Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Burocrazia Ottusa.

Burocrazia retrograda.

L’abuso d’ufficio: il reato temuto dagli amministratori.

Dipendenti Pubblici. La sciatteria e la furbizia non è reato.

La Trasparenza è un Tabù.

Le province fantasma.

L’Insicurezza. Difendersi da Buoni e Cattivi.

I Disservizi nella viabilità e nei trasporti.

Banda “Ladra”: Gli Sfibrati.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Il Volontariato: tra buoni e cattivi.

Morire di Lavoro.

Morire di Povertà.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

La Disabilità oltre le barriere.

I medici ignoranti danneggiano tutti noi.

I Medici pestati.

La Cattiva Sanità.

La Buona Sanità.

In Montagna si invecchia prima.

Salute: Carcere e Caserma. 

Tumore ed altro: i malati abbandonati senza sussidio.

Alcool e Riflessi.

Medicinali e riflessi.

Le Malattie neurodegenerative.

La resistenza agli antibiotici.

Tumore: scoprirlo in anticipo.

L'anemia.

Tumore allo stomaco.

Il Tumore del Pancreas.

Tumore esofageo.

Prostata e Prostatite.

Tumore della vescica.

Il Cancro al Seno.

Il Cellulare provoca il tumore?

Tumore al Cervello.

Tumori, in Italia sopravvivenza più alta che nel resto d’Europa.

Ecco il santo protettore dei malati di cancro.

L’Amiloidosi.

La Brucellosi.

L’Infarto.

La trombosi venosa.

Sindrome aerotossica: il sistema di areazione degli aerei fa male?

L’encefalomielite mialgica (ME):  sindrome da fatica cronica CFS.

La meningite.

L’emicrania.

I Colpi di Testa.

Cefalea invalidante.

Il Fegato Malato.

Il Colesterolo.

La Sla. Sclerosi laterale amiotrofica.

La Fibromialgia.

L’Epilessia.

La dislessia è anche un business.

Lo stress (fa anche venire i capelli bianchi).

Riposare o dormire?

Il Sonniloquio.

Psoriasi.

L’Herpes Zoster: «Fuoco di Sant’Antonio».

La Mononucleosi: la "malattia del bacio".

L’Autismo.

La sindrome di Asperger.

Tricotillomania, il disturbo ossessivo di strapparsi i capelli.

La Disfunzione Erettile.

L’Infertilità.

Tocofobia, Contraccezione ed Aborto.

La Menopausa.

Le Malattie sessuali.

La Vulvodinia

La sindrome da odore di pesce marcio.

Il Mento sfuggente.

Questione di Lingua…

La Glossofobia.

Gli Integratori.

Gli alimenti salutari.

L’Obesità.

La dieta.

L'Anoressia.

La canizie.

L’Alopecia.

L’Anzianità.

La Frattura del Femore.

La Balbuzie.

L’ittiosi epidermolitica.

La cura tradizionale alternativa.

Ti cura Internet.

Preservare la vista.

Ipoacusia: deficit uditivo.

Le Puzzette.

La puzza e le Ascelle.

La stipsi: La stitichezza.

Le Urine svelatrici.

La Demenza. La Sindrome di Korsakoff.

La distimia e la Depressione.

L’ictus cerebrale.

Mente sana in Corpo sano.

Il cervello è l’ultimo a morire.

La Ludopatia.

Il Mancinismo.

L’Evoluzione del naso.

Benessere e Calzature.

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

PRIMA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Burocrazia Ottusa.

Marco Sabella per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2020. L'obiettivo è mettere un freno ai tanti sindaci che nei mesi scorsi hanno imposto limitazioni e divieti all'installazione delle antenne necessarie allo sviluppo della nuova rete 5G. In tutto sono oltre 500 i Comuni che hanno adottato ordinanze per impedire agli operatori di tlc di procedere con i lavori e proprio questo lungo elenco di enti locali è quello che da subito dovrà fare i conti con la norma inserita nel decreto Semplificazioni. In sostanza, il governo ha predisposto una modifica alla legge del 2001, che disciplinava le regole per l'insediamento di antenne e reti per le infrastrutture di tlc, sterilizzando i poteri dei sindaci in materia. In base alla nuova norma del decreto i primi cittadini «non potranno introdurre limitazioni alla localizzazione sul proprio territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualunque tipologia e non potranno fissare limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici diversi rispetto a quelli stabiliti dallo Stato». La mossa del governo, insomma, pare fondata sulla necessità di garantire il percorso di realizzazione della rete 5G, evitando veti e stop a livello locale a quella che dovrebbe essere l'infrastruttura indispensabile al processo di modernizzazione e digitalizzazione del Paese. Una priorità segnalata, del resto, anche nella relazione consegnata al governo dalla task force coordinata da Vittorio Colao, rammentando l'esigenza di «escludere l'opponibilità locale» alla realizzazione di nuove infrastrutture. Resta che a livello locale è destinata a montare la protesta dei sindaci. Uno dei primi a farsene interprete è il primo cittadino di Vicenza, Francesco Rucco, che lamenta: «La decisione del governo vieta ai sindaci di intervenire con un'ordinanza a tutela della salute pubblica per quanto riguarda il tema dell'esposizione ai campi elettromagnetici. Viene resa così inefficace l'ordinanza che ho firmato nel maggio scorso, come le tante altre ordinanze emesse dai sindaci di tutta Italia. In questo modo, pertanto - dice Rucco -, il governo esautora i sindaci che rappresentano la massima autorità sanitaria locale e che quindi hanno la responsabilità della salute dei cittadini». A protestare è anche il presidente di Anci Veneto, Mario Conte, che osserva: «Una limitazione all'autonomia dei sindaci su un tema delicato che tocca da vicino le comunità e il paesaggio». Ma il fronte per i sindaci è duplice, poiché molti operatori di tlc hanno fatto ricorso al Tar contro le ordinanze dei Comuni. In alcuni casi, come a Messina, il Tar siciliano si è già espresso, accogliendo la richiesta di Vodafone di sospendere l'ordinanza anti 5G adottata dal Comune. La decisione dei giudici amministrativi evidenzia, tra l'altro, che la valutazione sui rischi sanitari è di esclusiva competenza dell'Arpa, l'Agenzia regionale per la protezione ambientale.

«Appalti bloccati? Cari politici, la colpa non è di noi giudici ma delle pessime leggi». Simona Musco su Il Dubbio l'11 giugno 2020. Fabio Mattei, presidente dell’Associazione nazionale magistrati amministrativisti: «Toti dice che i Tar bloccano il Paese: è un’entrata a gamba tesa sulla nostra funzione giudiziaria». «Si parla tanto di giustizia penale ma la giustizia amministrativa, se non la rivediamo e se le aziende non si danno anche comportamenti di autoregolamentazione secondo codici etici che impediscano di farsi concorrenza o inibire concorrenti attraverso continui ricorsi al Tar questo Paese andrà poco lontano». Le parole del governatore della Liguria, Giovanni Toti, sono un’accusa senza se e senza ma alla Giustizia amministrativa. Vissuta come ostacolo allo sviluppo del Paese e parte di quella burocrazia che lo azzopperebbe bloccando i lavori pubblici. Un’accusa pesante che Fabio Mattei, presidente dell’Anma, Associazione nazionale magistrati amministrativi, respinge al mittente: «È un’entrata a gamba tesa sulla funzione giudiziaria – dice al Dubbio -. Il vero problema sono le leggi di pessima qualità. E quelle sono colpa della politica».

Presidente, ma è vero che sono i Tar a danneggiare le aziende?

«Queste parole si inseriscono in un solco di dichiarazioni da parte di esponenti politici di primo piano: ricordo Prodi, secondo cui il giudice amministrativo costava non so quanti punti di pil al Paese ogni anno, poi ci fu Renzi, il quale disse che avrebbe iniziato la sua campagna elettorale con lo slogan “no Tar tour”, poi siamo arrivati alle dichiarazioni di Franceschini dopo la questione relativa ai direttori dei musei. Notiamo da tempo un fastidio della politica – speriamo non tutta – nei confronti del lavoro dei giudici amministrativi, ma bisogna ricordare che dietro ogni ricorso c’è l’istanza di giustizia di un cittadino, di un’impresa, di un operatore economico che indubbiamente può essere destinatario di un’attività amministrativa illegittima».

Dunque sono una tutela?

«I Tar svolgono una funzione di presidio di legalità sul territorio ed è un punto molto importante sul piano istituzionale. Se c’è la mala amministrazione, se ci sono le degenerazioni della burocrazia, che poi portano a fenomeni che alterano le gare pubbliche, il Tar, che è un’istituzione giudiziaria al pari di quella civile o penale, è per legge, secondo il nostro ordinamento, quella a cui il destinatario della cattiva amministrazione si può rivolgere. La politica non considera che dietro ogni ricorso c’è un’istanza di giustizia che il Tar valuta serenamente, applicando la norma, con una norma che spesso è alluvionale, contraddittoria, affastellata e poco chiara anche per gli operatori del diritto, molto spesso. E ciò vuol dire che la qualità del prodotto legislativo è pessima. Quindi anche nell’ambito di un’amministrazione totalmente virtuosa, il pubblico funzionario può avere difficoltà ad orientarsi, tanto che molte volte è la stessa amministrazione che aspetta che si faccia il ricorso al Tar per poi andare nella direzione decisa. Ci sono sicuramente dei funzionari non all’altezza, che fanno un enorme danno al Paese, perché non svolgono i procedimenti in modo spedito, in modo conforme alla legge, però è altrettanto vero che ci sono anche funzionari diligenti e preparati purtroppo non sono la gran parte, che svolgono in modo diametralmente opposto i procedimenti. Ma io credo che la politica non possa chiamarsi fuori da una responsabilità che riguarda la qualità delle norme, perché le norme le approva il Parlamento, senza dimenticare che molto spesso le amministrazioni sono lottizzate. Queste sono le degenerazioni che ricadono sì sui funzionari e sulla pubblica amministrazione ma hanno evidentemente degli autori e degli attori che, purtroppo, molte volte riscontriamo nel mondo politico. Se le norme sono scritte male, il pubblico dipendente che deve applicarle ha difficoltà e se le applica male è chiaro che va in corto circuito il sistema. Se la pubblica amministrazione adotta un atto illegittimo, il cittadino cosa deve fare? Vogliamo immaginare un modo senza tutela?»

Toti dice che non bisognerebbe fare tutti questi ricorsi al Tar. È un’invasione di campo della politica?

«È un’entrata a gamba tesa sulla funzione giudiziaria, sulla funzione ordinamentale attribuita al magistrato amministrativo, in questo caso, ma come per qualsiasi altro giudice è l’ordinamento che assegna al giudice la funzione di dirimere i conflitti, è la Costituzione. Noi negli articoli e nelle norme della Costituzione troviamo i principi cardine della giustizia amministrativa. Quindi anziché pensare di riformare la giustizia amministrativa bisognerebbe riformare il modo di confezionare le leggi e di scrivere le norme, nonché la pubblica amministrazione, che non sa nelle sue sacche di burocrazia, nel senso deteriore del termine, procedere e non sa agire in modo conforme alla legge. Poi parliamo anche di responsabilità della politica che molte volte entra nelle decisioni degli uffici e dei funzionari. Le figure apicali delle amministrazioni pubbliche le sceglie il politico».

Si tirano spesso in ballo gli investitori esteri e la scarsa attrattività dell’Italia proprio per la sua lentezza in termini di Giustizia.

«Per il mercato e gli investitori esteri, sempre tanto invocati, una delle condizioni principali per entrare con le proprie energie nel nostro mercato, soprattutto in questi momenti di estrema difficoltà, è proprio la chiarezza delle regole. Un’amministrazione che agisce in modo illegittimo non attrae nessuno. Pensiamo quanti punti di pil costa un Parlamento quando approva delle leggi che hanno una qualità scadente e una burocrazia nel senso deteriore del termine. Vogliamo parlare di sperpero di denaro pubblico? Del Mose, dell’Expo, delle incompiute?»

C’è una statistica che spiega come le leggi malfatte blocchino lo sviluppo del Paese?

«Le posso dare un dato: credo che il codice degli appalti pubblici sia stato modificato, negli ultimi anni, 50-60 volte e questo già dà la misura di quel dato. I ricorsi in materia di appalto si svolgono con un rito super accelerato, vengono decisi in pochissimo tempo, con il rispetto del contraddittorio e questo è il fiore all’occhiello del processo amministrativo, la rapidità e la celerità nella risposta di giustizia. Le opere pubbliche incompiute non possono ascriversi alla responsabilità del giudice amministrativo».

La Giustizia amministrativa è stata un caso a parte in questa fase, anche per lo spirito di collaborazione che c’è stato tra avvocatura e magistratura.

«E non si è mai fermata. E questo è stato un punto d’orgoglio per noi. Abbiamo sempre dato una risposta di giustizia anche da remoto, sia in maniera monocratica sia collegialmente. Ovviamente il processo telematico ci avvantaggia e il decreto legge 28 del 2020, all’articolo 4, prevede anche la presenza delle parti e la discussione da remoto. Ciò ci ha consentito di non interrompere il servizio giustizia, siamo stati al nostro posto e abbiamo sempre lavorato».

Ma le udienze da remoto possono tornare utili anche per il futuro, in situazioni eccezionali?

«Noi auspichiamo, non appena ci saranno le condizioni, di tornare in tribunale e lavorare frontalmente con gli avvocati. Per noi è importante la presenza fisica, vogliamo tornare alla normalità e riteniamo che anche la dinamica visiva, facciale, di presenza offra un di più. Il tribunale è la nostra sede naturale e speriamo di tornare a fare udienza in aula con gli avvocati e con le parti. Per noi è fondamentale».

BUROCRAZIA ESTREMA. Tra norme fiscali, previdenziali e di sicurezza sul lavoro.

Striscia La Notizia il 13 dicembre 2019. Pinuccio si trova a Giovinazzo, in provincia di Bari, per parlarci del caso di una persona che è stata aiutata da un amico nella raccolta delle olive e ora si ritrova ad avere alcuni problemi per non averlo messo in regola.

Dagospia il 27 aprile 2020. Estratto dell'articolo di Paolo Panerai per "MF" - pubblicato nella newsletter "Anteprima - la spremuta di giornali di Giorgio dell'Arti". [...] Sapete quante sono le norme che regolano la vita dell'Italia e degli italiani? Fra norme centrali e regionali si supera le 160 mila. Sapete quante sono le norme analoghe in Inghilterra? Tremila. E in Francia? Settemila. In Germania, 5.400. La vastità delle norme italiane, il loro intreccio, la loro impenetrabilità anche dal punto di vista linguistico sono come una foresta amazzonica, dove se con il machete si riesce ad aprire un corridoio, fatti due metri si resta impigliati in una pioggia di liane. E gli animali feroci sono a due passi. Sempre per avere la misura che nasce dal confronto, lo sapete quanti sono i giorni medi per avere un permesso edilizio in Italia? Quasi 200, in Germania poco piu di 100, in Inghilterra 80. E ancora, per tornare alla realtà che stiamo vivendo, in Italia ci sono 16 comitati speciali creati per affrontare il virus, con ben 470 esperti o presunti tali; in Francia esiste un solo comitato tecnico scientifico; in Spagna ce ne sono due con 13 esperti. In Italia sono stati presi ben 220 provvedimenti, di cui 19 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Non e stato possibile avere dati precisi sugli altri Paesi europei, ma non e azzardato dire, in base ai comitati, che non si supereranno i dieci. La sequela sconfortante di come il paese Italia sia bloccato e perchè sia bloccato la si ha leggendo sul nostro confratello e concorrente Sole24Ore che tra leggi, note, ordinanze di Stato, regioni e comuni si sono superate le mille pagine, dicasi mille. Ma chi può orientarsi in mille pagine, per di più in linguaggio spesso oscuro e con continui rinvii a questo e a quel provvedimento o a questa e quella norma? Quando il governo ha pensato di semplificare con il decreto Liquidità ha approvato un testo che all'articolo n. 1, tanto per gradire, fa riferimento a 11 altre leggi, trattati o regolamenti [...]

La burocrazia uccide l’Italia, necessaria riforma. Piero Sansonetti de Il Riformista il 14 Aprile 2020. Nei giorni scorsi sono intervenuti, nel dibattito sulla burocrazia, due pesi massimi del diritto. Sabino Cassese, che ha scritto sul Corriere della Sera, e Giuseppe Tesauro che ha rilasciato un’intervista alle pagine di Napoli del nostro giornale. Mi sembra che in questa discussione un punto sia fermissimo: esiste un legame indissolubile tra la possibilità di mettere in moto la ripresa – dopo lo shock virus – e l’abbattimento della burocrazia. Dopodiché è giusto discutere su come procedere, e anche su quali siano le cause della degenerazione della macchina burocratica italiana. Su questo forse ci sono pareri diversi. Non mi pare però che sia in discussione, tra i giuristi e gli esperti, la necessità di prendere delle misure per impedire che la burocrazia blocchi lo sviluppo. Nelle attuali condizioni, la burocrazia è un ostacolo insormontabile allo sviluppo. Tesauro cita gli altri paesi europei, in particolare la Gran Bretagna, e ci spiega quali enormi vantaggi abbiano le loro economie sulla nostra, grazie a una burocrazia scorrevole ed efficiente. Cassese indica le cause di questa crisi della burocrazia italiana. E assegna quasi tutta la colpa alla politica. Dice che la politica è colpevole perché continua a sfornare nuove leggi, senza cancellare le precedenti, e perdipiù le scrive malissimo; dice che è colpevole perché crea sempre nuovi strati di burocrazia (per esempio l’organismo anticorruzione) allo scopo di non assumere responsabilità dirette; dice che è colpevole perché ha accettato il dilagare dell’idea del sospetto, che porta a follie giuridiche come equiparare reati di mafia e reati contro la pubblica amministrazione; dice – infine – che è colpevole anche perché ha permesso alla magistratura di assumere, spessissimo, il ruolo di decisore finale in grandissime questioni che non la riguardano e che richiedono saperi e competenze che la magistratura non possiede. Sia Tesauro che Cassese poi dicono che la burocrazia non può essere abolita: va riformata. A me sembra che Tesauro e Cassese abbiano pienamente ragione. La burocrazia, ovviamente, ha una sua funzione in una società democratica. La funzione è quella del controllo. Il problema è che il controllo è diventato un controllo sulle forme, spesso un controllo sulla stessa burocrazia, talvolta un controllo sulle contorsioni inutili della legge, non sulla sostanza. Noi siamo un Paese ad altissima evasione fiscale e un Paese dove l’economia in nero è parte integrante del sistema. Più di ogni altro paese europeo. La burocrazia ha contrastato in qualche modo questi difetti? No, li ha incoraggiati, ostacolando in tutti i modi l’economia legale e favorendo il nero. Prendiamo questo caso (che conosco). Una società che deve costruire un tratto autostradale non rispetta le norme sulla sicurezza del lavoro e non rispetta neppure i contratti, e svolge una parte del lavoro con operai non regolari. Poi c’è un’altra azienda che aveva vinto l’appalto per quel tratto di autostrada, ma le è stato tolto perché il capomastro aveva una cognata che – dopo l’assegnazione dell’appalto – ha sposato un ragazzo che era stato due anni in prigione per mafia. La burocrazia è intervenuta per impedire che l’appalto andasse all’azienda considerata in odor di mafia, ma non ha nessun interesse, o nessun mezzo, per far rispettare il diritto del lavoro. È qui che vorrei sentire anche il parere del professor Cassese. A che serve una burocrazia così? A controllare che si rispettino i diritti o ad alimentare se stessa, e il sistema prefettizio, e le procure, e gli enti di controllo e tutto il resto? Questa burocrazia negli ultimi 25 anni ha preso in mano la macchina dello Stato. Insieme alle Procure. E il risultato è stato il blocco dello sviluppo e la corsa dell’Italia verso gli ultimi posti della classifica tra le potenze industriali. E questo è successo per una ragione molto semplice. La burocrazia è diventata ideologia. Cioè ha preso il posto delle ideologie precedenti. Molto approssimativamente possiamo dire che esisteva una ideologia di sinistra, dalle vaghe idee egualitarie. E una ideologia di destra, dalle vaghe idee liberiste. Sono state messe tutte e due sul banco degli imputati e sostituite dall’ideologia del “regolismo”. Che vuol dire? Non contano i valori, non contano i risultati, non contano gli interessi delle classi, non conta l’aspirazione alla ricchezza o alla giustizia sociale. Contano solo le regole. E lo sforzo dei politici deve essere quello di rendere sempre più grande, imperiale, dominante la regola. E deve essere quello di aumentare le regole, moltiplicarle, sovrapporle, perché questo e solo questo crea davvero ideologia o forse addirittura religione. Questa ideologia, come tutte le ideologie, è il punto di incontro di un’idea e di un ceto. E il ceto che si è fatto grande curando questa idea non è solo il ceto burocratico, è un ceto vasto che raggruppa una serie di professioni che vanno dal magistrato, al giornalista, al politico, all’amministratore e persino, talvolta, all’avvocato.  Non sarà facile fare la guerra a questa ideologia. È potentissima. Però, o la facciamo o diventiamo tutti poveri.

Burocrazia e magistratura bloccano l’Italia: i 10 freni a mano da far sparire. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Aprile 2020. Dal 1992 ad oggi l’Italia è cresciuta pochissimo. Quattro o cinque volte meno dei principali paesi europei. Diciamo di Francia e Spagna, per citare due paesi abbastanza simili al nostro. L’economia è ferma in tutti i settori. E se cammina va col freno. Eppure nel ventennio precedente l’Italia era cresciuta molto. Sul piano produttivo, della ricchezza, dei diritti. Era cresciuta più di tutti gli altri paesi europei – nonostante una situazione politica molto difficile, segnata dalla lotta armata e da una attività dilagante della mafia al Sud – ed era diventata la quinta o forse addirittura la quarta potenza industriale del mondo. Cosa è successo a un certo punto? È cambiato lo spirito pubblico, l’etica collettiva. Il paese che aveva visto la collaborazione e il conflitto tra borghesia e classe operaia come chiave di volta del suo successo, improvvisamente ha invertito rotta. Il suo obiettivo non è stato più quello di garantire ricchezza e diritti, ma di garantire onestà. Cosa sia esattamente l’onestà è un segreto. Si sa come si manifesta pubblicamente: affermando la superiorità della magistratura, e subito dopo (subordinata a essa) quella della burocrazia politica e amministrativa. Il risultato è quello che vediamo: il trionfo delle procedure e la sconfitta del prodotto e dei produttori. Di conseguenza una riduzione dei profitti e della libertà di impresa, e parallelamente una forte riduzione dei diritti e della libertà dei lavoratori. E anche del loro benessere. Fatevi questa domanda: le imprese erano più libere e attive nel 1991 o oggi? Poi fatevi questa seconda domanda: i lavoratori dipendenti avevano più diritti e capacità di conflitto nel 1991 o oggi? La risposta è scontata. Il fatto che in questi anni si sia riusciti a danneggiare tutti e due i partecipanti al conflitto è la prova del fallimento. Dobbiamo continuare con questo spirito suicida? La crisi prodotta dal coronavirus sarà devastante. O ci prepariamo a un colpo di reni o l’Italia declina e svanisce. Che vuol dire un colpo di reni? Vuol dire ristabilire il primato della libertà. In tutti i campi. Politica, economica, civile, di costume. Ribaltare il potere della magistratura e della burocrazia. Costringendo la magistratura a tornare nel suo ruolo costituzionale e a rinunciare alla gestione della politica e dell’economia (cioè a quello che ha fatto in questo quarto di secolo) e radendo al suolo il castello di potere della burocrazia. Lo abbiamo già scritto su questo giornale: la burocrazia è un’ideologia, è la peggiore delle ideologie perché non nasce su dei principi, è il punto di incontro tra una formazione di potere e l’idea che la “regola” sia non un mezzo ma una dea sovrana, che vive per se stessa e che va idolatrata ed esagerata. Che vuol dire radere al suolo la burocrazia? Esattamente questo: raderla al suolo, eliminare molti enti, autorità, formazioni di potere e di gestione del potere. A partire dall’Anac e dal codice degli appalti, che hanno provocato solo paralisi produttiva e blocco delle opere pubbliche. Qui accanto abbiamo pubblicato un elenco di 12 enti da abolire. È una lista che si può allungare. E che tocca anche l’impianto della giustizia amministrativa, che è una dei principali protagonisti del rallentamento dell’economia. Abolire il Consiglio di Stato? Io dico di sì. Vediamo: chi lo presiede oggi? Filippo Patroni Griffi, persona sicuramente rispettabilissima e autorevole. Ex ministro, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ex capo di gabinetto di un ministro. Diciamo un uomo della politica. Cosa ci fa al vertice di un luogo così importante della Giustizia? E quanti consiglieri sono stati in passato capi di gabinetto dei ministri? Vi pare che tutto ciò vada bene e garantisca indipendenza, efficienza, equilibrio? Ci sono alcuni di questi enti dei quali chiediamo la soppressione che hanno un fine nobile. Garantire la libertà di informazione, per esempio, o garantire la privacy. L’hanno garantita? Qualcuno osa dire che l’hanno garantita? No. Meglio eliminarli e trovare forme diverse di garanzia e anche di lotta politica. Lo Stato deve liberare le imprese. E occuparsi di garantire solo due cose: diritti dei lavoratori e welfare. La modernità sta lì: più welfare, più diritti e più libertà. Se dopo il virus riusciremo a esprimere questa svolta, benissimo. Sennò rassegnamoci a diventare un Paese di seconda o terza, o quarta fila.

Questo è l’elenco di 12 enti che potrebbero essere aboliti senza danni e con ottimi effetti per l’economia:

1) Corte dei Conti

2) ANAC Autorità Nazionale Anticorruzione

3) AGCM Autorità garante della concorrenza e del mercato

4) Garante per la protezione dei dati personali

5) AGCOM Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

6) TAR Tribunale Amministrativo Regionale

7) Consiglio di Stato

8) CNEL Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro

9) Giudice di Pace

10) Autorità di Sistema Portuale

11) Provveditorato Opere Pubbliche

12) INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche

Il Codice Appalti soffoca l’economia, per ripartire dopo Covid va cambiato. Giuliano Cazzola su Il Riformista il  3 Aprile 2020. Campane a morto anche per l’economia. «Nel 2020 un netto calo del Pil è comunque ormai inevitabile: lo prevediamo al -6,0%, sotto l’ipotesi che la fase acuta dell’emergenza sanitaria termini appunto a maggio. Si tratta di un crollo superiore a quello del 2009, e del tutto inatteso a inizio anno» – così il report della Confindustria – ma «ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive, secondo i parametri attuali, potrebbe costare una percentuale ulteriore di Pil dell’ordine di almeno lo 0,75%». L’allarme è chiaro ed è diretto alle autorità che si apprestano a prolungare la quarantena almeno per altre due settimane. Del resto è la strategia scelta – sia pur con qualche incertezza – dal governo fin dall’inizio dell’epidemia a dare priorità all’emergenza sanitaria, nella speranza che il Paese potesse uscire dal tunnel in un tempo più breve. Poiché questa aspettativa è risultata vana, diventa necessario ipotizzare una diversa strategia: passare dal contenimento alla convivenza con il virus. Ovviamente questo cambiamento non può essere improvviso come quando nei viaggi aerei intercontinentali si attraversa la linea del sole. Vi è l’esigenza di una transizione adeguata che prenda le mosse da un miglioramento delle condizioni sanitarie, sia per quanto riguarda le dimensioni del contagio, la possibilità delle strutture sanitarie di farvi fronte e l’individuazione di terapie più efficaci. In parallelo – questo pare essere il progetto del governo – occorre rimettere in moto l’economia con l’obiettivo di sostenere i redditi non solo con interventi monetari, ma anche con la riattivazione dei posti di lavoro all’interno dei settori produttivi, che devono ripartire. E se un coordinamento è mancato a livello europeo nella fase dell’emergenza sanitaria, non può venir meno nell’organizzazione del riavvio. Le economie, in particolare quelle europee, sono troppo interconnesse tra di loro per funzionare con tempi e ritmi diversi. C’è un problema di forniture che coinvolgono gli apparati industriali di diversi Paesi (si pensi ai legami tra le produzioni tedesche e quella delle regioni della Val Padana). Se i flussi venissero interrotti diventerebbe necessario ricostruire altrove le filiere produttive. Ormai non esiste più un apparato produttivo nazionale autosufficiente, soprattutto per un Paese come l’Italia la cui economia ha potuto ‘’tirare il fiato’’ grazie alle esportazioni. Del resto, anche in regime di quarantena generalizzata, non sono pochi i lavoratori che, sia pure con tutti gli accorgimenti possibili, hanno continuato a lavorare per la sopravvivenza materiale degli italiani (e degli stranieri che risiedono qui). Fabrizio Patriarca ha pubblicato su Huffington Post una stima sul numero di lavoratori che garantiscono i beni e i servizi ritenuti essenziali (attraverso un negoziato con le parti sociali, il cui esito è stato giudicato soddisfacente da parte dei sindacati). Escludendo i settori della scuola e della pubblica amministrazione (che sono soggetti a restrizioni specifiche) la quota di lavoratori necessari è pari al 47% del totale: circa 8,6 milioni. Con la ripartenza graduale delle attività economiche, alle quali si promette tutta la liquidità necessaria, bisognerà riflettere sul perché i finanziamenti per le opere pubbliche e le infrastrutture non venivano spesi anche prima della catastrofe sanitaria. Si dovrebbe quindi cogliere l’occasione di questa fase di legislazione straordinaria per costituire un quadro normativo adeguato. In primo luogo deve essere rivisto il Codice degli appalti (dlgs n.50/2016). Un provvedimento nato sotto cattivi auspici tanto che il governo di allora fu costretto ad emanare un avviso di rettifica di ben 188 articoli su 220. A parte gli innumerevoli e sbadati refusi, l’aspetto più grave (che fu denunciato da Gianantonio Stella sul Corriere della sera), riguardava i rinvii legislativi errati. Qualunque legge si muove in un quadro normativo più ampio e deve fare riferimento ad altre norme contenute in commi ed articoli di altri provvedimenti legislativi (contrassegnati da date e numerazioni). Se queste indicazioni sono sbagliate (e, nel codice, lo erano per un numero impressionante di volte) l’interprete (che è poi un’impresa che deve lavorare) o finisce su di un percorso sbagliato o si infila lungo un binario morto da cui non è più in grado di uscire. Ve li immaginate gli uffici tecnici delle aziende che devono consultare la legge tenendo sott’occhio l’opuscolo degli errata corrige? Ma la questione più grave sta nella “filosofia” del Codice che si basa, nei fatti, su di una presunzione di valore assoluto: gli appalti sono inficiati dalla corruzione e dalla concussione. E dagli abusi. Basti pensare che il Codice è accompagnato da un documento di Linee guide deliberato dall’Anac su come valutare l’offerta più vantaggiosa. Fare l’imprenditore nel settore delle costruzioni è diventata una professione rischiosa. A parte tutte le difficoltà per vincere gli appalti, ottenere le commesse e i pagamenti con frequenza regolare, costoro (certo, non sono tutti stinchi di Santo) devono mettere in conto di essere intercettati fin dal primo minuto, di ritrovare, pubblicate sui quotidiani, le registrazioni delle loro conversazioni, di ricevere una sequela di avvisi di garanzia e, magari, anche di visitare per qualche mese le patrie galere, assistiti da una campagna mediatica diffamatoria. Tutto ciò, anche in assenza di eventuali malversazioni. Ovviamente si evoca l’ombra di Banko della burocrazia inefficiente e sorniona. E nessuno ha il coraggio di riconoscere che il “mettere una firma” da parte di un funzionario, potrebbe comportare quanto meno un avviso di garanzia, un atto che ormai è divenuto un preavviso di colpevolezza.

Se gli appalti si bloccano non è colpa del Codice. Stefano Esposito de Il Riformista il 9 Aprile 2020. Ho seguito sul Riformista il dibattito sul codice degli appalti. Ritengo che imputare al codice, di cui sono stato relatore al senato, ed ad Anac, la responsabilità del, presunto, blocco dei lavori e delle forniture sia una operazione che non corrisponda alla realtà. Prima dell’approvazione del codice, nel 2015, questo paese non faceva altro che lamentarsi di come i lavori pubblici e le forniture di beni e servizi fossero oggetto di scandali, affidamenti al massimo ribasso con le conseguenze che tutti conosciamo, affidamenti diretti, lievitazione dei costi dovuti alle continue varianti e riserve, appalti integrati che invece di accorciare i tempi e i costi delle opere producevano il risultato contrario. Per non parlare del tema del subappalto, diventato lo strumento principe della criminalità organizzata per focalizzare i propri interessi negli appalti pubblici; non meno importante è l’uso che ne facevano le grandi imprese per scaricare sul sistema delle piccole e medie imprese i ribassi praticati in fase di gara per aggiudicarsi gli appalti. Questo meccanismo produceva come unico risultato quello di avere lavori e servizi non in linea con gli standard minimi richiesti. Oggi, dopo la riforma che ha limitato la possibilità di subappalto, scelta fatta consapevoli di essere non in linea con la normativa europea ma calata nella relata italiana, tutti a chiedere il subappalto libero e senza controlli. A me pare un tentativo ipocrita quello di scaricare sul codice appalti e su Anac responsabilità che non hanno e che vanno ricercate nella poca disponibilità di una parte della PA ad attuare le norme che richiedono quel minimo di assunzione di responsabilità che è lecito richiedere. E va ricercato nel sistema delle imprese che, in molti casi, non ama la competizione sulla qualità del progetto ma preferisce la scorciatoia del prezzo più basso. La giustificazione secondo la quale i dirigenti pubblici non firmano più niente perché spaventati dall’azione dei Pm non sta in piedi. So perfettamente che ci sono molti casi di indagini costruite su teoremi senza fondamenta ma sono frutto molto spesso di mega-appalti, vedi Consip, costruiti malissimo, forse non a caso, che determinano una guerra sui prezzi invece che premiare la qualità e la competenza. Non a caso sono stato tra i pochi che volevano modificare l’impostazione delle gare di Consip, ma purtroppo la mia tesi uscì sconfitta. Imputare al codice o ad Anac responsabilità su questo è un’operazione falsa e priva di fondamento. Semmai il codice è lo strumento che se utilizzato in modo corretto e puntuale, dove necessario con il contributo di Anac, evita di pubblicare gare che daranno più lavoro agli avvocati che a ingegneri e operai. Invece di fare questo si continua a cercare un capro espiatorio da offrire in pasto al popolo e parallelamente teorizzare di tornare al sistema dei commissari e delle deleghe che tanti danni hanno prodotto in questo paese. Chi utilizza il ponte Morandi per giustificare questa opzione compie un’operazione sbagliata; quel metodo non è utilizzabile per la ripartenza del paese. Anzi se si vuole modificarlo definitivamente questa è l’opzione perfetta. Nessuno poi si lamenti se le Procure italiane saranno le vere protagoniste. Possibile che nessuno ricordi quanto avvenuto in occasione di Expo? Se non fosse stato per il grande e duro lavoro di Cantone e di Anac, Expo non avrebbe probabilmente aperto. Non servono scorciatoie, non serve riesumare la legge obbiettivo, serve applicare le norme, serve dare ad Anac poteri incisivi e una guida autorevole, come era quella di Cantone, e le risorse affinché possa svolgere il ruolo di supporto e accompagnamento che ha svolto tra il 2015 e il 2018. Poi sono arrivati al governo leghisti e grillini ed è iniziata la sistematica guerra a Cantone e la progressiva demolizione di Anac.

L’Italia è ferma, sospendiamo il codice appalti: basta burocrazia delle procure. Piero Sansonetti de Il Riformista il 7 Marzo 2020. Ora se ne sono accorti pure loro – i grillini – che il blocco praticamente di tutte le opere pubbliche e delle grandi opere, che va avanti da anni, non è un vantaggio per l’Italia. È una cosa molto positiva che se ne siano accorti. Il problema è che per diversi decenni, prima i loro predecessori (girotondi vari, popoli viola, partiti di magistrati, travaglisti e pre-travaglisti)  e poi loro 5 stelle, hanno paralizzato l’economia italiana: e il conto che ora bisogna pagare è altissimo. Il viceministro alle infrastrutture Cancelleri, che è un esponente dei 5 Stelle, si è deciso a chiedere che per cinque anni sia sospeso il Codice Anac almeno per cinque grosse opere pubbliche. E che sia invece utilizzato il cosiddetto Codice-Genova, e cioè la deroga in base alla quale è stato possibile risparmiare due anni e mezzo nell’inizio dei lavori per il ponte che dovrà sostituire il ponte Morandi. Il viceministro e i Cinque stelle si sono resi conto di quale sia la differenza – in termini di economia e di “vivibilità” – tra impiegare sei mesi o tre anni per superare i codicilli e avviare i lavori. Non saprei quantificare il risparmio realizzato con il nuovo Ponte Morandi, sospendendo il codice Anac, ma a occhio e croce possiamo parlare almeno di mezzo miliardo nel costo dell’opera e di diversi miliardi nell’efficienza dei trasporti che passano per la Liguria. È chiaro che il danno per la Liguria provocato dall’assenza di quel ponte è molto alto, e che ogni anno di ritardo pesa sull’economia di tutta la regione. Poi, se vogliamo occuparci anche del resto dell’Italia, scopriamo che ammonta a circa 120 miliardi il valore delle opere bloccate dal codice Anac. Non so se capite cosa vuol dire per un paese moderno, che fa parte dell’Europa, che vive nella globalizzazione, che è dentro il mercato, che utilizza fondi europei, vedere bloccati 120 miliardi di lavori. E non so se gli economisti siano in grado di calcolare quale è il danno di questo blocco e quale sarebbe stato il vantaggio , in termini di Pil, se non ci fossimo autostrangolati coi codici anti-corruzione. Probabilmente il danno può essere quantificato in più di mille miliardi, e in termini di Pil possiamo parlare almeno di due o tre punti di Pil sfumati. Nel 1992, quando iniziò l’ubriacatura giustizialista guidata dalla Procura di Milano, alcuni economisti dicevano che la nostra era la quinta potenza industriale al mondo, altri dicevano che era la quarta e che aveva scavalcato sia la Francia sia la Gran Bretagna. Io all’epoca facevo già il giornalista, e me li ricordo bene quei tempi. I politici di oggi sono in gran parte molto giovani, allora erano bambini. Se glielo dici, forse non ci credono che davanti a noi c’era sola la potenza degli Stati Uniti e quella del Giappone e della Germania appena unificata. ma era così. Ora siamo scesi giù giù in classifica, ci avviamo verso il decimo posto, la crescita del nostro Pil è in fondo alla graduatoria europea, siamo pronti ad essere i primi tra i paesi occidentali a entrare in recessione, lo sviluppo economico del paese è bloccato – crisi o non crisi – da un quarto di secolo. A chi dobbiamo dire grazie? Quando ci accorgeremo che l’onda del giustizialismo fondamentalista ha provocato più danni di qualunque altra cosa. Che ha indebolito fortissimamente la nostra industria, che ha spazzato via la forza dei sindacati, che ha messo alle corde i lavoratori? Oggi noi abbiamo un paese dove i capitalisti sono più fragili e impauriti e i lavoratori godono della metà dei diritti di cui godevano all’inizio degli anni novanta. Però abbiamo la soddisfazione di vedere entrare in Parlamento eserciti di ragazzotti che gridano Honestà senza avere la minima idea di cosa stavano combinando.

Documento di valutazione dei rischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il documento di valutazione dei rischi (DVR) è un documento che rappresenta la mappatura dei rischi per la salute e la sicurezza presenti in un'azienda, richiesto in formato elettronico o cartaceo dal Testo unico sulla sicurezza sul lavoro D.Lgs 81/2008, ove viene trattato agli articoli 17 e 28). Deve contenere tutte le procedure necessarie per l'attuazione di misure di prevenzione e protezione da realizzare e i ruoli di chi deve realizzarle. La sua redazione è un compito non delegabile assegnato al datore di lavoro con l'ausilio del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e del medico competente, previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS/RLST). Deve inoltre essere redatto con data certa.

Portano il figlio alla vendemmia, denuncia e multa da 5mila euro. La Repubblica il 3 novembre 2012. L'episodio a Manduria: il quindicenne aveva accompagnato i genitori e lo zio nel podere di famiglia, prima dell'inizio della scuola. "Sfruttamento di lavoro minorile" per gli ispettori di Taranto. Una multa di 5mila euro per lo zio, una denuncia penale per i genitori. Si è chiusa così la mattinata in campagna di un quindicenne di Manduria. Il ragazzo  era nei vigneti dei parenti, con i genitori al suo fianco, per assistere alla vendemmia quando è arrivata un'ispezione dell'ufficio del lavoro provinciale di Taranto. I funzionari non hanno avuto dubbi: quello era un caso di sfruttamento di lavoro minorile. La vicenda è stata raccontata dal giornale La Voce di Manduria. L'episodio risale allo scorso 6 settembre, ma la notizia si è diffusa solo in questi giorni con l'arrivo dell'ingiunzione a pagare. La scuola non era ancora iniziata e il quindicenne ha accompagnato il parente nei poderi di famiglia per assistere al taglio dell'uva. ll padre del ragazzo e suo cugino avevano organizzato un cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il padre del ragazzo, oltre alla moglie, impegnata nel lavoro, porta con sé anche il figlio quindicenne. Il ragazzo frequenta il liceo scientifico di Manduria e studia pianoforte da cinque anni al conservatorio Paisiello di Taranto. Al momento dell'arrivo degli ispettori il ragazzo è accanto alla madre ed ha in mano un paio di forbici infortunistiche. Questo basta ai due funzionari per contestare ai suoi familiari il lavoro irregolare e la denuncia di sfruttamento di minore. Lo studente, dal canto suo, ha negato di aver preso parte alla vendemmia. Ma ora della sua posizione dovranno risponderne i suoi parenti.()

Invita gli amici a raccogliere l'uva, multato per lavoro nero. Per l'Ispettorato del Lavoro stava impiegando manodopera non dichiarata, e cioè la sua compagna e tre suoi amici di vecchia data. Multa da 19.500 euro. Luca Romano, Lunedì 28/09/2015, su Il Giornale. L'Ispettorato del lavoro non conosce deroghe. Succede che un agricoltore della provincia di Cuneo ha deciso di invitare gli amici a raccogliere l'uva. Peccato però che i controllori l'abbiano multato per lavoro nero poiché secondo l'Ispettorato del Lavoro stava impiegando manodopera non dichiarata, e cioè la sua compagna e tre suoi amici di vecchia data. È accaduto, come racconta La Stampa, a Castellinaldo d'Alba a Battista Battaglino, pensionato di 63 anni. "Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perché in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero", ha raccontato Ada Bensa, compagna del pensionato. Che ha dovuto far fronte a una multa di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato.

Raccolta olive: invece di chi ti aiuta arrivano gli ispettori del lavoro. Francesco Martini su Casentino 2000 il 23 novembre 2012.   – Ho avuto notizia di alcune incursioni degli ispettori del lavoro su piccole o piccolissime aziende agricole in cui è in atto la raccolta delle olive: «…l’anno scorso mi hanno fatto 500 euro di multa per ogni persona trovata nel campo a raccogliere le olive: erano amici e mezzi parenti che ci aiutavano. Sa io ho 73 anni e mia moglie uguale. Quest’anno siamo soli io e lei e cogliamo quello che si può; dove non s’arriva lasciamo le olive nelle piante e buonanotte!!!». In passato, per millenni, i coltivatori hanno praticato il cosiddetto “sconto d’opra”, cioè un contadino aiutava un altro nei lavori, lunghi o pesanti, in cui era necessario essere più di uno e, a sua volta, veniva aiutato per un pari numero di giornate oppure con la cessione di una parte del prodotto agricolo. Poi, siccome il lavoro sui campi determina un grande guadagno per tutti, sono arrivati gli ispettori del lavoro e questa pratica non è stata più consentita. Ispezioni e multe per chi andava a raccogliere le olive per rimediare l’olio per casa (a Subbiano la regola era 5- 6 chili d’olio in cambio della raccolta di un quintale d’olive) e per il proprietario delle piante. È la legge e la legge va rispettata! Poi la legge è cambiata: il D.l. n. 276/2003 (cosiddetta Legge Biagi del 10.9.2003) stabilì che potevano collaborare ai lavori agricoli, compresa la raccolta delle olive, senza alcuna formalità di legge, i parenti ed affini fino al terzo grado (Art. 74: “Con specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte da parenti ed affini sino al terzo grado in modo meramente occasionale a titolo di aiuto…”); ma gli ispettori non intendevano e consideravano destinatari di quella facilitazione legale solo i Coltivatori Diretti regolarmente iscritti: venivano esclusi i piccolissimi proprietari che non si dedicavano a titolo professionale all’attività agricola. Fu necessaria una circolare dell’I.N.P.S. per imporre agli ispettori di non limitare l’applicabilità della legge ai soli Coltivatori Diretti professionali, ma di estenderla a tutti i proprietari dei fondi agricoli. Successivamente con Decreto Legge n. 5 del 10.2.2009 (art. 7ter) veniva ampliata la parentela e affinità dei partecipanti ai lavori agricoli fino al quarto grado. Oggi, praticamente, possono partecipare alla raccolta delle olive e ad ogni altra attività agricola, purché svolta gratuitamente e per breve tempo tutti i parenti e gli affini entro il 4° grado. I parenti sono i consanguinei e quindi: genitori, nonni e bisnonni, figli, nipoti e pronipoti, zii e zie, fratelli e sorelle e loro figli (cioè zii e cugini di primo grado); gli affini sono i parenti del coniuge (marito o moglie) e cioè genitori nonché nonni e bisnonni del coniuge, figli, nipoti e pronipoti del coniuge, fratelli e sorelle e loro figli del coniuge (cioè cognati e loro figli), zii e zie del coniuge e loro figli. Spero di essere stato abbastanza chiaro e mi auguro che le mie indicazioni possano servire a quei ricconi (!) dei proprietari terrieri casentinesi.

Raccogliere uva, oliva presso amici o parenti é legale o no? Economia-Italia.com il 24 Maggio 2019. Si può vendemmiare gratis presso il campo di un parente o un amico, ma un normale lavoratore deve essere in regola per raccogliere uva, olive, pomodori o quant’altro presso un campo coltivato, altrimenti il padrone del terreno rischia una multa salata, a meno che questo non sia un parente o un coltivatore diretto collega che non percepisca reddito e che rientri nello scambio di manodopera tra coltivatori diretti, come leggerete più avanti in questo articoli che finalmente spiega se raccogliere uva, oliva presso amici o parenti è legale oppure no. Raccogliere uva o oliva presso amici o parenti gratuitamente, è legale?

Prima facciamo una premessa: iniziamo dal principio: Da tempo immemorabile in Italia ( dai grèci chiamata Enotria, per le sue vaste piantagioni di uva) quando é tempo di raccolto, si riuniscono insieme amici e parenti e si coglie l’uva a settembre e le olive ad ottobre-novembre. Di solito la metà va al proprietario della terra, l’altra metà se la dividono quelli che l’hanno colta, ma questa é solo un’usanza, a volte si divide tutto in parti uguali. Questo sistema viene usato da chi ha un pezzetto di terra e la coltiva con tanto amore perchè 1a volta all’anno gli dia dei frutti per poter tirare avanti gli altri 12 mesi.

Vendemmiare, raccogliere l’uliva presso parenti o amici é possibile? In questo modo il piccolissimo proprietario di terra ( bastano 2 o 3 mila metri quadri ) potrà avere un suo orto, vigna con viti, olivi ed avere tutto l’anno vino buonissimo, olio buonissimo, insalata ed altri prodotti dell’orto che LUI ha coltivato. Questo non é solo un bene economico per il piccolissimo proprietario terriero/contadino, ma anche per il paesaggio, meno smottamenti idro-geologici causati dall’incuria dell’uomo, quindi meno spesa per Comune/Province/Regioni  si avranno infatti campi coltivati e sistemati a dovere, si avranno persone che mangiano cose sane senza l’uso di prodotti chimici, quindi meno malattie e meno spesa per il Sistema Sanitario Nazionale, ma a tutto questo la burocrazia é sorda e cieca. E’ vero: ci sono aziende che sfruttano operai e li fanno lavorare per 2 euro all’ora 12 ore al giorno con la schiena piegata, ma ovviamente non sono questi i casi. Si parla di grandi aziende, che hanno centinaia, migliaia di filari, centinaia di ettari di terreno coltivato intensamente, campi enormi a perdita d’occhio.

Ora: é possibile che un piccolo proprietario terriero debba prendere qualcosa come 20 mila euro di multa perché si stava facendo aiutare dai suoi amici a cogliere dell’uva? Questo é accaduto proprio l’altro ieri nelle belle colline piemontesi vicino ad Alba, dove nasce il favoloso tartufo bianco  2 contadini pensionati, marito e moglie si stavano facendo aiutare a raccogliere l’uva dei loro filari dai vicini, poi sarebbero tutti passati in un’altro podere, è così che si fa da quelle parti, da sempre ci si da una mano, la vendemmia è tempo di festa ed era festa anche per loro, finché non sono spuntati i carabinieri e impiegati dell’ispettorato per il lavoro che hanno fatto una multa per 19.500 euro, considerando tutte quelle persone lavoratori in nero. I due poveri pensionati ora sono rovinati e non sanno nemmeno come fare a pagare.

Le norme che consentono andare a vendemmiare da parenti ed amici gratis: Scambio di manodopera: è la legge del Codice Civile all’articolo 2139 consultabile presso una Circolare INPS n° 126 del 16/12/2009 che ci dice che i coltivatori diretti si possono aiutare, scambiandosi favori di manodopera, senza che ci siano compensi in moneta tra gli uni e gli altri, ovviamente però bisogna dimostrare di essere dei coltivatori diretti, per poter fare questo.

 Prestazioni di parenti ed affini: qui la cosiddetta legge Biagi d.lgs. n. 276 del 2003, ci dice che vanno considerate prestazioni occasionali di tipo gratuito quelle di parenti ed amici, che siano pensionati o impiegati a tempo pieno presso un altro datore di lavoro, quindi non hanno bisogno di essere iscritte nè a livelli assicurativi nè ad altri livelli amministrativi.

Voucher per lavoro occasionale accessorio: ecco un altro caso ( più raro, stavolta) di lavoratori che possono lavorare non in regola e che possono raccogliere pomodori o possono fare la vendemmia, vengono pagati ad es. con Voucher del valore di 10 euro l’uno ( per ogni ora lavorativa) di cui 7,5 andranno al lavoratore . Qui è prevista la copertura assicurativa INAIL  , il lavoratore pensionato, disoccupato o studente può avere una piccola entrata in più, ma si può lavorare solo per una cifra limite di 5.000 euro netti all’anno solare. Per info sui Voucher per lavoro occasionale, potete andare al sito del Ministero del Lavoro* ATTENZIONE: i Voucher sono stati sostituiti con il Libretto di Famiglia di Contratto di Lavoro Occasionale.

Controlli sulla raccolta delle olive: attenzione a farsi aiutare da amici e parenti. SavonaUno il 25 ottobre 2018. Al via la raccolta delle olive e iniziano anche i controlli ispettivi da parte dei funzionari del ministero del Lavoro. Controlli a tappeto e, per chi non è in regola. le sanzioni sono molto salate. A mettere su chi va là i produttori è la Cia, confederazione degli agricoltori, “che combatte con forza il lavoro nero, ma spera nel buon senso di chi controlla, nei casi in cui ad aiutare a bacchiare gli ulivi siano familiari o amici”. “Sia chiaro che Cia è contro il lavoro irregolare – afferma Stefano Roggerone, presidente di Cia Imperia – ma è tradizione, per la raccolta delle olive, un po’ come per la vendemmia, farsi aiutare da parenti e amici. Magari poi ci si divide l’olio prodotto, magari si mangia in compagnia, bacchiare gli ulivi assieme è una pratica che va avanti da secoli e che non ha secondi fini se non produrre l’olio per autoconsumo familiare. Per questi casi invochiamo il buon senso da parte di chi controlla”. I consigli per cercare di salvarsi da multe e sanzioni (che partono da un minimo di mille euro per ogni “lavoratore” non in regola) sono: l’assunzione vera e propria del personale, oppure l’utilizzo dei voucher che però possono essere attivati solo per i pensionati e gli studenti. “Altre alternative sono il farsi aiutare solo da parenti entro il quarto grado – prosegue Roggerone – oppure utilizzare lo scambio di giornata se si è entrambi coltivatori diretti. Stiamo parlando di micro-aziende famigliari, che vanno avanti con i mezzi che hanno e con il mutuo aiuto. Loro hanno l’urgenza di ottenere delle semplificazioni per quanti riguarda il DVR (il documento di valutazione dei rischi), perché non sono grandi aziende con tanti dipendenti. Se si va incontro alle micro-aziende semplificando si otterrà più sicurezza e più legalità”.

Mia madre, il pass per disabili, e l'umiliazione subita da chi vuole rispettare le regole. La visita per il rinnovo del tagliando per poter parcheggiare nei posti riservati mostra la faccia disumana dello Stato. Incapace di mostrare umanità verso chi ne ha bisogno. Luca Bottura il 23 gennaio 2020 su L'Espresso. Perché vede, dottoressa, non nego che lei abbia delle ragioni. Mentre attendevo, davanti all’ospedale, che si liberasse un parcheggio normale - ho il pass handicap scaduto -ho visto partire e arrivare almeno cinque auto munite di regolare contrassegno. Nessuno che denotasse problemi di sorta, parevano in eccellente salute. Un po’ come quei tre ragazzotti che tempo fa, in centro, avevano mollato la Y nel posto disabili per andare a prendersi il mojito e alle mie rimostranze avevano risposto canzonatori: «Vuoi venire anche te?». Lei ha alcune ragioni, nel comportarsi in modo piuttosto disumano con chi entra nel suo ufficio per rinnovarlo, quel pass. Le saranno arrivate disposizioni di essere inflessibile coi furbi. Immagino sconti la frustrazione di dover annotare quel che le si dice su un foglio di carta, senza manco un computer, dunque di non poter incrociare le informazioni, le diagnosi, non sapere chi ha di fronte, provare un certo e comprensibile disgusto per chi si presenta nel suo ambulatorio a simulare patologie. Lei ha una manciata di ragioni, magari pure personali, non so, ci si alza male a volte la mattina, per trattare chi le arriva davanti come un aspirante truffatore. Compreso il sottoscritto e mia moglie. Per non presentarsi a chi ha di fronte, per non presentare i due tirocinanti che le siedono accanto. Per rompere il ghiaccio con una battuta canzonatoria, di fronte a una donna in sedia a rotelle chiaramente priva di una qualsivoglia autonomia: «Immagino non guidi, no?». Lei avrà anche una ragione, anche se fatico a individuare quale, per mostrarsi disinteressata alle condizioni della persona che deve “giudicare” (una patologia cardiaca grave, oltre a un femore rotto da poco) e al termine di una visita approssimativa, liquidare i presenti con un rinnovo di un anno e un’ulteriore visita da compiersi a 89 primavere suonate, «perché tanto sarà in piedi anche prima, no?». Lei… no, non ha ragione. Non ha ragione perché probabilmente senza rendersene conto rappresenta quello che lo Stato è diventato per chi cerca di rispettare due regole, e somiglia maledettamente a quei cartelli spiritosi che ancora sopravvivono in qualche bar: «Per colpa di qualcuno, non si fa credito a nessuno». Neanche a chi - è il mio caso - non ha mai fatto di quel ritaglio una specie di pistola fumante con la quale lucrare due passi in meno. Ma solo il piccolo sostegno plastificato utile a non seppellire la mia genitrice nel suo tinello. Perché mi farebbe un po’ schifo, perché so che rischio di toglierlo a chi ne ha davvero bisogno, perché non si fa. Invece la mia esperienza, quella di un tizio normalmente perbene, come tanti, è stata quella che mia madre ha riassunto mentre la aiutavo a scendere dall’auto e a prendere goffamente posto sulla carrozzina: «C’è da vergognarsi». Si riferiva al suo corpo che non la assiste più come deve, a quella sorta di pudore violato che ne deriva, e che gli anziani, anche quelli ormai poco presenti conoscono bene. Ma è esattamente quello che ha fatto provare a me. Se le riesce, con gli altri, sia un pochino più gentile. GIUDIZIO: Per me è un no.

Alba Adriatica, vietato seppellire assieme coppie non sposate. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Nicola Catenaro. Ad Alba Adriatica, in provincia di Teramo, è vietato seppellire insieme persone non sposate. È accaduto alla famiglia di Dante Caponi, che prima di morire si era tanto raccomandato con i figli: «Prendetevi cura di lei dopo che me ne sarò andato e, quando verrà la sua ora, sistematela nella nostra cappella». Lei è Maria Angelini, la compagna che Dante aveva incontrato dopo la morte della moglie. Hanno vissuto insieme per quasi trent’anni. Non si erano mai sposati ma lei risultava anche nello stato di famiglia. Lui se n’è andato ad aprile, lei lo ha seguito qualche giorno fa. Quando i figli di Dante si sono dati da fare per eseguire la volontà del padre e tumulare la salma di lei accanto a lui, si sono trovati di fronte il muro alto della burocrazia. «Un paio di anni dopo la scomparsa di mia madre avvenuta nel 1988 – racconta Daniele, uno dei figli, ex consigliere comunale –, mio padre conobbe questa donna che gli fece ritrovare il sorriso. Non era solo un fatto di convivenza. Stavano sempre insieme, condividevano ogni cosa e io e mio fratello nutrivamo uno speciale affetto, ricambiato, per lei. L’abbiamo accudita fino alla fine e avremmo voluto seppellirla nella nostra cappella in cui, è bene precisarlo, ci sono ben undici loculi disponibili. Non esiste quindi, un problema di capienza mentre nel cimitero non si trovano attualmente posti liberi. Tuttavia, la dirigente responsabile ci ha risposto che, in base alla normativa esistente, non si possono seppellire nella tomba di famiglia estranei. Ma come?, ci siamo guardati, lei non è mai stata un’estranea». Daniele e il fratello chiedono come sia possibile che una convivenza, comprovata anche all’Anagrafe, non sia sufficiente per il Comune ad autorizzare l’iter. «Siamo stati di fatto invitati a parcheggiare Maria in un loculo provvisorio, dietro pagamento di mille euro come acconto, in attesa che se ne costruiscano di nuovi. Siamo molto amareggiati e abbiamo pensato a nostro padre, la cui volontà va rispettata. Andremo fino in fondo». La vicenda ha suscitato clamore sui social dopo lo sfogo che Daniele ha affidato al suo profilo Facebook, l’ultimo dell’anno, attirando anche la risposta pubblica del sindaco Antonietta Casciotti. Lei, al Corriere, spiega: «È una situazione che l’amministrazione ha intenzione di risolvere al più presto, ci siamo già scusati per questo. La coppia non aveva un contratto di unione civile e una lacuna del nostro regolamento non ha consentito alla responsabile di accogliere la richiesta da me pienamente condivisa. Provvederemo a portare all’approvazione del consiglio, forse già nella prossima seduta, la modifica e, successivamente, restituiremo alla famiglia la cauzione di mille euro già versata».

Telefono Rosa al ministro Bonafede: «Il nome è sbagliato e un bimbo con la leucemia non ottiene l’invalidità». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Rosa Gabriella Carnieri Moscatelli. Illustre ministro, ogni anno le volontarie si riuniscono per fare un escursus dell’anno appena trascorso. Durante l’incontro è inevitabile che si affronti il grande problema della difesa legale delle donne che si rivolgono alla nostra associazione. Il senso di impotenza che pervade tutte noi quando leggiamo alcuni provvedimenti. Ci siamo poste molte domande che giriamo a Lei signor ministro. Perché ad oggi non c’è un progetto di rivisitazione e riorganizzazione dei Tribunali? Le criticità che hanno presentato quest’ultimo anno i tribunali dei minori, le difficoltà oggettive dei giudici di pace non le suggeriscono una accurata analisi? Per essere più chiare le parliamo di episodi avvenuti nei tribunali minorili, impegnati con la parte più fragile della nostra società: i bambini e gli adolescenti. Pochi mesi fa una nostra avvocata ci ha comunicato che su un provvedimento di affido dei minori alla madre hanno sbagliato il nome dei figli. Sappiamo già che un semplice errore per essere corretto ha una procedura lunga e contorta. L’ultimo ha colpito un nucleo di mamma con tre figli, il più piccolo ammalato di leucemia. Il provvedimento con nome sbagliato risale al giugno 2018, a causa di ciò l’Inps ha rigettato la richiesta di pensione di invalidità. Appena arrivata la notifica Inps, nel settembre 2019, si è fatta richiesta di correggere il nome sul decreto. Il 19 dicembre 2019 è stata presentata una nuova richiesta perché dopo tre mesi la correzione non è stata eseguita. Un atto che richiede pochi secondi, atto che deve porre rimedio ad un errore del tribunale, purtroppo dopo tre mesi giace ancora inevaso. Il bambino non può prendere la pensione di invalidità, ogni pratica che la mamma deve aprire non procede perché il provvedimento è sbagliato. Ma questo è uno stato che rispetta il cittadino o lo tratta da “suddito”? E ancora ministro, posso farla partecipe delle dolorose vicende che hanno dovuto affrontare alcune delle donne ospiti delle case rifugio e che ci hanno confermato che viene ignorata completamente la convenzione di Istanbul oggi legge dello Stato italiano. Abbiamo letto l’appello al presidente Mattarella della signora Merighi che denuncia il trattamento che il tribunale dei Minori di Roma le ha riservato. Possiamo affermare, senza temere di essere smentite, che lo stesso trattamento è stato riservato, recentemente, ad una madre ospite di una nostra casa che ha denunciato il marito violento e con un ordine di protezione è entrata in una delle nostre case. Il marito ha ottenuto dal Tribunale dei minori un decreto provvisorio che ignora la decisione del Tribunale Penale di Roma. Solleva la giovane mamma dalla responsabilità genitoriale e colloca la bimba di 14 mesi, presso una casa famiglia. La mamma può seguire se vuole la bambina! Abbiamo scritto a tutte le istituzioni interessate al provvedimento. Nessuna ha risposto. Non basta, il genitore ha chiesto al Tribunale Penale la revoca del provvedimento di “protezione”. Il Tribunale Penale di Roma, con grande professionalità, ha immediatamente avviato il procedimento. A gennaio è stata fissata l’udienza. A lei ministro, chiediamo di far luce su episodi che troppo spesso vedono bimbi strappati alle loro madri che hanno una sola colpa: quella di aver denunciato un marito violento.

·        Burocrazia retrograda.

