kassam..." Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Alessandro Morelli ha ricevuto molte critiche per un post su Silvia Romano, liberata dopo 18 mesi passati sotto sequestro in Somalia. “La sua foto vestita in abitino blu e tacchi alti a fronte di quella da islamista, con lo jilbab? Non mi pento di nulla - ha dichiarato all’Adnkronos - lo sciacallaggio è quello di chi ne ha fatto una bandiera da mandare in mondovisione”. Il deputato leghista ha poi spiegato meglio il suo messaggio sulla 25enne milanese: “Per me prima del rapimento poteva andare in giro nuda o vestita da donna dell’Islam, ma il punto è che non è mica tornata dopo essere stata ospite di un emiro che le ha insegnato cosa sia l’Islam. È stata nelle mani di tagliagole assassini, non si è certo trattato di una semplice gita turistica. È finalmente ritornata, ma la donna che c’è dentro quel corpo è salva?”. Poi Morelli usa un’analogia con due vicende di sequestri che hanno segnato la storia italiana: “È come se Moro invece che finire ammazzato dalle Br fosse stato liberato e avesse iniziato a fare politica a favore della lotta armata”.”O se Farouk Kassam avesse chiamato Dio il carceriere che gli ha tagliato l’orecchio”, ha concluso Morelli, facendo riferimento al bambino rapito nel 1992 a Porto Cervo. 

Silvia Romano libera: ecco che cos’è il “jilbab”, l’abito che indossava all’arrivo in Italia. Freddie del Curatolo, direttore di malindikenya.net, spiega che è un "abito da passeggio, non religioso. Ma chiaramente è indossato da donne islamiche". Il Fatto Quotidiano il 10 maggio 2020. Una copertura tradizionale che non ha un forte connotato religioso sebbene sia comune in ambienti dell’Africa orientale dove è diffusa la fede islamica. Si chiama jilbab ed è l’abito verde con cui Silvia Romano è scesa dall’aereo all’aeroporto militare di Ciampino dopo 18 mesi dal suo rapimento in Kenya. “Non è un abito religioso ma chiaramente è indossato da donne islamiche”, spiega Freddie del Curatolo, direttore di malindikenya.net. “È un abito più da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani“, ha aggiunto il giornalista da 15 anni nel Paese africano. Silvia Romano ha comunque dichiarato agli 007 di essersi liberamente convertita all’Islam. L’abito è verde, colore che solo in maniera controversa simboleggia l’Islam apparendo ad esempio sulle bandiere di Arabia Saudita, Algeria, Pakistan e della stessa Lega araba. Il colore del Profeta era infatti il nero, come mutuato da Daesh (l’Isis) e il verde è solo un fatto culturale che indica quello che gli arabi del deserto non avevano: la verzura (nel Corano si parla del Paradiso come, verde anzi verdissimo). “Probabilmente si è vestita come ha potuto”, ha ipotizzato Hamza Piccardo, esponente di spicco della comunità islamica italiana. “Vedremo se continuerà così o troverà abiti più consoni al fatto di essere sì musulmana ma anche italiana”, ha aggiunto l’imam e traduttore del Corano. Il termine jilbab (o jilbaab) si riferisce comunque a qualsiasi abito lungo a largo indossato da donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile. Il “velo” islamico comunemente si chiama hijab, parola derivante da una radice verbale che vuol dire fra l’altro “rendere invisibile” o “coprire”.

Silvia Romano, "la conversione all'Islam è la vittoria inattesa di Al Shabaab". Oltre il riscatto: il significato di quel velo. Libero Quotidiano il 11 maggio 2020. Quattro milioni di dollari di riscatto per liberare Silvia Romano e un guadagno "non calcolabile" in termini di ritorno d'immagine. I terroristi somali di Al Shabaab hanno fatto bingo e la loro vittoria più inattesa e significativa è proprio la conversione della giovane cooperante milanese, andata in Africa per aiutare i bambini in Kenya, rapita per un anno e mezzo e tornata in Italia domenica con tanto di tradizionale vestito islamico. Una vittoria anche politica, perché l'intelligence turca, decisiva nella trattativa, ha dovuto negoziare direttamente con "i tagliagole islamici" che terrorizzano la Somalia, come sottolinea anche Repubblica, conferendo loro "sia pure in quanto sequestratori, una legittimità sul territorio che ancora non avevano". Poi i soldi, che andranno nelle casse dei terroristi e aiuteranno le loro attività: attentati, armi, altri rapimenti tra Somalia, Kenya e Uganda. "Ma per gli Al Shabaab - spiega ancora Repubblica - il successo più inaspettato di tutta l'impresa è la conversione" della Romano, "avvenuta per di piùsenza costrizione, come lei stessa ha dichiarato. Il che, al mondo musulmano e non solo, li mostra per la prima volta sotto un'altra luce. Da assassini crudeli e implacabili quali erano considerati da tutti, salvo forse da qualche sceicco del Golfo, gli Al Shabaab possono apparire adesso come carcerieri compassionevoli, poiché sono perfino riusciti a spingere l'ostaggio ad abbracciare il loro Dio. E tornando in Italia a mostrarsi con il hijab verde, il colore dell'Islam". Non c'è che dire: un capolavoro.

IL RISCATTO.

Silvia Romano, il riscatto è stato pagato dal Qatar: spunta il dossier, intrigo internazionale senza precedenti. Libero Quotidiano il 23 maggio 2020. Il riscatto di Silvia Romano? Non è stato pagato dall’Italia, ma dal Qatar che in cambio si è preso l’uranio (destinato all’Iran) e ha versato poco meno di quattro milioni di dollari ai terroristi, che non compreranno armi (come il falso portavoce ha dichiarato a Repubblica) ma costruiranno grattacieli in Occidente. È la ricostruzione fatta dal sito specializzato Africa ExPress, che ha investigato in maniera molto approfondita il caso della 25enne milanese, ricostruendolo passo per passo fin dal principio. Silvia Romano non sarebbe altro che una pedina al centro di intrighi internazionali e affari riservati: a sganciare il denaro necessario a liberarla è stato il Qatar in quella che viene definita una triangolazione di dollari, armi, garanzie politiche e soprattutto uranio. “Alleata dei turchi e degli italiani in Libia - si legge su Africa ExPress - amica dell’Iran, con cui Roma intrattiene ottimi rapporti, Doha appare subito come ottimo strumento per cavare le castagne dal fuoco. E poi il Qatar ha appena ordinato a Leonardo materiale bellico per oltre 5 miliardi di euro e la Fincantieri deve consegnare battelli militari per circa 4 miliardi. Ma c’è anche un altro piccolo, ma non insignificante, dettaglio: il generale Luciano Carta, capo dei servizi segreti esterni, dal 20 maggio prenderà il posto di presidente di Leonardo”. Quindi la trattativa con gli Shebab sarebbe stata condotta dai qatarioti che “non ci mettono molto a coinvolgere i leader dei terroristi, i quali a loro volta convincono i loro amici a rilasciare la ragazza catturata, in cambio di un bel pacco di dollari, ma un po’ meno dei 4 milioni sbandierati un po’ da tutti in Italia”.

Silvia Romano, don Ermanno Caccia: "In piazza contro il riscatto. Occhio, qui scoppia la rivolta". Renato Farina su Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Al Nord tira aria di insorgenza? Un prete della Val Seriana, don Ermanno Caccia, dopo i due mesi passati in catene nella sua casa ad Almè, per un'ora esprime concetti duri ma pacati, da professore, e dice: «Uno Stato che non si prende cura dei lutti della sua Comunità è un baraccone senz'anima, un'istituzione anaffettiva senza identità dedita solo a compiti burocratici». Poi però esplode. Quasi che le gambe gli si fissassero come travi per terra, per non lasciar più passare la menzogna governativa dell'andrà-tutto-bene-state-buoni. Basta una piccola provocazione sui soldi che non arrivano alle piccole imprese, ma neppure consentono loro di aprire: «Basta così. Qui ci sarà la rivolta. Guardi, io non voglio essere profeta di sventura. Ma vedrà che quando si darà il via libera, e la gente andrà al bancomat e vedrà la scritta "carta non abilitata" perché non ci sono i soldi, scoppierà una guerra. È una cosa reale e concreta. La nostra gente qui sta barcollando in ipotesi che sono ancora più dannose del virus stesso. La battuta che si fa in questi giorni è concreta: chi non è morto di coronavirus, è destinato a morir di fame. Questo non è un agire da esseri pensanti. L'incapacità di una classe dirigente si nota anche e soprattutto in quelle bollette inviate alle famiglie per la cremazione dei propri cari». Si spieghi con chi non è del posto, per favore: «Non lo sanno dello scandalo? Alle persone che hanno avuto un lutto sta arrivando una bolletta di 700 e rotti euro per la cremazione. Questa è una vergogna! Specie se si guarda che lo Stato italiano ha speso 4 milioni per pagare il riscatto di quella ragazza, Silvia. Per l'amor di Dio, andava salvata e bisogna salvare tutti. Ma dov'è il rispetto? Per 2000 persone, hai mandato la bolletta di 700 e rotti euro per i funerali e la cremazione, e poi spendi 4 milioni per portare a casa questa cristiana o ex cristiana, non lo so? Queste sono le incongruenze che fanno arrabbiare le persone. E guardi che la gente è ar-rab-bia-ta! È ora di fi-nir-la! Queste cose gridano vendetta al cospetto di Dio». Al nord tira aria di insorgenza. Bisogna togliere il punto di domanda. Non è solo questione di un sacerdote, che si fa voce del popolo. Dài, che lo sappiamo tutti, anche se non lo diciamo per paura di alimentarla. Capaci che ci arrestano. Ad attizzarla però non sono i giudizi su quanto accade, ma i fatti che hanno smosso la mente e le budella della gente-gente. Merita risposte, decisioni, denari veri, invece di litigi sulla regolarizzazione dei migranti. C'è poco tempo per iniettare serenità. Ma non è questione di capacità comunicative, ma di sostanza, di decreti razionali, di palanche sui conti correnti. Al Sud, dicono le cronache, il vento ribelle era soffiato dopo poche settimane dal blocco. Il 28 marzo piccole folle si assembrarono furiose fuori da supermercati di Palermo. Quella rabbia - abbiamo scoperto dalle inchieste delle magistratura - è stata tenuta a bada grazie alla carità pelosa della mafia, che presenterà il conto. In Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte è una cosa tutta diversa, non è il lamento che assalta i banchi degli alimentari, invoca un Masaniello e attira il padrinaggio di Cosa Nostra. È il desiderio di tagliar corto con Roma, furenti per essere stati prima gettati in bocca al Covid e ora di essere impediti di lavorare da un'autorità romana estranea. Chi lo capisce meglio di tutti sono i preti. Non c' è nessuno che conosca l'«odore del proprio gregge» (Papa Francesco) come i prevosti e i curati bergamaschi. Tacciono per prudenza e per obbedienza. Ne sono morti tanti, senza qualificarsi da martiri, senza accusare nessuno. In Val Seriana alla peggior strage del mondo la popolazione ha dovuto assistere allo scherzo idiota di un ministro che mimava i colleghi lombardi con la mascherina, mentre fuori dalla finestra circolavano le bare e tu non sapevi quale fosse quella del proprio caro. Traiamo queste frasi dall'intervista condotta da Alberto Luppichini a don Caccia su valserinanews.it. E qui occorre una citazione al merito: ha piazzato le sue tende dove si è accampato il Corona. Lo dirige Gessica Costanzo. Ha anche la web tv. E con uno spirito magnifico informa, domanda, registra cose che sui Tg e sui quotidiani nazionali sono autocensurate. Il polso lo si misura lì, nella cronaca che la gente del posto vive, e se sbagli ti contesta. Mi sono collegato ogni dì. Dopo i battiti lenti e singhiozzanti del dolore e del lutto. Dopo la comunicazione serena di una suora di clausura. Lo sconcerto dei medici abbandonati. Adesso le vene pulsano forte. Dove si mescolano voglia di rinascita e di insorgenza. Testimone è don Caccia, un prete non proprio docile. Obbedisce, certo. Ha accettato di essere trasferito dalla diocesi emiliana di Carpi dov'era incardinato (non era gradito dall'amministrazione rossa) a quella veneta di Chioggia, dove farà il parroco. Si lascia condurre con santo guinzaglio de "li superiori", ma non è di quelli che meni il codino fingendo felicità se il lupo attacca il suo popolo. Di origine e di temperamento è del resto uno della valle, anche se non è lì in cura d' anime: era passato dalla casa dei familiari, ad Almè, alle porte della Valbrembana, e lì gli è toccato rimanere. Continua: «Io lo so che rompo le scatole a qualcuno, ma nessuno si è posto il problema della partita che si è svolta in quelle settimane a Milano tra Atalanta e Valencia. Da Bergamasco e atalantino mi è dispiaciuto non andare, ma vi dico una cosa: allo stadio c' era molta gente di Nembro e di Alzano. Fra l' altro il virus ha portato via mio cugino di Alzano, e lui partecipò a quella partita. Io sono abbonato all' Eco di Bergamo. Ho qui davanti le dichiarazioni del sindaco Gori di quei giorni, che invitava a mangiare cinese. C' è stata una superficialità imbarazzante all'inizio. Sono ancora incazzato!».  E adesso, dice, accade il contrario. Si blocca il lavoro invece che spingerlo. «Ieri occorreva essere più previdenti, oggi bisogna rischiare, altrimenti si muore di fame. Invece la politica centrale si nasconde dietro il parere di virologi in lite. Parlando di Bergamo, l' unica cosa che ha continuato ad andare avanti è stata la fusione della Banca Popolare di Bergamo. Le banche non sono state toccate. Adesso che dovevano metterci la faccia, fanno menate ai commercianti. Prima chiedono di rientrare dal debito che si ha. Poi, forse, compilati cento e rotti moduli ti darò qualcosa. Scoppierà la rivolta, guardi che scoppia! Quando uno è alla fame, non guarda più in faccia a nessuno. Io rido per la disperazione. Quando la gente si vede accerchiata e non compresa, per sopravvivere cosa fa?». Non è il caso di aspettare la risposta in piazza. Tocca alle autorità muoversi.

Silvia Romano, non solo 4 milioni per il riscatto: la liberazione è costata 10 milioni di euro. Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Il riscatto di Silvia Romano è costato almeno 10 milioni e passa, spesi per riportarla a casa. Cifra insomma ben superiore dei 4 di cui si è parlato fino ad oggi. Lo scrive il Giornale.  Diciotto mesi di paghe degli agenti dei servizi segreti a cui s'aggiungono "indennità di cravatta", diarie di missione e "bonus". Stimando compensi mensili di almeno 12mila euro per una media di tre/quattro persone sul campo il conto si aggira sugli 850mila euro. A questi si aggiungono gli alberghi (gli agenti non vivono in ambasciata), le spese aeree, il vitto e non da ultimo mazzette, mance e bustarelle indispensabili - in Africa - per ottenere informazioni, appoggi e autorizzazioni. Facendo un altro calcolo, potrebbero essere  altre 500mila euro in 18 mesi. Poi nel caso del Falcon 50, il jet usato per il rientro di Silvia Romano, con un pacchetto di quattro voli (due andata e ritorno) lungo la tratta di 5396 chilometri Roma Nairobi, al costo di 9,60 euro per miglia, richiede circa 130mila euro. A questi vanno aggiunti voli di linea per un totale di altri 20mila euro. Più difficile calcolare l'incidenza dei voli da gennaio 2019 quando la cellula dell'Aise, avuta conferma del trasferimento di Silvia Romano in Somalia, trasferisce la base operativa a Mogadiscio. Tra partenze e rientri in Falcon, più banali voli di linea della Turkish Airlines o scomode trasvolate sui C130 il saldo non è inferiore agli 800mila euro. A questo si aggiunge il contante per oliare i contatti, garantirsi informazioni e provvedere alla cornice di sicurezza: per una cifra che si aggira sui 320mila euro. Solo così il totale supera i 2milioni e 600mila euro. Ma questi sono i soldi spesi sul campo. Poi c'è il coordinamento complessivo e almeno 800 mila euro vanno calcolati e i diciotto mesi di gestione diplomatica della vicenda con il coinvolgimento di ambasciate e personale del Ministero degli Esteri possono superare il milione di euro. Insomma a conti fatti ai 4 o 5 milioni del riscatto bisogna aggiungerne altri cinque. Per un totale finale che supera i dieci milioni. Ovvero più del doppio del riscatto.

Gian Micalessin per “il Giornale” il 14 maggio 2020. Quanto è costato il rapimento di Silvia Romano? Dimenticate il riscatto. Quello vale la metà dei 10 milioni e passa bruciati per riportarla a casa. Il registratore di cassa inizia a girare all' indomani del sequestro quando i vertici dei servizi spediscono in Kenya una cellula incaricata di coordinarsi con il capo centro locale. Da quel momento la cellula composta, a seconda dei momenti, da due o quattro agenti non smette più di operare. «Gli uomini dell' intelligence italiana che hanno compiuto l' operazione di liberazione - spiega una nota dell' Aise - sono gli stessi che nel novembre 2018 , 48 ore dopo il sequestro sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove in collaborazione con le forze locali hanno iniziato le operazioni di ricerca anche con l' ausilio di sofisticati droni». Dunque diciotto mesi di paghe a cui s' aggiungono «indennità di cravatta», diarie di missione e «bonus». Quanto fa? Stimando compensi mensili di almeno 12mila euro per una media di tre/quattro persone sul campo il conto si aggira sugli 850mila euro. A questi si aggiungono gli alberghi (gli agenti non vivono in ambasciata), le spese aeree, il vitto e non da ultimo mazzette, mance e bustarelle indispensabili - in Africa - per ottenere informazioni, appoggi e autorizzazioni. «Per la diaria calcola 200 euro al giorno a testa per due o tre persone per 18 mesi - racconta a Il Giornale un agente ma poi aggiungici la diaria di altre 2 o 3 persone chiamate a rinforzo in momenti particolari». Come dire 500mila euro in 18 mesi. Un' altra voce assai esosa riguarda i trasferimenti aerei. I vettori vanno dai costosissimi, ma spesso indispensabili Falcon 50, agli aerei di linea fino ai passaggi - esclusivi o condivisi - sui C130 utilizzati dai militari italiani di Eutm (European Training Mission) la missione europea per l' addestramento delle forze somale. Nel caso del Falcon 50, il jet usato per il rientro di Silvia Romano, un pacchetto di quattro voli (due andata e ritorno) lungo la tratta da 3353 miglia (5396 chilometri) Roma Nairobi, al costo di 9,60 euro per miglia, richiede circa 130mila euro. A questi vanno aggiunti voli di linea per un totale di altri 20mila euro. Più difficile calcolare l' incidenza dei voli da gennaio 2019 quando la cellula dell' Aise, avuta conferma del trasferimento di Silvia Romano in Somalia, trasferisce la base operativa a Mogadiscio. Tra partenze e rientri in Falcon, più banali voli di linea della Turkish Airlines o scomode trasvolate sui C130 il saldo non è inferiore agli 800mila euro. A questo si aggiunge il contante per oliare i contatti, garantirsi informazioni e provvedere alla cornice di sicurezza. «Il contante vola - spiega l' operativo contattato da Il Giornale - in un mese puoi bruciare 20mila euro». Quindi calcolando i 16 mesi da gennaio a maggio vanno aggiunti 320mila euro. Solo così il totale supera i 2milioni e 600mila euro. Ma questi sono i soldi spesi sul campo. Poi c' è il coordinamento complessivo. «Io durante un sequestro facevo solo quello spiega un ex dirigente del ex-Sismi - nell' arco di 18 mesi devi calcolare i salari di almeno tre dirigenti che si avvicendano in sala operativa e quello dei capicentro che tengono il contatto con la cellula sul campo e altri collegati». Pur non aggiungendo tutti questi stipendi al budget finale, almeno 800 mila euro vanno calcolati. L' operazione Silvia Romano ha però altri due quadranti. Il primo è quello della Turchia indispensabile per gli accordi operativi con il Mit, l' intelligence di Ankara. Il secondo è quel Qatar dove, si sarebbe svolta la fase finale del negoziato e forse la consegna del riscatto. Qui voli, trasferte di altro personale e compensi non documentabili si portano via almeno altri 900 mila euro. Ma alle operazioni riservate bisogna aggiungere quelle diplomatiche sviluppate su canali ufficiali o semi ufficiali. Questo richiede il lavoro dei funzionari di quell' Unità di Crisi della Farnesina dove intelligence e diplomazia s' incontrano e si coordinano. Anche qui il registratore di cassa gira all' impazzata. Diciotto mesi di gestione diplomatica della vicenda con il coinvolgimento di ambasciate e personale del Ministero degli Esteri possono superare il milione di euro. Insomma a conti fatti ai 4 o 5 milioni del riscatto bisogna aggiungerne altri cinque. Per un totale finale che supera i dieci milioni. Ovvero più del doppio del riscatto.

Silvia Romano, Luigi Di Maio a Fuori dal coro: "Non mi risulta nessun riscatto pagato altrimenti dovrei dirlo". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. "Non mi risultano riscatti per Silvia Romano". Luigi Di Maio, in collegamento con Mario Giordano a Fuori dal coro, si gioca il tutto per tutto: "Perché dobbiamo credere a un terrorista?", domanda al pubblico il ministro degli Esteri, smentendo così le voci dettagliate sui 4 milioni pagati dallo Stato all'organizzazione terroristica somala Al Shabaab per la liberazione della 24enne cooperante milanese.  "Ovviamente non bisogna darsi le risposte come conviene. Nel senso che è legittimo farsi delle domande, ma la prima domanda che mi faccio io è perché se un terrorista che viene intervistato e dice una cosa, la sua parola vale più dello Stato italiano? A me non risultano riscatti, altrimenti dovrei dirlo". La logica scricchiola, visto che da che mondo è mondo esistono anche informazioni riservate da non divulgare in forma ufficiale. "A dicembre ho sentito il padre di Silvia, sapevo che lei era viva e non potevo dirlo al padre, perché lei sa bene che in questi casi se si danno informazioni e c'è una fuga di notizie poi si rischia che alla fine non riusciamo a riportarla a casa e di compromettere tutto", prosegue il capo della Farnesina. "Rispetto tutte le discussioni, tutte, però siamo un Paese che si dà spesso la zappa sui piedi perché io sono orgoglioso del fatto che la nostra Intelligence, le nostre Forze Speciali, il nostro Corpo Diplomatico, l'Unità di Crisi, hanno fatto squadra e ce l'hanno fatta. Credo che dobbiamo anche, soprattutto, rispettare questa ragazza perché nessuno di noi sa che cosa significa stare un anno e mezzo in mano a una cellula terroristica che arruola i bambini, di terroristi criminali".

Silvia Romano, l'esperto di Islam: "Il riscatto è stato pagato, ma il governo ha usato un escamotage per non doverlo dire". Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. Carlo Panella è un giornalista e saggista ed è considerato uno dei maggiori esperti italiani di Medio Oriente. In una intervista al Giornale, spiega i chiaroscuri del caso di Silvia Romano: dal segreto di una conversione inattesa, alle inevitabili ricadute geopolitiche dell'operazione che ha portato alla sua liberazione. E sul pagamento del riscatto, non ha dubbi: "È certo che sia stato pagato". Sulla conversione: "Non sono pochi gli occidentali sequestrati da terroristi islamici che si sono convertiti, ricordo anche che uno di loro, dopo la conversione, è stato sgozzato davanti alle telecamere. Ma è indispensabile una precisazione. È sbagliato e assolutamente fuorviante che si dica che Silvia si è convertita all'Islam: non si è convertita all'Islam, si è convertita al salafismo. Uno scisma islamico che le è stato inculcato dai suoi carcerieri, unica sua fonte di informazione e formazione. L’eresia islamica che praticano gli al Shabaab è una maledetta teologia della morte su cui Silvia deve ora assolutamente riflettere, informandosi presso i veri musulmani. Centrale nell’eresia islamica degli Shabab è la definizione teologica dei cristiani ed ebrei come “apostati e politeisti”, e infatti gli al Shabab li hanno massacrati e sgozzati in molte stragi in Kenya e Somalia. Che Silvia si converta pure, ma all'Islam di fede." Il riscatto è stato pagato o no? "Ritengo certo che sia stato pagato e che, come è accaduto in altre occasioni, si sia ricorso ad un escamotage per cui il governo italiano può tranquillamente dire di non averlo mai fatto. Attraverso un'organizzazione caritatevole che si è fatta carico di anticipare il denaro, in questo caso portato materialmente ai rapitori con la mediazione dei servizi segreti turchi, per poi recuperare le somme con una serie di triangolazioni che fanno capo alle casse dello Stato italiano."

Pietro Del Re per “la Repubblica” il 12 maggio 2020.

Che cosa farete con quei soldi?

«In parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l' ordine e fanno rispettare le leggi del Corano». (...)

Silvia Romano ha confessato di essersi convertita senza costrizioni.

«Perché ha sicuramente visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva in precedenza».

Dall' interno della cella dove la tenevate rinchiusa?

«Non mi risulta che sia sempre stata segregata».

E come giustifica il massacro dei 148 studenti nel campus di Garissa nel 2015 o quello degli oltre cinquecento civili in un mercato di Mogadiscio due anni dopo?

«Ognuno combatte la guerra con i mezzi di cui dispone. Gli Stati Uniti hanno i droni, noi i kamikaze».

 (Adnkronos il 12 maggio 2020) - Il presunto pagamento di un riscatto da parte delle autorità italiane per liberare Silvia Romano, la giovane volontaria rapita in Kenya e liberata dopo essere stata tenuta  prigioniera in Somalia per quasi due anni, potrebbe essere "un   problema". Lo dice l'Alto Rappresentante dell'Ue per gli Affari Esteri  Josep Borrell, rispondendo, in videoconferenza a Bruxelles, alla   domanda se il pagamento di un riscatto costituisca un problema, visto   che il portavoce di al Shabaab, Ali Dehere, ha dichiarato a Repubblica  che una parte di quei soldi serviranno per comprare armi. "Sì,   sicuramente deve essere un problema - ha risposto Borrell - ma   francamente non abbiamo ulteriori informazioni da darvi. Sono   spiacente".   

Dagospia il 12 maggio 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Il riscatto? Il problema va risolto a monte. Io ricordo che l’Anonima Sequestri fu sconfitta quando si bloccò il pagamento dei riscatti. Io sono contento che Silvia sia tornata a casa. In futuro per quello che mi riguarda, se tu mandi dei lavoratori o dei volontari in zone a rischio, te ne assumi civilmente, economicamente e penalmente le conseguenze”. Lo dice Matteo Salvini, leader della Lega, a La Zanzara su Radio 24. Se cioè vengo avvertito dal consolato che quella è una zona a rischio e ce li mandi lo stesso e poi vieni liberata coi soldi dello Stato, questi soldi devono essere restituiti?: “Assolutamente si. Per quello che mi riguarda da oggi in avanti, se uno va in terra di terrorismo islamico, perché ricordo che i signori terroristi somali hanno massacrato migliaia di persone, sono cioè quelli che uccisero 148 studenti cristiani entrando in una scuola e chiedendo tu sai il corano, no? Se vai in zone impestate da questi infami, ti esponi ad un rischio. E quindi per quello che mi riguarda da oggi in avanti, chiunque metta a rischio dei suoi volontari, dei suoi lavoratori, ne deve rispondere civilmente, penalmente ed economicamente. Il discorso ovviamente vale per il futuro. Da domani per quello che mi riguarda se vai in zone a rischio, te ne assumi tutte le conseguenze”. Ma Silvia Romano era in Kenya: “Andate a vedere se ti sconsigliano o meno la partenza. E comunque avessero rapito Briatore, e Dio non voglia perché è un amico, secondo voi il riscatto lo avrebbe pagato il governo italiano?” “Io sulla conversione della ragazza non dico niente, perché una ragazza di 24 anni che è stata rapita per 18 mesi, non oso immaginare cosa abbia passato ed in quali condizioni torni a casa. Ma credo che l’Islam sia una religione fanatica. Punto. Poi uno nella vita fa quello che vuole”. Lo dice Matteo Salvini, leader della Lega, a La Zanzara su Radio 24. “Il Kenya, dove Silvia è andata a fare volontariato – dice Salvini – a proposito dei sostenitori dei diritti umani, prevede la galera per gli omosessuali. E prevede la poligamia. Mi dite che è normale? A Silvia va solo la mia solidarietà. Ma posso ritenere che una regione islamica sia incompatibile con i valori e le libertà faticosamente conquistate nelle nostre civiltà?”. Ma ci sono tanti islamici che vivono tranquillamente in Italia: “Se rispettano le nostre leggi, per carità di Dio. Per fortuna lo fanno, perché se applicassero la legge islamica in casa nostra, saremmo messi male”.

Liberoquotidiano.it il 12 maggio 2020. I 4 milioni di dollari pagati dallo Stato italiano per il riscatto di Silvia Romano aiuteranno Al-Shabaab a finanziare le proprie attività terroristiche. Tutto come previsto, insomma. A chiarirlo è lo stesso portavoce dei tagliagole somali, Ali Dhere, in una clamorosa intervista concessa a Repubblica. Quei soldi, ha spiegato al telefono, "in parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l'ordine e fanno rispettare le leggi del Corano". Ali Dhere ha parlato anche della conversione all'Islam di Silvia, che tornata in Italia ha spiegato di volersi far chiamare Aisha.  "Da quanto mi risulta Silvia Romano ha scelto l'Islam perché ha capito il valore della nostra religione dopo aver letto il Corano e pregato". "Rispetto per le donne" - Al rapimento della cooperante italiana, ha detto ancora il portavoce, hanno partecipato "decine di persone", ma non è stato organizzato dai vertici del gruppo: "C'è una struttura in seno ad Al Shabaab che si occupa di trovare soldi per far funzionare l'organizzazione, la quale poi li ridistribuisce al popolo somalo. È questa struttura che gestisce le diverse fonti d'introiti". Tra cui, appunto, i rapimenti di occidentali. Il portavoce spiega poi perché Silvia non è stata maltrattata: "Silvia Romano rappresentava per noi una preziosa merce di scambio. E poi è una donna, e noi di Al Shabaab nutriamo un grande rispetto per le donne". "Abbiamo fatto di tutto per non farla soffrire, anche perché Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra. I prigionieri di guerra li passiamo per le armi, esattamente come fa l'esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo. Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell'esercito somalo".

