Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Burocrazia Ottusa.

Burocrazia retrograda.

L’abuso d’ufficio: il reato temuto dagli amministratori.

Dipendenti Pubblici. La sciatteria e la furbizia non è reato.

La Trasparenza è un Tabù.

Le province fantasma.

L’Insicurezza. Difendersi da Buoni e Cattivi.

I Disservizi nella viabilità e nei trasporti.

Banda “Ladra”: Gli Sfibrati.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Il Volontariato: tra buoni e cattivi.

Morire di Lavoro.

Morire di Povertà.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

La Disabilità oltre le barriere.

I medici ignoranti danneggiano tutti noi.

I Medici pestati.

La Cattiva Sanità.

La Buona Sanità.

In Montagna si invecchia prima.

Salute: Carcere e Caserma. 

Tumore ed altro: i malati abbandonati senza sussidio.

Alcool e Riflessi.

Medicinali e riflessi.

Le Malattie neurodegenerative.

La resistenza agli antibiotici.

Tumore: scoprirlo in anticipo.

L'anemia.

Tumore allo stomaco.

Il Tumore del Pancreas.

Tumore esofageo.

Prostata e Prostatite.

Tumore della vescica.

Il Cancro al Seno.

Il Cellulare provoca il tumore?

Tumore al Cervello.

Tumori, in Italia sopravvivenza più alta che nel resto d’Europa.

Ecco il santo protettore dei malati di cancro.

L’Amiloidosi.

La Brucellosi.

L’Infarto.

La trombosi venosa.

Sindrome aerotossica: il sistema di areazione degli aerei fa male?

L’encefalomielite mialgica (ME):  sindrome da fatica cronica CFS.

La meningite.

L’emicrania.

I Colpi di Testa.

Cefalea invalidante.

Il Fegato Malato.

Il Colesterolo.

La Sla. Sclerosi laterale amiotrofica.

La Fibromialgia.

L’Epilessia.

La dislessia è anche un business.

Lo stress (fa anche venire i capelli bianchi).

Riposare o dormire?

Il Sonniloquio.

Psoriasi.

L’Herpes Zoster: «Fuoco di Sant’Antonio».

La Mononucleosi: la "malattia del bacio".

L’Autismo.

La sindrome di Asperger.

Tricotillomania, il disturbo ossessivo di strapparsi i capelli.

La Disfunzione Erettile.

L’Infertilità.

Tocofobia, Contraccezione ed Aborto.

La Menopausa.

Le Malattie sessuali.

La Vulvodinia

La sindrome da odore di pesce marcio.

Il Mento sfuggente.

Questione di Lingua…

La Glossofobia.

Gli Integratori.

Gli alimenti salutari.

L’Obesità.

La dieta.

L'Anoressia.

La canizie.

L’Alopecia.

L’Anzianità.

La Frattura del Femore.

La Balbuzie.

L’ittiosi epidermolitica.

La cura tradizionale alternativa.

Ti cura Internet.

Preservare la vista.

Ipoacusia: deficit uditivo.

Le Puzzette.

La puzza e le Ascelle.

La stipsi: La stitichezza.

Le Urine svelatrici.

La Demenza. La Sindrome di Korsakoff.

La distimia e la Depressione.

L’ictus cerebrale.

Mente sana in Corpo sano.

Il cervello è l’ultimo a morire.

La Ludopatia.

Il Mancinismo.

L’Evoluzione del naso.

Benessere e Calzature.

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

PRIMA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Burocrazia Ottusa.

Marco Sabella per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2020. L'obiettivo è mettere un freno ai tanti sindaci che nei mesi scorsi hanno imposto limitazioni e divieti all'installazione delle antenne necessarie allo sviluppo della nuova rete 5G. In tutto sono oltre 500 i Comuni che hanno adottato ordinanze per impedire agli operatori di tlc di procedere con i lavori e proprio questo lungo elenco di enti locali è quello che da subito dovrà fare i conti con la norma inserita nel decreto Semplificazioni. In sostanza, il governo ha predisposto una modifica alla legge del 2001, che disciplinava le regole per l'insediamento di antenne e reti per le infrastrutture di tlc, sterilizzando i poteri dei sindaci in materia. In base alla nuova norma del decreto i primi cittadini «non potranno introdurre limitazioni alla localizzazione sul proprio territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualunque tipologia e non potranno fissare limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici diversi rispetto a quelli stabiliti dallo Stato». La mossa del governo, insomma, pare fondata sulla necessità di garantire il percorso di realizzazione della rete 5G, evitando veti e stop a livello locale a quella che dovrebbe essere l'infrastruttura indispensabile al processo di modernizzazione e digitalizzazione del Paese. Una priorità segnalata, del resto, anche nella relazione consegnata al governo dalla task force coordinata da Vittorio Colao, rammentando l'esigenza di «escludere l'opponibilità locale» alla realizzazione di nuove infrastrutture. Resta che a livello locale è destinata a montare la protesta dei sindaci. Uno dei primi a farsene interprete è il primo cittadino di Vicenza, Francesco Rucco, che lamenta: «La decisione del governo vieta ai sindaci di intervenire con un'ordinanza a tutela della salute pubblica per quanto riguarda il tema dell'esposizione ai campi elettromagnetici. Viene resa così inefficace l'ordinanza che ho firmato nel maggio scorso, come le tante altre ordinanze emesse dai sindaci di tutta Italia. In questo modo, pertanto - dice Rucco -, il governo esautora i sindaci che rappresentano la massima autorità sanitaria locale e che quindi hanno la responsabilità della salute dei cittadini». A protestare è anche il presidente di Anci Veneto, Mario Conte, che osserva: «Una limitazione all'autonomia dei sindaci su un tema delicato che tocca da vicino le comunità e il paesaggio». Ma il fronte per i sindaci è duplice, poiché molti operatori di tlc hanno fatto ricorso al Tar contro le ordinanze dei Comuni. In alcuni casi, come a Messina, il Tar siciliano si è già espresso, accogliendo la richiesta di Vodafone di sospendere l'ordinanza anti 5G adottata dal Comune. La decisione dei giudici amministrativi evidenzia, tra l'altro, che la valutazione sui rischi sanitari è di esclusiva competenza dell'Arpa, l'Agenzia regionale per la protezione ambientale.

«Appalti bloccati? Cari politici, la colpa non è di noi giudici ma delle pessime leggi». Simona Musco su Il Dubbio l'11 giugno 2020. Fabio Mattei, presidente dell’Associazione nazionale magistrati amministrativisti: «Toti dice che i Tar bloccano il Paese: è un’entrata a gamba tesa sulla nostra funzione giudiziaria». «Si parla tanto di giustizia penale ma la giustizia amministrativa, se non la rivediamo e se le aziende non si danno anche comportamenti di autoregolamentazione secondo codici etici che impediscano di farsi concorrenza o inibire concorrenti attraverso continui ricorsi al Tar questo Paese andrà poco lontano». Le parole del governatore della Liguria, Giovanni Toti, sono un’accusa senza se e senza ma alla Giustizia amministrativa. Vissuta come ostacolo allo sviluppo del Paese e parte di quella burocrazia che lo azzopperebbe bloccando i lavori pubblici. Un’accusa pesante che Fabio Mattei, presidente dell’Anma, Associazione nazionale magistrati amministrativi, respinge al mittente: «È un’entrata a gamba tesa sulla funzione giudiziaria – dice al Dubbio -. Il vero problema sono le leggi di pessima qualità. E quelle sono colpa della politica».

Presidente, ma è vero che sono i Tar a danneggiare le aziende?

«Queste parole si inseriscono in un solco di dichiarazioni da parte di esponenti politici di primo piano: ricordo Prodi, secondo cui il giudice amministrativo costava non so quanti punti di pil al Paese ogni anno, poi ci fu Renzi, il quale disse che avrebbe iniziato la sua campagna elettorale con lo slogan “no Tar tour”, poi siamo arrivati alle dichiarazioni di Franceschini dopo la questione relativa ai direttori dei musei. Notiamo da tempo un fastidio della politica – speriamo non tutta – nei confronti del lavoro dei giudici amministrativi, ma bisogna ricordare che dietro ogni ricorso c’è l’istanza di giustizia di un cittadino, di un’impresa, di un operatore economico che indubbiamente può essere destinatario di un’attività amministrativa illegittima».

Dunque sono una tutela?

«I Tar svolgono una funzione di presidio di legalità sul territorio ed è un punto molto importante sul piano istituzionale. Se c’è la mala amministrazione, se ci sono le degenerazioni della burocrazia, che poi portano a fenomeni che alterano le gare pubbliche, il Tar, che è un’istituzione giudiziaria al pari di quella civile o penale, è per legge, secondo il nostro ordinamento, quella a cui il destinatario della cattiva amministrazione si può rivolgere. La politica non considera che dietro ogni ricorso c’è un’istanza di giustizia che il Tar valuta serenamente, applicando la norma, con una norma che spesso è alluvionale, contraddittoria, affastellata e poco chiara anche per gli operatori del diritto, molto spesso. E ciò vuol dire che la qualità del prodotto legislativo è pessima. Quindi anche nell’ambito di un’amministrazione totalmente virtuosa, il pubblico funzionario può avere difficoltà ad orientarsi, tanto che molte volte è la stessa amministrazione che aspetta che si faccia il ricorso al Tar per poi andare nella direzione decisa. Ci sono sicuramente dei funzionari non all’altezza, che fanno un enorme danno al Paese, perché non svolgono i procedimenti in modo spedito, in modo conforme alla legge, però è altrettanto vero che ci sono anche funzionari diligenti e preparati purtroppo non sono la gran parte, che svolgono in modo diametralmente opposto i procedimenti. Ma io credo che la politica non possa chiamarsi fuori da una responsabilità che riguarda la qualità delle norme, perché le norme le approva il Parlamento, senza dimenticare che molto spesso le amministrazioni sono lottizzate. Queste sono le degenerazioni che ricadono sì sui funzionari e sulla pubblica amministrazione ma hanno evidentemente degli autori e degli attori che, purtroppo, molte volte riscontriamo nel mondo politico. Se le norme sono scritte male, il pubblico dipendente che deve applicarle ha difficoltà e se le applica male è chiaro che va in corto circuito il sistema. Se la pubblica amministrazione adotta un atto illegittimo, il cittadino cosa deve fare? Vogliamo immaginare un modo senza tutela?»

Toti dice che non bisognerebbe fare tutti questi ricorsi al Tar. È un’invasione di campo della politica?

«È un’entrata a gamba tesa sulla funzione giudiziaria, sulla funzione ordinamentale attribuita al magistrato amministrativo, in questo caso, ma come per qualsiasi altro giudice è l’ordinamento che assegna al giudice la funzione di dirimere i conflitti, è la Costituzione. Noi negli articoli e nelle norme della Costituzione troviamo i principi cardine della giustizia amministrativa. Quindi anziché pensare di riformare la giustizia amministrativa bisognerebbe riformare il modo di confezionare le leggi e di scrivere le norme, nonché la pubblica amministrazione, che non sa nelle sue sacche di burocrazia, nel senso deteriore del termine, procedere e non sa agire in modo conforme alla legge. Poi parliamo anche di responsabilità della politica che molte volte entra nelle decisioni degli uffici e dei funzionari. Le figure apicali delle amministrazioni pubbliche le sceglie il politico».

Si tirano spesso in ballo gli investitori esteri e la scarsa attrattività dell’Italia proprio per la sua lentezza in termini di Giustizia.

«Per il mercato e gli investitori esteri, sempre tanto invocati, una delle condizioni principali per entrare con le proprie energie nel nostro mercato, soprattutto in questi momenti di estrema difficoltà, è proprio la chiarezza delle regole. Un’amministrazione che agisce in modo illegittimo non attrae nessuno. Pensiamo quanti punti di pil costa un Parlamento quando approva delle leggi che hanno una qualità scadente e una burocrazia nel senso deteriore del termine. Vogliamo parlare di sperpero di denaro pubblico? Del Mose, dell’Expo, delle incompiute?»

C’è una statistica che spiega come le leggi malfatte blocchino lo sviluppo del Paese?

«Le posso dare un dato: credo che il codice degli appalti pubblici sia stato modificato, negli ultimi anni, 50-60 volte e questo già dà la misura di quel dato. I ricorsi in materia di appalto si svolgono con un rito super accelerato, vengono decisi in pochissimo tempo, con il rispetto del contraddittorio e questo è il fiore all’occhiello del processo amministrativo, la rapidità e la celerità nella risposta di giustizia. Le opere pubbliche incompiute non possono ascriversi alla responsabilità del giudice amministrativo».

La Giustizia amministrativa è stata un caso a parte in questa fase, anche per lo spirito di collaborazione che c’è stato tra avvocatura e magistratura.

«E non si è mai fermata. E questo è stato un punto d’orgoglio per noi. Abbiamo sempre dato una risposta di giustizia anche da remoto, sia in maniera monocratica sia collegialmente. Ovviamente il processo telematico ci avvantaggia e il decreto legge 28 del 2020, all’articolo 4, prevede anche la presenza delle parti e la discussione da remoto. Ciò ci ha consentito di non interrompere il servizio giustizia, siamo stati al nostro posto e abbiamo sempre lavorato».

Ma le udienze da remoto possono tornare utili anche per il futuro, in situazioni eccezionali?

«Noi auspichiamo, non appena ci saranno le condizioni, di tornare in tribunale e lavorare frontalmente con gli avvocati. Per noi è importante la presenza fisica, vogliamo tornare alla normalità e riteniamo che anche la dinamica visiva, facciale, di presenza offra un di più. Il tribunale è la nostra sede naturale e speriamo di tornare a fare udienza in aula con gli avvocati e con le parti. Per noi è fondamentale».

BUROCRAZIA ESTREMA. Tra norme fiscali, previdenziali e di sicurezza sul lavoro.

Striscia La Notizia il 13 dicembre 2019. Pinuccio si trova a Giovinazzo, in provincia di Bari, per parlarci del caso di una persona che è stata aiutata da un amico nella raccolta delle olive e ora si ritrova ad avere alcuni problemi per non averlo messo in regola.

Dagospia il 27 aprile 2020. Estratto dell'articolo di Paolo Panerai per "MF" - pubblicato nella newsletter "Anteprima - la spremuta di giornali di Giorgio dell'Arti". [...] Sapete quante sono le norme che regolano la vita dell'Italia e degli italiani? Fra norme centrali e regionali si supera le 160 mila. Sapete quante sono le norme analoghe in Inghilterra? Tremila. E in Francia? Settemila. In Germania, 5.400. La vastità delle norme italiane, il loro intreccio, la loro impenetrabilità anche dal punto di vista linguistico sono come una foresta amazzonica, dove se con il machete si riesce ad aprire un corridoio, fatti due metri si resta impigliati in una pioggia di liane. E gli animali feroci sono a due passi. Sempre per avere la misura che nasce dal confronto, lo sapete quanti sono i giorni medi per avere un permesso edilizio in Italia? Quasi 200, in Germania poco piu di 100, in Inghilterra 80. E ancora, per tornare alla realtà che stiamo vivendo, in Italia ci sono 16 comitati speciali creati per affrontare il virus, con ben 470 esperti o presunti tali; in Francia esiste un solo comitato tecnico scientifico; in Spagna ce ne sono due con 13 esperti. In Italia sono stati presi ben 220 provvedimenti, di cui 19 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Non e stato possibile avere dati precisi sugli altri Paesi europei, ma non e azzardato dire, in base ai comitati, che non si supereranno i dieci. La sequela sconfortante di come il paese Italia sia bloccato e perchè sia bloccato la si ha leggendo sul nostro confratello e concorrente Sole24Ore che tra leggi, note, ordinanze di Stato, regioni e comuni si sono superate le mille pagine, dicasi mille. Ma chi può orientarsi in mille pagine, per di più in linguaggio spesso oscuro e con continui rinvii a questo e a quel provvedimento o a questa e quella norma? Quando il governo ha pensato di semplificare con il decreto Liquidità ha approvato un testo che all'articolo n. 1, tanto per gradire, fa riferimento a 11 altre leggi, trattati o regolamenti [...]

La burocrazia uccide l’Italia, necessaria riforma. Piero Sansonetti de Il Riformista il 14 Aprile 2020. Nei giorni scorsi sono intervenuti, nel dibattito sulla burocrazia, due pesi massimi del diritto. Sabino Cassese, che ha scritto sul Corriere della Sera, e Giuseppe Tesauro che ha rilasciato un’intervista alle pagine di Napoli del nostro giornale. Mi sembra che in questa discussione un punto sia fermissimo: esiste un legame indissolubile tra la possibilità di mettere in moto la ripresa – dopo lo shock virus – e l’abbattimento della burocrazia. Dopodiché è giusto discutere su come procedere, e anche su quali siano le cause della degenerazione della macchina burocratica italiana. Su questo forse ci sono pareri diversi. Non mi pare però che sia in discussione, tra i giuristi e gli esperti, la necessità di prendere delle misure per impedire che la burocrazia blocchi lo sviluppo. Nelle attuali condizioni, la burocrazia è un ostacolo insormontabile allo sviluppo. Tesauro cita gli altri paesi europei, in particolare la Gran Bretagna, e ci spiega quali enormi vantaggi abbiano le loro economie sulla nostra, grazie a una burocrazia scorrevole ed efficiente. Cassese indica le cause di questa crisi della burocrazia italiana. E assegna quasi tutta la colpa alla politica. Dice che la politica è colpevole perché continua a sfornare nuove leggi, senza cancellare le precedenti, e perdipiù le scrive malissimo; dice che è colpevole perché crea sempre nuovi strati di burocrazia (per esempio l’organismo anticorruzione) allo scopo di non assumere responsabilità dirette; dice che è colpevole perché ha accettato il dilagare dell’idea del sospetto, che porta a follie giuridiche come equiparare reati di mafia e reati contro la pubblica amministrazione; dice – infine – che è colpevole anche perché ha permesso alla magistratura di assumere, spessissimo, il ruolo di decisore finale in grandissime questioni che non la riguardano e che richiedono saperi e competenze che la magistratura non possiede. Sia Tesauro che Cassese poi dicono che la burocrazia non può essere abolita: va riformata. A me sembra che Tesauro e Cassese abbiano pienamente ragione. La burocrazia, ovviamente, ha una sua funzione in una società democratica. La funzione è quella del controllo. Il problema è che il controllo è diventato un controllo sulle forme, spesso un controllo sulla stessa burocrazia, talvolta un controllo sulle contorsioni inutili della legge, non sulla sostanza. Noi siamo un Paese ad altissima evasione fiscale e un Paese dove l’economia in nero è parte integrante del sistema. Più di ogni altro paese europeo. La burocrazia ha contrastato in qualche modo questi difetti? No, li ha incoraggiati, ostacolando in tutti i modi l’economia legale e favorendo il nero. Prendiamo questo caso (che conosco). Una società che deve costruire un tratto autostradale non rispetta le norme sulla sicurezza del lavoro e non rispetta neppure i contratti, e svolge una parte del lavoro con operai non regolari. Poi c’è un’altra azienda che aveva vinto l’appalto per quel tratto di autostrada, ma le è stato tolto perché il capomastro aveva una cognata che – dopo l’assegnazione dell’appalto – ha sposato un ragazzo che era stato due anni in prigione per mafia. La burocrazia è intervenuta per impedire che l’appalto andasse all’azienda considerata in odor di mafia, ma non ha nessun interesse, o nessun mezzo, per far rispettare il diritto del lavoro. È qui che vorrei sentire anche il parere del professor Cassese. A che serve una burocrazia così? A controllare che si rispettino i diritti o ad alimentare se stessa, e il sistema prefettizio, e le procure, e gli enti di controllo e tutto il resto? Questa burocrazia negli ultimi 25 anni ha preso in mano la macchina dello Stato. Insieme alle Procure. E il risultato è stato il blocco dello sviluppo e la corsa dell’Italia verso gli ultimi posti della classifica tra le potenze industriali. E questo è successo per una ragione molto semplice. La burocrazia è diventata ideologia. Cioè ha preso il posto delle ideologie precedenti. Molto approssimativamente possiamo dire che esisteva una ideologia di sinistra, dalle vaghe idee egualitarie. E una ideologia di destra, dalle vaghe idee liberiste. Sono state messe tutte e due sul banco degli imputati e sostituite dall’ideologia del “regolismo”. Che vuol dire? Non contano i valori, non contano i risultati, non contano gli interessi delle classi, non conta l’aspirazione alla ricchezza o alla giustizia sociale. Contano solo le regole. E lo sforzo dei politici deve essere quello di rendere sempre più grande, imperiale, dominante la regola. E deve essere quello di aumentare le regole, moltiplicarle, sovrapporle, perché questo e solo questo crea davvero ideologia o forse addirittura religione. Questa ideologia, come tutte le ideologie, è il punto di incontro di un’idea e di un ceto. E il ceto che si è fatto grande curando questa idea non è solo il ceto burocratico, è un ceto vasto che raggruppa una serie di professioni che vanno dal magistrato, al giornalista, al politico, all’amministratore e persino, talvolta, all’avvocato.  Non sarà facile fare la guerra a questa ideologia. È potentissima. Però, o la facciamo o diventiamo tutti poveri.

Burocrazia e magistratura bloccano l’Italia: i 10 freni a mano da far sparire. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Aprile 2020. Dal 1992 ad oggi l’Italia è cresciuta pochissimo. Quattro o cinque volte meno dei principali paesi europei. Diciamo di Francia e Spagna, per citare due paesi abbastanza simili al nostro. L’economia è ferma in tutti i settori. E se cammina va col freno. Eppure nel ventennio precedente l’Italia era cresciuta molto. Sul piano produttivo, della ricchezza, dei diritti. Era cresciuta più di tutti gli altri paesi europei – nonostante una situazione politica molto difficile, segnata dalla lotta armata e da una attività dilagante della mafia al Sud – ed era diventata la quinta o forse addirittura la quarta potenza industriale del mondo. Cosa è successo a un certo punto? È cambiato lo spirito pubblico, l’etica collettiva. Il paese che aveva visto la collaborazione e il conflitto tra borghesia e classe operaia come chiave di volta del suo successo, improvvisamente ha invertito rotta. Il suo obiettivo non è stato più quello di garantire ricchezza e diritti, ma di garantire onestà. Cosa sia esattamente l’onestà è un segreto. Si sa come si manifesta pubblicamente: affermando la superiorità della magistratura, e subito dopo (subordinata a essa) quella della burocrazia politica e amministrativa. Il risultato è quello che vediamo: il trionfo delle procedure e la sconfitta del prodotto e dei produttori. Di conseguenza una riduzione dei profitti e della libertà di impresa, e parallelamente una forte riduzione dei diritti e della libertà dei lavoratori. E anche del loro benessere. Fatevi questa domanda: le imprese erano più libere e attive nel 1991 o oggi? Poi fatevi questa seconda domanda: i lavoratori dipendenti avevano più diritti e capacità di conflitto nel 1991 o oggi? La risposta è scontata. Il fatto che in questi anni si sia riusciti a danneggiare tutti e due i partecipanti al conflitto è la prova del fallimento. Dobbiamo continuare con questo spirito suicida? La crisi prodotta dal coronavirus sarà devastante. O ci prepariamo a un colpo di reni o l’Italia declina e svanisce. Che vuol dire un colpo di reni? Vuol dire ristabilire il primato della libertà. In tutti i campi. Politica, economica, civile, di costume. Ribaltare il potere della magistratura e della burocrazia. Costringendo la magistratura a tornare nel suo ruolo costituzionale e a rinunciare alla gestione della politica e dell’economia (cioè a quello che ha fatto in questo quarto di secolo) e radendo al suolo il castello di potere della burocrazia. Lo abbiamo già scritto su questo giornale: la burocrazia è un’ideologia, è la peggiore delle ideologie perché non nasce su dei principi, è il punto di incontro tra una formazione di potere e l’idea che la “regola” sia non un mezzo ma una dea sovrana, che vive per se stessa e che va idolatrata ed esagerata. Che vuol dire radere al suolo la burocrazia? Esattamente questo: raderla al suolo, eliminare molti enti, autorità, formazioni di potere e di gestione del potere. A partire dall’Anac e dal codice degli appalti, che hanno provocato solo paralisi produttiva e blocco delle opere pubbliche. Qui accanto abbiamo pubblicato un elenco di 12 enti da abolire. È una lista che si può allungare. E che tocca anche l’impianto della giustizia amministrativa, che è una dei principali protagonisti del rallentamento dell’economia. Abolire il Consiglio di Stato? Io dico di sì. Vediamo: chi lo presiede oggi? Filippo Patroni Griffi, persona sicuramente rispettabilissima e autorevole. Ex ministro, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ex capo di gabinetto di un ministro. Diciamo un uomo della politica. Cosa ci fa al vertice di un luogo così importante della Giustizia? E quanti consiglieri sono stati in passato capi di gabinetto dei ministri? Vi pare che tutto ciò vada bene e garantisca indipendenza, efficienza, equilibrio? Ci sono alcuni di questi enti dei quali chiediamo la soppressione che hanno un fine nobile. Garantire la libertà di informazione, per esempio, o garantire la privacy. L’hanno garantita? Qualcuno osa dire che l’hanno garantita? No. Meglio eliminarli e trovare forme diverse di garanzia e anche di lotta politica. Lo Stato deve liberare le imprese. E occuparsi di garantire solo due cose: diritti dei lavoratori e welfare. La modernità sta lì: più welfare, più diritti e più libertà. Se dopo il virus riusciremo a esprimere questa svolta, benissimo. Sennò rassegnamoci a diventare un Paese di seconda o terza, o quarta fila.

Questo è l’elenco di 12 enti che potrebbero essere aboliti senza danni e con ottimi effetti per l’economia:

1) Corte dei Conti

2) ANAC Autorità Nazionale Anticorruzione

3) AGCM Autorità garante della concorrenza e del mercato

4) Garante per la protezione dei dati personali

5) AGCOM Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

6) TAR Tribunale Amministrativo Regionale

7) Consiglio di Stato

8) CNEL Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro

9) Giudice di Pace

10) Autorità di Sistema Portuale

11) Provveditorato Opere Pubbliche

12) INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche

Il Codice Appalti soffoca l’economia, per ripartire dopo Covid va cambiato. Giuliano Cazzola su Il Riformista il  3 Aprile 2020. Campane a morto anche per l’economia. «Nel 2020 un netto calo del Pil è comunque ormai inevitabile: lo prevediamo al -6,0%, sotto l’ipotesi che la fase acuta dell’emergenza sanitaria termini appunto a maggio. Si tratta di un crollo superiore a quello del 2009, e del tutto inatteso a inizio anno» – così il report della Confindustria – ma «ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive, secondo i parametri attuali, potrebbe costare una percentuale ulteriore di Pil dell’ordine di almeno lo 0,75%». L’allarme è chiaro ed è diretto alle autorità che si apprestano a prolungare la quarantena almeno per altre due settimane. Del resto è la strategia scelta – sia pur con qualche incertezza – dal governo fin dall’inizio dell’epidemia a dare priorità all’emergenza sanitaria, nella speranza che il Paese potesse uscire dal tunnel in un tempo più breve. Poiché questa aspettativa è risultata vana, diventa necessario ipotizzare una diversa strategia: passare dal contenimento alla convivenza con il virus. Ovviamente questo cambiamento non può essere improvviso come quando nei viaggi aerei intercontinentali si attraversa la linea del sole. Vi è l’esigenza di una transizione adeguata che prenda le mosse da un miglioramento delle condizioni sanitarie, sia per quanto riguarda le dimensioni del contagio, la possibilità delle strutture sanitarie di farvi fronte e l’individuazione di terapie più efficaci. In parallelo – questo pare essere il progetto del governo – occorre rimettere in moto l’economia con l’obiettivo di sostenere i redditi non solo con interventi monetari, ma anche con la riattivazione dei posti di lavoro all’interno dei settori produttivi, che devono ripartire. E se un coordinamento è mancato a livello europeo nella fase dell’emergenza sanitaria, non può venir meno nell’organizzazione del riavvio. Le economie, in particolare quelle europee, sono troppo interconnesse tra di loro per funzionare con tempi e ritmi diversi. C’è un problema di forniture che coinvolgono gli apparati industriali di diversi Paesi (si pensi ai legami tra le produzioni tedesche e quella delle regioni della Val Padana). Se i flussi venissero interrotti diventerebbe necessario ricostruire altrove le filiere produttive. Ormai non esiste più un apparato produttivo nazionale autosufficiente, soprattutto per un Paese come l’Italia la cui economia ha potuto ‘’tirare il fiato’’ grazie alle esportazioni. Del resto, anche in regime di quarantena generalizzata, non sono pochi i lavoratori che, sia pure con tutti gli accorgimenti possibili, hanno continuato a lavorare per la sopravvivenza materiale degli italiani (e degli stranieri che risiedono qui). Fabrizio Patriarca ha pubblicato su Huffington Post una stima sul numero di lavoratori che garantiscono i beni e i servizi ritenuti essenziali (attraverso un negoziato con le parti sociali, il cui esito è stato giudicato soddisfacente da parte dei sindacati). Escludendo i settori della scuola e della pubblica amministrazione (che sono soggetti a restrizioni specifiche) la quota di lavoratori necessari è pari al 47% del totale: circa 8,6 milioni. Con la ripartenza graduale delle attività economiche, alle quali si promette tutta la liquidità necessaria, bisognerà riflettere sul perché i finanziamenti per le opere pubbliche e le infrastrutture non venivano spesi anche prima della catastrofe sanitaria. Si dovrebbe quindi cogliere l’occasione di questa fase di legislazione straordinaria per costituire un quadro normativo adeguato. In primo luogo deve essere rivisto il Codice degli appalti (dlgs n.50/2016). Un provvedimento nato sotto cattivi auspici tanto che il governo di allora fu costretto ad emanare un avviso di rettifica di ben 188 articoli su 220. A parte gli innumerevoli e sbadati refusi, l’aspetto più grave (che fu denunciato da Gianantonio Stella sul Corriere della sera), riguardava i rinvii legislativi errati. Qualunque legge si muove in un quadro normativo più ampio e deve fare riferimento ad altre norme contenute in commi ed articoli di altri provvedimenti legislativi (contrassegnati da date e numerazioni). Se queste indicazioni sono sbagliate (e, nel codice, lo erano per un numero impressionante di volte) l’interprete (che è poi un’impresa che deve lavorare) o finisce su di un percorso sbagliato o si infila lungo un binario morto da cui non è più in grado di uscire. Ve li immaginate gli uffici tecnici delle aziende che devono consultare la legge tenendo sott’occhio l’opuscolo degli errata corrige? Ma la questione più grave sta nella “filosofia” del Codice che si basa, nei fatti, su di una presunzione di valore assoluto: gli appalti sono inficiati dalla corruzione e dalla concussione. E dagli abusi. Basti pensare che il Codice è accompagnato da un documento di Linee guide deliberato dall’Anac su come valutare l’offerta più vantaggiosa. Fare l’imprenditore nel settore delle costruzioni è diventata una professione rischiosa. A parte tutte le difficoltà per vincere gli appalti, ottenere le commesse e i pagamenti con frequenza regolare, costoro (certo, non sono tutti stinchi di Santo) devono mettere in conto di essere intercettati fin dal primo minuto, di ritrovare, pubblicate sui quotidiani, le registrazioni delle loro conversazioni, di ricevere una sequela di avvisi di garanzia e, magari, anche di visitare per qualche mese le patrie galere, assistiti da una campagna mediatica diffamatoria. Tutto ciò, anche in assenza di eventuali malversazioni. Ovviamente si evoca l’ombra di Banko della burocrazia inefficiente e sorniona. E nessuno ha il coraggio di riconoscere che il “mettere una firma” da parte di un funzionario, potrebbe comportare quanto meno un avviso di garanzia, un atto che ormai è divenuto un preavviso di colpevolezza.

Se gli appalti si bloccano non è colpa del Codice. Stefano Esposito de Il Riformista il 9 Aprile 2020. Ho seguito sul Riformista il dibattito sul codice degli appalti. Ritengo che imputare al codice, di cui sono stato relatore al senato, ed ad Anac, la responsabilità del, presunto, blocco dei lavori e delle forniture sia una operazione che non corrisponda alla realtà. Prima dell’approvazione del codice, nel 2015, questo paese non faceva altro che lamentarsi di come i lavori pubblici e le forniture di beni e servizi fossero oggetto di scandali, affidamenti al massimo ribasso con le conseguenze che tutti conosciamo, affidamenti diretti, lievitazione dei costi dovuti alle continue varianti e riserve, appalti integrati che invece di accorciare i tempi e i costi delle opere producevano il risultato contrario. Per non parlare del tema del subappalto, diventato lo strumento principe della criminalità organizzata per focalizzare i propri interessi negli appalti pubblici; non meno importante è l’uso che ne facevano le grandi imprese per scaricare sul sistema delle piccole e medie imprese i ribassi praticati in fase di gara per aggiudicarsi gli appalti. Questo meccanismo produceva come unico risultato quello di avere lavori e servizi non in linea con gli standard minimi richiesti. Oggi, dopo la riforma che ha limitato la possibilità di subappalto, scelta fatta consapevoli di essere non in linea con la normativa europea ma calata nella relata italiana, tutti a chiedere il subappalto libero e senza controlli. A me pare un tentativo ipocrita quello di scaricare sul codice appalti e su Anac responsabilità che non hanno e che vanno ricercate nella poca disponibilità di una parte della PA ad attuare le norme che richiedono quel minimo di assunzione di responsabilità che è lecito richiedere. E va ricercato nel sistema delle imprese che, in molti casi, non ama la competizione sulla qualità del progetto ma preferisce la scorciatoia del prezzo più basso. La giustificazione secondo la quale i dirigenti pubblici non firmano più niente perché spaventati dall’azione dei Pm non sta in piedi. So perfettamente che ci sono molti casi di indagini costruite su teoremi senza fondamenta ma sono frutto molto spesso di mega-appalti, vedi Consip, costruiti malissimo, forse non a caso, che determinano una guerra sui prezzi invece che premiare la qualità e la competenza. Non a caso sono stato tra i pochi che volevano modificare l’impostazione delle gare di Consip, ma purtroppo la mia tesi uscì sconfitta. Imputare al codice o ad Anac responsabilità su questo è un’operazione falsa e priva di fondamento. Semmai il codice è lo strumento che se utilizzato in modo corretto e puntuale, dove necessario con il contributo di Anac, evita di pubblicare gare che daranno più lavoro agli avvocati che a ingegneri e operai. Invece di fare questo si continua a cercare un capro espiatorio da offrire in pasto al popolo e parallelamente teorizzare di tornare al sistema dei commissari e delle deleghe che tanti danni hanno prodotto in questo paese. Chi utilizza il ponte Morandi per giustificare questa opzione compie un’operazione sbagliata; quel metodo non è utilizzabile per la ripartenza del paese. Anzi se si vuole modificarlo definitivamente questa è l’opzione perfetta. Nessuno poi si lamenti se le Procure italiane saranno le vere protagoniste. Possibile che nessuno ricordi quanto avvenuto in occasione di Expo? Se non fosse stato per il grande e duro lavoro di Cantone e di Anac, Expo non avrebbe probabilmente aperto. Non servono scorciatoie, non serve riesumare la legge obbiettivo, serve applicare le norme, serve dare ad Anac poteri incisivi e una guida autorevole, come era quella di Cantone, e le risorse affinché possa svolgere il ruolo di supporto e accompagnamento che ha svolto tra il 2015 e il 2018. Poi sono arrivati al governo leghisti e grillini ed è iniziata la sistematica guerra a Cantone e la progressiva demolizione di Anac.

L’Italia è ferma, sospendiamo il codice appalti: basta burocrazia delle procure. Piero Sansonetti de Il Riformista il 7 Marzo 2020. Ora se ne sono accorti pure loro – i grillini – che il blocco praticamente di tutte le opere pubbliche e delle grandi opere, che va avanti da anni, non è un vantaggio per l’Italia. È una cosa molto positiva che se ne siano accorti. Il problema è che per diversi decenni, prima i loro predecessori (girotondi vari, popoli viola, partiti di magistrati, travaglisti e pre-travaglisti)  e poi loro 5 stelle, hanno paralizzato l’economia italiana: e il conto che ora bisogna pagare è altissimo. Il viceministro alle infrastrutture Cancelleri, che è un esponente dei 5 Stelle, si è deciso a chiedere che per cinque anni sia sospeso il Codice Anac almeno per cinque grosse opere pubbliche. E che sia invece utilizzato il cosiddetto Codice-Genova, e cioè la deroga in base alla quale è stato possibile risparmiare due anni e mezzo nell’inizio dei lavori per il ponte che dovrà sostituire il ponte Morandi. Il viceministro e i Cinque stelle si sono resi conto di quale sia la differenza – in termini di economia e di “vivibilità” – tra impiegare sei mesi o tre anni per superare i codicilli e avviare i lavori. Non saprei quantificare il risparmio realizzato con il nuovo Ponte Morandi, sospendendo il codice Anac, ma a occhio e croce possiamo parlare almeno di mezzo miliardo nel costo dell’opera e di diversi miliardi nell’efficienza dei trasporti che passano per la Liguria. È chiaro che il danno per la Liguria provocato dall’assenza di quel ponte è molto alto, e che ogni anno di ritardo pesa sull’economia di tutta la regione. Poi, se vogliamo occuparci anche del resto dell’Italia, scopriamo che ammonta a circa 120 miliardi il valore delle opere bloccate dal codice Anac. Non so se capite cosa vuol dire per un paese moderno, che fa parte dell’Europa, che vive nella globalizzazione, che è dentro il mercato, che utilizza fondi europei, vedere bloccati 120 miliardi di lavori. E non so se gli economisti siano in grado di calcolare quale è il danno di questo blocco e quale sarebbe stato il vantaggio , in termini di Pil, se non ci fossimo autostrangolati coi codici anti-corruzione. Probabilmente il danno può essere quantificato in più di mille miliardi, e in termini di Pil possiamo parlare almeno di due o tre punti di Pil sfumati. Nel 1992, quando iniziò l’ubriacatura giustizialista guidata dalla Procura di Milano, alcuni economisti dicevano che la nostra era la quinta potenza industriale al mondo, altri dicevano che era la quarta e che aveva scavalcato sia la Francia sia la Gran Bretagna. Io all’epoca facevo già il giornalista, e me li ricordo bene quei tempi. I politici di oggi sono in gran parte molto giovani, allora erano bambini. Se glielo dici, forse non ci credono che davanti a noi c’era sola la potenza degli Stati Uniti e quella del Giappone e della Germania appena unificata. ma era così. Ora siamo scesi giù giù in classifica, ci avviamo verso il decimo posto, la crescita del nostro Pil è in fondo alla graduatoria europea, siamo pronti ad essere i primi tra i paesi occidentali a entrare in recessione, lo sviluppo economico del paese è bloccato – crisi o non crisi – da un quarto di secolo. A chi dobbiamo dire grazie? Quando ci accorgeremo che l’onda del giustizialismo fondamentalista ha provocato più danni di qualunque altra cosa. Che ha indebolito fortissimamente la nostra industria, che ha spazzato via la forza dei sindacati, che ha messo alle corde i lavoratori? Oggi noi abbiamo un paese dove i capitalisti sono più fragili e impauriti e i lavoratori godono della metà dei diritti di cui godevano all’inizio degli anni novanta. Però abbiamo la soddisfazione di vedere entrare in Parlamento eserciti di ragazzotti che gridano Honestà senza avere la minima idea di cosa stavano combinando.

Documento di valutazione dei rischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il documento di valutazione dei rischi (DVR) è un documento che rappresenta la mappatura dei rischi per la salute e la sicurezza presenti in un'azienda, richiesto in formato elettronico o cartaceo dal Testo unico sulla sicurezza sul lavoro D.Lgs 81/2008, ove viene trattato agli articoli 17 e 28). Deve contenere tutte le procedure necessarie per l'attuazione di misure di prevenzione e protezione da realizzare e i ruoli di chi deve realizzarle. La sua redazione è un compito non delegabile assegnato al datore di lavoro con l'ausilio del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e del medico competente, previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS/RLST). Deve inoltre essere redatto con data certa.

Portano il figlio alla vendemmia, denuncia e multa da 5mila euro. La Repubblica il 3 novembre 2012. L'episodio a Manduria: il quindicenne aveva accompagnato i genitori e lo zio nel podere di famiglia, prima dell'inizio della scuola. "Sfruttamento di lavoro minorile" per gli ispettori di Taranto. Una multa di 5mila euro per lo zio, una denuncia penale per i genitori. Si è chiusa così la mattinata in campagna di un quindicenne di Manduria. Il ragazzo  era nei vigneti dei parenti, con i genitori al suo fianco, per assistere alla vendemmia quando è arrivata un'ispezione dell'ufficio del lavoro provinciale di Taranto. I funzionari non hanno avuto dubbi: quello era un caso di sfruttamento di lavoro minorile. La vicenda è stata raccontata dal giornale La Voce di Manduria. L'episodio risale allo scorso 6 settembre, ma la notizia si è diffusa solo in questi giorni con l'arrivo dell'ingiunzione a pagare. La scuola non era ancora iniziata e il quindicenne ha accompagnato il parente nei poderi di famiglia per assistere al taglio dell'uva. ll padre del ragazzo e suo cugino avevano organizzato un cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il padre del ragazzo, oltre alla moglie, impegnata nel lavoro, porta con sé anche il figlio quindicenne. Il ragazzo frequenta il liceo scientifico di Manduria e studia pianoforte da cinque anni al conservatorio Paisiello di Taranto. Al momento dell'arrivo degli ispettori il ragazzo è accanto alla madre ed ha in mano un paio di forbici infortunistiche. Questo basta ai due funzionari per contestare ai suoi familiari il lavoro irregolare e la denuncia di sfruttamento di minore. Lo studente, dal canto suo, ha negato di aver preso parte alla vendemmia. Ma ora della sua posizione dovranno risponderne i suoi parenti.()

Invita gli amici a raccogliere l'uva, multato per lavoro nero. Per l'Ispettorato del Lavoro stava impiegando manodopera non dichiarata, e cioè la sua compagna e tre suoi amici di vecchia data. Multa da 19.500 euro. Luca Romano, Lunedì 28/09/2015, su Il Giornale. L'Ispettorato del lavoro non conosce deroghe. Succede che un agricoltore della provincia di Cuneo ha deciso di invitare gli amici a raccogliere l'uva. Peccato però che i controllori l'abbiano multato per lavoro nero poiché secondo l'Ispettorato del Lavoro stava impiegando manodopera non dichiarata, e cioè la sua compagna e tre suoi amici di vecchia data. È accaduto, come racconta La Stampa, a Castellinaldo d'Alba a Battista Battaglino, pensionato di 63 anni. "Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perché in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero", ha raccontato Ada Bensa, compagna del pensionato. Che ha dovuto far fronte a una multa di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato.

Raccolta olive: invece di chi ti aiuta arrivano gli ispettori del lavoro. Francesco Martini su Casentino 2000 il 23 novembre 2012.   – Ho avuto notizia di alcune incursioni degli ispettori del lavoro su piccole o piccolissime aziende agricole in cui è in atto la raccolta delle olive: «…l’anno scorso mi hanno fatto 500 euro di multa per ogni persona trovata nel campo a raccogliere le olive: erano amici e mezzi parenti che ci aiutavano. Sa io ho 73 anni e mia moglie uguale. Quest’anno siamo soli io e lei e cogliamo quello che si può; dove non s’arriva lasciamo le olive nelle piante e buonanotte!!!». In passato, per millenni, i coltivatori hanno praticato il cosiddetto “sconto d’opra”, cioè un contadino aiutava un altro nei lavori, lunghi o pesanti, in cui era necessario essere più di uno e, a sua volta, veniva aiutato per un pari numero di giornate oppure con la cessione di una parte del prodotto agricolo. Poi, siccome il lavoro sui campi determina un grande guadagno per tutti, sono arrivati gli ispettori del lavoro e questa pratica non è stata più consentita. Ispezioni e multe per chi andava a raccogliere le olive per rimediare l’olio per casa (a Subbiano la regola era 5- 6 chili d’olio in cambio della raccolta di un quintale d’olive) e per il proprietario delle piante. È la legge e la legge va rispettata! Poi la legge è cambiata: il D.l. n. 276/2003 (cosiddetta Legge Biagi del 10.9.2003) stabilì che potevano collaborare ai lavori agricoli, compresa la raccolta delle olive, senza alcuna formalità di legge, i parenti ed affini fino al terzo grado (Art. 74: “Con specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte da parenti ed affini sino al terzo grado in modo meramente occasionale a titolo di aiuto…”); ma gli ispettori non intendevano e consideravano destinatari di quella facilitazione legale solo i Coltivatori Diretti regolarmente iscritti: venivano esclusi i piccolissimi proprietari che non si dedicavano a titolo professionale all’attività agricola. Fu necessaria una circolare dell’I.N.P.S. per imporre agli ispettori di non limitare l’applicabilità della legge ai soli Coltivatori Diretti professionali, ma di estenderla a tutti i proprietari dei fondi agricoli. Successivamente con Decreto Legge n. 5 del 10.2.2009 (art. 7ter) veniva ampliata la parentela e affinità dei partecipanti ai lavori agricoli fino al quarto grado. Oggi, praticamente, possono partecipare alla raccolta delle olive e ad ogni altra attività agricola, purché svolta gratuitamente e per breve tempo tutti i parenti e gli affini entro il 4° grado. I parenti sono i consanguinei e quindi: genitori, nonni e bisnonni, figli, nipoti e pronipoti, zii e zie, fratelli e sorelle e loro figli (cioè zii e cugini di primo grado); gli affini sono i parenti del coniuge (marito o moglie) e cioè genitori nonché nonni e bisnonni del coniuge, figli, nipoti e pronipoti del coniuge, fratelli e sorelle e loro figli del coniuge (cioè cognati e loro figli), zii e zie del coniuge e loro figli. Spero di essere stato abbastanza chiaro e mi auguro che le mie indicazioni possano servire a quei ricconi (!) dei proprietari terrieri casentinesi.

Raccogliere uva, oliva presso amici o parenti é legale o no? Economia-Italia.com il 24 Maggio 2019. Si può vendemmiare gratis presso il campo di un parente o un amico, ma un normale lavoratore deve essere in regola per raccogliere uva, olive, pomodori o quant’altro presso un campo coltivato, altrimenti il padrone del terreno rischia una multa salata, a meno che questo non sia un parente o un coltivatore diretto collega che non percepisca reddito e che rientri nello scambio di manodopera tra coltivatori diretti, come leggerete più avanti in questo articoli che finalmente spiega se raccogliere uva, oliva presso amici o parenti è legale oppure no. Raccogliere uva o oliva presso amici o parenti gratuitamente, è legale?

Prima facciamo una premessa: iniziamo dal principio: Da tempo immemorabile in Italia ( dai grèci chiamata Enotria, per le sue vaste piantagioni di uva) quando é tempo di raccolto, si riuniscono insieme amici e parenti e si coglie l’uva a settembre e le olive ad ottobre-novembre. Di solito la metà va al proprietario della terra, l’altra metà se la dividono quelli che l’hanno colta, ma questa é solo un’usanza, a volte si divide tutto in parti uguali. Questo sistema viene usato da chi ha un pezzetto di terra e la coltiva con tanto amore perchè 1a volta all’anno gli dia dei frutti per poter tirare avanti gli altri 12 mesi.

Vendemmiare, raccogliere l’uliva presso parenti o amici é possibile? In questo modo il piccolissimo proprietario di terra ( bastano 2 o 3 mila metri quadri ) potrà avere un suo orto, vigna con viti, olivi ed avere tutto l’anno vino buonissimo, olio buonissimo, insalata ed altri prodotti dell’orto che LUI ha coltivato. Questo non é solo un bene economico per il piccolissimo proprietario terriero/contadino, ma anche per il paesaggio, meno smottamenti idro-geologici causati dall’incuria dell’uomo, quindi meno spesa per Comune/Province/Regioni  si avranno infatti campi coltivati e sistemati a dovere, si avranno persone che mangiano cose sane senza l’uso di prodotti chimici, quindi meno malattie e meno spesa per il Sistema Sanitario Nazionale, ma a tutto questo la burocrazia é sorda e cieca. E’ vero: ci sono aziende che sfruttano operai e li fanno lavorare per 2 euro all’ora 12 ore al giorno con la schiena piegata, ma ovviamente non sono questi i casi. Si parla di grandi aziende, che hanno centinaia, migliaia di filari, centinaia di ettari di terreno coltivato intensamente, campi enormi a perdita d’occhio.

Ora: é possibile che un piccolo proprietario terriero debba prendere qualcosa come 20 mila euro di multa perché si stava facendo aiutare dai suoi amici a cogliere dell’uva? Questo é accaduto proprio l’altro ieri nelle belle colline piemontesi vicino ad Alba, dove nasce il favoloso tartufo bianco  2 contadini pensionati, marito e moglie si stavano facendo aiutare a raccogliere l’uva dei loro filari dai vicini, poi sarebbero tutti passati in un’altro podere, è così che si fa da quelle parti, da sempre ci si da una mano, la vendemmia è tempo di festa ed era festa anche per loro, finché non sono spuntati i carabinieri e impiegati dell’ispettorato per il lavoro che hanno fatto una multa per 19.500 euro, considerando tutte quelle persone lavoratori in nero. I due poveri pensionati ora sono rovinati e non sanno nemmeno come fare a pagare.

Le norme che consentono andare a vendemmiare da parenti ed amici gratis: Scambio di manodopera: è la legge del Codice Civile all’articolo 2139 consultabile presso una Circolare INPS n° 126 del 16/12/2009 che ci dice che i coltivatori diretti si possono aiutare, scambiandosi favori di manodopera, senza che ci siano compensi in moneta tra gli uni e gli altri, ovviamente però bisogna dimostrare di essere dei coltivatori diretti, per poter fare questo.

 Prestazioni di parenti ed affini: qui la cosiddetta legge Biagi d.lgs. n. 276 del 2003, ci dice che vanno considerate prestazioni occasionali di tipo gratuito quelle di parenti ed amici, che siano pensionati o impiegati a tempo pieno presso un altro datore di lavoro, quindi non hanno bisogno di essere iscritte nè a livelli assicurativi nè ad altri livelli amministrativi.

Voucher per lavoro occasionale accessorio: ecco un altro caso ( più raro, stavolta) di lavoratori che possono lavorare non in regola e che possono raccogliere pomodori o possono fare la vendemmia, vengono pagati ad es. con Voucher del valore di 10 euro l’uno ( per ogni ora lavorativa) di cui 7,5 andranno al lavoratore . Qui è prevista la copertura assicurativa INAIL  , il lavoratore pensionato, disoccupato o studente può avere una piccola entrata in più, ma si può lavorare solo per una cifra limite di 5.000 euro netti all’anno solare. Per info sui Voucher per lavoro occasionale, potete andare al sito del Ministero del Lavoro* ATTENZIONE: i Voucher sono stati sostituiti con il Libretto di Famiglia di Contratto di Lavoro Occasionale.

Controlli sulla raccolta delle olive: attenzione a farsi aiutare da amici e parenti. SavonaUno il 25 ottobre 2018. Al via la raccolta delle olive e iniziano anche i controlli ispettivi da parte dei funzionari del ministero del Lavoro. Controlli a tappeto e, per chi non è in regola. le sanzioni sono molto salate. A mettere su chi va là i produttori è la Cia, confederazione degli agricoltori, “che combatte con forza il lavoro nero, ma spera nel buon senso di chi controlla, nei casi in cui ad aiutare a bacchiare gli ulivi siano familiari o amici”. “Sia chiaro che Cia è contro il lavoro irregolare – afferma Stefano Roggerone, presidente di Cia Imperia – ma è tradizione, per la raccolta delle olive, un po’ come per la vendemmia, farsi aiutare da parenti e amici. Magari poi ci si divide l’olio prodotto, magari si mangia in compagnia, bacchiare gli ulivi assieme è una pratica che va avanti da secoli e che non ha secondi fini se non produrre l’olio per autoconsumo familiare. Per questi casi invochiamo il buon senso da parte di chi controlla”. I consigli per cercare di salvarsi da multe e sanzioni (che partono da un minimo di mille euro per ogni “lavoratore” non in regola) sono: l’assunzione vera e propria del personale, oppure l’utilizzo dei voucher che però possono essere attivati solo per i pensionati e gli studenti. “Altre alternative sono il farsi aiutare solo da parenti entro il quarto grado – prosegue Roggerone – oppure utilizzare lo scambio di giornata se si è entrambi coltivatori diretti. Stiamo parlando di micro-aziende famigliari, che vanno avanti con i mezzi che hanno e con il mutuo aiuto. Loro hanno l’urgenza di ottenere delle semplificazioni per quanti riguarda il DVR (il documento di valutazione dei rischi), perché non sono grandi aziende con tanti dipendenti. Se si va incontro alle micro-aziende semplificando si otterrà più sicurezza e più legalità”.

Mia madre, il pass per disabili, e l'umiliazione subita da chi vuole rispettare le regole. La visita per il rinnovo del tagliando per poter parcheggiare nei posti riservati mostra la faccia disumana dello Stato. Incapace di mostrare umanità verso chi ne ha bisogno. Luca Bottura il 23 gennaio 2020 su L'Espresso. Perché vede, dottoressa, non nego che lei abbia delle ragioni. Mentre attendevo, davanti all’ospedale, che si liberasse un parcheggio normale - ho il pass handicap scaduto -ho visto partire e arrivare almeno cinque auto munite di regolare contrassegno. Nessuno che denotasse problemi di sorta, parevano in eccellente salute. Un po’ come quei tre ragazzotti che tempo fa, in centro, avevano mollato la Y nel posto disabili per andare a prendersi il mojito e alle mie rimostranze avevano risposto canzonatori: «Vuoi venire anche te?». Lei ha alcune ragioni, nel comportarsi in modo piuttosto disumano con chi entra nel suo ufficio per rinnovarlo, quel pass. Le saranno arrivate disposizioni di essere inflessibile coi furbi. Immagino sconti la frustrazione di dover annotare quel che le si dice su un foglio di carta, senza manco un computer, dunque di non poter incrociare le informazioni, le diagnosi, non sapere chi ha di fronte, provare un certo e comprensibile disgusto per chi si presenta nel suo ambulatorio a simulare patologie. Lei ha una manciata di ragioni, magari pure personali, non so, ci si alza male a volte la mattina, per trattare chi le arriva davanti come un aspirante truffatore. Compreso il sottoscritto e mia moglie. Per non presentarsi a chi ha di fronte, per non presentare i due tirocinanti che le siedono accanto. Per rompere il ghiaccio con una battuta canzonatoria, di fronte a una donna in sedia a rotelle chiaramente priva di una qualsivoglia autonomia: «Immagino non guidi, no?». Lei avrà anche una ragione, anche se fatico a individuare quale, per mostrarsi disinteressata alle condizioni della persona che deve “giudicare” (una patologia cardiaca grave, oltre a un femore rotto da poco) e al termine di una visita approssimativa, liquidare i presenti con un rinnovo di un anno e un’ulteriore visita da compiersi a 89 primavere suonate, «perché tanto sarà in piedi anche prima, no?». Lei… no, non ha ragione. Non ha ragione perché probabilmente senza rendersene conto rappresenta quello che lo Stato è diventato per chi cerca di rispettare due regole, e somiglia maledettamente a quei cartelli spiritosi che ancora sopravvivono in qualche bar: «Per colpa di qualcuno, non si fa credito a nessuno». Neanche a chi - è il mio caso - non ha mai fatto di quel ritaglio una specie di pistola fumante con la quale lucrare due passi in meno. Ma solo il piccolo sostegno plastificato utile a non seppellire la mia genitrice nel suo tinello. Perché mi farebbe un po’ schifo, perché so che rischio di toglierlo a chi ne ha davvero bisogno, perché non si fa. Invece la mia esperienza, quella di un tizio normalmente perbene, come tanti, è stata quella che mia madre ha riassunto mentre la aiutavo a scendere dall’auto e a prendere goffamente posto sulla carrozzina: «C’è da vergognarsi». Si riferiva al suo corpo che non la assiste più come deve, a quella sorta di pudore violato che ne deriva, e che gli anziani, anche quelli ormai poco presenti conoscono bene. Ma è esattamente quello che ha fatto provare a me. Se le riesce, con gli altri, sia un pochino più gentile. GIUDIZIO: Per me è un no.

Alba Adriatica, vietato seppellire assieme coppie non sposate. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Nicola Catenaro. Ad Alba Adriatica, in provincia di Teramo, è vietato seppellire insieme persone non sposate. È accaduto alla famiglia di Dante Caponi, che prima di morire si era tanto raccomandato con i figli: «Prendetevi cura di lei dopo che me ne sarò andato e, quando verrà la sua ora, sistematela nella nostra cappella». Lei è Maria Angelini, la compagna che Dante aveva incontrato dopo la morte della moglie. Hanno vissuto insieme per quasi trent’anni. Non si erano mai sposati ma lei risultava anche nello stato di famiglia. Lui se n’è andato ad aprile, lei lo ha seguito qualche giorno fa. Quando i figli di Dante si sono dati da fare per eseguire la volontà del padre e tumulare la salma di lei accanto a lui, si sono trovati di fronte il muro alto della burocrazia. «Un paio di anni dopo la scomparsa di mia madre avvenuta nel 1988 – racconta Daniele, uno dei figli, ex consigliere comunale –, mio padre conobbe questa donna che gli fece ritrovare il sorriso. Non era solo un fatto di convivenza. Stavano sempre insieme, condividevano ogni cosa e io e mio fratello nutrivamo uno speciale affetto, ricambiato, per lei. L’abbiamo accudita fino alla fine e avremmo voluto seppellirla nella nostra cappella in cui, è bene precisarlo, ci sono ben undici loculi disponibili. Non esiste quindi, un problema di capienza mentre nel cimitero non si trovano attualmente posti liberi. Tuttavia, la dirigente responsabile ci ha risposto che, in base alla normativa esistente, non si possono seppellire nella tomba di famiglia estranei. Ma come?, ci siamo guardati, lei non è mai stata un’estranea». Daniele e il fratello chiedono come sia possibile che una convivenza, comprovata anche all’Anagrafe, non sia sufficiente per il Comune ad autorizzare l’iter. «Siamo stati di fatto invitati a parcheggiare Maria in un loculo provvisorio, dietro pagamento di mille euro come acconto, in attesa che se ne costruiscano di nuovi. Siamo molto amareggiati e abbiamo pensato a nostro padre, la cui volontà va rispettata. Andremo fino in fondo». La vicenda ha suscitato clamore sui social dopo lo sfogo che Daniele ha affidato al suo profilo Facebook, l’ultimo dell’anno, attirando anche la risposta pubblica del sindaco Antonietta Casciotti. Lei, al Corriere, spiega: «È una situazione che l’amministrazione ha intenzione di risolvere al più presto, ci siamo già scusati per questo. La coppia non aveva un contratto di unione civile e una lacuna del nostro regolamento non ha consentito alla responsabile di accogliere la richiesta da me pienamente condivisa. Provvederemo a portare all’approvazione del consiglio, forse già nella prossima seduta, la modifica e, successivamente, restituiremo alla famiglia la cauzione di mille euro già versata».

Telefono Rosa al ministro Bonafede: «Il nome è sbagliato e un bimbo con la leucemia non ottiene l’invalidità». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Rosa Gabriella Carnieri Moscatelli. Illustre ministro, ogni anno le volontarie si riuniscono per fare un escursus dell’anno appena trascorso. Durante l’incontro è inevitabile che si affronti il grande problema della difesa legale delle donne che si rivolgono alla nostra associazione. Il senso di impotenza che pervade tutte noi quando leggiamo alcuni provvedimenti. Ci siamo poste molte domande che giriamo a Lei signor ministro. Perché ad oggi non c’è un progetto di rivisitazione e riorganizzazione dei Tribunali? Le criticità che hanno presentato quest’ultimo anno i tribunali dei minori, le difficoltà oggettive dei giudici di pace non le suggeriscono una accurata analisi? Per essere più chiare le parliamo di episodi avvenuti nei tribunali minorili, impegnati con la parte più fragile della nostra società: i bambini e gli adolescenti. Pochi mesi fa una nostra avvocata ci ha comunicato che su un provvedimento di affido dei minori alla madre hanno sbagliato il nome dei figli. Sappiamo già che un semplice errore per essere corretto ha una procedura lunga e contorta. L’ultimo ha colpito un nucleo di mamma con tre figli, il più piccolo ammalato di leucemia. Il provvedimento con nome sbagliato risale al giugno 2018, a causa di ciò l’Inps ha rigettato la richiesta di pensione di invalidità. Appena arrivata la notifica Inps, nel settembre 2019, si è fatta richiesta di correggere il nome sul decreto. Il 19 dicembre 2019 è stata presentata una nuova richiesta perché dopo tre mesi la correzione non è stata eseguita. Un atto che richiede pochi secondi, atto che deve porre rimedio ad un errore del tribunale, purtroppo dopo tre mesi giace ancora inevaso. Il bambino non può prendere la pensione di invalidità, ogni pratica che la mamma deve aprire non procede perché il provvedimento è sbagliato. Ma questo è uno stato che rispetta il cittadino o lo tratta da “suddito”? E ancora ministro, posso farla partecipe delle dolorose vicende che hanno dovuto affrontare alcune delle donne ospiti delle case rifugio e che ci hanno confermato che viene ignorata completamente la convenzione di Istanbul oggi legge dello Stato italiano. Abbiamo letto l’appello al presidente Mattarella della signora Merighi che denuncia il trattamento che il tribunale dei Minori di Roma le ha riservato. Possiamo affermare, senza temere di essere smentite, che lo stesso trattamento è stato riservato, recentemente, ad una madre ospite di una nostra casa che ha denunciato il marito violento e con un ordine di protezione è entrata in una delle nostre case. Il marito ha ottenuto dal Tribunale dei minori un decreto provvisorio che ignora la decisione del Tribunale Penale di Roma. Solleva la giovane mamma dalla responsabilità genitoriale e colloca la bimba di 14 mesi, presso una casa famiglia. La mamma può seguire se vuole la bambina! Abbiamo scritto a tutte le istituzioni interessate al provvedimento. Nessuna ha risposto. Non basta, il genitore ha chiesto al Tribunale Penale la revoca del provvedimento di “protezione”. Il Tribunale Penale di Roma, con grande professionalità, ha immediatamente avviato il procedimento. A gennaio è stata fissata l’udienza. A lei ministro, chiediamo di far luce su episodi che troppo spesso vedono bimbi strappati alle loro madri che hanno una sola colpa: quella di aver denunciato un marito violento.

·        Burocrazia retrograda.

Dalla burocrazia ai tempi della giustizia: le inefficienze pesano 200 miliardi l'anno, più dell'evasione. Pubblicato sabato, 29 agosto 2020 da La Repubblica.it. Il ministro Gualtieri l'ha detto chiaramente: la prossima manovra di Bilancio, che avrà al suo cuore un primo intervento in materia di sistema fiscale, dovrà auto-sostenersi. Dopo i 100 miliardi messi sul piatto per le misure anti-Covid, con l'emergenza del lavoro in testa, non c'è spazio per fare ulteriore deficit. Molti puntano subito al recupero dall'evasione come serbatoio per garantirsi gettito senza ricorrere ai mercati. Ma la Cgia di Mestre torna a batter sulla possibilità di recuperare dagli sprechi e dalle inefficienze della stessa PA, che a detta dell'associazione di artigiani valgono più della stessa prassi di occultare imponibile all'occhio dell'Erario. "Stando ai dati del ministero dell'Economia e delle Finanze, l'evasione fiscale presente in Italia è stimata in circa 110 miliardi di euro all'anno. Un importo paurosamente elevato che, comunque, appare decisamente inferiore agli oneri che i cittadini e le imprese subiscono in virtù degli sprechi, degli sperperi e delle inefficienze presenti nella nostra PA. Scorrendo i risultati di alcuni studi condotti da una mezza dozzina di istituzioni di ricerca molto autorevoli, il danno economico in capo ai contribuenti italiani sarebbe di oltre 200 miliardi di euro all'anno. Si tratta di una dimensione economica quasi doppia rispetto all'evasione", dice la Cgia. Dati che, aggiungiamo, non vanno certo confrontati per sostenere che sul fronte dell'evasione tutto possa andare avanti così come sempre e che per questo siano "più tollerabili" quei 110 miliardi che ogni anno non entrano nelle casse pubbliche. Ma da dove arriva questa stima sulle inefficienze? La Cgia sintetizza le analisi di fonti nazionali e internazionali delle quali ha tenuto conto:

il costo annuo sostenuto dalle imprese per la gestione dei rapporti con la PA (burocrazia) è pari a 57 miliardi di euro (Fonte: The European House Ambrosetti);

i debiti commerciali della PA nei confronti dei propri fornitori ammontano a 53 miliardi di euro (Fonte: Banca d'Italia);

il deficit logistico-infrastrutturale penalizza il nostro sistema economico per un importo di 40 miliardi di euro all'anno (Fonte: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti);

se la giustizia civile italiana avesse gli stessi tempi di quella tedesca, il guadagno in termini di Pil sarebbe di 40 miliardi di euro all'anno (Fonte: CER-Eures);

sono 24 i miliardi di euro di spesa pubblica in eccesso che non ci consentono di abbassare la nostra pressione fiscale alla media UE (Fonte: Discussion paper 23 Commissione Europea);

gli sprechi e la corruzione presenti nella sanità costano alla collettività 23,5 miliardi di euro ogni anno (Fonte: ISPE);

gli sprechi e le inefficienze presenti nel settore del trasporto pubblico locale ammontano a 12,5 miliardi di euro all'anno (Fonte: The European House Ambrosetti-Ferrovie dello Stato).

Il senso di ricordare questi spieghi è chiarito dal segretario della Cgia, Renato Mason, che appunto batte il tasto dell'alleggerimento fiscale per le imprese. "Per molte imprese - dichiara - il prossimo autunno sarà uno stress test molto delicato. Probabilmente, tante faticheranno a superare questa fase così difficile legata agli effetti della crisi sanitaria; alcuni segnali, infatti, non lasciano presagire nulla di buono. Il Governo, tuttavia, deve assolutamente mettere mano il prima possibile al nostro sistema fiscale, riducendone il prelievo e il numero di adempimenti che continuano ad essere troppi e spesso difficili da espletare. Con meno tasse e una burocrazia fiscale più soft si possono creare le condizioni per far ripartire l'economia. Senza dimenticare che il nostro Paese si regge su un tessuto connettivo formato da tantissime Pmi che faticano a ottenere una risposta agli innumerevoli problemi che condizionano la loro attività lavorativa".

L'esperienza di un'economista. Troppi cavilli per una recinzione: “Dieci anni per aprire il mio agriturismo”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 14 Agosto 2020. «Ho dovuto attendere dieci anni per avviare la mia attività: ma è concepibile che un imprenditore debba affrontare una trafila così lunga per poter cominciare a lavorare e a guadagnare?» A lanciare la provocazione è Filomena Merola, titolare di Amaltea, un’azienda agricola con sede a Celle di Bulgheria. Nel cuore, cioè, di quel Parco nazionale del Cilento che i dati elaborati da Unioncamere e dal Ministero dell’Ambiente proiettano al vertice della classifica delle riserve naturali italiani dove è insediato il maggior numero di imprese. La storia di Filomena è singolare: partita da Montano Antilia alla volta di Milano, si è laureata in Economia alla Cattolica per poi fare ritorno nella sua terra di origine. Il motivo? Troppo forte il desiderio di aprire un’azienda agricola e un agriturismo nel cuore di una terra suggestiva come il Cilento. Filomena ha centrato l’obiettivo e oggi alleva 80 capre, dal latte delle quali ricava la cacioricotta, e ha recentemente avviato un agriturismo, dove agli ospiti vengono offerti prodotti rigorosamente locali. Per realizzare il suo sogno, però, ha dovuto attendere dieci anni. Proprio così: mesi e mesi tra scartoffie, cavilli ed enti sempre pronti a tarpare le ali a qualsiasi iniziativa imprenditoriale. «Non è questo il caso del Parco del Cilento – precisa Merola – che davvero si impegna per creare le condizioni indispensabili affinché un imprenditore possa investire. Mi riferisco alla Soprintendenza che troppo spesso boccia un progetto senza un’apparente motivazione valida». Non è un caso che i trenta ettari di terra acquistati da Merola per insediarvi l’azienda agricola e l’agriturismo siano stati utilizzati semplicemente come pascolo per dieci anni. Alla fine tutti i progetti sono stati approvati, ma quanta fatica! «È inammissibile che un imprenditore, che abbia necessità di installare una recinzione per proteggere il raccolto o gli animali allevati dai cinghiali, debba sottoporre il progetto a Comune, Parco e Soprintendenza – spiega Merola – Alla fine l’ok arriva, ma nel frattempo trascorre troppo tempo e le spese lievitano». Ecco perché Merola sostiene la necessità di una sburocratizzazione che non vanifichi le condizioni favorevoli alla luce delle quali gli imprenditori investono nelle riserve naturali italiane: «A decidere dev’essere l’ente gestore del parco o, al limite, due pareri favorevoli su tre devono essere sufficienti perché il titolare di un’azienda possa realizzare un progetto». Ma perché è tanto vantaggioso operare in un parco nazionale? «Per un’impresa è importante far sapere che si trova in una riserva naturale – prosegue Merola – Gli ospiti si aspettano un’area incontaminata e prodotti tipici e genuini. Quindi il vantaggio in termini di immagine è indiscutibile». Il vertici del parco del Cilento hanno creato anche un marchio che certifica la territorialità dei prodotti di 150 imprese. Tra queste, ovviamente, figura quella di Merola: «Iniziative simili sono una garanzia di identità, territorialità e genuinità – conclude Filomena – ma sono soprattutto uno strumento per creare una rete tra imprese. In questo modo i titolari delle diverse aziende si confrontano, si scambiano consigli e buone pratiche. Le imprese crescono anche così».

Burocrazia: ecco i 6 nodi che bloccano l’Italia da 50 anni.  Milena Gabanelli e Rita Querzè il 26 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Dall’Europa arriveranno tanti soldi, ma una delle condizioni è la riforma della pubblica amministrazione, ovvero rendere efficiente la burocrazia. Ci hanno provato tutti i governi a partire da Bonomi nel 1921, e i nodi che legano una palla al piede dell’Italia erano già tutti elencati nei rapporti del ministro Giannini (1979) e Cassese (1993). Sono sempre gli stessi di oggi, e che il decreto semplificazioni nemmeno sfiora, a partire dalla parte più semplice: cioè mettere ordine nelle leggi copiando modelli che funzionano. In Francia il 70% delle norme sono «a diritto costante», cioè se su una materia si interviene con una nuova legge quella vecchia viene eliminata. In Germania si utilizzano i codici per «incasellare» le leggi. Da noi è come cercare in biblioteca un libro senza lo schedario.

Semplificare le autorizzazioni. Il compito più difficile è mettere mano ai procedimenti autorizzativi. Se per fare un’opera devo fare domanda a Regione, Soprintenza, Asl, Vigili del fuoco, tanto vale presentarla contemporaneamente a tutti gli enti, così si riducono i tempi. Oggi chi deve aprire un bar ha bisogno di 72 autorizzazioni, 65 un parrucchiere, 86 per un autoriparatore (fonte Cna). Nel 1990 ci abbiamo provato con la legge 241: disponeva la semplificazione di una serie di processi autorizzativi, ma quando è arrivata l’ora di sceglierli ne sono stati individuati solo 13. Il ministero degli Interni ne segnalò solo uno: l’allevamento dei piccioni viaggiatori. Il problema, ora come allora, è che a decidere «cosa» semplificare sono le stesse amministrazioni pubbliche, ma nessun ufficio vuole ridurre le proprie competenze e la politica non ha mai avuto il coraggio di intervenire.

Ridurre le stazioni appaltanti. Il decreto semplificazioni è intervenuto sulle gare: non si dovranno più fare per importi fino a 150 mila euro, e con procedure negoziate a inviti fino a 5,35 milioni di euro. Punto. Per molti esperti è una scelta giusta se circoscritta ai lavori da fare in urgenza, diversamente è alto il rischio di penalizzare le aziende più efficienti, aprendo la strada a favoritismi. Tanto più che il contenzioso sulle gare incide in Italia meno del 5% e i giudizi vengono definiti in primo e in secondo grado entro un anno. Dopo aver partecipato a numerose commissioni sull’efficienza della burocrazia dagli anni ’90 a oggi, il professor Aldo Travi suggerisce che per accelerare le opere, in circostanze normali, «sarebbe utile avere una sola stazione appaltante in ogni Regione e una centrale a Roma per i grandi appalti e le gare delle amministrazioni statali», poiché le opere sono spesso rallentate dai piccoli Comuni che non hanno personale competente e strutture adeguate per gestire le gare.

Riportare i tecnici negli uffici. Le strutture tecniche negli anni sono state sventrate dalla spending review e dalle norme che hanno via via ridotto le competenze specializzate. Ne è la prova il dipartimento del ministero dei Trasporti incaricato dei controlli sulle attività delle concessionarie su ponti e viadotti, ma privo di personale qualificato. Le conseguenze sono 13 crolli in 7 anni. Al ministero delle Infrastrutture due terzi del personale è amministrativo e solo un terzo tecnico. Inoltre i meccanismi che regolano le carriere non incentivano le professionalità perché non considerano i risultati prodotti. Brunetta aveva provato a introdurre forme di premialità, ma non ha funzionato. Di fatto gli obiettivi dati ai dirigenti sono talmente generici (ad esempio per le Infrastrutture può essere «bandire gare») che gli incentivi vengono elargiti a pioggia. Il tentativo di premiare gli insegnati più meritevoli è naufragato miseramente nonostante fosse contenuto in un accordo collettivo sottoscritto dai sindacati. «Bisognerebbe attuare in modo rigoroso la norma costituzionale che impone l’accesso nell’impiego pubblico solo per concorso e gestire anche la progressione interna di carriera tramite esami – dice Travi – inserendo nei punteggi anche i risultati ottenuti durante la propria attività».

Bloccare i «signor no». Un esempio su tutti. È il 2001 e il piano provinciale rifiuti di Firenze prevede la costruzione di un termovalorizzatore. Ci sono voluti 15 anni per decidere dove costruirlo, definire le dimensioni, bandire la gara, il progetto, le linee guida, le autorizzazioni ambientali. Quando era tutto pronto sono partiti i ricorsi al Tar e poi al Consiglio di Stato, che a marzo di quest’anno ha stabilito che non si deve fare. Così i rifiuti si andranno a bruciare da qualche altra parte. È indicativo di un sistema malato dove anche le opere strategiche sono bloccate sia dai comitati cittadini (non coinvolti da subito in opere che impattano) che dai Comuni (per ragioni puramente elettorali). Secondo Travi Il potere di interdizione può essere fermato in due modi: stabilendo con una legge l’inefficacia di tutti gli atti che possano pregiudicare l’attuazione di una infrastruttura oppure prevedendo sanzioni a carico di chi li adotta.

Non ostacolare chi fa. I tempi delle pratiche si allungano perché i burocrati hanno paura a mettere una firma nel timore di assumersi una responsabilità; chi invece la firma ce la mette rischia di essere penalizzato. Il professor Crisanti, all’inizio della pandemia, aveva iniziato a fare tamponi a tappeto. Ebbene, il direttore generale dell’azienda ospedaliera di Padova minacciò di perseguirlo per danno erariale. Poi i fatti hanno dato ragione a Crisanti. Con il decreto Semplificazioni gli atti che generano danno erariale restano punibili solo se dolosi (ma non lo sono più se dovuti a colpa grave). Quando invece a generare danno erariale è una mancata decisione, allora la punibilità resta sia per colpa grave che per dolo. Il reato di abuso d’ufficio, inoltre, viene escluso nel caso in cui riguardi regolamenti e non leggi. Tirando le somme, il decreto consente di assolvere il funzionario che prende iniziative in buona fede, mentre per chi continua a palleggiarsi le carte non ci sono sconti. Ma si tratta di una modifica che vale fino al 31 luglio 2021. E dopo?

Razionalizzare gli enti. In materia ambientale le competenze si segmentano fra 4 ministeri (Ambiente, Salute, Interno, Agricoltura), 20 Regioni, 110 Province, oltre 8 mila Comuni, Camere di commercio, Asl, Arpa. Nel 2008 viene creata con una legge l’Ispra che deve coordinare le Arpa. Eppure i problemi ambientali restano: dall’Ilva alla terra dei fuochi, ai siti contaminati che erano 40 nel 2014 e tali sono rimasti. Se prendiamo un’attività artigiana con consumo di alimenti sul posto, per esempio una pizza al taglio, i soggetti incaricati dei controlli sono 21. E quando tutti devono controllare alla fine, spesso, non controlla nessuno oppure si tartassano i cittadini sovrapponendo le verifiche. Razionalizzare gli enti però vuol dire cancellare poltrone e centri di potere. Nessun burocrate intende rinunciarvi e la politica non interviene per timore di perdere consenso: la pubblica amministrazione rappresenta un quinto della forza lavoro dell’intero Paese. Una immobilità ben descritta dal noto economista Paul Samuelson, secondo il quale «le regole sono fissate, abbandonate e manipolate con discrezionalità». È questa la madre di tutte le riforme da inserire dentro il piano nazionale da presentare a Bruxelles.

Sabino Cassese per il “Corriere della Sera” il 3 agosto 2020. Per aprire una gelateria, sono necessari fino a 73 adempimenti, con 26 enti diversi, e un costo di 13 mila euro, secondo una accurata ricerca svolta dalla Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa. I sei miliardi del contratto di programma con l'Anas dovevano esser erogati entro 90 giorni. Ne sono passati più di 900. E tutto ciò senza che la procedura abbia superato gli scogli del Cipe, dei diversi ministeri, della Corte dei conti, dei pareri parlamentari. L'elenco degli interventi necessari ed urgenti è noto: accelerare i pagamenti dell'amministrazione, ridurre il numero delle stazioni appaltanti, abbreviare i tempi delle valutazioni ambientali, non scaricare sui cittadini l'onere di raccogliere da un'amministrazione certificati da esibire a un'altra amministrazione, modificare le norme sul subappalto, e così via. Sono riforme che presentano due paradossi. Non hanno costi, ma ciononostante non si fanno. Allevierebbero le tensioni prodotte dalle mancate riforme costituzionali, a cui ci si è dedicati per quaranta anni senza successo: in assenza della modernizzazione dei «rami alti», modernizzare almeno i «rami bassi» (un inglese ha scritto una volta che un Paese ben amministrato è ben «costituito»). Queste riforme non richiederebbero referendum, sono reclamate a gran voce tutti i giorni, ma senza successo. Il problema della modernizzazione dello Stato è affrontato dal «programma nazionale di riforma», presentato in Parlamento dal presidente del Consiglio dei ministri e dal ministro dell'Economia e delle Finanze l'8 luglio scorso. Vi si può leggere che «modernizzare il Paese significa innanzitutto disporre di una pubblica amministrazione efficiente, digitalizzata, sburocratizzata, veramente al servizio dei cittadini». Bei propositi, seguiti purtroppo da ben poco: semplificazione, sblocco delle opere pubbliche, digitalizzazione, nuove assunzioni, regolamento per gli appalti. Anche su questi pochi obiettivi, non una parola su tempi, strumenti, responsabili. Nulla su come dare nuovo impulso alla macchina dello Stato, come scegliere i migliori per la funzione pubblica, come motivare il personale, come riorganizzare i metodi di lavoro, come ridare dignità alla dirigenza. Come si spiega questa contraddizione per cui tutti invocano una migliore macchina statale, ma nessuno vi pone mano, anche se non vi sono costi? Il primo motivo riguarda il governo: le riforme necessarie non costano, ma non rendono alla politica. Richiedono tempo per essere attuate e producono risultati sul medio-lungo periodo, un arco temporale che va al di là degli obiettivi di qualunque politico di oggi. Paradossalmente, chi vi ci si dedicasse, lavorerebbe per i propri successori (e semmai competitori).  Il secondo coinvolge il Parlamento, un organo che pensa di risolvere problemi complicati con la bacchetta magica della legge, mentre un migliore rendimento dello Stato è semmai legato a un minore numero di leggi, e a leggi di principio piuttosto che di dettaglio. Il terzo riguarda il deficit di competenza, legato a un carente addestramento della classe politica, ma anche a disattenzione dei grandi centri di rilevazione dei dati. Ad esempio, perché la Ragioneria generale dello Stato, che meritoriamente raccoglie da un secolo le statistiche sul pubblico impiego, non ci dice quanti sono coloro che sono entrati per concorso e quanti per altri «meriti», qual è la qualificazione dei dipendenti pubblici, quanti sono i dipendenti degli organismi satelliti di Stato, Regioni e Comuni? Perché l'Istat, che pure aveva avviato la redazione di un annuario statistico della pubblica amministrazione, non ha continuato a impegnarsi nel settore? La disattenzione per il buon funzionamento dello Stato dipende però anche dall'opinione pubblica, distratta dal «balletto della politica» e poco informata dai «media» su ciò che accade e su ciò che non accade nelle stanze del potere burocratico. Buoni ultimi, sono causa della disattenzione per le riforme che non costano anche coloro che ne beneficerebbero, i burocrati, ogni giorno accusati di impedire la modernizzazione del Paese, ma adagiati nel «tran tran» quotidiano, e quasi afoni, mentre dovrebbero far sentire la loro voce competente sulle grandi questioni quotidiane. Alcuni, purtroppo, parlano in altra veste, quella sindacale, ma per difendere diritti (o pretesi diritti, come quello di esser assunti senza concorso), non per far valere doveri verso la collettività, operando quindi come forza di conservazione, non di modernizzazione del Paese.

La più vecchia, scarsa e dequalificata: la burocrazia che nessuno ci invidia. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 10 giugno 2020. Per anni è stato delegittimato, relegato all’ultimo gradino del ceto professionale, descritto persino dalla Treccani come un essere monotono, dallo stile di vita “ripetitivo e abitudinario”. La giacca dietro la sedia vuota, la lettura mattutina del giornale, il caffè al bar. Tutto questo è ormai un ricordo. Non c’è più. O meglio c’è ma non si vede. Lo smart-working ha svuotato le ultime stanze dei ministeri. Liberato quei corridoi dei palazzoni romani un tempo percorsi in lungo e in largo da fiumane e scartoffie. Qua e là se ne avverte ancora la presenza. Una mascherina sull’appendiabiti, una borsa, un ombrello. Ma forse è solo un effetto ottico, fantasmi. L’impiegato al tempo del Coronavirus è un territorio sconosciuto. Una specie in via di estinzione, una rarità. Non c’è neanche più bisogno di trovare il collega che ti timbra: Il distanziamento ha rottamato le relazioni tramite cartellino.

PIANO COLAO E SCRIVANIE VUOTE. Contenti ? No. Perché di questo “individuo”, che nella vulgata fantozziana assumeva note patetiche e sottomesse, potrebbe essercene ancora un disperato bisogno. Basti pensare al piano Colao, il libro dei sogni, la genialata che dovrebbe rimettere in moto il Paese, farlo ripartire di slancio. Prevede una piattaforma pubblica per misurare in tempo reale lo smaltimento delle pratiche. Procedure di autocertificazione e di silenzio/assenso. Diffusione a tappeto dello smart-working, e persino la sofisticata realizzazione di un ecosistema digitale sanitario. Ora, immaginate di calare il piano Colao-meravigliao nelle nostre scalcinate realtà. Senza la carta per le fotocopie, con i pc del secolo scorso e le scrivanie semivuote per Covid. Un disastro.

NEGLI ULTIMI 10 ANNI PERSONALE GIÙ DEL 6,2%. Huston: ci sentite? Abbiamo un problema Gli impiegati sono finiti, non ci sono più. Li abbiamo spianati, a colpi di vere o presunte spending review. Rasi al suolo. Solo negli ultimi 10 anni c’è stata una riduzione del 6,2% di dipendenti pubblici. Il colpo del ko. Ha ridotto all’osso un’amministrazione che ha il 14% di lavoratori impiegati nelle amministrazioni pubbliche sul totale degli occupati. Contro il 29% della nordica Svezia, il 22% della Francia, il 18% della Grecia, il 16% dell’UK, il 15% della Spagna. I nostri sono pochi e anche anzianotti. L’età media più alta dell’area Ocse (51 anni). Gli under 30 sono appena il 2,9%.

MOSCHE BIANCHE. E oltre al danno c’è anche la beffa. Aver drasticamente ridotto l’esercito di funzionari e travet non sempre ha comportato un risparmio. Anzi: il ricorso a figure, per così dire, “flessibili”, ha superato le 350mila unità. Per eliminare il posto fisso abbiamo soppresso il posto. A tutto questo si è aggiunta la flessione della spesa per la formazione del personale scesa da 263 milioni nel 2008 a soli 154 milioni nel 2018, corrispondenti a 48 euro e 1,02 giornate per ciascun dipendente, considerando solo quelli a tempo indeterminato, però. Qualcuno potrebbe pensare che questi dati siano difficile da ottenere. Non è così. Sono stati diffusi dal Forum della PA e dal Forum delle disuguaglianze e trasmessi proprio alla task-force di Vittorio Colao, il 58 enne ex ad di Vodafone incaricato dal governo di studiare le proposte per rilanciare il Paese.

LA CISL: UN GRANDE PIANO PER 500 MILA GIOVANI. La parola d’ordine è: semplificazione, ridurre le procedure, istruire il personale, saltare i passaggi inutili, evitare i timbri. Contrastare la cosiddetta “burocrazia difensiva” che trasforma gli uffici in muri di gomma. Pratiche che rimbalzano perché nessuno vuol prendersi la responsabilità civile e in qualche caso penale, di firmale. Ma come può una PA come la nostra, in coma profondo, ormai allo stato neurovegetativo, far scoccare la scintilla della ripresa. E viene da chiedersi che rapporto ci sia tra certi dossier redatti in uno studio a Londra e la vita reale dell’Italia post Codiv. Il Forum ha posto l’attenzione anche su altre particolarità tutte italiche. “Una composizione del pubblico impiego ancora squilibrata verso i profili giuridici”; “la carenza di professionalità tecniche e di negoziazione, ma anche le competenze organizzative”. In una parola “l’inadeguatezza della nostra PA a fronteggiare l’ordinario”, figuriamoci lo straordinario. Da qui la richiesta di utilizzare alcune leve strategiche, prima fra tutte il rinnovamento, la trasformazione digitale, Per portare a termine le missioni strategiche – è questa la proposta del Forum – è indispensabile l’entrata di 500 mila nuovi giovani, sblocco del turn-over, autonomia dei dirigenti e rinnovamento qualitativo del personale”. Che ne pensano i sindacati? Per Maurizio Petriccioli, segretario generale Cisl-Fp è necessario costruire una Pa moderna, in grado di rispondere alle necessità dei cittadini e delle imprese italiane, “serve valorizzare l’esperienza e la competenza del personale già in servizio e rilanciare un grande piano occupazionale”. Ma altre nuvole nere si addensano. “Il blocco del turnover e l’introduzione delle finestre di Quota 100 – spiega il sindacalista Cisl – sono andati a gravare ulteriormente in comparti dove l’età media è di circa 51 anni. Nei prossimi anni, inoltre, contiamo fuoriuscite ulteriori per circa 500mila unità. Si può e si deve rinnovare la pubblica amministrazione ma lo si deve fare avendo in mente un progetto chiaro per la Pa di domani mentre, ad oggi, ci troviamo ad essere testimoni di un esodo che non ha nulla di progettuale”.

BUROCRAZIA, IL MOSTRO INDISTURBATO. LA MACCHINA PUBBLICA PIÙ SCASSATA D’EUROPA NELL’ITALIA IN GINOCCHIO. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'8 giugno 2020. Tra imprese che chiudono per sempre e cittadini sull’orlo della fame perché privi di liquidità, lo scandalo sarebbe l’iniziativa di Conte che vuole fare gli Stati Generali dell’Economia prima che qualcuno commissari il Paese ed esploda la polveriera sociale. Il ministro Gualtieri si mostra trionfante, i vertici dell’Inps si beano, il Pd ha messo la “modalità aereo”e non sente la sofferenza della società. Siamo ai soliti sepolcri imbiancati e al nulla del nulla che fa pure le pulci agli altri. Francamente hanno stufato. Una impresa su dieci del commercio è nelle mani degli usurai. Le piccole aziende del Mezzogiorno sono tagliate fuori con un colpevole tratto di penna dal decreto liquidità e non vedono il becco di un quattrino. La cassa integrazione non è ancora arrivata. Le partite Iva aspettano il piccolo prestito. Gli alberghi sono vuoti, i musei riaprono ma i ristoranti sono chiusi (per sempre, vero ministro Franceschini?) perché le prenotazioni sono a zero. I negozi aprono uno su tre e fatturano il 20% di prima, il turismo rischia di affondare per questa stagione e per quelle a venire. Con la Pandemia tutto è cambiato tranne il Pd. Come ci ricorda Claudio Marincola, non sono bastati il distanziamento fisico dal Nazareno e la prima direzione nazionale “online”. Il partito è rimasto in “modalità aereo”, ovvero sconnesso dal resto del Paese, timoroso delle mosse di Confindustria e cromosomicamente insofferente verso bottegai e ristoratori. Seduto senza saperlo sul vulcano della polveriera sociale, lontano da chi – parole dell’ex presidente Orfini – non sopporta più “il racconto trionfalistico” che “stride con un Paese in cui cresce la sofferenza sociale e la gente rischia di morire di fame”. Tornano in scena il poliziotto cattivo e il poliziotto buono, i logori copioni della vecchia politica, ma stringi stringi la molla di tutto è la lesa maestà del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che a differenza loro ha i piedi ben piantati per terra. Ha capito che così non va e si è deciso a convocare d’urgenza gli Stati generali dell’economia. Vuole ascoltare chi fabbrica il prodotto interno lordo italiano, ma soprattutto vuole prendere per le corna insieme a loro il problema dei problemi che è il mostro burocrazia che non fa sganciare un euro per risarcire chi è stato messo a terra dal Covid e blocca ogni tipo di investimenti anche quelli (52 miliardi, il 50% al Sud) che sono cantierabili da domani. Non può esistere un Progetto Paese di lungo termine e la cassa europea italiana finisce a spagnoli e portoghesi se non ribaltiamo subito questa deprecabilissima situazione. Che è antica, ma intollerabile in tempi di Coronavirus. Insomma: abbiamo mille problemi, ma uno viene prima di tutti. Si chiama: come. Come dare la liquidità, come aprire i cantieri, come liberare l’Italia dalla sua gabbia. Bazzecole, nulla di nulla, qui la tribù democratica tranne poche eccezioni non ci sente. Ha altro da pensare. Ha altro di cui discutere. Ha nuovi scenari di governo da disegnare. Diciamo che ha molto di cui vergognarsi. Volete capire meglio di che cosa stiamo parlando? Prendete il ministro del Tesoro, quello si presume del racconto trionfalistico secondo Orfini. Se non è così, di sicuro quello che ha sempre qualche lettera in tasca da esibire di chi lo ringrazia. Di sicuro non si è mai scusato a differenza di Conte. Si è presentato in Commissione banche alla Camera e ha consegnato una tabellina dove “c’è scritto” che garanzia Italia della Sace è garanzia Nord perché lì c’è il 77% delle pratiche contro un minuscolo 6% del Sud e l’addetto stampa della Sace ha chiesto ieri al nostro giornale da dove vengono questi numeri. Vi rendete conto in che mani siamo? Vi rendete conto che il ministro del Tesoro del Pd in “modalità aereo” a questi damerini e ai loro assistenti li ha pure lodati davanti ai commissari della Bicamerale? Che cosa dire di Pasquale Tridico, il presidente dell’Inps che ha vinto l’oscar mondiale dei ritardatari e continua a spostare il giorno che tutti avranno la cassa integrazione? Anche lui non si scusa mai e si autoincensa spesso, ma arriva perfino a accusare di essere pigri se non peggio quegli stessi imprenditori a cui il governo – di cui lui è la massima espressione burocratica previdenziale – ha chiuso le attività senza dare nulla e che in molti casi sono gli stessi che con soldi propri stanno anticipando l’assegno di cig ai loro dipendenti. In questa Italia capovolta, dove ancora vincono la codardia diffusa e la puzza sotto il naso di chi ha tutte le narici bruciate dall’oppio dei poteri forti scaduti, lo scandalo sono gli Stati generali dell’Economia del Presidente Conte che vuole fare i compiti in casa prima che qualcuno ce lo imponga da commissario fallimentare e prima che la polveriera sociale incendi il tessuto civile del Paese. Il Pd e l’opposizione responsabile dovrebbero dare una mano, non disseminare mine sulla strada. Conte ha un mestiere e un lavoro. Questa è la sua forza. I politici di mestiere fanno finta di non capirlo o fanno fatica a capirlo. A noi queste orecchie da mercanti della politica disturbano molto. Diciamo, con eleganza, che hanno stufato. 

Angelo Allegri per “il Giornale” il 25 maggio 2020. Giugno 2019, posa della prima pietra con la gettata del basamento al pilone numero nove; 28 aprile 2020, aggancio dell' ultima campata e completamento della struttura. Il ponte di Genova è rinato così. E a rendere possibile i tempi record, poche righe di una norma dell' Unione europea, l' articolo 32 della direttiva sugli appalti pubblici: «la procedura negoziata senza previa pubblicazione può essere utilizzata... nella misura strettamente necessaria... per ragioni di estrema urgenza derivanti da eventi imprevedibili». È stato questo il grimaldello che il commissario alla ricostruzione e sindaco di Genova Marco Bucci ha potuto usare per «dribblare» qualsiasi norma (o quasi) prevista dal Codice degli appalti in vigore. L' alternativa alla deroga era la paralisi: «L' articolo 32 è il potere più incisivo del commissario», ha spiegato Bucci. «È una deroga generale al Codice. Con le procedure normali oggi non è possibile prevedere nessun tempo certo». Alla fine è stato un successo, nell' estate sul ponte si tornerà a circolare. Ma è stata anche la definitiva riprova di una sconfitta: con le norme che valgono oggi in Italia si combina poco o nulla. La stratificazione di regole, i procedimenti complessi e a volte cervellotici, una burocrazia (...) (...) attenta alla forma e per nulla alla sostanza bloccano tutto. Solo quando la pressione di politica e opinione pubblica supera una determinata soglia, gli ostacoli vengono travolti con un provvidenziale «liberi tutti». A quel punto, come ha scritto Carlo Stagnaro dell' Istituto Bruno Leoni, si passa «da una burocrazia di stampo sovietico» alla «assoluta discrezionalità del despota orientale». Ma si può gestire un Paese così, a forza di eccezioni e di provvedimenti presi di volta in volta per far fronte a questa o quella emergenza? Ovviamente no. E in tempi in cui l' economia rischia il crac e il problema è salvare quel po' di benessere rimasto nella Penisola, il tema di regole ed eccesso di burocrazia è diventato caldissimo. Non solo nel campo delle costruzioni o in quello degli appalti pubblici. Chicco Testa, ex presidente dell' Enel, si è divertito sul Foglio a passare in rassegna alcune circolari dell' Inail che dovevano essere sottoscritte da chi, in tempi di quarantena, passava allo smart working: per chi lavorava all' aperto il consiglio era quello di non scegliere luoghi «privi di acqua potabile» o dove circolassero «animali incustoditi»; per chi invece lavorava in spazi chiusi, la raccomandazione messa per iscritto dai solerti funzionari dell' istituto era di non esporsi «a correnti d' aria fastidiose» e di «tenere gli avambracci sul piano» guardandosi bene dal tenerli sospesi. Una sciocchezza di fronte alla strada scelta per garantire un flusso finanziario a migliaia di lavoratori appiedati dalla pandemia: il decreto Cura Italia ha resuscitato la procedura della Cassa Integrazione in deroga, da almeno quattro anni non più applicata a favore della cassa ordinaria e straordinaria. Per complicare le cose la procedura prevede un doppio passaggio, l' invio della domanda alle Regioni e il loro esame da parte dell' Inps. Visto che da un po' la Cassa in deroga non si usava più e bisognava fare in fretta, la Regione Piemonte ha dovuto richiamare dalla pensione un funzionario che si ricordava i passaggi da seguire. La solita Italia, verrebbe da dire. Con qualche nota surreale. Come quella scovata dagli esperti dell' associazione dei costruttori e raccontata da Sergio Rizzo sulla Repubblica: nei decreti «Cura Italia» e «Liquidità», i primi due sfornati per fare fronte all' emergenza, ci sono ben 622 rinvii ad altri testi, che contribuiscono a rendere l' interpretazione degli interventi salva-economia un esercizio possibile solo a raffinati esegeti del diritto. Spiccano, tra le altre, due perle: gli sbalorditivi rimandi a due Regi decreti che risalgono rispettivamente al 1910 e al 1923. Uno dei tanti esempi della creatività del ceto burocratico-amministrativo italiano, che quando ha campo libero conosce pochi limiti. Carlo Cottarelli, direttore dell' Osservatorio Conti pubblici dell' Università Cattolica, ha notato per esempio che solo i tre decreti fondamentali per la risposta alla pandemia («Cura Italia, «Liquidità» e Rilancio», senza contare i provvedimenti attuativi), raggiunge un totale di 191mila parole. I corrispondenti provvedimenti adottati negli Stati Uniti, il cui nucleo fondamentale è costituito dal cosiddetto Cares Act, superano di poco le 61mila. Per il momento, insomma, sta succedendo l' esatto contrario di quello che il Ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli dichiara in ogni intervista: «per uscire da questa crisi bisogna abbattere la burocrazia». Il nodo centrale, come dice, per il momento senza troppi risultati, il Ministro, è proprio questo. E chi nell' economia ci lavora non si stanca di ripeterlo: «Invece di mettere in piedi decine di task force», ha detto di recente Alberto Bombassei, numero uno di Brembo, «il governo dovrebbe fare solo una cosa: approfittare del coronavirus per un' opera di radicale sburocratizzazione del Paese. Sarebbero i soldi meglio spesi della crisi». Per raggiungere l' obiettivo Giovanni Valotti, da pochi giorni ex presidente di A2A e professore di management pubblico alla Bocconi di Milano, ha proposto di istituire una «zona franca della burocrazia». È lui stesso a spiegare di che cosa si tratta: «Per un tempo definito, per esempio un anno, bisogna semplificare drammaticamente tutte le procedure, dimezzare i tempi per le nuove autorizzazioni», spiega (vedi anche l' intervista in basso; ndr). «Si fanno partire gli investimenti e poi si fa un bilancio: le innovazioni che hanno funzionato e che hanno dato una spinta al Paese da temporanee diventano definitive». Pare che a Palazzo Chigi si stia studiando una soluzione di questo tipo: una sorta di «semestre bianco» anti-burocrazia, così è stato definito, in cui, come suggerito da Valotti, si disbosca radicalmente la giungla procedurale che tiene prigioniera l' economia. Il riferimento è quello che ormai da tutti viene definito «modello Genova», l' esempio rappresentato appunto dalla ricostruzione del ponte sul Polcevera. Il primo campo d' azione, come è quasi ovvio, è quello dei lavori pubblici. Un provvedimento, oggi sul tavolo della Presidenza del Consiglio, potrebbe vedere la luce entro un paio di settimane. Le novità fondamentali sarebbero tre: la riduzione drastica di tutti i tempi delle autorizzazioni amministrative, l' individuazione di una trentina di opere da gestire con metodi «commissariali», la sospensione temporanea di parte del Codice appalti con la messa fuori gioco delle norme più paralizzanti attualmente in vigore. Sono tutti provvedimenti che sarebbero accolti a braccia aperte dagli operatori economici privati ma che devono fare i conti con le logiche della politica: tra i grillini c' è una spaccatura sempre più evidente che divide «realisti», pronti a rivedere con occhio «laico» la materia e «fondamentalisti» ideologicamente contrari. Anche nel Pd non mancano i difensori del Codice degli appalti (in qualche caso anche delle regole più macchinose). La verità è che finché di semplificazione si parla sono d' accordo tutti, quando poi bisogna passare ai fatti iniziano le obiezioni ed i distinguo. Il risultato, come ha scritto qualche tempo fa sulla voce.info, Vitalba Azzollini, giurista e funzionaria della Consob, è che «spesso per una misura di semplificazione attuata ve ne sono altrettante che introducono nuovi adempimenti che possono mettere a rischio i risultati raggiunti con le semplificazioni precedenti». La stessa Azzollini ha passato in rassegna i vari provvedimenti-semplificazione introdotti dal 2007 («Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione») a oggi. Sono talmente tanti che si fa fatica a contarli. Qualche decennio fa, quando il sistema ferroviario pubblico era un carrozzone all' apparenza irriformabile, Andreotti diceva che ci sono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono risanare le Ferrovie. Anche mettere ordine nelle leggi e far funzionare la burocrazia sembra in Italia un esercizio per folli temerari.