Dalla burocrazia ai tempi della giustizia: le inefficienze pesano 200 miliardi l'anno, più dell'evasione. Pubblicato sabato, 29 agosto 2020 da La Repubblica.it. Il ministro Gualtieri l'ha detto chiaramente: la prossima manovra di Bilancio, che avrà al suo cuore un primo intervento in materia di sistema fiscale, dovrà auto-sostenersi. Dopo i 100 miliardi messi sul piatto per le misure anti-Covid, con l'emergenza del lavoro in testa, non c'è spazio per fare ulteriore deficit. Molti puntano subito al recupero dall'evasione come serbatoio per garantirsi gettito senza ricorrere ai mercati. Ma la Cgia di Mestre torna a batter sulla possibilità di recuperare dagli sprechi e dalle inefficienze della stessa PA, che a detta dell'associazione di artigiani valgono più della stessa prassi di occultare imponibile all'occhio dell'Erario. "Stando ai dati del ministero dell'Economia e delle Finanze, l'evasione fiscale presente in Italia è stimata in circa 110 miliardi di euro all'anno. Un importo paurosamente elevato che, comunque, appare decisamente inferiore agli oneri che i cittadini e le imprese subiscono in virtù degli sprechi, degli sperperi e delle inefficienze presenti nella nostra PA. Scorrendo i risultati di alcuni studi condotti da una mezza dozzina di istituzioni di ricerca molto autorevoli, il danno economico in capo ai contribuenti italiani sarebbe di oltre 200 miliardi di euro all'anno. Si tratta di una dimensione economica quasi doppia rispetto all'evasione", dice la Cgia. Dati che, aggiungiamo, non vanno certo confrontati per sostenere che sul fronte dell'evasione tutto possa andare avanti così come sempre e che per questo siano "più tollerabili" quei 110 miliardi che ogni anno non entrano nelle casse pubbliche. Ma da dove arriva questa stima sulle inefficienze? La Cgia sintetizza le analisi di fonti nazionali e internazionali delle quali ha tenuto conto:

il costo annuo sostenuto dalle imprese per la gestione dei rapporti con la PA (burocrazia) è pari a 57 miliardi di euro (Fonte: The European House Ambrosetti);

i debiti commerciali della PA nei confronti dei propri fornitori ammontano a 53 miliardi di euro (Fonte: Banca d'Italia);

il deficit logistico-infrastrutturale penalizza il nostro sistema economico per un importo di 40 miliardi di euro all'anno (Fonte: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti);

se la giustizia civile italiana avesse gli stessi tempi di quella tedesca, il guadagno in termini di Pil sarebbe di 40 miliardi di euro all'anno (Fonte: CER-Eures);

sono 24 i miliardi di euro di spesa pubblica in eccesso che non ci consentono di abbassare la nostra pressione fiscale alla media UE (Fonte: Discussion paper 23 Commissione Europea);

gli sprechi e la corruzione presenti nella sanità costano alla collettività 23,5 miliardi di euro ogni anno (Fonte: ISPE);

gli sprechi e le inefficienze presenti nel settore del trasporto pubblico locale ammontano a 12,5 miliardi di euro all'anno (Fonte: The European House Ambrosetti-Ferrovie dello Stato).

Il senso di ricordare questi spieghi è chiarito dal segretario della Cgia, Renato Mason, che appunto batte il tasto dell'alleggerimento fiscale per le imprese. "Per molte imprese - dichiara - il prossimo autunno sarà uno stress test molto delicato. Probabilmente, tante faticheranno a superare questa fase così difficile legata agli effetti della crisi sanitaria; alcuni segnali, infatti, non lasciano presagire nulla di buono. Il Governo, tuttavia, deve assolutamente mettere mano il prima possibile al nostro sistema fiscale, riducendone il prelievo e il numero di adempimenti che continuano ad essere troppi e spesso difficili da espletare. Con meno tasse e una burocrazia fiscale più soft si possono creare le condizioni per far ripartire l'economia. Senza dimenticare che il nostro Paese si regge su un tessuto connettivo formato da tantissime Pmi che faticano a ottenere una risposta agli innumerevoli problemi che condizionano la loro attività lavorativa".

L'esperienza di un'economista. Troppi cavilli per una recinzione: “Dieci anni per aprire il mio agriturismo”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 14 Agosto 2020. «Ho dovuto attendere dieci anni per avviare la mia attività: ma è concepibile che un imprenditore debba affrontare una trafila così lunga per poter cominciare a lavorare e a guadagnare?» A lanciare la provocazione è Filomena Merola, titolare di Amaltea, un’azienda agricola con sede a Celle di Bulgheria. Nel cuore, cioè, di quel Parco nazionale del Cilento che i dati elaborati da Unioncamere e dal Ministero dell’Ambiente proiettano al vertice della classifica delle riserve naturali italiani dove è insediato il maggior numero di imprese. La storia di Filomena è singolare: partita da Montano Antilia alla volta di Milano, si è laureata in Economia alla Cattolica per poi fare ritorno nella sua terra di origine. Il motivo? Troppo forte il desiderio di aprire un’azienda agricola e un agriturismo nel cuore di una terra suggestiva come il Cilento. Filomena ha centrato l’obiettivo e oggi alleva 80 capre, dal latte delle quali ricava la cacioricotta, e ha recentemente avviato un agriturismo, dove agli ospiti vengono offerti prodotti rigorosamente locali. Per realizzare il suo sogno, però, ha dovuto attendere dieci anni. Proprio così: mesi e mesi tra scartoffie, cavilli ed enti sempre pronti a tarpare le ali a qualsiasi iniziativa imprenditoriale. «Non è questo il caso del Parco del Cilento – precisa Merola – che davvero si impegna per creare le condizioni indispensabili affinché un imprenditore possa investire. Mi riferisco alla Soprintendenza che troppo spesso boccia un progetto senza un’apparente motivazione valida». Non è un caso che i trenta ettari di terra acquistati da Merola per insediarvi l’azienda agricola e l’agriturismo siano stati utilizzati semplicemente come pascolo per dieci anni. Alla fine tutti i progetti sono stati approvati, ma quanta fatica! «È inammissibile che un imprenditore, che abbia necessità di installare una recinzione per proteggere il raccolto o gli animali allevati dai cinghiali, debba sottoporre il progetto a Comune, Parco e Soprintendenza – spiega Merola – Alla fine l’ok arriva, ma nel frattempo trascorre troppo tempo e le spese lievitano». Ecco perché Merola sostiene la necessità di una sburocratizzazione che non vanifichi le condizioni favorevoli alla luce delle quali gli imprenditori investono nelle riserve naturali italiane: «A decidere dev’essere l’ente gestore del parco o, al limite, due pareri favorevoli su tre devono essere sufficienti perché il titolare di un’azienda possa realizzare un progetto». Ma perché è tanto vantaggioso operare in un parco nazionale? «Per un’impresa è importante far sapere che si trova in una riserva naturale – prosegue Merola – Gli ospiti si aspettano un’area incontaminata e prodotti tipici e genuini. Quindi il vantaggio in termini di immagine è indiscutibile». Il vertici del parco del Cilento hanno creato anche un marchio che certifica la territorialità dei prodotti di 150 imprese. Tra queste, ovviamente, figura quella di Merola: «Iniziative simili sono una garanzia di identità, territorialità e genuinità – conclude Filomena – ma sono soprattutto uno strumento per creare una rete tra imprese. In questo modo i titolari delle diverse aziende si confrontano, si scambiano consigli e buone pratiche. Le imprese crescono anche così».

Burocrazia: ecco i 6 nodi che bloccano l’Italia da 50 anni.  Milena Gabanelli e Rita Querzè il 26 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Dall’Europa arriveranno tanti soldi, ma una delle condizioni è la riforma della pubblica amministrazione, ovvero rendere efficiente la burocrazia. Ci hanno provato tutti i governi a partire da Bonomi nel 1921, e i nodi che legano una palla al piede dell’Italia erano già tutti elencati nei rapporti del ministro Giannini (1979) e Cassese (1993). Sono sempre gli stessi di oggi, e che il decreto semplificazioni nemmeno sfiora, a partire dalla parte più semplice: cioè mettere ordine nelle leggi copiando modelli che funzionano. In Francia il 70% delle norme sono «a diritto costante», cioè se su una materia si interviene con una nuova legge quella vecchia viene eliminata. In Germania si utilizzano i codici per «incasellare» le leggi. Da noi è come cercare in biblioteca un libro senza lo schedario.

Semplificare le autorizzazioni. Il compito più difficile è mettere mano ai procedimenti autorizzativi. Se per fare un’opera devo fare domanda a Regione, Soprintenza, Asl, Vigili del fuoco, tanto vale presentarla contemporaneamente a tutti gli enti, così si riducono i tempi. Oggi chi deve aprire un bar ha bisogno di 72 autorizzazioni, 65 un parrucchiere, 86 per un autoriparatore (fonte Cna). Nel 1990 ci abbiamo provato con la legge 241: disponeva la semplificazione di una serie di processi autorizzativi, ma quando è arrivata l’ora di sceglierli ne sono stati individuati solo 13. Il ministero degli Interni ne segnalò solo uno: l’allevamento dei piccioni viaggiatori. Il problema, ora come allora, è che a decidere «cosa» semplificare sono le stesse amministrazioni pubbliche, ma nessun ufficio vuole ridurre le proprie competenze e la politica non ha mai avuto il coraggio di intervenire.

Ridurre le stazioni appaltanti. Il decreto semplificazioni è intervenuto sulle gare: non si dovranno più fare per importi fino a 150 mila euro, e con procedure negoziate a inviti fino a 5,35 milioni di euro. Punto. Per molti esperti è una scelta giusta se circoscritta ai lavori da fare in urgenza, diversamente è alto il rischio di penalizzare le aziende più efficienti, aprendo la strada a favoritismi. Tanto più che il contenzioso sulle gare incide in Italia meno del 5% e i giudizi vengono definiti in primo e in secondo grado entro un anno. Dopo aver partecipato a numerose commissioni sull’efficienza della burocrazia dagli anni ’90 a oggi, il professor Aldo Travi suggerisce che per accelerare le opere, in circostanze normali, «sarebbe utile avere una sola stazione appaltante in ogni Regione e una centrale a Roma per i grandi appalti e le gare delle amministrazioni statali», poiché le opere sono spesso rallentate dai piccoli Comuni che non hanno personale competente e strutture adeguate per gestire le gare.

Riportare i tecnici negli uffici. Le strutture tecniche negli anni sono state sventrate dalla spending review e dalle norme che hanno via via ridotto le competenze specializzate. Ne è la prova il dipartimento del ministero dei Trasporti incaricato dei controlli sulle attività delle concessionarie su ponti e viadotti, ma privo di personale qualificato. Le conseguenze sono 13 crolli in 7 anni. Al ministero delle Infrastrutture due terzi del personale è amministrativo e solo un terzo tecnico. Inoltre i meccanismi che regolano le carriere non incentivano le professionalità perché non considerano i risultati prodotti. Brunetta aveva provato a introdurre forme di premialità, ma non ha funzionato. Di fatto gli obiettivi dati ai dirigenti sono talmente generici (ad esempio per le Infrastrutture può essere «bandire gare») che gli incentivi vengono elargiti a pioggia. Il tentativo di premiare gli insegnati più meritevoli è naufragato miseramente nonostante fosse contenuto in un accordo collettivo sottoscritto dai sindacati. «Bisognerebbe attuare in modo rigoroso la norma costituzionale che impone l’accesso nell’impiego pubblico solo per concorso e gestire anche la progressione interna di carriera tramite esami – dice Travi – inserendo nei punteggi anche i risultati ottenuti durante la propria attività».

Bloccare i «signor no». Un esempio su tutti. È il 2001 e il piano provinciale rifiuti di Firenze prevede la costruzione di un termovalorizzatore. Ci sono voluti 15 anni per decidere dove costruirlo, definire le dimensioni, bandire la gara, il progetto, le linee guida, le autorizzazioni ambientali. Quando era tutto pronto sono partiti i ricorsi al Tar e poi al Consiglio di Stato, che a marzo di quest’anno ha stabilito che non si deve fare. Così i rifiuti si andranno a bruciare da qualche altra parte. È indicativo di un sistema malato dove anche le opere strategiche sono bloccate sia dai comitati cittadini (non coinvolti da subito in opere che impattano) che dai Comuni (per ragioni puramente elettorali). Secondo Travi Il potere di interdizione può essere fermato in due modi: stabilendo con una legge l’inefficacia di tutti gli atti che possano pregiudicare l’attuazione di una infrastruttura oppure prevedendo sanzioni a carico di chi li adotta.

Non ostacolare chi fa. I tempi delle pratiche si allungano perché i burocrati hanno paura a mettere una firma nel timore di assumersi una responsabilità; chi invece la firma ce la mette rischia di essere penalizzato. Il professor Crisanti, all’inizio della pandemia, aveva iniziato a fare tamponi a tappeto. Ebbene, il direttore generale dell’azienda ospedaliera di Padova minacciò di perseguirlo per danno erariale. Poi i fatti hanno dato ragione a Crisanti. Con il decreto Semplificazioni gli atti che generano danno erariale restano punibili solo se dolosi (ma non lo sono più se dovuti a colpa grave). Quando invece a generare danno erariale è una mancata decisione, allora la punibilità resta sia per colpa grave che per dolo. Il reato di abuso d’ufficio, inoltre, viene escluso nel caso in cui riguardi regolamenti e non leggi. Tirando le somme, il decreto consente di assolvere il funzionario che prende iniziative in buona fede, mentre per chi continua a palleggiarsi le carte non ci sono sconti. Ma si tratta di una modifica che vale fino al 31 luglio 2021. E dopo?

Razionalizzare gli enti. In materia ambientale le competenze si segmentano fra 4 ministeri (Ambiente, Salute, Interno, Agricoltura), 20 Regioni, 110 Province, oltre 8 mila Comuni, Camere di commercio, Asl, Arpa. Nel 2008 viene creata con una legge l’Ispra che deve coordinare le Arpa. Eppure i problemi ambientali restano: dall’Ilva alla terra dei fuochi, ai siti contaminati che erano 40 nel 2014 e tali sono rimasti. Se prendiamo un’attività artigiana con consumo di alimenti sul posto, per esempio una pizza al taglio, i soggetti incaricati dei controlli sono 21. E quando tutti devono controllare alla fine, spesso, non controlla nessuno oppure si tartassano i cittadini sovrapponendo le verifiche. Razionalizzare gli enti però vuol dire cancellare poltrone e centri di potere. Nessun burocrate intende rinunciarvi e la politica non interviene per timore di perdere consenso: la pubblica amministrazione rappresenta un quinto della forza lavoro dell’intero Paese. Una immobilità ben descritta dal noto economista Paul Samuelson, secondo il quale «le regole sono fissate, abbandonate e manipolate con discrezionalità». È questa la madre di tutte le riforme da inserire dentro il piano nazionale da presentare a Bruxelles.

Sabino Cassese per il “Corriere della Sera” il 3 agosto 2020. Per aprire una gelateria, sono necessari fino a 73 adempimenti, con 26 enti diversi, e un costo di 13 mila euro, secondo una accurata ricerca svolta dalla Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa. I sei miliardi del contratto di programma con l'Anas dovevano esser erogati entro 90 giorni. Ne sono passati più di 900. E tutto ciò senza che la procedura abbia superato gli scogli del Cipe, dei diversi ministeri, della Corte dei conti, dei pareri parlamentari. L'elenco degli interventi necessari ed urgenti è noto: accelerare i pagamenti dell'amministrazione, ridurre il numero delle stazioni appaltanti, abbreviare i tempi delle valutazioni ambientali, non scaricare sui cittadini l'onere di raccogliere da un'amministrazione certificati da esibire a un'altra amministrazione, modificare le norme sul subappalto, e così via. Sono riforme che presentano due paradossi. Non hanno costi, ma ciononostante non si fanno. Allevierebbero le tensioni prodotte dalle mancate riforme costituzionali, a cui ci si è dedicati per quaranta anni senza successo: in assenza della modernizzazione dei «rami alti», modernizzare almeno i «rami bassi» (un inglese ha scritto una volta che un Paese ben amministrato è ben «costituito»). Queste riforme non richiederebbero referendum, sono reclamate a gran voce tutti i giorni, ma senza successo. Il problema della modernizzazione dello Stato è affrontato dal «programma nazionale di riforma», presentato in Parlamento dal presidente del Consiglio dei ministri e dal ministro dell'Economia e delle Finanze l'8 luglio scorso. Vi si può leggere che «modernizzare il Paese significa innanzitutto disporre di una pubblica amministrazione efficiente, digitalizzata, sburocratizzata, veramente al servizio dei cittadini». Bei propositi, seguiti purtroppo da ben poco: semplificazione, sblocco delle opere pubbliche, digitalizzazione, nuove assunzioni, regolamento per gli appalti. Anche su questi pochi obiettivi, non una parola su tempi, strumenti, responsabili. Nulla su come dare nuovo impulso alla macchina dello Stato, come scegliere i migliori per la funzione pubblica, come motivare il personale, come riorganizzare i metodi di lavoro, come ridare dignità alla dirigenza. Come si spiega questa contraddizione per cui tutti invocano una migliore macchina statale, ma nessuno vi pone mano, anche se non vi sono costi? Il primo motivo riguarda il governo: le riforme necessarie non costano, ma non rendono alla politica. Richiedono tempo per essere attuate e producono risultati sul medio-lungo periodo, un arco temporale che va al di là degli obiettivi di qualunque politico di oggi. Paradossalmente, chi vi ci si dedicasse, lavorerebbe per i propri successori (e semmai competitori).  Il secondo coinvolge il Parlamento, un organo che pensa di risolvere problemi complicati con la bacchetta magica della legge, mentre un migliore rendimento dello Stato è semmai legato a un minore numero di leggi, e a leggi di principio piuttosto che di dettaglio. Il terzo riguarda il deficit di competenza, legato a un carente addestramento della classe politica, ma anche a disattenzione dei grandi centri di rilevazione dei dati. Ad esempio, perché la Ragioneria generale dello Stato, che meritoriamente raccoglie da un secolo le statistiche sul pubblico impiego, non ci dice quanti sono coloro che sono entrati per concorso e quanti per altri «meriti», qual è la qualificazione dei dipendenti pubblici, quanti sono i dipendenti degli organismi satelliti di Stato, Regioni e Comuni? Perché l'Istat, che pure aveva avviato la redazione di un annuario statistico della pubblica amministrazione, non ha continuato a impegnarsi nel settore? La disattenzione per il buon funzionamento dello Stato dipende però anche dall'opinione pubblica, distratta dal «balletto della politica» e poco informata dai «media» su ciò che accade e su ciò che non accade nelle stanze del potere burocratico. Buoni ultimi, sono causa della disattenzione per le riforme che non costano anche coloro che ne beneficerebbero, i burocrati, ogni giorno accusati di impedire la modernizzazione del Paese, ma adagiati nel «tran tran» quotidiano, e quasi afoni, mentre dovrebbero far sentire la loro voce competente sulle grandi questioni quotidiane. Alcuni, purtroppo, parlano in altra veste, quella sindacale, ma per difendere diritti (o pretesi diritti, come quello di esser assunti senza concorso), non per far valere doveri verso la collettività, operando quindi come forza di conservazione, non di modernizzazione del Paese.

La più vecchia, scarsa e dequalificata: la burocrazia che nessuno ci invidia. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 10 giugno 2020. Per anni è stato delegittimato, relegato all’ultimo gradino del ceto professionale, descritto persino dalla Treccani come un essere monotono, dallo stile di vita “ripetitivo e abitudinario”. La giacca dietro la sedia vuota, la lettura mattutina del giornale, il caffè al bar. Tutto questo è ormai un ricordo. Non c’è più. O meglio c’è ma non si vede. Lo smart-working ha svuotato le ultime stanze dei ministeri. Liberato quei corridoi dei palazzoni romani un tempo percorsi in lungo e in largo da fiumane e scartoffie. Qua e là se ne avverte ancora la presenza. Una mascherina sull’appendiabiti, una borsa, un ombrello. Ma forse è solo un effetto ottico, fantasmi. L’impiegato al tempo del Coronavirus è un territorio sconosciuto. Una specie in via di estinzione, una rarità. Non c’è neanche più bisogno di trovare il collega che ti timbra: Il distanziamento ha rottamato le relazioni tramite cartellino.

PIANO COLAO E SCRIVANIE VUOTE. Contenti ? No. Perché di questo “individuo”, che nella vulgata fantozziana assumeva note patetiche e sottomesse, potrebbe essercene ancora un disperato bisogno. Basti pensare al piano Colao, il libro dei sogni, la genialata che dovrebbe rimettere in moto il Paese, farlo ripartire di slancio. Prevede una piattaforma pubblica per misurare in tempo reale lo smaltimento delle pratiche. Procedure di autocertificazione e di silenzio/assenso. Diffusione a tappeto dello smart-working, e persino la sofisticata realizzazione di un ecosistema digitale sanitario. Ora, immaginate di calare il piano Colao-meravigliao nelle nostre scalcinate realtà. Senza la carta per le fotocopie, con i pc del secolo scorso e le scrivanie semivuote per Covid. Un disastro.

NEGLI ULTIMI 10 ANNI PERSONALE GIÙ DEL 6,2%. Huston: ci sentite? Abbiamo un problema Gli impiegati sono finiti, non ci sono più. Li abbiamo spianati, a colpi di vere o presunte spending review. Rasi al suolo. Solo negli ultimi 10 anni c’è stata una riduzione del 6,2% di dipendenti pubblici. Il colpo del ko. Ha ridotto all’osso un’amministrazione che ha il 14% di lavoratori impiegati nelle amministrazioni pubbliche sul totale degli occupati. Contro il 29% della nordica Svezia, il 22% della Francia, il 18% della Grecia, il 16% dell’UK, il 15% della Spagna. I nostri sono pochi e anche anzianotti. L’età media più alta dell’area Ocse (51 anni). Gli under 30 sono appena il 2,9%.

MOSCHE BIANCHE. E oltre al danno c’è anche la beffa. Aver drasticamente ridotto l’esercito di funzionari e travet non sempre ha comportato un risparmio. Anzi: il ricorso a figure, per così dire, “flessibili”, ha superato le 350mila unità. Per eliminare il posto fisso abbiamo soppresso il posto. A tutto questo si è aggiunta la flessione della spesa per la formazione del personale scesa da 263 milioni nel 2008 a soli 154 milioni nel 2018, corrispondenti a 48 euro e 1,02 giornate per ciascun dipendente, considerando solo quelli a tempo indeterminato, però. Qualcuno potrebbe pensare che questi dati siano difficile da ottenere. Non è così. Sono stati diffusi dal Forum della PA e dal Forum delle disuguaglianze e trasmessi proprio alla task-force di Vittorio Colao, il 58 enne ex ad di Vodafone incaricato dal governo di studiare le proposte per rilanciare il Paese.

LA CISL: UN GRANDE PIANO PER 500 MILA GIOVANI. La parola d’ordine è: semplificazione, ridurre le procedure, istruire il personale, saltare i passaggi inutili, evitare i timbri. Contrastare la cosiddetta “burocrazia difensiva” che trasforma gli uffici in muri di gomma. Pratiche che rimbalzano perché nessuno vuol prendersi la responsabilità civile e in qualche caso penale, di firmale. Ma come può una PA come la nostra, in coma profondo, ormai allo stato neurovegetativo, far scoccare la scintilla della ripresa. E viene da chiedersi che rapporto ci sia tra certi dossier redatti in uno studio a Londra e la vita reale dell’Italia post Codiv. Il Forum ha posto l’attenzione anche su altre particolarità tutte italiche. “Una composizione del pubblico impiego ancora squilibrata verso i profili giuridici”; “la carenza di professionalità tecniche e di negoziazione, ma anche le competenze organizzative”. In una parola “l’inadeguatezza della nostra PA a fronteggiare l’ordinario”, figuriamoci lo straordinario. Da qui la richiesta di utilizzare alcune leve strategiche, prima fra tutte il rinnovamento, la trasformazione digitale, Per portare a termine le missioni strategiche – è questa la proposta del Forum – è indispensabile l’entrata di 500 mila nuovi giovani, sblocco del turn-over, autonomia dei dirigenti e rinnovamento qualitativo del personale”. Che ne pensano i sindacati? Per Maurizio Petriccioli, segretario generale Cisl-Fp è necessario costruire una Pa moderna, in grado di rispondere alle necessità dei cittadini e delle imprese italiane, “serve valorizzare l’esperienza e la competenza del personale già in servizio e rilanciare un grande piano occupazionale”. Ma altre nuvole nere si addensano. “Il blocco del turnover e l’introduzione delle finestre di Quota 100 – spiega il sindacalista Cisl – sono andati a gravare ulteriormente in comparti dove l’età media è di circa 51 anni. Nei prossimi anni, inoltre, contiamo fuoriuscite ulteriori per circa 500mila unità. Si può e si deve rinnovare la pubblica amministrazione ma lo si deve fare avendo in mente un progetto chiaro per la Pa di domani mentre, ad oggi, ci troviamo ad essere testimoni di un esodo che non ha nulla di progettuale”.

BUROCRAZIA, IL MOSTRO INDISTURBATO. LA MACCHINA PUBBLICA PIÙ SCASSATA D’EUROPA NELL’ITALIA IN GINOCCHIO. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'8 giugno 2020. Tra imprese che chiudono per sempre e cittadini sull’orlo della fame perché privi di liquidità, lo scandalo sarebbe l’iniziativa di Conte che vuole fare gli Stati Generali dell’Economia prima che qualcuno commissari il Paese ed esploda la polveriera sociale. Il ministro Gualtieri si mostra trionfante, i vertici dell’Inps si beano, il Pd ha messo la “modalità aereo”e non sente la sofferenza della società. Siamo ai soliti sepolcri imbiancati e al nulla del nulla che fa pure le pulci agli altri. Francamente hanno stufato. Una impresa su dieci del commercio è nelle mani degli usurai. Le piccole aziende del Mezzogiorno sono tagliate fuori con un colpevole tratto di penna dal decreto liquidità e non vedono il becco di un quattrino. La cassa integrazione non è ancora arrivata. Le partite Iva aspettano il piccolo prestito. Gli alberghi sono vuoti, i musei riaprono ma i ristoranti sono chiusi (per sempre, vero ministro Franceschini?) perché le prenotazioni sono a zero. I negozi aprono uno su tre e fatturano il 20% di prima, il turismo rischia di affondare per questa stagione e per quelle a venire. Con la Pandemia tutto è cambiato tranne il Pd. Come ci ricorda Claudio Marincola, non sono bastati il distanziamento fisico dal Nazareno e la prima direzione nazionale “online”. Il partito è rimasto in “modalità aereo”, ovvero sconnesso dal resto del Paese, timoroso delle mosse di Confindustria e cromosomicamente insofferente verso bottegai e ristoratori. Seduto senza saperlo sul vulcano della polveriera sociale, lontano da chi – parole dell’ex presidente Orfini – non sopporta più “il racconto trionfalistico” che “stride con un Paese in cui cresce la sofferenza sociale e la gente rischia di morire di fame”. Tornano in scena il poliziotto cattivo e il poliziotto buono, i logori copioni della vecchia politica, ma stringi stringi la molla di tutto è la lesa maestà del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che a differenza loro ha i piedi ben piantati per terra. Ha capito che così non va e si è deciso a convocare d’urgenza gli Stati generali dell’economia. Vuole ascoltare chi fabbrica il prodotto interno lordo italiano, ma soprattutto vuole prendere per le corna insieme a loro il problema dei problemi che è il mostro burocrazia che non fa sganciare un euro per risarcire chi è stato messo a terra dal Covid e blocca ogni tipo di investimenti anche quelli (52 miliardi, il 50% al Sud) che sono cantierabili da domani. Non può esistere un Progetto Paese di lungo termine e la cassa europea italiana finisce a spagnoli e portoghesi se non ribaltiamo subito questa deprecabilissima situazione. Che è antica, ma intollerabile in tempi di Coronavirus. Insomma: abbiamo mille problemi, ma uno viene prima di tutti. Si chiama: come. Come dare la liquidità, come aprire i cantieri, come liberare l’Italia dalla sua gabbia. Bazzecole, nulla di nulla, qui la tribù democratica tranne poche eccezioni non ci sente. Ha altro da pensare. Ha altro di cui discutere. Ha nuovi scenari di governo da disegnare. Diciamo che ha molto di cui vergognarsi. Volete capire meglio di che cosa stiamo parlando? Prendete il ministro del Tesoro, quello si presume del racconto trionfalistico secondo Orfini. Se non è così, di sicuro quello che ha sempre qualche lettera in tasca da esibire di chi lo ringrazia. Di sicuro non si è mai scusato a differenza di Conte. Si è presentato in Commissione banche alla Camera e ha consegnato una tabellina dove “c’è scritto” che garanzia Italia della Sace è garanzia Nord perché lì c’è il 77% delle pratiche contro un minuscolo 6% del Sud e l’addetto stampa della Sace ha chiesto ieri al nostro giornale da dove vengono questi numeri. Vi rendete conto in che mani siamo? Vi rendete conto che il ministro del Tesoro del Pd in “modalità aereo” a questi damerini e ai loro assistenti li ha pure lodati davanti ai commissari della Bicamerale? Che cosa dire di Pasquale Tridico, il presidente dell’Inps che ha vinto l’oscar mondiale dei ritardatari e continua a spostare il giorno che tutti avranno la cassa integrazione? Anche lui non si scusa mai e si autoincensa spesso, ma arriva perfino a accusare di essere pigri se non peggio quegli stessi imprenditori a cui il governo – di cui lui è la massima espressione burocratica previdenziale – ha chiuso le attività senza dare nulla e che in molti casi sono gli stessi che con soldi propri stanno anticipando l’assegno di cig ai loro dipendenti. In questa Italia capovolta, dove ancora vincono la codardia diffusa e la puzza sotto il naso di chi ha tutte le narici bruciate dall’oppio dei poteri forti scaduti, lo scandalo sono gli Stati generali dell’Economia del Presidente Conte che vuole fare i compiti in casa prima che qualcuno ce lo imponga da commissario fallimentare e prima che la polveriera sociale incendi il tessuto civile del Paese. Il Pd e l’opposizione responsabile dovrebbero dare una mano, non disseminare mine sulla strada. Conte ha un mestiere e un lavoro. Questa è la sua forza. I politici di mestiere fanno finta di non capirlo o fanno fatica a capirlo. A noi queste orecchie da mercanti della politica disturbano molto. Diciamo, con eleganza, che hanno stufato. 

Angelo Allegri per “il Giornale” il 25 maggio 2020. Giugno 2019, posa della prima pietra con la gettata del basamento al pilone numero nove; 28 aprile 2020, aggancio dell' ultima campata e completamento della struttura. Il ponte di Genova è rinato così. E a rendere possibile i tempi record, poche righe di una norma dell' Unione europea, l' articolo 32 della direttiva sugli appalti pubblici: «la procedura negoziata senza previa pubblicazione può essere utilizzata... nella misura strettamente necessaria... per ragioni di estrema urgenza derivanti da eventi imprevedibili». È stato questo il grimaldello che il commissario alla ricostruzione e sindaco di Genova Marco Bucci ha potuto usare per «dribblare» qualsiasi norma (o quasi) prevista dal Codice degli appalti in vigore. L' alternativa alla deroga era la paralisi: «L' articolo 32 è il potere più incisivo del commissario», ha spiegato Bucci. «È una deroga generale al Codice. Con le procedure normali oggi non è possibile prevedere nessun tempo certo». Alla fine è stato un successo, nell' estate sul ponte si tornerà a circolare. Ma è stata anche la definitiva riprova di una sconfitta: con le norme che valgono oggi in Italia si combina poco o nulla. La stratificazione di regole, i procedimenti complessi e a volte cervellotici, una burocrazia (...) (...) attenta alla forma e per nulla alla sostanza bloccano tutto. Solo quando la pressione di politica e opinione pubblica supera una determinata soglia, gli ostacoli vengono travolti con un provvidenziale «liberi tutti». A quel punto, come ha scritto Carlo Stagnaro dell' Istituto Bruno Leoni, si passa «da una burocrazia di stampo sovietico» alla «assoluta discrezionalità del despota orientale». Ma si può gestire un Paese così, a forza di eccezioni e di provvedimenti presi di volta in volta per far fronte a questa o quella emergenza? Ovviamente no. E in tempi in cui l' economia rischia il crac e il problema è salvare quel po' di benessere rimasto nella Penisola, il tema di regole ed eccesso di burocrazia è diventato caldissimo. Non solo nel campo delle costruzioni o in quello degli appalti pubblici. Chicco Testa, ex presidente dell' Enel, si è divertito sul Foglio a passare in rassegna alcune circolari dell' Inail che dovevano essere sottoscritte da chi, in tempi di quarantena, passava allo smart working: per chi lavorava all' aperto il consiglio era quello di non scegliere luoghi «privi di acqua potabile» o dove circolassero «animali incustoditi»; per chi invece lavorava in spazi chiusi, la raccomandazione messa per iscritto dai solerti funzionari dell' istituto era di non esporsi «a correnti d' aria fastidiose» e di «tenere gli avambracci sul piano» guardandosi bene dal tenerli sospesi. Una sciocchezza di fronte alla strada scelta per garantire un flusso finanziario a migliaia di lavoratori appiedati dalla pandemia: il decreto Cura Italia ha resuscitato la procedura della Cassa Integrazione in deroga, da almeno quattro anni non più applicata a favore della cassa ordinaria e straordinaria. Per complicare le cose la procedura prevede un doppio passaggio, l' invio della domanda alle Regioni e il loro esame da parte dell' Inps. Visto che da un po' la Cassa in deroga non si usava più e bisognava fare in fretta, la Regione Piemonte ha dovuto richiamare dalla pensione un funzionario che si ricordava i passaggi da seguire. La solita Italia, verrebbe da dire. Con qualche nota surreale. Come quella scovata dagli esperti dell' associazione dei costruttori e raccontata da Sergio Rizzo sulla Repubblica: nei decreti «Cura Italia» e «Liquidità», i primi due sfornati per fare fronte all' emergenza, ci sono ben 622 rinvii ad altri testi, che contribuiscono a rendere l' interpretazione degli interventi salva-economia un esercizio possibile solo a raffinati esegeti del diritto. Spiccano, tra le altre, due perle: gli sbalorditivi rimandi a due Regi decreti che risalgono rispettivamente al 1910 e al 1923. Uno dei tanti esempi della creatività del ceto burocratico-amministrativo italiano, che quando ha campo libero conosce pochi limiti. Carlo Cottarelli, direttore dell' Osservatorio Conti pubblici dell' Università Cattolica, ha notato per esempio che solo i tre decreti fondamentali per la risposta alla pandemia («Cura Italia, «Liquidità» e Rilancio», senza contare i provvedimenti attuativi), raggiunge un totale di 191mila parole. I corrispondenti provvedimenti adottati negli Stati Uniti, il cui nucleo fondamentale è costituito dal cosiddetto Cares Act, superano di poco le 61mila. Per il momento, insomma, sta succedendo l' esatto contrario di quello che il Ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli dichiara in ogni intervista: «per uscire da questa crisi bisogna abbattere la burocrazia». Il nodo centrale, come dice, per il momento senza troppi risultati, il Ministro, è proprio questo. E chi nell' economia ci lavora non si stanca di ripeterlo: «Invece di mettere in piedi decine di task force», ha detto di recente Alberto Bombassei, numero uno di Brembo, «il governo dovrebbe fare solo una cosa: approfittare del coronavirus per un' opera di radicale sburocratizzazione del Paese. Sarebbero i soldi meglio spesi della crisi». Per raggiungere l' obiettivo Giovanni Valotti, da pochi giorni ex presidente di A2A e professore di management pubblico alla Bocconi di Milano, ha proposto di istituire una «zona franca della burocrazia». È lui stesso a spiegare di che cosa si tratta: «Per un tempo definito, per esempio un anno, bisogna semplificare drammaticamente tutte le procedure, dimezzare i tempi per le nuove autorizzazioni», spiega (vedi anche l' intervista in basso; ndr). «Si fanno partire gli investimenti e poi si fa un bilancio: le innovazioni che hanno funzionato e che hanno dato una spinta al Paese da temporanee diventano definitive». Pare che a Palazzo Chigi si stia studiando una soluzione di questo tipo: una sorta di «semestre bianco» anti-burocrazia, così è stato definito, in cui, come suggerito da Valotti, si disbosca radicalmente la giungla procedurale che tiene prigioniera l' economia. Il riferimento è quello che ormai da tutti viene definito «modello Genova», l' esempio rappresentato appunto dalla ricostruzione del ponte sul Polcevera. Il primo campo d' azione, come è quasi ovvio, è quello dei lavori pubblici. Un provvedimento, oggi sul tavolo della Presidenza del Consiglio, potrebbe vedere la luce entro un paio di settimane. Le novità fondamentali sarebbero tre: la riduzione drastica di tutti i tempi delle autorizzazioni amministrative, l' individuazione di una trentina di opere da gestire con metodi «commissariali», la sospensione temporanea di parte del Codice appalti con la messa fuori gioco delle norme più paralizzanti attualmente in vigore. Sono tutti provvedimenti che sarebbero accolti a braccia aperte dagli operatori economici privati ma che devono fare i conti con le logiche della politica: tra i grillini c' è una spaccatura sempre più evidente che divide «realisti», pronti a rivedere con occhio «laico» la materia e «fondamentalisti» ideologicamente contrari. Anche nel Pd non mancano i difensori del Codice degli appalti (in qualche caso anche delle regole più macchinose). La verità è che finché di semplificazione si parla sono d' accordo tutti, quando poi bisogna passare ai fatti iniziano le obiezioni ed i distinguo. Il risultato, come ha scritto qualche tempo fa sulla voce.info, Vitalba Azzollini, giurista e funzionaria della Consob, è che «spesso per una misura di semplificazione attuata ve ne sono altrettante che introducono nuovi adempimenti che possono mettere a rischio i risultati raggiunti con le semplificazioni precedenti». La stessa Azzollini ha passato in rassegna i vari provvedimenti-semplificazione introdotti dal 2007 («Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione») a oggi. Sono talmente tanti che si fa fatica a contarli. Qualche decennio fa, quando il sistema ferroviario pubblico era un carrozzone all' apparenza irriformabile, Andreotti diceva che ci sono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono risanare le Ferrovie. Anche mettere ordine nelle leggi e far funzionare la burocrazia sembra in Italia un esercizio per folli temerari.

Paolo Baroni per la Stampa il 20 maggio 2020. In cima alla lista dei desideri ci sono innanzitutto le opere che il governo ha classificato come «commissariabili» in virtù del decreto Sblocca cantieri dell' anno passato, che di cantieri in realtà ne ha sbloccati davvero pochi. Giusto ieri, coincidenza, sono partiti i lavori del terzo megalotto della strada statale 106 «Jonica» (38 km tra Sibari e Roseto Campo Spulico, 1,3 miliardi di spesa e 1500 occupati) in provincia di Cosenza, una delle grandi incompiute italiane che apriva l' ultima lista delle priorità di governo che in tutto conta 15 interventi per un controvalore totale di 13,9 miliardi di euro. Ma in realtà, se si guarda all' elenco delle opere strategiche o prioritarie i lavori da sbloccare o avviare sono molti di più. L' ultimo rapporto Cresme presentato a febbraio ha censito ben 615 lotti sparsi in tutta Italia, in tutto 273 miliardi di lavori completati appena per l' 11%. Si va da alcuni importanti nodi viari del Nord (in primis la Gronda di Genova) al completamento verso Trieste dell' Alta velocità ferroviaria ad interventi su strade e ferrovie che tante zone del Centro e del Sud Italia attendono da anni, come l' alta velocità sino a Reggio Calabria e la Catania-Messina-Palermo. La "black list" dell' Ance Stando all' ultimo monitoraggio effettuato dall' Ance le opere realmente bloccate sono in tutto 749 per un controvalore di 62 miliardi: 473 al Nord (33,5 miliardi), 115 al Centro (11,1 miliardi) e 161 nel Mezzogiorno (17,2 miliardi). Centouno di questi interventi sono classificati come «grandi opere», con un importo dei lavori superiore a 100 milioni di euro, ed un ammontare complessivo di 56 miliardi, mentre le restanti 648 sono opere medio-piccole (5,5 miliardi di spesa) e quindi, si presuppone, più facili da far partire. Tenere tutto fermo, sostiene l' associazione nazionale dei costruttori, significa rinunciare ad un potenziale economico enorme, stimato in 962 mila nuovi posti di lavoro ed in ben 217 miliardi di ricadute sull' economia. Scorrendo il rapporto sulle «Infrastrutture strategiche e prioritarie 2020» realizzato dal Cresme assieme al centro studi della Camera dei deputati emerge che su 273 miliardi di euro di lavori messi in programma nel corso degli ultimi anni, di cui 219 miliardi per le sole opere strategiche indicate come prioritarie, il 50% del valore riguarda interventi in fase di progettazione (283 lotti per quasi 109 miliardi), il 21% riguarda cantieri aperti con lavori in corso (149 lotti per 45,8 miliardi) e solo l' 11% riguarda opere ultimate (129 lotti per 24,1 miliardi). C' è poi un 5,5% di lavori in gara o aggiudicati (22 lotti per 11,6 miliardi), un altro 4,5% che risulta contrattualizzato ma con lavori non ancora iniziati (per 9,94 miliardi) e infine l' 8% riguarda lotti con contratto rescisso o con stato di avanzamento «misto» per 18,5 miliardi. A rallentare questi interventi non è tanto un problema di soldi, segnala il Cresme, perché circa 155 miliardi di euro (71%) sono già disponibili a bilancio quanto un problema di burocrazia, tra procedure, autorizzazioni e permessi. Se si prendono in considerazione le sole infrastrutture prioritarie, il 48% (105 miliardi di costi) riguarda le ferrovie, il 34% strade e autostrade (per 74 miliardi), il 13% (28 miliardi) i Sistemi urbani (ed in particolare i sistemi di trasporto rapido di massa in Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia, 4 miliardi (2%) riguardano gli aeroporti e l' 1% porti ed interporti (2,5 miliardi). Fa storia a sé il Mose di Venezia che da solo pesa per il 3% (5,5 miliardi). I primi 15 cantieri Tolta la statale Jonica che ieri ha fatto un decisivo passo in avanti restano da avviare altri 14 cantieri tra quelli commissariabili: dal collegamento stradale Roma-Latina (1,5 miliardi) al completamento della A12 Tarquinia-San Pietro Palazzi (1 miliardo) allo svincolo della SS 514 Chiaramonte (RG) sino alla SS 675 Umbro-Laziale (collegamento porto di Civitavecchia-Orte); in campo ferroviario vanno poi aggiunte il potenziamento della Fortezza-Verona (3,3 miliardi), della Verona-Trieste (1,8 miliardi) e della Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia, il completamento del raddoppio della Genova-Ventimiglia (1,54 miliardi) e della Pescara-Bari, e ancora la Roma-Pescara (700 milioni), la Salerno-Reggio Av e la Palermo-Trapani. In aggiunta a questo ci sono poi altri 13,9 miliardi di interventi sulle infrastrutture idriche da far marciare, come la messa in sicurezza della traversa del Lago d' Idro (Bs), del sistema acquedottistico di Peschiera (Vr) ed interventi su una decina di dighe tra Sardegna e Sicilia. Se poi a questi grandi lavori aggiungiamo interventi sugli immobili scolastici (per Legambiente 4 su 10 hanno bisogno di lavori straordinari) volendo aprire rapidamente cantieri grandi e piccoli non c' è che l' imbarazzo della scelta.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 20 maggio 2020. Addio al codice per gli appalti, vestigia di un' altra era, quella pre-Coronavirus. Per un' Italia in piena crisi serve altro, occorre velocizzare al massimo i cantieri. È questo il progetto, il prossimo passo a cui sta lavorando il presidente del Consiglio, che dovrebbe vedere la luce tra due-tre settimane al massimo. L' idea è quella di sospendere alcune parti del codice appalti fino alla fine dell' emergenza Covid 19, sfruttando il clima di necessità e urgenza che si respira in Italia. Un modo anche per superare le resistenze interne alla maggioranza. Da febbraio il premier ha in mano la ricetta con la quale intende sburocratizzare l' Italia sul "modello Genova", che ha permesso di rimettere in piedi il ponte della tragedia, con un commissario, saltando vincoli burocratici, accelerando i lavori. Un modello che oggi Conte intende estendere all' Italia. La Stampa è in grado di anticipare il piano che presenterà «entro 15-20 giorni», confermato da fonti della presidenza del Consiglio, del ministero dei Trasporti e dello Sviluppo economico e supportato dalla visione delle bozze del «Piano rilancio cantieri e lavoro», il decreto che il viceministro grillino alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri ha messo sul tavolo di Conte. La sintesi che farà il premier, anche sulla base delle proposte del ministro Stefano Patuanelli, dell' agenda «choc» di Renzi, e mediando con alcuni musi lunghi dentro M5S e Pd, prevede tre «direttrici». Prima: abbreviazione dei procedimenti amministrativi. L' esempio che fa è la Via, valutazione di impatto ambientale. «Non si può aspettare un anno» è la convinzione di Conte. All' articolo 1 del decreto, si propone la sospensione dei tempi previsti per legge: da 180 si scende a 60 giorni per la consegna della documentazione, ed entro 30 giorni si deve esprimere il ministro all' Ambiente. Se sono stati già introdotti alcuni benefici, come l' ecobonus, è il ragionamento di Conte, vanno snellite le procedure sottostanti. Seconda direttrice: mettere in moto i cantieri. Il capo del governo fornirà l' elenco di «25-30 opere» considerate fondamentali. Usa l' inglese e dice che serviranno a dare il «boost», la spinta all' economia, appunto «sul modello Genova», e con il ruolo decisivo dei commissari, forse 12. Sa già Conte che l' Anac, l' Autorità anticorruzione, storce il naso e che diversi 5 Stelle, soprattutto nelle commissioni Ambiente e Industria, temono la piovra mafiosa sulle zone grigie della velocizzazione dei lavori. Per questo, tiene a precisare che «non salteremo i controlli, ma troveremo una formula per abbreviarli». La terza direttrice è conseguenza della seconda: Conte assicura che non smantellerà il Codice degli Appalti, sul quale nervosamente vigila il capogruppo del Pd Graziano Delrio, che da ministro lo ridisegnò nel 2016. «Non voglio riscriverlo completamente - ha spiegato ai suoi Conte - anche perché ci impiegheremmo due anni. Ma voglio appalti più veloci». Quando svelerà il progetto il premier però farà un passo in avanti ulteriore che al momento è oggetto di polemiche tra i partiti: saranno disattivate alcune norme, quelle più stringenti, con una deroga temporanea collegata a tutta la fase di crisi post-Covid. La cautela delle parole di Conte nasconde una piccola rivoluzione potenzialmente esplosiva per i credi dei paladini ambientalisti e antimafia tra i grillini e dem. Ce n' è ampia traccia nella bozza del decreto. Si parla di «normativa speciale», che «consenta di cantierare nel più breve tempo possibile nuove opere», di «semplificazione delle procedure vigenti», «anche mediante la previsione di poteri straordinari da riconoscersi in capo alle stazioni appaltanti». Cancelleri prevede di nominare commissari straordinari gli amministratori delegati di Anas ed Rfi, Massimo Simonini e Maurizio Gentili. Sarebbero loro a garantire «affidamento ed esecuzione degli appalti relativi al contratto di programma di Anas (2016-2020, approvato dal Cipe) e quello Rfi, 2017-2021». Si tratta di 109 miliardi da sbloccare. Più nel dettaglio Conte, che da avvocato ha lavorato sul diritto societario, punta a «semplificare, in via temporanea, le regole per i contratti pubblici sotto soglia, riducendo le attuali procedure alla trattativa privata e alla procedura negoziata. Per i contratti sopra soglia concederemo poteri di deroga alle stazioni appaltanti salvo il rispetto delle normative fondamentali sulla trasparenza e l' antimafia». Si velocizzeranno inoltre tutti i procedimenti di spesa pubblica «attraverso l' innovazione digitale». Il premier si deve coprire dalle accuse che gli piovono addosso, dal Pd, sponda Delrio, e dal M5S. Già a febbraio, prima del virus, Luigi Di Maio e Cancelleri affrontarono in una riunione i gruppi M5S preoccupati dalle indiscrezioni. L' ex capo politico fu categorico: «Abbiamo cento miliardi di lavori da sbloccare, c' è già l' accordo tra tutti i partiti, non possiamo frenare». Come a dire: fatevene una ragione.

Modello Genova sia applicato per i 600 cantieri fermi che valgono 54 miliardi. Gianluca Rospi su Il Riformista il 15 Maggio 2020. Dopo 55 giorni di lockdown, si è passati dall’emergenza sanitaria a quella umana, con il rischio di precipitare, non intervenendo subito e concretamente, in una vera e propria depressione socio-economica. Per evitare ciò, oltre a sostenere l’economia con incentivi diretti, occorre agevolare quei settori che sono moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica come, per l’Italia, quello delle costruzioni, sul quale si può incidere anche con soli stimoli indiretti, sbloccando i cantieri. Oltre 600 le opere grandi e medie bloccate, per un valore di oltre 54 miliardi, a cui ne vanno aggiunte almeno altrettante piccole; più dell’80% già ferme prima della pandemia, a causa di una burocrazia che blocca il settore degli appalti, in primis grazie al D.lgs 50/2016. È indispensabile pertanto, per far ripartire il Paese, accelerare e semplificare l’iter autorizzativo, utilizzando il principio anglosassone che concede ampia responsabilità all’imprenditore, per poi punire rapidamente i “furbetti”. Ne è esempio il completamento del ponte di Genova, favorito da un modello di gestione, previsto dal D.L. 109/2018 (cd Modello Genova), che ha semplificato e sburocratizzato le procedure amministrative. Creando la figura di un commissario manager, è stato possibile superare le criticità dell’attuale regolamentazione degli appalti, settore bloccato da un codice farraginoso, un’enorme quantità di linee guida ANAC e una ridondanza di pareri che, spesso, confondono e paralizzano i funzionari pubblici. Indispensabile, in questa particolare fase, che il Governo si sforzi nell’annullare ogni forma di burocrazia che possa rallentare il supporto alla liquidità altrimenti, qualsiasi sforzo, pur buono ma privo di effetti immediati, potrebbe addirittura diventare fallimentare. Se l’obiettivo è quindi sbloccare i cantieri e recuperare i miliardi di euro fermi, due le possibilità: riscrivere celermente le regole della burocrazia, sicuramente la migliore ma che richiede tempo e ampio consenso delle forze politiche, o applicare modelli di gestione già collaudati. La scelta non può non cadere sulla seconda opzione: partire da modelli di gestione già collaudati per adeguarli alla situazione attuale. Se guardiamo indietro, uno che ha funzionato bene, come anticipato, è stato il “Modello Genova”, che ha fornito risultati concreti, ricucendo la ferita tra Levante e Ponente in meno di 2 anni. Tempo questo eccezionale, guardando alla realizzazione delle opere infrastrutturali in Italia: dai 3 anni per le opere inferiori a 100mila euro ai 12,2 per quelle superiori a 50milioni, con un ulteriore incremento di un anno per le opere oltre i 100milioni. Più della metà del tempo viene persa nella fase di progettazione e, in particolare, per l’ottenimento di pareri ministeriali e regionali. Avendo contribuito in maniera decisiva alla stesura del D.L. 109/2018, sono convinto che lo stesso, modificato così da garantire meglio la libera concorrenza tra imprese e la celerità delle fasi autorizzative pre-gara, oggi possa essere la soluzione per far ripartire il settore. La sua estensione a tutte le opere bloccate, sarebbe agevolata anche dal fatto che la stessa Commissione Europea, per le attività conseguenti l’emergenza Covid-19, con la comunicazione 2020/C 108 I/01 (GU 1/04/2020), dà la possibilità agli Stati di andare in deroga alla norma quadro dell’UE in materia di appalti pubblici, suggerendo l’utilizzo, in caso di estrema urgenza, di procedure negoziate, senza previa pubblicazione di bando. Procedura, tra l’altro, ammessa anche dal D.lgs 50/2016 art. 63, nella misura strettamente necessaria quando, sempre per ragioni di estrema urgenza, non si possono rispettare i termini prescritti dalle altre procedure. Considerato che ci si trova in una situazione di emergenza, l’uso di metodologie in deroga sarebbe quindi ampiamente plausibile e il D.L. 109/2018, da questo punto di vista, sarebbe un buon modello di riferimento. Come? Intervenendo nella fase di progettazione, attraverso una migliore regolamentazione, e demandando, alla sola fase di progettazione preliminare e definitiva, l’acquisizione dei pareri ministeriali e regionali, attraverso conferenze di servizio a cui far partecipare gli enti interessati, eliminando i passaggi multipli e indicando anche tempi certi per l’ottenimento dei pareri. Ed ancora, rivalutando l’attività di verifica e cantierabilità, affidando al Collaudatore e al Direttore dei Lavori, estranei alla progettazione, tale ruolo per tutte le opere sotto soglia comunitaria. E dando più poteri ai Provveditorati Interregionali alle Opere Pubbliche, che potranno essere abilitati ad esprimere pareri per i progetti superiori ai 25 milioni di euro, nell’ambito delle opere di competenza commissariale. A questo punto, come nel caso del Modello Genova, la nomina del Commissario con poteri speciali per la gestione dell’iter burocratico e la velocizzazione della fase di appalto, con poteri anche di deroga, senza naturalmente ledere la libera concorrenza e che opererebbe in raccordo con i Provveditorati Interregionali delle Opere Pubbliche, ove potrà essere costituita un’autonoma Struttura Commissariale di Missione, potrebbe sicuramente creare quel sistema di velocizzazione e sblocco dei cantieri fermi da anni. Proprio per questi motivi, nei giorni scorsi, ho presentato una proposta di legge che, partendo dal D.L. 109/2018, ha come finalità quella di semplificare e velocizzare le procedure burocratiche delle opere già finanziate ma bloccate da anni.

Un ponte, l’italico genio e l’indifferenza dei media. Domenico Bonaventura, Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista l'1 Agosto 2020. “Bad news is good news”, una cattiva notizia è una buona notizia. Siamo tutti capaci di tirare fuori il giornalista che c’è in noi e dare sfogo a uno dei pilastri del giornalismo, appunto. Eppure, ci sarebbe così tanto di buono, in Italia, di cui parlare, da diffondere. Insomma, tutti molto, troppo attenti a indicare col ditino puntato cosa non va bene di qua e cosa è immorale di là. Siamo campioni mondiali di questo sport. Perché se poi in realtà andiamo a scavicchiare, e neanche tanto, troviamo un mare di buone pratiche, ma talmente tante da poter addirittura pensare di costruirci un bel pezzo di futuro. Talmente tante da poter far “schiattare d’invidia” il resto del globo, volendo parafrasare la celebre scena de “Il Ciclone”, in cui Tosca D’Aquino balla ubriaca sul tavolo del ristorante. E non starò qua a parlare delle bellezze artistiche, del sole, del mare, della pizza e della mozzarella (che pure, voglio dire…), stereotipi ormai rancidi e stantii e presenti in tutto il mondo. Voglio parlare delle prove che sappiamo dare ma che non sappiamo riconoscere. Che sappiamo offrire ma che non sappiamo fare nostre. A cui, cioè, non siamo capaci di dare il giusto valore. Dopodomani, 3 agosto, una solenne e composta cerimonia di inaugurazione sancirà la riapertura del Viadotto Genova San Giorgio, conosciuto come Ponte Morandi. Un chilometro e 67 metri di lunghezza distribuiti su 19 campate sorrette da 18 pile in cemento armato di sezione ellittica. Trenta metri di larghezza e 45 di altezza. Parzialmente crollato il 14 agosto 2018, fu tirato giù completamente nel giugno 2019, attraverso un’opera di demolizione calcolata al milligrammo. Sappiamo tutti che il progetto del nuovo viadotto porta la firma di Renzo Piano, uno degli architetti più famosi al mondo, che lo ha donato alla propria città. Webuild (ex Salini-Impregilo) e Fincantieri lo hanno rimesso in piedi in un anno grazie al cosiddetto “modello Genova” – che, per alcuni in maniera fin troppo disinvolta, ha derogato al Codice degli Appalti. Di fermarsi durante l’emergenza Covid non ci hanno neanche pensato. Hanno lavorato giorno e notte, dando al mondo un esempio fulgido di ciò che l’Italia è in grado di fare. Con un’efficienza tale che neanche gli italiani se ne sono accorti, presi come siamo a cercare le bad news col lanternino. Sia i cittadini che media. A parte qualche servizio relegato in coda ai tg e di spalla ai quotidiani (le testate di respiro più “territoriale”, come ad esempio TeleGenova e il Secolo XIX, hanno dato ampio spazio al tema in tutti questi due anni), mi è capitato di vedere davvero poco sulla ricostruzione del ponte. Invece credo che i media, con la loro forza dirompente, avrebbero dovuto piazzarsi sulle rive del Polcevera, proprio come nei giorni successivi al crollo, e fare una cosa che oggi va tanto di moda: narrare. Costruire una narrazione per una volta univoca, non lottizzata, ma finalizzata a un obiettivo.

Avrebbero dovuto seguire passo dopo passo la rinascita di quest’opera, che era la rinascita di una città colpita al cuore in una Nazione colpita al cuore da 43 vite cadute e da scene laceranti. Avrebbero – e mi riferisco soprattutto al servizio pubblico – dovuto dare maggior risalto e visibilità al genio italiano, che per molti pare essersi fermato alle mirabilie di Leonardo e che invece continua a produrre talenti in serie, a macinare idee trasformandole in splendide realtà, ad accompagnarci per mano nel progresso e nel futuro. Forse siamo acerbi per poter pensare a uno storytelling di questo genere che Francia, Giappone e Stati Uniti, per citare le prime tre società che mi vengono in mente, avrebbero senz’altro fatto. O forse siamo impostati in maniera tale da essere certi che tutto valga infinitamente più delle nostre enormi e continue – ma silenti – dimostrazioni di competenza e di capacità. Tant’è. Dopodomani, dopo il passaggio delle Frecce Tricolori e il transito della prima auto, quella del Capo dello Stato, il viadotto verrà aperto al traffico. In quel momento, magari, in molti toccheranno con mano la portata storica, tecnica, sociale e nazionale di questo risultato.

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 30 aprile 2020. Il ponte di Genova è una lezione per l’Italia. Peccato che pochi se ne siano accorti. Dei principali giornali di mercoledì 29 aprile, solo il Corriere della Sera ha queste parole: “È un modello per il Paese”. Ma le ha dette il presidente della Regione Liguria, il milanese (d’adozione) Giovanni Toti. Ci si sarebbe aspettato che a pronunciarle fosse Giuseppe Conte, presidente del Consiglio. Invece di perdersi fra messe, ramadan e parrucchieri, sarebbe stato meglio che Conte avesse detto: “È la prima volta in Italia. Come avete fatto? Mando subito Vittorio Colao e i suoi 17 espertissimi a vedere come avete fatto e carpirvi il segreto”. Il segreto non è racchiuso in me, gli avrebbe risposto Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario alla ricostruzione del ponte. Ma è sotto gli occhi di tutti. Forse non di chi non vuole vedere. Ma basta un minimo di voglia di capire. Che invece non sembra sia molto diffusa. Aggiungendo: è tutta una questione di poteri e procedure. Bucci è entrato in politica da grande, a 58 anni d’età. Prima aveva fatto 30 anni di gavetta in multinazionali della chimica. Profilo medio, direbbe un cacciatore. Altro che il super manager Colao. Ma esperienza dal basso, capacità di decisione e chiarezza di idee. Niente comitati, un uomo solo al comando. E alla fine il ponte è stato completato, venti mesi dopo il crollo del vecchio ponte Morandi, alla vigilia di Ferragosto del 2018. Nemmeno Giulio Cesare avrebbe fatto meglio. Avendo accanto un tizio di nome Renzo Piano. Il quale Renzo Piano avrebbe aggiunto: procedure, chiarezza di competenze e responsabilità, decisione senza retropensieri. Piano è il più grande architetto italiano degli ultimi cent’anni e tra i più bravi al mondo. Vai all’aeroporto di Osaka, in Giappone, o a New York, fra il palazzo del New York Times e il museo di J.P.Morgan, a Parigi al Beaubourg. Sono i rari momenti d’orgoglio per un italiano all’estero. Opere grandiose, alcune come Osaka quasi titaniche. Eppure la semplicità, l’essenzialità ti rapiscono. Senti la differenza. Essenziale si può definire il nuovo ponte sul Polcevera. Piano ha progettato il suo ponte immaginandolo tutto in acciaio. L’acciaio, dicono, è usato nella costruzione dei ponti in tutto il mondo. In Italia non piace. Pare che richieda molto poca manutenzione. Può essere una malignità. Ma colpisce leggere sul Secolo XIX le meraviglie tecnologiche che caratterizzano il nuovo ponte. Renzo Piano ha calcolato tempi e definito metodi. E la tabella di marcia fissata un anno fa finirà per subire un ritardo di qualche settimana, massimo un paio di mesi. In mezzo c’è stata l’apocalisse del Covid-19 o coronavirus che ha bloccato quasi tutta l’Italia. E le burrasche e le piogge che sono la delizia di Genova d’inverno. Ma non c’è da meravigliarsi che il completamento del ponte sia avvenuto quasi in sordina, rispetto alla portata e al significato dell’evento. Se si tratta di mafia, allora si che siamo bravi a parlarne. Il successo di Genova è un qualcosa da sbandierare in tutto il mondo. Lo dico non da genovese della diaspora (ne sono venuto via 50 anni fa e non tornerei indietro). Lo dico da italiano che un po’ il mondo lo ha girato. Che spesso si è dovuto vergognare perché il principale effetto dell’antimafia è che all’estero tutti gli italiani sono mafiosi. Che è consapevole che l’impero romano è caduto 1.600 anni fa. Che Genova era tanto povera che i longobardi ci sono andati due secoli dopo aver preso Pavia. Che le glorie nazionali del passato, Dante, Michelangelo, Raffaello, sono sottoterra da mezzo millennio. O sono andate a lavorare per i re stranieri, vedi Colombo. Dicono che attorno a Vasco de Gama c’erano i marinai genovesi. Ma al servizio non del doge di Genova bensì del re del Portogallo. E al servizio di qualche capitale straniera sono dovute andare le glorie recenti: Meucci, Marconi, tanti Nobel. Una cosa mai vista, a memoria d’uomo, quanto meno a partire dagli anni ’60. Invece tutto quello che siamo stati capaci di rimarcare è stato che attorno a Conte a Genova c’era troppa gente. Fenomeno scontato in qualsiasi evento di quella portata in qualsiasi regime. Come se il completamento in tempo quasi perfetto di un ponte lungo un chilometro fosse come un barbecue su un terrazzo a Palermo. Ci sono, in giro per l’Italia, opere mai terminate. Pensate al Mose che dovrebbe salvare Venezia. Consentitemi un po’ di orgoglio genovese. A Venezia, ogni tanti anni piangono che la città sta per morire. Mezzo secolo fa fu il picco dei lamenti. Ci furono film e canzoni. Poi vendettero gli appartamenti ai ricchi italiani e stranieri, e tutto tacque. Da quarant’anni si trastullano con un progetto di dighe e paratie mobili noto come Mose. Lo Stato italiano ci ha profuso qualche miliardo e ancora non funziona. In compenso, a un certo momento, c’è stata una retata. Ma non è colpa dei veneziani, la colpa è del sistema. Un ente pubblico, strattonato fra le competenze di enti, società civile, ambientalisti e mugugni vari. A Genova, infatti, i due progetti chiave per rilanciare la città e il porto, il terzo valico ferroviario e la bretella autostradale che chiamano gronda. Il terzo valico è stato a lungo ostaggio non solo dei grillini, ma dei pasticci politici, soprattutto a sinistra. La linea ferroviaria dovrebbe essere pronta fra 3 anni, 10 dopo l’avvio dei lavori. Punto d’arrivo sarà Novi Ligure, appendice di Genova oltre Appennino. Come farà il treno iperveloce a arrivare da Novi a Milano ancora non sembra chiaro. Della gronda meglio non parlare. La morale che si può trarre dalle vicende veneziane e genovesi, è: che dove prevalgono calcoli elettorali e confusione decisionale e organizzativa tutto si impantana. Coté giudiziari a parte. Non parlo del Meridione, non parlo di tutti i casi di opere incompiute che sono pietre miliari della storia d’Italia. Ma dovete riconoscere che il successo della ricostruzione del ponte di Genova, ha solo una chiave: procedure snelle, organizzazione chiara. Lo scrivo pur con tutta l’ammirazione per Piano e Bucci che uno può provare. E, alla base, un grande progetto. Tanto che Beppe Grillo ha dovuto tacere. E accantonare il bizantino progetto che all’inizio aveva deciso di sostenere. Avrebbe perso l’amicizia di Piano. E la faccia.