 (askanews l'11 maggio 2020) – E’ una vera e propria celebrazione quella oggi sui social arabi per la “conversione volontaria” all’Islam di Silvia Romano, la giovane cooperante italiana rientrata ieri in Italia dopo la liberazione avvenuta venerdì in Somalia, a quasi un anno e mezzo dal suo rapimento in Kenya.Su Twitter scorrono decine di post di utenti di Paesi arabi che esprimono “gioia” per la conversione all’Islam della giovane italiana. “Silvia è rientrata ieri nella sua patria dopo 18 mesi dal suo sequestro in Kenya. Grandissima la sorpresa di chi è andato ad accoglierla in aeroporto per il suo vestito somalo e l’Hijab (velo), ma a stordire tutti sono state le parole della ragazza che ha voluto subito annunciare la sua conversione volontaria alla nostra fede l’Islam. Che soddisfazione”, ha twittato @AbuJoriya. “Grazie ad Allah che le ha indicato la retta via dell’Islam”, scrive il saudita @Hamed_Alali, aggiungendo che Silvia “ha lasciato di sasso i responsabili del governo italiano con il velo che portava e le sue parole limpide: ‘Sì, ho abbracciato l’Islam di mia volontà e senza subire pressioni né costrizioni”. Ibrahim El ashhab, invece, dopo aver esultato per “l’impresa dei giovani Mujahidin”, riferendosi ai sequestratori del gruppo radicale islamico el Shabab, si dice compiaciuto per le parole di Silvia: “Mi hanno trattato con umanità e ho abbracciato l’islam nel pieno della mia volontà e facoltà mentali”. “Silvia ha abbracciato l’Islam”, scrive @elhashmy5 prima di aggiungere: “E’ stata una libera scelta che ha lasciato basiti quelli che sono andati ad accoglierla”.

Di Maio: “Silvia Romano è viva, adesso un po’ di rispetto”. Replica Salvini:” “il Governo doveva evitare spot gratuito ai terroristi”. Il Corriere del Giorno l'11 Maggio 2020. Fonti della Farnesina hanno smentito quanto riportato da alcuni organi di stampa, secondo cui l’annuncio della liberazione di Silvia Romano avrebbe sollevato uno scontro tra il ministero degli Affari Esteri e la Presidenza del Consiglio. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio cerca di nuovo visibilità sulla liberazione di Silvia Romano, dopo essere stato offuscato dal premier Conte e con un post su Facebook Commenta: “Silvia è una giovane ragazza che ha vissuto 18 mesi da prigioniera. Prima in Kenya. Poi in Somalia. A soli 23 anni. Grazie all’impegno di donne e uomini dello Stato oggi è nuovamente in Italia, tra le braccia della sua famiglia. E questa è l’unica cosa che conta. Quell’abbraccio intenso, infinito, vero, emozionante di Silvia con il padre, la madre e la sorella ha commosso tutti. Silvia è viva, sta bene. Adesso, per favore, un po’ di rispetto“. Di Maio, posta le foto di Silvia Romano che abbraccia i genitori mentre questa mattina fonti della Farnesina hanno smentito quanto riportato da alcuni organi di stampa, secondo cui l’annuncio della liberazione di Silvia Romano avrebbe sollevato uno scontro tra il ministero degli Affari Esteri e la Presidenza del Consiglio. “La nostra convinzione è che a prevalere sia sempre lo spirito di squadra”, chiosano le stesse fonti cercando di nascondere la verità. Matteo Salvini dissente, intervenendo sulla liberazione di Silvia Romano parlando a Rtl 102.5“Il giorno della festa è il giorno della festa e salvare una vita è fondamentale, ma se mi chiede come mi sarei comportato al Governo io, probabilmente, avrei tenuto un atteggiamento da parte delle istituzioni più sobrio, un profilo più basso. Perché mettetevi nei panni di quei terroristi islamici maledetti che hanno rapito questa splendida ragazza: l’hanno vista scendere col velo islamico, ha detto che è stata trattata bene, ha studiato l’arabo, letto il Corano, si è convertita, in più hanno preso dei soldi, io penso che un ritorno più riservato avrebbe evitato pubblicità gratuita a questi infami che nel nome della loro religione hanno ammazzato migliaia di persone“. “Certo qualche domanda deve avere una risposta. – aggiunge Salvini – In Kenia le donne valgono molto meno dell’uomo perché l’uomo può sposare quante donne vuole e la donna no, visto che c’è la poligamia per legge, e i soldi che sarebbero stati pagati per il riscatto sarebbero stati incassati da questa associazione terroristica Al-Shabaab che con attentati ed autobombe ha ucciso migliaia di persone“.

Fdi: va chiarito il ruolo della Turchia. Critiche sono arrivate anche da Fratelli d’Italia sul ruolo della Turchia nella mediazione per la liberazione della cooperante italiana. “Rimangono comunque molte zone d’ombra –  commenta Carlo Fidanza responsabile Esteri e Capodelegazione Ue di Fratelli d’Italia, – a partire dal fatto che per responsabilità di chi ha mandato Silvia Romano ad operare in una zona senza la benché minima sicurezza l’Italia si è trovata a dover pagare un cospicuo riscatto alle milizie islamiste di Al Shabaab e ad affidarsi completamente alla mediazione della Turchia“. E aggiunge: “Il governo chiarisca: dove e come cambia il nostro rapporto con la Turchia dopo la liberazione di Silvia Romano?”.

Silvia Romano, altro che religione: ai terroristi piace il Dio Denaro. Deborah Bergamini su Il Riformista l'11 Maggio 2020. Non hanno rapito Silvia Romano per il Dio Allah. L’hanno rapita per il Dio Denaro. Tanto è vero che si sono ben guardati dal liberarla o tenerla con sé a seguito della sua conversione. Per denaro l’hanno presa, per denaro l’hanno venduta. I soldi sono la divinità dei terroristi di Al Shaabab. Gli stessi soldi che i terroristi fingono di schifare ma che in realtà bramano più di ogni altra cosa. A molti di noi non ha fatto piacere scoprire che Silvia aveva cambiato religione nel corso della sua prigionia. Ma noi, a differenza degli avidi terroristi, non l’abbiamo liberata per ciò in cui crede; l’abbiamo liberata per ciò che per la nostra civiltà rappresenta la libertà. Una libertà che a Silvia-Aisha è stata rubata e che l’Italia le ha restituito pienamente. La libertà non è mai gratis né scontata. Lo abbiamo imparato bene in questi tempi di pandemia. Proprio per questo sarà indispensabile fare tutto il necessario per mandare un segnale forte a chi pensa di arricchirsi andando a caccia di italiani. Per il resto lasciamo in pace Silvia, diamole il tempo e l’assistenza di cui ha e avrà bisogno. Non mi importa ciò in cui Silvia ha deciso di credere. Mi importa che sia davvero libera di farlo. I riscatti che questi “giovani” terroristi si sono fatti pagare non sono altro che la tangente riscossa per venire meno ai loro valori. Tutt’altra storia per quanto ci riguarda. Per noi che siamo figli di una democrazia libera e laica non dovrebbe contare ciò in cui crede Silvia, ma ciò in cui crediamo noi: a partire dalla libertà.

Silvia Romano, Souad Sbai a Quarta Repubblica: "Il riscatto? Dietro c'è qualcosa di più grosso. E se davvero si è radicalizzata..." Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Conversione all'islam e riscatto, Souad Sbai vede del marcio nel caso di Silvia Romano. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica per commentare la liberazione della giovane cooperante milanese dopo un anno e mezzo di sequestro in Somalia, l'ex deputata del Pdl attacca frontalmente sbriciolando tabù, segreti di Stato e convenzioni buoniste. Si parte dalla trattativa con al Shabaab, il gruppo jihadista somalo che ha rapito Silvia e che la liberata dietro il pagamento di un riscatto da 4 milioni di dollari. "Quattro milioni non sono niente per questi terroristi - è il drammatico sospetto -, lì c'è stato qualcosa di più grosso". Magari uno scambio di influenze, un riconoscimento di credibilità inimmaginabile per il gruppo terroristico, "incoronato" come padrone del corno d'Africa proprio grazie a questa negoziazione. C'è poi il tema della conversione, indotta forse proprio dai carcerieri anche se Silvia, che oggi vuole essere chiamata con il nome islamico di Aisha, sostiene essere stata assolutamente libera. La Sbai, marocchina di nascita da sempre impegnata contro l'Islam radicale e la violenza sulle donne, ammette il suo disagio: "Sto male perché penso che quel vestito massacra le donne, quel velo ha il significato che siamo sotto ricatto di qualcuno - sottolinea commentando le immagini della Romano atterrata a Ciampino con il velo islamico e l'abito tradizionale somalo, simboli della nuova fede in Allah -. Io sono stata la prima a manifestare per Silvia, se però è stata radicalizzata non c'è ritorno". 

Silvia Romano, i soldi del riscatto portano in Qatar: ombre sul "regime che finanzia il terrorismo islamico". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. Emergono dettagli sulla liberazione di Silvia Romano. Sul riscatto, in particolare, né confermato né smentito dal governo. Un riscatto che pare essere stato pagato, è pacifico, per riavere la nostra connazionale 24enne e convertita all'Islam. Dettagli che viaggiano sul Corriere della Sera, dove si fa sapere che la mediazione decisiva è avvenuta in Qatar. Sarebbe infatti nello Stato della penisola araba, come avvenuto in molti altri sequestri, che tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio i mediatori hanno consegnato l'ultima prova, decisiva, sul fatto che la Romano fosse in vita. Dunque, il via libera al pagamento del riscatto, che sarebbe avvenuto sempre in Qatar, paese che da anni è al centro di inchieste che tendono a mettere in luce le strette interconnessioni con il terrorismo islamico, tanto da essere definito da più parti "il regime che finanzia il terrorismo".

Silvia Romano, Al Shabaab: “Soldi riscatto per finanziare jihad”. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Il riscatto di Silvia Romano servirà ai rapitori per finanziare la jihad. A dichiararlo è il portavoce di Al Shabaab, Ali Dehere. Il riscatto di Silvia Romano continua a infiammare il dibattito pubblico italiano. La cifra di quanto pagato per poter ottenere la libertà della cooperante rapita a novembre 2018 non è stata resa nota. Le polemiche sul pagamento del riscatto riguardano la possibilità di finanziare gli atti terroristici dei gruppi islamici. E a conferma di ciò arriva un’intervista di La Repubblica ad Ali Dehere, portavoce di Al Shabaab, l’organizzazione terroristica che ha sequestrato Silvia Romano. Sulla cifra realizzata glissa con un no comment, ma sull’uso di questi soldi non ha dubbi: “In parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per combattere la jihad. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l’ordine e fanno rispettare le leggi del Corano”.

Silvia Romano riscatto: parla Al Shabaab. Sul rapimento di Silvia Romano Ali Dehere, portavoce di Al Shabaab, racconta: “Al rapimento e alla sua gestione hanno partecipato in tante persone. Non era organizzato: c’è una struttura in seno ad Al Shabaab che si occupa di trovare soldi per far funzionare l’organizzazione, la quale poi li ridistribuisce al popolo somalo. È questa struttura che gestisce le diverse fonti d’introiti”. Sulla durata del rapimento – 18 lunghi mesi di prigionia – il portavoce dei rapitori non si esprime ma evidenzia perché hanno effettuato continui spostamenti: “Siamo in guerra e i droni americani e l’artiglieria pesante keniana non bombardano soltanto le nostre postazioni militari ma anche i nostri i villaggi e le nostre città, provocando un gran numero di vittime civili. Ogni ostaggio è un bene prezioso, quindi appena c’era il minimo rischio che la zona dove tenevamo nascosta Silvia Romano era diventata un possibile bersaglio per i nostri nemici, sceglievamo un altro nascondiglio”. Anche perché lei non era un prigioniero di guerra che vengono trattati diversamente dagli ostaggi: “I prigionieri di guerra li passiamo per le armi, esattamente come fa l’esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. – racconta Ali Dehere – Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo. Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell’esercito somalo”.

DAGONEWS il 14 maggio 2020. Non ci si può fidare neanche dei jihadisti? Sentite cosa scrive Askanews a proposito dell'intervista-colpaccio che aveva pubblicato Repubblica: I jihadisti somali Shebab hanno smentito oggi che il proprio portavoce, Ali Dhere, abbia rilasciato un'intervista a La Repubblica sul sequestro di Silvia Romano, bollata come "fake news". "Non c'è stata nessuna intervista del portavoce con nessun media sul caso Romano", ha detto l'organizzazione al sito SomaliMemo, uno dei canali di comunicazione usati dagli Shebab.  Nell'intervista pubblicata due giorni fa da Repubblica, Dhere ha confermato il pagamento del riscatto per la liberazione della cooperante italiana, affermando che i soldi verranno spesi per finanziare la jihad. Beh, siamo andati su questo SomaliMeMo e abbiamo trovato la notizia in apertura. Un bel risciacquo attraverso Google translate – che converte il somalo in inglese meglio di quanto faccia con l'italiano – e abbiamo scoperto altri dettagli. Innanzitutto, che il sito chiama la nostra Silvia Romano direttamente ''Caa'isha Romano'', il nome che ha adottato dopo la sua conversione all'Islam. E vabbè, ci può stare. L'altra cosa che abbiamo capito è che il membro di Al Shabaab che ha parlato con SomaliMeMo considera la ''falsa intervista'' di Repubblica come ''parte della campagna razzista in corso in Italia contro Aisha Romano, sottoposta a numerosi attacchi e minacce per il fatto di essersi convertita''. Insomma, quello che scriveva oggi sul Giornale Gian Micalessin: «La conversione e la tunica verde sono tutti messaggi interpretati come una vittoria dal mondo jihadista in rete. E serve anche ad attirare proseliti da una parte e scatenare gli anti islamici contro Silvia facendola apparire come una vittima». Il piano dei terroristi somali  sta funzionando…Ps: il giornalista Fulvio Beltrami sono giorni (da quando è uscita l'intervista) che sottolinea la stranezza dell'intervista. Perché Ali Dhere sarebbe stato ucciso nel 2014. Quindi le cose sono due: o è stata concessa con una seduta spiritica oppure il cronista di Repubblica deve avvertire l'esercito americano, che aveva confermato la morte di Dhere. La Repubblica afferma di aver intervistato per telefono Ali Mohamud Raage nome di battaglia Ali Dhere che è stato ucciso tra il 2014 e il 2019 secondo quanto affermato da governo keniota e dal Pentagono. Se ci fosse registrazione della sua voce sarebbe interessante analizzarla. Sul terrorista Ali Mohamud Raage nome di battaglia Ali Dhere (che in teoria avrebbe rilasciato l’intervista a La Repubblica) c’è un mistero. L’esercito kenyota dichiarò la sua morte nel gennaio 2014. Al Shabaab la confermò nel marzo 2014.

Silvia Romano, Al-Shabaab smentisce Repubblica: "Intervista falsa". Esercito Usa: "Morto nel 2014". Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Una smentita clamorosa, quella a Repubblica. Si parla dell'intervista di due giorni fa ad Ali Dhere, portavoce di Al-Shabaab, in cui spiegava come sarebbero stati usati i soldi ricevuti per il riscatto di Silvia Romano. I jihadisti fanno sapere che non c'è stata "alcuna intervista", così l'organizzazione al sito SomaliMemo, uno dei canali di comunicazione usati dai terroristi. Dagospia ha poi spulciato l'intero intervento sul sito in querstione, dove la ragazza viene chiamata "Cas'isha Romano". Dunque l'intervista viene bollata come "parte  della campagna razzista in corso in Italia contro Aisha Romano, sottoposta a numerosi attacchi e minacce per il fatto di essersi convertit". Ma non è tutto. Sempre Dago fa notare che il giornalista Fulvio Beltrami, da quando è uscita l'intervista, sottolinea che Ali Dhere sarebbe stato ucciso nel 2014, uccisione che era poi stata confermata dall'esercito degli Stati Uniti.

"Un morto non rilascia interviste", Al Shabaab sbugiarda Repubblica: "Mai parlato ai media del caso Romano". Silvia Romano, Al Shabaab smentisce l'intervista di Repubblica a Ali Dhere: il portavoce è morto nel 2014 Libero Quotidiano il 14 maggio 2020. L'intervista di Repubblica al portavoce del gruppo terroristico che ha rapito Silvia Romano sarebbe una fake news. A smentire quanto scritto dal quotidiano di Maurizio Molinari è l'agenzia askanews: "I jihadisti somali Shebab hanno smentito oggi che il proprio portavoce, Ali Dhere, abbia rilasciato un'intervista a La Repubblica sul sequestro di Silvia Romano, bollata come fake news. E ancora: "Non c'è stata nessuna intervista del portavoce con nessun media sul caso Romano", ha detto l'organizzazione al sito SomaliMemo, uno dei canali di comunicazione usati dagli Shebab. Nell'intervista pubblicata due giorni fa da Repubblica, Dhere ha confermato il pagamento del riscatto per la liberazione della cooperante italiana, affermando che i soldi verranno spesi per finanziare la jihad. Dello stesso parere anche il giornalista Fulvio Beltrami che su Twitter scrive: "Il 10 gennaio 2014 Ali Mohamud Raage nome di battaglia Ali Dhere viene ucciso dall'esercito keniota in Somalia. il 11 marzo 2014  Al Shabaab conferma. Un morto non rilascia interviste..."

Chi sono i rapitori di Silvia Romano? Ma chi sono i rapitori di Silvia Romano, ovvero l’organizzazione Al Shabaab? “Riduttivo definirci terroristi. Controlliamo gran parte del Paese, soprattutto nelle aeree rurali. Ma siamo presenti anche nelle periferie delle città. Eppure non siamo riconosciuti dalla comunità internazionale, forse perché vogliamo che la Sharia (letteralmente strada battuta, è l’insieme delle regole di vita e di comportamento dettate da Dio per indicare ai suoi fedeli la condotta morale, religiosa e giuridica, ndr) sia legge anche a Mogadiscio e perché chiediamo che le truppe dell’Amison, la missione Unione africana in Somalia, lascino il Paese“. E i nemici di questa organizzazione sono “anzitutto la classe politica corrotta che governa la capitale e che senza la massiccia presenza delle truppe straniere e senza i generosi aiuti degli Stati Uniti spazzeremmo via in due giorni. Ma diamo anche la caccia a tutti i traditori della jihad, che sono quei vigliacchi che per paura rinunciano a combattere”.

Ali Dehere, Repubblica conferma l'intervista al portavoce di Al Shabaab. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su La Repubblica.it. In merito a quanto riportato oggi dal quotidiano Libero, che fa proprie e rilancia illazioni circolate nei giorni scorsi su Internet in merito all'intervista realizzata al portavoce dell'organizzazione terroristica Al Shabaab, la direzione di Repubblica osserva quanto segue.

1) Conferma che Pietro Del Re ha intervistato lunedì scorso Ali Dehere, portavoce dal 2016 del gruppo jihadista somalo Al Shabaab e appartenente alla tribù Hawiye Murusade. L'uomo è vivo, e non "morto da alcuni anni", come il quotidiano "Libero" vorrebbe. E ne fanno fede le dichiarazioni recenti rilasciate a organi di stampa internazionali che per comodità di consultazione si elencano e che riguardano: la rivendicazione dell'attentato del  30 dicembre scorso con un camion-bomba che ha provocato a Mogadiscio almeno 80 morti. Gli attacchi del 4 marzo contro alcune ong nel nord del Kenya come "invito" ai cooperanti "infedeli" a lasciare la regione. Le dichiarazioni alla BBC del 2 aprile scorso, in piena pandemia di coronavirus, per accusare "i crociati" stranieri di aver introdotto in Somalia il Covid-19.

2) La persona deceduta a cui il quotidiano "Libero" fa riferimento è Ali Mahmoud, l'imam  fondamentalista chiamato anche sceicco Cali Dehere, fondatore nel 1996 delle Corti islamiche a Mogadiscio, e morto effettivamente nel 2014. Persona diversa da quella intervistata da Repubblica. Il quotidiano "Libero" incorre dunque in un errore di persona.

3) Pietro Del Re è stato ascoltato come testimone nei giorni scorsi dal Ros dei carabinieri in merito all'inchiesta della Procura di Roma sul sequestro a scopo di Terrorismo di Silvia Romano e in quella occasione ha dato pieno riscontro delle modalità e del contenuto dell'intervista Raccolta dal portavoce di Al Shabaab.

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 16 maggio 2020. Noi di Libero non indossiamo i panni di maestrini e davanti agli errori o agli incidenti dei nostri colleghi non ci stracciamo le vesti. Giunge notizia in redazione che il capoccia del terrorismo islamico intervistato dalla Repubblica, portavoce di Al Shabaab, in realtà non esiste o, meglio sarebbe morto anni orsono. Non siamo in grado di giurare sulla veridicità di questo particolare, in realtà interessante. La suddetta intervista, pubblicata con evidenza sulla prima pagina del giornale diretto da Molinari, succeduto a Verdelli, viene giudicata falsa dai jihadisti e noi prendiamo atto con stupore della smentita resa pubblica ieri con insistenza da varie fonti di informazione. Il giornalista che l' ha diffusa, Pietro Del Re, al momento non ha commentato: non ha detto se il suo lavoro è stato corretto oppure viziato da un imbroglio da lui subito sia pure in buona fede. Tutto può essere successo. Sta di fatto che il suo colloquio circa il rapimento e il rilascio di Silvia Romano sarebbe stato una patacca presa per buona non solo dall' autore dell' articolo, ma anche dalla direzione del giornale. Non è la prima volta che accadono cose del genere, ricordo un caso analogo avvenuto al Corriere della sera al tempo in cui il direttore era Pietro Ostellino. La società è seminata di imbrogli e talvolta ne sono vittime anche cronisti non di primo pelo. La brutta figura in certe circostanze è garantita, ma aggiungiamo che l' insidia della presa in giro è sempre in agguato. Non vogliamo infierire contro i colleghi di Repubblica, ci limitiamo a dire che noi abbiamo intervistato migliaia di personaggi vivi ma uno morto non ci ha mai rilasciato dichiarazioni. Segnalo che il defunto in questione aveva affermato, tra l' altro, che Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra, quindi merce preziosa da barattare in cambio di denaro utile a finanziare l' attività terroristica. Le nostre condoglianze a la Repubblica.

Scatta l'allarme: "I soldi per il riscatto di Silvia verranno usati per fare attentati". L'esperto Francesco Marone lancia un chiaro avvertimento: "Non è detto che compri solo armi da fuoco, perché deve pagare i suoi membri e sostenere le sue attività". Luca Sablone, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. La lettura del Corano le è stata suggerita o è nata da un suo intimo desiderio di conoscenza? La conversione è stata naturale o dettata dalle circostanze in cui si trovava? Qual è l'islam in cui crede? Perché è tornata in Italia con un vestito tipico della tradizione somala e coprendosi il volto con il velo? Ha subito violenze? I dubbi sul caso Silvia Romano sono molteplici e ancora privi di risposta: in questa conversione non tornano diversi punti. Ma per il momento c'è una sola certezza: i soldi usati per il riscatto saranno importanti per Al Shabaab, anche se non saranno decisivi. "Arrivano a una grande organizzazione che non è più quella dei tempi d'oro, parlo degli anni fra il 2011 e il 2015, ma che comunque ha ancora migliaia di combattenti". A parlare è Francesco Marone, ricercatore dell'Istituto per gli Studi di Politica internazionale, che ha voluto precisare come a oggi non vi sia alcuna conferma ufficiale, ma è molto probabile che la ragazza fosse nelle loro mani o di qualcuno vicino a loro: "Gli shabaab (in arabo 'i ragazzi') hanno migliaia di guerrieri. Oggi sono radicati solo nelle aree rurali del centro e del sud della Somalia". I denari consegnati per il riscatto della giovane cooperante probabilmente non consentiranno un salto in avanti ma saranno comunque utili. Tuttavia non è ancora noto il numero dei membri del gruppo. Si stima una forza di circa 3mila: "Nell'epoca di massima espansione e influenza erano 10mila".

L'attivismo di Al Shabaab. L'esperto di Africa, nell'intervista rilasciata a Il Giorno, ha sottolineato che la somma è un contributo a una grande entità che fa della violenza un suo punto distintivo: "Non è detto che compri solo armi da fuoco, perché deve pagare i suoi membri e sostenere le sue attività". Si tratta di una cifra notevole considerando gli standard del Paese, nel pianeta uno dei più vicini al concetto di stato fallito: "L'Onu nel 2011 calcolava che i ricavi di Al Shabaab raggiungessero in tutto dai 70 ai 100 milioni di dollari". Il sequestro è un'operazione complessa ma le doti che ha questa organizzazione non sono in discussione, visto che in passato ha messo a segno altri rapimento. Secondo Marone quella ai danni di Silvia Romano è stata un'operazione con fini prettamente economici, ossia di estorsione, e non sarebbe stata un'azione di propaganda: "Non c'erano intenzioni di ricatto politico. In questo caso infatti sarebbero stati diffusi alcuni video". Al Shabaab ha ormai 14 anni e il suo miglior periodo è stato quello compreso tra il 2011 e il 2015, quando arrivò a un passo dalla conquista di Mogadiscio: "In questa parabola discendente ha mostrato attivismo". Anche se non è riuscita a essere stabilmente presente nei grandi centri abitati, negli ultimi mesi è riuscita nell'intento di effettuare diversi attacchi, "nonostante la pressione dei militari somali, della forza armata dell'Unione Africana per il mantenimento della pace, l'Amisom, dei droni statunitensi". Non a caso Donald Trump ha ordinato "un'attività crescente dopo l'uccisione di un contractor e di un soldato americano".

I RISCATTI.

Silvia Romano "salvata dallo Stato, mio marito tradito e ucciso". La vedova di Failla accusa: cosa non torna nei due sequestri. Libero Quotidiano il 31 maggio 2020. Lo Stato italiano ha salvato Silvia Romano, pagando un riscatto, ma ha tradito Salvatore Failla, rapito anche lui in Africa e ucciso dai terroristi il 2 marzo del 2016. Non era un volontario di una Ong o di una Onlus, e forse questo mediaticamente ha pesato. Era uno dei operai della Bonatti sequestrati in Libia per motivi di estorsione. Lui e Fausto Piano sono stati ammazzati, gli altri due colleghi sono tornati a casa sani e salvi. Ma la moglie di Failla, Rosalba Castro, punta il dito contro il governo in carica all'ora, quello di Matteo Renzi. Lo Stato non ha fatto abbastanza, spiega a Repubblica la vedova, "oggi lo penso più che mai". Sotto accusa i "lunghissimi tempi del rapimento durante il quale chi, in Italia, doveva occuparsi della sua liberazione non ha fatto altro che temporeggiare. Eppure sapevano dove era tenuto prigioniero mio marito. Ci hanno imposto il silenzio assoluto anche dinanzi alle ripetute telefonate che ricevevo dai rapitori, senza darci alcuna informazione in merito. Eppure, loro dovevano essere coscienti che prolungare un rapimento significava aumentare le possibilità di un tragico epilogo, come difatti poi è accaduto. Ogni giorno mi tormento di dubbi: e se avessi disobbedito? Se avessi parlato? Magari Salvo ora sarebbe vivo".  Non solo: "Durante il periodo del rapimento ci sono stati diversi bombardamenti contro alcuni gruppi di terroristi. Penso che lo Stato avrebbe dovuto attivarsi maggiormente nel creare un dialogo internazionale per evitare questi pericolosi attacchi nelle zone in cui sapevano essere nascosti come prigionieri dei cittadini italiani. Purtroppo non è stato fatto". Il governo e le autorità hanno taciuto anche sulla trattativa per il riscatto: "Il governo ci promise che saremmo stati convocati per avere spiegazioni, ma purtroppo non ci ha mai convocato nessuno. Io, però, non mi arrendo". Finora gli unici condannati dalla giustizia sono i vertici dell'azienda per le mancate misure di sicurezza dei propri dipendenti, ma è una giustizia monca. "Sapere cosa è successo in Libia, solo allora potremo dire che è stata fatta giustizia. Il nostro non è un dolore privato. La morte di Salvo è una faccenda di Stato".

Quanto vale la libertà? Andrea Indini il 13 maggio 2020 su Il Giornale. Quando nel 2011 viene rapita nella provincia meridionale algerina di Alidena, Mariasandra Mariani spiega ai suoi aguzzini, militanti salafiti di al Qaeda che ormai da anni seminano una scia di sangue tra Mali, Mauritania e Algeria, che difficilmente i suoi famigliari sarebbero riusciti a pagare il riscatto, la mettono subito a tacere: “Il tuo governo dice sempre che non paga. Quando torni a casa vogliamo che tu dica alla tua gente che il vostro governo paga. Paga sempre”. In un conflitto prettamente strategico come quello che l’Occidente combatte da decenni contro l’integralismo islamico, si è obbligati a ragionare guardando molto più in là. Un’azione compiuta oggi può avere ripercussioni negative anche dopo settimane, se non addirittura mesi. Per questo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, da sempre, si rifiutano di pagare i riscatti ai jihadisti. Sanno bene che quei soldi, spesi per salvare una singola vita che è finita nelle loro mani, verranno reimpiegati per finanziare il terrore islamista e costeranno la vita a molte altre vittime. “Gli americani ci hanno detto un sacco di volte di non pagare riscatti. E noi abbiamo risposto che non li vogliamo pagare, ma non possiamo lasciar morire i nostri cittadini”, spiegava anni fa un ambasciatore europeo al New York Times. L’Italia è tra i Paesi che pagano sempre. Sempre. Lo ha fatto nel 2015 per riportare a casa Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti rapite l’anno prima nella Siria divorata dalla guerra civile contro Assad e dai tagliagole dell’Isis. E lo ha fatto nei giorni scorsi per strappare Silvia Romano dai jihadisti di al Shabaab. Quattro milioni di euro. Questa la cifra che Roma avrebbe versato nelle loro tasche. Per molti non c’è limite alla cifra che uno Stato deve spendere per salvare la pelle a un proprio connazionale. Per altri, invece, i soldi non sono la strada giusta. Gli Stati Uniti, per esempio, è vero che non pagano (almeno non ufficialmente), ma sono pronti a mettere a rischio la vita di un pugno di soldati mandandoli sul posto a liberare gli ostaggi. Il punto, infatti, non è la cifra che viene sborsata ma il fatto che, se si paga una volta e lo si sbandiera in giro, i jihadisti sanno che poi si pagherà sempre. Facendo il calcolo degli ultimi sequestri, per esempio, l’Italia avrebbe sborsato circa tra i 30 e gli 80 milioni di euro. Una cifra mai confermata ma che non si dovrebbe discostare poi tanto dalla realtà. Il pagamento del riscatto non solo espone il Paese che paga a nuovi rapimenti. C’è anche un altro dato che è bene tenere a mente. Ce lo ha ricordato il portavoce dei jihadisti somali, Ali Dhere, in una intervista a Repubblica: “In parte (quei soldi, ndr) serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa”. E la guerra santa di al Shabaab, come di tutte le sigle del terrore islamista, ha una lunga schiera di croci al camposanto. Per questo i volti sorridenti di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio rivelano che il governo non ha ben presente che tipo di battaglia stiamo combattendo contro il terrorismo islamico. Perché, se anche in questo momento la jihad è silente, non significa che presto o tardi non tornerà a colpirci. Se, quindi, da una parte lo Stato deve preoccuparsi della sicurezza dei cittadini, dall’altra con il pagamento dei riscatti ai terroristi ne espone altre centinaia al rischio di essere colpiti: qual è, dunque, il prezzo della libertà?