Paolo Baroni per la Stampa il 20 maggio 2020. In cima alla lista dei desideri ci sono innanzitutto le opere che il governo ha classificato come «commissariabili» in virtù del decreto Sblocca cantieri dell' anno passato, che di cantieri in realtà ne ha sbloccati davvero pochi. Giusto ieri, coincidenza, sono partiti i lavori del terzo megalotto della strada statale 106 «Jonica» (38 km tra Sibari e Roseto Campo Spulico, 1,3 miliardi di spesa e 1500 occupati) in provincia di Cosenza, una delle grandi incompiute italiane che apriva l' ultima lista delle priorità di governo che in tutto conta 15 interventi per un controvalore totale di 13,9 miliardi di euro. Ma in realtà, se si guarda all' elenco delle opere strategiche o prioritarie i lavori da sbloccare o avviare sono molti di più. L' ultimo rapporto Cresme presentato a febbraio ha censito ben 615 lotti sparsi in tutta Italia, in tutto 273 miliardi di lavori completati appena per l' 11%. Si va da alcuni importanti nodi viari del Nord (in primis la Gronda di Genova) al completamento verso Trieste dell' Alta velocità ferroviaria ad interventi su strade e ferrovie che tante zone del Centro e del Sud Italia attendono da anni, come l' alta velocità sino a Reggio Calabria e la Catania-Messina-Palermo. La "black list" dell' Ance Stando all' ultimo monitoraggio effettuato dall' Ance le opere realmente bloccate sono in tutto 749 per un controvalore di 62 miliardi: 473 al Nord (33,5 miliardi), 115 al Centro (11,1 miliardi) e 161 nel Mezzogiorno (17,2 miliardi). Centouno di questi interventi sono classificati come «grandi opere», con un importo dei lavori superiore a 100 milioni di euro, ed un ammontare complessivo di 56 miliardi, mentre le restanti 648 sono opere medio-piccole (5,5 miliardi di spesa) e quindi, si presuppone, più facili da far partire. Tenere tutto fermo, sostiene l' associazione nazionale dei costruttori, significa rinunciare ad un potenziale economico enorme, stimato in 962 mila nuovi posti di lavoro ed in ben 217 miliardi di ricadute sull' economia. Scorrendo il rapporto sulle «Infrastrutture strategiche e prioritarie 2020» realizzato dal Cresme assieme al centro studi della Camera dei deputati emerge che su 273 miliardi di euro di lavori messi in programma nel corso degli ultimi anni, di cui 219 miliardi per le sole opere strategiche indicate come prioritarie, il 50% del valore riguarda interventi in fase di progettazione (283 lotti per quasi 109 miliardi), il 21% riguarda cantieri aperti con lavori in corso (149 lotti per 45,8 miliardi) e solo l' 11% riguarda opere ultimate (129 lotti per 24,1 miliardi). C' è poi un 5,5% di lavori in gara o aggiudicati (22 lotti per 11,6 miliardi), un altro 4,5% che risulta contrattualizzato ma con lavori non ancora iniziati (per 9,94 miliardi) e infine l' 8% riguarda lotti con contratto rescisso o con stato di avanzamento «misto» per 18,5 miliardi. A rallentare questi interventi non è tanto un problema di soldi, segnala il Cresme, perché circa 155 miliardi di euro (71%) sono già disponibili a bilancio quanto un problema di burocrazia, tra procedure, autorizzazioni e permessi. Se si prendono in considerazione le sole infrastrutture prioritarie, il 48% (105 miliardi di costi) riguarda le ferrovie, il 34% strade e autostrade (per 74 miliardi), il 13% (28 miliardi) i Sistemi urbani (ed in particolare i sistemi di trasporto rapido di massa in Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia, 4 miliardi (2%) riguardano gli aeroporti e l' 1% porti ed interporti (2,5 miliardi). Fa storia a sé il Mose di Venezia che da solo pesa per il 3% (5,5 miliardi). I primi 15 cantieri Tolta la statale Jonica che ieri ha fatto un decisivo passo in avanti restano da avviare altri 14 cantieri tra quelli commissariabili: dal collegamento stradale Roma-Latina (1,5 miliardi) al completamento della A12 Tarquinia-San Pietro Palazzi (1 miliardo) allo svincolo della SS 514 Chiaramonte (RG) sino alla SS 675 Umbro-Laziale (collegamento porto di Civitavecchia-Orte); in campo ferroviario vanno poi aggiunte il potenziamento della Fortezza-Verona (3,3 miliardi), della Verona-Trieste (1,8 miliardi) e della Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia, il completamento del raddoppio della Genova-Ventimiglia (1,54 miliardi) e della Pescara-Bari, e ancora la Roma-Pescara (700 milioni), la Salerno-Reggio Av e la Palermo-Trapani. In aggiunta a questo ci sono poi altri 13,9 miliardi di interventi sulle infrastrutture idriche da far marciare, come la messa in sicurezza della traversa del Lago d' Idro (Bs), del sistema acquedottistico di Peschiera (Vr) ed interventi su una decina di dighe tra Sardegna e Sicilia. Se poi a questi grandi lavori aggiungiamo interventi sugli immobili scolastici (per Legambiente 4 su 10 hanno bisogno di lavori straordinari) volendo aprire rapidamente cantieri grandi e piccoli non c' è che l' imbarazzo della scelta.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 20 maggio 2020. Addio al codice per gli appalti, vestigia di un' altra era, quella pre-Coronavirus. Per un' Italia in piena crisi serve altro, occorre velocizzare al massimo i cantieri. È questo il progetto, il prossimo passo a cui sta lavorando il presidente del Consiglio, che dovrebbe vedere la luce tra due-tre settimane al massimo. L' idea è quella di sospendere alcune parti del codice appalti fino alla fine dell' emergenza Covid 19, sfruttando il clima di necessità e urgenza che si respira in Italia. Un modo anche per superare le resistenze interne alla maggioranza. Da febbraio il premier ha in mano la ricetta con la quale intende sburocratizzare l' Italia sul "modello Genova", che ha permesso di rimettere in piedi il ponte della tragedia, con un commissario, saltando vincoli burocratici, accelerando i lavori. Un modello che oggi Conte intende estendere all' Italia. La Stampa è in grado di anticipare il piano che presenterà «entro 15-20 giorni», confermato da fonti della presidenza del Consiglio, del ministero dei Trasporti e dello Sviluppo economico e supportato dalla visione delle bozze del «Piano rilancio cantieri e lavoro», il decreto che il viceministro grillino alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri ha messo sul tavolo di Conte. La sintesi che farà il premier, anche sulla base delle proposte del ministro Stefano Patuanelli, dell' agenda «choc» di Renzi, e mediando con alcuni musi lunghi dentro M5S e Pd, prevede tre «direttrici». Prima: abbreviazione dei procedimenti amministrativi. L' esempio che fa è la Via, valutazione di impatto ambientale. «Non si può aspettare un anno» è la convinzione di Conte. All' articolo 1 del decreto, si propone la sospensione dei tempi previsti per legge: da 180 si scende a 60 giorni per la consegna della documentazione, ed entro 30 giorni si deve esprimere il ministro all' Ambiente. Se sono stati già introdotti alcuni benefici, come l' ecobonus, è il ragionamento di Conte, vanno snellite le procedure sottostanti. Seconda direttrice: mettere in moto i cantieri. Il capo del governo fornirà l' elenco di «25-30 opere» considerate fondamentali. Usa l' inglese e dice che serviranno a dare il «boost», la spinta all' economia, appunto «sul modello Genova», e con il ruolo decisivo dei commissari, forse 12. Sa già Conte che l' Anac, l' Autorità anticorruzione, storce il naso e che diversi 5 Stelle, soprattutto nelle commissioni Ambiente e Industria, temono la piovra mafiosa sulle zone grigie della velocizzazione dei lavori. Per questo, tiene a precisare che «non salteremo i controlli, ma troveremo una formula per abbreviarli». La terza direttrice è conseguenza della seconda: Conte assicura che non smantellerà il Codice degli Appalti, sul quale nervosamente vigila il capogruppo del Pd Graziano Delrio, che da ministro lo ridisegnò nel 2016. «Non voglio riscriverlo completamente - ha spiegato ai suoi Conte - anche perché ci impiegheremmo due anni. Ma voglio appalti più veloci». Quando svelerà il progetto il premier però farà un passo in avanti ulteriore che al momento è oggetto di polemiche tra i partiti: saranno disattivate alcune norme, quelle più stringenti, con una deroga temporanea collegata a tutta la fase di crisi post-Covid. La cautela delle parole di Conte nasconde una piccola rivoluzione potenzialmente esplosiva per i credi dei paladini ambientalisti e antimafia tra i grillini e dem. Ce n' è ampia traccia nella bozza del decreto. Si parla di «normativa speciale», che «consenta di cantierare nel più breve tempo possibile nuove opere», di «semplificazione delle procedure vigenti», «anche mediante la previsione di poteri straordinari da riconoscersi in capo alle stazioni appaltanti». Cancelleri prevede di nominare commissari straordinari gli amministratori delegati di Anas ed Rfi, Massimo Simonini e Maurizio Gentili. Sarebbero loro a garantire «affidamento ed esecuzione degli appalti relativi al contratto di programma di Anas (2016-2020, approvato dal Cipe) e quello Rfi, 2017-2021». Si tratta di 109 miliardi da sbloccare. Più nel dettaglio Conte, che da avvocato ha lavorato sul diritto societario, punta a «semplificare, in via temporanea, le regole per i contratti pubblici sotto soglia, riducendo le attuali procedure alla trattativa privata e alla procedura negoziata. Per i contratti sopra soglia concederemo poteri di deroga alle stazioni appaltanti salvo il rispetto delle normative fondamentali sulla trasparenza e l' antimafia». Si velocizzeranno inoltre tutti i procedimenti di spesa pubblica «attraverso l' innovazione digitale». Il premier si deve coprire dalle accuse che gli piovono addosso, dal Pd, sponda Delrio, e dal M5S. Già a febbraio, prima del virus, Luigi Di Maio e Cancelleri affrontarono in una riunione i gruppi M5S preoccupati dalle indiscrezioni. L' ex capo politico fu categorico: «Abbiamo cento miliardi di lavori da sbloccare, c' è già l' accordo tra tutti i partiti, non possiamo frenare». Come a dire: fatevene una ragione.

Modello Genova sia applicato per i 600 cantieri fermi che valgono 54 miliardi. Gianluca Rospi su Il Riformista il 15 Maggio 2020. Dopo 55 giorni di lockdown, si è passati dall’emergenza sanitaria a quella umana, con il rischio di precipitare, non intervenendo subito e concretamente, in una vera e propria depressione socio-economica. Per evitare ciò, oltre a sostenere l’economia con incentivi diretti, occorre agevolare quei settori che sono moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica come, per l’Italia, quello delle costruzioni, sul quale si può incidere anche con soli stimoli indiretti, sbloccando i cantieri. Oltre 600 le opere grandi e medie bloccate, per un valore di oltre 54 miliardi, a cui ne vanno aggiunte almeno altrettante piccole; più dell’80% già ferme prima della pandemia, a causa di una burocrazia che blocca il settore degli appalti, in primis grazie al D.lgs 50/2016. È indispensabile pertanto, per far ripartire il Paese, accelerare e semplificare l’iter autorizzativo, utilizzando il principio anglosassone che concede ampia responsabilità all’imprenditore, per poi punire rapidamente i “furbetti”. Ne è esempio il completamento del ponte di Genova, favorito da un modello di gestione, previsto dal D.L. 109/2018 (cd Modello Genova), che ha semplificato e sburocratizzato le procedure amministrative. Creando la figura di un commissario manager, è stato possibile superare le criticità dell’attuale regolamentazione degli appalti, settore bloccato da un codice farraginoso, un’enorme quantità di linee guida ANAC e una ridondanza di pareri che, spesso, confondono e paralizzano i funzionari pubblici. Indispensabile, in questa particolare fase, che il Governo si sforzi nell’annullare ogni forma di burocrazia che possa rallentare il supporto alla liquidità altrimenti, qualsiasi sforzo, pur buono ma privo di effetti immediati, potrebbe addirittura diventare fallimentare. Se l’obiettivo è quindi sbloccare i cantieri e recuperare i miliardi di euro fermi, due le possibilità: riscrivere celermente le regole della burocrazia, sicuramente la migliore ma che richiede tempo e ampio consenso delle forze politiche, o applicare modelli di gestione già collaudati. La scelta non può non cadere sulla seconda opzione: partire da modelli di gestione già collaudati per adeguarli alla situazione attuale. Se guardiamo indietro, uno che ha funzionato bene, come anticipato, è stato il “Modello Genova”, che ha fornito risultati concreti, ricucendo la ferita tra Levante e Ponente in meno di 2 anni. Tempo questo eccezionale, guardando alla realizzazione delle opere infrastrutturali in Italia: dai 3 anni per le opere inferiori a 100mila euro ai 12,2 per quelle superiori a 50milioni, con un ulteriore incremento di un anno per le opere oltre i 100milioni. Più della metà del tempo viene persa nella fase di progettazione e, in particolare, per l’ottenimento di pareri ministeriali e regionali. Avendo contribuito in maniera decisiva alla stesura del D.L. 109/2018, sono convinto che lo stesso, modificato così da garantire meglio la libera concorrenza tra imprese e la celerità delle fasi autorizzative pre-gara, oggi possa essere la soluzione per far ripartire il settore. La sua estensione a tutte le opere bloccate, sarebbe agevolata anche dal fatto che la stessa Commissione Europea, per le attività conseguenti l’emergenza Covid-19, con la comunicazione 2020/C 108 I/01 (GU 1/04/2020), dà la possibilità agli Stati di andare in deroga alla norma quadro dell’UE in materia di appalti pubblici, suggerendo l’utilizzo, in caso di estrema urgenza, di procedure negoziate, senza previa pubblicazione di bando. Procedura, tra l’altro, ammessa anche dal D.lgs 50/2016 art. 63, nella misura strettamente necessaria quando, sempre per ragioni di estrema urgenza, non si possono rispettare i termini prescritti dalle altre procedure. Considerato che ci si trova in una situazione di emergenza, l’uso di metodologie in deroga sarebbe quindi ampiamente plausibile e il D.L. 109/2018, da questo punto di vista, sarebbe un buon modello di riferimento. Come? Intervenendo nella fase di progettazione, attraverso una migliore regolamentazione, e demandando, alla sola fase di progettazione preliminare e definitiva, l’acquisizione dei pareri ministeriali e regionali, attraverso conferenze di servizio a cui far partecipare gli enti interessati, eliminando i passaggi multipli e indicando anche tempi certi per l’ottenimento dei pareri. Ed ancora, rivalutando l’attività di verifica e cantierabilità, affidando al Collaudatore e al Direttore dei Lavori, estranei alla progettazione, tale ruolo per tutte le opere sotto soglia comunitaria. E dando più poteri ai Provveditorati Interregionali alle Opere Pubbliche, che potranno essere abilitati ad esprimere pareri per i progetti superiori ai 25 milioni di euro, nell’ambito delle opere di competenza commissariale. A questo punto, come nel caso del Modello Genova, la nomina del Commissario con poteri speciali per la gestione dell’iter burocratico e la velocizzazione della fase di appalto, con poteri anche di deroga, senza naturalmente ledere la libera concorrenza e che opererebbe in raccordo con i Provveditorati Interregionali delle Opere Pubbliche, ove potrà essere costituita un’autonoma Struttura Commissariale di Missione, potrebbe sicuramente creare quel sistema di velocizzazione e sblocco dei cantieri fermi da anni. Proprio per questi motivi, nei giorni scorsi, ho presentato una proposta di legge che, partendo dal D.L. 109/2018, ha come finalità quella di semplificare e velocizzare le procedure burocratiche delle opere già finanziate ma bloccate da anni.

Un ponte, l’italico genio e l’indifferenza dei media. Domenico Bonaventura, Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista l'1 Agosto 2020. “Bad news is good news”, una cattiva notizia è una buona notizia. Siamo tutti capaci di tirare fuori il giornalista che c’è in noi e dare sfogo a uno dei pilastri del giornalismo, appunto. Eppure, ci sarebbe così tanto di buono, in Italia, di cui parlare, da diffondere. Insomma, tutti molto, troppo attenti a indicare col ditino puntato cosa non va bene di qua e cosa è immorale di là. Siamo campioni mondiali di questo sport. Perché se poi in realtà andiamo a scavicchiare, e neanche tanto, troviamo un mare di buone pratiche, ma talmente tante da poter addirittura pensare di costruirci un bel pezzo di futuro. Talmente tante da poter far “schiattare d’invidia” il resto del globo, volendo parafrasare la celebre scena de “Il Ciclone”, in cui Tosca D’Aquino balla ubriaca sul tavolo del ristorante. E non starò qua a parlare delle bellezze artistiche, del sole, del mare, della pizza e della mozzarella (che pure, voglio dire…), stereotipi ormai rancidi e stantii e presenti in tutto il mondo. Voglio parlare delle prove che sappiamo dare ma che non sappiamo riconoscere. Che sappiamo offrire ma che non sappiamo fare nostre. A cui, cioè, non siamo capaci di dare il giusto valore. Dopodomani, 3 agosto, una solenne e composta cerimonia di inaugurazione sancirà la riapertura del Viadotto Genova San Giorgio, conosciuto come Ponte Morandi. Un chilometro e 67 metri di lunghezza distribuiti su 19 campate sorrette da 18 pile in cemento armato di sezione ellittica. Trenta metri di larghezza e 45 di altezza. Parzialmente crollato il 14 agosto 2018, fu tirato giù completamente nel giugno 2019, attraverso un’opera di demolizione calcolata al milligrammo. Sappiamo tutti che il progetto del nuovo viadotto porta la firma di Renzo Piano, uno degli architetti più famosi al mondo, che lo ha donato alla propria città. Webuild (ex Salini-Impregilo) e Fincantieri lo hanno rimesso in piedi in un anno grazie al cosiddetto “modello Genova” – che, per alcuni in maniera fin troppo disinvolta, ha derogato al Codice degli Appalti. Di fermarsi durante l’emergenza Covid non ci hanno neanche pensato. Hanno lavorato giorno e notte, dando al mondo un esempio fulgido di ciò che l’Italia è in grado di fare. Con un’efficienza tale che neanche gli italiani se ne sono accorti, presi come siamo a cercare le bad news col lanternino. Sia i cittadini che media. A parte qualche servizio relegato in coda ai tg e di spalla ai quotidiani (le testate di respiro più “territoriale”, come ad esempio TeleGenova e il Secolo XIX, hanno dato ampio spazio al tema in tutti questi due anni), mi è capitato di vedere davvero poco sulla ricostruzione del ponte. Invece credo che i media, con la loro forza dirompente, avrebbero dovuto piazzarsi sulle rive del Polcevera, proprio come nei giorni successivi al crollo, e fare una cosa che oggi va tanto di moda: narrare. Costruire una narrazione per una volta univoca, non lottizzata, ma finalizzata a un obiettivo.

Avrebbero dovuto seguire passo dopo passo la rinascita di quest’opera, che era la rinascita di una città colpita al cuore in una Nazione colpita al cuore da 43 vite cadute e da scene laceranti. Avrebbero – e mi riferisco soprattutto al servizio pubblico – dovuto dare maggior risalto e visibilità al genio italiano, che per molti pare essersi fermato alle mirabilie di Leonardo e che invece continua a produrre talenti in serie, a macinare idee trasformandole in splendide realtà, ad accompagnarci per mano nel progresso e nel futuro. Forse siamo acerbi per poter pensare a uno storytelling di questo genere che Francia, Giappone e Stati Uniti, per citare le prime tre società che mi vengono in mente, avrebbero senz’altro fatto. O forse siamo impostati in maniera tale da essere certi che tutto valga infinitamente più delle nostre enormi e continue – ma silenti – dimostrazioni di competenza e di capacità. Tant’è. Dopodomani, dopo il passaggio delle Frecce Tricolori e il transito della prima auto, quella del Capo dello Stato, il viadotto verrà aperto al traffico. In quel momento, magari, in molti toccheranno con mano la portata storica, tecnica, sociale e nazionale di questo risultato.

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 30 aprile 2020. Il ponte di Genova è una lezione per l’Italia. Peccato che pochi se ne siano accorti. Dei principali giornali di mercoledì 29 aprile, solo il Corriere della Sera ha queste parole: “È un modello per il Paese”. Ma le ha dette il presidente della Regione Liguria, il milanese (d’adozione) Giovanni Toti. Ci si sarebbe aspettato che a pronunciarle fosse Giuseppe Conte, presidente del Consiglio. Invece di perdersi fra messe, ramadan e parrucchieri, sarebbe stato meglio che Conte avesse detto: “È la prima volta in Italia. Come avete fatto? Mando subito Vittorio Colao e i suoi 17 espertissimi a vedere come avete fatto e carpirvi il segreto”. Il segreto non è racchiuso in me, gli avrebbe risposto Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario alla ricostruzione del ponte. Ma è sotto gli occhi di tutti. Forse non di chi non vuole vedere. Ma basta un minimo di voglia di capire. Che invece non sembra sia molto diffusa. Aggiungendo: è tutta una questione di poteri e procedure. Bucci è entrato in politica da grande, a 58 anni d’età. Prima aveva fatto 30 anni di gavetta in multinazionali della chimica. Profilo medio, direbbe un cacciatore. Altro che il super manager Colao. Ma esperienza dal basso, capacità di decisione e chiarezza di idee. Niente comitati, un uomo solo al comando. E alla fine il ponte è stato completato, venti mesi dopo il crollo del vecchio ponte Morandi, alla vigilia di Ferragosto del 2018. Nemmeno Giulio Cesare avrebbe fatto meglio. Avendo accanto un tizio di nome Renzo Piano. Il quale Renzo Piano avrebbe aggiunto: procedure, chiarezza di competenze e responsabilità, decisione senza retropensieri. Piano è il più grande architetto italiano degli ultimi cent’anni e tra i più bravi al mondo. Vai all’aeroporto di Osaka, in Giappone, o a New York, fra il palazzo del New York Times e il museo di J.P.Morgan, a Parigi al Beaubourg. Sono i rari momenti d’orgoglio per un italiano all’estero. Opere grandiose, alcune come Osaka quasi titaniche. Eppure la semplicità, l’essenzialità ti rapiscono. Senti la differenza. Essenziale si può definire il nuovo ponte sul Polcevera. Piano ha progettato il suo ponte immaginandolo tutto in acciaio. L’acciaio, dicono, è usato nella costruzione dei ponti in tutto il mondo. In Italia non piace. Pare che richieda molto poca manutenzione. Può essere una malignità. Ma colpisce leggere sul Secolo XIX le meraviglie tecnologiche che caratterizzano il nuovo ponte. Renzo Piano ha calcolato tempi e definito metodi. E la tabella di marcia fissata un anno fa finirà per subire un ritardo di qualche settimana, massimo un paio di mesi. In mezzo c’è stata l’apocalisse del Covid-19 o coronavirus che ha bloccato quasi tutta l’Italia. E le burrasche e le piogge che sono la delizia di Genova d’inverno. Ma non c’è da meravigliarsi che il completamento del ponte sia avvenuto quasi in sordina, rispetto alla portata e al significato dell’evento. Se si tratta di mafia, allora si che siamo bravi a parlarne. Il successo di Genova è un qualcosa da sbandierare in tutto il mondo. Lo dico non da genovese della diaspora (ne sono venuto via 50 anni fa e non tornerei indietro). Lo dico da italiano che un po’ il mondo lo ha girato. Che spesso si è dovuto vergognare perché il principale effetto dell’antimafia è che all’estero tutti gli italiani sono mafiosi. Che è consapevole che l’impero romano è caduto 1.600 anni fa. Che Genova era tanto povera che i longobardi ci sono andati due secoli dopo aver preso Pavia. Che le glorie nazionali del passato, Dante, Michelangelo, Raffaello, sono sottoterra da mezzo millennio. O sono andate a lavorare per i re stranieri, vedi Colombo. Dicono che attorno a Vasco de Gama c’erano i marinai genovesi. Ma al servizio non del doge di Genova bensì del re del Portogallo. E al servizio di qualche capitale straniera sono dovute andare le glorie recenti: Meucci, Marconi, tanti Nobel. Una cosa mai vista, a memoria d’uomo, quanto meno a partire dagli anni ’60. Invece tutto quello che siamo stati capaci di rimarcare è stato che attorno a Conte a Genova c’era troppa gente. Fenomeno scontato in qualsiasi evento di quella portata in qualsiasi regime. Come se il completamento in tempo quasi perfetto di un ponte lungo un chilometro fosse come un barbecue su un terrazzo a Palermo. Ci sono, in giro per l’Italia, opere mai terminate. Pensate al Mose che dovrebbe salvare Venezia. Consentitemi un po’ di orgoglio genovese. A Venezia, ogni tanti anni piangono che la città sta per morire. Mezzo secolo fa fu il picco dei lamenti. Ci furono film e canzoni. Poi vendettero gli appartamenti ai ricchi italiani e stranieri, e tutto tacque. Da quarant’anni si trastullano con un progetto di dighe e paratie mobili noto come Mose. Lo Stato italiano ci ha profuso qualche miliardo e ancora non funziona. In compenso, a un certo momento, c’è stata una retata. Ma non è colpa dei veneziani, la colpa è del sistema. Un ente pubblico, strattonato fra le competenze di enti, società civile, ambientalisti e mugugni vari. A Genova, infatti, i due progetti chiave per rilanciare la città e il porto, il terzo valico ferroviario e la bretella autostradale che chiamano gronda. Il terzo valico è stato a lungo ostaggio non solo dei grillini, ma dei pasticci politici, soprattutto a sinistra. La linea ferroviaria dovrebbe essere pronta fra 3 anni, 10 dopo l’avvio dei lavori. Punto d’arrivo sarà Novi Ligure, appendice di Genova oltre Appennino. Come farà il treno iperveloce a arrivare da Novi a Milano ancora non sembra chiaro. Della gronda meglio non parlare. La morale che si può trarre dalle vicende veneziane e genovesi, è: che dove prevalgono calcoli elettorali e confusione decisionale e organizzativa tutto si impantana. Coté giudiziari a parte. Non parlo del Meridione, non parlo di tutti i casi di opere incompiute che sono pietre miliari della storia d’Italia. Ma dovete riconoscere che il successo della ricostruzione del ponte di Genova, ha solo una chiave: procedure snelle, organizzazione chiara. Lo scrivo pur con tutta l’ammirazione per Piano e Bucci che uno può provare. E, alla base, un grande progetto. Tanto che Beppe Grillo ha dovuto tacere. E accantonare il bizantino progetto che all’inizio aveva deciso di sostenere. Avrebbe perso l’amicizia di Piano. E la faccia.

Quel ponte che scavalca la burocrazia. Alessandro Sallusti, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Ieri l'altro a Genova è stata completata la costruzione del diciottesimo e ultimo pilastro del ponte che andrà a sostituire il Morandi, il cui crollo, nell'agosto del 2018, provocò 43 vittime. L'inaugurazione della nuova struttura, un capolavoro di ingegneristica e di architettura firmato da Renzo Piano, è prevista per giugno, giusto a un anno dall'apertura del cantiere. È la prova che in Italia quando si vuole è possibile fare grandi opere velocemente e bene, che sul Paese non grava una maledizione divina che ci condanna all'immobilismo e allo sperpero. Sapete perché a Genova è stato possibile? Semplice: perché la politica, la magistratura penale e civile, ecologisti, ambientalisti, burocrati, faccendieri, mafiologi, nani e ballerine sono stati tenuti alla larga dalle decisioni e dai lavori. Fuori tutto lo Stato, nella cabina di regia solo i vertici di due grandi imprese italiane, la Salini (privata) e Fincantieri (pubblica), un commissario responsabile di tutto (il sindaco di Genova Marco Bucci) e un supervisore (il governatore della Liguria Giovanni Toti). Fine dell'elenco e delle discussioni su cosa e come agire. A fare ci pensano mille operai che ruotano sul cantiere ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana: da giugno scorso una pausa solo a Natale. Vedrete che quando sarà inaugurato si dirà di un «miracolo a Genova». Io parlerei più di un «modello Genova», che a differenza dei miracoli è cosa umana e ripetibile ovunque, in qualsiasi momento, ed è l'unica strada concreta per rimettere in moto l'economia del Paese. In Italia ci sono ventiquattro grandi opere bloccate da burocrazia e cavilli che valgono quasi 25 miliardi. Il paradosso è che non mancano i soldi, ma i timbri. L'Ance, l'associazione che raduna i Comuni, ha calcolato che un loro sblocco avrebbe un riflesso sull'economia, con l'indotto e i vantaggi, di 86 miliardi e di 380mila posti di lavoro. E allora viene da chiedersi: perché invece di tante chiacchiere non varare ventiquattro modelli «ponte di Genova», o almeno abolire il macchinoso codice degli appalti, limitare l'invadenza delle tante autorità di controllo, togliere le leggi manettare che frenano funzionari e dirigenti pubblici che, per paura, non firmano più neppure un autografo? Qui non servono i miracoli, basterebbe un governo liberale, pragmatico e capace. Purtroppo quello che abbiamo è tutto l'opposto.

Andrea Plebe per “la Stampa”l'11 febbraio 2020. «Siamo tutti genovesi: è il sentimento che leggi negli occhi di chi lavora alla costruzione del Ponte di Genova. E poi lo stupore nel vedere un progetto che, giorno dopo giorno, diventa realtà: è quella la meraviglia del cantiere». L' architetto Renzo Piano ha compiuto l' ultima visita il 2 febbraio, domenica. «Appena ho l' occasione, quando sono a Genova vado a vederlo», dice dallo studio di Parigi. «La domenica, poi, ci passo qualche ora. E tutti i tecnici e le persone che sono con me, anche loro si prendono tempo, nessuno ha fretta, c' è grande partecipazione».

Architetto, il ponte in Valpolcevera sta per vivere un momento importante, il varo della prima campata da 100 metri. Com' è stata la sua ultima visita?

«Comincio sempre dal lato di ponente, dove ho incontrato i responsabili di cantiere di Salini Impregilo, di Fincantieri e del Rina, e da lì abbiamo attraversato la zona a piedi, fino all' altro lato. Siamo stati anche a Certosa, la strada centrale dove mi portava mio padre quando ero bambino, lui era nato lì. È il momento in cui si percepisce l' entusiasmo di fare le cose insieme, c' è sempre chi si ferma a parlare, saldatori, manutentori, gruisti...».

E che cosa accade?

«È scritto nei loro occhi: siamo tutti genovesi, anche se uno viene da Trento, uno dallo Sri Lanka, un terzo da un altro posto ancora. Può apparire un po' romantico, ma è così. Lo avevo già notato nel cantiere navale di Fincantieri, dove sono stati costruiti i pezzi del ponte. Queste sono grandi imprese, che lavorano nel mondo, con personale di ogni nazionalità. Ti fa venire in mente che Genova, anche per la sua natura portuale, è da sempre una città cosmopolita. Ogni tanto, per gioco, gli parlo in genovese, poi mi rendo conto che forse non tutti capiscono...Ma percepisci il senso di appartenenza, l' orgoglio di fare».

Un esempio di come si può lavorare bene insieme, un' occasione rara.

«Il cantiere a Genova è la cartina al tornasole del fatto che questo Paese è capace di imprese straordinarie. A Genova ci sono tutte le competenze ad altissimo livello non dimentichiamo l' Istituto italiano di tecnologia che sta realizzando il sistema robotico di controllo e manutenzione del ponte, Italferr che ha fatto il progetto esecutivo. In Giappone ho realizzato un ponte simile, e ci sono voluti tre anni. Qui lo faremo in meno di uno. Perché diavolo ci vuole un' emergenza per riuscirci? Queste forze si possono mettere insieme sempre, anche per un Progetto Paese».

Che cosa è cambiato in corso d' opera del suo progetto, che fra l' altro lei ha donato alla città?

«Può accadere che, per svariate ragioni, i progetti vengano un po' travisati, ma qui non è accaduto. L' idea progettuale è stata difesa da tutti, in primo luogo dalla struttura commissariale guidata dal sindaco, e anche dalle istituzioni del territorio. È stata difesa la coerenza del progetto, la sua essenzialità e chiarezza, che è parente stretta della sua fattibilità».

Come verranno ricordate le vittime del 14 agosto?

«Attraverso un memoriale a cui sta lavorando l' architetto Stefano Boeri con il suo team, sarà l' inizio del lavoro sul parco della Valpolcevera. Per il 21 giugno, la data indicata dal sindaco, che mi piace molto perché è il solstizio d' estate, il giorno più lungo dell' anno, vedremo i primi risultati. La Valpolcevera ha una storia importante, è il cuore della città metropolitana e costruendo sul costruito avrà la possibilità di svilupparsi, con funzioni miste. Lì c' è una promessa di bellezza, ne sono convinto».

Che impatto emotivo ha su di lei questo cantiere?

«Grande, soprattutto perché segue una tragedia. Costruire è un gesto di pace ed è ancora più forte se è la risposta a una distruzione. Da un punto di vista emotivo c' è un solo altro edificio che mi è capitato di fare con quello spirito, la sede del New York Times, dopo l' 11 Settembre. A Genova il significato è ancora più esplicito, quando vai lì non puoi non ricordare le 43 vittime, le centinaia di sfollati, la città spezzata in due. Il ponte vuol dire riprendere forza, ritrovare il coraggio, questo è il posto che prende nel mio cuore».

Si è anche discusso per il nome, ma è necessario dargliene uno?

«Ho sempre pensato che dovrebbe chiamarsi il Ponte di Genova con la P maiuscola, e basta: in tutto il mondo si sa cosa è successo il 14 agosto 2018. Poi ci penseranno i bambini, a dargli un soprannome, lasciamoli fare e ne troveranno di bellissimi. Alla fine credo che il ponte sarà una presenza lieve, accarezzata dalla luce radente. E lasciamo in pace Morandi, che è stato un grande ingegnere».

Il ponte di Genova ora scavalca di nuovo il Polcevera. Matteo Macor su Repubblica Tv il 10 marzo 2020. Un anno e sette mesi dopo il crollo del ponte Morandi, sul fiume Polcevera, a Genova, si ritorna a volgere lo sguardo in alto. Dopo qualche giorno di rinvio a causa del maltempo, è terminato il sollevamento in quota della campata più lunga del nuovo ponte autostradale: i cento metri di impalcato che permetteranno di scavalcare il letto del torrente, tra le pile 9 e 10, corrispondenti al tratto di Morandi crollato il 14 agosto 2018. Nelle immagini della struttura commissariale, il riassunto delle quasi 24 ore di lavoro con cui i tecnici di Fincantieri Infrastructure hanno coordinato – grazie all’utilizzo di speciali apparecchiature, gli strand jack, capaci di garantire la salita della campata di 5 metri all’ora – le operazioni di sollevamento a quasi 40 metri di altezza di circa 2mila tonnellate di acciaio. “In un momento tanto difficile per tutta l’Italia, - dice Alberto Maestrini, presidente di PerGenova - un nuovo traguardo, concreta testimonianza delle capacità della nostra industria”.

La maxi trave di 100 metri: il nuovo ponte cresce dove crollò il Morandi. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Erika Dellacasa. All’alba di martedì Genova ha riavuto il secondo tratto del ponte sul Polcevera, «quel» tratto: la parte che il 14 agosto del 2018 è crollata trascinando con sé 43 vite e lasciando la città spezzata e sconvolta. A febbraio il consorzio di imprese che lavora alla ricostruzione aveva già posizionato il primo maxi-impalcato, ma questo è speciale, non soltanto per le operazioni di alta ingegneria che ha richiesto, ma per il suo impatto emotivo. La grande campata da 1.800 tonnellate innalzata martedì scavalca il torrente Polcevera nello stesso punto in cui è crollato il Ponte Morandi ed era impossibile per chi ha assistito alla posa non rivedere le immagini della tragedia, le auto accartocciate, il camion bianco quasi intatto fra le macerie, il furgoncino fermo a pochi passi dal vuoto, lo choc dei sopravvissuti e dei testimoni. «La posa di questa campata ha un altissimo significato simbolico», ha commentato Nicola Maistro, l’amministratore delegato di PerGenova, la joint venture che unisce il gruppo Fincantieri e Salini Impregilo incaricata della ricostruzione. Per portare in quota, ad oltre quaranta metri di altezza, l’impalcato (in parole molto povere, una maxi-trave lunga 100 metri) le maestranze hanno lavorato dalla mattina di lunedì per tutta la notte nonostante la pioggia che ha reso più difficile la movimentazione sul greto del Polcevera. Per prima cosa infatti — spiega Siro Dal Zotto, direttore operativo di Fincantieri Infrastructure — è stato necessario «posare» a sbalzo l’impalcato sul greto utilizzando due carrelloni con 80 ruote ciascuno, quindi sollevare la parte a sbalzo con un traliccio e farlo scorrere. L’impalcato è stato ruotato di 90 gradi per portarlo in asse con i piloni quindi è iniziata nella notte l’azione di sollevamento con martinetti idraulici. Per fortuna non si è alzato il vento, che costituisce il maggior pericolo quando si lavora con carichi sospesi. Il varo della campata è avvenuto con il primo sole ed è ormai con un certo affetto che la città parla di «varo» delle parti del ponte-nave, come l’ha battezzato Renzo Piano. Il nuovo tratto porta lo skyline del ponte sul Polcevera a misurare più di 600 metri e comincia ad essere visibile, grazie alle «ali» della struttura, la forma a carena di nave che l’architetto genovese ha voluto imprimere a questo progetto. Uno scafo d’acciaio nel cielo di Genova. L’ultimo impalcato da 100 metri che sarà posizionato nelle prossime settimane dovrà passare sopra la ferrovia: ogni fase della costruzione del ponte pone nuovi problemi di ingegneria. E anche il cantiere di Genova non è esente dall’allarme coronavirus. «Stiamo lavorando a tempo record», ha detto l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono, «in questo frangente così delicato. Assicuro che adotteremo con rigore tutte le misure indicate dalle autorità per tutelare la salute di tutti». Entro giugno il ponte dovrebbe essere terminato: il «modello Genova» con la nomina a commissario del sindaco Marco Bucci sta raccogliendo molti apprezzamenti. «Questa giornata», ha detto il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, «ci fa già immaginare il futuro, le immagini del ponte ci dicono che ce la possiamo fare e ce la faremo, proprio mentre pensiamo a come risolvere i problemi del presente. Il modello Genova è semplice: vuol dire collaborazione e lealtà fra istituzioni, obiettivi comuni, assunzione di responsabilità, poteri per fare le cose».

Suonano le sirene, Genova celebra il varo del nuovo ponte. Salito questa mattina l'ultimo pezzo di impalcato, il viadotto unisce di nuovo i due lati della Valpolcevera al posto del Morandi, che era crollato il 14 agosto del 2018 causando 43 vittime, il presidente del Consiglio Conte parla di una "giornata speciale", "una ferita sanata" e ribadisce: "lo stato non ha mai abbandonato Genova". Nadia Campini il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La bandiera di San Giorgio sventola alta sul Polcevera, l'ultimo metro e mezzo di salita dell'impalcato che completa il nuovo ponte di Genova si è compiuto questa mattina, alla presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e della ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli. La trave destinata a coprire gli ultimi 44 metri si è andata a posizionare nello spazio vuoto e dopo 620 giorni dal tragico crollo del ponte Morandi, costato la vita a 43 persone, c'è un nuovo un ponte a unire la parte est con quella ovest della Valpolcevera. Il viadotto, realizzato in acciaio, è lungo 1067 metri ed è composto da 19 campate poste a 40 metri di altezza sorrette da 18 piloni. "Non è una festa - ha ricordato l'architetto Renzo Piano, che lo ha disegnato - ma è un lavoro che si completa con grande orgoglio".  Conte e De Micheli sono arrivati in cantiere con la mascherina, Conte ha parlato di una "giornata speciale"  e ha ribadito che "lo stato non ha mai abbandonato Genova", consapevoli che "questa ferita non potrà essere completamente rimarginata perchè ci sono 43 vittime che non dimentichiamo e i giudizi di responsabilità di quella tragedia non sono ancora completati e devono completarsi". "Genova ci insegna a ripartire insieme", sono state le parole di Conte - non ci fermeremo ad additare nemici. Questa comunità ha saputo riprendere il cammino ed è una luce che dà speranza all'Italia intera". Poco dopo le dodici Conte ha suonato il pulsante che ha dato il via alle sirene del cantiere e a un lungo applauso, al quale hanno fatto eco anche le sirene in porto completando così la cerimonia. Un punto di arrivo tutt'altro che scontato. Dopo la demolizione delle macerie del vecchio ponte Morandi il cantiere per la ricostruzione, affidata al consorzio PerGenova, composto da Salini Impregili e Fincantieri Infrastructure, ha incontrato molte difficoltà, dall'amianto all'incendio di una pila, ma non si è mai fermato, ha lavorato ventiquattro ore su ventiquattro, impiegando mille persone, ed è andato avanti anche in periodo di coronavirus, un operaio è stato trovato positivo, sono state adottate tutte le misure di sicurezza, l'isolamento, le mascherine e il lavoro ha rallentato, ma non si è interrotto. Ieri sera le diciotto pile del nuovo ponte sono state illuminate con il tricolore. Questa mattina il varo. La ministra De Micheli ha confessato la sua "emozione". "Il ponte non è finito - ha detto il sindaco Marco Bucci - ma oggi celebriamo il ricongiungimento delle due parti della valle". E il presidente della Regione Giovanni Toti ne ha parlato come del "simbolo di un Italia che riparte". Dopo il varo di questa mattina si procederà al 'calaggio', l'impalcato sarà posizionato sui sui appoggi definitivi, poi sarà completata la parte superiore, la soletta, l'asfaltatura, per l'inaugurazione si dovrà aspettare l'estate, probabilmente la seconda metà di luglio. Nel frattempo si dovrà anche decidere il nome, ad oggi molte sono state le proposte, da 'ponte43', in memoria delle 43 vittime, a ponte Paganinini, a semplicemente il Ponte di Genova, l'idea lanciata dall'architetto Piano.

Ponte Morandi: dal crollo alla rinascita del nuovo ponte. Concluso il varo. Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2020. I lavori, partiti a marzo del 2019, entrano così in una nuova fase. Che prevedono, già dai prossimi giorni, l’appoggio definitivo sulle diciotto pile a forma di ellisse, la realizzazione della soletta su cui correrà l’asfalto con una unica, lunga gettata e l’installazione delle tecnologie e dei lampioni che, a centro strada, illumineranno il ponte-nave firmato da Renzo Piano. ROMA – Nelle vie e piazze di Genova sono risuonate le note dell’Inno di Mameli e il “Nessun Dorma” della Turandot. Così Salini Impregilo ha salutato il varo dell’ultima campata., colorando il ponte e pile con un fascio luminoso tricolore. Un’iniziativa che rappresenta un omaggio alle istituzioni, ai genovesi e un pensiero commosso per le vittime del crollo. Il suono delle sirene di cantiere e l’eco più lontano e soffuso di quelle del porto: a mezzogiorno in punto di ieri la diciannnovesima campata d’acciaio del nuovo ponte sul Polcevera a Genova ha appena compiuto gli ultimi centimetri che la separavano dal punto finale della sua ascesa, a 40 metri d’altezza, completando i 1.067 metri del nuovo tracciato che ricongiungerà i tronconi della A10, spezzata il 14 agosto del 2018 dal disastroso crollo della pila 9 del ponte Morandi. Adesso il tracciato del nuovo ponte è completato, è lungo 1067 metri. A venti mesi dal crollo del Morandi, che provocò la morte di 43 persone, il nuovo viadotto riunisce le due sponde della valle. Presenti alla cerimonia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, il sindaco di Genova Marco Bucci ed il governatore ligure Giovanni Toti. I lavori, partiti a marzo del 2019, entrano così in una nuova fase. Che prevedono, già dai prossimi giorni, l’appoggio definitivo sulle diciotto pile a forma di ellisse, la realizzazione della soletta su cui correrà l’asfalto con una unica, lunga gettata e l’installazione delle tecnologie e dei lampioni che, a centro strada, illumineranno il ponte-nave firmato da Renzo Piano. “Questo è qualcosa di più di un ponte, è l’esempio di un’Italia che ce la fa a ripartire, la dimostrazione che insieme possiamo fare tante cose”, ha detto il governatore ligure, Giovanni Toti. “Per Genova e per San Giorgio”, ha detto il Sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera, Marco Bucci, ricordando un grido di guerra dell’antica Repubblica marinara, mentre nello stesso momento sventolava sui fianchi della campata un grande vessillo con la croce rossa in campo bianco . “Il ponte non è finito – ha aggiunto il primo cittadino del capoluogo ligure – questo ponte colpisce il cuore e la mente, per lo stile asciutto tipico dei genovesi. Il ponte e’ su, ma non e’ finito: c’e’ ancora tanto lavoro da fare nei prossimi due mesi e mezzo”. “Bisogna centrare il ponte, calarlo sugli appositi piloni, abbassandolo di almeno 25-30 cm. Poi bisognera’ mettere la soletta in calcestruzzo e, a seguire, l’asfalto. Poi monteremo le barriere, i pannelli solari e l’illuminazione. Solo allora potremo inaugurarlo. E – ha concluso il sindaco – il giorno dell’inaugurazione canteremo vittoria”.

Così il viadotto è stato ricostruito in un anno. Cinque motivi per cui una grande opera non si è fermata. Luigi Pastore il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La ricostruzione del viadotto di Genova, avvenuta rapidamente e senza mai fermarsi neppure in tempi di Coronavirus, è la dimostrazione che anche in Italia si può. Ci sono almeno cinque motivi per cui questo ponte, i cui lavori sono iniziate un'estate fa, a luglio potrebbe essere percorribile al traffico, esattamente 24 mesi dopo la tragedia del Morandi, anche se non è stato affatto semplice e i problemi sul cammino ci sono stati. In primo luogo, un percorso normativo e organizzativo snello, che di fatto ha sterilizzato la burocrazia, grande nemica delle opere pubbliche in Italia. I lavori sono stati assegnati con una procedura rapida e la loro guida è stata affidata a un commissario operativo, il sindaco di Genova Marco Bucci. Si è parlato di poteri speciali, le abituali procedure sono state alleggerite alquanto e il resto lo ha messo l'iper decisionismo di Bucci, uomo d'azienda prestato alla politica e per sua stessa ammissione allergico alla burocrazia anche quando guida un ente complesso e senza poteri speciali come il Comune di Genova. In secondo luogo ci si è affidati a una società, Rina Consulting, per il project management, in pratica una direzione lavori serrata con una catena di comando e comunicazione agile, che ha portato rapidamente a protocolli operativi e di sicurezza nel cantiere. Organizzazione che è divenuta ancor più stringente dopo l'esplosione del Coronavirus e la necessità di circoscrivere il più possibile, focolai di contagio. In terzo luogo, la concertazione con le parti sindacali e con i comitati dei residenti, per mettere a punto regole sul lavoro e affrontare il tema delicato delle polveri d'amianto che minacciavano la demolizione del vecchio viadotto, avvenuta in una zona estremamente conurbata con quattro direttrici di traffico, una ferroviaria e in un quartiere che ha già pagato a caro prezzo la tragedia con centinaia di sfollati. Quindi, la scelta di affidarsi per il progetto a una firma come quella di Renzo Piano, che ha voluto mettersi a disposizione per la sua città con grandissima passione e ha dato slancio anche emotivo alla ricostruzione, oltrechè regalare il disegno di un nuovo viadotto. Infine, la collaborazione tra istituzioni e parti politiche anche di colore diverso, tra il governo giallorosso e amministrazioni locali di centrodestra, che ha consentito di lavorare con un comune obiettivo per il Paese, perchè disporre nuovamente di questo viadotto non significa solo riunire una città spezzata, ma scongiurare l'isolamento del porto di Genova dal resto del Nord e evitare una paralisi trasportistica destinata a diventare un fardello insostenibile per le imprese, aancor prima che si abbattesse la pandemia.

Se l'ipocrisia rossa frena pure gli appalti. Nicola Porro, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Sentite questa storia perché ha dell'incredibile su come trattiamo la nostra industria. La settimana scorsa le Tribune titola: Armamento, nuovo schiaffo alla Francia dall'Egitto. In poche parole, dopo decenni di appalti vinti dalle industrie francesi, l'Italia ha conquistato al Cairo due gare davvero importanti. Qualche mese fa ha piazzato con la vecchia Finmeccanica (oggi ahinoi si chiama Leonardo) un miliardo di elicotteri. E in queste ore si sta discutendo un contratto da più di un miliardo per fornire alla loro marina due fregate Fremm costruire da Fincantieri. Su queste navi, che verranno sottratte e poi ricostruite per la nostra marina, interverranno poi le dotazioni di armamenti sempre ad opera del gruppo Finmeccanica. Una bella botta per i francesi. Due miliardi in lavori per due eccellenze italiane che sconfiggono sul campo la concorrenza transalpina. E proprio nel momento in cui Macron pensa di giocare un ruolo geopolitico importante in quell'area geografica. E nel mezzo di un'assurda battaglia legale che si sta conducendo in Europa contro la nostra Fincantieri che si è permessa di comprare i cantieri Stx dai coreani, e che oggi viene messa sul banco degli imputati per posizione dominante. Ma questo è un altro discorso. Non si tratta di una partita di calcio, ma di quel complicato mercato degli armamenti, in cui la vittoria di un appalto da parte di un'azienda italiana vuol dire mantenere una filiera piuttosto lunga in un'industria dove meccanica e ricerca sono fondamentali. Tra l'altro questo è un settore dove non ci si improvvisa: non si va a vendere con la valigetta e il progetto esecutivo. Si deve sottostare a millimetriche normative nazionali, per non fornire armi a Stati che sono considerati canaglia anche attraverso complicate triangolazioni. Ebbene invece di gioire e ringraziare l'opera riservata che starebbe compiendo il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il suo consigliere militare, qua rischiamo di gettare tutto a mare. L'esecutivo sarebbe infatti diviso. L'idea, che Repubblica ieri ha rilanciato, è che non si possa fare affari con il Paese che «nasconde la verità su Giulio Regeni». Mettere insieme le due storie è una roba da pazzi, ma vedrete che la campagna proseguirà. Siamo degli specialisti nel farci del male. Abbiamo perso un contratto favoloso in India e arrestato (e poi totalmente assolto) l'allora presidente della Finmecanica-Agusta per tangenti che nessuno ha mai provato. Abbiamo massacrato Eni e Saipem per presunte tangenti in Nigeria. E oggi discutiamo sull'opportunità di vendere due fregate all'Egitto, scalzando la concorrenza francese. Viviamo in un brutto sogno, che purtroppo passo dopo passo diventa realtà, sulle macerie di un Paese che si sta deindustrializzando.

Economia. La lentezza degli appalti, la paralisi per l'Italia. Da un lato l’esigenza di liberarli per stimolare il Pil. D’altro lato la paura della corruzione che li infiltra. Risultato: un disastro per il Paese. Gloria Riva il 31 gennaio 2020 su L'espresso. Genova, il cantiere del nuovo ponte sul torrente PolceveraDin: efficienza. Don: lotta alla corruzione. Din: efficienza. Don: lotta alla corruzione. La sensibilità dell’opinione pubblica oscilla, come un pendolo, tra lo sdegno per l’infiltrazione mafiosa e l’indignazione per la lentezza dei lavori di realizzazione. I politici, a ruota, condizionati dal vento che tira in quel momento - efficienza o lotta alla corruzione - disfano la legge in vigore e ne fanno una nuova. Benvenuti nel mondo degli appalti pubblici italiani, i più lenti d’Europa. Così flemmatici da mandare all’aria una delle più elementari teorie dell’economia, cioè il potere anti-ciclico degli investimenti pubblici. Quando c’è una crisi, di norma uno Stato inietta più soldi - costruendo strade, ferrovie, ospedali, centri di ricerca, ma anche investendo in servizi alle persone - per dare stimolo anche agli investimenti privati: quel denaro dovrebbe essere una sorta di scintilla iniziale per riaccende l’economia, così come teorizzava l’economista John Keynes. «I tempi medi di realizzazione di un appalto italiano sono di 4,4 anni, con punte di 16 anni per le opere più grandi. L’assurdità di questa lentezza è che il benefico effetto degli appalti arriva troppo tardi (non prima di tre anni) rispetto all’urgenza di sostenere l’economia in crisi», spiega Andrea Boitani, professore di Macroeconomia all’Università Cattolica di Milano, autore del report Investimenti pubblici e bassa crescita, recentemente pubblicato dal centro studi Arel. Il dossier racconta che nel decennio 2007-2017 nel resto d’Europa i soldi pubblici hanno di fatto compensato il calo del Pil o rafforzato la crescita. In Germania l’iniezione di liquidità nella riqualifica delle infrastrutture e a favore di servizi innovativi è aumentata del 50 per cento, consentendo di far fronte a una riduzione dell’investimento privato di quasi 20 punti percentuali. Nel Regno Unito gli appalti sono cresciuti del 9,5 per cento, e complessivamente il Pil è aumentato del 3,5, controbilanciando il freno a mano tirato dell’industria. Invece in Italia gli investimenti della pubblica amministrazione sono crollati del 27 per cento, meno 13 miliardi di euro, e se il paese ha tenuto - conferma il dossier - è solo perché dal 2013 le aziende private hanno ripreso a pompare denaro nelle proprie attività, senza tuttavia poter contare sulla leva degli stimoli pubblici, che sarebbero stati fondamentali per uscire dalla crisi in cui l’Italia continua ad annaspare. Al contrario, la mancanza di manutenzione e l’arretratezza dei servizi hanno eroso capitale per parecchi miliardi. E oltre al danno, la beffa: «Il declino della spesa per investimenti, spesso stornata su altri fronti, si è verificato nonostante i numerosi annunci di rilancio della spesa per investimenti, con relativi stanziamenti in bilancio, poi svaniti a consuntivo». Si dirà che la ritirata degli investimenti statali è dovuta alla politica di contenimento dei costi imposta dall’Europa, così come al patto di stabilità che ha strangolato i comuni. Non è proprio così: «Anche quando il patto di stabilità è stato tolto, dando agli enti locali la possibilità di sfruttare maggiori margini di spesa, non si sono verificati segnali di ripresa», si legge nel dossier. Le cause sono piuttosto da ricercare nelle continue riforme, nell’eccesso di burocrazia, nei ricorsi temerari, nel perenne spostamento di risorse dagli appalti alla copertura di spese correnti o impreviste. Scelte scellerate, se si considera che l’apporto economico dei contratti pubblici rappresenta la componente più importante del Pil in tutti i paesi occidentali: in Italia vale 139 miliardi di euro l’anno, il mercato europeo ammonta a 1.900 miliardi di euro, il 14 per cento del pil dell’eurozona. Una materia delicatissima, che viene costantemente riformata - quattro modifiche negli ultimi cinque anni - nel tentativo (mai riuscito) di semplificare i regolamenti. Stefano Zunarelli, docente di diritto dell’Università di Bologna, ha partecipato alla scrittura del codice appalti 2016 e racconta: «L’obiettivo era sfoltire il sistema ma non ci siamo riusciti perché qualsiasi proposta veniva poi vagliata dalla commissione Stato-Regioni che, per non perdere il proprio potere di intervento, ne cambiava l’assetto. L’effetto finale è stata una normativa cavillosa, che ha avuto bisogno di un correttivo nel 2017». Nel 2019 è poi entrato in vigore lo Sblocca Cantieri. A tal proposito Guido Castelli, delegato finanza dell’Anci, l’associazioni dei Comuni, ha dichiarato che «rischiano di restare bloccati tutti i bandi pubblici per opere fino a cinque milioni di euro. Lo Sbocca Cantieri è scritto così male che, a causa di un’incerta interpretazione dei Tar, occorre attendere la decodifica del Consiglio di Stato. Ma l’interpretazione non arriverà prima di giugno». Ed entro fine gennaio il nuovo regolamento degli appalti: «Sarà un’ulteriore esplosione di regole. Gli amministratori pubblici (e le aziende) non riescono a lavorare in una situazione in cui il legislatore cambia ogni poco le carte in tavola», afferma Francesco Decarolis, professore di Economia alla Bocconi di Milano. «Dopo Tangentopoli l’attenzione del legislatore si è concentrata su chi realizza l’opera per evitare corruzione e infiltrazioni mafiose. Giustissimo, però, passa sempre in secondo piano la fase di esecuzione: se si usano materiali inadeguati non importa a nessuno ed è drammatico», commenta Aldo Travi, luminare nel settore della giurisprudenza amministrativa, che continua: «Sono scomparsi i grandi apparati tecnici che in passato assistevano gli uffici amministrativi, vigilando sulla qualità delle opere. Oggi si affida a consulenti esterni il collaudo di tutto. E questo è un problema, perché se già l’appalto o la concessione sono affidati a un privato, bisogna che almeno la vigilanza sia svolta dal pubblico. Altrimenti continueremo a fare i conti con vicende di cronaca relative al cattivo stato di salute delle infrastrutture. Sono fenomeni figli dello svuotamento degli uffici tecnici pubblici, rimasti privi di personale competente. Siamo arrivati all’assurdo per cui in alcune città della Lombardia si esternalizzano a privati le redazioni dei bandi d’appalto, perché non c’è personale in grado di farlo. Così il rischio corruttivo è ancora più forte». Il codice appalti del 2016 aveva creato centrali di committenza per accentrare le procedure d’appalto così da ridurre le attuali 35 mila stazioni appaltanti a poche decine. Ma questa norma non è mai stata attuata. Viene da chiedersi, dato che gli appalti sono la più grande spartizione di denaro pubblico, se le amministrazioni non abbiano voluto garantirsi maggiore libertà per decidere verso quali imprese indirizzare le proprie risorse. Soprattutto ora che lo Sblocca Cantieri ha alleggerito le norme sui piccoli appalti, estendendo le possibilità di affidamento diretto e ampliando il ricorso al massimo ribasso, senza però affrontare il problema della lentezza nella realizzazione delle grandi opere. Eppure la conduzione di una gara d’appalto è spesso troppo complessa per i piccoli comuni: i responsabili degli uffici tecnici hanno chiesto la consulenza dell’Anac in oltre tremila casi, perché non sapevano come interpretare le norme. In Italia si crede di risolvere il problema creando nuove norme, senza dare spazio alla formazione di un’esperienza amministrativa, che richiede ovviamente una certa stabilità delle norme. Questa situazione è ancora più grave, perché l’Europa, dalla quale dipendono finanziamenti in settori decisivi, viaggia a tutt’altra velocità. Alla rapidità dei bandi e dei finanziamenti da intercettare: «Ogni anno il Paese perde miliardi di fondi comunitari per la lentezza delle procedure. Spesso la causa sono amministratori e funzionari che non si vogliono prendere la responsabilità di avanzare progetti, assumere decisioni, dare corso a interventi. È richiesta una capacità di direzione amministrativa, mentre da noi tutto diventa ragione di competizione politica. Nei confronti di questa paralisi decisionale, le reazioni sono inadeguate. Non sono al corrente di azioni di responsabilità nei confronti di chi - Consigli, giunte, uffici, dirigenti - non si sia impegnato per utilizzare i fondi comunitari. Eppure lasciarli sfumare significa perdere migliaia di posti di lavoro», aggiunge Travi. Correggere le norme non è sufficiente per rimettere ordine nel sistema. Va cambiata la mentalità dell’amministrazione pubblica. Servono tecnici qualificati, serve maggiore responsabilità, ma prima di tutto serve rimettere la questione all’ordine del giorno e, come dice il giurista, «all’attenzione di una politica con la P maiuscola».  

DAGONEWS il 30 gennaio 2020. Il mondo occidentale è rimasto a bocca aperta quando ha scoperto che si può costruire un ospedale in pochi giorni. Una folle corsa contro il tempo che stupisce noi, ma non i cinesi avvezzi a tuffarsi in imprese architettoniche in pochi giorni. Ma queste strutture sono sicure? Come è possibile erigere ospedali in pochi giorni? Da Wuhan i droni ci hanno mostrato il balletto di bulldozer che scavavano per costruire le fondamenta e una sfilata di camion che trasportavano cavi d'acciaio, cemento, prefabbricati e generatori di corrente mentre centinaia di operai lavoravano duramente per rispettare la scadenza: l'ospedale di Huoshenshan, che è stato inaugurato il 24 gennaio, sarà operativo il 3 febbraio e avrà 1.000 posti letto. Progetto ambizioso anche per l'ospedale Leishenshan, una struttura di 1.300 posti letto la cui apertura è prevista due giorni dopo. Il ritmo di costruzione a Wuhan fa sorgere diverse domande: come possono i cinesi comprimere radicalmente le tempistiche? Un edificio – soprattutto un ospedale - richiede solitamente diversi anni per essere eretto. Una struttura costruita rapidamente può davvero essere sicura? Scott Rawlings, un architetto per HOK, chiarisce che ciò che i cinesi stanno costruendo non è una tipica struttura medica, ma piuttosto un "centro di triage per la gestione delle infezioni di massa". «Esiterei a fare riferimento all'ospedale che è stato eretto a Wuhan come un ospedale permanente, e certamente non è una struttura completa – dice Rawlings  a Quartz - Quando progettiamo un ospedale ne prevediamo l’uso 75 anni». Rawlings, che sta attualmente lavorando a un nuovo ospedale da 500 posti letto a Chengdu e in due ospedali a Hong Kong, spiega che per un tipico progetto ospedaliero, si trascorre molto tempo a consultare pazienti, il personale medico, gli  amministratori sanitari e la comunità per assicurarsi che sia funzionale. Senza tempo per confrontarsi, i funzionari di Wuhan stanno replicando il progetto dell'ospedale Xiaotangshan, una struttura da 1.000 posti letto nella periferia di Pechino, costruita in una settimana durante l'epidemia di SARS nel 2003.

Ospedali pre-fab: sicuri ma non sempre sostenibili. L'uso di unità prefabbricate è la chiave per accelerare i tempi di costruzione degli ospedali di Wuhan. Le sale completamente assemblate e fabbricate in fabbrica vengono trasportate sul posto e semplicemente assemblate. «Questa tecnica di costruzione è completamente sicura - assicura Thorsten Helbig, ingegnere edile e co-fondatore della società di ingegneria tedesca Knippers Helbig - Puoi sicuramente rendere strutturalmente solidi gli edifici prefabbricati. Le unità sono assemblate in fabbrica, i progettisti e i costruttori possono risolvere eventuali problemi e assicurarsi che tutti i moduli funzionino prima ancora che vengano consegnati». Oggi anche catene alberghiere come Citizen M e Marriott  incorporano parti prefabbricate nelle loro strutture. Le costruzioni modulari sono utilizzate già in diverse parti del mondo, ma la storia della Cina è puntellata da epidemie di massa che li hanno preparati ad affrontare questi progetti. A questo si aggiungono le minori restrizioni burocratiche, la mancanza di sindacati, il costante afflusso di manodopera a basso costo proveniente dalle città di provincia e la disponibilità di materiali da costruzione. Ma questo non significa necessariamente che gli standard di costruzione della Cina siano meno sicuri rispetto a quelli occidentali. Helbig, che ha lavorato a diversi importanti progetti infrastrutturali in Cina, tra cui l'aeroporto Shenzhen Bao’an e un resort Disney a Shanghai, afferma di aver scoperto che la sicurezza è una priorità in Cina: «Non fanno più cose folli. Valutano più accuratamente. Sento che negli ultimi 10-15 anni c'è stato un cambiamento di atteggiamento». A questo si aggiunge anche la voglia dei cinesi di sperimentare e aprirsi a nuove tecnologie. Tuttavia questi edifici hanno dei problemi visto che non sono sempre sostenibili. «I loro ospedali soddisfano gli standard in materia di integrità strutturale, ma forse non nel consumo energia - spiega Helbig - Non riescono a essere ottimizzati. L'ospedale Xiaotangshan di Pechino è stato abbandonato dopo l'epidemia di SARS». La difficoltà di adattare una struttura così specializzata a qualsiasi altro uso rende gli ospedali in gran parte inutili dopo l'emergenza.

Milena Gabanelli e la rivoluzione digitale da 25 miliardi di cui ha bisogno l'Italia. Milena Gabanelli e Rita Querzè per “Dataroom - Corriere della Sera” il 13 gennaio 2020. Negli anni 50 fu la costruzione delle autostrade di asfalto a trasformarci da Paese povero in Paese prospero. Oggi, per uscire dallo stallo occorre costruire le autostrade digitali, ce lo ha ricordato anche la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Layen: per recuperare lo svantaggio tecnologico devono ripartire gli investimenti pubblici. Secondo l' indice con cui la Commissione misura la digitalizzazione dei 28 Stati membri, l' Italia occupa il 24esimo posto. Confindustria Digitale stima che l' inefficienza pubblica costi circa 30 miliardi di euro l' anno. I benefici che produrrebbe la trasformazione digitale della pubblica amministrazione li ha calcolati il Politecnico di Milano: 25 miliardi di euro l' anno. Da lungo tempo si parla di banche dati. A che punto siamo? È stata istituita nel 2005 presso il Ministero dell' Interno, e avrebbe dovuto completarsi entro il 2014. Dopo aver speso 37 milioni di euro, solo 5.300 Comuni sono entrati nella piattaforma. L' obiettivo di coinvolgere tutti gli 8.000 Comuni italiani dovrebbe essere raggiunto entro il 2020, ma sulle scadenze non sono stati presi impegni. Nel frattempo è complicato controllare se chi chiede il reddito di cittadinanza è residente in Italia da 10 anni; mentre lo studente universitario a carico di genitori benestanti può dichiararsi single e usufruire di sconti e agevolazioni. Come è noto la tassazione dipende spesso dal nucleo familiare, e l' Anagrafe nazionale della popolazione residente è uno strumento fondamentale per la lotta all' evasione. Prendiamo un cittadino sotto la soglia di povertà: il Comune magari gli garantisce la casa popolare, la Regione un bonus per l' iscrizione dei figli al nido, l' Inps un' altra forma di indennità. Ma quanto gli sta dando lo Stato nell' insieme nessuno lo sa. Negli anni si sono sommate e sedimentate nella legislazione innumerevoli forme di prestazioni sociali, senza che sia mai stata prevista una razionalizzazione o i controlli «incrociati» tra i diversi enti erogatori, favorendo così «furbi ed evasori» a danno dei più bisognosi. Parliamo di una spesa in prestazioni per 110 miliardi e in continua crescita: più 5% negli ultimi anni. Eppure l' istituzione di un «casellario dell' assistenza» fu previsto nel 2005, ma poi non se ne è fatto nulla. I centri per l' impiego dovrebbero far incontrare l' offerta di lavoro delle imprese con le ricerche dei lavoratori in tutto il Paese. Questo non succede, perché ogni Regione ha la sua banca dati (in Lombardia ce n' è addirittura una per Provincia), e pur essendo tenute a inviare le informazioni ad Anpal, che a sua volta dovrebbe renderle visibili su tutto il territorio nazionale, in realtà il sistema non funziona. Con una Banca dati nazionale per l' incrocio domanda/offerta sarebbe invece immediato. Il problema è che il lavoro è materia concorrente Stato-Regioni, e quindi serve un accordo che impegni le Regioni stesse a condividere i dati. Un tema su cui si litiga da 25 anni, mentre la disoccupazione giovanile supera il 28%, La sua funzione principale è rispondere alle seguenti domande: i miei datori di lavoro, presenti e passati, hanno versato tutti i contributi? E a quale pensione avrò diritto a fine carriera? Nell' anagrafe, attivata dall' Inps nel 2005, dovrebbero confluire i dati di tutte le categorie di lavoratori: pubblici, privati, autonomi e iscritti agli ordini professionali. Questi ultimi fanno acqua e poi mancano i dati di oltre 3 milioni di dipendenti pubblici. Basta quindi avere lavorato in passato per un paio d' anni come insegnante per non riuscire ad avere una ricostruzione completa della propria situazione. Inoltre anche i dati sui contributi versati dai lavoratori privati spesso vengono caricati in ritardo. Se la banca funzionasse, non solo si hai tutti i dati aggiornati in tempo reale, ma puoi anche vedere quanti lavoratori sono a tempo pieno, quanti part time e quanti in infortunio, e quindi definire meglio le politiche. Se risiedo in Veneto ed ho un problema di salute mentre sono in Campania il medico può vedere la mia storia sanitaria, gli esami, i referti precedenti? La risposta è no. Il fascicolo sanitario elettronico è stato istituito nel 2015 e oggi 12 regioni possono condividere in totale o in parte i loro dati. Il problema è che molti ospedali non hanno gli applicativi per interrogare il fascicolo, e quindi per il paziente è come se non esistesse. E pensare che uno dei Paesi più avanzati nella digitalizzazione degli ospedali è la Turchia: 171 ospedali a livello elevato di digitalizzazione contro i 6 dell' Italia (fonte: Healthcare information and Management Systems ). Infine l'identità digitale (Spid): certifica che «io» sono davvero «io» quando faccio un' operazione online, ovunque mi trovi - dal pagamento in banca alla richiesta di un documento, dalle prenotazioni sanitarie alle iscrizioni scolastiche o alle pratiche d' impresa - utilizzando una password unica e blindata. Oggi in Italia, per 60 milioni di cittadini, abbiamo un miliardo di identità digitali. Un sistema inefficiente e insicuro. Da fine 2019 il team digitale è stato incardinato come dipartimento presso la Presidenza del Consiglio, e la ministra per l' Innovazione Paola Pisano ha presentato il 17 dicembre un piano strategico da realizzare entro il 2025. Ma che succede se il governo cambiasse colore? Oggi nei bilanci della PA il digitale vale meno dell' 1%, cioè spendiamo meno della metà di Francia e Germania. Secondo Confindustria Digitale per portarci ai livelli dei nostri partner europei dovremmo investire 10 miliardi di euro in un piano condiviso da tutti i partiti, vincolante, e con tempi definiti. Intanto gli interventi da fare:

1) Spegnere gli 11 mila Ced, Centri elaborazione dati dei Comuni. Mobilitano ingenti risorse e sono pure attaccabili dagli hacker, andrebbero sostituiti con soluzioni cloud.

2) Usare tutti i fondi Ue. Per il settennio 2014-2020 l'Ue ci garantisce 2,3 miliardi di euro per l' attuazione dell' Agenda Digitale, a ottobre 2019 poco meno di un miliardo era ancora da assegnare per mancanza di progetti da finanziare (fonte: Open Coesione).

3) Assunzione di personale specializzato. Nel Regno Unito la struttura governativa DGS ha 800 persone dedicate. Da noi sono poco più di un centinaio, ne dovrebbero arrivare altre cento nel 2020, ma per ora siamo solo agli annunci.

4) Gare più veloci e trasparenti. Secondo la Corte dei Conti i bandi di gara in questo settore possono durare dagli 11 ai 24 mesi. Vuol dire che si installano tecnologie già vecchie. La trasparenza e il controllo nelle assegnazioni è cruciale, poiché le truffe sono facili quando ci sono di mezzo servizi informatici.

5) Condivisione e integrazione delle banche dati. Troppi enti si tengono stretti i loro dati e non li condividono con nessuno, perché rappresentano «potere», un sistema quindi da spezzare. Questa riforma strutturale oltre a creare posti di lavoro renderebbe il Paese più efficiente. Se tutto questo non decolla la colpa è anche nostra: abbiamo scelto gli amministratori sbagliati.

·        L’abuso d’ufficio: il reato temuto dagli amministratori.

Pignatone smantella il reato di abuso d’ufficio: frena il paese. Davide Varì su Il dubbio il 15 giugno 2020. “Rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici terrorizzati di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” e scarsi risultati penali. Così l’ex procuratore di Roma ha demolito l’articolo 323 del nostro Codice penale. Uso, anzi, vero e proprio abuso della cosiddetta “burocrazia difensiva”, freno allo sviluppo del Paese e scarsi risultati sul piano della sanzione penale. Sono le tre conseguenze – le più gravi – del reato di abuso d’ufficio. E fin qui nulla di nuovo: da anni ormai l’articolo 323 del nostro codice penale è nel mirino di giuristi e penalisti. La cosa del tutto nuova e inusuale, semmai, è che stavolta le critiche arrivano da Giuseppe Pignatone, l’ex procuratore di Roma che più e più volte nel corso delle sue inchieste ha contestato il reato in questione. Fatto sta che Pignatone prende il toro per le corna e spiega quanto segue.

Primo: un utilizzo improprio del reato di abuso d’ufficio determina il cosiddetto “rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici che per paura di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” evitano in tutti i modi, e per evitare guai, di agire per il bene pubblico e di assumersi responsabilità;

secondo: come conseguenza del punto uno, l’articolo 323 del codice penale concorre a creare sacche di immobilismo produttivo che bloccano l’intero paese;

terzo: le statistiche parlano chiaro. “Quasi la metà delle denunce per reati contro la Pubblica Amministrazione riguardano fatti qualificabili come abuso in atti di ufficio; i relativi procedimenti vengono però in gran parte archiviati mentre, secondo una rilevazione di alcuni anni fa, solo il 22% dei processi si conclude con una sentenza di condanna. Anche statistiche più recenti, pur se parziali, confermano questa tendenza. I margini di ambiguità Sull’esattezza di questa analisi e sull’urgenza di un intervento del legislatore vi è un significativo consenso”.

Insomma, un vero disastro. E il fatto che la denuncia dell’abuso del reato di “abuso d’ufficio” arrivi da Giuseppe Pignatone, rende la necessità di cambiare quella legge ancora più urgente. E non è un caso che lo stesso Pignatone citi il monito dell’allora presidente della Repubblica Scalfaro: “Non si può avere un mondo di funzionari, di sindaci, amministratori che a un certo punto si trovano impelagati, senza saperlo prima, in un illecito amministrativo o penale”. Sono passati 25 anni da quel monito e i problemi sono rimasti gli stessi. Forse appena un po’ peggiorati…

Salvini: “Abuso d’ufficio reato fantasma”. Il dubbio il 15 giugno 2020. Dopo la presa di posizione dell’ex procuratore di Roma, anche il leader leghista chiede la riforma del reato di abuso d’ufficio: “Su 7mila procedimenti, 6mila sono stati archiviati”. “L’Abuso d’ufficio, un reato “fantasma” che blocca la Pubblica Amministrazione e rallenta tutto, va abolito. Lo chiede Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali, lo chiedo da tempo anche io. Su 7.000 procedimenti aperti nel 2018, più di 6.000 sono stati archiviati, e le condanne sono state meno di 100. Per ripartire l’Italia ha bisogno di velocità ed efficienza, di gru e cantieri e ovunque: spazziamo via la burocrazia inutile e quello che la frena”. Dopo la presa di posizione di Pignatone, anche il leader leghista Matteo Salvini chiede la modifica della legge sull’abuso d’ufficio. L’ex procuratore Giuseppe Pignatone, aveva spiegato che un utilizzo improprio del reato di abuso d’ufficio determina il cosiddetto “rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici che per paura di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” evitano in tutti i modi, e per evitare guai, di agire per il bene pubblico e di assumersi responsabilità.

Francesco Grignetti e Giuseppe Legato per “la Stampa” l'1 luglio 2020. È il reato più temuto dagli amministratori, l'abuso d'ufficio. E ora il governo promette di riscriverlo radicalmente, circoscrivendo meglio quali condotte sono reato e quali no. Al nuovo «abuso d'ufficio» sarà dedicato un capitolo del Decreto Semplificazioni. In estrema sintesi, quando la legge concede un margine di interpretazione, non potrà essere contestato un reato se poi un sindaco sceglierà questa o quell'interpretazione. «Già, non è facile per gli ottomila sindaci - ironizza, con amarezza, Giuseppe Decaro, primo cittadino di Bari e presidente dell'associazione nazionale comuni italiani - terminare il mandato senza incappare in un'accusa di abuso d'ufficio. Per noi è una condanna anticipata con i titoli sui giornali e processo virtuale. E siccome abbiamo calcolato che solo il 2% dei procedimenti termina con una condanna, è una beffa». Decaro a nome dei suoi colleghi non chiede l'abolizione del reato. «Chiediamo che sia meglio determinato il perimetro». L'Anci ha calcolato che sono stati ben centomila i procedimenti per abuso d'ufficio contro i sindaci negli ultimi anni. «Il 60% dei quali è archiviato già in istruttoria. E indispensabile riscrivere il reato». Nel frattempo, non soltanto vi sono state carriere politiche rovinate, ma un'infinità di dossier si è incagliato. Ed è per questo motivo che a sostegno della riforma c'è un coro trasversale: sono a favore l'Anci e l'associazione costruttori, Matteo Renzi come Vincenzo De Luca. Forza Italia sarebbe pure a favore, ma Enrico Costa vuole capire meglio perché non s' è abolito proprio il reato. Una rapida carrellata degli ultimi mesi racconta tante assoluzioni: per il sindaco di Milano, Beppe Sala, finito a processo per un appalto Expo, come per Virginia Raggi, indagata per il nuovo stadio su esposto di ex Cinquestelle. Possono vantare un'assoluzione anche i Governatori della Lombardia Attilio Fontana (il caso era legato alla nomina in un organismo regionale di un suo ex socio di studio legale) o della Puglia Michele Emiliano (nomina nel cda di InnovaPuglia, società in house, dell'allora sindaco di Bisceglie). All'Aquila hanno appena assolto dalle accuse di abuso d'ufficio e falso ideologico anche l'ex presidente della Giunta d'Abruzzo Luciano D'Alfonso, attuale senatore. Ed è stato assolto l'ex presidente del Molise, Michele Iorio, per una vicenda legata allo zuccherificio. Anche De Luca in Campania ha superato indenne il processo Crescent, per un complesso immobiliare sul lungomare di Salerno. Tutti con il fiato sospeso fino all'ultimo perché una condanna per abuso d'ufficio, anche in primo grado, significa la decadenza per effetto della Legge Severino. Altri trattengono il sospiro. Il senatore leghista ed ex sindaco di Visso, Giuliano Pazzaglini, è stato rinviato a giudizio in relazione ad alcune donazioni per i terremotati. E la sindaca Chiara Appendino, sotto processo per un falso in bilancio e abuso d'ufficio, è in attesa di sentenza. I pm ne hanno chiesto la condanna a 1 anno e 2 mesi e negli ambienti della procura già si dice che se la bozza di riforma passerà cosi com'è, l'accusa diverrebbe quasi insostenibile: se non è contestabile l'abuso d'ufficio ogni volta che una norma di legge è suscettibile d'interpretazione, sarà molto complesso - e non solo nel processo Ream - sostenere un'accusa.  

“Ogni anno le procure paralizzano le attività dei dirigenti”, parla la segretaria Unadis Barbara Casagrande. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Luglio 2020. «Il fenomeno riguarda soprattutto gli enti locali, quindi i Comuni. E, per quanto riguarda le amministrazioni centrali, soprattutto gli uffici decentrati sul territorio. I numeri parlano chiaro: negli ultimi quattro o cinque anni sono stati aperti mediamente oltre 6mila fascicoli all’anno per abuso d’ufficio e le condanne alla fine sono state, per ogni annualità, sotto le 50. È quindi evidente che questo reato va rivisto e siamo contenti che nel decreto Semplificazioni si sia tentato di tipizzarlo meglio». Barbara Casagrande, segretario generale dell’Unadis, il sindacato dei dirigenti dei Ministeri, delle agenzie fiscali, di Inps, Inail e della Presidenza del Consiglio dei ministri, accetta di commentare, con il Riformista, la proposta di riforma del reato di abuso d’ufficio.

Quanto è necessaria questa riforma?

«La norma sull’abuso ufficio, più che scritta male, è stata in questi anni interpretata male. Non voglio creare conflitti tra poteri dello Stato, ma se una norma dice che commetto un abuso se violo una legge o un regolamento e conseguo un vantaggio patrimoniale agendo con dolo, il fascicolo dovrebbe essere aperto solo se ci sono tutte queste fattispecie. Il fatto che ci siano ogni anno migliaia di fascicoli aperti e solo pochissime condanne fa pensare che c’è stata una esagerazione dell’interpretazione che la magistratura ha fatto e questo ha messo in difficoltà l’amministrazione. Tra l’altro è singolare che l’abuso sia punito più severamente dell’omissione. Serve una riforma che consenta di lavorare con più serenità».

A chi accusa la pubblica amministrazione di volersi sottrarre al controllo cosa risponde?

«Gestiamo risorse pubbliche ed è corretto che ci siano controlli, ma abbiamo già cinque livelli di responsabilità: civile, penale, amministrativa, contabile e dirigenziale. Siamo soggetti abituati e formati da anni di studio e di esperienza a gestire cinque livelli di responsabilità, che non ci spaventano perché è alto l’onore di servire la Repubblica. Siamo per sanzionare e isolare le mele marce che agiscono con dolo, ma ci preme essere messi nelle condizioni di fare bene il nostro lavoro, e con una giungla di norme che a volte si contraddicono e procedure farraginose non è sempre facile. Bene, quindi, che nel decreto Semplificazioni abbiano indicato tutte le ipotesi di discrezionalità che sono fuori dall’abuso».

Discrezionalità è la parola chiave.

«Vorremmo che ai cittadini fosse chiara una cosa: la discrezionalità amministrativa non è arbitrio, ma ponderazione di interessi. Quando adotto un atto amministrativo io pondero, valuto le istanze che sono pervenute, le comparo, vedo qual è l’interesse pubblico a cui è finalizzato il provvedimento che devo adottare in attuazione di una norma di legge o di una norma secondaria e da questa mia ponderazione, che si chiama discrezionalità e va motivata, nasce l’atto. È sbagliato pensare che facciamo quello che ci pare e che la nostra discrezionalità sia una libera scelta, perché non è così».

Il problema, secondo lei, è più normativo o culturale?

«È necessario sicuramente intervenire sulle norme, in modo da averne meno ma più chiare e scritte meglio. Ma serve anche un messaggio culturale nuovo, per considerare le assunzioni nella pubblica amministrazione non un costo ma un investimento (ce ne sarebbe bisogno visto che da anni non c’è un turnover adeguato e molti dirigenti stanno andando in pensione) e per smettere di credere che la pubblica amministrazione sia fatta da fannulloni e furbetti del cartellino, perché è fatta da persone che lavorano con serietà, professionalità e un alto spirito di servizio».

Il grido dei sindaci: “L’abuso d’ufficio ci soffoca”. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Appalti, edilizia, servizi, green economy. Sono alcuni dei comparti che potrebbero beneficiare di occasioni di rilancio se si riuscisse a sbloccare la pubblica amministrazione, ad alleggerirla dal fardello di una burocrazia complicata e annodata, a incentivare i pubblici amministratori a uscire dalla palude che sembra essersi estesa negli ultimi anni. Per tanti motivi. Uno è il timore di finire coinvolti in indagini per un reato, l’abuso d’ufficio, indicato come una delle maggiori cause, forse anche l’alibi, della paralisi burocratica. Più volte oggetto di revisioni e rimaneggiamenti, il reato previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale è l’incubo di molti sindaci, assessori, consiglieri e funzionari. In queste settimane si studia, in sede governativa, una proposta di riforma del reato di abuso d’ufficio. L’obiettivo che è sul tavolo del Governo, in estrema sintesi, è quello di circoscrivere questa fattispecie di reato, limitandola alla sola violazione di specifiche regole di condotta, senza troppi margini di discrezionalità. Partiti e opinione pubblica sono divise su quale modifica sia giusto fare e sul dilemma se sia meglio abolire o riformare il reato. Tuttavia è indubbia la necessità di rivedere la responsabilità amministrativa e i confini, i margini, i poteri entro i quali un amministratore o un dirigente pubblico può e deve agire. Il terreno su cui ci si muove è un terreno pieno di cavilli e regolamenti, centinaia e centinaia di disposizioni attuative, un mare sconfinato di normative che nella teoria sembrano utili a regolare i dettagli di tutto ma nella pratica finiscono per regolare quasi nulla. Intervenire sulla responsabilità degli amministratori è uno degli step da percorrere. Ma non il solo. L’abuso d’ufficio è uno dei reati che rientrano nella sfera dei reati contro la pubblica amministrazione, una materia delicatissima su cui ha avuto un peso la discrezionalità lasciata ai magistrati con un conseguente sconfinamento dei pubblici ministeri in settori di appannaggio e discrezionalità della pubblica amministrazione. Riformare la giustizia è dunque un altro step necessario. Occorre bilanciare la riforma della burocrazia con la riforma della giustizia, per evitare che le indagini avviate in tempi record si definiscano in tempi biblici, che la risposta arrivi dopo processi che durano anni, che la forbisce tra numero di inchieste e numero di sentenze sia enorme rivelando una sproporzione che finisce per pesare in termini di costi e di risorse. Spezzare il circolo vizioso che si è innescato, superare la paralisi burocratica degli ultimi anni, spronare gli amministratori ad assumere responsabilità e iniziative senza più alibi sono le condizioni da cui ripartire per affrontare seriamente e concretamente progetti di riforme, di sviluppo, di rilancio. Il Riformista ne ha discusso con Nello D’Auria, vicesindaco di Gragnano e segretario generale dell’Anci Campania, oltre che con Clemente Mastella, Vincenzo Figliolia e Vincenzo Cuomo, sindaci rispettivamente di Benevento, Pozzuoli e Portici.

“Governo e Parlamento ci mettano in condizione di lavorare”. Aniello D’Auria (Gragnano). Come Anci Campania e amministratori di questa regione chiediamo di modificare il reato di abuso di ufficio. Non per un pregiudiziale capriccio garantista, ma perché i sindaci, soprattutto del Sud e della Campania, devono essere messi nella condizione di poter fare serenamente il loro lavoro. Non vogliamo salvacondotti, ma che paghi chi sbaglia per davvero, chi sbaglia per dolo. Il reato di abuso di ufficio prevede che, per configurarsi, ci debba essere la violazione di una legge o di un regolamento, ma per alcuni magistrati interviene anche per un’espressa violazione dell’articolo 97 della Costituzione, ossia del principio del buon andamento della pubblica amministrazione. È inaccettabile. Si rischia di creare una montagna di procedimenti e di gettare i sindaci in pasto a un’opinione pubblica arrabbiata. Al Governo e al Parlamento diciamo: siano chiari i comportamenti vietati, altrimenti rischiamo grosso soprattutto ora, durante la pandemia. Tanti sindaci della Campania, con i loro comportamenti in difesa dei cittadini, stanno rischiando di essere raggiunti da un’accusa di abuso d’ufficio con connessa responsabilità di fronte alla Corte dei Conti. Il risultato più evidente: molti amministratori e funzionari comunali non vogliono più mettere la firma sugli atti.

“Così è impossibile realizzare alcunchè”. Vincenzo Figliolia (Pozzuoli). «Per chi vuole concretizzare e fare nella propria città, per un sindaco o un assessore, subire un’indagine per abuso d’ufficio è il rischio di tutte le mattine. È quindi opportuno che ci sia una rivisitazione di questo reato. Oggi i cittadini vogliono realizzare, vogliono vedere fatti e non si accontentano più delle parole, per cui per andare incontro alle esigenze delle proprie comunità c’è bisogno di avere coraggio, di rispettare sì la norma ma di decidere, pur nella consapevolezza che l’accusa di abuso di ufficio è dietro la porta. Eppure il sistema giudiziario ha tante forme di controllo sulla pubblica amministrazione, a partire dalla Corte dei Conti fino a quei reati penalmente rilevanti e specifici, come la concussione e la corruzione. Pertanto ritengo che l’abuso di ufficio vada rivisto, perché complica l’azione quotidiana degli amministratori. Sicuramente i controlli sull’operato degli amministratori pubblici vanno fatti, ma l’abuso di ufficio, per come è configurato, è una spada di Damocle sulla testa di chi si occupa di pubblica amministrazione. Occorre modificarlo soprattutto in un momento storico come questo, segnato dalla pandemia da Covid e da tutte le emergenze che molti enti pubblici sono chiamati ad affrontare».

“Cancellare quella norma dal codice penale senza esitazioni”. Clemente Mastella (Benevento). «L’abuso di ufficio, nel modo con il quale è oggi regolato, è una cosa indegna. Colpisce amministratori e dirigenti locali e causa una paralisi perché i dirigenti sono spaventati e, quando arriva un avviso di garanzia, non firmano più. Molte volte basta una frase o un elemento per cui ci sarebbe un margine di discrezionalità a far scattare un avviso di garanzia: l’indagine intanto parte, poi si vede. Ma tutto questo frena la pubblica amministrazione e ferma le opere, soprattutto quelle grandi di cui abbiamo bisogno. È ovvio, quindi, che così non si può andare avanti. Questa è una vicenda tipicamente italiana, come tipicamente italiano è il fatto che si faccia una gara d’appalto, che la ditta che arriva seconda presenti ricorso al Tar e al Consiglio di Stato e che l’opera si fermi invece di proseguire nel suo iter: questo è il vero motivo del ritardo italiano. Intervenire sul reato di abuso d’ufficio non significa difendere chi fa cose che non sono legali, perché troppo spesso parliamo di persone che ricevono avvisi di garanzia pur operando nel perimetro della legalità. L’abuso d’ufficio è un reato barocco, fuori misura, fuori corso, ma che ha l’effetto di rallentare o sospendere l’esecuzione degli atti. Secondo me andrebbe abrogato una volta per tutte, ma purtroppo manca il coraggio di farlo».

“Troppe responsabilità sulle amministrazioni”. Vincenzo Cuomo (Portici). «L’abuso di ufficio è un reato estremamente “abusato” dal punto di vista della patologia giudiziaria, anche vista la bassissima percentuale di sentenze che confermano le notizie di reato. Tutte le volte che non si intravede un reato specifico, si contesta genericamente l’abuso di ufficio ed ecco perché, in dibattimento, l’accusa crolla di fronte all’evidenza dei fatti. Ma quanto è corretto che un amministratore si adoperi in una selva di leggi e di norme per garantire servizi ai cittadini? E quante volte la soglia giudiziaria e giuridica del rispetto della legge determina un abuso o una omissione? Perché è come il gioco dei sinonimi e dei contrari: il contrario dell’abuso è l’omissione in atti di ufficio. Per me l’accusa di omissione è peggiore di quella di abuso d’ufficio. Bisognerebbe dare norme chiare ed evitare di scaricare sui sindaci responsabilità che spesso non competono a loro. Un esempio: i sindaci sono considerati autorità sanitaria locale, ma come può un’autorità sanitaria locale esercitare senza avere poteri gestionali nei confronti degli organi deputati a erogare servizi sanitari che sono le Asl? C’è un cortocircuito. Il problema sta nell’applicazione della norma».

·        Dipendenti Pubblici. La sciatteria e la furbizia non è reato.

Pietro Senaldi e la scuola: "Professori con i certificati per non andare al lavoro? Sospendeteli tutti". Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Mancano pochi giorni al 14 settembre e la riapertura delle scuole è ancora un caos. "C'è la triste notizia - spiega Pietro Senaldi - che circa 200mila professori hanno prodotto certificati medici che consentono loro di non presentarsi a scuola". Il motivo? "Condizioni precarie di salute - prosegue il direttore di Libero -, insomma, stanno a casa per non prendere il coronavirus". Per Senaldi la paura è legittima, però "i professori dovrebbero pensare anche ai loro studenti e al compito che hanno". In sostanza, "se gli infermieri si comportassero come loro, noi saremmo a terra e non saremmo ancora usciti dall'emergenza". E così sarebbe il caso per il direttore che questi professori vengano sospesi dal pagamento, "tanto non sarebbe una sciagura per la scuola, visto che questi professori hanno ben poco da insegnare agli studenti". 

Musumeci contro i dipendenti regionali: “L’80% si gratta la pancia”. Notize.it il 19/07/2020. È polemica per le frasi pronunciate dal presidente della Sicilia Nello Musumeci, secondo cui l'80% dei dipendenti regionali sarebbero improduttivi. Hanno suscitato aspre polemiche le dichiarazioni del presidente della Sicilia Nello Musumeci, che in un suo intervento alle Giornate dell’energia di Catania si è scagliato contro i dipendenti regionali, accusandoli di essere in larga parte improduttivi. In risposta alle parole del presidente siciliano è subito arrivato il commento delle organizzazioni sindacali, che puntano il dito contro Musumeci reo di prendersela con una categoria che ha sempre lavorato anche durante l’emergenza sanitaria. Nel corso del suo intervento a Catania, Musumeci ha infatti affermato: “L’80% di loro [dei dipendenti regionali ndr] si gratta la pancia dalla mattina alla sera. Ma non ditelo ai sindacati. Ora vogliono stare ancora a casa per fare il cosiddetto lavoro agile ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Accuse alle quali ha replicato proprio il sindacato Siad -Cisal nelle persone di Giuseppe Badagliacca e Angelo Lo Curto, che hanno dichiarato: “Abbiamo ascoltato con profondo sconcerto le parole del governatore Nello Musumeci contro i dipendenti regionali: accuse ingiuste, immotivate e offensive per tutti i lavoratori che ogni giorno svolgono il proprio dovere con abnegazione, anche in condizioni difficili. Evidentemente Musumeci è in difficoltà e prova a coprire i fallimenti del suo governo puntando il dito contro l`anello più debole della catena, contro quei dipendenti che in piena pandemia hanno comunque lavorato e sono rientrati in servizio, nonostante la carenza dei dispositivi di sicurezza”. I due esponenti del sindacato starebbero inoltre valutando azioni legali nei confronti delle parole pronunciate dal presidente siciliano: “Se la macchina non funziona non è colpa dei dipendenti, ma di chi politicamente ne è a capo. Adesso basta, la misura è colma: valuteremo con i nostri legali se sussistono gli estremi per una querela, tutelando i lavoratori in ogni sede”.

La città fantasma dei ministeri: paralizzata dallo smart working. Claudio Marincola il 24 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Se un giorno, dio non voglia, casco per le scale e mi faccio male c’è il rischio che mi trovino la mattina dopo cadavere. Qui di pomeriggio non ci passa nessuno. Se penso a quanti impiegati c’erano prima, ai telefoni che squillavano… una confusione che la metà basta. Ora se mi guardo intorno mi sale il magone: solo desolazione». Nello sfogo di una addetta alle pulizie. al settimo piano di un ufficio pubblico che affaccia sulla vecchia Suburra romana, non c’è solo la malinconia del mondo di prima. C’è l’impotenza di chi, anche volendo, sa che non potrebbe mai fare online il suo lavoro. Ovvero sistemare stanze disabitate da mesi, spolverare telefoni che squillano a vuoto, spazzare pavimenti che non calpesta nessuno. Invidia? «No, guardi, preferisco tutte le mattine guardarmi allo specchio, vestirmi e uscire di casa. Non resisterei». Dovrà farci l’abitudine, Laura, (ma il suo nome vero non ce lo vuol dire). Il governo prolungherà lo smart-working fino al gennaio del 2021. Uno spazio bianco, un altro vuoto. Altri sei mesi di paralisi. Chiuse le mense, svuotati i bar, autobus che un tempo scaricavano alle fermate valanghe di passeggeri ne fanno scendere al massimo un paio per volta. Persino il responsabile delle risorse umane, un funzionario di cui tutti parlano bene, che ogni piccola dell’amministrazione diventava un suo cruccio, lavora da remoto. Si resta a distanza. Sempre e comunque. Ovunque. E l’economia va in frantumi. Si attraversano corridoi interminabili, si bussa a porte che non apriranno. Sentire il rumore dei propri passi è un viaggio metafisico tra i feticci della vecchia burocrazia. L’unica cosa dell’era pre-Codiv che nessuno rimpiange.

LA PASSIONE PER LE VIRGOLE. Tutto si è rallentato. E ora, dopo i “furbetti del cartellino”, ecco “i furbetti dello smart working”. I colletti bianchi del ministero dell’Economia che dovrebbero scrivere i 12 decreti attuativi del DL liquidità sono perennemente in call conference. Idem per il DL rilancio, quello che dovrebbe far ripartire di slancio – appunto – il Paese. Avrebbe dovuto chiamarsi DL aprile, ma c’è stato un primo ritardo. Poi DL maggio, ma si rifece tardi. Per mettersi in moto servono ben 103 decreti attuativi ma di questi solo 9 sono stati adottati. I maligni dicono che in questi mesi di forzato lockdown i funzionari abbiamo maturato un rapporto intimo con le virgole. Per toglierle o aggiungerne una ogni volta si fa una riunione in interconnessione. A questo stiamo, poveri noi. La pausa pranzo un tempo era un rito assolutamente intoccabile. La felicità della casa del tramezzino. Del sushi-bar che aveva appena aperto e che ora dovrà riconvertirsi. Il rito del pranzo con i colleghi è sospeso perché a nessuno fa piacere mangiare da soli. Spariti anche i ticket: ne hanno diritto solo i dipendenti per la presenza: un giorno a settimana, come da rotazione.

TICKET RESTAURANT UN’ECONOMIA SPARITA. Dietro al ticket c’era un mondo. Il baretto, la tavola calda, il negozio di alimentari, un microcosmo che non reggerà altri sei mesi di questa paralisi. Qualche esercente ha già comunicato ai propri dipendenti che non potrà salvarli. La moglie alla cassa. Il figlio al bancone e si proverà a tirare avanti. Dai sindacati finora solo silenzi. Nessuno vuole mettersi contro il ceto impiegatizio, i futuri pensionati, tenuti a distanza ma garantiti. Negli ultimi 10 anni c’è stata una riduzione del 6,2% di dipendenti pubblici. Un colpo del ko. Ha ridotto all’osso un’amministrazione che ha il 14% di lavoratori impiegati nelle amministrazioni pubbliche sul totale degli occupati. Contro il 29% della Svezia, il 22% della Francia, il 18% della Grecia, il 16% dell’UK, il 15% della Spagna. I nostri sono pochi e anche anzianotti. L’età media più alta dell’area Ocse (51 anni). Gli under 30 sono appena il 2,9%.