Quel ponte che scavalca la burocrazia. Alessandro Sallusti, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Ieri l'altro a Genova è stata completata la costruzione del diciottesimo e ultimo pilastro del ponte che andrà a sostituire il Morandi, il cui crollo, nell'agosto del 2018, provocò 43 vittime. L'inaugurazione della nuova struttura, un capolavoro di ingegneristica e di architettura firmato da Renzo Piano, è prevista per giugno, giusto a un anno dall'apertura del cantiere. È la prova che in Italia quando si vuole è possibile fare grandi opere velocemente e bene, che sul Paese non grava una maledizione divina che ci condanna all'immobilismo e allo sperpero. Sapete perché a Genova è stato possibile? Semplice: perché la politica, la magistratura penale e civile, ecologisti, ambientalisti, burocrati, faccendieri, mafiologi, nani e ballerine sono stati tenuti alla larga dalle decisioni e dai lavori. Fuori tutto lo Stato, nella cabina di regia solo i vertici di due grandi imprese italiane, la Salini (privata) e Fincantieri (pubblica), un commissario responsabile di tutto (il sindaco di Genova Marco Bucci) e un supervisore (il governatore della Liguria Giovanni Toti). Fine dell'elenco e delle discussioni su cosa e come agire. A fare ci pensano mille operai che ruotano sul cantiere ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana: da giugno scorso una pausa solo a Natale. Vedrete che quando sarà inaugurato si dirà di un «miracolo a Genova». Io parlerei più di un «modello Genova», che a differenza dei miracoli è cosa umana e ripetibile ovunque, in qualsiasi momento, ed è l'unica strada concreta per rimettere in moto l'economia del Paese. In Italia ci sono ventiquattro grandi opere bloccate da burocrazia e cavilli che valgono quasi 25 miliardi. Il paradosso è che non mancano i soldi, ma i timbri. L'Ance, l'associazione che raduna i Comuni, ha calcolato che un loro sblocco avrebbe un riflesso sull'economia, con l'indotto e i vantaggi, di 86 miliardi e di 380mila posti di lavoro. E allora viene da chiedersi: perché invece di tante chiacchiere non varare ventiquattro modelli «ponte di Genova», o almeno abolire il macchinoso codice degli appalti, limitare l'invadenza delle tante autorità di controllo, togliere le leggi manettare che frenano funzionari e dirigenti pubblici che, per paura, non firmano più neppure un autografo? Qui non servono i miracoli, basterebbe un governo liberale, pragmatico e capace. Purtroppo quello che abbiamo è tutto l'opposto.

Andrea Plebe per “la Stampa”l'11 febbraio 2020. «Siamo tutti genovesi: è il sentimento che leggi negli occhi di chi lavora alla costruzione del Ponte di Genova. E poi lo stupore nel vedere un progetto che, giorno dopo giorno, diventa realtà: è quella la meraviglia del cantiere». L' architetto Renzo Piano ha compiuto l' ultima visita il 2 febbraio, domenica. «Appena ho l' occasione, quando sono a Genova vado a vederlo», dice dallo studio di Parigi. «La domenica, poi, ci passo qualche ora. E tutti i tecnici e le persone che sono con me, anche loro si prendono tempo, nessuno ha fretta, c' è grande partecipazione».

Architetto, il ponte in Valpolcevera sta per vivere un momento importante, il varo della prima campata da 100 metri. Com' è stata la sua ultima visita?

«Comincio sempre dal lato di ponente, dove ho incontrato i responsabili di cantiere di Salini Impregilo, di Fincantieri e del Rina, e da lì abbiamo attraversato la zona a piedi, fino all' altro lato. Siamo stati anche a Certosa, la strada centrale dove mi portava mio padre quando ero bambino, lui era nato lì. È il momento in cui si percepisce l' entusiasmo di fare le cose insieme, c' è sempre chi si ferma a parlare, saldatori, manutentori, gruisti...».

E che cosa accade?

«È scritto nei loro occhi: siamo tutti genovesi, anche se uno viene da Trento, uno dallo Sri Lanka, un terzo da un altro posto ancora. Può apparire un po' romantico, ma è così. Lo avevo già notato nel cantiere navale di Fincantieri, dove sono stati costruiti i pezzi del ponte. Queste sono grandi imprese, che lavorano nel mondo, con personale di ogni nazionalità. Ti fa venire in mente che Genova, anche per la sua natura portuale, è da sempre una città cosmopolita. Ogni tanto, per gioco, gli parlo in genovese, poi mi rendo conto che forse non tutti capiscono...Ma percepisci il senso di appartenenza, l' orgoglio di fare».

Un esempio di come si può lavorare bene insieme, un' occasione rara.

«Il cantiere a Genova è la cartina al tornasole del fatto che questo Paese è capace di imprese straordinarie. A Genova ci sono tutte le competenze ad altissimo livello non dimentichiamo l' Istituto italiano di tecnologia che sta realizzando il sistema robotico di controllo e manutenzione del ponte, Italferr che ha fatto il progetto esecutivo. In Giappone ho realizzato un ponte simile, e ci sono voluti tre anni. Qui lo faremo in meno di uno. Perché diavolo ci vuole un' emergenza per riuscirci? Queste forze si possono mettere insieme sempre, anche per un Progetto Paese».

Che cosa è cambiato in corso d' opera del suo progetto, che fra l' altro lei ha donato alla città?

«Può accadere che, per svariate ragioni, i progetti vengano un po' travisati, ma qui non è accaduto. L' idea progettuale è stata difesa da tutti, in primo luogo dalla struttura commissariale guidata dal sindaco, e anche dalle istituzioni del territorio. È stata difesa la coerenza del progetto, la sua essenzialità e chiarezza, che è parente stretta della sua fattibilità».

Come verranno ricordate le vittime del 14 agosto?

«Attraverso un memoriale a cui sta lavorando l' architetto Stefano Boeri con il suo team, sarà l' inizio del lavoro sul parco della Valpolcevera. Per il 21 giugno, la data indicata dal sindaco, che mi piace molto perché è il solstizio d' estate, il giorno più lungo dell' anno, vedremo i primi risultati. La Valpolcevera ha una storia importante, è il cuore della città metropolitana e costruendo sul costruito avrà la possibilità di svilupparsi, con funzioni miste. Lì c' è una promessa di bellezza, ne sono convinto».

Che impatto emotivo ha su di lei questo cantiere?

«Grande, soprattutto perché segue una tragedia. Costruire è un gesto di pace ed è ancora più forte se è la risposta a una distruzione. Da un punto di vista emotivo c' è un solo altro edificio che mi è capitato di fare con quello spirito, la sede del New York Times, dopo l' 11 Settembre. A Genova il significato è ancora più esplicito, quando vai lì non puoi non ricordare le 43 vittime, le centinaia di sfollati, la città spezzata in due. Il ponte vuol dire riprendere forza, ritrovare il coraggio, questo è il posto che prende nel mio cuore».

Si è anche discusso per il nome, ma è necessario dargliene uno?

«Ho sempre pensato che dovrebbe chiamarsi il Ponte di Genova con la P maiuscola, e basta: in tutto il mondo si sa cosa è successo il 14 agosto 2018. Poi ci penseranno i bambini, a dargli un soprannome, lasciamoli fare e ne troveranno di bellissimi. Alla fine credo che il ponte sarà una presenza lieve, accarezzata dalla luce radente. E lasciamo in pace Morandi, che è stato un grande ingegnere».

Il ponte di Genova ora scavalca di nuovo il Polcevera. Matteo Macor su Repubblica Tv il 10 marzo 2020. Un anno e sette mesi dopo il crollo del ponte Morandi, sul fiume Polcevera, a Genova, si ritorna a volgere lo sguardo in alto. Dopo qualche giorno di rinvio a causa del maltempo, è terminato il sollevamento in quota della campata più lunga del nuovo ponte autostradale: i cento metri di impalcato che permetteranno di scavalcare il letto del torrente, tra le pile 9 e 10, corrispondenti al tratto di Morandi crollato il 14 agosto 2018. Nelle immagini della struttura commissariale, il riassunto delle quasi 24 ore di lavoro con cui i tecnici di Fincantieri Infrastructure hanno coordinato – grazie all’utilizzo di speciali apparecchiature, gli strand jack, capaci di garantire la salita della campata di 5 metri all’ora – le operazioni di sollevamento a quasi 40 metri di altezza di circa 2mila tonnellate di acciaio. “In un momento tanto difficile per tutta l’Italia, - dice Alberto Maestrini, presidente di PerGenova - un nuovo traguardo, concreta testimonianza delle capacità della nostra industria”.

La maxi trave di 100 metri: il nuovo ponte cresce dove crollò il Morandi. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Erika Dellacasa. All’alba di martedì Genova ha riavuto il secondo tratto del ponte sul Polcevera, «quel» tratto: la parte che il 14 agosto del 2018 è crollata trascinando con sé 43 vite e lasciando la città spezzata e sconvolta. A febbraio il consorzio di imprese che lavora alla ricostruzione aveva già posizionato il primo maxi-impalcato, ma questo è speciale, non soltanto per le operazioni di alta ingegneria che ha richiesto, ma per il suo impatto emotivo. La grande campata da 1.800 tonnellate innalzata martedì scavalca il torrente Polcevera nello stesso punto in cui è crollato il Ponte Morandi ed era impossibile per chi ha assistito alla posa non rivedere le immagini della tragedia, le auto accartocciate, il camion bianco quasi intatto fra le macerie, il furgoncino fermo a pochi passi dal vuoto, lo choc dei sopravvissuti e dei testimoni. «La posa di questa campata ha un altissimo significato simbolico», ha commentato Nicola Maistro, l’amministratore delegato di PerGenova, la joint venture che unisce il gruppo Fincantieri e Salini Impregilo incaricata della ricostruzione. Per portare in quota, ad oltre quaranta metri di altezza, l’impalcato (in parole molto povere, una maxi-trave lunga 100 metri) le maestranze hanno lavorato dalla mattina di lunedì per tutta la notte nonostante la pioggia che ha reso più difficile la movimentazione sul greto del Polcevera. Per prima cosa infatti — spiega Siro Dal Zotto, direttore operativo di Fincantieri Infrastructure — è stato necessario «posare» a sbalzo l’impalcato sul greto utilizzando due carrelloni con 80 ruote ciascuno, quindi sollevare la parte a sbalzo con un traliccio e farlo scorrere. L’impalcato è stato ruotato di 90 gradi per portarlo in asse con i piloni quindi è iniziata nella notte l’azione di sollevamento con martinetti idraulici. Per fortuna non si è alzato il vento, che costituisce il maggior pericolo quando si lavora con carichi sospesi. Il varo della campata è avvenuto con il primo sole ed è ormai con un certo affetto che la città parla di «varo» delle parti del ponte-nave, come l’ha battezzato Renzo Piano. Il nuovo tratto porta lo skyline del ponte sul Polcevera a misurare più di 600 metri e comincia ad essere visibile, grazie alle «ali» della struttura, la forma a carena di nave che l’architetto genovese ha voluto imprimere a questo progetto. Uno scafo d’acciaio nel cielo di Genova. L’ultimo impalcato da 100 metri che sarà posizionato nelle prossime settimane dovrà passare sopra la ferrovia: ogni fase della costruzione del ponte pone nuovi problemi di ingegneria. E anche il cantiere di Genova non è esente dall’allarme coronavirus. «Stiamo lavorando a tempo record», ha detto l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono, «in questo frangente così delicato. Assicuro che adotteremo con rigore tutte le misure indicate dalle autorità per tutelare la salute di tutti». Entro giugno il ponte dovrebbe essere terminato: il «modello Genova» con la nomina a commissario del sindaco Marco Bucci sta raccogliendo molti apprezzamenti. «Questa giornata», ha detto il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, «ci fa già immaginare il futuro, le immagini del ponte ci dicono che ce la possiamo fare e ce la faremo, proprio mentre pensiamo a come risolvere i problemi del presente. Il modello Genova è semplice: vuol dire collaborazione e lealtà fra istituzioni, obiettivi comuni, assunzione di responsabilità, poteri per fare le cose».

Suonano le sirene, Genova celebra il varo del nuovo ponte. Salito questa mattina l'ultimo pezzo di impalcato, il viadotto unisce di nuovo i due lati della Valpolcevera al posto del Morandi, che era crollato il 14 agosto del 2018 causando 43 vittime, il presidente del Consiglio Conte parla di una "giornata speciale", "una ferita sanata" e ribadisce: "lo stato non ha mai abbandonato Genova". Nadia Campini il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La bandiera di San Giorgio sventola alta sul Polcevera, l'ultimo metro e mezzo di salita dell'impalcato che completa il nuovo ponte di Genova si è compiuto questa mattina, alla presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e della ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli. La trave destinata a coprire gli ultimi 44 metri si è andata a posizionare nello spazio vuoto e dopo 620 giorni dal tragico crollo del ponte Morandi, costato la vita a 43 persone, c'è un nuovo un ponte a unire la parte est con quella ovest della Valpolcevera. Il viadotto, realizzato in acciaio, è lungo 1067 metri ed è composto da 19 campate poste a 40 metri di altezza sorrette da 18 piloni. "Non è una festa - ha ricordato l'architetto Renzo Piano, che lo ha disegnato - ma è un lavoro che si completa con grande orgoglio".  Conte e De Micheli sono arrivati in cantiere con la mascherina, Conte ha parlato di una "giornata speciale"  e ha ribadito che "lo stato non ha mai abbandonato Genova", consapevoli che "questa ferita non potrà essere completamente rimarginata perchè ci sono 43 vittime che non dimentichiamo e i giudizi di responsabilità di quella tragedia non sono ancora completati e devono completarsi". "Genova ci insegna a ripartire insieme", sono state le parole di Conte - non ci fermeremo ad additare nemici. Questa comunità ha saputo riprendere il cammino ed è una luce che dà speranza all'Italia intera". Poco dopo le dodici Conte ha suonato il pulsante che ha dato il via alle sirene del cantiere e a un lungo applauso, al quale hanno fatto eco anche le sirene in porto completando così la cerimonia. Un punto di arrivo tutt'altro che scontato. Dopo la demolizione delle macerie del vecchio ponte Morandi il cantiere per la ricostruzione, affidata al consorzio PerGenova, composto da Salini Impregili e Fincantieri Infrastructure, ha incontrato molte difficoltà, dall'amianto all'incendio di una pila, ma non si è mai fermato, ha lavorato ventiquattro ore su ventiquattro, impiegando mille persone, ed è andato avanti anche in periodo di coronavirus, un operaio è stato trovato positivo, sono state adottate tutte le misure di sicurezza, l'isolamento, le mascherine e il lavoro ha rallentato, ma non si è interrotto. Ieri sera le diciotto pile del nuovo ponte sono state illuminate con il tricolore. Questa mattina il varo. La ministra De Micheli ha confessato la sua "emozione". "Il ponte non è finito - ha detto il sindaco Marco Bucci - ma oggi celebriamo il ricongiungimento delle due parti della valle". E il presidente della Regione Giovanni Toti ne ha parlato come del "simbolo di un Italia che riparte". Dopo il varo di questa mattina si procederà al 'calaggio', l'impalcato sarà posizionato sui sui appoggi definitivi, poi sarà completata la parte superiore, la soletta, l'asfaltatura, per l'inaugurazione si dovrà aspettare l'estate, probabilmente la seconda metà di luglio. Nel frattempo si dovrà anche decidere il nome, ad oggi molte sono state le proposte, da 'ponte43', in memoria delle 43 vittime, a ponte Paganinini, a semplicemente il Ponte di Genova, l'idea lanciata dall'architetto Piano.

Ponte Morandi: dal crollo alla rinascita del nuovo ponte. Concluso il varo. Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2020. I lavori, partiti a marzo del 2019, entrano così in una nuova fase. Che prevedono, già dai prossimi giorni, l’appoggio definitivo sulle diciotto pile a forma di ellisse, la realizzazione della soletta su cui correrà l’asfalto con una unica, lunga gettata e l’installazione delle tecnologie e dei lampioni che, a centro strada, illumineranno il ponte-nave firmato da Renzo Piano. ROMA – Nelle vie e piazze di Genova sono risuonate le note dell’Inno di Mameli e il “Nessun Dorma” della Turandot. Così Salini Impregilo ha salutato il varo dell’ultima campata., colorando il ponte e pile con un fascio luminoso tricolore. Un’iniziativa che rappresenta un omaggio alle istituzioni, ai genovesi e un pensiero commosso per le vittime del crollo. Il suono delle sirene di cantiere e l’eco più lontano e soffuso di quelle del porto: a mezzogiorno in punto di ieri la diciannnovesima campata d’acciaio del nuovo ponte sul Polcevera a Genova ha appena compiuto gli ultimi centimetri che la separavano dal punto finale della sua ascesa, a 40 metri d’altezza, completando i 1.067 metri del nuovo tracciato che ricongiungerà i tronconi della A10, spezzata il 14 agosto del 2018 dal disastroso crollo della pila 9 del ponte Morandi. Adesso il tracciato del nuovo ponte è completato, è lungo 1067 metri. A venti mesi dal crollo del Morandi, che provocò la morte di 43 persone, il nuovo viadotto riunisce le due sponde della valle. Presenti alla cerimonia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, il sindaco di Genova Marco Bucci ed il governatore ligure Giovanni Toti. I lavori, partiti a marzo del 2019, entrano così in una nuova fase. Che prevedono, già dai prossimi giorni, l’appoggio definitivo sulle diciotto pile a forma di ellisse, la realizzazione della soletta su cui correrà l’asfalto con una unica, lunga gettata e l’installazione delle tecnologie e dei lampioni che, a centro strada, illumineranno il ponte-nave firmato da Renzo Piano. “Questo è qualcosa di più di un ponte, è l’esempio di un’Italia che ce la fa a ripartire, la dimostrazione che insieme possiamo fare tante cose”, ha detto il governatore ligure, Giovanni Toti. “Per Genova e per San Giorgio”, ha detto il Sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera, Marco Bucci, ricordando un grido di guerra dell’antica Repubblica marinara, mentre nello stesso momento sventolava sui fianchi della campata un grande vessillo con la croce rossa in campo bianco . “Il ponte non è finito – ha aggiunto il primo cittadino del capoluogo ligure – questo ponte colpisce il cuore e la mente, per lo stile asciutto tipico dei genovesi. Il ponte e’ su, ma non e’ finito: c’e’ ancora tanto lavoro da fare nei prossimi due mesi e mezzo”. “Bisogna centrare il ponte, calarlo sugli appositi piloni, abbassandolo di almeno 25-30 cm. Poi bisognera’ mettere la soletta in calcestruzzo e, a seguire, l’asfalto. Poi monteremo le barriere, i pannelli solari e l’illuminazione. Solo allora potremo inaugurarlo. E – ha concluso il sindaco – il giorno dell’inaugurazione canteremo vittoria”.

Così il viadotto è stato ricostruito in un anno. Cinque motivi per cui una grande opera non si è fermata. Luigi Pastore il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La ricostruzione del viadotto di Genova, avvenuta rapidamente e senza mai fermarsi neppure in tempi di Coronavirus, è la dimostrazione che anche in Italia si può. Ci sono almeno cinque motivi per cui questo ponte, i cui lavori sono iniziate un'estate fa, a luglio potrebbe essere percorribile al traffico, esattamente 24 mesi dopo la tragedia del Morandi, anche se non è stato affatto semplice e i problemi sul cammino ci sono stati. In primo luogo, un percorso normativo e organizzativo snello, che di fatto ha sterilizzato la burocrazia, grande nemica delle opere pubbliche in Italia. I lavori sono stati assegnati con una procedura rapida e la loro guida è stata affidata a un commissario operativo, il sindaco di Genova Marco Bucci. Si è parlato di poteri speciali, le abituali procedure sono state alleggerite alquanto e il resto lo ha messo l'iper decisionismo di Bucci, uomo d'azienda prestato alla politica e per sua stessa ammissione allergico alla burocrazia anche quando guida un ente complesso e senza poteri speciali come il Comune di Genova. In secondo luogo ci si è affidati a una società, Rina Consulting, per il project management, in pratica una direzione lavori serrata con una catena di comando e comunicazione agile, che ha portato rapidamente a protocolli operativi e di sicurezza nel cantiere. Organizzazione che è divenuta ancor più stringente dopo l'esplosione del Coronavirus e la necessità di circoscrivere il più possibile, focolai di contagio. In terzo luogo, la concertazione con le parti sindacali e con i comitati dei residenti, per mettere a punto regole sul lavoro e affrontare il tema delicato delle polveri d'amianto che minacciavano la demolizione del vecchio viadotto, avvenuta in una zona estremamente conurbata con quattro direttrici di traffico, una ferroviaria e in un quartiere che ha già pagato a caro prezzo la tragedia con centinaia di sfollati. Quindi, la scelta di affidarsi per il progetto a una firma come quella di Renzo Piano, che ha voluto mettersi a disposizione per la sua città con grandissima passione e ha dato slancio anche emotivo alla ricostruzione, oltrechè regalare il disegno di un nuovo viadotto. Infine, la collaborazione tra istituzioni e parti politiche anche di colore diverso, tra il governo giallorosso e amministrazioni locali di centrodestra, che ha consentito di lavorare con un comune obiettivo per il Paese, perchè disporre nuovamente di questo viadotto non significa solo riunire una città spezzata, ma scongiurare l'isolamento del porto di Genova dal resto del Nord e evitare una paralisi trasportistica destinata a diventare un fardello insostenibile per le imprese, aancor prima che si abbattesse la pandemia.

Se l'ipocrisia rossa frena pure gli appalti. Nicola Porro, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Sentite questa storia perché ha dell'incredibile su come trattiamo la nostra industria. La settimana scorsa le Tribune titola: Armamento, nuovo schiaffo alla Francia dall'Egitto. In poche parole, dopo decenni di appalti vinti dalle industrie francesi, l'Italia ha conquistato al Cairo due gare davvero importanti. Qualche mese fa ha piazzato con la vecchia Finmeccanica (oggi ahinoi si chiama Leonardo) un miliardo di elicotteri. E in queste ore si sta discutendo un contratto da più di un miliardo per fornire alla loro marina due fregate Fremm costruire da Fincantieri. Su queste navi, che verranno sottratte e poi ricostruite per la nostra marina, interverranno poi le dotazioni di armamenti sempre ad opera del gruppo Finmeccanica. Una bella botta per i francesi. Due miliardi in lavori per due eccellenze italiane che sconfiggono sul campo la concorrenza transalpina. E proprio nel momento in cui Macron pensa di giocare un ruolo geopolitico importante in quell'area geografica. E nel mezzo di un'assurda battaglia legale che si sta conducendo in Europa contro la nostra Fincantieri che si è permessa di comprare i cantieri Stx dai coreani, e che oggi viene messa sul banco degli imputati per posizione dominante. Ma questo è un altro discorso. Non si tratta di una partita di calcio, ma di quel complicato mercato degli armamenti, in cui la vittoria di un appalto da parte di un'azienda italiana vuol dire mantenere una filiera piuttosto lunga in un'industria dove meccanica e ricerca sono fondamentali. Tra l'altro questo è un settore dove non ci si improvvisa: non si va a vendere con la valigetta e il progetto esecutivo. Si deve sottostare a millimetriche normative nazionali, per non fornire armi a Stati che sono considerati canaglia anche attraverso complicate triangolazioni. Ebbene invece di gioire e ringraziare l'opera riservata che starebbe compiendo il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il suo consigliere militare, qua rischiamo di gettare tutto a mare. L'esecutivo sarebbe infatti diviso. L'idea, che Repubblica ieri ha rilanciato, è che non si possa fare affari con il Paese che «nasconde la verità su Giulio Regeni». Mettere insieme le due storie è una roba da pazzi, ma vedrete che la campagna proseguirà. Siamo degli specialisti nel farci del male. Abbiamo perso un contratto favoloso in India e arrestato (e poi totalmente assolto) l'allora presidente della Finmecanica-Agusta per tangenti che nessuno ha mai provato. Abbiamo massacrato Eni e Saipem per presunte tangenti in Nigeria. E oggi discutiamo sull'opportunità di vendere due fregate all'Egitto, scalzando la concorrenza francese. Viviamo in un brutto sogno, che purtroppo passo dopo passo diventa realtà, sulle macerie di un Paese che si sta deindustrializzando.

Economia. La lentezza degli appalti, la paralisi per l'Italia. Da un lato l’esigenza di liberarli per stimolare il Pil. D’altro lato la paura della corruzione che li infiltra. Risultato: un disastro per il Paese. Gloria Riva il 31 gennaio 2020 su L'espresso. Genova, il cantiere del nuovo ponte sul torrente PolceveraDin: efficienza. Don: lotta alla corruzione. Din: efficienza. Don: lotta alla corruzione. La sensibilità dell’opinione pubblica oscilla, come un pendolo, tra lo sdegno per l’infiltrazione mafiosa e l’indignazione per la lentezza dei lavori di realizzazione. I politici, a ruota, condizionati dal vento che tira in quel momento - efficienza o lotta alla corruzione - disfano la legge in vigore e ne fanno una nuova. Benvenuti nel mondo degli appalti pubblici italiani, i più lenti d’Europa. Così flemmatici da mandare all’aria una delle più elementari teorie dell’economia, cioè il potere anti-ciclico degli investimenti pubblici. Quando c’è una crisi, di norma uno Stato inietta più soldi - costruendo strade, ferrovie, ospedali, centri di ricerca, ma anche investendo in servizi alle persone - per dare stimolo anche agli investimenti privati: quel denaro dovrebbe essere una sorta di scintilla iniziale per riaccende l’economia, così come teorizzava l’economista John Keynes. «I tempi medi di realizzazione di un appalto italiano sono di 4,4 anni, con punte di 16 anni per le opere più grandi. L’assurdità di questa lentezza è che il benefico effetto degli appalti arriva troppo tardi (non prima di tre anni) rispetto all’urgenza di sostenere l’economia in crisi», spiega Andrea Boitani, professore di Macroeconomia all’Università Cattolica di Milano, autore del report Investimenti pubblici e bassa crescita, recentemente pubblicato dal centro studi Arel. Il dossier racconta che nel decennio 2007-2017 nel resto d’Europa i soldi pubblici hanno di fatto compensato il calo del Pil o rafforzato la crescita. In Germania l’iniezione di liquidità nella riqualifica delle infrastrutture e a favore di servizi innovativi è aumentata del 50 per cento, consentendo di far fronte a una riduzione dell’investimento privato di quasi 20 punti percentuali. Nel Regno Unito gli appalti sono cresciuti del 9,5 per cento, e complessivamente il Pil è aumentato del 3,5, controbilanciando il freno a mano tirato dell’industria. Invece in Italia gli investimenti della pubblica amministrazione sono crollati del 27 per cento, meno 13 miliardi di euro, e se il paese ha tenuto - conferma il dossier - è solo perché dal 2013 le aziende private hanno ripreso a pompare denaro nelle proprie attività, senza tuttavia poter contare sulla leva degli stimoli pubblici, che sarebbero stati fondamentali per uscire dalla crisi in cui l’Italia continua ad annaspare. Al contrario, la mancanza di manutenzione e l’arretratezza dei servizi hanno eroso capitale per parecchi miliardi. E oltre al danno, la beffa: «Il declino della spesa per investimenti, spesso stornata su altri fronti, si è verificato nonostante i numerosi annunci di rilancio della spesa per investimenti, con relativi stanziamenti in bilancio, poi svaniti a consuntivo». Si dirà che la ritirata degli investimenti statali è dovuta alla politica di contenimento dei costi imposta dall’Europa, così come al patto di stabilità che ha strangolato i comuni. Non è proprio così: «Anche quando il patto di stabilità è stato tolto, dando agli enti locali la possibilità di sfruttare maggiori margini di spesa, non si sono verificati segnali di ripresa», si legge nel dossier. Le cause sono piuttosto da ricercare nelle continue riforme, nell’eccesso di burocrazia, nei ricorsi temerari, nel perenne spostamento di risorse dagli appalti alla copertura di spese correnti o impreviste. Scelte scellerate, se si considera che l’apporto economico dei contratti pubblici rappresenta la componente più importante del Pil in tutti i paesi occidentali: in Italia vale 139 miliardi di euro l’anno, il mercato europeo ammonta a 1.900 miliardi di euro, il 14 per cento del pil dell’eurozona. Una materia delicatissima, che viene costantemente riformata - quattro modifiche negli ultimi cinque anni - nel tentativo (mai riuscito) di semplificare i regolamenti. Stefano Zunarelli, docente di diritto dell’Università di Bologna, ha partecipato alla scrittura del codice appalti 2016 e racconta: «L’obiettivo era sfoltire il sistema ma non ci siamo riusciti perché qualsiasi proposta veniva poi vagliata dalla commissione Stato-Regioni che, per non perdere il proprio potere di intervento, ne cambiava l’assetto. L’effetto finale è stata una normativa cavillosa, che ha avuto bisogno di un correttivo nel 2017». Nel 2019 è poi entrato in vigore lo Sblocca Cantieri. A tal proposito Guido Castelli, delegato finanza dell’Anci, l’associazioni dei Comuni, ha dichiarato che «rischiano di restare bloccati tutti i bandi pubblici per opere fino a cinque milioni di euro. Lo Sbocca Cantieri è scritto così male che, a causa di un’incerta interpretazione dei Tar, occorre attendere la decodifica del Consiglio di Stato. Ma l’interpretazione non arriverà prima di giugno». Ed entro fine gennaio il nuovo regolamento degli appalti: «Sarà un’ulteriore esplosione di regole. Gli amministratori pubblici (e le aziende) non riescono a lavorare in una situazione in cui il legislatore cambia ogni poco le carte in tavola», afferma Francesco Decarolis, professore di Economia alla Bocconi di Milano. «Dopo Tangentopoli l’attenzione del legislatore si è concentrata su chi realizza l’opera per evitare corruzione e infiltrazioni mafiose. Giustissimo, però, passa sempre in secondo piano la fase di esecuzione: se si usano materiali inadeguati non importa a nessuno ed è drammatico», commenta Aldo Travi, luminare nel settore della giurisprudenza amministrativa, che continua: «Sono scomparsi i grandi apparati tecnici che in passato assistevano gli uffici amministrativi, vigilando sulla qualità delle opere. Oggi si affida a consulenti esterni il collaudo di tutto. E questo è un problema, perché se già l’appalto o la concessione sono affidati a un privato, bisogna che almeno la vigilanza sia svolta dal pubblico. Altrimenti continueremo a fare i conti con vicende di cronaca relative al cattivo stato di salute delle infrastrutture. Sono fenomeni figli dello svuotamento degli uffici tecnici pubblici, rimasti privi di personale competente. Siamo arrivati all’assurdo per cui in alcune città della Lombardia si esternalizzano a privati le redazioni dei bandi d’appalto, perché non c’è personale in grado di farlo. Così il rischio corruttivo è ancora più forte». Il codice appalti del 2016 aveva creato centrali di committenza per accentrare le procedure d’appalto così da ridurre le attuali 35 mila stazioni appaltanti a poche decine. Ma questa norma non è mai stata attuata. Viene da chiedersi, dato che gli appalti sono la più grande spartizione di denaro pubblico, se le amministrazioni non abbiano voluto garantirsi maggiore libertà per decidere verso quali imprese indirizzare le proprie risorse. Soprattutto ora che lo Sblocca Cantieri ha alleggerito le norme sui piccoli appalti, estendendo le possibilità di affidamento diretto e ampliando il ricorso al massimo ribasso, senza però affrontare il problema della lentezza nella realizzazione delle grandi opere. Eppure la conduzione di una gara d’appalto è spesso troppo complessa per i piccoli comuni: i responsabili degli uffici tecnici hanno chiesto la consulenza dell’Anac in oltre tremila casi, perché non sapevano come interpretare le norme. In Italia si crede di risolvere il problema creando nuove norme, senza dare spazio alla formazione di un’esperienza amministrativa, che richiede ovviamente una certa stabilità delle norme. Questa situazione è ancora più grave, perché l’Europa, dalla quale dipendono finanziamenti in settori decisivi, viaggia a tutt’altra velocità. Alla rapidità dei bandi e dei finanziamenti da intercettare: «Ogni anno il Paese perde miliardi di fondi comunitari per la lentezza delle procedure. Spesso la causa sono amministratori e funzionari che non si vogliono prendere la responsabilità di avanzare progetti, assumere decisioni, dare corso a interventi. È richiesta una capacità di direzione amministrativa, mentre da noi tutto diventa ragione di competizione politica. Nei confronti di questa paralisi decisionale, le reazioni sono inadeguate. Non sono al corrente di azioni di responsabilità nei confronti di chi - Consigli, giunte, uffici, dirigenti - non si sia impegnato per utilizzare i fondi comunitari. Eppure lasciarli sfumare significa perdere migliaia di posti di lavoro», aggiunge Travi. Correggere le norme non è sufficiente per rimettere ordine nel sistema. Va cambiata la mentalità dell’amministrazione pubblica. Servono tecnici qualificati, serve maggiore responsabilità, ma prima di tutto serve rimettere la questione all’ordine del giorno e, come dice il giurista, «all’attenzione di una politica con la P maiuscola».  

DAGONEWS il 30 gennaio 2020. Il mondo occidentale è rimasto a bocca aperta quando ha scoperto che si può costruire un ospedale in pochi giorni. Una folle corsa contro il tempo che stupisce noi, ma non i cinesi avvezzi a tuffarsi in imprese architettoniche in pochi giorni. Ma queste strutture sono sicure? Come è possibile erigere ospedali in pochi giorni? Da Wuhan i droni ci hanno mostrato il balletto di bulldozer che scavavano per costruire le fondamenta e una sfilata di camion che trasportavano cavi d'acciaio, cemento, prefabbricati e generatori di corrente mentre centinaia di operai lavoravano duramente per rispettare la scadenza: l'ospedale di Huoshenshan, che è stato inaugurato il 24 gennaio, sarà operativo il 3 febbraio e avrà 1.000 posti letto. Progetto ambizioso anche per l'ospedale Leishenshan, una struttura di 1.300 posti letto la cui apertura è prevista due giorni dopo. Il ritmo di costruzione a Wuhan fa sorgere diverse domande: come possono i cinesi comprimere radicalmente le tempistiche? Un edificio – soprattutto un ospedale - richiede solitamente diversi anni per essere eretto. Una struttura costruita rapidamente può davvero essere sicura? Scott Rawlings, un architetto per HOK, chiarisce che ciò che i cinesi stanno costruendo non è una tipica struttura medica, ma piuttosto un "centro di triage per la gestione delle infezioni di massa". «Esiterei a fare riferimento all'ospedale che è stato eretto a Wuhan come un ospedale permanente, e certamente non è una struttura completa – dice Rawlings  a Quartz - Quando progettiamo un ospedale ne prevediamo l’uso 75 anni». Rawlings, che sta attualmente lavorando a un nuovo ospedale da 500 posti letto a Chengdu e in due ospedali a Hong Kong, spiega che per un tipico progetto ospedaliero, si trascorre molto tempo a consultare pazienti, il personale medico, gli  amministratori sanitari e la comunità per assicurarsi che sia funzionale. Senza tempo per confrontarsi, i funzionari di Wuhan stanno replicando il progetto dell'ospedale Xiaotangshan, una struttura da 1.000 posti letto nella periferia di Pechino, costruita in una settimana durante l'epidemia di SARS nel 2003.

Ospedali pre-fab: sicuri ma non sempre sostenibili. L'uso di unità prefabbricate è la chiave per accelerare i tempi di costruzione degli ospedali di Wuhan. Le sale completamente assemblate e fabbricate in fabbrica vengono trasportate sul posto e semplicemente assemblate. «Questa tecnica di costruzione è completamente sicura - assicura Thorsten Helbig, ingegnere edile e co-fondatore della società di ingegneria tedesca Knippers Helbig - Puoi sicuramente rendere strutturalmente solidi gli edifici prefabbricati. Le unità sono assemblate in fabbrica, i progettisti e i costruttori possono risolvere eventuali problemi e assicurarsi che tutti i moduli funzionino prima ancora che vengano consegnati». Oggi anche catene alberghiere come Citizen M e Marriott  incorporano parti prefabbricate nelle loro strutture. Le costruzioni modulari sono utilizzate già in diverse parti del mondo, ma la storia della Cina è puntellata da epidemie di massa che li hanno preparati ad affrontare questi progetti. A questo si aggiungono le minori restrizioni burocratiche, la mancanza di sindacati, il costante afflusso di manodopera a basso costo proveniente dalle città di provincia e la disponibilità di materiali da costruzione. Ma questo non significa necessariamente che gli standard di costruzione della Cina siano meno sicuri rispetto a quelli occidentali. Helbig, che ha lavorato a diversi importanti progetti infrastrutturali in Cina, tra cui l'aeroporto Shenzhen Bao’an e un resort Disney a Shanghai, afferma di aver scoperto che la sicurezza è una priorità in Cina: «Non fanno più cose folli. Valutano più accuratamente. Sento che negli ultimi 10-15 anni c'è stato un cambiamento di atteggiamento». A questo si aggiunge anche la voglia dei cinesi di sperimentare e aprirsi a nuove tecnologie. Tuttavia questi edifici hanno dei problemi visto che non sono sempre sostenibili. «I loro ospedali soddisfano gli standard in materia di integrità strutturale, ma forse non nel consumo energia - spiega Helbig - Non riescono a essere ottimizzati. L'ospedale Xiaotangshan di Pechino è stato abbandonato dopo l'epidemia di SARS». La difficoltà di adattare una struttura così specializzata a qualsiasi altro uso rende gli ospedali in gran parte inutili dopo l'emergenza.

Milena Gabanelli e la rivoluzione digitale da 25 miliardi di cui ha bisogno l'Italia. Milena Gabanelli e Rita Querzè per “Dataroom - Corriere della Sera” il 13 gennaio 2020. Negli anni 50 fu la costruzione delle autostrade di asfalto a trasformarci da Paese povero in Paese prospero. Oggi, per uscire dallo stallo occorre costruire le autostrade digitali, ce lo ha ricordato anche la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Layen: per recuperare lo svantaggio tecnologico devono ripartire gli investimenti pubblici. Secondo l' indice con cui la Commissione misura la digitalizzazione dei 28 Stati membri, l' Italia occupa il 24esimo posto. Confindustria Digitale stima che l' inefficienza pubblica costi circa 30 miliardi di euro l' anno. I benefici che produrrebbe la trasformazione digitale della pubblica amministrazione li ha calcolati il Politecnico di Milano: 25 miliardi di euro l' anno. Da lungo tempo si parla di banche dati. A che punto siamo? È stata istituita nel 2005 presso il Ministero dell' Interno, e avrebbe dovuto completarsi entro il 2014. Dopo aver speso 37 milioni di euro, solo 5.300 Comuni sono entrati nella piattaforma. L' obiettivo di coinvolgere tutti gli 8.000 Comuni italiani dovrebbe essere raggiunto entro il 2020, ma sulle scadenze non sono stati presi impegni. Nel frattempo è complicato controllare se chi chiede il reddito di cittadinanza è residente in Italia da 10 anni; mentre lo studente universitario a carico di genitori benestanti può dichiararsi single e usufruire di sconti e agevolazioni. Come è noto la tassazione dipende spesso dal nucleo familiare, e l' Anagrafe nazionale della popolazione residente è uno strumento fondamentale per la lotta all' evasione. Prendiamo un cittadino sotto la soglia di povertà: il Comune magari gli garantisce la casa popolare, la Regione un bonus per l' iscrizione dei figli al nido, l' Inps un' altra forma di indennità. Ma quanto gli sta dando lo Stato nell' insieme nessuno lo sa. Negli anni si sono sommate e sedimentate nella legislazione innumerevoli forme di prestazioni sociali, senza che sia mai stata prevista una razionalizzazione o i controlli «incrociati» tra i diversi enti erogatori, favorendo così «furbi ed evasori» a danno dei più bisognosi. Parliamo di una spesa in prestazioni per 110 miliardi e in continua crescita: più 5% negli ultimi anni. Eppure l' istituzione di un «casellario dell' assistenza» fu previsto nel 2005, ma poi non se ne è fatto nulla. I centri per l' impiego dovrebbero far incontrare l' offerta di lavoro delle imprese con le ricerche dei lavoratori in tutto il Paese. Questo non succede, perché ogni Regione ha la sua banca dati (in Lombardia ce n' è addirittura una per Provincia), e pur essendo tenute a inviare le informazioni ad Anpal, che a sua volta dovrebbe renderle visibili su tutto il territorio nazionale, in realtà il sistema non funziona. Con una Banca dati nazionale per l' incrocio domanda/offerta sarebbe invece immediato. Il problema è che il lavoro è materia concorrente Stato-Regioni, e quindi serve un accordo che impegni le Regioni stesse a condividere i dati. Un tema su cui si litiga da 25 anni, mentre la disoccupazione giovanile supera il 28%, La sua funzione principale è rispondere alle seguenti domande: i miei datori di lavoro, presenti e passati, hanno versato tutti i contributi? E a quale pensione avrò diritto a fine carriera? Nell' anagrafe, attivata dall' Inps nel 2005, dovrebbero confluire i dati di tutte le categorie di lavoratori: pubblici, privati, autonomi e iscritti agli ordini professionali. Questi ultimi fanno acqua e poi mancano i dati di oltre 3 milioni di dipendenti pubblici. Basta quindi avere lavorato in passato per un paio d' anni come insegnante per non riuscire ad avere una ricostruzione completa della propria situazione. Inoltre anche i dati sui contributi versati dai lavoratori privati spesso vengono caricati in ritardo. Se la banca funzionasse, non solo si hai tutti i dati aggiornati in tempo reale, ma puoi anche vedere quanti lavoratori sono a tempo pieno, quanti part time e quanti in infortunio, e quindi definire meglio le politiche. Se risiedo in Veneto ed ho un problema di salute mentre sono in Campania il medico può vedere la mia storia sanitaria, gli esami, i referti precedenti? La risposta è no. Il fascicolo sanitario elettronico è stato istituito nel 2015 e oggi 12 regioni possono condividere in totale o in parte i loro dati. Il problema è che molti ospedali non hanno gli applicativi per interrogare il fascicolo, e quindi per il paziente è come se non esistesse. E pensare che uno dei Paesi più avanzati nella digitalizzazione degli ospedali è la Turchia: 171 ospedali a livello elevato di digitalizzazione contro i 6 dell' Italia (fonte: Healthcare information and Management Systems ). Infine l'identità digitale (Spid): certifica che «io» sono davvero «io» quando faccio un' operazione online, ovunque mi trovi - dal pagamento in banca alla richiesta di un documento, dalle prenotazioni sanitarie alle iscrizioni scolastiche o alle pratiche d' impresa - utilizzando una password unica e blindata. Oggi in Italia, per 60 milioni di cittadini, abbiamo un miliardo di identità digitali. Un sistema inefficiente e insicuro. Da fine 2019 il team digitale è stato incardinato come dipartimento presso la Presidenza del Consiglio, e la ministra per l' Innovazione Paola Pisano ha presentato il 17 dicembre un piano strategico da realizzare entro il 2025. Ma che succede se il governo cambiasse colore? Oggi nei bilanci della PA il digitale vale meno dell' 1%, cioè spendiamo meno della metà di Francia e Germania. Secondo Confindustria Digitale per portarci ai livelli dei nostri partner europei dovremmo investire 10 miliardi di euro in un piano condiviso da tutti i partiti, vincolante, e con tempi definiti. Intanto gli interventi da fare:

1) Spegnere gli 11 mila Ced, Centri elaborazione dati dei Comuni. Mobilitano ingenti risorse e sono pure attaccabili dagli hacker, andrebbero sostituiti con soluzioni cloud.

2) Usare tutti i fondi Ue. Per il settennio 2014-2020 l'Ue ci garantisce 2,3 miliardi di euro per l' attuazione dell' Agenda Digitale, a ottobre 2019 poco meno di un miliardo era ancora da assegnare per mancanza di progetti da finanziare (fonte: Open Coesione).

3) Assunzione di personale specializzato. Nel Regno Unito la struttura governativa DGS ha 800 persone dedicate. Da noi sono poco più di un centinaio, ne dovrebbero arrivare altre cento nel 2020, ma per ora siamo solo agli annunci.

4) Gare più veloci e trasparenti. Secondo la Corte dei Conti i bandi di gara in questo settore possono durare dagli 11 ai 24 mesi. Vuol dire che si installano tecnologie già vecchie. La trasparenza e il controllo nelle assegnazioni è cruciale, poiché le truffe sono facili quando ci sono di mezzo servizi informatici.

5) Condivisione e integrazione delle banche dati. Troppi enti si tengono stretti i loro dati e non li condividono con nessuno, perché rappresentano «potere», un sistema quindi da spezzare. Questa riforma strutturale oltre a creare posti di lavoro renderebbe il Paese più efficiente. Se tutto questo non decolla la colpa è anche nostra: abbiamo scelto gli amministratori sbagliati.

·        L’abuso d’ufficio: il reato temuto dagli amministratori.

Pignatone smantella il reato di abuso d’ufficio: frena il paese. Davide Varì su Il dubbio il 15 giugno 2020. “Rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici terrorizzati di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” e scarsi risultati penali. Così l’ex procuratore di Roma ha demolito l’articolo 323 del nostro Codice penale. Uso, anzi, vero e proprio abuso della cosiddetta “burocrazia difensiva”, freno allo sviluppo del Paese e scarsi risultati sul piano della sanzione penale. Sono le tre conseguenze – le più gravi – del reato di abuso d’ufficio. E fin qui nulla di nuovo: da anni ormai l’articolo 323 del nostro codice penale è nel mirino di giuristi e penalisti. La cosa del tutto nuova e inusuale, semmai, è che stavolta le critiche arrivano da Giuseppe Pignatone, l’ex procuratore di Roma che più e più volte nel corso delle sue inchieste ha contestato il reato in questione. Fatto sta che Pignatone prende il toro per le corna e spiega quanto segue.

Primo: un utilizzo improprio del reato di abuso d’ufficio determina il cosiddetto “rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici che per paura di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” evitano in tutti i modi, e per evitare guai, di agire per il bene pubblico e di assumersi responsabilità;

secondo: come conseguenza del punto uno, l’articolo 323 del codice penale concorre a creare sacche di immobilismo produttivo che bloccano l’intero paese;

terzo: le statistiche parlano chiaro. “Quasi la metà delle denunce per reati contro la Pubblica Amministrazione riguardano fatti qualificabili come abuso in atti di ufficio; i relativi procedimenti vengono però in gran parte archiviati mentre, secondo una rilevazione di alcuni anni fa, solo il 22% dei processi si conclude con una sentenza di condanna. Anche statistiche più recenti, pur se parziali, confermano questa tendenza. I margini di ambiguità Sull’esattezza di questa analisi e sull’urgenza di un intervento del legislatore vi è un significativo consenso”.

Insomma, un vero disastro. E il fatto che la denuncia dell’abuso del reato di “abuso d’ufficio” arrivi da Giuseppe Pignatone, rende la necessità di cambiare quella legge ancora più urgente. E non è un caso che lo stesso Pignatone citi il monito dell’allora presidente della Repubblica Scalfaro: “Non si può avere un mondo di funzionari, di sindaci, amministratori che a un certo punto si trovano impelagati, senza saperlo prima, in un illecito amministrativo o penale”. Sono passati 25 anni da quel monito e i problemi sono rimasti gli stessi. Forse appena un po’ peggiorati…

Salvini: “Abuso d’ufficio reato fantasma”. Il dubbio il 15 giugno 2020. Dopo la presa di posizione dell’ex procuratore di Roma, anche il leader leghista chiede la riforma del reato di abuso d’ufficio: “Su 7mila procedimenti, 6mila sono stati archiviati”. “L’Abuso d’ufficio, un reato “fantasma” che blocca la Pubblica Amministrazione e rallenta tutto, va abolito. Lo chiede Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali, lo chiedo da tempo anche io. Su 7.000 procedimenti aperti nel 2018, più di 6.000 sono stati archiviati, e le condanne sono state meno di 100. Per ripartire l’Italia ha bisogno di velocità ed efficienza, di gru e cantieri e ovunque: spazziamo via la burocrazia inutile e quello che la frena”. Dopo la presa di posizione di Pignatone, anche il leader leghista Matteo Salvini chiede la modifica della legge sull’abuso d’ufficio. L’ex procuratore Giuseppe Pignatone, aveva spiegato che un utilizzo improprio del reato di abuso d’ufficio determina il cosiddetto “rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici che per paura di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” evitano in tutti i modi, e per evitare guai, di agire per il bene pubblico e di assumersi responsabilità.

Francesco Grignetti e Giuseppe Legato per “la Stampa” l'1 luglio 2020. È il reato più temuto dagli amministratori, l'abuso d'ufficio. E ora il governo promette di riscriverlo radicalmente, circoscrivendo meglio quali condotte sono reato e quali no. Al nuovo «abuso d'ufficio» sarà dedicato un capitolo del Decreto Semplificazioni. In estrema sintesi, quando la legge concede un margine di interpretazione, non potrà essere contestato un reato se poi un sindaco sceglierà questa o quell'interpretazione. «Già, non è facile per gli ottomila sindaci - ironizza, con amarezza, Giuseppe Decaro, primo cittadino di Bari e presidente dell'associazione nazionale comuni italiani - terminare il mandato senza incappare in un'accusa di abuso d'ufficio. Per noi è una condanna anticipata con i titoli sui giornali e processo virtuale. E siccome abbiamo calcolato che solo il 2% dei procedimenti termina con una condanna, è una beffa». Decaro a nome dei suoi colleghi non chiede l'abolizione del reato. «Chiediamo che sia meglio determinato il perimetro». L'Anci ha calcolato che sono stati ben centomila i procedimenti per abuso d'ufficio contro i sindaci negli ultimi anni. «Il 60% dei quali è archiviato già in istruttoria. E indispensabile riscrivere il reato». Nel frattempo, non soltanto vi sono state carriere politiche rovinate, ma un'infinità di dossier si è incagliato. Ed è per questo motivo che a sostegno della riforma c'è un coro trasversale: sono a favore l'Anci e l'associazione costruttori, Matteo Renzi come Vincenzo De Luca. Forza Italia sarebbe pure a favore, ma Enrico Costa vuole capire meglio perché non s' è abolito proprio il reato. Una rapida carrellata degli ultimi mesi racconta tante assoluzioni: per il sindaco di Milano, Beppe Sala, finito a processo per un appalto Expo, come per Virginia Raggi, indagata per il nuovo stadio su esposto di ex Cinquestelle. Possono vantare un'assoluzione anche i Governatori della Lombardia Attilio Fontana (il caso era legato alla nomina in un organismo regionale di un suo ex socio di studio legale) o della Puglia Michele Emiliano (nomina nel cda di InnovaPuglia, società in house, dell'allora sindaco di Bisceglie). All'Aquila hanno appena assolto dalle accuse di abuso d'ufficio e falso ideologico anche l'ex presidente della Giunta d'Abruzzo Luciano D'Alfonso, attuale senatore. Ed è stato assolto l'ex presidente del Molise, Michele Iorio, per una vicenda legata allo zuccherificio. Anche De Luca in Campania ha superato indenne il processo Crescent, per un complesso immobiliare sul lungomare di Salerno. Tutti con il fiato sospeso fino all'ultimo perché una condanna per abuso d'ufficio, anche in primo grado, significa la decadenza per effetto della Legge Severino. Altri trattengono il sospiro. Il senatore leghista ed ex sindaco di Visso, Giuliano Pazzaglini, è stato rinviato a giudizio in relazione ad alcune donazioni per i terremotati. E la sindaca Chiara Appendino, sotto processo per un falso in bilancio e abuso d'ufficio, è in attesa di sentenza. I pm ne hanno chiesto la condanna a 1 anno e 2 mesi e negli ambienti della procura già si dice che se la bozza di riforma passerà cosi com'è, l'accusa diverrebbe quasi insostenibile: se non è contestabile l'abuso d'ufficio ogni volta che una norma di legge è suscettibile d'interpretazione, sarà molto complesso - e non solo nel processo Ream - sostenere un'accusa.  

“Ogni anno le procure paralizzano le attività dei dirigenti”, parla la segretaria Unadis Barbara Casagrande. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Luglio 2020. «Il fenomeno riguarda soprattutto gli enti locali, quindi i Comuni. E, per quanto riguarda le amministrazioni centrali, soprattutto gli uffici decentrati sul territorio. I numeri parlano chiaro: negli ultimi quattro o cinque anni sono stati aperti mediamente oltre 6mila fascicoli all’anno per abuso d’ufficio e le condanne alla fine sono state, per ogni annualità, sotto le 50. È quindi evidente che questo reato va rivisto e siamo contenti che nel decreto Semplificazioni si sia tentato di tipizzarlo meglio». Barbara Casagrande, segretario generale dell’Unadis, il sindacato dei dirigenti dei Ministeri, delle agenzie fiscali, di Inps, Inail e della Presidenza del Consiglio dei ministri, accetta di commentare, con il Riformista, la proposta di riforma del reato di abuso d’ufficio.

Quanto è necessaria questa riforma?

«La norma sull’abuso ufficio, più che scritta male, è stata in questi anni interpretata male. Non voglio creare conflitti tra poteri dello Stato, ma se una norma dice che commetto un abuso se violo una legge o un regolamento e conseguo un vantaggio patrimoniale agendo con dolo, il fascicolo dovrebbe essere aperto solo se ci sono tutte queste fattispecie. Il fatto che ci siano ogni anno migliaia di fascicoli aperti e solo pochissime condanne fa pensare che c’è stata una esagerazione dell’interpretazione che la magistratura ha fatto e questo ha messo in difficoltà l’amministrazione. Tra l’altro è singolare che l’abuso sia punito più severamente dell’omissione. Serve una riforma che consenta di lavorare con più serenità».

A chi accusa la pubblica amministrazione di volersi sottrarre al controllo cosa risponde?

«Gestiamo risorse pubbliche ed è corretto che ci siano controlli, ma abbiamo già cinque livelli di responsabilità: civile, penale, amministrativa, contabile e dirigenziale. Siamo soggetti abituati e formati da anni di studio e di esperienza a gestire cinque livelli di responsabilità, che non ci spaventano perché è alto l’onore di servire la Repubblica. Siamo per sanzionare e isolare le mele marce che agiscono con dolo, ma ci preme essere messi nelle condizioni di fare bene il nostro lavoro, e con una giungla di norme che a volte si contraddicono e procedure farraginose non è sempre facile. Bene, quindi, che nel decreto Semplificazioni abbiano indicato tutte le ipotesi di discrezionalità che sono fuori dall’abuso».

Discrezionalità è la parola chiave.

«Vorremmo che ai cittadini fosse chiara una cosa: la discrezionalità amministrativa non è arbitrio, ma ponderazione di interessi. Quando adotto un atto amministrativo io pondero, valuto le istanze che sono pervenute, le comparo, vedo qual è l’interesse pubblico a cui è finalizzato il provvedimento che devo adottare in attuazione di una norma di legge o di una norma secondaria e da questa mia ponderazione, che si chiama discrezionalità e va motivata, nasce l’atto. È sbagliato pensare che facciamo quello che ci pare e che la nostra discrezionalità sia una libera scelta, perché non è così».

Il problema, secondo lei, è più normativo o culturale?

«È necessario sicuramente intervenire sulle norme, in modo da averne meno ma più chiare e scritte meglio. Ma serve anche un messaggio culturale nuovo, per considerare le assunzioni nella pubblica amministrazione non un costo ma un investimento (ce ne sarebbe bisogno visto che da anni non c’è un turnover adeguato e molti dirigenti stanno andando in pensione) e per smettere di credere che la pubblica amministrazione sia fatta da fannulloni e furbetti del cartellino, perché è fatta da persone che lavorano con serietà, professionalità e un alto spirito di servizio».

Il grido dei sindaci: “L’abuso d’ufficio ci soffoca”. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Appalti, edilizia, servizi, green economy. Sono alcuni dei comparti che potrebbero beneficiare di occasioni di rilancio se si riuscisse a sbloccare la pubblica amministrazione, ad alleggerirla dal fardello di una burocrazia complicata e annodata, a incentivare i pubblici amministratori a uscire dalla palude che sembra essersi estesa negli ultimi anni. Per tanti motivi. Uno è il timore di finire coinvolti in indagini per un reato, l’abuso d’ufficio, indicato come una delle maggiori cause, forse anche l’alibi, della paralisi burocratica. Più volte oggetto di revisioni e rimaneggiamenti, il reato previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale è l’incubo di molti sindaci, assessori, consiglieri e funzionari. In queste settimane si studia, in sede governativa, una proposta di riforma del reato di abuso d’ufficio. L’obiettivo che è sul tavolo del Governo, in estrema sintesi, è quello di circoscrivere questa fattispecie di reato, limitandola alla sola violazione di specifiche regole di condotta, senza troppi margini di discrezionalità. Partiti e opinione pubblica sono divise su quale modifica sia giusto fare e sul dilemma se sia meglio abolire o riformare il reato. Tuttavia è indubbia la necessità di rivedere la responsabilità amministrativa e i confini, i margini, i poteri entro i quali un amministratore o un dirigente pubblico può e deve agire. Il terreno su cui ci si muove è un terreno pieno di cavilli e regolamenti, centinaia e centinaia di disposizioni attuative, un mare sconfinato di normative che nella teoria sembrano utili a regolare i dettagli di tutto ma nella pratica finiscono per regolare quasi nulla. Intervenire sulla responsabilità degli amministratori è uno degli step da percorrere. Ma non il solo. L’abuso d’ufficio è uno dei reati che rientrano nella sfera dei reati contro la pubblica amministrazione, una materia delicatissima su cui ha avuto un peso la discrezionalità lasciata ai magistrati con un conseguente sconfinamento dei pubblici ministeri in settori di appannaggio e discrezionalità della pubblica amministrazione. Riformare la giustizia è dunque un altro step necessario. Occorre bilanciare la riforma della burocrazia con la riforma della giustizia, per evitare che le indagini avviate in tempi record si definiscano in tempi biblici, che la risposta arrivi dopo processi che durano anni, che la forbisce tra numero di inchieste e numero di sentenze sia enorme rivelando una sproporzione che finisce per pesare in termini di costi e di risorse. Spezzare il circolo vizioso che si è innescato, superare la paralisi burocratica degli ultimi anni, spronare gli amministratori ad assumere responsabilità e iniziative senza più alibi sono le condizioni da cui ripartire per affrontare seriamente e concretamente progetti di riforme, di sviluppo, di rilancio. Il Riformista ne ha discusso con Nello D’Auria, vicesindaco di Gragnano e segretario generale dell’Anci Campania, oltre che con Clemente Mastella, Vincenzo Figliolia e Vincenzo Cuomo, sindaci rispettivamente di Benevento, Pozzuoli e Portici.

“Governo e Parlamento ci mettano in condizione di lavorare”. Aniello D’Auria (Gragnano). Come Anci Campania e amministratori di questa regione chiediamo di modificare il reato di abuso di ufficio. Non per un pregiudiziale capriccio garantista, ma perché i sindaci, soprattutto del Sud e della Campania, devono essere messi nella condizione di poter fare serenamente il loro lavoro. Non vogliamo salvacondotti, ma che paghi chi sbaglia per davvero, chi sbaglia per dolo. Il reato di abuso di ufficio prevede che, per configurarsi, ci debba essere la violazione di una legge o di un regolamento, ma per alcuni magistrati interviene anche per un’espressa violazione dell’articolo 97 della Costituzione, ossia del principio del buon andamento della pubblica amministrazione. È inaccettabile. Si rischia di creare una montagna di procedimenti e di gettare i sindaci in pasto a un’opinione pubblica arrabbiata. Al Governo e al Parlamento diciamo: siano chiari i comportamenti vietati, altrimenti rischiamo grosso soprattutto ora, durante la pandemia. Tanti sindaci della Campania, con i loro comportamenti in difesa dei cittadini, stanno rischiando di essere raggiunti da un’accusa di abuso d’ufficio con connessa responsabilità di fronte alla Corte dei Conti. Il risultato più evidente: molti amministratori e funzionari comunali non vogliono più mettere la firma sugli atti.

“Così è impossibile realizzare alcunchè”. Vincenzo Figliolia (Pozzuoli). «Per chi vuole concretizzare e fare nella propria città, per un sindaco o un assessore, subire un’indagine per abuso d’ufficio è il rischio di tutte le mattine. È quindi opportuno che ci sia una rivisitazione di questo reato. Oggi i cittadini vogliono realizzare, vogliono vedere fatti e non si accontentano più delle parole, per cui per andare incontro alle esigenze delle proprie comunità c’è bisogno di avere coraggio, di rispettare sì la norma ma di decidere, pur nella consapevolezza che l’accusa di abuso di ufficio è dietro la porta. Eppure il sistema giudiziario ha tante forme di controllo sulla pubblica amministrazione, a partire dalla Corte dei Conti fino a quei reati penalmente rilevanti e specifici, come la concussione e la corruzione. Pertanto ritengo che l’abuso di ufficio vada rivisto, perché complica l’azione quotidiana degli amministratori. Sicuramente i controlli sull’operato degli amministratori pubblici vanno fatti, ma l’abuso di ufficio, per come è configurato, è una spada di Damocle sulla testa di chi si occupa di pubblica amministrazione. Occorre modificarlo soprattutto in un momento storico come questo, segnato dalla pandemia da Covid e da tutte le emergenze che molti enti pubblici sono chiamati ad affrontare».