Lettera di "Agente Segreto" a “la Verità” il 13 maggio 2020. Tutti i governi trattano per la liberazione dei loro cittadini presi in ostaggio in teatri esteri: offrono denaro, aiuti umanitari, liberazione di propri prigionieri, importanti fette dei loro interessi nazionali; ma lo fanno in silenzio, attraverso sotterfugi e percorrendo vie tortuose. Si avvalgono di società finanziarie (i cui rappresentanti ricordano fisicamente più ex appartenenti a corpi speciali delle Forze Armate che oscuri impiegati da scrivania), o di grandi enti di importanza strategica (che vengono poi ricompensati con trattamenti di favore non necessariamente in linea con le leggi del libero mercato); stringono patti scellerati con governi di Stati confinanti con quello di interesse (sorvolando sullo scarso rispetto dei diritti umani esercitato da tali governi); forniscono a Stati terzi materiale bellico, anche di armamento, in spregio ad eventuali embarghi che impedirebbero tali trasferimenti. E le trattative a volte non riguardano solo ostaggi ancora in vita, ma anche resti di persone decedute durante la detenzione: perché anche il recupero di una salma può apportare beneficio politico al governante di turno. L' Italia è comunemente additata come uno Stato che paga, solo perché non usa sotterfugi né persegue procedure che possono esporre a futuri ricatti il governo, ma utilizza i fondi riservati che sono destinati alle attività di intelligence. Ma è anche la nazione che per le negoziazioni seleziona attentamente i propri rappresentanti e gli interlocutori, per non rimanere vittima di raggiri: infatti, sinora, le trattative sono andate sempre a buon fine, e non risulta che somme di denaro siano state elargite senza avere in cambio quanto pattuito, né che abbiano raggiunto destinazioni diverse da quelle verso cui erano dirette. Non va poi sottovalutato come l' opzione militare (liberazione con la forza) sia sempre esclusa; nei sequestri operati in danno di petroliere dai pirati somali (argomento stranamente poco trattato dalla stampa), anche quando si sarebbe potuto intervenire con la forza si è sempre optato per la soluzione pacifica, nel solco di una tradizione ormai consolidata. Solo nel caso del sequestro di due operativi del Sismi in Afghanistan (settembre 2007) fu dato il consenso all' azione di forza dei reparti speciali britannici che avevano individuato il nascondiglio: in quel caso, evidentemente, la scelta politica si fondò sul fatto che si trattava di agenti governativi, e come tali «sacrificabili» a differenza dei civili. Nessuna polemica, allora, nessuna protesta: chi mette in gioco la propria vita per lo Stato mette in conto di poterla perdere. Nel discettare di rapimenti e liberazioni, la Rete svolge purtroppo un' opera nefasta, lanciando parole d' ordine di condanna ed esecrazione che prescindono solitamente dalla conoscenza di luoghi, situazioni, circostanze. I particolari di una negoziazione sono giustamente tenuti riservati, e pochissimi ne conoscono asperità ed umiliazioni; per cui ci si aspetterebbe che almeno i giornalisti, quali professionisti dell' informazione, moderassero i termini, anziché accendere micce di maldicenza che vanno poi ad innescare esplosivi la cui potenza distruttiva è ignota; e tutto ciò solo per solleticare la pancia della popolazione, quando non per servire le manovre dei loro referenti politici. Purtroppo, infatti, l' Italia è anche la nazione dove la liceità dell' azione di governo in casi delicati viene ciecamente avallata dalla maggioranza, ed altrettanto ciecamente contestata dall' opposizione, per cui il comportamento adottato da una compagine governativa in un determinato momento storico diventa illecito, criticabile, iniquo agli occhi delle stesse forze politiche che tale compagine rappresentavano ma che nel frattempo sono passate all' opposizione. La mancanza di equilibrio politico nel trattare questioni attinenti all' interesse nazionale sottopone gli operatori della sicurezza (agenti dei Servizi ed elementi della Polizia Giudiziaria) ad una continua altalena emotiva, che finisce per incidere sull' operatività degli stessi, ed inficia gravemente l' immagine del Paese nei contesti internazionali. Ogni cittadino italiano rapito all' estero ha lo stesso valore per lo Stato, che non distingue le circostanze in cui si è verificato l' evento; è singolare, però, come i motivi della presenza della vittima in un determinato luogo incidano poi sulle reazioni politiche che seguono alla sua liberazione: i cooperanti, come spesso anche i giornalisti, vengono additati come incoscienti avventurieri, mentre i turisti vengono inspiegabilmente assolti; per pietà cristiana, i religiosi vengono generalmente «perdonati». Sarebbe piuttosto opportuno che fosse fatto espresso divieto a cooperanti e turisti di recarsi in aree pericolose, prevedendo sanzioni per i trasgressori, anche se tale misura incontrerebbe certamente l' ostracismo dei liberali ad ogni costo. Mentre appare impraticabile la via della polizza assicurativa, dato che sarebbe difficile trovare una compagnia che si assumesse tale oneroso impegno, se non a fronte di premi proibitivi. Quanto infine alle passerelle mediatiche organizzate da rappresentati del governo in occasione dei rientri in patria degli ostaggi liberati, va sottolineato che raramente i politici riescono a sottrarsi al fascino della sovraesposizione; prova ne sia il teatrino approntato per salutare il rimpatrio di un terrorista da anni latitante all' estero, dimentichi dei ripetuti pronunciamenti della Corte Costituzionale in merito alla dignità del detenuto. E chi ieri sorrideva in favore di telecamera, oggi si erge a giudice di chi abbraccia la giovane liberata.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 13 maggio 2020. Caro 007, come da sua richiesta mantengo il riserbo sul suo nome. Di regola non pubblico lettere senza firma, ma in questo caso capisco i motivi per cui è meglio non rivelare la sua identità: un agente segreto per poter svolgere il proprio compito lavora nell' ombra, senza che nessuno possa risalire a lui, se no che agente segreto sarebbe? Detto ciò, condivido molte delle cose che lei scrive, ma non tutte. Comincio dalle prime, così sgombriamo il campo dagli equivoci. So benissimo che molti Paesi offrono denaro, aiuti umanitari o altro in cambio della liberazione dei propri prigionieri. Ma, come dice lei, lo fanno in silenzio, evitando di dare pubblicità alla cosa. Sono ipocriti, come lei fa intendere perché schermano le operazioni dietro società finanziarie o associazioni umanitarie? Può essere, ma quanto meno non fanno pubblicità alla faccenda, evitando di stimolare altri a rapire e chiedere un riscatto. Non pensa che lo spot governativo, cioè una ragazza vestita con lo jilbab, la tunica che sono costrette a indossare le donne islamiche, sia stata una bella propaganda per i terroristi islamici di Al Shabaab? La foto di Silvia Romano sorridente con accanto Giuseppe Conte e Luigi Di Maio ha fatto il giro del mondo, ma soprattutto ha fatto il giro dei Paesi islamici, divenendo la sintesi efficacissima del successo di una banda di tagliagole che inneggiano alla jihad. Quanti proseliti farà quello scatto? Quanti altri integralisti convincerà ad impugnare le armi e a rapire un occidentale minacciando di ucciderlo se non verrà versato un riscatto? Io non dico che si debba ricorrere a sotterfugi o, peggio, a opzioni militari, perché purtroppo l' intervento in zone sconosciute, dove i ribelli sono armati fino ai denti, può risolversi in una catastrofe, con la perdita degli ostaggi e a volte anche la morte dei soccorritori. Ricordo ancora quando un gruppo di teste di cuoio cercò di liberare i 52 diplomatici americani che l' Iran aveva sequestrato dopo aver invaso l' ambasciata a Teheran: otto militari morirono nello scontro fra uno degli elicotteri impiegati nell' operazione e un C130. Sì, in missioni così pericolose, c' è sempre qualche cosa che può andare storto e la vita di un agente governativo non può essere considerata sacrificabile. La morte di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi che liberò la giornalista Giuliana Sgrena, dovrebbe far riflettere, soprattutto chi si avventura in zone a rischio senza pensare alle conseguenze. E qui vengo al tema che più mi vede in disaccordo con lei. È ovvio che ogni cittadino ha lo stesso valore per lo Stato italiano. Ci mancherebbe. Ma un conto è essere rapiti mentre si è impegnati in una missione e un conto è fare la missionaria e andarsi a cercare il pericolo. Conosco bene la storia di Gino Pollicardo, uno dei quattro tecnici che furono sequestrati in Libia anni fa. Gino non era in Africa per sentirsi più buono: lavorava in un campo petrolifero per mantenere la sua famiglia e la lontananza da moglie e figli gli costava. La sua non era una gita turistica, in mezzo ai bimbi e ai poveri: era un viaggio con qualche rischio, per questo doveva essere scortato e l' azienda per cui lavorava doveva prendere una serie di precauzioni per la sua sicurezza. Proprio per questo la società per cui lavorava è stata condannata, perché non rispettò le regole nei trasferimenti e questo è costato la vita a due dei quattro tecnici rapiti. Accostare chi va alla ventura convinta che il mondo sia un paradiso e poi quando si trova all' inferno chiede aiuto allo Stato con chi va a lavorare per portare a casa uno stipendio e far arrivare il gas in Italia non è solo sbagliato: è profondamente ingiusto. Lei però su un punto ha ragione ed è che non si possono accusare i cooperanti e assolvere i turisti. È vero, gli uni e gli altri vanno ugualmente condannati, perché i primi sono turisti in cerca di buone intenzioni e i secondi vanno invece a caccia solo di buoni scatti fotografici. Sì, caro il mio 007, gli uni e gli altri li tratterei allo stesso modo in cui si trattano in certi Paesi gli sciatori scellerati che fanno fuori pista. Vai alla ricerca di emozioni forti e poi, quando capita qualche cosa chiedi l' intervento del soccorso alpino? Beh, paga il conto dell' elicottero e della squadra di soccorritori. Mi faccia poi dire due ultime cose. La prima è che in Italia esiste una legge che impedisce di pagare il riscatto, consentendo alla magistratura anche il sequestro dei beni della famiglia del rapito. Ma se un cittadino italiano che paga i rapitori rischia l' arresto, perché un presidente del Consiglio che versa milioni ai sequestratori che useranno i soldi per armarsi e per fare altri sequestri merita l' applauso? Infine, mi spieghi un po', lei che è del mestiere: come mai gli 007 negli altri Paesi hanno licenza di uccidere e qui invece l' unica licenza di cui dispongono è quella di pagare delinquenti e terroristi?

Ps. Naturalmente queste ultime domande mi piacerebbe che il Copasir le rivolgesse anche a Giuseppe Conte. Visto che il premier si è tenuto la delega sui servizi segreti, perché non spiega al Parlamento l' operazione di cui a quanto pare va tanto fiero, al punto da precipitarsi all' aeroporto ad accogliere Silvia Romano quando non accorse nemmeno a Bergamo a salutare le bare dei morti di Covid che venivano portati via dai camion militari?

Gli 80 milioni (mai confermati) forse usati per pagare i riscatti. Indiscrezioni e rivelazioni dubbie. I misteri sui presunti riscatti pagati dall'Italia per il rilascio dei connazionali rapiti. Francesca Bernasconi, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Ammonterebbe a circa 80 milioni di euro la cifra complessiva mai confermata usata per liberare gli ostaggi italiani che, dal 2004 ad oggi, sono stati rapiti in diversi Paesi del mondo, da Iraq e Siria, a Somalia e Libia. La somma dei riscatti non è mai stata ufficializzata, in nessun caso di rapimento, ma è il risultato di indiscrezioni stampa e rivelazioni raccolte da AdnKronos. Sembra che il governo italiano abbia pagato 4 milioni di euro per riportare a casa Simona Torretta e Simona Pari, sequestrate in Iraq a settembre del 2004 e rilasciate 20 giorni dopo. L'anno dopo, per liberare la giornalista Giuliana Sgrena, che venne rapita e rilasciata nel 2005, invece, sarebbero stati pagati 5 o 6 milioni di euro. Nel 2006 sorsero polemiche per il presunto riscatto per Gabriele Torsello, che rimase 23 giorni nelle mani dei suoi rapitori. Lo stesso Torsello smentì le notizie relative al pagamento del riscatto, ma il fondatore di Emergency confermò ai magistrati che vennero dati ai rapitori circa 2 milioni di dollari. AdnKronos ricorda anche che, successivamente, il pagamento venne confermato anche dall'ex capo dello Stato, Francesco Cossiga: in un'intervista dichiarò che i soldi "sono stati pagati", ma forse anche restituiti all'Italia dalla Gran Bretagna, visto che Torsello viveva "da lungo tempo in Gran Bretagna". Lo stesso anno venne rapito in Afghanistan il giornalista Daniele Mastrogiacomo: tre anni dopo, la Stampa parlò di un riscatto, senza che la notizia venne smentita dal governo. Nel 2008 fu la volta dei cooperanti Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti, rapiti vicino a Mogadiscio. Secondo fonti somale, per il rilascio dei due italiani vennero pagati 700mila dollari, mentre altre fonti parlarono di 100mila dollari. Entrambe le notizie vennero però smentite dalla Farnesina. Nel 2011 vennero sequestrati e poi rilasciati Francesco Azzarà e, successivamente, la petroliera "Savina Caylyn", che ospitava a bordo 5 membri dell'equipaggio. In entrambi i casi, la Farnesina dichiarò che non venne pagato alcuni riscatto, ma nel caso della petroliera, alcuni fonti somale avrebbero parlato di 11,5 milioni di euro. Nello stesso anno venne portato a termine anche il rilascio del mercantile italiano "Rosalia D'Amato", a bordo del quale c'erano sei italiani e 16 filippini, sequestrato al largo delle coste dell'Oman. Anche in quel caso venne negato il pagamento del riscatto. Quattro milioni dollari, invece, potrebbero essere stati dati ai rapitori dell'inviato della Stampa, Domenico Quirico, sequestrato in Siria nel 2013. A gettare dubbi sul pagamento di un riscatto sarebbe stato, in quel caso, il negoziatore che si occupò del rapimento: la rivista Foreign Policy riportò la testimonianza del membro della Coalizione nazionale siriana a Istanbul, che ammise di essere presente al momento della consegna del denaro. Un milione a testa potrebbe essere stata la somma pagata per il rilascio di Marco Vallisa e Gianluca Salviato, due tecnici scomparsi in Libia. Come aveva riferito anche il Giornale.it, invece, sarebbero stati 11 i milioni pagati per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite in Siria nel luglio 2014 e liberate nel gennaio 2015. L'allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, commentò: "Sul presunto riscatto pagato per il rilascio delle due cooperanti italiane, ho letto riferimenti ed indiscrezioni prive di reale fondamento". Secondo quanto ricostruisce AdnKronos, di presunto riscatto si è parlato anche per il rilascio di altri tre italiani rapiti. Si tratta dell'imprenditore Sergio Zanotti, scomparso durante un viaggio in Turchia e liberato nel 2019, dopo tre anni di prigionia. Sarebbe stata la stessa vittima a dichiarare: "Se non fosse stato pagato un riscatto non sarei qui". Sospetti anche su una presunta somma di denaro data ai rapitori di Alessandro Sandrini, il 34enne bresciano sequestrato nell'ottobre 2016 e rilasciato tre anni dopo. Gli ultimi due casi, i più recenti, si riferiscono al ritorno a casa del 31enne Luca Tacchetto, rapito nel 2018 in Burkina Faso insieme all'amica Edith Blais e, infine, a quello di Silvia Romano, la cooperante 24enne, liberata pochi giorni fa, dopo quasi due anni di prigionia. Si tratta, in tutti i casi, di somme di denaro sempre smentite con forza o mai confermate dal governo italiano, frutto soltanto di indiscrezioni e rivelazioni effettuate anche da fonti che si sono rivolte alla stampa.

Silvia Romano? Non solo, il conto per 20 anni di Ong: 30 milioni in riscatto. Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. I servizi segreti avrebbero pagato nel corso degli anni e dei sequestri attorno ai 30 milioni di euro. Lo scrive il Giornale citando gli ex ostaggi italiani delle Ong finiti sotto sequestro all'estero in mano ai terroristi. Sono stati tredici per una media di oltre 2 milioni di euro a testa. Per fare tornare a casa Silvia Romano dalla Somalia il riscatto varia, a seconda delle fonti, da 1 milione e 200 mila euro a 4 milioni. Il rilascio delle due Simone (Pari e Torretta) rapite in Iraq nel 2004 sarebbe costato 4 o 5 milioni di dollari. Quattro anni dopo finiscono in ostaggio in Somalia altri due cooperanti, Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti.  In questo caso sarebbero stati pagati solo 700mila dollari. Le richieste dei rapitori jihadisti dell'Africa orientale si alzano nel 2011 con il sequestro di Rossella Urru e due volontari spagnoli. Si è parlato di un riscatto di 10 milioni di dollari. Sempre lo stesso anno viene preso in ostaggio nel Sud Sudan il volontario di Emergency, Francesco Azzarà. Il pagamento di un riscatto è come sempre smentito, ma un quotidiano sudanese ha pubblicato la modesta richiesta dei rapitori di 180mila dollari. Un anno dopo finiscono nei guai Paolo Bosusco e Claudio Colangelo catturati in India da una banda armata maoista. Colangelo sostiene, al rientro in Italia: "Nessun riscatto pagato. La mia liberazione è stata un' iniziativa dei sequestratori", ma non aggiunge altro. Nel 2015 per Greta Ramelli e Vanessa Marzullo si parla di un riscatto record che varia da 6 a 12 milioni e mezzo di dollari. 

Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 13 maggio 2020. Non esistono ricevute o certezze, ma per volontarie allo sbaraglio, cooperanti più seri e umanitari di ogni genere i servizi segreti avrebbero pagato nel corso degli anni e dei sequestri attorno ai 30 milioni di euro. Gli ex ostaggi italiani delle Ong, più o meno strutturate, sono tredici per una media di oltre 2 milioni di euro a testa. Una bella fetta rispetto all' ottantina di milioni che sarebbero stati sborsati da Pantalone per tutti gli ostaggi italiani rapiti in giro per il mondo. Per fare tornare a casa Silvia Romano dalla Somalia il riscatto varia, a seconda delle fonti, da 1 milione e 200 mila euro a 4 milioni. L' unica certezza è che gli Al Shabaab lo utilizzeranno per comprare armi e attaccare i «crociati invasori» come bollano le truppe straniere, compreso un centinaio di soldati italiani a Mogadiscio.

Il rilascio delle due Simone rapite in Irak nel 2004 sarebbe costato 4 o 5 milioni di dollari. Simona Pari e Simona Torretta lavoravano per la Ong italiana «Un ponte per». La banda di sequestratori era composta da ex militari di Saddam Hussein convertiti alla guerra santa contro gli americani. Quattro anni dopo finiscono in ostaggio in Somalia altri due cooperanti, Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti. I connazionali erano impegnati con Cins, una Ong «indipendente riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri Italiano, dalle Nazioni Unite, dalla Commissione dell' Unione Europea e da Usaid». In questo caso sarebbero stati pagati «solo» 700mila dollari.

Le richieste dei rapitori jihadisti dell' Africa orientale si alzano nel 2011 con il sequestro di Rossella Urru e due volontari spagnoli. Si è parlato di un riscatto di 10 milioni di dollari. L'italiana era impegnata in un progetto per le donne del Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli finanziato dall' Unione europea. Sempre lo stesso anno viene preso in ostaggio nel Sud Sudan il volontario di Emergency, Francesco Azzarà. Il pagamento di un riscatto è come sempre smentito, ma un quotidiano sudanese ha pubblicato la modesta richiesta dei rapitori di 180mila dollari.

Un anno dopo finiscono nei guai Paolo Bosusco e Claudio Colangelo catturati in India da una banda armata maoista. Colangelo è un medico e operatore di volontariato, ma Bosusco si occupa di un' agenzia turistica. Gli ostaggi anomali vengono rilasciati in due tappe, dopo quasi un mese di prigionia. Colangelo sostiene, al rientro in Italia: «Nessun riscatto pagato. La mia liberazione è stata un' iniziativa dei sequestratori», ma non aggiunge altro.

Il boom arriva nel 2015 con il ritorno a casa delle due Vispe Terese umanitarie rapite in Siria l' anno prima da sequestratori jihadisti anti Assad. Per Greta Ramelli e Vanessa Marzullo si parla di un riscatto record che varia da 6 a 12 milioni e mezzo di dollari. Mesi dopo il tribunale di Qasimiya, nell' area controllata dai ribelli, condanna un comandante del gruppo integralista Ansar al Islam per essersi appropriato di 5 milioni di dollari del riscatto. Il resto del denaro sarebbe stato diviso dai capi banda locali. Greta e Vanessa sono andate in Siria con un' organizzazione fai da te, «Horryaty (Libertà) -Assistenza sanitaria in Siria». Più attiviste che cooperanti portavano anche kit di primo soccorso militare nelle zone jihadiste.

Il primo rapimento di cooperanti, dopo la caduta del muro di Berlino, avviene nel 1996 in Cecenia. Sandro Pocaterra, Augusto Lombardi e Giuseppe Valenti dell' Organizzazione non governativa «Intersos» sono presi in ostaggio nella repubblica islamica ribelle a Mosca. Grazie alla mediazione di Adriano Sofri e al sistema di potere locale tornano a casa nel giro di due mesi. Allora, però, il prezzo del riscatto per un ostaggio italiano non superava il mezzo milione di dollari.

LA MILIAZIA AL SHABAAB.

La rete di Al Shabaab in Europa. Giovanni Giacalone il 15 giugno 2020 su Inside Over. I quattro africani finiti a processo con l’accusa di aver finanziato il terrorismo jihadista di al Shabaab tramite il meccanismo della Hawala erano parte di una rete che agiva tra Lombardia, Piemonte, Germania e Somalia, come già emerso un anno fa quando i componenti del gruppo vennero arrestati tra Milano, Torino e Cinisello Balsamo su mandato della Procura di Bologna. Tra questi spicca la figura del somalo Rashiid Dubad, titolare di uno status di rifugiato e nato a Jijiga, in territorio etiope, a meno di 50km dal confine con la Somalia settentrionale. Secondo le ricostruzioni, gli inquirenti sono arrivati a Dubad tramite il contatto di un 23enne somalo attualmente in Germania che era arrivato in Italia, precisamente nel trapanese, nel 2016 assieme a un altro somalo, Mohsin Ibrahim Omar “Abu Khalil“, arrestato il 13 dicembre 2018 a Bari per i reati di associazione con finalità di terrorismo, istigazione e apologia del terrorismo, aggravate dall’utilizzo del mezzo informatico e telematico e condannato lo scorso 12 maggio ad 8 anni e 8 mesi di reclusione. I due gruppi ai quali i finanziamenti erano destinati risultano essere i jihadisti di al Shabaab e l’Ogaden National Liberation Front (ONLF), gruppo separatista somalo attivo in territorio etiope. Non è un caso che i quattro arrestati provenissero proprio da quell’area, così come non è insolita la tipologia di meccanismo utilizzato per la raccolta fondi.

La Somalia tra clan e nemici comuni. A primo impatto alcuni potrebbero chiedersi per quale motivo i finanziamenti venivano inviati sia agli al Shabaab, di chiara matrice jihadista e attivi prevalentemente nella parte centro-meridionale della Somalia e all’ONLF che agisce invece con fini separatisti-nazionalisti in un’area in territorio etiope ma abitata in prevalenza da somali di religione musulmana. Ricondurre la cosa alla semplice questione religiosa rischia di fornire un quadro fuorviante, anche perchè è bene ricordare che il salafismo imposto da al-Shabaab è un’ideologia “importata” e certamente non autoctona del contesto somalo e non a caso nelle regioni di Galguduud, Hiraan e Gedo è attivo Ahl al-Sunna waal-Jamaat, gruppo di stampo sufi e operante nel contrasto ad al-Shabaab. In primis è fondamentale tener presente che in Somalia ciò che conta veramente è la questione dei clan; sono le identità, le rivalità e gli interessi clanici a far muovere tutto mentre la religione viene in un secondo momento, per non parlare del concetto di “nazione”. Gli stessi somali, pur riconoscendo che la mentalità clanica è causa di frazionamento, violenza e destabilizzazione del Paese, continuano ad identificarsi in base al clan di appartenenza. Non a caso, ancor prima della Shahada, la testimonianza di fede islamica, fin da giovanissimi ai ragazzini somali viene fatta memorizzare e recitare tutta la genealogia clanica di appartenenza, come illustrato da Schaefer e Black della Jamestown Foundation. Non bisogna dunque stupirsi se clan legati all’ONLF e altri legati ad al Shabaab possano aver stretto alleanze i cui interessi vanno plausibilmente oltre l’aspetto religioso; alleanze che potrebbero tra l’altro facilmente crollare proprio in base a possibili mutamenti di interesse. I miliziani di al Shabaab sono interessati primariamente alle dispute tra clan e ai guadagni promessi dall’organizzazione in caso di arruolamento, dunque il fattore socio-economico svolge un ruolo predominante che scavalca l’ideologia del jihad. Un altro aspetto fondamentale è un vecchio principio ma sempre valido e cioè “il nemico del mio nemico è mio amico”, in questo caso l’Etiopia che intervenne militarmente in Somalia nel 2006 in sostegno del Governo Federale di Transizione, operazione appoggiata dagli Stati Uniti. Al-Shabab risultò allora essere il gruppo armato più competente e capace di far fronte ai militari di Addis Abeba e cercò dunque di sfruttare la situazione inserendosi non solo come organizzazione jihadista ma anche come paladina di un improbabile nazionalismo che si concretizzava invece in sentimento anti-etiope, nel tentativo di acquisire sostegno interclanico con l’obiettivo di combattere contro il nemico comune, l’invasore. In seguito al ritiro delle truppe etiopi nel 2009 però al Shabaab si è trovata ancora una volta a dover fare i conti con le questioni interclaniche, ma con litigi anche all’interno del direttivo jihadista, come quello tra Mokhtar Robow “Abu Mansur” e Abdi Godane “Abu Zubayr” in seguito a rapporti tra il clan di Robow e dirigenti governativi somali che non sarebbero stati digeriti da “Abu Zubayr”. Se da una parte dunque al Shabaab si trova a dover dimostrare alla leadership di al Qaeda (organizzazione di cui fa parte), un concreto impegno nel jihad globale, dall’altra è impantanata in questioni claniche e meccanismi socio-economici tribali di stampo locale che creano più problemi che vantaggi al gruppo.

La questione dei finanziamenti. Le operazioni volte a sradicare i principali canali di finanziamento, scattate con l’oramai nota guerra al jihadismo globale ha reso sempre più difficoltoso il reperimento di fondi da parte di al Shabaab. Come illustrato dagli analisti Ido Levy e Abdi Yusuf, l’organizzazione jihadista somala ha dovuto optare per una serie di attività che vanno dalla pirateria alle estorsioni, dai sequestri di persona all’importazione illegale di auto rubate da rivendere in Somalia, ma anche tramite i “money transfer” e la tradizionale “hawala“. Rispetto ad anni addietro, Al Shabaab fa sempre più fatica a raccogliere denaro tramite la diaspora di simpatizzanti in Europa e questo non soltanto perché nel Vecchio Continente non risultano reti estese e adeguatamente organizzate, seppur non si esclude la presenza di cellule operanti, ma anche perché la diaspora somala è prevalentemente composta da profughi in fuga proprio da quelle dinamiche. Non a caso le informazioni reperite sull’operazione che ha visto coinvolti gli indagati nel milanese indicano cifre che si aggirano intorno ai 10 mila euro ($6.900 più altri 2.777 euro e qualche altro centinaio di euro, da verificare), non una gran cifra. Al Shabaab ha optato prevalentemente per attività criminali in Somalia e nelle zone confinanti perché più facili da attuare e con minor rischio di essere individuati ed arrestati; il sequestro di Silvia Romano parla chiaro. E’ invece differente la situazione nei Paesi dell’Africa come Kenya, Tanzania, Malawi e Nigeria, dove al Shabaab è attiva sia con canali di finanziamento che con il reclutamento.