LE FILE NOTTURNE. In questi giorni le scadenza si sovrappongono. È tempo di dichiarazione dei redditi. E tra non molto sulla testa degli italiani potrebbero piombare le cartelle esattoriali sospese causa Covid. Logico, dunque, che all’Agenzia delle entrate, in via Ippolito Nievo, a Trastevere, nel cuore di Roma, si formi la fila. C’è chi, alle 3 di notte, ritira il suo numeretto. I vigilanti sono costretti spesso a intervenire per chiedere il distanziamento e la mascherina. Una scena notturna e surreale. Anche 100 persone in fila per chiedere chiarimenti che al telefono non si possono ottenere perché all’altro capo del filo non c’è nessuno. Sergio è uno dei 350 dipendenti in organico. «Eravamo già pochi prima, figuriamoci ora – dice – L’accordo prevede che ogni Area sia coperta. Facciamo un turno a settimana, non ce la facciamo a stare dietro a tutto. Impossibile. Sappiamo già che le dichiarazioni dei redditi inviate ora dai contribuenti non verranno controllate prima di 3 anni, a parte quelle in cui la richiesta di rimborso supera i 4.000 euro. Lavoriamo da casa, ma quando lo smart working è partito avevamo solo 30 pc funzionanti. Questa è una zona piena di uffici e di ministeri: ora è un deserto». E le ferie? «Ci è stato chiesto di pianificarle fino al prossimo 31 dicembre. Ma in questo momento la cosa più importante è capire che cosa succederà: chi glielo dice a quelli in fila che non è colpa nostra?».

Il giudice e i furbetti di Sanremo: “Timbrare in mutande non è un reato, errori nell'indagine”. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 su La Repubblica.it da Marco Preve. La sciatteria non è reato o, per dirla con le parole del giudice: "la timbratura in abiti succinti non costituisce neppure un indizio di illiceità penale e ha una sua spiegazione logica". Tanto più che la "funambolica opera di valutazione dei labili indizi di reato evidenziati" non può rappresentare la base di un teorema accusatorio. Le 319 pagine di motivazioni con le quali il giudice Paolo Luppi ha spiegato perché, a gennaio, decise di assolvere dieci impiegati del Comune di Sanremo - presunti furbetti del cartellino fra i quali il celebre vigile in mutande-, sono da un lato un invito a non trasformare lo stereotipo in elemento di giudizio, e dall'altro la concreta manifestazione dello Stato di Diritto. Quello che non opera sulla base del sentimento della piazza, ma attraverso il rispetto di norme e codici. Cinque anni fa, a ottobre, l'Italia aveva in pasto il nemico più odiato: impiegati pubblici, di uno dei comuni più glamour, sorpresi nell'atto del tradimento assenteistico e, udite udite, commesso in mutande e canotta. Retatona con 34 arresti, decine di indagati, Comune militarizzato. Nel frattempo, 16 hanno patteggiato (quelli sorpresi in flagrante nello shopping o remare in canoa durante l'orario di servizio), altri 16 sono stati rinviati a giudizio e dieci, a gennaio 2020, vennero processati. Fra di loro il simbolo dell'operazione: Alberto Muraglia, vigile urbano addetto alla custodia del mercato municipale. Tutti assolti.

Le assenze. La maggior parte delle contestazioni riguardava l'assenza ingiustificata in orario d'ufficio. L'impostazione accusatoria è stata smontata dal giudice sulla base delle procedure in vigore a Palazzo Bellevue. Le testimonianze dei dirigenti sono servite per spiegare che, prima dello scandalo, il dipendente che usciva per ragioni di servizio doveva dirlo al suo dirigente e poi annotarlo su un registro. La presenza di un sistema elettronico di comunicazione- Infopoint - effettivamente presente anche durante l'indagine, sarebbe stato però in uso solo per le mancate timbrature, ferie o altri tipi di permessi e non per le uscite di servizio. E il giudice si chiede: "E sarebbe stato altresì interessante capire per quali ragioni, data l'abitualità di tale modus procedendi, i dirigenti dei settori ai quali appartenevano i dipendenti ritenuti infedeli, non siano stati ritenuti responsabili (o comunque non siano stati indagati) per un loro (nell'ottica del PM) palese concorso nei reati commessi datali dipendenti". Per quanto riguarda invece le timbrature effettuate da colleghi le motivazioni della sentenza spiegano che: "Tutti hanno dimostrato che la timbratura effettuata con il loro badge da colleghi si accompagnava alla loro presenza in ufficio, talvolta con la loro presenza a pochi metri di distanza dal collega 'timbrante'".

Accuse "annientate". Le motivazioni fanno a pezzi l'accusa. L'"annientano" come scrive Luppi a proposito delle tesi difensive. O meglio danno atto al pm di aver fatto del suo meglio sulla base però di un impianto viziato da errori di interpretazione e clamorose sviste investigative. Per dirne un paio, proprio riferite a Muraglia, gli inquirenti avevano ipotizzato che non si trovasse sul posto di lavoro senza essersi accorti: in un caso di aver scambiato il suo numero per quello di sua moglie che in effetti era fuori Sanremo, e in un'altra occasione che si trovava al poligono con i colleghi per i tiri obbligatori, e infine che quella volta che si spogliò davanti alla porta di casa, e venne immortalato dalla telecamera nascosta, fu perché aveva appena gestito il traffico sotto il diluvio in contemporanea con la Milano- Sanremo. In molte occasioni in cui era accusato di aver frodato sull'orario, il giudice non solo ha smontato la ricostruzione della procura, ma ha addirittura evidenziato come Muraglia, uscito ad ispezionare il piazzale alle 5.30, mezz'ora prima dell'inizio del suo orario fosse quindi a credito per un'"attività in esubero, non retribuita e non retribuibile, per un totale di un'ora e otto minuti. Se davvero il Muraglia fosse stato un agente sciatto e lavativo, difficilmente si sarebbe preoccupato di iniziare a lavorare circa mezz'ora prima dell'orario".

Simbolo mediatico. Il giudice dedica la parte conclusiva della sentenza al rilievo mediatico di quelle immagini. "Anche ammesso che talvolta il Muraglia abbia timbrato in mutande o in abiti succinti non va dimenticato che le contestazioni mosse al predetto imputato erano di falso e di truffa... non di atti osceni o di atti contrari alla pubblica decenza (illeciti anch'essi, comunque, insussistenti in quanto allorché timbrava in mutande il Muraglia era visto solo .....dai finanzieri che avevano collocato le telecamere). Se i media hanno fatto delle immagini del vigile in mutande, diffuse senza risparmio da giornali e televisioni, il simbolo di un malcostume generalizzato dei pubblici dipendenti (non è questa la sede per confutare tali considerazioni).... questo giudice ritiene, in adesione a quanto sostenuto dalla difesa, che la timbratura in abiti succinti non costituisca neppure un indizio di illiceità penale e che abbia una sua spiegazione logica e non connotabile come indizio di illiceità...".

Giulio Gavino per “la Stampa” il 28 maggio 2020. Timbrava in mutande ma non era un assenteista, anzi cominciava addirittura a lavorare in anticipo. Dopo l' assoluzione sono le motivazioni della sentenza a riabilitare definitivamente Alberto Muraglia, 58 anni, il vigile di Sanremo arrestato dalla Finanza nell' ambito dell' inchiesta Stakanov sui furbetti del cartellino in Comune. Era il maggio del 2015: e le immagini di Muraglia che bollava il cartellino senza neppure vestirsi erano diventate il simbolo dell' assenteismo nel pubblico impiego, raccogliendo commenti sdegnati e insulti sui social. Con lui erano stati arrestati altri 33 dipendenti del Comune, alcuni - sorpresi dalle telecamere mentre facevano shopping - avevano patteggiato, in dieci erano finiti a processo. Ed erano stati assolti: tutti, compreso Muraglia, l' uomo che tutta Italia aveva etichettato come il «vigile in mutande». «I processi si fanno nelle aule di giustizia e non sulle pagine dei giornali - dice Alessandro Moroni, il difensore - .Questo invece è stato un processo prima mediatico e poi giudiziario: è stato un problema, perché si è creata una pressione eccessiva sulla vicenda. Non serve commentare: parla la sentenza, che è molto ben argomentata». In effetti, il giudice Paolo Luppi, pur nel linguaggio giuridico di chi scrive le motivazioni, è sttao chiaro: «Anche ammesso che talvolta il Muraglia abbia timbrato in abiti succinti, non va dimenticato che le contestazioni erano di falso e di truffa, non di atti osceni o di atti contrari alla pubblica decenza». Accuse che comunque sarebbero state prive di fondamento, dato che la scena era stata vista «solo dai finanzieri che avevano messo le telecamere». E se le immagini erano diventate «il simbolo di un malcostume generalizzato», la realtà dimostra che dietro all' apparenza c' era una spiegazione, e che quelle mutande « non costituiscono neppure un indizio», altro che una prova. «Noi lo abbiamo detto fin dal primo giorno che c' era un' altra chiave di lettura - è l' unico commento di Muraglia, fedele alla consegna del silenzio imposta dal suo avvocato - Lo sapevo di non aver mai fatto niente di male». Ma tornerebbe a timbrare il cartellino svestito? «Io mi sono sempre comportato in buona fede», dice prima di chiudere la conversazione. Oggi Muraglia fa l'aggiustatutto in un quartiere popolare, dove rimette a posto gli elettrodomestici che non funzionano più. La gente ha imparato a conoscerlo e ha smesso di ricordare la storia delle mutande. Da oggi lo farà ancor meno: «Muraglia - si legge ancora nella sentenza - iniziava a lavorare, senza essere per questo retribuito, 25-30 minuti prima del dovuto. Appena alzato, effettuava un giro in scooter delle aree del mercato per poter chiedere la rimozione dei veicoli». In slip e canotta? «È assolutamente verosimile che compisse tale attività prima di avere indossato la divisa. Senza la collaborazione del Muraglia, senza l' apertura dell' accesso al mercato, senza l' individuazione dei veicoli in sosta vietata e senza la rimozione degli stessi, senza la spunta dei banchi, senza l' effettuazione di tali attività in modo tempestivo il mercato non sarebbe potuto iniziare in orario. Da questi dati non si può prescindere».

Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 28 maggio 2020. Furbetti? Non scherziamo. Semmai lavoratori indefessi, al punto da timbrare in abiti non appropriati pur di non sottrarre minuti preziosi alla propria missione o, in qualche caso, addirittura aggiungerli. Senza per questo ricevere degli straordinari in busta paga. A rendere giustizia a quanti per cinque anni sono stati considerati i "furbetti del cartellino" del Comune di Sanremo sono le motivazioni della sentenza di assoluzione nei confronti di Alberto Muraglia, il dipendente comunale accusato di falso e truffa, immortalato a timbrare in mutande e diventato il simbolo dell' Italia allo sfascio, l' emblema degli impiegati pubblici nullafacenti, che aspettano il "27" per prendere lo stipendio. A lui, che dopo il licenziamento si è reinventato "aggiustatutto" aprendo una bottega per salvarsi e salvare la sua famiglia, è stato riconosciuto nero su bianco che aveva timbrato sì in mutande, ma soltanto perché era appena rientrato da un turno di lavoro in cui aveva gestito il traffico sotto un diluvio, diciamo, universale. Per questo non aveva gli abiti, li aveva tolti prima di rientrare perché inzuppati. Lo scrive il gup Paolo Luppi in una delle 319 pagine di motivazioni riportate da Repubblica nella cronaca di Genova. Pagine nelle quali si evince la "leggerezza" con cui sono state portate avanti le indagini che hanno crocifisso Muraglia e in cui si parla di «funambolica opera di valutazione dei labili indizi di reato evidenziati», che sono scricchiolati di fronte ad un teorema accusatorio poi rivelato privo di fondamenta.

Sviste. Quando l' accusa contesta al vigile di non essere nel comune di residenza, per esempio, viene confuso il cellulare di Muraglia con quello della moglie. Quando viene individuato al poligono con i colleghi, non si tiene conto che era lì per i tiri obbligatori che la sua professione richiede. In entrambi i casi, per l' accusa, Muraglia risultava assente dal lavoro. L' attuale aggiustatutto, che in questi anni si è sempre professato innocente e che ai processi ha portato qualcosa come 40 testimoni, che al lavoro ha dedicato più tempo di quanto gliene fosse riconosciuto, può finalmente sorridere con orgoglio a quanti lo hanno guardato come un appestato, un nullafacente pagato con i soldi della collettività. «Ho sempre creduto di essere nel giusto e di non aver fatto nulla di male. Una cosa mi ha disturbato su tutte, quasi nessuno ha mai avuto l' onestà mentale di far la domanda giusta: quelle timbrature erano fatte prima o dopo l' orario di servizio? Rispondo io: tutte prima, non ho mai rubato nulla», aveva detto in una recente intervista. E come lui, possono camminare a testa alta e dormire sogni tranquilli altri nove dipendenti comunali coinvolti nell' operazione che nell' ottobre del 2015 portò all' arresto di 34 persone. Non tutte innocenti. Di queste, infatti, sedici hanno scelto la via del patteggiamento: alcuni erano stati sorpresi in flagrante, chi a fare compere durante l' orario di lavoro, chi a spasso o a fare sport. Difficile dimostrare il contrario. Gli altri, tra cui il vigile simbolo, sono stati rinviati a giudizio e dieci assolti. assenza Tra le contestazioni più frequenti figurava l' assenza ingiustificata dall' ufficio. Salvo appurare che al comune di Sanremo chi usciva per servizio non doveva far altro che comunicarlo al proprio dirigente e che il sistema elettronico veniva usato per permessi e ferie. Un modus operandi che gli stessi dirigenti hanno confermato di fronte ai giudici. Ma c' è di più: «Tutti hanno dimostrato che la timbratura effettuata con il loro badge da colleghi si accompagnava alla loro presenza in ufficio, talvolta con la loro presenza a pochi metri di distanza dal collega "timbrante"», scrive il gup Luppi. Ovvero, chi si faceva timbrare il cartellino dai colleghi era già in ufficio. A lavorare. Insomma, farsi timbrare il cartellino dai colleghi, o farlo addirittura in mutande («...questo giudice ritiene, in adesione a quanto sostenuto dalla difesa, che la timbratura in abiti succinti non costituisca neppure un indizio di illiceità penale...», scrive Luppi), non significa per forza essere dei furbetti. Prova che davvero l' apparenza inganna.

·        La Trasparenza è un Tabù.

Alessandro Da Rold per “la Verità”l'11 febbraio 2020. Il presidente dell' Agcom, Angelo Marcello Cardani, parla spesso di trasparenza nei suoi interventi. Lo fa in merito alle bollette di luce e gas che vengono recapitate agli italiani, ne chiede di più contro le fake news che circolano su Internet. Per esempio a fine gennaio Tim, Vodafone e Wind Tre hanno ricevuto una multa di 696.000 euro per pratiche scorrette. Peccato che però, da numero uno dell' autorità garante delle comunicazioni, lui non dia il buon esempio. Insediato in Agcom nel giugno del 2012 sotto il governo di Mario Monti, il suo incarico è in proroga da luglio 2019: merito della difficoltà dei governi Conte 1 e 2 di trovare una quadra sul successore. Il 18 febbraio sono previste le votazioni in Camera e Senato, dove saranno scelti i componenti anche per il garante della privacy. In questi anni sono cambiate diverse regole nella pubblica amministrazione che il presidente Agcom conosce benissimo. Nel 2013 infatti, il dlgs 33 disciplina la trasparenza nella pubblica amministrazione. Si applica anche alle autorità amministrative indipendenti di garanzia e vigilanza, tra cui il garante delle comunicazioni e i suoi vertici. E vi è anche l' obbligo di pubblicazione dei propri redditi, tra cui, in particolare, l' eventuale possesso di azioni o quote in società pubbliche o private.

Il tema è molto discusso. Tanto che l' anno scorso è dovuta intervenire anche la Corte costituzionale spiegando che l' obbligo dei dirigenti di pubblicare i redditi online è incostituzionale. Eppure c' è chi lo fa. Sono in tanti. Tra questi c' è per esempio Michele Corradino, consigliere dell' Anac (ente anticorruzione), che alla voce «Strumenti finanziari, quote e azioni societarie» riporta Banca di credito Cooperativo di Roma, 1.650 azioni e percentuale di possesso sul totale della banca 0,0082%. È di sicuro opportuno per chi deve combattere la corruzione nella pubblica amministrazione comunicare possibili conflitti di interesse. Ma lo è anche per chi amministra l' Agcom, che deve appunto sorvegliare su possibili violazioni e in generale sulla corretta concorrenza degli operatori sul mercato. Eppure in questi 7 anni Cardani non ha mai comunicato quali azioni o quote di società avesse. Nelle dichiarazioni, infatti, dal 2013 in poi, come riporta il sito dell' Agcom, vi è solo scritto che possiede azioni in società». I documenti sono accessibili a tutti. Fino al 2015 si può appunto vedere una dichiarazione generica sul possesso di azioni, poi negli ultimi anni, quando il modello è stato uniformato, Cardani si è limitato a barrare la casella che attesta che «la situazione patrimoniale dichiarata nell' anno precedente non ha subito variazioni in aumento o diminuzione». L' obbligo si specificare di quale società sono le azioni possedute è, come detto, molto discusso dal punto di vista costituzionale, ma il presidente di una autorità garante così importante dovrebbe essere il primo a dare il buon esempio. Del resto proprio il dipartimento per il coordinamento amministrativo della presidenza del Consiglio dei ministri ha da qualche anno messo a disposizione sul proprio sito una scheda da utilizzare dove viene indica la necessità di una formulazione specifica. Ovvero, la legge impone di sapere esattamente il patrimonio di partecipazioni posseduto dal titolare di un organo di indirizzo politico. C' è il rischio di un possibile conflitto di interesse che potrebbe derivare dal possesso di azioni o partecipazioni in società. La stessa Anac ha sempre confermato l' esistenza di questo obbligo. Come detto, a esprimersi è stata anche la Corte costituzionale, ma Anac ha comunque facoltà di sanzionare i dirigenti pubblici che hanno commesso omissioni nella dichiarazione dei redditi. Anzi, a quanto risulta alla Verità, ci sarebbe stata anche una segnalazione all' ente anticorruzione ma di esiti o sanzioni non si ha notizia. Perché al di là di una multa per Cardani viene da domandarsi se queste omissioni siano compatibili con il mandato svolto in questi anni, per di più negli ultimi mesi in proroga. Di sicuro la legge del 2013 non è stata rispettata, anche perché i cittadini e i soggetti che vengono controllati dall' Agcom non hanno la possibilità di valutare se il presidente si trovi in conflitto di interessi. In una recente indagine sui Big data, l' autorità garante per le telecomunicazioni spiega quanto nel contesto attuale sia «difficile ripristinare condizioni di efficienza attraverso meccanismi di trasparenza e di consenso informato. Infatti, tali strumenti appaiono, in molti casi, insufficienti a garantire un riequilibrio conoscitivo tra operatori e consumatori». Forse il primo a dare l' esempio dovrebbe essere proprio Cardani.

Per i burocrati trasparenza è sinonimo di voyeurismo. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 su Corriere.it da Gian Antonio Stella. «Il buon senso prevale sul voyeurismo». Così esultano on-line, come se si trattasse di giarrettiere o baby-doll, i social dei burocrati. Ovvio, dal loro punto di vista. Una leggina infilata nell’ultimo baule dell’ultimo treno per Yuma, il decreto Milleproroghe, svuota anni di impegni alla trasparenza, sfila la competenza all’Anticorruzione e riporta le lancette all’indietro di dieci anni e passa. Nessuna sorpresa. «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione», scriveva Max Weber oltre un secolo fa, «mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Nonché i redditi, si capisce. E non è un caso se per decenni, anche dopo la proposta di pubblicare gli emolumenti dei dirigenti pubblici lanciata nel ‘97 dal diessino Cesare Salvi e plaudita dal destrorso Francesco Storace, nessuno ci provò mai davvero prima di Renato Brunetta. Il quale battezzando l’«Operazione Trasparenza» esaltò nel 2009 i ministri che per primi avevano aderito facendo del bene «non solo al governo ma al Paese». Il governo di Mario Monti fece un passo in più. E dopo aver messo on-line i redditi e anche le proprietà dei suoi ministri, confidò di volere «sottoporre a qualcosa di analogo» pure gli alti dirigenti amministrativi. Era il febbraio del 2012. Da quel momento, però, il percorso è stato sempre più accidentato. Al punto che quando il «decreto trasparenza» firmato da Marianna Madia fu finalmente varato nel maggio 2016 lo stesso Brunetta vi trovò addirittura «dei passi indietro». Critica giusta? Certo è che il decreto era monco. Mancavano le linee guida sull’applicazione delle nuove regole: valevano solo per i manager apicali del mondo pubblico o per tutti? Centinaia o decine di migliaia di dirigenti? Erano previste eccezioni? I medici primari erano compresi? E la privacy? A occuparsene fu delegata, non casualmente, l’Anac di Raffaele Cantone. Tempi? Meglio prima che dopo. Fatto sta che a un certo punto la platea dei possibili «obiettivi» del monitoraggio dell’Anticorruzione, a ragione o torto, sembrò allargarsi e allargarsi ancora fino a tirare in mezzo, forse, chissà, centoquaranta mila pubblici dirigenti e funzionari. Una marea. Di giorno in giorno più inquieta: «Ricorriamo al Tar!» Ma su cosa: sulle voci? Finché il segreterio generale dell’Authority per la Privacy, mettendo le mani avanti (con sospetta solerzia, diranno gli avversari…) invitò un po’ tutti i suoi a preparare i documenti per una richiesta di dettagli patrimoniali da mettere eventualmente a disposizione nel caso fossero richiesti. Il tempo che la richiesta venisse scodellata e partivano i primi ricorsi al Tar. Coincidenza: le linee guida dell’Anticorruzione (pare restrittive rispetto all’allarme generale) erano ormai previste per l’8 marzo. Ma sei giorni prima, il 2 marzo, ecco arrivare la decisione dei giudici amministrativi: prima di decidere, meglio fare subito una sospensiva. Che diede il tempo ad altri aspiranti ricorrenti di presentare al Tar nuovi esposti, appelli, contestazioni. Risultato: preso in contropiede, Raffaele Cantone restò impantanato. Peggio, sulla testa sua e dei sostenitori della necessità di combattere la corruzione con la massima trasparenza, piombò un mattone inaspettato. Palazzo Chigi, che con Monti prima e Renzi poi aveva spinto per le nuove regole indigeste a tanta parte della nostra burocrazia, ricevette infatti dall’Anac una domanda precisa: la Presidenza del consiglio aveva intenzione o no di ricorrere contro la sospensiva decisa dal Tar? La risposta fu una secchiata d’acqua gelida: su consiglio degli avvocati, che temevano l’ipotesi di chissà quanti futuri risarcimenti, meglio lasciar perdere e «non rimuovere gli effetti della sospensiva concessa». Deluso, il presidente dell’Anticorruzione non ebbe scelta: andava tutto congelato. Anzi, da quel momento la controffensiva di quanti erano ostili alle nuove norme accelerò. Basti ricordare la lettera al Corriere con cui Giuseppe Busia, il segretario generale della Privacy, spiegò che era meglio così. Che una scadenza per le linee guida in realtà c’era ma era stata fatta slittare dall’Anac. E che lui stesso, pur avendo il dovere di rispettare le leggi, compreso l’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti sul web, confessava «a titolo strettamente personale di non condividerlo». Ma era solo l’inizio della rivolta contro quelli che molti bollano come «eccessi di trasparenza». Eccessi in parte riconosciuti nel febbraio scorso dalla stessa Corte Costituzionale che tuttavia, ricordava giorni fa lo stesso Cantone in una lettera a Repubblica, «ha parzialmente dichiarato l’ incostituzionalità della norma del 2016, relativamente però ai soli dirigenti che non svolgono ruoli di primo piano». Per capirci: la Consulta diceva solo che un pubblico monitoraggio a tappeto di tutti i dirigenti non ha senso. Ma che il principio, in sé, su una platea più ristretta, era e resta positivo. D’altra parte, come dimenticare gli arricchimenti spropositati di burocrati d’oro come Duilio Poggiolini o Angelo Balducci? Certo, probabilmente non si sarebbero fermati davanti alla minaccia di pubblicazione delle loro proprietà. Avrebbero trovato altre strade e via…Fatto sta che dopo varie retromarce sulla trasparenza a dispetto degli antichi proclami di Beppe Grillo contro i burocrati («Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia…») quella leggina infilata nel Milleproroghe dice tutto. Dopo dieci mesi di paralisi, prima giallo-verde e poi giallo-rossa il Parlamento ha deciso infatti di toglier la trasparenza all’Anticorruzione, di sospendere le sanzioni previste per chi avesse violato le regole esistenti sui redditi on-line (ciao ciao, legge Brunetta…), di dare un anno di tempo al ministro della Funzione Pubblica per rivedere tutto. Con quale spirito, in un paese dove la classe politica è sempre più debole e quella burocratica sempre più forte, è facile immaginare…L’aspetto più divertente, però, al di là dei commenti sul «voyeurismo» di chi invoca la trasparenza (chissà cosa diranno delle leggi inglesi che costrinsero David Cameron a dichiarare d’aver ricevuto in dono un po’ di lezioni d’un «personal trainer»…) è che alla vigilia di Natale, cinque giorni prima di votare quel Milleproroghe che preannunciava la sostanziale abolizione dell’obbligo di pubblicare i propri redditi, il Parlamento aveva votato nella Legge di Bilancio un comma 63 che prevedeva un taglio dal 30 al 60 % dell’indennità di risultato per chi non comunicava quei dati… Per dirla con Matteo, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra…

·        Le province fantasma.

Le province: questi fantasmi! Report Rai PUNTATA DEL 04/05/2020 di Bernardo Iovene. È impossibile ricostruire il numero esatto delle province italiane. Sono state abolite nel 2014, ma nel 2016 il referendum costituzionale le ha confermate. Intanto nelle regioni a statuto speciale Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Sardegna è il caos. In Sicilia ci sono i Liberi Consorzi Comunali commissariati dal 2012. In Friuli Venezia Giulia, abolite le province, furono istituite 18 Unioni Territoriali Intercomunali, poi abolite dalla giunta leghista per istituire gli EDR, Enti di decentramento regionale. In Sardegna le province erano quattro, poi diventarono otto, un referendum le ha ridotte di nuovo a quattro, ma attualmente sono cinque, più un area omogenea. La confusione regna anche nelle regioni ordinarie dove per dieci anni sono state sottratte risorse mettendo in ginocchio un ente che ha abbandonato a sé stesse 130 mila chilometri di strade e la manutenzione di 7000 scuole. Il nostro viaggio in tutte le regioni e province, che ha ripercorso il dossier “Province terra di nessuno”, elaborato da Openpolis in collaborazione con Report, raccoglie la denuncia di sindaci e degli amministratori che unanimemente invocano il ritorno alla vecchia provincia con le elezioni dirette degli organi politici. Cosa risponde il governo?

LE PROVINCE: QUESTI FANTASMI! Di Bernardo Iovene Immagini di Alfredo Farina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È diventata una questione tra curva nord e curva sud. Perché il commissario Arcuri ha chiesto di dissequestrare una partita di pezzi di ricambio di ventilatori e respiratori in un momento in cui c’era un’emergenza nel paese. L’ha fatto, è scritto in un documento di cui Report è venuto in possesso, per un indifferibile e superiore interesse nazionale. Quale interesse, e di chi? Cercheremo di capirlo dopo l’inchiesta principale di questa sera che tratta un tema che pensavamo di non dover trattare più: le province. Le vecchie province. In quanti sanno quante sono e che cosa fanno, in questo momento, le province del nostro paese? Abbiamo fatto una ricognizione con gli amici della fondazione Openpolis, e abbiamo scoperto che potrebbero diventare una risorsa incredibile del Paese, per il Paese nella fase due, per ripartire. Proprio in questi giorni l’Unione delle Province ha presentato un progetto al premier Conte che porterebbe allo sblocco di piccoli, migliaia di cantieri, di far girare circa due miliardi di euro, rimettere un po’ a posto una rete viaria, oltre 120mila chilometri di strade provinciali, mettere, rimettere mano a oltre 30mila tra ponti, viadotti, gallerie, alle settemila scuole di loro competenza, renderle più efficienti dal punto di vista dell’energia, ma anche metterle un po’ in sicurezza, e magari anche un po’ più digitali. Sono diventate, improvvisamente, una risorsa. Ma sono un po’ come i personaggi in cerca di autore. Se non vengono delineate bene le competenze rischiano, invece di essere una risorsa, di diventare un ulteriore, pesante fardello. Come fa un tir a contribuire alla crescita del paese se poi deve fermare la sua corsa a ridosso di un viadotto crollato? Hanno vissuto il momento delle vacche grasse, nel 2004 erano diventate 110, le province in Italia, poi è arrivata la sforbiciata di Delrio. Nel 2014 ha delimitato le loro funzioni. Devono occuparsi, diceva Delrio, delle strade, delle scuole e un po’ di ambiente. Alcune funzioni le hanno prese i governi, le hanno prese gli stati e le Regioni. Però Delrio aveva in mente una cosa bella: la casa dei comuni. Però il risultato è che ognuno poi pensa, invece, a se stesso. È un po’ il risultato anche della riforma elettorale, che non prevede più l’elezione diretta dei rappresentanti del Consiglio Provinciale, che oggi è diventato il consiglio degli egoismi. Questo perché non c’è più l’elezione diretta e l’elezione viene fatta dai sindaci e dai consiglieri comunali. E non è che un voto vale uno, ma vale di più, pesa di più il voto del comune che è più popolato. Ne consegue che il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Questo ha generato pruriti, egoismi e soprattutto ha dato voce ai nostalgici: “Aridatece le province”.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo a Belluno ed è domenica 16 febbraio, si vota per l’elezione del consiglio provinciale. A votare però sono solo 705 grandi elettori, tra sindaci e consiglieri comunali dei 61 comuni. Ma i voti non sono tutti uguali.

ROBERTO PADRIN – PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE Il problema è il valore del voto è più alto nel comune che ha il maggior numero di abitanti.

BERNARDO IOVENE Lei è consigliere?

ANDREA STELLA - CONSIGLIERE COMUNALE BELLUNO Sì, di Belluno.

BERNARDO IOVENE Quindi vale molto il suo voto?

ANDREA STELLA - CONSIGLIERE COMUNALE BELLUNO Diciamo di sì, è quello che vale di più.

BERNARDO IOVENE È quello che vale di più.

ANDREA DE BERNARDIN - SINDACO DI ROCCA PIETORE (BL) Un consigliere di Rocca Pietore - come è il mio comune - vale 56 voti. Un consigliere di Belluno vale 560 voti.

BERNARDO IOVENE Cioè un consigliere vale 10 volte tutto il suo consiglio?

ANDREA DE BERNARDIN - SINDACO DI ROCCA PIETORE (BL) Esatto, tutto il mio consiglio comunale vale come un consigliere di Belluno.

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Perarolo di Cadore.

BERNARDO IOVENE Quanti abitanti ha?

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Arriviamo a circa 400.

BERNARDO IOVENE In che fascia?

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Quella più bassa naturalmente.

BERNARDO IOVENE Che ne pensa di questa...

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) È una grandissima schifezza questa legge, cioè una cosa demenziale, soltanto menti perverse potevano arrivare…

BERNARDO IOVENE Ah sì?

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Anche perché territori più piccoli, i comuni più piccoli praticamente non vengono rappresentati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I voti vengono canalizzati in cinque fasce, ognuna con un punteggio che dipende dal numero di abitanti del comune di appartenenza. Comunque oggi i consiglieri e i sindaci eleggono solo il consiglio provinciale che scade ogni due anni, mentre il presidente resta in carica quattro anni.

BERNARDO IOVENE Lei è stato eletto quando lei?

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE Il 10 settembre 2017.

BERNARDO IOVENE E perché c’è questa cosa…

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE La legge Delrio dice che il presidente resta in carica quattro anni, mentre il consiglio provinciale viene rinnovato ogni due anni.

BERNARDO IOVENE Quindi sono passati due anni e si rielegge il consiglio?

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE Esatto.

BERNARDO IOVENE Quindi lei potrebbe avere una maggioranza diversa…

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE anche, certo.

BERNARDO IOVENE Che pensa di questo sistema elettorale?

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) È pessimo.

BERNARDO IOVENE È pessimo?

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) Bisogna ritornare al sistema elettorale che c’era prima…

DANIELA LARESE FILON - CONSIGLIERE COMUNALE AURONZO DI CADORE (BL) Ridateci la provincia. La vera provincia che avevamo un tempo.

IVAN MINELLA - SINDACO DI SANTA GIUSTINA (BL) Andare a caricare i sindaci di un secondo dovere gratuitamente è stato un problema. La provincia deve essere un lavoro a tempo pieno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra consiglieri e sindaci il coro è unanime: una legge elettorale pessima e la richiesta del ritorno al passato, ma se scendiamo tra i cittadini la musica cambia.

VOX 1 Penso sia un costo inutile.

VOX 2 Io abolirei le province.

VOX 3 Dovrebbe essere stata tagliata da mo’. VOX 4 Io taglierei le province e darei al Comune tutte le funzioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La provincia dei sindaci è quello che aveva previsto la legge Delrio. Ma non sta funzionando: i sindaci vogliono rappresentare solo il comune dove sono stati votati.

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) È giusto che sia la gente del territorio a scegliere i loro rappresentanti.

BERNARDO IOVENE E lei non rappresenta un territorio?

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) Io rappresento il mio Comune, non tutta la provincia.

LUCA DE CARLO – SINDACO DI CALALZO DI CADORE (BL) Lo sguardo del Sindaco sarà sempre nel tutelare gli interessi di chi l’ha votato, e cioè di quella porzione del territorio.

BERNARDO IOVENE Non dei cittadini.

LUCA DE CARLO – SINDACO DI CALALZO DI CADORE (BL) Non di tutta la provincia, ovviamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se lasci una riforma zoppa il risultato è dar voce ai nostalgici: ridateci le vecchie province. Dovevano essere abolite con il referendum del 2016, che avrebbe contemplato la riforma del titolo V della Costituzione, era stato promosso da Renzi, ma è fallito. Dunque le province son rimaste lì. Ma depotenziate. Perché nel 2014 Delrio aveva limitato le loro funzioni, aveva spostato anche gran parte del personale: dei sedicimila dipendenti, 2.564 sono stati mandati in prepensionamento, e gran parte degli altri sono stati collocati presso regioni, Ministeri, tribunali. Solo una piccola parte è rimasta nelle attuali province. Poi non sappiamo se l’intenzione dell’elefante era quella di partorire il topolino, sta di fatto che, conti alla mano, sono stati risparmiati circa 52 milioni di euro dalle mancate elezioni dirette del consiglio provinciale, ma dalla ricollocazione del personale in nuovi posti è stata aumentata la spesa di 36 milioni di euro. Ben altra cosa invece sono le sforbiciate alle casse delle vecchie Province. Quelle sì che sono pesanti. Ha cominciato nel 2010 il governo Berlusconi, che ha fatto tagli per 350 milioni poi saliti a 550 milioni di euro l’anno. Poi è arrivato Monti, che ha aumentato il cosiddetto, che ha fatto prelievi per un miliardo e 700 milioni di euro ogni anno. Poi, infine, Renzi ha aumentato il cosiddetto prelievo forzoso di altri 3 miliardi di euro l’anno. I tagli poi, alla fine, sono arrivati a 5.3 miliardi di euro ogni anno. Ma cos’è il prelievo forzoso? Lo Stato a un certo punto, ha dato mandato all’Agenzia delle Entrate di prelevare da uno dei pochi gettiti rimasti alle province, quello derivante dalle imposte dell’RC Auto. Il risultato qual è stato? Che questo lo hanno applicato anche alle Regioni con lo Statuto speciale, è stato un vero e proprio disastro. Nel 2013 Crocetta, l’ex governatore, annuncia a sorpresa in una trasmissione televisiva, di abolire le province. L’ha fatto. Le ha trasformate in consorzi. Ma possiamo dire che il suo delitto non è proprio un delitto perfetto. Perché a distanza di sette anni sono state commissariate. E hanno in pancia i dipendenti. Sono rimasti lì, con poche funzioni, perché dovrebbero occuparsi di strade, di scuole ma, grazie al prelievo forzoso, sono rimasti senza stipendi e sono stati costretti a impegnare i gioielli di famiglia. E poi sono rimaste senza testa, perché le elezioni per rinnovare i consigli provinciali non sono state mai fatte in questi sette anni, perché c’è ancora un braccio di ferro in atto con chi vorrebbe la vecchia elezione, quella diretta. Forse sono i fantasmi delle vecchie province senza pace che si aggirano tra le stanze di chi ha tentato di abolirle. I fantasmi di casa Crocetta. Il nostro ghostbuster, Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE Qui c’era la giunta?

UOMO Sì, si teneva la giunta della ex provincia.

BERNARDO IOVENE Qua si teneva il consiglio provinciale?

UOMO Perfetto, sì.

BERNARDO IOVENE Un po’ di nostalgia c’è? Le manca la provincia?

UOMO Sì, certo che mi manca.

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA La prima riforma delle province – ne sono state fatte cinque sotto Crocetta – la prima riforma è del 2013, quando da un programma televisivo nazionale Crocetta annuncia: “Abolirò le province”.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Lui da Giletti ha fatto la riforma, lui andò da Giletti e annunciò all’insaputa di tutti: “Io elimino le provincie”.

BERNARDO IOVENE Ah, nessuno sapeva niente, lui dice che erano mesi che si stava lavorando.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO No!

CROCETTA DA GILETTI (video) Allora rispetto alle province, le assicuro che domani la mia giunta delibererà una proposta di legge che - prima Regione in Italia e prima delle vostre chiacchiere - le abolisce per fare i Liberi Consorzi dei Comuni, così come prevede lo statuto della Regione siciliana. E mentre voi fate gli annunci da tre anni sulle province da abolire, noi domani le aboliremo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il giorno dopo, siamo nel 2013, il presidente Crocetta con una legge abolisce le province e i consigli provinciali, istituisce i Liberi Consorzi Comunali, tra cui tre città metropolitane: Palermo, Messina e Catania. In Sicilia è passata ormai come Riforma Giletti.

BERNARDO IOVENE Lei va da Giletti e il giorno dopo abolisce le province.

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ma sì, ma perché avevo un disegno di legge che preparavamo…

BERNARDO IOVENE Ce l’aveva già?

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ma sì. Preparavamo da mesi. La provincia non serviva a niente, salvo a fare qualche manutenzione delle strade provinciali e a dare contributi ai piccoli comuni per le fiere paesane e le sagre, questo era la provincia. Ma la manutenzione delle strade non la possono fare i geni civili, oppure l’Anas attraverso accordi specifici? La gestione delle scuole: non è più giusta passarla a comuni?

BERNARDO IOVENE Per i dipendenti cosa aveva previsto lei?

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Chi prendeva le funzioni prendeva anche i dipendenti

BERNARDO IOVENE E poi manda un commissario dalla regione che li commissaria?

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Il commissario lo mandai per governare la transizione, ma c’erano tempi molto stretti per eleggere gli organi dei consorzi, che erano organi di autogoverno. Giuseppe, non ci lasciare Giuseppe!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A tutt’oggi dopo sette anni in tutte le ex province ci sono ancora i commissari. Le elezioni indette più volte sono state sempre rinviate, nelle province tutto è rimasto com’era, dipendenti e funzioni, è cambiato solo il nome e le casse vuote. Dallo stato non arrivano più risorse, e a Siracusa ad esempio i dipendenti per mesi sono rimasti senza stipendio.

ROSSELLA CAIA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Noi siamo proprio lo scarto dei dipendenti pubblici. Stipendio di gennaio, niente. Febbraio: soldi nelle casse non ce ne sono.

MARIA SEBASTIANA CANIGLIA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Il problema nostro c’è da sette anni ed è visibile sotto gli occhi di tutti, ma a quanto pare per molte persone siamo invisibili.

ROSANNA LAFERLA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Chi dice: “dove lavori?”. “Alla provincia”, si fanno tutti una risata. Fanno così.

CARMELO INCATASCIATO – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Non è vero che la provincia non esiste, la provincia esiste. Perché molti di questi servizi, le somme urgenze per le scuole… vengono prese da quei pochi soldi che potrebbero servire per i nostri stipendi. Perché il fondo è lo stesso.

GIOVANNI RIZZOTTO – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Questa politica ci ha lasciato le funzioni, ci ha lasciato le competenze, e ci ha detto: “Ammazzatevi fra di voi poveri”.

ANGELO RAGUSA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Ci siamo dovuti vendere tutto quello che c’era da vendere: dai bracciali d’oro, alle collane. Case pignorate, sfratti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Siracusa fino ad oggi si sono alternati nove commissari. Il penultimo nel 2018 ha dichiarato il dissesto finanziario dell’ex provincia.

BERNARDO IOVENE Senta è lei che decide di non pagare i dipendenti?

ANTONIO CAPPUCCIO - DIRIGENTE SERVIZI FINANZIARI LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Sì, il cattivo sono io, ma mio malgrado. La provincia di Siracusa – come le altre province siciliane – non ha più trasferimenti attivi dallo stato alle province. Ora se io le entrate proprio dell’ente - Rc Auto e Ipt - sono sottratte alla fonte dallo Stato, che tipo di bilancio posso fare? L’ente non è più in grado di garantire la manutenzione ordinaria delle strade e delle scuole.

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Scusate ragazzi… vede lì. Il lastrone è caduto su quel banco dove sono quei ragazzi…

BERNARDO IOVENE Poteva essere molto pericoloso.

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Sì, poteva essere molto pericoloso, perché era spessa così la lastra di intonaco

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo al liceo Quintiliano: improvvisamente si è staccato un lastrone di intonaco e ha sfiorato due studentesse, colpendole fortunatamente soltanto di striscio. Un evento straordinario, ma la scuola ha tutti i solai da rifare, bagni e aule chiuse perché inagibili, i pavimenti che si alzano e ormai tenuti con nastro adesivo, e la manutenzione ordinaria assente.

BERNARDO IOVENE Voi in provincia avete un interlocutore?

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Sì, abbiamo gli interlocutori… li abbiamo e sono molto pronti a rispondere e partecipare. Il problema è che quando si tratta di pagare mi scrivono che non possono pagare.

BERNARDO IOVENE “Questo settore non appena avrà la disponibilità economica …”

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Sì, ma non è mai successo

TERESELLA CELESTI - DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO JUVARA SIRACUSA Dal secondo semestre del 2013 le scuole superiori non ricevono alcuna provvidenza da parte dell’ente locale ex provincia…

BERNARDO IOVENE Voi dal 2013 non ricevete nulla?

TERESELLA CELESTI - DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO JUVARA SIRACUSA Nulla.

BERNANDO IOVENE FUORI CAMPO Stessa situazione negli altri istituti. Qui siamo all’Istituto tecnico Juvara, intonaci e impianti da rifare, pavimenti e colonne che cadono a pezzi. Per sopravvivere gli istituti devono attingere dai fondi destinati alla formazione, non potrebbero prenderli, ma sperano che la ex provincia prima o poi li restituisca. Il Libero consorzio ha debiti con tutte le ventitré scuole superiori della provincia.

TERESELLA CELESTI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITO JUVARA SIRACUSA Soltanto nei confronti delle 23 scuole sono poco più di quattro milioni di euro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Altri debiti la ex provincia li ha accumulati con le cooperative che, nonostante non hanno preso soldi per anni, hanno continuato il servizio ai disabili

ANTONINO DI PRISCO – PRESIDENTE COOP ESPERIA 2000 Noi dobbiamo ricevere 150 mila euro. Abbiamo proceduto con un decreto ingiuntivo.

BERNARDO IOVENE Avete accumulato dei crediti?

IVANA SEVERINO - COOPERATIVA SAN MARTINO circa 80mila euro.

BERNARDO IOVENE Ci sono cooperative che hanno chiuso?

IVANA SEVERINO - COOPERATIVA SAN MARTINO Ci sono cooperative che hanno chiuso BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Complessivamente le cooperative di Siracusa hanno crediti per 1 milione e seicentomila euro con la ex provincia.

BERNARDO IOVENE Parliamo di cooperative sociali?

ANTONIO CAPPUCCIO - DIRIGENTE SERVIZI FINANZIARI LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Parliamo di cooperative sociali, ma anche di Enel, Telecom, tutte le società che forniscono i servizi primari. E quindi nel maggio del 2018 è stato dichiarato il dissesto finanziario dell’ente con il risultato pratico che i fornitori non pagati stanno aggredendo l’ente e si arriverà di nuovo a un decreto ingiuntivo, commissariamenti ad acta e così via. BERNARDO IOVENE Un disastro.

ANTONIO CAPPUCCIO - DIRIGENTE SERVIZI FINANZIARI LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Un disastro totale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E un disastro sono le condizioni delle strade. L’ingegner Grimaldi fa quello che può.

BERNARDO IOVENE Qua sotto è vuoto?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Sì, Sì. Qua sotto è vuoto.

BERNARDO IOVENE Qui passano anche i mezzi pesanti.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA C’è il limite di 3,5 tonnellate.

BERNARDO IOVENE Non ci potrebbero passare.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Non ci potrebbero passare, ma qua ognuno fa quello che vuole.

 BERNARDO IOVENE Da quanto tempo?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Da fine ottobre, non siamo riusciti purtroppo a intervenire per mancanza di risorse.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui invece avevano chiuso la strada ma gli automobilisti hanno dissaldato il guardrail per passare.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Intanto la richiudiamo, ora io ti mando le foto e facciamo la denuncia che l’hanno aperta. Per sistemare questo pezzo di strada ci vorranno 100-150mila euro.

BERNARDO IOVENE E non ci sono?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Non ci stanno in questo momento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche questo cavalcavia è stato chiuso, si è scollata la banchina ed è pericoloso, ma gli automobilisti nonostante il divieto passano.

BERNARDO IOVENE Questi non potrebbero passare?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA No, assolutamente. La strada è chiusa.

BERNARDO IOVENE La strada è chiusa e passano. Questo ora mi butta sotto. Non ha visto che la strada è interrotta? CAMIONISTA L’ho visto, però ci passano tutti.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Purtroppo questa è la situazione.

BERNARDO IOVENE Da quanto tempo è chiusa qua?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Un anno e mezzo circa.

BERNARDO IOVENE Un anno e mezzo?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Sì, da un anno e mezzo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La situazione peggiora nei territori interni di montagna. A Buscemi si riuniscono i sindaci dei sette comuni montani che hanno dato vita all’Unione Valle degli Iblei.

VINCENZO PARLATO - SINDACO DI SORTINO (SR) Tutte le strade provinciali e tutte le scuole di fatto versano in uno stato di grave situazione, tant’è vero per gli istituti scolastici siamo noi ad anticipare le spese per il gasolio per esempio e per il riscaldamento.

BERNARDO IOVENE Oggi qua siete sette sindaci?

SALVATORE GALLO - SINDACO DI PALAZZOLO ACREIDE (SR) Oggi siamo sette sindaci.

BERNARDO IOVENE Quando sono state abolite, voi eravate d’accordo?

SALVATORE GALLO - SINDACO DI PALAZZOLO ACREIDE (SR) Ma nella maniera più assoluta. La gestione è stata: abroghiamo e risolviamo il problema.

ROSSELLA LA PIRA - SINDACO DI BUSCEMI (SR) La nostra condizione è quella di rischiare l’isolamento in caso di nubifragio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Scavalcando la valle si arriva nella provincia di Enna, con l’assessore del comune di Troina facciamo un giro per le strade di competenza provinciale.

BERNARDO IOVENE Fermiamoci qua.

ALFIO GIACHINO - VICESINDACO E ASSESSORE LAVORI PUBBLICI DI TROINA (EN) Io suggerirei di fermarci.

UOMO 1 Lei deve pensare che noi abbiamo l’agriturismo qua, se deve arrivare un autobus è impercorribile questa strada.

BERNARDO IOVENE Riesce a passare?

UOMO 2 Come? Con due ruote!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Su due ruote è costretto a passare chi purtroppo non ha alternative. Questo ponte invece potrebbe facilitare il collegamento dei paesi della provincia di Enna con l’autostrada, ma i lavori sono fermi da anni!

ALFIO GIACHINO - VICESINDACO E ASSESSORE LAVORI PUBBLICI DI TROINA (EN) Abolite le province e tagliati i trasferimenti. Ma le competenze su strade provinciali, su scuole provinciali, sono rimaste.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le province siciliane hanno partecipato ai tagli versando come quelle di altre regioni, i loro tributi allo stato, la corte dei conti però ha stabilito che hanno pagato 100 milioni di euro in più.

ALESSIO MATTIA VILLAROSA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE Noi, legge di bilancio di quest’anno, abbiamo destinato alle province per la prima volta – gli altri non l’avevano mai fatto – 80 milioni di euro l’anno.

BERNARDO IOVENE Quindi lei sottosegretario 5 Stelle si è ritrovato a finanziare le province che volevate sempre abolire, no?

ALESSIO MATTIA VILLAROSA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE In poche parole sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 80 milioni però sono briciole visto che ad esempio solo Siracusa ha un’esposizione debitoria di circa 170 milioni di euro. Ma le province siciliane sono bloccate perché rinviano sempre le elezioni. C’è ormai un fronte unico tra destra e sinistra che vuole tornare al vecchio modello. BERNARDO IOVENE Lei è centrodestra o centrosinistra?

ANTONIO LICCIARDO - SINDACO DI ASSORO (EN) Centrosinistra. Speriamo che si ritorni a votare con l’elezione diretta.

FABIO VENEZIA - SINDACO DI TROINA (EN) Io sono per tornare al vecchio modello delle province, con i consiglieri provinciali e assessori. È stato un errore.

FRANCESCO ITALIA - SINDACO DI SIRACUSA Non puoi abolire un vertice politico, cambiare nome e pensare che sia cambiato tutto per soddisfare una sorta di populismo che in quel momento vede nella politica il peggiore dei mali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questi anni è successo che membri della maggioranza che sostenevano il presidente Crocetta durante i suoi governi hanno votato insieme al centro destra, con voto segreto, leggi che prevedevano l’elezione diretta, ma la Corte Costituzionale le ha sempre bocciate, perché anche in Sicilia si applica la legge Delrio che stabilisce quelle di secondo grado.

BERNARDO IOVENE Cioè la corte costituzionale diceva che non si poteva e l’Ars, il parlamento siciliano, continuava a votare l’elezione diretta?

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Certo. Ma se te lo dicono che non è cosa… Si sono fissati che debbono fare le elezioni di primo grado che non si possono fare. Adesso gli risulta difficile ritornare indietro rispetto a queste cose, perché dovrebbero ammettere che io avevo ragione e loro avevano torto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La nuova giunta Musumeci è stata costretta quindi a indire le elezioni di secondo grado, la data viene fissata per il 19 aprile.

BERNARDO IOVENE Ha vinto Crocetta alla fine?

NELLO MUSUMECI PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Ha vinto l’irrazionalità, ha vinto la peggiore politica. È stata una finta riforma, un giacobinismo da sanculotti non credibili.

BERNARDO IOVENE Però dico le elezioni dirette… ci puntate ancora?

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA L’elezione diretta è la democrazia.

BERNARDO IOVENE Però la legge Delrio prevede ormai che ci siano ormai elezioni di secondo grado. NELLO MUSUMECI –

PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Certo.

BERNARDO IOVENE I sindaci comunque sono eletti.

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Le leggi vanno rispettate. Ma vanno anche modificate, e vanno contestate quando non si condividono.

BERNARDO IOVENE Possiamo dire che il 19 aprile si faranno le elezioni?

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA No, perché ancora la legge non c’è. E io per rispetto dei confronti suoi e di chi ci sta seguendo dico che non so come voterà il parlamento siciliano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passa qualche giorno siamo al 19 febbraio e il parlamento vota l’ennesimo rinvio.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Le elezioni sono state indette dalla regione 5 volte, 5 volte rinviate. È una commissione che io – come Anci questa volta – abbiamo denunciato uno stato di calamità istituzionale.

BERNARDO IOVENE Oggi si rinviano a ottobre se ho capito bene, con la scusa che ci sono le amministrative.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Guardi, quando lei capisce quello che sta accadendo, la prego, me lo fa sapere?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto l’ex presidente Rosario Crocetta vive defilato dalla politica, diviso tra un paesino in provincia di Messina sul mare e la Tunisia.

BERNARDO IOVENE Che bel posto. Si esilia anche lei ad Hammamet.

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 No, non sono ad Hammamet. L’affitto mi costa 130 euro al mese.

BERNARDO IOVENE Con tutti i soldi che prende di pensione.

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ah ah ah la pensione. Mi arrivavano dalla regione siciliana circa 500 euro al mese. Meno male che ho lavorato in vita mia, altrimenti farei la fame.

BERNARDO IOVENE Cos’è…

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ho buttato tutto, vabbè…

BERNARDO IOVENE Si vedono le Eolie da qua!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quadri che cascano, porte che sbattono: chissà per quanto tempo i fantasmi delle province continueranno ad aggirarsi in casa Crocetta. Ma non potranno però continuare per lungo tempo, perché tu da una parte hai dei dipendenti che sono senza stipendio e che dovranno pur adeguarsi a fare quelle, ad attuare quelle disposizioni, quelle funzioni, seppur limitate, che hai lasciato. E poi, dall’altra parte, hai anche dipendenti che sono senza una testa che decide. Come fai a fare il bene di un pezzo di territorio se non hai chi decide, chi prende le decisioni? In mezzo ci sono le strade interrotte, i soffitti delle scuole che cadono in testa agli studenti. Sembra una questione meridionale, non lo è, perché anche chi le ha abolite del tutto ha a che fare con le scorie delle province. Parliamo di una regione del nord, il Friuli-Venezia Giulia. Debora Serracchiani, il governatore dell’epoca, nel 2016, ha addirittura, abolendo le province, spostato dipendenti, le funzioni in regione, ha fatto fare anche 4 passaggi parlamentari per eliminare dallo statuto la parola “provincia”. Ha riunito i 215 comuni della regione nelle Unioni Territoriali, con l’obbligo di riunirsi, e i sindaci avrebbero dovuto fare loro delle proposte per quelle che riguardavano le aree in comune, le cosiddette “aree vaste”. Questo per ottimizzare i costi e per ottenere degli incentivi ai progetti. E invece hanno prevalso gli egoismi e la logica dell’orticello di partito. E questo ha generato un conflitto istituzionale che non ha precedenti. Tutti contro tutti: Regioni, ex province e comuni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo nella regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia. Le province sono state abolite e la legge prevede che i gonfaloni delle ex province siano custoditi nei comuni dei vecchi capoluoghi.

PIETRO FONTANINI - SINDACO DI UDINE E quindi noi li abbiamo qua, li conserviamo con grande nostalgia, e soprattutto con grande orgoglio.

BERNARDO IOVENE Hanno dato un bello schiaffo abolendolo?

PIETRO FONTANINI - SINDACO DI UDINE Hanno fatto una cosa molto grave, sono andati contro la volontà dei cittadini che poi li hanno puniti alle elezioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’attuale sindaco di Udine è stato anche l’ultimo presidente della provincia. Ci accompagna verso il suo vecchio palazzo, che con le funzioni in pancia è traslocato alla regione autonoma.

FABRIZIO PITTON - SINDACO DI TALMASSONS - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI UDINE Questa è la sala del consiglio provinciale, ci sono gli affreschi di Giulio Quaglio che ci facevano compagnia durante le sedute del consiglio. Chi ci ha chiuso le province per paradosso Debora Serracchiani è chi ha fatto il consigliere provinciale qua in provincia di Udine.

BERNARDO IOVENE Lei ha fatto il consigliere provinciale qua?

FABRIZIO PITTON - SINDACO DI TALMASSONS - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI UDINE Certo, nasce come consigliere provinciale di Udine.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Non voglio però prendermi tutti i meriti. Perché in realtà…

BERNARDO IOVENE Non sappiamo se sono meriti.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Io li considero meriti. Questo processo di eliminare le province è nato con la precedente giunta di centrodestra con l’allora presidente Lorenzo Tondo.

BERNARDO IOVENE Quindi non è tutta opera sua.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 No no. Io l’ho completata.

BERNARDO IOVENE Ecco qual era la necessità e l’urgenza di togliere le province?

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Ma allora puramente amministrativa. Quell’ente intermedio non solo non serviva, ma probabilmente in quel momento creava soltanto delle criticità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insieme alla Serrachiani l’avvocato Spitaleri già capogruppo PD alla provincia di Udine ha guidato la riforma e ci spiega che per abolire la parola provincia dallo statuto autonomo della Regione ci sono voluti quattro passaggi parlamentari: due alla Camera e due al Senato.

SALVATORE SPITALERI – COMPONENTE COMMISSIONE PARITETICA STATO REGIONE FVG In regione era stato approvato all’unanimità, salvo l’astensione della Lega. Il parlamento nelle quattro letture che si fanno per le modifiche delle leggi costituzionali, l’ha approvato sempre a stragrande maggioranza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi la giunta del Friuli Venezia Giulia presieduta da Debora Serracchiani nel 2016 e prima del referendum nazionale abolisce le province di Trieste, Gorizia, Udine e Pordenone. Contemporaneamente suddivide i 215 comuni della regione in 18 UTI: Unioni Territoriali Intercomunali, delimitando i confini, ognuna con un nome: UTI della Carnia, del Gemonese, del Torre, del Friuli Centrale, dell’Agro aquileiese e così via…

FABRIZIO PITTON – SINDACO DI TALMASSONS – EX PRESIDENTE CONS. PROVINCIALE UDIINE Le unioni territoriali sono una forma obbligatoria. E quindi sono state imposte ai comuni.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 In realtà le unioni territoriali erano semplicemente dei luoghi nei quali si ritrovavano i sindaci per decidere materie che erano oggettivamente più ampie del confine del loro comune. Purtroppo questo è un paese in cui se tu hai dieci comuni tu fai dieci palestre, dieci piscine, dieci aree artigianali, dieci aree industriali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per incentivare le Unioni, che erano obbligatorie e avevano una personalità giuridica e un ufficio di presidenza con proprio personale, ognuna delle 18 UTI poteva accedere a finanziamenti.

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) Gestite insieme il personale, 12 comuni e io su questo vi do degli incentivi.

BERNARDO IOVENE Ad esempio? Alla vostra Uti quanto è stato dato?

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) Alla Uti venivano dati i soldi per la gestione corrente che in un anno giravano su 3-400 mila euro, poi ci sono le intese per lo sviluppo che erano finanziamenti che venivano dati per progetti comprensoriali. C’era l’obbligatorietà.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nei comuni guidati dal centro destra si sono rifiutati di entrare nelle Unioni Territotiali.

BERNARDO IOVENE Hanno disobbedito?

FABRIZIO PITTON - SINDACO DI TALMASSONS EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI UDINE Hanno disobbedito. Non è mai accaduto un conflitto istituzionale di questo livello tra regione, provincia, e comuni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I comuni ribelli erano 50 su 215 e tutti governati dal Centro destra. Ad esempio nella UTI dove c’è il comune di Palmanova - la Agro Aquileise - su 17 comuni 5 sono rimasti fuori, nella UTi del Noncello, che comprende anche la città di Pordenone, 2 comuni San Quirino e Cordenons non hanno aderito.

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Questa riforma prevedeva fondamentalmente un’assemblea di sindaci che in queste unioni avrebbero portato avanti le tematiche dei propri comuni, svilendo di fatto il valore del consigliere comunale, il valore dell’assessore comunale che di per sé sono il primo contatto con il territorio.

BERNARDO IOVENE Quindi la regione vi dice: Voi fate parte di questa Uti, unione territoriale intercomunale... voi dite no?

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Noi no, abbiamo detto no. Tutto questo ha portato a delle tensioni perché i finanziamenti nei comuni non facenti parte dell’Uti non arrivavano.

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) Quando si dice che la Lega i soldi si davano… è chiaro che tendeva a finanziare quei progetti di area vasta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Erano piani e patti territoriali, ad esempio piste ciclabili, messa in sicurezza del territorio, progetti culturali e ambientali. Ma chi ha contrastato le Uti non crede che il coordinamento di soli sindaci possa fare gli interessi di un’area vasta.

ALESSANDRO CIRIANI - SINDACO DI PORDENONE Vi diamo tre milioni: fate un elenco delle opere che voi ritenete più importanti nel territorio, possibilmente di valenza intercomunale. Può bene immaginare che in realtà diventava una camera di compensazione dell’egoismo dei sindaci, ciascuno cercava di portare a casa il più possibile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La battaglia è arrivata alla resa dei conti con le elezioni del 2018 la Lega e il centro destra vincono le elezioni, e parte la controriforma della giunta Fedriga, la delega va all’assessore Roberti.

BERNARDO IOVENE Ritorniamo alle vecchie province?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA L’intenzione che ha l’amministrazione regionale è quella di ritornare alle vecchie province. Nel nostro disegno l’amministrazione regionale fa programmazione di ampio respiro e legifera, non va ad amministrare gli autobus, non va ad amministrare le strade, non va a sfalciare l’erba sul bordo strada. Per questo serve qualcos’altro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra i primi atti però della nuova giunta è stato la redistribuzione delle risorse ai comuni ribelli fuori dalle Uti, tutti amministrati dal centrodestra.

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Con la nuova giunta regionale si è venuti incontro alle esigenze dei comuni che erano stati penalizzati (tra virgolette), e il comune di Cordenons ha avuto finanziamenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio per questa scuola comunale servivano 4 milioni e mezzo per ristrutturala e metterla in sicurezza. La vecchia giunta aveva sborsato solo - si fa per dire - 1 milione mezzo di euro.

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Ecco la nuova giunta regionale abbiamo portato a termine i lavori. C’è stato un cambio di rotta incredibile.

BERNARDO IOVENE E come se lo spiega lei? Perché c’è la Lega…prima siete stati puniti?

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Prima siamo stati puniti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oggi invece succede il contrario. Ad esempio la Uti dell’Agro aquileiese è composta da 18 comuni 11 avevano aderito e 7 no.

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) L’ultima trattativa che abbiamo fatto in 11 comuni abbiamo preso 1 milione e mezzo per progetti di comprensorio. I 7 comuni che sono rimasti fuori hanno preso 1 milione e 8… e quindi li diventa una trattativa con il comune amico, è questo il rischio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’altro atto immediato della nuova giunta è stata la soppressione delle UTI. Le funzioni dal 1 luglio del 2020 torneranno alla regione, e intanto sono state commissariate.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Qui semplicemente hanno cancellato con un colpo di spugna le Unioni territoriali senza più le risorse che erano state fissate in bilancio per gli anni a venire, proprio per farli lavorare, e quindi sono morte per asfissia… ma in assenza di una riforma vera… perché uno può dire: “Questo non mi piace, cosa propongo? Torniamo alle province.”

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si torna alle province ma lo statuto ormai non le prevede. Bisognerebbe ripassare dal parlamento per una nuova modifica, quindi la Giunta Fedriga ha pensato di chiamarle non province ma EDR: Enti di decentramento Regionale, specificando che si tratta di una fase transitoria.

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA E da qui cominceremo a lavorare per trasformarli e saranno passaggi successivi che dovranno riguardare anche il governo.

BERNARDO IOVENE Quindi ci saranno di nuovo elezioni di primo grado?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA L’obiettivo è quello di arrivare alle elezioni di primo grado.

BERNARDO IOVENE Presidente della provincia, assessori e consiglieri.

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Assolutamente sì.

BERNARDO IOVENE Di nuovo?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIELOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Sì. BERNARDO IOVENE Però sarete l’unica regione in Italia ad avere organi elettivi provinciali. Neanche la Sicilia adesso le farà di secondo grado…

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA In questo momento siamo l’unica regione in Italia a non avere le province.

BERNARDO IOVENE Appunto. PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Vogliamo essere speciali. Siamo speciali e continuiamo ad essere speciali. BERNARDO IOVENE Per fare quello che vuole fare l’attuale giunta c’è bisogno di un passaggio parlamentare. Secondo lei ci riusciranno?

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Bah, ripeto: sa che io ancora oggi non ho capito cosa vogliono fare.

BERNARDO IOVENE Noi che viviamo nelle regioni ordinarie già vi vediamo un po’…

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA con sospetto.

BERNARDO IOVENE Le province vengono abolite e adesso vengono ripristinate. Poi dopo che fa? Vince il centrosinistra di nuovo e le abolisce di nuovo? Perché non vi mettete d’accordo per dare un assetto istituzionale a questa regione?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Noi abbiamo detto chiaramente quello che volevamo fare agli elettori e abbiamo avuto un mandato elettorale per questo. E quindi ci aspettiamo che dall’altra parte, dal parlamento ci sia analogo recepimento di quella che è la volontà del consiglio regionale, e quindi dei cittadini del Friuli Venezia Giulia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Facciamo un passo avanti, facciamo un passo indietro. Dipende da chi vince. In realtà, indipendentemente da chi vince, bisognerebbe puntare al bene comune. Nel 2018 il leghista Fedriga, ha abolito le Unioni, volute dalla Serracchiani, e ha trasformato le quattro aree delle ex province in EDR, cioè in Enti Decentrati Regionali. Solo che, mentre pe le Unioni Territoriali era obbligatorio unirsi, qui è volontario. Quello che colpisce è che l’unica regione che aveva in qualche modo abolito, si era liberata completamente delle province, adesso le rivuole. Ma devi cambiare lo statuto, reinserire la parolina, rifare passaggi parlamentari. Forse bisognerà aspettare per avere la maggioranza che cambi quella che c’è in questo momento in Parlamento. Quello che è chiaro però è che regna la confusione. A proposito di confusione, andiamo in quella regione che forse ha fatto il più grande pasticcio di tutti: la Sardegna. Nel 2012 aveva otto province. Il Partito Riformatore di Mario Segni indice un referendum e vengono abolite quattro province. Da allora è partito un riordino degli enti locali. Ma dopo otto anni si può dire che anche qui regna il disordine, perché nel 2016 la Sardegna decide di omologarsi alla legge Delrio, ma non attua, non mette in moto, poi, quel processo di elezioni per i nuovi consigli provinciali. E dunque sono stati commissariati. In tutto questo caos si preparano a fare la legge sul riordino degli enti locali, e ora c’è Olbia che rivuole la provincia, Iglesias pure, Carbonia anche, e l’Ogliastra pure. E poi ci sono i sindaci che si tirano i capelli, litigano per avere il capoluogo di provincia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La provincia di Sassari dopo il referendum del 2012 che ha abolito la provincia di Olbia-Tempio è diventata la provincia più grande d’Italia. In attesa delle elezioni di secondo grado mai effettuate, e continuamente rinviate, è commissariata.

BERNARDO IOVENE Senta lei prima cosa faceva? Prima di fare il commissario.

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Io ero segretario del mio partito.

BERNARDO IOVENE Che è?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Del Riformatore, son quelli che hanno promosso il referendum per l’abolizione delle…

BERNARDO IOVENE Province. PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Sì.

BERNARDO IOVENE E adesso è a capo di tutta la provincia. È un paradosso, era un promotore e adesso…

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI No, siamo orgogliosi di averlo fatto.

BERNARDO IOVENE Cioè dico siete rimasti gli unici contro la provincia?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI In questa fase siamo gli unici.

BERNARDO IOVENE Adesso è capo della provincia più grande d’Italia?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Sì. BERNARDO IOVENE Quindi se la suona e se la canta da solo.

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Io me la canto da solo. Faccio tutto da solo… però da solo faccio quello che prima facevano 32 consiglieri, 11 assessori, il presidente di giunta…

BERNARDO IOVENE È un dittatore diciamo?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI No, per carità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad ogni modo il commissario deve far fronte a 63 plessi scolastici, 2.600 km di strade, problemi ambientali infiniti, senza risorse perché anche in Sardegna lo stato ha applicato il prelievo forzoso, che è maggiore delle entrate.

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Cioè non solo non ce ne danno, ma ce ne tolgono alla fonte, e in 4 anno lo stato ha preso 100 milioni di euro.

BERNARDO IOVENE Non è che le hanno fatto una trappola mettendola qua?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI No, è un’esperienza bellissima.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi attualmente Olbia è provincia di Sassari, ma guai a ricordarlo al sindaco della città.

BERNARDO IOVENE Siete ritornati sotto la vecchia provincia di Sassari?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA No, non siamo mai ritornati.

BERNARDO IOVENE Come no?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA No, assolutamente. Abbiamo continuato a sentirci appartenenti ad Olbia Tempio.

BERNARDO IOVENE Dal punto di vista degli atti formali non esiste più?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Gli atti formali sì… ma noi… per noi conta poco.

BERNARDO IOVENE Come conta poco?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Conta poco perché abbiamo chiesto di mettere in piedi la nuova provincia, son state presentate le proposte di legge.

BERNARDO IOVENE Se la gente non le vuole quelle province?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Non è vero: quel referendum è stato falsato.

BERNARDO IOVENE Ci deve essere anche l’elezione diretta?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Assolutamente, elezione diretta. È una cazzata questa di mandare la gente soltanto perché quattro sindaci si mettono d’accordo e dicono si, che facciamo?

BERNARDO IOVENE I sindaci non rappresentano… non sono stati eletti?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Noi siamo stati eletti, ma non possiamo eleggere noi un presidente. La gente lo deve eleggere. Perché la provincia dà risposte non ai sindaci, la provincia dà risposte alla gente, al cittadino!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Negli edifici della vecchia provincia nulla è stato rimosso nemmeno le targhe. Le 56 persone che ci lavorano oggi sono dipendenti della provincia di Sassari.

DIPENDENTE PROVINCIA DI SASSARI Possiamo tornare indietro nel tempo così come quando era provincia di Olbia-Tempio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insieme a tutte le altre province soppresse dopo il referendum, Olbia tempio è stata definita area omogenea. Da febbraio è stato nominato come subcommissario l’ultimo presidente della ex provincia, un politico di Forza Italia.

BERNARDO IOVENE Lei è stato l’ultimo presidente di questa provincia che non c’è più?

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Che non c’è più formalmente. Che non c’è più formalmente, ma materialmente c’è.

BERNARDO IOVENE O c’è o non c’è. Qui c’è ancora la provincia? Gli uffici provinciali…

PIETRO CARZEDDA - SUB COMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Assolutamente. I dipendenti che lavorano e gestiscono il territorio.

BERNARDO IOVENE Però non si chiama provincia?

PIETRO CARZEDDA - SUB COMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Si chiama zona omogenea - io la chiamo provincia - di Olbia Tempio. A me questa zona omogenea non è che mi piace tanto, comunque.

BERNARDO IOVENE Quindi per far capire un po’ a chi ci ascolta… qui c’è una provincia che non c’è più e che probabilmente ci sarà. Perché lei che ruolo ha qua?

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Io ho un ruolo di gestione esecutivo nell’amministrazione di questo ente, che gestisca e che porti avanti l’ente fino all’elezione che avverrà tra pochi mesi.

BERNARDO IOVENE Qui siete provincia di Sassari.

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Sì. BERNARDO IOVENE Però voi lo rifiutate…

 PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Diciamo che lo rifiutiamo, noi galluresi rifiutiamo di essere amministrati da Sassari, sì. Diciamo così.

BERNARDO IOVENE Provincia abbattuta attraverso un referendum, viene ristabilita dai politici e non avete paura di andare contro la volontà popolare?

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Assolutamente no, assolutamente no. Questo referendum ha creato solo danni al territorio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Sardegna si sta avviando a un ribaltamento totale del referendum del 2012, che ha abolito le quattro province: Olbia Tempio, Ogliastra, Medio campidano e Carbonia Iglesias, sono i sindaci che chiedono due cose: il ripristino della loro provincia, e che ci siano elezioni dirette. Non si sottrae nemmeno il sindaco di Carbonia, che è del movimento 5 stelle e chiede il ripristino della provincia del Sulcis, Carbonia-Iglesias.

BERNARDO IOVENE Cosa state facendo? State trattando con la giunta regionale per riavere indietro…

PAOLA MASSIDDA SINDACO DI CARBONIA (SU) La nostra Provincia Carbonia- Iglesias.

BERNARDO IOVENE Ridateci la provincia?

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Ridateci la provincia.

BERNARDO IOVENE Ma quando sono state abolite voi che posizione avevate?

PAOLA MASSIDDA SINDACO DI CARBONIA (SU) Noi eravamo per l’abolizione.

BERNARDO IOVENE Adesso ha cambiato idea?

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Eh sì. Ci siamo resi conto… Noi eravamo contro la gestione delle province così come era portata avanti.

BERNARDO IOVENE Quindi voi chiedete che questa parte qua diventi…

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Sulcis- iglesiente.

BERNARDO IOVENE Provincia PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE Olbia chiede quella parte lì e diventa la sua. Il Medio campidano la sua. Insomma ritorniamo a questa struttura qua, di nuovo.

PAOLA MASSIDDA- SINDACO DI CARBONIA (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE Praticamente.

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Eh sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Stessa struttura e con elezione diretta dei vecchi consigli provinciali. Su questa linea c’è unità d’intenti anche con il sindaco di Sant’Antioco che è di Fratelli d’Italia.

BERNARDO IOVENE Quindi lei era per l’abolizione delle province?

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Certamente. Ero addirittura consigliere provinciale…

BERNARDO IOVENE Ed era per l’abolizione?

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Beh, ricordo che la vivemmo come un passaggio…

BERNARDO IOVENE Era per l’abolizione o no?

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Sì, certamente.

BERNARDO IOVENE Quindi anche lei sta dicendo: “ridateci la provincia” …

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Ridateci la provincia.

BERNARDO IOVENE Quindi elezioni dirette.

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Eh mi pare chiaro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se a Carbonia Iglesias viene concessa la provincia, San Luri-sede della ex provincia di Medio Campidano, che aveva due capoluoghi Sanluri e Villacidro - si candida a capoluogo del Sud Sardegna.

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Secondo me la provincia ideale per quanto mi riguarda è il Sud Sardegna, non più quel cantuccio piccolino che si chiamava Medio Campidano.

BERNARDO IOVENE E il capoluogo?

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Il capoluogo… Sanluri. Non lo dico per campanilismo.

BERNARDO IOVENE Noo, lei è il sindaco di Sanluri. Il sindaco di Villacidro è d’accordo?

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Io non sono il sindaco di Villacidro. Io parlo per me, non per Villacidro.

BERNARDO IOVENE Quindi questo qua è il Sulcis?

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE Lei dice si stacca il Sulcis, rimaniamo con questa provincia qua e noi capoluogo.

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ricapitolando: attualmente la Sardegna ha quattro province, più la città metropolitana di Cagliari. Le quattro province storiche sono commissariate e le elezioni a oggi sono state sempre rinviate. Al momento dell’abolizione delle quattro province la regione ha istituito 37 unioni di comuni. Ora Si aspetta il nuovo riordino degli enti locali che sta preparando l’assessore Quirico Sanna.

BERNARDO IOVENE Rivolete le province anche lei?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Le popolazioni della Sardegna vogliono le province.

BERNARDO IOVENE Però ci sono stati i referendum, delle leggi, la corte costituzionale…

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Bravo. È corretto, ha detto: ci sono stati dei referendum. Giusto. La riforma voluta da Renzi il popolo l’ha respinta.

BERNARDO IOVENE Però ci deve essere una via d’uscita, non è che ognuno può fare quello che vuole. Adesso voi rifarete otto province. Tra l’altro - le faccio notare - in ognuna di queste province ci sono due capiluoghi perché ognuno non vuole sottostare all’altro… insomma è una barzelletta.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Guardi, dott. Iovene, noi questo elemento del doppio capoluogo non l’abbiamo vissuto come un trauma, anzi.

BERNARDO IOVENE Però ci dica i prossimi passaggi che voi farete.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA I prossimi passaggi… verrà depositata a giorni una legge.

BERNARDO IOVENE Quante province farete? Non me lo può dire?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA In linea di massima saranno sei più due aree metropolitane.

BERNARDO IOVENE Due?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Sì.

BERNARDO IOVENE E qual è la seconda?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Noi abbiamo due città che lo possono fare in Sardegna.

BERNARDO IOVENE Cagliari e Sassari.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Vede che ci è arrivato.

BERNARDO IOVENE E ci saranno le elezioni dirette.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Noi auspichiamo di sì.

BERNARDO IOVENE Quindi voi andate avanti.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Noi andiamo avanti, sì. “Ainanti e forza avaris!”

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Vanno avanti, nonostante la corte costituzionale ha già bocciato le elezioni dirette in Sicilia, e il governo non potrà fare a meno di intervenire impugnando la legge. Lo chiarisce molto bene il ministro competente.

BERNARDO IOVENE Quindi per quanto riguarda l’elezione diretta loro non possono attualmente farla?

RANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Non possono farla, gliel’abbiamo spiegato in tutti i modi. È il parlamento che deve decidere se l’elezione diretta va fatta. BERNARDO IOVENE Anche per le regioni a statuto speciale?

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Lo sanno, gli è stato spiegato più volte.

BERNARDO IOVENE No perché anche in Sardegna insistono su questo punto.

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE E gliel’abbiamo spiegato più volte: non significa non essere d’accordo, significa evitare che da un tipo di Arlecchino si vada a un altro tipo di Arlecchino.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Arlecchino ci sembra definizione giusta. Ma almeno lui ci faceva sorridere. Quello che invece è stato il tentativo di risistemare, di dare un nuovo sistema al territorio ha finito con il complicarlo. Non sono stati in grado di riempire di contenuti le alternative. E ora se chiediamo, anche ai politici, di conoscere quante sono, secondo loro, le province che sono rimaste sulle ceneri di quelle vecchie, dubito che otterremmo una risposta univoca. Anche noi siamo rimasti sorpresi, perché siamo andati a vedere nella pancia del Paese. Che cosa abbiamo contato? Settantasei province ancora rimaste nelle regioni ordinarie, due sono in Trentino Alto Adige, quattro in Sardegna, 6 liberi consorzi in Sicilia. L’unica che non le ha è il Friuli Venezia Giulia, ma come abbiamo visto le rivorrebbe. Ne è uscito un territorio dilaniato, frammentato, tra enti che non sono neppure in grado di parlare tra loro, perché un po’ di province le hanno anche trasformate in 14 città metropolitane. Poi un po’ le funzioni le hanno spalmate su vari enti. Addirittura su 301 agenzie regionali, 124 enti regionali, 44 agenzie regionali per l’ambiente, 572 unioni di comuni, 152 comunità montane, dovevano essere abolite pure loro, 149 consorzi di bonifica, 107 enti di governo per i servizi idrici e per i rifiuti. Ora sulle province c’è chi pensa di fare una marcia indietro e stanno anche valutando come restituire un po’ di soldi e, per una nemesi storica è costretto a cercarli anche chi, ferocemente, le aveva combattute, le voleva abolire. Questo da una parte. Dall’altra c’è invece chi vorrebbe tornare alle vecchie elezioni dirette, ma lì devi passare nella cruna dell’ago della Corte Costituzionale. Sul banco degli imputati, questa volta, è finito chi ha ideato la legge per abolirle: Graziano Delrio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sotto accusa è la legge 56 del 214 firmata Graziano Delrio. Oggi è capogruppo del PD alla camera, e nonostante il momento emergenziale non si sottrae a un confronto sulla sua legge. Cominciamo dal sistema elettorale.

BERNARDO IOVENE Qui tutti hanno nostalgia delle vecchie provincie… anche lei?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI No, ma la provincia esiste. Io… Di cosa stiamo parlando? La provincia esiste, ed è governata dai sindaci. Il pasticcio delle province - è che le regioni davano loro delle funzioni ma non gli davano i soldi. Adesso è il momento in cui l’ente deve ritrovare delle figure apicali dirigenziali.

BERNARDO IOVENE Lei è ancora convinto di questa rivoluzione mancata?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Io sono molto convinto e non sono d’accordo che sia una rivoluzione mancata.

BERNARDO IOVENE Beh, sono sei anni di sofferenze: strade, scuole…

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Adesso gli effetti dei vecchi tagli sono quasi tutti esauriti. Io lancio una sfida: giudichiamo la riforma adesso che i soldi sono stati rimessi.

BERNARDO IOVENE Però sono stati rimessi in percentuali che non hanno messo in grado le province di svolgere quelle poche funzioni rimaste.

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Dobbiamo mettere tutto in fila. Perché questo è il punto chiave.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il punto chiave è il prelievo forzoso iniziato dal governo Berlusconi, proseguito da Monti, e il colpo finale di Renzi. Oggi ironia della sorte la delega agli enti locali è del sottosegretario Variati in quel periodo era anche presidente dell’unione delle province.

ACHILLE VARIATI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL’INTERNO E io ero del Pd ed ero fieramente contrario. E glielo dissi al presidente Renzi. Gli dissi: “caro Matteo, guarda che ti sbagli qui i tagli che stai facendo sulle province sono irragionevoli perché finiranno col colpire i servizi”. È sbagliato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sbagliati erano i calcoli, perché erano superiori al bilancio stesso delle province.

MICHELE DE PASCALE - PRESIDENTE UNIONE PROVINCE ITALIANE Tre miliardi di tagli in tre anni, che erano superiori al bilancio complessivo delle province.

BERNARDO IOVENE Ecco come è possibile questa cosa qua? C’è stato un errore oppure c’è stata proprio l’intenzione di dire: vi togliamo tutto.

MICHELE DE PASCALE - PRESIDENTE UNIONE PROVINCE ITALIANE C’era una volontà politica di azzerare le province.

BERNARDO IOVENE Non è che lei non ha responsabilità in questi tagli che sono stati fatti?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Certamente, i tagli però erano mirati…

BERNARDO IOVENE Sono stati fatti i conti sbagliati. Questo si può dire che i conti erano sbagliati adesso?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Secondo me, se lei mi dice che i tagli erano troppo pesanti, a posteriori diciamo di sì. Erano basati su dei calcoli…

BERNARDO IOVENE Sbagliati.

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI In parte sbagliati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I conti sbagliati hanno lasciato le province senza soldi, e oggi a trovare ossigeno per strade e scuole deve essere il Ministero dell’Economia, la delega è al sottosegretario Castelli dei 5 stelle.

BERNARDO IOVENE Innanzitutto per voi le province devono esistere o non devono esistere?

LAURA CASTELLI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE Beh, oggi c’è una legge che dice che esistono e quindi in questo ministero, il ministero delle economie e finanze ci dobbiamo occupare di finanziare ciò che esiste, e soprattutto i servizi essenziali. Nel 2019 abbiamo messo 250 milioni annui e ogni anno dal 2020 al 2033. E quest’anno abbiamo programmato rete viaria e scuole, 3 miliardi e 4 per ognuna di queste due voci - e quindi arriviamo a 6 e 8 - sempre dal 2020 al 2034.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poche risorse perché spalmate su 15 anni, il problema resta il prelievo forzoso dei governi passati che continua a strozzare le province.

BERNARDO IOVENE Adesso continua ancora questo prelievo?

LAURA CASTELLI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE Guardi questa è una brutta storia che non è spiegabile. Non si riesce ad uscirne perché si dovrebbero usare moltissime risorse, e purtroppo ci sono degli errori che è molto difficile ripianare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Vista la disponibilità del nuovo governo, l’unione delle province ha redatto un piano nazionale, e ha presentato progetti per 4 miliardi.

MICHELE DE PASCALE - PRESIDENTE UNIONE PROVINCE ITALIANE Cioè non chiediamo fondi a pioggia, chiediamo fondi sui progetti. Noi abbiamo presentato con serietà al governo 1 miliardo e 8 di progetti sulle strade e 1 miliardo e 500 milioni di progetti sulle scuole.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Entro il 2020 comunque, il parlamento ha delegato il governo di fare un riordino degli enti locali. L’idea del ministro è dare le scuole ai comuni e le strade alle province, ma il disegno è ancora vago.

BERNARDO IOVENE Ma voi ci state studiando?

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Certo.

BERNARDO IOVENE Stiamo facendo sempre chiacchiere oppure lei si sta occupando di questo?

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Io di chiacchiere non ne ho mai fatte in vita mia. Guardi su questo tema il governo è consapevole che serve un riordino. E un riordino lo faremo: ovviamente è un riordino che va condiviso col Parlamento. Quello che voglio dirle è che lei non troverà – e se trova un ministro che dice: “Ora sono arrivato io e metto tutto a posto”, ne trova un altro come quei matti che hanno smontato tutto. BERNARDO IOVENE Quindi sta facendo autocritica diciamo.

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Io l’ho sempre fatta autocritica.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma un disegno al Parlamento bisogna portarlo. Proviamo allora al ministero dell’Interno dove il sottosegretario Variati che è stato presidente delle province italiane adesso siede sulla poltrona giusta per rimediare agli errori del passato.

ACHILLE VARIATI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL’INTERNO Adesso che mi trovo su questa scrivania, devo fare qualcosa.

BERNARDO IOVENE Eh, che cosa sta facendo? Che toppa… adesso tocca a lei metterci una pezza, no? Ci dica quali.

ACHILLE VARIATI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL’INTERNO Eh, quali…Ad esempio. uno: le funzioni. Oggi le province non hanno tutte le funzioni che dovrebbero avere. Perché non tieni in piedi un organo complesso come la provincia per strade e per scuole.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Province con più funzioni. Che è il contrario di quello che invece dice il ministro Boccia, che parla “di quei matti che hanno smontato tutto”. Si riferiva ai suoi vecchi compagni di partito, quelli che, come ammette anche Delrio, hanno anche sbagliato i conti nel quantificare il prelievo forzoso. Tanto che hanno lasciato in rosso le casse delle province, i dipendenti in Sicilia senza stipendio, senza soldi per pagare le bollette. E invece le province, in questo momento, potrebbero diventare una risorsa per il paese. L’Unione delle Province ha presentato, lo abbiamo detto, un progetto al premier Conte, per mettere in moto migliaia di piccoli cantieri e muovere due miliardi di euro di finanziamento. Sarebbe l’occasione per rendere più moderno il nostro paese e dare un po’ di ossigeno alle piccole imprese locali. Poi, finita l’emergenza, bisognerà anche decidere cosa fare delle province. Perché? Che cosa è stato fatto? Per eliminare una gestione che sembrava per lo più uno spreco, ne è stata creata un’altra che è diventata uno spreco totale perché non hai dato la possibilità di mettere in pratica quelle funzioni, limitate, che gli avevi lasciato. Eppure un occhio sul territorio, attento, servirebbe. È il caso della provincia di Massa e Carrara. Quello del viadotto di Albiano, che è crollato poche settimane fa. Era di competenza della provincia, ma, due anni fa, un accordo tra Regioni e Anas ha sfilato la competenza. Tuttavia la provincia di Massa e Carrara ha allertato più volte l’Anas del rischio di un crollo. L’Anas però ha ritenuto di rassicurare, ha detto: non c’è nessun pericolo. È finita così. Forse è la metafora giusta del pasticcio che è stato combinato in questi anni intorno alle province. E bisognerebbe avere il coraggio di mettere la parola fine. Il virus, in tema di sanità, ci ha, in questi mesi, in queste settimane, ricordato qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare in seguito a una politica di tagli dei presidi territoriali. In questo caso erano medici. Invece, anche per quello che riguarda la politica attuata sulle province è lo stesso caso. Se tu togli l’occhio dal territorio, il territorio rischia il degrado. Forse bisognerebbe avere il coraggio di cambiare metodo. Quando hai una gestione che non funziona, non fare i tagli perché la giudichi inutile. Prova a farla funzionare, magari mettendoci dei politici, degli uomini che abbiano delle qualità. Proviamo a cambiare. Una volta tanto. Non si sa mai. E adesso passiamo al derby: la nostra Giulia Presutti contro il commissario Arcuri. E che derby.

·        L’Insicurezza. Difendersi da Buoni e Cattivi.

Il caso denunciato da Amnesty. Due poliziotti condannati per i fatti del G8 di Genova sono stati promossi dal ministro Lamorgese e dal capo della Polizia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 3 Novembre 2020. I fatti del G8 di Genova del 2001, a oltre 19 anni di distanza, sono ancora oggi una ferita indelebile nella storia della Repubblica: la repressione violenta delle manifestazioni, la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” nella scuola Diaz sono macchie ancora ben presenti, così come i dubbi su vicende che ancora oggi non sono stati chiarite (nonostante le sentenze).

DUE POLIZIOTTI PROMOSSI – Ferite che si sono riaperte con il caso denuncia da Amnesty International Italia, la Ong  impegnata nella difesa dei diritti umani che ha segnalato come lo scorso 28 ottobre la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il capo della Polizia Franco Gabrielli hanno deciso di promuovere alla carica di vicequestore due agenti condannati in via definitiva per le vicende di Genova. La denuncia riguarda la posizione di Pietro Troiani e Salvatore Gava, entrambi condannati a 3 anni e 8 mesi di detenzione (più cinque di interdizione dai pubblici uffici): il primo per aver introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz, il secondo per averne falsamente attestato il rinvenimento come giustificazione per l’irruzione nell’edificio e come ricostruzione da fornire ai media.

L’IRRUZIONE ALLA DIAZ – L’assalto alla scuola Diaz fu uno degli episodi più sconcertanti dei quattro giorni di follia nel capoluogo ligure: tra il 19 e il 22 luglio 2001 furono numerosi gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti, con la morte di Carlo Giuliani il 20 luglio in piazza Alimonda. Uno degli episodi più cruenti fu senza dubbio l’irruzione delle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz, dove decine di persone furono picchiate dagli agenti, che procedettero a perquisizioni e arresti di massa. Una “macelleria messicana” accertata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2015 dichiarò che la polizia violò il divieto di tortura e di trattamenti inumani.

LA DENUNCIA DI AMNESTY – Per Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, “desta sconcerto il fatto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e, anzi, vengano promossi a ulteriori incarichi”. “In un periodo di grande tensione, nel quale sono bersaglio di azioni violente nelle strade italiane, le forze di polizia dovrebbero impegnarsi nel gestire le operazioni di ordine pubblico nel rispetto degli standard internazionali sui diritti umani. I loro dirigenti dovrebbero fare di tutto perché, proprio in momenti come questi, si rafforzi il rapporto di fiducia tra cittadini e forze di polizia. Decisioni come quelle del 28 ottobre rischiano al contrario di indebolirlo”, ha aggiunto Rufini. Promozioni che per Ruffini, “alla vigilia del ventesimo anniversario dei gravissimi fatti di Genova”, suonano come “un’offesa alle centinaia di persone che vennero arrestate, detenute arbitrariamente e torturate in quella pagina nera della storia italiana”.

Promossi due poliziotti condannati per il G8 di Genova, lo “sconcerto” di Amnesty, Arci e Leu. Il dipartimento: “Avanzamento automatico”. Il Fatto Quotidiano il 3 novembre 2020. È polemica per lo scatto di carriera Pietro Troiani e Salvatore Gava, nominati vicequestori. Per i fatti del 2001 i due poliziotti furono condannati in via definitiva a tre anni e otto mesi più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. La ong: "Decise il 28 ottobre dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli". Il dipartimento di Pubblica sicurezza: "Tutto ciò poteva essere evitato solo destituendo i funzionari, scelta che all’epoca non fu intrapresa dall’Amministrazione". Condannati per il G8 di Genova, promossi dalla polizia. È polemica per lo scatto di carriera Pietro Troiani e Salvatore Gava, nominati vicequestori. Per i fatti del 2001 i due poliziotti furono condannati in via definitiva a tre anni e otto mesi più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Amnesty International Italia in una nota ha espresso “sconcerto” per le promozioni, “decise il 28 ottobre dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli“. Sconcerto al quale replica il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, che in una nota precisa come l’avanzamento dei funzionari in questione sia “automatico e risponda ad una procedura amministrativa obbligata, laddove siano state scontate le sanzioni che erano state comminate. Tutto ciò – aggiunge la Polizia – poteva essere evitato solo destituendo i funzionari, scelta che all’epoca non fu intrapresa dall’Amministrazione, nè tantomeno l’Autorità Giudiziaria ritenne di irrogare l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Gli attuali incarichi assegnati rientrano nelle qualifiche ricoperte e nelle competenze possedute”. Amnesty ricorda che che Troiani era stato condannato con l’accusa di aver introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz, Gava per averne falsamente attestato il rinvenimento, “affinché tale scenario potesse costituire una giustificazione per la sanguinosa irruzione nell’edificio e una ricostruzione da fornire ai mezzi d’informazione”. “In un periodo di grande tensione, nel quale sono bersaglio di azioni violente nelle strade italiane, le forze di polizia dovrebbero impegnarsi nel gestire le operazioni di ordine pubblico nel rispetto degli standard internazionali sui diritti umani. I loro dirigenti dovrebbero fare di tutto perché, proprio in momenti come questi, si rafforzi il rapporto di fiducia tra cittadini e forze di polizia. Decisioni come quelle del 28 ottobre rischiano al contrario di indebolirlo“, ha dochiarato Gianni Rufini, direttore generale della ong in Italia. “Sostengo e condivido la posizione e lo sdegno di Amnesty International – Italia. È grave che siano concesse promozioni e avanzamenti a membri delle forze dell’ordine, rappresentanti dello Stato, già condannati per violazione dei diritti umani. Come chiediamo da tempo, serve introdurre i codici identificativi per le forze dell’ordine. E occorre farlo ora”, dice anche Erasmo Palazzotto, deputato di Leu. Un comunicato per esprimere “preoccupazione, sconcerto e incredulità” per le promozioni di due funzionari è stato diffuso anche da Arci nazionale, Arci Liguria e Arci Genova. Nella sua nota il dipartimento di Polizia dichiara l’amarezza per “la gratuità dei giudizi espressi, soprattutto da Amnesty Internazional Italia, nei confronti dell’attuale vertice del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e della Polizia di Stato che non solo ha fatto pubblica ammenda della pessima gestione dell’ordine pubblico in occasione di quel tragico evento, ma soprattutto, in questi anni, si è speso per stigmatizzare e sanzionare ogni comportamento non conforme al rispetto delle persone e anche in questi complicati momenti si spende affinché le forze di polizia assolvano al loro”.

Michele Galvani per "ilmessaggero.it" il 12/10/2020. Sono accusati di «reato continuato di lesione personale, pluriaggravato e in concorso»: per questo motivo tutti gli 8 sergenti, in forza presso il 70° Stormo dell'Aeronautica di Latina, sono stati rinviati a giudizio (udienza il prossimo 11 dicembre) nell'ambito dell'inchiesta legata al caso di Giulia Schiff, l'allieva ufficiale finita al centro di un caso - da lei sollevato - di nonnismo all'interno della caserma stessa. L'allieva è stata anche espulsa dall'accademia, cosa su cui pende ancora il giudizio del Tar del Lazio (previsto il 23 ottobre).

La storia. Giulia, veneziana, 21 anni, ha sempre avuto il sogno di volare: per questo, dopo l'Istituto tecnico aeronautico, si era presentata al concorso per l'ammissione di dieci allievi ufficiali di complemento dell'Aeronautica piazzandosi quarta su quasi 2.000 iscritti. Ed è qui, a Latina, che accade il fatto: viene presa a sberle, spinta con la testa contro una struttura metallica e infine gettata in una piscina e di nuovo colpita in testa dai suoi stessi commilitoni in quello che doveva essere un rito di iniziazione per gli aspiranti piloti dell'aeronautica. A denunciare tutto, con un video, è stata la stessa ragazza. Il procuratore militare della Repubblica Antonio Sabino, nel rinvio a giudizio degli otto imputati, tra le altre cose scrive: «Tutti i sergenti nel contesto di una celebrazione di tradizione goliardica denominata tuffo nella piscina del pingue, sollevavano da terra e trasportavano in posizione orizzontale, la paricorso sergente allievo ufficiale Schiff e, tenendola ferma per le gambe e le braccia, con dei fustelli di legno le infliggevano violenti colpi sul fondoschiena e pugni; quindi, le facevano urtare la testa contro la semiala in mostra statica posta in prossimità di una piscina, dove, infine, la gettavano: con tale condotta usavano violenza nei confronti della predetta sergente Schiff, cagionandole plurime escoriazioni ed ecchimosi ai glutei». Secondo il generale Stefano Fort, incaricato di indagare sul caso all'interno dell'Accademia, la Schiff ha manifestato «insofferenza alla disciplina, all'obbedienza, alla subordinazione, al rigore, alla puntualità e allo spirito di sacrificio necessari per intraprendere una carriera militare». Eppure, per l'avvocato che difende l'allieva, Massimiliano Strampelli, «c'erano stati uno o più briefing nei quali si minacciavano gli allievi dei vari corsi nel caso in cui avessero solidarizzato con lei». Il messaggio che vuole far passare Giulia (e la sua famiglia) è che non è una questione di vendetta: la ragazza ha voluto denunciare solo dopo aver preso coraggio. E poi perché «il suo gesto deve essere di esempio per tutti quei militari che ancora hanno paura di denunciare i soprusi di cui sono vittime», ha concluso l'avvocato. Nei giorni scorsi, il caso è arrivato all'attenzione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini: «Non ci sarà comprensione per eventuali comportamenti che, anche alla luce dei pronunciamenti ancora attesi, si rivelassero difformi dagli imprescindibili principi di correttezza, etica professionale e rispetto della dignità individuale». Proprio sul tavolo del ministro è finita anche un'interrogazione parlamentare di 25 senatori.

Aurelio Visalli, il militare eroe morto a Milazzo per salvare in mare due ragazzini spericolati. Il sottufficiale, secondo capo della capitaneria di Porto Guardia costiera, padre di due bimbi, si è tuffato per soccorrere un 15enne e un 13enne, ma non è più riemerso. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2020. Un’intera comunità, quella di Milazzo (Messina), soffre per la morte di un valoroso militare, padre di due bambini, scomparso tra i flutti per aver salvato con il suo coraggio la vita di due ragazzini di 15 e 13 anni che ieri, avventatamente, hanno deciso di fare un bagno, nonostante le condizioni del mare fossero severe e lo sconsigliassero vivamente. Aurelio Visalli, 40 anni, secondo capo presso la Capitaneria di Porto Guardia costiera di Milazzo, nonostante le onde impetuose e il forte vento, ieri mattina non ha esitato a tuffarsi in mare per soccorrere i due ragazzini, ma non ha avuto la forza di tornare a riva.

Le ricerche. Le ricerche sono proseguite per tutta la giornata di ieri. Stamani, con le prime luci dell’alba, i mezzi di vigili del fuoco, marina militare, guardia costiera e polizia hanno ripreso a pattugliare lo specchio d’acqua antistante la spiaggia di Ponente nella speranza di avvistare l’uomo, inghiottito dalle onde durante il salvataggio di uno dei due ragazzini che ieri si erano tuffati in mare nonostante la tempesta. Il corpo di Visalli è stato ritrovato intorno alle 8 di questa mattina nel mare antistante la cosidetta «puntitta», dove si erano concentrate le ricerche.

«L’ho visto mentre le onde lo portavano via». Un testimone dei fatti ha raccontato: «L’ho visto mentre le onde lo portavano via». Elicotteri e motovedette, oltre ad operatori da terra, hanno monitorato il litorale a lungo. Le speranze di ritrovare in vita l’uomo erano ridotte al lumicino. La furia delle onde ha ostacolato il lavoro dei soccorritori, rendendo impossibile la navigazione. Poi la tragica conferma. Adesso è il momento del lutto per la famiglia di Visalli, che era residente a Venetico con la moglie e i due figli in tenera età. Del lutto e delle accuse: il cognato sostiene che sulla vicenda ci siano troppi punti oscuri, dalle ricerche partite in ritardo all'attrezzatura insufficiente in dotazione: «Avevano solo un piccolo salvagente, si è dovuto tuffare in mutande». La vicenda ha scosso l’intera cittadina di Milazzo, tanta che la gente ha atteso in spiaggia l’esito delle ricerche, purtroppo terminate col ritrovamento del corpo.