“Cancellare quella norma dal codice penale senza esitazioni”. Clemente Mastella (Benevento). «L’abuso di ufficio, nel modo con il quale è oggi regolato, è una cosa indegna. Colpisce amministratori e dirigenti locali e causa una paralisi perché i dirigenti sono spaventati e, quando arriva un avviso di garanzia, non firmano più. Molte volte basta una frase o un elemento per cui ci sarebbe un margine di discrezionalità a far scattare un avviso di garanzia: l’indagine intanto parte, poi si vede. Ma tutto questo frena la pubblica amministrazione e ferma le opere, soprattutto quelle grandi di cui abbiamo bisogno. È ovvio, quindi, che così non si può andare avanti. Questa è una vicenda tipicamente italiana, come tipicamente italiano è il fatto che si faccia una gara d’appalto, che la ditta che arriva seconda presenti ricorso al Tar e al Consiglio di Stato e che l’opera si fermi invece di proseguire nel suo iter: questo è il vero motivo del ritardo italiano. Intervenire sul reato di abuso d’ufficio non significa difendere chi fa cose che non sono legali, perché troppo spesso parliamo di persone che ricevono avvisi di garanzia pur operando nel perimetro della legalità. L’abuso d’ufficio è un reato barocco, fuori misura, fuori corso, ma che ha l’effetto di rallentare o sospendere l’esecuzione degli atti. Secondo me andrebbe abrogato una volta per tutte, ma purtroppo manca il coraggio di farlo».

“Troppe responsabilità sulle amministrazioni”. Vincenzo Cuomo (Portici). «L’abuso di ufficio è un reato estremamente “abusato” dal punto di vista della patologia giudiziaria, anche vista la bassissima percentuale di sentenze che confermano le notizie di reato. Tutte le volte che non si intravede un reato specifico, si contesta genericamente l’abuso di ufficio ed ecco perché, in dibattimento, l’accusa crolla di fronte all’evidenza dei fatti. Ma quanto è corretto che un amministratore si adoperi in una selva di leggi e di norme per garantire servizi ai cittadini? E quante volte la soglia giudiziaria e giuridica del rispetto della legge determina un abuso o una omissione? Perché è come il gioco dei sinonimi e dei contrari: il contrario dell’abuso è l’omissione in atti di ufficio. Per me l’accusa di omissione è peggiore di quella di abuso d’ufficio. Bisognerebbe dare norme chiare ed evitare di scaricare sui sindaci responsabilità che spesso non competono a loro. Un esempio: i sindaci sono considerati autorità sanitaria locale, ma come può un’autorità sanitaria locale esercitare senza avere poteri gestionali nei confronti degli organi deputati a erogare servizi sanitari che sono le Asl? C’è un cortocircuito. Il problema sta nell’applicazione della norma».

·        Dipendenti Pubblici. La sciatteria e la furbizia non è reato.

Pietro Senaldi e la scuola: "Professori con i certificati per non andare al lavoro? Sospendeteli tutti". Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Mancano pochi giorni al 14 settembre e la riapertura delle scuole è ancora un caos. "C'è la triste notizia - spiega Pietro Senaldi - che circa 200mila professori hanno prodotto certificati medici che consentono loro di non presentarsi a scuola". Il motivo? "Condizioni precarie di salute - prosegue il direttore di Libero -, insomma, stanno a casa per non prendere il coronavirus". Per Senaldi la paura è legittima, però "i professori dovrebbero pensare anche ai loro studenti e al compito che hanno". In sostanza, "se gli infermieri si comportassero come loro, noi saremmo a terra e non saremmo ancora usciti dall'emergenza". E così sarebbe il caso per il direttore che questi professori vengano sospesi dal pagamento, "tanto non sarebbe una sciagura per la scuola, visto che questi professori hanno ben poco da insegnare agli studenti". 

Musumeci contro i dipendenti regionali: “L’80% si gratta la pancia”. Notize.it il 19/07/2020. È polemica per le frasi pronunciate dal presidente della Sicilia Nello Musumeci, secondo cui l'80% dei dipendenti regionali sarebbero improduttivi. Hanno suscitato aspre polemiche le dichiarazioni del presidente della Sicilia Nello Musumeci, che in un suo intervento alle Giornate dell’energia di Catania si è scagliato contro i dipendenti regionali, accusandoli di essere in larga parte improduttivi. In risposta alle parole del presidente siciliano è subito arrivato il commento delle organizzazioni sindacali, che puntano il dito contro Musumeci reo di prendersela con una categoria che ha sempre lavorato anche durante l’emergenza sanitaria. Nel corso del suo intervento a Catania, Musumeci ha infatti affermato: “L’80% di loro [dei dipendenti regionali ndr] si gratta la pancia dalla mattina alla sera. Ma non ditelo ai sindacati. Ora vogliono stare ancora a casa per fare il cosiddetto lavoro agile ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Accuse alle quali ha replicato proprio il sindacato Siad -Cisal nelle persone di Giuseppe Badagliacca e Angelo Lo Curto, che hanno dichiarato: “Abbiamo ascoltato con profondo sconcerto le parole del governatore Nello Musumeci contro i dipendenti regionali: accuse ingiuste, immotivate e offensive per tutti i lavoratori che ogni giorno svolgono il proprio dovere con abnegazione, anche in condizioni difficili. Evidentemente Musumeci è in difficoltà e prova a coprire i fallimenti del suo governo puntando il dito contro l`anello più debole della catena, contro quei dipendenti che in piena pandemia hanno comunque lavorato e sono rientrati in servizio, nonostante la carenza dei dispositivi di sicurezza”. I due esponenti del sindacato starebbero inoltre valutando azioni legali nei confronti delle parole pronunciate dal presidente siciliano: “Se la macchina non funziona non è colpa dei dipendenti, ma di chi politicamente ne è a capo. Adesso basta, la misura è colma: valuteremo con i nostri legali se sussistono gli estremi per una querela, tutelando i lavoratori in ogni sede”.

La città fantasma dei ministeri: paralizzata dallo smart working. Claudio Marincola il 24 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Se un giorno, dio non voglia, casco per le scale e mi faccio male c’è il rischio che mi trovino la mattina dopo cadavere. Qui di pomeriggio non ci passa nessuno. Se penso a quanti impiegati c’erano prima, ai telefoni che squillavano… una confusione che la metà basta. Ora se mi guardo intorno mi sale il magone: solo desolazione». Nello sfogo di una addetta alle pulizie. al settimo piano di un ufficio pubblico che affaccia sulla vecchia Suburra romana, non c’è solo la malinconia del mondo di prima. C’è l’impotenza di chi, anche volendo, sa che non potrebbe mai fare online il suo lavoro. Ovvero sistemare stanze disabitate da mesi, spolverare telefoni che squillano a vuoto, spazzare pavimenti che non calpesta nessuno. Invidia? «No, guardi, preferisco tutte le mattine guardarmi allo specchio, vestirmi e uscire di casa. Non resisterei». Dovrà farci l’abitudine, Laura, (ma il suo nome vero non ce lo vuol dire). Il governo prolungherà lo smart-working fino al gennaio del 2021. Uno spazio bianco, un altro vuoto. Altri sei mesi di paralisi. Chiuse le mense, svuotati i bar, autobus che un tempo scaricavano alle fermate valanghe di passeggeri ne fanno scendere al massimo un paio per volta. Persino il responsabile delle risorse umane, un funzionario di cui tutti parlano bene, che ogni piccola dell’amministrazione diventava un suo cruccio, lavora da remoto. Si resta a distanza. Sempre e comunque. Ovunque. E l’economia va in frantumi. Si attraversano corridoi interminabili, si bussa a porte che non apriranno. Sentire il rumore dei propri passi è un viaggio metafisico tra i feticci della vecchia burocrazia. L’unica cosa dell’era pre-Codiv che nessuno rimpiange.

LA PASSIONE PER LE VIRGOLE. Tutto si è rallentato. E ora, dopo i “furbetti del cartellino”, ecco “i furbetti dello smart working”. I colletti bianchi del ministero dell’Economia che dovrebbero scrivere i 12 decreti attuativi del DL liquidità sono perennemente in call conference. Idem per il DL rilancio, quello che dovrebbe far ripartire di slancio – appunto – il Paese. Avrebbe dovuto chiamarsi DL aprile, ma c’è stato un primo ritardo. Poi DL maggio, ma si rifece tardi. Per mettersi in moto servono ben 103 decreti attuativi ma di questi solo 9 sono stati adottati. I maligni dicono che in questi mesi di forzato lockdown i funzionari abbiamo maturato un rapporto intimo con le virgole. Per toglierle o aggiungerne una ogni volta si fa una riunione in interconnessione. A questo stiamo, poveri noi. La pausa pranzo un tempo era un rito assolutamente intoccabile. La felicità della casa del tramezzino. Del sushi-bar che aveva appena aperto e che ora dovrà riconvertirsi. Il rito del pranzo con i colleghi è sospeso perché a nessuno fa piacere mangiare da soli. Spariti anche i ticket: ne hanno diritto solo i dipendenti per la presenza: un giorno a settimana, come da rotazione.

TICKET RESTAURANT UN’ECONOMIA SPARITA. Dietro al ticket c’era un mondo. Il baretto, la tavola calda, il negozio di alimentari, un microcosmo che non reggerà altri sei mesi di questa paralisi. Qualche esercente ha già comunicato ai propri dipendenti che non potrà salvarli. La moglie alla cassa. Il figlio al bancone e si proverà a tirare avanti. Dai sindacati finora solo silenzi. Nessuno vuole mettersi contro il ceto impiegatizio, i futuri pensionati, tenuti a distanza ma garantiti. Negli ultimi 10 anni c’è stata una riduzione del 6,2% di dipendenti pubblici. Un colpo del ko. Ha ridotto all’osso un’amministrazione che ha il 14% di lavoratori impiegati nelle amministrazioni pubbliche sul totale degli occupati. Contro il 29% della Svezia, il 22% della Francia, il 18% della Grecia, il 16% dell’UK, il 15% della Spagna. I nostri sono pochi e anche anzianotti. L’età media più alta dell’area Ocse (51 anni). Gli under 30 sono appena il 2,9%.

LE FILE NOTTURNE. In questi giorni le scadenza si sovrappongono. È tempo di dichiarazione dei redditi. E tra non molto sulla testa degli italiani potrebbero piombare le cartelle esattoriali sospese causa Covid. Logico, dunque, che all’Agenzia delle entrate, in via Ippolito Nievo, a Trastevere, nel cuore di Roma, si formi la fila. C’è chi, alle 3 di notte, ritira il suo numeretto. I vigilanti sono costretti spesso a intervenire per chiedere il distanziamento e la mascherina. Una scena notturna e surreale. Anche 100 persone in fila per chiedere chiarimenti che al telefono non si possono ottenere perché all’altro capo del filo non c’è nessuno. Sergio è uno dei 350 dipendenti in organico. «Eravamo già pochi prima, figuriamoci ora – dice – L’accordo prevede che ogni Area sia coperta. Facciamo un turno a settimana, non ce la facciamo a stare dietro a tutto. Impossibile. Sappiamo già che le dichiarazioni dei redditi inviate ora dai contribuenti non verranno controllate prima di 3 anni, a parte quelle in cui la richiesta di rimborso supera i 4.000 euro. Lavoriamo da casa, ma quando lo smart working è partito avevamo solo 30 pc funzionanti. Questa è una zona piena di uffici e di ministeri: ora è un deserto». E le ferie? «Ci è stato chiesto di pianificarle fino al prossimo 31 dicembre. Ma in questo momento la cosa più importante è capire che cosa succederà: chi glielo dice a quelli in fila che non è colpa nostra?».

Il giudice e i furbetti di Sanremo: “Timbrare in mutande non è un reato, errori nell'indagine”. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 su La Repubblica.it da Marco Preve. La sciatteria non è reato o, per dirla con le parole del giudice: "la timbratura in abiti succinti non costituisce neppure un indizio di illiceità penale e ha una sua spiegazione logica". Tanto più che la "funambolica opera di valutazione dei labili indizi di reato evidenziati" non può rappresentare la base di un teorema accusatorio. Le 319 pagine di motivazioni con le quali il giudice Paolo Luppi ha spiegato perché, a gennaio, decise di assolvere dieci impiegati del Comune di Sanremo - presunti furbetti del cartellino fra i quali il celebre vigile in mutande-, sono da un lato un invito a non trasformare lo stereotipo in elemento di giudizio, e dall'altro la concreta manifestazione dello Stato di Diritto. Quello che non opera sulla base del sentimento della piazza, ma attraverso il rispetto di norme e codici. Cinque anni fa, a ottobre, l'Italia aveva in pasto il nemico più odiato: impiegati pubblici, di uno dei comuni più glamour, sorpresi nell'atto del tradimento assenteistico e, udite udite, commesso in mutande e canotta. Retatona con 34 arresti, decine di indagati, Comune militarizzato. Nel frattempo, 16 hanno patteggiato (quelli sorpresi in flagrante nello shopping o remare in canoa durante l'orario di servizio), altri 16 sono stati rinviati a giudizio e dieci, a gennaio 2020, vennero processati. Fra di loro il simbolo dell'operazione: Alberto Muraglia, vigile urbano addetto alla custodia del mercato municipale. Tutti assolti.

Le assenze. La maggior parte delle contestazioni riguardava l'assenza ingiustificata in orario d'ufficio. L'impostazione accusatoria è stata smontata dal giudice sulla base delle procedure in vigore a Palazzo Bellevue. Le testimonianze dei dirigenti sono servite per spiegare che, prima dello scandalo, il dipendente che usciva per ragioni di servizio doveva dirlo al suo dirigente e poi annotarlo su un registro. La presenza di un sistema elettronico di comunicazione- Infopoint - effettivamente presente anche durante l'indagine, sarebbe stato però in uso solo per le mancate timbrature, ferie o altri tipi di permessi e non per le uscite di servizio. E il giudice si chiede: "E sarebbe stato altresì interessante capire per quali ragioni, data l'abitualità di tale modus procedendi, i dirigenti dei settori ai quali appartenevano i dipendenti ritenuti infedeli, non siano stati ritenuti responsabili (o comunque non siano stati indagati) per un loro (nell'ottica del PM) palese concorso nei reati commessi datali dipendenti". Per quanto riguarda invece le timbrature effettuate da colleghi le motivazioni della sentenza spiegano che: "Tutti hanno dimostrato che la timbratura effettuata con il loro badge da colleghi si accompagnava alla loro presenza in ufficio, talvolta con la loro presenza a pochi metri di distanza dal collega 'timbrante'".

Accuse "annientate". Le motivazioni fanno a pezzi l'accusa. L'"annientano" come scrive Luppi a proposito delle tesi difensive. O meglio danno atto al pm di aver fatto del suo meglio sulla base però di un impianto viziato da errori di interpretazione e clamorose sviste investigative. Per dirne un paio, proprio riferite a Muraglia, gli inquirenti avevano ipotizzato che non si trovasse sul posto di lavoro senza essersi accorti: in un caso di aver scambiato il suo numero per quello di sua moglie che in effetti era fuori Sanremo, e in un'altra occasione che si trovava al poligono con i colleghi per i tiri obbligatori, e infine che quella volta che si spogliò davanti alla porta di casa, e venne immortalato dalla telecamera nascosta, fu perché aveva appena gestito il traffico sotto il diluvio in contemporanea con la Milano- Sanremo. In molte occasioni in cui era accusato di aver frodato sull'orario, il giudice non solo ha smontato la ricostruzione della procura, ma ha addirittura evidenziato come Muraglia, uscito ad ispezionare il piazzale alle 5.30, mezz'ora prima dell'inizio del suo orario fosse quindi a credito per un'"attività in esubero, non retribuita e non retribuibile, per un totale di un'ora e otto minuti. Se davvero il Muraglia fosse stato un agente sciatto e lavativo, difficilmente si sarebbe preoccupato di iniziare a lavorare circa mezz'ora prima dell'orario".

Simbolo mediatico. Il giudice dedica la parte conclusiva della sentenza al rilievo mediatico di quelle immagini. "Anche ammesso che talvolta il Muraglia abbia timbrato in mutande o in abiti succinti non va dimenticato che le contestazioni mosse al predetto imputato erano di falso e di truffa... non di atti osceni o di atti contrari alla pubblica decenza (illeciti anch'essi, comunque, insussistenti in quanto allorché timbrava in mutande il Muraglia era visto solo .....dai finanzieri che avevano collocato le telecamere). Se i media hanno fatto delle immagini del vigile in mutande, diffuse senza risparmio da giornali e televisioni, il simbolo di un malcostume generalizzato dei pubblici dipendenti (non è questa la sede per confutare tali considerazioni).... questo giudice ritiene, in adesione a quanto sostenuto dalla difesa, che la timbratura in abiti succinti non costituisca neppure un indizio di illiceità penale e che abbia una sua spiegazione logica e non connotabile come indizio di illiceità...".

Giulio Gavino per “la Stampa” il 28 maggio 2020. Timbrava in mutande ma non era un assenteista, anzi cominciava addirittura a lavorare in anticipo. Dopo l' assoluzione sono le motivazioni della sentenza a riabilitare definitivamente Alberto Muraglia, 58 anni, il vigile di Sanremo arrestato dalla Finanza nell' ambito dell' inchiesta Stakanov sui furbetti del cartellino in Comune. Era il maggio del 2015: e le immagini di Muraglia che bollava il cartellino senza neppure vestirsi erano diventate il simbolo dell' assenteismo nel pubblico impiego, raccogliendo commenti sdegnati e insulti sui social. Con lui erano stati arrestati altri 33 dipendenti del Comune, alcuni - sorpresi dalle telecamere mentre facevano shopping - avevano patteggiato, in dieci erano finiti a processo. Ed erano stati assolti: tutti, compreso Muraglia, l' uomo che tutta Italia aveva etichettato come il «vigile in mutande». «I processi si fanno nelle aule di giustizia e non sulle pagine dei giornali - dice Alessandro Moroni, il difensore - .Questo invece è stato un processo prima mediatico e poi giudiziario: è stato un problema, perché si è creata una pressione eccessiva sulla vicenda. Non serve commentare: parla la sentenza, che è molto ben argomentata». In effetti, il giudice Paolo Luppi, pur nel linguaggio giuridico di chi scrive le motivazioni, è sttao chiaro: «Anche ammesso che talvolta il Muraglia abbia timbrato in abiti succinti, non va dimenticato che le contestazioni erano di falso e di truffa, non di atti osceni o di atti contrari alla pubblica decenza». Accuse che comunque sarebbero state prive di fondamento, dato che la scena era stata vista «solo dai finanzieri che avevano messo le telecamere». E se le immagini erano diventate «il simbolo di un malcostume generalizzato», la realtà dimostra che dietro all' apparenza c' era una spiegazione, e che quelle mutande « non costituiscono neppure un indizio», altro che una prova. «Noi lo abbiamo detto fin dal primo giorno che c' era un' altra chiave di lettura - è l' unico commento di Muraglia, fedele alla consegna del silenzio imposta dal suo avvocato - Lo sapevo di non aver mai fatto niente di male». Ma tornerebbe a timbrare il cartellino svestito? «Io mi sono sempre comportato in buona fede», dice prima di chiudere la conversazione. Oggi Muraglia fa l'aggiustatutto in un quartiere popolare, dove rimette a posto gli elettrodomestici che non funzionano più. La gente ha imparato a conoscerlo e ha smesso di ricordare la storia delle mutande. Da oggi lo farà ancor meno: «Muraglia - si legge ancora nella sentenza - iniziava a lavorare, senza essere per questo retribuito, 25-30 minuti prima del dovuto. Appena alzato, effettuava un giro in scooter delle aree del mercato per poter chiedere la rimozione dei veicoli». In slip e canotta? «È assolutamente verosimile che compisse tale attività prima di avere indossato la divisa. Senza la collaborazione del Muraglia, senza l' apertura dell' accesso al mercato, senza l' individuazione dei veicoli in sosta vietata e senza la rimozione degli stessi, senza la spunta dei banchi, senza l' effettuazione di tali attività in modo tempestivo il mercato non sarebbe potuto iniziare in orario. Da questi dati non si può prescindere».

Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 28 maggio 2020. Furbetti? Non scherziamo. Semmai lavoratori indefessi, al punto da timbrare in abiti non appropriati pur di non sottrarre minuti preziosi alla propria missione o, in qualche caso, addirittura aggiungerli. Senza per questo ricevere degli straordinari in busta paga. A rendere giustizia a quanti per cinque anni sono stati considerati i "furbetti del cartellino" del Comune di Sanremo sono le motivazioni della sentenza di assoluzione nei confronti di Alberto Muraglia, il dipendente comunale accusato di falso e truffa, immortalato a timbrare in mutande e diventato il simbolo dell' Italia allo sfascio, l' emblema degli impiegati pubblici nullafacenti, che aspettano il "27" per prendere lo stipendio. A lui, che dopo il licenziamento si è reinventato "aggiustatutto" aprendo una bottega per salvarsi e salvare la sua famiglia, è stato riconosciuto nero su bianco che aveva timbrato sì in mutande, ma soltanto perché era appena rientrato da un turno di lavoro in cui aveva gestito il traffico sotto un diluvio, diciamo, universale. Per questo non aveva gli abiti, li aveva tolti prima di rientrare perché inzuppati. Lo scrive il gup Paolo Luppi in una delle 319 pagine di motivazioni riportate da Repubblica nella cronaca di Genova. Pagine nelle quali si evince la "leggerezza" con cui sono state portate avanti le indagini che hanno crocifisso Muraglia e in cui si parla di «funambolica opera di valutazione dei labili indizi di reato evidenziati», che sono scricchiolati di fronte ad un teorema accusatorio poi rivelato privo di fondamenta.

Sviste. Quando l' accusa contesta al vigile di non essere nel comune di residenza, per esempio, viene confuso il cellulare di Muraglia con quello della moglie. Quando viene individuato al poligono con i colleghi, non si tiene conto che era lì per i tiri obbligatori che la sua professione richiede. In entrambi i casi, per l' accusa, Muraglia risultava assente dal lavoro. L' attuale aggiustatutto, che in questi anni si è sempre professato innocente e che ai processi ha portato qualcosa come 40 testimoni, che al lavoro ha dedicato più tempo di quanto gliene fosse riconosciuto, può finalmente sorridere con orgoglio a quanti lo hanno guardato come un appestato, un nullafacente pagato con i soldi della collettività. «Ho sempre creduto di essere nel giusto e di non aver fatto nulla di male. Una cosa mi ha disturbato su tutte, quasi nessuno ha mai avuto l' onestà mentale di far la domanda giusta: quelle timbrature erano fatte prima o dopo l' orario di servizio? Rispondo io: tutte prima, non ho mai rubato nulla», aveva detto in una recente intervista. E come lui, possono camminare a testa alta e dormire sogni tranquilli altri nove dipendenti comunali coinvolti nell' operazione che nell' ottobre del 2015 portò all' arresto di 34 persone. Non tutte innocenti. Di queste, infatti, sedici hanno scelto la via del patteggiamento: alcuni erano stati sorpresi in flagrante, chi a fare compere durante l' orario di lavoro, chi a spasso o a fare sport. Difficile dimostrare il contrario. Gli altri, tra cui il vigile simbolo, sono stati rinviati a giudizio e dieci assolti. assenza Tra le contestazioni più frequenti figurava l' assenza ingiustificata dall' ufficio. Salvo appurare che al comune di Sanremo chi usciva per servizio non doveva far altro che comunicarlo al proprio dirigente e che il sistema elettronico veniva usato per permessi e ferie. Un modus operandi che gli stessi dirigenti hanno confermato di fronte ai giudici. Ma c' è di più: «Tutti hanno dimostrato che la timbratura effettuata con il loro badge da colleghi si accompagnava alla loro presenza in ufficio, talvolta con la loro presenza a pochi metri di distanza dal collega "timbrante"», scrive il gup Luppi. Ovvero, chi si faceva timbrare il cartellino dai colleghi era già in ufficio. A lavorare. Insomma, farsi timbrare il cartellino dai colleghi, o farlo addirittura in mutande («...questo giudice ritiene, in adesione a quanto sostenuto dalla difesa, che la timbratura in abiti succinti non costituisca neppure un indizio di illiceità penale...», scrive Luppi), non significa per forza essere dei furbetti. Prova che davvero l' apparenza inganna.

·        La Trasparenza è un Tabù.

Alessandro Da Rold per “la Verità”l'11 febbraio 2020. Il presidente dell' Agcom, Angelo Marcello Cardani, parla spesso di trasparenza nei suoi interventi. Lo fa in merito alle bollette di luce e gas che vengono recapitate agli italiani, ne chiede di più contro le fake news che circolano su Internet. Per esempio a fine gennaio Tim, Vodafone e Wind Tre hanno ricevuto una multa di 696.000 euro per pratiche scorrette. Peccato che però, da numero uno dell' autorità garante delle comunicazioni, lui non dia il buon esempio. Insediato in Agcom nel giugno del 2012 sotto il governo di Mario Monti, il suo incarico è in proroga da luglio 2019: merito della difficoltà dei governi Conte 1 e 2 di trovare una quadra sul successore. Il 18 febbraio sono previste le votazioni in Camera e Senato, dove saranno scelti i componenti anche per il garante della privacy. In questi anni sono cambiate diverse regole nella pubblica amministrazione che il presidente Agcom conosce benissimo. Nel 2013 infatti, il dlgs 33 disciplina la trasparenza nella pubblica amministrazione. Si applica anche alle autorità amministrative indipendenti di garanzia e vigilanza, tra cui il garante delle comunicazioni e i suoi vertici. E vi è anche l' obbligo di pubblicazione dei propri redditi, tra cui, in particolare, l' eventuale possesso di azioni o quote in società pubbliche o private.

Il tema è molto discusso. Tanto che l' anno scorso è dovuta intervenire anche la Corte costituzionale spiegando che l' obbligo dei dirigenti di pubblicare i redditi online è incostituzionale. Eppure c' è chi lo fa. Sono in tanti. Tra questi c' è per esempio Michele Corradino, consigliere dell' Anac (ente anticorruzione), che alla voce «Strumenti finanziari, quote e azioni societarie» riporta Banca di credito Cooperativo di Roma, 1.650 azioni e percentuale di possesso sul totale della banca 0,0082%. È di sicuro opportuno per chi deve combattere la corruzione nella pubblica amministrazione comunicare possibili conflitti di interesse. Ma lo è anche per chi amministra l' Agcom, che deve appunto sorvegliare su possibili violazioni e in generale sulla corretta concorrenza degli operatori sul mercato. Eppure in questi 7 anni Cardani non ha mai comunicato quali azioni o quote di società avesse. Nelle dichiarazioni, infatti, dal 2013 in poi, come riporta il sito dell' Agcom, vi è solo scritto che possiede azioni in società». I documenti sono accessibili a tutti. Fino al 2015 si può appunto vedere una dichiarazione generica sul possesso di azioni, poi negli ultimi anni, quando il modello è stato uniformato, Cardani si è limitato a barrare la casella che attesta che «la situazione patrimoniale dichiarata nell' anno precedente non ha subito variazioni in aumento o diminuzione». L' obbligo si specificare di quale società sono le azioni possedute è, come detto, molto discusso dal punto di vista costituzionale, ma il presidente di una autorità garante così importante dovrebbe essere il primo a dare il buon esempio. Del resto proprio il dipartimento per il coordinamento amministrativo della presidenza del Consiglio dei ministri ha da qualche anno messo a disposizione sul proprio sito una scheda da utilizzare dove viene indica la necessità di una formulazione specifica. Ovvero, la legge impone di sapere esattamente il patrimonio di partecipazioni posseduto dal titolare di un organo di indirizzo politico. C' è il rischio di un possibile conflitto di interesse che potrebbe derivare dal possesso di azioni o partecipazioni in società. La stessa Anac ha sempre confermato l' esistenza di questo obbligo. Come detto, a esprimersi è stata anche la Corte costituzionale, ma Anac ha comunque facoltà di sanzionare i dirigenti pubblici che hanno commesso omissioni nella dichiarazione dei redditi. Anzi, a quanto risulta alla Verità, ci sarebbe stata anche una segnalazione all' ente anticorruzione ma di esiti o sanzioni non si ha notizia. Perché al di là di una multa per Cardani viene da domandarsi se queste omissioni siano compatibili con il mandato svolto in questi anni, per di più negli ultimi mesi in proroga. Di sicuro la legge del 2013 non è stata rispettata, anche perché i cittadini e i soggetti che vengono controllati dall' Agcom non hanno la possibilità di valutare se il presidente si trovi in conflitto di interessi. In una recente indagine sui Big data, l' autorità garante per le telecomunicazioni spiega quanto nel contesto attuale sia «difficile ripristinare condizioni di efficienza attraverso meccanismi di trasparenza e di consenso informato. Infatti, tali strumenti appaiono, in molti casi, insufficienti a garantire un riequilibrio conoscitivo tra operatori e consumatori». Forse il primo a dare l' esempio dovrebbe essere proprio Cardani.

Per i burocrati trasparenza è sinonimo di voyeurismo. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 su Corriere.it da Gian Antonio Stella. «Il buon senso prevale sul voyeurismo». Così esultano on-line, come se si trattasse di giarrettiere o baby-doll, i social dei burocrati. Ovvio, dal loro punto di vista. Una leggina infilata nell’ultimo baule dell’ultimo treno per Yuma, il decreto Milleproroghe, svuota anni di impegni alla trasparenza, sfila la competenza all’Anticorruzione e riporta le lancette all’indietro di dieci anni e passa. Nessuna sorpresa. «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione», scriveva Max Weber oltre un secolo fa, «mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Nonché i redditi, si capisce. E non è un caso se per decenni, anche dopo la proposta di pubblicare gli emolumenti dei dirigenti pubblici lanciata nel ‘97 dal diessino Cesare Salvi e plaudita dal destrorso Francesco Storace, nessuno ci provò mai davvero prima di Renato Brunetta. Il quale battezzando l’«Operazione Trasparenza» esaltò nel 2009 i ministri che per primi avevano aderito facendo del bene «non solo al governo ma al Paese». Il governo di Mario Monti fece un passo in più. E dopo aver messo on-line i redditi e anche le proprietà dei suoi ministri, confidò di volere «sottoporre a qualcosa di analogo» pure gli alti dirigenti amministrativi. Era il febbraio del 2012. Da quel momento, però, il percorso è stato sempre più accidentato. Al punto che quando il «decreto trasparenza» firmato da Marianna Madia fu finalmente varato nel maggio 2016 lo stesso Brunetta vi trovò addirittura «dei passi indietro». Critica giusta? Certo è che il decreto era monco. Mancavano le linee guida sull’applicazione delle nuove regole: valevano solo per i manager apicali del mondo pubblico o per tutti? Centinaia o decine di migliaia di dirigenti? Erano previste eccezioni? I medici primari erano compresi? E la privacy? A occuparsene fu delegata, non casualmente, l’Anac di Raffaele Cantone. Tempi? Meglio prima che dopo. Fatto sta che a un certo punto la platea dei possibili «obiettivi» del monitoraggio dell’Anticorruzione, a ragione o torto, sembrò allargarsi e allargarsi ancora fino a tirare in mezzo, forse, chissà, centoquaranta mila pubblici dirigenti e funzionari. Una marea. Di giorno in giorno più inquieta: «Ricorriamo al Tar!» Ma su cosa: sulle voci? Finché il segreterio generale dell’Authority per la Privacy, mettendo le mani avanti (con sospetta solerzia, diranno gli avversari…) invitò un po’ tutti i suoi a preparare i documenti per una richiesta di dettagli patrimoniali da mettere eventualmente a disposizione nel caso fossero richiesti. Il tempo che la richiesta venisse scodellata e partivano i primi ricorsi al Tar. Coincidenza: le linee guida dell’Anticorruzione (pare restrittive rispetto all’allarme generale) erano ormai previste per l’8 marzo. Ma sei giorni prima, il 2 marzo, ecco arrivare la decisione dei giudici amministrativi: prima di decidere, meglio fare subito una sospensiva. Che diede il tempo ad altri aspiranti ricorrenti di presentare al Tar nuovi esposti, appelli, contestazioni. Risultato: preso in contropiede, Raffaele Cantone restò impantanato. Peggio, sulla testa sua e dei sostenitori della necessità di combattere la corruzione con la massima trasparenza, piombò un mattone inaspettato. Palazzo Chigi, che con Monti prima e Renzi poi aveva spinto per le nuove regole indigeste a tanta parte della nostra burocrazia, ricevette infatti dall’Anac una domanda precisa: la Presidenza del consiglio aveva intenzione o no di ricorrere contro la sospensiva decisa dal Tar? La risposta fu una secchiata d’acqua gelida: su consiglio degli avvocati, che temevano l’ipotesi di chissà quanti futuri risarcimenti, meglio lasciar perdere e «non rimuovere gli effetti della sospensiva concessa». Deluso, il presidente dell’Anticorruzione non ebbe scelta: andava tutto congelato. Anzi, da quel momento la controffensiva di quanti erano ostili alle nuove norme accelerò. Basti ricordare la lettera al Corriere con cui Giuseppe Busia, il segretario generale della Privacy, spiegò che era meglio così. Che una scadenza per le linee guida in realtà c’era ma era stata fatta slittare dall’Anac. E che lui stesso, pur avendo il dovere di rispettare le leggi, compreso l’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti sul web, confessava «a titolo strettamente personale di non condividerlo». Ma era solo l’inizio della rivolta contro quelli che molti bollano come «eccessi di trasparenza». Eccessi in parte riconosciuti nel febbraio scorso dalla stessa Corte Costituzionale che tuttavia, ricordava giorni fa lo stesso Cantone in una lettera a Repubblica, «ha parzialmente dichiarato l’ incostituzionalità della norma del 2016, relativamente però ai soli dirigenti che non svolgono ruoli di primo piano». Per capirci: la Consulta diceva solo che un pubblico monitoraggio a tappeto di tutti i dirigenti non ha senso. Ma che il principio, in sé, su una platea più ristretta, era e resta positivo. D’altra parte, come dimenticare gli arricchimenti spropositati di burocrati d’oro come Duilio Poggiolini o Angelo Balducci? Certo, probabilmente non si sarebbero fermati davanti alla minaccia di pubblicazione delle loro proprietà. Avrebbero trovato altre strade e via…Fatto sta che dopo varie retromarce sulla trasparenza a dispetto degli antichi proclami di Beppe Grillo contro i burocrati («Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia…») quella leggina infilata nel Milleproroghe dice tutto. Dopo dieci mesi di paralisi, prima giallo-verde e poi giallo-rossa il Parlamento ha deciso infatti di toglier la trasparenza all’Anticorruzione, di sospendere le sanzioni previste per chi avesse violato le regole esistenti sui redditi on-line (ciao ciao, legge Brunetta…), di dare un anno di tempo al ministro della Funzione Pubblica per rivedere tutto. Con quale spirito, in un paese dove la classe politica è sempre più debole e quella burocratica sempre più forte, è facile immaginare…L’aspetto più divertente, però, al di là dei commenti sul «voyeurismo» di chi invoca la trasparenza (chissà cosa diranno delle leggi inglesi che costrinsero David Cameron a dichiarare d’aver ricevuto in dono un po’ di lezioni d’un «personal trainer»…) è che alla vigilia di Natale, cinque giorni prima di votare quel Milleproroghe che preannunciava la sostanziale abolizione dell’obbligo di pubblicare i propri redditi, il Parlamento aveva votato nella Legge di Bilancio un comma 63 che prevedeva un taglio dal 30 al 60 % dell’indennità di risultato per chi non comunicava quei dati… Per dirla con Matteo, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra…

·        Le province fantasma.

Le province: questi fantasmi! Report Rai PUNTATA DEL 04/05/2020 di Bernardo Iovene. È impossibile ricostruire il numero esatto delle province italiane. Sono state abolite nel 2014, ma nel 2016 il referendum costituzionale le ha confermate. Intanto nelle regioni a statuto speciale Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Sardegna è il caos. In Sicilia ci sono i Liberi Consorzi Comunali commissariati dal 2012. In Friuli Venezia Giulia, abolite le province, furono istituite 18 Unioni Territoriali Intercomunali, poi abolite dalla giunta leghista per istituire gli EDR, Enti di decentramento regionale. In Sardegna le province erano quattro, poi diventarono otto, un referendum le ha ridotte di nuovo a quattro, ma attualmente sono cinque, più un area omogenea. La confusione regna anche nelle regioni ordinarie dove per dieci anni sono state sottratte risorse mettendo in ginocchio un ente che ha abbandonato a sé stesse 130 mila chilometri di strade e la manutenzione di 7000 scuole. Il nostro viaggio in tutte le regioni e province, che ha ripercorso il dossier “Province terra di nessuno”, elaborato da Openpolis in collaborazione con Report, raccoglie la denuncia di sindaci e degli amministratori che unanimemente invocano il ritorno alla vecchia provincia con le elezioni dirette degli organi politici. Cosa risponde il governo?

LE PROVINCE: QUESTI FANTASMI! Di Bernardo Iovene Immagini di Alfredo Farina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È diventata una questione tra curva nord e curva sud. Perché il commissario Arcuri ha chiesto di dissequestrare una partita di pezzi di ricambio di ventilatori e respiratori in un momento in cui c’era un’emergenza nel paese. L’ha fatto, è scritto in un documento di cui Report è venuto in possesso, per un indifferibile e superiore interesse nazionale. Quale interesse, e di chi? Cercheremo di capirlo dopo l’inchiesta principale di questa sera che tratta un tema che pensavamo di non dover trattare più: le province. Le vecchie province. In quanti sanno quante sono e che cosa fanno, in questo momento, le province del nostro paese? Abbiamo fatto una ricognizione con gli amici della fondazione Openpolis, e abbiamo scoperto che potrebbero diventare una risorsa incredibile del Paese, per il Paese nella fase due, per ripartire. Proprio in questi giorni l’Unione delle Province ha presentato un progetto al premier Conte che porterebbe allo sblocco di piccoli, migliaia di cantieri, di far girare circa due miliardi di euro, rimettere un po’ a posto una rete viaria, oltre 120mila chilometri di strade provinciali, mettere, rimettere mano a oltre 30mila tra ponti, viadotti, gallerie, alle settemila scuole di loro competenza, renderle più efficienti dal punto di vista dell’energia, ma anche metterle un po’ in sicurezza, e magari anche un po’ più digitali. Sono diventate, improvvisamente, una risorsa. Ma sono un po’ come i personaggi in cerca di autore. Se non vengono delineate bene le competenze rischiano, invece di essere una risorsa, di diventare un ulteriore, pesante fardello. Come fa un tir a contribuire alla crescita del paese se poi deve fermare la sua corsa a ridosso di un viadotto crollato? Hanno vissuto il momento delle vacche grasse, nel 2004 erano diventate 110, le province in Italia, poi è arrivata la sforbiciata di Delrio. Nel 2014 ha delimitato le loro funzioni. Devono occuparsi, diceva Delrio, delle strade, delle scuole e un po’ di ambiente. Alcune funzioni le hanno prese i governi, le hanno prese gli stati e le Regioni. Però Delrio aveva in mente una cosa bella: la casa dei comuni. Però il risultato è che ognuno poi pensa, invece, a se stesso. È un po’ il risultato anche della riforma elettorale, che non prevede più l’elezione diretta dei rappresentanti del Consiglio Provinciale, che oggi è diventato il consiglio degli egoismi. Questo perché non c’è più l’elezione diretta e l’elezione viene fatta dai sindaci e dai consiglieri comunali. E non è che un voto vale uno, ma vale di più, pesa di più il voto del comune che è più popolato. Ne consegue che il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Questo ha generato pruriti, egoismi e soprattutto ha dato voce ai nostalgici: “Aridatece le province”.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo a Belluno ed è domenica 16 febbraio, si vota per l’elezione del consiglio provinciale. A votare però sono solo 705 grandi elettori, tra sindaci e consiglieri comunali dei 61 comuni. Ma i voti non sono tutti uguali.

ROBERTO PADRIN – PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE Il problema è il valore del voto è più alto nel comune che ha il maggior numero di abitanti.

BERNARDO IOVENE Lei è consigliere?

ANDREA STELLA - CONSIGLIERE COMUNALE BELLUNO Sì, di Belluno.

BERNARDO IOVENE Quindi vale molto il suo voto?

ANDREA STELLA - CONSIGLIERE COMUNALE BELLUNO Diciamo di sì, è quello che vale di più.

BERNARDO IOVENE È quello che vale di più.

ANDREA DE BERNARDIN - SINDACO DI ROCCA PIETORE (BL) Un consigliere di Rocca Pietore - come è il mio comune - vale 56 voti. Un consigliere di Belluno vale 560 voti.

BERNARDO IOVENE Cioè un consigliere vale 10 volte tutto il suo consiglio?

ANDREA DE BERNARDIN - SINDACO DI ROCCA PIETORE (BL) Esatto, tutto il mio consiglio comunale vale come un consigliere di Belluno.

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Perarolo di Cadore.

BERNARDO IOVENE Quanti abitanti ha?

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Arriviamo a circa 400.

BERNARDO IOVENE In che fascia?

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Quella più bassa naturalmente.

BERNARDO IOVENE Che ne pensa di questa...

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) È una grandissima schifezza questa legge, cioè una cosa demenziale, soltanto menti perverse potevano arrivare…

BERNARDO IOVENE Ah sì?

PIERLUIGI SVALUTO FERRO - SINDACO DI PERAROLO DI CADORE (BL) Anche perché territori più piccoli, i comuni più piccoli praticamente non vengono rappresentati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I voti vengono canalizzati in cinque fasce, ognuna con un punteggio che dipende dal numero di abitanti del comune di appartenenza. Comunque oggi i consiglieri e i sindaci eleggono solo il consiglio provinciale che scade ogni due anni, mentre il presidente resta in carica quattro anni.

BERNARDO IOVENE Lei è stato eletto quando lei?

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE Il 10 settembre 2017.

BERNARDO IOVENE E perché c’è questa cosa…

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE La legge Delrio dice che il presidente resta in carica quattro anni, mentre il consiglio provinciale viene rinnovato ogni due anni.

BERNARDO IOVENE Quindi sono passati due anni e si rielegge il consiglio?

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE Esatto.

BERNARDO IOVENE Quindi lei potrebbe avere una maggioranza diversa…

ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO E SINDACO DI LONGARONE anche, certo.

BERNARDO IOVENE Che pensa di questo sistema elettorale?

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) È pessimo.

BERNARDO IOVENE È pessimo?

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) Bisogna ritornare al sistema elettorale che c’era prima…

DANIELA LARESE FILON - CONSIGLIERE COMUNALE AURONZO DI CADORE (BL) Ridateci la provincia. La vera provincia che avevamo un tempo.

IVAN MINELLA - SINDACO DI SANTA GIUSTINA (BL) Andare a caricare i sindaci di un secondo dovere gratuitamente è stato un problema. La provincia deve essere un lavoro a tempo pieno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra consiglieri e sindaci il coro è unanime: una legge elettorale pessima e la richiesta del ritorno al passato, ma se scendiamo tra i cittadini la musica cambia.

VOX 1 Penso sia un costo inutile.

VOX 2 Io abolirei le province.

VOX 3 Dovrebbe essere stata tagliata da mo’. VOX 4 Io taglierei le province e darei al Comune tutte le funzioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La provincia dei sindaci è quello che aveva previsto la legge Delrio. Ma non sta funzionando: i sindaci vogliono rappresentare solo il comune dove sono stati votati.

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) È giusto che sia la gente del territorio a scegliere i loro rappresentanti.

BERNARDO IOVENE E lei non rappresenta un territorio?

MORENO DE VAL - SINDACO DI SAN TOMASO AGORDINO (BL) Io rappresento il mio Comune, non tutta la provincia.

LUCA DE CARLO – SINDACO DI CALALZO DI CADORE (BL) Lo sguardo del Sindaco sarà sempre nel tutelare gli interessi di chi l’ha votato, e cioè di quella porzione del territorio.

BERNARDO IOVENE Non dei cittadini.

LUCA DE CARLO – SINDACO DI CALALZO DI CADORE (BL) Non di tutta la provincia, ovviamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se lasci una riforma zoppa il risultato è dar voce ai nostalgici: ridateci le vecchie province. Dovevano essere abolite con il referendum del 2016, che avrebbe contemplato la riforma del titolo V della Costituzione, era stato promosso da Renzi, ma è fallito. Dunque le province son rimaste lì. Ma depotenziate. Perché nel 2014 Delrio aveva limitato le loro funzioni, aveva spostato anche gran parte del personale: dei sedicimila dipendenti, 2.564 sono stati mandati in prepensionamento, e gran parte degli altri sono stati collocati presso regioni, Ministeri, tribunali. Solo una piccola parte è rimasta nelle attuali province. Poi non sappiamo se l’intenzione dell’elefante era quella di partorire il topolino, sta di fatto che, conti alla mano, sono stati risparmiati circa 52 milioni di euro dalle mancate elezioni dirette del consiglio provinciale, ma dalla ricollocazione del personale in nuovi posti è stata aumentata la spesa di 36 milioni di euro. Ben altra cosa invece sono le sforbiciate alle casse delle vecchie Province. Quelle sì che sono pesanti. Ha cominciato nel 2010 il governo Berlusconi, che ha fatto tagli per 350 milioni poi saliti a 550 milioni di euro l’anno. Poi è arrivato Monti, che ha aumentato il cosiddetto, che ha fatto prelievi per un miliardo e 700 milioni di euro ogni anno. Poi, infine, Renzi ha aumentato il cosiddetto prelievo forzoso di altri 3 miliardi di euro l’anno. I tagli poi, alla fine, sono arrivati a 5.3 miliardi di euro ogni anno. Ma cos’è il prelievo forzoso? Lo Stato a un certo punto, ha dato mandato all’Agenzia delle Entrate di prelevare da uno dei pochi gettiti rimasti alle province, quello derivante dalle imposte dell’RC Auto. Il risultato qual è stato? Che questo lo hanno applicato anche alle Regioni con lo Statuto speciale, è stato un vero e proprio disastro. Nel 2013 Crocetta, l’ex governatore, annuncia a sorpresa in una trasmissione televisiva, di abolire le province. L’ha fatto. Le ha trasformate in consorzi. Ma possiamo dire che il suo delitto non è proprio un delitto perfetto. Perché a distanza di sette anni sono state commissariate. E hanno in pancia i dipendenti. Sono rimasti lì, con poche funzioni, perché dovrebbero occuparsi di strade, di scuole ma, grazie al prelievo forzoso, sono rimasti senza stipendi e sono stati costretti a impegnare i gioielli di famiglia. E poi sono rimaste senza testa, perché le elezioni per rinnovare i consigli provinciali non sono state mai fatte in questi sette anni, perché c’è ancora un braccio di ferro in atto con chi vorrebbe la vecchia elezione, quella diretta. Forse sono i fantasmi delle vecchie province senza pace che si aggirano tra le stanze di chi ha tentato di abolirle. I fantasmi di casa Crocetta. Il nostro ghostbuster, Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE Qui c’era la giunta?

UOMO Sì, si teneva la giunta della ex provincia.

BERNARDO IOVENE Qua si teneva il consiglio provinciale?

UOMO Perfetto, sì.

BERNARDO IOVENE Un po’ di nostalgia c’è? Le manca la provincia?

UOMO Sì, certo che mi manca.

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA La prima riforma delle province – ne sono state fatte cinque sotto Crocetta – la prima riforma è del 2013, quando da un programma televisivo nazionale Crocetta annuncia: “Abolirò le province”.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Lui da Giletti ha fatto la riforma, lui andò da Giletti e annunciò all’insaputa di tutti: “Io elimino le provincie”.

BERNARDO IOVENE Ah, nessuno sapeva niente, lui dice che erano mesi che si stava lavorando.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO No!

CROCETTA DA GILETTI (video) Allora rispetto alle province, le assicuro che domani la mia giunta delibererà una proposta di legge che - prima Regione in Italia e prima delle vostre chiacchiere - le abolisce per fare i Liberi Consorzi dei Comuni, così come prevede lo statuto della Regione siciliana. E mentre voi fate gli annunci da tre anni sulle province da abolire, noi domani le aboliremo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il giorno dopo, siamo nel 2013, il presidente Crocetta con una legge abolisce le province e i consigli provinciali, istituisce i Liberi Consorzi Comunali, tra cui tre città metropolitane: Palermo, Messina e Catania. In Sicilia è passata ormai come Riforma Giletti.

BERNARDO IOVENE Lei va da Giletti e il giorno dopo abolisce le province.

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ma sì, ma perché avevo un disegno di legge che preparavamo…

BERNARDO IOVENE Ce l’aveva già?

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ma sì. Preparavamo da mesi. La provincia non serviva a niente, salvo a fare qualche manutenzione delle strade provinciali e a dare contributi ai piccoli comuni per le fiere paesane e le sagre, questo era la provincia. Ma la manutenzione delle strade non la possono fare i geni civili, oppure l’Anas attraverso accordi specifici? La gestione delle scuole: non è più giusta passarla a comuni?

BERNARDO IOVENE Per i dipendenti cosa aveva previsto lei?

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Chi prendeva le funzioni prendeva anche i dipendenti

BERNARDO IOVENE E poi manda un commissario dalla regione che li commissaria?

ROSARIO CROCETTA - PRESIDENTE DELLE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Il commissario lo mandai per governare la transizione, ma c’erano tempi molto stretti per eleggere gli organi dei consorzi, che erano organi di autogoverno. Giuseppe, non ci lasciare Giuseppe!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A tutt’oggi dopo sette anni in tutte le ex province ci sono ancora i commissari. Le elezioni indette più volte sono state sempre rinviate, nelle province tutto è rimasto com’era, dipendenti e funzioni, è cambiato solo il nome e le casse vuote. Dallo stato non arrivano più risorse, e a Siracusa ad esempio i dipendenti per mesi sono rimasti senza stipendio.

ROSSELLA CAIA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Noi siamo proprio lo scarto dei dipendenti pubblici. Stipendio di gennaio, niente. Febbraio: soldi nelle casse non ce ne sono.

MARIA SEBASTIANA CANIGLIA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Il problema nostro c’è da sette anni ed è visibile sotto gli occhi di tutti, ma a quanto pare per molte persone siamo invisibili.

ROSANNA LAFERLA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Chi dice: “dove lavori?”. “Alla provincia”, si fanno tutti una risata. Fanno così.

CARMELO INCATASCIATO – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Non è vero che la provincia non esiste, la provincia esiste. Perché molti di questi servizi, le somme urgenze per le scuole… vengono prese da quei pochi soldi che potrebbero servire per i nostri stipendi. Perché il fondo è lo stesso.

GIOVANNI RIZZOTTO – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Questa politica ci ha lasciato le funzioni, ci ha lasciato le competenze, e ci ha detto: “Ammazzatevi fra di voi poveri”.

ANGELO RAGUSA – DIPENDENTE LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Ci siamo dovuti vendere tutto quello che c’era da vendere: dai bracciali d’oro, alle collane. Case pignorate, sfratti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Siracusa fino ad oggi si sono alternati nove commissari. Il penultimo nel 2018 ha dichiarato il dissesto finanziario dell’ex provincia.

BERNARDO IOVENE Senta è lei che decide di non pagare i dipendenti?

ANTONIO CAPPUCCIO - DIRIGENTE SERVIZI FINANZIARI LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Sì, il cattivo sono io, ma mio malgrado. La provincia di Siracusa – come le altre province siciliane – non ha più trasferimenti attivi dallo stato alle province. Ora se io le entrate proprio dell’ente - Rc Auto e Ipt - sono sottratte alla fonte dallo Stato, che tipo di bilancio posso fare? L’ente non è più in grado di garantire la manutenzione ordinaria delle strade e delle scuole.

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Scusate ragazzi… vede lì. Il lastrone è caduto su quel banco dove sono quei ragazzi…

BERNARDO IOVENE Poteva essere molto pericoloso.

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Sì, poteva essere molto pericoloso, perché era spessa così la lastra di intonaco

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo al liceo Quintiliano: improvvisamente si è staccato un lastrone di intonaco e ha sfiorato due studentesse, colpendole fortunatamente soltanto di striscio. Un evento straordinario, ma la scuola ha tutti i solai da rifare, bagni e aule chiuse perché inagibili, i pavimenti che si alzano e ormai tenuti con nastro adesivo, e la manutenzione ordinaria assente.

BERNARDO IOVENE Voi in provincia avete un interlocutore?

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Sì, abbiamo gli interlocutori… li abbiamo e sono molto pronti a rispondere e partecipare. Il problema è che quando si tratta di pagare mi scrivono che non possono pagare.

BERNARDO IOVENE “Questo settore non appena avrà la disponibilità economica …”

GIUSEPPE MAMMANO - DIRIGENTE SCOLASTICO LICEO QUINTILIANO SIRACUSA Sì, ma non è mai successo

TERESELLA CELESTI - DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO JUVARA SIRACUSA Dal secondo semestre del 2013 le scuole superiori non ricevono alcuna provvidenza da parte dell’ente locale ex provincia…

BERNARDO IOVENE Voi dal 2013 non ricevete nulla?

TERESELLA CELESTI - DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO JUVARA SIRACUSA Nulla.

BERNANDO IOVENE FUORI CAMPO Stessa situazione negli altri istituti. Qui siamo all’Istituto tecnico Juvara, intonaci e impianti da rifare, pavimenti e colonne che cadono a pezzi. Per sopravvivere gli istituti devono attingere dai fondi destinati alla formazione, non potrebbero prenderli, ma sperano che la ex provincia prima o poi li restituisca. Il Libero consorzio ha debiti con tutte le ventitré scuole superiori della provincia.

TERESELLA CELESTI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITO JUVARA SIRACUSA Soltanto nei confronti delle 23 scuole sono poco più di quattro milioni di euro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Altri debiti la ex provincia li ha accumulati con le cooperative che, nonostante non hanno preso soldi per anni, hanno continuato il servizio ai disabili

ANTONINO DI PRISCO – PRESIDENTE COOP ESPERIA 2000 Noi dobbiamo ricevere 150 mila euro. Abbiamo proceduto con un decreto ingiuntivo.

BERNARDO IOVENE Avete accumulato dei crediti?

IVANA SEVERINO - COOPERATIVA SAN MARTINO circa 80mila euro.

BERNARDO IOVENE Ci sono cooperative che hanno chiuso?

IVANA SEVERINO - COOPERATIVA SAN MARTINO Ci sono cooperative che hanno chiuso BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Complessivamente le cooperative di Siracusa hanno crediti per 1 milione e seicentomila euro con la ex provincia.

BERNARDO IOVENE Parliamo di cooperative sociali?

ANTONIO CAPPUCCIO - DIRIGENTE SERVIZI FINANZIARI LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Parliamo di cooperative sociali, ma anche di Enel, Telecom, tutte le società che forniscono i servizi primari. E quindi nel maggio del 2018 è stato dichiarato il dissesto finanziario dell’ente con il risultato pratico che i fornitori non pagati stanno aggredendo l’ente e si arriverà di nuovo a un decreto ingiuntivo, commissariamenti ad acta e così via. BERNARDO IOVENE Un disastro.

ANTONIO CAPPUCCIO - DIRIGENTE SERVIZI FINANZIARI LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Un disastro totale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E un disastro sono le condizioni delle strade. L’ingegner Grimaldi fa quello che può.

BERNARDO IOVENE Qua sotto è vuoto?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Sì, Sì. Qua sotto è vuoto.

BERNARDO IOVENE Qui passano anche i mezzi pesanti.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA C’è il limite di 3,5 tonnellate.

BERNARDO IOVENE Non ci potrebbero passare.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Non ci potrebbero passare, ma qua ognuno fa quello che vuole.

 BERNARDO IOVENE Da quanto tempo?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Da fine ottobre, non siamo riusciti purtroppo a intervenire per mancanza di risorse.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui invece avevano chiuso la strada ma gli automobilisti hanno dissaldato il guardrail per passare.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Intanto la richiudiamo, ora io ti mando le foto e facciamo la denuncia che l’hanno aperta. Per sistemare questo pezzo di strada ci vorranno 100-150mila euro.

BERNARDO IOVENE E non ci sono?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Non ci stanno in questo momento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche questo cavalcavia è stato chiuso, si è scollata la banchina ed è pericoloso, ma gli automobilisti nonostante il divieto passano.

BERNARDO IOVENE Questi non potrebbero passare?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA No, assolutamente. La strada è chiusa.

BERNARDO IOVENE La strada è chiusa e passano. Questo ora mi butta sotto. Non ha visto che la strada è interrotta? CAMIONISTA L’ho visto, però ci passano tutti.

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Purtroppo questa è la situazione.

BERNARDO IOVENE Da quanto tempo è chiusa qua?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Un anno e mezzo circa.

BERNARDO IOVENE Un anno e mezzo?

GIOVANNI GRIMALDI - DIRIGENTE VIABILITA’ LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI SIRACUSA Sì, da un anno e mezzo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La situazione peggiora nei territori interni di montagna. A Buscemi si riuniscono i sindaci dei sette comuni montani che hanno dato vita all’Unione Valle degli Iblei.

VINCENZO PARLATO - SINDACO DI SORTINO (SR) Tutte le strade provinciali e tutte le scuole di fatto versano in uno stato di grave situazione, tant’è vero per gli istituti scolastici siamo noi ad anticipare le spese per il gasolio per esempio e per il riscaldamento.

BERNARDO IOVENE Oggi qua siete sette sindaci?

SALVATORE GALLO - SINDACO DI PALAZZOLO ACREIDE (SR) Oggi siamo sette sindaci.

BERNARDO IOVENE Quando sono state abolite, voi eravate d’accordo?

SALVATORE GALLO - SINDACO DI PALAZZOLO ACREIDE (SR) Ma nella maniera più assoluta. La gestione è stata: abroghiamo e risolviamo il problema.

ROSSELLA LA PIRA - SINDACO DI BUSCEMI (SR) La nostra condizione è quella di rischiare l’isolamento in caso di nubifragio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Scavalcando la valle si arriva nella provincia di Enna, con l’assessore del comune di Troina facciamo un giro per le strade di competenza provinciale.

BERNARDO IOVENE Fermiamoci qua.

ALFIO GIACHINO - VICESINDACO E ASSESSORE LAVORI PUBBLICI DI TROINA (EN) Io suggerirei di fermarci.

UOMO 1 Lei deve pensare che noi abbiamo l’agriturismo qua, se deve arrivare un autobus è impercorribile questa strada.

BERNARDO IOVENE Riesce a passare?

UOMO 2 Come? Con due ruote!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Su due ruote è costretto a passare chi purtroppo non ha alternative. Questo ponte invece potrebbe facilitare il collegamento dei paesi della provincia di Enna con l’autostrada, ma i lavori sono fermi da anni!

ALFIO GIACHINO - VICESINDACO E ASSESSORE LAVORI PUBBLICI DI TROINA (EN) Abolite le province e tagliati i trasferimenti. Ma le competenze su strade provinciali, su scuole provinciali, sono rimaste.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le province siciliane hanno partecipato ai tagli versando come quelle di altre regioni, i loro tributi allo stato, la corte dei conti però ha stabilito che hanno pagato 100 milioni di euro in più.

ALESSIO MATTIA VILLAROSA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE Noi, legge di bilancio di quest’anno, abbiamo destinato alle province per la prima volta – gli altri non l’avevano mai fatto – 80 milioni di euro l’anno.

BERNARDO IOVENE Quindi lei sottosegretario 5 Stelle si è ritrovato a finanziare le province che volevate sempre abolire, no?

ALESSIO MATTIA VILLAROSA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE In poche parole sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 80 milioni però sono briciole visto che ad esempio solo Siracusa ha un’esposizione debitoria di circa 170 milioni di euro. Ma le province siciliane sono bloccate perché rinviano sempre le elezioni. C’è ormai un fronte unico tra destra e sinistra che vuole tornare al vecchio modello. BERNARDO IOVENE Lei è centrodestra o centrosinistra?

ANTONIO LICCIARDO - SINDACO DI ASSORO (EN) Centrosinistra. Speriamo che si ritorni a votare con l’elezione diretta.

FABIO VENEZIA - SINDACO DI TROINA (EN) Io sono per tornare al vecchio modello delle province, con i consiglieri provinciali e assessori. È stato un errore.

FRANCESCO ITALIA - SINDACO DI SIRACUSA Non puoi abolire un vertice politico, cambiare nome e pensare che sia cambiato tutto per soddisfare una sorta di populismo che in quel momento vede nella politica il peggiore dei mali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questi anni è successo che membri della maggioranza che sostenevano il presidente Crocetta durante i suoi governi hanno votato insieme al centro destra, con voto segreto, leggi che prevedevano l’elezione diretta, ma la Corte Costituzionale le ha sempre bocciate, perché anche in Sicilia si applica la legge Delrio che stabilisce quelle di secondo grado.

BERNARDO IOVENE Cioè la corte costituzionale diceva che non si poteva e l’Ars, il parlamento siciliano, continuava a votare l’elezione diretta?

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Certo. Ma se te lo dicono che non è cosa… Si sono fissati che debbono fare le elezioni di primo grado che non si possono fare. Adesso gli risulta difficile ritornare indietro rispetto a queste cose, perché dovrebbero ammettere che io avevo ragione e loro avevano torto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La nuova giunta Musumeci è stata costretta quindi a indire le elezioni di secondo grado, la data viene fissata per il 19 aprile.

BERNARDO IOVENE Ha vinto Crocetta alla fine?

NELLO MUSUMECI PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Ha vinto l’irrazionalità, ha vinto la peggiore politica. È stata una finta riforma, un giacobinismo da sanculotti non credibili.

BERNARDO IOVENE Però dico le elezioni dirette… ci puntate ancora?

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA L’elezione diretta è la democrazia.

BERNARDO IOVENE Però la legge Delrio prevede ormai che ci siano ormai elezioni di secondo grado. NELLO MUSUMECI –

PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Certo.

BERNARDO IOVENE I sindaci comunque sono eletti.

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Le leggi vanno rispettate. Ma vanno anche modificate, e vanno contestate quando non si condividono.

BERNARDO IOVENE Possiamo dire che il 19 aprile si faranno le elezioni?

NELLO MUSUMECI - PRESIDENTE REGIONE SICILIANA No, perché ancora la legge non c’è. E io per rispetto dei confronti suoi e di chi ci sta seguendo dico che non so come voterà il parlamento siciliano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passa qualche giorno siamo al 19 febbraio e il parlamento vota l’ennesimo rinvio.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Le elezioni sono state indette dalla regione 5 volte, 5 volte rinviate. È una commissione che io – come Anci questa volta – abbiamo denunciato uno stato di calamità istituzionale.

BERNARDO IOVENE Oggi si rinviano a ottobre se ho capito bene, con la scusa che ci sono le amministrative.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Guardi, quando lei capisce quello che sta accadendo, la prego, me lo fa sapere?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto l’ex presidente Rosario Crocetta vive defilato dalla politica, diviso tra un paesino in provincia di Messina sul mare e la Tunisia.

BERNARDO IOVENE Che bel posto. Si esilia anche lei ad Hammamet.

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 No, non sono ad Hammamet. L’affitto mi costa 130 euro al mese.

BERNARDO IOVENE Con tutti i soldi che prende di pensione.

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ah ah ah la pensione. Mi arrivavano dalla regione siciliana circa 500 euro al mese. Meno male che ho lavorato in vita mia, altrimenti farei la fame.