Al Shabaab è un rischio per l’Europa? È ben plausibile che al Shabaab disponga di simpatizzanti e cellule presenti in Europa con l’obiettivo di raccogliere fondi, del resto l’inchiesta della procura di Bologna lo dimostra chiaramente e sarebbe avventato credere il contrario. Del resto sostenitori di al Shabaab sono entrati in Italia in più occasioni infiltrandosi tra i profughi arrivati via mare, come dimostra anche il caso del già citato Mohsin Ibrahim Omar. Difficile invece dire con certezza se al Shabaab abbia l’intenzione e le capacità organizzative per colpire in Europa. Omar venne arrestato mentre era in fase di progettare attentati contro chiese, in particolare alla basilica di San Pietro, nel giorno di Natale. Il profilo di Omar indica però una radicalizzazione presso una scuola coranica estremista di Nairobi, alcuni passati contatti con al Shabaab e un’adesione all’Isis, non chiaro se in forma strutturale in Somalia o basata su semplice auto-proclamazione. Al Shabaab resta però una formazione di stampo qaedista, mettendo da parte alcune defezioni. Potrebbe dunque essere inopportuno attribuire il piano all’organizzazione jihadista somala. Finora al Shabaab è risultato ben più interessato alle dinamiche locali, allo sfruttamento delle risorse in territorio somalo, ai guadagni in loco e ad attentati perpetrati in Somalia e in Kenya. Vero è che nella galassia del jihad globale le cose cambiano in fretta ed è bene non escludere mai nulla a priori.

Testimonianze dal cuore della Somalia. Daniele Bellocchio il 22 maggio 2020 su Inside Over. A Mogadiscio, in queste ore, è in corso il ramadan; le strade della capitale, dove le donne vendono dolci e samosa da mangiare al tramonto dopo l’ultima preghiera, brulicano di gente. Ed è proprio qui, all’ombra dei minareti, nelle vie trafficate e tra i banchi del caotico mercato che, quando è stato data la notizia della liberazione di Silvia Romano, i cittadini somali hanno applaudito ed esultato. A raccontare com’è stata la reazione della gente di Mogadiscio, all’annuncio del rilascio della volontaria italiana, è Osman Lul, figlia della diaspora, 50enne, arrivata in Italia negli anni Novanta mentre nel Paese del Corno d’Africa infuriava la guerra dei warlords e oggi tornata nella capitale dove ha dato vita a un’associazione che si occupa di aiutare le donne somale. ”Qui a Mogadiscio il rilascio di Silvia e stato accolto molto bene anche perché, dopo un anno e mezzo, le speranze che fosse viva erano minime. Silvia ha 24 anni e ha passato quasi due anni in mano ad Al Shabaab e la gente non immagina cosa voglia dire e chi siano queste persone. Credo che debba sentirsi amata e non oso immaginare quanto abbia desiderato la liberazione e quanto abbia sognato questo ritorno a casa sana e salva”. Mentre nel telefono echeggia, in sottofondo, il salmodiato canto del muezzin, Osman Lul intanto, dalla sua casa di Mogadiscio, prosegue addentrandosi nel merito della conversione di Silvia: ”Ha deciso di convertirsi, non credo sia un problema e anzi va tutelata la sua libertà e la sua scelta. Mi dispiace che sia stata bersaglio di attacchi, insulti e offese persino in sede parlamentare. Silvia ha vissuto a diretto contatto con gente di cui io, donna somala, ho paura anche solo della loro ombra”. Approfondendo quindi cosa significhi vivere a Mogadiscio e sopratutto com’è la vita di una donna in Somalia oggi, Osman Lul spiega: ”Sebbene le donne somale siano la spina dorsale della Somalia essendo loro che hanno guidato l’economia di questo Paese negli ultimi 30 anni, essere donna, oggi, a Mogadiscio, è molto difficile e lavorare è ancor peggio. Si vive alla giornata perché non si sa se ci sarà un domani. Io, per esempio, esco il meno possibile, vivo in modo molto riservato e cerco di apparire molto poco in pubblico ma, nonostante le precauzioni, la paura incombe su tutte noi”. E a proposito di terrorismo, Lul ha poi concluso dicendo: “Il terrorismo lo possiamo sconfiggere soltanto noi perchè i giovani che appartengono a queste sette non sono venuti dal cielo, sono i nostri figli, i nostri nipoti, e escono dalle nostre case e se noi mamme, sorelle, li proteggiamo e li nascondiamo non ne verremo mai fuori. Nessuno ci può aiutare se non noi stessi”. Le parole di Osman Lul si riflettono in quelle di Burhan Dini Farah, direttore dell’emittente di Mogadiscio Radio Kulmiye. Nel 2015, quando ancora era vice direttore della radio che oggi dirige, raccontò a Inside Over, seduto alla scrivania del suo ufficio situato proprio difronte all’ex teatro nazionale della capitale somala, una vita votata all’informazione, alla non accettazione dello sconforto e a quella perseveranza che trasforma l’utopia in pragmatica ragione d’essere. All’epoca parlava così riguardo al suo lavoro e a quello dei suoi colleghi: “Noi seguiamo in modo capillare quanto avviene a Mogadiscio e anche nel resto del Paese, avendo collaboratori in diverse città, ma questo nostro lavoro di denuncia ci ha portato a subire diversi attacchi. I kamikaze dal 2012 ad oggi si sono fatti esplodere all’ingresso della radio, cinque i giornalisti sono morti e molti altri sono stati i feriti”. Oggi, in via telefonica, dalla sede della redazione dove campeggia uno striscione su cui sono impressi, a imperitura memoria, i volti dei cronisti assassinati dai guerriglieri islamisti, il direttore Burhan Dini Farah si è così espresso sull’attuale situazione della capitale somala: “A Mogadiscio, noi giornalisti siamo sempre a rischio. Io sono sopravvissuto a dieci attentati, ho perso l’avambraccio destro durante uno di questi, e non conto più nemmeno le minacce che ho ricevuto in questi anni. Noi giornalisti siamo tutti obiettivi sia di Al Shabaab ma anche del governo dal momento che la Somalia non si può certo definire un Paese democratico e aperto alla stampa. Uno dei motivi per cui Al Shabaab, ancor oggi, riesce a ottenere consensi e ad allargare le sue fila è proprio il fatto che nelle zone sotto suo controllo garantisce i servizi di base e combatte una delle piaghe endemiche della Somalia: la corruzione”. Infine, prima di congedarsi, il direttore di Radio Kulmiye ha concluso dicendo: “Noi giornalisti non abbiamo una vita a Mogadiscio, viviamo in un perenne lockdown tra la casa e la redazione, alcuni addirittura vivono in redazione e non escono mai. Non ho sogni utopici, desidererei solo che i nostri sforzi di raccontare la verità e la realtà del nostro paese, un giorno, venissero ricompensati dalla possibilità di poter passeggiare per le vie della nostra città con le nostre mogli e i nostri figli senza il timore di morire in un agguato”. Parole che riflettono l’ordinaria drammaticità del vivere laddove nessuno vuole che la verità trovi spazio. Abdalle Ahmed Mumin, segretario generale del Sindacato dei giornalisti somali (Somali Journalists Syndicate), ha confermato le parole del direttore di Radio Kulmiye e raccontando la sua storia personale ha ritratto nella maniera più esaustiva possibile la vita nella capitale somala, sospesa in un perenne limbo di sogni infranti e speranze mai vinte, violenza endemica e eroismo silenzioso. “Negli anni Novanta, quando nel mio Paese è scoppiata la guerra, ero un bambino. Non ho potuto nemmeno finire la scuola elementare perché sono dovuto fuggire e per anni ho vissuto in una tendopoli. È stato nel campo profughi in cui ero sfollato che ho avuto la possibilità di studiare, completare il mio percorso di formazione e lì, mentre la sofferenza era la sola costante e vedevo la distruzione del mio Paese, ho pensato che fare il giornalista, raccontare al mondo le ingiustizie che vivevamo io e il mio popolo, potesse essere un modo per aiutare la mia gente”. Abdalle Ahmed è riuscito negli anni a laurearsi, ad affermarsi come giornalista, fu l’unico cronista a raccontare nel 2014 l’omicidio del leader di Al Shabaab Ahmed Abdi Godane, è sopravvissuto a una sparatoria condotta dall’organizzazione affiliata ad Al Qaeda e oggi vive sapendo di essere nel mirino di jihadisti, criminali e anche uomini del governo: “In Somalia la verità non piace a nessuno. I giornalisti uccisi nel 2019 sono stati 18 e la regia degli omicidi spesso si trova nei palazzi di governo non solo nelle basi di Al Shabaab. La nostra vita è sospesa su un filo sottilissimo e siamo consapevoli che in qualsiasi momento potrebbe accadere un’imboscata o un attentato e tutto potrebbe finire, è questa la nostra quotidianità. Però non dobbiamo scordarci che c’è anche un’altra Somalia”. E a tal proposito Abdalle Ahmed Mumin ha concluso dicendo: ”È la Somalia dei giovani che studiano, che chiedono lavoro e che denunciano criminalità, jihadismo e corruzione è la Somalia che ha esultato e festeggiato alla notizia della liberazione di Silvia Romano”.

Al Shabab torna a colpire in Somalia, ucciso un governatore di Mudug. A una settimana esatta dalla liberazione di Silvia Romano, in seguito a un riscatto milionario pagato ad al Shabab, i jihadisti tornano a uccidere nel nord del Paese. Giovanni Giacalone, Domenica 17/05/2020 su Il Giornale. Il governatore della regione semiautonoma somala di Mudug è stato ucciso assieme a tre guardie del corpo nella zona nord della città di Galkayo. L'attentato è stato rivendicato dal gruppo qaedista "Al Shabab" attraverso una dichiarazione pubblicata su un sito jihadista: "Il governatore dell'amministrazione apostata della regione di Mudug è stato ucciso oggi a Galkayo grazie all'operazione di un martire." Secondo testimonianze locali, l'attentatore era a bordo di un taxi-scooter imbottito di esplosivo e si è schiantato contro l'auto del governatore Ahmed Muse Nur facendo così detonare l'ordigno. Vi sarebbero inoltre altre vittime tra i civili, ma il bilancio ufficiale non è ancora stato reso noto. Sul luogo dell'attentato sono sopraggiunti militari somali ed è in corso una caccia all'uomo per individuare gli organizzatori. Nur era governatore di Mudug dal maggio del 2019 e questo è il secondo attentato nei confronti di un rappresentante governativo in meno di un anno; lo scorso marzo infatti era stato ucciso Abdisalam Hassan Hersi governatore della limitrofa regione di Nagaal, con un attacco del tutto simile, perpetrato nei pressi di una stazione di polizia. Anche in quell'occasione l'attentato era stato rivendicato da "al Shabab". Giovedì scorso i qaedisti avevano inoltre provato ad attaccare la base militare di Balikhadar, situata tra Bosaso e Galgala, scatenando così una battaglia che aveva lasciato a terra tre jihadisti e un militare. L'esercito aveva inoltre rinvenuto diversi ordigni esplosivi a Bosaso, arrestando diversi individui sospettati di essere legati all'organizzazione terroristica. L'attentato di oggi a Mudug che ha causato la morte del governatore è stato perpetrato a una settimana esatta dalla liberazione di Silvia Romano, liberazione avvenuta in seguito a un riscatto milionario pagato ad al Shabab.

Al-Shabaab è il gruppo jihadista più feroce in Africa. Sono i rapitori di Silvia Romano. E’ l’Islam più oscurantista che abbiamo nel mondo. Carlo Franza  il 13 maggio 2020 su Il Giornale. La rete del terrorismo islamico si presenta ai nostri giorni  come un unico, grande network internazionale, con un’unica regia secondo un unico piano di conquista globale del pianeta. La conferma ci giunge, mattone su mattone, come in un grande puzzle, dalle analisi compiute dagli esperti. La notizia della liberazione di Silvia Romano, la cooperante sequestrata nel novembre 2018 nel villaggio di Chakama, in Kenya, da parte dei miliziani dell’organizzazione terroristica somala di ispirazione religiosa islamista “al Shabaab”  ci porta a far luce  e far conoscere ai nostri lettori una delle organizzazioni politiche di fede islamica più feroce e criminale in Africa, responsabile di una serie infinita di omicidi, violenze, e soprattutto legata organicamente alla “internazionale islamista” di Al Qaeda e dello Stato islamico dell’ISIS. Della crudeltà e della truculenza dei miliziani “al-Shabaab” notizie preziose ci vengono da  un’indagine condotta dall’Africa Center for Strategic Studies (aprile 2018),  secondo cui al-Shabaab si configura come il gruppo jihadista africano più cruento in assoluto: circa il 58% delle azioni terroristiche di matrice islamica (1,749 su 2,933) perpetrate in Africa nel 2017 sono riconducibili ai militanti di al-Shabaab – responsabili altresì del numero maggiore di vittime (4.834 su 10.535), corrispondente al 46% del totale. Dal 2016, la cellula qaedista somala ha sorpassato Boko Haram per numero di decessi provocati, affermandosi pertanto come il network jihadista più letale in Africa. Ecco  chi sono, -ad iniziare  dalla storia, dalle origini e dall’evoluzione- questi terroristi somali denominati al-Shabaab.  La nascita di al-Shabaab (Harakat al-Shabaab al-Mujahiddin) si inquadra  in un singolare contesto storico per la Somalia, contrassegnato proprio dall’esperienza dell’Unione delle Corti Islamiche – una rete di gruppi islamici che nel 2006 ha assunto il controllo di Mogadiscio. Si è cercato nell’autunno 2006 da parte delle truppe etiopi di  intervenire in supporto del debole Governo transitorio somalo, determinando la sconfitta e la conseguente dissoluzione dell’Unione. Al-Shabaab, che in arabo vuol dire  “gioventù”, iniziò a svilupparsi proprio in questo periodo, emergendo come la fazione islamica più giovane, disciplinata e radicale delle Corti. E con l’uscita di scena di queste ultime, al-Shabaab ha acquisito maggiore  immagine, configurandosi ben presto come il gruppo jihadista somalo più strutturato e autorevole. Via via la cellula terroristica ha esteso la sua influenza su vari  territori, imponendo alle popolazioni locali una versione molto dura  della sharia – la legge coranica. Per quanto concerne l’aspetto ideologico, al-Shabaab ha lasciato leggere la sua duplice anima: una più radicale, influenzata dalla dottrina wahabita tipica dei Paesi del Golfo e un’altra più ‘autoctona’ e nazionalista, che mira alla costituzione di un Emirato nel Corno d’Africa. Nel tempo al-Shabaab ha tentato l’affiliazione con al-Qaeda per acquisire nuove  risorse e denaro e per espandere ulteriormente il suo network; gli estremisti terroristi  somali hanno dunque intrapreso una stretta collaborazione con il gruppo qaedista guidato da Osama Bin Laden, ma il leader di al-Qaeda preferì non ufficializzare i rapporti con al-Shabaab, sicchè  il legame si concretizzò  solamente nel 2012 -dopo la sua morte- con Al-Zawahiri al comando. Dopo la sua affiliazione con al-Qaeda, il gruppo somalo si è chiaramente rafforzato e le azioni offensive dei suoi militanti si sono estese anche nel vicino Kenya, paese dove è stata rapita Silvia Romano. Nel 2014, dopo la morte del suo storico leader Abdi aw-Mohamed Godane (ucciso da un raid areo statunitense), al-Shabaab ha vissuto una fase involutiva,  di profonda instabilità e le faide interne hanno rischiato di minarne la solidità e la capacità organizzativa. L’ascesa al vertice di Abu Ubaidah ha invece riconsegnato una certa coesione e vitalità al gruppo jihadista. Attualmente, al-Shabaab esercita un forte controllo sull’entroterra somalo, dove dispone di numerose basi operative. E’ proprio da qui che vengono sistematicamente pianificati gli attacchi contro i suoi principali bersagli/obiettivi: le forze dell’Amisom (Missione dell’Unione Africana attiva in Somalia), le rappresentanze diplomatiche e i luoghi frequentati principalmente dagli stranieri. Ecco il teatro di guerra di  al-Shabaab. La Somalia rappresenta innegabilmente il principale teatro operativo di al-Shabaab. Negli ultimi anni, i jihadisti hanno perpetrato un ingente numero di attacchi contro una serie di obiettivi specifici a Mogadiscio, tra cui alberghi che ospitano stranieri, posti di blocco militari ed aree adiacenti ai palazzi governativi. L’azione terroristica più cruenta è quella condotta, tramite un auto bomba, davanti ad un hotel non distante dal Ministero degli esteri a Mogadiscio (il 14 ottobre 2017). Il devastante attentato ha provocato la morte di oltre 320 persone (e centinaia di feriti) ed è stato definito il più grave atto terroristico nella storia della Somalia – da alcuni considerato “l’11 settembre somalo”. La capacità operativa/offensiva di al-Shabaab trascende i confini nazionali e trova la propria manifestazione anche in altri stati confinanti.  Dopo l’affiliazione con al-Qaeda, il gruppo somalo ha iniziato ad estendere il suo raggio d’azione, compiendo attentati in Kenya. Nel settembre 2013, i fondamentalisti somali hanno rivendicato l’attacco armato al centro commerciale Westgate di Nairobi, che ha cagionato la morte di oltre 60 persone (tra cui diversi turisti stranieri). Un anno e mezzo dopo, nell’aprile 2015, un commando di terroristi di al-Shabaab ha fatto irruzione all’interno della North Eastern Garissa University, università kenyiota situata a soli 150 km dal confine con la Somalia. Il bilancio dell’offensiva è di 150 vittime, tutti cristiani. Un dramma immane,  questo di chi ha perso la vita per la sua fede. Poi,  esattamente il 15 gennaio 2019 , il Kenya ha vissuto l’ennesimo e ultimo attentato in ordine temporale: alcuni militanti della cellula jihadista hanno preso d’assalto l’hotel Dusit di Nairobi, provocando 15 morti.  Tragedie immense perché al-Shabaab mira a destabilizzare l’attività economica kenyota, colpendo i luoghi turistici e le attività commerciali del Paese che costituiscono degli introiti essenziali per le casse statali.  Tanti attacchi in Kenia, e l’ostilità degli estremisti somali verso questo paese sono  da ricercare nel contributo che il Kenia  fornisce (in termini di truppe) alla missione dell’Unione Africana Amisom. A ciò va ricondotto  l’attacco perpetrato dai miliziani di al-Shabaab (nel gennaio 2016) contro una base militare dell’Amisom a conduzione kenyota nella località somala di El Adde – circa 150 soldati di Nairobi hanno perso la vita durante l’assalto e si tratta della sconfitta militare più pesante per le Kenyan Defence Forces (KDF). Oltre ai frequenti attacchi in Kenya, al-Shabaab ha rivendicato attentati altresì in Uganda, Etiopia e Gibuti. Negli ultimi anni al-Shabaab si è ritrovato in casa un insidioso concorrente,  l’Isis. Nel 2015, uno dei leader spirituali del gruppo jihadista al-Shabaab somalo Abdul Qadir Mumin ( con il suo plotone di una ventina di seguaci) ha giurato fedeltà al Califatto di Abu Bakr al-Baghdadi, provocando una scissione interna al movimento di al-Shabaab. Dopo l’affiliazione a Daesh, Mumim si è rifiugiato nella zona montuosa del Galgala (nella regione del Puntland) e qui sono state allestite le prime basi operative della branca somala dell’Isis. La nuova cellula jihadista, seppur di dimensioni ridotte, è riuscita ad incorporare al suo interno alcuni clan locali esclusi dalle politiche nazionali di Mogadiscio. In più, fanno parte del network terroristico di Mumim anche ex miliziani di al-Shabaab e combattenti dell’Isis provenienti dalla Siria, Iraq e Libia. Lo sviluppo e il consolidamento dello Stato Islamico in Somalia ha destato non poche preoccupazioni tanto che  gli Usa hanno intrapreso una serie di raid aerei (con droni partiti dall’Etiopia) contro i membri dell’Isis. Per quanto concerne i rapporti tra i due gruppi fondamentalisti, questi sono chiaramente conflittuali. La leadership di al-Shabaab ha annunciato una ferrea presa di posizione contro Mumim e suoi seguaci, minacciando di morte chi sceglieva di unirsi all’organizzazione rivale,  minaccia  poi messa in pratica, e facendo si che l’Isis rispondesse  con ritorsioni e rappresaglie  agli avversari. Ma nonostante  queste divisioni interne, la presenza dello Stato islamico, la capacità militare di al-Shabaab non è stata alterata. Lo si vede  dagli attentati, dai rapimenti – ultimo quello di Silvia Romano-  le  truculente  violenze portate avanti  negli ultimi anni,  così estreme, così impressionanti,  tali da attribuirgli il primato di  essere il gruppo jihadista più letale in Africa. Ora tocca alle nazioni del mondo, ad iniziare dagli Stati Uniti,  colpire a morte questo serpente velenosissimo. Carlo Franza  

Silvia Romano, Renato Farina e la verità che molti fingono di dimenticare: chi sono i suoi sequestratori. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Silvia "Aisha" Romano ha comunicato la sua conversione all' islam. Viva la libertà, sono affari di coscienza. Eppure non si può ridurre quanto è accaduto sotto i nostri occhi a una questione di credo personale. La dottoressa partita per l' Africa non ha deciso di aderire alla sezione somala degli Are Khrisna, con un barracano verde invece che color zafferano. La sua nuova fede, per la natura propria di questa religione, ha la forma di chi gliel' ha comunicata: gli Al Shabaab. Sono spietati assassini. Ricordiamocelo. Questi efferati criminali non sono una gang isterica che questo lo salva, l' altro lo brucia vivo. Non sono predoni ululanti nella foresta. Costoro sono una potenza ideologica armata, hanno negli ultimi anni trasformato l' 80 per cento del territorio della Somalia in uno Stato Islamico sul modello del Califfato di Raqqa. Leggi, commerci, negozi, poste, polizia, scuole, addestramento tattico, lotta corpo a corpo: una specie di paradiso per musulmani radicali che galleggia sul sangue degli sgozzati.

Chiedete a Quirico - Ne è consapevole Silvia? Le testimonianze di chi è stato in mano a lungo a questa gentaglia assassina (vedi Domenico Quirico ostaggio per mesi di Al Qaida, ma si veda su Netflix la serie "Califfato") ha sperimentato la loro abilità nel plasmare le coscienze altrui come argilla. Non do pertanto alcun giudizio sull' intimo traumatizzato di questa giovane donna, sarebbe temerario. Evitiamo però di trattare questa storia come se ci trovassimo davanti ad Alice balzata fuori dal paese delle meraviglie, come ella cinguetta felice. La realtà è un' altra. Silvia è diventata una costola occidentale, una testimonial spaventosa del jihadismo più estremo, forse suo malgrado, ma forse con cognizione di causa. Ci sono tante domande. Alcune le diamo senza rispondere. 1) Se si è convertita liberamente, perché la si è dovuta liberare? Da che? 2) Non è che in fin dei conti siamo stati noi a sequestrarla alla sua "umma", portandola via dalla Casa dell' islam (come diceva il non rimpianto Al Baghdadi)? 3) Non è che è stata liberata contro il suo desiderio, consegnandola all' Occidente, con esiti per la propaganda islamista più potenti di una bomba? 4) Da quando in qua i musulmani fanno schiavi i convertiti alla loro religione? I giannizzeri, erano battezzati convertiti all' islam, ed erano i più fedeli, custodivano il corpo del Califfo... A una domanda siamo in grado di rispondere molto precisamente. Che cosa fanno gli Shabaab (che vuol dire "Giovani") ai cristiani, qualora non abbiano alle spalle la borsa di uno Stato ricco. Sarà bene che qualcuno lo racconti a Silvia, anche se crediamo che da neofita abbia assistito per obbligo di precetto a lapidazioni o sgozzamenti inflitti dal tribunale della Sharia, spettacoli in cui donne e bambini partecipano (anche coi sassi) a scopo pedagogico.

Macellai - Qualcuno per favore abbia la faccia tosta o il coraggio civile di mostrare una fotografia alla convertita, è importante farsi un' idea della statura umana e spirituale dei propri padri spirituali, cara Aisha. Eccellenti macellai, dal cuore indomito, non c' è dubbio. Fa un po' impressione, però. È un cortile coperto di cadaveri di ragazzi come lei, senza l' opportunità di discutere la tesi come fece l' allora Silvia. È un lavoretto che fecero gli Al Shebaab, il 2 aprile 2015, nel campus universitario di Garissa in Kenia, a duecento chilometri da dove la nostra connazionale tre anni dopo sarebbe stata portata via con modi tanto affabili. Ci sono 143 studenti cristiani, ragazzi e ragazze, assassinati perché non in grado di pronunciare qualche versetto del libro sacro che la incantò e che a lei fu donato da quella stessa masnada responsabile dell' eccidio. Aisha dice di costoro: «Mi hanno spiegato le loro ragioni e la loro cultura». Le hanno spiegato anche le ragioni e la cultura di questo massacro che più vile non si può? Ricordo che allora ci fu una forte indignazione degli atenei europei, nel documento - notò un professore universitario, Gian Enrico Rusconi, sulla Stampa - mancava un particolare: che i trucidati erano cristiani, e che proprio per questa colpa erano rei di morte, e che i carnefici erano islamici. Be', li ricordiamo noi ora questi particolari. Gli Al Shabaab hanno questo carattere permaloso. Ammazzano i cristiani. Salvo appartengano a Stati disponibili a chiudere un occhio, se a essere stuprate e schiavizzate sono poverecriste yazide o cristiane africane, ma pronti a ingaggiare 007 turchi e a caro prezzo se la poverina è una islamica italiana.

Cos’è Al Shaabab. Daniele Bellocchio su Inside Over l'11 maggio 2020. La milizia di Al Shabaab è uno dei più grandi gruppi terroristici che opera in Africa. La sua storia nasce da quell’anarchia che regna da decenni in Somalia. Ed è solo dalla storia recente del Corno d’Africa che si può comprendere come questa milizia, fra saccheggi, sangue e affiliazione ad Al Qaeda, sia riuscita a costituire un vero e proprio regno del terrore.

Il fallimento dello stato somalo. Per capire ciò che oggi avviene in Somalia occorre fare un passo indietro, andare a scovare nel passato recente e solo da lì si possono iniziare a tirare i fili dell’intricata ragnatela di problemi che sconvolgono il presente della nazione. Se il nome Al Shabaab è noto a livello planetario e se l’incubo del terrorismo è ormai una condizione sine qua non quando si parla di Somalia, per capire però da dove nasce e dove affonda le radici lo jihadismo nel Corno d’Africa ecco che bisogna ritornare agli anni ’90. L’ex colonia italiana dopo la morte di Siad Barre precipita in una feroce quanto impietosa guerra civile. Sul terreno non si scontrano degli eserciti regolari, ma milizie che i signori della guerra armano e orchestrano. Il Paese diviene lo scacchiere di Aidid, Alì Mahdi e altri warlords e la Somalia precipita in una crisi senza precedenti. Le immagini degli uomini ridotti a scheletri umani di Baidoa fanno il giro del mondo e le violenze fanno propendere l’ONU e gli USA per un intervento sul campo. Nel 1992 sbarcano quindi i primi marines sulle spiagge della capitale Mogadiscio, ma quella che nei programmi doveva essere una missione lampo, chiamata Restor Hope, in realtà si rivela una sconfitta senza precedenti per il contingente internazionale che, infatti, nel 1994 si ritira lasciando il Paese ulteriormente agonizzante. È dunque l’anarchia pura a dettare legge: miliziani armati, jeep con installate mitragliatrici che combattono di quartiere in quartiere, nessun governo centrale e accordi di pace che si sgretolano ancora prima di essere firmati. È in questo contesto che arrivano i finanziamenti dall’Arabia Saudita: nascono nuove madrasse e si moltiplicano le moschee, arrivano imam e, insieme a loro, denaro. I bambini vengono quindi mandati a studiare nelle scuole coraniche dove ricevono insegnamento e nutrimento e le famiglie, in un Paese ormai privo di strutture e in cui il cibo è una ricchezza che non tutti si possono permettere, accettano di buon occhio e senza porsi troppi interrogativi i nuovi predicatori radicali.

Da Al-Ittihad all'Unione delle Corti Islamiche: l'Islam politico in Somalia. Il credo islamista e la militanza fondamentalista prendono dunque piede e nasce il primo movimento islamico dotato di un’agenda politica, in netto contrasto con i signori della guerra. Il gruppo Al-Ittihad Al-Islami occupa e amministra per un breve periodo i porti di Chisimaio e di Merca, dove riesce a ottenere il consenso della popolazione per il rigore dell’amministrazione, in contrasto con i metodi predatori dei signori della guerra. Poi i fondamentalisti occupano Luuq e anche qui trovano il supporto dei cittadini, che vedono nei mujaheddin somali e nella sharia il ritorno di una parvenza di Stato. Al-Ittihad viene però definitivamente sconfitta da un’avanzata etiope nel ’96 ma il solco dell’islamismo in Somalia è ormai tracciato. Dopo Al-Itthiad nasce un nuovo gruppo fondamentalista: l’Unione delle Corti Islamiche che inizia a combattere e vincere contro l’Alliance for Restoration of Peace and Counterterrorism, un’alleanza di warlords supportata dagli Usa, creata in chiave anti islamica. I signori della guerra, tuttavia, nonostante l’aiuto di Washington, perdono terreno e l’UCI prende il controllo di Mogadiscio e, una volta nella capitale, intraprende una vera e propria rivoluzione. Vengono riaperti l’aeroporto e il porto, i check-point cittadini vengono rimossi e le milizie disarmate. Inoltre il diritto islamico esercitato dai giudici dà una parvenza di ordine pubblico e di giustizia in un Paese che da anni ne è orfano. L’Islam radicale ormai si è impossessato del cuore della Somalia e, nel mentre, sta nascendo una fazione di giovani combattenti guidata da Aden Hashi Ayro, che viene battezzata Al Shabaab, “la giovinezza”, appunto. L’Islam inizia a spaventare gli Stati Uniti, che decidono quindi di supportare il governo federale di transizione insieme all’Etiopia, e nel 2006 si arriva all’ennesima invasione della Somalia da parte dell’esercito di Addis Abeba. L’Unione delle Corti Islamiche occupa Chisimaio, che si trovava sotto il controllo della milizia legata a Barre Hiirale, ministro della difesa del governo federale. L’occupazione della città marittima è quindi il pretesto per l’intervento dell’Etiopia, che sconfigge le Corti Islamiche e molti esponenti delle UCI fuggono in Eritrea; ma, se sul campo è una vittoria apparente, quella condotta dagli etiopi insieme al governo federale in realtà è una sconfitta politica. La Somalia, che ha combattuto per oltre trent’anni per l’indipendenza dall’Etiopia, ora rivede la bandiera di Addis Abeba sul proprio suolo e così la popolazione, spinta da un sentimento di identità somala, si appella a Al Shabaab come forza armata di resistenza e opposizione da puntare al cuore del potente vicino.