Il coraggioso intervento di Visalli. Come segno di rispetto i candidati a sindaco avevano fermato le iniziative per la campagna elettorale, perché l’attenzione era tutta sulle sorti del 40enne. In base alle ultime ricostruzioni, i due ragazzini, 15 e 13 anni, avrebbero raggiunto la spiaggia intorno alle 9 di ieri mattina con l’intenzione di fare il bagno. La «puntitta» è anche meta di «prove del coraggio»da parte di ragazzini, perché dagli scogli vicini alla baietta si possono fare spericolati tuffi. Sembra che i due adolescenti abbiano avuto subito delle difficoltà, ma che uno di loro sia riuscito a tornare a riva mentre l’altro è rimasto in balìa delle onde. A dare l’allarme sono stati alcuni passanti che hanno notato la scena, chiamando immediatamente la guardia costiera. Sono quindi giunti tre operatori, tra cui Visalli, che hanno guidato il ragazzino ancora in acqua verso una boa lanciandogli un salvagente. Durante le operazioni il sottoufficiale sarebbe stato travolto da un’onda e portato via dalla forte corrente.

«Colpito da un'onda che gli ha fatto perdere i sensi». Secondo quanto riferito dai guardacoste, il sottufficiale sarebbe stato centrato in pieno da un’onda che gli avrebbe fatto perdere i sensi non riuscendo così a risalire sulla motovedetta. L’uomo che stamattina ha avvistato il cadavere racconta: «Ero a Tono con altre persone per dare una mano e abbiamo individuato dalla spiaggia il corpo in acqua, lo abbiamo riferito subito agli uomini della Guardia costiera che hanno poi recuperato purtroppo il cadavere del loro collega». I colleghi lo ricordano tra le lacrime: «Era una persona sempre disponibile e pronto a fronteggiare le problematiche lavorative quotidiane di tutti, sacrificandosi per gli altri. L’ultimo sacrificio lo ha fatto proprio ieri per aiutare quel ragazzo». Tutta la città di Venetico si stringe accanto alla famiglia, solo qualche settimana fa i cittadini erano sconvolti per la triste vicenda di Viviana Parisi e del piccolo Gioele Mondello, scomparsi e poi trovati morti a Caronia, ora anche la perdita di Aurelio . E anche Milazzo piange il suo eroe: diverse persone sono ferme davanti alla capitaneria di porto, consolando i colleghi dell’uomo.

Il cordoglio del capo dello Stato e del Governo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al comandante generale del corpo delle Capitanerie di porto, ammiraglio Giovanni Pettorino, un messaggio nel quale spiega di essere «rimasto particolarmente colpito dalla tragica scomparsa» di Visalli, e lo prega «di far giungere ai familiari di Visalli, così dolorosamente provati, e a tutto il personale del Corpo i miei sentimenti di cordoglio e di solidarietà». «La morte» di Visalli «unisce il Paese in un profondo dolore», ha detto il premier Giuseppe Conte. «Esprimo il mio cordoglio alla famiglia e rendiamo tutti merito al coraggio di un valoroso servitore dello Stato». cordoglio è stato espresso da tutti i componenti del Governo, a partire dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini: «Ricordiamo lui e tutte le persone che mettono il loro impegno e la loro vita al servizio dei cittadini e delle istituzioni».

In una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata un’immagine errata di Aurelio Visalli. L’agenzia Ansa ha fatto sapere che la foto sbagliata «è stata trasmessa per errore. La persona rappresentata non era la vittima ma un omonimo».

Milazzo, ritrovato il corpo del sottufficiale annegato per salvare un ragazzo. Di Maio annulla la visita. Fabrizio Bertè e Alberto Custodero su La Repubblica il 27 settembre 2020. Aurelio Visalli rinvenuto nella baia del Tono dove si erano concentrate le ricerche. Il cognato accusa: "Mandato allo sbaraglio". Il cordoglio degli esponenti del Governo, delle Istituzioni e del mondo della politica. Diventa un caso politico la morte da eroe di Aurelio Visalli, il sottufficiale della Guardia Costiera di Milazzo il cui corpo è stato ritrovato senza vita questa mattina, verso le 8.30 circa, nel mare antistante la baia del Tono, dove si erano concentrate le ricerche già da ieri e dall'alba di oggi. Il quarantenne di Venetico, sposato e con due figli, si era tuffato in mare ieri, nella tarda mattinata, verso le 12.30, nel tentativo di salvare un quindicenne che, assieme a un amico, aveva sfidato il mare tuffandosi per un bagno nonostante l'allerta meteo diramata. I due ragazzi erano rimasti in balia del mare in tempesta di Ponente, ma uno dei due era riuscito a raggiungere da solo la riva, mentre il secondo è stato tratto in salvo, dopo essere rimasto per oltre un'ora aggrappato a una boa, ed è stato poi portato in ospedale, al “Fogliani” di Milazzo, per le cure sanitarie necessarie. "La morte del sottufficiale della Guardia costiera Aurelio Visalli, che per salvare una giovane vita ha sacrificato la propria, unisce il Paese in un profondo dolore. Esprimo il mio cordoglio alla famiglia e rendiamo tutti merito al coraggio di un valoroso servitore dello Stato". Ha scritto in un post su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, quando ha saputo del ritrovamento del cadavere, ha annullato la sua visita a Milazzo prevista per la giornata. "Ci lascia da eroe. È una giornata triste per tutti noi. Un abbraccio e la solidarietà dello Stato alla famiglia". Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese ha espresso "profondo dolore". "Il gesto coraggioso del militare - ha aggiunto la responsabile del Viminale - evidenzia il sacrificio, l'altruismo e la generosità di chi opera quotidianamente nel nostro Paese per la sicurezza e la tutela della incolumità dei cittadini". "Ricordiamo lui e tutte le persone che mettono il loro impegno e la loro vita al servizio dei cittadini e delle istituzioni" dichiara il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. "Scomparso mentre stava compiendo la missione più nobile assegnata alla Guardia Costiera: salvare vite umane" twitta il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli. Il Questore della Camera e presidente della Direzione nazionale di Fratelli d'Italia Edmondo Cirielli auspica che "il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli conferisca la Medaglia d'oro al valore". Il presidente del Parlamento siciliano, Gianfranco Miccichè, in un post Facebook annuncia che "martedì l'assemblea regionale osserverà un minuto di silenzio in suo onore". Grande dolore", "profondo cordoglio" e "vicinanza alla famiglia" arrivano dal ministro dell'Ambiente Sergio Costa.  "Ci sono storie di eroi che purtroppo non hanno un lieto fine" commenrta il presidente di Italia viva Ettore Rosato. "Una notizia che fa male al cuore. Un eroe che l'Italia non deve dimenticare" scrive su Facebook la leader di Fdi, Giorgia Meloni. "Un esempio di abnegazione e sacrificio" afferma il senatore del Pd Salvatore Margiotta, sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti. "Una preghiera lo accompagni" scrive su Twitter Maria Tripodi, capogruppo di Forza Italia in Commissione Difesa a Montecitorio. "Condoglianze e un forte abbraccio alla sua famiglia" twitta Antonio Tajani vicepresidente di Forza Italia. "Cordoglio" è poi stato espresso dal Partito democratico, dal Dipartimento della Protezione civile, dai parlamentari del M5S, dal sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, dallo Stato Maggiore della Difesa e da Carmelo Miceli, deputato del Partito democratico e responsabile sicurezza nella segreteria del pd.

Le accuse del cognato: "Mandato in mare solo col salvagente". E ora è polemica sui soccorsi. "Non potevano uscire con la motovedetta e li hanno mandati in mare senza equipaggiamento - accusa il cognato Antonio Crea, sentito dalla Tgr Rai Sicilia - con la divisa normale, solo con un salvagente... per non bagnare la divisa si sono gettati in acqua in mutande. Hanno tentato di lanciare il salvagente per salvare la persona difficoltà che è riuscita a tornare a riva. Dei tre, uno è rimasto travolto dalle onde: è scomparso e nessuno l'ha cercato sul momento...". La procura di Barcellona Pozzo di Gotto ha aperto un fascicolo.

La cronaca: il primo allarme dall'ex calciatore Beninato. Il primo a lanciare l'allarme era stato l'ex calciatore Gaetano Beninato: “Mi trovavo a casa di mio zio dopo aver lasciato la mia compagna al lavoro e dal balcone di casa sua ho visto i due ragazzi in acqua in difficoltà - ha raccontato - ho immediatamente chiamato i carabinieri e la capitaneria di porto e mi sono lanciato in spiaggia, ma il mare era davvero terribile e aveva raggiunto la strada, mangiandosi totalmente la spiaggia". "Le onde - ha aggiunto - erano talmente violente che ti travolgevano, non avevo mai visto niente del genere. La cosa che mi fa male maggiormente è che per un gesto sconsiderato a rimetterci la vita sia stato un padre di famiglia. Per un attimo ho anche pensato di tuffarmi, ma non c'erano proprio le condizioni per farlo”.

Il post cancellato. E' stato cancellato da Facebook il post di uno dei ragazzini soccorsi in mare dal militare della Guardia costiera annegato, che ha indignato il popolo dei social. "Sono sano e salvo, mentre facevo le capriole in spiaggia, a me al mio amico ci prende in pieno un'onda e mi trascina al largo. Nessuno si è buttato, quindi prima di dire che qualcuno è morto per salvare me...Cazzate". Sui social c'è anche un video di uno dei due ragazzi che racconta di essere stato travolto e portato in mare aperto da un'ondata e di essersi salvato da solo riuscendo a tornare a riva.

Dal ''Corriere della Sera'' il 28 settembre 2020. L'hanno ripescato senza vita i suoi colleghi della Capitaneria, a poche bracciate dalla spiaggia di Milazzo. Con la stessa motovedetta sulla quale Aurelio Visalli faceva il motorista, pronto ad andare ben oltre i suoi compiti per soccorrere chiunque ne avesse bisogno. Come ha fatto sabato quando è scattato l'allarme per due 15enni che non riuscivano a tornare a riva per le onde alte 7 metri. Uno dei due adolescenti, il più vicino alla costa, infine ce l'ha fatta. Ma l'altro, trascinato dalla corrente, rischiava d'affogare e si è aggrappato a una boa. Aurelio Visalli, giunto sul posto da terra dopo l'allarme con altri due sottufficiali, gli ha lanciato un salvagente che s' erano portati dalla Capitaneria. Solo quello. In costume, senza nemmeno un giubbotto salvagente, riferiscono i parenti che si chiedono se questa tragedia si poteva evitare. I due ragazzi sono tornati a casa. Visalli no. Un'onda altissima s' è abbattuta su di lui, scomparso in un lampo alla vista. Se ne è andato così, a 40 anni, il sottufficiale inghiottito dalla sua generosità, come adesso dicono con rabbia i colleghi. Rabbia anche per quel gesto sconsiderato dei due ragazzini che ha reso necessario l'intervento di Visalli. «Dovrebbero essere portati ad osservare il risultato delle loro gesta sconsiderate», dice un amico della vittima. Da vent' anni nella Guardia costiera, secondo capo, motorista, viveva con la moglie Tindara e i due figli piccoli a Venetico, piccolo centro del Messinese da agosto in prima pagina perché da una casa vicina partì Viviana Parisi con il piccolo Gioele. In tanti ora rendono onore al sacrificio del sottufficiale. Tanti anche i dettagli da chiarire sulla morte di «quest' uomo buono, innamorato del suo lavoro e dei suoi figli», dice il cognato Antonio Crea. Un uomo che amici e colleghi commossi ricordano come «generoso e disponibile». Dettagli da chiarire anche per la polemica sui soccorsi che sfocia stamane in un esposto affidato dalla moglie agli avvocati Tommaso Calderone e Sebastiano Campanella, pronti a porre domande sui tanti dubbi dei familiari, compresi quelli relativi al tempismo delle ricerche. Dalla politica il cordoglio è unanime. Il premier Giuseppe Conte «rende merito» al coraggio di Visalli, la ministra degli Interni Luciana Lamorgese ha rimarcato «il sacrificio e l'altruismo», il collega degli Esteri, Luigi Di Maio, ha annullato la sua visita in zona e sottolineato come il militare «ci lascia da eroe».

Dall'articolo di Berté-Palazzolo per ''la Repubblica'' il 28 settembre 2020. La prima cosa che ha fatto il ragazzino quando i medici l’hanno dimesso dal pronto soccorso è stato un post su Facebook e Instagram. Ma non per ringraziare chi aveva sacrificato la propria vita per salvarlo, piuttosto per prenderne le distanze. Ecco cosa ha scritto il quindicenne: “Ragazzi apposto, sono sano e salvo. Mentre facevo le capriole in spiaggia, a me e al mio amico ci prende in pieno un’onda e mi trascina al largo, nessuno si è buttato, quindi prima di dire che qualcuno è morto per salvare me, cazzate”. La famiglia di Visalli è indignata. “È un messaggio ignobile, che non ha rispetto della morte di un eroe”, dice il cognato del sottufficiale (…) “Li denunceremo quei ragazzini, per omicidio colposo”, ripete (…) “Non si possono scrivere quelle parole”. Sui social, si è scatenato un tam tam di polemiche contro quel post, subito cancellato. Ma, intanto, anche un amico del ragazzo, che di anni ne ha 13, pure lui rimasto fra le onde sabato mattina, rilanciava su Instagram: “Sono vivo, merde”. E un altro messaggio ancora per difendere il compagno: “Ve la racconto io la verità, facevamo le capriole sul bagnasciuga e un’onda ci ha trascinato al largo. Io sono riuscito ad uscire e a chiamare il 118, il mio amico si è aggrappato ad una boa”. Altri insulti del popolo del web, fino a quando ieri pomeriggio è apparso un messaggio che ha tutto il sapore di essere stato suggerito: “Nessuno è più dispiaciuto di me per quello che è successo, ho pregato fino adesso per quel soccorritore”».

Felice Cavallaro per il ''Corriere della Sera'' il 28 settembre 2020. Abbraccia la bara avvolta nel tricolore e sussurra la sua rabbia dicendo che il marito, Aurelio Visalli, «non è morto per una fatalità, ma per l'incompetenza di chi l'ha mandato a salvare due ragazzi senza un giubbotto, senza funi, senza mezzi...». È questa la verità di Tindara Grosso, avvilita perché si sente tradita da quella Patria che il marito citava ogni mattina, uscendo da casa. Che cosa diceva? «Un bacio a me, uno al piccolo e, nella sua divisa bianca, ripeteva ogni mattina a Riccardo, il grande: "Papà va a difendere la Patria"... Ma la Patria non l'ha difeso, l'ha mandato allo sbaraglio e nessuno ha avuto il pensiero di fare nemmeno una telefonata a me che ho scoperto di avere perso il mio eroe solo da una tv privata, correndo su Internet, chiamando io la Capitaneria... No, basta, parli con mia sorella Francesca...». E parla la cognata del motorista travolto da un'onda anomala quando i due ragazzi da soccorrere erano già in salvo. Parla Francesca Grosso, accanto al marito Antonio Crea, comandante dei vigili nella loro Venetico, da dove hanno deciso di rivolgersi agli avvocati Tommaso Calderone e Sebastiano Campanella dopo essere stati chiamati per primi a riconoscere il corpo del cognato.

Anche in un esposto alla Procura ponete quindi l'accento sull'incompetenza?

«Mio cognato, uomo razionale, conosceva il pericolo. Sulle motovedette, da Lampedusa alla Maddalena, ha partecipato a centinaia di salvataggi. Ha recuperato corpi in alto mare. Non è possibile che sia stato inghiottito da un'onda a riva. Ecco perché vorremmo parlare con i due testimoni».

Si riferisce agli altri due sottufficiali mandati per il soccorso sulla spiaggia di Milazzo?

«Due colleghi che non ci fanno incontrare. Arrivano ufficiali con alti gradi e facce compunte. Ma quando chiediamo di parlare con i due militari si chiudono le porte. Li hanno mandati tutti e tre a salvare gli scampati in mutande, lasciando le divise sulla sabbia, senza attrezzi, senza funi o giubbotti. Cosa sia veramente accaduto non vogliono dirlo».

Coglie imbarazzi?

«Enormi. Anche quando rimproveriamo i vertici della Capitaneria di non avere avvertito casa. Ma soprattutto per avere organizzato un soccorso con un ciambellone. Ogni lavoratore va messo in condizioni di sicurezza. Figurarsi quando dei militari vengono chiamati per ruoli diversi dal proprio. Aurelio era motorista di una motovedetta. Coinvolto invece in un'operazione di terra, senza gli attrezzi che anche un bagnino ha».

La camera ardente allestita in Municipio però è il segno di un'attenzione generale.

«La camera ardente c'è perché l'abbiamo chiesta io e mio marito. Dieci minuti dopo il riconoscimento, ci hanno detto di portare la salma a casa. Per loro dovevamo pure sbrigarci. No, Aurelio merita l'attenzione di tutti perché è caduto da eroe. E adesso cominciano a dirlo in tanti...».

Dai vertici della Difesa e delle capitanerie è arrivata massima solidarietà.

«A noi serve quella concreta. L'unica cosa che chiediamo è di vedere i due ragazzi che erano con Aurelio. Anche se il loro comandante s' è lasciato sfuggire che "non potevano rischiare la vita per lui, facevano gli amministrativi". A conferma dell'incompetenza. E sicuramente delle lacune anche sul piano delle ricerche andranno spiegate». Ritenete che anche le ricerche siano state lente? «Usiamo pure questo eufemismo, come dicono gli avvocati. Sabato pomeriggio chi c'era in spiaggia e in acqua a cercare Aurelio? Tanti non hanno visto nessuno. Inaccettabile. Ecco perché pensiamo all'autopsia. Per capire se c'era invece la possibilità di salvarlo».

Visalli non è morto annegato, ma travolto da un’onda. L'autopsia svela l'ultimo gesto del guardacoste eroe. Pubblicato mercoledì, 30 settembre 2020 su La Repubblica.it da Salvo Palazzolo. Aurelio Visalli, secondo capo della Guardia Costiera di Milazzo, è caduto da eroe. Sfidando onde altissime, per provare a raggiungere il quindicenne che stava per annegare. Questo dice l’autopsia effettuata ieri pomeriggio: il sottufficiale non è morto annegato, ma per il forte trauma causato da un’onda, che lo ha scaraventato sul fondale. Le ferite sono state fatali. Aurelio Visalli era andato più avanti rispetto agli altri due colleghi intervenuti sulla spiaggia. Un video fatto da un testimone ha ripreso l’inizio di quella drammatica operazione di salvataggio. Poi, all’improvviso, il video si interrompe. Pochi istanti dopo, Visalli viene colpito mentre prova ad avanzare dentro un muro di acqua altissimo. Quel muro da superare a tutti i costi. “In quel momento io urlavo: ‘Non venite, non venite, è troppo pericoloso’ – ha raccontato a Repubblica il quindicenne in balia delle onde - Ma lui si è buttato lo stesso, anche se mi ha sentito, ne sono sicuro. Secondo me in quel momento ha agito da padre”. Visalli uomo generoso. Ogni mattina, quando usciva da casa diceva: “Vado a difendere la patria”. La difendeva in mare. A Lampedusa, aveva salvato migranti; in Sardegna dei bagnanti. “Una figura di uomo esemplare”, ribadisce l’avvocato Sebastiano Campanella, che assiste la famiglia in questa drammatica vicenda. “L’autopsia ha offerto dati importanti, ma siamo ancora all’inizio di un percorso, vogliamo che si faccia piena luce su questa vicenda, soprattutto sulla gestione dell’operazione di salvataggio". La famiglia Visalli punta l’indice contro i superiori del proprio congiunto: “L’hanno mandato a morire – dice il cognato del sottufficiale, Antonio Crea – non erano affatto attrezzati per quel tipo di intervento". Ora, dopo l’autopsia effettuata dal medico legale nominato dalla procura di Barcellona, Elvira Ventura Spagnolo (la famiglia ha nominato come consulente di parte Alessio Asmundo), la salma verrà restituita. I funerali, probabilmente domani, nel duomo di Milazzo.

Da today.it il 15 settembre 2020. Un militare della Guardia di Finanza che lavora alla segreteria di Palazzo Chigi è stato arrestato domenica sera dopo aver preso a calci, pugni e morsi due squadre della polizia perché non voleva consegnare i documenti. La storia, racconta il Messaggero, è cominciata non lontano dal Grande Raccordo Anulare dove il finanziere è stato fermato dopo aver imboccato lo svincolo per la Bufalotta e aver fatto un'inversione a U: quattro agenti della polizia lo hanno fermato e gli hanno chiesto i documenti. La risposta di lui è stata: "Sono un collega, tutto a posto". Ma i poliziotti gli hanno chiesto lo stesso di farsi identificare. E qui scatta la follia: Dopo una serie di battutacce, prende dal portafogli, ma senza consegnarlo, solo il tesserino di servizio: Guardia di finanza. Poi scende dall’auto e scatena il parapiglia. Un agente viene preso a morsi a una mano, uno riceve un calcio, un altro un pugno. «Per contenerlo lo abbiamo dovuto ammanettare», ha raccontato quasi dispiaciuto al giudice un agente di polizia. Ieri il finanziere è stato portato in aula a piazzale Clodio per essere processato. Era in stato d’arresto con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Un arresto convalidato, nonostante la sua estenuante autodifesa. «Non è vero nulla», ha premesso il finanziere. «Sono stato maltrattato. Non avrei mai immaginato. Mi hanno puntato un faro in faccia e provocato, mi hanno detto: tu collega? Al massimo sei un controllore di scontrini». Gli agenti hanno una versione diversa. Secondo loro lui gli avrebbe detto: "Sono un finanziere, siamo colleghi. Non vi basta? Provocate? Sono anche figlio di un alto dirigente. La vostra carriera è finita. Volete finire a Crotone? Volete che vi faccio fuori?". Un agente, in aula, ha riferito di essersi sentito dire pure "Vi ammazzo". La sera stessa, informato dell’accaduto, il pm Carlo Villani ne ha ordinato l’arresto. Il pm d’aula, Donatella Plutino, non ha chiesto per il militare misure cautelari. E il giudice ha disposto l’immediata liberazione.

Da leggo.it l'8 settembre 2020. Ha staccato con un morso il dito di un poliziotto e lo ha ingoiato: non è una scena dall’ultima stagione di Prison Break, ma la realtà avvenuta nel carcere di Rebibbia, dove un agente ha perso un dito dopo l’aggressione da parte di Giuseppe Fanara, boss di Cosa Nostra detenuto da 9 anni al 41 bis dopo una condanna all’ergastolo. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano Il Messaggero, in seguito ad un controllo il boss ergastolano ha perso la testa e ha aggredito sette agenti della polizia penitenziaria: ad avere la peggio è stato uno dei sette, a cui ha staccato con un morso il mignolo della mano destra, che non è stato ritrovato (ipotesi degli inquirenti è appunto che lo abbia inghiottiti). A Fanara è stata notificata una nuova misura cautelare per resistenza, lesioni aggravate e lesioni gravissime. Durante l’aggressione avrebbe anche usato le parole per spaventare le guardie carcerarie: brandendo un manico di scopa, avrebbe urlato «vi sgozzo come maiali». Fanara è stato ora trasferito a Sassari in un carcere di massima sicurezza.

"Vi prego basta, non respiro più": così Willy è stato ucciso di botte da una gang. Il 21enne di origine capoverdiana voleva difendere un amico. La tragedia nella notte di sabato a Colleferro Quattro giovani arrestati, con precedenti e vicini a gruppi di estrema destra. Una testimone: "Come belve". Federica Angeli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. È morto per difendere un suo ex compagno di scuola. È morto massacrato da calci alla testa, ginocchiate allo sterno, pugni ai fianchi. È morto sotto lo sguardo attonito e spaventato di passanti che non si capacitavano di tanta crudeltà e implorando i suoi quattro assassini di smetterla. "Non dimenticherò mai le grida di quel ragazzino - dice con la voce strozzata una donna che abita vicino a dove è accaduta la tragedia - Diceva "basta, vi prego, basta, non respiro più". Povera creatura. Quelli erano dei diavoli, non esseri umani, delle furie. Quando hanno finito di picchiarlo sono scappati su un Suv come niente fosse. Tutto quello che abbiamo potuto fare è stato prendere il numero di targa e chiamare i carabinieri ". La notte di follia che ha portato alla morte di Willy Monteiro Duarte, un ragazzo di 21 anni, è cominciata tra sabato e domenica in via Oberdan, la via della movida di Colleferro, cittadina a un'ora da Roma. Una vicenda terribilmente simile a quella di Emanuele Morganti, massacrato e ucciso dal branco tre anni fa, nella piazza di Alatri. Il ragazzo, di origine capoverdiana e residente nella vicina Paliano, era uscito assieme a quattro suoi amici e aveva trascorso gran parte della serata nel locale "Due di picchi", uno dei tanti sul corso principale di Colleferro, vicino alla piazza centrale. Attorno all'una lui e il resto degli amici hanno lasciato il pub per andare a fare un giro nel paese ma Willy ha notato che un suo ex compagno di classe era in difficoltà. Dall'altro lato della strada stava discutendo animatamente con un coetaneo che lo spingeva e "col volto si avvicinava minaccioso, come se volesse dargli una testata", dice un altro testimone. Willy non ha chiuso gli occhi di fronte a quella scena e senza pensarci su ha attraversato la strada per soccorrere l'ex compagno. Si è messo tra i due, ha allontanato l'aggressore che però ha preso il cellulare e ha avvertito il resto della sua comitiva. In tre minuti un Suv nero è arrivato sgommando, sono scesi in tre, lasciando aperti gli sportelli, e insieme al quarto che era già lì, hanno cominciato ad aggredire il ventunenne e gli altri presenti. Tutti però sono riusciti a scappare, tranne Willy. Che è finito a terra dopo calci allo sterno e al volto: "Sembravano mosse di arti marziali", spiega ancora la donna residente a pochi metri dal luogo dell'omicidio. Il pestaggio si è concluso solo quando Willy ha smesso di respirare. "Quelle persone sono delle bestie perché solo così si possono definire - si sfoga il padre di uno dei ragazzi che era con Willy, riuscito a scampare all'aggressione - Hanno iniziato ad aggredire tutti i presenti. Mio figlio e gli altri sono riusciti a scappare, il povero Willy è rimasto a terra. Lo hanno pestato a sangue, tutti contro uno. Vigliacchi. Mio figlio era molto amico di Willy ed è sotto shock. Quel povero ragazzo è morto perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato", ha concluso l'uomo. Quello che i passanti hanno fatto, paralizzati da tanta violenza e incapaci di intervenire, è stato avvertire le forze dell'ordine, fornendo targa e modello dell'auto. L'intervento dei carabinieri è stato immediato e nel giro di pochi minuti hanno arrestato in flagranza gli assassini ad Artena, paese in cui vivono. Si tratta di Mario Pincarelli 22 anni, Francesco Belleggia di 23, Marco e Gabriele Bianchi rispettivamente di 24 e 26 anni. Tutti hanno precedenti, chi per lesioni e chi per spaccio. Conosciuti ad Artena perché praticanti di sport da combattimento e vicini ad ambienti di estrema destra i quattro erano ancora sporchi del sangue della vittima. L'accusa con cui sono stati arrestati è omicidio preterintenzionale. Il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri, ha dichiarato il lutto cittadino e tutto il mondo politico, da destra a sinistra, ha espresso vicinanza alla famiglia per una tragedia disumana, di cui nessuno si capacita.

La lunghissima agonia di Willy. Cosa è successo in 20 minuti. Un carabiniere fuori servizio è stato l’unico a soccorrerlo. I vicini hanno allertato il 112 dopo mezz’ora. Valentina Dardari, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. I killer hanno ucciso Willy Monteiro Duarte in 20 minuti. Calci e pugni al 21enne solo perchè aveva provato a difendere un amico. Willy è stato massacrato di botte dai suoi aggressori in pieno centro a Colleferro, nella zona a sud della Capitale. Adesso la posizione dei 4 killer arrestati si sta aggravando.

Omicidio volontario. Si tratta di Mario Pincarelli di 22 anni, Francesco Belleggia di anni 23, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni, e di un quinto amico, che per il momento risulta solo indagato. Uno di loro quattro verrà probabilmente accusato di omicidio volontario, e non più preterintenzionale. Ancora però non è stato reso noto il nome del giovane. Il cambio del capo di imputazione sarebbe dovuto al racconto di alcuni testimoni che hanno assistito al massacro. Prima un calcio in pancia, poi un pugno in testa e infine Willy è stato lasciato per terra, esanime. Oggi è previsto l’esame autoptico sul corpo del 21enne e con ogni probabilità andrà a confermare quanto raccontato dai testimoni. I primi esami medici hanno parlato di frattura alla testa ed emorragia all’addome. Toccherà adesso ai carabinieri di Colleferro riuscire a capire cosa abbia davvero scatenato la furia omicida da parte dei quattro killer. Secondo una prima ricostruzione uno dei quattro picchiatori aveva iniziato a litigare con un ragazzo che avrebbe, secondo quanto raccontato da uno degli arrestati, lanciato uno sguardo, o messo un like, di troppo a una ragazza. Willy sarebbe quindi corso in aiuto dell’amico e il branco avrebbe cominciato a picchiarlo violentemente, fino a ucciderlo.

La ricostruzione. Nuovi dettagli contenuti in sei verbali si aggiungono alla ricostruzione di quanto accaduto. La tragedia sarebbe avvenuta verso le due e un quarto all’esterno di una pizzeria in largo Santa Caterina. La lite, scoppiata all’interno del locale, sarebbe poi degenerata in un giardino pubblico di fronte al ristorante. Secondo quanto ricostruito, Willy e alcuni amici sarebbero usciti dalla pizzeria alle 2.40, per raggiungere la vettura parcheggiata vicino al parco. Il 21enne si sarebbe quindi accorto della rissa e del suo ex compagno di scuola aggredito da quattro ragazzi. Il 21enne decide allora di correre in soccorso dell’amico, mettendosi tra lui e il Pincarelli. A quel punto torna anche Belleggia che si era allontanato per chiamare i fratelli Bianchi, e inizia la rissa. Le luci del giardino vengono disattivate, come scoperto in seguito dal giardiniere, e le telecamere di sicurezza presenti non riescono così a riprendere chiaramente quanto avviene nel parchetto. All’arrivo dei due fratelli la situazione va peggiorando: iniziano a picchiare forsennatamente chiunque, anche Willy, forse credendolo parte del gruppo preso di mira inizialmente. Due giovani riescono a scappare, un terzo viene invece raggiunto da un pugno in pieno volto. Un altro scappa e si nasconde dietro un’automobile. Willy resta solo contro i quattro palestrati e dopo venti minuti di calci e pugni soccombe. Anche una volta stramazzato sull’asfalto i suoi aggressori continuano a colpire duro.

I soccorsi allertati dopo mezz'ora. Sono ormai le tre del mattino quando la moglie del comandante della stazione di Colleferro sente le grida e provenienti dal parco, poco lontano dal suo alloggio. La donna sveglia il marito che corre in strada. "Quando sono arrivato giù quel ragazzo era già a terra, ferito, ma ancora cosciente. Gli ho accarezzato il volto e gli ho detto di stare tranquillo perché i soccorsi sarebbero arrivati presto. Poi ho fatto qualche domanda ai presenti, che mi hanno mostrato una foto degli aggressori, dato modello e targa del Suv. Ho capito da subito chi si trattava, ho chiamato i soccorsi e diramato le informazioni alle pattuglie di zona" ha poi raccontato il comandante. Gli inquirenti hanno rivelato che il militare è riuscito a gestire tutto da solo, anche perché le altre persone presenti erano come immobilizzate, solo dopo mezz’ora sono riuscite ad allertare i soccorsi e il 112. Dopo neanche due ore il gruppo viene fermato in un altro locale, di proprietà della famiglia Bianchi, ad Artena. Hanno anche avuto il tempo di postare dei video-umoristici su Facebook. I quattro, più un loro amico indagato, vengono quindi trasferiti in caserma, raggiunti poi dai loro genitori.

Omicidio Willy, il carabiniere: “Gli ho detto che sarebbe andata bene”. Notizie.it l'08/09/2020. Omicidio Willy, il racconto delle ultime ore del ragazzo fornito dal carabiniere che lo ha soccorso. Il maresciallo maggiore dei carabinieri, Antonio Carella, comandante della stazione di Colleferro, è stato il primo a soccorrere Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni massacrato di botte e vittima dell’omicidio messo in atto da un gruppo di delinquenti della zona. “Ho stretto la mano a quel ragazzo che era a terra e gli ho fatto una carezza. Gli ho detto che sarebbe andato tutto bene e che i soccorsi sarebbero arrivati presto”. Il racconto è affidato al capitano Ettore Pagnano che comanda la compagnia di Colleferro e che domenica ha interrotto le sue ferie per rientrare d’urgenza a coordinare al meglio le indagini sulla terribile tragedia. “È stato lui (Carella, ndr.) il primo a intervenire, ed è stato lui a far partire tutte le indagini e a consentire l’arresto in flagranza dei quattro”, spiega il capitano Pagnano. Le chiamate al 112, infatti, sono arrivate soltanto molto dopo e per sollecitare l’intervento dei soccorsi. “Ero nel mio alloggio di servizio, vicino al luogo in cui è avvenuto il fatto – racconta il maresciallo maggiore Carella – ho sentito delle grida, urla, molto chiasso. Mi sono alzato immediatamente e mi sono infilato la prima cosa che ho trovato. Sono quindi sceso in strada e ho trovato Willy Monteiro Duarte steso per strada, visibilmente ferito ma ancora cosciente. Con una mano ho cercato di dargli conforto e rassicurarlo, con l’altra ho chiamato in caserma per farmi dare supporto di uomini e immediatamente ho richiesto l’intervento del 118. I quattro ragazzi di Artena erano già fuggiti sul Suv, ma attorno al ventunenne ferito si era formato un capannello di persone”. “Ho iniziato a interrogare le persone presenti – ha aggiunto il maresciallo – ragazzi amici del giovane steso a terra ed esercenti della zona e ho chiesto chi e cosa avessero visto. Due di loro mi hanno dato indicazioni precise sul modello dell’auto e sulla targa. Ho capito subito quindi di chi si trattava. Ho diramato modello e targa alla centrale e detto di spostarsi subito a cercare ad Artena perché ero quasi certo che si trattasse proprio di loro”. I quattro erano già noti alle forze dell’ordine per aver creato risse e problemi a Colleferro. “Quando è arrivata l’ambulanza a lo hanno caricato sulla lettiga lo vedevo spento – ha concluso il maresciallo Carella – Prima che i portelloni si richiudessero ho visto il medico che tentava di rianimare il ragazzo facendogli un massaggio cardiaco. È l’ultima immagine di Willy che ho”.

Willy Monteiro, il maresciallo che l'ha soccorso: "Tra le scene più cruente che abbia mai visto". Libero Quotidiano il 10 settembre 2020. Non ha mai visto niente di simile Antonio Carella, il maresciallo tra i primi a soccorrere Willy Monteiro. "Una scena disperata, tra le più cruente della mia carriera”, ha ammesso amareggiato al Corriere della Sera, descrivendo quanto accaduto nella notte tra sabato e domenica a Colleferro, Roma. Il tutto è iniziato alle 3,30 quando alcune grida, diverse dal frastuono ordinario, salgono fino all’alloggio di servizio del caporale. Pochi minuti e il carabiniere, 53 anni, è in strada, davanti all’aiuola che si affaccia in largo Santa Caterina. Qui l'uomo vede una decina di ragazzi attorno a Willy, già riverso a terra. Un giovane prova a farlo respirare estraendogli la lingua dalla bocca. Ma nulla, Willy non reagisce. Nel frattempo Carella chiama i soccorsi e i colleghi: “Non ho mai perso il contatto con i ragazzi che si erano radunati attorno a Willy”, ma - spiega - c'era un'auto che “a palla”, si è fatta largo nel centro di Colleferro. Così il carabiniere intuisce che il Suv c'entra qualcosa e che bisogna cercarlo al più presto. Un ragazzo del luogo è addirittura riuscito a fotografare la macchina dalla quale sono scesi i fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, entrambi in arresto. "Sono rimasto accanto a Willy tutto il tempo necessario finché non lo hanno portato via. Ero in pena per lui come fosse un figlio, invitandolo a resistere, a tenere duro”. Purtroppo non è bastato.

"Così ho soccorso Willy, una scena disperata". Il racconto del maresciallo dei carabinieri che per primo ha soccorso Willy: "Gli ho stretto la mano...ero in pena come per un figlio". Martina Piumatti, giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Le chiamate al 112 sono arrivate molto dopo. Il primo a soccorrere Willy Monteiro Duarte è stato il maresciallo Antonio Carella. Alle 3,30 di domenica il carabiniere, 53 anni, stava dormendo nell'alloggio di servizio, quando delle grida diverse dal soliti schiamazzi dei fine settimana lo svegliano. Carella si alza subito, indossa la prima cosa che trova e in pochi minuti è in strada, davanti all'aiuola in largo Santa Caterina a Colleferro. Una decina di persone si muovono attorno a un ragazzo steso in terra, ormai quasi incapace di respirare. Si tratta di Willy Monteiro Duarte. Il ventunenne era già stato aiutato da Marco Romagnoli, un giovane di Colleferro che, per farlo respirare, ha tentato di estrargli la lingua dalla bocca, schiaffeggiandolo sul viso per capire se fosse cosciente. Ma niente, nessuna reazione. Il maresciallo descrive la scena come "disperata, tra le più cruente dei tanti anni passati in servizio". Antonio Carella con una mano cerca di rassicurare Willy: "Ho stretto la mano a quel ragazzo che era a terra e gli ho fatto una carezza. Gli ho detto che sarebbe andato tutto bene e che i soccorsi sarebbero arrivati presto". Con l’altra chiama in caserma per chiedere un supporto di uomini e l’intervento del 118. Nel frattempo mette in moto le indagini che poi permetteranno l'arresto in flagranza dei quattro ragazzi di Artena. Subito interroga il gruppetto di persone radunate intorno a Willy. Alcuni parlano di un'auto che, carica "a palla", s' è fatta largo nel centro di Colleferro. Due amici del giovane steso a terra però forniscono indicazioni precise su modello e targa dell'auto. Un ragazzo, Matteo Larocca, è riuscito, con il proprio cellulare, a scattare una foto di un suv Audi, dal quale sono scesi i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. "Ho capito subito di chi si trattava. Ho diramato modello e targa al capitano Ettore Pagano e detto di spostarsi subito a cercare ad Artena perché ero quasi certo che si trattasse proprio di loro”. I quattro erano già noti alle forze dell’ordine per aver creato risse e problemi a Colleferro. Il Suv risulta infatti intestato alla compagna di Alessandro Bianchi, fratello di Marco e Gabriele. Nel frattempo è arrivata l'ambulanza e Carella aiuta i paramedici: "Sono rimasto accanto a Willy tutto il tempo necessario finché non lo hanno portato via. Ero in pena per lui come fosse un figlio. Prima che i portelloni si richiudessero ho visto il medico che tentava di rianimare il ragazzo facendogli un massaggio cardiaco. È l’ultima immagine che ho di Willy", racconta. Sono passate le quattro. Carella e i suoi colleghi si presentano al Night Bistrot di Artena, il bar di proprietà dei fratelli Bianchi. I ragazzi sono lì e in totale sono cinque mentre i carabinieri sono in tre. Ed è lì che il maresciallo ha l'intuizione decisiva. "Decido di dirgli che siamo lì per controlli all'auto, un modo laterale per affrontarli evitando di spaventarli troppo e scongiurando una possibile reazione", spiega. Quelli pensano di aver esagerato con la velocità e intanto si tranquillizzano. Ed è allora che Carella li informa: "Willy Monteiro Duarte è morto".

L'omicidio di Colleferro, la disperazione della madre di Willy: "Il mio piccolo gigante voleva fare il cuoco". Il ragazzo era una promessa del calcio. "Il suo sogno era giocare con la Roma". Lo strazio della donna: "Era tanto buono, non meritava di morire così". Federica Angeli e Clemente Pistilli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. "Era uscito per passare una serata con i suoi amici, quelli con cui è cresciuto, quelli che conosce da una vita, e non è più tornato. Non meritava di morire così mio figlio. Il mio piccolo era tanto buono". La madre di Willy è spenta, svuotata, la voce le esce appena. Abbraccia il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri, che è andato a trovare lei, il marito e la sorella del giovane 21enne ucciso dalla violenza del branco. La coppia, insieme alla figlia di 19 anni e alla sorella della madre, lo accoglie nel salone della casa in campagna in cui abitano. "Non mi capacito, mio figlio non meritava questa fine. Il suo sogno era fare il cuoco, per questo aveva fatto l'alberghiero e attualmente lavorava all'hotel degli Amici di Artena ". "Ci hanno avvertito alle 7 del mattino - dice ancora la donna straziata dal dolore - e quando è squillato il telefono ho pensato che Willy avesse avuto un incidente con la macchina. I carabinieri ci hanno detto di andare in caserma perché era successo qualcosa a mio figlio. Una volta lì, ci hanno portato in ospedale dove ci hanno dato la terribile notizia. Ci hanno portato da lui. Era steso su un lettino ed era morto". Al sindaco Alfieri, che al giovane ha dedicato un lungo post su Fb, si inumidiscono gli occhi. E mentre il papà e la mamma del ragazzo lo ringraziano, lui vorrebbe trovare le parole giuste per confortare quel dolore sconfinato. "Sono una coppia di capoverdiani molto umile e perbene - dice il primo cittadino - Si è trasferita molti anni fa a Paliano ed è impegnata in una locale azienda agricola. Willy e la sorella sono nati e cresciuti qui e lui ha giocato nella locale squadra di calcio e aveva anche partecipato alla sfilata in abiti storici per la rievocazione del Palio". Il suo sogno era anche quello di indossare la maglia giallorossa, Willy infatti era un grande tifoso della Roma e giocava a pallone: era una promessa della squadra locale di Paliano. I compagni della società sportiva del paese non si danno pace. "Willy Monteiro Duarte era l'anima della squadra, l'allegria e l'adrenalina di tutti nei momenti di sconforto".

Il dolore della madre di Willy e l’indignazione della politica: «Ora pene esemplari». Il Dubbio l'8 Settembre 2020. Il secondo giorno è quello dell’indignazione e del dolore. Soprattutto il dolore della madre, la madre di Willy Montero, il ragazzo pestato e ucciso sabato notte a Colleferro. Il secondo giorno è quello dell’indignazione e del dolore. Soprattutto il dolore della madre, la madre di Willy Montero, il ragazzo pestato e ucciso sabato notte a Colleferro: «Era uscito per passare una serata con i suoi amici, quelli con cui è cresciuto, quelli che conosce da una vita, e non è più tornato. Non meritava di morire così mio figlio. Il mio piccolo era tanto buono», racconta la donna sostenuta a fatica dal sindaco di Paliano. «Non mi capacito, mio figlio non meritava questa fine. Il suo sogno era fare il cuoco, per questo aveva fatto l’alberghiero e attualmente lavorava all’hotel degli Amici di Artena .Ci hanno avvertito alle 7 del mattino – racconta – e quando è squillato il telefono ho pensato che Willy avesse avuto un incidente con la macchina. I carabinieri ci hanno detto di andare in caserma perché era successo qualcosa a mio figlio. Una volta lì, ci hanno portato in ospedale dove ci hanno dato la terribile notizia. Ci hanno portato da lui. Era steso su un lettino ed era morto». L’indignazione, invece, arriva dalla politica che, a gran voce, ha iniziato fin da ieri il carosello delle dichiarazioni, tutte contrassegnate dalla stessa parola d’ordine: «Pene esemplari». Da leader leghista Matteo Salvini a quello dei 5Stelle Luigi di Maio, il refrain è grosso modo lo stesso: «Una preghiera per lui e un abbraccio commosso alla sua famiglia e ai suoi amici – scrive Salvini Tutta la comunità di Colleferro e l’Italia intera chiedono pene esemplari per i maledetti assassini». Al quale fa eco Di Maio: «Non si può morire così. A 21 anni, ucciso da un branco di delinquenti, pestato a calci e pugni. Non è possibile. Willy merita giustizia e chi lo ha ucciso deve pagare una pena esemplare». E in tutta la vicenda c’è anche spazio per un finale grottesco: Gabriele Bianchi, uno dei quattro aggressori di Willy, poco dopo il pestaggio letale, aveva pubblicato video umoristici sulla sua pagina Facebook. L’indiscrezione è trapelata in ambienti investigativi ma trova conferma dall’orario vergato sul post della pagina social dello stesso Bianchi. E basta leggere i commenti che accompagnano questi post per capire quanto la notizia della morte di Willy abbia provocato una generale indignazione. Decine i messaggi di insulto rivolti ai quattro aggressori ed ai loro familiari. Marco e Gabriele Bianchi hanno un terzo fratello, Alessandro, che oggi attraverso i microfoni ha cercato di prendere le distanze esprimendo parole durissime nei confronti dei propri congiunti. Ma ciò non gli ha evitato le risposte di fuoco del popolo di Facebook: “Fai attenzione a chi frequenti, soprattutto perchè hai una figlia”, si legge in un post. Un messaggio inquietante che si va ad unire ad un altro dove i due fratelli arrestati sono assieme alla madre. Una foto ricordo di qualche anno fa sotto la quale non sono mancati commenti di offesa e minaccia. I quattro arrestati sono rinchiusi nel carcere di Rebibbia e seppur in isolamento vengono guardati a vista.

 Omicidio Colleferro, il padre di Pincarelli: "Mario ha preso le parti di Belleggia, che poi ha cantato". La difesa del figlio: "È in carcere perché ha aiutato gli amici. I Bianchi sono bravi ragazzi, mi chiamano zio". "Dalla morte di Willy mia moglie entra ed esce dall'ospedale, è come se avessero ammazzato il suo di ragazzo". Paolo G. Brera La Repubblica il 10 settembre 2020. Stefano Pincarelli sale i trenta metri del vialetto interno della casa di famiglia a Artena alta con un diavolo per capello: "Via, andatevene, state scrivendo un sacco di stupidaggini", urla minaccioso. Suo figlio Mario è uno degli arrestati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte. Ci vuole un po' per trovare la calma, e a quel punto è il lungo racconto di un padre disperato "La colpa è del ragazzo che ha chiamato i Bianchi, la lite era finita lì", dice. Camicia aperta sul petto, sulla mano il tatuaggio a cinque puntini di chi ha avuto pregressi con la legge e vuole farlo sapere: "Mario è intervenuto per difendere Belleggia. Forse aveva bevuto, ma non è certo Totò Riina", dice. A farlo infuriare è innanzi tutto una considerazione: "Ci sono liti tutte le sere sotto la caserma dei Carabinieri. Come mai non sono intervenuti prima?". Quella sera, racconta, "è tornato a casa alle 4.30 e mi ha detto solo questo: dì a mamma che vado a dormire con delle mie amiche, invece è andato a costituirsi". È convinto che il pestaggio sia l'effetto dell'alcol. "Danno tutti la colpa ai Bianchi, ma anche loro sono bravissimi ragazzi. Purtroppo è successo perché la sera bevono, una cosa e l'altra... Mi dispiace anche per i Bianchi, sì: sono bravi ragazzi, li ho visti crescere, sono stato con loro anche qualche giorno fa non posso dire niente di malamente riguardo a loro". Ma se c'è una cosa che ora li sta distruggendo, dice, non sono tanto i guai di Mario: "Quel ragazzo, Willy, è mio figlio. Da quando ha saputo, mia moglie sta con gli occhi fissi aperti e non parla più. È venuta tre volte l'ambulanza. La ricoverano di continuo. Ci dispiace più per quel ragazzo morto che per il figlio che sta in galera". Non hanno avuto una vita facile, i Pincarelli. "Noi siamo otto fratelli, in tre viviamo qui con le nostre famiglie. Io faccio il posatore, il piastrellista nei cantieri. Ma è un lavoro saltuario perché i cantieri sono sempre meno. Mia moglie non lavora e non sta bene, per fortuna Mario ci dava una mano. Mio figlio non è un santo, è un ragazzo irrequieto, esce e beve tutte le sere ma al lavoro è il numero uno". Se qualche volta fa a botte, sostiene suo padre, "è sempre per difendere gli amici deboli. È uno che non ha paura di niente e deve prendere le parti degli amici, la mamma gli diceva sempre 'mi raccomando!' ma sa come sono i ragazzi, quando escono non sappiamo mica cosa fanno". La politica? "Non sa nemmeno cosa sia. Non gli interessa, come non gli interessa lo sport: per lui esistono solo le ragazze. Qualcuno in giro dice che sia un attaccabrighe, lo so, ma in realtà è solo un ragazzo affettuoso che difende gli amici. Certo che se gli pesti un piede si fa rispettare". C'è stato un precedente che ha indignato: il 21 agosto Mario ha aggredito un vigile che gli intimava di indossare la mascherina. "Non è vero, non è andata così. Il vigile stava litigando con un suo amico e lui è intervenuto. Si è messo in mezzo e gli ha detto lasciate perdere, arrivano le guardie e succede un casino. Invece il vigile gli si è avvicinato urlandogli a un centimetro dal naso, Mario si è girato con la mano alzata per dire vaff... e quello gli ha tirato un calcio nel sedere e c'è stato un po' di caos. Controllate se non è andata così!". Non è facile difendere un figlio che ha sulle spalle un'accusa così pesante. Stefano, 57 anni, lo sa ma non si tira indietro. "Non sono uno a cui piace comparire, non fatemi fotografie. Ma stiamo malissimo, chi ha figli ci potrà capire. Io in passato ho fatto qualche guaio, sono stato in carcere, ma poi ho messo su famiglia, sono diventato una persona come tutte le altre: nessun genitore addestra i figli a comportarsi come hanno fatto mio figlio e i suoi amici, tutte le sere gli fai raccomandazioni ma purtroppo poi succedono "ste cose... Lo abbiamo mandato a scuola, per tre anni ha fatto la professionale poi ha detto 'lasciamo perdere, non sono fatto per studiare". Ma da allora ha sempre lavorato. È bravissimo, gli stavano per rinnovare il contratto". Ma l'accusa è pesante: "Hanno detto che Mario è saltato sopra il corpo di Willy, ma sono sicuro che non è così. Per fortuna ci sono testimoni che dicono le cose come stanno. Certo non sono troppo ottimista: è indagato per un reato pesante, mi sa che alla fine dieci anni se li fa... Magari gli danno il "concorso", ma 4 o 5 anni mi sa che se li fa. Un po' di galera gli farà bene, comunque, magari si raddrizza. È un bel ragazzo, ha parecchie ragazze...". Di quella sera emergeranno i dettagli e le responsabilità individuali, ma l'unica cosa certa è l'epilogo: è morto un ragazzo e "Mario si è rovinato: quando è cominciata quella rissa lui ha preso le parti di quel Belleggia, quello che ha cantato... Sono tutti responsabili, ma quel cretino che ha chiesto aiuto ai fratelli Bianchi...".

Omicidio Colleferro, la sorella di Willy: "Il cellulare squillava a vuoto l’ho chiamato mentre moriva". Il racconto di Milena: "Sabato notte Willy, come faceva sempre, appena uscito dal lavoro nell'hotel di Artena è venuto a casa. Si è fatto la doccia, si è cambiato e poi è uscito con gli amici. M'è passato vicino e mi ha dato un bacetto, lo faceva sempre. Ed è andato via". Federica Angeli su La Repubblica l'11 settembre 2020. "Sabato notte Willy, come faceva sempre, appena uscito dal lavoro nell'hotel di Artena è venuto a casa. Si è fatto la doccia, si è cambiato e poi è uscito con gli amici, ragazzi di qui, di Paliano, che conosce da una vita. Saranno state le undici e mezza, m'è passato vicino e mi ha dato un bacetto, lo faceva sempre. Ed è andato via". Milena, 19 anni, due in meno di Willy Montero Duarte, stringe forte a sé la maglia con gli autografi dei giocatori della Roma che due giorni fa la squadra le ha consegnato. "Mio fratello sarebbe impazzito per questa". Al campo del Frosinone, dove mercoledì è avvenuta la consegna della maglietta, è il sindaco di Colleferro, Pierluigi Sanna, ad accompagnarla. Ed è al primo cittadino del comune in cui il 21enne è stato ucciso che Milena confida la sua disperazione e racconta la notte della tragedia. "Io e mio fratello siamo sempre stati molto uniti, ci sono solo due anni di differenza tra me e lui. E da quando siamo piccoli, visto che i nostri genitori hanno sempre lavorato, eravamo sempre fissi insieme. Io e lui". Milena parla con una voce sottile, dolce. Mentre sfila per le strade di Paliano durante la fiaccolata organizzata in onore del fratello lei e la sua famiglia non mostrano il dolore che li sta divorando. "Willy era un ragazzo preciso - dice Milena al sindaco e al parroco - Non ha mai dato problemi alla famiglia e, quando usciva, tornava sempre per le due e mezza al massimo. Sabato mi sono accorta che a quell'ora non era ancora rientrato. Non era nel suo letto e mi sono cominciata ad agitare. Non so neanche io perché, era comunque sabato e ci stava che tardasse. Anche se, dovendosi alzare la mattina per andare a lavorare, non sgarrava quasi mai. Ho resistito un po' rigirandomi nel letto e poi sono andata dai miei genitori e lo abbiamo chiamato. Credo che saranno state le tre. Il telefono squillava, Willy non rispondeva".

Non poteva farlo. Erano proprio i minuti in cui i quattro ragazzi di Artena, secondo la ricostruzione della procura di Velletri, lo stavano massacrando di botte. Fino ad ucciderlo. Milena, che lo scorso anno ha terminato gli studi all'istituto turistico, sogna di lavorare in una struttura alberghiera, alla "ricezione dei clienti". Il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri, e quello di Colleferro si sono impegnati ad aiutarla. Domani alle 10, al campo sportivo comunale di Paliano, ci saranno i funerali. Il padre ha una richiesta per chi parteciperà: "Indossate una maglietta bianca per l'ultimo saluto a Willy". "Una maglia o una camicia bianca, come simbolo di purezza e gioventù", ha sottolineato il sindaco Alfieri. Che ha aggiunto: "Nel rispetto del volere della famiglia di Willy, sarà vietato l'ingresso alle telecamere e ogni tipo di ripresa, anche attraverso smartphone, tablet e dispositivi simili". La cerimonia sarà esclusivamente un momento di raccoglimento, riflessione e preghiera comune. "Perché i genitori e la sorella di Willy non vogliono vendetta, ma giustizia".

 “Voleva difendermi poi un calcio l’ha steso e l’ho visto morire”. Parla Federico, 21 anni, il compagno di scuola di Willy Monteiro. Clemente Pistilli il 7 settembre 2020 su La Repubblica. "Si è messo tra me e loro. Mi stavano picchiando quando ho visto Willy. Ha cercato di mettere pace. Ma hanno iniziato a picchiarlo in quattro". Il racconto di Federico Zurma, 21 anni, il compagno di scuola della vittima, il giovane per cui il 21enne di Paliano all’alba di domenica si è sacrificato, comincia così. E’ sotto shock quando, all’alba di domenica, racconta come ha visto morire l’amico ai carabinieri di Colleferro....

Willy Monteiro, parla l’amico: “Volevano uccidere me, mi ha salvato”. Notizie.it l'08/09/2020. Era lui l'obiettivo del gruppo e l'amico Willy Monteiro ha dato la sua vita per salvarlo: parla Federico, ancora scosso per quanto accaduto. Federico Zurma, il ragazzo di ventun’anni che Willy Monteiro, da amico, ha cercato di difendere salvo poi essere ucciso a botte, ha raccontato che quella notte gli aggressori, ora arrestati e in carcere a Rebibbia, lo avevano preso di mira ed era lui l’obiettivo dei loro colpi. Contattato su Messenger dal Corriere della Sera, Federico ha ammesso di ripensare continuamente a quella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre, pur sforzandosi di non farlo. Ha raccontato che Willy è intervenuto in sua difesa quando l’ha visto in difficoltà con i fratelli Bianchi ma che, essendo un ragazzo equilibrato, “non avrebbe mai preso un’iniziativa che non fosse stata pacifica per riportare gli animi alla calma“. Pur non volendo ripercorrere quello che è successo, ha affermato che “Willy si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato“. Sa che sicuramente la sua vita non sarà come prima, ma sta lavorando per “andare avanti in qualche modo“. Come l’amico che è morto per difenderlo ha infatti progetti per il futuro tanto che, alunno dell’alberghiero di Fiuggi, sta svolgendo un corso per chef. E anche durante l’intervista ha sottolineato più volte il suo impegno e la sua determinazione. Sotto shock anche un altro amico di Willy, anch’egli presente durante i fatti, che ha raccontato di aver visto il ragazzo morire davanti ai suoi occhi. “Non potrò mai togliermi la scena dalla testa“, ha detto Lorenzo, che da due giorni non riesce a dormire né a dimenticare quegli attimi. “Eravamo molto amici, l’ho visto che non respirava più“, ha ribadito in lacrime.

Colleferro, il racconto del papà di uno degli amici di Willy: “È stato tremendo, ora i ragazzi sono sotto chock”. Redazione su Il Riformista il 7 Settembre 2020. “Sto tornando adesso dall’Ospedale, Willy purtroppo non c’è più”. È il papà di uno degli amici di Willy Monteiro Duarte a raccontare in un audio messaggio su Whatsapp agli altri genitori cosa è successo a Colleferro durante la drammatica notte in cui il 21enne di origini capoverdiane ha perso la vita. “Stanotte davanti al “Due di Picche” il locale di Colleferro, c’erano tanti ragazzi tra cui anche mio figlio che era andato lì con gli amici a bere qualcosa come al solito – racconta –  Mentre stavano tornando a casa, mio figlio, Willy e altri due ragazzi che avevano la macchina parcheggiata vicino piazza Italia si sono allontanati. Mentre prendevano l’auto hanno sentito le voci di qualcuno che stava discutendo. Siccome Willy conosceva uno dei ragazzi coinvolti nella discussione , si è avvicinato al gruppo per dire ‘fermatevi, non fate a botte’”. L’uomo conosce bene Willy: “È il ragazzo più buono in assoluto che c’è – dice –  Vi dico solo che quando si tratta di andare a qualche festa, in discoteca, è lui che porta la macchina: non beve, non fuma, non fa nulla di sbagliato, o meglio non faceva. Mio figlio mi ha raccontato che mentre andava a prendere la macchina questi quattro energumeni di Artena, quattro bestie, sono scesi dall’auto e hanno iniziato a tirare botte a tutti. Due degli amici di Willy sono riusciti a scappare, mentre lui non è riuscito. È rimasto lì e l’hanno gonfiato di botte, gli hanno fatto di tutto e di più”. “Probabilmente uno dei colpi è stato letale alla testa e ha causato l’emorragia celebrale – continua nel vocale –  Poi gli aggressori sono scappati via e altri ragazzi sono riusciti a prendere la targa. Stesso durante la notte sono stati denunciati. Ma Willy è rimasto per terra inerme. L’ambulanza ci ha messo più di mezz’ora per arrivare, ma comunque quando sono arrivati già era morto. Gli hanno fatto anche il massaggio cardiaco, poi lo hanno portato dentro al pronto soccorso”. Il papà non riesce a trattenere le lacrime mentre racconta quanto accaduto: “Stamattina alle 7 ci hanno detto che Willy era morto – dice a fatica – Questa è la storia. Adesso i ragazzi sono sotto chock. Adesso devo stare vicino a mio figlio”.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte, lo sfogo del ristoratore: "Lui è stato più coraggioso di me". Il post di Stefano Sorci, gestore di Macellerie Sociali, sta facendo il giro dei social: "Come cani che marcano il territorio. Ho avuto paura e mi sono tranquillizzato solo a casa. La colpa è delle istituzioni, della scuola, dei genitori. Non impariamo mai". La Repubblica il 10 settembre 2020. "I ragazzi alla ribalta delle cronache sono stati anche da me. Era una sera d'inizio estate. Hanno bevuto, hanno fatto casino, hanno brindato, hanno ruttato e sono ripartiti sgommando col suv, come cani che hanno appena pisciato su un territorio nuovo e se ne vanno soddisfatti. Ho chiuso a chiave e mi sono diretto a casa, ho iniziato a tranquillizzarmi soltanto lì". A scrivere su Facebook è Stefano Sorci, gestore di Macellerie Sociali, pub che si trova a Giulianello, una frazione di Cori, poco distante da Artena. Stefano non chiama per nome quei "ragazzi", ma il pensiero va immediatamente agli indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne pestato a morte a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre. "È stata una mezz'ora, sul tardi, e non è successo nulla di particolare - premette Sorci nel suo post - eppure, tutti i presenti, quella mezz'ora se la ricordano bene. Anzi, ne ricordano bene i primi dieci minuti, quelli sufficienti a fargli passare la voglia di restare. Eravamo seduti tutti fuori, e ci siamo girati improvvisamente a guardare il suv che sbucava dall'arco a tutta velocità per poi inchiodare a due metri dai tavolini. Sono scesi in cinque col classico atteggiamento spavaldo di chi a 25 anni gira col suv, in gruppo, coi capelli tinti, le catene al collo, i vestiti firmati, i bicipiti tirati a lucido e le sopracciglia appena disegnate". Continua il racconto: "È calato subito il silenzio, sono stato costretto ad alzarmi quando ho sentito un poco promettente 'chi e' che comanda qua dentro?', detto dal primo che si era affacciato sulla porta. Sono andato verso il bancone senza neanche rispondere, mentre loro mi seguivano dicendo 'ah, ecco, comanda lui, è questo qua'. Poi è iniziato il giro di strette di mano, di quelli 'ci tengo a dirti chi sono e devo capire chi sei tu'. Hanno iniziato a fare mille domande, prima sugli orari di apertura di tutti i locali del paese, poi sulle birre, sul modo in cui si lavano i bicchieri, sulla quantità della schiuma. C'era un'atmosfera pesantissima, era una conversazione di quelle finte che girano intorno a qualcosa. Sembrava un film di Tarantino ed io mi sentivo come Brett che spiega a Samuel L. Jackson la provenienza del suo hamburger, prima di sentirsi recitare Ezechiele a memoria". Nel pub cala un clima pesantissimo: "Ho visto con la coda dell'occhio tutti i tavoli fuori svuotarsi, le persone buttare un occhio dentro e andar via, e, mentre cercavo di rispondere alle domande, loro hanno iniziato a fare una gara di rutti sopra la mia voce a cui non ho reagito in nessun modo. Non contenti del mio restare impassibile, hanno proseguito la provocazione iniziando a rimproverarsi a vicenda: "Non si fa così, non ci facciamo riconoscere, se ruttiamo poi sembra che manchiamo di rispetto a lui che comanda! Dobbiamo chiedere scusa!". Ho servito le birre come nulla fosse e ricordo bene l'espressione di quello che ha messo mano al portafogli e mi ha chiesto 'quant'è", senza il punto di domanda e senza guardarmi. La stessa espressione che rivedo in ogni post di questi giorni". Il racconto del titolare del pub lascia spazio all'amarezza e al ricordo del coraggio di Willy, picchiato a morte per aver difeso un amico: "Ho pensato con rabbia alla mia vigliaccheria, al mio non aver proferito parola, al mio averli serviti con educazione mentre mi mancavano palesemente di rispetto in casa mia e anche al fatto che avevano la metà dei miei anni. Ho pensato che avevo soltanto chinato il capo davanti alla prepotenza. Poi ho sperato di non vederli più, perché se fossero tornati non avrei sicuramente reagito neanche la seconda volta e ho pensato che avevo avuto paura. Semplicemente. Tristemente. Oggi, ripensandoci alla luce dei fatti recenti, forse non me ne vergogno più, provo solo una stima enorme per Willy e per la sua sterminata mole di coraggio racchiusa in uno scricciolo d'uomo. E so che non c'entrano Gomorra, Tarantino, Romanzo Criminale, non c'entrano Internet, la trap o le arti marziali, così come ai tempi miei non c'entravano Dylan Dog, il rap, le sale giochi. C'entrano le istituzioni, c'entrano i genitori, c'entra la scuola. La storia è sempre la stessa, ma non la studiamo mai. Il resto sono stronzate, e cercare dei colpevoli ci alleggerisce sempre".

Quel video shock dei picchiatori dopo aver pestato a morte Willy. L’agghiacciante indiscrezione, filtrata dagli ambienti investigativi, trova conferma dagli orari dei post inseriti sui social da Gabriele Bianchi, uno dei due fratelli accusati di omicidio preterintenzionale. Ignazio Riccio, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Uno dei quattro aggressori di Willy Monteiro, il giovane cuoco di origini capoverdiane ucciso a calci e pugni per aver difeso un amico a Colleferro, nella zona a sud di Roma, dopo la brutale aggressione ha impiegato il proprio tempo a pubblicare video umoristici sul suo profilo Facebook, senza mostrare preoccupazione o rimorso per ciò che era accaduto.

Ucciso di botte perché difendeva un amico. L’agghiacciante indiscrezione, filtrata dagli ambienti investigativi, trova conferma dagli orari dei post inseriti sui social da Gabriele Bianchi, uno dei due fratelli accusati di omicidio preterintenzionale in concorso, insieme ad altre due persone. La pagina di Bianchi è stata presa d’assalto dagli internauti, che hanno vomitato addosso al ragazzo insulti molto pesanti e minacce dirette. Ad essere coinvolto nella reazione indignata del popolo di Facebook anche il terzo fratello Bianchi, Alessandro, che non c’entra nulla con l’episodio di violenza e che, anzi, ha cercato di prendere le distanze dai propri congiunti, usando parole molto dure. Nonostante ciò, anche lui è stato subissato di offese e intimidazioni davvero molto forti. "Fai attenzione a chi frequenti, soprattutto perché hai una figlia", si legge in un commento ad un post. Intanto, i quattro arrestati sono rinchiusi nel carcere di Rebibbia e seppur in isolamento vengono guardati a vista. Gli aggressori, trovati in piena notte mentre bevevano birra in un pub all’Artena, hanno tutti tra i 22 e i 26 anni e precedenti penali per lesioni e droga. I riflettori nel piccolo centro romano sono puntati, in particolare, sui fratelli Bianchi, che sarebbero definiti a Colleferro “picchiatori professionisti”. I due ragazzi, infatti, praticano la Mixed Martial Arts, uno sport estremo che fonde la boxe con le arti marziali. Le foto che circolano sui social, a torso nudo, confermano la loro passione.

I nuovi barbari. Per gli investigatori si tratta di giovani che sarebbero abituati a vivere la loro vita senza seguire alcuna regola, mossi solamente dal culto della violenza. La loro sfrontatezza sarebbe confermata anche dall’atteggiamento tenuto nel corso dell’interrogatorio: nessuna giustificazione, nessun pentimento, i giudici si sono trovati di fronte ad un muro impermeabile, fatto di silenzio e di sfida alle istituzioni. Nella periferia sud di Roma il clima è pesante e spesso si assiste a scene come quelle capitate l’altra notte in piazza Oberdan. I residenti sono impauriti e confessano che temevano che, prima o poi, ci sarebbe scappato il morto. Troppe le risse, numerosi i ragazzi che tirano tardi fino alle prime ore del mattino, tra alcol e droga, che, molto spesso, conducono a violenti liti e schiamazzi.

Bevevano birra dopo il pestaggio, ecco chi sono i quattro accusati del delitto di Colleferro. "Con le mani come se non ci fosse un domani", scrivevano su Facebook. Marco Bianchi, esperto di arti marziali, noto come "El Maldito" e suo fratello Gabriele da anni terrorizzavano la zona con risse e violenze di ogni tipo. E su Facebook i giovani della zona promettono vendetta: "Verremo a prendervi". Clemente Pistilli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. "Tanto prima o poi uscirete e allora verranno a prendervi a casa, uno ad uno". Questo è solo uno delle decine di commenti fatti nelle ultime ore sui profili social dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, 26 e 24 anni, di Artena, arrestati all'alba di domenica insieme a loro due amici con l'accusa di aver ucciso a calci e pugni, nella vicina Colleferro, il 21enne Willy Monteiro Duarte. E non è il più pesante. Lo sdegno per l'accaduto è enorme e un vero e proprio fiume di insulti e odio si sta riversando su quelli che venivano chiamati la banda di Artena, un gruppo di giovani davanti ai quali fino alla tragedia di domenica scorsa in pochi alzavano lo sguardo. Ad Artena, del resto, piccolo centro romano, al confine con la provincia di Latina e vicino a quella di Frosinone, dove si conoscono tutti, quei ragazzi avevano una sinistra fama. Alcuni con precedenti per spaccio di droga, che circola abbondantemente e che ha visto i carabinieri di Colleferro compiere diversi arresti, e altri proprio per lesioni. Una banda che si sentiva invincibile e che ostentava ricchezza e atteggiamenti violenti. Con protagonisti proprio i Bianchi. Una banda che avrebbe aggredito in passato anche un addetto alla sicurezza dell'outlet di Valmontone e che ad agosto aveva colpito anche un vigile urbano che cercava di far rispettare le misure anti-Covid.

Feroci e spavaldi. Tanto che dopo il pestaggio del 21enne, i due fratelli, insieme agli amici Mario Pincarelli, di 22 anni, e Francesco Belleggia, un geometra 21enne, e a un quinto giovane indagato solo a piede libero, sono andati a sedersi tranquillamente nel locale di famiglia a bere birra, il "Nai Bistrot", dove sono stati bloccati e portati in caserma. Un'ossessione quella dei Bianchi per la famiglia. Non si contano le foto di Gabriele e Marco postate su Facebook e Instagram in cui esaltano il loro legame di sangue. Tanto che il 24enne è arrivato a scrivere, parlando proprio della famiglia: "Per te contro tutto e tutti con le mani come non ci fosse un domani". E si è persino tatuato sulla pancia la scritta "proteggi la famiglia". Un'ossessione pari solo a quella per le arti marziali, la forza e la violenza, che i due sfogavano nell'MMA (mixed martial arts), una disciplina in cui si fa largo uso di pugni e calci. E proprio con un calcio alla testa sarebbe stato ucciso il 21enne di origini capoverdiane, residente a Paliano, in provincia di Frosinone, aiuto cuoco all'Hotel degli Amici di Artena e con il sogno di indossare un giorno la maglia della Roma, mentre giocava e dava l'anima nella squadra di calcio del suo paese. I fratelli Bianchi hanno quasi un culto per il corpo e ci tenevano a ostentare gioielli pacchiani e abiti griffati, tra una vacanza a Ponza e una a Positano. Gabriele era stato poi di recente presentato anche come modello di imprenditore, per aver aperto nel centro storico di Cori, paese della provincia di Latina al confine con Artena, una frutteria in piena emergenza Covid, "I profumi dell'orto", in via della Libertà. Ma la vita del 24enne non era proprio quella di un tranquillo fruttivendolo. Insieme al fratello e agli amici ad Artena  e nei centri vicini seminavano il terrore. Quella che un tempo era terra di briganti, al confine tra il territorio romano e quello pontino, era diventata terra dei picchiatori. Marco, in particolare, è un campione di MMA e viene chiamato Maldito, un nomignolo che ora suona in  modo sinistro. Un professionista impegnato con la “M.M.A. Combat Academy Di Tullio Team”, che si trova presso la “Millennium Sporting Center”, a Lariano, a due passi dal suo paese, nei Castelli Romani. Oltre ai due, i cui nomi fanno paura soprattutto nella contrada Colubro di Artena, dove vivono, della banda avrebbero poi fatto parte anche Pincarelli, appassionato di karate, e Belleggia, che una volta in caserma avrebbero cercato di prendere le distanze dall'accaduto, mentre i Bianchi si sarebbero limitati a dire: "Non volevamo ucciderlo". Volevano solo massacrarlo di botte. Come sempre. "Sono dei picchiatori. Willy ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato", dichiara Vincenzo Romagnoli, il padre del giovane che era insieme alla vittima. Un 21enne che ha perso la vita per cercare di portare pace tra un gruppetto di amici che litigava nella piazza di Colleferro. Ma quando scendendo da un suv ha fatto irruzione la banda per lui non c'è stato scampo. "Ogni volta che entri in gabbia è un’emozione diversa, ma il pensiero della vittoria è sempre lo stesso", scriveva Marco Bianchi su Instagram. Ora dalla gabbia di Rebibbia gli indagati dovranno fornire diverse spiegazioni agli inquirenti.

Omicidio Colleferro, si valuta l'aggravante razziale per i killer di Willy: "Lurido negro crepa lentamente". Libero Quotidiano l’08 settembre 2020. E' iniziato nel carcere romano di Rebibbia l'interrogatorio di convalida davanti al gip del tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, dei quattro giovani arrestati per il terrificante omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso dopo un pestaggio a Colleferro nella notte tra sabato e domenica. Ai quattro, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tra i 22 e i 26 anni, il pm di Velletri Luigi Paoletti contesta il concorso in omicidio preterintenzionale. Si valuta anche l'aggravante di matrice razziale su cui fa peso un post di nove anni fa di Gabriele Bianchi che commentando un fatto di cronaca su Facebook scrisse "lurido egiziano de m..." e ancora in un italiano altamente dialettale "pozzi crepà lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi della m... schifossimo". E non aveva fatto meglio un altro fratello non coinvolto, Alessandro, 31 anni, che definiva lo stesso egiziano "de m..." e "negraccio de m..." Ma soprattutto pesano le parole di uno dei genitori espresse davanti alla caserma dei carabinieri domenica mattina all'alba: "Cosa hanno fatto? Non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". Parole agghiaccianti riferite poi ai carabinieri. Intanto proprio Alessandro Bianchi, fratello maggiore dei due in carcere, in due interviste rese a Stampa e Messaggero, ha detto di non avere colpe e di chiedere "perdono per la morte di Willy.La cosa che mi ha fatto più male, quando mi ha chiamato l'avvocato per dirmi che c'era stato il morto, è stata l'immagine di quel ragazzino. Era così piccolo, non posso pensare che i miei fratelli gli abbiano menato mentre stava a terra, conoscendo la loro esperienza nelle arti marziali, un ragazzino che se lo avessero visto da qualche parte mentre qualcuno lo aggrediva, avrebbero massacrato gli altri per salvare lui", dichiara Bianchi. E' convinto poi che la colpa non sia stata dei fratelli "credo che Pincarelli e Belleggia abbiano invocato il loro aiuto perché qualcuno li stava picchiando. E i miei fratelli sono corsi",, racconta Bianchi. "Io sono sicuro dentro di me come lo è mia madre che non sono stati loro a dargli calci in faccia, pugni in testa. I miei fratelli sono intervenuti per dare una mano ai loro amici che avevano discusso dentro il locale, e quando hanno visto tutta questa gente ammucchiata e sono scesi dalla macchina. Ci sono le testimonianze".

Omicidio di Willy, quell'insulto razzista di Alessandro Bianchi a un egiziano. Le Iene News il 09 settembre 2020. Il fratello di due dei quattro giovani arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte ha negato che i ragazzi siano fascisti o razzisti. Eppure lui stesso ha commentato così un post del fratello Gabriele che risale a qualche anno fa: “Negraccio, brucia all’inferno”. La famiglia di Gabriele e Marco Bianchi, due dei quattro giovani accusati dell’omicidio preterintenzionale di Willy Monteiro Duarte di cui vi abbiamo parlato qui, ha fatto quadrato attorno ai ragazzi: “Non sono assassini e non hanno ucciso nessuno… fascismo e razzismo sono cose che non esistono”. Così ha detto al Corriere della Sera Alessandro Bianchi, il fratello maggiore dei due. Noi vi mostriamo un post su Facebook, datato 2011, che lascia più di un interrogativo. Gabriele commenta un brutto fatto di cronaca: un 17enne egiziano getta dal balcone di casa un cane che poco prima aveva morso il fratello. Gabriele scrive: “Lurido egizziano de merda te possa da na paralise secca pozzi rimane' senza respiro, pozzi crepa lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi nella merda schifosissimo essere figlio di puttana se c’è ancora la guerra nel tuo paese di merda spero che ti uccidono adesso bastardooooooooo”. Un messaggio di odio al quale si unisce nei commenti proprio il fratello Alessandro, che commenta così: “Egiziano de merda che tu possa bruciare all’inferno mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio negraccio de merda”. Tralasciando le altre imprecazioni, come valutare la parola "negraccio" se non un inaccettabile insulto di stampo razzista? Su Iene.it ci siamo occupati della tragica morte di Willy, raccontandovi e mostrandovi il video dei combattimenti di MMA di Marco Bianchi, uno dei 4 giovani arrestati per omicidio preterintenzionale (a uno di loro, Francesco Belleggia, sono stati concessi ora i domiciliari), i post scherzosi che Gabriele Bianchi aveva messo sulla sua pagina Fb poche ore dopo la morte di Willy, il video di risposta del campione di MMA Marvin Vettori, che difende il suo sport dalle critiche, il racconto dell’aggressione di Mario Pincarelli a un vigile urbano che gli aveva detto di mettere la mascherina e il post di un ex leghista che se l’è presa con Willy, la vittima, poi scusandosi.

Willy Monteiro Duarte, le dichiarazioni shock dei familiari degli aggressori: "Era solo un immigrato". Libero Quotidiano l'08 settembre 2020. "In fin dei conti cosa hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario", è questa la reazione dei familiari dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi Mario Pincarelli e Francesco Belleggia quando arrivano alla caserma di Colleferro, si sono anche i ragazzi di Paliano, scrive Repubblica, "che sentono (e lo riferiscono poi ai militari) uno dei familiari degli arrestati dire: "In fin dei conti cos'hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". La notizia che Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni durante una rissa.  è morto è già arrivata. Seconda notte in carcere per i fratelli Bianchi a Rebibbia, monitorati e controllati a distanza. I due sono accusati, assieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, di omicidio preterintenzionale per la morte di Willy. Una azione violenta e brutale che non ha dato scampo al ventenne di origini capoverdiane ma da anni residente a Paliano con la famiglia. Willy era intervenuto in difesa di un suo amico dopo un alterco con il branco capeggiato dai due fratelli Bianchi, esperti nella Mixed martial arts, una sorta di arte marziale, una tecnica di combattimento in cui l'ultraviolenza si consuma in un rettangolo, una gabbia recintata, dove tutto è consentito.

 Al momento la Procura di Velletri esclude l'aggravante dell'odio razziale ma gli accertamenti proseguono con l'ascolto di testimoni e analisi approfondite delle telecamere presenti in zona. Le indagini portate avanti dai carabinieri hanno portato all'iscrizione di cinque persone, compresi gli arrestati. Per loro, tutti detenuti nel carcere di Rebibbia, oggi è fissato l'interrogatorio di convalida dell'arresto davanti al gip di Velletri. L'atto istruttorio rappresenta il primo confronto con chi indaga e servirà a cristallizzare ulteriormente l'impianto accusatorio. Domani verrà svolta l'autopsia sul corpo di Willy che verrà effettua presso l'istituto di medicina legale del policlinico di Tor Vergata. 

Ghali: "Giustizia per Willy, mi ha ricordato episodi in cui l'ho scampata per un pelo". Pubblicato martedì, 08 settembre 2020 da La Repubblica.it. Ghali è intervenuto con un post su Instagram per commentare la tragedia di Colleferro, il pestaggio ad opera dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi in cui ha perso la vita il ventunenne Willy Monteiro Duarte. Il rapper, nato a Milano da genitori tunisini, ha iniziato il suo messaggio chiedendo "Giustizia per Willy Monteiro Duarte". "Willy è stato ucciso dall’ignoranza, dall’odio, dal razzismo e dagli ideali di 4 ragazzi i cui familiari hanno risposto dicendo: “era solo un immigrato”. E' un problema ricorrente nel nostro paese e mi ha fatto tornare in mente alcuni episodi della mia vita in cui l’ho scampata per un pelo, in cui aspetti che si stanchino di tirare calci e pugni, in cui chiedi pietà e il perché sperando di riuscire a rialzarti da terra". Visualizza questo post su Instagram Giustizia per Willy Monteiro Duarte. 21 anni, era intervenuto per calmare una rissa ed e? stato pestato a sangue fino a non respirare piu?. Willy e? stato ucciso dall'ignoranza, dall'odio, dal razzismo e dagli ideali di 4 ragazzi del quale i familiari hanno risposto dicendo: “era solo un immigrato”. E? un problema ricorrente nel nostro paese e mi ha fatto tornare in mente alcuni episodi della mia vita in cui l'ho scampata per un pelo, in cui aspetti che si stanchino di tirare calci e pugni, in cui chiedi pieta? e il perche? sperando di riuscire a rialzarti da terra. I veri criminali sono altri, i veri atleti sono altri. Gli occhi di Willy sono altri. Gli occhi della nuova generazione, di chi e? stanco di fare a pugni, di chi cerca altro, di chi a differenza mia e dei miei coetanei non ha bisogno di ribadire dei concetti basilari come quelli sulla violenza. Che questo sia l'ennesima sveglia per quanto sia inimmaginabile il dolore dei suoi cari. E? cosi? egoista fare di una tragedia una lezione ma infondo spero che lo sia per tutti. Siamo stanchi, il pentimento tardivo non serve a nulla in casi come questo. Giustizia per Willy ???? #giustiziaperwilly Un post condiviso da GHALI (@ghali) in data: 8 Set 2020 alle ore 5:22 PDT. E continua: "Gli occhi di Willy sono gli occhi della nuova generazione, di chi è stanco di fare a pugni, di chi cerca altro, di chi a differenza mia e dei miei coetanei non ha bisogno di ribadire dei concetti basilari come quelli sulla violenza. Che questo sia l’ennesima sveglia per quanto sia inimmaginabile il dolore dei suoi cari. E' così egoista fare di una tragedia una lezione ma in fondo spero che lo sia per tutti". E poi Ghali così conclude: "Siamo stanchi, il pentimento tardivo non serve a nulla in casi come questo. Giustizia per Willy".

Da corriere.it il 10 settembre 2020. Ghali torna a parlare del caso di Willy Monteiro, il ragazzo di origini sudamericane morto a seguito di un pestaggio all’uscita da un locale di Colleferro, provincia di Roma: «Cari colleghi perché non ne parlate, avete altro a cui pensare? O non ve ne frega niente, oppure siete molto simili a quei quattro ragazzi, perché nel rap italiano succede questo». Riferendosi ai 4 giovani di Artena, praticanti di arti marziali, accusati di aver causato la morte del 21enne.

Franco Zanetti per rockol.it il 10 settembre 2020. Un rapper di un certo nome ha accusato oggi i suoi colleghi di non essersi espressi pubblicamente in merito a un fatto di cronaca nera. A questo punto siamo arrivati: che se qualcuno non prende posizione esplicitamente - e, naturalmente, sempre nella direzione auspicata dal  benpensantismo imperante - è accusato di "non essersi espresso", e quindi, senza alcuna consequenzialità logica, di "pensarla in un altro  modo" (come se pensarla in un altro modo fosse una colpa e non un diritto). Non voglio minimamente entrare nel merito del caso specifico, che è quello del ragazzo che è stato ucciso di botte a Colleferro. Ma allo stesso modo si potrebbero allora additare al pubblico ludibrio tutti quelli che non hanno preso posizione rispetto alla donna di 46 anni, con tre figli, uccisa in Svizzera pochi giorni fa per proteggere tre bambini (ne ha scritto qui Carla Vistarini). Il che vuol dire, in questa circostanza specifica, additare al pubblico ludibrio tutti indistintamente: perché, su questo tristissimo episodio, nessuno ha preso posizione, dei tanti - dei troppi - che usano i social per farci sapere che esistono. (Il che, fra parentesi, vuol dire che la differenza di colore della pelle importa più a quelli che stigmatizzano pubblicamente che a quelli che tacciono). Quello che mi interessa segnalare qui è un fenomeno diverso: quello dei personaggi dello spettacolo che si atteggiano a opinion leader - e senza averne la statura riconosciuta - e quello dei media che rilanciano le loro opinioni. Non voglio mettere in dubbio la sincerità dei sentimenti dei primi, e non mi permetto di insinuare che dietro a queste esternazioni ci sia una volontà autopromozionale (anche se dubito che abbiano una particolare capacità di influenza morale sul loro pubblico). Ma il meccanismo infernale che si è instaurato è tale che un post su Instagram diventa una notizia, e la notizia è rilanciata dai giornali, ripresa dalle radio, commentata dalle televisioni, suscitando tutta una sequela di nuovi commenti social, che diventano a loro volta altre notizie, generando un flusso inarrestabile.  E circondando di un assordante rumore mediatico anche chi - come me - si tiene fieramente a distanza dalla frequentazione dei social. Ho letto nei giorni scorsi un'intervista di un conduttore televisivo che non conosco personalmente, e sul quale non ho nessuna opinione né professionale né personale, semplicemente perché non l'ho mai ascoltato in radio e non l'ho mai guardato in televisione. Si chiama Pierluigi Diaco, e queste sono le cose che ha detto: "Sui social ci sono troppe semplificazioni e troppa superficialità. I social danno una rappresentazione del Paese in cattiva fede. Chi sta sui social è ormai un tuttologo. Parlano di tutto anche se non hanno nulla da dire. E quando tu rendi accessibile a tutti la possibilità di dire, fare, polemizzare, criticare senza regole e senza limite e senza una legittimazione per esprimersi con argomenti complessi, il tenore della conversazione si indebolisce. Non credo che ci sia bisogno di tornare indietro. Basta che i media tradizionali la smettano di dare importanza ai social. Sono un circolino che non rappresenta affatto il tasso di umanità che attraversa i cittadini. Non ce l'ho con i social. Credo che il tipo di attenzione che viene dato a ciò che succede in rete sia smodato. Denota una certa pigrizia di alcuni colleghi che montano pezzi basandosi su una manciata di tweet che circolano in rete". Sottoscrivo tutto.

Elisa scrive una lettera per Willy: le sentite parole dell’artista. Notizie.it l'11/09/2020. Elisa ha deciso di scrivere sui social una lunga lettera a Willy Monteiro Duarte, morto a 21 anni dopo una rissa: le dolorose parole della cantante. Anche Elisa Toffoli, in arte Elisa, ha deciso di esprimere pubblicamente sui social tutto il dolore provato alla notizia della morte del giovane Willy Monteiro Duarte. Come purtroppo sappiamo, il 21enne romano ha perso la vita lo scorso 6 settembre 2020 dopo essere stato massacrato di botte per aver difeso un amico durante una rissa fuori da un locale. L’intero mondo dello spettacolo ha così deciso di farsi portavoce della richiesta di giustizia per il giovanissimo, ucciso dall’odio e da gesti di violenza inaudita. Precisando di non averlo ovviamente conosciuto in vita, Elisa ha dunque sottolineato il coraggio di Willy, che non ha esitato a mettere in pericolo sé stesso per proteggere un amico. “Gli uomini come te, Willy, cambieranno il mondo”, ha scritto l’artista triestina su Facebook, immaginandolo poi da piccolo tra le braccia della sua mamma, simbolo di fiducia per eccellenza. “Non potevo non scrivere, Willy, mi sei rimasto nel cuore e volevo dirlo a tutti”. Così si conclude la lunga lettera di Elisa, evidentemente molto colpita dal recente quanto incredibile fatto di cronaca nera. Anche lei, insieme a molti altri suoi colleghi, chiede ora giustizia per il ragazzo e per la sua famiglia. La speranza che le rimane è che anche i suoi figli abbiano la forza e il coraggio di sorridere come Willy nelle foto che lo ritraggono nello splendore e nel candore dei suoi 21 anni.

La verità è che “hanno solo ucciso un immigrato” non lo pensa solo la famiglia Bianchi. Notizie.it l'08/09/2020. Lo hanno detto in pochi ma pensato in tanti: Willy Monteiro ha un cognome troppo esotico per sentirselo davvero come un figlio, un amico. Dai, facciamoci coraggio, proviamo a dire quello che in molti non hanno il coraggio di dire e insistiamo. C’è in giro moltissimo sdegno per la frase pronunciata dai famigliari di Marco e Gabriele Bianchi, arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro insieme a altri due: “Non hanno fatto niente di grave, hanno solo ucciso un immigrato” hanno detto candidamente alla giornalista di Repubblica Federica Angeli. E l’hanno detto convinti di pronunciare una frase ragionevole perché in fondo il vento è questo, perché in fondo Willy Monteiro Duarte ha un cognome troppo esotico per sentirselo davvero come un figlio o come un compagno di scuola di uno dei nostri figli, ha la pelle troppo scura per essere italiano come intendono gli italiani quelli che li vorrebbero bianchi, cattolici, preferibilmente di destra, preferibilmente xenofobi. E infatti è bastato aspettare qualche ora perché sui social si accendessero i conati di quelli che in fondo hanno addirittura fatto bene ad ammazzarlo quello scimpanzé, come ha scritto un coraggiosissimo utente Facebook che poi, come si conviene ai vigliacchi, ha detto che gli hanno rubato il profilo e che non è stato lui. E infatti basta girare sui social, su un social qualsiasi, per leggere i commenti di chi dice che si sta facendo troppo rumore, la solita vecchia solfa di quelli che sono anti-anti-razzisti e vorrebbero convincerci che le vere vittime siano loro. Qualcuno si chiede: “Avresti fatto tutto questo casino anche per un italiano”? Una domanda che fotografa perfettamente quello che siamo diventati: incapaci di essere empatici perfino con il nostro vicino di pianerottolo rivendichiamo il diritto (e addirittura il dovere) di non preoccuparci di uno che ha origini che sentiamo straniere. Qui non conta essere italiano di cittadinanza: qui per essere italiano devi essere accettato da una certa cerchia che giudica in base a parametri bigotti. Dai, facciamoci, coraggio. Diciamo anche che mentre si continua a parlare di palestre e di arti marziali, guardando il dito e perdendosi la luna, ci si dimentica dei modelli culturali che ci sono stati proposti in questi ultimi anni, ci si dimentica della fisicità e della muscolosità anche lessicale che inonda il dibattito pubblico, ci si dimentica della violenza che viene sparsa ogni minuto nelle discussioni mentre stiamo seduti comodamente sul divano, ci si dimentica dell’approccio guerresco che ormai è lo stile con cui affrontare qualsiasi conversazione. I famigliari dei Bianchi si sono fatti scappare quello che hanno pensato in tanti. Willy non era italiano di quegli italiani che sfoggiano la propria ignoranza sentimentale e che credono nel bullo, nel forte, nell’asfaltare l’avversario, nel grugno duro come manifesto di mascolinità, nel menar le mani per affermare le proprie opinioni, nel punire, quelli che la menano con l’onore e poi si mettono in quattro contro uno, con un mingherlino, con un altruista, un sorridente, floscio, un debole. Un non italiano, appunto.

Da open.online il 9 settembre 2020. «Ah piccolo Willy, che ci facevi alle 2 di notte in giro? Tu non sei piccolo, sei piccolo di età, ma già sei uno scafato». Parole deliranti affidate a una diretta social da parte di Giorgio Di Folco: sulla sua pagina Facebook da oltre 10mila “mi piace”, l’uomo si descrive come un “reporter”. Dopo l’omicidio del 21enne a Colleferro, Di Folco si è lasciato andare a dichiarazioni xenofobe, asserendo che Willy «è morto per sua scelta». «Piccolo Willy, come questi stronzettietti che a mezzanotte stanno ancora la Mcdonald’s in giro, bambini di 15 anni, se fate sta fine, è normale. Bambino, a casa a giocare. Non bambino a mezzanotte in giro, se no muore», ha detto l’uomo. Riferendosi direttamente a Willy, ha poi aggiunto: «Per me sempre immigrato sei, perché in Italia non esistono persone nere. Rimarrai sempre un immigrato, anche se hai una cittadinanza. Per me sei italiano quando sei bianco». Tutte queste frasi sono state indirizzate a un ragazzo massacrato di botte fino alla morte. Sul tema dell’immigrazione, poi, Di Folco ha lanciato un monito alle tante persone che seguivano la diretta: «Adesso non deve essere martirizzato da voi. Ci sono tanti italiani che ogni giorno vengono massacrati da “mao mao”. Entrano nelle case, violentano vecchie, spaccano la testa a tante persone italiane».

Il comunicato di Giorgio Di Folco. Il video ha iniziato a fare il giro della rete, diventando virale in pochissimo tempo. Di Folco ha poi rilasciato un comunicato per la stampa, che recita: In relazione a quanto pubblicato nei giorni scorsi, in occasione della morte del piccolo Willy, preciso quanto segue: le mie improvvide dichiarazioni sono state dettate sulla base di una falsa notizia e me pervenuta, che parlava di una lotta tra due bande d’immigrati irregolari e spacciatori. Ho avuto la superficialità di esprimere un assurdo commento senza accertare la fondatezza dell’ informazione. Questo è il motivo per cui ho parlato di immigrato irregolare. Non sono mai stato razzista e non lo sarò mai per il colore della pelle, ma lo sono solo ed esclusivamente nei confronti di delinquenti e spacciatori, qualunque sia il colore della pelle. Infatti non appena ho avuto notizia che Willy era un ragazzo serio e per bene, mi sono pubblicamente scusato per il clamoroso ed ingiustificabile mio errore. Di ciò mi scuso con la famiglia e con tutte le persone la cui sensibilità è stata offesa da questa mia dichiarazione. Voglio precisare in proposito che molti ragazzi di colore, sono miei amici, mentre rimarranno per sempre miei peggiori nemici, spacciatori che rovinano e distruggono la vita dei ragazzi e delinquenti comuni che insidiano ogni giorno la serenità di persone per bene come il povero Willy.

Aperta un’indagine sugli hater di Willy. Intanto la Polizia postale ha dato il via a un’indagine nei confronti di chi, in queste ore, sta offendendo la memoria di Willy Duarte Monteiro. Si apprende che tra le prime persone finite sotto la lente degli investigatori c’è un uomo di Latina che, sui suoi social, ha scritto: «Avete tolto di mezzo uno scimpanzé. Siete degli eroi». Ma sono molti altri i messaggi che incitano all’odio razziale partendo dalla tragica vicenda del 21enne di Paliano.

Omicidio Colleferro, polemica sulle frasi razziste di Giorgio Di Folco. Notizie.it l'08/09/2020. Stanno suscitando polemiche le parole del videomaker Giorgio Di Folco. Sull'omicidio di Colleferro ha affermato che: "Willy è morto per sua scelta". Non accennano a placarsi le reazioni in merito alla morte del 21enne Willy Monteiro, ucciso nella notte tra il 5 e il 6 settembre scorsi a Colleferro, dopo che dal web sono emersi nelle ultime ore ulteriori commenti razzisti rivolti nei confronti del ragazzo di origine capoverdiana. A essere protagonista della polemica social è in questo caso il videomaker Giorgio Di Folco, che nel corso di una diretta Facebook ha scaricato sul giovane le responsabilità di quanto accaduto affermando: “Willy è morto per sua scelta”. Di Folco, ex componente del direttivo locale della Lega di Cassino, ha pubblicato le proprie esternazioni all’interno della sua pagina Facebook da oltre 10mila seguaci: “Ah piccolo Willy, che ci facevi alle 2 di notte in giro? Tu non sei piccolo, sei piccolo di età, ma già sei uno scafato. […] Piccolo Willy, come questi str***etti che a mezzanotte stanno ancora al Mcdonald’s in giro, bambini di 15 anni, se fate sta fine, è normale. Bambino, a casa a giocare. Non bambino a mezzanotte in giro, se no muore“. Il videomaker se la prende dunque direttamente con il giovane ucciso, arrivando persino a negare la sua italianità in quando individuo con la pelle scura: “Per me sempre immigrato sei, perché in Italia non esistono persone nere. Rimarrai sempre un immigrato, anche se hai una cittadinanza. A seguito del vespaio di polemiche scaturitesi dall’intervento, Di Folco ha rilasciato un comunicato stampa in cui afferma di avere pronunciato quelle frasi sulla base di una falsa notizia a cui aveva dato credito: “In relazione a quanto pubblicato nei giorni scorsi, in occasione della morte del piccolo Willy, preciso quanto segue: le mie improvvide dichiarazioni sono state dettate sulla base di una falsa notizia e me pervenuta, che parlava di una lotta tra due bande d’immigrati irregolari e spacciatori. Ho avuto la superficialità di esprimere un assurdo commento senza accertare la fondatezza dell’ informazione”.

Ucciso a Colleferro, aperta indagine sugli hater social di Willy. Clemente Pistilli per repubblica.it l'8 settembre 2020. "Avete tolto di mezzo uno scimpanzè". "Siete degli eroi". Sui social si stanno scatenando anche i razzisti odiatori che insultano la vittima per il colore della pelle e inneggiano ai quattro arrestati accusati di aver ucciso a calci e pugni, domenica scorsa a Colleferro, il 21enne Willy Duarte Monteiro, per i quali gli investigatori stanno anche valutando l'aggravante razziale. Veri e propri messaggi che incitano all'odio, ma che non stanno passando inosservati. La polizia postale di Latina ha subito iniziato a indagare, concentrando questa mattina l'attenzione su un post del genere pubblicato da un latinense. L'uomo ha prima chiuso la sua pagina facebook, poi l'ha riaperta e ha pubblicato una serie di post dove sostiene che il suo sia un profilo finto e che non c'è alcuna vicinanza a Fdi, e che non pensava quelle cose di Willy. Il tutto dopo una valanga di insulti, circa 800 commenti di disprezzo, e la notizia dell'apertura dell'indagine da parte della polizia postale. Ma non è tutto. A Cassino un videomaker ha infatti pubblicato su un suo canale social un video in cui punta il dito contro Willy. "Tanti italiani vengono massacrati ogni giorno da Mao Mao. Piccolo Willy, ma che c... stavi a fare alle due di notte in giro? Se fate questa fine è normale", dice nella assurda diretta Giorgio Di Folco, noto come Giorgio Pistoia, ex componente del direttivo locale della Lega e attualmente simpatizzante del partito di Matteo Salvini. Ancora: "Per me sempre immigrato sei perché se sei nero in Italia non esistono persone nere. Sei italiano se sei bianco". Video poi rimossi dal videomaker, ma già diventati virali, davanti ai quali prende subito le distanze la stessa Lega. "Parliamo di un soggetto messo fuori dal partito da tempo, quando abbiamo rimosso il precedente coordinatore Carmelo Palombo. Mi fa schifo la persona, e deve scriverlo questo, e quello che dice. Persone così devono stare lontanissime dalla Lega e dalla società civile. Mi fanno venire i brividi e lo dico come papà", dichiara il coordinatore regionale della Lega nel Lazio, l'onorevole Francesco Zicchieri.

Umberto Rapetto per infosec.news il 10 settembre 2020. Non si accontentano che sia morto. Lo continuano a prendere a pugni e a calci. E lo fanno da ogni dove e a qualunque ora. Sono le bestie che si aggirano in Rete, che escono dalle loro fogne e si affacciano sui social con veemenza per testimoniare l’inciviltà che le contraddistingue, per ostentare la povertà di sentimenti, per mostrare una forza che non hanno nella vita reale, per sputare la rabbia e l’odio di cui sono gonfie. E’ il branco dei miserabili, dei pavidi sciacalli con le unghie sporche conficcate nella tastiere, degli scarti dell’umanità che crede di potersi nascondere dietro ad un nome fasullo o uno pseudonimo, delle belve che contano di farla franca “perché intanto figurati se viene qualcuno a prendermi…” Lo scempio dei post su Facebook (e sulle altre piattaforme che in queste circostanze di sociale non hanno proprio nulla) qualifica il degrado e annebbia qualsivoglia prospettiva di un anche millimetrico miglioramento futuro.