BERNARDO IOVENE Cos’è…

ROSARIO CROCETTA – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA 2012-2017 Ho buttato tutto, vabbè…

BERNARDO IOVENE Si vedono le Eolie da qua!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quadri che cascano, porte che sbattono: chissà per quanto tempo i fantasmi delle province continueranno ad aggirarsi in casa Crocetta. Ma non potranno però continuare per lungo tempo, perché tu da una parte hai dei dipendenti che sono senza stipendio e che dovranno pur adeguarsi a fare quelle, ad attuare quelle disposizioni, quelle funzioni, seppur limitate, che hai lasciato. E poi, dall’altra parte, hai anche dipendenti che sono senza una testa che decide. Come fai a fare il bene di un pezzo di territorio se non hai chi decide, chi prende le decisioni? In mezzo ci sono le strade interrotte, i soffitti delle scuole che cadono in testa agli studenti. Sembra una questione meridionale, non lo è, perché anche chi le ha abolite del tutto ha a che fare con le scorie delle province. Parliamo di una regione del nord, il Friuli-Venezia Giulia. Debora Serracchiani, il governatore dell’epoca, nel 2016, ha addirittura, abolendo le province, spostato dipendenti, le funzioni in regione, ha fatto fare anche 4 passaggi parlamentari per eliminare dallo statuto la parola “provincia”. Ha riunito i 215 comuni della regione nelle Unioni Territoriali, con l’obbligo di riunirsi, e i sindaci avrebbero dovuto fare loro delle proposte per quelle che riguardavano le aree in comune, le cosiddette “aree vaste”. Questo per ottimizzare i costi e per ottenere degli incentivi ai progetti. E invece hanno prevalso gli egoismi e la logica dell’orticello di partito. E questo ha generato un conflitto istituzionale che non ha precedenti. Tutti contro tutti: Regioni, ex province e comuni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo nella regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia. Le province sono state abolite e la legge prevede che i gonfaloni delle ex province siano custoditi nei comuni dei vecchi capoluoghi.

PIETRO FONTANINI - SINDACO DI UDINE E quindi noi li abbiamo qua, li conserviamo con grande nostalgia, e soprattutto con grande orgoglio.

BERNARDO IOVENE Hanno dato un bello schiaffo abolendolo?

PIETRO FONTANINI - SINDACO DI UDINE Hanno fatto una cosa molto grave, sono andati contro la volontà dei cittadini che poi li hanno puniti alle elezioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’attuale sindaco di Udine è stato anche l’ultimo presidente della provincia. Ci accompagna verso il suo vecchio palazzo, che con le funzioni in pancia è traslocato alla regione autonoma.

FABRIZIO PITTON - SINDACO DI TALMASSONS - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI UDINE Questa è la sala del consiglio provinciale, ci sono gli affreschi di Giulio Quaglio che ci facevano compagnia durante le sedute del consiglio. Chi ci ha chiuso le province per paradosso Debora Serracchiani è chi ha fatto il consigliere provinciale qua in provincia di Udine.

BERNARDO IOVENE Lei ha fatto il consigliere provinciale qua?

FABRIZIO PITTON - SINDACO DI TALMASSONS - EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI UDINE Certo, nasce come consigliere provinciale di Udine.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Non voglio però prendermi tutti i meriti. Perché in realtà…

BERNARDO IOVENE Non sappiamo se sono meriti.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Io li considero meriti. Questo processo di eliminare le province è nato con la precedente giunta di centrodestra con l’allora presidente Lorenzo Tondo.

BERNARDO IOVENE Quindi non è tutta opera sua.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 No no. Io l’ho completata.

BERNARDO IOVENE Ecco qual era la necessità e l’urgenza di togliere le province?

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Ma allora puramente amministrativa. Quell’ente intermedio non solo non serviva, ma probabilmente in quel momento creava soltanto delle criticità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insieme alla Serrachiani l’avvocato Spitaleri già capogruppo PD alla provincia di Udine ha guidato la riforma e ci spiega che per abolire la parola provincia dallo statuto autonomo della Regione ci sono voluti quattro passaggi parlamentari: due alla Camera e due al Senato.

SALVATORE SPITALERI – COMPONENTE COMMISSIONE PARITETICA STATO REGIONE FVG In regione era stato approvato all’unanimità, salvo l’astensione della Lega. Il parlamento nelle quattro letture che si fanno per le modifiche delle leggi costituzionali, l’ha approvato sempre a stragrande maggioranza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi la giunta del Friuli Venezia Giulia presieduta da Debora Serracchiani nel 2016 e prima del referendum nazionale abolisce le province di Trieste, Gorizia, Udine e Pordenone. Contemporaneamente suddivide i 215 comuni della regione in 18 UTI: Unioni Territoriali Intercomunali, delimitando i confini, ognuna con un nome: UTI della Carnia, del Gemonese, del Torre, del Friuli Centrale, dell’Agro aquileiese e così via…

FABRIZIO PITTON – SINDACO DI TALMASSONS – EX PRESIDENTE CONS. PROVINCIALE UDIINE Le unioni territoriali sono una forma obbligatoria. E quindi sono state imposte ai comuni.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 In realtà le unioni territoriali erano semplicemente dei luoghi nei quali si ritrovavano i sindaci per decidere materie che erano oggettivamente più ampie del confine del loro comune. Purtroppo questo è un paese in cui se tu hai dieci comuni tu fai dieci palestre, dieci piscine, dieci aree artigianali, dieci aree industriali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per incentivare le Unioni, che erano obbligatorie e avevano una personalità giuridica e un ufficio di presidenza con proprio personale, ognuna delle 18 UTI poteva accedere a finanziamenti.

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) Gestite insieme il personale, 12 comuni e io su questo vi do degli incentivi.

BERNARDO IOVENE Ad esempio? Alla vostra Uti quanto è stato dato?

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) Alla Uti venivano dati i soldi per la gestione corrente che in un anno giravano su 3-400 mila euro, poi ci sono le intese per lo sviluppo che erano finanziamenti che venivano dati per progetti comprensoriali. C’era l’obbligatorietà.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nei comuni guidati dal centro destra si sono rifiutati di entrare nelle Unioni Territotiali.

BERNARDO IOVENE Hanno disobbedito?

FABRIZIO PITTON - SINDACO DI TALMASSONS EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI UDINE Hanno disobbedito. Non è mai accaduto un conflitto istituzionale di questo livello tra regione, provincia, e comuni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I comuni ribelli erano 50 su 215 e tutti governati dal Centro destra. Ad esempio nella UTI dove c’è il comune di Palmanova - la Agro Aquileise - su 17 comuni 5 sono rimasti fuori, nella UTi del Noncello, che comprende anche la città di Pordenone, 2 comuni San Quirino e Cordenons non hanno aderito.

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Questa riforma prevedeva fondamentalmente un’assemblea di sindaci che in queste unioni avrebbero portato avanti le tematiche dei propri comuni, svilendo di fatto il valore del consigliere comunale, il valore dell’assessore comunale che di per sé sono il primo contatto con il territorio.

BERNARDO IOVENE Quindi la regione vi dice: Voi fate parte di questa Uti, unione territoriale intercomunale... voi dite no?

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Noi no, abbiamo detto no. Tutto questo ha portato a delle tensioni perché i finanziamenti nei comuni non facenti parte dell’Uti non arrivavano.

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) Quando si dice che la Lega i soldi si davano… è chiaro che tendeva a finanziare quei progetti di area vasta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Erano piani e patti territoriali, ad esempio piste ciclabili, messa in sicurezza del territorio, progetti culturali e ambientali. Ma chi ha contrastato le Uti non crede che il coordinamento di soli sindaci possa fare gli interessi di un’area vasta.

ALESSANDRO CIRIANI - SINDACO DI PORDENONE Vi diamo tre milioni: fate un elenco delle opere che voi ritenete più importanti nel territorio, possibilmente di valenza intercomunale. Può bene immaginare che in realtà diventava una camera di compensazione dell’egoismo dei sindaci, ciascuno cercava di portare a casa il più possibile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La battaglia è arrivata alla resa dei conti con le elezioni del 2018 la Lega e il centro destra vincono le elezioni, e parte la controriforma della giunta Fedriga, la delega va all’assessore Roberti.

BERNARDO IOVENE Ritorniamo alle vecchie province?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA L’intenzione che ha l’amministrazione regionale è quella di ritornare alle vecchie province. Nel nostro disegno l’amministrazione regionale fa programmazione di ampio respiro e legifera, non va ad amministrare gli autobus, non va ad amministrare le strade, non va a sfalciare l’erba sul bordo strada. Per questo serve qualcos’altro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra i primi atti però della nuova giunta è stato la redistribuzione delle risorse ai comuni ribelli fuori dalle Uti, tutti amministrati dal centrodestra.

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Con la nuova giunta regionale si è venuti incontro alle esigenze dei comuni che erano stati penalizzati (tra virgolette), e il comune di Cordenons ha avuto finanziamenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio per questa scuola comunale servivano 4 milioni e mezzo per ristrutturala e metterla in sicurezza. La vecchia giunta aveva sborsato solo - si fa per dire - 1 milione mezzo di euro.

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Ecco la nuova giunta regionale abbiamo portato a termine i lavori. C’è stato un cambio di rotta incredibile.

BERNARDO IOVENE E come se lo spiega lei? Perché c’è la Lega…prima siete stati puniti?

ANDREA DELLE VEDOVE - SINDACO DI CORDENONS (PN) Prima siamo stati puniti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oggi invece succede il contrario. Ad esempio la Uti dell’Agro aquileiese è composta da 18 comuni 11 avevano aderito e 7 no.

FRANCESCO MARTINES - SINDACO DI PALMANOVA (UD) L’ultima trattativa che abbiamo fatto in 11 comuni abbiamo preso 1 milione e mezzo per progetti di comprensorio. I 7 comuni che sono rimasti fuori hanno preso 1 milione e 8… e quindi li diventa una trattativa con il comune amico, è questo il rischio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’altro atto immediato della nuova giunta è stata la soppressione delle UTI. Le funzioni dal 1 luglio del 2020 torneranno alla regione, e intanto sono state commissariate.

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Qui semplicemente hanno cancellato con un colpo di spugna le Unioni territoriali senza più le risorse che erano state fissate in bilancio per gli anni a venire, proprio per farli lavorare, e quindi sono morte per asfissia… ma in assenza di una riforma vera… perché uno può dire: “Questo non mi piace, cosa propongo? Torniamo alle province.”

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si torna alle province ma lo statuto ormai non le prevede. Bisognerebbe ripassare dal parlamento per una nuova modifica, quindi la Giunta Fedriga ha pensato di chiamarle non province ma EDR: Enti di decentramento Regionale, specificando che si tratta di una fase transitoria.

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA E da qui cominceremo a lavorare per trasformarli e saranno passaggi successivi che dovranno riguardare anche il governo.

BERNARDO IOVENE Quindi ci saranno di nuovo elezioni di primo grado?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA L’obiettivo è quello di arrivare alle elezioni di primo grado.

BERNARDO IOVENE Presidente della provincia, assessori e consiglieri.

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Assolutamente sì.

BERNARDO IOVENE Di nuovo?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIELOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Sì. BERNARDO IOVENE Però sarete l’unica regione in Italia ad avere organi elettivi provinciali. Neanche la Sicilia adesso le farà di secondo grado…

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA In questo momento siamo l’unica regione in Italia a non avere le province.

BERNARDO IOVENE Appunto. PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Vogliamo essere speciali. Siamo speciali e continuiamo ad essere speciali. BERNARDO IOVENE Per fare quello che vuole fare l’attuale giunta c’è bisogno di un passaggio parlamentare. Secondo lei ci riusciranno?

DEBORA SERRACCHIANI - DEPUTATA ED EX PRESIDENTE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA 2013 - 2018 Bah, ripeto: sa che io ancora oggi non ho capito cosa vogliono fare.

BERNARDO IOVENE Noi che viviamo nelle regioni ordinarie già vi vediamo un po’…

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA con sospetto.

BERNARDO IOVENE Le province vengono abolite e adesso vengono ripristinate. Poi dopo che fa? Vince il centrosinistra di nuovo e le abolisce di nuovo? Perché non vi mettete d’accordo per dare un assetto istituzionale a questa regione?

PIERPAOLO ROBERTI - ASSESSORE ALLE AUTONOMIE LOCALI REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Noi abbiamo detto chiaramente quello che volevamo fare agli elettori e abbiamo avuto un mandato elettorale per questo. E quindi ci aspettiamo che dall’altra parte, dal parlamento ci sia analogo recepimento di quella che è la volontà del consiglio regionale, e quindi dei cittadini del Friuli Venezia Giulia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Facciamo un passo avanti, facciamo un passo indietro. Dipende da chi vince. In realtà, indipendentemente da chi vince, bisognerebbe puntare al bene comune. Nel 2018 il leghista Fedriga, ha abolito le Unioni, volute dalla Serracchiani, e ha trasformato le quattro aree delle ex province in EDR, cioè in Enti Decentrati Regionali. Solo che, mentre pe le Unioni Territoriali era obbligatorio unirsi, qui è volontario. Quello che colpisce è che l’unica regione che aveva in qualche modo abolito, si era liberata completamente delle province, adesso le rivuole. Ma devi cambiare lo statuto, reinserire la parolina, rifare passaggi parlamentari. Forse bisognerà aspettare per avere la maggioranza che cambi quella che c’è in questo momento in Parlamento. Quello che è chiaro però è che regna la confusione. A proposito di confusione, andiamo in quella regione che forse ha fatto il più grande pasticcio di tutti: la Sardegna. Nel 2012 aveva otto province. Il Partito Riformatore di Mario Segni indice un referendum e vengono abolite quattro province. Da allora è partito un riordino degli enti locali. Ma dopo otto anni si può dire che anche qui regna il disordine, perché nel 2016 la Sardegna decide di omologarsi alla legge Delrio, ma non attua, non mette in moto, poi, quel processo di elezioni per i nuovi consigli provinciali. E dunque sono stati commissariati. In tutto questo caos si preparano a fare la legge sul riordino degli enti locali, e ora c’è Olbia che rivuole la provincia, Iglesias pure, Carbonia anche, e l’Ogliastra pure. E poi ci sono i sindaci che si tirano i capelli, litigano per avere il capoluogo di provincia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La provincia di Sassari dopo il referendum del 2012 che ha abolito la provincia di Olbia-Tempio è diventata la provincia più grande d’Italia. In attesa delle elezioni di secondo grado mai effettuate, e continuamente rinviate, è commissariata.

BERNARDO IOVENE Senta lei prima cosa faceva? Prima di fare il commissario.

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Io ero segretario del mio partito.

BERNARDO IOVENE Che è?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Del Riformatore, son quelli che hanno promosso il referendum per l’abolizione delle…

BERNARDO IOVENE Province. PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Sì.

BERNARDO IOVENE E adesso è a capo di tutta la provincia. È un paradosso, era un promotore e adesso…

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI No, siamo orgogliosi di averlo fatto.

BERNARDO IOVENE Cioè dico siete rimasti gli unici contro la provincia?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI In questa fase siamo gli unici.

BERNARDO IOVENE Adesso è capo della provincia più grande d’Italia?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Sì. BERNARDO IOVENE Quindi se la suona e se la canta da solo.

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Io me la canto da solo. Faccio tutto da solo… però da solo faccio quello che prima facevano 32 consiglieri, 11 assessori, il presidente di giunta…

BERNARDO IOVENE È un dittatore diciamo?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI No, per carità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad ogni modo il commissario deve far fronte a 63 plessi scolastici, 2.600 km di strade, problemi ambientali infiniti, senza risorse perché anche in Sardegna lo stato ha applicato il prelievo forzoso, che è maggiore delle entrate.

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI Cioè non solo non ce ne danno, ma ce ne tolgono alla fonte, e in 4 anno lo stato ha preso 100 milioni di euro.

BERNARDO IOVENE Non è che le hanno fatto una trappola mettendola qua?

PIETRO FOIS - AMMINISTRATORE STRAORDINARIO PROVINCIA DI SASSARI No, è un’esperienza bellissima.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi attualmente Olbia è provincia di Sassari, ma guai a ricordarlo al sindaco della città.

BERNARDO IOVENE Siete ritornati sotto la vecchia provincia di Sassari?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA No, non siamo mai ritornati.

BERNARDO IOVENE Come no?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA No, assolutamente. Abbiamo continuato a sentirci appartenenti ad Olbia Tempio.

BERNARDO IOVENE Dal punto di vista degli atti formali non esiste più?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Gli atti formali sì… ma noi… per noi conta poco.

BERNARDO IOVENE Come conta poco?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Conta poco perché abbiamo chiesto di mettere in piedi la nuova provincia, son state presentate le proposte di legge.

BERNARDO IOVENE Se la gente non le vuole quelle province?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Non è vero: quel referendum è stato falsato.

BERNARDO IOVENE Ci deve essere anche l’elezione diretta?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Assolutamente, elezione diretta. È una cazzata questa di mandare la gente soltanto perché quattro sindaci si mettono d’accordo e dicono si, che facciamo?

BERNARDO IOVENE I sindaci non rappresentano… non sono stati eletti?

SETTIMO NIZZI - SINDACO DI OLBIA Noi siamo stati eletti, ma non possiamo eleggere noi un presidente. La gente lo deve eleggere. Perché la provincia dà risposte non ai sindaci, la provincia dà risposte alla gente, al cittadino!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Negli edifici della vecchia provincia nulla è stato rimosso nemmeno le targhe. Le 56 persone che ci lavorano oggi sono dipendenti della provincia di Sassari.

DIPENDENTE PROVINCIA DI SASSARI Possiamo tornare indietro nel tempo così come quando era provincia di Olbia-Tempio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insieme a tutte le altre province soppresse dopo il referendum, Olbia tempio è stata definita area omogenea. Da febbraio è stato nominato come subcommissario l’ultimo presidente della ex provincia, un politico di Forza Italia.

BERNARDO IOVENE Lei è stato l’ultimo presidente di questa provincia che non c’è più?

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Che non c’è più formalmente. Che non c’è più formalmente, ma materialmente c’è.

BERNARDO IOVENE O c’è o non c’è. Qui c’è ancora la provincia? Gli uffici provinciali…

PIETRO CARZEDDA - SUB COMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Assolutamente. I dipendenti che lavorano e gestiscono il territorio.

BERNARDO IOVENE Però non si chiama provincia?

PIETRO CARZEDDA - SUB COMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Si chiama zona omogenea - io la chiamo provincia - di Olbia Tempio. A me questa zona omogenea non è che mi piace tanto, comunque.

BERNARDO IOVENE Quindi per far capire un po’ a chi ci ascolta… qui c’è una provincia che non c’è più e che probabilmente ci sarà. Perché lei che ruolo ha qua?

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Io ho un ruolo di gestione esecutivo nell’amministrazione di questo ente, che gestisca e che porti avanti l’ente fino all’elezione che avverrà tra pochi mesi.

BERNARDO IOVENE Qui siete provincia di Sassari.

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Sì. BERNARDO IOVENE Però voi lo rifiutate…

 PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Diciamo che lo rifiutiamo, noi galluresi rifiutiamo di essere amministrati da Sassari, sì. Diciamo così.

BERNARDO IOVENE Provincia abbattuta attraverso un referendum, viene ristabilita dai politici e non avete paura di andare contro la volontà popolare?

PIETRO CARZEDDA - SUBCOMMISSARIO PROVINCIA DI SASSARI Assolutamente no, assolutamente no. Questo referendum ha creato solo danni al territorio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Sardegna si sta avviando a un ribaltamento totale del referendum del 2012, che ha abolito le quattro province: Olbia Tempio, Ogliastra, Medio campidano e Carbonia Iglesias, sono i sindaci che chiedono due cose: il ripristino della loro provincia, e che ci siano elezioni dirette. Non si sottrae nemmeno il sindaco di Carbonia, che è del movimento 5 stelle e chiede il ripristino della provincia del Sulcis, Carbonia-Iglesias.

BERNARDO IOVENE Cosa state facendo? State trattando con la giunta regionale per riavere indietro…

PAOLA MASSIDDA SINDACO DI CARBONIA (SU) La nostra Provincia Carbonia- Iglesias.

BERNARDO IOVENE Ridateci la provincia?

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Ridateci la provincia.

BERNARDO IOVENE Ma quando sono state abolite voi che posizione avevate?

PAOLA MASSIDDA SINDACO DI CARBONIA (SU) Noi eravamo per l’abolizione.

BERNARDO IOVENE Adesso ha cambiato idea?

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Eh sì. Ci siamo resi conto… Noi eravamo contro la gestione delle province così come era portata avanti.

BERNARDO IOVENE Quindi voi chiedete che questa parte qua diventi…

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Sulcis- iglesiente.

BERNARDO IOVENE Provincia PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE Olbia chiede quella parte lì e diventa la sua. Il Medio campidano la sua. Insomma ritorniamo a questa struttura qua, di nuovo.

PAOLA MASSIDDA- SINDACO DI CARBONIA (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE Praticamente.

PAOLA MASSIDDA - SINDACO DI CARBONIA (SU) Eh sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Stessa struttura e con elezione diretta dei vecchi consigli provinciali. Su questa linea c’è unità d’intenti anche con il sindaco di Sant’Antioco che è di Fratelli d’Italia.

BERNARDO IOVENE Quindi lei era per l’abolizione delle province?

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Certamente. Ero addirittura consigliere provinciale…

BERNARDO IOVENE Ed era per l’abolizione?

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Beh, ricordo che la vivemmo come un passaggio…

BERNARDO IOVENE Era per l’abolizione o no?

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Sì, certamente.

BERNARDO IOVENE Quindi anche lei sta dicendo: “ridateci la provincia” …

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Ridateci la provincia.

BERNARDO IOVENE Quindi elezioni dirette.

IGNAZIO LOCCI - SINDACO DI SANT’ANTIOCO (SU) Eh mi pare chiaro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se a Carbonia Iglesias viene concessa la provincia, San Luri-sede della ex provincia di Medio Campidano, che aveva due capoluoghi Sanluri e Villacidro - si candida a capoluogo del Sud Sardegna.

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Secondo me la provincia ideale per quanto mi riguarda è il Sud Sardegna, non più quel cantuccio piccolino che si chiamava Medio Campidano.

BERNARDO IOVENE E il capoluogo?

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Il capoluogo… Sanluri. Non lo dico per campanilismo.

BERNARDO IOVENE Noo, lei è il sindaco di Sanluri. Il sindaco di Villacidro è d’accordo?

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Io non sono il sindaco di Villacidro. Io parlo per me, non per Villacidro.

BERNARDO IOVENE Quindi questo qua è il Sulcis?

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE Lei dice si stacca il Sulcis, rimaniamo con questa provincia qua e noi capoluogo.

ALBERTO URPI - SINDACO DI SANLURI (SU) Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ricapitolando: attualmente la Sardegna ha quattro province, più la città metropolitana di Cagliari. Le quattro province storiche sono commissariate e le elezioni a oggi sono state sempre rinviate. Al momento dell’abolizione delle quattro province la regione ha istituito 37 unioni di comuni. Ora Si aspetta il nuovo riordino degli enti locali che sta preparando l’assessore Quirico Sanna.

BERNARDO IOVENE Rivolete le province anche lei?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Le popolazioni della Sardegna vogliono le province.

BERNARDO IOVENE Però ci sono stati i referendum, delle leggi, la corte costituzionale…

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Bravo. È corretto, ha detto: ci sono stati dei referendum. Giusto. La riforma voluta da Renzi il popolo l’ha respinta.

BERNARDO IOVENE Però ci deve essere una via d’uscita, non è che ognuno può fare quello che vuole. Adesso voi rifarete otto province. Tra l’altro - le faccio notare - in ognuna di queste province ci sono due capiluoghi perché ognuno non vuole sottostare all’altro… insomma è una barzelletta.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Guardi, dott. Iovene, noi questo elemento del doppio capoluogo non l’abbiamo vissuto come un trauma, anzi.

BERNARDO IOVENE Però ci dica i prossimi passaggi che voi farete.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA I prossimi passaggi… verrà depositata a giorni una legge.

BERNARDO IOVENE Quante province farete? Non me lo può dire?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA In linea di massima saranno sei più due aree metropolitane.

BERNARDO IOVENE Due?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Sì.

BERNARDO IOVENE E qual è la seconda?

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Noi abbiamo due città che lo possono fare in Sardegna.

BERNARDO IOVENE Cagliari e Sassari.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Vede che ci è arrivato.

BERNARDO IOVENE E ci saranno le elezioni dirette.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Noi auspichiamo di sì.

BERNARDO IOVENE Quindi voi andate avanti.

QUIRICO SANNA – ASSESSORE ENTI LOCALI REGIONE SARDEGNA Noi andiamo avanti, sì. “Ainanti e forza avaris!”

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Vanno avanti, nonostante la corte costituzionale ha già bocciato le elezioni dirette in Sicilia, e il governo non potrà fare a meno di intervenire impugnando la legge. Lo chiarisce molto bene il ministro competente.

BERNARDO IOVENE Quindi per quanto riguarda l’elezione diretta loro non possono attualmente farla?

RANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Non possono farla, gliel’abbiamo spiegato in tutti i modi. È il parlamento che deve decidere se l’elezione diretta va fatta. BERNARDO IOVENE Anche per le regioni a statuto speciale?

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Lo sanno, gli è stato spiegato più volte.

BERNARDO IOVENE No perché anche in Sardegna insistono su questo punto.

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE E gliel’abbiamo spiegato più volte: non significa non essere d’accordo, significa evitare che da un tipo di Arlecchino si vada a un altro tipo di Arlecchino.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Arlecchino ci sembra definizione giusta. Ma almeno lui ci faceva sorridere. Quello che invece è stato il tentativo di risistemare, di dare un nuovo sistema al territorio ha finito con il complicarlo. Non sono stati in grado di riempire di contenuti le alternative. E ora se chiediamo, anche ai politici, di conoscere quante sono, secondo loro, le province che sono rimaste sulle ceneri di quelle vecchie, dubito che otterremmo una risposta univoca. Anche noi siamo rimasti sorpresi, perché siamo andati a vedere nella pancia del Paese. Che cosa abbiamo contato? Settantasei province ancora rimaste nelle regioni ordinarie, due sono in Trentino Alto Adige, quattro in Sardegna, 6 liberi consorzi in Sicilia. L’unica che non le ha è il Friuli Venezia Giulia, ma come abbiamo visto le rivorrebbe. Ne è uscito un territorio dilaniato, frammentato, tra enti che non sono neppure in grado di parlare tra loro, perché un po’ di province le hanno anche trasformate in 14 città metropolitane. Poi un po’ le funzioni le hanno spalmate su vari enti. Addirittura su 301 agenzie regionali, 124 enti regionali, 44 agenzie regionali per l’ambiente, 572 unioni di comuni, 152 comunità montane, dovevano essere abolite pure loro, 149 consorzi di bonifica, 107 enti di governo per i servizi idrici e per i rifiuti. Ora sulle province c’è chi pensa di fare una marcia indietro e stanno anche valutando come restituire un po’ di soldi e, per una nemesi storica è costretto a cercarli anche chi, ferocemente, le aveva combattute, le voleva abolire. Questo da una parte. Dall’altra c’è invece chi vorrebbe tornare alle vecchie elezioni dirette, ma lì devi passare nella cruna dell’ago della Corte Costituzionale. Sul banco degli imputati, questa volta, è finito chi ha ideato la legge per abolirle: Graziano Delrio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sotto accusa è la legge 56 del 214 firmata Graziano Delrio. Oggi è capogruppo del PD alla camera, e nonostante il momento emergenziale non si sottrae a un confronto sulla sua legge. Cominciamo dal sistema elettorale.

BERNARDO IOVENE Qui tutti hanno nostalgia delle vecchie provincie… anche lei?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI No, ma la provincia esiste. Io… Di cosa stiamo parlando? La provincia esiste, ed è governata dai sindaci. Il pasticcio delle province - è che le regioni davano loro delle funzioni ma non gli davano i soldi. Adesso è il momento in cui l’ente deve ritrovare delle figure apicali dirigenziali.

BERNARDO IOVENE Lei è ancora convinto di questa rivoluzione mancata?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Io sono molto convinto e non sono d’accordo che sia una rivoluzione mancata.

BERNARDO IOVENE Beh, sono sei anni di sofferenze: strade, scuole…

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Adesso gli effetti dei vecchi tagli sono quasi tutti esauriti. Io lancio una sfida: giudichiamo la riforma adesso che i soldi sono stati rimessi.

BERNARDO IOVENE Però sono stati rimessi in percentuali che non hanno messo in grado le province di svolgere quelle poche funzioni rimaste.

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Dobbiamo mettere tutto in fila. Perché questo è il punto chiave.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il punto chiave è il prelievo forzoso iniziato dal governo Berlusconi, proseguito da Monti, e il colpo finale di Renzi. Oggi ironia della sorte la delega agli enti locali è del sottosegretario Variati in quel periodo era anche presidente dell’unione delle province.

ACHILLE VARIATI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL’INTERNO E io ero del Pd ed ero fieramente contrario. E glielo dissi al presidente Renzi. Gli dissi: “caro Matteo, guarda che ti sbagli qui i tagli che stai facendo sulle province sono irragionevoli perché finiranno col colpire i servizi”. È sbagliato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sbagliati erano i calcoli, perché erano superiori al bilancio stesso delle province.

MICHELE DE PASCALE - PRESIDENTE UNIONE PROVINCE ITALIANE Tre miliardi di tagli in tre anni, che erano superiori al bilancio complessivo delle province.

BERNARDO IOVENE Ecco come è possibile questa cosa qua? C’è stato un errore oppure c’è stata proprio l’intenzione di dire: vi togliamo tutto.

MICHELE DE PASCALE - PRESIDENTE UNIONE PROVINCE ITALIANE C’era una volontà politica di azzerare le province.

BERNARDO IOVENE Non è che lei non ha responsabilità in questi tagli che sono stati fatti?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Certamente, i tagli però erano mirati…

BERNARDO IOVENE Sono stati fatti i conti sbagliati. Questo si può dire che i conti erano sbagliati adesso?

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI Secondo me, se lei mi dice che i tagli erano troppo pesanti, a posteriori diciamo di sì. Erano basati su dei calcoli…

BERNARDO IOVENE Sbagliati.

GRAZIANO DELRIO - CAPOGRUPPO PD CAMERA DEI DEPUTATI In parte sbagliati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I conti sbagliati hanno lasciato le province senza soldi, e oggi a trovare ossigeno per strade e scuole deve essere il Ministero dell’Economia, la delega è al sottosegretario Castelli dei 5 stelle.

BERNARDO IOVENE Innanzitutto per voi le province devono esistere o non devono esistere?

LAURA CASTELLI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE Beh, oggi c’è una legge che dice che esistono e quindi in questo ministero, il ministero delle economie e finanze ci dobbiamo occupare di finanziare ciò che esiste, e soprattutto i servizi essenziali. Nel 2019 abbiamo messo 250 milioni annui e ogni anno dal 2020 al 2033. E quest’anno abbiamo programmato rete viaria e scuole, 3 miliardi e 4 per ognuna di queste due voci - e quindi arriviamo a 6 e 8 - sempre dal 2020 al 2034.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poche risorse perché spalmate su 15 anni, il problema resta il prelievo forzoso dei governi passati che continua a strozzare le province.

BERNARDO IOVENE Adesso continua ancora questo prelievo?

LAURA CASTELLI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO ECONOMIA E FINANZE Guardi questa è una brutta storia che non è spiegabile. Non si riesce ad uscirne perché si dovrebbero usare moltissime risorse, e purtroppo ci sono degli errori che è molto difficile ripianare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Vista la disponibilità del nuovo governo, l’unione delle province ha redatto un piano nazionale, e ha presentato progetti per 4 miliardi.

MICHELE DE PASCALE - PRESIDENTE UNIONE PROVINCE ITALIANE Cioè non chiediamo fondi a pioggia, chiediamo fondi sui progetti. Noi abbiamo presentato con serietà al governo 1 miliardo e 8 di progetti sulle strade e 1 miliardo e 500 milioni di progetti sulle scuole.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Entro il 2020 comunque, il parlamento ha delegato il governo di fare un riordino degli enti locali. L’idea del ministro è dare le scuole ai comuni e le strade alle province, ma il disegno è ancora vago.

BERNARDO IOVENE Ma voi ci state studiando?

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Certo.

BERNARDO IOVENE Stiamo facendo sempre chiacchiere oppure lei si sta occupando di questo?

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Io di chiacchiere non ne ho mai fatte in vita mia. Guardi su questo tema il governo è consapevole che serve un riordino. E un riordino lo faremo: ovviamente è un riordino che va condiviso col Parlamento. Quello che voglio dirle è che lei non troverà – e se trova un ministro che dice: “Ora sono arrivato io e metto tutto a posto”, ne trova un altro come quei matti che hanno smontato tutto. BERNARDO IOVENE Quindi sta facendo autocritica diciamo.

FRANCESCO BOCCIA – MINISTRO PER GLI AFFARI REGIONALI E LE AUTONOMIE Io l’ho sempre fatta autocritica.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma un disegno al Parlamento bisogna portarlo. Proviamo allora al ministero dell’Interno dove il sottosegretario Variati che è stato presidente delle province italiane adesso siede sulla poltrona giusta per rimediare agli errori del passato.

ACHILLE VARIATI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL’INTERNO Adesso che mi trovo su questa scrivania, devo fare qualcosa.

BERNARDO IOVENE Eh, che cosa sta facendo? Che toppa… adesso tocca a lei metterci una pezza, no? Ci dica quali.

ACHILLE VARIATI - SOTTOSEGRETARIO DI STATO MINISTERO DELL’INTERNO Eh, quali…Ad esempio. uno: le funzioni. Oggi le province non hanno tutte le funzioni che dovrebbero avere. Perché non tieni in piedi un organo complesso come la provincia per strade e per scuole.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Province con più funzioni. Che è il contrario di quello che invece dice il ministro Boccia, che parla “di quei matti che hanno smontato tutto”. Si riferiva ai suoi vecchi compagni di partito, quelli che, come ammette anche Delrio, hanno anche sbagliato i conti nel quantificare il prelievo forzoso. Tanto che hanno lasciato in rosso le casse delle province, i dipendenti in Sicilia senza stipendio, senza soldi per pagare le bollette. E invece le province, in questo momento, potrebbero diventare una risorsa per il paese. L’Unione delle Province ha presentato, lo abbiamo detto, un progetto al premier Conte, per mettere in moto migliaia di piccoli cantieri e muovere due miliardi di euro di finanziamento. Sarebbe l’occasione per rendere più moderno il nostro paese e dare un po’ di ossigeno alle piccole imprese locali. Poi, finita l’emergenza, bisognerà anche decidere cosa fare delle province. Perché? Che cosa è stato fatto? Per eliminare una gestione che sembrava per lo più uno spreco, ne è stata creata un’altra che è diventata uno spreco totale perché non hai dato la possibilità di mettere in pratica quelle funzioni, limitate, che gli avevi lasciato. Eppure un occhio sul territorio, attento, servirebbe. È il caso della provincia di Massa e Carrara. Quello del viadotto di Albiano, che è crollato poche settimane fa. Era di competenza della provincia, ma, due anni fa, un accordo tra Regioni e Anas ha sfilato la competenza. Tuttavia la provincia di Massa e Carrara ha allertato più volte l’Anas del rischio di un crollo. L’Anas però ha ritenuto di rassicurare, ha detto: non c’è nessun pericolo. È finita così. Forse è la metafora giusta del pasticcio che è stato combinato in questi anni intorno alle province. E bisognerebbe avere il coraggio di mettere la parola fine. Il virus, in tema di sanità, ci ha, in questi mesi, in queste settimane, ricordato qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare in seguito a una politica di tagli dei presidi territoriali. In questo caso erano medici. Invece, anche per quello che riguarda la politica attuata sulle province è lo stesso caso. Se tu togli l’occhio dal territorio, il territorio rischia il degrado. Forse bisognerebbe avere il coraggio di cambiare metodo. Quando hai una gestione che non funziona, non fare i tagli perché la giudichi inutile. Prova a farla funzionare, magari mettendoci dei politici, degli uomini che abbiano delle qualità. Proviamo a cambiare. Una volta tanto. Non si sa mai. E adesso passiamo al derby: la nostra Giulia Presutti contro il commissario Arcuri. E che derby.

·        L’Insicurezza. Difendersi da Buoni e Cattivi.

Il caso denunciato da Amnesty. Due poliziotti condannati per i fatti del G8 di Genova sono stati promossi dal ministro Lamorgese e dal capo della Polizia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 3 Novembre 2020. I fatti del G8 di Genova del 2001, a oltre 19 anni di distanza, sono ancora oggi una ferita indelebile nella storia della Repubblica: la repressione violenta delle manifestazioni, la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” nella scuola Diaz sono macchie ancora ben presenti, così come i dubbi su vicende che ancora oggi non sono stati chiarite (nonostante le sentenze).

DUE POLIZIOTTI PROMOSSI – Ferite che si sono riaperte con il caso denuncia da Amnesty International Italia, la Ong  impegnata nella difesa dei diritti umani che ha segnalato come lo scorso 28 ottobre la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il capo della Polizia Franco Gabrielli hanno deciso di promuovere alla carica di vicequestore due agenti condannati in via definitiva per le vicende di Genova. La denuncia riguarda la posizione di Pietro Troiani e Salvatore Gava, entrambi condannati a 3 anni e 8 mesi di detenzione (più cinque di interdizione dai pubblici uffici): il primo per aver introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz, il secondo per averne falsamente attestato il rinvenimento come giustificazione per l’irruzione nell’edificio e come ricostruzione da fornire ai media.

L’IRRUZIONE ALLA DIAZ – L’assalto alla scuola Diaz fu uno degli episodi più sconcertanti dei quattro giorni di follia nel capoluogo ligure: tra il 19 e il 22 luglio 2001 furono numerosi gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti, con la morte di Carlo Giuliani il 20 luglio in piazza Alimonda. Uno degli episodi più cruenti fu senza dubbio l’irruzione delle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz, dove decine di persone furono picchiate dagli agenti, che procedettero a perquisizioni e arresti di massa. Una “macelleria messicana” accertata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2015 dichiarò che la polizia violò il divieto di tortura e di trattamenti inumani.

LA DENUNCIA DI AMNESTY – Per Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, “desta sconcerto il fatto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e, anzi, vengano promossi a ulteriori incarichi”. “In un periodo di grande tensione, nel quale sono bersaglio di azioni violente nelle strade italiane, le forze di polizia dovrebbero impegnarsi nel gestire le operazioni di ordine pubblico nel rispetto degli standard internazionali sui diritti umani. I loro dirigenti dovrebbero fare di tutto perché, proprio in momenti come questi, si rafforzi il rapporto di fiducia tra cittadini e forze di polizia. Decisioni come quelle del 28 ottobre rischiano al contrario di indebolirlo”, ha aggiunto Rufini. Promozioni che per Ruffini, “alla vigilia del ventesimo anniversario dei gravissimi fatti di Genova”, suonano come “un’offesa alle centinaia di persone che vennero arrestate, detenute arbitrariamente e torturate in quella pagina nera della storia italiana”.

Promossi due poliziotti condannati per il G8 di Genova, lo “sconcerto” di Amnesty, Arci e Leu. Il dipartimento: “Avanzamento automatico”. Il Fatto Quotidiano il 3 novembre 2020. È polemica per lo scatto di carriera Pietro Troiani e Salvatore Gava, nominati vicequestori. Per i fatti del 2001 i due poliziotti furono condannati in via definitiva a tre anni e otto mesi più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. La ong: "Decise il 28 ottobre dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli". Il dipartimento di Pubblica sicurezza: "Tutto ciò poteva essere evitato solo destituendo i funzionari, scelta che all’epoca non fu intrapresa dall’Amministrazione". Condannati per il G8 di Genova, promossi dalla polizia. È polemica per lo scatto di carriera Pietro Troiani e Salvatore Gava, nominati vicequestori. Per i fatti del 2001 i due poliziotti furono condannati in via definitiva a tre anni e otto mesi più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Amnesty International Italia in una nota ha espresso “sconcerto” per le promozioni, “decise il 28 ottobre dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli“. Sconcerto al quale replica il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, che in una nota precisa come l’avanzamento dei funzionari in questione sia “automatico e risponda ad una procedura amministrativa obbligata, laddove siano state scontate le sanzioni che erano state comminate. Tutto ciò – aggiunge la Polizia – poteva essere evitato solo destituendo i funzionari, scelta che all’epoca non fu intrapresa dall’Amministrazione, nè tantomeno l’Autorità Giudiziaria ritenne di irrogare l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Gli attuali incarichi assegnati rientrano nelle qualifiche ricoperte e nelle competenze possedute”. Amnesty ricorda che che Troiani era stato condannato con l’accusa di aver introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz, Gava per averne falsamente attestato il rinvenimento, “affinché tale scenario potesse costituire una giustificazione per la sanguinosa irruzione nell’edificio e una ricostruzione da fornire ai mezzi d’informazione”. “In un periodo di grande tensione, nel quale sono bersaglio di azioni violente nelle strade italiane, le forze di polizia dovrebbero impegnarsi nel gestire le operazioni di ordine pubblico nel rispetto degli standard internazionali sui diritti umani. I loro dirigenti dovrebbero fare di tutto perché, proprio in momenti come questi, si rafforzi il rapporto di fiducia tra cittadini e forze di polizia. Decisioni come quelle del 28 ottobre rischiano al contrario di indebolirlo“, ha dochiarato Gianni Rufini, direttore generale della ong in Italia. “Sostengo e condivido la posizione e lo sdegno di Amnesty International – Italia. È grave che siano concesse promozioni e avanzamenti a membri delle forze dell’ordine, rappresentanti dello Stato, già condannati per violazione dei diritti umani. Come chiediamo da tempo, serve introdurre i codici identificativi per le forze dell’ordine. E occorre farlo ora”, dice anche Erasmo Palazzotto, deputato di Leu. Un comunicato per esprimere “preoccupazione, sconcerto e incredulità” per le promozioni di due funzionari è stato diffuso anche da Arci nazionale, Arci Liguria e Arci Genova. Nella sua nota il dipartimento di Polizia dichiara l’amarezza per “la gratuità dei giudizi espressi, soprattutto da Amnesty Internazional Italia, nei confronti dell’attuale vertice del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e della Polizia di Stato che non solo ha fatto pubblica ammenda della pessima gestione dell’ordine pubblico in occasione di quel tragico evento, ma soprattutto, in questi anni, si è speso per stigmatizzare e sanzionare ogni comportamento non conforme al rispetto delle persone e anche in questi complicati momenti si spende affinché le forze di polizia assolvano al loro”.

Michele Galvani per "ilmessaggero.it" il 12/10/2020. Sono accusati di «reato continuato di lesione personale, pluriaggravato e in concorso»: per questo motivo tutti gli 8 sergenti, in forza presso il 70° Stormo dell'Aeronautica di Latina, sono stati rinviati a giudizio (udienza il prossimo 11 dicembre) nell'ambito dell'inchiesta legata al caso di Giulia Schiff, l'allieva ufficiale finita al centro di un caso - da lei sollevato - di nonnismo all'interno della caserma stessa. L'allieva è stata anche espulsa dall'accademia, cosa su cui pende ancora il giudizio del Tar del Lazio (previsto il 23 ottobre).

La storia. Giulia, veneziana, 21 anni, ha sempre avuto il sogno di volare: per questo, dopo l'Istituto tecnico aeronautico, si era presentata al concorso per l'ammissione di dieci allievi ufficiali di complemento dell'Aeronautica piazzandosi quarta su quasi 2.000 iscritti. Ed è qui, a Latina, che accade il fatto: viene presa a sberle, spinta con la testa contro una struttura metallica e infine gettata in una piscina e di nuovo colpita in testa dai suoi stessi commilitoni in quello che doveva essere un rito di iniziazione per gli aspiranti piloti dell'aeronautica. A denunciare tutto, con un video, è stata la stessa ragazza. Il procuratore militare della Repubblica Antonio Sabino, nel rinvio a giudizio degli otto imputati, tra le altre cose scrive: «Tutti i sergenti nel contesto di una celebrazione di tradizione goliardica denominata tuffo nella piscina del pingue, sollevavano da terra e trasportavano in posizione orizzontale, la paricorso sergente allievo ufficiale Schiff e, tenendola ferma per le gambe e le braccia, con dei fustelli di legno le infliggevano violenti colpi sul fondoschiena e pugni; quindi, le facevano urtare la testa contro la semiala in mostra statica posta in prossimità di una piscina, dove, infine, la gettavano: con tale condotta usavano violenza nei confronti della predetta sergente Schiff, cagionandole plurime escoriazioni ed ecchimosi ai glutei». Secondo il generale Stefano Fort, incaricato di indagare sul caso all'interno dell'Accademia, la Schiff ha manifestato «insofferenza alla disciplina, all'obbedienza, alla subordinazione, al rigore, alla puntualità e allo spirito di sacrificio necessari per intraprendere una carriera militare». Eppure, per l'avvocato che difende l'allieva, Massimiliano Strampelli, «c'erano stati uno o più briefing nei quali si minacciavano gli allievi dei vari corsi nel caso in cui avessero solidarizzato con lei». Il messaggio che vuole far passare Giulia (e la sua famiglia) è che non è una questione di vendetta: la ragazza ha voluto denunciare solo dopo aver preso coraggio. E poi perché «il suo gesto deve essere di esempio per tutti quei militari che ancora hanno paura di denunciare i soprusi di cui sono vittime», ha concluso l'avvocato. Nei giorni scorsi, il caso è arrivato all'attenzione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini: «Non ci sarà comprensione per eventuali comportamenti che, anche alla luce dei pronunciamenti ancora attesi, si rivelassero difformi dagli imprescindibili principi di correttezza, etica professionale e rispetto della dignità individuale». Proprio sul tavolo del ministro è finita anche un'interrogazione parlamentare di 25 senatori.

Aurelio Visalli, il militare eroe morto a Milazzo per salvare in mare due ragazzini spericolati. Il sottufficiale, secondo capo della capitaneria di Porto Guardia costiera, padre di due bimbi, si è tuffato per soccorrere un 15enne e un 13enne, ma non è più riemerso. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2020. Un’intera comunità, quella di Milazzo (Messina), soffre per la morte di un valoroso militare, padre di due bambini, scomparso tra i flutti per aver salvato con il suo coraggio la vita di due ragazzini di 15 e 13 anni che ieri, avventatamente, hanno deciso di fare un bagno, nonostante le condizioni del mare fossero severe e lo sconsigliassero vivamente. Aurelio Visalli, 40 anni, secondo capo presso la Capitaneria di Porto Guardia costiera di Milazzo, nonostante le onde impetuose e il forte vento, ieri mattina non ha esitato a tuffarsi in mare per soccorrere i due ragazzini, ma non ha avuto la forza di tornare a riva.

Le ricerche. Le ricerche sono proseguite per tutta la giornata di ieri. Stamani, con le prime luci dell’alba, i mezzi di vigili del fuoco, marina militare, guardia costiera e polizia hanno ripreso a pattugliare lo specchio d’acqua antistante la spiaggia di Ponente nella speranza di avvistare l’uomo, inghiottito dalle onde durante il salvataggio di uno dei due ragazzini che ieri si erano tuffati in mare nonostante la tempesta. Il corpo di Visalli è stato ritrovato intorno alle 8 di questa mattina nel mare antistante la cosidetta «puntitta», dove si erano concentrate le ricerche.

«L’ho visto mentre le onde lo portavano via». Un testimone dei fatti ha raccontato: «L’ho visto mentre le onde lo portavano via». Elicotteri e motovedette, oltre ad operatori da terra, hanno monitorato il litorale a lungo. Le speranze di ritrovare in vita l’uomo erano ridotte al lumicino. La furia delle onde ha ostacolato il lavoro dei soccorritori, rendendo impossibile la navigazione. Poi la tragica conferma. Adesso è il momento del lutto per la famiglia di Visalli, che era residente a Venetico con la moglie e i due figli in tenera età. Del lutto e delle accuse: il cognato sostiene che sulla vicenda ci siano troppi punti oscuri, dalle ricerche partite in ritardo all'attrezzatura insufficiente in dotazione: «Avevano solo un piccolo salvagente, si è dovuto tuffare in mutande». La vicenda ha scosso l’intera cittadina di Milazzo, tanta che la gente ha atteso in spiaggia l’esito delle ricerche, purtroppo terminate col ritrovamento del corpo.

Il coraggioso intervento di Visalli. Come segno di rispetto i candidati a sindaco avevano fermato le iniziative per la campagna elettorale, perché l’attenzione era tutta sulle sorti del 40enne. In base alle ultime ricostruzioni, i due ragazzini, 15 e 13 anni, avrebbero raggiunto la spiaggia intorno alle 9 di ieri mattina con l’intenzione di fare il bagno. La «puntitta» è anche meta di «prove del coraggio»da parte di ragazzini, perché dagli scogli vicini alla baietta si possono fare spericolati tuffi. Sembra che i due adolescenti abbiano avuto subito delle difficoltà, ma che uno di loro sia riuscito a tornare a riva mentre l’altro è rimasto in balìa delle onde. A dare l’allarme sono stati alcuni passanti che hanno notato la scena, chiamando immediatamente la guardia costiera. Sono quindi giunti tre operatori, tra cui Visalli, che hanno guidato il ragazzino ancora in acqua verso una boa lanciandogli un salvagente. Durante le operazioni il sottoufficiale sarebbe stato travolto da un’onda e portato via dalla forte corrente.

«Colpito da un'onda che gli ha fatto perdere i sensi». Secondo quanto riferito dai guardacoste, il sottufficiale sarebbe stato centrato in pieno da un’onda che gli avrebbe fatto perdere i sensi non riuscendo così a risalire sulla motovedetta. L’uomo che stamattina ha avvistato il cadavere racconta: «Ero a Tono con altre persone per dare una mano e abbiamo individuato dalla spiaggia il corpo in acqua, lo abbiamo riferito subito agli uomini della Guardia costiera che hanno poi recuperato purtroppo il cadavere del loro collega». I colleghi lo ricordano tra le lacrime: «Era una persona sempre disponibile e pronto a fronteggiare le problematiche lavorative quotidiane di tutti, sacrificandosi per gli altri. L’ultimo sacrificio lo ha fatto proprio ieri per aiutare quel ragazzo». Tutta la città di Venetico si stringe accanto alla famiglia, solo qualche settimana fa i cittadini erano sconvolti per la triste vicenda di Viviana Parisi e del piccolo Gioele Mondello, scomparsi e poi trovati morti a Caronia, ora anche la perdita di Aurelio . E anche Milazzo piange il suo eroe: diverse persone sono ferme davanti alla capitaneria di porto, consolando i colleghi dell’uomo.

Il cordoglio del capo dello Stato e del Governo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al comandante generale del corpo delle Capitanerie di porto, ammiraglio Giovanni Pettorino, un messaggio nel quale spiega di essere «rimasto particolarmente colpito dalla tragica scomparsa» di Visalli, e lo prega «di far giungere ai familiari di Visalli, così dolorosamente provati, e a tutto il personale del Corpo i miei sentimenti di cordoglio e di solidarietà». «La morte» di Visalli «unisce il Paese in un profondo dolore», ha detto il premier Giuseppe Conte. «Esprimo il mio cordoglio alla famiglia e rendiamo tutti merito al coraggio di un valoroso servitore dello Stato». cordoglio è stato espresso da tutti i componenti del Governo, a partire dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini: «Ricordiamo lui e tutte le persone che mettono il loro impegno e la loro vita al servizio dei cittadini e delle istituzioni».

In una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata un’immagine errata di Aurelio Visalli. L’agenzia Ansa ha fatto sapere che la foto sbagliata «è stata trasmessa per errore. La persona rappresentata non era la vittima ma un omonimo».

Milazzo, ritrovato il corpo del sottufficiale annegato per salvare un ragazzo. Di Maio annulla la visita. Fabrizio Bertè e Alberto Custodero su La Repubblica il 27 settembre 2020. Aurelio Visalli rinvenuto nella baia del Tono dove si erano concentrate le ricerche. Il cognato accusa: "Mandato allo sbaraglio". Il cordoglio degli esponenti del Governo, delle Istituzioni e del mondo della politica. Diventa un caso politico la morte da eroe di Aurelio Visalli, il sottufficiale della Guardia Costiera di Milazzo il cui corpo è stato ritrovato senza vita questa mattina, verso le 8.30 circa, nel mare antistante la baia del Tono, dove si erano concentrate le ricerche già da ieri e dall'alba di oggi. Il quarantenne di Venetico, sposato e con due figli, si era tuffato in mare ieri, nella tarda mattinata, verso le 12.30, nel tentativo di salvare un quindicenne che, assieme a un amico, aveva sfidato il mare tuffandosi per un bagno nonostante l'allerta meteo diramata. I due ragazzi erano rimasti in balia del mare in tempesta di Ponente, ma uno dei due era riuscito a raggiungere da solo la riva, mentre il secondo è stato tratto in salvo, dopo essere rimasto per oltre un'ora aggrappato a una boa, ed è stato poi portato in ospedale, al “Fogliani” di Milazzo, per le cure sanitarie necessarie. "La morte del sottufficiale della Guardia costiera Aurelio Visalli, che per salvare una giovane vita ha sacrificato la propria, unisce il Paese in un profondo dolore. Esprimo il mio cordoglio alla famiglia e rendiamo tutti merito al coraggio di un valoroso servitore dello Stato". Ha scritto in un post su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, quando ha saputo del ritrovamento del cadavere, ha annullato la sua visita a Milazzo prevista per la giornata. "Ci lascia da eroe. È una giornata triste per tutti noi. Un abbraccio e la solidarietà dello Stato alla famiglia". Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese ha espresso "profondo dolore". "Il gesto coraggioso del militare - ha aggiunto la responsabile del Viminale - evidenzia il sacrificio, l'altruismo e la generosità di chi opera quotidianamente nel nostro Paese per la sicurezza e la tutela della incolumità dei cittadini". "Ricordiamo lui e tutte le persone che mettono il loro impegno e la loro vita al servizio dei cittadini e delle istituzioni" dichiara il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. "Scomparso mentre stava compiendo la missione più nobile assegnata alla Guardia Costiera: salvare vite umane" twitta il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli. Il Questore della Camera e presidente della Direzione nazionale di Fratelli d'Italia Edmondo Cirielli auspica che "il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli conferisca la Medaglia d'oro al valore". Il presidente del Parlamento siciliano, Gianfranco Miccichè, in un post Facebook annuncia che "martedì l'assemblea regionale osserverà un minuto di silenzio in suo onore". Grande dolore", "profondo cordoglio" e "vicinanza alla famiglia" arrivano dal ministro dell'Ambiente Sergio Costa.  "Ci sono storie di eroi che purtroppo non hanno un lieto fine" commenrta il presidente di Italia viva Ettore Rosato. "Una notizia che fa male al cuore. Un eroe che l'Italia non deve dimenticare" scrive su Facebook la leader di Fdi, Giorgia Meloni. "Un esempio di abnegazione e sacrificio" afferma il senatore del Pd Salvatore Margiotta, sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti. "Una preghiera lo accompagni" scrive su Twitter Maria Tripodi, capogruppo di Forza Italia in Commissione Difesa a Montecitorio. "Condoglianze e un forte abbraccio alla sua famiglia" twitta Antonio Tajani vicepresidente di Forza Italia. "Cordoglio" è poi stato espresso dal Partito democratico, dal Dipartimento della Protezione civile, dai parlamentari del M5S, dal sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, dallo Stato Maggiore della Difesa e da Carmelo Miceli, deputato del Partito democratico e responsabile sicurezza nella segreteria del pd.

Le accuse del cognato: "Mandato in mare solo col salvagente". E ora è polemica sui soccorsi. "Non potevano uscire con la motovedetta e li hanno mandati in mare senza equipaggiamento - accusa il cognato Antonio Crea, sentito dalla Tgr Rai Sicilia - con la divisa normale, solo con un salvagente... per non bagnare la divisa si sono gettati in acqua in mutande. Hanno tentato di lanciare il salvagente per salvare la persona difficoltà che è riuscita a tornare a riva. Dei tre, uno è rimasto travolto dalle onde: è scomparso e nessuno l'ha cercato sul momento...". La procura di Barcellona Pozzo di Gotto ha aperto un fascicolo.

La cronaca: il primo allarme dall'ex calciatore Beninato. Il primo a lanciare l'allarme era stato l'ex calciatore Gaetano Beninato: “Mi trovavo a casa di mio zio dopo aver lasciato la mia compagna al lavoro e dal balcone di casa sua ho visto i due ragazzi in acqua in difficoltà - ha raccontato - ho immediatamente chiamato i carabinieri e la capitaneria di porto e mi sono lanciato in spiaggia, ma il mare era davvero terribile e aveva raggiunto la strada, mangiandosi totalmente la spiaggia". "Le onde - ha aggiunto - erano talmente violente che ti travolgevano, non avevo mai visto niente del genere. La cosa che mi fa male maggiormente è che per un gesto sconsiderato a rimetterci la vita sia stato un padre di famiglia. Per un attimo ho anche pensato di tuffarmi, ma non c'erano proprio le condizioni per farlo”.

Il post cancellato. E' stato cancellato da Facebook il post di uno dei ragazzini soccorsi in mare dal militare della Guardia costiera annegato, che ha indignato il popolo dei social. "Sono sano e salvo, mentre facevo le capriole in spiaggia, a me al mio amico ci prende in pieno un'onda e mi trascina al largo. Nessuno si è buttato, quindi prima di dire che qualcuno è morto per salvare me...Cazzate". Sui social c'è anche un video di uno dei due ragazzi che racconta di essere stato travolto e portato in mare aperto da un'ondata e di essersi salvato da solo riuscendo a tornare a riva.

Dal ''Corriere della Sera'' il 28 settembre 2020. L'hanno ripescato senza vita i suoi colleghi della Capitaneria, a poche bracciate dalla spiaggia di Milazzo. Con la stessa motovedetta sulla quale Aurelio Visalli faceva il motorista, pronto ad andare ben oltre i suoi compiti per soccorrere chiunque ne avesse bisogno. Come ha fatto sabato quando è scattato l'allarme per due 15enni che non riuscivano a tornare a riva per le onde alte 7 metri. Uno dei due adolescenti, il più vicino alla costa, infine ce l'ha fatta. Ma l'altro, trascinato dalla corrente, rischiava d'affogare e si è aggrappato a una boa. Aurelio Visalli, giunto sul posto da terra dopo l'allarme con altri due sottufficiali, gli ha lanciato un salvagente che s' erano portati dalla Capitaneria. Solo quello. In costume, senza nemmeno un giubbotto salvagente, riferiscono i parenti che si chiedono se questa tragedia si poteva evitare. I due ragazzi sono tornati a casa. Visalli no. Un'onda altissima s' è abbattuta su di lui, scomparso in un lampo alla vista. Se ne è andato così, a 40 anni, il sottufficiale inghiottito dalla sua generosità, come adesso dicono con rabbia i colleghi. Rabbia anche per quel gesto sconsiderato dei due ragazzini che ha reso necessario l'intervento di Visalli. «Dovrebbero essere portati ad osservare il risultato delle loro gesta sconsiderate», dice un amico della vittima. Da vent' anni nella Guardia costiera, secondo capo, motorista, viveva con la moglie Tindara e i due figli piccoli a Venetico, piccolo centro del Messinese da agosto in prima pagina perché da una casa vicina partì Viviana Parisi con il piccolo Gioele. In tanti ora rendono onore al sacrificio del sottufficiale. Tanti anche i dettagli da chiarire sulla morte di «quest' uomo buono, innamorato del suo lavoro e dei suoi figli», dice il cognato Antonio Crea. Un uomo che amici e colleghi commossi ricordano come «generoso e disponibile». Dettagli da chiarire anche per la polemica sui soccorsi che sfocia stamane in un esposto affidato dalla moglie agli avvocati Tommaso Calderone e Sebastiano Campanella, pronti a porre domande sui tanti dubbi dei familiari, compresi quelli relativi al tempismo delle ricerche. Dalla politica il cordoglio è unanime. Il premier Giuseppe Conte «rende merito» al coraggio di Visalli, la ministra degli Interni Luciana Lamorgese ha rimarcato «il sacrificio e l'altruismo», il collega degli Esteri, Luigi Di Maio, ha annullato la sua visita in zona e sottolineato come il militare «ci lascia da eroe».

Dall'articolo di Berté-Palazzolo per ''la Repubblica'' il 28 settembre 2020. La prima cosa che ha fatto il ragazzino quando i medici l’hanno dimesso dal pronto soccorso è stato un post su Facebook e Instagram. Ma non per ringraziare chi aveva sacrificato la propria vita per salvarlo, piuttosto per prenderne le distanze. Ecco cosa ha scritto il quindicenne: “Ragazzi apposto, sono sano e salvo. Mentre facevo le capriole in spiaggia, a me e al mio amico ci prende in pieno un’onda e mi trascina al largo, nessuno si è buttato, quindi prima di dire che qualcuno è morto per salvare me, cazzate”. La famiglia di Visalli è indignata. “È un messaggio ignobile, che non ha rispetto della morte di un eroe”, dice il cognato del sottufficiale (…) “Li denunceremo quei ragazzini, per omicidio colposo”, ripete (…) “Non si possono scrivere quelle parole”. Sui social, si è scatenato un tam tam di polemiche contro quel post, subito cancellato. Ma, intanto, anche un amico del ragazzo, che di anni ne ha 13, pure lui rimasto fra le onde sabato mattina, rilanciava su Instagram: “Sono vivo, merde”. E un altro messaggio ancora per difendere il compagno: “Ve la racconto io la verità, facevamo le capriole sul bagnasciuga e un’onda ci ha trascinato al largo. Io sono riuscito ad uscire e a chiamare il 118, il mio amico si è aggrappato ad una boa”. Altri insulti del popolo del web, fino a quando ieri pomeriggio è apparso un messaggio che ha tutto il sapore di essere stato suggerito: “Nessuno è più dispiaciuto di me per quello che è successo, ho pregato fino adesso per quel soccorritore”».

Felice Cavallaro per il ''Corriere della Sera'' il 28 settembre 2020. Abbraccia la bara avvolta nel tricolore e sussurra la sua rabbia dicendo che il marito, Aurelio Visalli, «non è morto per una fatalità, ma per l'incompetenza di chi l'ha mandato a salvare due ragazzi senza un giubbotto, senza funi, senza mezzi...». È questa la verità di Tindara Grosso, avvilita perché si sente tradita da quella Patria che il marito citava ogni mattina, uscendo da casa. Che cosa diceva? «Un bacio a me, uno al piccolo e, nella sua divisa bianca, ripeteva ogni mattina a Riccardo, il grande: "Papà va a difendere la Patria"... Ma la Patria non l'ha difeso, l'ha mandato allo sbaraglio e nessuno ha avuto il pensiero di fare nemmeno una telefonata a me che ho scoperto di avere perso il mio eroe solo da una tv privata, correndo su Internet, chiamando io la Capitaneria... No, basta, parli con mia sorella Francesca...». E parla la cognata del motorista travolto da un'onda anomala quando i due ragazzi da soccorrere erano già in salvo. Parla Francesca Grosso, accanto al marito Antonio Crea, comandante dei vigili nella loro Venetico, da dove hanno deciso di rivolgersi agli avvocati Tommaso Calderone e Sebastiano Campanella dopo essere stati chiamati per primi a riconoscere il corpo del cognato.

Anche in un esposto alla Procura ponete quindi l'accento sull'incompetenza?

«Mio cognato, uomo razionale, conosceva il pericolo. Sulle motovedette, da Lampedusa alla Maddalena, ha partecipato a centinaia di salvataggi. Ha recuperato corpi in alto mare. Non è possibile che sia stato inghiottito da un'onda a riva. Ecco perché vorremmo parlare con i due testimoni».