Al Shaabab , quindici anni di terrore. Al Shabaab è un movimento trasversale, formato da diverse identità claniche alle quali si aggiungono in breve tempo anche forze transnazionali provenienti dalla jihad afghana, dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dal Sudan e saranno proprio queste ultime poi a introdurre le tecniche suicida nel gruppo. Durante il biennio di occupazione etiopica, Al Shabaab allarga le proprie fila, passando da 400 combattenti a diverse migliaia e presenta una struttura interna organizzata, formata da quattro organi di governo: la Shura, una sorta di parlamento composto da 50 membri, l’Al-Da’wa, un organo di predicazione e arruolamento di nuovi miliziani, Al-Hesbah, che è la polizia religiosa, e l’Al-Usra, cioè l’ala militare del gruppo. I successi arrivano. Gli jihadisti occupano Merca, Baidoa, Chisimaio, parte di Mogadiscio e alternano una strategia di guerriglia nelle zone dove comanda il governo somalo, a un controllo amministrativo nelle aree già in loro possesso. Nel 2007, per contrapporsi alla ”gioventù”, viene istituita una nuova missione internazionale a guida dell’Unione Africana: l’Amisom (African Union Mission in Somalia), che per i primi 5 anni si scontra con i terroristi alternando vittorie e sconfitte; poi, nel 2012, il Consiglio di Sicurezza amplia la Missione portando gli effettivi a 17mila uomini e iniziando un’offensiva senza precedenti che porta alla vittoria contro Al Shabaab. Ma la versatilità della jihad somala mostra allora tutte le sue capacità. I mujhaeddin infatti passano alla guerra del terrore con estrema rapidità e iniziano a colpire anche oltre confine. Nel 2012 inoltre stringono un’alleanza con Al Qaeda, affiliandosi alla sigla terroristica con una scelta discussa che provoca contrasti interni all’organizzazione ma che, in un momento critico, si rivela però in grado di garantire rifornimento di uomini, armi e mezzi. Al Shabaab commette errori che vanno da un’applicazione radicale della Sharia all’adottare una visione politica semplicistica che sfocia nel totalitarismo e intanto accusa perdite sul terreno. Sconfitta in campo aperto in Somalia, Al Shabaab allora mette in pratica azioni eclatanti e due su tutte servono a comprendere il grado di preparazione militare e strategica dei terroristi somali che nel settembre del 2013 compiono l’attacco contro il centro commerciale West Gate di Nairobi, dirottando l’attenzione del mondo su di loro e provocando 60 morti e 200 feriti. Alzano poi il tiro dell’efferatezza nell’aprile del 2015, quando assaltano il campus universitario di Garissa in Kenya, uccidendo 150 persone.

Gli Usa contro Al Shabaab. Dal 2017, Al Shabaab è entrata nel mirino degli Stati Uniti dal momento l’amministrazione Trump ha dichiarato guerra aperta ai miliziani somali, dando via a un’ escalation di raid e bombardamenti contro le postazioni degli jihadisti che, da un lato hanno portato alla morte di alcuni dei leader dell’organizzazione, come dimostra l’ultimo attacco sferrato l’8 marzo di quest’anno che ha provocato la morte di Bashir Mohamed Mahamoud sulla cui testa, dal 2008, pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Ma, parallelamente, questo acuirsi dei bombardamenti ha però causato anche un’ingente, e mai bene precisato, numero di vittime civili e questi ”effetti collaterali” altro non hanno fatto che spingere sempre più giovani tra le fila della formazione jihadista. Inoltre Al Shaabab ha adottato la strategia della risposta immediata a ogni raid americano, compiendo quindi sempre più attentati e scaricando le responsabilità delle vittime sulle ingerenze statunitensi nel Corno d’Africa. Negli ultimi 3 anni si sono registrate infatti alcune delle azioni più sanguinarie del gruppo come l’attentato a Mogadiscio del 14 ottobre 2017, in cui hanno perso la vita oltre 350 persone, oppure quello del 29 dicembre 2019, quando il bilancio dell’esplosione di un’autobomba nel centro di Mogadiscio è stato di 81 morti e centinaia di feriti. E non si può dimenticare l’azione condotta da un commando di Al Shabaab in Kenya, il 5 gennaio di quest’anno, durante la quale sono stati uccisi 3 soldati statunitensi. Il 13 febbraio 2020, in una dichiarazione dell’ambasciata americana a Mogadiscio, gli Stati Uniti hanno affermato di voler continuare a fornire assistenza militare all’ esercito somalo e il Country Report on Terrorism 2018 del governo degli Stati Uniti, ha inserito la Somalia tra i rifugi sicuri per il terrorismo in Africa insieme alla regione del Lago Ciad e alla zona trans-sahariana e , dopo il crollo del Califfato in Medio Oriente e l’apertura dei talebani in Afghanistan, queste tre regioni sembrano le aree del mondo deputate a divenire i nuovi territori di espansione dei gruppi integralisti islamici.

Il Coronavirus al servizio del jihad somalo. Negli ultimi mesi, inoltre la formazione Al Shabaab, oltre ad aver intensificato gli attacchi soprattutto contro le forze dell’Amisom, ha dato prova, ancora una volta, della sua incredibile versatilità strumentalizzando pure l’epidemia di Covid per allargare le proprie fila e fare proselitismo. I miliziani somali infatti hanno dichiarato che l’epidemia è diffusa “dalle forze dei crociati che hanno invaso il paese e dai paesi miscredenti che li supportano” e inoltre hanno definito l’infezione una punizione divina contro la Cina per il trattamento riservato alla minoranza musulmana uiguri e contro tutti coloro che perseguitano i musulmani nel mondo. Messaggi pericolosissimi, sopratutto in un Paese come la Somalia dove il tasso di analfabetismo è tra i più alti al mondo, che rischiano di vanificare gli sforzi delle autorità somale per controllare la diffusione del virus. Se l’epidemia dovesse dilagare, a causa anche della retorica estremista di Al-Shabaab, il timore è che gli jihadisti arrivino a impedire qualsiasi intervento umanitario e l’ex colonia italiana si troverebbe quindi in uno stato di disperazione assoluto, stretta tra virus e terrorismo islamico: uno scenario apocalittico senza vincitori ma con un solo grande sconfitto: il popolo somalo.

Guido Olimpio per il ''Corriere della Sera'' l'11 maggio 2020. Gli al Shebaab, gli estremisti che hanno tenuta prigioniera per 18 mesi Silvia Romano, sono uno dei movimenti storici del jihadismo somalo. Radicati sul territorio, capaci di resistere ai loro avversari, in grado di agire anche oltre confine. La fazione, rispetto ad altre componenti africane, ha aderito alla linea qaedista ed è stata tra le prime a far affluire nei suoi ranghi militanti occidentali, compresi giovani somali cresciuti negli Stati Uniti. Alcuni di loro si sono poi tramutati in attentatori suicidi, a conferma di una scelta.

Kamikaze ed estorsori. Traffici, contrabbando, taglieggiamenti rappresentano una buona fonte di finanziamento e quando possono vanno a caccia di ostaggi. I militanti hanno mantenuto un ruolo dominante anche dopo l’apparizione di nuclei filo-Stato Islamico. Il movimento si è affidato alla guerriglia, ha dimostrato di poter travolgere postazioni militari grazie ad una buona combinazione di tattiche. Ha usato i veicoli-bomba in una doppia chiave: per indebolire le difese esterne o per attacchi nelle zone urbane, come a Mogadiscio. In passato i suoi uomini hanno condotto ripetute prese d’ostaggio in Kenya – centro commerciale di Nairobi, una scuola, solo per citare un paio di casi – confermando una dimensione operativa a lungo raggio. Missioni che hanno richiesto un lavoro di ricognizione, appoggi, preparazione.

Le azioni più recenti. Uno degli ultimi episodi ha riguardato una base dell’intelligence Usa vicino a Lamu, sempre in Kenya: nel raid un commando di insorti ha distrutto o danneggiato alcuni velivoli e ucciso tre americani. Quanto ai numeri si parla di 9-10 mila uomini. Nel febbraio 2016, gli al Shebaab hanno alzato di nuovo il tiro cercando di distruggere un jet passeggeri della compagnia Daallo in partenza dalla capitale. La bomba era nascosta all’interno di un computer ed era stata portata a bordo da un kamikaze. Un uomo in carrozzella aiutato da due dipendenti dello scalo, complici dei terroristi. La tragedia è stata evitata perché l’ordigno è deflagrato a bassa quota permettendo al pilota di rientrare. Un segnale chiaro della loro determinazione.

ODIATORI E PARTIGIANI.

Nicolò Zuliani per termometropolitico.it il 13 maggio 2020. ll consigliere Simone Angelosante, riguardo alla liberazione di Silvia Romano, ha dichiarato che “Non ho mai sentito di ebrei che liberati da un campo di concentramento si siano convertiti al nazismo e siano tornati a casa in divisa sa SS”. Il capogruppo della lista civica “Verso il futuro” ha addirittura chiesto che Silvia Romano venisse impiccata. In questi giorni stiamo assistendo a un montare di rabbia verso Silvia che raggiunge vette incredibili, tra cui un commentatore che ha addirittura scritto “non ha scuse”. È straordinario: secondo la folla, Silvia Romano è stata sequestrata per colpa sua. È un fiorire di se l’è cercata, poteva pensarci prima, se fosse rimasta a casa e altre sentenze da veri duri a cui seguono occhiate schifate della popolazione civile.

Ma Silvia Romano non è diversa dalle altre donne rapite. Natasha Kampusch venne rapita nel 1998 quand’era una bambina di 10 anni, e riuscì a fuggire solo nel 2006. Da allora vive barricata in casa perché riceve insulti ogni giorno; è accusata di essere un’approfittatrice, una “gold digger”, di avere ingrandito gli eventi e – ovviamente – di essersela cercata. Stessa storia Elisabeth Fritzl, imprigionata in un bunker sotterraneo a 18 anni dal padre e riuscita a scappare solo a 42 anni. Riceve le stesse accuse, tanto che il suo terzo libro è dedicato proprio all’odio online. E in Italia possiamo ricordare Chloe Ayling, la modella drogata e rapita a Milano che passò la stessa cosa, anche da parte dei giornali. O quello che dissero delle due Simone e delle altre donne sequestrate e liberate. Provate a farvi venire in mente una donna sopravvissuta o scampata a una violenza che non abbia ricevuto accuse o molestie. Non ve ne verrà in mente una sola. Le accuse sono sempre le stesse: 1) Se l’è cercata/meritata 2) Ci stava/le piaceva 3) Non è vero/è tutto organizzato/gombloddo.

Perché la folla giudica come 200,000 anni fa. Chi è debole, chi sbaglia, chi viene sopraffatto, superato o sconfitto, ha torto. Quando le donne venivano aggredite per essere violentate fino a qualche anno fa si domandava se erano riuscite a difendere l’onore o meno. Era importante per la famiglia: meglio una figlia morta onorata che viva e disonorata. Il delitto d’onore permetteva al marito tradito di uccidere la moglie fedifraga e cavarsela con otto anni di galera. In alternativa, la stuprata doveva sposare lo stupratore. In genere le donne sono fisicamente più deboli, quindi già invise alla folla che le guarda con sospetto, perché venera e rispetta solo forza e prevaricazione, e condanna i prevaricatori solo se ha occasione di usare forza e prevaricazione su di loro. Nel caso di Silvia (o di una qualsiasi vittima donna sopravvissuta), per far sì che la folla provi empatia bisogna o fornire i cadaveri dei sequestratori/stupratori e tenere la vittima in ombra o far vedere gli abusi subiti. Solo allora viene accolta come la vergine salvata. Se non fornisci sangue, sperma o sudore la folla si scaglia sulla vittima come risarcimento per la propria attenzione sprecata. Se qualcuno passa alla ribalta deve per forza fornire carne macinata, o sesso, o gente che soffre. Silvia non ha fornito niente del genere, si è fatta vedere felice di essere tornata a casa. La folla non ha visto torture, quindi non ci sono mai state. Di conseguenza la regola è la stessa: se una donna muore, se l’è cercata. Se una donna sopravvive, le è piaciuto.

È disgustoso? Eccome. Cambierà? No. La folla non cambia, fa parte della natura umana ed è proprio questo che rende il rispetto, il silenzio, l’empatia e la compassione dei valori: sono rari e richiedono impegno, capacità d’analisi e d’astrazione dalla folla. I grandi eroi dei social sono quelli che scrivono un commento di pancia, si fermano e lo cancellano prima di pubblicarlo. Non li vedremo mai, non sapremo mai chi sono o quanti sono, eppure esistono.

Dal tripudio all'odio: contro Silvia Romano è il momento del branco. I social che gioivano per la liberazione della giovane italiana rapita in Kenia, dopo le immagini col velo e la notizia della conversione vomitano fango. Michela Marzano su La Repubblica l'11 maggio 2020. Dalla gioia all'odio, dalla commozione agli insulti: sui social, in poco meno di 48 ore, il ritorno in Italia di Silvia Romano è diventato oggetto di scherno, di volgarità, di tifoserie contrapposte, di fango e vomito. Fango e vomito, sì. Perché è sempre lecito discutere, avanzare argomenti di segno opposto, contrapporre sensibilità o visioni alternative del mondo o della vita, ma non è questo che accade oggi sui social, non è questo ciò cui stiamo assistendo. Basta percorrere velocemente i post, i commenti e i tweet, per rendersi conto che è fango e vomito ciò che sta circolando in queste ore. Quando non c'è più nemmeno uno straccio di ragionamento, si esce dall'universo delle opinioni e si entra in quello dell'hate speech, il "discorso dell'odio", quello che non dice, ma fa; quello non spiega, ma offende; quello che non solo incita alla violenza, ma che è già, in sé, una vera e propria forma di brutalità. Perché? Com'è che non si riesce nemmeno più a litigare in maniera civile, e ci sbrana? In Massa e potere, lo scrittore Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, parlava delle masse come di "branchi" in cui ognuno perde la propria specificità, e agisce in maniera irrazionale e incomprensibile. "La determinazione del branco è immutabile e spaventosa", scriveva Canetti. Subito prima di descrivere la logica del linciaggio, quelle esecuzioni sommarie, senza previa condanna giudiziaria, nei confronti di individui ritenuti a priori "colpevoli", frutto spesso di furore e di risentimento ingiustificati. Sui social, sempre più spesso, si assiste a dei veri e propri linciaggi simbolici: ci si accanisce e ci si scanna reciprocamente, ci si odia e ci si insulta. È come se il "branco", data la possibilità  di esprimersi liberamente, coagulasse nel giro di poche ore tutta una serie di persone che, prese singolarmente, sono magari pure docili e tranquille. Ma, una volta sui social, la logica del branco le trasforma in aguzzini incapaci di dialogare, incapaci persino di renderci conto degli orrori che proferiscono, lapidando senza pietà chiunque si trovi sul proprio cammino.

Il rientro di Silvia Romano ha scatenato tutto l'odio che sembrava assopito dalla pandemia. Flavia Cappadocia l'11 maggio 2020 su it.mashable.com. Una manciata di ore. È il tempo che ha separato i commenti di gioia per l’annuncio della liberazione di Silvia Romano da quelli violenti e pieni d'odio. A scatenare le polemiche sui social sono state soprattutto le immagini del rientro in Italia della cooperante milanese di 24 anni, rapita 18 mesi fa in Kenya, nel villaggio di Chakama, 80 chilometri da Malindi, mentre seguiva un progetto della Onlus Africa Milele. È stata tenuta in ostaggio in Somalia dagli jihadisti di Al Shabaab, uno dei gruppi terroristici più efferati prima fedele ad Al Qaeda, poi all’Isis. Atterrata all’aeroporto militare di Ciampino, Silvia è apparsa per la prima volta davanti alle telecamere e ai fotografi con indosso l'jilbab, l'abito tradizionale indossato dalle donne musulmane. Un primo elemento che è bastato a dare il via a dispute e commenti, poi rafforzati dalle prime dichiarazioni che la ragazza ha fatto agli inquirenti: “Mi sono convertita all’Islam, il mio nuovo nome è Aisha”. E ancora: “ Ho chiesto dei libri e mi hanno portato il Corano, ho cominciato a leggere per curiosità e poi è stato normale. La mia è stata una conversione spontanea”. "Io mi sono commossa, ho completamente tralasciato quello che Silvia avesse indosso - spiega Giovanna Cosenza, docente di semiotica dei media digitali all’Università di Bologna - questo già ci dice quanto possa essere variabile l'elemento percettivo. In un primo momento ho interpretato quella veste come una protezione, la mia attenzione era su quell'abbraccio alla famiglia". Sui social le condivisioni dei flash mob organizzati a Milano, la città di Silvia, sono state rimpiazzate da una pioggia di hashtag: #Aisha, #sindromediStoccolma, #convertita, #Maometto #corano. Tutto quell’odio che sembrava in qualche modo assopito dallo scoppio dell’emergenza sanitaria del coronavirus è tornato in superficie in pochissimo tempo e a scatenarlo è stata (ancora una volta) una donna. "C'è sempre l'aggravante femminile - afferma Cosenza - siamo in una cultura sessista. Su una donna si va subito a sezionare il corpo: come appare, cosa indossa, quanto pesa". Avevamo assistito a un'ondata d'odio simile per Carola Rackete, la giovane comandante della Sea-Watch arrestata per aver forzato l'attracco della nave con a bordo decine di migranti al porto di Lampedusa, lo scorso giugno. Il concetto alla base è lo stesso: una donna è sempre meglio che resti a casa o che quantomeno non se ne vada in giro per il mondo in posti pericolosi a fare cose altrettanto rischiose, come salvare i migranti o assistere i bambini di un villaggio africano. E se fosse stato un prigioniero uomo ad essere liberato? "Come segno della sua prigionia avremmo visto una barba e poco di più - prosegue la professoressa - Ci sarebbe stata una minore evidenza simbolica. Ma se avesse dichiarato una conversione, su un uomo c'è una maggior assunzione di responsabilità. Un uomo sa quel che fa, per definizione. Ricordiamo che l'Italia si distingue per sessismo, siamo al 76esimo posto su 153 nella classifica del World Economic Forum che ogni anno censisce la parità di genere. Cosa ci tiene in basso? La disparità di trattamento economico. Ma tutto nasce dalla cultura, dal dibattito politico. Pensiamo a tutto il discorso della mancanza di donne nella task force che gestiscono la pandemia". Ad alimentare la polemica anche il tono delle prime pagine di alcuni quotidiani, che hanno preso una posizione netta a riguardo. Il sito di Libero ha persino chiesto agli utenti di votare in un sondaggio che chiedeva loro se fossero stati sconvolti o meno dalla notizia della conversione di Silvia Romano. "Ricordiamo alcune cose di base - spiega ancora la docente - L'aggressività online viene agita tramite uno schermo, questo la rende per forza più truce, più violenta. L'assenza della percezione dell'altro (ci sono tantissimi esperimenti) aggrava moltissimo i toni. L'hater, il peggior troll, messo di fronte alla sua vittima, si comporta in tutt'altro modo. La pandemia poi ci ha ingabbiati, ci ha compressi. Quindi probabilmente la reazione a tutta questa vicenda è stata ancora più violenta per questo motivo". L'immagine di Silvia Romano sembra aver messo in crisi un universo di valori, in cui l'appartenenza al proprio Paese è stata confusa con quella religiosa, che niente ha a che vedere con la cittadinanza. Ci sono, come spesso accade, tanti, troppi punti interrogativi in questa storia che è ancora tutta da scrivere. Eppure, nonostante la mancanza di dati oggettivi sulla liberazione, quei pochi elementi immortalati dalle videocamere sono stati sufficienti per un processo social sommario, ora rivolto contro Silvia Romano, ora contro il Governo, colpevole di aver pagato per il rilascio. Il tempo di attendere, di aspettare di capire, di sapere, non è di questo mondo. C'è stato un tempo invece, era solo pochi giorni fa, in cui siamo stati sospesi, in ascolto. Ma forse non era vero.

Silvia Romano, minacce e insulti social: Procura Milano apre inchiesta. Antonino Paviglianiti il 12/05/2020 su Notizie.it. Migliaia di insulti a Silvia Romano, la cooperante liberata dopo 18 mesi di prigionia. Aperta inchiesta. Gli insulti e le minacce social agli indirizzi di Silvia Romano non passeranno inosservati. È quanto fa sapere la Procura di Milano che, nella giornata di martedì 12 maggio, ha annunciato di aver avviato un’inchiesta in merito ai commenti offensivi che hanno coinvolto la cooperante milanese tornata in Patria dopo 18 mesi di prigionia. Il responsabile antiterrorismo Alberto Nobili, a capo dell’inchiesta, parla di accuse gravissime come “minacce aggravate”: è questo il reato a cui dovranno rispondere i migliaia che da giorni minacciano e insultano Silvia Romano sui social network. Sebbene in tantissimi abbiano accolto con favore il ritorno a casa di Silvia Romano, salutando la notizia con messaggi di giubilo, c’è stato anche chi ha mal digerito la liberazione della cooperante italiana. E continuano ancora i commenti offensivi nei confronti della giovane donna. La colpa di quest’ultima, secondo molti, sarebbe quella di essersi convertita alla religione islamica ed essere costata al Governo italiano soldi che sarebbero potuti essere destinati per altre occasioni. Purtroppo, commenti offensivi non solo sui social network. Nella giornata di lunedì 11 maggio, al Casoretto – quartiere meneghino dove Silvia Romano abita – è apparso un volantino contro la liberazione della cooperante rapita in Kenya nel novembre 2018. “Tanti di noi, stufi di dover pagare i riscatti, specie di questi tempi. Salvare una vita, meritevole, per metterne a rischio molte altre?”. Il volantino è stato strappato in mille pezzi dall’edicolante di zona che si è detto indignato.

Striscia la Notizia svela il terrificante scambio di persona: Silvia Romano, orrore e linciaggio dopo la liberazione. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Un clamoroso, rovinoso, scambio di persona. Di cui dà conto Striscia la Notizia, il tg satirico di Canale 5, con un video pubblicato sul sito web della trasmissione ancor prima della messa in onda della puntata di lunedì 11 maggio. Uno scambio di persona che riguarda Silvia Romano, la cooperante di 24 anni liberata dopo 18 mesi di prigionia in Africa, tra Kenya e Somalia, in mano ad Al-Shabaab, banda di terroristi islamici. Il punto è che dopo la sua liberazione, su Twitter, in molti si sono spesi in vergognosi attacchi contro la ragazza, sia per la sua conversione all'islam, sia per il fatto che era stato pagato un riscatto. Una tempesta d'odio che è andata a colpire il profilo Twitter di Silvia Romano. Peccato però che fosse quella sbagliata. E lo spiega direttamente Anastasio, il cantante che ha anche partecipato all'ultimo Festival di Sanremo, che direttamente dalla quarantena, rivolgendosi ai suoi follower, spiega che la Silvia Romano che gli haters stavano insultando non è la milanese appena liberata, ma la sua collaboratrice, omonima.

«Quanto è costato il riscatto di Silvia Romano?»: la miseria umana dei sovranisti che si bevono le fregnacce di Salvini. Alessandro D'Amato il 10 Maggio 2020 su nextquotidiano.it. La liberazione di Silvia Romano, annunciata ieri dal governo dopo un rapimento che durava dal novembre 2018, ha risvegliato negli italiani quel sentimento di gioia e felicità che è tipico del popolo del Belpaese. Che, come un solo uomo, si è lanciato subito nella suo domanda preferita: “Quanto ci è costato il riscatto“? Subito dopo l’annuncio infatti i social network si sono riempiti di persone indignate che chiedevano i fondi per i commercianti e la cassa integrazione, ricordando che “basta fare volontariato in Italia per evitare rapimenti, già siamo in un periodo di magra, i riscatti non si pagano con le patatine”. Tra i più interessati al destino e alle sorti della ragazza c’è Marco, che si domanda “chissà quanti soldoni avete sborsato… sempre a calare le braghe davanti al terrorismo”, mentre Sergio chiede par condicio nei confronti degli italiani in difficoltà economica. La giornata è particolarmente dura per taluni, che si sentono evidentemente esclusi da quella fortunella di Silvia, che è stata salvata mentre loro “se la stanno vedendo brutta e sono in pericolo”. C’è poi Francesco che disegna interessanti traiettorie di analisi geopolitica dei fatti, segnalando che visto che non avevamo i soldi per pagare il riscatto l’hanno liberata. E infine Simone, che attende anche lui i soldi della cassa integrazione e il bonus partite IVA, perché evidentemente è insieme un lavoratore dipendente e un professionista. Anche su Twitter la domanda è sempre la stessa: quanto ci è costata la sua liberazione? E allora tanto vale raccontare com’è andata la liberazione di Silvia Romano. Il Corriere della Sera oggi spiega che alcuni informatori locali e gli stessi rapitori che l’avevano catturata nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavorava per la Onlus «Africa Milele», avevano raccontato di averla ceduta alla fazione fondamentalista somala dopo un viaggio nella foresta durato settimane_ L’esame del filmato di gennaio conferma la matrice jihadista. Diplomazia e intelligence coordinati dal direttore dell’Aise Luciano Carta capiscono così che il canale aperto per arrivare al gruppo fondamentalista di Al Shabab è buono. Dunque si procede, consapevoli che più passa il tempo più sale il prezzo del riscatto. I servizi segreti somali sono collaborativi, le «fonti» che hanno consentito di procedere sono diverse. Alcune sono state attivate dalla Turchia che ha un controllo forte su quell’area. […] Gli emissari del gruppo indicano come sede della prigione la zona di Bay, nel villaggio di Buulo Fulaay. Dicono che per un periodo è stata chiusa in un grotta con altri ostaggi. Fissano il prezzo finale, dopo i soldi versati per pagare i vari contatti. Non c’è una cifra precisa. […] Nei giorni scorsi un gruppo di 007 si trasferisce in Somalia e affianca chi ha seguito la vicenda sin dall’inizio. Bisogna organizzare l ’appuntamento, avere la certezza che la consegna dell’ostaggio avvenga senza rischi, sapendo bene che quello dello scambio è il momento più delicato. Si sceglie una zona a 30 chilometri da Mogadiscio, di sera. Ci sono esplosioni di mortaio, c’è soprattutto un’alluvione. Comunque si procede. L’incontro viene fissato per venerdì sera. È già notte quando Silvia arriva accompagnata dagli emissari dei sequestratori. È provata fisicamente e psicologicamente. Il viaggio verso la capitale presenta ancora alcuni ostacoli. Ma qualche ora dopo, in Somalia è ancora notte, arriva la notizia che Silvia è finalmente al sicuro in ambasciata. Il Giornale scrive in prima pagina che il costo totale del riscatto è stato di quattro milioni di euro. Repubblica ricorda che non c’è dubbio che quello di Silvia sia stato sin dal principio un sequestro a scopo di estorsione. Una volta che i nostri 007 hanno avuto la prova che fosse in vita, sono partite le trattative per stabilire il prezzo del rilascio. Il governo italiano ha negato almeno per il momento che sia stata versata una cifra per la liberazione, anche se funzionari vicini al ministro degli Esteri somalo Ahmed Isse Awad sostengono che l’Italia abbia pagato ai rapitori una cifra vicina ai 4 milioni di euro. Anche Repubblica conferma la questione del riscatto: Il tweet di Salvini su Silvia Romano e la risposta tipica del sovranista. E sembra certo, seppur non arriva alcuna conferma ufficiale, che per la sua liberazione sia stato pagato almeno un riscatto, visto che la ragazza è passata per non meno di tre covi e nelle mani di molti sequestratori. In una zona, dove sequestri con queste modalità, sono già avvenuti: negli anni scorsi per riavere una loro connazionale, gli inglesi pagarono più di un milione di euro ai terroristi somali. Insomma, sono 4 milioni, ovvero meno di 49. Eppure quelli non li cerca nessuno tra i sovranisti. Chissà perché.

Le incredibili prime pagine di Libero e Giornale su Silvia Romano “islamica”. Dipocheparole l'11 Maggio 2020 nextquotidiano.it. Il buongiorno si vede dal mattino. E il buongiorno che Libero e il Giornale dedicano a Silvia Romano è di quelli da ricordare: due prime pagine in cui non dicono (ma fanno pensare) che la cittadina italiana liberata ieri poteva essere lasciata lì dove stava visto che si è convertita all’Islam. Siccome bisogna guardare sempre le cose in positivo, in primo luogo registriamo l’impeto di sincerità di Vittorio Feltri, che in prima pagina su Libero spiega dov’è il problema con un linguaggio che sarebbe stato considerato retrogrado da un colonialista italiano in Abissinia: Silvia Romano, la giovane milanese rapita in Kenya, è stata liberata e finalmente toma a casa sua, dai genitori. Tutti festeggiano l’evento, anche noi che davanti a una esistenza salvata ci rallegriamo, ci mancherebbe altro. Tuttavia ci sono molti punti su cui vale la pena di ragionare. Chi glielo ha fatto fare alla fanciulla lombarda di recarsi in Africa pur consapevole dei rischi che gli europei affrontano nel continente nero, dominato da fanatici islamisti? Possiamo almeno affermare che ella è stata imprudente, ai limiti dell’incoscienza. Si dice che Silvia si decise a partire animata dal desiderio di compiere del bene in favore dei bambini di pelle scura. Sono persuaso della sua sincerità, eppure vorrei ricordarle che l’Italia è piena di gente bisognosa di soccorso, visto che campa nella miseria. Oltre 50 mila clochard trascorrono le notti all’addiaccio e spesso ci lasciano le penne. Per aiutare i miserabili non è il caso di trasferirsi nella Savana, basta guardarsi in giro pure nel capoluogo lombardo per ravvisare numerosi individui conciati male e meritevoli di assistenza. Si noti infatti che Feltri finalmente dice che il problema non è tanto aiutare i poveracci, ma aiutare quelli “di pelle scura”. E questo non può che costituire un impeto di sincerità per uno dei più autorevoli esponenti della destra italiana, il quale finalmente ammette che il problema non sono loro che sono razzisti, ma che sono quelli ad essere “di pelle scura” (se la prossima volta scrive “negri” è fatta). Sallusti invece riesce ancora a controllarsi e se la prende soltanto con il velo esibito da Silvia Romano al suo ritorno: È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista. E questo senza contare che oggi, con Silvia al sicuro, possiamo anche dircela tutta: ma che cosa ci faceva una ragazzina inesperta in uno dei posti più a rischio del pianeta? Chi ce l’ha mandata «a fin di bene» è stato un irresponsabile, che ha messo a rischio la vita della ragazza, di chi ha dovuto impegnarsi per liberarla e ora di tante altre persone innocenti, perché la banda di estremisti islamici che ha incassato i quattro milioni dal governo italiano non li spenderà certo in opere di bene, bensì in armi per rafforzare la sua opera di morte e terrore. «A fin di bene» in questa storia non c’è proprio nulla, e nel suo ultimissimo atto, all’aeroporto di Ciampino, sono mancati pure buon senso e rispetto. Abbiamo quattro milioni in meno e, scommettiamo, un’eroina della sinistra in più. Pur di vedere Silvia viva ci va bene pure questo scambio, ma per favore basta retorica. P. stendiamo noi un velo, in questo caso pietoso, non sulla faccia di Silvia, ma su tutta la questione.