Qualcuno indaghi senza perdere tempo. Ammesso che la morte di un ragazzo possa mai servire a qualcosa, il brutale assassinio di Willy voglio sperare resusciti il senso civico della gente comune e sproni le Forze dell’Ordine a ripristinare quella legalità che in Rete sembra destinata ad essere un miraggio. Non mi si vengano a raccontare le difficoltà operative, i problemi di extraterritorialità e transnazionalità, gli escamotage degli utenti per rendersi irriconoscibili, le poche risorse a disposizione e le troppe indagini in corso, le lunghe attese per ottenere risposta dai colossi del web per eseguire le investigazioni. Gli infami che hanno manifestato gioia per un così drammatico evento, quelli che si sono complimentati con gli assassini, quegli altri che hanno espresso soddisfazione e i restanti che hanno messo mi piace o hanno ricondiviso messaggi indegni per la razza umana, devono essere identificati, presi, processati, condannati. Senza pietà. Senza quella pietà che loro stessi hanno negato in questa e in chissà quante altre circostanze in cui hanno preferito conficcare un chiodo o piantare una lama piuttosto che deporre un fiore. L’anonimato non esiste e chiunque si muove online distribuisce informazioni che ne permettono la rapida individuazione e la successiva conferma. Sui social rimane traccia anche di quanto viene cancellato dopo una “imprudente” pubblicazione. Ogni post ha un suo ID cui sono agganciati data ed ora, account dell’autore, eventuale dislocazione geografica, sistema operativo adoperato, app o browser utilizzati e così a seguire.

La gente deve collaborare. Le forze di polizia senza dubbio non possono mettersi a rastrellare il web, ma questo Paese – in cui le “energie buone” ancora sopravvivono – è pronto a dimostrare la propria vicinanza alle Istituzioni e, soprattutto, non credo disdegni di segnalare le ributtanti manifestazioni di odio che si stano palesando online. La predisposizione di una scheda (approntata, questa, dalla Polizia Postale e delle Telecomunicazioni) può incanalare gli spunti operativi: indicazione del link e di ogni altro elemento ritenuto utile dagli investigatori può risolvere in un baleno la ricerca necessaria per attivare le indagini e dare avvio alla caccia degli spavaldi disseminatori di astio che fanno apologia di reato e istigano alla reiterazione di condotte assassine. Potrebbe bastare persino un canale di comunicazione attraverso WhatsApp, i cui messaggi arriverebbero in un attimo alla scrivania giusta. In ogni caso chi vede apparire sulle proprie pagine commenti e post che farebbero inorridire anche un serial killer non esiti a copiare quel che appare nella barra di navigazione in alto sullo schermo. Lo incolli in un messaggio istantaneo (WhatsApp, Telegram., Signal, Messenger…) o di posta elettronica e lo spedisca a chi deve intervenire. Ci si chieda come mai la persona che osanna i carnefici sia finita tra gli “amici” di Facebook e si provveda a cancellarla dal novero delle conoscenze fatte su quello o su altro social. Certi mostri devono essere isolati e per chi vive di like o di follower peserà anche questa perdita di notorietà: il venir meno del pubblico è il primo elementare castigo per soggetti che non hanno alcun valore e che credono solo nell’esibizione e in un ipotetico seguito.

Il ruolo della polizia urlata e le conseguenze del non intervenire. La violenza verbale è figlia di certi cattivi esempi. A dare il “la” a determinate inammissibili manifestazioni sono stati certi politicanti (“politici” ha ben altro significato) che cavalcano l’insoddisfazione popolare amplificando l’insofferenza e incitando all’intolleranza. I toni da arena in cui ci si scanna sono divenuti obbligatori e non servirsene  sembra costituire mancanza di coraggio: ecco la deformazione che i moderni Masaniello hanno determinato nello stesso pubblico che – dopo averne osannato l’ardire – sarà pronto a passarli per le armi. Se a questi signori è lecito chiedere di ripristinare la civiltà del linguaggio e delle espressioni e di moderare gli atteggiamenti, alle Forze dell’Ordine e alla Magistratura è altrettanto legittimo domandare di agire il prima possibile. Quel che purtroppo leggiamo sui social è destinato a ristagnare avvelenando un contesto già fin troppo tossico. Il fatto che nessuno paghi per le responsabilità che si assume una volta alla tastiera è il concime che fa prosperare l’inciviltà. Si identifichino questi improbabili ninja dei social e li si punisca in maniera esemplare così che tutti capiscano. Perché la legge è uguale per tutti. E lo deve essere anche nella versione digitale della nostra esistenza.

No, Willy Monteiro non era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Notizie.it il 7/09/2020. Quando lo hanno massacrato di botte a Colleferro, Willy Monteiro era esattamente dove voleva essere: a passare una serata con persone a lui gradite. La sociologia del crimine è una brutta bestia. È brutta perché ti porta ad schiacciare gesti, azioni e vite dei protagonisti di un’azione delittuosa nelle formine strette delle categorie e dei contesti preconfezionati. Contesti per cui l’omicida, o gli omicidi, devono avere una caratura lombrosiana, un battage estetico che giustifichi la loro brutalità. E per cui di pari passo la vittima debba andare in binario di un certo story board narrativo. Tutto questo porta le tragedie a levitare in una sorta di limbo analitico che perde di vista la polpa del loro manifestarsi: la concitazione di un preliminare che sembra solo una baruffa di cui parlare il giorno dopo al bar, l’esplosione della violenza, le urla di quei minuti maledetti, i colpi contrappuntati dai grugniti e dalle bestemmie, il fiato corto di vittima e picchiatori, i passanti atterriti fra pacificazione rischiosa e spettacolo orrido, il respiro che perde ritmo e sfuma orribilmente nel silenzio della morte, la sirena di un’ambulanza, gli assassini compiaciuti davanti ad uno shot, il buio che torna a prender casa in Ciociaria. È come se la mente cogliesse l’occasione narrativa del giudizio etico per non sporcarsi le mani nella semplice ed inorridita contemplazione della bruttura. Una trama sotto la trama per cui Willy Monteiro era "nel posto sbagliato al momento sbagliato". E invece no: quando lo hanno massacrato di botte in gruppo Willy era esattamente dove voleva essere, cioè a passare una serata con persone a lui gradite e a cercare di salvare la serata nel vedere che la medesima imbruttiva per un motivo pare cretino. Lo avremmo fatto tutti, anche i più pavidi e ritrosi di noi. E la sconcia barbarie della reazione che la sua scelta ha scatenato, portandolo al buio della morte, non è la fisiologica epifania di un meccanismo di causa effetto, quella è roba da proscenio. Di una cosa cioè dove il Destino Greve ti ha spinto nell’unico anfratto del tuo vissuto che dovevi rifuggire come la peste. È qualcosa di meno, e di peggio: è la possibile evoluzione di una faccenda quando di mezzo ci sono bruti da un lato e persone normali dall’altro. E in un mondo dove le bestie sono maggioranza può succedere. È un mondo dove a rimpolpare le file di quella maggioranza mannara ci abbiamo pensato un po’ tutti, ciascuno dal suo cantuccio, ciascuno con un minuscolo tassello di pedagogia al contrario. Willy Monteiro Duarte sognava di poter indossare un giorno la maglia della sua amata AS Roma. Questo sogno è stato spezzato la notte scorsa, nel modo più tragico e brutale possibile. I nostri pensieri vanno alla famiglia e agli amici di Willy. Attenzione: non brutalità e normalità, quelle sono categorie che generalizzano e danno abbrivio solo alle psico menate mainsream del dopo tragedia o ai meme che occhieggiano alle fattezze truzze degli assassini col rovello del karate. No, le cose vanno ficcate negli abiti delle persone che quelle cose le fanno accadere. E ci vanno ficcate con la misura perfetta che vede l’individuo combaciare con ciò che fa. Solo così la banalità del male che tanto fece incazzare i detrattori di Hannah Arendt viene fuori e diventa chiave di lettura scomoda ma tiranna assoluta. Willy non ha messo in moto nessun meccanismo ineluttabile, non ha spostato l’asse del raziocinio verso il dirupo della rottura della quiete del sistema. Neanche ha avuto tempo per riflettere sullo spessore etico di ciò che pare abbia fatto, lo ha fatto e basta perché gli eventi sono onde e l’uomo è barchetta piccola, guscio di noce che però conserva dritta, nella più parte dei casi, la barra istintiva della correttezza e della solidarietà fra amici. Ergo, se qualcuno vuole legnarne uno dei tuoi, tu ti metti in mezzo e provi a metter pace o a fare squadra. No, il giovane ciociaro non si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Facciamo tutti volentieri la tara alla genuinità degli intenti di chi ha voluto chiosare una tragedia così grande con questa frase, ma non siamo d’accordo. Non potremmo esserlo mai, perché significherebbe che il mondo in cui viviamo è fatto di posti e circostanze in cui vivere è lecito e di angoli bui in cui decidere di agire secondo coscienza è rischioso e, per certi versi, sconsigliabile. E questo messaggio non può passare, non in un sistema complesso occidentale di terza generazione come il nostro. Un posto dove bruti, cafoni sguaiati e picchiatori dovrebbero essere esempi al contrario e invece troppe volte diventano stereotipi con sessappiglio social. Willy ha fatto quello che tutti dovremmo fare: ha fronteggiato un gruppo di bestie per evitare che la bestialità tracimasse. E il fatto che sia successo l’esatto contrario, con lui cadavere in una morgue romana e con una famiglia schiantata, non toglie un’oncia di bellezza alla rotonda perfezione del suo gesto. Ricordare Willy Monteiro significa esattamente questo: non scordarsi mai che è morto non per qualcosa, ma di qualcosa. È morto di normalità in un mondo che la normalità non la conosce più.

Omicidio Willy: fratelli Bianchi già indagati per spaccio, lesioni e minacce. Notizie.it l'11/09/2020. Accusati dell'omicidio di Willy Monteiro, i fratelli Bianchi erano già indagati dalla Procura di Velletri per rissa, spaccio, lesioni e minacce. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi, ora accusati di omicidio preterintenzionale ai danni del giovane capoverdiano Willy Monteiro, risultavano già indagati dalla magistratura. Il primo per spaccio di stupefacenti, lesioni, rissa, porto di oggetti atti ad offendere, il secondo per spaccio, rissa e minacce. Prima che i due prendessero parte alla rissa di Colleferro, la Procura di Velletri aveva infatti già aperto in totale otto fascicoli di indagine per i due ragazzi. Sono state anche le accuse precedenti a quella di omicidio a spingere il Giudice per le indagini preliminari a confermare la misura cautelare del carcere. Oltre che l’aver già presumibilmente commesso dei reati e l’essere dei picchiatori esperti, sulla valutazione del giudice è pesata anche la totale assenza di capacità di autocontrollo degli indagati, la loro incapacità di resistere agli impulsi violenti e la sostanziale indifferenza rispetto alle iniziative processuali intraprese nei loro confronti. Ma anche la minimizzazione del fatto da loro assegnato alla responsabilità di terzi, compiuto nonostante la presenza di testimoni e la vicinanza alla caserma dei Carabinieri. Tutte circostanze che hanno spinto il Gip a confermare sia l’aggravante per futili motivi, non avendo i due fratelli ragione di aggredire Willy, sia la detenzione. Considerata quest’ultima “l’unica cosa in grado di porre concreto ed effettivo argine al pericolo di reiterazione di condotte violente quali quella per cui si procede“. Il giudice non ha infine escluso, alla luce di quanto predetto, un aggravamento del capo d’accusa da omicidio preterintenzionale (far male ma senza l’intenzione di uccidere) a volontario (colpire per uccidere).

I FRATELLI BIANCHI. C.Moz, M.Sba. per ''Il Messaggero'' il 9 settembre 2020. Un negozio di frutta aperto da soli tre mesi e le vacanze a Positano, in giro per la Costiera Amalfitana, in luoghi inavvicinabili a moltissime persone. A vedere le immagini che i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, postavano sui social per raccontare la vita che conducevano viene da domandarsi con quali risorse si garantivano quel tenore di vita. Ostentato che fosse, a nessuno dei due mancava mai l'abito firmato, l'orologio giusto, gli accessori all'ultima moda, la moto super veloce. Ma di cosa vivevamo i due fratelli finiti dietro le sbarre del carcere con l'accusa di aver pestato a morte il giovane Willy Monteiro Duarte? Quali e quante erano le loro fonti di reddito tali da permettersi una vita piena di agi e anche di vizi? Il primo, Marco, da qualche mese, subito dopo il lockdown, aveva aperto un piccolo negozio di frutta verdura a Cori, comune della provincia di Latina. Non un grande locale su cui tra l'altro il sindaco della cittadina, Mauro De Lellis, ha già avviato le pratiche per il ritiro della licenza. Ci lavorava anche Gabriele ma poteva bastare ad entrambi per spassarsela in giro per locali e posti noti di villeggiatura? La famiglia Bianchi abita in una frazione di Artena, il padre ha un'impresa di pozzi artesiani, gli altri figli (in tutto sono quattro) hanno delle attività commerciali: un'enoteca a Lariano e un negozio di alimentari. Marco e Gabriele, però, al netto della frutteria di Cori risultano nulla tenenti. La scuola interrotta a metà, l'università mai presa, lavori saltuari, dicono ad Artena «quando gli andava voglia». Motivo per cui non si escludono accertamenti di natura patrimoniale nei prossimi giorni. Di contro, le serate nei locali, il lusso ricercato in ogni modo, la testa calda nota anche alle forze dell'ordine che sui due fratelli hanno accumulato negli ultimi tre anni un discreto numero di denunce. Comprese alcune per spaccio di stupefacenti. Marco, il più piccolo dei due, ha alle spalle almeno due denunce per rissa, altrettante per lesioni personali e spaccio, oltre a una serie di contravvenzioni amministrative. Gabriele non è da meno. In passato è stato accusato di minaccia, lesioni, porto di oggetti atti a offendere e stupefacenti. Qualcosa in più dell'hashish. Tutti reati, per entrambi i fratelli Bianchi, contestati negli ultimi tre anni: dal 2017 a oggi, e nel perimetro di Velletri, Lariano ed Artena. Gabriele sta per diventare padre. La compagna, Silvia Lagada, all'Adnkronos ha detto: «Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c'è più, la giustizia farà il suo corso e la verità verrà fuori». Ma intanto per le strade di Artena e per quelle di Lariano chi si è almeno incontrato una volta per strada o in piazza con i due fratelli Bianchi descrive due ragazzi «sopra le regole», «spocchiosi e chiassosi». Qualcuno si ferma a raccontare anche la loro nomea: «capita in queste piccole città che avvengano a volte le risse di fronte ai locali, per stupidi motivi, e molto spesso ti ritrovavi pure i Bianchi in mezzo».

Arti marziali e vita senza regole: ecco chi sono gli aggressori di Willy Monteiro. Hanno tutti tra i 22 e i 26 anni e precedenti penali per lesioni e droga. Riflettori puntati, in particolare, sui fratelli Bianchi, che sarebbero definiti a Colleferro “picchiatori professionisti”. Ignazio Riccio, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Sognava di diventare uno chef affermato Willy Monteiro, il ragazzo di 21 anni, di origini capoverdiane, ucciso a calci e pugni per aver difeso un amico a Colleferro, nella periferia a sud di Roma. Gli inquirenti hanno individuato e arrestato con l’accusa di omicidio preterintenzionale in concorso quattro persone: i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Gli aggressori, trovati in piena notte mentre bevevano birra in un pub all’Artena, hanno tutti tra i 22 e i 26 anni e precedenti penali per lesioni e droga. I riflettori nel piccolo centro romano sono puntati, in particolare, sui fratelli Bianchi, che sarebbero definiti a Colleferro “picchiatori professionisti”. I due ragazzi, infatti, praticano la Mixed Martial Arts, uno sport estremo che fonde la boxe con le arti marziali. Le foto che circolano sui social, a torso nudo, confermano la loro passione. Per gli investigatori si tratta di giovani che sarebbero abituati a vivere la loro vita senza seguire alcuna regola, mossi solamente dal culto della violenza. La loro sfrontatezza sarebbe confermata anche dall’atteggiamento tenuto nel corso dell’interrogatorio: nessuna giustificazione, nessun pentimento, i giudici si sono trovati di fronte ad un muro impermeabile, fatto di silenzio e di sfida alle istituzioni. Nella periferia sud di Roma il clima è pesante e spesso si assiste a scene come quelle capitate l’altra notte in piazza Oberdan. I residenti sono impauriti e confessano che temevano che, prima o poi, ci sarebbe scappato il morto. Troppe le risse, numerosi i ragazzi che tirano tardi fino alle prime ore del mattino, tra alcol e droga, che, molto spesso, conducono a violenti liti e schiamazzi. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe anche l’aggravante razziale per la morte di Willy Monteiro, anche se questa accusa non è stata materialmente contestata ai quattro indagati. L’intera comunità di Colleferro, comunque, è sotto choc e per la giornata di oggi il sindaco Pierluigi Sanna ha proclamato il lutto cittadino. Intanto, nuovi dettagli si aggiungono nella ricostruzione dell’accaduto. Willy aveva da poco finito di lavorare nell’albergo alle porte dell’Artena. Tornato a casa è uscito di nuovo per raggiungere alcuni amici a largo Santa Caterina. Qui si è trovato coinvolto in una rissa, dopo che uno dei quattro arrestati aveva cominciato a litigare con un giovane, il quale, a suo dire, aveva lanciato uno sguardo di troppo a una ragazza. Willy conosceva il malmenato e si è gettato a capofitto in suo soccorso, ma ha avuto ben presto la peggio. Il branco ha continuato a picchiarlo anche quando era a terra, privo di coscienza. Fuggiti gli aggressori il giovane cuoco è stato soccorso dal 118, ma ha perso la vita lungo il tragitto verso l’ospedale.

I bulli diventati esattori dei pusher: “Avevano già fatto aggressioni simili”. Paolo G. Brera e Rory Cappelli il 7 settembre 2020 su La Repubblica. "F.B." c’è scritto sul grande cancello nero con le lance a bucare il cielo: Famiglia Bianchi. Dietro il cancello c’è il leone di pietra a grandezza naturale, quello accanto al quale Gabriele si è fatto fotografare per la copertina di Facebook; sembra la villa di Scarface, ma in versione de noantri, coi muri scalcinati e i fili che pendono dove nascerà un citofono. Ci sono i bambini che giocano, c’è Ruggero che per una vi...

Omicidio Willy, villa con statue di leoni all'ingresso: ecco la casa del padre dei fratelli Bianchi che percepiva il reddito di cittadinanza. La Repubblica il 27 settembre 2020. Omicidio Willy, villa con statue di leoni all'ingresso: ecco la casa del padre dei fratelli Bianchi che percepiva il reddito di cittadinanza. Macchine, statue di leoni, una villa ben diversa dalla casa di chi non ha nulla ed è costretto a chiedere il reddito di cittadinanza. Le mostrano le telecamere della 7. Dopo l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, la Guardia di Finanza ha avviato una indagine sui redditi della famiglia di Gabriele e Marco Bianchi e ha accusato di frode il padre Ruggero per aver omesso dei dati nella richiesta del Reddito di Cittadinanza. Video la7

Gli "strani" redditi dei Bianchi, fruttivendoli con una vita di lusso. La procura ha avviato una indagine sui redditi della famiglia Bianchi che non sarebbero in linea con il tenore di vita ostentato dai fratelli. Il padre percepisce il reddito di cittadinanza. Gabriele Laganà, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Il passato dei fratelli Gabriele e Marco Bianchi non è certamente dei più tranquilli. La procura di Velletri aveva già messo nel mirino i due ragazzi di Artena: prima del folle e mortale pestaggio di Willy Monteiro Duarte, infatti, i pm avevano aperto cinque fascicoli di indagine per Marco e tre per Gabriele. Spaccio di stupefacenti, lesioni, rissa e porto di oggetti atti ad offendere per uno. Spaccio, rissa e minacce per l'altro. Marco, in particolare, fu arrestato nel maggio del 2018 dai carabinieri di Velletri per stupefacenti. Forse anche per questo il gip del tribunale di Velletri ha confermato per i fratelli la misura cautelare del carcere. La procura ha avviato una indagine sui redditi della famiglia Bianchi e degli altri indagati. Redditi che, almeno ad una prima lettura non giustificherebbero il tenore di vita ostentato dai fratelli Bianchi. Come racconta Il Messaggero un fascicolo che da tipo amministrativo è destinato a divenire fiscale. Gabriele aveva rilevato da poco una frutteria nel centro di Cori, piccolo centro in provincia di Latina. Eppure chi lo conosce bene sostiene che nel negozio non andava spesso. Il 26enne, più che altro, era spesso visto in giro fino a notte fonda, dopo le serate passate nei locali. Difficile che ad aiutare economicamente i fratelli possa essere stato il padre Ruggero: quest’ultimo, infatti, risulta percepire il reddito di cittadinanza. Le indagini degli uomini dell’Arma proseguono serrate. Anche ieri sono stati ascoltati nuovi teste che hanno assistito al brutale pestaggio avvenuto in largo Oberdan. I militari stanno cercando di identificare le tre ragazze con cui i Bianchi hanno detto di essersi allontanati dalla zona dei locali di Colleferro per fare sesso vicino al cimitero. Un’azione che sarebbe avvenuta prima della follia compiuta in strada contro Willy. Contestualmente, per motivi cautelativi sono state ritirate delle armi, regolarmente detenute, che avevano in casa Ruggero Bianchi, padre di Gabriele e Marco, e Stefano Pincarelli, genitore di Mario. Inoltre, dopo un controllo dei militari del Nas e del Nucleo Tutela Lavoro della polizia amministrativa e della Asl locale,è stata chiusa per cinque giorni la palestra Millennium di Lariano dove i Bianchi praticavano la Mma, disciplina che usa pugni e calci per il combattimento. Il riscontro di gravi violazioni amministrative è la motivazione ufficiale. Di diverso avviso i gestori della palestra che in una nota pubblicata su Facebook hanno precisato che la chiusura è legata a motivi sanitari inerenti al coronavirus: "A seguito delle verifiche effettuate dalle autorità competenti presso il centro sportivo Millennium, è stata riscontrata la necessità di migliorare la sicurezza nei percorsi di accesso all'impianto connesse alla prevenzione Anticovid. In particolare si devono adottare modifiche che impongano una sola entrata all' interno del centro sportivo. Al fine di procedere a tali adempimenti le autorità competenti hanno imposto di provvedere entro martedì 15 settembre 2020. Pertanto, si comunica che il centro Sportivo riprenderà la normale attività dal 15 settembre 2020. Ci scusiamo per il disagio". Intanto la posizione dei quattro presunti assassini di Willy si è aggravata nelle ultime ore: i giovani rischiano l'ergastolo. Alla luce dei primi risultati dell’autopsia e delle dichiarazioni rese da nuovi testimoni, la procura di Velletri ha cambiato capo di imputazione per i fratelli Gabriele e Marco Bianchi e i loro due amici Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l'unico ai domiciliari, da omicidio preterintenzionale in omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Dall'esame autoptico è emerso che i colpi inferti a Willy sono stati "ben assestati e non casuali". Una violenza prolungata, messo a segno con una rapida successione di colpi contundenti che hanno provocato polifratture al collo, al volto e all'addome del ragazzo che non ha avuto nemmeno il tempo di reagire. Ciò fa pensare che i colpi siano stati inferti da persone esperte di pugni e arti marziali. Ma il cambio di imputazione non è stato gradito da Massimiliano Pica, avvocato dei fratelli Bianchi e di Mario Pincarelli."Finché non mi mandano nulla dalla Procura per me resta ancora omicidio preterintenzionale", ha affermato all'Adnkronos il legale. "Non sapevo di questo cambio di imputazione – ha aggiunto - ma in base all'autopsia mi sembra abbastanza azzardato l'omicidio volontario". La comunità di Paliano, in provincia di Frosinone, si prepara a dare l'ultimo saluto a Willy: al funerale del giovane, che si svolgerà nel campo sportivo comunale parteciperà anche il premier Giuseppe Conte. La famiglia di Willy ha chiesto "opere di bene al posto di omaggi floreali e, per chi lo desiderasse, di partecipare indossando una maglia o una camicia bianca, come simbolo di purezza e gioventù". In un lungo post su Facebook, il sindaco Pierluigi Sanna si è scagliato contro chi definisce Colleferro "come il luogo peggiore del pianeta. Willy c'è morto in braccio a noi Colleferrini: chiediamo rispetto del nostro dolore".

Gli arrestati di Colleferro, una vita da fiction fra droga e lusso: "Solo a incontrarli facevano paura". Ad Artena, tra i residenti  rabbia e dolore. "Li conoscevamo bene, tutti rasati e tatuati, spacciavano droga e picchiavano per recuperare i crediti dei pusher". Rory Cappelli l'8 settembre 2020 su La Repubblica. Artena. Quelle case arroccate sul costone calcareo paiono quasi un miraggio arrivando in questo comune dell'area metropolitana di Roma, come quando si giunge a Calcata o a Monteriggioni. Sembra un quadro. Poi entri nella parte bassa del paese, parli con la gente, e di poetico in mano ti resta ben poco. Qui - sette minuti in macchina da Colleferro, il luogo in cui sabato notte è stato ucciso a calci e pugni di Willy Monteiro Duarte - vivono i quattro ragazzi accusati dell'omicidio. "Abbiamo paura, sì, abbiamo paura" dice una signora che rientra dalla spesa, due grosse buste di plastica in mano, dietro di lei la sede del Comune. "A volte mi sembra di vedere per la strada i protagonisti di certe serie televisive, tutti rasati, pieni di tatuaggi, con l'aria aggressiva ". In piazza della Vittoria, anch'essa arroccata sul costone, c'è un bar. Gli avventori con il volto coperto dalla mascherina anche qui, come dal giornalaio, dal tabaccaio, in ogni angolo in cui è possibile fare capanella, non parlano d'altro: dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, di Mario Pincarelli, di Francesco Belleggia. "Li conoscevo, sì, come tutti. Dei prepotenti, che quando camminavano se ti trovavi sulla loro strada, ti venivano addosso apposta, per darti un colpo, per fare vedere chi comanda" dice un ragazzo, 20 anni al massimo. "Si credono dei veri dritti, io conosco bene Mario Pincarelli, abbiamo fatto cresima e comunione insieme " ricorda Massimo, 22 anni. "Fin da ragazzino è stato un gran prepotente, faceva cose assurde, tipo farmi vedere, sotto il banco della chiesa, durante la comunione, come si rolla una canna. Ed eravamo veramente piccoli". Andrea, barista anche lui di 22 anni, parla invece dei tatuaggi di Pincarelli: "Io ne ho alcuni, e ognuno di questi lo ho sudato, nel senso che non te li regala nessuno, costano. Mario è pieno di tatuaggi: com'è possibile? Dove lo prendeva tutto il denaro che aveva? Eravamo in classe insieme ma lui era rimasto indietro, è stato bocciato un'infinità di volte, credo non sia neanche riuscito a finire le medie. Il massimo è stato il giorno - racconta ancora Andrea - in cui l'ho visto con il tatuaggio di una lacrima nera all'angolo dell'occhio: nel linguaggio simbolico delle gang significa che hai ucciso". Tutti e quattro hanno precedenti per reati come la rissa, i due fratelli anche per spaccio. C'è chi racconta che i fratelli facessero i picchiatori per recuperare crediti per conto dei pusher, "criminali anche loro, altroché" racconta Marco. Quella sera a chiamarli era stato Pontiggia, che aveva il braccio ingessato. "E spacciavano, anche Pincarelli: fuori dalla sua villa, durante la notte, era tutto un via vai di macchine".

Estratto dell’articolo di Federica Angeli per “la Repubblica” l'8 settembre 2020. (…) I quattro, più un quinto giovane di Velletri (risultato estraneo al pestaggio, ma comunque indagato) vengono portati in caserma a Colleferro. Vanno lì anche i loro genitori, così come i ragazzi di Paliano amici di Willy e gli altri testimoni. Che sentono (e lo riferiscono poi ai militari) uno dei familiari degli arrestati dire: «In fin dei conti cos' hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario». La notizia che Willy è morto è già arrivata, ma ai suoi genitori verrà comunicata due ore dopo, alle 7 del mattino. Il sindaco di Colleferro, Pierluigi Sanna, consegna ai carabinieri le immagini delle telecamere di sorveglianza. Il buio ha oscurato tutta la sequenza di morte. Oggi alle 10.30 nel carcere di Rebibbia l' interrogatorio di garanzia dei quattro killer di Willy, difesi dagli avvocati Vito Perugini e Massimiliano Pica. 

Estratto dell’articolo di Paolo G. Brera e Rory Cappelli per “la Repubblica” l'8 settembre 2020. (…) C'è di peggio. Un amico di Willy assicura che avessero trovato un modo di far soldi con la montagna di muscoli che si portavano addosso: «Ma quali bulli, sono criminali che fanno recupero crediti per i pusher », dice. Hanno precedenti per lesioni, droga. I carabinieri li conoscono bene, «criminali di una certa levatura, ben superiore agli altri due indagati », dicono dalla compagnia di Colleferro. Ma per qualcuno erano un mito, i fratelli che sciamavano per la valle con il Suv Q8 e la Bmw, pestavano e facevano lo sguardo da duri, spacciavano e avevano bei soldini nelle tasche. Mario Pincarelli, 22 anni, cintura nera di karate, era in scia: «Bocciato e ribocciato a scuola, abbiamo fatto cresima e comunione insieme e faceva il bullo con erba e cartine in chiesa, a dieci anni», dice Andrea il barista. Tatuato da capo a piedi, lacrima nera sotto l' occhio che nel linguaggio delle gang è messaggio sinistro da picchiatore: papà faceva il piastrellista, lui mette su ponteggi, la gente dice che «è solo un pischello» ma è un pischello che fa paura. Un pischello che ha pestato un vigile, il 21 agosto, perché provava a dirgli che fosse meglio indossare una mascherina. Poi c' è Francesco Belleggia, il geometra 23enne. Anche loro sono quattro fratelli, ha un braccio ingessato ed è lui che ha chiamato gli amici per chiedere aiuto, sabato notte a Colleferro. Ora dice che gli dispiace tanto, «è disperato» racconta il suo avvocato. Lui e Pincarelli sono di Artena vecchia, piccola meraviglia abbarbicata a monte, pedonalizzata per orografia impraticabile, tutta scalinate in porfido. Qui le consegne porta a porta arrivano ancora oggi col mulo. Ma i giovani van via, se possono, sognano i soldi e le ragazze tatuate come loro, le auto sportive e la vita frizzante che qui è un miraggio perché ci sono i Tir fermi per far transitare il gregge, ed è troppo difficile spiegar loro che quella vita che sognano è un miraggio che finisce a Rebibbia.

Omicidio Colleferro, nella palestra degli aggressori di Willy. L'istruttore di MMA: "Insegno la non violenza, non alleno killer". Camilla Romana Bruno su La Repubblica l'8 settembre 2020. Luca Di Tullio è l'istruttore della MMA Academy di Lariano, palestra dove si allenavano Marco e Gabriele Bianchi, accusati del pestaggio di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo 21enne che ha perso la vita a Colleferro. "Gabriele non si allennava più con noi da tre anni, era passato al pugilato - racconta - mentre Marco aveva combattuto fino a dicembre, poi dopo il Covid non era più tornato". Parlando di Willy l'istruttore si commuove, lo chiama "bambino", e ripete che "non doveva morire così". Provato, probabilmente, anche dai tantissimi attacchi che la sua palestra ha ricevuto sui social, additata come complice della violenza dei due aggressori. "Mi attaccano tutti ma io non sono il maestro dei killer, io insegno la disciplina", ripete tra le lacrime.

Omicidio Willy, qual è il rapporto fra l'allenatore della nazionale di MMA e Marco Bianchi? Ecco cosa abbiamo trovato. Le Iene News il 14 settembre 2020. Fabio Ciolli, allenatore della nazionale MMA FIGMAA, sport nella bufera dopo la morte di Willy Duarte, racconta: “Marco Bianchi l’ho visto combattere, nell’ambiente ci conosciamo tutti”. Ciolli risulta però essere proprio il manager di Bianchi, con la società Hung Mun. “È sotto contratto dal maggio 2019 ma non gli ho mai organizzato un incontro”. Ma in rete alcuni elementi che abbiamo trovato sembrerebbero creare confusione: l'allenatore Ciolli risponde allora a Iene.it. “Se conoscevo i fratelli Bianchi? L’ambiente è talmente piccolo che ci conosciamo tutti, io sono il direttore tecnico della nazionale di MMA. Gabriele non lo conoscevo proprio, Marco l’ho visto combattere, non mi ha impressionato più di tanto. Sulla loro vita privata non so nulla, a me fanno vedere dei video degli atleti. Ho visto dei suoi allenamenti…”. A parlare è Fabio Ciolli, allenatore di MMA e direttore tecnico della nazionale italiana della federazione FIGMAA, uno sport in questi giorni finito in mezzo alle polemiche nate dalla tragica vicenda del brutale pestaggio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, per cui sono stati arrestati 4 ragazzi. Tra loro ci sono appunto i fratelli Marco e Gabriele Bianchi che praticavano le MMA, “Mixed Martial Arts”, una disciplina sportiva che mescola boxe e arti marziali. Ciolli difende l'MMA, che ritiene sotto attacco in modo ingiustificato. "È l'insieme di tecniche di altri sport da combattimento, inseriti nel programma olimpico. Ora si cerca il responsabile: l'accanimento contro la MMA è dovuto a questo fatto di cronaca efferato, forse per l'opinione pubblica è più facile cercare di trovare il mostro". Tutto giustissimo, se non fosse che Fabio Ciolli, quando gli chiediamo di commentare i fatti e di parlarci dei due fratelli Bianchi, non menzioni per primo una cosa che ci sembra importante: sarebbe lui stesso il manager di Marco Bianchi, cioè chi ne gestisce gli incontri. Lo testimonierebbe questo post su Facebook della Hung Mun, società di management di Fabio Ciolli, nel 2019. "Marco Bianchi firma per il management Hung Mun... un altro giovane prospect entra nel management Hm!”. Quando glielo chiediamo risponde così: “Noi abbiamo tutto uno staff che porta atleti, che si avvicinano a noi per trovare dei match. Fanno parte del team le persone che si allenano e hanno stretto contatto con noi quotidianamente. Il management invece è semplicemente una lista di atleti, alcuni non sono neanche italiani, che vengono inviati agli eventi. Non è come il procuratore di calcio che ha stretto contatto con l’atleta”. Gli chiediamo poi se, da manager, abbia mai gestito uno degli incontri di Marco Bianchi: “No, ancora non ho avuto modo di trovargli nessun match. Non ho mai fatto fare combattimenti a Marco Bianchi con la Hung Mun, la mia società di management sportivo, assolutamente no. Noi abbiamo una clausola che prevede la rescissione del contratto in casi molto meno eclatanti. A Marco Bianchi non ho mai trovato un match ancora e ovviamente non potrò mai più trovarglielo”. In rete abbiamo però trovato traccia di un incontro di Marco Bianchi, che da quanto scritto potrebbe sembrare proprio sotto l’egida di Hung Mun. Lo potete vedere da questo post su Facebook, nel quale è pubblicizzato l’evento “Invictus Arena #27”, del dicembre 2019. “Marco Bianchi atleta del Team Di Tullio rappresentato dall’Hung Mun management”, è scritto sul post, “affronterà Giordano Spalletti il prossimo 15 dicembre a Roma in occasione di Invictus Arena #27. Enjoy the HM management”. Un incontro poi vinto da Bianchi, come riporta quest’altro post su Facebook. Chiediamo a Fabio Ciolli di questo incontro e lui ci spiega. ”Quell’evento Invictus #27, nel 2019, Marco se l’è trovato da solo. Aveva firmato con noi ma quel match se l’è trovato da solo, noi abbiamo solo collaborato per la pubblicità. Io non ho neanche il contratto di quell’incontro, non so neanche quanto ha preso. A oggi nessuno del mio management ha trovato un match per lui“. Marco Bianchi quindi, stando alle parole di Fabio Ciolli, da quando è sotto contratto per la Hung Mun, non avrebbe mai sostenuto un incontro procurato dal team. Sul sito della federazione FIGMAA troviamo però il riferimento a un incontro del 2016, un combattimento a Porto Azzurro tra Marco Bianchi e Michele Martignoni. Sul sito della federazione infatti Marco Bianchi è presentato così: “Michele Martignoni (Hung Mun) vs Marco Bianchi (Hung Mun)". Questo potrebbe forse significare che Marco Bianchi era sotto contratto almeno dal 2016? In quattro anni la società non ha organizzato per lui neanche un solo combattimento? Ciolli sostiene che: “la firma del contratto di management con Marco è avvenuta a fine maggio, prima di quel match di dicembre 2019”. E sul perché già nel 2016, sullo stesso sito della federazione FIGMAA, si scriveva “Marco Bianchi (Hung Mun)”, dice: "Non ricordo di aver avuto a che fare con Marco prima del 2019. È ovviamente un refuso, non potrebbero combattere due atleti dello stesso team". Fabio Ciolli sull’atleta Marco dice: “L’ho visto una, due volte. Ha firmato e ha fatto un allenamento, tra l’altro quando è venuto da me lo ha fatto in modo totalmente dimesso, evidentemente forse proprio perché era un bullo che quando si trova in una realtà in cui non è il maschio alfa, cambia totalmente atteggiamento. Non me lo sarei mai potuto immaginare che facesse una cosa del genere: io ho visto un ragazzetto mezzo impaurito, era in difficoltà sia tecnica che mentale. Devono pagare tutto quello che hanno eventualmente commesso, un caso di violenza totalmente discordante dal mondo dello sport. Non riesco neanche a dire che è qualcosa di animalesco, perché gli stessi animali sanno quando fermarsi”.

Willy Monteiro, chiude la palestra dei fratelli Bianchi. La causa: violazioni amministrative. Libero Quotidiano l'11 settembre 2020. E' stata chiusa per cinque giorni la palestra di Lariano frequentata dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, attualmente in carcere perché accusati dell'uccisione di Willy Monteiro Duarte a Colleferro. Il provvedimento è scattato dopo i controlli di polizia, carabinieri e Asl della zona, che avrebbero riscontrato "gravi violazioni di natura amministrativa". Secondo alcune indiscrezioni, però, le autorità competenti starebbero valutando anche altre violazioni, riscontrate in ambito igienico-sanitario. A scrivere su Facebook è proprio la pagina della palestra, il centro sportivo Millennium, che ammette di dover migliorare le norme anti-Covid. Dopo l'omicidio del 21enne capoverdiano, diversi insulti sono stati indirizzati alla palestra e agli istruttori degli aggressori, che praticavano le arti marziali miste (Mma) e per questo sembrava sapessero bene dove colpire, come riportato da diversi testimoni. Intervistato da Fanpage, l'insegnante dei Bianchi, Marco Tullio, aveva detto di essere sconvolto: "Mi è crollato il mondo addosso, non è questo ciò che gli ho insegnato a Marco e Gabriele. Pratico Arti Marziali da vent'anni, mi hanno detto che qualche volta sono stati in mezzo a colluttazioni, li ho ripresi e gli ho detto ‘non si fanno queste cose, cambia comportamento perché altrimenti non puoi far parte della mia accademia, perché non è questo quello che noi tramandiamo alla gente'".

Lotta, wrestling e boxe tailandese: ecco cos'è l'Mma, lo sport dei fratelli arrestati per l'omicidio di Willy Fonteiro Duarte. Le Mixed Martial Arts, praticate dai fratelli Bianchi, accusati insieme a Mario Pincarelli, di 22, e Francesco Belleggia, di 23, di aver massacrato con pugni e calci un giovane ventunenne intervenuto per difendere un amico vengono dal Brasile e sono uno sport che mischia elementi di molte discipline differenti. Massimo Lugli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. Vengono dal Brasile dove, alla fine degli anni Settanta si chiamavano "Vale tudo", un nome è che tutto un programma. A inventarle fu la famosa famiglia Gracie, la dinastia di lottatori esperti di "Brasilian Ju Jitsu" che sfidarono i praticanti di tutte le discipline da combattimento del mondo. Il concetto è semplice: dite che la vostra arte marziale è la migliore? Salite sul ring e vediamo se è vero. Niente categorie di peso, niente durata prestabilita degli incontri, regole ridotte all'osso. Vietati i morsi e le dita negli occhi e stop. Pugili, karateka, maestri di kung fu, di krav maga, di capoeira dovettero misurarsi con una situazione completamente diversa da quella a cui erano abituati e spesso ne uscivano sconfitti. Oggi le Mixed Martial Arts (MMA) sono qualcosa di molto diverso rispetto agli albori, uno sport a sé, che mischia elementi di molte discipline differenti: lotta, wrestling, boxe tailandese, kali filippino, ju jitsu brasiliano e ju jitsu giapponese con categorie di peso, regole e a volte uso dei guantini e delle protezioni per i piedi. È questo lo sport praticato dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, 24 e 26 anni, arrestati insieme a Mario Pincarelli, di 22, e  Francesco Belleggia, di 23, con l'accusa di aver massacrato con pugni e calci sul volto Willy Fonteiro Duarte, un 21enne intervenuto per tentare di placare una rissa e per difendere un amico dalle botte del branco selvaggio. Un gesto che è costata la vita al giovane aiuto cuoco, di origini capoverdiane che aveva il sogno del calcio e di poter un giorno indossare la maglietta della sua amata Roma. Un omicidio che ha scosso e indignato la comunità di Paliano, dove il ragazzo viveva assieme alla sua famiglia e tutta la cittadinanza, che conosceva e amava Willy. In Usa dove per anni sono state relegate al pubblico delle pay tv le MMA fanno furore. Da noi non c'è palestra che non vanti il suo bravo insegnante di MMA quasi sempre campione di qualcosa visto che in assenza di un'unica federazione nazionale, associazioni e titoli si moltiplicano all'infinito. Ma il concetto base è sempre lo stesso: si tratta di uno sport per quanto letale e la violenza al di fuori del dojo è rigorosamente bandita. I praticanti di MMA, spesso ragazzi che vengono da periferie abbandonate con un vissuto di risse e violenza, imparano a controllarsi, a educare, a trattenersi a non cadere nelle occasioni di violenza. Il dramma di Colleferro, il ragazzo ucciso a calci e pugni, dimostra che purtroppo non sempre è così. Gli istruttori qualificati di solito cacciano senza pietà gli atleti che fanno a botte in strada perché come in tutte le arti marziali disciplina e autocontrollo sono la prima cosa che si impara. Alcuni insegnanti però sono più tolleranti e fingono di non sapere quello che accade fuori dalla palestra soprattutto verso chi porta buoni risultati agonistici che sono sempre un'ottima pubblicità. È il caso della palestra di Tullio dove si allenava Marco Bianchi? O del dojo di karate dove praticava Mario Pincarelli? Impossibile stabilirlo, almeno per ora. Di certo però la pratica delle arti marziali per gli arrestati sarà un'aggravante di giudizio. La storia secondo cui le cinture nere e i maestri di discipline da combattimento sono schedati dalla polizia è una vecchia bufala, ma conoscere tecniche letali e nelle MMA ce ne sono parecchie soprattutto strangolamenti e colpi ai punti letali e usarle in una rissa di strada è un elemento di colpevolezza in più. Chi sferra un calcio in testa a un avversario o lo soffoca con una presa al collo sa benissimo che può ucciderlo, forse stavolta la morte di Willy non sarà considerata solo un omicidio preterintenzionale.

FILIPPO FEMIA per lastampa.it l'8 settembre 2020. Il ring, una gabbia recintata, non è il teatro più edificante per uno sport. Eppure l’Mma è diventato molto popolare negli ultimi anni. Scorrendo l’elenco delle regole, se si escludono quelle di buon senso (non sputare, non infilare le dita negli occhi ecc…) ne restano poche: vietato colpire la colonna vertebrale o sotto la cintura, niente calci ai reni con il tallone. Quasi tutto il resto è lecito. Troppo, per molte persone, che sull’onda del brutale pestaggio di Colleferro hanno chiesto di limitare le arti marziali più estreme. Il dibattito, innescato da un tweet del direttore de La Stampa Massimo Giannini, ha diviso i social. Chi pratica l’Mma prende le distanze dai picchiatori che hanno ucciso Willy: «Se un falegname commette un omicidio, si criminalizzano tutti i falegnami?», domanda qualcuno. «Bisogna bandire quelle palestre che insegnano in modo distorto le filosofie delle arti marziali», rilancia qualcun altro. Che l’Mma sia il più violento tra gli sport di contatto, è difficile negarlo: basta cliccare su YouTube un match qualsiasi. A occhi sensibili i combattimenti appaiono come violenza cieca, senza controllo. Alcuni atleti si accaniscono sull’avversario, già al tappeto e indifeso, con pugni in pieno volto prima che l’arbitro fermi la furia. Non è raro che a fine combattimento il ring sia zuppo di sangue. «Ho visto qualche immagine in tv e non vorrei che mio figlio lo praticasse», dice Remo Carulli, psicologo dello sport. Che però avverte: «Non si può demonizzare una disciplina: sono convinto che la stragrande maggioranza dei lottatori Mma siano persone estranee a condotte violente». «Questa è la classica polemica all’italiana: non c’è nessun legame tra le arti marziali miste e quei due deficienti», commenta Filippo Stabile, 47 anni, tra i principali maestri di Mma in Italia. «Nella mia palestra vengono anche bambini: la prima cosa che insegno è il rispetto verso il rivale», spiega. In 20 anni di carriera ha dovuto fare i conti con più di un «violento esaltato»: «Li ho subito allontanati dopo aver restituito i soldi dell’abbonamento». A fare la differenza, sostiene Remo Carulli, è proprio chi insegna. È il caso dei maestri che hanno strappato i giovani alla strada e alla delinquenza. «È innegabile, però, che rispetto a discipline come judo e kung fu, l’Mma educa meno alla comprensione del limite e al controllo della violenza», aggiunge lo psicologo. Piuttosto andrebbe sondato il contesto familiare dei due ragazzi arrestati: «Si possono ipotizzare condizioni di disagio, il ruolo della famiglia è fondamentale. Faccio sempre l’esempio del calcio: se hai un allenatore ineccepibile ma tuo padre urla e si azzuffa in tribuna, il potenziale educativo è vanificato».

Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Al primo piano del Centro Sportivo Millenium di Lariano una gigantografia di Marco Bianchi, trionfante al centro del ring, incornicia l' ingresso della Mma Academy accanto ai diplomi del maestro Luca Di Tullio, che dà il nome al Team. All' ora di pranzo il parcheggio della grande palestra dove "Maldito" si è allenato fino a pochi giorni fa c' è un andirivieni di mamme con i bambini, la piscina è gremita di piccoli coi braccioli. Entrano ragazze in tuta e signori di mezza età. Il luogo dove i fratelli Bianchi hanno passato ore e ore ad allenarsi non è un "fight club", ma un centro sportivo dove convivono discipline diverse, Arti marziali miste (Mma) comprese, spiega Alfonso Rossi, responsabile dell' impianto. «Abbiamo regole deontologiche precise, qui non abbiamo mai avuto problemi - dice Rossi - Io sono sempre per l' innocenza fino a prova contraria. Ma questa vicenda, se dimostrata, è fuori da ogni regola del consesso civile». Di Tullio è amareggiato. «Nella nostra Accademia non si insegna assolutamente la violenza: insegniamo rispetto per gli altri e umiltà, autocontrollo e disciplina, se un ragazzino è iperattivo sfruttiamo questa caratteristica a fini agonistici. Alleniamo bambini di sei anni, i loro genitori, ragazze, persone di tutte le età». Per questo non accetta che la Mma - un mix di arti marziali, kickboxing e lotta a terra - sia descritta come una scuola per picchiatori: «È uno sport come la boxe, o la kickboxing. Allora dovremo abolire tutto, compreso il tiro al piattello perché uno col fucile potrebbe sparare alla gente. Insegno da vent' anni: se fossi stato io il problema avrei creato mille assassini ai Castelli romani: lo sport non c' entra niente, è molto rispettoso e finito l' incontro si abbraccia l' avversario». Come Rossi, anche Di Tullio si è messo in contatto con la famiglia di Willy per esprimergli vicinanza: «Sarò ai funerali, non ci sono parole per quello che è accaduto. Mi metto nei panni di chi ha perso un figlio, sono spezzati». Ma chiede di aspettare l' esito delle indagini prima di emettere sentenze: «Marco lo conosco da quando aveva quindici, come il fratello che però negli ultimi tempi si è dedicato al pugilato e poi da un anno e mezzo ha smesso completamente. Qui si è sempre comportato benissimo, mai gesti di violenza: ha portato ragazzini, ha aiutato chi era indietro tecnicamente. È un professionista. Ha vinto tre gare, zero sconfitte. Non capisco il perché di questa futile rissa, ma ricordiamoci che erano in quattro e che bisogna capire chi ha colpito a morte quel povero ragazzo». Nel via vai del parcheggio, chi conosceva anche solo di vista i fratelli scuote la testa: «Prima o poi doveva succedere, hanno fama di attaccabrighe». «Anni fa ci allenavamo insieme: bravi ragazzi, un po' "zellini" - dice Marco - poi evidentemente sono cambiati, ma lo sport non c' entra». Di Tullio chiarisce: «Non posso certo seguire la vita privata dl 50 atleti fuori dalla palestra, se qualcuno perde la brocca non può saperlo nessuno. Ma Marco non è un violento: è carismatico, amichevole con tutti. Uno che non si fa mettere i piedi in testa ma non se le va a cercare».

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 settembre 2020. Caro Dago, pur avendone letto i resoconti su 3 o 4 quotidiani ti confesso che non ho ben capito come sia nata e perché la tragedia di Colleferro. Di sicuro c’è che è morto un italiano di 21 anni di pelle nera, che quattro energumeni siano stati indicati dai testimoni mentre picchiavano e picchiavano e picchiavano, che esiste un video in cui due di questi 4 bastardi se la ridevano per quello che avevano fatto. Di sicuro c’è che due di questi quattro erano degli esperti di arti marziali e che un terzo era una cintura nera di judo. Ed ecco che qualcuno che non conosce l’arte del silenzio di fronte all’innominabile di una tragedia e di una morte, invita a chiudere le palestre dove vengono insegnate le arti marziali. Dio che scemenza, Dio che ignoranza delle leggi dello sport e particolarmente di quello sport, specchio tra i più vibranti delle culture orientali. Alla base dello sport, e particolarmente delle arti marziali, c’è il rispetto dell’avversario, la lealtà nel portare i colpi, la strenua educazione del proprio corpo a cavarne il meglio contro chi ti aggredisce. Le arti marziali sono arti della difesa e meglio ancora della difesa di chi è apparentemente più debole, più fisicamente esiguo. Non sono uno specialista della materia, ma quanto vi sto dicendo è lampante. Le arti marziali sono le arti che ti insegnano la rapidità dei colpi, l’intelligenza nel replicare alle mosse dell’avversario, è uno sport nel quale tu non porti i colpi a far male all’avversario e bensì a dimostrare quanto la tua tecnica sia fulminea e imprevedibile. Dei campioni di arti marziali quei due figuri che avrebbero insistito a calci e pugni contro un ragazzo caduto per terra inerme? Ma state scherzando. Un orientale di quelli che le hanno inventate le arti marziali vi querelerebbe a causa di una tale affermazione. Se le cose sono andate come leggo, quei due non sono dei “fascistoidi” e bensì delle bestie, dei poveri zoticoni che già prima facevano i bulli in una cittadina provincia. Ma che c’entrano le arti marziali e i loro decaloghi, tutti scritti all’insegna dell’onore? Com’è sempre nello sport, dov’è irrinunciabile la legge secondo cui alla fine della contesa stringi la mano all’avversario. E’ successo nello sport, ed esattamente nella finale del salto in lungo delle Olimpiadi di Berlino del 1936, che un atleta quanto di più ariano, il tedesco Carl Ludwig Hermann Long, indicasse al suo rivale americano (il nero Jesse Owens) un suo errore al momento della battuta e che forte di quella indicazione Owens vincesse la medaglia d’oro. Long morì nei combattimenti della Seconda guerra mondiale. Molti anni dopo Owens e il figlio di Long andarono a commemorarlo sulla pista di Berlino, e Owens scoppiò in lacrime. Questo è lo sport, queste sono le leggi dello sport e innanzitutto delle leggi marziali. Poi c’è che chi va in palestra può essere un pezzo di merda e arrivare al punto di avventarsi in tanti contro uno già disfatto e agonizzante per terra. Ma che cosa ha a che vedere un tal pezzo di merda con lo sport?

Il campione di Mma: “L’unico vero guerriero è stato Willy. L’allenatore di quei vigliacchi chieda scusa”. Il Dubbio l'8 Settembre 2020. Il campione di arti marziali romano Alessio Sakara, atleta dei pesi mediomassimi nella federazione statunitense Bellator Mma commenta con rabbia l’omicidio del 21enne di Colleferro. “In questa terribile storia c’è stato un solo vero guerriero, Willy, non certo quei quattro che si sono accaniti su una sola persona. Sono mele marce che non hanno niente a che vedere non solo con l’Mma ma con lo sport in generale, vanno stracacciati da qualunque attività sportiva. E adesso chi dovrebbe metterci la faccia è il loro allenatore, è lui che dovrebbe chiedere scusa perché è lui che lascia in giro questa gente. Se dobbiamo parlare di Mma, si prenda le responsabilità chi ha insegnato loro questo sport”. Il campione di arti marziali romano Alessio Sakara, atleta dei pesi mediomassimi nella federazione statunitense Bellator Mma, all’Adnkronos commenta con rabbia l’omicidio del 21enne “Sono mele marce che non hanno niente a che vedere non solo con l’Mma ma con lo sport in generale, vanno stracacciati da qualunque attività sportiva. E adesso chi dovrebbe metterci la faccia è il loro allenatore, è lui che dovrebbe chiedere scusa perché è lui che lascia in giro questa gente. Se dobbiamo parlare di Mma, si prenda le responsabilità chi ha insegnato loro questo sport”. “Se vengo a sapere che un mio allievo ha litigato in discoteca o si è messo in qualche brutto guaio, lo caccio subito senza passare per il via, senza aspettare le scuse – aggiunge Sakara – non esiste proprio. Anche cinque contro uno è una cosa disumana, lo ripeto spesso anche nelle scuole parlando di bullismo. Purtroppo, come sempre quando uno fa un determinato sport, vogliono trovare il capro espiatorio. Succede purtroppo anche che carabinieri, poliziotti o militari si macchino di crimini terribili, non vuol dire però che siano tutte brutte persone. Il nostro sport è tutto il contrario rispetto a quanto accaduto. E sono sempre di più i campioni a fare del bene, a rappresentare l’Italia nel mondo, a guadagnarsi il rispetto di tutti”.

Morte di Willy a Colleferro, il campione MMA Vettori: "4 codardi contro 1". Le Iene News l'8 settembre 2020. Il campione italiano di MMA Marvin Vettori, una star negli Usa, risponde alle polemiche sullo sport di combattimento, in video e in esclusiva per Iene.it, dopo la morte del giovane Willy Duarte: “È stato uno scontro da codardi, quattro contro uno. Ma non demonizzate le MMA, i veri atleti non le usano per la strada come bulli!". “Quello che si è visto a Colleferro è infamia, un abuso di potere, questi criminali sono delle teste di cazzo”. Non usa mezzi termini Marvin Vettori, campione di MMA nel video che vedete qui sopra e che inviato in esclusiva a Iene.it. Un video nel quale difende il suo sport, finito sulla bocca di tutti in queste ore dopo il brutale pestaggio e la morte del 21enne Willy Monteiro Duarte. Lui è campione di “Mixed Martial Arts”, arrivando ai massimi livelli mondiali. Oggi è una vera e propria star negli Stati Uniti dove vive e pratica lo stesso sport dei due picchiatori di Colleferro, i fratelli Bianchi (vedi questo articolo e il post di Gabriele Bianchi dopo la morte di Willy). “Quattro esaltati hanno aggredito un ragazzo, che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e l’hanno malmenato a morte”, dice Vettori. “Uno scontro codardo, quattro contro uno, nulla che riguardi lo sport. I media hanno attaccato l’MMA in quanto creatrice di personaggi violenti come questi. Dire che crea dei bulli da strada è una grandissima cazzata! Mi alleno in MMA da 10 anni, ai massimi livelli. Chi si allena veramente e dà l’anima non pensa minimamente a usare quello che impara in palestra, in strada. È uno sport che comporta uno scontro fisico, ma ad armi pari”. Centottacinque centimetri e 84 chili di muscoli, 2 vittorie per ko e 8 per sottomissione, il 26enne Marvin Vettori è tra i più grandi campioni italiani di MMA, che unisce boxe e arti marziali. Marvin, nella categoria pesi medi della prestigiosa federazione americana Ufc, la più importante a livello globale, è amatissimo negli Usa, dove lo abbiamo raggiunto per chiedergli di commentare la tragedia di Colleferro: “Questo ragazzo non lo riporterà indietro nessuno, ma demonizzare uno sport e cercare la ragione della sua morte nelle MMA è estremamente sbagliato. Sono più le persone che le MMA hanno tolto dalla strada di quelle che ce le ha messe. Tutti i giornalisti che ne parlano male possono venire qui e vedere come mi alleno per ogni mio match, così vedranno quello che c’è dietro”. E dice, fiero dello sport che gli ha dato tanti successi: “Mi chiamo Marvin Vettori e sono un atleta Ufc: rappresento le MMA, quelle vere!”

Niccolò Zancan per ''La Stampa'' il 9 settembre 2020. Gianrico Carofiglio, quello che è successo a Colleferro è colpa delle arti marziali? «Non è corretto parlare di arti marziali. In questo caso parliamo di una disciplina di combattimento, l'Mma, cioè parliamo di uno sport estremamente violento, in cui le regole sono molto meno restrittive di quelle di altri sport da combattimento come ad esempio il pugilato. Detto questo, non può essere colpa delle discipline sportive. Come non è colpa degli allevamenti di cani, se un cane assalta un uomo. Ma non voglio eludere la domanda: ci sono alcune palestre in Italia che possono essere luoghi pericolosi di educazione alla violenza» Il direttore della Stampa ha affermato in un tweet che le palestre di Mma andrebbero chiuse.

Lei è d'accordo?

 «No, non in questi termini. La soluzione non è chiudere le palestre. Ma penso che ci si sia un problema di controlli sull'insegnamento di discipline potenzialmente pericolose. Oggi se io voglio aprire una palestra dove dico che si impara l'arte definitiva del combattimento per sconfiggere qualsiasi avversario, lo posso fare. Lo può fare chiunque, anche un qualsiasi balordo. Questo è il problema. Forse qualche forma di controllo sull'insegnamento servirebbe, magari l'istituzione di un patentino. Forse servirebbe un censimento delle palestre, per verificare quei minimi requisiti di professionalità tecnica e di consapevolezza che deve avere un insegnante».

Parliamo del pestaggio di Colleferro con lo scrittore Gianrico Carofiglio per almeno due motivi. Il primo è che pratica le arti marziali fin da ragazzo (sesto Dan di karate) e il suo personaggio letterario più celebre, l'avvocato Guido Guerrieri, si tiene in forma e si salva la testa prendendo a pugni un sacco da boxe. Il secondo è che l'ex magistrato di Bari ha appena pubblicato per Feltrinelli un saggio che si intitola «Della gentilezza e del coraggio».

Di questo parla: tecniche marziali per affrontare tempi feroci. Erano in quattro contro uno. E quell'uno, Willy Monteiro, era intervenuto per cercare di sedare una rissa. È sbagliata la tentazione di fare di questa tragedia un paradigma dei tempi?

«Fatti di ottusa e demenziale violenza ci sono sempre stati. Noi, naturalmente, non dobbiamo sottrarci al dovere di capire, ma dobbiamo evitare l'eccesso di attualizzazione. La questione è essenzialmente l'incapacità di dare senso a determinate esistenze, molto spesso legata alla povertà culturale e lessicale. Ci sono ricerche interessantissime, in cui si collega l'attitudine alla violenza incontrollata all'incapacità di raccontare la proprio esperienza. Cioè: io sono incapace di riconoscere i miei sentimenti di frustrazione e di rancore, sono incapace di nominarli, e allora li agisco. Questa non è assolutamente una giustificazione per nulla. Io non conosco quei ragazzi. Ma la sensazione, guardando le immagini, è che fossero degli esaltati. Ma di esaltati ce ne sono parecchi, però raramente arrivano a commettere un omicidio».

C'è la violenza sulla strada. E poi ci sono i commenti violenti. Un avvocato che sui social definisce «bestie» i presunti assassini. L'istruttore della palestra li chiama «infami». Stanno cedendo gli argini?

«Il senso di sgomento lo possiamo affrontare in due modi. O con un doloroso tentativo di capire, che ci spinge a guardare negli occhi qualcosa di tremendo. Oppure con reazioni violente, con cui cerchiamo di esorcizzare il mostro che abbiamo dentro. L'arte marziale, correttamente intesa, si occupa proprio di questo: imparare a riconoscere la violenza che è dentro di noi per renderla innocua».

Sui social non sembra che ci sia molta gentilezza, è mai stato tentato di lasciarli?

«No. Accetto la sfida del confronto. Proprio questa è la gentilezza: io non rifiuto il conflitto».

In un editoriale sulla Stampa Massimo Recalcati ha scritto che l'uso della violenza «è sempre razzista perché rifiuta le differenze, il pluralismo, l'esistenza difforme dell'altro». È d'accordo?

«Non direi razzista, ma non c'è dubbio che la violenza è il modo che noi usiamo per sfuggire al dovere dell'intelligenza».

Qualcuno mette in stretta correlazione la violenza del linguaggio politico con la violenza della strada. Lei?

«Eviterei di stabilire una relazione diretta fra la violenza stupida e insensata della propaganda politica di questi anni e fatti come quello di Colleferro. Però una società in cui si riducono gli spazi del confronto civile e si moltiplicano, addirittura applauditi, gli spazi del pestaggio mediatico, è una società dove è meno difficile che accadono cose spaventose».

Omicidio Colleferro: violente sono le persone, non le arti marziali. Notizie.it l'08/09/2020. La violenza ti cresce dentro per le esperienze che la vita ti fa provare, non si impara tirando pugni a un sacco. L’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato con calci e pugni da quattro giovani di Artena per aver cercato di proteggere un coetaneo, è una vicenda dai tanti risvolti – etici, morali, razziali – che ha creato un grosso misunderstanding a causa della morbosità dei giornalisti nello scavare nella vita privata dei responsabili del pestaggio. Scavando scavando subito è apparso all’occhio il dettaglio perfetto per la narrazione del cattivo: Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni praticavano le mma (mixed martial arts, arti marziali miste, per chi non fosse esperto). E da subito sulla stampa è stato è partito il processo di demonizzazione a chi pratica la disciplina. I fratelli Bianchi sono così diventati ‘picchiatori’ perché si allenavano in palestra con guantoni e colpitori, come se questo fosse direttamente collegato alla volontà di massacrare un individuo. E la caccia alle streghe si è estesa ai centri sportivi che insegnano le mma, portata avanti sui social anche dal giornalista Massimo Giannini, che in un tweet chiedeva di “bandire certe discipline marziali e chiudere le relative palestre”, seguito a ruota da migliaia di internauti. Troppe le inesattezze. Una su tutte: come le altre arti marziali, anche le mma hanno delle regole. Ogni incontro è regolato da un arbitro, che sospende il match quando vede una situazione di pericolo per uno dei due combattenti. Come tutte le arti marziali, nelle palestre si insegna la disciplina e a utilizzare quanto appreso solo per difesa personale. Quindi il paradigma “sono violenti perché praticano mma” è sbagliato, perché lo sport non genera rabbia, al massimo la incanala per raggiungere un obiettivo. Ragionando per estremi, bisognerebbe evitare di insegnare i tackle a calcio, perché potrebbero essere riprodotti al di fuori dei campetti e fare male. Una proposta assurda, vero? Eppure quando un episodio di cronaca vede coinvolto un praticante di arti marziali o di boxe, subito si presuppone che sia un violento e che in qualche molto lo sport abbia accentuato questa sua natura. Una volta saliti sul tatami in palestra, invece, la prima cosa che viene insegnata dai maestri è la disciplina e qualunque utilizzo delle tecniche al di fuori del dojo è vietata. E quasi sempre, quando sono emerse violazioni di queste regole, l’atleta è stato allontanato dalla palestra, come sicuramente avverrà per i fratelli Bianchi. Sarebbe stata data la stessa enfasi al dettaglio se i due fratelli avessero praticato calcio, tennis o pallavolo? Probabilmente sarebbe stato relegato a mero abbellimento all’interno della narrazione. Invece tanti approfondimenti sono stati dedicati alla combinazione tra lotta, wrestling e boxe che connota le mixed martial arts, come se all’improvviso fossero emerse dal nulla, dimenticando che questo sport negli Usa trascina un business milionario (il match McGregor-Cerrone a gennaio ha portato un incasso per il vincitore di circa 80 milioni di euro – tra ‘borsa’ dell’incontro, proventi della pay per view, sponsor ed entrate collaterali – secondo i media anglosassoni). Dove nonostante l’alta posta in palio, quando la ‘campanella’ suona e gli atleti escono dal ring, non c’è più spazio per la violenza, anche nelle vite private. Tra i professionisti – ma anche tra gli stessi praticanti – i casi di utilizzo della violenza al di fuori della difesa personale sono minimi. Smettiamola quindi di perderci nei luoghi comuni e facciamoci una domanda: se i fratelli Bianchi – con precedenti per rissa e spaccio – non fossero stati praticanti di mma, la vicenda sarebbe andata in modo diverso? La violenza ti cresce dentro per le esperienze che la vita ti fa provare, non si impara tirando pugni a un sacco.

Per i tatuati di Colleferro le botte sono un ascensore sociale…Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'8 settembre 2020. I tatuati di Colleferro che hanno ucciso Wylli non sono nati ricchi. Non sono come Gianluca Vacchi, tatuato e palestrato come loro che su Instagram posta le foto dei suoi balletti, dei suoi viaggi sullo yacht, del suo far nulla, con patrimonio assicurato, che ha migliaia e migliaia di follower. Vorrebbero. Loro vorrebbero…I tatuati di Colleferro hanno questo modo – mica ci sono solo quei quattro, la comitiva è di una decina, e mandano avanti il piccoletto, quello si infila in un gruppo, prende la rissa, lo mettono giù. A questo punto, arrivano loro, i grossi, e menano tutti. E spaccano tutto. Fanno sempre così. Ogni sabato. I tatuati di Colleferro – il sabato seminano il terrore. Gli piace la leggenda che gira intorno – a Artena, a Paliano, a Cori, a Colleferro, li conoscono tutti. Sono “la banda di Artena”. Li evitano tutti, se possono. Non sempre si può. E c’è sempre qualcuno che ancora non sa. E ci casca. Un’altra rissa, un altro pestaggio. Un’altra tacca. Un altro post da mettere sui social. È il bullismo sistematico – l’ideologia del bullismo. Come fosse un riscatto, un ascensore sociale, una rivendicazione: «La vita in ginocchio, fatela fa’ a altri», scrive Gabriele Bianchi sul suo profilo facebook. Loro no. Loro, la vita la prendono a mozzichi. Loro, la vita degli altri, se la prendono. I tatuati di Colleferro – non sono nati ricchi. Non sono come Gianluca Vacchi, tatuato e palestrato come loro che su Instagram posta le foto dei suoi balletti, dei suoi viaggi sullo yacht, del suo far nulla, con patrimonio assicurato, che ha migliaia e migliaia di follower. Vorrebbero. Loro vorrebbero – fiche strepitose accanto, dai fianchi sottili e dalle tette enormi, fiche- fumetto, patacche di orologi e collanazze d’oro, un brillante al lobo dell’orecchio, una ricchezza ostentata e schiaffata in faccia, che affascina migliaia di falliti, frustrati. Essere poveri non è una virtù – ce lo ricorda Briatore continuamente. Lavorare ed essere poveri – è una sfiga doppia. Ma Vacchi non ha bisogno di mozzicare nella vita – si diverte, se la gode, è ricco di famiglia. I tatuati di Colleferro no – se va bene, vanno in gita a Ponza un fine- settimana e si sparano i selfie, mica fanno la crociera nel Mediterraneo con chef e maggiordomo sullo yacht. Loro vorrebbero. Loro devono prenderla a morsi la vita. Quella degli altri. «Il modo in cui odio e amo è pesante» – scrive uno dei tatuati di Colleferro. È una frase di Guè Pequeno, il rapper che è andato anche all’Isola dei famosi e ha scritto un libro, Guerriero, in cui racconta se stesso, tra periferie e suite a cinque stelle, tra poesia e slang di strada, tra droghe e ossigeno, e i suoi sogni: «Mi ero ripromesso due cose: che avrei spaccato col mio stile e avrei fatto i soldi». I soldi – è l’ossessione dei tatuati di Colleferro. Quelli che non hanno, quelli che vorrebbero avere. Ma c’è anche un’economia del bullismo – recupero crediti di droga, la palestra delle arti marziali: essere bulli di periferia può tornare utile, fare branco può tornare utile. Prima o poi sarebbe successo – non può succedere a Vacchi e non può succedere a Pequeno, che ai soldi ci sono arrivati o se li sono trovati. A loro sì, a loro poteva succedere. Ma nessuno li ha fermati prima. Eppure, tutti sapevano. Melissa Morganti è la sorella di Emanuele, ucciso nel 2017 a vent’anni a pugni e calci da un branco di balordi fuori del Mirò Music Club, in piazza Regina Margherita, ad Alatri. Era andato a ballare con la sua Ketty e non è più tornato a casa: «La mia idea di Giustizia mi spinge a voler fare in modo che quello che è accaduto a Emanuele non succeda ad altri. Perché questo non resti retorica, dico che la legalità e il rispetto per la vita umana devono venire prima del rispetto per la natura, l’ambiente, il clima. Se un Paese e i suoi cittadini non rispettano la vita dei loro simili, come e cosa possono amare e rispettare? Nella morte di Emanuele non c’è complotto o intrigo. È la fine di un bravo ragazzo di 20 anni che non desta molto interesse. Questo è il punto, la gente dovrebbe essere più colpita da un’uccisione immotivata». Invece, è successo a altri, è successo a un altro bravo ragazzo, a Willy, e nello stesso identico modo come è successo a Emanuele, una rissa, mettersi in mezzo per placare, una tempesta di violenza che si abbatte su di loro. Emanuele e Willy facevano la cosa giusta – provare a sedare una rissa. Le risse nei locali nascono sempre per cose balorde, uno sguardo alla ragazza del gruppo, un urtarsi in qualche passaggio e non chiedere scusa, una mancanza di “rispetto”. Branchi che si contendono un territorio minuscolo dove qualcuno dovrà cacciare via qualcun altro, per sempre. Qualche volta saltano fuori le lame, a volte non serve. Emanuele e Willy non avevano branco – e questo è stato fatale. È l’idea della violenza come regola di vita – fare la cosa giusta è una debolezza. La violenza è ovunque, non puoi resisterle, non puoi rovesciarla – puoi farla solo tua. Esibirla. Gonfiare i muscoli, metterti in posa – io sono un’arma pericolosa, fate attenzione. C’è il minuto di silenzio nella piazza del comune di Colleferro. La società civile è sgomenta. Non sa come reagire, sente di avere subito un torto, di vivere un lutto. Ma è troppo tardi, per Emanuele. Anzi, è “Tardissimo” – come canta Guè Pequeno. Nessuno farà più la cosa giusta a Colleferro. E noi, ne avremo di retorica, ancora.

Omicidio di Willy: “Così Pincarelli picchiò un vigile per la mascherina”. Le Iene News l'8 settembre 2020. Non ci sono solo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. Ecco il racconto, in esclusiva a Iene.it, di come Mario Pincarelli, un altro dei 4 arrestati per aver pestato a morte il 21enne Willy Monteiro Duarte a Colleferro, avrebbe aggredito il 21 agosto scorso ad Artena l’ispettore Sandro Latini perché gli aveva chiesto di mettere la mascherina. “Ha spinto a terra un ispettore e l’ha preso a pugni perché gli aveva detto di mettere la mascherina”. Non solo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi erano noti come picchiatori. Anche Mario Pincarelli, un altro dei quattro ragazzi arrestati con l’accusa di aver pestato a morte il 21enne Willy Monteiro Duarte a Colleferro, era ben conosciuto: il 21 agosto scorso avrebbe aggredito così un vigile urbano ad Artena (Roma). A raccontarlo in esclusiva a Iene.it è Marta Sodano, comandante della polizia locale di Artena: “Dopo che il governo ha deciso l’obbligo di mascherine in caso di assembramenti dopo le 18, anche il 21 agosto facevamo rispettare la misura. Ho mandato una pattuglia: c’erano l’ispettore Sandro Latini e un agente. Mario Pincarelli e un'altra persona, invitati a indossare la mascherina, si sono rifiutati”. La situazione è subito degenerata: “Hanno iniziato a inveire contro i vigili. Pincarelli, sempre senza mascherina, si è messo faccia a faccia davanti all’ispettore fin quasi a toccarlo, come gesto di sfida. Poi ha iniziato a spintonarlo e, all’ennesimo spintone di un ragazzo di 22 anni a un uomo di oltre 50, Latini è andato a terra. Pincarelli, che era noto come persona "non facile da gestire", gli ha dato poi due pugni e non lo faceva alzare. Sono intervenuti poi i carabinieri, che si stanno occupando del caso”. Dell’omicidio di Colleferro vi abbiamo parlato anche raccontandovi i combattimenti Mma dei picchiatori, il post di uno dei fratelli Bianchi dopo che Willy era già morto e la difesa delle arti marziali MMA del campione Marvin Vettori.

Omicidio Colleferro, Marco Bianchi a processo per un altro pestaggio. Notizie.it il 20/09/2020. Il prossimo giovedì 24 settembre il 24enne Marco Bianchi, uno dei quattro presunti aggressori di Willy Monteiro, dovrà presentarsi in aula per il processo a suo carico riguardante un episodio di pestaggio avvenuto il primo maggio del 2018. In quella data, il fratello di Gabriele Bianchi avrebbe infatti massacrato un ragazzo bengalese assieme ad altri amici (non gli stessi della tragedia di Colleferro) a tal punto da essere accusato di lesioni gravi anche in questo caso aggravate dai futili motivi. Secondo quanto riportato dagli organi d’informazione la prima convocazione per il processo contro Marco Bianchi relativo al pestaggio del 2018 era stata fissata per lo scorso 26 giugno, ma in seguito rimandata a causa dell’emergenza coronavirus. I fatti di due anni fa riguardano tuttavia soltanto uno dei sette fascicoli giudiziari complessivamente pendenti nei confronti dei fratelli Bianchi, noti nella zona tra Velletri e Lariano per la loro fama di picchiatori e per la loro sfilza di precedenti penali. Tra i fatti più eclatanti di cui si sono resi protagonisti si ricorda infatti il pestaggio avvenuto il 13 aprile del 2019 ai danni di un indiano che i due avevano quasi investito per le vie di Velletri. Secondo la ricostruzione dei fatti, i due fratelli avevano sfiorato un gruppo di indiani mentre sfrecciavano con la loro automobile e alle proteste di uno dei questi, che aveva gridato: “Ma siete pazzi”, i due sono scesi dall’auto accanendosi in maniera brutale contro il malcapitato, causandogli gravi lesioni che hanno comportato una prognosi superiore ai venti giorni. Per questo episodio in particolare i due fratelli sono stati convocati in aula per il prossimo 14 maggio 2021. Il prossimo 15 gennaio 2021 sempre Marco Bianchi sarà inoltre convocato in tribunale per un altro episodio di lesioni volontarie avvenuto a Velletri nel 2016, mentre il 19 maggio successivo entrambi saranno convocati per un ulteriore episodio di lesioni avvenuto nel gennaio 2018. Gabriele Bianchi ha inoltre già pagato un’ammenda di mille euro per il reato di detenzione di arma impropria segnalato nel 2017.

Colleferro, ecco il post di uno dei picchiatori di Willy che ha indignato tutti. Le Iene News l'8 settembre 2020. Poche ore dopo il pestaggio mortale di Willy Monteiro Duarte, Gabriele Bianchi, uno dei 4 arrestati per omicidio preterintenzionale, postava sul suo profilo Facebook video divertenti di scimmie che parlano romanesco: Willy era appena morto. Gran parte delle immagini e dei video dei quattro ragazzi romani responsabili della morte di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, di cui vi abbiamo parlato, sono stati rimossi dalla Rete, anche a seguito della valanga di offese e minacce di morte arrivate dagli utenti di Facebook. Utenti che arrivano a invocare il linciaggio in piazza o la pena di morte con esecuzione immediata per i quattro e soprattutto per i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, patiti di arti marziali ed esperti di MMA, come vi abbiamo mostrato in questo video tratto da un combattimento di Marco Bianchi. Ad accendere ancora di più gli animi e purtroppo anche gli istinti peggiori dei social è un video postato da Gabriele Bianchi, il cui profilo Facebook è ancora visibile, poche ore dopo il brutale pestaggio del giovane capoverdiano, con protagoniste delle scimmie. In particolare il terzo episodio di una web serie realizzata dal comico Davide Marini, che ha subito condannato questa condivisione esprimendo tutta la sua solidarietà alla famiglia di Willy. Lo potete vedere: Gabriele Bianchi, poco dopo il pestaggio in quattro del povero Willy, condivide sul suo profilo il terzo episodio della serie “Fulvio e il tossico”, aggiungendo un commento fatto di quattro faccine che ridono. Passa qualche ora, sono ormai le 6.39 del mattino di domenica (lo vedete nell'immagine in alto) e Gabriele Bianchi posta un’altra immagine proveniente dalla stessa web serie: ancora 4 faccine a commento, questa volta per “l’isolotto dei famosi”, che ha sempre per protagoniste alcune scimmie che parlano in dialetto romanesco. Nulla di male, se non fosse che Gabriele è uno dei 4 arrestati per la morte di Willy per omicidio preterintenzionale e che a quell’ora, alle 6.39, il 21enne è già spirato in un letto d’ospedale. Sotto al video inevitabilmente si scatena la rabbia di Facebook, con oltre 6.500 commenti. Alcuni superano il limite dell’indignazione: “'sto merda, dopo aver pestato un ragazzino inerme come nulla fosse se ne stava su Facebook a pubblicare cazzate.. vergogna, vergogna! Spero che in carcere vi diano quello che meritate”. “Hai pubblicato questo post quando già quel povero ragazzo era morto… non c'è limite al disgusto che tu, tuo fratello e i tuoi amici possiate fare. Dovresti vergognarti di essere nato”. “La morte sarebbe una liberazione per ‘ste merde. Io spero che abbiano una lunga vita invece, piena di sofferenza e dolore”. E c’è anche di peggio. Qualcuno punta il dito su eventuali responsabilità: “Erano conosciuti alle forze dell'ordine queste bestie. Dovevano essere fermati prima di aspettare sempre che muore qualcuno fino che la giustizia li fermi. Uno di loro aveva aggredito un vigile che gli imponeva la mascherina e cosa hanno fatto? Nulla”. C’è ancora più rabbia a vedere come nel 2011 Gabriele abbia condiviso un video che lancia un messaggio minaccioso contro i responsabili di un gesto tremendo: “Lui è il pezzo di merda che ha lanciato il cane dal terrazzo. Condividete le foto di questo bastardo con la speranza che salti fuori il nome e che lo arrestino”. Anche con quest'articolo la violenza nei commenti si è ripetuta, tanto che su Facebook ne abbiamo dovuti cancellare alcuni e ricordare la nostra policy: "Sui nostri social ognuno di voi può dire sino in fondo e nella massima libertà ciò che si pensa, osservando però poche piccole regole: niente insulti, minacce, incitazioni all’odio e alla violenza, denigrazioni lesive della dignità e dei diritti altrui; non sono possibili la divulgazione illecita di dati sensibili, la violazione del diritto di autore e la pubblicazione di contenuti osceni, pornografici o pedopornografici".

Lo studente che esaltò gli assassini di Willy “la scimmia” non è di destra. Meloni: “Ora la sinistra si scusi”. Monica Pucci sabato 19 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. “Ricordate il profilo che scrisse frasi ignobili contro il povero Willy e che la sinistra tentò in tutti i modi di associare a Fratelli d’Italia? La Polizia Postale ha appurato che si trattava di un fake ed ha rintracciato il vigliacco che si nascondeva dietro il profilo falso, creato con l’unico fine di attaccare la destra. E ora chi ha dato vita a questa vergognosa polemica abbia la dignità almeno di chiedere scusa alla famiglia di Willy. Con la speranza che l’autore del post paghi le conseguenze per le sue schifose parole”. Sono durissime le parole di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, all’indomani dell’individuazione dell’uomo, un giovane toscano esperto di fake news che aveva provato a restare anonimo ma che alla fine la polizia è riuscita a denunciare. La destra, i presunti razzisti, odiatori, neofascisti e altro, come avevano ipotizzato le solite anime pure della sinistra, non c’entrano nulla con il massacro di Willy Duarte Monteiro consumato a Collefero dai balordi guidati dai fratelli Bianchi. La persona in questione, tale Manlio Germano, nome di fantasia ispirato probabilmente a un personaggio interpretato da Claudio Amendola nel film Caterina va in città,  è solo un cosiddetto “troll”, una delle tante mine vaganti che sotto anonimato, sul web, provano ad aizzare e provocare reazione nella gente perbene, non si sa se per convinzione personale o barbato spirito di provocazione. In realtà si tratta di uno studente 23enne dovrà rispondere di istigazione a delinquere aggravata dall’odio razziale e rischia 8 anni di carcere. Che però nega tutto. “Denuncerò alcune persone che hanno divulgato le mie foto, le mie informazioni, il mio indirizzo su Facebook (per fortuna non abito più da 4 anni lì). Quello che ha scritto il post non ero io ma dei miei amici che avevano in mano il mio telefono, io mai oserei pensare certe cose, non è giusto che mi prenda certe responsabilità per due stronzi…”. Dall’indagine della Polizia Postale è emerso che fosse una sorta di “professionista” dei fake, ma tutte le misure precauzionali adottate non lo hanno comunque salvato dall’essere identificato. Come spiega il sito bufale.net, individuarlo è stato possibile grazie al lavoro congiunto della Polizia Postale di Roma, Latina e Firenze. In un primo momento le forze dell’ordine avevano individuato il suo indirizzo IP a Treviso, ma il ragazzo non si trovava in casa. Indagini più meticolose hanno permesso di rintracciarlo all’interno di un albergo di Firenze. “All’esito di un’attenta e meticolosa indagine, espletata attraverso le più moderne tecniche di analisi informatica e di ricostruzione del traffico telematico, resa ulteriormente complessa dalle connessioni sui provider esteri, la Polizia Postale di Roma e Latina con la collaborazione dei colleghi specialisti di Firenze e Venezia, è riuscita comunque a risalire all’autore dello spregevole post, a rintracciarlo presso un albergo del capoluogo Toscano ed a deferirlo alla Procura della Repubblica di Latina che ha coordinato le complesse indagini informatiche”, è la nota ufficiale della polizia.

Stefano Vladovich per ilgiornale.it il 9 settembre 2020. Li ha visti scendere dall'auto e si è preso un caffè con loro per non insospettirli. «C'è stata una rissa a Colleferro, se mi seguite in caserma facciamo degli accertamenti». Non sapevano di essere i principali indiziati i picchiatori di Artena. E quando il maresciallo della stazione locale li ha trovati per loro scatta la «quasi» flagranza, una flagranza a tutti gli effetti, tanto da poterli arrestare. Così sono stati presi gli assassini di Willy, appena tornati dalla mattanza di piazza Oberdan. Artena: il «paese dei briganti» arroccato sui monti Lepini, tace. Nessuno, o quasi, sembra conoscere i fratelli Bianchi e i suoi amici picchiatori. Eppure la chiamano la «banda di Artena», famigerata per le risse (all'Outlet di Valmontone) e i pestaggi a sangue. Quattordicimila abitanti oggi, poco più di 2mila anime quando Mussolini invia l'esercito del Regno con l'artiglieria pesante a stanare e annientare ladri e rapinatori, da secoli l'incubo del posto. Il Nai Bistrot di un cugino dei Bianchi ieri era chiuso. È qui che alle 3 della notte di sabato Gabriele e Marco Bianchi, 25 e 24 anni, Francesco Belleggia, 23 anni, e Mario Pincarelli, «Pellico», 22 anni, arrivano dopo aver ucciso a calci e pugni Willy Monteiro Duarte, 21 anni. Willy, un cuoco dal cuore d'oro, per le belve di Artena «colpevole» di aver aiutato Federico, un suo compagno di scuola che i quattro, assieme a un quinto uomo rilasciato per mancanza di elementi, stanno picchiando davanti a un locale. Una lite per un'occhiata a una ragazza, amica di Mario Pincarelli. A «Pellico» quello sguardo non va a genio e il giovane va punito. A dargli man forte arrivano in quattro. Cinque contro uno. Willy accorre assieme a Marco Romagnoli e altri amici. La rissa fra i ragazzi di Paliano e le «belve» di Artena finisce nel peggiore dei modi. Marco, Federico e gli altri fuggono dopo averle prese, Willy stramazza al suolo. Muscoli «pompati» in anni di palestra e combattimenti di MMA, Mixed Martial Arts, contro un fisico mingherlino di un ragazzetto famoso solo per i suoi manicaretti. I quattro si sarebbero accaniti anche quando Willy vomita sangue. Lo finiscono con altri calci, qualcuno racconta che avrebbero usato anche un sampietrino, un cubetto di porfido, preso in strada. Sarà l'autopsia, che sarà eseguita domani all'Istituto di Medicina Legale di Tor Vergata, a stabilire esattamente il colpo mortale. Non lo soccorrono, le belve, pensano solo di fuggire sul Suv Audi verso Artena. Willy non arriva vivo in ospedale, tanti sono i colpi ricevuti. «Picchiatori di professione»: a Colleferro li conoscono tutti per la loro attività principale. Il sospetto, su cui starebbero indagando gli inquirenti, è che i Bianchi e gli altri tre energumeni vadano in giro per paesi a massacrare di botte chi non onora i debiti con gli strozzini. Di fatto Gabriele finisce sulle pagine dei giornali dopo un'intervista su Rai3 perché, sfidando Covid e lockdown, apre una frutteria a Cori. Si sente un imprenditore modello Gabriele. Sugli addominali scolpiti in palestra un tatuaggio recita: «Proteggi la famiglia», solo la sua. Il fratello Marco, campione di MMA, insegna arti marziali a Lariano. La palestra e la frutteria ora sono chiuse. A raccontare questo dramma sembra davvero di scrivere la cronaca di una morte annunciata. Tutti sanno ma nessuno ferma le belve. Ci pensa un maresciallo dei carabinieri a imboccare la pista giusta. Per il momento l'accusa è di omicidio preterintenzionale. Questa mattina l'interrogatorio di garanzia a Rebibbia.

Veronica Di Benedetto Montaccini per tpi.it il 9 settembre 2020. Willy Monteiro Duarte è stato pestato a morte per 20 minuti (qui una ricostruzione del caso), ora si dovrà stabilire chi ha sferrato il colpo mortale tra i 4 indagati Mario Pincarelli, di 22 anni, Francesco Belleggia di 23, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, 24 e 26 (qui i loro profili). Nei loro confronti la procura al momento contesta il concorso in omicidio preterintenzionale. E mentre nel carcere di Rebibbia, a Roma, gli interrogatori di convalida dell’arresto, proseguono sui loro profili social commenti di sdegno e accusa per il loro gesto, ma tra questi colpisce e sconvolge l’animo un post pubblicato nella pagina Facebook di Gabriele Bianchi da Manlio Germano: “Avete tolto di mezzo quello scimpanzé. Godo come un riccio per la sua morte”. Frasi che danno il senso dell’odio razziale che cova, in alcune persone, come in chi ha pubblicato questi post, con una immagine Gif di una scimmia, come a denigrare il povero Willy ad un animale che può essere ammazzato senza alcun problema.

Aperta un’indagine. Intanto il profilo Facebook, nel quale il giovane era anche fotografato con il logo di Fratelli d’Italia, è stato cancellato. Ma gli screenshot erano stati ormai fatti e la polizia postale è ora sulle tracce del responsabile che in un commento avrebbe anche accusato gli amici di avergli preso il telefono e fatto il post al suo posto.

Le risposte degli utenti. Non sono mancate, a seguire, risposte e commenti di disprezzo da parte di altri utenti: “Manlio Germano, sei un idiota fascista senza cervello. Guardati allo specchio perché la scimmia sei tu. Feccia”. “Manlio Germano, tu sei un altro BASTARDO”., e poi “Manlio Germano, anche se sei un fake, ti prenderanno e pagherai ugualmente…coglione”. O ancora: “Manlio Germano, sei veramente piccolo. Piccolo uomo. Per quanto mi riguarda meriteresti la galera a vita esattamente come i tuoi cosiddetti “eroi”, Manlio Germano, non te calcola neanche tua madre ecco perché stai a scrive ste cazzate, a cojone de merda!! Sei proprio un poraccio demente, me fai solo schifo. Fallito de merda”. Manlio Germano tanto te prendono pure a te tranquillo e l altro compagno che ti ha messo il Siete sterco vi auguro la compagnia dei galeotti e voi che fate le signorine in galera”.

Willy Monteiro, “L’ha ucciso Gabriele”: ma 2 testimoni incolpano Belleggia. Notizie.it il 9/09/2020. Gli inquirenti cercano di capire chi ha ucciso Willy Monteiro: inizialmente la colpa era ricaduta su Gabriele, ora 2 testimoni accusano Francesco. Mentre emergono nuovi dettagli sulla rissa che ha portato alla morte di Willy Monteiro, gli inquirenti cercano di capire chi l’ha ucciso. I quattro indagati si accusano a vicenda ma nel frattempo due super testimoni hanno incolpato Francesco Belleggia.

Chi ha ucciso Willy Monteiro? In un primo momento le accuse sembravano ricadere su uno dei fratelli Bianchi, anche se già c’era incertezza su quale dei due. I testimoni avevano attribuito a Marco il calcio da arti marziali che sarebbe stato fatale per il giovane capoverdiano, ma Belleggia ha raccontato ai magistrati di averlo visto sferrare dal fratello Gabriele. Sempre lui aveva inoltre spiegato che quello sarebbe stato il colpo mortale, cosa che dovrà essere chiarita dall’autopsia. I Bianchi hanno respinto le accuse davanti al giudice per le indagini preliminari così come gli altri due e indicato agli inquirenti i nomi di altri partecipanti alla rissa. Tra questi ve ne sono due che, dopo aver fornito una prima ricostruzione di ciò che è accaduto nella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre, hanno fatto il nome dell’ipotetico killer. I due testimoni, amici dei quattro arrestati, hanno raccontato che Willy, che inizialmente non ha partecipato allo scambio di colpi ma è intervenuto per difendere l’amico Federico, è caduto colpito “forse da una manata di Marco Bianchi“. Poi ha tentato di rialzarsi ma i due che hanno iniziato la rissa, Pincarelli e Belleggia, gli sferrano altri due colpi. “Il primo gli dà un pugno al capo, il secondo un calcio da karate al volto“, spiegano i due ragazzi. Sarebbe dunque Belleggia secondo la loro testimonianza ad aver dato a Willy il colpo mortale, anche se sia al Gip che al Pm aveva dichiarato di non averlo colpito.

Omicidio Willy Monteiro, l’interrogatorio dei fratelli Bianchi: «Non l’abbiamo toccato». Fulvio Fiano per corriere.it l'8 settembre 2020. Si accusano uno con l’altro, i quattro presunti assassini di Willy Monteiro Duarte, sanno che se hanno mezza di possibilità di alleggerire la propria posizione è quella sottrarsi all’accusa più pesante, non ancora formulata ufficialmente dalla procura di Velletri ma che aleggia sull’intera vicenda: quella di aver ucciso volontariamente il 21enne, colpendolo con un calcio al volto quando ancora era a terra: «Non lo abbiamo toccato, respingiamo ogni accusa. Siamo intervenuti per dividere una rissa. Abbiamo visto un parapiglia e siamo arrivati. Siamo arrivati lí perché chiamati da alcuni amici, ma non abbiamo preso parte alla rissa. L’unica cosa che abbiamo fatto è stata di provare a intervenire per separare i litiganti che non conoscevamo. Quando ce ne siamo andati, non abbiamo visto il ragazzo a terra», dicono Marco e Gabriele Bianchi, i due fratelli di Artena, arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro, durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto davanti al gip di Velletri nel carcere romano di Rebibbia. E aggiungono: «Siamo dispiaciuti e distrutti perché accusati di un omicidio che non abbiamo commesso». Una tesi che invece ribaltano gli altri due arrestati, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, 23 e 22 anni, che fin dal primo momento hanno provato a scagionarsi della responsabilità più pesante. Il primo alludendo a «ruoli diversi» nella vicenda. Il secondo, difeso anche lui come i Bianchi dall’avvocato Massimiliano Pica, chiamandosi fuori da ogni coinvolgimento. L’accusa per tutti è di concorso in omicidio preterintenzionale, mentre una quinta persona che era in auto con i fratelli Bianchi è indagato a piede libero per favoreggiamento. Decisive per attribuire responsabilità più precise saranno le testimonianze degli altri ragazzi presenti, due dei quali indicati come super testimoni dagli stessi fratelli, e l’esame del video della telecamera puntata sulla piazza alle spalle della caserma dei carabinieri dove è avvenuta l’aggressione. Nelle immagini, pur poco nitide, si vede l’Audi Q7 allontanarsi dalla scena con gli arrestati a bordo. Saranno arrestati mezz’ora dopo in flagranza di reato. Mercoledì, intanto, via alla autopsia.

Willy Monteiro, gli accusati davanti al gip: "Non lo abbiamo toccato, volevamo sedare una rissa". Libero Quotidiano l'8 settembre 2020. "Siamo dispiaciuti e distrutti perché accusati di un omicidio che non abbiamo commesso". E' durato circa tre ore l'interrogatorio di convalida davanti al gip del tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, dei quattro giovani arrestati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso dopo un pestaggio a Colleferro nella notte tra sabato e domenica. Ai quattro, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tra i 22 e i 26 anni, il pm di Velletri Luigi Paoletti contesta il concorso in omicidio preterintenzionale. Durante l'interrogatorio i fratelli Bianchi hanno detto al Gip: "Non abbiamo toccato Willy e neanche abbiamo visto chi lo ha picchiato". Al loro fianco l'avvocato Massimiliano Pica. I due indagati hanno contestato ogni addebito sostenendo di non aver neanche sfiorato il giovane poi morto. "Siamo arrivati lí perché chiamati da alcuni amici, ma non abbiamo preso parte alla rissa. L’unica cosa che abbiamo fatto è stata di provare a intervenire per separare i litiganti che non conoscevamo. Quando ce ne siamo andati, non abbiamo visto il ragazzo a terra”. "Willy è intervenuto in mia difesa, ma non avrebbe mai preso un'iniziativa che non fosse stata pacifica per riportare gli animi alla calma. Parliamo di un ragazzo equilibrato", ha raccontato  invece al Corriere della Sera Federico Zurma, l'ex compagno di scuola di Willy. "E morto per evitare una rissa, per riportare pace. La gente fa cose senza senso", dice Zurma. "Ripenso a quella notte continuamente, ma in realtà mi sforzo di non farlo. Quello che è successo me lo porterò dietro a vita, preferisco non commentare oggi. Posso solo dire che davvero Willy si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato".

Willy ucciso con una mossa micidiale. I fratelli al gip: "Non lo abbiamo mai toccato". L’amico della vittima ha raccontato cosa è avvenuto. Il 21enne è stato colpito con “un calcio micidiale alla pancia”. Valentina Dardari, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. Federico Zurma, l’amico 21enne che Willy Monteiro Duarte ha cercato di difendere, ha raccontato la mossa micidiale che lo ha ammazzato. Willy aveva cercato in tutti i modi, anche a costo di rimetterci la propria vita, di difendere l’amico preso di mira dai quattro ragazzi arrestati poche ore dopo. I quattro sono accusati di averlo ucciso a calci e pugni. Un loro amico è per il momento solo indagato.

La mossa micidiale che ha ucciso Willy. Federico ha raccontato che lo stavano picchiando, quando improvvisamente è intervenuto il 21enne che si è messo tra lui e i suoi aguzzini, cercando di fare da paciere. Ma invece che fermarsi, gli aggressori hanno iniziato a picchiare anche lui. In quattro contro uno solo. “Uno di loro lo ha colpito con un calcio micidiale alla pancia. Willy è rimbalzato a terra, facendosi forza sulle braccia ha provato a rialzarsi, ma gli ha subito sferrato un pugno sulla testa” ,ha spiegato Federico intervistato dal Corriere della Sera. Tutti molto palestrati, i due fratelli praticano anche arti marziali. e vengono definiti picchiatori professionisti. In particolare i Bianchi praticano la Mixed Martial Arts, uno sport estremo che fonde la boxe con le arti marziali. Federico ha raccontato di Willy come di un bravo ragazzo, equilibrato, intervenuto solo per riportare la calma. Il giovane è stato ascoltato dai carabinieri e sa che dovrà presentarsi in tribunale per deporre contro i suoi aggressori. Fermati per l’omicidio Mario Pincarelli di 22 anni, Francesco Belleggia di anni 23, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni. A pochi minuti dalla tragedia, proprio Gabriele aveva postato un video, poi ricoperto di insulti dagli altri utenti, sul suo profilo Facebook. Nelle immagini si vedevano due scimmie, con commenti allusivi e parolacce. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, ha commentato quanto avvenuto: “Una cosa tristissima e molto preoccupante. Oggi vedrò il sindaco di Colleferro, per portare il segno di vicinanza dello Stato, sia spirituale sia perché siamo pronti ad analizzare nel profondo questa vicenda. Perché se ci sono aspetti che vanno oltre l’episodio intendiamo affrontarli con le dovute maniere. Una cosa che riesce difficile commentare”. Ha poi sottolineato che l’aggressione si è verificata vicino a una stazione dei carabinieri. Aggiungendo che i militari sono intervenuti velocemente. Ha inoltre tenuto a dire che è impossibile riuscire a controllare tutto, anche “le derive culturali, che possono esserci in certi ambienti e che possono portare a fenomeni di questo tipo. Io credo che le condizioni da valutare siano delle precondizioni, valuteremo se c’è qualcosa da migliorare. Ci approcciamo in maniera molto laica ma certamente non lasceremo passare l’episodio come se fosse stato qualcosa di casuale, che è avvenuto come fosse stato un accidente della vita”. Il prefetto ha poi affermato che verrà fatto tutto il possibile per onorare la memoria di Willy, prestando maggiore attenzione su certi ambienti giovanili. E forse anche familiari.

"Escluso il movente razziale". Il genitore di uno dei ragazzi arrestati avrebbe detto al padre di un amico della vittima: "Cosa hanno fatto? Non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". La frase choc, riferita ai carabinieri, inizialmente aveva portato gli inquirenti a far luce anche su un altro tema: l’ipotesi dell’aggravante razziale. Anche se sembra che il giovane cuoco di Paliano si sia solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che non abbia voltato la faccia quando ha visto che un suo ex compagno di scuola veniva picchiato. Il dubbio comunque si era insidiato. In un primo momento si era pensato che forse il colore della sua pelle, Willy è originario di Capo Verde, ma residente con la sua famiglia nel comune di Paliano, aveva fatto sì che i picchiatori andassero giù ancor più pesantemente. Il primo cittadino di Colleferro, Pierluigi Sanna, ha tenuto a dire che il comune da lui amministrato non è, e non è mai stato razzista, sottolineando che Willy e la sua famiglia non avevano mai avuto problemi. Lo stesso a Paliano. Ma la situazione sarebbe diversa ad Artena, dove i fratelli Bianchi sarebbero ben conosciuti anche per episodi di xenofobia. Gabriele avrebbe già in passato commentato fatti di cronaca usando parole razziste. E su internet c’è anche chi fa i complimenti ai presunti killer perché visti come degli eroi. Ma la polizia postale di Latina è già sulle loro tracce. Sarebbe invece stato escluso il movente razziale e politico nell'omicidio di Willy Monteiro. Fonti investigative lo avrebbero affermato all'AGI.