Si riferisce agli altri due sottufficiali mandati per il soccorso sulla spiaggia di Milazzo?

«Due colleghi che non ci fanno incontrare. Arrivano ufficiali con alti gradi e facce compunte. Ma quando chiediamo di parlare con i due militari si chiudono le porte. Li hanno mandati tutti e tre a salvare gli scampati in mutande, lasciando le divise sulla sabbia, senza attrezzi, senza funi o giubbotti. Cosa sia veramente accaduto non vogliono dirlo».

Coglie imbarazzi?

«Enormi. Anche quando rimproveriamo i vertici della Capitaneria di non avere avvertito casa. Ma soprattutto per avere organizzato un soccorso con un ciambellone. Ogni lavoratore va messo in condizioni di sicurezza. Figurarsi quando dei militari vengono chiamati per ruoli diversi dal proprio. Aurelio era motorista di una motovedetta. Coinvolto invece in un'operazione di terra, senza gli attrezzi che anche un bagnino ha».

La camera ardente allestita in Municipio però è il segno di un'attenzione generale.

«La camera ardente c'è perché l'abbiamo chiesta io e mio marito. Dieci minuti dopo il riconoscimento, ci hanno detto di portare la salma a casa. Per loro dovevamo pure sbrigarci. No, Aurelio merita l'attenzione di tutti perché è caduto da eroe. E adesso cominciano a dirlo in tanti...».

Dai vertici della Difesa e delle capitanerie è arrivata massima solidarietà.

«A noi serve quella concreta. L'unica cosa che chiediamo è di vedere i due ragazzi che erano con Aurelio. Anche se il loro comandante s' è lasciato sfuggire che "non potevano rischiare la vita per lui, facevano gli amministrativi". A conferma dell'incompetenza. E sicuramente delle lacune anche sul piano delle ricerche andranno spiegate». Ritenete che anche le ricerche siano state lente? «Usiamo pure questo eufemismo, come dicono gli avvocati. Sabato pomeriggio chi c'era in spiaggia e in acqua a cercare Aurelio? Tanti non hanno visto nessuno. Inaccettabile. Ecco perché pensiamo all'autopsia. Per capire se c'era invece la possibilità di salvarlo».

Visalli non è morto annegato, ma travolto da un’onda. L'autopsia svela l'ultimo gesto del guardacoste eroe. Pubblicato mercoledì, 30 settembre 2020 su La Repubblica.it da Salvo Palazzolo. Aurelio Visalli, secondo capo della Guardia Costiera di Milazzo, è caduto da eroe. Sfidando onde altissime, per provare a raggiungere il quindicenne che stava per annegare. Questo dice l’autopsia effettuata ieri pomeriggio: il sottufficiale non è morto annegato, ma per il forte trauma causato da un’onda, che lo ha scaraventato sul fondale. Le ferite sono state fatali. Aurelio Visalli era andato più avanti rispetto agli altri due colleghi intervenuti sulla spiaggia. Un video fatto da un testimone ha ripreso l’inizio di quella drammatica operazione di salvataggio. Poi, all’improvviso, il video si interrompe. Pochi istanti dopo, Visalli viene colpito mentre prova ad avanzare dentro un muro di acqua altissimo. Quel muro da superare a tutti i costi. “In quel momento io urlavo: ‘Non venite, non venite, è troppo pericoloso’ – ha raccontato a Repubblica il quindicenne in balia delle onde - Ma lui si è buttato lo stesso, anche se mi ha sentito, ne sono sicuro. Secondo me in quel momento ha agito da padre”. Visalli uomo generoso. Ogni mattina, quando usciva da casa diceva: “Vado a difendere la patria”. La difendeva in mare. A Lampedusa, aveva salvato migranti; in Sardegna dei bagnanti. “Una figura di uomo esemplare”, ribadisce l’avvocato Sebastiano Campanella, che assiste la famiglia in questa drammatica vicenda. “L’autopsia ha offerto dati importanti, ma siamo ancora all’inizio di un percorso, vogliamo che si faccia piena luce su questa vicenda, soprattutto sulla gestione dell’operazione di salvataggio". La famiglia Visalli punta l’indice contro i superiori del proprio congiunto: “L’hanno mandato a morire – dice il cognato del sottufficiale, Antonio Crea – non erano affatto attrezzati per quel tipo di intervento". Ora, dopo l’autopsia effettuata dal medico legale nominato dalla procura di Barcellona, Elvira Ventura Spagnolo (la famiglia ha nominato come consulente di parte Alessio Asmundo), la salma verrà restituita. I funerali, probabilmente domani, nel duomo di Milazzo.

Da today.it il 15 settembre 2020. Un militare della Guardia di Finanza che lavora alla segreteria di Palazzo Chigi è stato arrestato domenica sera dopo aver preso a calci, pugni e morsi due squadre della polizia perché non voleva consegnare i documenti. La storia, racconta il Messaggero, è cominciata non lontano dal Grande Raccordo Anulare dove il finanziere è stato fermato dopo aver imboccato lo svincolo per la Bufalotta e aver fatto un'inversione a U: quattro agenti della polizia lo hanno fermato e gli hanno chiesto i documenti. La risposta di lui è stata: "Sono un collega, tutto a posto". Ma i poliziotti gli hanno chiesto lo stesso di farsi identificare. E qui scatta la follia: Dopo una serie di battutacce, prende dal portafogli, ma senza consegnarlo, solo il tesserino di servizio: Guardia di finanza. Poi scende dall’auto e scatena il parapiglia. Un agente viene preso a morsi a una mano, uno riceve un calcio, un altro un pugno. «Per contenerlo lo abbiamo dovuto ammanettare», ha raccontato quasi dispiaciuto al giudice un agente di polizia. Ieri il finanziere è stato portato in aula a piazzale Clodio per essere processato. Era in stato d’arresto con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Un arresto convalidato, nonostante la sua estenuante autodifesa. «Non è vero nulla», ha premesso il finanziere. «Sono stato maltrattato. Non avrei mai immaginato. Mi hanno puntato un faro in faccia e provocato, mi hanno detto: tu collega? Al massimo sei un controllore di scontrini». Gli agenti hanno una versione diversa. Secondo loro lui gli avrebbe detto: "Sono un finanziere, siamo colleghi. Non vi basta? Provocate? Sono anche figlio di un alto dirigente. La vostra carriera è finita. Volete finire a Crotone? Volete che vi faccio fuori?". Un agente, in aula, ha riferito di essersi sentito dire pure "Vi ammazzo". La sera stessa, informato dell’accaduto, il pm Carlo Villani ne ha ordinato l’arresto. Il pm d’aula, Donatella Plutino, non ha chiesto per il militare misure cautelari. E il giudice ha disposto l’immediata liberazione.

Da leggo.it l'8 settembre 2020. Ha staccato con un morso il dito di un poliziotto e lo ha ingoiato: non è una scena dall’ultima stagione di Prison Break, ma la realtà avvenuta nel carcere di Rebibbia, dove un agente ha perso un dito dopo l’aggressione da parte di Giuseppe Fanara, boss di Cosa Nostra detenuto da 9 anni al 41 bis dopo una condanna all’ergastolo. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano Il Messaggero, in seguito ad un controllo il boss ergastolano ha perso la testa e ha aggredito sette agenti della polizia penitenziaria: ad avere la peggio è stato uno dei sette, a cui ha staccato con un morso il mignolo della mano destra, che non è stato ritrovato (ipotesi degli inquirenti è appunto che lo abbia inghiottiti). A Fanara è stata notificata una nuova misura cautelare per resistenza, lesioni aggravate e lesioni gravissime. Durante l’aggressione avrebbe anche usato le parole per spaventare le guardie carcerarie: brandendo un manico di scopa, avrebbe urlato «vi sgozzo come maiali». Fanara è stato ora trasferito a Sassari in un carcere di massima sicurezza.

"Vi prego basta, non respiro più": così Willy è stato ucciso di botte da una gang. Il 21enne di origine capoverdiana voleva difendere un amico. La tragedia nella notte di sabato a Colleferro Quattro giovani arrestati, con precedenti e vicini a gruppi di estrema destra. Una testimone: "Come belve". Federica Angeli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. È morto per difendere un suo ex compagno di scuola. È morto massacrato da calci alla testa, ginocchiate allo sterno, pugni ai fianchi. È morto sotto lo sguardo attonito e spaventato di passanti che non si capacitavano di tanta crudeltà e implorando i suoi quattro assassini di smetterla. "Non dimenticherò mai le grida di quel ragazzino - dice con la voce strozzata una donna che abita vicino a dove è accaduta la tragedia - Diceva "basta, vi prego, basta, non respiro più". Povera creatura. Quelli erano dei diavoli, non esseri umani, delle furie. Quando hanno finito di picchiarlo sono scappati su un Suv come niente fosse. Tutto quello che abbiamo potuto fare è stato prendere il numero di targa e chiamare i carabinieri ". La notte di follia che ha portato alla morte di Willy Monteiro Duarte, un ragazzo di 21 anni, è cominciata tra sabato e domenica in via Oberdan, la via della movida di Colleferro, cittadina a un'ora da Roma. Una vicenda terribilmente simile a quella di Emanuele Morganti, massacrato e ucciso dal branco tre anni fa, nella piazza di Alatri. Il ragazzo, di origine capoverdiana e residente nella vicina Paliano, era uscito assieme a quattro suoi amici e aveva trascorso gran parte della serata nel locale "Due di picchi", uno dei tanti sul corso principale di Colleferro, vicino alla piazza centrale. Attorno all'una lui e il resto degli amici hanno lasciato il pub per andare a fare un giro nel paese ma Willy ha notato che un suo ex compagno di classe era in difficoltà. Dall'altro lato della strada stava discutendo animatamente con un coetaneo che lo spingeva e "col volto si avvicinava minaccioso, come se volesse dargli una testata", dice un altro testimone. Willy non ha chiuso gli occhi di fronte a quella scena e senza pensarci su ha attraversato la strada per soccorrere l'ex compagno. Si è messo tra i due, ha allontanato l'aggressore che però ha preso il cellulare e ha avvertito il resto della sua comitiva. In tre minuti un Suv nero è arrivato sgommando, sono scesi in tre, lasciando aperti gli sportelli, e insieme al quarto che era già lì, hanno cominciato ad aggredire il ventunenne e gli altri presenti. Tutti però sono riusciti a scappare, tranne Willy. Che è finito a terra dopo calci allo sterno e al volto: "Sembravano mosse di arti marziali", spiega ancora la donna residente a pochi metri dal luogo dell'omicidio. Il pestaggio si è concluso solo quando Willy ha smesso di respirare. "Quelle persone sono delle bestie perché solo così si possono definire - si sfoga il padre di uno dei ragazzi che era con Willy, riuscito a scampare all'aggressione - Hanno iniziato ad aggredire tutti i presenti. Mio figlio e gli altri sono riusciti a scappare, il povero Willy è rimasto a terra. Lo hanno pestato a sangue, tutti contro uno. Vigliacchi. Mio figlio era molto amico di Willy ed è sotto shock. Quel povero ragazzo è morto perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato", ha concluso l'uomo. Quello che i passanti hanno fatto, paralizzati da tanta violenza e incapaci di intervenire, è stato avvertire le forze dell'ordine, fornendo targa e modello dell'auto. L'intervento dei carabinieri è stato immediato e nel giro di pochi minuti hanno arrestato in flagranza gli assassini ad Artena, paese in cui vivono. Si tratta di Mario Pincarelli 22 anni, Francesco Belleggia di 23, Marco e Gabriele Bianchi rispettivamente di 24 e 26 anni. Tutti hanno precedenti, chi per lesioni e chi per spaccio. Conosciuti ad Artena perché praticanti di sport da combattimento e vicini ad ambienti di estrema destra i quattro erano ancora sporchi del sangue della vittima. L'accusa con cui sono stati arrestati è omicidio preterintenzionale. Il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri, ha dichiarato il lutto cittadino e tutto il mondo politico, da destra a sinistra, ha espresso vicinanza alla famiglia per una tragedia disumana, di cui nessuno si capacita.

La lunghissima agonia di Willy. Cosa è successo in 20 minuti. Un carabiniere fuori servizio è stato l’unico a soccorrerlo. I vicini hanno allertato il 112 dopo mezz’ora. Valentina Dardari, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. I killer hanno ucciso Willy Monteiro Duarte in 20 minuti. Calci e pugni al 21enne solo perchè aveva provato a difendere un amico. Willy è stato massacrato di botte dai suoi aggressori in pieno centro a Colleferro, nella zona a sud della Capitale. Adesso la posizione dei 4 killer arrestati si sta aggravando.

Omicidio volontario. Si tratta di Mario Pincarelli di 22 anni, Francesco Belleggia di anni 23, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni, e di un quinto amico, che per il momento risulta solo indagato. Uno di loro quattro verrà probabilmente accusato di omicidio volontario, e non più preterintenzionale. Ancora però non è stato reso noto il nome del giovane. Il cambio del capo di imputazione sarebbe dovuto al racconto di alcuni testimoni che hanno assistito al massacro. Prima un calcio in pancia, poi un pugno in testa e infine Willy è stato lasciato per terra, esanime. Oggi è previsto l’esame autoptico sul corpo del 21enne e con ogni probabilità andrà a confermare quanto raccontato dai testimoni. I primi esami medici hanno parlato di frattura alla testa ed emorragia all’addome. Toccherà adesso ai carabinieri di Colleferro riuscire a capire cosa abbia davvero scatenato la furia omicida da parte dei quattro killer. Secondo una prima ricostruzione uno dei quattro picchiatori aveva iniziato a litigare con un ragazzo che avrebbe, secondo quanto raccontato da uno degli arrestati, lanciato uno sguardo, o messo un like, di troppo a una ragazza. Willy sarebbe quindi corso in aiuto dell’amico e il branco avrebbe cominciato a picchiarlo violentemente, fino a ucciderlo.

La ricostruzione. Nuovi dettagli contenuti in sei verbali si aggiungono alla ricostruzione di quanto accaduto. La tragedia sarebbe avvenuta verso le due e un quarto all’esterno di una pizzeria in largo Santa Caterina. La lite, scoppiata all’interno del locale, sarebbe poi degenerata in un giardino pubblico di fronte al ristorante. Secondo quanto ricostruito, Willy e alcuni amici sarebbero usciti dalla pizzeria alle 2.40, per raggiungere la vettura parcheggiata vicino al parco. Il 21enne si sarebbe quindi accorto della rissa e del suo ex compagno di scuola aggredito da quattro ragazzi. Il 21enne decide allora di correre in soccorso dell’amico, mettendosi tra lui e il Pincarelli. A quel punto torna anche Belleggia che si era allontanato per chiamare i fratelli Bianchi, e inizia la rissa. Le luci del giardino vengono disattivate, come scoperto in seguito dal giardiniere, e le telecamere di sicurezza presenti non riescono così a riprendere chiaramente quanto avviene nel parchetto. All’arrivo dei due fratelli la situazione va peggiorando: iniziano a picchiare forsennatamente chiunque, anche Willy, forse credendolo parte del gruppo preso di mira inizialmente. Due giovani riescono a scappare, un terzo viene invece raggiunto da un pugno in pieno volto. Un altro scappa e si nasconde dietro un’automobile. Willy resta solo contro i quattro palestrati e dopo venti minuti di calci e pugni soccombe. Anche una volta stramazzato sull’asfalto i suoi aggressori continuano a colpire duro.

I soccorsi allertati dopo mezz'ora. Sono ormai le tre del mattino quando la moglie del comandante della stazione di Colleferro sente le grida e provenienti dal parco, poco lontano dal suo alloggio. La donna sveglia il marito che corre in strada. "Quando sono arrivato giù quel ragazzo era già a terra, ferito, ma ancora cosciente. Gli ho accarezzato il volto e gli ho detto di stare tranquillo perché i soccorsi sarebbero arrivati presto. Poi ho fatto qualche domanda ai presenti, che mi hanno mostrato una foto degli aggressori, dato modello e targa del Suv. Ho capito da subito chi si trattava, ho chiamato i soccorsi e diramato le informazioni alle pattuglie di zona" ha poi raccontato il comandante. Gli inquirenti hanno rivelato che il militare è riuscito a gestire tutto da solo, anche perché le altre persone presenti erano come immobilizzate, solo dopo mezz’ora sono riuscite ad allertare i soccorsi e il 112. Dopo neanche due ore il gruppo viene fermato in un altro locale, di proprietà della famiglia Bianchi, ad Artena. Hanno anche avuto il tempo di postare dei video-umoristici su Facebook. I quattro, più un loro amico indagato, vengono quindi trasferiti in caserma, raggiunti poi dai loro genitori.

Omicidio Willy, il carabiniere: “Gli ho detto che sarebbe andata bene”. Notizie.it l'08/09/2020. Omicidio Willy, il racconto delle ultime ore del ragazzo fornito dal carabiniere che lo ha soccorso. Il maresciallo maggiore dei carabinieri, Antonio Carella, comandante della stazione di Colleferro, è stato il primo a soccorrere Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni massacrato di botte e vittima dell’omicidio messo in atto da un gruppo di delinquenti della zona. “Ho stretto la mano a quel ragazzo che era a terra e gli ho fatto una carezza. Gli ho detto che sarebbe andato tutto bene e che i soccorsi sarebbero arrivati presto”. Il racconto è affidato al capitano Ettore Pagnano che comanda la compagnia di Colleferro e che domenica ha interrotto le sue ferie per rientrare d’urgenza a coordinare al meglio le indagini sulla terribile tragedia. “È stato lui (Carella, ndr.) il primo a intervenire, ed è stato lui a far partire tutte le indagini e a consentire l’arresto in flagranza dei quattro”, spiega il capitano Pagnano. Le chiamate al 112, infatti, sono arrivate soltanto molto dopo e per sollecitare l’intervento dei soccorsi. “Ero nel mio alloggio di servizio, vicino al luogo in cui è avvenuto il fatto – racconta il maresciallo maggiore Carella – ho sentito delle grida, urla, molto chiasso. Mi sono alzato immediatamente e mi sono infilato la prima cosa che ho trovato. Sono quindi sceso in strada e ho trovato Willy Monteiro Duarte steso per strada, visibilmente ferito ma ancora cosciente. Con una mano ho cercato di dargli conforto e rassicurarlo, con l’altra ho chiamato in caserma per farmi dare supporto di uomini e immediatamente ho richiesto l’intervento del 118. I quattro ragazzi di Artena erano già fuggiti sul Suv, ma attorno al ventunenne ferito si era formato un capannello di persone”. “Ho iniziato a interrogare le persone presenti – ha aggiunto il maresciallo – ragazzi amici del giovane steso a terra ed esercenti della zona e ho chiesto chi e cosa avessero visto. Due di loro mi hanno dato indicazioni precise sul modello dell’auto e sulla targa. Ho capito subito quindi di chi si trattava. Ho diramato modello e targa alla centrale e detto di spostarsi subito a cercare ad Artena perché ero quasi certo che si trattasse proprio di loro”. I quattro erano già noti alle forze dell’ordine per aver creato risse e problemi a Colleferro. “Quando è arrivata l’ambulanza a lo hanno caricato sulla lettiga lo vedevo spento – ha concluso il maresciallo Carella – Prima che i portelloni si richiudessero ho visto il medico che tentava di rianimare il ragazzo facendogli un massaggio cardiaco. È l’ultima immagine di Willy che ho”.

Willy Monteiro, il maresciallo che l'ha soccorso: "Tra le scene più cruente che abbia mai visto". Libero Quotidiano il 10 settembre 2020. Non ha mai visto niente di simile Antonio Carella, il maresciallo tra i primi a soccorrere Willy Monteiro. "Una scena disperata, tra le più cruente della mia carriera”, ha ammesso amareggiato al Corriere della Sera, descrivendo quanto accaduto nella notte tra sabato e domenica a Colleferro, Roma. Il tutto è iniziato alle 3,30 quando alcune grida, diverse dal frastuono ordinario, salgono fino all’alloggio di servizio del caporale. Pochi minuti e il carabiniere, 53 anni, è in strada, davanti all’aiuola che si affaccia in largo Santa Caterina. Qui l'uomo vede una decina di ragazzi attorno a Willy, già riverso a terra. Un giovane prova a farlo respirare estraendogli la lingua dalla bocca. Ma nulla, Willy non reagisce. Nel frattempo Carella chiama i soccorsi e i colleghi: “Non ho mai perso il contatto con i ragazzi che si erano radunati attorno a Willy”, ma - spiega - c'era un'auto che “a palla”, si è fatta largo nel centro di Colleferro. Così il carabiniere intuisce che il Suv c'entra qualcosa e che bisogna cercarlo al più presto. Un ragazzo del luogo è addirittura riuscito a fotografare la macchina dalla quale sono scesi i fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, entrambi in arresto. "Sono rimasto accanto a Willy tutto il tempo necessario finché non lo hanno portato via. Ero in pena per lui come fosse un figlio, invitandolo a resistere, a tenere duro”. Purtroppo non è bastato.

"Così ho soccorso Willy, una scena disperata". Il racconto del maresciallo dei carabinieri che per primo ha soccorso Willy: "Gli ho stretto la mano...ero in pena come per un figlio". Martina Piumatti, giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Le chiamate al 112 sono arrivate molto dopo. Il primo a soccorrere Willy Monteiro Duarte è stato il maresciallo Antonio Carella. Alle 3,30 di domenica il carabiniere, 53 anni, stava dormendo nell'alloggio di servizio, quando delle grida diverse dal soliti schiamazzi dei fine settimana lo svegliano. Carella si alza subito, indossa la prima cosa che trova e in pochi minuti è in strada, davanti all'aiuola in largo Santa Caterina a Colleferro. Una decina di persone si muovono attorno a un ragazzo steso in terra, ormai quasi incapace di respirare. Si tratta di Willy Monteiro Duarte. Il ventunenne era già stato aiutato da Marco Romagnoli, un giovane di Colleferro che, per farlo respirare, ha tentato di estrargli la lingua dalla bocca, schiaffeggiandolo sul viso per capire se fosse cosciente. Ma niente, nessuna reazione. Il maresciallo descrive la scena come "disperata, tra le più cruente dei tanti anni passati in servizio". Antonio Carella con una mano cerca di rassicurare Willy: "Ho stretto la mano a quel ragazzo che era a terra e gli ho fatto una carezza. Gli ho detto che sarebbe andato tutto bene e che i soccorsi sarebbero arrivati presto". Con l’altra chiama in caserma per chiedere un supporto di uomini e l’intervento del 118. Nel frattempo mette in moto le indagini che poi permetteranno l'arresto in flagranza dei quattro ragazzi di Artena. Subito interroga il gruppetto di persone radunate intorno a Willy. Alcuni parlano di un'auto che, carica "a palla", s' è fatta largo nel centro di Colleferro. Due amici del giovane steso a terra però forniscono indicazioni precise su modello e targa dell'auto. Un ragazzo, Matteo Larocca, è riuscito, con il proprio cellulare, a scattare una foto di un suv Audi, dal quale sono scesi i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. "Ho capito subito di chi si trattava. Ho diramato modello e targa al capitano Ettore Pagano e detto di spostarsi subito a cercare ad Artena perché ero quasi certo che si trattasse proprio di loro”. I quattro erano già noti alle forze dell’ordine per aver creato risse e problemi a Colleferro. Il Suv risulta infatti intestato alla compagna di Alessandro Bianchi, fratello di Marco e Gabriele. Nel frattempo è arrivata l'ambulanza e Carella aiuta i paramedici: "Sono rimasto accanto a Willy tutto il tempo necessario finché non lo hanno portato via. Ero in pena per lui come fosse un figlio. Prima che i portelloni si richiudessero ho visto il medico che tentava di rianimare il ragazzo facendogli un massaggio cardiaco. È l’ultima immagine che ho di Willy", racconta. Sono passate le quattro. Carella e i suoi colleghi si presentano al Night Bistrot di Artena, il bar di proprietà dei fratelli Bianchi. I ragazzi sono lì e in totale sono cinque mentre i carabinieri sono in tre. Ed è lì che il maresciallo ha l'intuizione decisiva. "Decido di dirgli che siamo lì per controlli all'auto, un modo laterale per affrontarli evitando di spaventarli troppo e scongiurando una possibile reazione", spiega. Quelli pensano di aver esagerato con la velocità e intanto si tranquillizzano. Ed è allora che Carella li informa: "Willy Monteiro Duarte è morto".

L'omicidio di Colleferro, la disperazione della madre di Willy: "Il mio piccolo gigante voleva fare il cuoco". Il ragazzo era una promessa del calcio. "Il suo sogno era giocare con la Roma". Lo strazio della donna: "Era tanto buono, non meritava di morire così". Federica Angeli e Clemente Pistilli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. "Era uscito per passare una serata con i suoi amici, quelli con cui è cresciuto, quelli che conosce da una vita, e non è più tornato. Non meritava di morire così mio figlio. Il mio piccolo era tanto buono". La madre di Willy è spenta, svuotata, la voce le esce appena. Abbraccia il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri, che è andato a trovare lei, il marito e la sorella del giovane 21enne ucciso dalla violenza del branco. La coppia, insieme alla figlia di 19 anni e alla sorella della madre, lo accoglie nel salone della casa in campagna in cui abitano. "Non mi capacito, mio figlio non meritava questa fine. Il suo sogno era fare il cuoco, per questo aveva fatto l'alberghiero e attualmente lavorava all'hotel degli Amici di Artena ". "Ci hanno avvertito alle 7 del mattino - dice ancora la donna straziata dal dolore - e quando è squillato il telefono ho pensato che Willy avesse avuto un incidente con la macchina. I carabinieri ci hanno detto di andare in caserma perché era successo qualcosa a mio figlio. Una volta lì, ci hanno portato in ospedale dove ci hanno dato la terribile notizia. Ci hanno portato da lui. Era steso su un lettino ed era morto". Al sindaco Alfieri, che al giovane ha dedicato un lungo post su Fb, si inumidiscono gli occhi. E mentre il papà e la mamma del ragazzo lo ringraziano, lui vorrebbe trovare le parole giuste per confortare quel dolore sconfinato. "Sono una coppia di capoverdiani molto umile e perbene - dice il primo cittadino - Si è trasferita molti anni fa a Paliano ed è impegnata in una locale azienda agricola. Willy e la sorella sono nati e cresciuti qui e lui ha giocato nella locale squadra di calcio e aveva anche partecipato alla sfilata in abiti storici per la rievocazione del Palio". Il suo sogno era anche quello di indossare la maglia giallorossa, Willy infatti era un grande tifoso della Roma e giocava a pallone: era una promessa della squadra locale di Paliano. I compagni della società sportiva del paese non si danno pace. "Willy Monteiro Duarte era l'anima della squadra, l'allegria e l'adrenalina di tutti nei momenti di sconforto".

Il dolore della madre di Willy e l’indignazione della politica: «Ora pene esemplari». Il Dubbio l'8 Settembre 2020. Il secondo giorno è quello dell’indignazione e del dolore. Soprattutto il dolore della madre, la madre di Willy Montero, il ragazzo pestato e ucciso sabato notte a Colleferro. Il secondo giorno è quello dell’indignazione e del dolore. Soprattutto il dolore della madre, la madre di Willy Montero, il ragazzo pestato e ucciso sabato notte a Colleferro: «Era uscito per passare una serata con i suoi amici, quelli con cui è cresciuto, quelli che conosce da una vita, e non è più tornato. Non meritava di morire così mio figlio. Il mio piccolo era tanto buono», racconta la donna sostenuta a fatica dal sindaco di Paliano. «Non mi capacito, mio figlio non meritava questa fine. Il suo sogno era fare il cuoco, per questo aveva fatto l’alberghiero e attualmente lavorava all’hotel degli Amici di Artena .Ci hanno avvertito alle 7 del mattino – racconta – e quando è squillato il telefono ho pensato che Willy avesse avuto un incidente con la macchina. I carabinieri ci hanno detto di andare in caserma perché era successo qualcosa a mio figlio. Una volta lì, ci hanno portato in ospedale dove ci hanno dato la terribile notizia. Ci hanno portato da lui. Era steso su un lettino ed era morto». L’indignazione, invece, arriva dalla politica che, a gran voce, ha iniziato fin da ieri il carosello delle dichiarazioni, tutte contrassegnate dalla stessa parola d’ordine: «Pene esemplari». Da leader leghista Matteo Salvini a quello dei 5Stelle Luigi di Maio, il refrain è grosso modo lo stesso: «Una preghiera per lui e un abbraccio commosso alla sua famiglia e ai suoi amici – scrive Salvini Tutta la comunità di Colleferro e l’Italia intera chiedono pene esemplari per i maledetti assassini». Al quale fa eco Di Maio: «Non si può morire così. A 21 anni, ucciso da un branco di delinquenti, pestato a calci e pugni. Non è possibile. Willy merita giustizia e chi lo ha ucciso deve pagare una pena esemplare». E in tutta la vicenda c’è anche spazio per un finale grottesco: Gabriele Bianchi, uno dei quattro aggressori di Willy, poco dopo il pestaggio letale, aveva pubblicato video umoristici sulla sua pagina Facebook. L’indiscrezione è trapelata in ambienti investigativi ma trova conferma dall’orario vergato sul post della pagina social dello stesso Bianchi. E basta leggere i commenti che accompagnano questi post per capire quanto la notizia della morte di Willy abbia provocato una generale indignazione. Decine i messaggi di insulto rivolti ai quattro aggressori ed ai loro familiari. Marco e Gabriele Bianchi hanno un terzo fratello, Alessandro, che oggi attraverso i microfoni ha cercato di prendere le distanze esprimendo parole durissime nei confronti dei propri congiunti. Ma ciò non gli ha evitato le risposte di fuoco del popolo di Facebook: “Fai attenzione a chi frequenti, soprattutto perchè hai una figlia”, si legge in un post. Un messaggio inquietante che si va ad unire ad un altro dove i due fratelli arrestati sono assieme alla madre. Una foto ricordo di qualche anno fa sotto la quale non sono mancati commenti di offesa e minaccia. I quattro arrestati sono rinchiusi nel carcere di Rebibbia e seppur in isolamento vengono guardati a vista.

 Omicidio Colleferro, il padre di Pincarelli: "Mario ha preso le parti di Belleggia, che poi ha cantato". La difesa del figlio: "È in carcere perché ha aiutato gli amici. I Bianchi sono bravi ragazzi, mi chiamano zio". "Dalla morte di Willy mia moglie entra ed esce dall'ospedale, è come se avessero ammazzato il suo di ragazzo". Paolo G. Brera La Repubblica il 10 settembre 2020. Stefano Pincarelli sale i trenta metri del vialetto interno della casa di famiglia a Artena alta con un diavolo per capello: "Via, andatevene, state scrivendo un sacco di stupidaggini", urla minaccioso. Suo figlio Mario è uno degli arrestati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte. Ci vuole un po' per trovare la calma, e a quel punto è il lungo racconto di un padre disperato "La colpa è del ragazzo che ha chiamato i Bianchi, la lite era finita lì", dice. Camicia aperta sul petto, sulla mano il tatuaggio a cinque puntini di chi ha avuto pregressi con la legge e vuole farlo sapere: "Mario è intervenuto per difendere Belleggia. Forse aveva bevuto, ma non è certo Totò Riina", dice. A farlo infuriare è innanzi tutto una considerazione: "Ci sono liti tutte le sere sotto la caserma dei Carabinieri. Come mai non sono intervenuti prima?". Quella sera, racconta, "è tornato a casa alle 4.30 e mi ha detto solo questo: dì a mamma che vado a dormire con delle mie amiche, invece è andato a costituirsi". È convinto che il pestaggio sia l'effetto dell'alcol. "Danno tutti la colpa ai Bianchi, ma anche loro sono bravissimi ragazzi. Purtroppo è successo perché la sera bevono, una cosa e l'altra... Mi dispiace anche per i Bianchi, sì: sono bravi ragazzi, li ho visti crescere, sono stato con loro anche qualche giorno fa non posso dire niente di malamente riguardo a loro". Ma se c'è una cosa che ora li sta distruggendo, dice, non sono tanto i guai di Mario: "Quel ragazzo, Willy, è mio figlio. Da quando ha saputo, mia moglie sta con gli occhi fissi aperti e non parla più. È venuta tre volte l'ambulanza. La ricoverano di continuo. Ci dispiace più per quel ragazzo morto che per il figlio che sta in galera". Non hanno avuto una vita facile, i Pincarelli. "Noi siamo otto fratelli, in tre viviamo qui con le nostre famiglie. Io faccio il posatore, il piastrellista nei cantieri. Ma è un lavoro saltuario perché i cantieri sono sempre meno. Mia moglie non lavora e non sta bene, per fortuna Mario ci dava una mano. Mio figlio non è un santo, è un ragazzo irrequieto, esce e beve tutte le sere ma al lavoro è il numero uno". Se qualche volta fa a botte, sostiene suo padre, "è sempre per difendere gli amici deboli. È uno che non ha paura di niente e deve prendere le parti degli amici, la mamma gli diceva sempre 'mi raccomando!' ma sa come sono i ragazzi, quando escono non sappiamo mica cosa fanno". La politica? "Non sa nemmeno cosa sia. Non gli interessa, come non gli interessa lo sport: per lui esistono solo le ragazze. Qualcuno in giro dice che sia un attaccabrighe, lo so, ma in realtà è solo un ragazzo affettuoso che difende gli amici. Certo che se gli pesti un piede si fa rispettare". C'è stato un precedente che ha indignato: il 21 agosto Mario ha aggredito un vigile che gli intimava di indossare la mascherina. "Non è vero, non è andata così. Il vigile stava litigando con un suo amico e lui è intervenuto. Si è messo in mezzo e gli ha detto lasciate perdere, arrivano le guardie e succede un casino. Invece il vigile gli si è avvicinato urlandogli a un centimetro dal naso, Mario si è girato con la mano alzata per dire vaff... e quello gli ha tirato un calcio nel sedere e c'è stato un po' di caos. Controllate se non è andata così!". Non è facile difendere un figlio che ha sulle spalle un'accusa così pesante. Stefano, 57 anni, lo sa ma non si tira indietro. "Non sono uno a cui piace comparire, non fatemi fotografie. Ma stiamo malissimo, chi ha figli ci potrà capire. Io in passato ho fatto qualche guaio, sono stato in carcere, ma poi ho messo su famiglia, sono diventato una persona come tutte le altre: nessun genitore addestra i figli a comportarsi come hanno fatto mio figlio e i suoi amici, tutte le sere gli fai raccomandazioni ma purtroppo poi succedono "ste cose... Lo abbiamo mandato a scuola, per tre anni ha fatto la professionale poi ha detto 'lasciamo perdere, non sono fatto per studiare". Ma da allora ha sempre lavorato. È bravissimo, gli stavano per rinnovare il contratto". Ma l'accusa è pesante: "Hanno detto che Mario è saltato sopra il corpo di Willy, ma sono sicuro che non è così. Per fortuna ci sono testimoni che dicono le cose come stanno. Certo non sono troppo ottimista: è indagato per un reato pesante, mi sa che alla fine dieci anni se li fa... Magari gli danno il "concorso", ma 4 o 5 anni mi sa che se li fa. Un po' di galera gli farà bene, comunque, magari si raddrizza. È un bel ragazzo, ha parecchie ragazze...". Di quella sera emergeranno i dettagli e le responsabilità individuali, ma l'unica cosa certa è l'epilogo: è morto un ragazzo e "Mario si è rovinato: quando è cominciata quella rissa lui ha preso le parti di quel Belleggia, quello che ha cantato... Sono tutti responsabili, ma quel cretino che ha chiesto aiuto ai fratelli Bianchi...".

Omicidio Colleferro, la sorella di Willy: "Il cellulare squillava a vuoto l’ho chiamato mentre moriva". Il racconto di Milena: "Sabato notte Willy, come faceva sempre, appena uscito dal lavoro nell'hotel di Artena è venuto a casa. Si è fatto la doccia, si è cambiato e poi è uscito con gli amici. M'è passato vicino e mi ha dato un bacetto, lo faceva sempre. Ed è andato via". Federica Angeli su La Repubblica l'11 settembre 2020. "Sabato notte Willy, come faceva sempre, appena uscito dal lavoro nell'hotel di Artena è venuto a casa. Si è fatto la doccia, si è cambiato e poi è uscito con gli amici, ragazzi di qui, di Paliano, che conosce da una vita. Saranno state le undici e mezza, m'è passato vicino e mi ha dato un bacetto, lo faceva sempre. Ed è andato via". Milena, 19 anni, due in meno di Willy Montero Duarte, stringe forte a sé la maglia con gli autografi dei giocatori della Roma che due giorni fa la squadra le ha consegnato. "Mio fratello sarebbe impazzito per questa". Al campo del Frosinone, dove mercoledì è avvenuta la consegna della maglietta, è il sindaco di Colleferro, Pierluigi Sanna, ad accompagnarla. Ed è al primo cittadino del comune in cui il 21enne è stato ucciso che Milena confida la sua disperazione e racconta la notte della tragedia. "Io e mio fratello siamo sempre stati molto uniti, ci sono solo due anni di differenza tra me e lui. E da quando siamo piccoli, visto che i nostri genitori hanno sempre lavorato, eravamo sempre fissi insieme. Io e lui". Milena parla con una voce sottile, dolce. Mentre sfila per le strade di Paliano durante la fiaccolata organizzata in onore del fratello lei e la sua famiglia non mostrano il dolore che li sta divorando. "Willy era un ragazzo preciso - dice Milena al sindaco e al parroco - Non ha mai dato problemi alla famiglia e, quando usciva, tornava sempre per le due e mezza al massimo. Sabato mi sono accorta che a quell'ora non era ancora rientrato. Non era nel suo letto e mi sono cominciata ad agitare. Non so neanche io perché, era comunque sabato e ci stava che tardasse. Anche se, dovendosi alzare la mattina per andare a lavorare, non sgarrava quasi mai. Ho resistito un po' rigirandomi nel letto e poi sono andata dai miei genitori e lo abbiamo chiamato. Credo che saranno state le tre. Il telefono squillava, Willy non rispondeva".

Non poteva farlo. Erano proprio i minuti in cui i quattro ragazzi di Artena, secondo la ricostruzione della procura di Velletri, lo stavano massacrando di botte. Fino ad ucciderlo. Milena, che lo scorso anno ha terminato gli studi all'istituto turistico, sogna di lavorare in una struttura alberghiera, alla "ricezione dei clienti". Il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri, e quello di Colleferro si sono impegnati ad aiutarla. Domani alle 10, al campo sportivo comunale di Paliano, ci saranno i funerali. Il padre ha una richiesta per chi parteciperà: "Indossate una maglietta bianca per l'ultimo saluto a Willy". "Una maglia o una camicia bianca, come simbolo di purezza e gioventù", ha sottolineato il sindaco Alfieri. Che ha aggiunto: "Nel rispetto del volere della famiglia di Willy, sarà vietato l'ingresso alle telecamere e ogni tipo di ripresa, anche attraverso smartphone, tablet e dispositivi simili". La cerimonia sarà esclusivamente un momento di raccoglimento, riflessione e preghiera comune. "Perché i genitori e la sorella di Willy non vogliono vendetta, ma giustizia".

 “Voleva difendermi poi un calcio l’ha steso e l’ho visto morire”. Parla Federico, 21 anni, il compagno di scuola di Willy Monteiro. Clemente Pistilli il 7 settembre 2020 su La Repubblica. "Si è messo tra me e loro. Mi stavano picchiando quando ho visto Willy. Ha cercato di mettere pace. Ma hanno iniziato a picchiarlo in quattro". Il racconto di Federico Zurma, 21 anni, il compagno di scuola della vittima, il giovane per cui il 21enne di Paliano all’alba di domenica si è sacrificato, comincia così. E’ sotto shock quando, all’alba di domenica, racconta come ha visto morire l’amico ai carabinieri di Colleferro....

Willy Monteiro, parla l’amico: “Volevano uccidere me, mi ha salvato”. Notizie.it l'08/09/2020. Era lui l'obiettivo del gruppo e l'amico Willy Monteiro ha dato la sua vita per salvarlo: parla Federico, ancora scosso per quanto accaduto. Federico Zurma, il ragazzo di ventun’anni che Willy Monteiro, da amico, ha cercato di difendere salvo poi essere ucciso a botte, ha raccontato che quella notte gli aggressori, ora arrestati e in carcere a Rebibbia, lo avevano preso di mira ed era lui l’obiettivo dei loro colpi. Contattato su Messenger dal Corriere della Sera, Federico ha ammesso di ripensare continuamente a quella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre, pur sforzandosi di non farlo. Ha raccontato che Willy è intervenuto in sua difesa quando l’ha visto in difficoltà con i fratelli Bianchi ma che, essendo un ragazzo equilibrato, “non avrebbe mai preso un’iniziativa che non fosse stata pacifica per riportare gli animi alla calma“. Pur non volendo ripercorrere quello che è successo, ha affermato che “Willy si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato“. Sa che sicuramente la sua vita non sarà come prima, ma sta lavorando per “andare avanti in qualche modo“. Come l’amico che è morto per difenderlo ha infatti progetti per il futuro tanto che, alunno dell’alberghiero di Fiuggi, sta svolgendo un corso per chef. E anche durante l’intervista ha sottolineato più volte il suo impegno e la sua determinazione. Sotto shock anche un altro amico di Willy, anch’egli presente durante i fatti, che ha raccontato di aver visto il ragazzo morire davanti ai suoi occhi. “Non potrò mai togliermi la scena dalla testa“, ha detto Lorenzo, che da due giorni non riesce a dormire né a dimenticare quegli attimi. “Eravamo molto amici, l’ho visto che non respirava più“, ha ribadito in lacrime.

Colleferro, il racconto del papà di uno degli amici di Willy: “È stato tremendo, ora i ragazzi sono sotto chock”. Redazione su Il Riformista il 7 Settembre 2020. “Sto tornando adesso dall’Ospedale, Willy purtroppo non c’è più”. È il papà di uno degli amici di Willy Monteiro Duarte a raccontare in un audio messaggio su Whatsapp agli altri genitori cosa è successo a Colleferro durante la drammatica notte in cui il 21enne di origini capoverdiane ha perso la vita. “Stanotte davanti al “Due di Picche” il locale di Colleferro, c’erano tanti ragazzi tra cui anche mio figlio che era andato lì con gli amici a bere qualcosa come al solito – racconta –  Mentre stavano tornando a casa, mio figlio, Willy e altri due ragazzi che avevano la macchina parcheggiata vicino piazza Italia si sono allontanati. Mentre prendevano l’auto hanno sentito le voci di qualcuno che stava discutendo. Siccome Willy conosceva uno dei ragazzi coinvolti nella discussione , si è avvicinato al gruppo per dire ‘fermatevi, non fate a botte’”. L’uomo conosce bene Willy: “È il ragazzo più buono in assoluto che c’è – dice –  Vi dico solo che quando si tratta di andare a qualche festa, in discoteca, è lui che porta la macchina: non beve, non fuma, non fa nulla di sbagliato, o meglio non faceva. Mio figlio mi ha raccontato che mentre andava a prendere la macchina questi quattro energumeni di Artena, quattro bestie, sono scesi dall’auto e hanno iniziato a tirare botte a tutti. Due degli amici di Willy sono riusciti a scappare, mentre lui non è riuscito. È rimasto lì e l’hanno gonfiato di botte, gli hanno fatto di tutto e di più”. “Probabilmente uno dei colpi è stato letale alla testa e ha causato l’emorragia celebrale – continua nel vocale –  Poi gli aggressori sono scappati via e altri ragazzi sono riusciti a prendere la targa. Stesso durante la notte sono stati denunciati. Ma Willy è rimasto per terra inerme. L’ambulanza ci ha messo più di mezz’ora per arrivare, ma comunque quando sono arrivati già era morto. Gli hanno fatto anche il massaggio cardiaco, poi lo hanno portato dentro al pronto soccorso”. Il papà non riesce a trattenere le lacrime mentre racconta quanto accaduto: “Stamattina alle 7 ci hanno detto che Willy era morto – dice a fatica – Questa è la storia. Adesso i ragazzi sono sotto chock. Adesso devo stare vicino a mio figlio”.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte, lo sfogo del ristoratore: "Lui è stato più coraggioso di me". Il post di Stefano Sorci, gestore di Macellerie Sociali, sta facendo il giro dei social: "Come cani che marcano il territorio. Ho avuto paura e mi sono tranquillizzato solo a casa. La colpa è delle istituzioni, della scuola, dei genitori. Non impariamo mai". La Repubblica il 10 settembre 2020. "I ragazzi alla ribalta delle cronache sono stati anche da me. Era una sera d'inizio estate. Hanno bevuto, hanno fatto casino, hanno brindato, hanno ruttato e sono ripartiti sgommando col suv, come cani che hanno appena pisciato su un territorio nuovo e se ne vanno soddisfatti. Ho chiuso a chiave e mi sono diretto a casa, ho iniziato a tranquillizzarmi soltanto lì". A scrivere su Facebook è Stefano Sorci, gestore di Macellerie Sociali, pub che si trova a Giulianello, una frazione di Cori, poco distante da Artena. Stefano non chiama per nome quei "ragazzi", ma il pensiero va immediatamente agli indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne pestato a morte a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre. "È stata una mezz'ora, sul tardi, e non è successo nulla di particolare - premette Sorci nel suo post - eppure, tutti i presenti, quella mezz'ora se la ricordano bene. Anzi, ne ricordano bene i primi dieci minuti, quelli sufficienti a fargli passare la voglia di restare. Eravamo seduti tutti fuori, e ci siamo girati improvvisamente a guardare il suv che sbucava dall'arco a tutta velocità per poi inchiodare a due metri dai tavolini. Sono scesi in cinque col classico atteggiamento spavaldo di chi a 25 anni gira col suv, in gruppo, coi capelli tinti, le catene al collo, i vestiti firmati, i bicipiti tirati a lucido e le sopracciglia appena disegnate". Continua il racconto: "È calato subito il silenzio, sono stato costretto ad alzarmi quando ho sentito un poco promettente 'chi e' che comanda qua dentro?', detto dal primo che si era affacciato sulla porta. Sono andato verso il bancone senza neanche rispondere, mentre loro mi seguivano dicendo 'ah, ecco, comanda lui, è questo qua'. Poi è iniziato il giro di strette di mano, di quelli 'ci tengo a dirti chi sono e devo capire chi sei tu'. Hanno iniziato a fare mille domande, prima sugli orari di apertura di tutti i locali del paese, poi sulle birre, sul modo in cui si lavano i bicchieri, sulla quantità della schiuma. C'era un'atmosfera pesantissima, era una conversazione di quelle finte che girano intorno a qualcosa. Sembrava un film di Tarantino ed io mi sentivo come Brett che spiega a Samuel L. Jackson la provenienza del suo hamburger, prima di sentirsi recitare Ezechiele a memoria". Nel pub cala un clima pesantissimo: "Ho visto con la coda dell'occhio tutti i tavoli fuori svuotarsi, le persone buttare un occhio dentro e andar via, e, mentre cercavo di rispondere alle domande, loro hanno iniziato a fare una gara di rutti sopra la mia voce a cui non ho reagito in nessun modo. Non contenti del mio restare impassibile, hanno proseguito la provocazione iniziando a rimproverarsi a vicenda: "Non si fa così, non ci facciamo riconoscere, se ruttiamo poi sembra che manchiamo di rispetto a lui che comanda! Dobbiamo chiedere scusa!". Ho servito le birre come nulla fosse e ricordo bene l'espressione di quello che ha messo mano al portafogli e mi ha chiesto 'quant'è", senza il punto di domanda e senza guardarmi. La stessa espressione che rivedo in ogni post di questi giorni". Il racconto del titolare del pub lascia spazio all'amarezza e al ricordo del coraggio di Willy, picchiato a morte per aver difeso un amico: "Ho pensato con rabbia alla mia vigliaccheria, al mio non aver proferito parola, al mio averli serviti con educazione mentre mi mancavano palesemente di rispetto in casa mia e anche al fatto che avevano la metà dei miei anni. Ho pensato che avevo soltanto chinato il capo davanti alla prepotenza. Poi ho sperato di non vederli più, perché se fossero tornati non avrei sicuramente reagito neanche la seconda volta e ho pensato che avevo avuto paura. Semplicemente. Tristemente. Oggi, ripensandoci alla luce dei fatti recenti, forse non me ne vergogno più, provo solo una stima enorme per Willy e per la sua sterminata mole di coraggio racchiusa in uno scricciolo d'uomo. E so che non c'entrano Gomorra, Tarantino, Romanzo Criminale, non c'entrano Internet, la trap o le arti marziali, così come ai tempi miei non c'entravano Dylan Dog, il rap, le sale giochi. C'entrano le istituzioni, c'entrano i genitori, c'entra la scuola. La storia è sempre la stessa, ma non la studiamo mai. Il resto sono stronzate, e cercare dei colpevoli ci alleggerisce sempre".

Quel video shock dei picchiatori dopo aver pestato a morte Willy. L’agghiacciante indiscrezione, filtrata dagli ambienti investigativi, trova conferma dagli orari dei post inseriti sui social da Gabriele Bianchi, uno dei due fratelli accusati di omicidio preterintenzionale. Ignazio Riccio, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Uno dei quattro aggressori di Willy Monteiro, il giovane cuoco di origini capoverdiane ucciso a calci e pugni per aver difeso un amico a Colleferro, nella zona a sud di Roma, dopo la brutale aggressione ha impiegato il proprio tempo a pubblicare video umoristici sul suo profilo Facebook, senza mostrare preoccupazione o rimorso per ciò che era accaduto.

Ucciso di botte perché difendeva un amico. L’agghiacciante indiscrezione, filtrata dagli ambienti investigativi, trova conferma dagli orari dei post inseriti sui social da Gabriele Bianchi, uno dei due fratelli accusati di omicidio preterintenzionale in concorso, insieme ad altre due persone. La pagina di Bianchi è stata presa d’assalto dagli internauti, che hanno vomitato addosso al ragazzo insulti molto pesanti e minacce dirette. Ad essere coinvolto nella reazione indignata del popolo di Facebook anche il terzo fratello Bianchi, Alessandro, che non c’entra nulla con l’episodio di violenza e che, anzi, ha cercato di prendere le distanze dai propri congiunti, usando parole molto dure. Nonostante ciò, anche lui è stato subissato di offese e intimidazioni davvero molto forti. "Fai attenzione a chi frequenti, soprattutto perché hai una figlia", si legge in un commento ad un post. Intanto, i quattro arrestati sono rinchiusi nel carcere di Rebibbia e seppur in isolamento vengono guardati a vista. Gli aggressori, trovati in piena notte mentre bevevano birra in un pub all’Artena, hanno tutti tra i 22 e i 26 anni e precedenti penali per lesioni e droga. I riflettori nel piccolo centro romano sono puntati, in particolare, sui fratelli Bianchi, che sarebbero definiti a Colleferro “picchiatori professionisti”. I due ragazzi, infatti, praticano la Mixed Martial Arts, uno sport estremo che fonde la boxe con le arti marziali. Le foto che circolano sui social, a torso nudo, confermano la loro passione.

I nuovi barbari. Per gli investigatori si tratta di giovani che sarebbero abituati a vivere la loro vita senza seguire alcuna regola, mossi solamente dal culto della violenza. La loro sfrontatezza sarebbe confermata anche dall’atteggiamento tenuto nel corso dell’interrogatorio: nessuna giustificazione, nessun pentimento, i giudici si sono trovati di fronte ad un muro impermeabile, fatto di silenzio e di sfida alle istituzioni. Nella periferia sud di Roma il clima è pesante e spesso si assiste a scene come quelle capitate l’altra notte in piazza Oberdan. I residenti sono impauriti e confessano che temevano che, prima o poi, ci sarebbe scappato il morto. Troppe le risse, numerosi i ragazzi che tirano tardi fino alle prime ore del mattino, tra alcol e droga, che, molto spesso, conducono a violenti liti e schiamazzi.

Bevevano birra dopo il pestaggio, ecco chi sono i quattro accusati del delitto di Colleferro. "Con le mani come se non ci fosse un domani", scrivevano su Facebook. Marco Bianchi, esperto di arti marziali, noto come "El Maldito" e suo fratello Gabriele da anni terrorizzavano la zona con risse e violenze di ogni tipo. E su Facebook i giovani della zona promettono vendetta: "Verremo a prendervi". Clemente Pistilli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. "Tanto prima o poi uscirete e allora verranno a prendervi a casa, uno ad uno". Questo è solo uno delle decine di commenti fatti nelle ultime ore sui profili social dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, 26 e 24 anni, di Artena, arrestati all'alba di domenica insieme a loro due amici con l'accusa di aver ucciso a calci e pugni, nella vicina Colleferro, il 21enne Willy Monteiro Duarte. E non è il più pesante. Lo sdegno per l'accaduto è enorme e un vero e proprio fiume di insulti e odio si sta riversando su quelli che venivano chiamati la banda di Artena, un gruppo di giovani davanti ai quali fino alla tragedia di domenica scorsa in pochi alzavano lo sguardo. Ad Artena, del resto, piccolo centro romano, al confine con la provincia di Latina e vicino a quella di Frosinone, dove si conoscono tutti, quei ragazzi avevano una sinistra fama. Alcuni con precedenti per spaccio di droga, che circola abbondantemente e che ha visto i carabinieri di Colleferro compiere diversi arresti, e altri proprio per lesioni. Una banda che si sentiva invincibile e che ostentava ricchezza e atteggiamenti violenti. Con protagonisti proprio i Bianchi. Una banda che avrebbe aggredito in passato anche un addetto alla sicurezza dell'outlet di Valmontone e che ad agosto aveva colpito anche un vigile urbano che cercava di far rispettare le misure anti-Covid.

Feroci e spavaldi. Tanto che dopo il pestaggio del 21enne, i due fratelli, insieme agli amici Mario Pincarelli, di 22 anni, e Francesco Belleggia, un geometra 21enne, e a un quinto giovane indagato solo a piede libero, sono andati a sedersi tranquillamente nel locale di famiglia a bere birra, il "Nai Bistrot", dove sono stati bloccati e portati in caserma. Un'ossessione quella dei Bianchi per la famiglia. Non si contano le foto di Gabriele e Marco postate su Facebook e Instagram in cui esaltano il loro legame di sangue. Tanto che il 24enne è arrivato a scrivere, parlando proprio della famiglia: "Per te contro tutto e tutti con le mani come non ci fosse un domani". E si è persino tatuato sulla pancia la scritta "proteggi la famiglia". Un'ossessione pari solo a quella per le arti marziali, la forza e la violenza, che i due sfogavano nell'MMA (mixed martial arts), una disciplina in cui si fa largo uso di pugni e calci. E proprio con un calcio alla testa sarebbe stato ucciso il 21enne di origini capoverdiane, residente a Paliano, in provincia di Frosinone, aiuto cuoco all'Hotel degli Amici di Artena e con il sogno di indossare un giorno la maglia della Roma, mentre giocava e dava l'anima nella squadra di calcio del suo paese. I fratelli Bianchi hanno quasi un culto per il corpo e ci tenevano a ostentare gioielli pacchiani e abiti griffati, tra una vacanza a Ponza e una a Positano. Gabriele era stato poi di recente presentato anche come modello di imprenditore, per aver aperto nel centro storico di Cori, paese della provincia di Latina al confine con Artena, una frutteria in piena emergenza Covid, "I profumi dell'orto", in via della Libertà. Ma la vita del 24enne non era proprio quella di un tranquillo fruttivendolo. Insieme al fratello e agli amici ad Artena  e nei centri vicini seminavano il terrore. Quella che un tempo era terra di briganti, al confine tra il territorio romano e quello pontino, era diventata terra dei picchiatori. Marco, in particolare, è un campione di MMA e viene chiamato Maldito, un nomignolo che ora suona in  modo sinistro. Un professionista impegnato con la “M.M.A. Combat Academy Di Tullio Team”, che si trova presso la “Millennium Sporting Center”, a Lariano, a due passi dal suo paese, nei Castelli Romani. Oltre ai due, i cui nomi fanno paura soprattutto nella contrada Colubro di Artena, dove vivono, della banda avrebbero poi fatto parte anche Pincarelli, appassionato di karate, e Belleggia, che una volta in caserma avrebbero cercato di prendere le distanze dall'accaduto, mentre i Bianchi si sarebbero limitati a dire: "Non volevamo ucciderlo". Volevano solo massacrarlo di botte. Come sempre. "Sono dei picchiatori. Willy ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato", dichiara Vincenzo Romagnoli, il padre del giovane che era insieme alla vittima. Un 21enne che ha perso la vita per cercare di portare pace tra un gruppetto di amici che litigava nella piazza di Colleferro. Ma quando scendendo da un suv ha fatto irruzione la banda per lui non c'è stato scampo. "Ogni volta che entri in gabbia è un’emozione diversa, ma il pensiero della vittoria è sempre lo stesso", scriveva Marco Bianchi su Instagram. Ora dalla gabbia di Rebibbia gli indagati dovranno fornire diverse spiegazioni agli inquirenti.

Omicidio Colleferro, si valuta l'aggravante razziale per i killer di Willy: "Lurido negro crepa lentamente". Libero Quotidiano l’08 settembre 2020. E' iniziato nel carcere romano di Rebibbia l'interrogatorio di convalida davanti al gip del tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, dei quattro giovani arrestati per il terrificante omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso dopo un pestaggio a Colleferro nella notte tra sabato e domenica. Ai quattro, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tra i 22 e i 26 anni, il pm di Velletri Luigi Paoletti contesta il concorso in omicidio preterintenzionale. Si valuta anche l'aggravante di matrice razziale su cui fa peso un post di nove anni fa di Gabriele Bianchi che commentando un fatto di cronaca su Facebook scrisse "lurido egiziano de m..." e ancora in un italiano altamente dialettale "pozzi crepà lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi della m... schifossimo". E non aveva fatto meglio un altro fratello non coinvolto, Alessandro, 31 anni, che definiva lo stesso egiziano "de m..." e "negraccio de m..." Ma soprattutto pesano le parole di uno dei genitori espresse davanti alla caserma dei carabinieri domenica mattina all'alba: "Cosa hanno fatto? Non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". Parole agghiaccianti riferite poi ai carabinieri. Intanto proprio Alessandro Bianchi, fratello maggiore dei due in carcere, in due interviste rese a Stampa e Messaggero, ha detto di non avere colpe e di chiedere "perdono per la morte di Willy.La cosa che mi ha fatto più male, quando mi ha chiamato l'avvocato per dirmi che c'era stato il morto, è stata l'immagine di quel ragazzino. Era così piccolo, non posso pensare che i miei fratelli gli abbiano menato mentre stava a terra, conoscendo la loro esperienza nelle arti marziali, un ragazzino che se lo avessero visto da qualche parte mentre qualcuno lo aggrediva, avrebbero massacrato gli altri per salvare lui", dichiara Bianchi. E' convinto poi che la colpa non sia stata dei fratelli "credo che Pincarelli e Belleggia abbiano invocato il loro aiuto perché qualcuno li stava picchiando. E i miei fratelli sono corsi",, racconta Bianchi. "Io sono sicuro dentro di me come lo è mia madre che non sono stati loro a dargli calci in faccia, pugni in testa. I miei fratelli sono intervenuti per dare una mano ai loro amici che avevano discusso dentro il locale, e quando hanno visto tutta questa gente ammucchiata e sono scesi dalla macchina. Ci sono le testimonianze".

Omicidio di Willy, quell'insulto razzista di Alessandro Bianchi a un egiziano. Le Iene News il 09 settembre 2020. Il fratello di due dei quattro giovani arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte ha negato che i ragazzi siano fascisti o razzisti. Eppure lui stesso ha commentato così un post del fratello Gabriele che risale a qualche anno fa: “Negraccio, brucia all’inferno”. La famiglia di Gabriele e Marco Bianchi, due dei quattro giovani accusati dell’omicidio preterintenzionale di Willy Monteiro Duarte di cui vi abbiamo parlato qui, ha fatto quadrato attorno ai ragazzi: “Non sono assassini e non hanno ucciso nessuno… fascismo e razzismo sono cose che non esistono”. Così ha detto al Corriere della Sera Alessandro Bianchi, il fratello maggiore dei due. Noi vi mostriamo un post su Facebook, datato 2011, che lascia più di un interrogativo. Gabriele commenta un brutto fatto di cronaca: un 17enne egiziano getta dal balcone di casa un cane che poco prima aveva morso il fratello. Gabriele scrive: “Lurido egizziano de merda te possa da na paralise secca pozzi rimane' senza respiro, pozzi crepa lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi nella merda schifosissimo essere figlio di puttana se c’è ancora la guerra nel tuo paese di merda spero che ti uccidono adesso bastardooooooooo”. Un messaggio di odio al quale si unisce nei commenti proprio il fratello Alessandro, che commenta così: “Egiziano de merda che tu possa bruciare all’inferno mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio negraccio de merda”. Tralasciando le altre imprecazioni, come valutare la parola "negraccio" se non un inaccettabile insulto di stampo razzista? Su Iene.it ci siamo occupati della tragica morte di Willy, raccontandovi e mostrandovi il video dei combattimenti di MMA di Marco Bianchi, uno dei 4 giovani arrestati per omicidio preterintenzionale (a uno di loro, Francesco Belleggia, sono stati concessi ora i domiciliari), i post scherzosi che Gabriele Bianchi aveva messo sulla sua pagina Fb poche ore dopo la morte di Willy, il video di risposta del campione di MMA Marvin Vettori, che difende il suo sport dalle critiche, il racconto dell’aggressione di Mario Pincarelli a un vigile urbano che gli aveva detto di mettere la mascherina e il post di un ex leghista che se l’è presa con Willy, la vittima, poi scusandosi.

Willy Monteiro Duarte, le dichiarazioni shock dei familiari degli aggressori: "Era solo un immigrato". Libero Quotidiano l'08 settembre 2020. "In fin dei conti cosa hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario", è questa la reazione dei familiari dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi Mario Pincarelli e Francesco Belleggia quando arrivano alla caserma di Colleferro, si sono anche i ragazzi di Paliano, scrive Repubblica, "che sentono (e lo riferiscono poi ai militari) uno dei familiari degli arrestati dire: "In fin dei conti cos'hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". La notizia che Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni durante una rissa.  è morto è già arrivata. Seconda notte in carcere per i fratelli Bianchi a Rebibbia, monitorati e controllati a distanza. I due sono accusati, assieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, di omicidio preterintenzionale per la morte di Willy. Una azione violenta e brutale che non ha dato scampo al ventenne di origini capoverdiane ma da anni residente a Paliano con la famiglia. Willy era intervenuto in difesa di un suo amico dopo un alterco con il branco capeggiato dai due fratelli Bianchi, esperti nella Mixed martial arts, una sorta di arte marziale, una tecnica di combattimento in cui l'ultraviolenza si consuma in un rettangolo, una gabbia recintata, dove tutto è consentito.