 Vanoni: "Silvia Romano? Stato ha regalato 4 milioni ai terroristi". La cantautrice commenta causticamente il ritorno in Italia della volontaria rapita in Kenya 18 mesi fa: "Se era così felice poteva restare là..." Alberto Giorgi, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. Ornella Vanoni non si tira indietro dal commentare causticamente la liberazione e il ritorno in Italia di Silvia Romano, la volontaria milanese rapita il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya e liberata nei giorni scorsi, dopo diciotto mesi di prigionia. Su Twitter, infatti, la cantautrice ha scritto un post che non è passato inosservato. Ed era infatti difficile che lo fosse per il contenuto, oltre che per l’autrice dello stesso. Questo il messaggio dell’artista musicale: "Se Silvia Romano era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l'avete liberata? Restava là e lo Stato non avrebbe regalato quattro milioni ai terroristi". Vanoni, insomma, fa riferimento alle prime parole rilasciate dalla giovane cooperante, che ha riferito alle autorità italiane di essere stata trattata bene in questo anno e mezzo dai suoi carcerieri, estremisti somali, e alla sua conversione "spontanea" alla religione dell’Islam. Romano, infatti, ha dichiarato di essersi convertita spontaneamente al credo islamico in seguito alla lettura del testo sacro del Corano durante il rapimento. Come noto, Silvia Romano è atterrata all’aeroporto di Ciampino questo sabato indossando una larga e lunga tunica e qui, alla presenza del premier Conte e del ministro degli Esteri Di Maio (quella che secondo Toni Capuozzo è stata una penosa passerella delle istituzioni), ha potuto riabbracciare la famiglia. Nella giornata di oggi, peraltro, la ventiquattrenne ha fatto ritorno a Milano, nella sua casa nel quartiere di Casoretto. Nel post, inoltre, Vanoni si dice per certi versi scettica delle tempistiche della liberazione della volontaria della onlus Africa Milele, avvenuta praticamente in concomitanza con la Festa della Mamma, che cade il 10 maggio di ogni anno: "Altro non so dire, o soltanto: chissà se casuale il suo ritorno per la Festa della Mamma...", ha infatti scritto la cantante, che sembra credere poco alla coincidenza. Il post è stato commentato e condiviso da numerosi utenti Twitter e in molti si sono schierati al fianco della Vanoni, ma non sono mancati altrettanti commenti contrariati al contenuto del messaggio stesso, che invitano l’autrice dello stesso al silenzio. Se #SilviaRomano era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l'avete liberata? Restava là e lo Stato non avrebbe regalato 4 milioni ai terroristi. Altro non so dire, o soltanto : chissà se casuale il suo ritorno per la Festa della Mamma. — Ornella Vanoni (@OrnellaVanoni) May 11, 2020 

Enrico Mentana e Silvia Romano convertita: "Ricordate Auschwitz?". L'ambasciata polacca risponde: "Ingiusto, ingiustificato e sbagliato". Libero Quotidiano il 12 maggio 2020. La Polonia attacca Enrico Mentana. Non è Risiko né fantascienza, ma la verità. Il direttore del TgLa7, su Facebook, commentando il ritorno con connessione all'Islam annessa di Silvia Romano era andato giù duro, a modo suo: "A tutti quelli che in queste ore fanno orrendi e insensati paragoni con chi tornò da Auschwitz voglio solo sommessamente ricordare che il campo di Auschwitz sorgeva nella cattolicissima Polonia, e che lo stesso Hitler era cattolico battezzato e cresimato. Provata a riformulare il paragone ora...". 

Da ilmessaggero.it il 12 maggio 2020. Ci risiamo. Dopo il caso esploso a inizio dello scorso mese di dicembre, con un post-choc contro il premier Giuseppe Conte sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità o Fondo salva Stati, («In altri tempi sarebbe stato fucilato alle spalle»), il consigliere regionale della Lega e sindaco di Ovindoli, (L’Aquila), il marsicano Simone Angelosante, ci è ricascato. Stavolta nel mirino è finita la liberazione di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel 2018 e tornata proprio ieri in Italia. Angelosante ha preso come spunto un post del Partito Democratico con una foto della ragazza e la scritta “finalmente libera“. A cui il consigliere regionale ha allegato una dichiarazione che ha fatto ben presto il giro d’Italia: “Avete mai sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?”.  Il riferimento chiaro è agli abiti indossati dalla giovane e alla circostanza che si sarebbe convertita all’Islam, “liberamente”, come avrebbe ammesso. Il post è stato criticato pubblicamente anche dal giornalista Enrico Mentana: "L'autore di questo orrore è stato eletto due volte, a sindaco e a consigliere regionale".

Enrico Mentana su Facebook: A tutti quelli che in queste ore fanno orrendi e insensati paragoni con chi tornò da Auschwitz (come quel consigliere regionale leghista che ha scritto "avete sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?") voglio solo sommessamente ricordare che il campo di Auschwitz sorgeva nella cattolicissima Polonia, e che lo stesso Hitler era cattolico battezzato e cresimato. Provate a riformulare il paragone ora...

La risposta dell'Ambasciata polacca: A seguito delle parole del direttore Enrico Mentana riteniamo doveroso sottolineare che affrontando temi così complessi bisogna stare estremamente prudenti, evitare generalizzazioni ingiustificate e penalizzanti che sono sempre pericolose e impediscono un dibattito onesto. E vero che la Polonia ai tempi della Seconda guerra mondiale era molto cattolica. E necessario però, sempre e soprattutto, sottolineare che durante quel conflitto globale la Polonia ERA OCCUPATA DAI NAZISTI, quindi ogni affermazione che può suggerire o far presupporre che Auschiwtz era stato costruito in Polonia, perché essa era cattolicissima, mettendo quindi in relazioni questi due elementi, è PROFONDAMENTE SBAGLIATO, INGIUSTO e INGIUSTIFICATO. Il più grande campo di concentramento è stato localizzato in Polonia, ma certo non per questa ragione, ma piuttosto è in Polonia che viveva il maggior numero di ebrei in Europa e che la posizione era facilmente raggiungibile da trasporti da tutti i territori occupati dai nazisti.

Silvia Romano, affondo di Daniela Santanché: "Si liberi di quello stupido cencio medievale e torni libera". Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Senza peli sulla lingua, in grado di distinguere. Anche Daniela Santanchè commenta la liberazione di Silvia Romano, la cooperante tornata domenica 10 maggio in Italia dopo 18 mesi di prigionia in mano a terroristi islamici. E la pitonessa di Fratelli d'Italia non può fare a meno di prendere le distanze dall'abito tradizionale con cui la 24enne è scesa dall'aereo dei servizi segreti di Ciampino. "Sono contentissima per la liberazione di Silvia Romano - premette -. Ora spero che si sbarazzi di quello che Oriana Fallaci chiamava stupido cencio medievale, per tornare una donna libera a tutti gli effetti", rimarca riferendosi alla scelta dell'abito islamico. In un successivo cinguettio, la Santanchè prende la mira contro il governo: "C'è tanto da chiarire su Silvia Romano alias Aisha (il suo nome da convertita, ndr). È chiaro però che questo governo di dilettanti dicendo di aver pagato un riscatto (anche se ufficialmente il governo non lo ha confermato, ndr) ha messo una taglia sulla testa degli italiani all'estero e messo in pericolo gli 007. Tutto per uno spot, non se ne può più", ha concluso la Santanchè aggiungendo l'hashtag #Conte per rendere esplicito il suo riferimento al premier, Giuseppe Conte. 

 “Impiccatela”, il post su Silvia Romano di un consigliere venetista. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Non ci sono solo gli ignoti haters del web a scatenarsi contro Silvia Romano, la 24enne rapita nel novembre 2018 in Kenya e tornata libera venerdì. Gli insulti e le minacce che hanno spinto il pm Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo della Procura di Milano, ad aprire un’inchiesta, sono arrivati anche dalla politica. Oltre ad alcune uscite ‘sopra le righe’ di alcuni esponenti della Lega, come il deputato Alessandro Morelli che ha pubblicato con la scritta “Liberata?” una foto di Silvia in abito corto accanto a quella della cooperante sbarcata a Ciampino col jilbab, c’è un caso che oggi sta divampando. Si tratta del consigliere comunale di Asolo (Treviso) Nico Basso, venetista, capogruppo della civica “Verso il futuro” ed ex assessore allo sport sempre ad Asolo in una giunta leghista. Basso ha infatti scritto e poi cancellato un post con la foto della 24enne con la scritta “impiccatela”, criticando quindi la decisione di pagare un riscatto per consentire la liberazione della ragazza. Resta invece chiaramente visibile un secondo post con la foto di Silvia e il commento laconico “Libera da chi? Pd di merda”. L’uscita del consigliere non è passata inosservata. Contro di lui si è espresso Mauro Migliorini, sindaco di Asolo, che ha ricordato come la città ha nel suo “dna libertà e accoglienza: esternazioni d’odio, offese alla dignità e alla vita non sono contemplabili né accettabili se vogliamo avere rispetto per noi come pubblici rappresentanti del Consiglio Comunale e come cittadini della nostra comunità”.

L’odio leghista contro Silvia: “Lei islamica? E’ come se Aldo Moro fosse diventato brigatista”. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Ancora polemiche contro la giovane cooperante sequestrata e liberata. Troppi insulti social: chiuso il profilo facebook. «Sono felice che abbiano portato a a casa Silvia Romano ma ci sono dei luoghi nel mondo dove andarci è pericoloso. Quindi: si fa un’intesa chiara, che chi si spinge oltre un certo confine poi deve assumersi anche le responsabilità». Il valzer delle polemiche intorno alla liberazione di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya e liberata sabato scorso, stavolta lo apre il governatore leghista del Veneto Luca Zaia. Il quale aggiunge: «Molti si domandano chi si è assunto la responsabilità di mandare una cooperante in zone come quella? Perchè se poi paga sempre Pantalone…». Ancora più esplicito, se possibile, Alessandro Morelli, deputato leghista e presidente della Commissione Trasporti di Montecitorio. Il quale Morelli, nel criticare la conversione all’Islam della giovane Silvia Romano, tira in ballo niente meno che la tragica vicenda di Aldo Moro: «È come se Moro – spiega – invece che finire ammazzato dalle Br fosse stato liberato, e avesse iniziato a fare politica a favore della lotta armata». E ancora: «O se Farouk Kassam avesse chiamato Dio il carceriere che gli ha tagliato l’orecchi», conclude, riferendosi al bimbo rapito nel 1992 a Porto Cervo, a cui fu tagliato dai rapitori il lobo di un orecchio prima della liberazione, in seguito al pagamento di un riscatto. Nel frattempo, dalla famiglia Romano, chiedono silenzio e rispetto: «Come sta Silvia? Come vuole che stia? Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito». «Usate il cervello. Vogliamo stare in pace, abbiamo bisogno di pace».Ma i professionisti dell’odio social hanno indotto i familiari della giovane a chiudere profilo Facebook di Silvia a causa dei numerosi insulti ricevuti soprattutto a fronte della sua conversione religiosa. Il profilo della cooperante milanese, liberata lo scorso 9 maggio dopo 18 mesi di prigionia, non è più visibile.

Silvia Romano, la foto del leghista Morelli scatena l'inferno: "Liberata?", dalla minigonna all'abito tradizionale. Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Un post del leghista Alessandro Morelli su Silvia Romano scatena una violentissima polemica. L'esponente del Carroccio ha pubblicato due foto della ragazza: una prima del rapimento, che la ritrae in vestitino blu e tacco alto, l'altra di poche ore fa, in abito tradizionale somalo dopo la liberazione al termine del lungo rapimento. E a corredo delle foto, Morelli scrive una singola parola: "Liberata?". Poi l'hashtag #Aisha, ossia il suo nome da convertita. Chiaro il significato della domanda: il leghista si chiede se quella di Silvia Romano convertita all'Islam possa considerarsi una vera liberazione. Post crudo, durissimo, che ha scatenato una rappresaglia su Twitter. Critiche e insulti, qualcuno lo invitava ad andare a fare la terza media, poi chi scriveva: "Poteva andarle peggio, poteva risvegliarsi leghista". Il post, comunque, è stato condiviso anche dal profilosocial Lega-Salvini premier.

Se la minigonna rende liberi: il tweet del leghista su Silvia Romano che indigna il web. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Maggio 2020. È una specie di gioco di parole quello di Alessandro Morelli. Il giornalista, deputato della Lega, ha postato sui social una foto di Silvia Romano, la 24enne cooperante milanese, sequestrata per 18 mesi dai terroristi islamici di Al Shabaab e tornata in Italia, dopo la liberazione, domenica 10 maggio. Un collage più che una foto: perché nel post di immagini ce ne sono due. Un vero e proprio confronto tra il prima e il dopo che ha scatenato da subito molte critiche. A sinistra, Silvia Romano con un abito corto blu. A destra, l’immagine della cooperante appena sbarcata all’aeroporto di Ciampino, a Roma, dopo essere stata liberata. E quindi con un largo jilbab, abito della tradizione somala e musulmana. “Liberata?”, scrive Morelli. Facendo riferimento all’operazione, condotta dai servizi italiani dell’Aise con i servizi turchi e somali, che ha messo fine a 535 di prigionia tra Kenya e Somalia. E quindi alla conversione di Silvia Romano alla religione musulmana, dichiarata dalla stessa 24enne all’intelligence e nell’interrogatorio, davanti al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, al suo ritorno in Italia. Una conversione avvenuta senza violenze e senza costrizioni, ha dichiarato Romano. Alla psicologa alla quale è stata affidata dopo la liberazione, riporta il Corriere della Sera, ha rivelato il suo nuovo nome dopo la conversione: Aisha. Dopo le prime speculazioni sul riscatto e sull’ammontare del presunto riscatto, dopo le prime pagine dei giornali che parlano di Romano come di un'”ingrata” e della conversione manco fosse un tradimento,  l’attenzione torna quindi sul corpo. Il corpo della donna. In questo caso reduce da un’esperienza atroce e indescrivibile. In merito alla quale solo la protagonista potrà trovare, e forse non da subito, parole adeguate – anche se lei stessa ha detto, queste le sue prime dichiarazioni dopo l’atterraggio, di stare bene sia psicologicamente che mentalmente. Un corpo che dunque non è degno se coperto da una tunica islamica, un corpo che non va bene quando è vestito sempre uguale come nel caso di Giovanna Botteri, un corpo che non è giusto se ha qualche chilo in più o in meno come Adele, un corpo che incita allo stupro se coperto troppo poco. Ma certo non in questo caso: in questo caso la libertà starebbe nella minigonna. E non nella possibilità di scegliere cosa indossare.

«Se Silvia Romano si è convertita all’Islam poteva restare dov’era»: il buon cuore “italiano” dei leghisti. Nextquotidiano.itil 10 Maggio 2020. Matteo Salvini non ha fatto in tempo a dire da Lucia Annunziata che “nulla accade gratis ma non è il momento di chiedere chi ha pagato cosa” e già i fans della Lega sui social hanno trovato il modo comunque di mettere alla gogna la cooperante appena atterrata a Ciampino pubblicando la replica di Silvia in cui conferma la sua conversione volontaria all’Islam. Il partito di Salvini non ha avuto bisogno di esprimere biasimo per la scelta di Silvia. E’ stato sufficiente riportare un’agenzia di stampa. La Romano, subito dopo la liberazione ieri in Somalia, avrebbe fatto riferimento alla sua possibile conversione all’Islam ma senza voler dare ulteriori indicazioni: “Prima ne voglio parlare con la mia famiglia”. Poi oggi ha spiegato: “E’ vero, mi sono convertita all’Islam. Ma è stata una mia libera scelta, non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori che mi hanno trattato sempre con umanità. Non è vero invece che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche né violenze”. La storia di Silvia Romano costretta al matrimonio islamico era stata raccontata da Luca Fazzo sul Giornale. Come i cani dell’esperimento di Pavlov però i leghisti in ascolto non hanno deluso le aspettative. Il presunto riscatto pagato per la liberazione di Silvia è stato sprecato visto che si è convertita. E visto che si è fatta una vacanza ed è tornata per salutare i parenti “tanto valeva che prendesse un aereo di linea”, mentre c’è chi fa notare che se è così ha finanziato i suoi rapitori. Naturalmente tutti hanno capito che la donna si è sposata nel paese in cui era detenuta, anche se questo per ora non sta scritto da nessuna parte: la Romano ha solo negato di essere stata costretta a sposarsi. In molti intendono la frase sul matrimonio come se Romano si fosse “sposata volontariamente” e ovviamente tirano fuori subito alti ideali: “Se stavi a casa tua ci risparmiavi un sacco di euro. Sicuramente tornerai là. Io ti avrei lasciato lì, nessuno ti ha obbligato ad andarci”. Infine c’è chi è seriamente preoccupato perché il ritorno di Silvia Romano potrebbe essere un punto del Piano Kalergi e scatenare un’invasione: “E perché sei voluta tornare visto che è stata una tua scelta perché magari ci porti qui la famiglia di tuo marito e per fare entrare più migranti di quanti già ce ne sono? Tanto poi paga nino tanto noi siamo i vostri schiavi vero? Questi fanno proprio i c… loro, che schifo”. E che le vuoi dire, a Giuseppina, se non “Ok, boomer!”?

Bufale, calunnie e richieste di arresto: il benvenuto sovranista a Silvia Romano. Non ha fatto in tempo a scendere dal volo militare dopo un anno e mezzo di prigionia, che una cospicua parte del Paese si è lasciata andare al suo peggio. Dall'affondo di Salvini («Nulla accade gratis») a Vittorio Sgarbi («o si pente o è complice»)  una raccolta da non credere. Della serie, siamo contenti ma...Wil Nonleggerlo l'11 maggio 2020 su L'Espresso. C’è chi propone di ammanettarla per “concorso esterno in associazione terroristica”, chi la definisce “ingrata” e chi “amica dei terroristi”. C’è chi sospetta sia diventata una fondamentalista, ignorando le parole della volontaria milanese su una conversione “avvenuta liberamente”. C’è chi sguazza su voci tutte da verificare e alimenta bufale conclamate - vedi matrimonio e gravidanza - subito smentite dalla 25enne. “Ora porti in grembo il figlio di un terrorista”, il post di un noto saggista ed ex deputato europeo, solo per darvi un indizio di fin dove ci si è spinti. Questo il trattamento riservato a Silvia Romano da una cospicua parte di Paese istituzional-sovranista: le sono bastati pochi minuti, il tempo di scendere da quel volo militare dopo 536 giorni di prigionia - 18 mesi, un anno e mezzo - per scoprire di essere sì nel cuore di milioni di italiani, ma anche in tante viscere.

Arrestatela! “Se mafia e terrorismo sono analoghi, e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi” (Vittorio Sgarbi, parlamentare del gruppo Misto, su Facebook - 10 maggio)

All’islamica. “Certo, vedere scendere Silvia Romano dal volo di Stato italiano vestita all’islamica... ehm... sentire poi che è sempre stata trattata bene e che durante la prigionia si è pure convertita all’Islam...” (Matteo Salvini durante la tradizionale live notturna su Instagram - 11 maggio)

L’ingrata. “Schiaffo all’Italia: islamica e felice, Silvia l’ingrata”. “Abbiamo pagato 4 milioni per salvarla, ma la volontaria è tornata con la divisa del nemico jihadista” (Il Giornale, prima pagina)

In abiti nazisti. “È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista” (Il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, in prima pagina - 11 maggio)

“Abbiamo liberato un’islamica”. “La giovane tenera con i terroristi di Allah. Imam entusiasti: ‘Ti aspettiamo’. Felice pure il suo parroco” (Libero apre così in prima pagina - 11 maggio)

Convertita a Maometto. “Conte e Di Maio fanno uno spot e un dono ai terroristi islamici”. “Il rientro di Silvia-Aisha Romano, rapita e convertita a Maometto, diventa un autogol. Le immagini della donna liberata (a suon di milioni) e accolta con tutti gli onori fanno il giro del mondo. Proprio come voleva Al Shabaab” (La Verità, prima pagina - 11 maggio)

“Eroina” tra virgolette. “Stufi di pagare le avventure delle 'eroine' del pacifismo” “Chiunque è libero di rovinarsi la vita come meglio crede. Padronissima dunque Silvia Romano di andare a fare la crocerossina che aiuta i diseredati in un buco sperduto dell’Africa, ma (...)” (Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, in prima pagina - 11 maggio)

Togliti quello stupido cencio sulla testa...“Sono contentissima per la liberazione, ora spero che si sbarazzi di quello che Oriana Fallaci chiamava “stupido cencio medievale” (jilbab, ndr), per tornare una donna libera a tutti gli effetti” (Daniela Santanchè, parlamentare Fdi, su Instagram - 10 maggio)

Caio Giulio Cesare Mussolini. “4 milioni e passa regalati ad Al Shabaab grazie alla follia di una ONG italiana. Adesso anche basta” (Il tweet del pronipote del Duce ed esponente di Fratelli d’Italia - 10 maggio)

Sconto-Islam. “Per Greta-Vanessa pagammo 11 milioni, per la Sgrena 5 milioni e la vita di Calipari (gli americani non amano chi paga i riscatti agli estortori islamisti, gli USA non pagano mai ma la fanno pagare), per Silvia sconto-Islam a 4 milioni. Più la Libia a Erdogan. Colpaccio di Di Maio” (Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia, su Twitter - 10 maggio)

Feltri e gli amici terroristi. “Siamo tutti contenti della liberazione di Silvia Romano. Lo saremmo di più se ci dicessero quanto s’è dovuto pagare di riscatto”. “A me se una si converte all’Islam non mi importa niente ma non mi va neanche di applaudirla. Mi secca un poco se per riportarla in Italia lo Stato spende qualche milione degli italiani”; “Pagare il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione” (Vittorio Feltri, direttore di Libero, su Twitter - 10 maggio)

“Non capirò mai”. “Silvia è tornata, bene, ma è stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai” (Alessandro Sallusti, “concetto” ripetuto anche su Twitter - 10 maggio)

Il lavaggio del cervello. “(...) Cari amici, non potremmo non gioire per il ritorno in Patria di una nostra connazionale (...) ma dovremmo gioire del fatto che Silvia Romano ha subito un lavaggio di cervello che l’ha persuasa a convertirsi all’islam, che sia stata costretta a sposare un terrorista islamico suo carceriere, che ora porti in grembo il figlio di un terrorista islamico? (...)” (Magdi Cristiano Allam, giornalista, saggista, ex eurodeputato, su Facebook - 10 maggio)

Scusi, lei è convertita? “Bentornata Silvia. Ma è tornata convertita da musulmana. Nulla in contrario. Ma quando è partita mi sembra che non lo fosse. Quindi convertita durante la prigionia. Vorremmo saperne qualcosa di più. Oltre a conoscere le modalità della liberazione e del suo costo. Mi sembra il minimo” (Paolo Romani, senatore di Forza Italia - 10 maggio)

Quella sua maglietta fina. “Fa effetto, anch’io ci sono rimasto a vederla scendere vestita così, Silvia Romano: la ricordavamo tutti in un altro modo, sorridente, i jeans, le camicette. Oggi la vediamo scendere coperta, ha rifiutato di cambiarsi, ha voluto mantenere questo abito, ed è scoppiata la polemica” (Massimo Giletti, conduttore di Non è l’Arena, La7 - 10 maggio)

Diccelo se sei fondamentalista. “Speriamo che Silvia segua la religione islamica della grande moschea di Roma, e non quella di viale Jenner a Milano, quella dei fondamentalisti. Perché se Silvia fosse una fondamentalista, la criticherei come tutti i fondamentalisti di ogni parte del mondo”; “Silvia Romano ci deve dire se ha scelto liberamente o no... ce lo dica! Perché forse ci è costata 4 milioni!” (Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, a Non è l’Arena, su La7 - 10 maggio)

Gratis non esiste. “Greta e Vanessa, una volta liberate dissero subito: Noi torneremo là. Credo che fosse il caso di pensarci un po’. È chiaro che nulla accade gratis, ma non è il momento di chiedere chi ha pagato cosa” (Matteo Salvini, leader leghista, a Mezz’ora in Più, su Rai 3 - 10 maggio)

Il profilo ufficiale della Lega, su Facebook e Twitter, con una lunga serie di post e link, per ribadire il medesimo concetto…

AGI - Silvia Romano: conversione a Islam e matrimonio mia libera scelta, no costrizioni =

SILVIA ROMANO: “CONVERTITA ALL’ISLAM LIBERAMENTE, NESSUNO MI HA COSTRETTA” (Repubblica.it)

Silvia Romano e la conversione all'Islam: “Una mia libera scelta” (Quotidiano.net)

Silvia Romano conferma: “Mi sono convertita all'islam, senza costrizioni” (IlGiornale.it)

Silvia Romano in Italia con il velo, si è convertita all'Islam: “È stata una mia scelta” (IlMessaggero.it) (Lega - Salvini premier - 10 maggio)

Quest’Italia fa schifo. “Il ministro Pd De Micheli esulta per la liberazione della volontaria Silvia Romano. Ricordo che l'Italia e Giggino Di Maio non hanno fatto nessun lavoro di intelligence, ma hanno semplicemente piegato la testa e pagato 4 milioni di euro per il suo riscatto, soldi che andranno a finanziare il terrorismo islamico. Mi fa schifo uno Stato che cede al ricatto soprattutto quando paga milioni di euro per chi irresponsabilmente va a cacciarsi nei guai in paesi esteri ad alto rischio” (Il consigliere provinciale della Lega a Spezia Alessandro Rosson, su Facebook - 10 maggio)

Beppe, manco gli aperitivi. “Beppe Sala dice d’aver seguito la vicenda di Silvia Romano con la Farnesina: tutta Italia sa che il sindaco di Milano non sa controllare nemmeno gli aperitivi sui Navigli, figuriamoci che ruolo può aver avuto in una vicenda così delicata e che ha coinvolto i nostri 007. Festeggiamo tutti insieme una splendida notizia: caro Sala, non c’è bisogno di spararla grossa anche questa volta pur di finire sui giornali” (Alessandro Morelli, deputato e responsabile Editoria della Lega - 10 maggio)

Io sono contento, ma...“Vogliamo che lo Stato metta lo stesso impegno e le stesse risorse per tutti quei nostri connazionali che ad oggi risultano ancora bloccati all’estero per l’emergenza Covid, che sono bloccati in altri continenti, e stanno chiedendo di essere rimpatriati” (Nota del senatore della Lega Roberto Calderoli - 10 maggio)

“Giuseppi” si fa bello. “Silvia liberata. Giuseppi si fa bello prima di avvertire il padre. Operazione dei servizi: la ragazza prigioniera di un gruppo estremista in Africa da un anno e mezzo tornerà oggi in Italia. Il premier esulta, il papà della giovane punge: Se lo dice lui sarà vero, ma non siamo informati”. (La Verità, 10 maggio)

Il tam tam. “Silvia Romano, tam tam su internet, il dettaglio che non è passato inosservato: 'È incinta?'. Le rotondità sospette e quelle carezze sulla pancia” (Liberoquotidiano.it - 10 maggio)

“Liberata Silvia Romano. Quanto hanno pagato?” “L’ombra di un riscatto versato dagli 007 a un gruppo vicino ad Al Qaeda. Ma con i soldi pubblici non si finanzia la jihad...” “(...) tra qualche tempo, magari, Silvia avrà voglia di raccontare la sua storia e commentare le voci che a settembre l’hanno data per convertita e obbligata al matrimonio con rito islamico” (Libero, prima pagina - 10 maggio)

Sui social, migliaia di commenti indignati. Ne segnaliamo alcuni particolarmente esemplificativi. Pino, testuale: “Quanto anno pagato?”; Ernesto: “How much money?”; Ornella: “Se le piaceva il caldo perché non lasciarla lì?”; Predip: “Non è mai stata rapita: si è divertita per un po’, è rimasta incinta e ha voluto tornare in Italia per farsi mantenere spacciandosi da vittima”; Rosa: “A differenza di noi italiani non mi sembra così deperita...”; Max: “Io l’avrei lasciata in Africa”; Rocco: “Riportiamola indietro e facciamole pagare tutti i costi dell’operazione”. Eddo: “Mi sembra in forma come i clandestini scappati dalle prigioni libiche”.

Bentornata in Italia, Aisha.