Cosa hanno detto davanti al Gip. "Non lo abbiamo toccato, respingiamo ogni accusa. Siamo interventi per dividere una rissa. Abbiamo visto un parapiglia e siamo arrivati". Così si sono difesi i due fratelli, Marco e Gabriele Bianchi, davanti al Gip di Velletri nel carcere romano di Rebibbia. Si sono anche detti dispiaciuti e distrutti perchè accusati di un omicidio che non hanno commesso. Il loro avvocato, Massimiliano Pica, ha asserito che i suoi assistiti non hanno partecipato alla rissa in cui è morto il 21enne. I due sarebbero solo scesi dalla loro auto per fare da paciere, perchè avevano visto alcuni loro amici coinvolti nella rissa. Secondo quanto sottolineato dal legale, i due fratelli avrebbero anche fornito al giudice i nomi dei loro amici coinvolti. "I miei assistiti affermano di avere sbracciato per dividere gli autori della rissa ma di non avere colpito il ragazzo. Domani depositeremo nuove testimonianze che contraddicono quelle della Procura. I fratelli Bianchi affermano di non avere visto Willy a terra, vittima del pestaggio" ha infine rivelato l'avvocato.

La compagna di Gabriele è incinta. "Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c'è più" ha confidato all'Adnkronos Silvia Ladaga, la compagna di Gabriele Bianchi. La ragazza aspetta un bambino e ha raccontato cosa sta avvenendo nella sua testa in questi giorni. La donna è passata dalla gioia di aspettare una creatura da Gabriele, alla disperazione di perdere il proprio compagno, rinchiuso in carcere. L'ex candidata alle Regionali del Lazio con Forza Italia è certa che la giustizia farà il suo corso e che la verità salterà fuori. Ha inoltre spiegato che "c'è un accanimento fortissimo verso le famiglie dei protagonisti di questa storia. La prima vittima di tutto questo è Willy che non c'è più e la sua famiglia. Poi ci siamo noi che non c'entriamo nulla e stiamo subendo minacce di morte pesantissime". E naturalmente il suo pensiero va anche a quel bambino che deve ancora nascere.

Fulvio Fiano per corriere.it il 9 settembre 2020. Ci sono due supertestimoni della rissa sfociata nell’uccisione di Willy Monteiro Duarte. Sono amici del gruppo dei quattro arrestati che forniscono una prima ricostruzione dell’intera sera di sabato scorso. Se confermate dalle indagini dei carabinieri, serviranno a ridefinire le responsabilità dei fratelli Bianchi. La cui famiglia li ha indirizzati nello studio dell’avvocato difensore, Massimiliano Pica, per mettere nero su bianco questa versione.

La prima lite. La lite tra i due gruppi comincia tre ore prima dell’uccisione del 21enne. Da una parte il gruppo di Colleferro nel quale c’è il ragazzo che Willy proverà a tirar fuori dai guai rimettendoci la vita, dall’altro quello di Artena con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Tra i due paesi ci sono solo 8 chilometri, sufficienti però a fomentare un rivalità quasi territoriale. Nella quale anche un commento non-neutro sotto la foto di una ragazza sui social può innescare la faida nel pub-ristorante Due di picche. All’inizio sono solo frasi, sguardi minacciosi che sembrano esaurirsi senza conseguenze. Gabriele e Marco Bianchi sono assieme ai due testimoni e a una quinta persona (il ragazzo che è oggi indagato per favoreggiamento perché era alla guida del Suv degli arrestati pur non essendone sceso per unirsi alla rissa). Con quest’ultimo i due fratelli lasciano il pub prima degli altri. Sul posto restano i futuri testimoni dello scontro e, separati con la propria comitiva, Belleggia e Pincarelli. La loro serata sembra improntata alla ricerca di uno scontro, tanto che in un episodio separato il primo sferra un ceffone in bagno a un ragazzo estraneo alle due comitive.

La rissa. All’esterno del pub, invece, è Pincarelli a riaccendere lo scontro. Avvicina la comitiva rivale sulle scale che guardano la della piazza e chiede, quasi pretende, la sigaretta da uno dei ragazzi di Colleferro. Quando questo dice di non averne, lui prende il pacchetto vuoto che l’altro gli ha appena mostrato e glielo infila in bocca. È l’ultima barriera che cade, il limite è superato. Comincia la zuffa e i due di Artena si trovano subito in difficoltà. Sono in inferiorità numerica.

«Venite, c’è un casino». È qui che uno dei due testimoni avverte Gabriele e Marco Bianchi: «Venite, sta succedendo un casino». L’acquisizione dei tabuati telefonici disposta dalla procura di Velletri trova la sua motivazione con la ricerca di conferme su questo passaggio. I Bianchi non si tirano indietro. E come già capitato altre volte, secondo il racconto di tanti in paese, i due esperti di Mma arrivano a difesa degli amici a far valere muscoli e tecniche di combattimento. I testimoni riferiscono di spintoni e qualche schiaffo, molti avversari di Belleggia e Pincarelli si danno alla fuga. Nello scontro due amici di Willy riportano ferite guaribili in 10 giorni.

L'arrivo di Willy. Sul posto, nel frattempo, è arrivato anche il 21enne di origini capoverdiane, che di ritorno dalla sua uscita con gli amici di Paliano dopo il turno di lavoro nel ristorante dove fa apprendistato e si guadagna l’indipendenza economica, vede il suo amico Federico Zurma. Il coetaneo suo compagno di studi è in difficoltà e Willy si mette in mezzo a fare da paciere. Prova a raffreddare gli animi, non partecipa allo scambio di colpi ma ne rimane coinvolto. Cade, colpito forse da una manata di Marco Bianchi. Prova a rialzarsi sulle braccia come quando si fanno le flessioni, ma i due che hanno iniziato la rissa vogliono anche chiuderla prendendosi l’ultima soddisfazione. Pincarelli gli dà un pugno al capo, Belleggia un calcio «da karate», al volto. Un dettaglio, questo, riportato anche in altre testimonianze raccolte dai carabinieri. Belleggia è in effetti un karateca: nel suo interrogatorio ha detto di non aver colpito il ragazzo, accusando implicitamente gli altri del gruppo. In ogni caso Willy ricade e non si alzerà più.

L’arresto. Il suv Q7 dei Bianchi riparte inquadrato dalle telecamere, stavolta con a bordo anche Belleggia e Pincarelli. Vanno ad Artena, nel locale di Alessandro, il fratello maggiore di Gabriele e Marco non ché proprietario del Suv. È lui che racconta di aver sentito i fratelli inveire contro gli amici: «Per colpa di sti’ di due... che hanno combinato...». Neanche mezz’ora dopo arrivano i carabinieri mentre prendono un caffé. Qualche parola, poi l’invito ultimativo a seguirli in caserma.

Valentina Errante per ilmessaggero.it il 9 settembre 2020. Ci sono almeno altre due persone che hanno visto cosa è accaduto nella notte di sabato, quando Willy Monteiro Duarte è stato ucciso a calci e pugni. E sono amici degli indagati, altri ragazzi che sostengono di avere telefonato loro ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, perché tornassero in piazza Santa Caterina, dove il loro gruppo era coinvolto nella rissa che sarebbe costata la vita a Willy. I carabinieri non li hanno trovati al bar di Artena insieme ai fratelli Bianchi, a Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, tutti a Rebibbia, perché, dopo il pestaggio, non sono saliti sull' Audi insieme agli indagati e a un quinto amico, Vittorio Tondinelli, indagato per favoreggiamento.

LA TELEFONATA. Sono stati loro stessi a dire che hanno telefonato per chiamare i fratelli, quelli tutti muscoli e tatuaggi, esperti in arti marziali, ma sostengono che i Bianchi siano estranei ai fatti. Per questo l' avvocato Massimiliano Pica, che difende tre dei quattro imputati, li ha sentiti a verbale ieri e promette di depositare la loro testimonianza in procura a Velletri questa mattina. Agli atti ci sono invece le ricostruzioni degli amici di Willy, che li indicano come i responsabili della morte del ragazzo di 21 anni. E quella di Francesco Belleggia che racconta come siano arrivati a dare manforte agli amici e che la rissa «alla Trainspotting», abbia avuto protagonisti proprio i Bianchi. Botte, calci e pugni.

LA DIFESA. «Non siamo stati noi. Non lo abbiamo toccato». Marco e Giacomo Bianchi, ieri, hanno respinto le accuse e raccontato un' altra storia, contestando le testimonianze in mano alla procura di Velletri, che li indica come gli assassini di Willy. Dicono che sono arrivati quando il ragazzo era già in mezzo alla calca e hanno tentato anche loro di sedare la lite. Qualche accusa sarebbe stata mossa dai fratelli e da Pincarelli, a Belleggia, che si dichiara estraneo ai fatti ma accusa i Bianchi. Secondo l' avvocato Pica però le testimonianze che hanno incastrato i suoi clienti sono contraddittorie, a cominciare da quelle sull' abbigliamento che non corrisponderebbe con quello indossato sabato notte. «Abbiamo sbracciato per fermarli», così uno di loro avrebbe spiegato quello strappo sulla camicia. L' accusa è di omicidio preterintenzionale in concorso e, per la dinamica dei fatti non è mai stata presa in considerazione l' ipotesi dell' aggravante dell' odio razziale, anche se Willy era originario di Capo Verde.

LA RICOSTRUZIONE. La lite comincia prima dentro a un pub e riprende fuori, dopo un apprezzamento a una ragazza da parte di Pincarelli. Un commento poco gradito al fidanzato. I due gruppi di giovani si ritrovavano fuori, sui gradini della piazza. In quel momento i Bianchi non ci sono, hanno lasciato al locale Due di picche Pincarelli, Belleggia e altri del loro gruppo, per andare a bere una birra da un' altra parte, assicurando che sarebbero tornati. Prima volano le parole grosse, poi si passa agli schiaffi. È a questo punto che qualcuno, probabilmente i due nuovi testimoni, chiamano i Bianchi. I due fratelli, esperti in arti marziali scendono dall' auto, l' unico fotogramma restituito dalla telecamera. A bordo il terzo amico, indagato a piede libero. La lite poi si sposta fino all' edicola, in tutto circa 100 metri. Nelle prossime ore il gip scioglierà la riserva sulle richiesta di confermare il carcere formulata dal pm e dei domiciliari presentata dagli avvocati. Oggi verrà eseguita l' autopsia, entro sabato ci saranno i funerali. I pm intanto hanno affidato una perizia sui vestiti indossati dai quattro arrestati. Ieri il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che si dice «scioccato e colpito profondamente» dall' omicidio di Willy, ha chiamato i familiari del giovane. «La magistratura sta svolgendo le indagini e la giustizia farà sicuramente il suo corso. Ma noi nel frattempo come reagiremo?» ha scritto il premier in un post.

Da leggo.it il 9 settembre 2020. Restano in carcere tre dei quattro giovani arrestati, con l'accusa di concorso in omicidio preterintenzionale, per la morte di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni ucciso in seguito a un pestaggio a calci e pugni a Colleferro nella notte tra sabato e domenica. Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli restano in carcere mentre Francesco Belleggia va agli arresti domiciliari. La decisione del gip di Velletri arriva dopo l'interrogatorio di ieri nel carcere di Rebibbia.

Da repubblica.it il 9 settembre 2020. Gabriele Bianchi è uno dei giovani arrestati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso sabato notte a Colleferrodopo un pestaggio. In un'intervista al Tg3 del 4 agosto scorso, Bianchi veniva intervistato come giovane commerciante coraggioso, che aveva deciso di intraprendere una attività di fruttivendolo dopo il lockdown, nonostante tutte le incognite dovute al periodo. "Ho aperto circa un mese fa - diceva - No, non ho avuto paura - Ci credo molto"

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 9 settembre 2020. «Ho un vivido ricordo di un paio di loro, che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso a terra e già inerme»: è un racconto choc quello che emerge dall’ordinanza di convalida degli arresti di Marco e Gabriele Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, accusati di aver picchiato a morte il giovane Willy Monteiro Duarte a Colleferro la notte tra sabato e domenica scorsi. I testimoni raccontano che «Gabriele Bianchi ha aggredito Willy e gli ha sferrato un calcio». Nell’ordinanza il giudice che ha convalidato gli arresti scrive tra le altre cose che: «i Bianchi e Pincarelli hanno cercato di minimizzare il fatto assegnando la responsabilità a terzi» e che «per questo devono stare in carcere». Un testimone racconta: «Stavamo di fronte al bar Movida e abbiamo visto ragazzi discutere. C’erano Mario Piancarelli e Federico Zurma,… discutevano per delle ragazze. A questo punto Willy che conosceva Zurma va verso di lui per capire che stesse avvenendo…». E un altro aggiunge: «Ho visto il ragazzo di colore cadere dopo aver ricevuto un calcio ma una volta caduto sono riuscito a vederlo solo di sfuggita anche perché intorno c’erano parecchi altri ragazzi».

Willy Monteiro, Marco Bianchi respinge le accuse: "Stavo facendo sesso al cimitero con mio fratello, un amico e tre ragazze". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Escono nuove sconcertanti rivelazioni dai verbali dell'inchiesta sull'omicidio di Willy Monteiro a Colleferro. Viene fatto trapelare parte dell'interrogatorio di uno dei due fratelli Bianchi (Marco) accusato di aver ucciso Willy assieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Bianchi respinhe le accuse e racconta che prima di arrivare sulla scena del crimine stava facendo sesso al cimitero col fratello, un amico e tre ragazze. "Marco Bianchi riferiva che allontanatosi dal pub in compagnia del fratello, di un amico e di tre ragazze delle quali non sapeva riferire il nome, mentre stavano consumando un rapporto sessuale vicino al cimitero, ricevevano una telefonata da parte del loro amico Michele Cercuozzi che gli chiedeva di intervenire in loro soccorso a Colleferro", si legge nell'ordinanza di arresto per i fratelli Bianchi, Pincarelli e Belleggia, l’unico ad aver ottenuto i domiciliari perché il gip ne ha riconosciuto la "posizione più sfumata". Anche sulla rissa ha minimizzato: "Ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, poi mi sono allontanato… non ho dato nessun colpo", mentre suo fratello Gabriele ha dichiarato: "Io ho solo spinto l’amico di Willy e poi arrivano Pincarelli e Belleggia, loro c’erano quando Willy è caduto in ginocchio".

"Non siamo stati noi". Omicidio Willy, i fratelli Bianchi si difendono ma Scanzi ne chiede l’ergastolo. Angela Stella su Il Riformista il 9 Settembre 2020. «Non lo abbiamo toccato. Respingiamo ogni accusa. Siamo intervenuti per dividere, abbiamo visto un parapiglia e siamo arrivati». È quanto hanno dichiarato ieri Marco e Gabriele Bianchi durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto per la morte di Willy Monteiro Duarte, avvenuta nel corso di una rissa la notte tra sabato e domenica scorsa a Colleferro. I due fratelli, insieme a Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, sono accusati di omicidio preterintenzionale in concorso. «Siamo dispiaciuti e distrutti perché accusati di un omicidio che non abbiamo commesso» hanno aggiunto i ragazzi davanti al gip di Velletri durante le quattro ore di colloquio nel carcere di Rebibbia. Il loro avvocato, Massimiliano Pica, ha detto al termine: «I miei assistiti hanno raccontato di avere visto delle persone che loro conoscevano e che erano coinvolte in una rissa con altri soggetti a loro sconosciuti. I miei assistiti hanno fornito al giudice i nomi dei loro conoscenti». Inoltre, secondo quanto riferito dal penalista, «gli indagati affermano di avere "sbracciato" per dividere gli autori della rissa, ma di non avere colpito il ragazzo». Sempre il difensore ha spiegato che «le telecamere hanno ripreso solo l’arrivo e la partenza dell’auto dove a bordo erano presenti i fratelli Bianchi, ma non hanno ripreso la scena della rissa». Tutto sarebbe iniziato davanti al locale il ‘’Due di picche’’ tra due persone. È partito uno schiaffo per un apprezzamento ad una ragazza. La lite poi si sarebbe protratta fino all’edicola dove è successo il fatto. I fratelli Bianchi sono arrivati dopo perché erano andati a prendere degli amici che li avevano chiamati per andare a casa. «Domani (oggi, ndr) – hanno detto gli avvocati – depositeremo nuove prove e testimonianze che contraddicono quelle della Procura». «I fratelli Bianchi affermano di non avere visto Willy a terra, vittima del pestaggio», ha concluso Pica che assiste anche Mario Pincarelli, il quale come gli altri si dichiara estraneo ai fatti. Ora il giudice dovrà decidere se convalidare l’arresto e oggi conferirà l’incarico per l’autopsia. Nel frattempo, come da solito copione in questi casi, stanno arrivando pesanti minacce ai familiari dei ragazzi indagati. Non stupisce, considerata la campagna d’odio che è iniziata subito sui social network appena sono trapelate le prime notizie, non verificate, su quella tragica notte. Forse sono colpevoli, o forse no. Non possiamo dirlo ora. Esiste il principio di presunzione di innocenza, ma intanto anche stimati colleghi hanno già emesso la sentenza di condanna e stabilito persino quale debba essere la giusta pena che dovrà essere applicata dai giudici: «I quattro assassini meriterebbero l’ergastolo, ma vedrete che se la caveranno con molto meno e tra qualche anno ce li troveremo intervistati in tivù» , ha sentenziato Andrea Scanzi. Mentre Remo Croci ha preso di mira il diritto di difesa costituzionalmente garantito: «Immagino le arringhe di chi andrà gratuitamente a chiedere di difenderli e non oso immaginare quale opinionista dei talk aprirà un altro fronte di innocentisti. Ne ho veramente piene le scatole di questi personaggi a gettone. Basta!».

Monteiro Duarte. "Stavamo facendo sesso al cimitero", la fragile difesa dei fratelli Bianchi, tra testimoni "amici" e alibi implausibili. La strategia per evitare l'aggravante della premeditazione. Un conoscente dei "gemelli" promise su Facebook: "Farò uscire la verità", poi cancellò il post. Adesso gli avvocati lo vorrebbero come teste chiave. Clemente Pistilli e Fabio Tonacci La Repubblica il 10 settembre 2020.   Sesso, violenza e morte. La notte dei fratelli Bianchi, così come l'hanno ricostruita loro stessi e così come emerge dalle dichiarazioni dei testimoni che erano sulla scena del pestaggio di Willy Monteiro Duarte, pare il trito canovaccio di un b-movie. Di quelli genere pulp. Non manca niente: amplessi furtivi vicini a un cimitero, macchinoni che sgommano, un gruppo di compari che, dopo la morte del 21 enne di origine capoverdiana, sigla il patto del silenzio. Un patto che può essere rotto solo se messi alle strette dai carabinieri, e, comunque, solo per accusare qualcun altro. Negando ogni addebito e persino l'evidenza.

L'arrivo degli artenesi al "Duedipicche". Gabriele Bianchi (26 anni non ancora compiuti) e Marco Bianchi (24 anni) si affacciano al risto-pub "Duedipicche" di Colleferro, baricentro della movida locale, nel dopo cena di sabato 5 settembre. Sono giunti da Artena con la Audi Q7 nera della compagna del loro fratello maggiore Alessandro. Non sono soli. Con loro ci sono Michele Cerquozzi, Omar Shabani e Vittorio Edoardo Tondinelli. I cinque sono più che semplici amici. Basta vedere il loro profili Facebook per intuire la stima, diciamo anche la riverenza, che Shabani e Cerquozzi provano per i due fratelli palestrati ed esperti di Mma (sport da combattimento che mescola diverse arti marziali). È sabato e vogliono tutti fare serata. Dopo poco, i due fratelli e Vittorio Tondinelli si allontanano dal locale in compagnia di tre ragazze. Salgono sull'Audi e spariscono.

Sesso al cimitero. Dove siano stati, e cosa abbiano fatto, lo ha dichiarato Marco Bianchi. Scrive il gip nell'ordinanza di convalida dell'arresto: "Interrogato per primo, riferiva che allontanatosi dal pub in compagnia del fratello, di un amico e di tre ragazze delle quali non sapeva riferire il nome, mentre stavano consumando un rapporto sessuale 'vicino al cimiterò ricevevano una telefonata da parte di Cerquozzi il quale, a suo dire, impegnato in una violenta discussione a Colleferro, chiedeva loro di intervenire in suo soccorso". Per quanto grottesca, la circostanza - che i carabinieri di Velletri stanno verificando attraverso l'analisi di alcuni video - dimostrerebbe, nell'intento difensivo, la totale mancanza di predeterminazione del successivo pestaggio. E fa il paio con la motivazione della telefonata di Cerquozzi. Il giudice ha ragionevoli motivi per ritenere che fosse una "chiamata di soccorso", mentre secondo gli avvocati difensori dei Bianchi, la telefonata aveva un altro contenuto, e si riferiva piuttosto al fatto che la moglie di qualcuno dei tre stava cercando il marito. Potrebbe anche essere, quest'ultima, una versione di comodo, per evitare appunto la contestazione delle aggravanti della premeditazione.

Il pestaggio...Quale che sia l'esatto contenuto della conversazione e qualsiasi cosa stessero facendo i fratelli Bianchi prima di ricevere quella telefonata, è un fatto che, dopo, i due fratelli prendono la macchina e si precipitano davanti al "Duedipicche". Lì davanti quattro testimoni oculari li vedono scendere dall'Audi e pestare brutalmente Willy e il suo amico, Samuele Cenciarelli. Questi se la caverà con dieci giorni di referto medico, Willy non si rialzerà più dal marciapiedi dove lo hanno scaraventato, saltandogli addosso. Nello specifico, pare essere stato Gabriele Bianchi a sferrare i colpi più duri, prima un calcio poi un pugno al volto di Willy. Nella rissa, sempre stando a quanto dichiarato dai presenti, c'è anche Mario Pincarelli, un altro ragazzo di Artena molto legato ai Bianchi. Forse partecipa attivamente anche Francesco Belleggia, il quarto arrestato, ma la sua posizione pare alleggerirsi, seppur relativamente, perché il gip a lui, e solo a lui, ha concesso i domiciliari. Tre testimoni credono di averlo riconosciuto nel nugolo dei picchiatori di Willy dal braccio ingessato, ma Belleggia nega, e giura di non aver toccato il ragazzo.

...e la congiura del silenzio. Dopo la rissa davanti ai giardinetti Santa Caterina, gli artenesi fuggono via. A bordo dell'Audi dei Bianchi salgono Cerquozzi, Shabani, Tondinelli e anche Belleggia. "Era l'unico modo che avevo per tornare a casa", si giustifica lui, a verbale, cercando di prendere le distanze dagli altri. "Mi serviva un passaggio". Belleggia racconta anche di una sorta di congiura del silenzio. Scrive il Gip: "L'indagato riferiva che i due fratelli Bianchi, prima dell'arresto, gli avevano consigliato di mantenere il silenzio sulle loro condotte". C'è dell'altro. Belleggia spiega quanto si sono detti in macchina nel viaggio di ritorno da Colleferro alla rotonda di Artena, dove hanno appuntamento con Pincarelli. "Tutti hanno detto che Pincarelli aveva dato pugni a Willy. Io non ho visto i colpi di Mario...quando ho visto Willy cadere, io mi sono allontanato e anche i Bianchi. Io ho visto correre tutti verso la macchina. Io non sono rimasto col Pincarelli a fronteggiare Willy. Willy non c'entrava nulla". Insomma la versione comune è stabilita: se proprio bisognerà fare qualche nome, che sia quello di Pincarelli.

I post cancellati di Omar. Davanti agli inquirenti, dopo l'arresto, Marco Bianchi dichiara: 1) "ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, poi mi sono allontanato"; 2) di "non aver dato nessun colpo"; 3) "Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi"; 4) "Willy è caduto con la mia spinta ma lui si è alzato e poi io sono andato via". Anche il fratello sostiene di non aver fatto niente e di non aver visto niente: "C'erano tante persone e non ho visto chi ha colpito Willy". Il pm di Velletri, Antonio Paoletti, non gli crede. Né gli ha creduto il gip che ne ha convalidato gli arresti in carcere. I loro avvocati difensori, Mario e Massimiliano Pica, sono però convinti di ribaltare la narrazione dei fatti fin qui ricostruiti dai magistrati grazie alle testimonianze scagionanti di Cerquozzi e Sahbani. Quest'ultimo si è già espresso pubblicamente in loro difesa sul proprio profilo Facebook, con due post che ha cancellato dopo poco. Repubblica è però venuta in possesso degli screenshot. Nel primo post scrive: "Come è giusto che il povero Willy riposi in pace, come è giusto che giustizia sia fatta, è anche giusto che il vero colpevole deve parlare! Fosse l'ultima cosa che faccio ma mi batterò fino alla fine pur di far uscire la verità!". Nel secondo: "Voglio ricordarvi una cosa, le persone arrestate sono 4, e se vi sfugge il nome degli altri 2 si chiamano Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. E se non fossero stati Marco e Gabriele ad uccidere quel povero ragazzo? Vi invito ad iniziare ad informarvi bene prima di dare dell'assassino!".

Fulvio Fiano, Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 10 settembre 2020. Willy Monteiro Duarte «non c’entrava nulla con la rissa», ma «l’hanno massacrato a calci e pugni senza una plausibile ragione». La notte di domenica scorsa «voleva mettere pace tra due ragazzi che litigavano», ma «gli sono saltati sul corpo anche quando era a terra inerme». Aveva il corpo scosso dalle convulsioni, respirava a fatica. Una ragazza ha provato a rianimarlo. Per lui non c’è stato nulla da fare. L’ordinanza del giudice di Velletri che tiene in carcere i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, il loro amico Mario Pincarelli e manda ai domiciliari Francesco Belleggia, ricostruisce nei dettagli l’aggressione selvaggia al giovane di Colleferro. Descrive la furia del gruppo — tutti cultori di arti marziali — «che picchiavano tutti quelli che incontravano» e poi si sono accaniti su Willy. Svela che i «fratelli Bianchi» «stavano facendo sesso nel cimitero con alcune ragazze di cui non conoscevamo il nome, quando siamo stati chiamati». Consegna la descrizione di notti folli trascorse a bere per strada, durante le quali basta un apprezzamento pesante a una ragazza per accendere gli animi e scatenare l’inferno. Sono i testimoni presenti in largo Santa Caterina a Colleferro a raccontare ogni passaggio — dall’inizio della lite al pestaggio mortale — consentendo così ai carabinieri di chiudere l’indagine. I loro verbali si trasformano nel film dell’omicidio.

La prima lite. Il primo a essere rintracciato dagli investigatori dell’Arma è Federico Zurma: «Verso le 23,30 di sabato, insieme ad alcuni amici e amiche siamo recati presso il locale Due di picche. Ci siamo intrattenuti fino all’1,30 quando decidevamo di andare via. Giunti alle scale le mie amiche mi riferivano di essere state apostrofate in modo volgare da alcuni ragazzi lì sul posto. Io il mio amico Alessandro Rosati ci siamo fatti indicare chi fossero i ragazzi che le avevano importunate e siamo andati da loro a chiedere conto. Il mio amico Alessandro li riconosceva per dei ragazzi di Artena. Ci scambiavamo qualche battuta dopodiché uno di loro mi veniva incontro dicendomi perché lo stessi fissando. Avevamo un diverbio quando all’improvviso questo ragazzo mi colpiva con un pugno al volto facendomi rovinare sulle scale». La faccenda sembra finita, ma oltre un’ora dopo è ancora aperta. Zurma ricorda i dettagli: «Finita la lite tra me e il ragazzo notavo che a distanza di pochi metri da noi si era creato un altro parapiglia tra altri ragazzi che stavano litigando esattamente sulla strada vicino l’edicola. Qualcuno mi urlava che il mio amico Willy coinvolto nel parapiglia si trovava steso a terra, facendomi spazio tra la gente in effetti notavo Willy a terra sul marciapiede preso da spasmi tipo convulsioni. Attorno a lui c’era una moltitudine di persone e ricordo che qualcuno ha provato a soccorrerlo e rianimarlo. Venivano chiamati i soccorsi e io e Alessandro andavamo via anche perché lui aveva riconosciuto gli aggressori di Willy e mi suggeriva di allontanarmi il prima possibile per non incorrere in ulteriori violenze. Ricordo che il ragazzo che mi ha sferrato il pugno aveva l’avambraccio sinistro ingessato e i capelli corti e scuri». Rosati conferma questa versione e spiega anche di essersi «avvicinato a uno di quei ragazzi che conoscevo e con calma ho chiesto spiegazioni del perché avesse proferito parole poco carine nei confronti delle ragazze e lui si è subito scusato dicendo che non era stato lui».

L’arrivo di Willy. Il motivo che ha spinto Willy a mettersi in mezzo lo racconta il suo amico Emanuele Cenciarelli: «All’1,30 circa insieme a Willy e altri amici giungevamo a Colleferro e ci intrattenevamo per un paio d’ore fino a circa le 3 quando decidevamo di andarcene per tornare a Paliano. Ci allontanavamo a piedi verso le nostre macchine quando Willy vedeva un ragazzo che mi diceva essere un suo vecchio compagno di scuola il quale stava discutendo animatamente con un altro ragazzo che non conosco. A quel punto Willy si avvicinava al suo vecchio compagno di scuola per capire cosa stesse accadendo e se avesse bisogno di aiuto... cercavo di dissuadere Willy dall’interessarsi alla vicenda aggiungendo che ritenevo opportuno andarcene a casa. Willy mi assecondava e ci incamminavamo verso la sua auto. A quel punto senza che io e Willy potessimo accorgerci di ciò che stava accadendo venivamo entrambi aggrediti da alcuni ragazzi tra i quali riconoscevo subito i due che stavano poco prima discutendo con Federico l’amico di Willy. Ricordo subito l’immagine di Willy steso a terra circondato da 4 o 5 ragazzi che lo colpivano violentemente con calci pugni. Il mio istinto di protezione mi spingeva a gettarmi addosso Willy per cercare di proteggerlo dai colpi che stava ricevendo, urlando agli aggressori che io e Willy non centravamo niente con quanto eventualmente era accaduto prima. Le mie richieste venivano nel vuoto tanto che io stesso venivo colpito da calci e pugni sempre dagli stessi ragazzi che avevano aggredito Willy». E ancora: «Non riesco a quantificare il tempo e l’aggressione, la violenza dei colpi subiti da me Willy era inaudita... I due ragazzi con i quali Federico stava discutendo uno indossava una camicia bianca e aveva una lacrima tatuata in viso sotto l’occhio e diversi tatuaggi su braccia e mani. L’altro aveva un avambraccio ingessato. Al momento dell’aggressione si sono uniti a loro altri tre ragazzi. Per quanto io ricordi tutti sferravano calci e pugni contro me e Willy. Ho un vivido ricordo di un paio di loro, non ricordo però chi di preciso, che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso a terra e già inerme». Anche Faiza Rouissi, che rientrava verso casa alle 3 di notte, ricorda quei momenti: «Ero a piedi ho visto un ragazzo che conosco e mi sono fermata a dividere Pincarelli e Zurma che si stavano picchiando. A questo punto è arrivata un’autovettura a forte velocità di colore nero dalla quale sono scese cinque persone. Tre di loro hanno iniziato a picchiare selvaggiamente qualsiasi persona presente sul posto. Un ragazzo è rimasto a terra e nonostante fosse disteso delle persone lo picchiavano. So riconoscere chi è stato: Gabriele Bianchi, che dapprima gli ha dato un calcio in pancia per il quale Willy si è accasciato. E quando si è rialzato è stato colpito nuovamente da Gabriele. Perdeva sangue dalla bocca, Gabriele l’ha picchiato ancora a terra per qualche istante dopodiché, quando è arrivata la sicurezza dei locali, lui è scappato insieme agli altri. A quel punto abbiamo soccorso Willy e abbiamo chiamato un’ambulanza».

Sesso e minacce. I fratelli Bianchi sono noti nella zona per la loro violenza, hanno precedenti di altre risse. Quando i carabinieri vanno a prelevarli non possono negare di essere stati a Colleferro anche se cercano di minimizzare le proprie responsabilità. Il giudice sottolinea che «Marco Bianchi riferiva di essersi allontanato dal pub in compagnia del fratello, di un amico e di tre ragazze delle quali non sapeva riferire il nome e che mentre stavano consumando un rapporto sessuale vicino al cimitero, ricevevano una telefonata da parte del loro amico Michele Cerquozzi che gli chiedeva di intervenire in loro soccorso a Colleferro». Il giovane che sta con loro al cimitero è Vittorio Tondinelli, il quinto indagato, ma estraneo alla rissa. Quando i tre arrivano a Colleferro trovano Belleggia. Dichiara Marco Bianchi: «Io ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, poi mi sono allontanato. Non ho dato nessun colpo. Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi. Willy è caduto sotto la mia spinta ma poi si è alzato e io sono andato via... C’erano tante persone, non ho visto chi ha colpito Willy». Belleggia fornisce una versione diversa: «Marco Bianchi va verso Willy gli tira un calcio lui cade all’indietro. Gabriele Bianchi picchia l’amico di Willy... Willy era poca distanza, Marco Bianchi gli sferra un calcio sul petto diretto. Willy cade indietro sulla macchina e Gabriele si dirige verso l’amico di Willy picchiandolo». È la conferma che serve a convalidare gli arresti. Ma Belleggia aggiunge anche un dettaglio importante: «Prima di essere presi i fratelli Bianchi mi hanno consigliato di non parlare di quello che avevano fatto».

Quelle bugie dei fratelli Bianchi: "Willy è caduto, ma si è rialzato". Durante l’interrogatorio i Bianchi hanno detto: "Noi eravamo lì per caso, c'è stata solo una spinta". Valentina Dardari, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. I principali indagati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, sono concordi nel dire che si sono trovati là per caso e che non hanno colpito il 21enne. Nel carcere romano di Rebibbia sono finiti i fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, e il loro amico, Mario Pincarelli. Francesco Belleggia è stato l’unico ad aver avuto gli arresti domiciliari dopo che aveva svelato il patto del silenzio avvenuto sul Suv nero. Gli indagati non avrebbero neanche parlato di una vera e propria rissa, quanto piuttosto di una discussione. Come riportato da Repubblica, Gabriele, il maggiore dei due fratelli Bianchi, al primo interrogatorio di garanzia, avvenuto l’8 settembre, avrebbe risposto in modo confuso. Addirittura avrebbe negato inizialmente di avere precedenti penali, tranne poi dire subito dopo “forse sì”. Alla richiesta del giudice di ricostruire quella tragica notte, il 26enne ha affermato: “Io, mio fratello Marco e Vittorio Tondinelli andiamo al locale Duedipicche, poi ci allontaniamo con tre ragazze. A un certo punto Michele Cerquozzi mi telefona e mi chiede di tornare là. Vediamo una rissa e ci dirigiamo verso la folla. Mentre cercavamo di capire, vedo Willy spostarsi come se fosse stato spinto. Accanto a Willy c'era un ragazzo che gesticolava e io l'ho spinto per paura che colpisse mio fratello. Non ho visto chi ha spinto Willy”. Il giovane ha inoltre asserito di non aver avuto nessun contatto con la vittima e di averla solo vista cadere prima in ginocchio e poi per terra. Ma non saprebbe dire chi lo abbia colpito. Anche perché, come da lui stesso sottolineato, la loro auto si trovava a 15 metri di distanza. Il ragazzo è certo che attorno a Willy ci fosse anche Francesco Belleggia. Luigi Paoletti, il pubblico ministero di Velletri, sembra però non credere molto alle parole di Bianchi e chiede uno sforzo di memoria. “Ripeto, ho spinto l'amico di Willy, ma non lui. Tutto è durato pochi secondi. Non avevamo bevuto né assunto alcun tipo di droga. Alla fine siamo tornati al locale di mio fratello ad Artena...” ha ribadito l’indagato. Lo stesso giorno è stato interrogato anche il fratello Marco di 24 anni, esperto di Mma, uno sport da combattimento che unisce arti marziali e pugilato. Il giovane ha raccontato di aver interrotto un rapporto sessuale vicino al cimitero a causa di una improvvisa telefonata da parte di un amico. “Ci chiama Cerquozzi per aiutarlo a Colleferro. Ha chiamato Tondinelli e mio fratello dicendo che alcuni ragazzi discutevano”. I fratelli lasciano quindi le ragazze con cui stavano amoreggiando e tornano velocemente al risto-pub Duedipicche. “Dopo 15 minuti arriviamo là e vediamo una folla. Ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, è caduto ma poi si è alzato e sono andato via. L'ho spinto con le mani, non gli ho dato un calcio al torace. Non ho dato nessun colpo, Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi” questa la versione del 24enne. Quattro testimoni oculari però avrebbero fornito una versione diversa. Questi avrebbero infatti detto di aver visto i fratelli Bianchi colpire Willy. I gemelli, chiamati così perché molto simili nei modi di fare e anche nel fisico, continuano ad asserire di averlo solo spinto, ma che poi si è rialzato. Neanche il terzo ragazzo interrogato, Mario Pincarelli, ha aggiunto molto di più alla versione degli altri due: “Belleggia ha discusso con un ragazzo. Ero con lui e altre persone. I fratelli Bianchi intervengono per un passaggio. Scendono dalla macchina, dicono di andare via. Io non ho nemmeno parlato con Willy. I Bianchi non hanno toccato nessuno. Io stavo cercando di mettere pace tra Belleggia e l'altro ragazzo. Dopo ci siamo visti ad Artena al locale di Alessandro, il fratello di Gabriele e Marco”. Gli inquirenti non credono però alle parole degli indagati. Piuttosto, i tre sembrano ancora seguire il copione deciso quella tragica notte a bordo del Suv, poco dopo la morte del 21enne. Due le foto che hanno permesso ai carabinieri di fermare i fratelli Bianchi. La prima scattata da un amico di Willy che riprende la vettura nera che se ne va dal luogo della tragedia. La seconda è stata fatta alle 3.49, quando il 21enne si trova già sull'ambulanza che lo porterà in ospedale, e si vede il suv parcheggiato con le portiere aperte e due ragazze in minigonna che parlano con gli indagati. Fondamentale la testimonianza di Belleggia che, davanti al giudice, ha raccontato la sua versione: “Willy era a poca distanza da me e Federico Zurma, un ragazzo di Colleferro con cui avevo avuto un diverbio. Arrivano i Bianchi. Marco sferra a Willy un calcio sul petto, Willy cade indietro sulla macchina. Gabriele si dirige verso l'amico di Willy e lo picchia. A quel punto è iniziata la rissa con pugni e calci, io cerco di scappare per paura. Dicono che Pincarelli abbia dato colpi a Willy mentre era a terra, ma io non li ho visti. So solo che Pincarelli era accanto a me, e dopo l'arrivo dei Bianchi è intervenuto nella rissa. Willy? Willy non c'entrava nulla”.

Valentina Dardari per il Giornale il 17 settembre 2020. I principali indagati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, sono concordi nel dire che si sono trovati là per caso e che non hanno colpito il 21enne. Nel carcere romano di Rebibbia sono finiti i fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, e il loro amico, Mario Pincarelli. Francesco Belleggia è stato l’unico ad aver avuto gli arresti domiciliari dopo che aveva svelato il patto del silenzio avvenuto sul Suv nero.

Non una rissa ma una discussione. Gli indagati non avrebbero neanche parlato di una vera e propria rissa, quanto piuttosto di una discussione. Come riportato da Repubblica, Gabriele, il maggiore dei due fratelli Bianchi, al primo interrogatorio di garanzia, avvenuto l’8 settembre, avrebbe risposto in modo confuso. Addirittura avrebbe negato inizialmente di avere precedenti penali, tranne poi dire subito dopo “forse sì”. Alla richiesta del giudice di ricostruire quella tragica notte, il 26enne ha affermato: “Io, mio fratello Marco e Vittorio Tondinelli andiamo al locale Duedipicche, poi ci allontaniamo con tre ragazze. A un certo punto Michele Cerquozzi mi telefona e mi chiede di tornare là. Vediamo una rissa e ci dirigiamo verso la folla. Mentre cercavamo di capire, vedo Willy spostarsi come se fosse stato spinto. Accanto a Willy c'era un ragazzo che gesticolava e io l'ho spinto per paura che colpisse mio fratello. Non ho visto chi ha spinto Willy”. Il giovane ha inoltre asserito di non aver avuto nessun contatto con la vittima e di averla solo vista cadere prima in ginocchio e poi per terra. Ma non saprebbe dire chi lo abbia colpito. Anche perché, come da lui stesso sottolineato, la loro auto si trovava a 15 metri di distanza. Il ragazzo è certo che attorno a Willy ci fosse anche Francesco Belleggia. Luigi Paoletti, il pubblico ministero di Velletri, sembra però non credere molto alle parole di Bianchi e chiede uno sforzo di memoria. “Ripeto, ho spinto l'amico di Willy, ma non lui. Tutto è durato pochi secondi. Non avevamo bevuto né assunto alcun tipo di droga. Alla fine siamo tornati al locale di mio fratello ad Artena...” ha ribadito l’indagato. Lo stesso giorno è stato interrogato anche il fratello Marco di 24 anni, esperto di Mma, uno sport da combattimento che unisce arti marziali e pugilato. Il giovane ha raccontato di aver interrotto un rapporto sessuale vicino al cimitero a causa di una improvvisa telefonata da parte di un amico. “Ci chiama Cerquozzi per aiutarlo a Colleferro. Ha chiamato Tondinelli e mio fratello dicendo che alcuni ragazzi discutevano”. I fratelli lasciano quindi le ragazze con cui stavano amoreggiando e tornano velocemente al risto-pub Duedipicche. “Dopo 15 minuti arriviamo là e vediamo una folla. Ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, è caduto ma poi si è alzato e sono andato via. L'ho spinto con le mani, non gli ho dato un calcio al torace. Non ho dato nessun colpo, Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi” questa la versione del 24enne. Quattro testimoni oculari però avrebbero fornito una versione diversa. Questi avrebbero infatti detto di aver visto i fratelli Bianchi colpire Willy. I gemelli, chiamati così perché molto simili nei modi di fare e anche nel fisico, continuano ad asserire di averlo solo spinto, ma che poi si è rialzato. Neanche il terzo ragazzo interrogato, Mario Pincarelli, ha aggiunto molto di più alla versione degli altri due: “Belleggia ha discusso con un ragazzo. Ero con lui e altre persone. I fratelli Bianchi intervengono per un passaggio. Scendono dalla macchina, dicono di andare via. Io non ho nemmeno parlato con Willy. I Bianchi non hanno toccato nessuno. Io stavo cercando di mettere pace tra Belleggia e l'altro ragazzo. Dopo ci siamo visti ad Artena al locale di Alessandro, il fratello di Gabriele e Marco”. Gli inquirenti non credono però alle parole degli indagati. Piuttosto, i tre sembrano ancora seguire il copione deciso quella tragica notte a bordo del Suv, poco dopo la morte del 21enne.

Da liberoquotidiano.it il 17 settembre 2020. Due le foto che hanno permesso ai carabinieri di fermare i fratelli Bianchi. La prima scattata da un amico di Willy che riprende la vettura nera che se ne va dal luogo della tragedia. La seconda è stata fatta alle 3.49, quando il 21enne si trova già sull'ambulanza che lo porterà in ospedale, e si vede il suv parcheggiato con le portiere aperte e due ragazze in minigonna che parlano con gli indagati. Fondamentale la testimonianza di Belleggia che, davanti al giudice, ha raccontato la sua versione: “Willy era a poca distanza da me e Federico Zurma, un ragazzo di Colleferro con cui avevo avuto un diverbio. Arrivano i Bianchi. Marco sferra a Willy un calcio sul petto, Willy cade indietro sulla macchina. Gabriele si dirige verso l'amico di Willy e lo picchia. A quel punto è iniziata la rissa con pugni e calci, io cerco di scappare per paura. Dicono che Pincarelli abbia dato colpi a Willy mentre era a terra, ma io non li ho visti. So solo che Pincarelli era accanto a me, e dopo l'arrivo dei Bianchi è intervenuto nella rissa. Willy? Willy non c'entrava nulla”. “Wily è caduto e si è rialzato, nessuno di noi lo ha colpito”. Si apre così il pezzo di Repubblica su quelle che definisce le bugie dei fratelli Bianchi, finiti in carcere assieme a Mario Pincarelli con l’accusa di omicidio volontario. I tre sostengono di essersi trovati lì quasi per caso e di aver visto poco o niente, ma soprattutto di non c’entrare nulla con la morte di Willy Monteiro. Gabriele e Marco Bianchi si limitano a parlare di spintoni: “L’ho spinto perché stava discutendo in gruppo - ha dichiarato il secondo - è caduto ma poi si è alzato e sono andato via. L’ho spinto con le mani, non gli ho dato un calcio al torace. Non ho dato nessun colpo, Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi”. Eppure ci sono almeno quattro testimoni oculari che indicano nei fratelli Bianchi gli assalitori di Willy: loro si difendono, negano tutto e non hanno idea di cosa possa aver ucciso il ragazzo. Gli inquirenti però non credono a quanto dicono, ma anzi ritengono che i tre arrestati stiano recitando un copione stabilito forse quella notte stessa a bordo dell’Audi sulla via del ritorno. Però, fa notare Repubblica, un amico di Willy è riuscito a fotografare il suv nero mentre si dileguava: grazie a quell’immagine i carabinieri di Colleferro li hanno arrestati. Ora si scopre che c’è un’altra foto nel fascicolo dell’inchiesta: è stata scattata alle 3.49 dopo il pestaggio e ritrae una sosta con due ragazze in minigonna prima della fuga. Tra l’altro a smentire la versione dei fratelli Bianchi è Belleggia, che davanti al giudice ha offerto la seguente versione: “Marco sferra a Willy un calcio sul petto, Willi cade indietro sulla macchina. Gabriele si dirige verso l’amico di Willy e lo picchia. A quel punto è iniziata la rissa con pugni e calci, io cerco di scappare per paura. Dicono che Pincarelli abbia dato colpi a Willy mentre era a terra, ma io non li ho visti. Willy? Lui non c’entrava nulla”.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte, con due donne dopo il pestaggio, ecco la foto che ha incastrato i fratelli Bianchi. Pubblicato mercoledì, 16 settembre 2020 da Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it Le immagini hanno permesso ai carabinieri di Colleferro di conoscere subito la targa del veicolo che si è dileguato dalla scena della rissa, risalire al proprietario e individuare i due indagati. Due foto hanno incastrato i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. Due foto che Repubblica pubblica in esclusiva, scattate con il telefonino dopo il pestaggio di Willy Monteiro Duarte, e che ritraggono l'Audi Q7 nera a bordo della quale, la sera del 5 settembre, sono arrivati e tornati da Artena. Sono le immagini che hanno permesso ai carabinieri di Colleferro di conoscere subito la targa del veicolo che si è dileguato dalla scena della rissa, risalire al proprietario (Isa Zitelli, la compagna di Alessandro Bianchi, fratello maggiore di Gabriele e Marco, indagati per omicidio volontario) e individuare i due indagati. Condividi   Da quanto si deduce dal verbale di arresto, sono entrambe scattate a Colleferro da Matteo La Rocca, uno degli amici di Willy, subito dopo il pestaggio. Nella prima il suv è fermo con la portiera di destra aperta e le luci accese. La targa è ben visibile. La seconda, di cui finora non era nota l'esistenza, è anch'essa contenuta nel fascicolo d'indagine aperto dalla procura di Velletri e che vede al momento quattro indagati (i due fratelli, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti e quattro di Artena). L'automobile è ferma a una cinquantina di metri di distanza dal luogo dove Willy Monteiro Duarte è stato picchiato, ha le portiere aperte e ci sono due ragazze in minigonna che chiacchierano con i passeggeri, presumibilmente proprio Marco e Gabriele Bianchi. La loro identità è ignota. Il maresciallo Antonio Carella riceve le immagini da La Rocca sulla chat di Whatsapp alle 3.49. In quel momento Willy si trova sull'ambulanza, arriverà all'ospedale di Colleferro già morto. E' grazie a quei due scatti che Carella, il primo a soccorrere il 21 enne di origini capoverdiane perché allertato dagli schiamazzi (la caserma dell'Arma è vicinissima al luogo dell'omicidio), risale alla proprietà del veicolo. La pattuglia dei carabinieri si precipita dunque ad Artena e alle 3.55 il militare, appostato davanti al pub di Alessandro Bianchi, vede arrivare a piedi i due fratelli. Dopo poco, li arresta entrambi.

Le immagini dei fratelli Bianchi prima del pestaggio di Willy. Le Iene News il 19 settembre 2020. In questo video esclusivo di Iene.it, si vedono i fratelli Bianchi in macchina poche ore prima del brutale pestaggio che ha portato alla morte Willy Duarte. Il video è stato registrato dalle storie Instagram di Gabriele Bianchi: nelle immagini sembra intravedersi Vittorio Tondinelli, che sarebbe indagato per favoreggiamento, e due donne in macchina. Un giro a salutare un amico, un viaggio in auto con due donne: in questo video esclusivo di Iene.it si vedono i fratelli Marco e Gabriele Bianchi poche ore prima del pestaggio che ha portato alla morte di Willy Duarte, il 21enne morto nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro. Il video è composto da due storie Instagram pubblicate sul profilo di Gabriele Bianchi e registrate da un utente che ce le ha poi girate. Le immagini sarebbero state pubblicate intorno alla mezzanotte del giorno della morte di Willy Duarte, quindi circa tre ore prima del pestaggio. Nella prima storia i fratelli Bianchi, a bordo di un’auto, passano davanti a quello che sembra essere un bar e parlano con una persona. Nella storia è taggato Vittorio Tondinelli: secondo varie fonti di stampa Tondinelli, che sarebbe estraneo al pestaggio che ha causato la morte di Willy Duarte, sarebbe però indagato per favoreggiamento. Uno dei fratelli Bianchi rallenta con la macchina, si rivolge a questa persona e gli dice: “Già sai, e se non sai…”. L’altro replica: “Saprai!”. A quel punto il fratello Bianchi risponde: “Piace fratello!”, la macchina riparte e la storia termina. Nella seconda storia, invece, si vede l’interno della macchina dove oltre ai fratelli Bianchi ci sono due donne, a cui abbiamo ovviamente oscurato i volti per ragioni di privacy. Le due, per quanto possibile sapere, sarebbero completamente estranee agli eventi che hanno portato alla morte di Willy, ma la loro presenza nel video potrebbe essere importante: i Bianchi infatti hanno detto ai magistrati di essere stati chiamati per sedare una rissa mentre si trovavano in un cimitero insieme a un amico a fare sesso con tre donne. Non sappiamo ovviamente se le due riprese nella storia siano le stesse donne, ma sicuramente è un elemento in più per inquadrare cosa è successo quella notte. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso la notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro. Per la sua morte sono stati arrestati i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: l’accusa a loro carico è di omicidio volontario, con l’aggravante dei futili motivi. Non è invece, almeno per adesso, contestata l’aggravante razziale. I fratelli Bianchi e Pincarelli si trovano in carcere a Rebibbia, mentre per Belleggia sono stati disposti gli arresti domiciliari.

Fulvio Fiano e Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 17 settembre 2020. La notte dell’omicidio di Willy Monteiro Duartei fratelli Bianchi, ora accusati di omicidio volontario, cercarono di nascondere il loro suv in un parcheggio privato, lontano da sguardi indiscreti. «La macchina era parcheggiata in largo Cristoforo Colombo 2 in un parcheggio privato di altrui proprietà con il chiaro intento di occultare il veicolo» è scritto nel verbale di arresto dei carabinieri. Non c’era infatti motivo, annotano i militari, per lasciare lì l’auto (intestata alla moglie dell’altro fratello dei Bianchi, Alessandro) dato che il parcheggio si trova a 300 metri di distanza dal pub dove si erano fermati a bere un caffè: a pochi passi ci sono due parcheggi pubblici aperti e a quell’ora vuoti, ma evidentemente non offrivano riparo dagli occhi di chi cercasse l’auto. «Sono salito in auto con loro solo per fuggire e mi “consigliarono” di non raccontare niente», ha detto nel suo interrogatorio Francesco Belleggia, il 23enne accusato di concorso nell’omicidio ma mandato ai domiciliari dal gip perché la sua versione è risultata credibile dal confronto con le altre testimonianze e perché la sua partecipazione alla rissa è più defilata. Il fascicolo d’inchiesta completo contiene anche altri elementi, tra cui l’intera deposizione di Federico Zurma, l’amico di Willy che aveva dato il via al battibecco con uno degli arrestati. Zurma dice ai carabinieri come alla fine della rissa, dopo che Willy è stato portato via dall’autoambulanza, lui stesso assieme agli amici decide di andare via il prima possibile per «non incorrere in ulteriori eventuali violenze» da parte dei Bianchi. Al pronto soccorso, come annota il medico di turno, il 21enne arriva già «in assenza di parametri vitali». Secondo i carabinieri di Colleferro che conducono le indagini, i cosiddetti «gemelli di Artena» avrebbero agito come una sorta di commando. Una squadra punitiva contro chiunque gli si opponesse, mossa dall’intento di mostrare la propria forza in una sorta di celebrazione dell’immagine da duri che anche sui social davano di se stessi. Si sta anche indagando sull’eventuale reddito di cittadinanza percepito dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi o dagli altri due accusati di omicidio volontario per la morte di Willy, Mario Pincarelli e Roberto Belleggia. I quattro non hanno un vero e proprio lavoro al momento anche se Gabriele ha aperto una frutteria con l’aiuto del padre della fidanzata il consigliere forzista di Velletri Ladaga. I carabinieri stanno incrociando i dati dei quattro con la banca del reddito di cittadinanza per appurarlo oltre ogni dubbio.

Angela Nicoletti per ''Il Tempo'' il 17 settembre 2020.  Le gite in barca a Palmarola e Positano. Lo shopping ad Amalfi e poi ancora il Rolex doro, scarpe, cinte e pantaloni griffati. Un tenore di vita di altissimo livello, come nemmeno un boss di grosso calibro sarebbe capace di fare. Lusso sfrenato ovunque e con chiunque per dimostrare la loro forza, il loro potere, la loro impunibilità. Bottiglie di champagne e vasche idromassaggio con panorami mozzafiato di sfondo. Alberghi a cinque stelle e selfie di gruppo davanti a ostriche e caviale. I quattro aggressori di Willy Monteiro, il 21enne assassinato di botte a Colleferro, nonostante il lusso sfrenato, le berline dal valore di decine di migliaia di euro, i viaggi all'estero, percepivano il reddito di cittadinanza. Marco e Gabriele Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, ogni mese incassavano il benefit che il Governo stanzia per i meno abbienti, per i disoccupati, per gli ultimi. Il pestaggio mortale di Willy ha fatto emergere l'ulteriore beffa che il gruppetto di Artena avrebbe compiuto a danno dell'intera società. Ai finanzieri della compagnia di Colleferro è bastato poco per scoprire il raggiro: avrebbero omesso di indicare, nelle autocertificazioni compilate, i dati necessari a far emergere il loro reale tenore di vita. In questo modo si sono create le condizioni per accedere al beneficio. La Guardia di Finanza quindi ha segnalato le irregolarità emerse dai controlli alla Procura della Repubblica di Velletri che ha quindi denunciato Marco e Gabriele Bianchi per il reato di truffa con l'aggravante del concorso tra di loro. Dovranno rispondere del reato di truffa ai danni dello Stato e quindi dell'Inps di Colleferro anche Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Non solo. Tutti e quattro dovranno restituire in tempi brevi oltre 30mila euro, a tanto ammonta l'importo che per quasi un anno hanno percepito indebitamente. Una vita ai margini della legalità quella che conducevano senza temere il prossimo con la sfrontatezza di chi crede di poter sempre farla franca. Eppure il loro modo di fare spavaldo e senza regole era da tempo sotto controllo. Le forze dell'ordine avevano raccolto una lunga serie di elementi che avrebbero dovuto sfociare entro breve in una richiesta di «sorveglianza speciale» che avrebbe ridotto drasticamente i loro movimenti, le loro scorribande prepotenti tra Artena, Colleferro, Cori, Giulianello e Roma. Dove seminavano terrore e paura. Dove intimorivano tutti: dai commercianti, ai titolari di bar, dai giova ni in piazza agli adulti che provavano a difendere il prossimo dai loro continui soprusi. E la sera della tragedia in largo Oberdan potrebbero aver messo in atto quello stesso atteggiamento che viene vergato in almeno quattro denunce per rissa che Marco e Gabriele Bianchi hanno collezionato negli ultimi tempi. Erano loro i leader del gruppo. Erano loro l'elemento trainante della combriccola che avrebbe spezzato la vita di un ragazzo pieno di valori: generoso, gentile, altruista. Marco e Gabriele, i «gemelli diversi» per la forte somiglianza nonostante i due anni di differenza, all'arrivo in carcere a Rebibbia hanno avuto come prima preoccupazione l'esser costretti a bere l'acqua del rubinetto. Loro che, senza farne mistero, bevono esclusivamente prodotti di qualità in bottiglie sigillate. Nel reparto speciale, dove in tre stanno trascorrendo il periodo di quarantena previsto dalla Legge, vengono sorvegliati a vista, 24 ore su 24. Perché si teme per la loro incolumità. Le «regole non scritte» all'interno di un penitenziario non lasciano spazio, per chi si macchia di reati così gravi, a comprensione e tolleranza da parte degli altri detenuti nonostante tutti neghino di aver colpito Willy Monteiro e di averne provocato la morte. Per questo Marco e Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli, hanno chiesto, tramite i loro avvocati Massimiliano e Mario Pica, di poter restare in isolamento. Il tribunale per il Riesame ha dato parere negativo alla scarcerazione ed alla concessione dei domiciliari. Intanto le indagini da parte dei Carabinieri della Compagnia di Colleferro, che sono riusciti ad individuare ed arrestare i quattro aggressori a tempo di record, stanno cercando di ricostruire dettagliatamente quanto accaduto davanti al pub «Due di picche» la notte del massacro di Willy. Gli attimi precedenti al pestaggio mortale e quelli successivi quando cioè decine di testimoni raccontano della fuga dei fratelli Bianchi, di Pincarelli e Belleggia dopo l'ultimo colpo, quello fatale, inferto al collo dell'aiuto chef italo-capoverdiano. Su questo si stanno concentrando gli interrogatori che i carabinieri della sezione operativa stanno svolgendo unitamente al magistrato Luigi Paoletti della procura di Velletri. Quattro le persone ascoltate per ore come «informate sui fatti». Si tratta di giovani residenti tra Artena e Colleferro e componenti della comitiva frequentata dagli arrestati.

Omicidio Willy Monteiro Duarte, reddito di cittadinanza per i fratelli Bianchi e gli altri della banda. Pubblicato giovedì, 17 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it. Nelle foto sui social ostentano ricchezza e lusso, Suv da 70mila euro e vacanze in barca a Palmarola, ma per lo Stato sono nullatenenti. Le indagini dei carabinieri sul tenore di vita degli arrestati. Dallo Stato hanno ottenuto oltre 33mila euro. La famiglia dei fratelli Bianchi, così come quelle di Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, percepiva il reddito di cittadinanza. E' questa una delle conclusioni a cui sono giunti, dopo i primi dieci giorni di indagine, gli investigatori che stanno facendo luce sul pestaggio di Colleferro, quello in cui il 6 settembre scorso ha perso la vita Willy Monteiro Duarte. La notizia fa scalpore soprattutto considerando il tenore di vita ostentato da quella che ormai è passata alle cronache come la banda di Artena: Suv, moto potenti, orologi costosi e vacanze da sogno tra Positano, l'Umbria e in barca a Palmarola, nell'arcipelago delle isole pontine. I Bianchi, che vivono tuttora in una villa di tutto rispetto, risultano però  avere ufficialmente pochi mezzi economici a disposizione. Tanto che il papà ha potuto chiedere e ottenere il sostegno statale, così come - stando a quanto gli la Guardia di finanza di Colleferro sta cercando di verificare in queste ore - i due fratelli. Stessa situazione per quanto riguarda le famiglie degli altri due arrestati, Pincarelli e Belleggia. Una contraddizione che ha insospettito non poco gli investigatori che, a questo punto, stanno cercando di capire come potessero quei giovani permettersi una vita tanto dispendiosa. Massimiliano Pica, l'avvocato difensore dei due fratelli ha tenuto a precisare che né Marco né Gabriele abbiano mai avuto accesso al reddito di cittadinanza. Lo hanno detto al gip in sede di interrogatorio, spiega l'avvocato, nella quale hanno detto di "non sapere neanche di cosa si tratta". Uno dei fratelli dei due arrestati, Alessandro, gestisce ad Artena un bistrot e ha più volte precisato che il suv utilizzato per allontanarsi da Colleferro dopo aver massacrato lo studente di Paliano era il suo ma valeva poche migliaia di euro, e Gabriele aveva aperto una frutteria a Cori, a dire del futuro suocero con l'aiuto di quest'ultimo. Resta dunque una domanda: come potevano vivere in quel modo? In attesa di avere gli esiti degli accertamenti patrimoniali disposti, gli investigatori non si sbilanciano, anche se il sospetto è che potessero contare su altre forme di reddito. E le Fiamme gialle di Colleferro, controllando appunto la situazione dei Bianchi, Pincarelli e Belleggia per quanto riguarda il Reddito di cittadinanza, hanno intanto denunciato alla Procura di Velletri quattro persone, due delle quali in concorso, e segnalato all'Inps le stesse per il recupero delle somme percepite indebitamente. In totale, secondo le Fiamme gialle, su 33.075 euro ottenuti dai denunciati ne devono essere recuperati 28.747.

Willy Monteiro, l'avvocato dei fratelli Bianchi sul reddito di cittadinanza: "Non sanno neanche cos'è". Libero Quotidiano il 17 settembre 2020. “Hanno affermato di non sapere neanche di cosa si tratta”. Così Massimiliano Pica, avvocato difensore di Marco e Gabriele Bianchi, si è espresso riguardo all’accusa rivolta ai due fratelli di essere pur percettori del reddito di cittadinanza. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che hanno sempre ostentato un tenore di vita ben al di sopra delle entrate dichiarate: tra suv, barche, vestisti griffati, hotel e vacanze di lusso, è chiaro che siano emersi dei sospetti da parte degli inquirenti. Oltre ai fratelli Bianchi, anche gli altri due arrestati (Mario Pincarelli e Francesco Belleggia) percepivano il sussidio grillino: dall’indagine patrimoniale è emerso che a fare domanda siano stati i rispettivi capifamiglia e che i tre nuclei familiari avrebbero percepito circa 30mila euro. Soldi che potrebbero essere chiamati a restituire allo Stato in caso di dichiarazioni mendaci. “Non abbiamo mai ricevuto o chiesto il reddito di cittadinanza”, è stata la difesa di Gabriele e Marco Bianchi davanti agli inquirenti. “In sede di interrogatorio - ha aggiunto l’avvocato Pica - i miei assistiti hanno affermato di non averlo mai percepito e di non sapere neanche di cosa si tratta”. 

Omicidio di Willy, la Finanza chiede il sequestro dei beni dei fratelli Bianchi. Le Iene News il 18 settembre 2020. La stessa misura è stata chiesta anche per Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: i padri dei quattro arrestati per la morte di Willy Duarte avrebbe percepito oltre 33mila euro di reddito di cittadinanza, omettendo però di dichiarare i loro redditi per avere una cifra più alta. La Guardia di finanza ha chiesto al pm di sequestrare i conti correnti per 27mila euro. Sequestrare i conti correnti dei fratelli Bianchi, e anche quelli di Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: lo ha chiesto la Guardia di finanza al pm titolare dell’indagine sulla morte di Willy Duarte, il 21enne capoverdiano, e per il cui omicidio sono stati arrestati i quattro. Le Fiamme gialle hanno chiesto alla procura di bloccare i conti correnti e altri beni per un valore di 27mila euro, per verificare la provenienza di quei soldi. La richiesta è stata fatta dopo la scoperta che il padre dei fratelli Bianchi aveva chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza per il nucleo familiare. E lo stesso sarebbe accaduto anche per Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Secondo la ricostruzione della Finanza, per ottenere la cifra più alta avrebbero omesso di dichiarare le loro entrate. La cifra percepita sarebbe intorno ai 33mila euro. Sulla vicenda del reddito di cittadinanza i fratelli Bianchi hanno detto al gip: "Non abbiamo mai ricevuto o chiesto il reddito di cittadinanza", in base a quanto riferisce il loro difensore Massimiliano Pica. "In sede di interrogatorio i miei assistiti hanno affermato di non avere mai ricevuto il reddito di cittadinanza. Di non sapere neanche di cosa si tratta”, ha aggiunto Pica. E sul caso è intervenuto anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, primo sostenitore della misura di supporto alle famiglie in difficoltà: “Quello che è successo in queste ore, che queste famiglie, non i 4 presunti assassini, prendono il reddito di cittadinanza, è una cosa inaccettabile. La prima cosa è che i controlli si devono intensificare”. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso due settimane fa a Colleferro. Per la sua morte sono stati arrestati i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: l’accusa a loro carico è di omicidio volontario, con l’aggravante dei futili motivi. I fratelli Bianchi e Pincarelli si trovano in carcere a Rebibbia, mentre per Belleggia sono stati disposti gli arresti domiciliari.

Percepiti circa 30mila euro. Suv, barche, vacanze di lusso e reddito di cittadinanza: gli aggressori di Willy percepivano il sussidio dei 5 Stelle. Redazione su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Suv, barche, attività commerciali, vestiti griffati e vacanze di lusso. Alla bella vita dei fratelli Bianchi, arrestati insieme ad altri due coetanei per l’omicidio del 21enne Willy Monteiro Duarte, morte lo scorso 6 settembre in seguito a un violento pestaggio, contribuiva anche il reddito di cittadinanza. I due fratelli, Marco e Gabriele, insieme al papà Ruggero, percepiscono infatti il sussidio tanto voluto dal Movimento 5 Stelle così come le famiglie degli altri due giovani coinvolti Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. La notizia è riportata oggi da alcuni organi di stampa ed è emersa in seguito alle indagini patrimoniali sulla famiglia Bianchi di cui alcuni componenti risulterebbero nullatenenti e per questo percettori del reddito di cittadinanza. Marco e Gabriele Bianchi, quest’ultimo da poco tempo proprietario di una frutteria, ostentavano da tempo anche sui social un tenore di vita superiore alle entrate dichiarate. Circa 30mila euro (ovvero 28.747 euro) i soldi percepiti dai tre nuclei familiari che ora, dopo la segnalazione all’INPS e la denuncia alla Procura di Velletri da parte degli investigatori, saranno recuperati dallo Stato. Soldi ottenuti “indebitamente in quanto i richiedenti hanno omesso di indicare i dati dovuti creandosi in tal modo le condizioni per accedere al beneficio”.

LA DIFESA – “Non abbiamo mai ricevuto o chiesto il reddito di cittadinanza”. E’ quanto hanno affermato Marco e Gabriele Bianchi agli inquirenti, in base a quanto riferisce il loro difensore Massimiliano Pica. “In sede di interrogatorio i miei assistiti – spiega Pica – hanno affermato di non avere mai ricevuto il reddito di cittadinanza. Di non sapere neanche di cosa si tratta”. “Dovevano abolire la povertà con il Reddito di cittadinanza, l’unica cosa che hanno abolito è la dignità. Il sussidio erogato dall’INPS, ancora una volta senza il minimo controllo o verifica, è andato questa volta ai fratelli Bianchi e ai loro compagni arrestati per l’assassinio del povero Willy che da mesi tra champagne e vita di lusso percepivano soldi pubblici per essere semplicemente dei criminali. Ma questo è il Paese pensato e voluto dai 5stelle: Reddito di cittadinanza ai mafiosi, purche’ senza lavoro dichiarato, e nessun aiuto per commercianti, artigiani, partite Iva, imprese, lavoratori in ginocchio. Non ci sono più parole per descrivere il Movimento 5 stelle e la loro ideologia distruttiva, vanno mandati a casa immediatamente perché non sono in grado di pensare uno Stato nelle sue articolazioni fondamentali, dall’economia al welfare passando per la Costituzione e la giustizia. E’ tutto solo propaganda. Vanno fermati”. Lo afferma, in una nota, Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia e portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato.

Francesco Borgonovo per La Verità il 17 settembre 2020. Aurelio Picca ha da poco pubblicato un romanzo splendido, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), che la ferocia e la violenza non ha paura di affrontarle con il petto scoperto. Anche per questo, forse, Picca era l' intellettuale più adatto per commentare la brutalità di Colleferro che è costata la vita al povero Willy. Lo ha fatto in un articolo per Repubblica che ha toccato temi centrali, per lo più trascurati nello scomposto «dibattito» di questi giorni. Picca, ad esempio, parla tanto di «combattimento», dopo che per giorni se ne è discusso a sproposito, portando sul banco degli imputati addirittura le arti marziali praticate dai fratelli Bianchi. Alla violenza spietata di Colleferro, lo scrittore oppone l' idea di uno scontro con la realtà che significa, certo, lotta, ma anche e soprattutto assunzione di responsabilità. Alla cultura da piccoli gangster del «tutto e subito» - descritta anni fa in un celebre libro dal francese Morgan Sportés, che appunto si occupava di violenza giovanile - Picca contrappone una forma di combattimento che consiste, più che altro, nel diventare adulti. C' è un passaggio commovente nel suo articolo, quello in cui scrive: «Abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia».

È da questa libertà in eccesso che origina la violenza di Colleferro?

«Io vengo da una famiglia repubblicana mazziniana. E per i miei genitori mazziniani, la questione della libertà era indissolubilmente legata al dovere. Non esisteva la libertà nel senso in cui l' intendiamo adesso, come progresso libero, sciolto da ogni limite... La libertà che intendo io è prima di tutto responsabilità individuale. Rispetto a sé stessi, al proprio lavoro, alla società. Ma questa responsabilità, questo senso del dovere, sono ormai perduti da tanto tempo».

Essere liberi, dunque, significava anche combattere.

«Nel mondo in cui sono cresciuto vigeva una legge quasi biblica direi, sicuramente patriarcale, una sorta di ferocia naturale. Io sono stato educato alle cose difficili. Perché uno che, fin da bambino, non sapeva fare le cose difficili, come poteva allenarsi ad affrontare la realtà e a essere libero nel mondo? La difficoltà e la lotta ti rendevano libero, non la semplicità e la facilità. È questo che oggi tutti hanno smarrito».

La lotta che sta descrivendo è una sorta di «buona battaglia», non una espressione di violenza cieca e senza limiti.

«Ho fatto tante cose nella vita, anche l' insegnante. Proprio io, che non amavo tanto la scuola, a un certo punto ho fatto il concorso e chissà come l' ho passato. I primi dieci anni a contatto con i ragazzi sono stati come la seconda giovinezza, anzi forse proprio la prima.

Allora ho scritto L' esame di maturità, che di fatto era un corpo a corpo con i ragazzi. Quando venivano in cattedra e mi mostravano le foto porno, io chiedevo: ma queste donne le puoi toccare, le puoi avvicinare, che te ne fai della carta? Allo stesso tempo, però, pretendevo che mandassero a memoria l' Inferno di Dante. Pretendevo da loro, appunto, il corpo a corpo con la realtà».

Di nuovo, quello che lei descrive è uno scontro fisico buono, che migliora.

«Nel mio articolo ho parlato di ferocia della realtà. Una ferocia che presupponeva il corpo a corpo, quello che i bambini avevano con gli arnesi con cui giocavano. Un tempo non c' era bisogno di essere sciuscià o poveri sfruttati per andare a bottega e imparare un mestiere. È questo il corpo a corpo che intendo io, e che ti insegna a fronteggiare la realtà. Oggi se dici a un ragazzo di andare a fare il calzolaio, ti sputa in faccia. Io invece introdurrei l' artigianato come materia di studio nelle scuole. Mi piacciono il mondo artigiano, la piccola impresa, le famiglie che lavorano. Questa è l' Italia, non il grande capitale che ci ha reso schiavi».

Da questa «ferocia della realtà siamo passati però a un altro tipo di ferocia. Quella appunto che è esplosa a Colleferro.

«Quella la chiamo ferocia della perversione. Perché è una perversione».

In che senso?

«La ferocia in sé non è soltanto cattiveria. È anche indice di vitalità, di forza animale e fisica. Non è farsi gonfiare i muscoli in palestra. Ma correre, lavorare, usare il corpo. Nella ferocia c' è il nostro istinto primordiale, che non cambia».

Non cambia, ma va controllato. Deve avere dei limiti. E la figura a cui spetta mettere limiti è quella del padre, che però sembra scomparso.

«Il padre simbolicamente è la legge, la madre è il latte, il sentimento e il ventre. E in effetti il padre non c' è più, è stato distrutto. Oggi ci sono più donne che uomini, ci sono più madri che padri. Il padre in quanto legge non esiste più, e se non ci sono legge e dovere, il territorio del nichilismo diventa una prateria sconfinata».

Eppure anche adesso sono in tanti a puntare il dito contro la «violenza maschile», la «società patriarcale»...

«Non sono d' accordo con questo genere di cose. Io non ho procreato, ma con i miei studenti sono stato padre. Mi hanno amato come un padre e io li ho amati da padre. Non c' entra niente l' autoritarismo. Con i ragazzi, ad esempio, non ti puoi porre come il maestro che sa e che si impone sull' inferiore. La potenza sta nell' autorevolezza, nell' accettare il corpo a corpo di cui parlavo prima. Devi essere il padre che dice al ragazzo: vediamo se sai fare questo, che non impone ma sfida ad assumersi una responsabilità. Il problema è che oggi anche i padri non hanno responsabilità».

Figuriamoci i figli...

«I padri di questi padri, quelli che oggi sono nonni, hanno a loro volta combattuto con i loro genitori. Li hanno combattuti per ragioni ideologiche, c' erano gli scheletri del dopoguerra nell' armadio e tutto il resto. Ma i padri di adesso non devono combattere più nessuno, non hanno più il problema del dovere, della legge, della responsabilità. Che per me vengono prima di tutto. Oggi non si parla mai di doveri, soltanto di diritti. Il grande problema è che noi siamo organi di padre, della legge e dei doveri».

Lei parla di doveri, di autorità, di ordine. Tutto questo oggi viene combattuto. Finisce nel grande calderone del «fascismo» e demonizzato. Anche su Colleferro è stata chiamata in causa la «cultura fascista».

«Questa cosa di tirare sempre in ballo il fascismo è una perversione culturale, vuol dire che non si conosce, non si sa... Io parlo di simboli, che sono eterni, qui il fascismo non c' entra niente. Il mio mito è San Michele Arcangelo, un combattente, l' unico che poteva avere il privilegio di guardare negli occhi Dio».

Ritorniamo sempre lì: alle battaglie che bisogna combattere, alla lotta buona...

«Sì. Io vorrei che i ragazzi riprendessero il corpo a corpo con la realtà. Ho scritto che dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, dove siamo campioni. Vorrei che i ragazzi riprendessero a giocare con i chiodi e con il martello, perché anche se si fanno male sono contenti lo stesso. Vorrei che li rimettessimo in pista, nel mondo. Che imparassero a combattere per assumersi le loro responsabilità».

I FRATELLI BIANCHI. Alessia Marani per “il Messaggero” l'11 settembre 2020. «Gabriele Bianchi ha sferrato a Willy un calcione all'addome che l'ha fatto cadere a terra e non lo ha fatto più respirare, poi tutti, lui, il fratello più piccolo Marco, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l'hanno colpito ancora. Senza pietà. Willy è morto tra le mie braccia, non ha avuto nemmeno il tempo di rendersene conto. Sono tutti colpevoli». Mentre i ragazzi scappavano di fronte alla violenza cieca del commando, lei, F., che compirà 24 anni la prossima settimana e una sua amica, di 19 appena, hanno provato a fermarli e sono rimaste a soccorrere Willy Monteiro Duarte. La ragazza esce di casa, a Colleferro, seguita a vista dalla mamma che ha in braccio il più piccolo dei suoi figli, F. è la seconda: «Li ho educati alla rettitudine, F. non si è tirata indietro e testimonierà al processo. Io sono polacca, mio marito è tunisino e siamo venuti qui in Italia per lavorare e crescere i nostri ragazzi proprio come i genitori di Willy a cui ora, va resa almeno giustizia». F. saluta la mamma e sale in auto.

Dove sta andando?

«Dai carabinieri. Mi sta aspettando anche la mia amica che è ancora spaventata. Ci hanno chiamato perché vogliono ascoltarci di nuovo».

Lei ha già messo a verbale che ha visto Gabriele Bianchi dare un calcio molto violento a Willy, lo confermerà?

«Sì assolutamente».

Conosceva i fratelli Bianchi?

«Qui li conoscono tutti. E conosco anche Pincarelli e Belleggia. Tutto il gruppo sta spesso tra i localetti di largo Santa Caterina, danno fastidio, stanno sempre su di giri, non si tengono».

Testimoni affermano che Pincarelli, il primo che avrebbe innescato la scintilla importunando una ragazza di Colleferro, fosse anche ubriaco...

«E non era la prima volta e mica solo lui. La settimana scorsa ha molestato anche me. Ero al compleanno di mio fratello che festeggiava in uno dei pub. Mi si è messo addosso, non mi lasciava in pace, pretendeva che andassi in auto con lui ad Artena. Sono dovuta correre via per liberarmene, farmi accompagnare a casa perché non si fermava. Ha rovinato la festa di mio fratello».

Conosceva anche Willy?

«Da tanti anni, era compagno di scuola alle medie di mia sorella. Stavamo spesso tutti insieme, era un pezzo di pane. La sua famiglia è adorabile, sua sorella Milena viene a trovarmi per farmi le treccine afro, è bravissima».

Lei era con Willy e i suo amici quando è stato picchiato e ucciso?

«No, io ero con la mia amica e ci stavamo dirigendo verso i giardinetti per tornare a casa. Prima ho visto Pincarelli che litigava con Federico. Quindi mi sono avvicinata a Federico per capire meglio, con Pincarelli c'era Belleggia, quello col braccio ingessato, stanno sempre insieme».

E non ha visto una terza persona telefonare ai Bianchi per chiedere il loro intervento?

«No, però ho visto che Belleggia si era allontanato un momento e stava telefonando, per me potrebbe essere stato anche lui a chiamarli, ma questo lo debbono verificare i carabinieri». E poi che cosa è successo? «Poco dopo che ho osservato Belleggia telefonare, ho visto piombare in strada a folle velocità quell'auto scura con tre ragazzi a bordo: uno è rimasto dentro, ma sono scesi i fratelli Bianchi che hanno cominciato a sbracciare. Gabriele si è accanito subito su Willy».

Quanti colpi ha ricevuto Willy?

«Tanti, calci e pugni. Quando è caduto a terra lo hanno colpito tutti».

Anche il ragazzo col braccio ingessato?

«Sì anche Belleggia». E secondo lei c'è stato un colpo letale? «Sì, il primo calcio all'addome, dato a freddo da Gabriele. Willy è rimasto senza fiato, l'ho sentito tirare due respiri e poi emettere come un rantolo. È finito a terra e quelli gli sono andati sopra. È durato tutto pochissimo».

Ha provato a soccorrerlo?

«L'ho visto morire praticamente tra le mie braccia, ho fatto largo a una donna che ha provato a fargli il massaggio cardiaco ma ormai era inutile». Ha un ricordo particolare di Willy? «Tanti, troppi, tutti belli che riempiono il cuore».

Pare che in molti già prima dell'omicidio non abbiano avuto il coraggio di denunciare i fratelli Bianchi e gli altri. E ancora oggi alcuni tentennano a testimoniare sul delitto. Lei non ha paura? «Vede, io studio Giurisprudenza all'Università a Roma e anche se, per mantenermi, vivo all'estero e lavoro come cameriera in un ristorante di Briatore, un giorno farò l'avvocato: la giustizia viene prima di tutto».

Omicidio di Willy Monteiro Duarte, l'ultimo mistero e il ruolo del gruppo di Colleferro. Pubblicato giovedì, 10 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it Incrociando quanto emerso sinora dagli atti d'indagine con le risposte date a Repubblica da alcuni ragazzi presenti quella sera troppe cose sfuggono. E nelle dichiarazioni fatte dal gruppetto dell'amico soccorso da Willy non c'è traccia del suo tentativo di difendere l'ex compagno di scuola. Quante ombre ancora sul massacro di Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni nella notte tra il 5 e il 6 settembre in una piazza di Colleferro. Tante da non essere eliminate neppure dalle intense indagini svolte sinora dagli inquirenti e che hanno portato il gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarato, a convalidare gli arresti dei quattro giovani di Artena accusati di omicidio preterintenzionale. Visto un amico in difficoltà il 21enne non si è girato dall'altra parte. Ha cercato di difenderlo, di mettere pace e quel suo altruismo domenica scorsa a Colleferro gli è costato la vita. Il branco che aveva accerchiato il suo compagno di scuola lo ha massacrato. Lo hanno detto subito e chiaramente ai carabinieri gli amici di Paliano che erano con lui. Di quel gesto di generosità non c'è però traccia nelle dichiarazioni fatte proprio dal gruppetto di Colleferro a cui l'apprendista cuoco con il sogno del calcio era andato in soccorso. Il gruppo che sarebbe fuggito spaventato mentre il coetaneo rantolava a terra. Dubbi spuntano inoltre fuori pure sui protagonisti del pestaggio, che a quanto pare non sarebbero stati solo quattro. Incrociando quanto emerso sinora dagli atti d'indagine con le risposte date a Repubblica da alcuni ragazzi presenti quella sera nel locale "Duedipicche" e in largo Santa Caterina troppe cose sfuggono e sul perché manca ancora una risposta. L'ennesimo mistero su una notte di ferocia e follia in cui è stata spezzata la vita di un ragazzo dal cuore buono. Mentre stava andando a prendere l'auto per tornare a casa insieme ai suoi amici, attorno alle 3, vedendo l'ex compagno di scuola Federico Riccardo Zurma in difficoltà Willy Monteiro Duarte è andato subito a chiedergli se avesse bisogno di aiuto e a cercare di evitare che la situazione degenerasse. Un gesto nobile. Notato chiaramente dai ragazzi di Paliano. Proprio quello a cui seguirà il pestaggio che lo ucciderà di lì a poco. Di quel gesto, nelle dichiarazioni di Zurma riportate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Boccarato, non c'è un cenno. Il giovane di Colleferro riferisce ai carabinieri di aver saputo che il gruppo di Artena aveva apostrofato le ragazze che erano con loro, di aver chiesto a quei giovani spiegazioni insieme al suo amico Alessandro Rosati, di essere stato poi dagli stessi picchiato fuori dal locale, ma nulla su Willy intervenuto in sua difesa. "Finita la lite tra me e il ragazzo (uno dei giovani di Artena) - dichiara - notavo che a distanza di pochi metri da noi si era creato un altro parapiglia tra altri ragazzi che stavano litigando". Ancora: "Qualcuno mi urlava che il mio amico Willy, coinvolto nel parapiglia, si trovava steso a terra ed io, facendomi spazio tra la gente, in effetti notavo Willy a terra sul marciapiede, preso da spasmi tipo delle convulsioni". Zurma conclude quindi che con l'amico Rosati si allontana temendo altre violenze da parte del gruppo di Artena. Dell'intervento da paciere del 21enne non c'è nulla neppure nelle dichiarazioni di Rosati, che riferisce però dell'aggressione subita dalla vittima. Rosati inoltre specifica che insieme a Zurma è andato in precedenza a chiedere al gruppo di Artena il perché degli apprezzamenti alle ragazze che erano con loro, tra cui la sua fidanzata, dopo aver saputo di quegli apprezzamenti da un altro amico della sua comitiva, Massimiliano Pierantoni. "Pierantoni Massimiliano richiamava la mia attenzione - specifica - informandomi che qualcuno aveva fatto degli apprezzamenti poco piacevoli verso le ragazze che erano con noi. In particolare il Pierantoni mi diceva che gli apprezzamenti erano stati fatti da un gruppo di ragazzi". Ma a Repubblica Pierantoni nega tale particolare. "Guardi - assicura il giovane - io non so niente, ero lì ma ero molto defilato". E sugli apprezzamenti alle ragazze riferiti all'amico, da cui sarebbero iniziate le prime schermaglie con quella nota ormai come la banda di Artena? "No, tutto falso. Non sono stato io. Ero lì, ma come se non ci fossi stato, ero molto defilato". La fidanzata di Rosati, Azzurra Biasotti, preferisce invece non commentare. "Guardi non è il caso, la ringrazio e buon lavoro", si limita a dire. A parlare di Willy accanto a Zurma, oltre agli amici della vittima, è invece nel corso dell'interrogatorio l'indagato Francesco Belleggia, sostenendo che il giovane è stato colpito dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi appena giunti nel parchetto vicino alla caserma dei carabinieri. E lo stesso, l'unico a ottenere i domiciliari, aggiunge anche che dopo il pestaggio è tornato ad Artena insieme ai Bianchi, al coindagato Mario Pincarelli, anche loro tutti arrestati, a Vittorio Edoardo Tondinelli, 20enne di Velletri indagato a piede libero per favoreggiamento, in quanto non sarebbe sceso neppure dall'auto al momento dell'aggressione, a Omar Sahbani, un giovane di Lariano, e a Michele Cerquozzi, che i fratelli Bianchi sostengono sia l'amico che li ha chiamati spiegando che fuori dal "Duedipicche" erano in difficoltà. Ma cosa stessero facendo Cerquozzi e Omar mentre Willy veniva riempito di calci e pugni non è ancora chiaro. Omar scrive sul suo profilo Facebook, criticando chi continua a insultare i Bianchi sui social, che occorre ricordare che sono stati arrestati anche Belleggia e Pincarelli: "Si ha tanto dolore per l'accaduto, per carità, ma tutti quelli che stanno parlando la sanno la verità? E se non fossero stati Marco e Gabriele a uccidere quel povero ragazzo? Vi invito ad iniziare a informarvi bene prima prima di dare dell'assassino". Ancora Omar: "Come è giusto che Willy riposi in pace, come è giusto che giustizia sia fatta, è anche giusto che il vero colpevole deve parlare. Fosse l'ultima cosa che faccio ma mi batterò fino alla fine pur di far uscire la verità". Qual è la verità? Nell'interrogatorio del resto sempre Belleggia ha sostenuto che mentre tornava con gli altri amici ad Artena gli stessi dicevano che a colpire Willy mentre era a terra era stato Pincarelli, precisando però: "Io non ho visto i colpi di Mario". Samuele Cenciarelli e Matteo Larocca, gli amici del 21enne, riferiscono poi di un'aggressione compiuta da cinque persone e il presunto quinto picchiatore non è stato individuato. Larocca infine sostiene che era presente al momento dell'aggressione Matteo Bucci, anche lui di Artena, un parrucchiere. "Non ero presente lì e non ho altro da dire", stoppa però subito le domande di Repubblica il parrucchiere. Sempre Larocca lo ha invece indicato nel ruolo di paciere. "Posso affermare con certezza che ha cercato di calmare uno dei fratelli Bianchi per riportarli alla calma. Ricordo addirittura che lo ha afferrato da dietro nel tentativo di bloccarlo", ha dichiarato ai carabinieri. Bucci nega. E sul suo profilo Facebook scrive: "Mi sono arrivate tremila chiamate e messaggi da persone che non sentivo e addirittura che non mi salutavano. Volevo soltanto informare a tutte le malelingue e i curiosi che ci sono nel mondo che io non ero assolutamente presente sul posto del vergognoso fatto accaduto la scorsa notte che ha scioccato tutti noi. Le persone che sono state giustamente coinvolte sono persone che conosco e che conosciamo quasi tutti noi. Ci siamo incontrati per caso e ci siamo fatti semplicemente una bevuta insieme un'ora prima. Riposa in pace Willy un abbraccio grande". Numerose le tessere mancanti per completare il puzzle della drammatica notte. Sono le tessere che stanno cercando i carabinieri e il sostituto procuratore Luigi Paoletti.

"Abbella", poi le botte a Willy: "Saltavano sul suo corpo inerme". Le ultime ore di Willy, intervenuto per impedire uno scontro. Tutto è partito da un apprezzamento rivolto ad una ragazza fidanzata, le menti annebbiate dall'alcool hanno fatto il resto. Federico Garau, Mercoledì 09/09/2020 su Il Giornale. Sarebbe partito tutto dalle avances fatte ad una ragazza, da quel momento in poi la situazione è sempre più degenerata, fino ad arrivare alla morte del giovane Willy Duarte Moteiro, massacrato di botte e lasciato privo di sensi a terra. Il quotidiano "Repubblica" tenta di ricostruire passo passo - e attraverso l'ordinanza del gip - la successione di eventi che ha portato al terribile omicidio di Colleferro, per il quale si trovano ora in stato di fermo Mario Pincarelli, Francesco Belleggia e i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele.

Cosa sappiamo del massacro di Willy. Il 5 settembre il gruppo in cui si trovava Willy e quello di cui facevano parte i suoi aguzzini si incontrano nel medesimo locale, il “Duedipicche”, un risto-pub molto frequentato dalla gioventù del posto. Francesco Belleggia, di Artena, raggiunge il pub insieme ad un amico, per poi unirsi a Mario Pincarelli, suo concittadino, il quale si trovava già in compagnia di un'altra persona. I ragazzi decidono di bere qualcosa insieme, ed individuano all'interno della sala anche i fratelli Bianchi, i quali non si uniscono alla tavolata. Marco e Gabriele, infatti, lasciano il locale pochi minuti dopo, salendo sulla loro auto Audi Q7 nera insieme a tre ragazze e un amico. La serata procede senza alcun problema fino a quando, intorno alle 2:30 del mattino, i due gruppi purtroppo si incrociano. Belleggia e Pincarelli, rimasti da soli, stanno scambiando ancora qualche parola all'esterno del "Duedipicche", dinanzi ad una piazzola. Belleggia, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, stava cercando un passaggio per far ritorno in sicurezza a casa, visto che aveva bevuto. Stando all'ordinanza, il suo amico, Pincarelli, si trovava in condizioni peggiori delle sue e aveva la mente completamente offuscata dai fumi dell'alcool: quando vede passargli davanti una ragazza (Azzurra, la fidanzata di Alessandro Rosati), non riesce a trattenersi e fa di tutto per richiamare la sua attenzione. "Abbella", le grida dietro, facendo il gesto di mandarle un bacio.

Le avances, poi la rissa. Rosati, che sente tutto, reagisce immediatamente, ma viene placato da Belleggia, il quale interviene in difesa dell'amico. "Lascialo perdere, è ubriaco, non sa cosa sta dicendo. Mi scuso a nome suo", avrebbe dichiarato il ragazzo, come riportato da "Repubblica". Ormai, però, è tardi, perché anche fra gli amici di Willy in quel momento c'è qualcuno particolarmente su di giri. Federico Zurma si avvicina con fare minaccioso a Belleggia e, stando alla ricostruzione di quest'ultimo, lo fissa in malomodo e pare pronto ad attaccare. Belleggia allora lo precede, colpendolo e spintonandolo fino a farlo rovinare a terra. La situazione degenera, mentre i due litiganti si spostano in prossimità di un'edicola. Willy li vede e non esita a mettersi in mezzo nel disperato tentativo di placare gli animi. I ragazzi parlano, Belleggia e Zurma sembrano vicini ad un chiarimento, ma ad un tratto, intorno alle 3 del mattino, arriva l'Audi dei fratelli Bianchi, pare richiamati indietro da un certo Michele Cerquozzi. Quest'ultimo, preoccupato per tutta la tensione che si era generata, avrebbe infatti deciso di richiedere l'intervento dei due. I Bianchi scendono dall'auto e si lanciano sul gruppo di giovani, fra i quali si trova anche Willy. Secondo quanto raccontato da alcuni testimoni, Belleggia avrebbe partecipato al pestaggio, anche se il ragazzo continua a professare la propria innocenza, giurando di non aver mai colpito il 21enne originario di Capo Verde. Il gruppo di Artena, capeggiato dai fratelli Bianchi esperti in arti marziali, come sappiamo, ha la meglio. Sarebbe poi un calcio diretto allo sterno (sferrato, secondo le ultime informazioni rilasciate, da Gabriele, il maggiore dei fratelli) ad uccidere Willy, che rimane esanime a terra. È ora compito delle autorità competenti stabilire le reali responsabilità di ciascuno dei ragazzi. Al momento, i Bianchi e Pincarelli si trovano reclusi dietro le sbarre, mentre Belleggia ha ottenuto i domiciliari.

"Saltavano sopra il corpo già inerme". Prezioso il racconto di Emanuele Cenciarelli, uno degli amici di Willy. Il ragazzo ha descritto minuziosamente i giovani con il quale si è scontrato il proprio gruppo. "I due ragazzi con i quali Federico, l’amico di Willy, stava inizialmente discutendo ricordo che uno indossava una camicia di colore bianco e aveva in viso tatuata una lacrima sotto l’occhio, nonché diversi tatuaggi su entrambe le braccia e le mani. L’altro ragazzo invece aveva un braccio ingessato (Belleggia)", ha dichiarato, come riportato dal "Corriere della Sera". "Al momento dell’aggressione ricordo che oltre ai predetti ragazzi da me descritti si sono uniti altri tre ragazzi di cui sono in grado di descrivere soltanto due. L’uno indossava una polo di colore verde con capelli molto corti e l’altro con un vistoso tatuaggio sul collo". Tutti, stando al racconto di Cenciarelli, avrebbero preso parte al pestaggio con una violenza inaudita: "Per quanto io ricordi tutti ragazzi sferravano calci e pugni contro me e Willy. Ho un vivido ricordo di un paio di loro che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso in terra e già inerme". "Conosco tre delle persone che si sono rese responsabili della rissa. E sono: Gabriele Bianchi, Mario Bianchi, i cosiddetti "gemelli Bianchi" di Artena e Mario Pincarelli. Chi materialmente ha picchiato Willy è stato Gabriele Bianchi che dapprima gli ha dato un calcio in pancia, quindi Willy si è accasciato a terra, dopodiché si è rialzato ed è stato colpito nuovamente da Gabriele", è invece la ricostruzione di Fayza Rouissi. "Perdeva sangue dalla bocca. Gabriele l’ha picchiato da terra per qualche istante, dopodiché, quando è arrivata la sicurezza dei locali, è scappato insieme agli altri". Silenziosa e lenta, questa sera per le vie di Paliano si è tenuta la fiaccolata in ricordo di Willy Monteiro Duarte. C'era tutto il paese, rigorosamente con le mascherine come imposto dal sindaco, e c'era anche l'ambasciatore di Capoverde, Paese d'origine del ragazzo. Sono stati i rintocchi delle campane a scandire l'inizio della marcia pacifica che ha attraversato il piccolo centro di Paliano. "Sentimenti come rabbia e vendetta non appartengono a questa comunità. Vogliamo solo giustizia", ha detto in chiusura il sindaco del paese.

Omicidio Willy, le carte: "Abbella!", quel commento di troppo che ha scatenato l'inferno. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it Repubblica è in grado di ricostruire minuto per minuto la notte che ha portato al pestaggio di Colleferro. Pincarelli urlò "abbella" a una ragazza, e pochi minuti dopo un amico chiamò i fratelli Bianchi. Una giovane: "E' stato Gabriele a dare il colpo di grazia". La notte più buia di Colleferro è cominciata con un bacio rivolto da un ubriaco alla ragazza di un altro. Ed è finita col corpo dell'incolpevole Willy Moteiro Duarte a terra, privo di vita. Cos'è successo davvero dentro e davanti al locale “Duedipicche”, punto di riferimento della movida per i ragazzi della zona? Chi ha provocato chi? E per cosa? E chi ha sferrato il calcio mortale allo sterno del povero Willy? Attraverso fonti qualificate, testimonianze dirette e riscontri contenuti nell'ordinanza di convalida del fermo dei quattro accusati di omicidio preterintenzionale (Marco Bianchi, Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli rimangono in carcere, a Francesco Belleggia invece, difeso dal legale Vito Perugini, sono stati concessi i domiciliari), Repubblica è in grado di ricostruire cosa è accaduto quella notte prima del brutale pestaggio. Quando due gruppi di ragazzi, uno proveniente da Artena, l'altro da Colleferro e Paliano, si sono trovati faccia a faccia per un motivo futile. Banale come può essere un “abbella”, seguito da un bacio provocatore. E' la prima ricostruzione documentale, ancora imperfetta, ma che fornisce sufficienti dettagli della cornice in cui è avvenuto l'omicidio del 21enne Willy Monteiro Duarte. Andiamo con ordine.

Il gruppo di Artena. La sera del 5 settembre Francesco Belleggia, 23 anni, diploma da geometra e il sogno di entrare nei carabinieri, parte da Artena, dove vive con i genitori (padre operaio, madre casalinga), e raggiunge Colleferro insieme a un amico. E' un viaggio breve, dieci chilometri e mezzo, un quarto d'ora di macchina. I due hanno intenzione di andare a bere un paio di spritz al “Duedipicche”, risto-pub nel centro del paese assai frequentato, teatro della movida locale. Quando sono all'interno del locale, vedono arrivare Mario Pincarelli in compagnia di un'altra persona. Belleggia e Pincarelli si conoscono, sono entrambi di Artena. Non si definiscono amici, ma decidono lo stesso di unirsi al tavolo per una bevuta. Nel ristorante, seduti a un tavolo separato, ci sono i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, ma pur essendo di Artena anche loro (vivono nella contrada Colubro nella casa dei genitori), rimangono in disparte. Anzi, dopo poco se ne vanno, in compagnia di un'altra persona e di tre ragazze. Li vedono salire tutti a bordo dell'Audi Q7 nera dei fratelli Bianchi e sparire.

Le avances alla ragazza. Si sta facendo tardi, sono le 2.30. L'amico con cui Belleggia è arrivato da Artena se n'è già andato, lasciandolo a piedi. Lui è rimasto a bere con Pincarelli e sta cercando un passaggio per andare a casa. Lo trova, ma il gruppetto – sono in tre - decide di trattenersi ancora un po' a chiacchierare sulle scalette che portano nella piazzola davanti al locale. Pincarelli è su di giri, ha bevuto troppo. Sulle scalette in quel momento passano due ragazze, e a Pincarelli esce un “abbella” rivolto a una di loro, a cui fa seguire il gesto di mandarle un bacio con la mano. La ragazza, Azzurra, però non è sola: poco dietro di lei c'è il fidanzato, Alessandro Rosati. E' di Colleferro, ed è insieme a degli amici. Quello che ha appena visto non gli è piaciuto, va a lamentarsi con Pincarelli. Belleggia capisce che la situazione può finire davvero male, anche perché i Colleferresi sono più di loro tre. Quindi si scusa con Rosati. “Lascialo perdere, è ubriaco, non sa cosa sta dicendo. Mi scuso a nome suo”. Sembra finita lì, ma così non è.