 Al momento la Procura di Velletri esclude l'aggravante dell'odio razziale ma gli accertamenti proseguono con l'ascolto di testimoni e analisi approfondite delle telecamere presenti in zona. Le indagini portate avanti dai carabinieri hanno portato all'iscrizione di cinque persone, compresi gli arrestati. Per loro, tutti detenuti nel carcere di Rebibbia, oggi è fissato l'interrogatorio di convalida dell'arresto davanti al gip di Velletri. L'atto istruttorio rappresenta il primo confronto con chi indaga e servirà a cristallizzare ulteriormente l'impianto accusatorio. Domani verrà svolta l'autopsia sul corpo di Willy che verrà effettua presso l'istituto di medicina legale del policlinico di Tor Vergata. 

Ghali: "Giustizia per Willy, mi ha ricordato episodi in cui l'ho scampata per un pelo". Pubblicato martedì, 08 settembre 2020 da La Repubblica.it. Ghali è intervenuto con un post su Instagram per commentare la tragedia di Colleferro, il pestaggio ad opera dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi in cui ha perso la vita il ventunenne Willy Monteiro Duarte. Il rapper, nato a Milano da genitori tunisini, ha iniziato il suo messaggio chiedendo "Giustizia per Willy Monteiro Duarte". "Willy è stato ucciso dall’ignoranza, dall’odio, dal razzismo e dagli ideali di 4 ragazzi i cui familiari hanno risposto dicendo: “era solo un immigrato”. E' un problema ricorrente nel nostro paese e mi ha fatto tornare in mente alcuni episodi della mia vita in cui l’ho scampata per un pelo, in cui aspetti che si stanchino di tirare calci e pugni, in cui chiedi pietà e il perché sperando di riuscire a rialzarti da terra". Visualizza questo post su Instagram Giustizia per Willy Monteiro Duarte. 21 anni, era intervenuto per calmare una rissa ed e? stato pestato a sangue fino a non respirare piu?. Willy e? stato ucciso dall'ignoranza, dall'odio, dal razzismo e dagli ideali di 4 ragazzi del quale i familiari hanno risposto dicendo: “era solo un immigrato”. E? un problema ricorrente nel nostro paese e mi ha fatto tornare in mente alcuni episodi della mia vita in cui l'ho scampata per un pelo, in cui aspetti che si stanchino di tirare calci e pugni, in cui chiedi pieta? e il perche? sperando di riuscire a rialzarti da terra. I veri criminali sono altri, i veri atleti sono altri. Gli occhi di Willy sono altri. Gli occhi della nuova generazione, di chi e? stanco di fare a pugni, di chi cerca altro, di chi a differenza mia e dei miei coetanei non ha bisogno di ribadire dei concetti basilari come quelli sulla violenza. Che questo sia l'ennesima sveglia per quanto sia inimmaginabile il dolore dei suoi cari. E? cosi? egoista fare di una tragedia una lezione ma infondo spero che lo sia per tutti. Siamo stanchi, il pentimento tardivo non serve a nulla in casi come questo. Giustizia per Willy ???? #giustiziaperwilly Un post condiviso da GHALI (@ghali) in data: 8 Set 2020 alle ore 5:22 PDT. E continua: "Gli occhi di Willy sono gli occhi della nuova generazione, di chi è stanco di fare a pugni, di chi cerca altro, di chi a differenza mia e dei miei coetanei non ha bisogno di ribadire dei concetti basilari come quelli sulla violenza. Che questo sia l’ennesima sveglia per quanto sia inimmaginabile il dolore dei suoi cari. E' così egoista fare di una tragedia una lezione ma in fondo spero che lo sia per tutti". E poi Ghali così conclude: "Siamo stanchi, il pentimento tardivo non serve a nulla in casi come questo. Giustizia per Willy".

Da corriere.it il 10 settembre 2020. Ghali torna a parlare del caso di Willy Monteiro, il ragazzo di origini sudamericane morto a seguito di un pestaggio all’uscita da un locale di Colleferro, provincia di Roma: «Cari colleghi perché non ne parlate, avete altro a cui pensare? O non ve ne frega niente, oppure siete molto simili a quei quattro ragazzi, perché nel rap italiano succede questo». Riferendosi ai 4 giovani di Artena, praticanti di arti marziali, accusati di aver causato la morte del 21enne.

Franco Zanetti per rockol.it il 10 settembre 2020. Un rapper di un certo nome ha accusato oggi i suoi colleghi di non essersi espressi pubblicamente in merito a un fatto di cronaca nera. A questo punto siamo arrivati: che se qualcuno non prende posizione esplicitamente - e, naturalmente, sempre nella direzione auspicata dal  benpensantismo imperante - è accusato di "non essersi espresso", e quindi, senza alcuna consequenzialità logica, di "pensarla in un altro  modo" (come se pensarla in un altro modo fosse una colpa e non un diritto). Non voglio minimamente entrare nel merito del caso specifico, che è quello del ragazzo che è stato ucciso di botte a Colleferro. Ma allo stesso modo si potrebbero allora additare al pubblico ludibrio tutti quelli che non hanno preso posizione rispetto alla donna di 46 anni, con tre figli, uccisa in Svizzera pochi giorni fa per proteggere tre bambini (ne ha scritto qui Carla Vistarini). Il che vuol dire, in questa circostanza specifica, additare al pubblico ludibrio tutti indistintamente: perché, su questo tristissimo episodio, nessuno ha preso posizione, dei tanti - dei troppi - che usano i social per farci sapere che esistono. (Il che, fra parentesi, vuol dire che la differenza di colore della pelle importa più a quelli che stigmatizzano pubblicamente che a quelli che tacciono). Quello che mi interessa segnalare qui è un fenomeno diverso: quello dei personaggi dello spettacolo che si atteggiano a opinion leader - e senza averne la statura riconosciuta - e quello dei media che rilanciano le loro opinioni. Non voglio mettere in dubbio la sincerità dei sentimenti dei primi, e non mi permetto di insinuare che dietro a queste esternazioni ci sia una volontà autopromozionale (anche se dubito che abbiano una particolare capacità di influenza morale sul loro pubblico). Ma il meccanismo infernale che si è instaurato è tale che un post su Instagram diventa una notizia, e la notizia è rilanciata dai giornali, ripresa dalle radio, commentata dalle televisioni, suscitando tutta una sequela di nuovi commenti social, che diventano a loro volta altre notizie, generando un flusso inarrestabile.  E circondando di un assordante rumore mediatico anche chi - come me - si tiene fieramente a distanza dalla frequentazione dei social. Ho letto nei giorni scorsi un'intervista di un conduttore televisivo che non conosco personalmente, e sul quale non ho nessuna opinione né professionale né personale, semplicemente perché non l'ho mai ascoltato in radio e non l'ho mai guardato in televisione. Si chiama Pierluigi Diaco, e queste sono le cose che ha detto: "Sui social ci sono troppe semplificazioni e troppa superficialità. I social danno una rappresentazione del Paese in cattiva fede. Chi sta sui social è ormai un tuttologo. Parlano di tutto anche se non hanno nulla da dire. E quando tu rendi accessibile a tutti la possibilità di dire, fare, polemizzare, criticare senza regole e senza limite e senza una legittimazione per esprimersi con argomenti complessi, il tenore della conversazione si indebolisce. Non credo che ci sia bisogno di tornare indietro. Basta che i media tradizionali la smettano di dare importanza ai social. Sono un circolino che non rappresenta affatto il tasso di umanità che attraversa i cittadini. Non ce l'ho con i social. Credo che il tipo di attenzione che viene dato a ciò che succede in rete sia smodato. Denota una certa pigrizia di alcuni colleghi che montano pezzi basandosi su una manciata di tweet che circolano in rete". Sottoscrivo tutto.

Elisa scrive una lettera per Willy: le sentite parole dell’artista. Notizie.it l'11/09/2020. Elisa ha deciso di scrivere sui social una lunga lettera a Willy Monteiro Duarte, morto a 21 anni dopo una rissa: le dolorose parole della cantante. Anche Elisa Toffoli, in arte Elisa, ha deciso di esprimere pubblicamente sui social tutto il dolore provato alla notizia della morte del giovane Willy Monteiro Duarte. Come purtroppo sappiamo, il 21enne romano ha perso la vita lo scorso 6 settembre 2020 dopo essere stato massacrato di botte per aver difeso un amico durante una rissa fuori da un locale. L’intero mondo dello spettacolo ha così deciso di farsi portavoce della richiesta di giustizia per il giovanissimo, ucciso dall’odio e da gesti di violenza inaudita. Precisando di non averlo ovviamente conosciuto in vita, Elisa ha dunque sottolineato il coraggio di Willy, che non ha esitato a mettere in pericolo sé stesso per proteggere un amico. “Gli uomini come te, Willy, cambieranno il mondo”, ha scritto l’artista triestina su Facebook, immaginandolo poi da piccolo tra le braccia della sua mamma, simbolo di fiducia per eccellenza. “Non potevo non scrivere, Willy, mi sei rimasto nel cuore e volevo dirlo a tutti”. Così si conclude la lunga lettera di Elisa, evidentemente molto colpita dal recente quanto incredibile fatto di cronaca nera. Anche lei, insieme a molti altri suoi colleghi, chiede ora giustizia per il ragazzo e per la sua famiglia. La speranza che le rimane è che anche i suoi figli abbiano la forza e il coraggio di sorridere come Willy nelle foto che lo ritraggono nello splendore e nel candore dei suoi 21 anni.

La verità è che “hanno solo ucciso un immigrato” non lo pensa solo la famiglia Bianchi. Notizie.it l'08/09/2020. Lo hanno detto in pochi ma pensato in tanti: Willy Monteiro ha un cognome troppo esotico per sentirselo davvero come un figlio, un amico. Dai, facciamoci coraggio, proviamo a dire quello che in molti non hanno il coraggio di dire e insistiamo. C’è in giro moltissimo sdegno per la frase pronunciata dai famigliari di Marco e Gabriele Bianchi, arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro insieme a altri due: “Non hanno fatto niente di grave, hanno solo ucciso un immigrato” hanno detto candidamente alla giornalista di Repubblica Federica Angeli. E l’hanno detto convinti di pronunciare una frase ragionevole perché in fondo il vento è questo, perché in fondo Willy Monteiro Duarte ha un cognome troppo esotico per sentirselo davvero come un figlio o come un compagno di scuola di uno dei nostri figli, ha la pelle troppo scura per essere italiano come intendono gli italiani quelli che li vorrebbero bianchi, cattolici, preferibilmente di destra, preferibilmente xenofobi. E infatti è bastato aspettare qualche ora perché sui social si accendessero i conati di quelli che in fondo hanno addirittura fatto bene ad ammazzarlo quello scimpanzé, come ha scritto un coraggiosissimo utente Facebook che poi, come si conviene ai vigliacchi, ha detto che gli hanno rubato il profilo e che non è stato lui. E infatti basta girare sui social, su un social qualsiasi, per leggere i commenti di chi dice che si sta facendo troppo rumore, la solita vecchia solfa di quelli che sono anti-anti-razzisti e vorrebbero convincerci che le vere vittime siano loro. Qualcuno si chiede: “Avresti fatto tutto questo casino anche per un italiano”? Una domanda che fotografa perfettamente quello che siamo diventati: incapaci di essere empatici perfino con il nostro vicino di pianerottolo rivendichiamo il diritto (e addirittura il dovere) di non preoccuparci di uno che ha origini che sentiamo straniere. Qui non conta essere italiano di cittadinanza: qui per essere italiano devi essere accettato da una certa cerchia che giudica in base a parametri bigotti. Dai, facciamoci, coraggio. Diciamo anche che mentre si continua a parlare di palestre e di arti marziali, guardando il dito e perdendosi la luna, ci si dimentica dei modelli culturali che ci sono stati proposti in questi ultimi anni, ci si dimentica della fisicità e della muscolosità anche lessicale che inonda il dibattito pubblico, ci si dimentica della violenza che viene sparsa ogni minuto nelle discussioni mentre stiamo seduti comodamente sul divano, ci si dimentica dell’approccio guerresco che ormai è lo stile con cui affrontare qualsiasi conversazione. I famigliari dei Bianchi si sono fatti scappare quello che hanno pensato in tanti. Willy non era italiano di quegli italiani che sfoggiano la propria ignoranza sentimentale e che credono nel bullo, nel forte, nell’asfaltare l’avversario, nel grugno duro come manifesto di mascolinità, nel menar le mani per affermare le proprie opinioni, nel punire, quelli che la menano con l’onore e poi si mettono in quattro contro uno, con un mingherlino, con un altruista, un sorridente, floscio, un debole. Un non italiano, appunto.

Da open.online il 9 settembre 2020. «Ah piccolo Willy, che ci facevi alle 2 di notte in giro? Tu non sei piccolo, sei piccolo di età, ma già sei uno scafato». Parole deliranti affidate a una diretta social da parte di Giorgio Di Folco: sulla sua pagina Facebook da oltre 10mila “mi piace”, l’uomo si descrive come un “reporter”. Dopo l’omicidio del 21enne a Colleferro, Di Folco si è lasciato andare a dichiarazioni xenofobe, asserendo che Willy «è morto per sua scelta». «Piccolo Willy, come questi stronzettietti che a mezzanotte stanno ancora la Mcdonald’s in giro, bambini di 15 anni, se fate sta fine, è normale. Bambino, a casa a giocare. Non bambino a mezzanotte in giro, se no muore», ha detto l’uomo. Riferendosi direttamente a Willy, ha poi aggiunto: «Per me sempre immigrato sei, perché in Italia non esistono persone nere. Rimarrai sempre un immigrato, anche se hai una cittadinanza. Per me sei italiano quando sei bianco». Tutte queste frasi sono state indirizzate a un ragazzo massacrato di botte fino alla morte. Sul tema dell’immigrazione, poi, Di Folco ha lanciato un monito alle tante persone che seguivano la diretta: «Adesso non deve essere martirizzato da voi. Ci sono tanti italiani che ogni giorno vengono massacrati da “mao mao”. Entrano nelle case, violentano vecchie, spaccano la testa a tante persone italiane».

Il comunicato di Giorgio Di Folco. Il video ha iniziato a fare il giro della rete, diventando virale in pochissimo tempo. Di Folco ha poi rilasciato un comunicato per la stampa, che recita: In relazione a quanto pubblicato nei giorni scorsi, in occasione della morte del piccolo Willy, preciso quanto segue: le mie improvvide dichiarazioni sono state dettate sulla base di una falsa notizia e me pervenuta, che parlava di una lotta tra due bande d’immigrati irregolari e spacciatori. Ho avuto la superficialità di esprimere un assurdo commento senza accertare la fondatezza dell’ informazione. Questo è il motivo per cui ho parlato di immigrato irregolare. Non sono mai stato razzista e non lo sarò mai per il colore della pelle, ma lo sono solo ed esclusivamente nei confronti di delinquenti e spacciatori, qualunque sia il colore della pelle. Infatti non appena ho avuto notizia che Willy era un ragazzo serio e per bene, mi sono pubblicamente scusato per il clamoroso ed ingiustificabile mio errore. Di ciò mi scuso con la famiglia e con tutte le persone la cui sensibilità è stata offesa da questa mia dichiarazione. Voglio precisare in proposito che molti ragazzi di colore, sono miei amici, mentre rimarranno per sempre miei peggiori nemici, spacciatori che rovinano e distruggono la vita dei ragazzi e delinquenti comuni che insidiano ogni giorno la serenità di persone per bene come il povero Willy.

Aperta un’indagine sugli hater di Willy. Intanto la Polizia postale ha dato il via a un’indagine nei confronti di chi, in queste ore, sta offendendo la memoria di Willy Duarte Monteiro. Si apprende che tra le prime persone finite sotto la lente degli investigatori c’è un uomo di Latina che, sui suoi social, ha scritto: «Avete tolto di mezzo uno scimpanzé. Siete degli eroi». Ma sono molti altri i messaggi che incitano all’odio razziale partendo dalla tragica vicenda del 21enne di Paliano.

Omicidio Colleferro, polemica sulle frasi razziste di Giorgio Di Folco. Notizie.it l'08/09/2020. Stanno suscitando polemiche le parole del videomaker Giorgio Di Folco. Sull'omicidio di Colleferro ha affermato che: "Willy è morto per sua scelta". Non accennano a placarsi le reazioni in merito alla morte del 21enne Willy Monteiro, ucciso nella notte tra il 5 e il 6 settembre scorsi a Colleferro, dopo che dal web sono emersi nelle ultime ore ulteriori commenti razzisti rivolti nei confronti del ragazzo di origine capoverdiana. A essere protagonista della polemica social è in questo caso il videomaker Giorgio Di Folco, che nel corso di una diretta Facebook ha scaricato sul giovane le responsabilità di quanto accaduto affermando: “Willy è morto per sua scelta”. Di Folco, ex componente del direttivo locale della Lega di Cassino, ha pubblicato le proprie esternazioni all’interno della sua pagina Facebook da oltre 10mila seguaci: “Ah piccolo Willy, che ci facevi alle 2 di notte in giro? Tu non sei piccolo, sei piccolo di età, ma già sei uno scafato. […] Piccolo Willy, come questi str***etti che a mezzanotte stanno ancora al Mcdonald’s in giro, bambini di 15 anni, se fate sta fine, è normale. Bambino, a casa a giocare. Non bambino a mezzanotte in giro, se no muore“. Il videomaker se la prende dunque direttamente con il giovane ucciso, arrivando persino a negare la sua italianità in quando individuo con la pelle scura: “Per me sempre immigrato sei, perché in Italia non esistono persone nere. Rimarrai sempre un immigrato, anche se hai una cittadinanza. A seguito del vespaio di polemiche scaturitesi dall’intervento, Di Folco ha rilasciato un comunicato stampa in cui afferma di avere pronunciato quelle frasi sulla base di una falsa notizia a cui aveva dato credito: “In relazione a quanto pubblicato nei giorni scorsi, in occasione della morte del piccolo Willy, preciso quanto segue: le mie improvvide dichiarazioni sono state dettate sulla base di una falsa notizia e me pervenuta, che parlava di una lotta tra due bande d’immigrati irregolari e spacciatori. Ho avuto la superficialità di esprimere un assurdo commento senza accertare la fondatezza dell’ informazione”.

Ucciso a Colleferro, aperta indagine sugli hater social di Willy. Clemente Pistilli per repubblica.it l'8 settembre 2020. "Avete tolto di mezzo uno scimpanzè". "Siete degli eroi". Sui social si stanno scatenando anche i razzisti odiatori che insultano la vittima per il colore della pelle e inneggiano ai quattro arrestati accusati di aver ucciso a calci e pugni, domenica scorsa a Colleferro, il 21enne Willy Duarte Monteiro, per i quali gli investigatori stanno anche valutando l'aggravante razziale. Veri e propri messaggi che incitano all'odio, ma che non stanno passando inosservati. La polizia postale di Latina ha subito iniziato a indagare, concentrando questa mattina l'attenzione su un post del genere pubblicato da un latinense. L'uomo ha prima chiuso la sua pagina facebook, poi l'ha riaperta e ha pubblicato una serie di post dove sostiene che il suo sia un profilo finto e che non c'è alcuna vicinanza a Fdi, e che non pensava quelle cose di Willy. Il tutto dopo una valanga di insulti, circa 800 commenti di disprezzo, e la notizia dell'apertura dell'indagine da parte della polizia postale. Ma non è tutto. A Cassino un videomaker ha infatti pubblicato su un suo canale social un video in cui punta il dito contro Willy. "Tanti italiani vengono massacrati ogni giorno da Mao Mao. Piccolo Willy, ma che c... stavi a fare alle due di notte in giro? Se fate questa fine è normale", dice nella assurda diretta Giorgio Di Folco, noto come Giorgio Pistoia, ex componente del direttivo locale della Lega e attualmente simpatizzante del partito di Matteo Salvini. Ancora: "Per me sempre immigrato sei perché se sei nero in Italia non esistono persone nere. Sei italiano se sei bianco". Video poi rimossi dal videomaker, ma già diventati virali, davanti ai quali prende subito le distanze la stessa Lega. "Parliamo di un soggetto messo fuori dal partito da tempo, quando abbiamo rimosso il precedente coordinatore Carmelo Palombo. Mi fa schifo la persona, e deve scriverlo questo, e quello che dice. Persone così devono stare lontanissime dalla Lega e dalla società civile. Mi fanno venire i brividi e lo dico come papà", dichiara il coordinatore regionale della Lega nel Lazio, l'onorevole Francesco Zicchieri.

Umberto Rapetto per infosec.news il 10 settembre 2020. Non si accontentano che sia morto. Lo continuano a prendere a pugni e a calci. E lo fanno da ogni dove e a qualunque ora. Sono le bestie che si aggirano in Rete, che escono dalle loro fogne e si affacciano sui social con veemenza per testimoniare l’inciviltà che le contraddistingue, per ostentare la povertà di sentimenti, per mostrare una forza che non hanno nella vita reale, per sputare la rabbia e l’odio di cui sono gonfie. E’ il branco dei miserabili, dei pavidi sciacalli con le unghie sporche conficcate nella tastiere, degli scarti dell’umanità che crede di potersi nascondere dietro ad un nome fasullo o uno pseudonimo, delle belve che contano di farla franca “perché intanto figurati se viene qualcuno a prendermi…” Lo scempio dei post su Facebook (e sulle altre piattaforme che in queste circostanze di sociale non hanno proprio nulla) qualifica il degrado e annebbia qualsivoglia prospettiva di un anche millimetrico miglioramento futuro.

Qualcuno indaghi senza perdere tempo. Ammesso che la morte di un ragazzo possa mai servire a qualcosa, il brutale assassinio di Willy voglio sperare resusciti il senso civico della gente comune e sproni le Forze dell’Ordine a ripristinare quella legalità che in Rete sembra destinata ad essere un miraggio. Non mi si vengano a raccontare le difficoltà operative, i problemi di extraterritorialità e transnazionalità, gli escamotage degli utenti per rendersi irriconoscibili, le poche risorse a disposizione e le troppe indagini in corso, le lunghe attese per ottenere risposta dai colossi del web per eseguire le investigazioni. Gli infami che hanno manifestato gioia per un così drammatico evento, quelli che si sono complimentati con gli assassini, quegli altri che hanno espresso soddisfazione e i restanti che hanno messo mi piace o hanno ricondiviso messaggi indegni per la razza umana, devono essere identificati, presi, processati, condannati. Senza pietà. Senza quella pietà che loro stessi hanno negato in questa e in chissà quante altre circostanze in cui hanno preferito conficcare un chiodo o piantare una lama piuttosto che deporre un fiore. L’anonimato non esiste e chiunque si muove online distribuisce informazioni che ne permettono la rapida individuazione e la successiva conferma. Sui social rimane traccia anche di quanto viene cancellato dopo una “imprudente” pubblicazione. Ogni post ha un suo ID cui sono agganciati data ed ora, account dell’autore, eventuale dislocazione geografica, sistema operativo adoperato, app o browser utilizzati e così a seguire.

La gente deve collaborare. Le forze di polizia senza dubbio non possono mettersi a rastrellare il web, ma questo Paese – in cui le “energie buone” ancora sopravvivono – è pronto a dimostrare la propria vicinanza alle Istituzioni e, soprattutto, non credo disdegni di segnalare le ributtanti manifestazioni di odio che si stano palesando online. La predisposizione di una scheda (approntata, questa, dalla Polizia Postale e delle Telecomunicazioni) può incanalare gli spunti operativi: indicazione del link e di ogni altro elemento ritenuto utile dagli investigatori può risolvere in un baleno la ricerca necessaria per attivare le indagini e dare avvio alla caccia degli spavaldi disseminatori di astio che fanno apologia di reato e istigano alla reiterazione di condotte assassine. Potrebbe bastare persino un canale di comunicazione attraverso WhatsApp, i cui messaggi arriverebbero in un attimo alla scrivania giusta. In ogni caso chi vede apparire sulle proprie pagine commenti e post che farebbero inorridire anche un serial killer non esiti a copiare quel che appare nella barra di navigazione in alto sullo schermo. Lo incolli in un messaggio istantaneo (WhatsApp, Telegram., Signal, Messenger…) o di posta elettronica e lo spedisca a chi deve intervenire. Ci si chieda come mai la persona che osanna i carnefici sia finita tra gli “amici” di Facebook e si provveda a cancellarla dal novero delle conoscenze fatte su quello o su altro social. Certi mostri devono essere isolati e per chi vive di like o di follower peserà anche questa perdita di notorietà: il venir meno del pubblico è il primo elementare castigo per soggetti che non hanno alcun valore e che credono solo nell’esibizione e in un ipotetico seguito.

Il ruolo della polizia urlata e le conseguenze del non intervenire. La violenza verbale è figlia di certi cattivi esempi. A dare il “la” a determinate inammissibili manifestazioni sono stati certi politicanti (“politici” ha ben altro significato) che cavalcano l’insoddisfazione popolare amplificando l’insofferenza e incitando all’intolleranza. I toni da arena in cui ci si scanna sono divenuti obbligatori e non servirsene  sembra costituire mancanza di coraggio: ecco la deformazione che i moderni Masaniello hanno determinato nello stesso pubblico che – dopo averne osannato l’ardire – sarà pronto a passarli per le armi. Se a questi signori è lecito chiedere di ripristinare la civiltà del linguaggio e delle espressioni e di moderare gli atteggiamenti, alle Forze dell’Ordine e alla Magistratura è altrettanto legittimo domandare di agire il prima possibile. Quel che purtroppo leggiamo sui social è destinato a ristagnare avvelenando un contesto già fin troppo tossico. Il fatto che nessuno paghi per le responsabilità che si assume una volta alla tastiera è il concime che fa prosperare l’inciviltà. Si identifichino questi improbabili ninja dei social e li si punisca in maniera esemplare così che tutti capiscano. Perché la legge è uguale per tutti. E lo deve essere anche nella versione digitale della nostra esistenza.

No, Willy Monteiro non era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Notizie.it il 7/09/2020. Quando lo hanno massacrato di botte a Colleferro, Willy Monteiro era esattamente dove voleva essere: a passare una serata con persone a lui gradite. La sociologia del crimine è una brutta bestia. È brutta perché ti porta ad schiacciare gesti, azioni e vite dei protagonisti di un’azione delittuosa nelle formine strette delle categorie e dei contesti preconfezionati. Contesti per cui l’omicida, o gli omicidi, devono avere una caratura lombrosiana, un battage estetico che giustifichi la loro brutalità. E per cui di pari passo la vittima debba andare in binario di un certo story board narrativo. Tutto questo porta le tragedie a levitare in una sorta di limbo analitico che perde di vista la polpa del loro manifestarsi: la concitazione di un preliminare che sembra solo una baruffa di cui parlare il giorno dopo al bar, l’esplosione della violenza, le urla di quei minuti maledetti, i colpi contrappuntati dai grugniti e dalle bestemmie, il fiato corto di vittima e picchiatori, i passanti atterriti fra pacificazione rischiosa e spettacolo orrido, il respiro che perde ritmo e sfuma orribilmente nel silenzio della morte, la sirena di un’ambulanza, gli assassini compiaciuti davanti ad uno shot, il buio che torna a prender casa in Ciociaria. È come se la mente cogliesse l’occasione narrativa del giudizio etico per non sporcarsi le mani nella semplice ed inorridita contemplazione della bruttura. Una trama sotto la trama per cui Willy Monteiro era "nel posto sbagliato al momento sbagliato". E invece no: quando lo hanno massacrato di botte in gruppo Willy era esattamente dove voleva essere, cioè a passare una serata con persone a lui gradite e a cercare di salvare la serata nel vedere che la medesima imbruttiva per un motivo pare cretino. Lo avremmo fatto tutti, anche i più pavidi e ritrosi di noi. E la sconcia barbarie della reazione che la sua scelta ha scatenato, portandolo al buio della morte, non è la fisiologica epifania di un meccanismo di causa effetto, quella è roba da proscenio. Di una cosa cioè dove il Destino Greve ti ha spinto nell’unico anfratto del tuo vissuto che dovevi rifuggire come la peste. È qualcosa di meno, e di peggio: è la possibile evoluzione di una faccenda quando di mezzo ci sono bruti da un lato e persone normali dall’altro. E in un mondo dove le bestie sono maggioranza può succedere. È un mondo dove a rimpolpare le file di quella maggioranza mannara ci abbiamo pensato un po’ tutti, ciascuno dal suo cantuccio, ciascuno con un minuscolo tassello di pedagogia al contrario. Willy Monteiro Duarte sognava di poter indossare un giorno la maglia della sua amata AS Roma. Questo sogno è stato spezzato la notte scorsa, nel modo più tragico e brutale possibile. I nostri pensieri vanno alla famiglia e agli amici di Willy. Attenzione: non brutalità e normalità, quelle sono categorie che generalizzano e danno abbrivio solo alle psico menate mainsream del dopo tragedia o ai meme che occhieggiano alle fattezze truzze degli assassini col rovello del karate. No, le cose vanno ficcate negli abiti delle persone che quelle cose le fanno accadere. E ci vanno ficcate con la misura perfetta che vede l’individuo combaciare con ciò che fa. Solo così la banalità del male che tanto fece incazzare i detrattori di Hannah Arendt viene fuori e diventa chiave di lettura scomoda ma tiranna assoluta. Willy non ha messo in moto nessun meccanismo ineluttabile, non ha spostato l’asse del raziocinio verso il dirupo della rottura della quiete del sistema. Neanche ha avuto tempo per riflettere sullo spessore etico di ciò che pare abbia fatto, lo ha fatto e basta perché gli eventi sono onde e l’uomo è barchetta piccola, guscio di noce che però conserva dritta, nella più parte dei casi, la barra istintiva della correttezza e della solidarietà fra amici. Ergo, se qualcuno vuole legnarne uno dei tuoi, tu ti metti in mezzo e provi a metter pace o a fare squadra. No, il giovane ciociaro non si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Facciamo tutti volentieri la tara alla genuinità degli intenti di chi ha voluto chiosare una tragedia così grande con questa frase, ma non siamo d’accordo. Non potremmo esserlo mai, perché significherebbe che il mondo in cui viviamo è fatto di posti e circostanze in cui vivere è lecito e di angoli bui in cui decidere di agire secondo coscienza è rischioso e, per certi versi, sconsigliabile. E questo messaggio non può passare, non in un sistema complesso occidentale di terza generazione come il nostro. Un posto dove bruti, cafoni sguaiati e picchiatori dovrebbero essere esempi al contrario e invece troppe volte diventano stereotipi con sessappiglio social. Willy ha fatto quello che tutti dovremmo fare: ha fronteggiato un gruppo di bestie per evitare che la bestialità tracimasse. E il fatto che sia successo l’esatto contrario, con lui cadavere in una morgue romana e con una famiglia schiantata, non toglie un’oncia di bellezza alla rotonda perfezione del suo gesto. Ricordare Willy Monteiro significa esattamente questo: non scordarsi mai che è morto non per qualcosa, ma di qualcosa. È morto di normalità in un mondo che la normalità non la conosce più.

Omicidio Willy: fratelli Bianchi già indagati per spaccio, lesioni e minacce. Notizie.it l'11/09/2020. Accusati dell'omicidio di Willy Monteiro, i fratelli Bianchi erano già indagati dalla Procura di Velletri per rissa, spaccio, lesioni e minacce. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi, ora accusati di omicidio preterintenzionale ai danni del giovane capoverdiano Willy Monteiro, risultavano già indagati dalla magistratura. Il primo per spaccio di stupefacenti, lesioni, rissa, porto di oggetti atti ad offendere, il secondo per spaccio, rissa e minacce. Prima che i due prendessero parte alla rissa di Colleferro, la Procura di Velletri aveva infatti già aperto in totale otto fascicoli di indagine per i due ragazzi. Sono state anche le accuse precedenti a quella di omicidio a spingere il Giudice per le indagini preliminari a confermare la misura cautelare del carcere. Oltre che l’aver già presumibilmente commesso dei reati e l’essere dei picchiatori esperti, sulla valutazione del giudice è pesata anche la totale assenza di capacità di autocontrollo degli indagati, la loro incapacità di resistere agli impulsi violenti e la sostanziale indifferenza rispetto alle iniziative processuali intraprese nei loro confronti. Ma anche la minimizzazione del fatto da loro assegnato alla responsabilità di terzi, compiuto nonostante la presenza di testimoni e la vicinanza alla caserma dei Carabinieri. Tutte circostanze che hanno spinto il Gip a confermare sia l’aggravante per futili motivi, non avendo i due fratelli ragione di aggredire Willy, sia la detenzione. Considerata quest’ultima “l’unica cosa in grado di porre concreto ed effettivo argine al pericolo di reiterazione di condotte violente quali quella per cui si procede“. Il giudice non ha infine escluso, alla luce di quanto predetto, un aggravamento del capo d’accusa da omicidio preterintenzionale (far male ma senza l’intenzione di uccidere) a volontario (colpire per uccidere).

I FRATELLI BIANCHI. C.Moz, M.Sba. per ''Il Messaggero'' il 9 settembre 2020. Un negozio di frutta aperto da soli tre mesi e le vacanze a Positano, in giro per la Costiera Amalfitana, in luoghi inavvicinabili a moltissime persone. A vedere le immagini che i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, postavano sui social per raccontare la vita che conducevano viene da domandarsi con quali risorse si garantivano quel tenore di vita. Ostentato che fosse, a nessuno dei due mancava mai l'abito firmato, l'orologio giusto, gli accessori all'ultima moda, la moto super veloce. Ma di cosa vivevamo i due fratelli finiti dietro le sbarre del carcere con l'accusa di aver pestato a morte il giovane Willy Monteiro Duarte? Quali e quante erano le loro fonti di reddito tali da permettersi una vita piena di agi e anche di vizi? Il primo, Marco, da qualche mese, subito dopo il lockdown, aveva aperto un piccolo negozio di frutta verdura a Cori, comune della provincia di Latina. Non un grande locale su cui tra l'altro il sindaco della cittadina, Mauro De Lellis, ha già avviato le pratiche per il ritiro della licenza. Ci lavorava anche Gabriele ma poteva bastare ad entrambi per spassarsela in giro per locali e posti noti di villeggiatura? La famiglia Bianchi abita in una frazione di Artena, il padre ha un'impresa di pozzi artesiani, gli altri figli (in tutto sono quattro) hanno delle attività commerciali: un'enoteca a Lariano e un negozio di alimentari. Marco e Gabriele, però, al netto della frutteria di Cori risultano nulla tenenti. La scuola interrotta a metà, l'università mai presa, lavori saltuari, dicono ad Artena «quando gli andava voglia». Motivo per cui non si escludono accertamenti di natura patrimoniale nei prossimi giorni. Di contro, le serate nei locali, il lusso ricercato in ogni modo, la testa calda nota anche alle forze dell'ordine che sui due fratelli hanno accumulato negli ultimi tre anni un discreto numero di denunce. Comprese alcune per spaccio di stupefacenti. Marco, il più piccolo dei due, ha alle spalle almeno due denunce per rissa, altrettante per lesioni personali e spaccio, oltre a una serie di contravvenzioni amministrative. Gabriele non è da meno. In passato è stato accusato di minaccia, lesioni, porto di oggetti atti a offendere e stupefacenti. Qualcosa in più dell'hashish. Tutti reati, per entrambi i fratelli Bianchi, contestati negli ultimi tre anni: dal 2017 a oggi, e nel perimetro di Velletri, Lariano ed Artena. Gabriele sta per diventare padre. La compagna, Silvia Lagada, all'Adnkronos ha detto: «Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c'è più, la giustizia farà il suo corso e la verità verrà fuori». Ma intanto per le strade di Artena e per quelle di Lariano chi si è almeno incontrato una volta per strada o in piazza con i due fratelli Bianchi descrive due ragazzi «sopra le regole», «spocchiosi e chiassosi». Qualcuno si ferma a raccontare anche la loro nomea: «capita in queste piccole città che avvengano a volte le risse di fronte ai locali, per stupidi motivi, e molto spesso ti ritrovavi pure i Bianchi in mezzo».

Arti marziali e vita senza regole: ecco chi sono gli aggressori di Willy Monteiro. Hanno tutti tra i 22 e i 26 anni e precedenti penali per lesioni e droga. Riflettori puntati, in particolare, sui fratelli Bianchi, che sarebbero definiti a Colleferro “picchiatori professionisti”. Ignazio Riccio, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Sognava di diventare uno chef affermato Willy Monteiro, il ragazzo di 21 anni, di origini capoverdiane, ucciso a calci e pugni per aver difeso un amico a Colleferro, nella periferia a sud di Roma. Gli inquirenti hanno individuato e arrestato con l’accusa di omicidio preterintenzionale in concorso quattro persone: i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Gli aggressori, trovati in piena notte mentre bevevano birra in un pub all’Artena, hanno tutti tra i 22 e i 26 anni e precedenti penali per lesioni e droga. I riflettori nel piccolo centro romano sono puntati, in particolare, sui fratelli Bianchi, che sarebbero definiti a Colleferro “picchiatori professionisti”. I due ragazzi, infatti, praticano la Mixed Martial Arts, uno sport estremo che fonde la boxe con le arti marziali. Le foto che circolano sui social, a torso nudo, confermano la loro passione. Per gli investigatori si tratta di giovani che sarebbero abituati a vivere la loro vita senza seguire alcuna regola, mossi solamente dal culto della violenza. La loro sfrontatezza sarebbe confermata anche dall’atteggiamento tenuto nel corso dell’interrogatorio: nessuna giustificazione, nessun pentimento, i giudici si sono trovati di fronte ad un muro impermeabile, fatto di silenzio e di sfida alle istituzioni. Nella periferia sud di Roma il clima è pesante e spesso si assiste a scene come quelle capitate l’altra notte in piazza Oberdan. I residenti sono impauriti e confessano che temevano che, prima o poi, ci sarebbe scappato il morto. Troppe le risse, numerosi i ragazzi che tirano tardi fino alle prime ore del mattino, tra alcol e droga, che, molto spesso, conducono a violenti liti e schiamazzi. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe anche l’aggravante razziale per la morte di Willy Monteiro, anche se questa accusa non è stata materialmente contestata ai quattro indagati. L’intera comunità di Colleferro, comunque, è sotto choc e per la giornata di oggi il sindaco Pierluigi Sanna ha proclamato il lutto cittadino. Intanto, nuovi dettagli si aggiungono nella ricostruzione dell’accaduto. Willy aveva da poco finito di lavorare nell’albergo alle porte dell’Artena. Tornato a casa è uscito di nuovo per raggiungere alcuni amici a largo Santa Caterina. Qui si è trovato coinvolto in una rissa, dopo che uno dei quattro arrestati aveva cominciato a litigare con un giovane, il quale, a suo dire, aveva lanciato uno sguardo di troppo a una ragazza. Willy conosceva il malmenato e si è gettato a capofitto in suo soccorso, ma ha avuto ben presto la peggio. Il branco ha continuato a picchiarlo anche quando era a terra, privo di coscienza. Fuggiti gli aggressori il giovane cuoco è stato soccorso dal 118, ma ha perso la vita lungo il tragitto verso l’ospedale.

I bulli diventati esattori dei pusher: “Avevano già fatto aggressioni simili”. Paolo G. Brera e Rory Cappelli il 7 settembre 2020 su La Repubblica. "F.B." c’è scritto sul grande cancello nero con le lance a bucare il cielo: Famiglia Bianchi. Dietro il cancello c’è il leone di pietra a grandezza naturale, quello accanto al quale Gabriele si è fatto fotografare per la copertina di Facebook; sembra la villa di Scarface, ma in versione de noantri, coi muri scalcinati e i fili che pendono dove nascerà un citofono. Ci sono i bambini che giocano, c’è Ruggero che per una vi...

Omicidio Willy, villa con statue di leoni all'ingresso: ecco la casa del padre dei fratelli Bianchi che percepiva il reddito di cittadinanza. La Repubblica il 27 settembre 2020. Omicidio Willy, villa con statue di leoni all'ingresso: ecco la casa del padre dei fratelli Bianchi che percepiva il reddito di cittadinanza. Macchine, statue di leoni, una villa ben diversa dalla casa di chi non ha nulla ed è costretto a chiedere il reddito di cittadinanza. Le mostrano le telecamere della 7. Dopo l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, la Guardia di Finanza ha avviato una indagine sui redditi della famiglia di Gabriele e Marco Bianchi e ha accusato di frode il padre Ruggero per aver omesso dei dati nella richiesta del Reddito di Cittadinanza. Video la7

Gli "strani" redditi dei Bianchi, fruttivendoli con una vita di lusso. La procura ha avviato una indagine sui redditi della famiglia Bianchi che non sarebbero in linea con il tenore di vita ostentato dai fratelli. Il padre percepisce il reddito di cittadinanza. Gabriele Laganà, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Il passato dei fratelli Gabriele e Marco Bianchi non è certamente dei più tranquilli. La procura di Velletri aveva già messo nel mirino i due ragazzi di Artena: prima del folle e mortale pestaggio di Willy Monteiro Duarte, infatti, i pm avevano aperto cinque fascicoli di indagine per Marco e tre per Gabriele. Spaccio di stupefacenti, lesioni, rissa e porto di oggetti atti ad offendere per uno. Spaccio, rissa e minacce per l'altro. Marco, in particolare, fu arrestato nel maggio del 2018 dai carabinieri di Velletri per stupefacenti. Forse anche per questo il gip del tribunale di Velletri ha confermato per i fratelli la misura cautelare del carcere. La procura ha avviato una indagine sui redditi della famiglia Bianchi e degli altri indagati. Redditi che, almeno ad una prima lettura non giustificherebbero il tenore di vita ostentato dai fratelli Bianchi. Come racconta Il Messaggero un fascicolo che da tipo amministrativo è destinato a divenire fiscale. Gabriele aveva rilevato da poco una frutteria nel centro di Cori, piccolo centro in provincia di Latina. Eppure chi lo conosce bene sostiene che nel negozio non andava spesso. Il 26enne, più che altro, era spesso visto in giro fino a notte fonda, dopo le serate passate nei locali. Difficile che ad aiutare economicamente i fratelli possa essere stato il padre Ruggero: quest’ultimo, infatti, risulta percepire il reddito di cittadinanza. Le indagini degli uomini dell’Arma proseguono serrate. Anche ieri sono stati ascoltati nuovi teste che hanno assistito al brutale pestaggio avvenuto in largo Oberdan. I militari stanno cercando di identificare le tre ragazze con cui i Bianchi hanno detto di essersi allontanati dalla zona dei locali di Colleferro per fare sesso vicino al cimitero. Un’azione che sarebbe avvenuta prima della follia compiuta in strada contro Willy. Contestualmente, per motivi cautelativi sono state ritirate delle armi, regolarmente detenute, che avevano in casa Ruggero Bianchi, padre di Gabriele e Marco, e Stefano Pincarelli, genitore di Mario. Inoltre, dopo un controllo dei militari del Nas e del Nucleo Tutela Lavoro della polizia amministrativa e della Asl locale,è stata chiusa per cinque giorni la palestra Millennium di Lariano dove i Bianchi praticavano la Mma, disciplina che usa pugni e calci per il combattimento. Il riscontro di gravi violazioni amministrative è la motivazione ufficiale. Di diverso avviso i gestori della palestra che in una nota pubblicata su Facebook hanno precisato che la chiusura è legata a motivi sanitari inerenti al coronavirus: "A seguito delle verifiche effettuate dalle autorità competenti presso il centro sportivo Millennium, è stata riscontrata la necessità di migliorare la sicurezza nei percorsi di accesso all'impianto connesse alla prevenzione Anticovid. In particolare si devono adottare modifiche che impongano una sola entrata all' interno del centro sportivo. Al fine di procedere a tali adempimenti le autorità competenti hanno imposto di provvedere entro martedì 15 settembre 2020. Pertanto, si comunica che il centro Sportivo riprenderà la normale attività dal 15 settembre 2020. Ci scusiamo per il disagio". Intanto la posizione dei quattro presunti assassini di Willy si è aggravata nelle ultime ore: i giovani rischiano l'ergastolo. Alla luce dei primi risultati dell’autopsia e delle dichiarazioni rese da nuovi testimoni, la procura di Velletri ha cambiato capo di imputazione per i fratelli Gabriele e Marco Bianchi e i loro due amici Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l'unico ai domiciliari, da omicidio preterintenzionale in omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Dall'esame autoptico è emerso che i colpi inferti a Willy sono stati "ben assestati e non casuali". Una violenza prolungata, messo a segno con una rapida successione di colpi contundenti che hanno provocato polifratture al collo, al volto e all'addome del ragazzo che non ha avuto nemmeno il tempo di reagire. Ciò fa pensare che i colpi siano stati inferti da persone esperte di pugni e arti marziali. Ma il cambio di imputazione non è stato gradito da Massimiliano Pica, avvocato dei fratelli Bianchi e di Mario Pincarelli."Finché non mi mandano nulla dalla Procura per me resta ancora omicidio preterintenzionale", ha affermato all'Adnkronos il legale. "Non sapevo di questo cambio di imputazione – ha aggiunto - ma in base all'autopsia mi sembra abbastanza azzardato l'omicidio volontario". La comunità di Paliano, in provincia di Frosinone, si prepara a dare l'ultimo saluto a Willy: al funerale del giovane, che si svolgerà nel campo sportivo comunale parteciperà anche il premier Giuseppe Conte. La famiglia di Willy ha chiesto "opere di bene al posto di omaggi floreali e, per chi lo desiderasse, di partecipare indossando una maglia o una camicia bianca, come simbolo di purezza e gioventù". In un lungo post su Facebook, il sindaco Pierluigi Sanna si è scagliato contro chi definisce Colleferro "come il luogo peggiore del pianeta. Willy c'è morto in braccio a noi Colleferrini: chiediamo rispetto del nostro dolore".

Gli arrestati di Colleferro, una vita da fiction fra droga e lusso: "Solo a incontrarli facevano paura". Ad Artena, tra i residenti  rabbia e dolore. "Li conoscevamo bene, tutti rasati e tatuati, spacciavano droga e picchiavano per recuperare i crediti dei pusher". Rory Cappelli l'8 settembre 2020 su La Repubblica. Artena. Quelle case arroccate sul costone calcareo paiono quasi un miraggio arrivando in questo comune dell'area metropolitana di Roma, come quando si giunge a Calcata o a Monteriggioni. Sembra un quadro. Poi entri nella parte bassa del paese, parli con la gente, e di poetico in mano ti resta ben poco. Qui - sette minuti in macchina da Colleferro, il luogo in cui sabato notte è stato ucciso a calci e pugni di Willy Monteiro Duarte - vivono i quattro ragazzi accusati dell'omicidio. "Abbiamo paura, sì, abbiamo paura" dice una signora che rientra dalla spesa, due grosse buste di plastica in mano, dietro di lei la sede del Comune. "A volte mi sembra di vedere per la strada i protagonisti di certe serie televisive, tutti rasati, pieni di tatuaggi, con l'aria aggressiva ". In piazza della Vittoria, anch'essa arroccata sul costone, c'è un bar. Gli avventori con il volto coperto dalla mascherina anche qui, come dal giornalaio, dal tabaccaio, in ogni angolo in cui è possibile fare capanella, non parlano d'altro: dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, di Mario Pincarelli, di Francesco Belleggia. "Li conoscevo, sì, come tutti. Dei prepotenti, che quando camminavano se ti trovavi sulla loro strada, ti venivano addosso apposta, per darti un colpo, per fare vedere chi comanda" dice un ragazzo, 20 anni al massimo. "Si credono dei veri dritti, io conosco bene Mario Pincarelli, abbiamo fatto cresima e comunione insieme " ricorda Massimo, 22 anni. "Fin da ragazzino è stato un gran prepotente, faceva cose assurde, tipo farmi vedere, sotto il banco della chiesa, durante la comunione, come si rolla una canna. Ed eravamo veramente piccoli". Andrea, barista anche lui di 22 anni, parla invece dei tatuaggi di Pincarelli: "Io ne ho alcuni, e ognuno di questi lo ho sudato, nel senso che non te li regala nessuno, costano. Mario è pieno di tatuaggi: com'è possibile? Dove lo prendeva tutto il denaro che aveva? Eravamo in classe insieme ma lui era rimasto indietro, è stato bocciato un'infinità di volte, credo non sia neanche riuscito a finire le medie. Il massimo è stato il giorno - racconta ancora Andrea - in cui l'ho visto con il tatuaggio di una lacrima nera all'angolo dell'occhio: nel linguaggio simbolico delle gang significa che hai ucciso". Tutti e quattro hanno precedenti per reati come la rissa, i due fratelli anche per spaccio. C'è chi racconta che i fratelli facessero i picchiatori per recuperare crediti per conto dei pusher, "criminali anche loro, altroché" racconta Marco. Quella sera a chiamarli era stato Pontiggia, che aveva il braccio ingessato. "E spacciavano, anche Pincarelli: fuori dalla sua villa, durante la notte, era tutto un via vai di macchine".

Estratto dell’articolo di Federica Angeli per “la Repubblica” l'8 settembre 2020. (…) I quattro, più un quinto giovane di Velletri (risultato estraneo al pestaggio, ma comunque indagato) vengono portati in caserma a Colleferro. Vanno lì anche i loro genitori, così come i ragazzi di Paliano amici di Willy e gli altri testimoni. Che sentono (e lo riferiscono poi ai militari) uno dei familiari degli arrestati dire: «In fin dei conti cos' hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario». La notizia che Willy è morto è già arrivata, ma ai suoi genitori verrà comunicata due ore dopo, alle 7 del mattino. Il sindaco di Colleferro, Pierluigi Sanna, consegna ai carabinieri le immagini delle telecamere di sorveglianza. Il buio ha oscurato tutta la sequenza di morte. Oggi alle 10.30 nel carcere di Rebibbia l' interrogatorio di garanzia dei quattro killer di Willy, difesi dagli avvocati Vito Perugini e Massimiliano Pica. 

Estratto dell’articolo di Paolo G. Brera e Rory Cappelli per “la Repubblica” l'8 settembre 2020. (…) C'è di peggio. Un amico di Willy assicura che avessero trovato un modo di far soldi con la montagna di muscoli che si portavano addosso: «Ma quali bulli, sono criminali che fanno recupero crediti per i pusher », dice. Hanno precedenti per lesioni, droga. I carabinieri li conoscono bene, «criminali di una certa levatura, ben superiore agli altri due indagati », dicono dalla compagnia di Colleferro. Ma per qualcuno erano un mito, i fratelli che sciamavano per la valle con il Suv Q8 e la Bmw, pestavano e facevano lo sguardo da duri, spacciavano e avevano bei soldini nelle tasche. Mario Pincarelli, 22 anni, cintura nera di karate, era in scia: «Bocciato e ribocciato a scuola, abbiamo fatto cresima e comunione insieme e faceva il bullo con erba e cartine in chiesa, a dieci anni», dice Andrea il barista. Tatuato da capo a piedi, lacrima nera sotto l' occhio che nel linguaggio delle gang è messaggio sinistro da picchiatore: papà faceva il piastrellista, lui mette su ponteggi, la gente dice che «è solo un pischello» ma è un pischello che fa paura. Un pischello che ha pestato un vigile, il 21 agosto, perché provava a dirgli che fosse meglio indossare una mascherina. Poi c' è Francesco Belleggia, il geometra 23enne. Anche loro sono quattro fratelli, ha un braccio ingessato ed è lui che ha chiamato gli amici per chiedere aiuto, sabato notte a Colleferro. Ora dice che gli dispiace tanto, «è disperato» racconta il suo avvocato. Lui e Pincarelli sono di Artena vecchia, piccola meraviglia abbarbicata a monte, pedonalizzata per orografia impraticabile, tutta scalinate in porfido. Qui le consegne porta a porta arrivano ancora oggi col mulo. Ma i giovani van via, se possono, sognano i soldi e le ragazze tatuate come loro, le auto sportive e la vita frizzante che qui è un miraggio perché ci sono i Tir fermi per far transitare il gregge, ed è troppo difficile spiegar loro che quella vita che sognano è un miraggio che finisce a Rebibbia.

Omicidio Colleferro, nella palestra degli aggressori di Willy. L'istruttore di MMA: "Insegno la non violenza, non alleno killer". Camilla Romana Bruno su La Repubblica l'8 settembre 2020. Luca Di Tullio è l'istruttore della MMA Academy di Lariano, palestra dove si allenavano Marco e Gabriele Bianchi, accusati del pestaggio di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo 21enne che ha perso la vita a Colleferro. "Gabriele non si allennava più con noi da tre anni, era passato al pugilato - racconta - mentre Marco aveva combattuto fino a dicembre, poi dopo il Covid non era più tornato". Parlando di Willy l'istruttore si commuove, lo chiama "bambino", e ripete che "non doveva morire così". Provato, probabilmente, anche dai tantissimi attacchi che la sua palestra ha ricevuto sui social, additata come complice della violenza dei due aggressori. "Mi attaccano tutti ma io non sono il maestro dei killer, io insegno la disciplina", ripete tra le lacrime.

Omicidio Willy, qual è il rapporto fra l'allenatore della nazionale di MMA e Marco Bianchi? Ecco cosa abbiamo trovato. Le Iene News il 14 settembre 2020. Fabio Ciolli, allenatore della nazionale MMA FIGMAA, sport nella bufera dopo la morte di Willy Duarte, racconta: “Marco Bianchi l’ho visto combattere, nell’ambiente ci conosciamo tutti”. Ciolli risulta però essere proprio il manager di Bianchi, con la società Hung Mun. “È sotto contratto dal maggio 2019 ma non gli ho mai organizzato un incontro”. Ma in rete alcuni elementi che abbiamo trovato sembrerebbero creare confusione: l'allenatore Ciolli risponde allora a Iene.it. “Se conoscevo i fratelli Bianchi? L’ambiente è talmente piccolo che ci conosciamo tutti, io sono il direttore tecnico della nazionale di MMA. Gabriele non lo conoscevo proprio, Marco l’ho visto combattere, non mi ha impressionato più di tanto. Sulla loro vita privata non so nulla, a me fanno vedere dei video degli atleti. Ho visto dei suoi allenamenti…”. A parlare è Fabio Ciolli, allenatore di MMA e direttore tecnico della nazionale italiana della federazione FIGMAA, uno sport in questi giorni finito in mezzo alle polemiche nate dalla tragica vicenda del brutale pestaggio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, per cui sono stati arrestati 4 ragazzi. Tra loro ci sono appunto i fratelli Marco e Gabriele Bianchi che praticavano le MMA, “Mixed Martial Arts”, una disciplina sportiva che mescola boxe e arti marziali. Ciolli difende l'MMA, che ritiene sotto attacco in modo ingiustificato. "È l'insieme di tecniche di altri sport da combattimento, inseriti nel programma olimpico. Ora si cerca il responsabile: l'accanimento contro la MMA è dovuto a questo fatto di cronaca efferato, forse per l'opinione pubblica è più facile cercare di trovare il mostro". Tutto giustissimo, se non fosse che Fabio Ciolli, quando gli chiediamo di commentare i fatti e di parlarci dei due fratelli Bianchi, non menzioni per primo una cosa che ci sembra importante: sarebbe lui stesso il manager di Marco Bianchi, cioè chi ne gestisce gli incontri. Lo testimonierebbe questo post su Facebook della Hung Mun, società di management di Fabio Ciolli, nel 2019. "Marco Bianchi firma per il management Hung Mun... un altro giovane prospect entra nel management Hm!”. Quando glielo chiediamo risponde così: “Noi abbiamo tutto uno staff che porta atleti, che si avvicinano a noi per trovare dei match. Fanno parte del team le persone che si allenano e hanno stretto contatto con noi quotidianamente. Il management invece è semplicemente una lista di atleti, alcuni non sono neanche italiani, che vengono inviati agli eventi. Non è come il procuratore di calcio che ha stretto contatto con l’atleta”. Gli chiediamo poi se, da manager, abbia mai gestito uno degli incontri di Marco Bianchi: “No, ancora non ho avuto modo di trovargli nessun match. Non ho mai fatto fare combattimenti a Marco Bianchi con la Hung Mun, la mia società di management sportivo, assolutamente no. Noi abbiamo una clausola che prevede la rescissione del contratto in casi molto meno eclatanti. A Marco Bianchi non ho mai trovato un match ancora e ovviamente non potrò mai più trovarglielo”. In rete abbiamo però trovato traccia di un incontro di Marco Bianchi, che da quanto scritto potrebbe sembrare proprio sotto l’egida di Hung Mun. Lo potete vedere da questo post su Facebook, nel quale è pubblicizzato l’evento “Invictus Arena #27”, del dicembre 2019. “Marco Bianchi atleta del Team Di Tullio rappresentato dall’Hung Mun management”, è scritto sul post, “affronterà Giordano Spalletti il prossimo 15 dicembre a Roma in occasione di Invictus Arena #27. Enjoy the HM management”. Un incontro poi vinto da Bianchi, come riporta quest’altro post su Facebook. Chiediamo a Fabio Ciolli di questo incontro e lui ci spiega. ”Quell’evento Invictus #27, nel 2019, Marco se l’è trovato da solo. Aveva firmato con noi ma quel match se l’è trovato da solo, noi abbiamo solo collaborato per la pubblicità. Io non ho neanche il contratto di quell’incontro, non so neanche quanto ha preso. A oggi nessuno del mio management ha trovato un match per lui“. Marco Bianchi quindi, stando alle parole di Fabio Ciolli, da quando è sotto contratto per la Hung Mun, non avrebbe mai sostenuto un incontro procurato dal team. Sul sito della federazione FIGMAA troviamo però il riferimento a un incontro del 2016, un combattimento a Porto Azzurro tra Marco Bianchi e Michele Martignoni. Sul sito della federazione infatti Marco Bianchi è presentato così: “Michele Martignoni (Hung Mun) vs Marco Bianchi (Hung Mun)". Questo potrebbe forse significare che Marco Bianchi era sotto contratto almeno dal 2016? In quattro anni la società non ha organizzato per lui neanche un solo combattimento? Ciolli sostiene che: “la firma del contratto di management con Marco è avvenuta a fine maggio, prima di quel match di dicembre 2019”. E sul perché già nel 2016, sullo stesso sito della federazione FIGMAA, si scriveva “Marco Bianchi (Hung Mun)”, dice: "Non ricordo di aver avuto a che fare con Marco prima del 2019. È ovviamente un refuso, non potrebbero combattere due atleti dello stesso team". Fabio Ciolli sull’atleta Marco dice: “L’ho visto una, due volte. Ha firmato e ha fatto un allenamento, tra l’altro quando è venuto da me lo ha fatto in modo totalmente dimesso, evidentemente forse proprio perché era un bullo che quando si trova in una realtà in cui non è il maschio alfa, cambia totalmente atteggiamento. Non me lo sarei mai potuto immaginare che facesse una cosa del genere: io ho visto un ragazzetto mezzo impaurito, era in difficoltà sia tecnica che mentale. Devono pagare tutto quello che hanno eventualmente commesso, un caso di violenza totalmente discordante dal mondo dello sport. Non riesco neanche a dire che è qualcosa di animalesco, perché gli stessi animali sanno quando fermarsi”.

Willy Monteiro, chiude la palestra dei fratelli Bianchi. La causa: violazioni amministrative. Libero Quotidiano l'11 settembre 2020. E' stata chiusa per cinque giorni la palestra di Lariano frequentata dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, attualmente in carcere perché accusati dell'uccisione di Willy Monteiro Duarte a Colleferro. Il provvedimento è scattato dopo i controlli di polizia, carabinieri e Asl della zona, che avrebbero riscontrato "gravi violazioni di natura amministrativa". Secondo alcune indiscrezioni, però, le autorità competenti starebbero valutando anche altre violazioni, riscontrate in ambito igienico-sanitario. A scrivere su Facebook è proprio la pagina della palestra, il centro sportivo Millennium, che ammette di dover migliorare le norme anti-Covid. Dopo l'omicidio del 21enne capoverdiano, diversi insulti sono stati indirizzati alla palestra e agli istruttori degli aggressori, che praticavano le arti marziali miste (Mma) e per questo sembrava sapessero bene dove colpire, come riportato da diversi testimoni. Intervistato da Fanpage, l'insegnante dei Bianchi, Marco Tullio, aveva detto di essere sconvolto: "Mi è crollato il mondo addosso, non è questo ciò che gli ho insegnato a Marco e Gabriele. Pratico Arti Marziali da vent'anni, mi hanno detto che qualche volta sono stati in mezzo a colluttazioni, li ho ripresi e gli ho detto ‘non si fanno queste cose, cambia comportamento perché altrimenti non puoi far parte della mia accademia, perché non è questo quello che noi tramandiamo alla gente'".

Lotta, wrestling e boxe tailandese: ecco cos'è l'Mma, lo sport dei fratelli arrestati per l'omicidio di Willy Fonteiro Duarte. Le Mixed Martial Arts, praticate dai fratelli Bianchi, accusati insieme a Mario Pincarelli, di 22, e Francesco Belleggia, di 23, di aver massacrato con pugni e calci un giovane ventunenne intervenuto per difendere un amico vengono dal Brasile e sono uno sport che mischia elementi di molte discipline differenti. Massimo Lugli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. Vengono dal Brasile dove, alla fine degli anni Settanta si chiamavano "Vale tudo", un nome è che tutto un programma. A inventarle fu la famosa famiglia Gracie, la dinastia di lottatori esperti di "Brasilian Ju Jitsu" che sfidarono i praticanti di tutte le discipline da combattimento del mondo. Il concetto è semplice: dite che la vostra arte marziale è la migliore? Salite sul ring e vediamo se è vero. Niente categorie di peso, niente durata prestabilita degli incontri, regole ridotte all'osso. Vietati i morsi e le dita negli occhi e stop. Pugili, karateka, maestri di kung fu, di krav maga, di capoeira dovettero misurarsi con una situazione completamente diversa da quella a cui erano abituati e spesso ne uscivano sconfitti. Oggi le Mixed Martial Arts (MMA) sono qualcosa di molto diverso rispetto agli albori, uno sport a sé, che mischia elementi di molte discipline differenti: lotta, wrestling, boxe tailandese, kali filippino, ju jitsu brasiliano e ju jitsu giapponese con categorie di peso, regole e a volte uso dei guantini e delle protezioni per i piedi. È questo lo sport praticato dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, 24 e 26 anni, arrestati insieme a Mario Pincarelli, di 22, e  Francesco Belleggia, di 23, con l'accusa di aver massacrato con pugni e calci sul volto Willy Fonteiro Duarte, un 21enne intervenuto per tentare di placare una rissa e per difendere un amico dalle botte del branco selvaggio. Un gesto che è costata la vita al giovane aiuto cuoco, di origini capoverdiane che aveva il sogno del calcio e di poter un giorno indossare la maglietta della sua amata Roma. Un omicidio che ha scosso e indignato la comunità di Paliano, dove il ragazzo viveva assieme alla sua famiglia e tutta la cittadinanza, che conosceva e amava Willy. In Usa dove per anni sono state relegate al pubblico delle pay tv le MMA fanno furore. Da noi non c'è palestra che non vanti il suo bravo insegnante di MMA quasi sempre campione di qualcosa visto che in assenza di un'unica federazione nazionale, associazioni e titoli si moltiplicano all'infinito. Ma il concetto base è sempre lo stesso: si tratta di uno sport per quanto letale e la violenza al di fuori del dojo è rigorosamente bandita. I praticanti di MMA, spesso ragazzi che vengono da periferie abbandonate con un vissuto di risse e violenza, imparano a controllarsi, a educare, a trattenersi a non cadere nelle occasioni di violenza. Il dramma di Colleferro, il ragazzo ucciso a calci e pugni, dimostra che purtroppo non sempre è così. Gli istruttori qualificati di solito cacciano senza pietà gli atleti che fanno a botte in strada perché come in tutte le arti marziali disciplina e autocontrollo sono la prima cosa che si impara. Alcuni insegnanti però sono più tolleranti e fingono di non sapere quello che accade fuori dalla palestra soprattutto verso chi porta buoni risultati agonistici che sono sempre un'ottima pubblicità. È il caso della palestra di Tullio dove si allenava Marco Bianchi? O del dojo di karate dove praticava Mario Pincarelli? Impossibile stabilirlo, almeno per ora. Di certo però la pratica delle arti marziali per gli arrestati sarà un'aggravante di giudizio. La storia secondo cui le cinture nere e i maestri di discipline da combattimento sono schedati dalla polizia è una vecchia bufala, ma conoscere tecniche letali e nelle MMA ce ne sono parecchie soprattutto strangolamenti e colpi ai punti letali e usarle in una rissa di strada è un elemento di colpevolezza in più. Chi sferra un calcio in testa a un avversario o lo soffoca con una presa al collo sa benissimo che può ucciderlo, forse stavolta la morte di Willy non sarà considerata solo un omicidio preterintenzionale.