La gioia bipartisan per la liberazione della 24enne milanese è durata poco. Riscatto per la liberazione di Silvia Romano, polemiche e hater. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Maggio 2020. Sono bastati un paio di minuti. Solo qualche momento e sono partiti i primi commenti. “Chi è questa?”; “Quanto avranno pagato il riscatto?”; “Chi gliel’ha fatto fare?”. E via dicendo. Fino alle offese più dure. Caratterizzate da un sessismo nemmeno troppo velato. È che su Facebook ci sono dei gruppi senza misura e senza decenza. “Il Paese che odia”, come l’hanno più volte chiamato. Una realtà che non è solo virtuale: tocca ripeterlo ancora. E così, dopo gli annunci dei giornalisti emozionati in diretta, i canti ai balconi – che belli questa volta – di una Milano fiaccata dal coronavirus e la gioia bipartisan dei politici – nemmeno il Covid-19 li aveva uniti – ecco che è tornata a salire la bile del Paese. Silvia Romano nel primo pomeriggio atterrerà a Ciampino dopo 535 giorni di prigionia tra Kenya e Somalia. Solo lei potrà chiarire dettagli e misteri sul suo caso. Ieri la notizia della sua liberazione e del suo ritorno aveva unito ed emozionato un’Italia messa in ginocchio dalla pandemia. Quella magia sembra già finita. Ce lo aspettavamo, in fondo. A differenza di Enrico Mentana, decisamente più ottimista, che sui social si è stupito di come “malpancisti e odiatori di ogni ordine e grado invece sono spuntati fuori da ogni parte. Ve lo dico col cuore: fate schifo”. Evidentemente aveva dimenticato che oltre all’Italia che lavora che si dispera e che si innamora c’è anche un’Italia che odia. E che è capace di certe sparate come di chi della notizia è “contento ma lo sarei ancora di più se chi vuole andare in quei paesi a rischio girasse prima una liberatoria allo stato italiano che lo esonerasse dall’obbligo di salvataggio”; oppure di chi si lamenta di quei soldi, dei soldi del presunto riscatto, spesi “proprio adesso che avevamo bisogno” vista la crisi scatenata dal coronavirus; e di chi propone che tale somma sarebbe dovuta andare “ai pensionati italiani”. E poi, visto che si tratta di una ragazza, tutte le osservazioni e congetture di tipo sessuale. Roba da vomitare. Un evergreen, un film già visto. Che non merita attenzioni, ci ripetiamo in ogni caso e anche ieri. Salvo che poi simili argomentazioni finiscano in prima pagina. Con chi si chiede quanto sia costato il riscatto e chi anticipa la cifra di 4 milioni di euro. E quindi, dal commentatore anonimo chiuso nella sua stanzetta alla sola luce dello smart-phone fino alla colta penna dell’editorialista secondo il quale Romano avrebbe fatto meglio a saziare la sua fame di volontariato in qualche Caritas italiana, tutto si tiene. In qualche modo si giustifica, si legittima. Probabilmente ci sarà da dedicare più di una riflessione alle modalità di scelta delle destinazioni delle attività di volontariato. Ma che l'”aiutiamoli a casa loro” sia solo uno slogan retorico, anzi truffaldino, è fuor di discussione. Un altro velo toccherà stenderlo sulla retorica sardiniana – che gaffe, da parte di quelli che “non esistono”, nel montare il proprio simbolo, come il Partito Democratico, sulla notizia condivisa sui social – del bene che trionfa sul male. Silvia Romano non è (o almeno non è la sola) “parte migliore del paese”, non facciamone necessariamente un simbolo, un’eroina. Silvia Romano ha compiuto 24 anni in prigionia del gruppo terroristico jihadista Al Shaabab e oggi torna a casa. E questa è l’unica cosa che conta, senza retorica. Le sue prime parole dopo la liberazione: “Sono stata forte e ho resistito”. Sicuramente riuscirà quindi a resistere anche a certi commenti, a certi editoriali, a certe speculazioni. E sarà difficile non emozionarsi vedendola scendere le scalette dell’aero. Nel frattempo, la riposta del rapper Fankie Hi-nrg, a chi chiedeva del prezzo del riscatto, è diventata la più citata sui social: “Meno della tua istruzione ma certamente meglio spesi”. Poco altro da aggiungere.

Silvia Romano, le prime pagine di Libero e Il Giornale: è polemica. Antonino Paviglianiti l'11/05/2020 su Notizie.it. La liberazione di Silvia Romano fa discutere anche in virtù delle prime pagine di Libero Quotidiano e Il Giornale. È polemica per i titoli. Continua a far discutere la liberazione di Silvia Romano, la cooperante italiana liberata dopo 18 mesi di prigionia. Nella rassegna stampa di lunedì 11 maggio a risaltare all’occhio sono senza dubbio le prime pagine di Libero Quotidiano e Il Giornale, rispettivamente diretti da Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti. I due quotidiani hanno aperto le proprie edizioni cartacee dando risalto alla notizia della liberazione di Silvia Romano, ma con un tono fortemente polemico. A far discutere infatti è il riscatto pagato dal Governo italiano per poter liberare la giovane cooperante. Inoltre, a Libero e Il Giornale pare non esser andata a genio la scelta di Silvia Romano di convertirsi alla religione islamica. E sia Sallusti che Feltri, con messaggi Twitter, avevano fatto capire il proprio dissenso già nel pomeriggio di domenica 10 maggio. La liberazione di Silvia Romano, dunque, ha posto per qualche ora in secondo piano la pandemia da Coronavirus. Ed è per questo che sia Libero che Il Giornale hanno scelto dei titoli provocatori e che stanno facendo ampiamente discutere sia i social network che i professionisti del settore mediatico. Ma quali sono questi titoli tanto chiacchierati? Il quotidiano diretto dalla coppia Feltri – Senaldi apre la propria edizione cartacea così: “Abbiamo liberato un’islamica”. Molto simile è anche il titolo de ‘Il Giornale’ di Sallusti: “Islamica e felice Silvia l’ingrata”. Insomma, le prime pagine dei quotidiani non fanno altro che ribadire la presa di posizione dei due direttori. Vittorio Feltri, infatti, su Twitter ha commentato così la liberazione di Silvia Romano: “Pagare il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione” e “A me se una si converte all’Islam non mi importa niente ma non mi va neanche di applaudirla. Mi secca un poco se per riportarla in Italia lo Stato spende qualche milione degli italiani”. Alessandro Sallusti invece ha cinguettato: “Silvia è tornata, bene ma è stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”. Vittorio Feltri, nella giornata di lunedì 11 maggio, ha ribadito nuovamente la propria posizione sulla liberazione di Silvia Romano e sul presunto riscatto pagato dal Governo per liberare la giovane italiana. “Siamo tutti contenti della liberazione di Silvia Romano. Lo saremmo di più se ci dicessero quanto si è dovuto pagare di riscatto”, scrive Feltri in un primo tweet. Il direttore di Libero, in un secondo momento, aggiunge: “Pagare per il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione”. Infine, terzo e ultimo cinguettio: “A me se una si converte all’Islam non mi importa niente, ma non mi va neanche di applaudirla. Mi secca un poco se per riportarla in Italia lo Stato spende qualche milione degli italiani”.

Era davvero necessario rivelare i dettagli dell’interrogatorio a Silvia Romano? Natale Cassano l'11/05/2020 su Notizie.it. Il compito dei giornali è quello di riportare le notizie che vengono diffuse. Ma le fonti hanno valutato i rischi di divulgare i dettagli dell'interrogatorio a Silvia Romano? Ci sono eventi che inevitabilmente trasformano le piazze social in stadi dell’opinione pubblica, dove le rispettive tifoserie si urlano addosso la propria superiorità. Dopo mesi in cui il Coronavirus è stato protagonista assoluto ovunque, il ritorno di Silvia Romano ha rappresentato un evento di rottura rispetto alla monotematicità dei dibattiti delle ultime settimane. “Un fulmine a ciel sereno” si è soliti dire; anche se in questo caso penso sia più corretto parlare di un raggio di sole nel buio della notte, perché quando una figlia del Belpaese torna a casa, è sempre una notizia positiva. E, così, in poche ore in molti si sono trasformati da esperti virologi a esperti di cooperazione internazionale, e l’odio espresso sui social conferma come ancora una volta non siamo capaci di provare empatia per niente che non corrisponde all’idea che ci siamo creati in testa. Poco importa che Silvia abbia passato nell’anno e mezzo di prigionia, lontano dagli affetti, in una realtà estranea: è vestita di verde (il colore dell’Islam) e si è convertita alla religione dei suoi rapitori, quindi è automaticamente da associare al nemico. La colpa di questa narrazione del disagio non è solo di chi cerca uno spazio di sfogo dei suoi istinti primitivi, protetto dalla rassicurante barriera digitale di uno schermo. Ma anche di chi dà in pasto a un popolo affamato i particolari di una vicenda dai toni grotteschi. Basta aprire le pagine dei principali quotidiani italiani per accorgersene: l’interrogatorio di Silvia Romano davanti agli inquirenti, con i dettagli di quei 18 mesi in cui il suo mondo è stato stravolto, è riportato in decine di articoli, sviscerando ai minimi termini i pezzi che serviranno alla Procura a ricostruire quanto avvenuto durante la prigionia. Il compito di giornali e giornalisti è quello di procacciare le notizie e diffonderle, e qui si parla di un argomento di interesse nazionale. Quella su cui bisogna riflettere, invece, è la tempistica dell’azione, chiedendo alle “fonti” se davvero valesse la pena far fuoriuscire dalla stanza degli interrogatori le suggestioni di quell’anno e mezzo di dolore. Perché alla fine il dibattito su quei particolari è iniziato quando qualcuno ha violato il segreto d’ufficio e di certo non si tratta della stampa. È stato così permesso che divenissero pubblici dettagli che sarebbero dovuti rimanere, ancora di più in questo momento delicato, nei verbali degli inquirenti, per poi essere diffusi quando il clima d’odio attorno a Silvia si fosse rarefatto. Invece basta acquistare un quotidiano per dare fondo alla nostra volontà voyeuristica, per avere un report diretto di quanto sia stata trattata bene dai suoi carcerieri, persino di cosa aveva mangiato durante la prigionia, oltre al dettaglio del Corano ricevuto dopo la richiesta di un libro per passare il tempo, aspetto che sarebbe centrale, a suo dire, nel processo di conversione all’Islam. Se in qualche modo Silvia sia stata plagiata per abbracciare questo cambiamento radicale nella sua vita, saranno gli psicologi a dirlo. Quel che la vicenda Romano ci deve insegnare è però che le informazioni hanno un peso e possono diventare pericolose; chi ogni giorno con esse ci lavora lo sa bene. E il cortocircuito è proprio qui: quel filo (diretto o indiretto che sia) tra inquirenti e media che in qualche caso andrebbe spezzato. Almeno per salvaguardare la dignità di una ragazza, che tale rimane e che sicuramente non merita il vomito d’odio che ben prima del suo ritorno in Italia le abbiamo riservato. Persone che non riescono a guardare oltre il velo verde con cui è apparsa davanti al premier Conte. Se lo facessero, forse si accorgerebbero che dietro c’è una persona, con i suoi pregi e i suoi difetti, che potrebbe essere la figlia di tanti dei suoi haters. Facciamoci tutti un esame di coscienza: magistrati, giornalisti e commentatori; quali cicatrici lascerà questa vicenda in Silvia dipende anche un po’ da noi. 

Il Coronavirus non ci ha resi migliori, l’odio per Silvia Romano lo dimostra. Giuseppe Gaetano l'11/05/2020 su Notizie.it. Mentre va in scena la rappresentazione mediatica della fraternità di un popolo che nei momenti difficili Covid ritrova la sua coesione, scorrono i titoli di coda di ogni senso dell'umanità. Ignoranza, disperazione, noia. Ma anche disprezzo per la vita umana e cattiveria pura. C’è un miscuglio micidiale dietro l’odio vomitato sui social contro Silvia Romano. La campagna di denigrazione gratuita è cominciata ancor prima ancora che la giovane cooperante milanese posasse piede a Ciampino, dopo un anno e mezzo nelle mani di terroristi senza scrupoli, con la richiesta della cifra sborsata per il suo riscatto, come se fosse stato tolto un euro dal loro conto. Gli stessi professionisti dell’odio, dell’insulto e del qualunquismo le hanno poi rimproverato che in fondo se la sia cercata, andando a spendere il proprio tempo nelle zone del pianeta dove risiedono gli ultimi del mondo. Infine hanno contestato anche la scelta di una conversione religiosa. Il tutto comodamente spaparanzati sul divano, con lo smartphone in mano, senza sapere nulla di come sia effettivamente trascorsa la sua prigionia, né conoscere la sua storia personale, la sua formazione, i suoi ideali, dove abbia tratto il conforto e il coraggio di guardare avanti, di continuare a vivere e a sperare in 18 interminabili mesi di sequestro. Una ragazza di 23 anni che anziché andarsi a fare lo spritz sui Navigli o passare le giornate a chattare con lo sguardo incollato sul cellulare ha deciso di dedicare ai più deboli, ai bambini orfani, la propria energia, la propria passione, la propria vita. Un gesto volontario, spontaneo, disinteressato, nobile da qualunque punto di vista politico, sociale o religioso lo si voglia inquadrare. E invece, mentre in questi giorni va in scena la rappresentazione mediatica della fraternità di un popolo che nei momenti difficili come l’emergenza Covid ritrova la sua coesione, mentre va in onda la sceneggiata dell’Italia unita che resiste, campione di solidarietà e altruismo; contemporaneamente, dall’altra parte, scorrono i titoli di coda di ogni senso dell’umanità, va in scena lo scempio di ogni vetta culturale toccata da un paese che tanti leoni da tastiera sostengono pure di amare, va online la disgregazione sociale, il rancore senza direzione, che ha bisogno sempre di nuovi obiettivi da attaccare, di nuove figure da divorare – che siano i cinesi mangia topi o le “risorse” della Boldrini – di nuove vittime sacrificali sull’altare dell’analfabetismo etico e morale. Utenti gonfi di quella presunzione che in Rete rende tutti economisti, virologi e ora anche 007, che discettano sull’entità dell’importo e sulla fine che faranno quei soldi eventualmente versati, mentre vivono nel paese leader nella corruzione e nell’evasione fiscale, dove si architettano truffe senza scrupoli pure sulle mascherine. Probabilmente non si rendono neanche conto del becero cinismo, dell’indifferenza verso il prossimo che trasudano i loro commenti, dell’abiura di ogni valore che avrebbe dovuto esser introiettato dall’educazione familiare e dall’istruzione scolastica. È scioccante l’assenza di ogni minima capacità empatica di immedesimazione nell’angoscia dei familiari di Silvia, sfoggiata con leggerezza e senza vergogna da parte di persone che sono a loro volta madri, padri, figli: gli stessi dello slogan “aiutiamoli a casa loro”, e che magari riparano l’orco che nutrono in petto dietro foto di gattini e cagnolini, camuffandolo sotto invocazioni a santi e preghiere a Dio. Prigionieri, loro sì, del loro cinismo e della loro meschinità accattona. Viene da chiedersi sul serio in che razza di paese abitiamo, in mezzo a chi muoviamo i nostri passi, chi è che ci circonda. Un’assolutezza di giudizio sull’altrui libertà di scelta e una lapidarietà nella condanna del diritto di ogni essere umano all’autorealizzazione, che non sono diversi da quelli degli assassini, dei boss mafiosi, dei nazisti. Nella scena finale di Schindler’s List il protagonista si dispera per essersi dimenticato di vendere agli aguzzini un ultimo anello rimastogli al dito: avrebbe significato un’altra vita umana salvata. Qualunque cifra sia stata pagata, la vita umana non ha prezzo. E chi salva un solo uomo, come recita un testo sacro citato in quel film, salva il mondo intero. L’unica cosa che deve interessarci è che Silvia stia bene, non abbia subito violenze e sia stata riconsegnata agli affetti da cui era stata strappata. Dobbiamo essere solo felici della capacità della nostra intelligence nel riportare a casa i nostri connazionali perché anche a noi, un giorno, potrebbe capitare la sventura ro di essere rapiti, magari in un luogo di villeggiatura in Africa, o di essere incarcerati ingiustamente all’estero.

Fu nel 2004, ai tempi della liberazione di Simona Torretta e Simona Parri in Iraq, che cominciò la moda di sputare veleno sui cooperanti comodamente da casa propria. Stavolta però si sono superati i limiti del disumano. Commenti ignobili, irripetibili anche per dovere di cronaca, con bieche e pesanti allusioni sessuali alla lunga detenzione e ai presunti matrimoni, messi nero su bianco anche da molte donne, nel giorno della festa della mamma, e che a nessuno con un minimo di dignità verrebbe in mente anche solo di pensare. Solo la consapevolezza della gioia ritrovata in quella casa, dopo 18 mesi in cui si era persa la speranza, dovrebbe illuminarci gli occhi. Cosa penserà questa ragazza e i genitori, gli amici, i parenti, mentre leggeranno i rigurgiti pseudo sovranisti di chi confonde un patologico concetto di amor patrio e bene nazionale con i suoi più bassi istinti e la rabbia verso chi è migliore di lui? Come si saranno spiegati tanto livore ingiustificato? Dovranno vivere nella paura di uscire di casa per scoprire scritte ingiuriose sui muri, o temere un agguato instrada da parte di qualche fanatico della propria follia? Liberata dai carcerieri in Somalia, Silvia si è ritrovata nella sua patria esposta come un bersaglio di post e meme sessisti, ridotta a un punching ball contro cui sfogare i torti che alcuni utenti credono di aver subito. Qual è, alla fine, il paese più civile?

Come sono diventati distanti i social network dall’uso originario per cui furono concepiti: uno spazio pubblico di condivisione adoperato come trogolo in cui riversare la propria bile, costringendo gli altri ad assistere all’osceno spettacolo e a vergognarsi al posto loro. Costoro non sono degni della libertà che non gli è mai stata tolta di comunicare, gestendola come un primitivo brandisce una clava. Per costoro ci vorrebbe il bando dalla vita civile oltre alla galera, come prevedrebbe la legge Mancino che punisce con il carcere fino a 4 anni il reato di istigazione all’odio via internet. Non sono diversi da certi comizianti, demagoghi, da certi “populisti” in mutande e canottiera, a caccia di facili casse di risonanza per il loro ego ipertrofico, che sazino la malata brama di protagonismo e attenzione. Non è possibile che la maggioranza dei cittadini debba scontare questa sciagura nazionale incarnata dagli strepiti criminali e omicidi di soggetti pericolosi per le istituzioni democratiche, miserabili caricature da varietà satirico. Che “alla fine saremo migliori”, come recita un altro dei molti slogan da copywriter confezionati in questi mesi, resta al momento una mera utopia. 

Quaranten(n)a, Se Silvia libera tutti (hata vitunguu). Valerio Giacoia il 12 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Cercare, e poi assistere, prendersi cura. Non è andarsela a cercare, come troppi insolenti avevano sindacato, seguitando ancor oggi, col quel gusto perverso, cinico, somaro quando la protagonista di una barbarie è donna. Silvia se li è andati a cercare, sì, i bambini più poveri della Terra. Rivoluzionaria, non smaniosa d’altruismo. E la rivoluzione è andare al fronte per salvare fosse anche uno soltanto, perché il sangue pazzo adda uscì come si sussurrava nelle case antiche quando i rivoluzionari un ultimo bacio e sbattevano la porta senza sapere se avrebbero mai fatto ritorno. Pazzi, visionari, dissennati, ma per passione e sentimento. Altro che smanie che si sarebbero potute soddisfare in una mensa Caritas sotto casa, come imbrattano in prima pagina i bamboccioni sopravvalutati che ruotano attorno al marcio teatrino del giornalismo-star (giornalismo?) italiano, con tutta la sua smania, quella sì, di noiosissima provocazione. Anche Giulio Regeni se l’era andata a cercare? Peccato però che la verità sul suo assassinio non verrà fuori dai circensi di poltroncine e telecamere, né dalle zone grigie egiziane e delle ambasciate italiane dormienti, che resistono e tramano contro. Ma chissà, proprio in qualche misura grazie alla spinta emotiva che ha scatenato la liberazione di Silvia. E potrebbe essere anche vero che stavolta andrà tutto bene per Patrick George Zaki, come la street artist romana Laika ha fatto dire a Giulio nel murales (poi rimosso) accanto all’ambasciata d’Egitto a Roma nell’atto di abbracciare lo studente e attivista egiziano che a Bologna seguiva un master sugli studi di genere e arrestato il 7 febbraio scorso al suo arrivo al Cairo, dove era atterrato per una breve vacanza che si è tramutata in un incubo tra omissioni e torture. Un altro che se la cercava? No, giovani col cuore da combattenti appassionati, consapevoli, su un fronte invisibile e addirittura deriso dalle logiche perverse del mondo: la conoscenza, e quindi la cura. E’ vero che sta accanto a noi chi soffre, ma occorrerà pure che qualcuno si inzuppi le mani di sangue tra le ferite sanguinanti degli inferni del mondo. Silvia Romano non era, non è una sprovveduta ragazzina. Non una buonista e cialtrona, come una triviale propaganda ha cercato di far passare, come se bontà d’animo e slancio all’azione fossero poi macchie, non virtù. I bambini orfani del villaggio di Chakama, nel Kenya, a una ottantina di chilometri dalla Malindi, la Malindi dei pieghevoli d’agenzia per ricchi, dei compratori di sesso, o degli italiani invasori barbarici alla Briatore, al domani non pensano mai. Non sanno se ci sarà. Molti adulti non hanno indossato una sola volta un paio di scarpe, ma con garbo attraversano la poca vita su quei cammini polverosi di terra rossa. E’ un villaggio tra i più poveri al mondo, forse il più povero. Sta al di là del fiume Galana, e ci si arriva dopo aver attraversato la savana punteggiata di baobab col cuore in gola, sapendo bene a che cosa si va incontro. Silvia lo sapeva, non era andata alla fine degli inferi per filantropia da quattro soldi di cui pure sono pieni la Storia e il pianeta. E il grande guaio è che nessuno si è più occupato di questi piccoli da quel 20 novembre del 2018. Tutto a Chakama si è fermato, come nelle corti dei castelli di una fiaba spaventosa: pietrificati i bambini, gli aiuti, la notte, il giorno. Era un villaggio all’inferno, e all’inferno è stato rimandato. Silvia ci era arrivata per cercare, assistere, consolare. Si pensi a quali sacrifici abbia dovuto sopportare in 18 mesi di prigionia, con un tempo che dentro si dilata, è infinito, si pensi alla forza che ha avuto. Adesso, certo, è anche il tempo dei pruriti sulla conversione all’Islam. Come se fosse questo il nodo centrale del dramma e non quei suoi tanti lati oscuri, che forse tali resteranno; dai tempi, al “no” secco di Roma dopo la richiesta di riscatto ad appena venti giorni dal sequestro, al ruolo dell’intelligence italiana. E se pure fosse, non si riesce a riflettere per esempio sul fatto che una donna in mano a bande di sconosciuti armati possa aver dichiarato sì a Maometto per alleviare la sua condizione? E secondo, dove si poggia lo scandalo nella eventualità di una conversione volontaria e meditata (ovvio, non all’Islam dei jihadaisti somali di al-Shabab)? Chi scrive ha incontrato e diviso il pane in giro per il mondo con moltissimi veri musulmani, non secondi a nessuno in quanto a fede e spiritualità. Nella Grande Moschea degli Omayyadi, a Damasco, si prega in ginocchio davanti alla tomba di San Giovanni Battista, dove la tradizione vuole che sia conservata la testa che Erode gli fece mozzare su istigazione di Erodiade. Musulmani che venerano un santo cristiano, l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. Per non dire dei due minareti più alti di quel tempio, dedicati uno a Gesù e l’altro Maria: non suoni come un sacrilegio, perché è verità. E la verità non sta nelle fonti ufficiali, né tra gli odiatori di professione spalleggiati da certa stampa da spazzatura indifferenziata. È come l’amore la verità, e chi ama, parte. Il suo amato se lo va a cercare. Silvia ha cercato quei bambini, i bambini più poveri della Terra, non se l’è andata a cercare facendo le acrobazie su una ruota impennando col motorino. Così ha il profumo della grazia la sua liberazione. Ci ha fatto bene. Avevamo bisogno di questo aroma come d’olio di nardo in mezzo alla tempesta costretta e introversa dei nostri condomini e delle nostre vite per strade semivuote, tra le file, a occhi bassi. Silvia, senza cognome, perché una di famiglia. Siamo stati tutti un poco madri, padri, sorelle, suoi fratelli in questi quasi due anni, e sebbene non se ne parlasse più (opportunamente) tutti abbiamo pensato al suo sorriso e sperato tacendo. Torna a casa di ciascuno, e libera ciascuno un po’ perché ci fa dono proprio adesso d’una improvvisa emozione che ci guarisce, anche immaginando le sue di sopportazioni rispetto ai due mesi di nostra piccola clausura. Silvia che è libera, forse libera tutti. Hata vitunguu. È swahili, la lingua che si parla nel Kenya e in Somalia. Idioti compresi, significa.

Dall’account facebook di Michela Murgia il 12 maggio 2020. 

"Ci è costata troppo e quei soldi finanziano i terroristi." Nel 2018 - secondo i dati forniti dalla Camera dei Deputati - l'Italia ha venduto nel mondo armi per 4,6 miliardi di euro e molte delle aziende che le producono sono a partecipazione statale. Il primo acquirente delle armi italiane è il Qatar. In ordine di spesa seguono il Pakistan, la Turchia, gli Emirati Arabi, la Germania, gli USA, la Francia, la Spagna, il Regno Unito e l'Egitto. Cosa significa? Che metà dei paesi a cui vendiamo le armi non sono democrazie, hanno conflitti in corso e finanziano gruppi estremisti fondamentalisti. Un paese che guadagna 4,6 miliardi di euro in un anno vendendo armi a governi che armano e finanziano il terrorismo può senz'altro permettersi di pagarne 4 milioni per la vita di una cittadina italiana che per di più faceva la cooperante di pace, non la fuciliera o la mercenaria di qualche esercito privato a protezione degli interessi economici italiani negli stati a rischio. Se il problema per cui stanno insultando Silvia Romano è la conversione all'Islam, perché questa gente non se lo mette mai quando facciamo affari con le peggiori teocrazie islamiche del Golfo?

"Poteva aiutare i poveri qui, se aveva tanta voglia di fare volontariato!" Nel momento peggiore dell'emergenza covid sono arrivate in italia - specificamente in Lombardia - 600 persone tra medici, personale infermieristico e volontari esperti. Venivano da Cina, Russia, Usa, Polonia, Albania, Norvegia, Ucraina e Cuba. Non ho sentito alcun italiano dire "Ma questi non ce li hanno i malati a casa loro da curare?" Li abbiamo invece accolti con gioia e gratitudine, la stessa che ricevono i cooperatori italiani in giro per il mondo quando vanno a portare aiuto. Credo si chiami "Aiutiamoli a casa loro". Quando era ministro, Matteo Salvini in nome degli affari non è riuscito nemmeno a ottenere giustizia per un italiano morto, lo studente Giulio Regeni. Oggi si permette di giudicare un governo che ha riportato a casa un'italiana viva.

"E' venuta col velo in testa, segno di una cultura che sottomette la donna e non le permette di vestirsi come vuole". hanno scritto gli stessi giornali che criticarono Carola Rackete perché andò a deporre in questura in maglietta senza il reggiseno, gli stessi che se vai in giro con la minigonna e ti stuprano te la sei cercata, gli stessi che Giovanna Botteri "potrebbe anche cambiarsi d'abito per andare in video, ogni tanto". Per queste persone la libertà delle donne di vestirsi come pare a loro è sempre giudicabile, di solito a seconda della simpatia politica. L'unica misura della libertà di Aicha Romano è il suo sorriso, non il suo vestito, e l'unica preoccupazione che ieri avrebbe dovuto sfiorarci a suo riguardo è il fatto che per testimoniarci la sua liberazione si siano assembrati in 150 tra giornalisti, politici e poliziotti, rischiando - dopo una giornata di cattiverie e stupidaggini - di contagiarle pure il covid. Le manca solo quello.