L'intervento dell'amico di Willy. Assiste alla scena Federico Zurma, amico sia di Rosati, sia di Willy. E' arrivato al “Duedipicche” intorno alle 23.30. Anche Zurma pare aver bevuto troppo. Si mette in mezzo, si avvicina a Belleggia, lo fissa negli occhi. Belleggia ha l'impressione che lo voglia colpire con una testata. Invece non lo colpisce, è Belleggia che lo allontana con uno spintone, forse anche con uno schiaffo, facendolo cadere a terra. La situazione si scalda, e parecchio. Belleggia capisce di aver fatto un passo falso. Davanti a lui un ragazzo, conosciuto come “il rugbista”, gli dice: “Non ti meno solo perché hai il gesso al braccio”. Zurma si è rialzato, ora discute con una certa foga con Belleggia. I due però si sono allontanati dalle scalette, sono vicino all'edicola al di là della strada. A una distanza di tre metri c'è anche Willy, che cerca di calmare gli animi, di fare da paciere. Belleggia e Zurma non si stanno picchiando, stanno parlando. Si sono spostati ancora, sono nel parchetto buio lì davanti. E Belleggia si sta scusando, per lo spintone. “Non roviniamoci la serata per questa stupidata”, lo sentono dire. Sono le tre di notte.

L'arrivo dei fratelli Bianchi. Sulla strada piomba l'Audi dei fratelli Bianchi, inchioda vicino a loro con una frenata. E' stato Michele Cerquozzi a chiamarli al telefonino, chiedendogli di tornare al più presto al “Duedipicche” perché c'è bisogno di loro. Cerquozzi è un ragazzi che vive alla Contrada Colubro ad Artena, vicino di casa dei Bianchi. Marco e Gabriele scendono dall'Audi e – così raccontano diversi testimoni, tra cui Belleggi – iniziano a picchiare tre ragazzi del gruppo dei Colleferresi. Tra questi c'è anche Willy. Belleggi davanti al pm ha tuttavia negato di aver partecipato al pestaggio e tanto meno di aver colpito la vittima: "Non l'ho toccato! Non l'ho toccato", dice. Secondo quanto riferito, è Gabriele, il maggiore dei due, a sferrare il calcio ferale. Ma alla rissa, ne sono convinti gli inquirenti, ha partecipato anche Pincarelli. Che infatti, come i fratelli Bianchi, rimane in carcere.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte: ecco cosa sappiamo sulla notte del delitto. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it Dall'arrivo del ragazzo a Colleferro, dopo una serata di lavoro, alla rissa che gli è costata la vita: la ricostruzione di cosa è accaduto tra sabato 5 e domenica 6 settembre e i primi sviluppi delle indagini. Da una serata di svago con gli amici al termine del lavoro alla morte senza perché in un parchetto pubblico, massacrato dal branco. Tutto in meno di tre ore. Un tempo terribilmente breve quello che ha visto spezzare brutalmente sogni ed energie del 21enne Willy Monteiro Duarte in un angolo di Colleferrodiventato teatrodi uno dei peggiori e più assurdi omicidi compiuti negli ultimi tempi nella provincia romana.

Chi è Willy Monteiro Duarte. Tra gli impegni con l'Azione Cattolica e quelli nella squadra di calcio di Paliano, in provincia di Frosinone, tra gli studi all'istituto alberghiero "Buonarroti" di Fiuggi e il sogno un giorno di indossare la maglia della Roma, Willy era amato da tutti. "Sembra ancora di vederlo uscire qui, salutare e andare al lavoro", racconta commossa dopo la tragedia la vicina di casa. Nato 21 anni fa in Italia, a Roma, dove nel 1990 sono giunti papà Armando e mamma Lucia, una coppia originaria di Capo Verde e impegnata in un'azienda agricola, il giovane all'età di 3 anni si era trasferito con la famiglia a Paliano, l'ex feudo dei Colonna, dove c'è la fortezza trasformata in carcere per i collaboratori di giustizia e dove vengono coltivate le viti da cui viene ricavato il pregiato vino cesanese. Un territorio tranquillo, al confine tra le province di Frosinone e Roma e a due passi da quella di Latina, dove Willy è cresciuto, perfettamente integrato, e con quel suo sorriso, quella voglia di vivere e amore verso gli altri, si è sempre saputo far amare. Aveva trovato lavoro due anni fa come apprendista cuoco all'Hotel degli Amici di Artena, dove proprio sabato era stato impegnato fino a tarda sera, per poi tornare a casa dopo la mezzanotte, cambiarsi e andare con gli amici a bere e a mangiare qualcosa a Colleferro. Spostamenti effettuati nel raggio di venti chilometri.

La serata a Colleferro dopo il lavoro. Nella città fondata nel 1935 e progettata dall'ingegner Riccardo Morandi, lo stesso del ponte di Genova crollato, il 21enne arriva dunque che è già domenica, circa all'1. Insieme a lui ci sono gli amici di Paliano, Marco, Samuele ed Emanuele. Quella notte però tira una brutta aria. I quattro amici non possono sapere che, dopo tante scorribbande a Velletri, quella notte a Colleferro c'è pure quella che poi diventerà nota come la banda di Artena. Ci sono i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, tutti tra i 22 e i 26 anni, protagonisti di risse e alcuni con precedenti sia per lesioni che per spaccio di droga, insieme ad altri loro amici. E c'è un gruppetto di Colleferro di cui fa parte il 21enne Federico Zurma, compagno di scuola della vittima. Al "Duedipicche", una pizzeria davanti a largo Santa Caterina, il parchetto alle spalle della caserma dei carabinieri e a due passi dal Comune e dalla centrale piazza Italia, i primi screzi tra la comitiva di Artena e quella di Colleferro. Il 23enne Belleggia, geometra, avrebbe tirato un primo schiaffo a un giovane. Qualche commento a una ragazza, qualche like sui social, ma di fondo solo sguardi che si incrociano e il gruppetto dei Bianchi che è solito cercare lo scontro, e la situazione degenera. Sono passate le 2.30. E sulle scale del locale sempre Belleggia inizia a discutere con i ragazzi di Colleferro e in particolare con Zurma. Partono le prime spinte, ma la banda è in minoranza. A dare manforte al geometra c'è pure il 22enne Pincarelli, appassionato di karate e che il 21 agosto scorso ha picchiato il vigile urbano Sandro Latini, ad Artena, solo perché gli aveva detto di mettere la mascherina. I due gruppi si spostano nel parco di fronte e proprio lì Willy ha parcheggiato la sua Fiat Punto grigia.

Sono circa le 2.40. I giovani di Artena hanno già chiamato rinforzi. Hanno chiesto ai leader della banda, i fratelli Bianchi, esperti di arti marziali, in particolare di MMA, di tornare. Come sempre. Come tante volte hanno fatto quando, dopo aver cercato lo scontro, rischiano di essere sopraffatti. Gabriele e Marco, 26 e 24 anni, sanno far male. In quel parchetto ci sono anche due telecamere di sorveglianza fatte piazzare dal sindaco Pierluigi Sanna dopo le proteste dei residenti stanchi degli schiamazzi dei ragazzi che escono dai locali e utilizzano quell'area verde anche per fare i loro bisogni. Occhi elettronici che riprenderanno solo parte del pestaggio e al buio. I lampioni sono stati infatti disattivati. Belleggia incalza Zurma e Willy nota la scena. Vede il compagno di scuola in difficoltà e non si volta dall'altra parte. Si mette in mezzo. Divide i due. "Cosa state facendo? Smettetela", dice. Quel gesto gli costerà la vita.Dopo aver parcheggiato in un vicino angolo buio il loro suv Q7, fanno irruzione i Bianchi e la banda di Artena si scatena. Calci e pugni a chiunque capiti loro a tiro. Zurma scappa e i tre amici di Willy, due dei quali vengono raggiunti da un pugno e riporteranno una prognosi di dieci giorni, cercano riparo dietro le auto in sosta. Il 21enne resta lì in mezzo e viene massacrato. "Basta, smettetela, basta. Non respiro più", urla disperato il giovane, come riferirà poi una donna che si trovava nella zona. Gli amici di Paliano assistono impotenti a tanta violenza. Uno degli aggressori avrebbe infine sferrato un calcio tremendo all'aspirante chef, colpendolo alla pancia e facendolo stramazzare a terra. "Era come un colpo di karate", ripeteranno alcune ore dopo i giovanissimi testimoni ai carabinieri. Willy prova a rialzarsi, si fa forza sulle braccia, ma a quel punto viene atterrato da un pugno alla testa e resta sulla pavimentazione del parchetto, immobile. "Non dimenticherò mai il rumore del suo corpo che cadeva", racconta un testimone.

I fratelli Bianchi, Belleggia e Pincarelli tornano ad Artena. Sono all'incirca le 3. I Bianchi, Belleggia e Pincarelli si allontanano. In auto ad aspettarli c'è il 20enne Vittorio Edoardo Tondinelli, di Velletri, poi indagato a piede libero con l'accusa di favoreggiamento. Balzano sul suv e fanno ritorno ad Artena, dove si fermano al "Nai Bistrot", il locale del fratello dei Bianchi, Alessandro, che poi riferirà aver sentito Gabriele e Marco sbraitare dicendo che gli amici avevano combinato un guaio. A Colleferro si è radunata una piccola folla in largo Santa Barbara. Qualcuno ha anche scattato delle foto. Si parla pure di un video. E la moglie di uno dei carabinieri, sentito il trambusto, ha già chiamato il marito. Nel giro di 3 minuti il maresciallo Antonio Carella è già in strada. Prima delle 3.30 arrivano alcune richieste di soccorso al 118. Ma a stare accanto a Willy è lo stesso sottufficiale dell'Arma, che intanto raccoglie informazioni, vede le immagini scattate dell'accaduto e capisce subito che c'è lo zampino dei Bianchi, un incubo in quelle zone. Il 21enne viene caricato su un'ambulanza e in quel momento arriva anche il sindaco Pierluigi Sanna. Mentre i medici dell'ospedale di Colleferro tentano invano di strappare Willy alla morte, il maresciallo Carella si precipita ad Artena. Dà l'allarme, chiede rinforzi, ma non perde neppure un secondo ed entra al "Nai Bistrot". Il sottufficialeprende un caffè con la banda, parla e li convince a seguirlo in caserma a Colleferro. Intanto lo hanno raggiunto i colleghi e gli investigatori iniziano a stringere il cerchio, recuperando subito le stesse immagini delle telecamere di sorveglianza del Comune.Colleferro, il minuto di silenzio in piazza per Willy.

Prima delle 5 i Bianchi, Belleggia, Pincarelli e Tondinelli sono nella caserma di Colleferro. Per i primi 4 scatterà l'arresto in flagranza, con l'accusa di concorso in omicidio preterintenzionale, e il quinto verrà indagato solo a piede libero per favoreggiamento. La banda è sotto torchio. Ma tale particolare non impedisce a Gabriele Bianchi, fidanzato di Silvia Ladaga, candidata alle ultime regionali con Forza Italia e al lavoro in Regione con l'esponente azzurro Pino Simeone, incinta dell'indagato, di condividere alle 6.39 sul suo profilo Facebook un video ironico. Proprio attorno alle 5 a Colleferro viene però anche decretata dai medici la morte di Willy. Le indagini diventano così subito per omicidio. In città si reca inoltre anche il sostituto procuratore della Repubblica di Velletri, Luigi Paoletti. E in caserma, oltre a interrogare la banda di Artena, gli investigatori ascoltano i testimoni, che confermano il pestaggio e, parlando del calcio e del pugno, i presunti due colpi fatali, puntano il dito contro Marco Bianchi.

"Hanno solo ucciso un extracomunitario". Alle 7 vengono informati i familiari di Willy, che vengono accompagnati in ospedale dove scoprono che quel figlio tanto amato si è spento due ore prima. Sono ore di indagini febbrili. In piazza Italia si radunano i parenti degli indagati, dei testimoni e diversi cittadini sdegnati per l'accaduto. "Deve essere fatta giustizia", dice il padre di uno dei testimoni. Ma per tutto rispetto un familiare degli indagati avrebbe detto: "Cosa hanno fatto? Alla fine non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". Il tempo passa, monta la rabbia e sui social iniziano a circolare le prime immagini dei Bianchi, tatuati e palestrati, in pose da duri. La gogna è partita e continua a non risparmiare nessuno, con insulti irripetibili anche ai familiari degli indagati. Senza contare chi fa commenti razzisti su Willy, portando la polizia postale di Latina ad aprire un'indagine. Poco prima delle 19 per gli inquirenti il quadro è chiaro e i quattro arrestati vengono caricati sulle gazzelle dell'Arma per essere condotti nel carcere romano di Rebibbia, con i militari che fanno fatica a tenere a freno la folla inferocita pronta a linciare quelli che vengono ormai indicati come gli assassini.

Alle 20.30 nel parchetto dove è stato ucciso Willy si svolge una fiaccolata. Arrivano i familiari della vittima, il vescono e i sindaci di Colleferro, Artena e Paliano. La morte del giovane, che come tutti ripetono ha avuto solo la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, è già un caso. Il 7 settembre i difensori degli indagati, gli avvocati Massimiliano Pica e Vito Perugini, iniziano a cercare di ridimensionare le accuse. "Ci sono diverse incongruenze", ripetono. Il sostituto procuratore Paoletti dispone intanto una consulenza medico-legale, affidandola a Salvatore Potenza dell'Università di Tor Vergata, e poi disporrà anche accertamenti sui vestiti degli indagati, sui tabulati telefonici e sui computer sequestrati alla banda. Nel parchetto di Colleferro c'è un pellegrinaggio silenzioso. In tanti vanno a deporre un fiore e a recitare una preghiera. "Sono sconvolto. Qui voglio fare un monumento per questo ragazzo", si lascia sfuggire commosso il sindaco Sanna. A dodici chilometri di distanza pianti e commozione a casa di Willy. A Paliano c'è anche la famiglia dello zio della vittima. Ma nell'abitazione del ragazzo è una triste processione di amici e di tanti parenti e conoscenti della comunità di Capo Verde, provenienti quest'ultimi da Ciampino e Roma. Arriva anche l'avvocato nominato dalla famiglia, Domenico Marzi. La Regione Lazio ha appena assicurato che provvederà alle spese legali. "Collaboreremo con la Procura affinché venga fatta giustizia", assicura il legale.

L'interrogatorio dei quattro arrestati. I Bianchi negano: "Abbiamo fatto da pacieri". L'8 settembre, a Rebibbia, il gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarato, interroga gli indagati. I Bianchi negano di aver colpito Willy e così Pincarelli. Nega pure Belleggia, che punta però il dito contro i Bianchi. La compattezza della banda è solo un ricordo. E il 22enne fornisce agli inquirenti un particolare: "Il calcio e il pugno li ha sferrati Gabriele". I colpi micidiali sono dunque opera di Marco o di Gabriele? Gli inquirenti avviano subito altri accertamenti. Il parchetto era buio, la concitazione tanta e i due fratelli si somigliano. I testimoni potrebbero aver confuso l'uno con l'altro. A Roma intanto il prefetto Matteo Piantedosi ha voluto incontrare i sindaci della zona e i rappresentanti delle forze dell'ordine. Ha chiesto informazioni precise sull'accaduto e sulla situazione di quell'area. Il gip convalida gli arresti, ma per tutto il pomeriggio e fino a sera non c'è traccia dell'ordinanza di custodia cautelare, mentre a Paliano il sindaco Domenico Alfieri dà l'ok a una fiaccolata in memoria di Willy prevista per questa sera alle 21.

La decisione del gip: in tre restano in carcere, Belleggia ai domiciliari. Alle 10.30 del 9 settembre la notizia della decisione del gip: restano tutti in carcere tranne Belleggia, a cui vengono concessi i domiciliari. Le posizioni degli indagati iniziano a cambiare e c'è chi rischia l'omicidio volontario. Ma su quest'ultimo aspetto determinante sarà l'autopsia che verrà effettuata oggi dal dottor Potenza, che verrà affiancato dai consulenti scelti dagli indagati e dalla famiglia di Willy. L'avvocato Pica assicura intanto che ha consegnato agli inquirenti la documentazione su due testimonianze di altrettanti giovani di Artena da lui raccolte, che scagionerebbero i Bianchi. Una seconda battaglia è iniziata ed è quella difficilissima per cercare di garantire che vera giustizia venga fatta, senza scappatoie e senza scivoloni.

Willy Duarte, il risultato della prima autopsia: "Quadro politraumatico", la conferma sul terrificante pestaggio. Libero Quotidiano il 10 settembre 2020. Lesioni in diverse parti del corpo, non solamente su torace e addome. Un quadro «politraumatico» dovuto al pestaggio subito. È questo il primo risultato dell'autopsia eseguita all'istituto di medicina legale di Tor Vergata sul corpo di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso a calci e pugni nella notte tra sabato e domenica a Colleferro, vicino Roma. Secondo quanto si apprende, il primo esame si è svolto nel pomeriggio di mercoledì 9 settembre ed è durato circa tre ore e mezzo. E da questo emerge il quadro di un pestaggio violentissimo. A eseguire l'esame autoptico è stato il professor Saverio Potenza, medico legale dell'Università di Roma Tor Vergata, nominato consulente tecnico dal pubblico ministero. Per completare il quadro, «che comunque - viene sottolineato - appare già chiaro», e avere una ricostruzione precisa della dinamica dei fatti, ora bisognerà attendere gli esami di laboratorio e istologici. Sul corpo ci sono più lesioni traumatiche ora va stabilito quali siano state inferte attivamente e quali subite passivamente come avviene in una caduta a terra. riproduzione riservata.

Colleferro, l'autopsia: "Traumi ovunque" sul corpo martoriato di Willy. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da La Repubblica.it. Traumi ovunque, al volto, al torace, all'addome, al collo. Una furia cieca e violenta che ha spezzato la vita di Willy, il 21enne morto nel corso di una rissa, a Colleferro nella notte tra sabato e domenica scorsi. Dall'autopsia, svolta oggi all'istituto di medicina legale di Tor Vergata, è emerso un quadro drammatico: sul corpo del giovane traumi ovunque distribuiti tra torace, addome e collo che hanno causato lo shock che ha indotto l'arresto cardiaco ma ulteriori accertamenti serviranno a definire quale colpo è risultato fatale al ragazzo. Accertamenti sugli organi interni, su un corpo martoriato da chi - come raccontano i testimoni- sferrava colpi da professionista, arrivando persino a "saltare sul corpo" del ragazzo ormai inerme. Nel corso dell'esame che è stato molto accurato ed è durato oltre 4 ore sono state rilevate le singole lesioni ma per completare il quadro, "che comunque - sottolineano gli inquirenti - appare già chiaro", e avere una ricostruzione precisa della dinamica dei fatti, ora bisognerà attendere gli esami di laboratorio e istologici. Sul corpo ci sono più lesioni traumatiche ora va stabilito quali siano state inferte attivamente e quali subite passivamente come avviene in una caduta a terra. "L'autopsia consentirà di conclamare la violenza dell'aggressione perpetrata ai danni di Willy. Emergeranno anche dei colpi violenti ed espressione di una tecnica sofisticata per un colpo in particolare, al collo". commenta l'avvocato Domenico Marzi, legale della famiglia Monteiro Duarte. Dati che si incrociano con la ricostruzione fatta dai magistrati di Velletri che restituisce un quadro di violenza "immotivata ed inaudita" ai danni di un ragazzino che "non c'entrava nulla" con la lite nata per un banale apprezzamento. Elementi che potrebbero presto portare per i 4 arrestati, a un capo d'accusa ben più grave dell'omicidio preterintenzionale: l'omicidio volontario. "I genitori di Willy sono affranti, distrutti, nel loro composto dolore ma al momento non intendono rilasciare dichiarazioni. In merito all'interrogatorio dei quattro aggressori e alle giustificazione di due di loro, resto basito". "Willy - aggiunge il penalista - non è caduto e morto mentre faceva jogging e se le cose fossero andate come loro sostengono, allora avrebbero dovuto soccorrerlo e portarlo in ospedale". I funerali del 21enne ucciso potrebbero essere celebrati nella giornata di sabato presso il campo sportivo di Paliano. "I genitori di Willy sono affranti, distrutti, nel loro composto dolore ma al momento non intendono rilasciare dichiarazioni. In merito all'interrogatorio dei quattro aggressori e alle giustificazione di due di loro, resto basito". "Willy - aggiunge il penalista - non è caduto e morto mentre faceva jogging e se le cose fossero andate come loro sostengono, allora avrebbero dovuto soccorrerlo e portarlo in ospedale". I funerali del 21enne ucciso potrebbero essere celebrati nella giornata di sabato presso il campo sportivo di Paliano. Intanto Paliano chiede giustizia per Willy. In centinaia questa sera hanno dato vita a una fiaccolata. Al centro del corteo, accanto all'ambasciatore di Capoverde che sfila con una candela in mano, lo zio di Willy che sorregge una foto del nipote, mentre centinaia di cittadini sfilano con una maglietta bianca con la scritta "Ciao Willy".

Cronaca > Omicidio Willy, l’autopsia: “Bianchi hanno spaccato cuore e fegato”. Notizie.it il 26/09/2020. L'autopsia relativa all'omicidio di Willy Monteiro parla chiaro: i fratelli Bianchi avrebbero causato numerose emorragie interne con il pestaggio. La prima relazione dell’autopsia effettuata sulla salma di Willy Monteiro non ha potuto accertare le vere cause del decesso, ma gli specialisti di Tor Vergata non hanno dubbi che i principali responsabili dell’efferato omicidio siano ancora i fratelli Bianchi. Calci e pugni hanno danneggato soprattutto cuore, polmoni e fegato della vittima, morta per l’aggravarsi delle emorragie interne. Gli specialisti di Tor Vergata hanno pubblicato una prima relazione relativa all’autopsia del giovane Willy Monteiro, il cui omicidio rimane ancora sotto indagine, e i nuovi elementi non fanno che appurare la colpevolezza dei fratelli Bianchi, tuttora in carcere. “Gli hanno spaccato il cuore, il polmoni, la milza e il fegato. Anche le pareti dell’aorta erano lesionate“. Queste sono le prime conclusioni dell’autopsia, ma ancora non è chiara la causa esatta del suo decesso. Gli organi interni avrebbero subito tante emoraggie interne per i copi violentio subiti durante il pestaggio. Nella relazione si parla di sei lesioni al volto, ma le più gravi sarebbero quelle rilevate sulla testa, sul collo sul torace e sull’addome, dai quali sarebbero scaturite le emorragie interne. “In sostanza – conclude il medico di Tor Vergata Saverio Potenza – Willy è stato vittima di un complesso traumatismo che si è realizzato con più azioni lesive”. La violenza usata nel dare calci e pugni al giovane ha sicuramente portato al decesso. Tuttavia, visti i numerosi traumi, lo specialista non esclude che i fratelli Bianchi possano aver usato anche spranghe o bastoni. Al momento si sa solo che i due fratelli avrebbero picchiato Willy a mani nude. Nella giornata di venerdì 25 settembre, i carabinieri hanno trovato tracce di sangue sui vestiti di dei due indagati e e nell’Audi.

Omicidio Willy Monteiro Duarte, l'autopsia: "I gemelli Bianchi gli hanno spaccato il cuore in due". Pubblicato venerdì, 25 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it. Dalla relazione degli specialisti di Tor Vergata emergono dettagli sulla violenza inaudita usata nel pestaggio di Colleferro: "L'organo aveva una lesione di sette centimetri". Gli hanno lesionato tutti gli organi interni, compresi i polmoni, la milza, il pancreas. Compreso il cuore che era praticamente spaccato in due parti da una lesione di circa sette centimetri. Gli esiti degli esami preliminari dell’autopsia sul corpo di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo italiano di origine capoverdiana vittima del brutale pestaggio di Coleferro, la notte dello scorso 6 settembre, confermano una volta di più l’assoluta e insensata ferocia con cui i fratelli Bianchi hanno messo fine alla sua giovane vita. I traumi riportati da Willy erano talmente importanti che i tecnici di Torvergata, nella loro relazione, non escludono nemmeno l’ipotesi – per quanto solamente in teoria – che nel pestaggio possano essere state utilizzate armi contundenti, come un bastone, una spranga o un tirapugni, come del resto gli indagati avevano già fatto in passato. In sostanza – si legge nella relazione – la vittima è stata vittima “di un complesso traumatismo che si è realizzato con più azioni lesive”. La relazione dei medici di Tor Vergata sembra la rilettura, in termini tecnici delle dichiarazioni rilasciate a caldo, la mattina dopo i fatti, dall'amico con cui Willy stava trascorrendo la serata, Emanuele Cenciarelli. "Ricordo che uno indossava una camicia di colore bianco e aveva in viso tatuata una lacrima sotto l'occhio, nonché diversi tatuaggi su entrambe le braccia e le mani. L'altro ragazzo invece aveva un braccio ingessato. Al momento dell'aggressione ricordo che oltre ai predetti ragazzi da me descritti si sono uniti altri tre ragazzi (...)" Continua Cenciarelli: "uno indossava una polo di colore verde con capelli molto corti e l'altro aveva un vistoso tatuaggio sul collo. Ricordo subito l'immagine di Willi steso a terra circondato da 4 e 5 ragazzi che lo colpivano violentemente con calci e pugni. Il mio istinto di protezione mi spingeva a gettarmi addosso a Willy per cercare di proteggerlo dai colpi che stava ricevendo, urlando agli aggressori che io e Willy non c'entravamo niente con quanto eventualmente era accaduto prima. Le mie richieste finivano nel vuoto tanto che io stesso venivo colpito da calci e pugni sempre dagli stessi ragazzi che avevano aggredito Willy. Non riesco a quantificare il tempo dell'aggressione ma posso solo dire che la violenza dei colpi subiti da me e da Willy era inaudita. Per quanto io ricordi tutti ragazzi sferravano calci e pugni contro me e Willy. Ho un vivido ricordo di un paio di loro che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso in terra e già inerme. Terminata l'aggressione ricordo di essermi subito preoccupato delle condizioni di Willy il quale ancora steso a terra era privo di senso". In Procura a Velletri è stato intanto ascoltato il ventenne Vittorio Edoardo Tondinelli. Si tratta di uno degli amici dei fratelli Bianchi, che era con loro la sera del pestaggio e che con loro, insieme a Belleggia e ad altri due giovani di Artena e Lariano, Michele Cerquozzi e Omar Sahbani, sarebbe rientrato ad Artena a bordo del suv Q7. Tondinelli è inoltre l'amico che, durante il litigio fuori dal Duedipicche di Colleferro tra un ex compagno di scuola di Willy e Belleggia e Pincarelli, sarebbe stato insieme a Marco e Gabriele Bianchi. "Ci eravamo allontanati con tre ragazze, non sappiamo come si chiamano", si erano giustificati davanti al giudice i due arrestati tirando in ballo anche il ventenne di Velletri. E con loro, ricevuta una telefonata da Cerquozzi, sarebbe tornato in largo Oberdan dove poi Willy è stato ucciso a calci e pugni. Proseguono infine le indagini dei carabinieri del Ris sul suv Q7 dei fratelli Bianchi, su cui già sono state trovate tracce biologiche, e sugli indumenti degli arrestati. Tutte prove utile per il sostituto procuratore Luigi Paoletti a blindare l'accusa.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 26 settembre 2020. Gli hanno spaccato il cuore, il polmoni, la milza e il fegato. Anche le pareti dell'aorta erano lesionate. I primi risultati dell'autopsia di Willy Monteiro Duarte, nello strazio di quel corpo, non riescono neppure a individuare la causa esatta della morte. Tutti gli organi vitali sono stati interessati da emorragie per i colpi violentissimi subiti dal ragazzo nella notte tra il 5 e il 6 settembre scorso. Calci e pugni che gli avrebbero inferto i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, la cui posizione è però meno pesante e che ha cominciato a collaborare con gli inquirenti. Tutti sono indagati per l'omicidio volontario aggravato dai futili motivi. In realtà un motivo non c'era. Neppure banale. Ieri, intanto, per la prima volta, è stato sentito Vittorio Tondinelli, teste chiave nelle indagini sulla morte del povero Willy.

L'AUTOPSIA. La prima relazione dell'autopsia di Willy non riesce a individuare le cause della morte. I traumi agli organi vitali sono tali che gli specialisti di Tor Vergata non hanno potuto stabilire quale abbia determinato il decesso. Sei lesioni al volto, ma non sono quelle che hanno ucciso il ventunenne. I traumi più gravi sono quelli alla testa, al collo, al torace e all'addome, dai quali sono partite una serie di emorragie interne. Colpi fortissimi alla nuca, forse provocati dalla caduta, e alla fronte. Anche il cuore di Willy è stato interessato, con una lesione di sette centimetri, poi l'aorta toracica, i polmoni, quindi il diaframma, la milza, il pancreas, il fegato. «In sostanza - conclude il medico di Tor Vergata Saverio Potenza - Willy è stato vittima di un complesso traumatismo che si è realizzato con più azioni lesive». Pugni e calci, ma lo specialista riconosce una tale violenza nei colpi che hanno portato alla morte del ragazzo, da non escludere «la possibilità teorica, seppure minoritaria, dell'uso di bastoni, spranghe o altro» durante il pestaggio. Si sa invece che lo hanno picchiato a mani nude. Ieri, intanto, sono cominciati gli accertamenti sulle tracce biologiche trovata nell'Audi e sugli abiti degli indagati. Era sull'Audi dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, con i quattro indagati, quando i carabinieri di Colleferro li hanno trovati in un bar, subito dopo quel pestaggio, e li hanno invitati a presentarsi in caserma per accertamenti. Ma Vittorio Tondinelli, che seguirà il maresciallo e si troverà in camera di sicurezza, è risultato estraneo ai fatti: non ha picchiato Willy. E la mattina del 6 settembre i militari lo hanno lasciato tornare a casa. Ieri, per la prima volta, è stato sentito dai magistrati di Velletri, che si occupano dell'omicidio. La sua testimonianza non era stata neppure raccolta.

L'INTERROGATORIO. Ha parlato per ore in un interrogatorio fiume, durante il quale avrebbe fornito dettagli importanti per chiarire i ruoli nella rissa. Potrebbe così trasformarsi nel teste chiave. Le testimonianze a disposizione degli inquirenti (se ne sono aggiunte altre) non hanno chiarito quale dei fratelli Bianchi abbia picchiato per primo. L'amico di Willy ha raccontato però che quando il ragazzo era già steso per terra i picchiatori gli sono saliti addosso, pestandolo. In realtà Tondinelli, al momento del pestaggio, sarebbe rimasto vicino all'auto, ma ai pm avrebbe raccontato anche dei passaggi nella fase successiva alla rissa, quando in auto gli indagati hanno commentato quanto accaduto. Le indagini di carabinieri e procura riguardano anche altre persone che, quella notte, si trovavano in largo Santa Caterina. Almeno altre due. L'esame dei telefonini e delle celle telefoniche, come quello dei tabulati, avrebbe già fornito nuovi elementi. E non è escluso che, nelle prossime settimane, altri nomi possano essere iscritti sul registro degli indagati.

Quel patto nel suv dopo il massacro "Non una parola sulle botte a Willy". Belleggia ha giurato di non aver mai toccato Willy Monteiro Duarte. Tre testimoni lo avrebbero però riconosciuto. Valentina Dardari, Giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Francesco Belleggia ha fin da subito giurato di non aver mai toccato Willy Monteiro Duarte. Anche all’interno del carcere romano di Rebibbia, al cospetto dei suoi legali, gli avvocati Vito e Lucio Perugini, prima che gli venissero dati i domiciliari, l’uomo ha sempre affermato: “Non l'ho toccato! Giuro che non l'ho toccato!”. Tre testimoni però lo avrebbero riconosciuto. Non vi sarebbe ombra di dubbio, visto che Belleggia sarebbe stato notato proprio a causa del gesso al braccio. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, quella tragica notte il giovane sarebbe arrivato a Colleferro in compagnia di un amico per bere qualcosa, poi sarebbe ritornato ad Artena, dove vive, a bordo dell'Audi Q7 nera dei fratelli Bianchi, Marco e Gabriele.

Il patto del silenzio. Durante il tragitto, durato circa quindici minuti, proprio i due inseparabili fratelli avrebbero stretto un patto con Belleggia e altre tre persone presenti nella vettura. Una specie di patto del silenzio, con l’accordo di non rivelare nulla di quanto avvenuto quella notte e dare agli inquirenti una versione dei fatti per tutti uguale. Solo Mario Pincarelli, come pattuito, sarebbe dovuto risultare responsabile della morte del 21enne. Come scritto nell’ordinanza di convalida dell’arresto dal Gip Giuseppe Boccarrato, “l'indagato Francesco Belleggia riferiva che i due fratelli Bianchi gli avevano consigliato di mantenere il silenzio sulle loro condotte”. Anche se, del consiglio sembra avesse ben poco. I due fratelli, chaiamati gemelli proprio perché inseparabili, sono ben noti per il timore che incutono ad amici e conoscenti. Il patto segreto, o che tale avrebbe dovuto restare, è stato però rotto dal Belleggia. Il ragazzo ha infatti raccontato tutto agli inquirenti, affermando anche di aver visto Marco Bianchi dare un calcio “diretto sul petto di Willy”. Il 21enne sarebbe quindi caduto all’indietro sulla vettura. A quel punto, Gabriele Bianchi sarebbe andato contro l’amico di Willy picchiandolo. Forse le azioni dei due fratelli sono state invertite nella confusione del momento.

Solo Belleggia ha rotto la promessa. Gli altri ragazzi appartenenti al gruppo che ha stretto il patto del silenzio, come da accordi presi hanno invece continuato ad accusare solo Pincarelli. A differenza di Francesco Belleggia, 23enne con in tasca un diploma da geometra e il sogno di entrare nell’Arma. Il giovane vive con il padre, operaio, e la madre casalinga. Sarebbe impegnato in una relazione sentimentale con una ragazza di nome Martina. Quella terribile notte Belleggia si trovava in un ristopub a bere con Pincarelli, un suo ex compagno di scuola, non un amico, come sottolineato dallo stesso Belleggia. Ubriaco, Pincarelli avrebbe fatto commenti pesanti nei confronti di Azzurra, la ragazza di uno del gruppo di Colleferro. Belleggia sarebbe quindi andato a scusarsi per il comportamento del suo pseudo amico. Qualcosa però avrebbe scatenato la rissa portando il 23enne a dare un pugno in faccia all’amico del fidanzato di Azzurra, Federico Zurma. Belleggia avrebbe solo reagito, come lui stesso ha detto. Alcuni testimoni avrebbero però asserito che il 23enne, pur scusandosi, avrebbe continuato a spingere violentemente il ragazzo fino al parco, dove poi Willy è stato aggredito mortalmente. “Le dichiarazioni rese da tre testimoni (due amici di Willy e una ragazza presente per caso sul posto) consentono di apprezzare anche a suo carico gravi e precisi indizi di colpevolezza per il reato cui si procede”. Il reato in questione è l’omicidio del 21enne intervenuto solo per aiutare un amico. Belleggia ha lasciato il carcere e si trova ora ai domiciliari. Secondo il gip infatti, è stato l'unico a dire la verità durante gli interrogatori di garanzia. Per questo motivo il giudice per le indagini preliminari, pur sottolineando il rischio di reiterazione di condotte criminali analoghe, l'ha fatto uscire dal carcere mandandolo ai domiciliari. Gli altri tre accusati restano invece dietro le sbarre.

Willy Monteiro, nessun video e una sola foto: come è possibile? Il dubbio in procura sul muro di omertà. Libero Quotidiano l'11 settembre 2020. Sono passati cinque giorni dall'uccisione di Willy Monteiro Duarte a Colleferro. Gli indagati sono quattro: tre sono in carcere a Rebibbia, i fratelli Bianchi e Mario Pincarelli; il quarto, Francesco Belleggia, è ai domiciliari. Ma il caso non è chiuso, ci sono ancora punti da chiarire e cose che non tornano. Non torna, per esempio, il fatto che nessuno delle decine di ragazzi presenti quella notte abbia fatto foto o video col telefono. Inverosimile di questi tempi. L'unica foto di interesse investigativo consegnata agli inquirenti è quella che riprende l’Audi Q7 nera con cui i fratelli Bianchi sono scappati dopo la rissa, scattata da un amico di Willy, Matteo Larocca. Inoltre le versioni dei fatti riportate dai testimoni sono spesso divergenti e non coincidono. Quello che all'inizio sembrava uno scontro tra due persone è poi diventato una zuffa tra due gruppi di persone, adesso addirittura si parla di una rissa avvenuta tra tre gruppi: quello di Artena, che comprendeva gli attuali indagati; quello di Colleferro di cui faceva parte Federico Zurma, l'amico che Willy ha cercato di salvare; e infine il gruppo di Paliano di cui faceva parte proprio Willy. Secondo alcune indiscrezioni, poi, non è escluso che nei prossimi giorni si allunghi la lista degli indagati. Ma soprattutto il capo di imputazione da omicidio preterintenzionale potrebbe aggravarsi in omicidio volontario. Un altro mistero riguarda Vittorio Tondinelli, fedele amico dei Bianchi, che era a bordo del Suv con cui tutti sono fuggiti dopo la morte del ragazzo capoverdiano. Adesso sarebbe indagato anche lui per favoreggiamento, ma a suo carico gli investigatori non hanno raccolto sufficienti elementi per contestargli di aver fatto parte del gruppo dei violenti.

I principali sospettati al momento sono Marco e Gabriele Bianchi, che hanno detto di non aver picchiato Willy, ma di averlo solo spintonato. Il pm di Velletri non crede alla loro versione. Gli avvocati dei detenuti però pensano di poter ribaltare le accuse con due testimonianze, come riporta Repubblica. Quelle di Michele Cerquozzi e Omar Sahbani, devoti amici dei Bianchi. Ma resta il sospetto di due post Facebook, poi cancellati, in cui Omar prometteva di battersi per far uscire la verità.

Silvia Mancinelli per adnkronos.com il 10 settembre 2020. "Qui di fronte al "Duedipicche" c’è un ragazzo che è stato menato. Per favore, potete venire?". Sono le 3,25 da venti secondi. La notte è quella tra sabato 5 e domenica 6 settembre scorsi. La telefonata che l’Adnkronos pubblica in esclusiva è la prima di 9 arrivate al Numero unico d’emergenza per chiedere soccorsi. Willy Monteiro Duarte è a terra, picchiato dal branco e in preda alle convulsioni mentre un ragazzo chiama in preda a una forte agitazione il 112. L’operatore dall’altro capo della cornetta localizza il luogo della rissa in 47 secondi attivando da quel momento l’intervento di ambulanza e pattuglie delle forze dell’ordine. Per Willy, però, saranno inutili tutti i tentativi di rianimarlo. Ecco il testo della telefonata: "Qui di fronte al ‘Duedipicche’ c’è un ragazzo che è stato menato. Per favore, potete venire?". "Senta, in che comune?" "Colleferro, Colleferro, di fronte al ‘Duedipicche’". "Via?". "Non la so la via, di fronte alla vecchia (...)". "Aspetti, Duedipicche mi ha detto? Ma cos’è un locale?". "Sì esatto, è un locale, è un bar". "Aspetti che sto cercando l’indirizzo. A Colleferro eh?". "Colleferro, Duedipicche, sì". "Largo Santa Caterina 5". "Per favore veloci, è urgente". "Sì, signore non si preoccupi". "Per favore, è urgente". "Senta, le serve anche un’ambulanza?". "Sì, subito, subito, per favore! E (...)" "Come si chiama lei signore?". "...". "Resti in linea, le passo le forze dell’ordine e chiamo anche un’ambulanza. Non riagganci". "C’è la caserma qui dietro". "Ok, resti in linea. Glieli passo".

Willy, ora è polemica sui ritardi: l'ambulanza non era disponibile. L'ospedale di Colleferro ha solo un'ambulanza, e quella notte il mezzo era già uscito per un'altra emergenza. All'arrivo del maresciallo Carella nessuno aveva ancora chiamato i soccorsi. Federico Garau, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. A distanza di giorni dalla morte di Willy Duarte Moteiro si continuano ad esaminare gli istanti che hanno preceduto il decesso del 21enne capoverdiano, ed ora l'attenzione si focalizza sul ritardo delle richieste d'aiuto e dei soccorsi. In molti ora si domandano se il ragazzo potesse essere salvato. Secondo quanto ricostruito da "La Stampa", i giardini di Largo Oberdan, luogo in cui si trovava Willy, distano poco più di 250 metri dall'ospedale. Un mezzo di soccorso avrebbe impiegato pochissimo tempo per raggiugere il ferito, eppure quella tragica notte non era disponibile alcuna ambulanza. Il pronto soccorso dell'ospedale di Colleferro ha purtroppo una sola ambulanza, e al momento della chiamata per soccorrere Willy questa era già impegnata. "Era uscita poco tempo prima per un'altra emergenza", ha infatti spiegato un operatore del 118 alla "Stampa". Trattandosi di un'urgenza, quella notte il servizio regionale dell'Ares aveva quindi provveduto a cercare un altro mezzo di soccorso, trovandone uno a Montelanico, a circa 15km di distanza. Secondo quanto riferito da alcuni presenti, l'ambulanza è arrivata ben 40 minuti dopo la chiamata al 118. I soccorsi, tuttavia, dichiarano altro. "L'ambulanza è giunta sul posto alle ore 3.45: dall'attivazione del mezzo all'arrivo sul posto, dunque, sono trascorsi 12 minuti", affermano infatti oggi dalla centrale del 118, come riportato da "Agi". "La chiamata per il soccorso in questione è stata trasmessa dal Nue 112 alla nostra centrale operativa alle ore 3.31. La Centrale operativa, dopo aver effettuato il triage, ha inviato sul posto l'ambulanza della postazione di Montelanico alle ore 3.33. Tutti i tempi dei soccorsi sono informatizzati e quindi non suscettibili di 'interpretazione'". Gli interrogativi si spostano quindi anche sulle richieste di soccorso al 112. Queste ultime sarebbero infatti state inoltrate in ritardo, secondo quanto ricostruito da "La Stampa". Il primo a dare l'allarme era infatti stato il maresciallo dei carabinieri di Colleferro, Antonio Carella. Svegliato dalla moglie che aveva udito delle urla in strada, Carella era uscito di casa per prestare aiuto al 21enne e chiamare i colleghi. Intorno a Willy, tuttavia, c'erano molti ragazzi, che avrebbero potuto contattare ben prima le forze dell'ordine. Almeno una ventina di individui, presenti al momento del pestaggio o arrivati poco dopo, si trovavano intorno al corpo esanime del ragazzo, ma nessuno era intervenuto per chiedere aiuto. Alcuni, al momento dell'arrivo del maresciallo, facevano addirittura foto o video, altri invece se ne stavano in disparte, spaventati o sotto choc. E intanto Willy giaceva a terra. Le numerose chiamate sono infatti arrivate al 112 solo dopo l'intervento di Carella. In circostanze come questa, il tempo è fondamentale e può salvare una vita. Durante l'attesa dell'ambulanza, qualcuno ha addirittura cercato di raggiugere a piedi l'ospedale di Colleferro per chiedere ai sanitari di correre da Willy, ma secondo le regole vigenti ciò non è possibile. I medici non possono per regolamento muoversi dal pronto soccorso. Il risultato è stato che il 21enne ha raggiunto la struttura ospedaliera di Colleferro ben 50 minuti dopo aver subito il pestaggio, quando per lui non c'era ormai più nulla da fare.

Niccolò Carratelli per ''La Stampa'' l'11 settembre 2020. Trai giardinetti di Largo Oberdan e l' ingresso del Pronto soccorso ci saranno 250 metri. Cinque minuti a piedi, anche meno correndo. Un' ambulanza non farebbe in tempo ad accendere la sirena prima di raggiungere il luogo in cui Willy è stato aggredito e massacrato di botte. Il problema è che sabato notte, qui all' ospedale di Colleferro, l' ambulanza non c' era. L' attesa disperata «Era uscita poco tempo prima per un' altra emergenza», spiega un operatore dell' Ares 118, che sabato non era in servizio, «per fortuna». E di ambulanza, a Colleferro, ce n' è solo una, pure malconcia, a guardarla bene. Così il servizio regionale dell' Ares 118 ne ha cercata in automatico un' altra disponibile e la più vicina era a Montelanico, paese che dista una quindicina di chilometri. Questo spiega (in parte) perché sia arrivata dopo circa mezz' ora dalla chiamata, alcuni testimoni hanno parlato addirittura di 40 minuti. Tutto riportato agli atti dell' inchiesta e nell' ordinanza del gip. Nessuno chiama D' altra parte, le chiamate al 112 sono state più di una, ma hanno un dettaglio in comune: sono arrivate tutte dopo che l' allarme era già scattato. Cioè dopo che il maresciallo dei carabinieri di Colleferro, Antonio Carella, svegliato dalla moglie che aveva sentito le urla dei ragazzi, è sceso in strada a soccorrere Willy. Il militare è il primo a segnalare quello che è successo sotto le sue finestre. Perché la caserma è letteralmente attaccata ai giardinetti, a 100 metri dal municipio, non proprio un luogo isolato. Comunque, quando il maresciallo Carella si avvicina a Willy, verifica le sue condizioni e telefona ai colleghi, non è solo. Intorno a lui ci sono almeno venti persone. Chi è stato coinvolto in qualche modo nella rissa, chi ha assistito al pestaggio da lontano, chi è arrivato subito dopo sentendo le urla. Sono tutti lì, guardano, qualcuno scatta fotografie o gira video, ma ancora nessuno ha chiamato i soccorsi. Come impietriti di fronte a tanta violenza, o forse impauriti all' idea di denunciare gli autori, che più di uno ha riconosciuto. Soccorso non previsto Fatto sta che passano minuti preziosi, in cui Willy resta a terra, a meno di 300 metri dal Pronto soccorso. Dal momento in cui i fratelli Bianchi risalgono in macchina e scappano in direzione Artena all' arrivo del carabiniere. E poi da quando (finalmente) arriva la chiamata al 118 a quando l' ambulanza, partita da Montelanico, si materializza in Largo Oberdan. Secondo alcune testimonianze, nella mezz' ora di attesa disperata qualcuno brucia di corsa questi 250 metri, raggiunge l' ospedale e chiede l' intervento dei medici. Ma un soccorso del genere non è previsto dalla legge e dalle procedure sanitarie. Anche se sono solamente 250 metri, anche se il paziente è in pericolo di vita. E così nessun medico o infermiere si può muovere per andare da Willy. Difficile dire se questa catena di esitazioni e ritardi sia stata determinante per aggravare le condizioni del 21enne e renderle non più recuperabili. L' autopsia ha descritto un quadro drammatico, riscontrando traumi ovunque sul suo corpo martoriato: sul volto, sul collo, poi addome e torace, i colpi risultati fatali. L' altare spontaneo Certo è che, quando finalmente lo portano all' ospedale di Colleferro, circa 50 minuti dopo il pestaggio, Willy è già in fin di vita, praticamente in arresto cardiaco. I medici del Pronto soccorso capiscono subito che salvarlo non sarà possibile. Nel frattempo, però, hanno altri pazienti in attesa di essere visitati: alcuni dei ragazzi coinvolti nella rissa, con traumi e contusioni di entità molto minore. Sono arrivati da soli, con la loro macchina o a piedi. «Incredibile che lui sia rimasto qui agonizzante a due passi dall' ospedale», ammette Franco, napoletano trapiantato a Colleferro per lavoro. È fermo davanti all' altare spontaneo cresciuto in questi giorni nei giardini della tragedia: candele e fiori per Willy, maglie e sciarpe della Roma, preghiere e disegni di bambini. Su un cartello c' è scritto «Sei il nostro eroe», su un biglietto lasciato aperto nell' erba si legge «grazie per il tuo coraggio, per non esserti girato dall' altra parte». Testimonianze del passaggio di centinaia di persone, da tutti i paesi della zona. Sul muretto, lungo la strada, è stato appeso uno striscione che chiede «giustizia per Willy». Risalendo i 250 metri più amari di questa storia, all' entrata dell' ospedale, c' è una statua di Padre Pio e una sua frase incisa: «Ogni ammalato soffre, stiamogli vicino con il cuore».

Willy si poteva salvare? L'aggressione e i soccorsi: ecco cos'è successo. Le Iene News l'11 settembre 2020. La ricostruzione momento per momento dell’aggressione del 21enne Willy Monteiro Duarte. E una domanda: si poteva salvare? È stato pestato a 250 metri dal Pronto Soccorso ma l’ambulanza ci ha messo 40 minuti ad arrivare. Non solo, Willy è stato picchiato a 15 metri dalla caserma dei carabinieri. Abbiamo contattato il comandante di compagnia di Colleferro, Ettore Pagnano, che ci ha raccontato cosa è accaduto. Contestato intanto ai 4 arrestati l'omicidio volontario

Willy Monteiro Duarte poteva essere salvato? Ci sono stati ritardi nei soccorsi? Ce lo chiediamo alla luce di tutta una serie di documenti, immagini, testimonianze e racconti.

«La ricostruzione di quello che è avvenuto sabato notte a Colleferro è ancora frammentaria con i 4 arrestati che continuano a rimpallarsi le responsabilità della morte del 21enne. Qualcosa tuttavia sta emergendo in queste ore, con ampi stralci riportati dagli organi di stampa dell’ordinanza del gip che conferma gli arresti dei 4 giovani (Marco e Grabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia). A tutti è stato contestato ora il reato di omicidio volontario (non più preterintenzionale), aggravato dai futili motivi. Tutto sarebbe iniziato attorno alle 3 di notte all’esterno del locale “Duedipicche” in Largo Santa Caterina, aColleferro, in provincia di Roma. La lite tra un gruppo di giovani di Paliano e uno di Artena, pare per un apprezzamento a tre ragazze del gruppo di Paliano, sarebbe degenerata a poche decine di metri dal locale all’interno di un giardino pubblico. Vi mostriamo, attraverso le mappe di Google Maps, i luoghi in cui sono avvenuti i tragici fatti. Nella prima mappa che vedete abbiamo evidenziato il locale vicino al quale tutto sarebbe iniziato, il “Duedipicche”. Accanto, nel cerchio piccolo, il luogo in cui inizia lo scontro tra i due gruppi. Quello che sarebbe accaduto fuori dal locale dopo alcuni apprezzamenti rivolti alle ragazze del gruppo di Paliano lo racconterebbero, anche se in modo ancora frammentario, le testimonianze riportate nell’ordinanza. Alcuni giovani del gruppo di Paliano avrebbero chiesto spiegazioni di quelle parole a Francesco Belleggia (l’unico dei 4 ora ai domiciliari), che in un primo momento sembra abbia ricomposto la lite. Un secondo amico delle ragazze offese sarebbe poi tornato da lui ricevendo all’improvviso un colpo. Accade sulle scale che dai locali portano sulla strada regionale 609, quelle indicate appunto dal cerchio piccolo. Da lì le cose sarebbero precipitate in modo irreversibile. Un giovane del gruppo di Artena avrebbe chiamato in soccorso per telefono i due fratelli Bianchi, che sarebbero arrivati sul luogo dell’omicidio con il loro Suv a rissa già in corso. I fatti accadono pochi metri più in là rispetto alla scalinata. Guardate questa nuova immagine satellitare: nel cerchio a sinistra c’è il luogo esatto in cui Willy è caduto, dopo che era intervenuto a difesa di un suo ex compagno di classe aggredito dal gruppo di Artena. Siamo all’interno di un giardino pubblico mentre nel cerchio più grande di destra c’è un edificio. Si tratta del retro della caserma dei carabinieri di Colleferro. La distanza tra i due punti è davvero minima, 10-15 metri al massimo. Ve lo mostriamo anche attraverso una fotografia che indica chiaramente l’estrema vicinanza tra i due luoghi. Ci ha contattato un giovane che dice di essere un amico di Willy e che parla anche di questa vicinanza di luoghi: “Vi sto scrivendo con le lacrime agli occhi, tra la notte di sabato e domenica il mio amico Willy ci ha lasciato”, dice il giovane, che parla di 5 aggressori, dando una versione dei fatti che ovviamente non è possibile al momento verificare. “Willy è stato assalito e picchiato a morte da 5 ragazzi di corporatura gigante e palestrati che erano il doppio di lui. Penso che nei suoi ultimi minuti di vita, preso da paura e dolore lancinante abbia urlato e cercato aiuto fino all'ultimo respiro: io non mi meraviglio della gente che non è intervenuta, conosco bene il mondo dove viviamo, ma mi spiegate come è possibile che tutto questo sia successo nemmeno a 10 metri di distanza dalla caserma dei carabinieri? Tutti devono sapere che se nel 2020 ti stanno picchiando a morte con calci e pugni, esattamente sotto la caserma, nessuno interverrà, nemmeno chi è pagato per farlo! C’è una vera e propria anarchia e tutto questo in piazza di fronte alla caserma”. Cercando sui social tra le centinaia di messaggi scritti dai ragazzi del posto sulle pagine che parlano di Willy, si trovano testimonianze simili, ovviamente anch’esse non confermabili. “Lo hanno ammazzato sotto le finestre della caserma”, scrive un utente. Una donna aggiunge: “Sono anni che ci lamentiamo che quella zona è buia e senza videocamera di sorveglianza. Già quando ero adolescente io, là succedeva di tutto! Abbattete quel rudere di bar che sono secoli che è abbandonato, fate luce in quella zona, altrimenti succederà ancora”. Su un altro post si legge: “Non capisco perché nessuno sia andato a chiamare i carabinieri dietro l'angolo”. In un altro messaggio, poi cancellato, una giovane sostiene addirittura che alcuni amici di Willy sarebbero corsi a citofonare in caserma, senza ricevere però risposta. Su chi sia davvero intervenuto per primo in soccorso di Willy, c’è il racconto del maresciallo dei carabinieri Antonio Carella, che al Corriere della Sera qualche giorno fa aveva parlato di una scena “tra le più cruente mai viste dei tanti anni passati in servizio”. Racconta di aver sentito per primo le grida dei ragazzi provenienti dalla strada precipitandosi immediatamente sul posto. Carella poi, una volta chiamati i soccorsi e raccolte le primissime testimonianze da parte di chi era con Willy, sarebbe andato con i colleghi ad Artena a cercare i fratelli Bianchi».

Iene.it ha contattato il comando dei carabinieri di Colleferro per chiedere delle gravissime insinuazioni sul mancato intervento e per farsi spiegare l’esatta dinamica dei soccorsi a Willy. E il comandante di compagnia di Colleferro, Ettore Pagnano, ha confermato il racconto del comandante di stazione, il maresciallo maggiore Carella.

“Smentisco in modo categorico che qualcuno sia venuto a citofonarci e che noi non abbiamo risposto. Anzi nessuna segnalazione ci è proprio giunta”, ci dice. “I soccorsi sono partiti dal nostro comandante di stazione, il maresciallo maggiore Carella. Era nel suo alloggio di servizio che affaccia proprio sui giardini dove è avvenuto il fatto quando ha sentito le urla. È sceso subito in strada e ha trovato la vittima già a terra con attorno una decina di amici, attivando immediatamente i soccorsi. L’aggressione in sé sarà durata un minuto, mentre da quando accade l’alterco tra i gruppi sarà passata al massimo una ventina di minuti. Nel gruppo di amici attorno a Willy c’è chi indica al comandante un’auto, quella di alcuni degli arrestati. Il comandante conosce i soggetti e dopo avere atteso l’arrivo dell’ambulanza si reca ad Artena, intercettando gli aggressori nei pressi di un bar. I militari sono in tre contro cinque e all’inizio si sceglie un approccio morbido in attesa delle pattuglie di rinforzo. Viene detto che sono lì per un controllo su un’auto, poi i giovani vengono portati in caserma”.

Il comandante Pagnano ci parla anche del luogo dell’aggressione: “C’era una telecamera che però girava a 360 gradi, mentre le nostre sono perimetrali, non inquadrano quell’area. I giardini erano bui non solo quella notte. Noi ci siamo attivati col comune in passato segnalando la cosa”. Quanti sono oggi gli indagati? “Cinque, ma il quinto non è stato interrogato, perché non abbiamo avuto elementi univoci che ci portino a collocarlo in un ruolo attivo rispetto ai fatti. Le indagini sono però ancora in corso e sono a 360 gradi”.

Anche sull’intervento dei sanitari resta aperta una fondamentale domanda: Willy è stato soccorso in ritardo? A quanto pare l’ambulanza sarebbe giunta sul luogo dell’aggressione dopo circa quaranta minuti dalla chiamata. Secondo quanto ricostruito da La Stampa, l’unica ambulanza di Colleferro sarebbe stata impiegata in un altro intervento. E così si sarebbe stato necessario chiamarne un’altra, la più vicina disponibile da Montelanico, che da Colleferro dista circa quindici chilometri. Questo dunque spiegherebbe il perché di quella lunga attesa, ma sembra sollevare anche un ulteriore interrogativo: non era possibile trasferire Willy in pronto soccorso con altri mezzi? Anche perché il luogo dove è avvenuta la rissa dista circa 250 metri in linea d’aria dal pronto soccorso di Colleferro. Lo potete vedere voi stessi in quest’ultima mappa, sempre tratta da Google Maps. I due cerchi indicano in alto il giardino in cui Willy ha trovato la morte e in basso il pronto soccorso. Non c’era davvero altro modo di portarlo là, considerati i tempi d’attesa per l’ambulanza e la vicinanza con l’ospedale? Su Iene.it ci siamo già occupati della tragica morte di Willy raccontandovi e mostrandovi il video dei combattimenti di MMA di Marco Bianchi, uno dei 4 giovani arrestati, i post scherzosi che Gabriele Bianchi aveva messo sulla sua pagina Fb poche ore dopo la morte di Willy, il video del campione di MMA Marvin Vettori che difende il suo sport dalle critiche,  il racconto dell’aggressione di Mario Pincarelli a un vigile urbano che gli aveva detto di mettere la mascherina e il post di un ex leghista che se l’è presa con Willy, la vittima, e che poi ha preso le distanze dal suo stesso commento.

Compagna di Gabriele Bianchi: “Io incinta, il mio pensiero va a Willy”. Notizie.it l'08/09/2020. “Aspetto un bambino e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c’è più”. Lo ha dichiarato la compagna di Gabriele Bianchi. Silvia Ladaga, compagna di Gabriele Bianchi, ha raccontato all’agenzia di stampa Adnkronos lo sconvolgimento che sta vivendo in questi giorni. La ragazza sta vivendo dei momenti difficili, non solo perché il compagno Gabriele Bianchi è stato messo in stato di arresto per l’accusa dell’omicidio del giovane Willy Monteiro Duarte di 21 anni, ma anche perché sta aspettando un bambino. “Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c’è più”, ha dichiarato Silvia Ladaga parlando di come il suo pensiero vada comunque a Willy prima vittima di questa vicenda. Silvia Ladaga oltre ad essere compagna di Gabriele Bianchi, è anche la figlia di Salvatore Ladaga che ricopre il ruolo di coordinatore storico di Forza Italia a Velletri. Silvia Ladaga ha raccontato ad Adnkronos come la vita sua e della sua famiglia sia stata sconvolta. La donna compagna di Gabriele Bianchi ed ex candidata alle regionali del Lazio di Forza Italia ha parlato in particolare di come dopo Willy “che non c’è più”, la seconda vittima della vicenda sia proprio la famiglia. “La giustizia farà il suo corso, la verità verrà fuori ma c’è un accanimento fortissimo verso le famiglie dei protagonisti di questa storia. La prima vittima di tutto questo è Willy che non c’è più e la sua famiglia. Poi ci siamo noi che non c’entriamo nulla e stiamo subendo minacce di morte pesantissime”. Parole forti che pesano e che vengono raccontate con la voce distrutta di una futura madre il cui pensiero va comunque ad una vita che è stata prematuramente spezzata.

Omicidio Willy, parla la fidanzata dell’aggressore: “Ricevo minacce”. Notizie.it il 09/09/2020. La fidanzata incinta dell'aggressore di Willy è stata minacciata. La fidanzata dell’aggressore di Willy,, Silvia Ladaga, ha raccontato di essere incinta e di essere stata minacciata. La ragazza di 28 anni è al quinto mese di gravidanza ed è molto conosciuta in paese. Ex candidata alle regionali con Forza Italia, è figlia di Salvatore Ladaga, coordinatore del partito a Velletri. La sua famiglia è molto in vista e molto conosciuta per l’attività politica. Tutti loro, dopo l’omicidio di Willy, stanno ricevendo moltissime minacce di morte. “Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c’è più. La giustizia farà il suo corso, la verità verrà fuori ma c’è un accanimento fortissimo verso le famiglie dei protagonisti di questa storia. La prima vittima di tutto questo è Willy che non c’è più e la sua famiglia. Poi ci siamo noi che non c’entriamo nulla e stiamo subendo minacce di morte pesantissime” ha spiegato Silvia Ladaga. La donna sta vivendo un momento davvero delicato e sta soffrendo tantissimo. Accanto a lei la sua famiglia, che la sostiene, e il papà che ha spiegato quello che è accaduto. “Silvia sta male. Fino a ieri era convinta di avere al suo fianco l’uomo della sua vita. Da una parte dico che le valutazioni andranno fatte a fatti accertati, è la mia cultura politica garantista a guidarmi. Dall’altra, il padre di mio nipote non doveva proprio starci a quell’ora di notte, con a casa una donna incinta al quinto mese e mezzo” ha commentato a Il Fatto Quotidiano Salvatore Lagada, aggiungendo che la cosa più importante è la salute della figlia e del nipote, per cui è disposto a prendersi carico di tutti gli insulti e le minacce che stanno arrivando. “Posso solo esprimere la mia vicinanza e il mio rammarico alla famiglia di Willy” ha aggiunto l’uomo. Le minacce che sta ricevendo Silvia, che non c’entra nulla con quanto accaduto, sono molto pesanti e toccano anche il suo bambino. Al dolore si aggiunge la paura in un momento così delicato.

Willy Monteiro, gli amici di Colleferro contro i fratelli Bianchi: "Tutti sapevano cosa facevano". Libero Quotidiano il 07 settembre 2020.  "Eravamo molto amici, frequentavamo da tempo la stessa comitiva. Ero lì davanti, l'ho visto morire. Non potrò mai togliermi la scena dalla testa, non respirava più". Parla Lorenzo, un amico di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso sabato notte a Colleferro nel corso di una rissa. "Tutto è stato molto veloce, sono rimasto vicino a lui per un'ora, forse meno. Quelli erano delle furie. Non ricordo molto bene. Sono ancora sotto choc, sono due giorni che non dormo e rivivo quei momenti. Queste cose non si dimenticano". Un altro amico di Willy, invece, parla anche dei due fratelli Bianchi responsabili della morte del ragazzo: "Li conoscevano tutti qui quei due fratelli. Da due anni litigano e picchiano con le stesse modalità, sono stati autori di altri pestaggi. Si poteva evitare".  Sul caso è intervenuto anche il vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella. "Siamo tutti corresponsabili". L'ennesimo atto di feroce e assurda violenza, cui non possiamo rassegnarci. Ucciso a calci e pugni da quattro coetanei, nostri condiocesani, durante una rissa di cui non conosciamo i motivi e a cui era molto probabilmente estraneo", ha sentenziato Apicella. 

ALESSIA MARANI per il Messaggero il 18 settembre 2020. Risse, pestaggi, armi e, soprattutto, la droga. L'arresto per i fratelli Bianchi era in canna da tempo ma non è mai scattato, rinviato per permettere ulteriori indagini, slittato a data da destinarsi. Se è vero che in molti non hanno denunciato, per paura, le botte e i soprusi subiti dalla cosiddetta banda di Artena, cioè la gang messa su da Gabriele e Marco Bianchi, ora in carcere per l'omicidio del ventunenne Willy Monteiro Duarte insieme con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, nel caso di chi ha avuto il coraggio di farlo o per quegli episodi cruenti per i quali la denuncia è partita d'ufficio, le richieste per assicurarli in carcere non sono andate a buon fine. Bloccate da richieste di ulteriori approfondimenti di inchiesta che hanno finito per prorogarsi oltre la morte di Willy.

IL BRANCO Insomma, il branco poteva essere fermato prima che si scagliasse con calci e pugni contro il giovane cuoco di origine capoverdiana, inerme, fino a ucciderlo. Anche perché altri giovani, massacrati di botte, avevano rischiato la stessa fine riportando lesioni importanti. Un tragico copione che si era ripetuto almeno altre tre o quattro volte davanti ad altri locali della movida e bar dei Castelli Romani. In un caso, il pestaggio di un 25enne di Lanuvio, colpito anche con un tirapugni, finito in ospedale con un mese di prognosi, sono già stati chiamati a risponderne in un'aula di tribunale, ma l'udienza è stata rimandata per Covid. La loro pericolosità e violenza era nota. Invece solamente adesso che Willy non c'è più, quegli stessi fascicoli fermi nella Procura di Velletri potrebbero ricevere un'accelerazione improvvisa e mettere a nudo le scorribande e i presunti giri di affari illeciti dei Bianchi il cui campo d'azione, tra il 2018 e il 2019, si concentrava soprattutto tra Lariano e Velletri. Giri d'affari criminali che motiverebbero l'alto tenore di vita ostentato dai Bianchi a dispetto della difficoltà di sussistenza dichiarata dal loro capo famiglia, Ruggero, il padre, che aveva richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza. Un beneficio percepito «indebitamente» secondo la Guardia di Finanza di Colleferro che, dopo accertamenti, ha inviato all'Inps una segnalazione per la revoca e una denuncia per reati fiscali. Sia la famiglie Bianchi che quelle di Pincarelli e Belleggia, godendone, avrebbero «omesso di indicare nelle autocertificazioni compilate dati dovuti, creandosi in tal modo le condizioni per accedere al beneficio». In totale, dovranno restituire i circa 30mila euro (28.747) ricevuti finora. Gli occhi degli investigatori sono puntati sui Bianchi da almeno due anni. Perché fin da giovanissimi i fratelli, insieme o separatamente, si erano distinti come picchiatori, protagonisti di zuffe più simili a spedizioni punitive che risse. Ci sono episodi che spiccano sugli altri, come quello avvenuto un'estate nel pieno centro di Velletri. È sempre notte, come nel caso di Willy, e i Bianchi si trovano sempre nei paraggi di uno dei locali più frequentati dal popolo della movida. Una parola di troppo, non è chiaro che cosa accenda la miccia, ma nel giro di pochi minuti un giovane romeno viene pestato a sangue, trascinato in un vicoletto tra piazza Garibaldi e Corso della Repubblica e abbandonato. Ha la mandibola fracassata, traumi cranici, più contusioni provocate da colpi ben assestati che solo esperti di boxe e arti marziali sanno dare, la sua prognosi è gravissima, circa sessanta giorni, due mesi. Poteva morire anche lui. Non solo non passa molto tempo che i Bianchi, esperti di Mma, arti marziali miste, vengono individuati tra i partecipanti a una rissa tra italiani e gente dell'Est, romeni e albanesi, davanti a una discoteca sull'Appia Sud, sempre a Velletri. All'inizio fuggono, poi vengono rintracciati. L'elenco dei pestaggi è lungo, nel maggio del 2018 Marco annovera anche una denuncia per stupefacenti. Il sospetto è che anche loro possano essersi trovati un ruolo nel traffico di droga che arriva da Roma, spartito tra pusher locali e bande albanesi. I Bianchi negli ultimi due anni spadroneggiano e conquistano potere e rispetto in pieno stile Casamonica: mesi fa si presentano da un meccanico, gli chiedono di apportare delle modifiche al loro Suv, di renderlo più potente. Lui esegue il lavoro, loro pagano ma poi, dopo qualche giorno, ritornano: «Non siamo soddisfatti» e l'artigiano è costretto a restituire la somma. Nel frattempo la famiglia apre locali e negozi, tira su una villa hollywoodiana con tanto di telecamere, palme e statue di leoni, e incassa pure il reddito di cittadinanza. Ma il carcere non arriva, nessun gip prima della morte di Willy ha messo la firma.

Curriculum horror dei Bianchi. Perché nessuno li ha fermati? Sui fratelli Bianchi, in carcere per l'omicidio di Willy, pendevano già denunce per risse e pestaggi. Ma l'arresto non è mai partito. Martina Piumatti, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Willy non sarebbe stato il primo. Le risse, i pestaggi, le botte e i soprusi commessi dalla cosiddetta banda di Artena erano noti da almeno due anni. La gang dei fratelli Bianchi, ora in carcere per l'omicidio del ventunenne Willy Monteiro Duarte insieme con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, era già nel mirino delle forze dell'ordine. Ma nonostante le denunce partite d'ufficio l'arresto non è mai scattato. Prima a causa pandemia, poi bloccato da iprorogabili necessità di ulteriori approfondimenti d'inchiesta. Finché ripetendo il copione di sempre questa volta ci è scappato il morto. Sì, perché il branco di picchiatori di Artena ci era andato vicino già almeno tre o quattro volte. Sempre davanti a locali della movida dei Castelli Romani. Sempre lì, tra Lariano e Velletri, dove altri giovani, massacrati di botte, avevano rischiato di fare la stessa fine di Willy. In un caso, il pestaggio di un 25enne di Lanuvio, colpito anche con un tirapugni, finito in ospedale con un mese di prognosi, sono stati chiamati a risponderne in un'aula di tribunale. Però, poi, l'udienza viene rimandata per Covid. Non solo. Un'estate nel pieno centro di Velletri. È notte fonda, come nel caso di Willy, e i Bianchi si trovano fuori da un locale molto frequentato dai giovani della zona. Ad un tratto qualcosa va storto. Forse una parola di troppo, un gesto di sfida. Nel giro di pochi minuti un ragazzo romeno viene pestato a sangue, trascinato in un vicoletto tra piazza Garibaldi e Corso della Repubblica e abbandonato con la mandibola sfasciata. Trauma cranico, contusioni, fratture e se la cava con due mesi di prognosi. Ma le forze dell'ordine non intervengono e la giustizia si arena. Ancora una volta. Passano solo pochi mesi. Marco e Gabriele Bianchi continuano le loro scorribande sui Castelli Romani, tra droga, armi, locali, macchinoni, ville con palme, statue di leoni in stile Casamonica e risse. Soprattutto pestaggi simili a vere e proprie spedizioni punitive. Vengono individuati anche tra i partecipanti a una lite violenta tra italiani e gente dell'Est, romeni e albanesi, davanti a una discoteca sull'Appia Sud, sempre a Velletri. Prima fuggono, poi vengono rintracciati. Anche qui il carcere non arriva. L'elenco dei pestaggi è lungo e la loro pericolosità era nota da almeno due anni. Nel maggio 2018 per Marco, il più giovane dei fratelli Bianchi, scatta anche una denuncia per stupefacenti con il sospetto di un ruolo chiave nel traffico di droga proveniente dalla Capitale, spartito tra pusher locali e bande albanesi. Ma, solo ora che c'è scappato il morto, la procura di Velletri finalmente sembrerebbe decisa a fare luce sui reati e i presunti giri d'affari opachi dei Bianchi. Per ora la guardia di Finanza, in seguito agli accertamenti svolti sul reddito di cittadinanza percepito dai familiari dei fratelli Bianchi, di Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, avrebbe chiesto ai magistrati un sequestro di beni per un totale di 28mila euro. La stessa cifra che, secondo gli inquirenti, avrebbero indebitamente percepito omettendo di indicare tutte le informazioni dovute. Da lì sono scattate le denunce per violazione della legge sul reddito di cittadinanza e la segnalazione all’Inps per il recupero delle somme dovute. Mentre per Willy è ormai troppo tardi.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte. I fratelli Bianchi, il tirapugni e quegli allarmi ignorati dalle forze dell'ordine. Storia di un delitto che si doveva evitare. Pubblicato giovedì, 17 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it. Gli elementi per ritenere che i "gemelli" potessero rappresentare un problema per la sicurezza e l'ordine pubblico c'erano tutti. E da tempo. Eppure le denunce e i processi non li hanno fermati. Prima di Willy, i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, appassionati di arti marziali, palestrati e tatuati, talmente simili da essere chiamati "i Gemelli",  avevano già massacrato di botte un giovane. Utilizzando, nel pestaggio, anche un tirapugni. Una vicenda denunciata, oggetto di indagini e  - emerge solo ora - da tempo al centro  di un processo davanti al Tribunale di Velletri (l'ultima udienza era stata rinviata per l'emergenza Covid). All'alba di domenica 6 settembre, quando sono stati arrestati con l'accusa di aver ucciso a calci e pugni il 21enne Willy Monteiro Duarte, di Paliano, i fratelli Bianchi erano dei semisconosciuti per i più. Ma non per i carabinieri di Colleferro e Velletri che su di loro avevano un dossier pieno di denunce collezionate nell'arco di due anni, sempre per pestaggi del tutto simili e vicende di droga. Il gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, disponendo per i quattro le misure cautelari, ha specificato che Gabriele aveva tre precedenti, per lesioni e detenzioni di armi, e Marco cinque. Tutti per lesioni. Ora emerge però che nel passato dei due c'è molto, molto di più. Tanto Marco quanto Gabriele erano infatti già stati accusati e imputati per aver massacrato di botte insieme a un terzo soggetto non identificato, utilizzando pure un tirapugni, un 25enne di Lanuvio. Un'arma che proprio Marco avrebbe portato "senza giustificato motivo in luogo pubblico". Era il 14 gennaio 2018 e a Velletri la vittima fu più fortunata di Willy e se la cavò con un mese di prognosi. Trascorsi appena quattro mesi, il 3 maggio dello stesso anno, sempre a Velletri, ecco che Marco, insieme ad altre cinque persone, finisce nei guai per una rissa fuori da un locale. Anche qui è tutto agli atti. Si tratta della vicenda per cui venne arrestato e subito scarcerato. Ad avere la peggio due coimputati, Federico Luciani, ventenne del posto, e un 22enne di nazionalità marocchina, Ibrahim Chadli, anche lui residente a Velletri. Anche in quel caso  venne utilizzato pure un "corpo contundente". In quella rissa  era coinvolto ed è anche lui imputato Fabio Bianchi, il fratello maggiore dei due arrestati. Lo stesso che il quarto fratello, Alessandro, titolare del bistrot dove si era riunita la banda dopo il massacro di Willy, ha dichiarato essere impegnato insieme a lui a cercare di tenere lontani dalla cattiva strada i fratelli minori. A guardare con più attenzione al passato dei "Gemelli" si trova pure una condanna incassata in primo grado da Gabriele Bianchi. Il 24 febbraio scorso il 26enne, che prima della tragedia di Colleferro aveva aperto una frutteria a Cori, era stato infatti condannato dal giudice del Tribunale di Velletri, Ramona Bruognolo, a mille euro di ammenda per essere stato trovato il 31 gennaio 2017 ad Artena, in via della Resistenza, con un taglierino con una lama retrattile di sei centimetri, tenuto dentro il vano porta oggetti di un'Audi station wagon. Insomma, gli elementi per ritenere che i fratelli potessero rappresentare un problema per la sicurezza e l'ordine pubblico c'erano tutti. E da tempo. Eppure le denunce e i processi non li hanno fermati. Per continuare le loro scorribande, ai due è bastato spostarsi da Velletri a Colleferro insieme a tutta la banda.

Alessia Marani e Valentina Errante per "Il Messaggero" il 20 settembre 2020. Dovrà presentarsi in aula giovedì prossimo Marco Bianchi, uno dei due fratelli indagati per l'omicidio volontario di Willy Monteiro Duarte. Imputato per la prima volta. L'accusa lesioni gravi. Il primo maggio del 2018, quando avrebbe pestato un ragazzo bengalese, non era però insieme a Gabriele e non c'erano neppure Francesco Pincarelli e a Mario Belleggia, che la notte tra il 5 e il 6 settembre erano in via Buozzi, a Colleferro, dove Willy è stato massacrato con calci e pugni. Con Bianchi, due anni fa, c'erano altri amici, adesso imputati come lui. Anche in quel caso il branco avrebbe picchiato duro. Tanto da finire a processo con l'accusa di lesioni gravi. Un reato, che è ipotizzabile quando la prognosi dei medici superi i 20 giorni e per il quale si procede d'ufficio, cioè senza denuncia. OMERTÀ Difficile, altrimenti, che qualcuno, tra Colleferro e Artena, dove la prepotenza e l'arroganza dei due fratelli, esperti di arti marziali era nota, denunciasse. Probabilmente Bianchi, detenuto a Rebibbia, rinuncerà a prendere parte al processo. Le indagini sugli altri pestaggi, nei quali invece sono coinvolti entrambi i fratelli sono ancora in corso. Mentre emergono altri dettagli sul contesto violento che fa da sfondo a questa vicenda. Il padre di Pincarelli, finito a giudizio per estorsione, per esempio, era stato condannato prima che il figlio Mario nascesse, per avere appeso un uomo a una catena durante una attività di recupero crediti. I carabinieri, intanto, vanno avanti con le indagini. Nelle ultime settimane si sono aggiunte altre testimonianze per definire le responsabilità dei quattro indagati. Centrali sono le parole messe a verbale da Belleggia, che ha rotto il patto del silenzio e adesso si trova ai domiciliari. Mercoledì cominceranno gli esami irripetibili, affidati al Ris, sugli abiti degli indagati e sul Suv sequestrato ai Bianchi.

LE UDIENZE. La firma dei gip di Velletri a una ordinanza di custodia cautelare in carcere per i fratelli Bianchi non è mai arrivata prima della morte di Willy, eppure i due picchiatori di Artena, con conoscenze e affari concentrati fra Velletri e Lariano, hanno collezionato, una sfilza di procedimenti per cui sono stati o saranno chiamati a processo. La prima convocazione in aula è proprio tra pochi giorni, giovedì a Velletri, e riguarda il più piccolo dei due, Marco. Insieme con altre due persone avrebbe picchiato un uomo del Bangladesh per futili motivi. La prima convocazione era stata fissata al 26 giugno ma rimandata causa Covid. I fratelli Bianchi hanno pendenti, in tutto, altri sette fascicoli giudiziari. Il 13 aprile del 2019, avrebbero pestato di botte un indiano, anche per questa vittima la prognosi è stata superiore ai 20 giorni. In quell'occasione, secondo la ricostruzione, erano in auto con altri due ragazzi e, mentre sfrecciavano per le strade di Velletri, per poco non mettevano sotto un gruppo di indiani che stava attraversando la strada. «Ma siete pazzi?», aveva detto uno di quelli che aveva appena scampato il pericolo e allora i fratelli Bianchi erano scesi dall'auto e avevano iniziato ad accanirsi su l'uomo che aveva osato protestare, causandogli lesioni importanti. L'udienza per il pestaggio dello straniero, per lesioni aggravate dai futili motivi, che vede coinvolto anche Gabriele, è programmata per il 14 maggio 2021. E, sempre per lesioni volontarie (fatti accaduti nel gennaio 2018), i fratelli sono stati convocati in tribunale anche il 19 maggio del 2021. Marco, per un altro episodio di lesioni volontarie avvenuto a Velletri nel 2016, sarà in aula il 15 gennaio. Mentre Gabriele, per una denuncia per detenzione illegale di arma impropria, contestata nel 2017, ha già dovuto pagare un'ammenda di mille euro. IL VIDEO Intanto spunta un video, pubblicato in esclusiva da Le Iene e girato in auto dagli stessi Bianchi poche ore prima dell'omicidio di Willy. Si tratta di due storie Instagram di Gabriele, pubblicate intorno alla mezzanotte di sabato 5 settembre: musica raggae ton ad alto volume, nelle immagini, girate in auto, sembrano intravedersi Vittorio Tondinelli, indagato per favoreggiamento, e due donne. I fratelli passano davanti al bistrot di famiglia ad Artena. La macchina rallenta, uno dei Bianchi urla a un ragazzo: «Già sai, e se non sai». L'altro replica: «Saprai!». Bianchi risponde: «Piace fratello!».

Da radiocusanocampus.it il 21 settembre 2020. Valerio De Gioia, giudice del Tribunale di Roma, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. I fratelli bianchi, accusati dell’omicidio di Willy Monteiro, avrebbero una serie di fascicoli aperti per spaccio, percosse e rissa. “La misura cautelare non viene applicata per qualsiasi tipologia di reato –ha spiegato De Goia-. Per i reati meno importanti il giudice non può dare misure cautelari. Se dovesse essere vero che ci sono dei procedimenti per rissa e anche spaccio, non sono ipotesi che possono portare a misure cautelari, anche perché il giudice deve accertare l’esistenza di esigenze cautelari. Questo spiega il motivo per cui non ci sono state misure cautelari. Forse c’era una strada che poteva essere eseguita: le cosiddette misure di prevenzione, che sono misure meno importanti e non sono legate necessariamente alla commissione di reato. Sono dette misure di polizia, per le quali tu sei in qualche modo sorvegliato. Per alcune ipotesi di reato, per esempio di violenza domestica, c’è una sorta di ammonizione che viene data per cui se vieni poi segnalato per lo stesso reato ci sono dei provvedimenti più severi. Bisognerebbe aumentare le fattispecie per le misure di prevenzione e anche aggiornarle, ad esempio impedire di accedere ai social”.

Colleferro, gli amici di Willy accusano: "Tutti sapevano che erano violenti, erano delle furie". Vescovo: "Siamo corresponsabili".  "Non si può morire così" raccontano sconvolti i ragazzi che erano col 21enne durante il pestaggio. "Tutti conoscevano il branco, da anni litigano con tutti qui in paese". La Regione Lazio sosterrà le spese legali mentre il sindaco si farà carico del funerale. Giovedì l'interrogatorio di garanzia. La Repubblica il 07 settembre 2020. "Eravamo molto amici, frequentavamo da tempo la stessa comitiva. Ero lì davanti, l'ho visto morire. Non potrò mai togliermi la scena dalla testa, non respirava più". E' il racconto di Lorenzo, un amico di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso sabato notte a Colleferro (cittadina a un'ora da Roma) nel corso di una rissa, che è rimasto accanto al giovane durante i suoi ultimi istanti di vita. "E' stato tutto molto veloce - aggiunge - sono rimasto vicino a lui per un'ora, forse meno. Quelli erano delle furie. Non ricordo molto bene. Sono ancora sotto choc, sono due giorni che non dormo e rivivo quei momenti". "Willy qui lo conoscevano tutti. Un ragazzo solare, silenzioso, buono, non avrebbe mai fatto male ad una mosca. Una tragedia incredibile", concluse Lorenzo. Ma conoscevano tutti anche quei due fratelli, sapevano tutti della loro passione per le arti marziali, in particolare per l'MMa, una disciplina particolarmente violenta a base di pugni e calci. Sapevano tutti della loro ostentazione di muscoli e tatuaggi, del culto della forza e la convinzione di essere invincibili. "Da due anni litigano e  picchiano con le stesse modalità, sono stati autori di altri pestaggi". Racconta Alessandro, un altro amico di Willy. "Con uno di loro ho litigato pochi mesi fa perché dava fastidio a un mio amico - aggiunge - La rabbia  è che non è la prima volta che fanno così. Si poteva evitare". Una maglietta della Roma con su scritto "Grazie Willy gli eroi non muoiono mai", una targa "Ciao Angelo mio" e decine di di mazzi di fiori a Colleferro sul luogo in cui è stato picchiato a morte due notti fa il 21enne Willy Monteiro Duarte. Un pellegrinaggio silenzioso di amici e conoscenti. Alle 12 nella vicina piazza Italia, a pochi metri di distanza, c'è stato un minuto di silenzio in memoria del ragazzo con il sindaco di Colleferro Pierluigi Sanna che oggi ha proclamato il lutto cittadino. "Non si è trattato di una semplice rissa, ma di qualcosa di più cruento, cui in nessun modo si può trovare una giustificazione" ha detto il sindaco.

Giovedì l'interrogatorio di garanzia. Si svolgerà giovedì davanti al gip di Vellletri  l'interrogatorio di convalida dell'arresto dei quattro giovani. Mario Pincarelli, Francesco Belleggia, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi devono rispondere il concorso in omicidio preterintenzionale. I quattro si trovano nel carcere di Rebibbia. La Procura ha inoltre affidato l'incarico per l'autopsia sul corpo del giovane che verrà effettuata nelle prossime ore. Al momento si escludono i motivi razziali o politici.

La Regione: "Sosterremo tutte le spese legali". "Abbiamo deciso di proclamare la giornata di lutto cittadino il giorno in cui si svolgerà il funerale del nostro Willy. Comunicherò successivamente le modalità. Come amministrazione sosterremo tutte le spese del funerale". annuncia  su Facebook il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri. "Siamo in continuo contatto con il presidente del Consiglio regionale, Mauro Buschini, e il vicepresidente della Regione, Daniele Leodori, per sostenere le spese legali che dovrà affrontare la famiglia nel lungo processo giudiziario che ci aspetta- continua Alfieri- ringrazio anticipatamente la Regione per la sensibilità mostrata". "Come amministrazione stiamo valutando se è possibile costituirci parte civile al processo. Se sì lo faremo- conclude Alfieri- nessuno sarà lasciato solo". E Zingaretti annuncia: "Intitoleremo un istituto alberghiero al povero Willy".

Il vescovo: "Siamo tutti corresponsabili". "Siamo tutti corresponsabili", "seduti su una polveriera che può esplodere" da un momento all'altro. E' la denuncia del vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella, a proposito della morte di Willy. "L'ennesimo atto di feroce e assurda violenza, cui non possiamo rassegnarci - dice il presule -ucciso a calci e pugni da quattro coetanei, nostri condiocesani, durante una rissa di cui non conosciamo i motivi e a cui era molto probabilmente estraneo. "Da dove provengono i virus della prepotenza, della violenza, della vigliaccheria, del disprezzo della vita, della stupidità che generano queste tragedie e gettano nella disperazione intere famiglie e comunità? Siamo quotidianamente seduti su una polveriera, che può esplodere improvvisamente e di cui non abbiamo consapevolezza". Apicella si rivolge alle famiglie, alla Chiesa, alla scuola, alle istituzioni "perché siano partecipi di quella fondamentale e indispensabile opera di civiltà che si chiama educazione e che va rivolta a tutti, anche agli adulti". E chiede ai parroci di diffondere il messaggio nella prossima messa domenicale.

Colleferro, Conte: Sono rimasto scioccato, ho sentito ieri genitori. (LaPresse l'8 settembre 2020) - "Ieri sono rimasto fortemente colpito, direi scioccato. Ho preferito parlare prima con i genitori del ragazzo, l'ho fatto in punta di piedi perché tenevo in un momento di estremo dolore a non essere invasivo. Ho trovato in particolare un papà affranto, sopraffatto da tutta questa angoscia. Non spetta a me la valutazione giudiziaria. Io non mi sento nemmeno di chiedere una punizione esemplare. Affido ai giudici il compito di accertare e stabilire le giuste condanne". Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in un punto stampa a Beirut. "Quello che voglio dire è fermiamoci un attimo a riflettere, che messaggio trasmettiamo ai nostri ragazzi? Dagli accertamenti Willy si è permesso solo di intervenire per sedare un litigio. Quale violenza si è scatenata? Interroghiamoci".

"L'Arancia meccanica" dei Bianchi: così terrorizzavano Colleferro. I due fratelli hanno diversi precedenti: per rissa, lesioni, porto d’armi e sostanze stupefacenti. Obbligavano gli altri a spostare le auto per parcheggiare il loro Suv. Valentina Dardari, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale. I fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, seminavano terrore ancor prima di arrivare. In soli due anni sono riusciti a collezionare nove denunce. Diversi i precedenti a loro carico, per lesioni, porto d’armi, droga e rissa. E adesso anche l’accusa di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato di botte e ucciso la notte dello scorso 5 settembre. Con loro sono stati arrestati anche Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Quest’ultimo è l’unico del gruppo a cui sono stati concessi i domiciliari, dopo aver svelato il patto del silenzio deciso in auto subito dopo la morte della giovane vittima. “Sono venuti, hanno fatto casino, hanno ruttato e sono ripartiti, sgommando col Suv. Come cani che hanno appena pisciato su un territorio” queste le parole riportate da Repubblica e pronunciate da Stefano Sorci, il gestore del pub “Macellerie Sociali” a Giulianello, riferite ai fratelli Bianchi. Chiare ed esplicative. Da questa descrizione si ha già un’idea dei soggetti. Due anni di violenza e risse, con tanto di disprezzo delle regole, anche quelle del pugilato, delle arti marziali, e persino anti-Covid. Già, perché tutte le denunce a loro carico sono state collezionate negli ultimi due anni. Tutto quello che avevano imparato sul ring lo hanno rifatto in strada, contro tutto e tutti. Mosse da karate usate come offesa e non, come invece la disciplina orientale insegna, come difesa. Mario Bianchi, il minore, si è fatto conoscere alle forze dell’ordine il 5 maggio del 2018 in una rissa degenerata per futili motivi. Tutti i protagonisti arrestati. Ma dopo poche ore già liberi di tornare a seminare terrore e fare danni. Anche l’ultimo tragico litigio era iniziato per un futile motivo ed è poi terminato con la morte di Willy. Poi ecco arrivare altre due denunce, per spaccio di droghe pesanti una, violazione amministrativa l’altra: girava in città in pieno lockdown senza un motivo plausibile. Il fratello maggiore di Marco, Gabriele Bianchi, di anni 26, ha invece al suo attivo 4 denunce. Per lui un episodio di minacce, lesioni, stupefacenti e porto abusivo di oggetto atto ad offendere. Secondo i testimoni che erano presenti la notte del 5 settembre, sarebbe stato proprio Gabriele ad assalire per primo il 21enne. Poi il fratello e Mario Pincarelli. Quest’ultimo, lo scorso 21 agosto aveva aggredito e insultato un vigile urbano solo perché gli aveva chiesto di indossare la mascherina. Il gruppo fa la forza. Erano soliti entrare nei locali e chiedere con fare da sbruffoni spavaldi: “Chi è che comanda qua?”. A volte avrebbero anche obbligato qualcuno a spostare la propria vettura per fare posto al loro Suv. Fatto strano, a loro carico non risultano al momento condanne. Soprannominati “i gemelli di Artena”, perché molto simili anche fisicamente, i fratelli Bianchi sono stati bravissimi a incutere il terrore nelle loro vittime. Tanto da non essere mai stati denunciati. Loro picchiano e impongono il silenzio. “Altrimenti la prossima volta è peggio”. Perfino un giovane giocatore di baseball di Colleferro, che a suo dire è stato picchiato da uno dei due, non ha mai avuto il coraggio di andare dalle forze dell’ordine. Li ha accomunati ai Casamonica e sanno dove abita.

Alberto Dandolo per Dagospia il 14 settembre 2020. Inutile negarlo, i fratelli Bianchi hanno suscitato oltre che sdegno e orrore anche una certa curiosità per la loro fissazione per il fisico e per il look, tra sopracciglia più curate di una diva, addominali scolpiti e costumini sempre arrotolati per mostrare il muscolo levigato e depilato. Non è un caso se nella Milano della notte qualcuno li ricordi distintamente in occasione di certe gite che dalla provincia romana li spingevano fin nella capitale amorale. Pare che si muovessero sempre accompagnati da affascinanti femminone. Che poi fossero femminone anche nel loro certificato di nascita, questo le nostre fonti non lo possono giurare. Di sicuro, la loro fame di denaro non si esauriva con lo spaccio, ma pare venisse placata anche attraverso ad altre attività al limite della legalità e oltre il limite del piacere. Un piacere di coppia ma anche di gruppo, oltre i confini del genere. Non è un caso se la notte dell'omicidio di Willy i due fossero impegnati in amplessi di gruppo al cimitero, come confermato da fonti investigative. La domanda che molti si sono fatti è: se questi maschioni sempre impegnati a ribadire pubblicamente la loro virilità (la violenza espressa spesso nasconde qualcos'altro di represso), come mai si nascondevano in un cimitero per fare sesso? I mezzi per affittare uno scannatoio non gli mancavano: viaggiavano su una Audi Q7, prezzo di partenza 75mila euro. Solo che un pied-a-terre a Colleferro o Artena sarebbe stato esposto a occhi indiscreti, soprattutto per il genere di compagnia che i fratelli avevano scelto nelle loro notti proibite e annaffiate da polverine di vario tipo. Il buio e il silenzio del cimitero sono perfetti per nascondere certi segreti inconfessabili…

Fabio Tonacci per la Repubblica il 14 settembre 2020. «Sono venuti, hanno fatto casino, hanno ruttato e sono ripartiti, sgommando col Suv. Come cani che hanno appena pisciato su un territorio ». La sintesi fulminante di Stefano Sorci, gestore del pub "Macellerie Sociali" a Giulianello, contiene anche la metafora migliore per raccontare i fratelli Bianchi, i loro compari artenesi e una stagione di ultraviolenza che andava avanti da due anni. Con la prepotenza coatta dei fisici scolpiti dall' Mma, le risse, lo spaccio, il disprezzo delle regole della convivenza civile (comprese quelle anti-Covid) hanno marcato il territorio a ridosso dei Castelli Romani, lungo la provinciale 600 che collega Velletri, Lariano, Artena e Colleferro. Un pezzo di agro laziale a sud di Roma dove viveva anche Willy Monteiro Duarte, pestato a morte la notte del 5 settembre. Andando a consultare il certificato dei carichi pendenti e la lista dei precedenti di polizia di Gabriele e Marco Bianchi, arrestati insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia con l' accusa di omicidio volontario, si scopre che le nove denunce a carico dei fratelli sono concentrate negli ultimi due anni. Come se avessero deciso, all' improvviso e contemporaneamente, che era venuto il momento di usare in strada ciò che il loro maestro di Mma gli aveva insegnato in palestra. Che quei pugni e quei calci portati con precisione chirurgica e violenza ferina, insomma, potevano diventare armi di offesa anche fuori dal ring. È con una rissa davanti a un pub di Velletri, il 5 maggio del 2018, che Marco Bianchi, classe 1996, fa il suo esordio nella cronaca giudiziaria. Sono coinvolti in sei, tutti arrestati. «Litigio scoppiato per futili motivi», scrive il gip che li scarcera dopo una manciata di ore, e il pensiero torna ancora a Willy, pure lui vittima della brutalità eccitata da motivi futili. Dopo Velletri, il campione di Mma colleziona tra Lariano e Artena altre due denunce per lesioni, una per spaccio di droghe pesanti e una violazione amministrativa: lo beccano a girare per strada in pieno lockdown senza una motivazione plausibile. Non sta certo andando a lavorare, è disoccupato, nonostante su Facebook ostenti orologi, moto e un tenore di vita superiore al livello che il suo reddito permetterebbe. Appena meno lunga la lista dei precedenti di polizia, quattro, accumulati nello stesso periodo dal 26enne Gabriele Bianchi: un episodio di minacce, lesioni, stupefacenti e anche porto abusivo di "oggetto atto ad offendere". Si tratterebbe di una lama, di piccole dimensioni, comunque pericolosa. I testimoni che sono a Colleferro il 5 settembre scorso lo indicano come il primo assalitore di Willy, seguito dal fratello e da Mario Pincarelli. Già, Pincarelli. Il 21 agosto scorso getta a terra e ricopre di insulti un vigile urbano di Artena, "reo" di avergli ricordato l' uso obbligatorio della mascherina. Per dire. Quando sono in branco, gli artenesi devoti ai fratelli Bianchi sono così: spavaldi, rabbiosi, prevaricatori.«Chi è che comanda qua?», urlano, entrando in un locale nuovo quando c' è da colonizzarlo. «Ci tengo a dirti chi sono e devo capire chi sei tu». Il gergo del boss di provincia, l' insolenza del ras di quartiere. Talvolta li vedono costringere qualcuno a spostare la propria macchina, per far posto al loro Suv. Lo fanno sghignazzando, spintonando e umiliando. A loro carico non risultano condanne. Le nove denunce, i due processi in corso e le istruttorie aperte in procura sono una fotografia comunque incompleta delle scorribande dei fratelli Bianchi, simili nel fisico e nella prepotenza tanto da essere chiamati "i gemelli di Artena": molti degli aggrediti, infatti, sono stati zitti. Perché i "gemelli" - stando ai racconti nei bar del paese - menano e poi ti ordinano di tenere la bocca chiusa. «Altrimenti la prossima volta è peggio». È stato zitto anche un giovane giocatore di baseball di Colleferro, che sostiene di essere stato pestato da uno dei due Bianchi ma di non avere avuto il coraggio di andare dai carabinieri. «Questi sono come i Casamonica», si giustifica. «Sanno dove abito...».

"Willy è stato ucciso in meno di un minuto". Le nuove testimonianze shock. Alcuni testimoni ha raccontato quella tragica notte. I fratelli Bianchi hanno paura di essere aggrediti dagli altri detenuti e chiedono l'isolamento. Valentina Dardari, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso in meno di un minuto. Sono bastati pochi secondi per porre fine alla vita del 21enne che si era messo in mezzo solo per aiutare un amico. Questo quanto emerso dalle ultime testimonianze raccolte dai carabinieri della caserma di Colleferro riguardo il pestaggio avvenuto lo scorso sabato e costato la vita al giovane.

Willy ucciso in pochi secondi. La rissa, finita poi in tragedia, si è svolta davanti al risto-pub “Duedipicche”. Accusati di omicidio volontario sono adesso i due fratelli Bianchi, Gabriele il maggiore, e Marco, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Quest’ultimo è l’unico ad aver avuto i domiciliari dopo che ha riferito del patto del silenzio avvenuto in auto. Secondo quanto emerso, Gabriele sarebbe stato il primo a picchiare Willy con calci e pugni. Poi Bianchi e Pincarelli, quando ormai il 21enne era già a terra. Anche Belleggia era presente alla rissa, alcuni testimoni lo avrebbero riconosciuto dal gesso al braccio, ma il suo ruolo non sarebbe ancora del tutto chiaro. Mancano inoltre dei filmati di interesse investigativo che potrebbero aiutare gli inquirenti nella ricostruzione di quanto avvenuto quella tragica notte. Fino a questo momento si sa che i quattro di Artena avrebbero affrontato Willy e il suo ex compagno di scuola, Samuele Cenciarelli. Il litigio sarebbe iniziato prima, all’interno del risto-pub, tra Belleggia e un ragazzo di Colleferro, Federico Zurma, per poi continuare all’esterno. Alcuni testimoni hanno raccontato che “quando il Suv dei Bianchi è sbucato all'improvviso sulla strada, c'è stato il fuggi fuggi generale. Willy e Samuele, che non li avevano mai visti e non conoscevano la loro fama di bulli, sono rimasti lì”. A bordo della vettura c’erano i fratelli Bianchi che, secondo quanto raccontato da loro stessi, erano stati chiamati poco prima mentre facevano sesso con ragazze sconosciute vicino al cimitero. Entrambi con precedenti penali per lesioni e porto d’armi abusivo. Il minore, Marco, un paio d’anni fa era già stato dietro le sbarre, per una rissa fuori da un locale. Quella volta però non era scappato il morto. Venerdì è stato il primo senza Willy. Sarà difficile per Colleferro e i ragazzi che frequentano la piazzetta riuscire a tornare alla normalità. Dimenticare impossibile, per cercare di andare avanti invece ci vorrà del tempo. Prima di portarlo in ospedale, un soccorritore avrebbe detto che il cuore del 21enne aveva un ritmo di tre battiti al minuto.