I senzavergogna di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 12 Maggio 2020: Era un bel po’ che non ci vergognavamo di essere italiani per colpa di nostri connazionali, a parte qualche politico senza vergogna che ci fa vergognare in permanenza da quando è nato. Ieri, a leggere dichiarazioni leghiste e deliri social di conigli da tastiera sulla liberazione di Silvia Romano, la vergogna è tornata. Perché c’è chi è riuscito a sporcare una notizia che tutti avrebbero dovuto salutare con gioia e anche con un pizzico di orgoglio nazionale. Se la nostra cooperante si è convertita all’Islam sono fatti suoi. Se l’ha fatto per costrizione, se non fisica, almeno psicologica, oppure per una scelta “autoprotettiva” come dice il primo referto psicologico, sono ancora fatti suoi. Se resterà per sempre Aisha o un giorno tornerà Silvia sono sempre fatti suoi. Nessuno ha il diritto di intrufolarsi nella sua psiche: per farlo bisognerebbe aver vissuto un anno a mezzo in mezzo alla foresta nelle grinfie di feroci terroristi. Chi non ha subìto quell'atroce esperienza, cioè tutti, dovrebbe solo tacere. Poi c’è la questione del riscatto, probabilmente pagato dai nostri servizi segreti con fondi riservati (che servono anche a questo) dietro autorizzazione del delegato del governo agli 007: il premier Conte. Su questo ogni opinione è legittima, anche se il dibattito si ripropone sempre uguale dai tempi dei sequestri anni 70 e 80 a opera dei terroristi rossi e delle Anonime calabrese e sarda e di nuovo dopo il 2001, quando ci imbarcammo con Usa e altri alleati nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. Ai tempi del terrorismo, lo Stato decise quasi sempre di “pagare”, fuorché per Aldo Moro (ma, quando fu ucciso, il presidente Leone era pronto a liberare una brigatista malata e il Vaticano a versare una grossa somma). E proprio il contraccolpo del suo cadavere segnò l’inizio della fine delle Br. Nel caso delle Anonime Sequestri, erano i famigliari, spesso aiutati da servizi e faccendieri vari, a pagare i riscatti. Poi la legge sul sequestro dei beni e la linea dura di certe Procure, come quella di Palermo in Sardegna (dov’era coinvolto un pm, che poi si suicidò), resero improduttiva quell’attività criminale, che si esaurì. Poi iniziarono i sequestri di nostri contractor, giornalisti e cooperanti in Iraq e Afghanistan e anche allora i nostri governi (il Berlusconi-2 con FI-Lega-An-Udc e il sottosegretario Gianni Letta delegato ai servizi, e poi anche il Prodi-2) decisero di pagare sempre i riscatti. Ma non sempre riuscirono a salvare la vita agli italiani rapiti (il reporter Baldoni e il contractor Quattrocchi furono uccisi, altri come i giornalisti Sgrena e Mastrogiacomo tornarono illesi). La cosa creò furibonde frizioni con gli alleati americani e inglesi, che invece non pagavano riscatti e sacrificavano i propri ostaggi (ci andò di mezzo il dirigente del Sismi Nicola Calipari, ucciso dal fuoco “amico” made in Usa dopo il riscatto per la Sgrena). Quando a pagare i riscatti era il centrodestra, per non discutere la scelta incoerente e paradossale di B.&C. di entrare in guerra contro il terrorismo e poi di foraggiare i terroristi che si diceva di combattere mettendo vieppiù in pericolo i nostri uomini sul campo, i partiti e i giornali di destra riempivano di insulti gli ostaggi (a parte i contractor) perché “se l’erano cercata”, erano “vispe terese” (le due Simona) e “pirlacchioni in vacanza” (Baldoni). Ora il caso di Silvia Romano, come quelli degli altri ostaggi sequestrati in guerre per bande che non ci riguardano, è totalmente diverso sia da quelli dell’Iraq e dell’Afghanistan, sia da quelli del brigatismo e delle Anonime. Stavolta le ragioni umanitarie non confliggono con gli interessi nazionali. I terroristi islamisti somali di al-Shabaab, impegnati nell’eterna guerra civile del Corno d’Africa, sequestrano occidentali per legittimarsi e arricchirsi, ma non sono una minaccia diretta per l’Italia, come invece lo erano le Br che avevano dichiarato guerra allo Stato, le Anonime Sequestri che esistevano proprio grazie ai riscatti pagati e anche gli islamisti di al Qaeda e delle altre sigle mediorientali che avevano esportato in Occidente la loro folle guerra santa. Dunque pagare un riscatto, come peraltro sempre si è fatto anche nei confronti di nemici diretti e dichiarati, era doveroso. Ma su questo le opposizioni, se non avessero fatto lo stesso in circostanze molto diverse, sarebbero libere di polemizzare quanto vogliono. Anche di accusare Conte di non aver condannato a morte una ragazza di 20 anni. Purché non mentano. Le polemiche sul ruolo della Turchia, che ha aiutato nelle indagini l’Aise con i suoi servizi molto presenti in Somalia, fanno ridere, visto che è nostra alleata nella Nato. E quelle sulla “passerella” di Conte e Di Maio denotano un tragicomico crollo della memoria. Il 5 marzo 2005, quando a Ciampino atterrò la Sgrena, trovò ad attenderla una delegazione politica ben più pletorica del duo Conte-Di Maio domenica accanto a Silvia: c’erano Berlusconi, Letta, il presidente della Camera Casini, il sindaco Veltroni, il segretario del Quirinale Gifuni e il direttore del Sismi Pollari. Mancava solo Salvini, che si rifece con gl’interessi all’arrivo di Cesare Battisti. E ora chiede “sobrietà” agli altri. Ma va a ciapà i ratt. 

"Il riscatto di Silvia: tocca arrestare Sgarbi e Sallusti". Daniele Luttazzi sul Fatto Quotidiano del 12 Maggio 2020. Silvia Romano è stata liberata, e da destra sono subito arrivate le “felicitazioni, ma”. Maria Giovanna Maglie è trasecolata per via dell’abito tradizionale somalo indossato da Silvia, come se Silvia fosse una corrispondente Rai all’estero che poteva fare shopping compulsivo gonfiando la nota spese. Vittorio Feltri l’ha buttata sui soldi del riscatto, perché in questo modo lo Stato ha finanziato i terroristi. Ma se oggi Aldo Moro è vivo, è perché lo Stato pagò il riscatto. Scusate, esempio sbagliato. Ha ragione Feltri: non finanziando i terroristi di destra, lo Stato impedì le stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus e stazione di Bologna. Scusate, altro esempio sbagliato. Insomma, quanti soldi sono? 53 milioni? Ah no, quelli sono i soldi pubblici presi da Libero dal 2003 al 2017. 49 milioni? Ah, no, quelli deve restituirceli la Lega. 21 milioni? Ah no, quelli sono i soldi buttati dalla Regione Lombardia per l’inutile ospedale alla Fiera. Insomma, quanti? 4 milioni. Siamo 60 milioni di italiani, quindi 0,06 euro a testa. Vittorio, stacce. Per dirottare l’attenzione su di sé (ne era in astinenza, dato che tutti stavano parlando di Silvia e non di lui), Sgarbi ha proposto che Silvia venga arrestata perché complice dei terroristi, visto che si è convertita all’Islam. Ma l’equazione Islam = al Qaeda è islamofobia; ed è grazie all’islamofobia che al Qaeda fa proseliti. Ovvero, Sgarbi sta facendo il gioco dei terroristi: arrestiamo anche lui? Lo stilista Sallusti, buttandola sul vestito come la Maglie (“È stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”), non capisce neppure che sta facendo la stessa equazione di Sgarbi (Islam = al Qaeda), che fa il gioco dei terroristi. Arrestiamo pure Sallusti, Vittorio? Alessandro Meluzzi, psichiatra, sminuisce la conversione religiosa di Silvia parlando di “sindrome di Stoccolma”. Ma Meluzzi, che in gioventù ha militato nel Pci, poi nel Psi, poi è diventato parlamentare di Forza Italia, poi è entrato nell’Udr di Cossiga, poi in Rinnovamento Italiano, poi nei Verdi, poi ha fondato i Cristiano Democratici Europei aderendo all’Udeur di Mastella, infine è approdato a Fratelli d’Italia, ma ammira Putin, è stato massone e console onorario del Paraguay, s’è convertito al cristianesimo, è stato diacono cattolico di rito greco-melchita, poi presbitero della Chiesa ortodossa italiana autocefala, poi primate, metropolita e arcivescovo di tale Chiesa con il nome di Alessandro I, e quando va in tv tuona contro l’aborto, il matrimonio omosessuale e l’eutanasia, sostenendo pure che “certi pedofili non commettono reato e nemmeno peccato”, e che Bergoglio è promotore del piano Kalergi (sostituire gli europei con africani e asiatici); Meluzzi, dicevo, di che sindrome soffrirà?Tuttolibri. Titolo: “Cara sinistra, smetti di deprimerti: per il capitalismo c’è un’alternativa”. Incipit: “Tre anni fa, a 49 anni, si ammazzava Mark Fisher, critico culturale, insegnante, teorico, attivista”. Cronache dalla Fase 2. Mi sembra che la mia ragazza me lo succhi con più gusto, da quando le ho detto in quali culi famosi l’ho infilato.

Salvini sul riscatto per liberare Silvia Romano: “Nulla accade gratis”. Redazione su Il Riformista il 10 Maggio 2020. “In tutti questi casi nulla accade gratis ma ora non è il momento di chiedere chi ha fatto o ha pagato cosa“. Matteo Salvini è ospite della trasmissione Mezz’ora in più su RaiTre e, proprio mentre la 24enne cooperante milanese Silvia Romano, sequestrata per 18 mesi in Africa, tra Somalia e Kenya, rientra in Italia atterrando a Ciampino, il leader leghista dice la sua sul caso. Salvini ha fatto riferimento alle due cooperanti rapite in Siria nel 2014 e liberate nel 2015. “Greta e Vanessa, una volta liberate dissero subito: "noi torneremo là"…Credo che fosse il caso di pensarci un po’…”. E ancora: “Io ho visto come lavorano le nostre forze dell’ordine – ha continuato Salvini – e porto enorme rispetto verso chi corre rischi, penso all’agente Apicella. Prima di fare cose che mettono a rischio la vita di donne e uomini delle forze dell’ordine, in Italia e all’estero, pensarci cento volte“. Pasquale Apicella, agente di polizia di 37 anni, è morto lo scorso 27 aprile nel tentativo di fermare una rapina a Napoli. “Auguro una lunga e serena vita a questa ragazza ma ribadisco che per rispetto di coloro che rischiano la vita per salvare le altre vite, prima di dire la prima cosa che farò sarà tornare in un luogo a rischio, ci penserei due volte”, ha chiosato Salvini.

DAGONOTA il 10 maggio 2020. - La questione ''si tratta coi rapitori/terroristi?'' esiste dal Ratto delle Sabine e dunque abbastanza noiosa. Ogni situazione è diversa, ogni famiglia vuole che sia fatto di tutto per salvare i propri cari, ogni governo ha l'interesse ad apparire generoso e attento verso i propri cittadini. Oggi sui social si riproduce la solita frattura tra cattivisti e anime belle, ma qualche punto fermo si può trovare. L'Italia, a differenza di altri paesi del blocco Nato, è famosa nel mondo per essere un paese che paga riscatti. Lo ha fatto (o tentato) quasi sempre negli ultimi 30 anni, dunque non si può dire che il governo Conte abbia fatto meglio o peggio dei precedenti. Federico Fubini del Corriere della Sera solleva delle questioni importanti, che vanno oltre Silvia Romano e riguardano la gestione dei cooperanti italiani all'estero, in particolare in zone pericolose di Africa e Medioriente. Si tratta proprio di garantire la sicurezza di chi vive e lavora in quelle zone: ogni riscatto pagato è un'esca per futuri rapimenti.

Federico Fubini su Twitter: Siamo tutti felicissimi della liberazione di #SilviaRomano e le autorità italiane hanno saputo muoversi con grande efficacia. Ma a un certo punto dovremo anche porci delle domande sui risvolti e gli insegnamenti che questa vicenda porta con sé (breve thread)

#SilviaRomano era andata in Kenya, a 80 km da Malindi nella zona di Chakama, per una minuscola e sconosciuta NGO di Fano che dichiarava sul suo sito: "Chakama ancora non è inquinata, è Africa vera". Poi il rapimento e la vendita alla Shebab, fazione islamica violenta e fanatica.

Africa Milele Onlus, la NGO di Fano, aveva inviato una ragazza di 23 anni inesperta e sola in un'area pericolosa. Posso sbagliarmi ma non credo che questa NGO fosse fra quelle registrate con la Farnesina. Ma questo non le ha impedito di avere finanziamenti per questa "missione".

Forse è il caso avviare una riflessione rigorosa sul mondo della cooperazione in Italia e far sì che in futuro possano svolgere questa attività così importante solo strutture adeguate e certificate. Senza mettere in pericolo chi lavora o è volontario per loro.

Non possiamo dimenticare che la vicenda si è chiusa con il pagamento di un riscatto a Shebab, un'organizzazione fanatica e fondamentalista intenta a uccidere civili e rendere la vita impossibile in Somalia. La ragion di Stato a volte mette davanti a scelte difficili, scomodissime.

L'Italia non è l'unica ad aver pagato riscatti a bande di rapitori in Africa, a volte per salvare persone che si sono o sono state messe in pericolo irresponsabilmente. Il governo di Londra fece lo stesso in Somalia nel 2012. In certe circostanze negare l'intervento è difficile.

Ma sappiamo bene che gli altri governi, gli alleati dell'Italia in Europa e a Washington, vedono con irritazione e preoccupazione questi interventi con riscatto. Finanziano gruppi terroristici. Creano incentivi monetari perché le bande armate rapiscano altri occidentali in Africa.

Questo rischio di rapimento è particolarmente reale (e oggi maggiore) per gli italiani in Africa, se il governo ha la reputazione di essere pronto a pagare chiunque per liberare i propri cittadini. La vicenda #SilviaRomano non aiuta certo i nostri bravissimi cooperanti in Africa.

Credo che la scelta di salvare #SilviaRomano sia da difendere e altri paesi avrebbero fatto lo stesso. Averla salvata è un valore in sé. Tutti felicissimi che sia libera e torni dai suoi. Ma questo non può impedirci di pensare da subito a come evitare nuovi casi così in futuro.

 Fabio Poletti per ''la Stampa'' il 10 maggio 2020. Gino Strada, fondatore di Emergency, hanno liberato Silvia Romano...

«Una bellissima notizia. Era passato davvero tanto tempo. Anche le notizie che filtravano erano diminuite, un' altra cosa che affievolisce le speranze. Immagino quello che ha passato questa ragazza e la sua famiglia. Non so la dinamica della sua liberazione ma mi sembra del tutto irrilevante».

In questo anno e sette mesi, per molti Silvia Romano è stata l' immagine dell' Italia migliore.

«È così. Chi sceglie di andare in posti pericolosi o dove ci sono grandi difficoltà, solo per portare aiuto, merita tutto il nostro sostegno. È un pezzo di Italia che mi piace molto. Mi spiace solo che arrivi a Milano quando ancora c' è questa situazione».

Ma c' è anche chi ha avuto da dire su Silvia Romano. «Una ragazza avventata», il giudizio più leggero. Come risponde a queste persone?

«Sono solo banalissimi luoghi comuni. Sintetizzabili in una frase sentita mille volte. "Se stava a casa sua non succedeva niente". Sono frasi solo frutto di leggerezza, ignoranza e indifferenza. Non è vero che se stava a casa sua non cambiava niente. La solidarietà cambia la vita alle persone, anche a quelle che non conosciamo di persona e stanno in luoghi lontani».

E' un po' la sua storia.

«Sono partito con Emergency alla fine degli Anni Ottanta. Sono scelte che si fanno e basta, non c' è bisogno di giustificarle. È meglio per tutti che ci sia questo tipo di solidarietà. Anche se non viene riconosciuta sempre, specialmente ora che regnano indifferenza ed egoismo».

Poi c' è chi anche questa volta tirerà in ballo che per liberarla lo Stato ha dovuto pagare.

«Non è vero che si sia sempre pagato. E poi io non mi scandalizzo se uno Stato paga per liberare un connazionale rapito in zone difficile. E a chi obietta che con quei soldi si poteva fare altro e meglio, ricordo che si sta parlando di questi tempi di commesse per sottomarini militari e per gli aerei F35. Quelli sì sono soldi inutili».

Con il coronavirus abbiamo visto mobilitarsi tanti volontari, medici, infermieri, gente comune. Non è che alla fine la generosità di Silvia Romano ha mille forme?

«La motivazione è la stessa. Non è una cosa che va giustificata. Se io vedo qualcuno per strada che sta male va aiutato o no? Aiutare mi sembra un atteggiamento più umano di continua la sua strada indifferente. Cosa per altro che sembra essere incoraggiata da alcuni pensieri politici e da comportamenti conseguenti. Stiamo vivendo un momento di odio sociale che non ho mai visto in tutta la mia vita e sono nato nel 1948. Forse è un qualcosa che hanno visto quelli nati venti anni prima di me. L' Europa è stata devastata dalla guerra. Si fa fatica a descrivere con le parole quello che è successo in quegli anni. In molta gente questa cosa non ha lasciato memoria. Colpa anche dei politici certo. Pensiamo, e qui torno al discorso sulla solidarietà verso chi non si conosce, a quello che è successo sui migranti. La questione dei migranti a messo a nudo quello che è davvero l' Europa, altro che la favola bella che continuano a raccontarci. L' Europa come frontiere è un' idea hitleriana». «Aiutiamoli a casa loro...».

Alla fine non è la cosa che stava facendo Silvia Romano o sta facendo lei da una vita?

«Io li aiuto a casa loro da 35 anni. Ma non c' è contrapposizione sulla solidarietà che si fa all' estero o che si può fare anche qui. Costruire un ospedale dove c' è bisogno è più utile che far venire qui i feriti. Chi dice "aiutiamoli a casa loro" non ha mai mosso un dito».

Ma oggi le Silvia Romano sono un' eccezione?

 «Ce ne sono tanti che praticano volontariato in Italia o altrove. Sto trovando sempre più ragazzi che vengono da noi e si mettono a disposizione, lavorano gratis con coscienza e senza pensare al proprio tornaconto personale. Ritengono che sia un loro dovere. È davvero l' Italia migliore».

Ma a proposito di Italia, trovandosi in un suo ospedale in Afghanistan o chissà dove, non ha mai pensato che, voltandosi, dietro non c' era proprio niente? Non lo Stato almeno.

«Regolarmente. Dalla politica non ci si può aspettare un sostegno all' impegno umanitario. Al di là delle parole fumose e di circostanza. Se volete fare qualcosa tagliate le spese militari. Non lo fa nessuno, a destra ma nemmeno a sinistra. Per fortuna ci sono ragazze come Silvia Romano».

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 maggio 2020. Caro Dago, non ne so nulla di nulla dell’operazione che ha restituito alla vita la nostra conterranea Silvia Romano. Leggo che sono stati pagati molti soldi, quattro milioni di euro sembrerebbe. Mi avessero chiesto, avrei detto di sì, pur di far arrivare in Italia quella brava e disinteressata ragazza che era andata in Africa a far bene ai dolenti. Lo so, lo so, che da domani potrebbero sequestrare piripicchio tal dei tali e chiedere una gran somma. Lo so, lo so, non è facile ragionare in questa materia. O forse impossibile. Io sono contento che la ragazza Romano torni in Italia viva e vegeta. Naturalmente non posso non pensare al caso per eccellenza della mia giovinezza, quando un pugno di abietti criminali chiese un prezzo per la vita di Aldo Moro. Dico quel pugno di nullità e di delinquenti cui era riuscita l’azione di via Fani, uccidere cinque italiani pur di rapirne un sesto, il presidente Aldo Moro. Delinquenti da quattro soldi cui era riuscito di annichilire una scorta disarmata e pur di acciuffare un uomo di cui Leonardo Sciascia scriverà che era il “meno implicato di tutti” nelle faccende di malaffare. Lo tennero 53 giorni uno sgabuzzino lungo quanto un letto e largo quanto il letto più un comodino. Lo interrogò a lungo un analfabeta che aveva studiato in un istituto tecnico e che adesso è libero, e io sono d’accordo che lo sia perché un criminale non è lo stesso uomo dopo 30 anni. I delinquenti avevano chiesto uno scambio alla maniera loro, dargli uno dei loro adepti che non stava neppure bene in salute e noi abbiamo detto di no, che una brigatista che non stava bene in salute non valeva la vita di Aldo Moro. No, non la valeva. E dunque i delinquenti portarono Moro giù nel garage e lo mitragliarono a morte. E uno di loro, che oggi è un mio amico, lo trasferì in auto sino ai bordi delle due sedi e del Pci e della Dc. Così è andata. Per fortuna che con la ragazza Romano è andata diversamente. Presidente Moro, ti chiediamo perdono e anche se non vale niente.

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” l'11 maggio 2020. «Per lo Stato italiano Silvia Romano vale più di Aldo Moro, lo dicono i fatti: Moro è morto perché le istituzioni decisero di non trattare coi terroristi, mentre in questo caso il governo ha dato 4 milioni ai carcerieri islamici. Abbiamo finanziato chi combatte l' occidente: siamo diventati complici degli jihadisti». Vittorio Sgarbi prosegue la sua "fase 2" a Roma tra quadri, libri e musica. Mentre parliamo dal suo studio parte a tutto volume il "Cerchio della Vita", colonna sonora del Re Leone. Poi tocca a "Viva la mamma" di Edoardo Bennato. «Mi scusi se ho impiegato un po' a richiamarla, ma mi stanno scambiando per un avvocato, mi telefonano tutti per chiedermi se possono uscire di casa. Lei, se le interessa, rientra nella categoria "attività professionali tecnico-scientifiche" per cui può andare dove vuole. Se lo ricordi se la fermano: Ateco 74».

Qualcuno però la starà chiamando anche per chiederle cosa ne pensa della liberazione della giovane volontaria...

«È stata un' operazione mercantile, altro che diplomatica o politica!».

Cosa intende?

«Lo Stato ha accettato un ricatto e ha favorito il terrorismo. Ecco, adesso per colpa sua mi è venuto in mente il capo delle "sardine", come si chiama... Santori, che l' altro giorno ha scritto su Twitter che Moro è stato ucciso dalla mafia anziché dalle Brigate Rosse».

 Lei non avrebbe pagato il riscatto della Romano?

«Si tratta di una vittoria umana, è chiaro, come si fa a non essere contenti della liberazione? Però, visto che il governo nega di aver pagato, ci dica in che modo l' hanno liberata. Abbiamo il diritto di saperlo. Io non voglio sapere quanto hanno pagato, ma chi ha trattato, come si chiama, a che categoria appartiene e come hanno fatto a ottenere il risultato per via diplomatica. Tutte domande alle quali Conte ovviamente non potrà mai rispondere».

Il premier ha detto che è stata un' operazione di «intelligence».

«Intelligence con Luigi Di Maio ministro degli Esteri? Impossibile».

Però prima non ha risposto: è stato giusto pagare il riscatto?

«Non dico che sia stato sbagliato, ma il fatto che lo Stato paghi i terroristi legittima qualsiasi trattativa, anche con la mafia. Se stabiliamo che la vita è più importante di tutto, allora non ha più senso parlare di trattative Stato-mafia, ma di "ragion di Stato", che dunque vale per ogni situazione in cui di mezzo c' è la vita di una persona. La liberazione di questa ragazza è una vittoria umana, lo ripeto, ma una sconfitta sotto tutti gli altri punti di vista. E non si può nemmeno tacere che abbiamo finanziato i terroristi mentre fino a pochi giorni fa fioccavano le multe contro chi correva da solo in spiaggia, una cosa di una demenzialità assoluta».

La ragazza è stata segretata per un anno e mezzo da un gruppo di fanatici musulmani e una volta liberata ha rivendicato con fierezza la sua conversione all' Islam.

«È una cosa che amareggia, ma in qualche modo posso comprenderla».

Si spieghi.

«Evidentemente ha maturato sul serio certe convinzioni, come quelle secondo cui l' occidente e il capitalismo sono il male. Sono concetti folli, è ovvio, ma probabilmente è stata colpita dalla sindrome per cui tu, rapito, col passare del tempo non ti senti più la vittima e cominci a pensare che sei stato imprigionato in quanto colpevole, perché sei l' incarnazione della parte sbagliata del mondo».

Appena liberata non ha detto «grazie» alle istituzioni o agli italiani, ma «sono stata forte».

«La capisco: la ragazza non può sapere in che modo è stata tolta dalle mani dei sequestratori, quindi si è limitata a dire "sono salva perché ho avuto le palle"».

Conte si è precipitato in aeroporto ad accoglierla col favore delle telecamere. L' ha anche abbracciata, contravvenendo alle regole che lui stesso ha imposto a 60 milioni di persone.

«In sostanza le ha detto "ti hanno liberato dalla prigionia dei terroristi ma ora sei finita sotto quella del nostro governo"».

Il premier ci ha dato un' altra buona notizia: pare che ci concederà di andare in vacanza.

«Non sarà lui a concedercelo, ma il virus, che non ci sarà più, o sarà comunque presente in forma molto ridotta. Nel frattempo hanno terrorizzato per due mesi la popolazione facendole credere che fuori dalla porta di casa c' era la peste, che se uscivi morivi di colpo. Qualsiasi persona abbia studiato medicina sa che fa molto meglio stare all' aria aperta che rinchiusi in quattro mura. Una cosa sono gli assembramenti, un' altra è correre in un parco. Quando vedi per strada una persona sola, senza nessuno attorno, che indossa la mascherina, capisci che è stata lobotomizzata».

Massimo Gramellini su Facebook l'11 maggio 2020: Sull’onda di una splendida notizia, la liberazione di Silvia Romano, sui social è rispuntato il Caffè che scrissi il giorno del suo rapimento. Nelle mie intenzioni quell’articolo voleva essere una risposta a chi critica l’impegno e il coraggio dei giovani come Silvia e una difesa di tutti coloro che sanno ancora sognare un mondo migliore. L’effetto che ottenni fu paradossalmente l’opposto di quello desiderato, soprattutto a causa dell’incipit infelice dell’articolo, dove davo l’impressione di criticare chi in realtà intendevo difendere. Fu un mio errore, sia chiaro. L’incomprensione di un testo è sempre responsabilità di chi lo scrive e non di chi lo legge. In un diario pubblico che esce quasi tutti i giorni, può succedere ogni tanto di sbagliare le parole, e me ne scuso. Mi piacerebbe solo che fosse riconosciuta la buona fede dell’estensore. Ho scritto articoli a favore del volontariato e dei cooperanti rapiti, fin dai tempi di Simona Parri e Simona Torretta. Ho partecipato alle loro iniziative e li ho intervistati in tv: sono onorato di avere avuto per due volte alle “Parole della Settimana” il formidabile Nicolò Govoni, fondatore della ONG che organizza scuole per i profughi e candidato al Nobel per la Pace. Chiedo ancora scusa per quel mio errore di comunicazione. Bentornata Silvia, e un caro saluto a tutti voi. Massimo

Massimo Gramellini per il ''Corriere della Sera'' del 22 novembre 2018, all'indomani del rapimento di Silvia Romano. Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto. Ci sono però una cosa che non riesco ad accettare e un’altra che non riesco a comprendere. Non riesco ad accettare gli attacchi feroci a qualcuno che si trova nelle grinfie dei banditi: se tuo figlio è in pericolo di vita, il primo pensiero è di riportarlo a casa, ci sarà tempo dopo per fargli la ramanzina. E non riesco a comprendere che tanta gente possa essersi così indurita da avere dimenticato i propri vent’anni. L’energia pura, ingenua e un po’ folle che a quell’età ti spinge ad abbracciare il mondo intero, a volerlo conoscere e, soprattutto, a illuderti ancora di poterlo cambiare. Le delusioni arrivano poi, quando si diventa adulti e si comincia a sbagliare da professionisti, come canta Paolo Conte. Silvia Romano non ruba, non picchia, non spaccia. Non appartiene alla tribù dei lamentosi e tantomeno a quella degli sdraiati. La sua unica colpa è di essere entusiasta e sognatrice. A suo modo, voleva aiutarli a casa loro. Chi in queste ore sul web la chiama «frustrata», «oca giuliva» e «disturbata mentale» non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza.

Da adnkronos.com l'11 maggio 2020. "Se Silvia Romano era così felice, convertita, sposata per sua scelta, ma perché l'avete liberata? Restava là e lo Stato non avrebbe regalato 4 milioni ai terroristi. Altro non so dire, o soltanto: chissà se casuale il suo ritorno per la Festa della Mamma". Così Ornella Vanoni su Twitter esprime il suo pensiero sulla liberazione della giovane cooperante Silvia Romano, dopo un anno e mezzo di prigionia.

Alle sciacquine in vacanza in Africa lo stato non paghi la vacanza. Dagospia l'11 maggio 2020. Trascrizione del video di Silvana De Mari. “Sono andata in Etiopia, nella bellissima regione del Sidamo, nel 1986 e ci sono andata perché ero chirurgo e mancavano chirurghi. L’Africa manca di tecnici, in compenso è ricca di africani che sanno fare un mucchio di lavori, senza il minimo problema, sicuramente meglio dell’europeo perché loro conoscono il posto. Quindi se siete capaci di amputare un arto, se siete capaci di eseguire un parto, se siete capaci di scavare un pozzo, se siete medici, chirurghi, ostetriche, veterinari o ingegneri, infermieri professionali no perché ci sono già le loro, ma qualche infermiera possiamo anche mettercela. Allora, se andate nel Terzo mondo siete dei soccorritori. Se non sapete fare nessuna di queste cose siete sciacquine. Cioè individui a competenza zero che se ne vanno per il mondo convinti che il mondo sia il loro posto Erasmus, con il loro zainetto e il cellulare per farsi i selfie. Perché se non avete competenze, l’unico motivo per cui andate in terra d’Africa è il selfie con il bimbo africano. Negli anni ’80 fu fatta una legge terribile in Italia: era il periodo dell’Anonima sequestri, molte persone erano sequestrate, fu fatta una legge atroce: qualsiasi cosa succeda, tuo figlio lo fanno a pezzi e te ne mandano un pezzo alla volta, non puoi pagare il riscatto. Altrimenti ti imputiamo di concorso in sequestro di persona. Questo pose fine ai sequestri. Facciamo immediatamente questa legge: la sciacquina che se ne va in giro per il mondo cominci ad avere chiaro in mente che se le cose vanno male il popolo italiano non le pagherà la vacanza studio. Inoltre, questo fiume di denaro che è tolto al popolo italiano vuol dire bambini che moriranno di leucemia perché malcurati, persone che moriranno di ustioni perché mancano in molti posti del sud i centri antiustionati. Con la stessa cifra con cui è stato pagato il riscatto di una sola persona, avremmo potuto riscattare dalle miniere di oro del Burkina Faso 4mila bambini africani. Avremmo potuto pagare 40mila corsi di infermiera professionale. E invece abbiamo finanziato il terrorismo con il denaro di questi riscatti della sciacquina di turno che deve andare in Africa oppure in Iraq oppure in Siria a portare la sua clamorosa incompetenza. Abbiamo finanziato il terrorismo. Quante chiese con i cristiani  dentro saranno fatte saltare grazie all’esplosivo comprato per queste persone. Facciamo una legge che d’ora in poi, chiunque se ne vada in giro a salvare il pianeta secondo le sue idee lo fa a proprio rischio e pericolo. Il popolo italiano non può più pagare questo perché non è sensato che lo stato italiano finanzi il terrorismo internazionale. Io ho salvato la mia, certo, grazie a quel denaro moriranno in Africa almeno 500mila africani, ma tanto a te cosa te ne importa, l’importante è che tu hai salvato la tua. Per cui, sciacquine, statevene a casa: non sapete amputare un arto, non sapete seguire un parto, non sapete scavare un pozzo, non siete inutili, siete dannose. State a casa”

Silvia Romano, scontro Vauro-Gasparri a Non è l'arena: "Sono tutte cagate", "No è l'estremismo islamico". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Scontro in diretta su Silvia Romano tra Vauro Senesi e Maurizio Gasparri, entrambi ospiti di Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7. I due si scontrano sulla sua scelta della giovane cooperante sequestrata in Kenya un anno e mezzo fa e liberata venerdì di convertirsi all'islam. "Sono cagate", sbotta il vignettista rispetto alle polemiche sulla conversione della giovane cooperante milanese. Gasparri aveva detto poco prima che "la conversione religiosa di Silvia Romano coincide con il perio