Le testimonianze di alcuni ragazzi. Come riportato da Il Fatto Quotidiano, verso le 23 di venerdì 11 settembre in largo Santa Caterina non ci sono molti ragazzi. Nonostante sia ancora estate e la temperatura sia piacevole. Situazione ben diversa rispetto a quella della tragica notte tra il 5 e il 6 settembre, quando vi erano così tanti giovani da non riuscire a camminare. E anche chi ha deciso di bere qualcosa lo fa con lo sguardo assente, ripensando forse a quel giorno di solo una settimana fa. Alcuni sono molto informati perché hanno recuperato notizie su giornali e televisioni. Altri conoscono bene i protagonisti della terribile storia e danno giudizi. Uno dei clienti abituali del bar ha raccontato: “Era una serata da paura, bella gente, belle bottiglie, pieno di belle ragazze e quando ci sono le ragazze, fino a tardi, vuol dire che stanno tranquille e si godono la nottata in serenità e invece quando stavamo ormai in chiusura, è successo quello che è successo". C’è anche chi ricorda di aver visto i fratelli Bianchi verso l’una di notte e che si sono fermati circa mezz’ora. Poi se ne sono andati e dopo le tre sono tornati e hanno inizato a picchiare chiunque, anche il povero Willy. Un ragazzo non crede che fossero realmente andati a fare sesso vicino al cimitero, come hanno raccontato ai pm, secondo lui erano a fare danni altrove. "Quando se ne sono andati da qua, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Invece so' tornati" ha aggiunto il giovane. Una ragazza parla del tempo impiegato dai soccorsi ad arrivare, un altro asserisce: "Il fatto è successo alle 3.23 ne sono sicuro. La prima telefonata è delle 3.25, sono arrivati alle 3.45, oltre 20 minuti". Precisione da orologio svizzero. C’è anche chi conosce Francesco Belleggia, l’unico dei fermati ad aver avuto i domiciliari. Viene descritto come un ragazzo d'oro, bravo, gentile, simpatico, buono, fino a qualche anno fa. Poi il Belleggia si è lasciato con la sua fidanzata storica, Martina, simile a Cameron Diaz, ed è cambiato completamente. Anche se sembra sia stato lui a decidere di rompere la loro storia. Da allora ha iniziato a frequentare soggetti poco raccomandabili. Nessuno però crede che quel ragazzo, il cui sogna era quello di entrare nell’Arma, possa aver toccato Willy. Alle due la zona si svuota. Il giorno dopo sarà pesante per tutti: verrà celebrato il funerale di un amico.

I picchiatori adesso hanno paura. In carcere a Rebibbia da ormai una settimana, i fratelli Bianchi avrebbero chiesto l’isolamento. Proprio loro, i tanto temuti picchiatori, adesso avrebbero paura di ritorsioni. Intanto per 14 giorni, secondo quanto previsto dalle norme anti-coronavirus, devono restare separati dagli altri detenuti per evitare possibili contagi. La direzione starebbe però pensando di prolungare il distanziamento. Altri reclusi potrebbero infatti aggredirli per il pestaggio e l’omicidio di Willy. Ci sono delle "regole" anche in carcere: donne e bambini non vanno toccati. Stefano Anastasia, il garante per i detenuti del Lazio, ha reso noto che “trascorse le due settimane di isolamento precauzionale per il Covid effettivamente si dovrà valutare una adeguata forma di isolamento cautelativo per impedire che i tre possano essere oggetto di attenzioni per così dire sgradite all'interno del carcere. L'uccisione di Willy Monteiro ha avuto una eco mediatica molto forte e ha impressionato gli italiani non solo quelli che sono a casa ma anche coloro che sono detenuti, serve attenzione. Al momento, comunque, ho avuto modo di verificare che questi giorni di detenzione stanno scorrendo senza anomalie”. Gli avvocati dei tre presunti assassini rinchiusi dietro le sbarre hanno infatti chiesto al giudice e ai vertici del Dap, la Penitenziaria, di tenere conto delle circostanze dell'arresto e dei rischi connessi. Al fine di tutelare l'incolumità dei loro assistiti "che hanno diritto a una giusta detenzione”. Il garante ha affermato che la situazione non è semplice perché i carceri sono già zeppi e di posti ce ne sono pochi, soprattutto a causa delle regole anti-Covid. Per questo motivo, su disposizione nazionale, in caso di reati non gravi vengono preferiti gli arresti domiciliari al carcere. I profili social dei presunti assassini sono da giorni pieni di frasi d’odio e minacce. Presi di mira anche i familiari e persone che non c’entrano nulla con i due fratelli. L’unica loro colpa è quella di avere lo stesso cognome degli indagati. Tra l’altro il nome Bianchi è uno dei più diffusi in Italia. E in questa faccenda così tragica, c'è una piccola luce. A poche ore dal funerale, la famiglia di Willy ha asserito di aver già perdonato gli assassini del ragazzo e di non cercare vendetta.

Omicidio di Willy, il racconto di un testimone: “Il primo a colpirlo è stato Gabriele Bianchi con un calcio in pieno petto". Le Iene News il 18 settembre 2020. Iene.it raccoglie il racconto di un giovane, tra i primi a essere sentito dai carabinieri, che dice di aver raccolto le confidenze di altri amici di Willy presenti quella notte: “Il primo a colpire Willy è stato Gabriele Bianchi, con un calcio in pieno petto e un pugno alla tempia. Poi gli altri hanno infierito mentre era a terra”. Sono passati 12 giorni da quella tragica notte a Colleferro, quando il 21enne Willy Monteiro Duarte è morto dopo un brutale pestaggio, per aver voluto difendere un amico. Sulle dinamiche di quanto accaduto. Iene.it ha raccolto la testimonianza di un giovane della zona, che afferma di conoscere tutti i protagonisti di questa vicenda. A partire da Willy: “Lo conoscevo, frequentava una palestra che anche io frequento. Hai visto le cose belle che dicono di lui nei post su Facebook? Di solito queste cose si dicono di una persona solo dopo che è morta, ma Willy era proprio così, e tutti ne parlavano bene già prima che morisse”. Il giovane, che chiameremo Daniele, racconta di conoscere anche i quattro presunti responsabili della sua morte. “Si andava a scuola tutti insieme, alle medie. Il paese poi è come una borgata di Roma, ci si conosce tutti”. Il giovane racconta di aver saputo nel dettaglio cosa sarebbe successo quella notte da più amici comuni, che avrebbero assistito alla scena e alcuni dei quali sarebbero anche stati picchiati durante la rissa. “Io sono stato uno dei primissimi a fare denuncia ai carabinieri, raccontando quello che avevo saputo. È stato un trampolino di lancio per dare coraggio ad altri ragazzi, qui tutti avevano paura…”. Ma cosa sarebbe successo esattamente attorno alle 3.20 della notte del 6 settembre nei pressi del locale Duedipicche di Colleferro? Daniele inizia il suo racconto, che ovviamente non abbiamo modo di verificare: "La rissa l’ha cominciata Mario Pincarelli, perché ha fatto un apprezzamento un po' volgare a una ragazza, ma le solite cose che si possono dire quando si è un po' ubriachi... Lui era con il gesso al braccio, non so se poi abbia toccato Willy. A farlo sono stati sicuramente gli altri tre. Il primo a colpire Willy in realtà è stato Gabriele Bianchi, che sceso di corsa dal Suv ha fatto leva con la mano su un palo e gli ha sferrato un calcio in pieno petto, facendolo sbattere contro una macchina. Willy però si è rialzato ma ha preso un altro cazzotto sulla tempia, sempre da Gabriele. Dopo quel colpo è stramazzato per terra e allora il gruppo ha iniziato a prenderlo a calci. La rissa poi è continuata per un’altra decina di secondi, si picchiavano tutti... oltre ai 4 già arrestati c’erano anche quello che guidava la macchina e quello che ha chiamato i fratelli Bianchi. Loro due non hanno partecipato alla rissa ma erano nel gruppo di Artena, non c’è più nessun altro che non sia stato sentito dai carabinieri. Comunque il ragazzo che ha chiamato in soccorso i fratelli Bianchi se n’è andato via subito, non li ha neanche aspettati: ha acceso la miccia e se n’è andato”. Una circostanza, quella del quinto uomo, di cui ci aveva parlato anche il Comandante di compagnia dei carabinieri di Colleferro, Ettore Pagnano: “Non è stato interrogato, perché non abbiamo avuto elementi univoci che ci portino a collocarlo in un ruolo attivo rispetto ai fatti, ma le indagini sono ancora in corso e sono a 360 gradi”. Del colpo in pieno petto a Willy aveva parlato anche un’altra testimone, Faiza, come emerge dall’ordinanza di convalida dell’arresto, i cui stralci sono stati pubblicati nei giorni scorsi, per primo, dal Corriere della Sera. Francesco Belleggia invece, durante gli interrogatori in Procura, aveva puntato il dito su Marco Bianchi, raccontando che era stato lui a sferrare il calcio al petto di Willy e che Gabriele intanto si stava “occupando” di un suo amico. Daniele ci racconta poi un altro elemento, che se confermato potrebbe davvero dare una svolta alle indagini: “Qui tutti parlano sottovoce di un video girato con il telefonino da una ragazza che era presente, ma che non sarebbe ancora uscita allo scoperto”. E della cosiddetta “banda di Artena”, così come il gruppo di amici dei fratelli Bianchi sarebbe stato definito nella zona, aggiunge: “È vero che la gente del posto, i loro amici, li chiamavano quando c’era da fare a botte, ma solo perché giravano sempre in branco, non è che ti venivano addosso uno contro uno. Arrivavano in 10-15 contro 5, o anche contro uno solo… La loro comitiva, che era abbastanza grossa, dovunque andava cercava di comandare ma a Colleferro non ci sono mai riusciti. Lo hanno fatto solo una volta, un paio di mesi fa, quando hanno beccato un ragazzo da solo, in otto contro uno.  Era in compagnia di un ragazzino che per la paura se l’è filata e così lui ha preso schiaffi da tutti e otto”.

L’origine di tutto questo? Alesandro Bertirotti l'8 settembre su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. La notizia del momento è questa, e il momento dura ormai da molto, dando l’impressione di essere in un’unica sequenza di un film dell’orrore. In realtà, siamo quotidianamente circondati da orrore e nella nostra mente affollano, in sembianze diverse, immagini di morte. Come in questo caso, appunto. Siamo di fronte a persone che praticano, mantengono e desiderano uno stile di vita basato sul sopruso nei riguardi di chiunque incontrino sul loro cammino, indipendentemente dal sesso, dall’età e dall’etnia di chi ha la sfortuna di incontrarli. Nulla, nessun individuo, può essere uguale a loro, se non il clone di loro stessi, con una visione pessima della vita, e di qualsiasi forma di sopravvivenza autonoma. Non si tratta di odiatori seriali, ma di molto peggio: si tratta, secondo la mia prospettiva, di repressi para-maschi frustrati e in branco, drogati, con una struttura cognitiva debolissima, senza i fondamentali strumenti intellettuali con i quali affrontare una società depravata come la nostra. E vi è persino qualche essere umano che attribuisce la colpa di questi misfatti alle palestre, oppure alle arti marziali, o ancora a qualche specifico sport, come se l’eliminazione di un luogo in cui possono essere presenti alcune psico-patologie, anche se contenute nel luogo stesso, ci potesse salvare da questa selvaggia forma di violenza. Eppure, qualcuno, che evidentemente non conosce la saggezza delle arti marziali, la filosofia esistenziale ad esse sottesa, oppure le basi socio-culturali su cui si fonda il vero sport, per semplicismo elettorale, sostiene una simile scemenza. Ebbene, quale potrebbe essere l’origine di tutto questo? I media, la politica, il quartiere, la struttura sociale italiana che non garantisce nessuna mobilità sociale, la deprivazione quotidiana dei propri desideri di futuro (tanto a scuola come in famiglia), se non viaggiando come tossici repressi che abbisognano di farsi forti di fronte a tutto e tutti. Siamo in presenza, con evidente progressione, di individui che nella loro frustrazione rappresentano la crescente insoddisfazione, sempre più presente, nelle relazioni umane, e la consapevolezza che nessuna istituzione sia garante di una essenziale protezione. Tutta la nostra vita è questione di protezione, ricevuta e dunque donata. E, fino a quando non capiremo questo, avremo questa classe politica, queste famiglie disperate, anche nella loro positiva volontà di educare al meglio. Mi sento in lutto universale. Per loro, gli assassini, per le istituzioni e per una nazione che continua a morire giorno dopo giorno, e nemmeno troppo lentamente.

Lucia Portolano per "repubblica.it" l'11 agosto 2020. La tenente di vascello, di 34 anni, istruttrice della Mariscuola di Taranto rischia la chiusura nel suo alloggio da 1 a 7 giorni come punizione per aver fatto ballare i suoi allievi durante il giuramento, un balletto sulle note del tormentone dell'estate Jerusalema. Nel frattempo come provvedimento le hanno modificato l'incarico, ma resterà comunque a Taranto. Qualcuno ha ripreso quel balletto ed ha diffuso il video. (…)  L'ufficiale si difende, attraverso il suo legale Giorgio Carta, che ha presentato una richiesta di atti e la proroga dei termini per presentare la memoria difensiva, richiesta entro 10 giorni. Allegati a tale richiesta ci sono una serie di video finiti in rete dove già in passato i militari della Marina militare avevano improvvisato canzoni e balletti, anche su mezzi navali. (…) "Nella mia istanza - spiega l'avvocato Carta - chiediamo di conoscere quali provvedimenti sono stati assunti nei confronti dei militari protagonisti di questi video in cui si balla e si canta in divisa durante lo svolgimento dei propri ruoli. Sono video che mi sono stati segnalati da tantissimi utenti che pur non conoscendo la tenente hanno apprezzato il suo gesto ed hanno ritenuto che avesse solo fatto pubblicità positiva al corpo". L'avvocato come difesa ha allegato un video in cui si vedono i militari della nave Fenice cantare sulla note di "Come fanno i marinai" mentre svolgono le mansioni quotidiane, e poi un altro in cui i soldati in un sommergibile cantano Gente di mare, ed ancora sulla nave Vesuvio intonano la canzone Dipende. (…)

Quaranten(n)a - Nostro figlio, Willy Monteiro Duarte. Valerio Giacoia il 10 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Lei non ha capito niente, perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio”. Pierpaolo Pasolini profeta, ancora una volta. Nel cortometraggio La Ricotta, all’interno del film a episodi Ro. Go. Pa. G., dà voce a Orson Welles (doppiato tra l’altro da Giorgio Bassani, autore di quel capolavoro sulla tragica vicenda umana e storica delle leggi razziali fasciste che è Il giardino dei Finzi Contini), nel ruolo di regista-marxista, intervistato da un giornalista a cui così risponde. Era ciò che Pasolini pensava della società italiana, e già negli anni ’60: il finto progresso, l’edonismo, la tecnologia, il benessere a tutti i costi, la finta tolleranza, avevano fatto forse più danni del Ventennio. Più tardi, a novembre del 1975, il “Corriere della Sera” pubblicherà, postuma (il poeta era stato ucciso il 2 di quello stesso mese, con un brutale pestaggio), una spietata, illuminante riflessione: “… non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l’Italia… e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani.. che in Italia c’è il coprifuoco… che la televisione, e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie…”. Arriva da lì, questo guasto. Willy Monteiro Duarte si è preso i pugni e i calci in faccia di quattro ragazzi senza consapevolezza. Ubriachi di news dal sottosuolo, come tanti ragazzi delle periferie italiane e mondiali fuori rotta. Tuttavia, non ce ne vogliate, anch’essi vittime. Forse più di Willy: una generazione di ignorati, di non amati, di carnefici-martiri. Martiri di un oblio mortale, replicanti senza sentimenti perché, questi, non inseriti nelle schede del cuore. Mai conosciuti, perciò. Vissuti nella violenza, conoscono soltanto questa: non hanno altri alfabeti, altre parole, non hanno abbracci, se non quelli che puzzano di sudore e ancora tremanti di accanimento sul ring. Uno dei familiari degli assassini ha detto che in fin dei conti era solo un immigrato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che Willy si è preso i pugni e i calci in faccia nostri, di una società indifferente, che abbandona, che non si volta, che non sa educare, che forse non ha mai saputo farlo perché non educata, non amata. Figlia di una pedagogia nera. Quella della correzione e del condizionamento psicologico, sin da piccoli. Schiaffi, urla, pestaggi, a scuola, a casa. Azioni radicate, trasmesse da una generazione all’altra che hanno lasciato, come dicono gli esperti, “catene invisibili di veleno”. Sono i pugni dell’uomo medio di Pasolini. Però Willy è figlio nostro, e sta dalla parte dell’umanità che ancora costruisce, che ancora spera, che ancora non si arrende. E sono figli nostri tutti, perché è necessario sempre sganciare lo sguardo, allungare il collo, osservare lontano. Così anche Jacob Blake è nostro figlio. Jacob che domenica scorsa a Kenosha, nel Wisconsin, si è preso una raffica di colpi di pistola alla schiena senza che ancora si conosca il motivo per cui un agente si sia accanito in quel modo. “Perché mi hanno sparato così tante volte?”, ha chiesto Jacob appena sveglio dopo l’intervento che gli ha salvato la vita ma non le gambe. Perché? Forse perché afroamericano. Forse perché nero. Forse no. Forse perché a quei poliziotti che sparano nessuno ha insegnato nulla quando erano bambini, e innocenti. E oggi poliziotti assassini. Anche Deon Kay è nostro figlio, e aveva soltanto 18 anni: mercoledì scorso protestava con il movimento Black Lives Matter a Whashington D.C. quando i cops gli hanno sparato uccidendolo. Sarà sempre nostro figlio Ahmaud Arbery, ucciso a fucilate in Georgia. Per lui cercheremo fino alla morte giustizia. Era, quel figlio, un ragazzino che amava correre. Aveva lo stesso sorriso di Willy. Forse però ha ragione Emmanuel Edson, poeta, drammaturgo, fine intellettuale del Camerun, in Italia da vent’anni: il razzismo non c’entra con il pestaggio di Colleferro. “Willy si è fermato per difendere un compagno di scuola – dice al telefono, la voce rotta –, è stata la spedizione punitiva di una gang, sarebbe stato ucciso anche se fosse stato bianco. C’è una grande sottocultura, quando giri lo vedi, si sente. Ma c’è una sottocultura anche nei quartieri migliori, tra le famiglie agiate. Nell’insieme, è spaventoso. Ho paura per mia figlia, devo ammetterlo, ma qui a Milano forse è diverso. Roma è una città violenta. E Willy, ammazzato per un gesto altruista, poteva essere figlio di tutti noi”. Pensa lo stesso Antonio Biafora, chef stellato che lavora in Sila, in un resort tra i monti calabresi di Camigliatello, dove per un breve periodo il piccolo Willy aveva collaborato. Uno stage indimenticabile. Faceva divertire tutti, e tutti lì ricordano soltanto il suo sorriso, le sue battute in romanesco: “Uno spasso – racconta Antonio, sotto shock –, ma soprattutto una persona splendida, uno che faceva sempre un passo indietro, gentile, educato. Che grande dolore, sento ancora la sua voce accanto alla nostra, le risa quando mangiavamo tutti insieme, o uscivamo a bere una birra. Come una squadra di calcio eravamo”. In quella squadra “gioca tuo figlio, tuo fratello, un tuo amico, tuo nipote, tuo zio, tuo padre, il figlio di un amico, il tuo panettiere, il tuo meccanico, il tuo compagno di scuola o di fabbrica”, ci ricorda in un post su Facebook la società di calcio del Paliano. A Willy piaceva giocare a pallone, era un giocatore di quelli bravi e coraggiosi, come canta De Gregori. Di quelli che si vedono dall’altruismo e dalla fantasia. Un branco non ne sa nulla, e può uccidere. Occorrere chiedersi chi hanno alle spalle i quattro lupi feriti senza amore, senza nulla. Se a fallire siano stati davvero loro, oppure le famiglie dalle quali provengono. E noi tutti. Questo, diciamocelo in faccia, è un paese che uccide i ragazzini, i bambini. Di essi non si sopportano più le lacrime. Un mondo che ha tempi da vertigine non ha un istante per asciugarle, per chiedersi che cosa vi sia dietro. E dentro. Una umanità che ha dimenticato (o non mai ha saputo) che ci sono Moby Dick e la furia del capitano Achab in quel pianto, e tutte le nostre ossessioni di bambini poco amati e soli; e l’Odissea, il viaggio, Ulisse e la sua Itaca, ci sono I ricordi dal sottosuolo e la Recherche, gli Ossi di seppia, le Variazioni Goldberg, e Rimmel, e Yesterday: quelle lacrime, quelle urla, ci parlano della vita e della nostra storia tutta intera che si rinnovano come in una grande letteratura ogni volta che un bambino viene sulla Terra. Quel pianto è, anzi, la Grande Letteratura del mondo. Un racconto ininterrotto sul mistero, sulla struggente bellezza della vita. Occhi nell’oblio, non vi leggono nulla. Occhi innamorati, un’opera inesauribile. Uno scritto perenne a ogni incontro, una melodia celeste a ogni passo, a ogni mano che prende un biscotto, a ciascun sonno cullato. Evan, esempio tra gli esempi dell’ultima cronaca, il bambino di Modica a cui il compagno della madre, e lei complice, ha fracassato il cranio. Non aveva diritto di piangere, Evan. Doveva essere spento, rotto come un giocattolo, sbattuto in terra come una bambola col meccanismo del canto incagliato. Schiacciava con le spalle al muro quel pianto, pesava insopportabilmente la responsabilità di prendersene cura. Ammazzarlo è stata la via più semplice. La stessa strada che sempre più spesso decide di intraprendere il mondo: secondo l’ultima Report Card 16, lo studio lanciato dal Centro di Ricerca Innocenti dell’Unicef, suicidi, infelicità, obesità e scarse capacità in campo sociale e accademico sono diventate caratteristiche fin troppo comuni fra i bambini nei paesi ad alto reddito. C’è anche, e ben evidenziata in questo studio, l’Italia. Un fallimento generale. Restano le nostre analisi, i nostri pensieri stanchi, tuffati con noi sul divano, avviliti, sulla morte di nostro figlio Willy. Resta, in fin dei conti, quel mucchio di insignificanti e ironiche rovine. Come scriveva Pasolini.

Roberto Saviano: "Dietro la morte di Willy una società in cui manca tutto". Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da La Repubblica.it. "Cosa ci dice la ferocia di Colleferro?". Inizia così la riflessione di Roberto Saviano, affidata a Instagram, sul brutale omicidio di Willy Monteiro Duarte, sulla ferocia di quel pestaggio che l'ha ucciso. "Ci dice qualcosa di estremamente profondo sui cui siamo tutti chiamati a una riflessione. Willy era straniero, no Willy era italiano. I suoi assassini sono di destra - scrive Roberto Saviano, sono palestrati e violenti, sono tatuati. Il clima in Italia è feroce, reso feroce da una Politica che divide". Commenti legittimi, commenta Saviano, eppure, "sono riflessioni superficiali che non possiamo permetterci", dice Saviano mentre prova a indagare le ragioni più profonde che hanno fatto da humus alla violenza che ha portato all'uccisione di Willy. "Quando parliamo dell'orientamento politico degli aggressori e dei loro muscoli, sappiamo che manca qualcosa".

COSA CI DICE LA FEROCIA DI COLLEFERRO Ci dice qualcosa di estremamente profondo su cui siamo tutti chiamati a una riflessione. Willy era straniero, no Willy era italiano. I suoi assassini sono di destra, sono palestrati e violenti, sono tatuati. Il clima in Italia è feroce, reso feroce da una politica che divide. Capisco tutti questi commenti, ma sono riflessioni superficiali che non possiamo permetterci. Quando parliamo di odio razziale sappiamo che non è questa la spiegazione per la morte di Willy. Quando parliamo dell'orientamento politico degli aggressori e dei loro muscoli, sappiamo che manca qualcosa. Sono cresciuto in una provincia violenta, dove ogni sabato sera c'era una rissa. Dove non c'era molto da fare oltre a bere e fumare, e dove se pensavi al futuro cedevi alla depressione. C'era il cinema, la libreria, il negozio di dischi... ma tutto il resto mancava. E tutto il resto ancora manca. Ho letto molto su ciò che è accaduto a Colleferro e sono convinto che sbagliamo ad applicare le categorie dello scontro politico a un episodio di violenza che ci mostra qualcosa di infinitamente più grave. Condivido nel link in bio le parole di Emanuele Macaluso, perché ritengo che la nostra riflessione debba partire da qui, da una analisi seria sulla vita sociale in tanti Comuni, e non solo nel Mezzogiorno, in cui mancano centri di aggregazione e dove la famiglia, da sola, non ce la fa, non basta. Non scegliamo dunque scorciatoie da dare in pasto all'opinione pubblica e apriamo piuttosto un dibattito serio, un dibattito davvero politico. Perché politica è tutto. Politica è vita e non lo scontro basso a cui siamo assuefatti. . . #Willy #Colleferro Un post condiviso da Roberto Saviano (@robertosaviano_official) in data: 9 Set 2020 alle ore 3:50 PDT

"Sono cresciuto in una provincia violenta, dove ogni sabato sera c'era una rissa. Dove non c'era molto da fare oltre a bere e fumare, e dove se pensavi al futuro cedevi alla depressione. C'era il cinema, la libreria, il negozio di dischi... ma tutto il resto mancava. E tutto il resto ancora manca - ha continuato Saviano - Ho letto molto su ciò che è accaduto a Colleferro e sono convinto che sbagliamo ad applicare le categorie dello scontro politico a un episodio di violenza che ci mostra qualcosa di infinitamente più grave. Condivido le parole di Emanuele Macaluso, perché ritengo che la nostra riflessione debba partire da qui, da una analisi seria sulla vita sociale in tanti Comuni, e non solo nel Mezzogiorno, in cui mancano centri di aggregazione e dove la famiglia, da sola, non ce la fa, non basta. Non scegliamo dunque scorciatoie da dare in pasto all'opinione pubblica e apriamo piuttosto un dibattito serio, un dibattito davvero politico. Perché politica è tutto. Politica è vita e non lo scontro basso a cui siamo assuefatti".

Willy Monteiro, padre Zanotelli: "L'omicidio figlio della tv berlusconiana e della predicazione di Salvini e Meloni". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Padre Alex Zanotelli supera ogni limite. Per il missionario italiano, parte della comunità dei Comboniani, la colpa della morte di Willy Monteiro è tutta del centrodestra. "Quello che è successo a Colleferro è un imbarbarimento della società ma è anche il frutto amaro – oltre che di 30 anni di televisione berlusconiana – soprattutto di tutta una ‘predicazione’ fatta da Matteo Salvini e da Giorgia Meloni i quali hanno seminato odio in questo Paese". Insomma, per il religioso sull'uccisione del 21enne di Roma hanno avuto un ruolo i leader politici. "Salvini - prosegue poi in una video-intervista all'Agenzia Dire - lo ha espresso anche politicamente questo odio, come ministro degli Interni”. Padre Zanotelli sembra far riferimento alla politica condotta dalla Lega contro gli sbarchi di clandestini. Gli stessi sbarchi che ad oggi i giallorossi permettono, mietendo innumerevoli vittime in mare. Ed è proprio al governo che va il pensiero del religioso, ancora una volta però per criticare la destra: “Inoltre è giusto anche riconoscere la debolezza del Governo: non è accettabile e va contro la Costituzione l’esistenza di realtà come Forza Nuova e le altre forze di estrema destra che sono vietate per Costituzione. Su questo il Governo dovrebbe essere altrettanto duro perché questi individui si annidano in tutto questo e si arriva a quello che è successo a Colleferro”. 

Willy Monteiro, Fratelli d'Italia querela Alessia Morani: "Gravissime fake-news contro il partito. Conte dica qualcosa". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Fratelli d’Italia ha dato mandato ai propri legali di procedere alla querela del Sottosegretario del Pd Alessia Morani per "i ripetuti atti diffamatori ai danni del movimento politico Fratelli d’Italia e dei suoi iscritti". "Tra le numerose falsità diffuse dal Sottosegretario la presunta candidatura a Fondi (LT) tra le fila di FdI di un estremista candidato in altra lista e la diffusione di falsi profili Facebook di presunti simpatizzanti di FdI inneggianti alla morte del giovane Willy Monteiro Duarte", fanno sapere dal partito di Giorgia Meloni. "Risulta di estrema gravità che un membro del Governo diffonda falsità e menzogne ai danni delle forze di opposizione - riprende la nota diffusa dal partito -, un atteggiamento che in qualsiasi democrazia avanzata porterebbe a un duro richiamo politico da parte del premier, Giuseppe Conte, e dei vertici istituzionali. Purtroppo, constatato l’assenza di qualsivoglia intervento istituzionale di richiamo, il movimento politico Fratelli d’Italia si trova costretto a tutelare la propria immagine in sede giudiziaria", concludono da FdI.

Da liberoquotidiano.it il 9 settembre 2020. Rula Jebreal come padre Zanotelli. Anche per la giornalista dalle ben note tendenze politiche l'uccisione di Willi Monteiro è colpa di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il commento della Jebreal sulla triste vicenda di Colleferro arriva via Twitter: ""In fondo hanno solo ucciso un extracomunitario". Ecco cosa accade quando i due leader di destra seminano odio e incitano alla violenza contro gli emigrati. I criminali che hanno trucidato Willy Monteiro e il terrorista Luca Traini: entrambi frutto dell’indottrinamento Fascista". Per la giornalista la morte del 21enne non è stata colpa delle quattro belve che lo hanno preso a calci e pugni, bensì da due leader del centrodestra. Frase, questa, a cui ha replicato per le rime Guido Crosetto: "È più facile fare politica così. Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno armato la mano degli assassini - ha cinguettato il fondatore di Fratelli d'Italia in un'evidente critica ai sinistri - Odiateli! Disprezzateli! Ghettizzateli! Fategli del male! Appendeteli a testa in giù! Trasformate la violenza delle parole in atti!".

Franco Bechis per iltempo.it il 10 settembre 2020. Secondo Chiara Ferragni l'omicidio di Willy Monteiro Duarte avrebbe le sue radici non nelle palestre di arti marziali, ma nell'humus di cultura fascista da cui sarebbe nato. La nota influencer ha ripostato sposandolo in pieno un post di un sito di politica, e in questo a dire la verità ha detto quel che molti con leggerezza stano cinguettando in questi giorni. Nulla invece nella storia pubblica dei due fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, oggi in carcere per quell'omicidio offre una minima traccia di un loro impegno politico, per giunta a destra o addirittura con legami ad ambienti fascisti. Nulla, nemmeno i loro tatuaggi. Che però sono assai simili a quelli di un personaggio di cui sono proprio fan, tanto da citare le frasi da lui scritte e ballare e cantare le sue canzoni: Fedez, il marito di Chiara Ferragni. Ecco Gabriele Bianchi insieme alla fidanzata e ad amici in barca a Palmarola il 26 luglio scorso, mentre appunto cantavano e ballavano "Bimbi per strada" di Fedez per poi postarlo nelle loro stories di Instagram. Il loro riferimento culturale era Fedez, non Benito Mussolini. La prossima volta la signora Ferragni farebbe bene a riflettere prima di esprimersi su quello che non sa. Mica si può essere influencer su tutto, no?

Fenomenologia di Chiara Ferragni: l’influencer da milioni di follower che cercano amore e fratellanza. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 settembre 2020. L’omicidio di Colleferro ha colpito la sensibilità collettiva. Anche quella di una donna che guadagna 58.300 dollari per ogni post su Istagram. È stata Chiara Ferragni ad andarci giù pesante: sono “quattro fascisti” e «il problema lo risolvi cambiando e cancellando la cultura fascista in questo paese di merda». Un linguaggio duro – che non te l’aspetti. Certo, ci sono fatti di sangue che ci colpiscono più di altri – e non si capisce perché ma così vanno le cose. E questo di Colleferro ha colpito la sensibilità collettiva. Perché una signorina che guadagna 58.300 dollari per ogni post su Instagram dovrebbe sentirsi ferita dalla morte di Willy, un ragazzo che studiava all’Alberghiero e faceva l’aiuto-cuoco e tirava quattro calci al pallone nella squadretta di Paliano, alla fine del mondo? Una che vive promuovendo acqua minerale a otto euro a bottiglietta o infradito “slides graffiti” a 175 euro al paio? Eh, perché? Perché la sensibilità collettiva trova assurda, trova anti- storica (“fascista”) la morte di Willy? La sensibilità collettiva è come l’immaginario collettivo e come l’intelligenza generale – sono quelle cose immateriali che “misurano” il sentimento di un popolo in un determinato momento. Parliamo spesso di una “pancia del paese” che è orribile e assatanata, ma forse non è questo il sentimento dominante. Forse, il sentimento dominante vuole pace, amore, fratellanza. E Ferragni esprime proprio questo. Lo dico proprio così, da “buonista”. Semplice, terra terra. Le generazioni che crescono adesso non conoscono le guerre, non conoscono la violenza della Storia – non hanno visto le trincee, non hanno visto le bombe sganciate sulle città. E non ci sono neanche cresciute subito dopo, tra uomini e donne allucinate da quegli orrori e frettolosi di metterseli alle spalle. Le generazioni che crescono adesso pensano che siamo ricchi, che possiamo produrre tante cose, che le malattie sono curabili. Che possiamo abbracciarci come fratelli, senza distinzione di razza, sesso e religione. Poi, niente di questo succede. Però, sarebbe possibile. Questi sono “i buoni sentimenti”. E se incrociano la politica – allora le cose possono cambiare davvero.

Ferragni, Baby K e il marketing dell’antifascismo. Corrado Ocone, 10 settembre 2020 su Nicolaporro.it. Il brutale agguato e l’assassinio del giovane Willy meriterebbero silenzio e rispetto per il dolore dei familiari, da una parte, e poi una riflessione più generale, come scriveva Francesco Giubilei su queste pagine, sui valori e i modelli estetici e comportamentali predominanti nella nostra società, sull’ethos generale dell’uomo e dei giovani occidentali al tempo d’oggi. Quello di cui non ci sarebbe assolutamente bisogno è la speculazione su eventi così nefasti per fini politici oppure per fini commerciali. Purtroppo, come era immaginabile, i due tipi di strumentalizzazione, in particolare quella politica, si sono puntualmente verificati anche questa volta.

L’antifascismo tira. Ma un vero “fenomeno” è stata senza dubbio Chiara Ferragni, che in un sol colpo è riuscita a metterli insieme tutti e due: “due piccioni con una fava”, come suol dirsi. Condividendo un post del profilo Instagram @spaghettipolitics, la nostra più famosa influencer è scesa infatti direttamente, come mai prima aveva fatto, nell’agone politico, scegliendo la via di più facile successo: il problema di quella morte sarebbe la “cultura fascista” e razzista (Willy era di origine capoverdiana) degli aggressori; e la soluzione starebbe nell’istruzione, che a questo punto assumerebbe un vero e proprio carattere di “rieducazione” alle “virtù democratiche” del “buon cittadino”. Con quali esiti, non è difficile da immaginare. Perché Ferragni abbia compiuto questo passo, perché cioè l’abbia buttata in politica proprio lei che sembra avere tutti altri interessi, diciamo prima di tutto industriali e commerciali, è un fatto che non può avere che una spiegazione: oggi l’antifascismo tira, è cioè un brand di successo che, non solo ti accredita fra la gente che piace (la borghesia intellettuale e cittadina), ma ti fa “vendere” il tuo “prodotto” ad un pubblico vasto e maggioritario. Una sorta di alleanza fra la sinistra e il capitalismo, la ribellione e l’omologazione, che ha trovato i suoi albori negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso con il successo delle t-shirt con l’effigie del Che o quello delle spille con impressa la foglia di canapa o il simbolo degli anarchici.

Educare, educare, educare. L’impressione è che da questa convergenza non ne esca vincente solamente – vivaddio! – il libero mercato, ma anche, per quanto addomesticata, una certa cultura mainstream che è parte, seppur diversamente, della decadenza dei valori occidentali di cui dicevo in apertura. Sarà un caso che questa è l’epoca storica ove più si parla di etica, e si mettono su persino istituzioni a sua garanzia, piccoli embrioni di uno “Stato etico” cosmopolitico, e meno etica diffusa ci sia? E non è forse la “medicina” stessa parte del problema che pretenderebbe di “curare”? Così come una pericolosa aggravante del problema è quella che, con una irriflessa reazione, porta ad assegnare alla scuola e persino alle università il compito di promuovere l’etica e di “educare”: all’antifascismo, ai valori democratici, alla “sostenibilità”, e in sostanza alla lotta contro tutti i mali del mondo. Senza accorgersi che è un male pure questa presunta educazione: sia perché sottrae tempo e energie all’istruzione vera (lo studio della letteratura, della matematica, della storia, ecc.); sia perché pretende di trovare e dare soluzioni etiche pret-à-porter dimenticando il fondo tragico o inconciliato che presiede alla nostra esistenza e alla nostra costitutiva imperfezione e fallibilità. Ad esse ci si arriva possedendole in piena autonomia, senza balie, cioè avendole metabolizzate e con il proprio spirito critico: l’ideale della cultura come autonomia, cioè avalutatività, e come Paideia o Bildung, autoeducazione, è il senso stesso della nostra civiltà e solo lo studio dei classici può darcelo. A parte il fatto che non è dato sapere chi sarà mai il certificatore ultimo di ciò che è “antifascista” e “democratico”, tanto più che a volte, come è ben noto, è proprio l’antifascismo, con la sua intolleranza di fondo, ad essere un secondo fascismo per quanto inconsapevole. Come non bastasse, è proprio il caso di dire, Baby K., quella che con la Ferragni ha siglato Non mi basta più, il successo estivo che non si capisce bene se sia uno spot pubblicitario o una canzone, alla scuola vorrebbe assegnare pure il compito di parlare in classe del revenge porn. Forse la Azzolina starà prendendo già appunti, ma ad occhio noi diremmo che a scuola sarebbe meglio studiare Omero e Virgilio, Agostino e Montaigne, e cose del genere: solo il “canone occidentale”, introiettato e metabolizzato, potrà far contrasto nei giovani a quella “decadenza occidentale” che invece gli abbiamo consegnato. Corrado Ocone, 10 settembre 2020

VIOLA GIANNOLI per repubblica.it il 13 settembre 2020. Si chiama Michela Grasso, ha 21 anni, è nata a Gallarate in provincia di Varese ma studia Scienze Politiche all’Università di Amsterdam. È la giovanissima aspirante giornalista che due anni fa ha creato l’account Instagram “SpaghettiPolitics” per spiegare la politica italiana (e poi quella internazionale) ai suoi amici all’estero, in italiano e in inglese. Uno dei suoi ultimi post, sulle radici culturali fasciste della morte di Willy Monteiro Duarte, è stato condiviso dall'influencer Chiara Ferragni. Giusto il tempo di godere del boom di follower che il suo account “di lavoro”, quello privato e quello dell’hotel di famiglia che gestisce sono stati hackerati e cancellati. "Instagram non vigila sulle truffe - denuncia la ragazza - così ho perso il lavoro di due anni".

Michela, cosa è accaduto?

“Dopo il repost di Chiara Ferragni e l'impennata di follower (da 20mila a 70mila in 2 giorni) avevo chiesto a Instagram di ottenere le spunte blu. Poche ore dopo mi è arrivato un messaggio da un account uguale a quello di Instagram che mi chiedeva di confermare la mia identità cliccando su un link. Anche il sito a cui rimandava sembrava affidabile e invece mi hanno rubato i dati e hanno cancellato tutti i miei account. Ho perso tutto il lavoro di due anni, la community creata con i follower e anche i messaggi con mia nonna, la cosa che mi fa più male”.

Hai provato a recuperare i tuoi account tramite Instagram?

“Ho provato a contattare il social network via mail ma non ho ricevuto alcuna risposta. Un mio amico ha contatto Chiara Ferragni su Twitter, lei ha risposto e si è fatta mandare la mia mail per inviare una segnalazione a Instagram, ora incrocio le dita. Ieri sera ho creato una nuova pagina “SpaghettiPoliticsReal” che ora ha 700 seguaci, non mi lamento però non è giusto quel che è successo. Non credo che recupererò nulla del vecchio account, a meno che l’intercessione di Ferragni non faccia il miracolo…”.

Si tratta di censura, di invidia o di una truffa?

“La tempistica non può essere casuale, è accaduto proprio per il clamore suscitato dal post sull’omicidio di Willy sotto al quale c’erano moltissimi commenti offensivi e insulti sessisti. Ma di solito quando rubano un account, lo riutilizzano, lo vendono per guadagnarci soprattutto se ha molti follower, invece il mio è stato eliminato. Questo mi fa pensare che a qualcuno abbia dato fastidio la mia presa di posizione condivisa da vip e non”.

Ci sono molte truffe online di questo tipo?

"Ho trovato moltissimi profili simili a quello che ha fatto lo scam a me. Li ho segnalati a Instagram ma di solito non accade nulla. Le truffe più comuni sono le mail finte di banche o di istituzioni oppure i fake di Facebook e di Twitter che ti chiedono le password delle mail, degli account o il numero della carta di credito”.

E i social network non vigilano abbastanza?

“No, lo fanno in maniera troppo debole. Instagram potrebbe rilasciare linee guide e aggiornare il suo sito con tutte le truffe possibili le cui informazioni si trovano invece su altri portali. E potrebbe guardare con più attenzione le segnalazioni che arrivano perché tutte sembrano rispettare gli standard della community e invece ci sono decine di dannose truffe”.

Giovanni Sallusti per ''Libero Quotidiano'' il 9 settembre 2020. E invece il Male non è politica, ci sentiamo stupidi solo a scriverlo, ma la stupidità è proprio ciò a cui vuole inchiodarci il mainstream. Per cui ogni evento viene letto attraverso i pochi pseudoconcetti chic in voga agli aperitivi di redazione: sessismo, cambiamento climatico, antifascismo. Un gioco delle tre carte permanente, applicato anche alla cronaca nerissima, alle secrezioni più oscure dell'animo umano. Anche alla storiaccia di Willy Montiero, massacrato a calci e pugni da quattro nullità avariate, perché voleva difendere un amico. Testimonianza, se c'è una, della cecità del Male, che probabilmente è il vero mistero di questo strano bipede implume che noi stessi siamo. Ma non si vede questo, nei quattro accusati dell'omicidio di Willy, non si scorge la possibilità originaria del Male, il tarlo che può sempre mangiarsi il piccolo e dannato legno storto dell'uomo. No, si annota che esercitano l'Mma, arte marziale estrema ma non pratica criminale, e se ne invoca la messa al bando, come ha fatto il direttore de La Stampa Massimo Giannini, si imbastisce un romanzone scadente sui biechi istinti machisti e reazionari che albergano in ogni frequentatore di palestre, fino ad arrivare all'obiettivo grosso, quello a cui si mirava da subito. Ma certo, al "fascismo". I picchiatori di Willy sono fascisti. Da cosa è dimostrato? Dal fatto che sono picchiatori. È il sofisma del politicamente corretto, in cui premessa e conclusione si scambiano continuamente di posto, al servizio del vero volto del giornalismo autonominatosi "obiettivo": la propaganda. Lo ha svolto perfettamente lo psicanalista Massimo Recalcati, già organizzatore di scuole politiche per il Partito Democratico, che sempre su La Stampa ha (stra)parlato di «esaltazione paramilitare e fascistoide del corpo forte e vigoroso», allo stesso tempo piegando il dramma di Willy ai propri tic ideologici e attribuendo ai suoi carnefici un retroterra culturale, per quanto perverso, inesistente. Non ci sono idee, nemmeno cattive, c'è solo la naturalità sconcertante del Male, in quell'assassinio casualmente perseguito. Andrebbe ricordato anche a Zingaretti e al gotha democratico, visto che l'account ufficiale dei deputati Pd non si è trattenuto dal twittare su «qualche rigurgito fascista» che «crea dei mostri spaventosi, come quelli che hanno ammazzato #WillyMonteiro», con un'allusione che edulcora il mostro nell'avversario politico, nel fantasma che si aggira alle proprie assemblee di partito. Mentre nel caso di Rula Jebreal, che attribuisce l'omicidio selvaggio di Willy all'«indottrinamento fascista» di cui sarebbero responsabili «i due leader di destra», probabilmente non c'è nulla da fare, siamo nel campo dell'ossessione monomaniacale. Nella competizione del grottesco si piazza assai bene anche Repubblica, che ieri ci dava a tutta pagina la seguente informazione: «Mali, il clima ferito sta armando la jihad africana». Bizzarro, noi sempliciotti credevamo che ad armarla fosse quella versione violenta e terrorista dell'Islam che è una delle facce del Male contemporaneo. No, la Bibbia del progressista ci spiega seriamente che i nordafricani si arruolano nella guerra santa a causa delle «devastanti conseguenze» delle «emissioni dei gas a effetto serra», «prima tra tutte la siccità». Quando asporti forzatamente la variabile esistenziale del Male, il tragicomico è dietro l'angolo. Ha fatto forse ancora peggio la centrale globale del politicamente corretto, l'Onu, quando per bocca del suo segretario Antonio Guterres ha esibito la tesi per cui «la pandemia causata dal Covid-19» avrebbe dimostrato i danni di «millenni di patriarcato». Scemi noi, che legavamo la comparsa del morbo a quel meccanismo indifferente e dannifero che è essenzialmente la Natura. Buttarla in politica, o in sociologia, o addirittura in ecologia, è la scorciatoia del politicamente corretto per rimuovere quello che non è in grado di ammettere e pensare, l'esistenza del Male assoluto, puro, ingiustificato. Un'ipocrisia di norma sgradevole, intollerabile quando di mezzo c'è il cadavere di un ventunenne.

Fulvio Abbate per Dagospia il 12 settembre 2020. Sia detto con chiarezza, nel giorno del funerale del ragazzo Willy, che tutte le suburre del mondo hanno rotto il cazzo. Insieme ai calchi dei Renatini, degli Abbatini, dei Giuseppucci, dei Lalli gli Zoppi, all’intero orribile catasto romanzesco criminale. Ottusi trucidi elevati al rango di eroici cavalleggeri o giubbe rosse in Bmw o Lancia HF, epica da borgata finita rancida, tra Testaccio, Trullo, Magliana e Maglianella, gli stereo 8 del Califfo e di Gabriella Ferri a fare da palizzata sonora. Pasolinismo mediocre d’accatto, merci editoriali, cine-televisive deteriori di ritorno; facce da fototessera gualcita all’autovelox, che nulla hanno di letterario, buone, al massimo, nonostante i rivetti in corrispondenza della fronte, per il casellario giudiziale con rispettive ordinarie pose segnaletiche, miseria somatica da ceffi, piccineria morale su fondali di interiora da mattatoio destinate a marcire nei cassonetti dell’umido mai smaltito nell’Urbe. Perfino in questo momento, mentre il povero Willy è nella sua bara, il “collega” scrittore va immaginato pronto a ragionare sulla prosecuzione di quel repertorio di studiata banalità. Facce, gesti, sguardi, rutti tra una coda e una pajata, tra le sopracciglia e i tatuaggi dei fratelli Bianchi, ai loro occhi veri gagliardi fratelli d’Italia, immaginando che tutte le Artena e i Colleferro del mondo possano presto elevarsi a ulteriori fondali di un’epica come già nelle mille vomitevoli, appunto, suburre. Banalità, pupille assenti alla percezione e alla grazia del mondo, orbite vuote, la negazione, non dico della complessità, ma del semplice naturale esercizio del pensiero, clic mortuari da obitorio davanti all’intero paesaggio cittadino degradato. Decerebrati razzisti che si rivolgono ai ragazzi neri, agli immigrati, chiamandoli “scimmie”, nella miseria linguistica che, per li rami, giunge da genitori, cominciando dalle mamme assenti a ogni alito di denuncia. Madri d’Italia, che mai hanno pensato, nel tempo, vedendo i figli nottetempo rincasare, la refurtiva nascosta nel pacco dei calzoni, di chiedere conto delle moto, dell’oro da ricettazione ai polsi e al collo, da dove insomma giungessero quei beni, da quali guadagni, da quale misero romanzetto criminale con i Casamonica e i Diabolik et similia presenti in filigrana. Non dovremo pazientare molto, per vedere i fratelli Gabriele e Marco Bianchi di Artena e i loro comprimari, innalzati, come già un Liboni, sul trono di lamiera degli sfasciacarrozze o degli smorzi, lì protagonisti di un'Iliade coatta, vitalisticamente, di più, sostanzialmente fascista, modellata al tornio del razzismo tra sopracciglia e muscoli da palestra anabolizzante, li ritroveremo protagonisti di cento romanzi, nuova suburra, anzi, susborra. Nella piccina convinzione ideologica che il Male sia per definizione eroicamente, eroticamente più fico d'ogni suo opposto; li immagino già alle prese con gli appunti. Di sfondo, Salvini e Meloni, loro che sempre hanno speso soprattutto parole di dileggio razzista, corpi politici oscenamente estranei nella tragedia che ha visto la morte del ragazzo Willy. La “fraterna” destra italiana. Perfetta per ogni submondo narrativo la foto, davvero imperiale, da imminente visita all'officina del carburatorista, che vede i fratelli sulle moto, la tuta acetata, i loghi bene in vista, in luogo della stola papale; mondo pop assiro-casalese. Volti ideali anche per le battute acefale in romanese, repertorio da sciorinare in attesa delle tris davanti ai Punti Snai, come nelle “migliori più belle frasi di Osho”, ridere, ridere forte, la mano sul pacco, come farebbe la gente “gajarda”. Susborra, appunto. Povero Willy Duarte, assente alla pietà di un mondo che mai ha smesso di coltivare, meglio, di indossare, come accade ai rapinatori dai collant in volto, il bene rifugio interiore del fascismo, del razzismo e della violenza, del dileggio altrui, tra baretto, bujaccaro e pippata serale; vomito di ritorno. Forse, la corsa alla comprensione antropologica per gli assassini del ragazzo è già iniziata. Non sono forse anche i Bianchi dei veri fratelli d'Italia? Mai mettere in discussione l’idea stessa di Famiglia, bene rifugio, il legame del sangue, la reciprocità dei sentimenti, di più, l’interscambiabilità della banconota da cinquanta arrotolata davanti a una pista di “cocco”? Su tutto, la già mirabile tuta acetata, outfit d’ogni aspirante possibile residente di via Bartolo Longo, Rebibbia. Nella galleria dell'eterno fascismo italiano, così come l’ha indicata mirabilmente Umberto Eco, nonostante le riserve studiate di alcuni, sono appena giunti due e forse più nuovi ritratti, resta da piazzarli bene in alto, nell’ideale galleria nazionale del trucido criminale pronto a farsi pagina scritta, letteratura, film, serie televisiva, tatuaggio da braccio, petto o da pisello, la stessa evidenza stilistica dei mattinali di questura. Lo so, adesso vogliono convincerci che i fratelli Bianchi non sono fascisti, perché il fascismo “qui non c’entra, perché mica facevano politica loro” (sic), così parlò esattamente il fascio, colui che si aspettava ogni bene dai Salvini e dalla Meloni, perché "prima gli italiani", magari come i Bianchi, il fascio pronto a difendere le gioie e gli avanzi di cibo rancido di famiglia, la memoria del nonno già custode in orbace, forte dell’idea che i vicini di casa ebrei dovessero essere consegnati all’Ovra fascista per beccare taglia e magari subentrare nell’appartamento requisito. Il fascismo endemico, endogeno, certo, ma questi nuovi probabili nuovi eroi popolari e pop oltre a essere figli, fratelli, cugini e cognati dell’Italia fascista, sono anche il precipitato subculturale dei Fabrizio Corona e dei Gianluca Vacchi, con corredo di slip griffati, barbe cardate, loghi di t-shirt che alludono a dieci cento mille “pecorine” da consumare in piedi nei bagni dei locali in fondo  alle mille Tiburtine possibili, dell’interpretazione più bestiale di un presunto situazionismo glamour, l’equivoco idiota che il cattivo giusto, la coatteria, l’arroganza tracotante, la guida senza patente, le magliette di 'sto cazzo con su scritto “Narcos”, il blaterare di sesso senza essere mai pervenuti all’idea che “scopare”, perfino “chiavare”, dovrebbe essere un atto di reciprocità e non di dominio, il rifiuto d’ogni principio estraneo al più mediocre dei narcisismi rionali fin nei tatuaggi e i muscoli, tutto questo avesse valore di presunta rivolta. Sia finalmente detto che le suburre, i romanzi criminali, i Libani, i Freddi, i Renatini, i Lalli gli Zoppi, con tutti i loro fasci plaudenti di contorno, hanno definitivamente rotto il cazzo.

Aurelio Picca per ''la Repubblica'' il 16 settembre 2020. Perdonatemi se scrivo da contadino, o da cronista con pochi mezzi. Sono più pronto a raccontare a voce i fatti, i luoghi, che a scriverne. Anche perché patisco e soffro l’ordine della scrittura rispetto alla gravità, al non riassumibile. Non ho letto nulla, se non buttandoci un occhio, circa la morte di Willy che si chiamava come un mio antichissimo amico stroncato dall’eroina. Non ho voluto leggere niente perché so tutto. Quando da ragazzino passavo sotto Artena (ex Montefortino, roccaforte volsca), la zia zoppa rimasta illibata diceva: “Qui piantano i fagioli e nascono i briganti”. Non ci credevo, perché il paese a forma “perfetta”, aveva gli asini che salivano fino in cima; e le case ammonticchiate a presepe. Eppure, il territorio che lascia la repubblicana Velletri e giunge a Lariano e Artena e poi sale su Valmontone, mentre a destra punta Colleferro; con Paliano che aveva Castello e carcere, dove si devia prima di arrivare sugli Altipiani di Arcinazzo: auto esilio del generale Graziani, è stato da sempre confine, macchia di leopardo, territorio segmentato tra i Castelli Romani e l’Anagni di Bonifacio VIII e di Innocenzo III nato sui pendii della Carpinetana, con Segni a destra e Gavignano a Sinistra. Se uno volesse salire sul cucuzzolo di Artena e affacciarsi al balcone della trattoria di Chiocchiò, riconosce bene il castello di Paliano, l’antica e nobile Palestrina e, oltre, viene a sapere che si giunge al santuario della Mentorella, dove papa Wojtyla si recava a pregare la Madonna “scura di pelle”. Anche non distante da Valmontone i nonni dei nonni di questa mappa geografica, andavano a Genazzano in viaggio di nozze inginocchiandosi ai piedi della Madonna del Buon Consiglio. E, cosa curiosa, Willy l’hanno ucciso saltandogli sul corpo come fanno nella pubblicità dei materassi, tra il 5 e il 6 settembre, proprio quando si festeggia la Madonna della Carità. E per restare nel nome della Madre e del Femminile, lo stupro di Pisticci, non lontano da Matera, ricorda il Carro della distruzione che, a sua volta, rimanda a un possibile stupro di contadinella bruna a opera dei saraceni. Non a caso nella festa di Matera, si ricordano Le due Brune (una Madonna e una stuprata). Così quel giorno di processione, in estate, il Carro dell’oltraggio viene assaltato dalla folla e ridotto a brandelli usati come sfregi sacri. Nei primi Sessanta Colleferro viveva il suo boom. Aveva la Snia. E sulla Roma-Napoli era raggiunta dagli stessi pariolini romani che andavano al Penny a Frascati, mentre qui frequentavano il Living. Artena aveva La stalla, e ci si scazzottava. Niente di più. I feroci, eredi del sangue brutale dei volsci, come Laudovino De Sanctis, erano già a Roma. Gente da Ferocia reale, animale, non certo giustificabile, ma non esemplari come i fratelli Bianchi, che non sono gemelli ma che gemelli di ferocia perversa sono. Ecco, la trasformazione lenta e inesorabile di questi luoghi: da ferocia reale; a ferocia perversa. Bandiamo per sempre lo slogan della mutazione antropologica. A vederli, i Bianchi, sono tatuati come il territorio che si sono illusi di dominare. Ho notato pose senza fisicità. Senza sensualità. Del resto chi (e non parlo solo degli indagati) passa il tempo in palestra, a pestare il prossimo, a sbronzarsi, quando fa l’amore? Per farlo serve tempo, abnegazione, vera potenza, non muscoli gonfi. Altrimenti ci si riduce alla virtualità o agli scampoli onanistici e frettolosi. Quindi: non si fa con l’altra o con l’amato; ma da soli. Chiusi nel proprio narcisismo esibizionistico. I loro corpi sono timbrati da tatuaggi come le strade di queste città evocate spaccate che sguarciano pneumatici con mille rotonde che fanno perdere la bussola anche ai marinai genovesi. Io sono stato a scuola con il suocero di uno dei due indagati. Sua figlia è incinta di un “gemello”. Il padre di lei ha pianto e si è scusato in Consiglio Comunale. Pareva il pianto sincero di un padre che ha fallito. Ma in realtà questa fragilità morale non riguarda solo Colleferro, Artena; questa sorta di cuscinetto tra Roma e gli ex borboni. L’inabissarsi morale riguarda l’Italia (non mi avventuro nel mondo). Tutti noi siamo colpevoli, come ha detto un ristoratore di Colleferro. Noi abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia. La scuola è polverizzata da decenni. Accumula carte e banchi. Ma nessun docente chiede il nome e il cognome dello studente. Nessuno ricorda che la prima lezione va fatta sull’importanza del proprio nome, sul luogo da dove si proviene. Tutti noi siamo orfani, nessuno è più padre. Ecco che allora i Bianchi di turno hanno una prateria di tatuaggi dove cavalcare: cioè uno spazio senza confini. In altre parole: senza legge. Accennavo alla “ferocia della realtà”. I nostri padri e nonni, immortalati dal neorealismo dovevano scontrarsi, dovevano combattere. E combattevano per la legge del padre, faccia a faccia. Ora non più. Basta il narcisismo isterico, i muscoli senza lavoro, l’oro come metallo che scintilla e non come oggetto sacro, eredità degli avi, scambio di fedeltà, sacrificio dei muratori dei cinquanta per comprare uno Zenith o un Longines al figliolo il giorno della cresima. Nessuno di questi che ballano sui corpi sanno che l’oro è degli imperatori. Il loro è falso. Dunque basta affibbiare la ferocia perversa al razzismo, eccetera eccetera. Per paradosso il Paese al mondo, l’Italia, dalle mille capitali, dai mille palazzi, da chi sapeva fare scarpe a opera d’arte, tavoli e sedie a opera d’arte, ringhiere e letti di ferro a opera d’arte; questo nostro Paese è ancora l’unico al mondo che può ricondurre alla legge, ristabilendo l’onore del nome, recuperando il sacrificio, la disciplina, la rinuncia. Non sono i film criminali che spingono all’emulazione. E’ l’assenza che lo fa. Tocca tornare come i ragazzini poveri sotto i bombardamenti di Vicenza in Il cielo è rosso di Giuseppe Berto. Tocca che le antologie scolastiche ricordino che tutti i grandi scrittori italiani sono partiti dai paesi, dalla provincia. Ecco, noi dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, da dove siamo campioni. Non voglio usare la ghigliottina, che resta un gioiello perfetto; la Vedova, inventata per liberare gli uomini dalle antiche schiavitù. Eppure, simbolicamente, essa è l’oggetto più attuale. Almeno per tagliare la testa ai fatui diritti e ripristinare i doveri.

Nicola Porro su omicidio Willy Monteiro: "La cugina ha strumentalizzato la morte del ragazzo". Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. La cugina di Willy Monteiro, 21enne ucciso in una rissa a Colleferro, ha strumentalizzato la morte del ragazzo. A pensarla così è il giornalista Nicola Porro in riferimento a una lettera scritta dalla donna sul Corriere della Sera. Il passaggio in questione è quello in cui la cugina di Willy, capoverdiana, parla di una trasmissione sull'integrazione, Nonsolonero, da lei condotta su Rai 2 per sei anni. Poi nel 1994 col governo Belrusconi il programma viene tagliato. Nell'articolo sul Corriere la donna scrive: "Fu la nostra morte mediatica. Tutto il lavoro svolto in quegli anni per contrastare l'immagine negativa dell'immigrazione, venne cancellato con un semplice no. Gli immigrati ritornarono come prima solo nelle pagine di cronaca scandalistica e di cronaca nera.  Oggi mi chiedo, e la domanda la rivolgo al primo ministro Conte: cosa succederà dopo il funerale di Willy? Dopo che le luci dei media si saranno spente sul caso? Ci aspettiamo una pena esemplare affinché un crimine simile non possa mai più accadere. Ci aspettiamo che il governo investa nelle politiche dell'integrazione, coinvolgendo nella programmazione i soggetti interessati e prima di tutti i figli degli immigrati". Secondo Porro, quindi, lei lega la morte del ragazzo alla presenza di un nuovo clima, in cui si è più intolleranti nei confronti delle persone immigrate. "Noi stiamo parlando di delinquenti, ora in galera, che hanno già avuto otto denunce per aver picchiato e spacciato, per aver fatto cose identiche a quelle fatte a Willy anche in passato. Ma perché la signora di Nonsolonero deve strumentalizzare, come Zingaretti, una drammatica vicenda di cronaca. E' uno sfregio a un bravo ragazzo, ora morto. E' una cosa disgustosa", ha concluso Porro.

La furia è cieca. Giulia Carcasi il 13 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Per favore, sforziamoci di non usare terminologie improprie che, involontariamente, nobilitano l’ignobile. La parola “cultura” prevede consapevolezza di sé e del mondo, crescita morale e spirituale, una ricchezza che non si conta in soldi. Un tempo la cultura era l’unico modo di elevarsi socialmente. Chiunque abbia ucciso Willy non è “figlio della cultura razzista”, né della “cultura di Gomorra”, di Suburra, dei trapper, perché non c’è cultura nel razzismo, in Gomorra, in Suburra, nei trapper. Chiunque abbia ucciso Willy è figlio dell’assenza di cultura, è figlio di culturismi e di false ideologie, dell’idolatria del consumo e dello sballo. Se vogliamo togliere potere all’ignobiltà, dobbiamo smettere di abbinarla alla parola “cultura”. Nessuno chiami “arti marziali” i gesti bestiali con cui Willy è stato ucciso. Nessun’arte, nemmeno quella marziale, prevede di assalire in branco un ragazzino e saltare sul suo corpo inerte. Secondo la mitologia, Marte, dio della guerra, nell’essere allevato, era stato prima istruito nella danza e poi nell’uso delle armi: essere fluidi nel movimento era indispensabile nella battaglia. Confucio ammoniva: “Mai dare una spada a un uomo che non sa danzare”. Oggi quella massima non suona più come un suggerimento tecnico, ma come un avvertimento. Aver appreso la gentilezza dei gesti ci permette di conservare tratti umani anche in guerra; ci fa rispettare l’etica del combattimento; ci impedisce di violare la dignità dell’avversario, mantenendo anche la nostra; ci preserva lo sguardo. Non a caso si dice sempre che la furia è cieca: nasce dal buio e lo alimenta. Nelle palestre si praticano sport che trasformano i corpi in vere e proprie armi. Non sarebbe opportuno verificare la professionalità, la personalità e lo stato psichico sia di chi insegna sia di chi impara queste discipline?

Alcuni indagati per l’omicidio di Willy sostengono che, al momento della rissa, si trovavano vicino al cimitero a consumare un rapporto sessuale con ragazze delle quali non ricordano il nome. L’impressione che ne deriva è quella di un mondo in cui fare sesso o palestra è la stessa cosa e si va alla ricerca spasmodica dello sfogo. Ci si svuota al punto che non resta nulla dentro: rivestiti da bicipiti, esistono vuoti viventi.

Willy e gli orrori del branco. Lidia Marassi il 14 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Willy era un ragazzo di 21 anni ed è stato ucciso pochi giorni fa, massacrato di botte, a Colleferro. A seguito dell’accaduto si è detto tanto circa la dinamica e le motivazioni che avrebbero spinto i suoi aggressori a commettere una simile brutalità. Molte figure di spicco dell’opinione pubblica, così come diverse testate giornalistiche, il cui compito ci si aspetterebbe essere quello di indirizzare i cittadini verso una più piena comprensione di un evento così violento, hanno tentato di trovare una spiegazione comprensibile e forse eccessivamente semplicistica dei fatti. E così si è sentita dare la colpa all’MMA (le arti marziali praticate dagli aggressori), al carattere difficile di singole “mele marce”, alla gioventù allo sbaraglio ed altri poco stratificati perbenismi. Alle accuse di chi sosteneva che i ragazzi coinvolti nell’omicidio fossero vicini ad ambienti politici di ultradestra, si è risposto sottolineando come, a conti fatti, non si trattasse di giovani concretamente coinvolti in politica. Allo stesso modo si è negata la matrice razziale dell’omicidio, non essendoci state motivazioni esplicitamente xenofobe. La mancanza di dichiarati intenti ideologici sarebbe pertanto sufficiente ad escludere un’aggressione legata a fanatismo politico, cosicché sui giornali si è letto di un ragazzo morto in seguito ad un pestaggio. Eppure Willy non è morto, è stato ucciso. Le successive dichiarazioni dei familiari dei suoi aguzzini, per i quali la vittima “era solo un immigrato”, non sono considerazioni neutrali, ma di colore politico e che vanno al di là della diretta vicinanza ad un simbolo di partito. La violenza contro i più deboli, la stigmatizzazione e la giustificazione implicita del prevaricare su chi è diverso o in minoranza, sono comportamenti che portano una componente fanatica e più o meno esplicitamente politicizzata, indipendentemente da intenti dichiarati. Eppure si è è scelto di soffermarsi su altro, ad esempio sulla situazione delle periferie, facendo leva sul disagio giovanile che in queste si radica, scaricando le colpe di quanto accaduto su una generazione cresciuta all’interno di un sistema compromesso (e pur tuttavia esonerando il contesto sociale dalla colpa di aver abbandonato socialmente e culturalmente i suoi abitanti). Che determinate realtà siano luoghi di disagio è un fatto noto, ma sostenere che siano sufficienti a generare situazioni come quella che ha portato all’omicidio di Willy è quantomeno irrispettoso, oltre che irragionevole. Non si sarebbe dovuto tanto sottolineare il contesto da cui provenivano i quattro aggressori, ma piuttosto incidere su come la violenza di cui si sono macchiati fosse conseguenza di un ormai introiettato linguaggio e una forma mentis discriminatoria. Parlare dell’accaduto sottostimando o omettendo l’elemento che concerne il colore della pelle della vittima, come se si trattasse di un dettaglio irrilevante ai fini della vicenda, significa voler dissimulare la sovrastruttura sociale che determina il verificarsi di simili atrocità. La dinamica di fondo è invece esplicitamente colpevole di quello che è a tutti gli effetti un crimine razzista, che segue una precisa logica sistemica di cui in Italia ancora oggi si ha paura di parlare apertamente e che si sceglie consapevolmente di mistificare con la retorica del caso isolato. Alcuni cittadini sono percepiti come subalterni (per etnia, orientamento sessuale, genere, disabilità …) e questa alterità, che genera repressione, viene categoricamente negata, cercando di soffermarsi piuttosto su altre componenti, che in questo caso sono state le arti marziali o la realtà periferica in cui l’omicidio si è consumato. Il razzismo viene riconosciuto solo a chi si dichiara apertamente razzista, così come il fascismo – che si relega ad un’epoca storica fortunatamente trascorsa – apparterrebbe unicamente ai nostalgici del regime. Nel nostro Paese non è bene essere razzisti, ma è legittimo affermare  “prima gli italiani”, assumendo l’atteggiamento di chi cerca di definire le proprie priorità, senza chiamare le cose col proprio nome o, ancor peggio, sostenendo la dinamicità del processo storico che ne avrebbe cancellato ogni traccia. Invece in Italia esiste ancora il fascismo, esiste il razzismo e esiste una rappresentanza politica che su questo, in modo non esplicito, fa consenso. Volerlo negare anche quando accadono eventi come questo non è un atteggiamento che mira al superamento di una struttura discriminatoria che si dice – ma solo a parole – di voler abbattere. Si è scelto di non parlare della vittima, ma c’è anche chi ha scelto di farlo, sottolineando come si trattasse effettivamente di un ragazzo di origini capoverdiane, ma con cittadinanza italiana. Ci si domanda allora se la nostra commozione ed il nostro sgomento sarebbero stati i medesimi se si fosse trattato di un giovane appena giunto nel nostro Paese che, forse, non è poi un luogo così accogliente come si illude di essere da qualche giorno a questa parte.

Mirella Serri per La Stampa il 17 settembre 2020. «Verrà il momento della giustizia che ha già cominciato il suo corso. Ma verrà anche il momento della riflessione su quello che succede nella nostra città, nel nostro territorio Abbiamo gli anticorpi per reagire, per pensare un altro modello di società? Pensiamo di sì e lavoriamo e lavoreremo per questo. Dipende da ognuno di noi e dal nostro impegno": così scrive l'Anpi di Colleferro. Hanno perfettamente ragione gli iscritti all'associazione dei partigiani del luogo dove ha perso la vita il generoso e coraggioso Willy Monteiro Duarte. Bisogna sviluppare gli anticorpi politici e culturali. Ma forse è necessario iniettarli in una direzione precisa: bisogna cioè lavorare contro il revival storico della violenza fascista intesa come sistema educativo, l'ultimo escamotage dei gruppi criminali per conquistare i più giovani con la dimostrazione di autorità e di potere. Da qualche anno nella vasta zona alle spalle dei Castelli Romani, Artena, Colleferro, Lariano, fino a Giulianello e Cori, in provincia di Latina è in atto una vera e propria pedagogia della violenza. A giugno è stato eseguito dai carabinieri l'arresto dei componenti di un gruppo criminale attivo a Cisterna di Latina. Ne faceva parte il padre di Desirée Mariottini, Gianluca Zuncheddu. Una storia tragica quella di Desirée, la 16enne trovata senza vita per un mix di farmaci e droga, dopo esser stata ripetutamente stuprata in uno squallido ritrovo per drogati del quartiere San Lorenzo di Roma il 19 novembre 2018. Zuncheddu, fino a poco prima delle manette, sulla sua pagina facebook continuava a dirsi tremendamente addolorato e a evocare il sacrificio della figlia che dichiarava di amare moltissimo. Questa gang, come emerso dalle indagini dei carabinieri, era dedita non solo allo smercio di sostanze stupefacenti, soprattutto di cocaina, ma aveva come specializzazione il recupero crediti a carattere estorsivo. Guarda caso è proprio la stessa attività a cui si sono applicati con la loro eccellenza nelle arti marziali, i fratelli Bianchi. Questi gruppi mettono in atto il loro sporco "lavoro" alzando il tiro della violenza in maniera esemplare, con un'ostentazione di forza e di virilismo fascista e machista: quando sono stati convocati sulla piazza di Colleferro per pestare Willy, i Bianchi sono arrivati in pochi minuti ma stavano "scopando" al cimitero con delle ragazze; Zuncheddu quando era stato informato che Desirèe si drogava, ha cercato di educarla insieme alla mamma con le maniere forti tanto da ricevere un'ingiunzione di polizia che gli vietava di avvicinarsi alla casa. Con l'esibizione muscolare, con la brutale sopraffazione gli esponenti più in vista di questi gruppi hanno acquisito fama, notorietà e rispetto soprattutto presso i ragazzi. Per comandare sul territorio il violento deve essere sempre un passo più avanti del proprio antagonista. Così è capitato con Willy che andava vessato per essersi permesso di infilarsi in una storia che non gli apparteneva. La punizione doveva essere esemplare e lo è stata fino alla morte. Questo modello culturale della violenza come esempio "didattico" non nasce con "Gomorra" di Roberto Saviano. Non è infatti nuovo nella Penisola ma affonda le radici nella nostra storia e venne impiegato in maniera sistematica dal fascismo sin dagli esordi. Così, per esempio, quando Giuseppe Bottai guidò la colonna dei fascisti marsicani a Roma, il 28 ottobre 1922, fu messo in guardia: era meglio non passare per il quartiere comunista di San Lorenzo. Di fronte agli spari provenienti da alcuni stabili di quel covo rosso il futuro gerarca rispose a schioppettate. Questo scontro fu voluto da Bottai come un monito pedagogico: doveva valere sia per i suoi giovani accoliti sia per l'Italia intera. Vennero uccisi 13 comunisti, alcuni dei quali, esemplarmente, furono buttati giù dalle finestre. In territori e cittadine come Latina e il loro vasto hinterland questo insegnamento ha attecchito anche perché per decenni vi hanno avuto ampio spazio Casa Pound e Forza Nuova. Solo nel 2017 il parco comunale della cittadina laziale dedicato ad Arnaldo Mussolini, detto dagli abitanti semplicemente parco Mussolini, ha cambiato nome per diventare Parco Falcone e Borsellino. L'Anpi ha colto nel segno quando sollecita modelli culturali alternativi e l'immissione di anticorpi in questa pedagogia malata che viene da lontano e che coinvolge tutta la Penisola.

Willy Duarte, perché gli assassini non sono di destra: che tristezza usare un crimine per propaganda. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il10 settembre 2020.  E invece il Male non è politica, ci sentiamo stupidi solo a scriverlo, ma la stupidità è proprio ciò a cui vuole inchiodarci il mainstream. Per cui ogni evento viene letto attraverso i pochi pseudoconcetti chic in voga agli aperitivi di redazione: sessismo, cambiamento climatico, antifascismo. Un gioco delle tre carte permanente, applicato anche alla cronaca nerissima, alle secrezioni più oscure dell'animo umano. Anche alla storiaccia di Willy Montiero, massacrato a calci e pugni da quattro nullità avariate, perché voleva difendere un amico. Testimonianza, se c'è una, della cecità del Male, che probabilmente è il vero mistero di questo strano bipede implume che noi stessi siamo. Ma non si vede questo, nei quattro accusati dell'omicidio di Willy, non si scorge la possibilità originaria del Male, il tarlo che può sempre mangiarsi il piccolo e dannato legno storto dell'uomo. No, si annota che esercitano l'Mma, arte marziale estrema ma non pratica criminale, e se ne invoca la messa al bando, come ha fatto il direttore de La Stampa Massimo Giannini, si imbastisce un romanzone scadente sui biechi istinti machisti e reazionari che albergano in ogni frequentatore di palestre, fino ad arrivare all'obiettivo grosso, quello a cui si mirava da subito. Ma certo, al "fascismo". I picchiatori di Willy sono fascisti. 

Da cosa è dimostrato? Dal fatto che sono picchiatori. È il sofisma del politicamente corretto, in cui premessa e conclusione si scambiano continuamente di posto, al servizio del vero volto del giornalismo autonominatosi "obiettivo": la propaganda. Lo ha svolto perfettamente lo psicanalista Massimo Recalcati, già organizzatore di scuole politiche per il Partito Democratico, che sempre su La Stampa ha (stra)parlato di «esaltazione paramilitare e fascistoide del corpo forte e vigoroso», allo stesso tempo piegando il dramma di Willy ai propri tic ideologici e attribuendo ai suoi carnefici un retroterra culturale, per quanto perverso, inesistente. Non ci sono idee, nemmeno cattive, c'è solo la naturalità sconcertante del Male, in quell'assassinio casualmente perseguito. Andrebbe ricordato anche a Zingaretti e al gotha democratico, visto che l'account ufficiale dei deputati Pd non si è trattenuto dal twittare su «qualche rigurgito fascista» che «crea dei mostri spaventosi, come quelli che hanno ammazzato #WillyMonteiro», con un'allusione che edulcora il mostro nell'avversario politico, nel fantasma che si aggira alle proprie assemblee di partito.  Mentre nel caso di Rula Jebreal, che attribuisce l'omicidio selvaggio di Willy all'«indottrinamento fascista» di cui sarebbero responsabili «i due leader di destra», probabilmente non c'è nulla da fare, siamo nel campo dell'ossessione monomaniacale. Nella competizione del grottesco si piazza assai bene anche Repubblica, che ieri ci dava a tutta pagina la seguente informazione: «Mali, il clima ferito sta armando la jihad africana». Bizzarro, noi sempliciotti credevamo che ad armarla fosse quella versione violenta e terrorista dell'Islam che è una delle facce del Male contemporaneo. No, la Bibbia del progressista ci spiega seriamente che i nordafricani si arruolano nella guerra santa a causa delle «devastanti conseguenze» delle «emissioni dei gas a effetto serra», «prima tra tutte la siccità». Quando asporti forzatamente la variabile esistenziale del Male, il tragicomico è dietro l'angolo. Ha fatto forse ancora peggio la centrale globale del politicamente corretto, l'Onu, quando per bocca del suo segretario Antonio Guterres ha esibito la tesi per cui «la pandemia causata dal Covid-19» avrebbe dimostrato i danni di «millenni di patriarcato». Scemi noi, che legavamo la comparsa del morbo a quel meccanismo indifferente e dannifero che è essenzialmente la Natura. Buttarla in politica, o in sociologia, o addirittura in ecologia, è la scorciatoia del politicamente corretto per rimuovere quello che non è in grado di ammettere e pensare, l'esistenza del Male assoluto, puro, ingiustificato. Un'ipocrisia di norma sgradevole, intollerabile quando di mezzo c'è il cadavere di un ventunenne.

Willy Monteiro, l'aggressore Francesco Belleggia simpatizzava per Giuseppe Conte, Matteo Renzi e Luigi Di Maio. Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Francesco Belleggia, uno dei quattro aggressori di Willy Monteiro e indicato dagli inquirenti come autore del calcio che avrebbe ucciso il giovane, non era affatto un estremista di destra. Una brutta notizia per i buonisti come Rula Jebreal che accusavano Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Sul profilo Facebook del ragazzo - come riportato dal Secolo d'Italia - ci sono "mi piace" alle pagine di Matteo Renzi, Giuseppe Conte e Papa Francesco, l’Unicef e alcune associazioni Lgbtq. Ma soprattutto grande entusiasmo per il M5S, Luigi Di Maio e Virginia Raggi. Su Belleggia c'è anche un altro mistero. Se infatti i fratelli Marco e Gabriele Bianchi e di Mario Pincarelli sono in carcere con l'accusa di aver cagionato la morte del 21enne di Colleferro, per lui sono stati disposti invece gli arresti domiciliari. Una decisione che pare parecchio strana, soprattutto dopo aver sentito i due supertestimoni, amici del gruppo dei quattro arrestati, che al Corriere hanno dato una versione ben precisa dei fatti. Versione che vede Belleggia sferrare l'ultimo calcio da karateca.

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 settembre 2020. Caro Dago, fermo restando l’orrore di quel massacro di un italiano di pelle nera ucciso a partire da una rissa determinata dall’apprezzamento volgare rivolto a una ragazza, confesso che trovo assolutamente fuori luogo il riferimento al “fascismo” nel senso che i due bruti di Colleferro - i “gemelli Bianchi” - ne sarebbero l’odierna incarnazione. Appioppare a questi due uomini/fogna la qualifica di “fascisti” non solo è da imbecilli, ma non aiuta minimamente a spiegare l’atroce realtà che i due rappresentano. Credere che l’anima del fascismo consistesse nell’avventarsi in quattro contro un ragazzo inanime a terra è una bestialità grande così. Furono fascisti Giuseppe Bottai, Mario Sironi, il giovane Giuseppe Pagano poi morto in un lager nazi, il giovane Mino Maccari, il giovane Romano Bilenchi, l’architetto Luigi Moretti (uno dei più grandi architetti del Novecento). Trovate dei punti in comune tra questi personaggi e i due bruti di Colleferro? Di certo vennero convogliate nelle prime squadre fasciste la maniera di vita degli Arditi che avevano combattuto valorosamente durante la Prima guerra e non ne volevano sapere di darsi a una vita sedentaria. Era gente che aveva sfidato la morte e voleva continuare a sfidarla nell’affrontare violentemente gli avversari, i quali a loro volta si facevano forti di quello che era accaduto nella Russia bolscevica, dove di maniere gentili ce ne erano state poche. Era il dopoguerra, bellezza, e continuava l’eco delle scariche di mitragliatrici e degli scoppi di bombe a mano. Certo che è stato così e che senza l’Arditismo non te lo spieghi il successo del fascismo. Solo che tra gli Arditi c’era un Giuseppe Bottai che esordì come poeta e un criminale comune come Albino Volpi, futuro assassino di Giacomo Matteotti. Ma che cosa tutto questo ha minimamente a che vedere con i due uomini/fogna di Colleferro? Non che io voglia giudicare da un paio di fotografie, ma mi pare che in loro l’esaltazione della violenza e anzi la religione della violenza fosse l’elemento costitutivo della loro identità. E’ quel che si chiama una sottocultura, i cui indizi sono numerosissimi nella nostra democrazia di massa. Ahimè numerosissimi. Ragazzi che crescono e si avviano e reagiscono nella vita quotidiana come fossero allo stato brado. Succedono dei parapiglia a ogni uscita dalle discoteche, e questo ogni ora che Dio manda in terra. Solo che questo non c’entra nulla con l’assassinio di Giacomo Matteotti, al quale seguirono per rappresaglia otto fascisti assassinati. Il fascismo - ho detto il fascismo e non la sua caricatura - non c’entra niente ma proprio niente con la tragedia di Colleferro.

Il caso Willy Monteiro. Luca Bizzarri linciato per aver osato parlare di “presunzione d’innocenza”. Angela Azzaro su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Offese, insulti, cattiverie, toni minacciosi: sono le reazioni che hanno travolto l’attore Luca Bizzarri per aver scritto un post garantista. «Un assassino – si legge sul suo profilo Facebook – è “presunto” fino a che un tribunale dice che è un assassino. Mi chiedo come un Paese che fatica, o più spesso rinuncia, a comprendere questo concetto, possa crescere e migliorare. Un popolo che vuol farsi giustizia da sé è un popolo senza giustizia. È un popolo, appunto, di picchiatori». Non certo una difesa di chi ha pestato e ucciso il povero Willy, non certo mancanza di rispetto per i famigliari della vittima, non certo una non condivisione del dolore che in tanti stiamo provando davanti agli occhi di quel giovane uomo che non c’è più. No, Luca Bizzarri ha solo ricordato che alla violenza si risponde con il diritto, non con i processi sommari, con i linciaggi, con le minacce di morte. Un popolo di picchiatori non è un Paese che sconfigge la violenza, è un Paese che ama la violenza. Concetti che fino a qualche tempo fa erano considerati scontati, quasi banali. Non era necessario ribadirli. Oggi invece se qualcuno lo dice diventa, «imbecille», «stronzo», «finito». Più di duemila messaggi sono stati scritti sotto il post di Luca, quello di Luca e Paolo, delle Iene e della presidenza, affidatagli nel 2017 dalla Regione Liguria, della Fondazione Palazzo Ducale di Genova. Duemila messaggi in cui è difficile trovare parole ragionate, di buon senso, parole che accettino lo scambio. L’utente di Facebook ama insultare, urlare, ha la verità in tasca. E si crede il giudice supremo che decide sulla verità dei fatti, distribuisce sentenze, chiede la pena di morte. A tal punto che se uno osa rivendicare quelli che sono principi costituzionali viene travolto a sua volta, come se fosse lui l’assassino. Qualcuno ci prova a dire le cose in maniera pacata, a sottolineare concetti più elaborati. Marina, per esempio, scrive: «Ricordiamoci che il carcere ha una funzione rieducativa, come nel ‘700 Beccaria sosteneva. Quindi il famoso “buttiamo la chiave, e lasciamoli marcire lì” la trovo una atroce sintesi di quello che non dovrebbe accadere in un paese normale e civile!!!». Ma è una delle poche, un caso raro. Per la maggior parte di coloro che intervengono parlare di presunzione di non colpevolezza non rappresenta il cuore dello Stato di diritto, è un orpello di cui liberarsi, è un di più che intralcia, non esalta, la giustizia. E andando avanti, viene lo sconforto. Perché emerge l’ignoranza di tutto ciò che sono i principi costituzionali. Ma forse la cosa che fa più male, non sono queste derive, ma chi accosta il diritto alla mancanza di pietà. Chi pensa che Bizzarri volesse giustificare l’accaduto, passare sopra l’uccisione di Willy. Scrive un’altra signora: «Mi sembra il suo un eccessivo garantismo, il caso in cui il carnefice diventa vittima… non si può giustificare il carnefice». Non è così, nessuna giustificazione, ma la consapevolezza che queste reazioni non costruiscono una società migliore, ma una cultura fondata sulla vendetta e sulla violenza. Una miccia che va disinnescata. Ma ci vuole coraggio. E Bizzarri è uno dei pochi che, avendo tanto consenso, lo ha avuto. Ha osato dire quello che molti pensano, ma hanno paura a rendere pubblico. Sì, paura. Ormai chi tenta di mettere un argine alla vendetta e al processo mediatico, viene travolto dagli insulti. Viene in mente il caso tremendo accaduto a Roma: l’uccisione di Luca Varani in un appartamento a Colli Aniene. Manuel Foffo è stato condannato a trent’anni con sentenza definitiva, Marco Prato si è suicidato in carcere. Foffo, poco prima di quel terribile episodio, era uno che sui social non mancava di insultare o augurare la morte a chi sbagliava. Marco Prato non ha retto alla lapidazione mediatica e si è tolto la vita in carcere. Un prima e un dopo l’omicidio che ci dicono una cosa chiara: la violenza non può essere una risposta alla violenza. Un popolo di picchiatori non rende questa società migliore, non aiuta a vincere il sopruso, a creare modelli diversi per gli uomini e le donne che ci vivono. Che c’è di male a fare questo discorso? In che cosa consisterebbe la sottovalutazione dei fatti? Semmai è una loro comprensione al livello più alto, il tentativo di preservare quanto di meglio abbiamo costruito negli ultimi secoli: la nostra civiltà giuridica. Luca ha scritto questo e lo hanno massacrato. Ma davvero pensate che non sia grave?

Piero Sansonetti per ilriformista.it il 9 settembre 2020. Cinquant’anni fa Marco Bellocchio diresse un film fantastico, che aveva tra i suoi attori Gianmaria Volontè, intitolato ”Sbatti il mostro in prima pagina”. Descriveva alcuni meccanismi del giornalismo che in questo mezzo secolo non sono cambiati molto. Il bisogno del male assoluto, più male di ogni male, più assoluto di ogni assoluto. È un meccanismo abbastanza semplice: si tratta di estrarre da un fatto sanguinoso di cronaca tutti gli elementi possibili della malvagità. Attenendosi talvolta ai fatti e molto spesso astraendosi dai fatti, o esagerandoli, o mitizzandoli, o romanzandoli. L’effetto è straordinario sul piano psicologico, garantisce il lettore sulla sua diversità dal malvagio, e per di più ha un risvolto – di tipo commerciale – molto apprezzato dai direttori e dagli elettori. Si vendono molte copie. Tutto si fonda sull’idea che la società è divisa in due categorie: le persone perbene, che sono maggioranza e sono i consumatori – anche di giornali o Tv, ora di social – e un drappello di infami, da perseguire, frustare e indicare al pubblico ludibrio. È successo così anche stavolta. Coi fratelli Bianchi. Sappiamo pochissimo di loro, conosciamo solo le fotografie dei loro corpi perfetti e muscolosi e alcuni loro sguardi truci. Spesso succede così: si ricorre all’immagine per dimostrare la malvagità e la colpa. Andando molto oltre Lombroso e suoi studi reazionari. Sappiamo pochissimo anche di cosa sia successo sabato notte a Colleferro, quando è scoppiata una rissa ed è stato ucciso, a pugni e probabilmente con un calcio in testa, un ragazzo di 21 anni, Willy, originario di Capo Verde, colpevole assolutamente di niente e che, a quanto si è capito, è intervenuto nella lotta tra bulli solo per difendere un amico che era stato messo in mezzo. Sappiamo pochissimo ma non ci interessa sapere. I giornalisti, e i giornali, e le tv, e tanto più i social, sono poco interessati a conoscere i fatti, vogliono solo conoscere e descrivere la profondità del male. Scrivono che il pestaggio è durato venti minuti – circostanza francamente alquanto inverosimile – scrivono che i due Bianchi avrebbero commentato il delitto con frasi razziste – e questo al momento non risulta – si indignano perché uno di loro, recentemente, aveva esaltato in tv il mestiere del fruttivendolo. Dicono che se fosse stato una persona seria non sarebbe stato così ipocrita da difendere i fruttivendoli, perchè solo le persone per bene fanno i fruttivendoli. Al momento noi non sappiamo con sicurezza nemmeno se siano effettivamente i fratelli Bianchi e i loro tre amici i responsabili dell’omicidio. Sappiamo che c’è un omicidio, che un povero ragazzo ha perso la vita giovanissimo, che la sua famiglia è distrutta e che i magistrati stanno cercando di ricostruire i fatti e trovare i colpevoli, e anche di capire qual è la loro colpa – omicidio colposo? preterintenzionale? volontario – e che hanno precauzionalmente arrestato quattro persone sospettate. Punto. Sospettate non vuol dire colpevoli. Loro, al momento, si proclamano innocenti. Vedremo come si svilupperanno le indagini, cosa mostrano i filmati delle telecamere, quali sono le versioni dei testimoni e se sono coincidenti o – come quasi sempre accade nei casi di rissa – in contrasto l’una con l’altra. Poi, se ci sarà, assisteremo al processo. Intanto possiamo dire una sola cosa della quale siamo sicuri: i mostri non esistono. Gli esseri umani sono essere umani, tutti e tutti nello stesso modo. Colpevoli o innocenti, cinici o sentimentali, generosi o avari, compassionevoli o feroci, ladri o onesti, violenti o miti. La ricerca del mostro è la più animalesca delle attività umane. E purtroppo riguarda una parte molto vasta della nostra intellettualità e dell’apparato della comunicazione.

P.S. Vorrei riferirvi una storia un po’ divertente che mi ha raccontato il mio amico Oreste Scalzone. Sapete chi è? Uno dei fondatori, a fine anni sessanta, di Potere Operaio, poi leader dell’Autonomia, condannato dai tribunali italiani per vari reati, soprattutto associativi, fuggito in Francia sotto la protezione di Mitterrand. Mi ha raccontato di un corteo che attraversò le vie di Parigi, mi pare, nell’estate del 2002. Avevano arrestato uno degli esuli italiani in Francia, Paolo Persichetti (ex militante Br) e lo avevano estradato in Italia (Mitterrand non c’era più). Negli stessi giorni era stato liberato dalla prigione un vecchio collaborazionista (coi nazisti) novantenne, un certo Maurice Papon. Doveva scontare una condanna 10 anni e ne aveva passati in carcere solo tre, ma era molto malato. Il corteo ritmava uno slogan facile facile: “Persichetti libero, Papon in galera”. Scalzone era stato incaricato di tenere il comizio, a fine corteo. Prese la parola: «Dirò una cosa che a voi non piace, ma io ne sono convinto e la dico: ho passato la vita a chiedere che le carceri siano rase al suolo, non chiederò mai che qualcuno vada in galera. Neanche Papon. Per me gli esseri umani sono tutti esseri umani». E concluse gridando, col pugno chiuso: «Persichetti libero, Persichetti libero…». Prese un grande applauso. Si stupì. Lo stupore durò pochissimo. Il corteo ripartì e gli stessi che lo avevano applaudito iniziarono a gridare, come prima: «Persichetti libero, Papon in galera». Non era servito a niente il suo discorso. Come, a occhio, non serve a niente questo articolo.

Gli assassini di Willy sono esseri umani, così come chi ha provocato la Shoah. Emanuele Fiano su Il Riformista l'11 Settembre 2020. Caro Piero, caro direttore, non è vero, come tu scrivi in conclusione del tuo articolo, che il tuo contributo del 9 Settembre scorso non serva a niente; Io trovo invece decisivo che tu affermi che chi ha ucciso a pugni e calci Willy, non sia definito mostro, allontanandolo dunque dalla nostra natura umana, esattamente come nella logica dell’esorcismo che vuole farci espellere a forza il diabolico inquilino estraneo che ci possiede. Non c’è nessun inquilino diabolico. Quelli che hanno ucciso a calci Willy non erano diabolici, erano umani. Ragazzi che ogni notte percorrono le nostre strade, frequentano i nostri bar e le nostre birrerie, frequentano i nostri stadi, scrivono sui nostri social. È esattamente quello che penso, mutatis mutandis, quando guardo al più grande crimine del secolo scorso, la Shoah, o anche ai grandi crimini del comunismo o ad altri terrificanti crimini contro l’umanità. Devo dire che è esattamente l’impressione che si ricava ascoltando il banalissimo male che emerge dai tentativi di giustificazione di Eichmann al processo in cui era imputato a Gerusalemme nel 1961, oppure leggendo la terrificante confessione di Franz Stangl, comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, dove organizzò e sovraintendette all’eliminazione di circa 1,5 milioni di persone, per circa il 99% dei casi gasate all’arrivo in quei campi di pura eliminazione. Stangl racconta nello straordinario libro-intervista di Ghitta Sereny che si era occupato molto dei fiori con cui circondare le baracche dove alloggiavano le SS, e dell’amore che sprigionava in quelle poche licenze in cui tornava a casa a visitare le figlie e la moglie. La famiglia Stangl per un periodo alloggiò a poca distanza da Sobibor, in un area dove le testimonianze dicono che l’aria fosse pregna del sapore dolciastro e terribile dei corpi bruciati a centinaia di migliaia. Qualcosa di non umanamente comprensibile, ma pur sempre umano come comportamento. Ho letto che i testimoni dicono che a Colleferro i colpevoli, abbiano infierito con i calci su quel piccolo corpo ormai senza reazione. Qualcosa che definiremmo disumano, ma che dobbiamo con terribile sincerità chiamare umano, se vogliamo capire. Sia chiaro, non sto paragonando cose incomparabili, come Auschwitz e Colleferro, ma uso l’iperbole di un paragone cosi smisurato perché voglio indagare la banalità del male e della violenza a qualsiasi misura esso si verifichi, proprio contro l’ipotesi diabolica dell’origine del male. Certo mi preme articolare una differenziazione tra la violenza esercitata da un singolo individuo e quella organizzata a monte da uno stato, o da un regime, come ancora ai nostri giorni vediamo purtroppo quotidianamente, se appena alziamo lo sguardo, e ci interroghiamo su cosa stia accadendo in Bielorussia, o in Turchia, o a Hong Kong solo per fare alcuni esempi. Ho l’impressione che si imponga a tutti noi una grande riflessione sulla violenza, direttore, e che l’interpretazione diabolica del male, allontani da noi questa riflessione. Sulla violenza dunque, non sulla sua natura diabolica o mostruosa, ma anzi sulla sua costante umana, siamo chiamati a confrontarci. Ovviamente, anche se in quest’ottica, il dibattito non può certo, in alcun modo, sottacere un giudizio sullo stato della violenza nel mondo. Ho l’impressione, come accennato, che un’innegabile recrudescenza di forme di violenza vada di pari passo con i sintomi di un peggioramento grave dello stato delle democrazie liberali o dei regimi, in alcuni luoghi del mondo, e che in altri, dove indubbiamente il sistema democratico, pur con tutti i suoi difetti, tiene, altri innegabili problemi sociali siano il miglior terreno di coltura possibile per la violenza individuale come nel caso di Colleferro. Non c’è dubbio, che la violenza possa essere meglio coltivata dove mancano le strutture sociali, dove mancano strutture di aggregazione, dove cresce la disoccupazione, dove circola troppa droga, quando la formazione scolastica non è buona o non si conclude, dove dilaga la discriminazione o la marginalizzazione sociale e molte altre cose. Queste non sono certo giustificazioni, sono la descrizione di un possibile contesto, non parlo qui nello specifico di Colleferro. La violenza è insita nella natura umana; è lo Stato democratico, la forma sociale alla quale abbiamo affidato l’esercizio possibile della violenza come mezzo per la difesa della libertà di ognuno. Come diceva Max Weber all’inizio del secolo scorso, lo Stato è «un’entità che reclama il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica». Ecco, la demolizione progressiva dell’immagine diffusa che si dà della struttura dello Stato, delle sue istituzioni democratiche, del suo scopo, le relazione di guerra guerreggiata che continuamente si sviluppa tra le forze politiche avversarie in ogni paese, ecco questa denigrazione continua della miglior forma costruita nella storia per la convivenza sociale, questa mi pare la condizione entro cui si stanno sviluppando le nuove forme, o la nuova intensità della violenza. Non c’è nessun mostro, la storia siamo noi.

Gli assassini di Willy devono essere puniti da un giudice e non dal tribunale del popolo. Paolo Delgado su Il Dubbio il 10 Settembre 2020. Gli assassini di Willy devono essere puniti. Ma a farlo deve essere una giustizia capace di pesare con attenzione fatti e responsabilità individuali, non influenzata da un’opinione pubblica furente che trova nei social un potentissimo megafono. Ci sono delitti più orribili di altri. O almeno che suscitano maggior rabbia indignazione per la loro efferatezza, ferocia e stupidità. L’assassinio di Willy Monteiro a Colleferro è uno di quelli. Come l’atroce massacro del Circeo, che dopo 45 anni non è ancora stato dimenticato e segna ancora un spartiacque nella storia sociale e culturale di questo Paese. E’ normale che sia così, ed è anche giusto. Emozioni del genere, per quanto comprensibili e giustificate, non dovrebbero tuttavia assumere il comando e far velo a tutto il resto. Bisogna per esempio pesare le parole e aspettare che siano noti parecchi elementi oggi oscuri prima di azzardare, ad esempio, paragoni con il delitto del Circeo. Gli assassini di Willy devono essere puniti. Ma a farlo deve essere una giustizia capace di pesare con attenzione fatti e responsabilità individuali, non influenzata da un’opinione pubblica furente che trova nei social un potentissimo megafono e neppure da luoghi comuni e demonizzazioni o, peggio, da un paio di fotografie. In questi giorni, sui social, migliaia di persone hanno chiesto di ‘ buttare la chiave’. Come se il rispetto delle garanzie e del dettato costituzionale che finalizza la pena alla risocializzazione fosse una variabile dipendente dall’efferatezza del crimine invece che dal percorso di recupero e da una valutazione non vendicativa e non emotiva del delitto. Questa visione dei diritti e della natura della pena come variabili dipendenti è la regola, non l’eccezione. In questi giorni Cesare Battisti chiede appunto il rispetto dei suoi diritti sanciti per legge, la fine di un isolamento che non potrebbe superare i sei mesi e dura da un anno e mezzo, il potersi cucinare cibi adeguati al suo stato di salute. Nessuno se ne occupa perché, insomma, è pur sempre Cesare Battisti, diventato per una parte sostanziosa dell’opinione pubblica una delle tante personificazioni del male che i media si dilettano a costruire, rispetto alle quali diritti e persino la Carta si possono ignorare. La chiave, bisognerebbe dire forte e chiaro, non si butta mai. Non si butta per nessuno. La tentazione di rispondere alla richiesta di punizione esemplare lavorando sul capo d’accusa rischia di essere forte. Specialmente se uno dei primi quotidiani italiani strilla nel titolo che ‘ il pestaggio è durato 20 minuti’. Dovrebbe andare da sé che un pestaggio di 20 minuti non è plausibile neppure alla lontana e, nell’irrealistico caso, andrebbe incriminato per complicità l’intero paese. La differenza tra come si sono svolti i fatti, una rissa con feroce pestaggio durata una manciata di secondi, e lo strillo di Repubblica si misura in anni di galera: è quella che passa tra l’omicidio volontario e preterintenzionale. Dovrebbe essere una banalità anche affermare che non si sbatte mai il mostro in prima pagina, per ragioni di civiltà che prescindono dalla gravità del crimine. Anche qui, però, il rischio di viziare le indagini è concreto. Per due giorni abbiamo visto campeggiare le foto di due fratelli palestrati, accompagnate da articoli sensazionalistici e passaggi a effetto. In quella rissa qualcuno ha certamente tirato il calcio fatale. I quattro picchiatori coinvolti, almeno tre dei quali tra cui i fratelli Bianchi esperti in arti marziali, si accusano a vicenda. Sarebbe ingenuo pensare che la guerra lampo mediatica contro i due palestrati sbattuti in prima pagina non incida sulla valenza delle diverse deposizioni e non giochi a sfavore dei Bianchi. Inevitabilmente la tragica e tristissima vicenda ha innescato un vortice di sociologismi che non dicono nulla sulla vicenda di Colleferro ma racco