FILIPPO FEMIA per lastampa.it l'8 settembre 2020. Il ring, una gabbia recintata, non è il teatro più edificante per uno sport. Eppure l’Mma è diventato molto popolare negli ultimi anni. Scorrendo l’elenco delle regole, se si escludono quelle di buon senso (non sputare, non infilare le dita negli occhi ecc…) ne restano poche: vietato colpire la colonna vertebrale o sotto la cintura, niente calci ai reni con il tallone. Quasi tutto il resto è lecito. Troppo, per molte persone, che sull’onda del brutale pestaggio di Colleferro hanno chiesto di limitare le arti marziali più estreme. Il dibattito, innescato da un tweet del direttore de La Stampa Massimo Giannini, ha diviso i social. Chi pratica l’Mma prende le distanze dai picchiatori che hanno ucciso Willy: «Se un falegname commette un omicidio, si criminalizzano tutti i falegnami?», domanda qualcuno. «Bisogna bandire quelle palestre che insegnano in modo distorto le filosofie delle arti marziali», rilancia qualcun altro. Che l’Mma sia il più violento tra gli sport di contatto, è difficile negarlo: basta cliccare su YouTube un match qualsiasi. A occhi sensibili i combattimenti appaiono come violenza cieca, senza controllo. Alcuni atleti si accaniscono sull’avversario, già al tappeto e indifeso, con pugni in pieno volto prima che l’arbitro fermi la furia. Non è raro che a fine combattimento il ring sia zuppo di sangue. «Ho visto qualche immagine in tv e non vorrei che mio figlio lo praticasse», dice Remo Carulli, psicologo dello sport. Che però avverte: «Non si può demonizzare una disciplina: sono convinto che la stragrande maggioranza dei lottatori Mma siano persone estranee a condotte violente». «Questa è la classica polemica all’italiana: non c’è nessun legame tra le arti marziali miste e quei due deficienti», commenta Filippo Stabile, 47 anni, tra i principali maestri di Mma in Italia. «Nella mia palestra vengono anche bambini: la prima cosa che insegno è il rispetto verso il rivale», spiega. In 20 anni di carriera ha dovuto fare i conti con più di un «violento esaltato»: «Li ho subito allontanati dopo aver restituito i soldi dell’abbonamento». A fare la differenza, sostiene Remo Carulli, è proprio chi insegna. È il caso dei maestri che hanno strappato i giovani alla strada e alla delinquenza. «È innegabile, però, che rispetto a discipline come judo e kung fu, l’Mma educa meno alla comprensione del limite e al controllo della violenza», aggiunge lo psicologo. Piuttosto andrebbe sondato il contesto familiare dei due ragazzi arrestati: «Si possono ipotizzare condizioni di disagio, il ruolo della famiglia è fondamentale. Faccio sempre l’esempio del calcio: se hai un allenatore ineccepibile ma tuo padre urla e si azzuffa in tribuna, il potenziale educativo è vanificato».

Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Al primo piano del Centro Sportivo Millenium di Lariano una gigantografia di Marco Bianchi, trionfante al centro del ring, incornicia l' ingresso della Mma Academy accanto ai diplomi del maestro Luca Di Tullio, che dà il nome al Team. All' ora di pranzo il parcheggio della grande palestra dove "Maldito" si è allenato fino a pochi giorni fa c' è un andirivieni di mamme con i bambini, la piscina è gremita di piccoli coi braccioli. Entrano ragazze in tuta e signori di mezza età. Il luogo dove i fratelli Bianchi hanno passato ore e ore ad allenarsi non è un "fight club", ma un centro sportivo dove convivono discipline diverse, Arti marziali miste (Mma) comprese, spiega Alfonso Rossi, responsabile dell' impianto. «Abbiamo regole deontologiche precise, qui non abbiamo mai avuto problemi - dice Rossi - Io sono sempre per l' innocenza fino a prova contraria. Ma questa vicenda, se dimostrata, è fuori da ogni regola del consesso civile». Di Tullio è amareggiato. «Nella nostra Accademia non si insegna assolutamente la violenza: insegniamo rispetto per gli altri e umiltà, autocontrollo e disciplina, se un ragazzino è iperattivo sfruttiamo questa caratteristica a fini agonistici. Alleniamo bambini di sei anni, i loro genitori, ragazze, persone di tutte le età». Per questo non accetta che la Mma - un mix di arti marziali, kickboxing e lotta a terra - sia descritta come una scuola per picchiatori: «È uno sport come la boxe, o la kickboxing. Allora dovremo abolire tutto, compreso il tiro al piattello perché uno col fucile potrebbe sparare alla gente. Insegno da vent' anni: se fossi stato io il problema avrei creato mille assassini ai Castelli romani: lo sport non c' entra niente, è molto rispettoso e finito l' incontro si abbraccia l' avversario». Come Rossi, anche Di Tullio si è messo in contatto con la famiglia di Willy per esprimergli vicinanza: «Sarò ai funerali, non ci sono parole per quello che è accaduto. Mi metto nei panni di chi ha perso un figlio, sono spezzati». Ma chiede di aspettare l' esito delle indagini prima di emettere sentenze: «Marco lo conosco da quando aveva quindici, come il fratello che però negli ultimi tempi si è dedicato al pugilato e poi da un anno e mezzo ha smesso completamente. Qui si è sempre comportato benissimo, mai gesti di violenza: ha portato ragazzini, ha aiutato chi era indietro tecnicamente. È un professionista. Ha vinto tre gare, zero sconfitte. Non capisco il perché di questa futile rissa, ma ricordiamoci che erano in quattro e che bisogna capire chi ha colpito a morte quel povero ragazzo». Nel via vai del parcheggio, chi conosceva anche solo di vista i fratelli scuote la testa: «Prima o poi doveva succedere, hanno fama di attaccabrighe». «Anni fa ci allenavamo insieme: bravi ragazzi, un po' "zellini" - dice Marco - poi evidentemente sono cambiati, ma lo sport non c' entra». Di Tullio chiarisce: «Non posso certo seguire la vita privata dl 50 atleti fuori dalla palestra, se qualcuno perde la brocca non può saperlo nessuno. Ma Marco non è un violento: è carismatico, amichevole con tutti. Uno che non si fa mettere i piedi in testa ma non se le va a cercare».

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 settembre 2020. Caro Dago, pur avendone letto i resoconti su 3 o 4 quotidiani ti confesso che non ho ben capito come sia nata e perché la tragedia di Colleferro. Di sicuro c’è che è morto un italiano di 21 anni di pelle nera, che quattro energumeni siano stati indicati dai testimoni mentre picchiavano e picchiavano e picchiavano, che esiste un video in cui due di questi 4 bastardi se la ridevano per quello che avevano fatto. Di sicuro c’è che due di questi quattro erano degli esperti di arti marziali e che un terzo era una cintura nera di judo. Ed ecco che qualcuno che non conosce l’arte del silenzio di fronte all’innominabile di una tragedia e di una morte, invita a chiudere le palestre dove vengono insegnate le arti marziali. Dio che scemenza, Dio che ignoranza delle leggi dello sport e particolarmente di quello sport, specchio tra i più vibranti delle culture orientali. Alla base dello sport, e particolarmente delle arti marziali, c’è il rispetto dell’avversario, la lealtà nel portare i colpi, la strenua educazione del proprio corpo a cavarne il meglio contro chi ti aggredisce. Le arti marziali sono arti della difesa e meglio ancora della difesa di chi è apparentemente più debole, più fisicamente esiguo. Non sono uno specialista della materia, ma quanto vi sto dicendo è lampante. Le arti marziali sono le arti che ti insegnano la rapidità dei colpi, l’intelligenza nel replicare alle mosse dell’avversario, è uno sport nel quale tu non porti i colpi a far male all’avversario e bensì a dimostrare quanto la tua tecnica sia fulminea e imprevedibile. Dei campioni di arti marziali quei due figuri che avrebbero insistito a calci e pugni contro un ragazzo caduto per terra inerme? Ma state scherzando. Un orientale di quelli che le hanno inventate le arti marziali vi querelerebbe a causa di una tale affermazione. Se le cose sono andate come leggo, quei due non sono dei “fascistoidi” e bensì delle bestie, dei poveri zoticoni che già prima facevano i bulli in una cittadina provincia. Ma che c’entrano le arti marziali e i loro decaloghi, tutti scritti all’insegna dell’onore? Com’è sempre nello sport, dov’è irrinunciabile la legge secondo cui alla fine della contesa stringi la mano all’avversario. E’ successo nello sport, ed esattamente nella finale del salto in lungo delle Olimpiadi di Berlino del 1936, che un atleta quanto di più ariano, il tedesco Carl Ludwig Hermann Long, indicasse al suo rivale americano (il nero Jesse Owens) un suo errore al momento della battuta e che forte di quella indicazione Owens vincesse la medaglia d’oro. Long morì nei combattimenti della Seconda guerra mondiale. Molti anni dopo Owens e il figlio di Long andarono a commemorarlo sulla pista di Berlino, e Owens scoppiò in lacrime. Questo è lo sport, queste sono le leggi dello sport e innanzitutto delle leggi marziali. Poi c’è che chi va in palestra può essere un pezzo di merda e arrivare al punto di avventarsi in tanti contro uno già disfatto e agonizzante per terra. Ma che cosa ha a che vedere un tal pezzo di merda con lo sport?

Il campione di Mma: “L’unico vero guerriero è stato Willy. L’allenatore di quei vigliacchi chieda scusa”. Il Dubbio l'8 Settembre 2020. Il campione di arti marziali romano Alessio Sakara, atleta dei pesi mediomassimi nella federazione statunitense Bellator Mma commenta con rabbia l’omicidio del 21enne di Colleferro. “In questa terribile storia c’è stato un solo vero guerriero, Willy, non certo quei quattro che si sono accaniti su una sola persona. Sono mele marce che non hanno niente a che vedere non solo con l’Mma ma con lo sport in generale, vanno stracacciati da qualunque attività sportiva. E adesso chi dovrebbe metterci la faccia è il loro allenatore, è lui che dovrebbe chiedere scusa perché è lui che lascia in giro questa gente. Se dobbiamo parlare di Mma, si prenda le responsabilità chi ha insegnato loro questo sport”. Il campione di arti marziali romano Alessio Sakara, atleta dei pesi mediomassimi nella federazione statunitense Bellator Mma, all’Adnkronos commenta con rabbia l’omicidio del 21enne “Sono mele marce che non hanno niente a che vedere non solo con l’Mma ma con lo sport in generale, vanno stracacciati da qualunque attività sportiva. E adesso chi dovrebbe metterci la faccia è il loro allenatore, è lui che dovrebbe chiedere scusa perché è lui che lascia in giro questa gente. Se dobbiamo parlare di Mma, si prenda le responsabilità chi ha insegnato loro questo sport”. “Se vengo a sapere che un mio allievo ha litigato in discoteca o si è messo in qualche brutto guaio, lo caccio subito senza passare per il via, senza aspettare le scuse – aggiunge Sakara – non esiste proprio. Anche cinque contro uno è una cosa disumana, lo ripeto spesso anche nelle scuole parlando di bullismo. Purtroppo, come sempre quando uno fa un determinato sport, vogliono trovare il capro espiatorio. Succede purtroppo anche che carabinieri, poliziotti o militari si macchino di crimini terribili, non vuol dire però che siano tutte brutte persone. Il nostro sport è tutto il contrario rispetto a quanto accaduto. E sono sempre di più i campioni a fare del bene, a rappresentare l’Italia nel mondo, a guadagnarsi il rispetto di tutti”.

Morte di Willy a Colleferro, il campione MMA Vettori: "4 codardi contro 1". Le Iene News l'8 settembre 2020. Il campione italiano di MMA Marvin Vettori, una star negli Usa, risponde alle polemiche sullo sport di combattimento, in video e in esclusiva per Iene.it, dopo la morte del giovane Willy Duarte: “È stato uno scontro da codardi, quattro contro uno. Ma non demonizzate le MMA, i veri atleti non le usano per la strada come bulli!". “Quello che si è visto a Colleferro è infamia, un abuso di potere, questi criminali sono delle teste di cazzo”. Non usa mezzi termini Marvin Vettori, campione di MMA nel video che vedete qui sopra e che inviato in esclusiva a Iene.it. Un video nel quale difende il suo sport, finito sulla bocca di tutti in queste ore dopo il brutale pestaggio e la morte del 21enne Willy Monteiro Duarte. Lui è campione di “Mixed Martial Arts”, arrivando ai massimi livelli mondiali. Oggi è una vera e propria star negli Stati Uniti dove vive e pratica lo stesso sport dei due picchiatori di Colleferro, i fratelli Bianchi (vedi questo articolo e il post di Gabriele Bianchi dopo la morte di Willy). “Quattro esaltati hanno aggredito un ragazzo, che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e l’hanno malmenato a morte”, dice Vettori. “Uno scontro codardo, quattro contro uno, nulla che riguardi lo sport. I media hanno attaccato l’MMA in quanto creatrice di personaggi violenti come questi. Dire che crea dei bulli da strada è una grandissima cazzata! Mi alleno in MMA da 10 anni, ai massimi livelli. Chi si allena veramente e dà l’anima non pensa minimamente a usare quello che impara in palestra, in strada. È uno sport che comporta uno scontro fisico, ma ad armi pari”. Centottacinque centimetri e 84 chili di muscoli, 2 vittorie per ko e 8 per sottomissione, il 26enne Marvin Vettori è tra i più grandi campioni italiani di MMA, che unisce boxe e arti marziali. Marvin, nella categoria pesi medi della prestigiosa federazione americana Ufc, la più importante a livello globale, è amatissimo negli Usa, dove lo abbiamo raggiunto per chiedergli di commentare la tragedia di Colleferro: “Questo ragazzo non lo riporterà indietro nessuno, ma demonizzare uno sport e cercare la ragione della sua morte nelle MMA è estremamente sbagliato. Sono più le persone che le MMA hanno tolto dalla strada di quelle che ce le ha messe. Tutti i giornalisti che ne parlano male possono venire qui e vedere come mi alleno per ogni mio match, così vedranno quello che c’è dietro”. E dice, fiero dello sport che gli ha dato tanti successi: “Mi chiamo Marvin Vettori e sono un atleta Ufc: rappresento le MMA, quelle vere!”

Niccolò Zancan per ''La Stampa'' il 9 settembre 2020. Gianrico Carofiglio, quello che è successo a Colleferro è colpa delle arti marziali? «Non è corretto parlare di arti marziali. In questo caso parliamo di una disciplina di combattimento, l'Mma, cioè parliamo di uno sport estremamente violento, in cui le regole sono molto meno restrittive di quelle di altri sport da combattimento come ad esempio il pugilato. Detto questo, non può essere colpa delle discipline sportive. Come non è colpa degli allevamenti di cani, se un cane assalta un uomo. Ma non voglio eludere la domanda: ci sono alcune palestre in Italia che possono essere luoghi pericolosi di educazione alla violenza» Il direttore della Stampa ha affermato in un tweet che le palestre di Mma andrebbero chiuse.

Lei è d'accordo?

 «No, non in questi termini. La soluzione non è chiudere le palestre. Ma penso che ci si sia un problema di controlli sull'insegnamento di discipline potenzialmente pericolose. Oggi se io voglio aprire una palestra dove dico che si impara l'arte definitiva del combattimento per sconfiggere qualsiasi avversario, lo posso fare. Lo può fare chiunque, anche un qualsiasi balordo. Questo è il problema. Forse qualche forma di controllo sull'insegnamento servirebbe, magari l'istituzione di un patentino. Forse servirebbe un censimento delle palestre, per verificare quei minimi requisiti di professionalità tecnica e di consapevolezza che deve avere un insegnante».

Parliamo del pestaggio di Colleferro con lo scrittore Gianrico Carofiglio per almeno due motivi. Il primo è che pratica le arti marziali fin da ragazzo (sesto Dan di karate) e il suo personaggio letterario più celebre, l'avvocato Guido Guerrieri, si tiene in forma e si salva la testa prendendo a pugni un sacco da boxe. Il secondo è che l'ex magistrato di Bari ha appena pubblicato per Feltrinelli un saggio che si intitola «Della gentilezza e del coraggio».

Di questo parla: tecniche marziali per affrontare tempi feroci. Erano in quattro contro uno. E quell'uno, Willy Monteiro, era intervenuto per cercare di sedare una rissa. È sbagliata la tentazione di fare di questa tragedia un paradigma dei tempi?

«Fatti di ottusa e demenziale violenza ci sono sempre stati. Noi, naturalmente, non dobbiamo sottrarci al dovere di capire, ma dobbiamo evitare l'eccesso di attualizzazione. La questione è essenzialmente l'incapacità di dare senso a determinate esistenze, molto spesso legata alla povertà culturale e lessicale. Ci sono ricerche interessantissime, in cui si collega l'attitudine alla violenza incontrollata all'incapacità di raccontare la proprio esperienza. Cioè: io sono incapace di riconoscere i miei sentimenti di frustrazione e di rancore, sono incapace di nominarli, e allora li agisco. Questa non è assolutamente una giustificazione per nulla. Io non conosco quei ragazzi. Ma la sensazione, guardando le immagini, è che fossero degli esaltati. Ma di esaltati ce ne sono parecchi, però raramente arrivano a commettere un omicidio».

C'è la violenza sulla strada. E poi ci sono i commenti violenti. Un avvocato che sui social definisce «bestie» i presunti assassini. L'istruttore della palestra li chiama «infami». Stanno cedendo gli argini?

«Il senso di sgomento lo possiamo affrontare in due modi. O con un doloroso tentativo di capire, che ci spinge a guardare negli occhi qualcosa di tremendo. Oppure con reazioni violente, con cui cerchiamo di esorcizzare il mostro che abbiamo dentro. L'arte marziale, correttamente intesa, si occupa proprio di questo: imparare a riconoscere la violenza che è dentro di noi per renderla innocua».

Sui social non sembra che ci sia molta gentilezza, è mai stato tentato di lasciarli?

«No. Accetto la sfida del confronto. Proprio questa è la gentilezza: io non rifiuto il conflitto».

In un editoriale sulla Stampa Massimo Recalcati ha scritto che l'uso della violenza «è sempre razzista perché rifiuta le differenze, il pluralismo, l'esistenza difforme dell'altro». È d'accordo?

«Non direi razzista, ma non c'è dubbio che la violenza è il modo che noi usiamo per sfuggire al dovere dell'intelligenza».

Qualcuno mette in stretta correlazione la violenza del linguaggio politico con la violenza della strada. Lei?

«Eviterei di stabilire una relazione diretta fra la violenza stupida e insensata della propaganda politica di questi anni e fatti come quello di Colleferro. Però una società in cui si riducono gli spazi del confronto civile e si moltiplicano, addirittura applauditi, gli spazi del pestaggio mediatico, è una società dove è meno difficile che accadono cose spaventose».

Omicidio Colleferro: violente sono le persone, non le arti marziali. Notizie.it l'08/09/2020. La violenza ti cresce dentro per le esperienze che la vita ti fa provare, non si impara tirando pugni a un sacco. L’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato con calci e pugni da quattro giovani di Artena per aver cercato di proteggere un coetaneo, è una vicenda dai tanti risvolti – etici, morali, razziali – che ha creato un grosso misunderstanding a causa della morbosità dei giornalisti nello scavare nella vita privata dei responsabili del pestaggio. Scavando scavando subito è apparso all’occhio il dettaglio perfetto per la narrazione del cattivo: Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni praticavano le mma (mixed martial arts, arti marziali miste, per chi non fosse esperto). E da subito sulla stampa è stato è partito il processo di demonizzazione a chi pratica la disciplina. I fratelli Bianchi sono così diventati ‘picchiatori’ perché si allenavano in palestra con guantoni e colpitori, come se questo fosse direttamente collegato alla volontà di massacrare un individuo. E la caccia alle streghe si è estesa ai centri sportivi che insegnano le mma, portata avanti sui social anche dal giornalista Massimo Giannini, che in un tweet chiedeva di “bandire certe discipline marziali e chiudere le relative palestre”, seguito a ruota da migliaia di internauti. Troppe le inesattezze. Una su tutte: come le altre arti marziali, anche le mma hanno delle regole. Ogni incontro è regolato da un arbitro, che sospende il match quando vede una situazione di pericolo per uno dei due combattenti. Come tutte le arti marziali, nelle palestre si insegna la disciplina e a utilizzare quanto appreso solo per difesa personale. Quindi il paradigma “sono violenti perché praticano mma” è sbagliato, perché lo sport non genera rabbia, al massimo la incanala per raggiungere un obiettivo. Ragionando per estremi, bisognerebbe evitare di insegnare i tackle a calcio, perché potrebbero essere riprodotti al di fuori dei campetti e fare male. Una proposta assurda, vero? Eppure quando un episodio di cronaca vede coinvolto un praticante di arti marziali o di boxe, subito si presuppone che sia un violento e che in qualche molto lo sport abbia accentuato questa sua natura. Una volta saliti sul tatami in palestra, invece, la prima cosa che viene insegnata dai maestri è la disciplina e qualunque utilizzo delle tecniche al di fuori del dojo è vietata. E quasi sempre, quando sono emerse violazioni di queste regole, l’atleta è stato allontanato dalla palestra, come sicuramente avverrà per i fratelli Bianchi. Sarebbe stata data la stessa enfasi al dettaglio se i due fratelli avessero praticato calcio, tennis o pallavolo? Probabilmente sarebbe stato relegato a mero abbellimento all’interno della narrazione. Invece tanti approfondimenti sono stati dedicati alla combinazione tra lotta, wrestling e boxe che connota le mixed martial arts, come se all’improvviso fossero emerse dal nulla, dimenticando che questo sport negli Usa trascina un business milionario (il match McGregor-Cerrone a gennaio ha portato un incasso per il vincitore di circa 80 milioni di euro – tra ‘borsa’ dell’incontro, proventi della pay per view, sponsor ed entrate collaterali – secondo i media anglosassoni). Dove nonostante l’alta posta in palio, quando la ‘campanella’ suona e gli atleti escono dal ring, non c’è più spazio per la violenza, anche nelle vite private. Tra i professionisti – ma anche tra gli stessi praticanti – i casi di utilizzo della violenza al di fuori della difesa personale sono minimi. Smettiamola quindi di perderci nei luoghi comuni e facciamoci una domanda: se i fratelli Bianchi – con precedenti per rissa e spaccio – non fossero stati praticanti di mma, la vicenda sarebbe andata in modo diverso? La violenza ti cresce dentro per le esperienze che la vita ti fa provare, non si impara tirando pugni a un sacco.

Per i tatuati di Colleferro le botte sono un ascensore sociale…Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'8 settembre 2020. I tatuati di Colleferro che hanno ucciso Wylli non sono nati ricchi. Non sono come Gianluca Vacchi, tatuato e palestrato come loro che su Instagram posta le foto dei suoi balletti, dei suoi viaggi sullo yacht, del suo far nulla, con patrimonio assicurato, che ha migliaia e migliaia di follower. Vorrebbero. Loro vorrebbero…I tatuati di Colleferro hanno questo modo – mica ci sono solo quei quattro, la comitiva è di una decina, e mandano avanti il piccoletto, quello si infila in un gruppo, prende la rissa, lo mettono giù. A questo punto, arrivano loro, i grossi, e menano tutti. E spaccano tutto. Fanno sempre così. Ogni sabato. I tatuati di Colleferro – il sabato seminano il terrore. Gli piace la leggenda che gira intorno – a Artena, a Paliano, a Cori, a Colleferro, li conoscono tutti. Sono “la banda di Artena”. Li evitano tutti, se possono. Non sempre si può. E c’è sempre qualcuno che ancora non sa. E ci casca. Un’altra rissa, un altro pestaggio. Un’altra tacca. Un altro post da mettere sui social. È il bullismo sistematico – l’ideologia del bullismo. Come fosse un riscatto, un ascensore sociale, una rivendicazione: «La vita in ginocchio, fatela fa’ a altri», scrive Gabriele Bianchi sul suo profilo facebook. Loro no. Loro, la vita la prendono a mozzichi. Loro, la vita degli altri, se la prendono. I tatuati di Colleferro – non sono nati ricchi. Non sono come Gianluca Vacchi, tatuato e palestrato come loro che su Instagram posta le foto dei suoi balletti, dei suoi viaggi sullo yacht, del suo far nulla, con patrimonio assicurato, che ha migliaia e migliaia di follower. Vorrebbero. Loro vorrebbero – fiche strepitose accanto, dai fianchi sottili e dalle tette enormi, fiche- fumetto, patacche di orologi e collanazze d’oro, un brillante al lobo dell’orecchio, una ricchezza ostentata e schiaffata in faccia, che affascina migliaia di falliti, frustrati. Essere poveri non è una virtù – ce lo ricorda Briatore continuamente. Lavorare ed essere poveri – è una sfiga doppia. Ma Vacchi non ha bisogno di mozzicare nella vita – si diverte, se la gode, è ricco di famiglia. I tatuati di Colleferro no – se va bene, vanno in gita a Ponza un fine- settimana e si sparano i selfie, mica fanno la crociera nel Mediterraneo con chef e maggiordomo sullo yacht. Loro vorrebbero. Loro devono prenderla a morsi la vita. Quella degli altri. «Il modo in cui odio e amo è pesante» – scrive uno dei tatuati di Colleferro. È una frase di Guè Pequeno, il rapper che è andato anche all’Isola dei famosi e ha scritto un libro, Guerriero, in cui racconta se stesso, tra periferie e suite a cinque stelle, tra poesia e slang di strada, tra droghe e ossigeno, e i suoi sogni: «Mi ero ripromesso due cose: che avrei spaccato col mio stile e avrei fatto i soldi». I soldi – è l’ossessione dei tatuati di Colleferro. Quelli che non hanno, quelli che vorrebbero avere. Ma c’è anche un’economia del bullismo – recupero crediti di droga, la palestra delle arti marziali: essere bulli di periferia può tornare utile, fare branco può tornare utile. Prima o poi sarebbe successo – non può succedere a Vacchi e non può succedere a Pequeno, che ai soldi ci sono arrivati o se li sono trovati. A loro sì, a loro poteva succedere. Ma nessuno li ha fermati prima. Eppure, tutti sapevano. Melissa Morganti è la sorella di Emanuele, ucciso nel 2017 a vent’anni a pugni e calci da un branco di balordi fuori del Mirò Music Club, in piazza Regina Margherita, ad Alatri. Era andato a ballare con la sua Ketty e non è più tornato a casa: «La mia idea di Giustizia mi spinge a voler fare in modo che quello che è accaduto a Emanuele non succeda ad altri. Perché questo non resti retorica, dico che la legalità e il rispetto per la vita umana devono venire prima del rispetto per la natura, l’ambiente, il clima. Se un Paese e i suoi cittadini non rispettano la vita dei loro simili, come e cosa possono amare e rispettare? Nella morte di Emanuele non c’è complotto o intrigo. È la fine di un bravo ragazzo di 20 anni che non desta molto interesse. Questo è il punto, la gente dovrebbe essere più colpita da un’uccisione immotivata». Invece, è successo a altri, è successo a un altro bravo ragazzo, a Willy, e nello stesso identico modo come è successo a Emanuele, una rissa, mettersi in mezzo per placare, una tempesta di violenza che si abbatte su di loro. Emanuele e Willy facevano la cosa giusta – provare a sedare una rissa. Le risse nei locali nascono sempre per cose balorde, uno sguardo alla ragazza del gruppo, un urtarsi in qualche passaggio e non chiedere scusa, una mancanza di “rispetto”. Branchi che si contendono un territorio minuscolo dove qualcuno dovrà cacciare via qualcun altro, per sempre. Qualche volta saltano fuori le lame, a volte non serve. Emanuele e Willy non avevano branco – e questo è stato fatale. È l’idea della violenza come regola di vita – fare la cosa giusta è una debolezza. La violenza è ovunque, non puoi resisterle, non puoi rovesciarla – puoi farla solo tua. Esibirla. Gonfiare i muscoli, metterti in posa – io sono un’arma pericolosa, fate attenzione. C’è il minuto di silenzio nella piazza del comune di Colleferro. La società civile è sgomenta. Non sa come reagire, sente di avere subito un torto, di vivere un lutto. Ma è troppo tardi, per Emanuele. Anzi, è “Tardissimo” – come canta Guè Pequeno. Nessuno farà più la cosa giusta a Colleferro. E noi, ne avremo di retorica, ancora.

Omicidio di Willy: “Così Pincarelli picchiò un vigile per la mascherina”. Le Iene News l'8 settembre 2020. Non ci sono solo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. Ecco il racconto, in esclusiva a Iene.it, di come Mario Pincarelli, un altro dei 4 arrestati per aver pestato a morte il 21enne Willy Monteiro Duarte a Colleferro, avrebbe aggredito il 21 agosto scorso ad Artena l’ispettore Sandro Latini perché gli aveva chiesto di mettere la mascherina. “Ha spinto a terra un ispettore e l’ha preso a pugni perché gli aveva detto di mettere la mascherina”. Non solo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi erano noti come picchiatori. Anche Mario Pincarelli, un altro dei quattro ragazzi arrestati con l’accusa di aver pestato a morte il 21enne Willy Monteiro Duarte a Colleferro, era ben conosciuto: il 21 agosto scorso avrebbe aggredito così un vigile urbano ad Artena (Roma). A raccontarlo in esclusiva a Iene.it è Marta Sodano, comandante della polizia locale di Artena: “Dopo che il governo ha deciso l’obbligo di mascherine in caso di assembramenti dopo le 18, anche il 21 agosto facevamo rispettare la misura. Ho mandato una pattuglia: c’erano l’ispettore Sandro Latini e un agente. Mario Pincarelli e un'altra persona, invitati a indossare la mascherina, si sono rifiutati”. La situazione è subito degenerata: “Hanno iniziato a inveire contro i vigili. Pincarelli, sempre senza mascherina, si è messo faccia a faccia davanti all’ispettore fin quasi a toccarlo, come gesto di sfida. Poi ha iniziato a spintonarlo e, all’ennesimo spintone di un ragazzo di 22 anni a un uomo di oltre 50, Latini è andato a terra. Pincarelli, che era noto come persona "non facile da gestire", gli ha dato poi due pugni e non lo faceva alzare. Sono intervenuti poi i carabinieri, che si stanno occupando del caso”. Dell’omicidio di Colleferro vi abbiamo parlato anche raccontandovi i combattimenti Mma dei picchiatori, il post di uno dei fratelli Bianchi dopo che Willy era già morto e la difesa delle arti marziali MMA del campione Marvin Vettori.

Omicidio Colleferro, Marco Bianchi a processo per un altro pestaggio. Notizie.it il 20/09/2020. Il prossimo giovedì 24 settembre il 24enne Marco Bianchi, uno dei quattro presunti aggressori di Willy Monteiro, dovrà presentarsi in aula per il processo a suo carico riguardante un episodio di pestaggio avvenuto il primo maggio del 2018. In quella data, il fratello di Gabriele Bianchi avrebbe infatti massacrato un ragazzo bengalese assieme ad altri amici (non gli stessi della tragedia di Colleferro) a tal punto da essere accusato di lesioni gravi anche in questo caso aggravate dai futili motivi. Secondo quanto riportato dagli organi d’informazione la prima convocazione per il processo contro Marco Bianchi relativo al pestaggio del 2018 era stata fissata per lo scorso 26 giugno, ma in seguito rimandata a causa dell’emergenza coronavirus. I fatti di due anni fa riguardano tuttavia soltanto uno dei sette fascicoli giudiziari complessivamente pendenti nei confronti dei fratelli Bianchi, noti nella zona tra Velletri e Lariano per la loro fama di picchiatori e per la loro sfilza di precedenti penali. Tra i fatti più eclatanti di cui si sono resi protagonisti si ricorda infatti il pestaggio avvenuto il 13 aprile del 2019 ai danni di un indiano che i due avevano quasi investito per le vie di Velletri. Secondo la ricostruzione dei fatti, i due fratelli avevano sfiorato un gruppo di indiani mentre sfrecciavano con la loro automobile e alle proteste di uno dei questi, che aveva gridato: “Ma siete pazzi”, i due sono scesi dall’auto accanendosi in maniera brutale contro il malcapitato, causandogli gravi lesioni che hanno comportato una prognosi superiore ai venti giorni. Per questo episodio in particolare i due fratelli sono stati convocati in aula per il prossimo 14 maggio 2021. Il prossimo 15 gennaio 2021 sempre Marco Bianchi sarà inoltre convocato in tribunale per un altro episodio di lesioni volontarie avvenuto a Velletri nel 2016, mentre il 19 maggio successivo entrambi saranno convocati per un ulteriore episodio di lesioni avvenuto nel gennaio 2018. Gabriele Bianchi ha inoltre già pagato un’ammenda di mille euro per il reato di detenzione di arma impropria segnalato nel 2017.

Colleferro, ecco il post di uno dei picchiatori di Willy che ha indignato tutti. Le Iene News l'8 settembre 2020. Poche ore dopo il pestaggio mortale di Willy Monteiro Duarte, Gabriele Bianchi, uno dei 4 arrestati per omicidio preterintenzionale, postava sul suo profilo Facebook video divertenti di scimmie che parlano romanesco: Willy era appena morto. Gran parte delle immagini e dei video dei quattro ragazzi romani responsabili della morte di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, di cui vi abbiamo parlato, sono stati rimossi dalla Rete, anche a seguito della valanga di offese e minacce di morte arrivate dagli utenti di Facebook. Utenti che arrivano a invocare il linciaggio in piazza o la pena di morte con esecuzione immediata per i quattro e soprattutto per i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, patiti di arti marziali ed esperti di MMA, come vi abbiamo mostrato in questo video tratto da un combattimento di Marco Bianchi. Ad accendere ancora di più gli animi e purtroppo anche gli istinti peggiori dei social è un video postato da Gabriele Bianchi, il cui profilo Facebook è ancora visibile, poche ore dopo il brutale pestaggio del giovane capoverdiano, con protagoniste delle scimmie. In particolare il terzo episodio di una web serie realizzata dal comico Davide Marini, che ha subito condannato questa condivisione esprimendo tutta la sua solidarietà alla famiglia di Willy. Lo potete vedere: Gabriele Bianchi, poco dopo il pestaggio in quattro del povero Willy, condivide sul suo profilo il terzo episodio della serie “Fulvio e il tossico”, aggiungendo un commento fatto di quattro faccine che ridono. Passa qualche ora, sono ormai le 6.39 del mattino di domenica (lo vedete nell'immagine in alto) e Gabriele Bianchi posta un’altra immagine proveniente dalla stessa web serie: ancora 4 faccine a commento, questa volta per “l’isolotto dei famosi”, che ha sempre per protagoniste alcune scimmie che parlano in dialetto romanesco. Nulla di male, se non fosse che Gabriele è uno dei 4 arrestati per la morte di Willy per omicidio preterintenzionale e che a quell’ora, alle 6.39, il 21enne è già spirato in un letto d’ospedale. Sotto al video inevitabilmente si scatena la rabbia di Facebook, con oltre 6.500 commenti. Alcuni superano il limite dell’indignazione: “'sto merda, dopo aver pestato un ragazzino inerme come nulla fosse se ne stava su Facebook a pubblicare cazzate.. vergogna, vergogna! Spero che in carcere vi diano quello che meritate”. “Hai pubblicato questo post quando già quel povero ragazzo era morto… non c'è limite al disgusto che tu, tuo fratello e i tuoi amici possiate fare. Dovresti vergognarti di essere nato”. “La morte sarebbe una liberazione per ‘ste merde. Io spero che abbiano una lunga vita invece, piena di sofferenza e dolore”. E c’è anche di peggio. Qualcuno punta il dito su eventuali responsabilità: “Erano conosciuti alle forze dell'ordine queste bestie. Dovevano essere fermati prima di aspettare sempre che muore qualcuno fino che la giustizia li fermi. Uno di loro aveva aggredito un vigile che gli imponeva la mascherina e cosa hanno fatto? Nulla”. C’è ancora più rabbia a vedere come nel 2011 Gabriele abbia condiviso un video che lancia un messaggio minaccioso contro i responsabili di un gesto tremendo: “Lui è il pezzo di merda che ha lanciato il cane dal terrazzo. Condividete le foto di questo bastardo con la speranza che salti fuori il nome e che lo arrestino”. Anche con quest'articolo la violenza nei commenti si è ripetuta, tanto che su Facebook ne abbiamo dovuti cancellare alcuni e ricordare la nostra policy: "Sui nostri social ognuno di voi può dire sino in fondo e nella massima libertà ciò che si pensa, osservando però poche piccole regole: niente insulti, minacce, incitazioni all’odio e alla violenza, denigrazioni lesive della dignità e dei diritti altrui; non sono possibili la divulgazione illecita di dati sensibili, la violazione del diritto di autore e la pubblicazione di contenuti osceni, pornografici o pedopornografici".

Lo studente che esaltò gli assassini di Willy “la scimmia” non è di destra. Meloni: “Ora la sinistra si scusi”. Monica Pucci sabato 19 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. “Ricordate il profilo che scrisse frasi ignobili contro il povero Willy e che la sinistra tentò in tutti i modi di associare a Fratelli d’Italia? La Polizia Postale ha appurato che si trattava di un fake ed ha rintracciato il vigliacco che si nascondeva dietro il profilo falso, creato con l’unico fine di attaccare la destra. E ora chi ha dato vita a questa vergognosa polemica abbia la dignità almeno di chiedere scusa alla famiglia di Willy. Con la speranza che l’autore del post paghi le conseguenze per le sue schifose parole”. Sono durissime le parole di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, all’indomani dell’individuazione dell’uomo, un giovane toscano esperto di fake news che aveva provato a restare anonimo ma che alla fine la polizia è riuscita a denunciare. La destra, i presunti razzisti, odiatori, neofascisti e altro, come avevano ipotizzato le solite anime pure della sinistra, non c’entrano nulla con il massacro di Willy Duarte Monteiro consumato a Collefero dai balordi guidati dai fratelli Bianchi. La persona in questione, tale Manlio Germano, nome di fantasia ispirato probabilmente a un personaggio interpretato da Claudio Amendola nel film Caterina va in città,  è solo un cosiddetto “troll”, una delle tante mine vaganti che sotto anonimato, sul web, provano ad aizzare e provocare reazione nella gente perbene, non si sa se per convinzione personale o barbato spirito di provocazione. In realtà si tratta di uno studente 23enne dovrà rispondere di istigazione a delinquere aggravata dall’odio razziale e rischia 8 anni di carcere. Che però nega tutto. “Denuncerò alcune persone che hanno divulgato le mie foto, le mie informazioni, il mio indirizzo su Facebook (per fortuna non abito più da 4 anni lì). Quello che ha scritto il post non ero io ma dei miei amici che avevano in mano il mio telefono, io mai oserei pensare certe cose, non è giusto che mi prenda certe responsabilità per due stronzi…”. Dall’indagine della Polizia Postale è emerso che fosse una sorta di “professionista” dei fake, ma tutte le misure precauzionali adottate non lo hanno comunque salvato dall’essere identificato. Come spiega il sito bufale.net, individuarlo è stato possibile grazie al lavoro congiunto della Polizia Postale di Roma, Latina e Firenze. In un primo momento le forze dell’ordine avevano individuato il suo indirizzo IP a Treviso, ma il ragazzo non si trovava in casa. Indagini più meticolose hanno permesso di rintracciarlo all’interno di un albergo di Firenze. “All’esito di un’attenta e meticolosa indagine, espletata attraverso le più moderne tecniche di analisi informatica e di ricostruzione del traffico telematico, resa ulteriormente complessa dalle connessioni sui provider esteri, la Polizia Postale di Roma e Latina con la collaborazione dei colleghi specialisti di Firenze e Venezia, è riuscita comunque a risalire all’autore dello spregevole post, a rintracciarlo presso un albergo del capoluogo Toscano ed a deferirlo alla Procura della Repubblica di Latina che ha coordinato le complesse indagini informatiche”, è la nota ufficiale della polizia.

Stefano Vladovich per ilgiornale.it il 9 settembre 2020. Li ha visti scendere dall'auto e si è preso un caffè con loro per non insospettirli. «C'è stata una rissa a Colleferro, se mi seguite in caserma facciamo degli accertamenti». Non sapevano di essere i principali indiziati i picchiatori di Artena. E quando il maresciallo della stazione locale li ha trovati per loro scatta la «quasi» flagranza, una flagranza a tutti gli effetti, tanto da poterli arrestare. Così sono stati presi gli assassini di Willy, appena tornati dalla mattanza di piazza Oberdan. Artena: il «paese dei briganti» arroccato sui monti Lepini, tace. Nessuno, o quasi, sembra conoscere i fratelli Bianchi e i suoi amici picchiatori. Eppure la chiamano la «banda di Artena», famigerata per le risse (all'Outlet di Valmontone) e i pestaggi a sangue. Quattordicimila abitanti oggi, poco più di 2mila anime quando Mussolini invia l'esercito del Regno con l'artiglieria pesante a stanare e annientare ladri e rapinatori, da secoli l'incubo del posto. Il Nai Bistrot di un cugino dei Bianchi ieri era chiuso. È qui che alle 3 della notte di sabato Gabriele e Marco Bianchi, 25 e 24 anni, Francesco Belleggia, 23 anni, e Mario Pincarelli, «Pellico», 22 anni, arrivano dopo aver ucciso a calci e pugni Willy Monteiro Duarte, 21 anni. Willy, un cuoco dal cuore d'oro, per le belve di Artena «colpevole» di aver aiutato Federico, un suo compagno di scuola che i quattro, assieme a un quinto uomo rilasciato per mancanza di elementi, stanno picchiando davanti a un locale. Una lite per un'occhiata a una ragazza, amica di Mario Pincarelli. A «Pellico» quello sguardo non va a genio e il giovane va punito. A dargli man forte arrivano in quattro. Cinque contro uno. Willy accorre assieme a Marco Romagnoli e altri amici. La rissa fra i ragazzi di Paliano e le «belve» di Artena finisce nel peggiore dei modi. Marco, Federico e gli altri fuggono dopo averle prese, Willy stramazza al suolo. Muscoli «pompati» in anni di palestra e combattimenti di MMA, Mixed Martial Arts, contro un fisico mingherlino di un ragazzetto famoso solo per i suoi manicaretti. I quattro si sarebbero accaniti anche quando Willy vomita sangue. Lo finiscono con altri calci, qualcuno racconta che avrebbero usato anche un sampietrino, un cubetto di porfido, preso in strada. Sarà l'autopsia, che sarà eseguita domani all'Istituto di Medicina Legale di Tor Vergata, a stabilire esattamente il colpo mortale. Non lo soccorrono, le belve, pensano solo di fuggire sul Suv Audi verso Artena. Willy non arriva vivo in ospedale, tanti sono i colpi ricevuti. «Picchiatori di professione»: a Colleferro li conoscono tutti per la loro attività principale. Il sospetto, su cui starebbero indagando gli inquirenti, è che i Bianchi e gli altri tre energumeni vadano in giro per paesi a massacrare di botte chi non onora i debiti con gli strozzini. Di fatto Gabriele finisce sulle pagine dei giornali dopo un'intervista su Rai3 perché, sfidando Covid e lockdown, apre una frutteria a Cori. Si sente un imprenditore modello Gabriele. Sugli addominali scolpiti in palestra un tatuaggio recita: «Proteggi la famiglia», solo la sua. Il fratello Marco, campione di MMA, insegna arti marziali a Lariano. La palestra e la frutteria ora sono chiuse. A raccontare questo dramma sembra davvero di scrivere la cronaca di una morte annunciata. Tutti sanno ma nessuno ferma le belve. Ci pensa un maresciallo dei carabinieri a imboccare la pista giusta. Per il momento l'accusa è di omicidio preterintenzionale. Questa mattina l'interrogatorio di garanzia a Rebibbia.

Veronica Di Benedetto Montaccini per tpi.it il 9 settembre 2020. Willy Monteiro Duarte è stato pestato a morte per 20 minuti (qui una ricostruzione del caso), ora si dovrà stabilire chi ha sferrato il colpo mortale tra i 4 indagati Mario Pincarelli, di 22 anni, Francesco Belleggia di 23, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, 24 e 26 (qui i loro profili). Nei loro confronti la procura al momento contesta il concorso in omicidio preterintenzionale. E mentre nel carcere di Rebibbia, a Roma, gli interrogatori di convalida dell’arresto, proseguono sui loro profili social commenti di sdegno e accusa per il loro gesto, ma tra questi colpisce e sconvolge l’animo un post pubblicato nella pagina Facebook di Gabriele Bianchi da Manlio Germano: “Avete tolto di mezzo quello scimpanzé. Godo come un riccio per la sua morte”. Frasi che danno il senso dell’odio razziale che cova, in alcune persone, come in chi ha pubblicato questi post, con una immagine Gif di una scimmia, come a denigrare il povero Willy ad un animale che può essere ammazzato senza alcun problema.

Aperta un’indagine. Intanto il profilo Facebook, nel quale il giovane era anche fotografato con il logo di Fratelli d’Italia, è stato cancellato. Ma gli screenshot erano stati ormai fatti e la polizia postale è ora sulle tracce del responsabile che in un commento avrebbe anche accusato gli amici di avergli preso il telefono e fatto il post al suo posto.

Le risposte degli utenti. Non sono mancate, a seguire, risposte e commenti di disprezzo da parte di altri utenti: “Manlio Germano, sei un idiota fascista senza cervello. Guardati allo specchio perché la scimmia sei tu. Feccia”. “Manlio Germano, tu sei un altro BASTARDO”., e poi “Manlio Germano, anche se sei un fake, ti prenderanno e pagherai ugualmente…coglione”. O ancora: “Manlio Germano, sei veramente piccolo. Piccolo uomo. Per quanto mi riguarda meriteresti la galera a vita esattamente come i tuoi cosiddetti “eroi”, Manlio Germano, non te calcola neanche tua madre ecco perché stai a scrive ste cazzate, a cojone de merda!! Sei proprio un poraccio demente, me fai solo schifo. Fallito de merda”. Manlio Germano tanto te prendono pure a te tranquillo e l altro compagno che ti ha messo il Siete sterco vi auguro la compagnia dei galeotti e voi che fate le signorine in galera”.

Willy Monteiro, “L’ha ucciso Gabriele”: ma 2 testimoni incolpano Belleggia. Notizie.it il 9/09/2020. Gli inquirenti cercano di capire chi ha ucciso Willy Monteiro: inizialmente la colpa era ricaduta su Gabriele, ora 2 testimoni accusano Francesco. Mentre emergono nuovi dettagli sulla rissa che ha portato alla morte di Willy Monteiro, gli inquirenti cercano di capire chi l’ha ucciso. I quattro indagati si accusano a vicenda ma nel frattempo due super testimoni hanno incolpato Francesco Belleggia.

Chi ha ucciso Willy Monteiro? In un primo momento le accuse sembravano ricadere su uno dei fratelli Bianchi, anche se già c’era incertezza su quale dei due. I testimoni avevano attribuito a Marco il calcio da arti marziali che sarebbe stato fatale per il giovane capoverdiano, ma Belleggia ha raccontato ai magistrati di averlo visto sferrare dal fratello Gabriele. Sempre lui aveva inoltre spiegato che quello sarebbe stato il colpo mortale, cosa che dovrà essere chiarita dall’autopsia. I Bianchi hanno respinto le accuse davanti al giudice per le indagini preliminari così come gli altri due e indicato agli inquirenti i nomi di altri partecipanti alla rissa. Tra questi ve ne sono due che, dopo aver fornito una prima ricostruzione di ciò che è accaduto nella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre, hanno fatto il nome dell’ipotetico killer. I due testimoni, amici dei quattro arrestati, hanno raccontato che Willy, che inizialmente non ha partecipato allo scambio di colpi ma è intervenuto per difendere l’amico Federico, è caduto colpito “forse da una manata di Marco Bianchi“. Poi ha tentato di rialzarsi ma i due che hanno iniziato la rissa, Pincarelli e Belleggia, gli sferrano altri due colpi. “Il primo gli dà un pugno al capo, il secondo un calcio da karate al volto“, spiegano i due ragazzi. Sarebbe dunque Belleggia secondo la loro testimonianza ad aver dato a Willy il colpo mortale, anche se sia al Gip che al Pm aveva dichiarato di non averlo colpito.

Omicidio Willy Monteiro, l’interrogatorio dei fratelli Bianchi: «Non l’abbiamo toccato». Fulvio Fiano per corriere.it l'8 settembre 2020. Si accusano uno con l’altro, i quattro presunti assassini di Willy Monteiro Duarte, sanno che se hanno mezza di possibilità di alleggerire la propria posizione è quella sottrarsi all’accusa più pesante, non ancora formulata ufficialmente dalla procura di Velletri ma che aleggia sull’intera vicenda: quella di aver ucciso volontariamente il 21enne, colpendolo con un calcio al volto quando ancora era a terra: «Non lo abbiamo toccato, respingiamo ogni accusa. Siamo intervenuti per dividere una rissa. Abbiamo visto un parapiglia e siamo arrivati. Siamo arrivati lí perché chiamati da alcuni amici, ma non abbiamo preso parte alla rissa. L’unica cosa che abbiamo fatto è stata di provare a intervenire per separare i litiganti che non conoscevamo. Quando ce ne siamo andati, non abbiamo visto il ragazzo a terra», dicono Marco e Gabriele Bianchi, i due fratelli di Artena, arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro, durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto davanti al gip di Velletri nel carcere romano di Rebibbia. E aggiungono: «Siamo dispiaciuti e distrutti perché accusati di un omicidio che non abbiamo commesso». Una tesi che invece ribaltano gli altri due arrestati, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, 23 e 22 anni, che fin dal primo momento hanno provato a scagionarsi della responsabilità più pesante. Il primo alludendo a «ruoli diversi» nella vicenda. Il secondo, difeso anche lui come i Bianchi dall’avvocato Massimiliano Pica, chiamandosi fuori da ogni coinvolgimento. L’accusa per tutti è di concorso in omicidio preterintenzionale, mentre una quinta persona che era in auto con i fratelli Bianchi è indagato a piede libero per favoreggiamento. Decisive per attribuire responsabilità più precise saranno le testimonianze degli altri ragazzi presenti, due dei quali indicati come super testimoni dagli stessi fratelli, e l’esame del video della telecamera puntata sulla piazza alle spalle della caserma dei carabinieri dove è avvenuta l’aggressione. Nelle immagini, pur poco nitide, si vede l’Audi Q7 allontanarsi dalla scena con gli arrestati a bordo. Saranno arrestati mezz’ora dopo in flagranza di reato. Mercoledì, intanto, via alla autopsia.

Willy Monteiro, gli accusati davanti al gip: "Non lo abbiamo toccato, volevamo sedare una rissa". Libero Quotidiano l'8 settembre 2020. "Siamo dispiaciuti e distrutti perché accusati di un omicidio che non abbiamo commesso". E' durato circa tre ore l'interrogatorio di convalida davanti al gip del tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, dei quattro giovani arrestati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso dopo un pestaggio a Colleferro nella notte tra sabato e domenica. Ai quattro, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tra i 22 e i 26 anni, il pm di Velletri Luigi Paoletti contesta il concorso in omicidio preterintenzionale. Durante l'interrogatorio i fratelli Bianchi hanno detto al Gip: "Non abbiamo toccato Willy e neanche abbiamo visto chi lo ha picchiato". Al loro fianco l'avvocato Massimiliano Pica. I due indagati hanno contestato ogni addebito sostenendo di non aver neanche sfiorato il giovane poi morto. "Siamo arrivati lí perché chiamati da alcuni amici, ma non abbiamo preso parte alla rissa. L’unica cosa che abbiamo fatto è stata di provare a intervenire per separare i litiganti che non conoscevamo. Quando ce ne siamo andati, non abbiamo visto il ragazzo a terra”. "Willy è intervenuto in mia difesa, ma non avrebbe mai preso un'iniziativa che non fosse stata pacifica per riportare gli animi alla calma. Parliamo di un ragazzo equilibrato", ha raccontato  invece al Corriere della Sera Federico Zurma, l'ex compagno di scuola di Willy. "E morto per evitare una rissa, per riportare pace. La gente fa cose senza senso", dice Zurma. "Ripenso a quella notte continuamente, ma in realtà mi sforzo di non farlo. Quello che è successo me lo porterò dietro a vita, preferisco non commentare oggi. Posso solo dire che davvero Willy si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato".

Willy ucciso con una mossa micidiale. I fratelli al gip: "Non lo abbiamo mai toccato". L’amico della vittima ha raccontato cosa è avvenuto. Il 21enne è stato colpito con “un calcio micidiale alla pancia”. Valentina Dardari, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. Federico Zurma, l’amico 21enne che Willy Monteiro Duarte ha cercato di difendere, ha raccontato la mossa micidiale che lo ha ammazzato. Willy aveva cercato in tutti i modi, anche a costo di rimetterci la propria vita, di difendere l’amico preso di mira dai quattro ragazzi arrestati poche ore dopo. I quattro sono accusati di averlo ucciso a calci e pugni. Un loro amico è per il momento solo indagato.

La mossa micidiale che ha ucciso Willy. Federico ha raccontato che lo stavano picchiando, quando improvvisamente è intervenuto il 21enne che si è messo tra lui e i suoi aguzzini, cercando di fare da paciere. Ma invece che fermarsi, gli aggressori hanno iniziato a picchiare anche lui. In quattro contro uno solo. “Uno di loro lo ha colpito con un calcio micidiale alla pancia. Willy è rimbalzato a terra, facendosi forza sulle braccia ha provato a rialzarsi, ma gli ha subito sferrato un pugno sulla testa” ,ha spiegato Federico intervistato dal Corriere della Sera. Tutti molto palestrati, i due fratelli praticano anche arti marziali. e vengono definiti picchiatori professionisti. In particolare i Bianchi praticano la Mixed Martial Arts, uno sport estremo che fonde la boxe con le arti marziali. Federico ha raccontato di Willy come di un bravo ragazzo, equilibrato, intervenuto solo per riportare la calma. Il giovane è stato ascoltato dai carabinieri e sa che dovrà presentarsi in tribunale per deporre contro i suoi aggressori. Fermati per l’omicidio Mario Pincarelli di 22 anni, Francesco Belleggia di anni 23, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni. A pochi minuti dalla tragedia, proprio Gabriele aveva postato un video, poi ricoperto di insulti dagli altri utenti, sul suo profilo Facebook. Nelle immagini si vedevano due scimmie, con commenti allusivi e parolacce. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, ha commentato quanto avvenuto: “Una cosa tristissima e molto preoccupante. Oggi vedrò il sindaco di Colleferro, per portare il segno di vicinanza dello Stato, sia spirituale sia perché siamo pronti ad analizzare nel profondo questa vicenda. Perché se ci sono aspetti che vanno oltre l’episodio intendiamo affrontarli con le dovute maniere. Una cosa che riesce difficile commentare”. Ha poi sottolineato che l’aggressione si è verificata vicino a una stazione dei carabinieri. Aggiungendo che i militari sono intervenuti velocemente. Ha inoltre tenuto a dire che è impossibile riuscire a controllare tutto, anche “le derive culturali, che possono esserci in certi ambienti e che possono portare a fenomeni di questo tipo. Io credo che le condizioni da valutare siano delle precondizioni, valuteremo se c’è qualcosa da migliorare. Ci approcciamo in maniera molto laica ma certamente non lasceremo passare l’episodio come se fosse stato qualcosa di casuale, che è avvenuto come fosse stato un accidente della vita”. Il prefetto ha poi affermato che verrà fatto tutto il possibile per onorare la memoria di Willy, prestando maggiore attenzione su certi ambienti giovanili. E forse anche familiari.

"Escluso il movente razziale". Il genitore di uno dei ragazzi arrestati avrebbe detto al padre di un amico della vittima: "Cosa hanno fatto? Non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". La frase choc, riferita ai carabinieri, inizialmente aveva portato gli inquirenti a far luce anche su un altro tema: l’ipotesi dell’aggravante razziale. Anche se sembra che il giovane cuoco di Paliano si sia solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che non abbia voltato la faccia quando ha visto che un suo ex compagno di scuola veniva picchiato. Il dubbio comunque si era insidiato. In un primo momento si era pensato che forse il colore della sua pelle, Willy è originario di Capo Verde, ma residente con la sua famiglia nel comune di Paliano, aveva fatto sì che i picchiatori andassero giù ancor più pesantemente. Il primo cittadino di Colleferro, Pierluigi Sanna, ha tenuto a dire che il comune da lui amministrato non è, e non è mai stato razzista, sottolineando che Willy e la sua famiglia non avevano mai avuto problemi. Lo stesso a Paliano. Ma la situazione sarebbe diversa ad Artena, dove i fratelli Bianchi sarebbero ben conosciuti anche per episodi di xenofobia. Gabriele avrebbe già in passato commentato fatti di cronaca usando parole razziste. E su internet c’è anche chi fa i complimenti ai presunti killer perché visti come degli eroi. Ma la polizia postale di Latina è già sulle loro tracce. Sarebbe invece stato escluso il movente razziale e politico nell'omicidio di Willy Monteiro. Fonti investigative lo avrebbero affermato all'AGI.

Cosa hanno detto davanti al Gip. "Non lo abbiamo toccato, respingiamo ogni accusa. Siamo interventi per dividere una rissa. Abbiamo visto un parapiglia e siamo arrivati". Così si sono difesi i due fratelli, Marco e Gabriele Bianchi, davanti al Gip di Velletri nel carcere romano di Rebibbia. Si sono anche detti dispiaciuti e distrutti perchè accusati di un omicidio che non hanno commesso. Il loro avvocato, Massimiliano Pica, ha asserito che i suoi assistiti non hanno partecipato alla rissa in cui è morto il 21enne. I due sarebbero solo scesi dalla loro auto per fare da paciere, perchè avevano visto alcuni loro amici coinvolti nella rissa. Secondo quanto sottolineato dal legale, i due fratelli avrebbero anche fornito al giudice i nomi dei loro amici coinvolti. "I miei assistiti affermano di avere sbracciato per dividere gli autori della rissa ma di non avere colpito il ragazzo. Domani depositeremo nuove testimonianze che contraddicono quelle della Procura. I fratelli Bianchi affermano di non avere visto Willy a terra, vittima del pestaggio" ha infine rivelato l'avvocato.

La compagna di Gabriele è incinta. "Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c'è più" ha confidato all'Adnkronos Silvia Ladaga, la compagna di Gabriele Bianchi. La ragazza aspetta un bambino e ha raccontato cosa sta avvenendo nella sua testa in questi giorni. La donna è passata dalla gioia di aspettare una creatura da Gabriele, alla disperazione di perdere il proprio compagno, rinchiuso in carcere. L'ex candidata alle Regionali del Lazio con Forza Italia è certa che la giustizia farà il suo corso e che la verità salterà fuori. Ha inoltre spiegato che "c'è un accanimento fortissimo verso le famiglie dei protagonisti di questa storia. La prima vittima di tutto questo è Willy che non c'è più e la sua famiglia. Poi ci siamo noi che non c'entriamo nulla e stiamo subendo minacce di morte pesantissime". E naturalmente il suo pensiero va anche a quel bambino che deve ancora nascere.

Fulvio Fiano per corriere.it il 9 settembre 2020. Ci sono due supertestimoni della rissa sfociata nell’uccisione di Willy Monteiro Duarte. Sono amici del gruppo dei quattro arrestati che forniscono una prima ricostruzione dell’intera sera di sabato scorso. Se confermate dalle indagini dei carabinieri, serviranno a ridefinire le responsabilità dei fratelli Bianchi. La cui famiglia li ha indirizzati nello studio dell’avvocato difensore, Massimiliano Pica, per mettere nero su bianco questa versione.

La prima lite. La lite tra i due gruppi comincia tre ore prima dell’uccisione del 21enne. Da una parte il gruppo di Colleferro nel quale c’è il ragazzo che Willy proverà a tirar fuori dai guai rimettendoci la vita, dall’altro quello di Artena con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Tra i due paesi ci sono solo 8 chilometri, sufficienti però a fomentare un rivalità quasi territoriale. Nella quale anche un commento non-neutro sotto la foto di una ragazza sui social può innescare la faida nel pub-ristorante Due di picche. All’inizio sono solo frasi, sguardi minacciosi che sembrano esaurirsi senza conseguenze. Gabriele e Marco Bianchi sono assieme ai due testimoni e a una quinta persona (il ragazzo che è oggi indagato per favoreggiamento perché era alla guida del Suv degli arrestati pur non essendone sceso per unirsi alla rissa). Con quest’ultimo i due fratelli lasciano il pub prima degli altri. Sul posto restano i futuri testimoni dello scontro e, separati con la propria comitiva, Belleggia e Pincarelli. La loro serata sembra improntata alla ricerca di uno scontro, tanto che in un episodio separato il primo sferra un ceffone in bagno a un ragazzo estraneo alle due comitive.

La rissa. All’esterno del pub, invece, è Pincarelli a riaccendere lo scontro. Avvicina la comitiva rivale sulle scale che guardano la della piazza e chiede, quasi pretende, la sigaretta da uno dei ragazzi di Colleferro. Quando questo dice di non averne, lui prende il pacchetto vuoto che l’altro gli ha appena mostrato e glielo infila in bocca. È l’ultima barriera che cade, il limite è superato. Comincia la zuffa e i due di Artena si trovano subito in difficoltà. Sono in inferiorità numerica.

«Venite, c’è un casino». È qui che uno dei due testimoni avverte Gabriele e Marco Bianchi: «Venite, sta succedendo un casino». L’acquisizione dei tabuati telefonici disposta dalla procura di Velletri trova la sua motivazione con la ricerca di conferme su questo passaggio. I Bianchi non si tirano indietro. E come già capitato altre volte, secondo il racconto di tanti in paese, i due esperti di Mma arrivano a difesa degli amici a far valere muscoli e tecniche di combattimento. I testimoni riferiscono di spintoni e qualche schiaffo, molti avversari di Belleggia e Pincarelli si danno alla fuga. Nello scontro due amici di Willy riportano ferite guaribili in 10 giorni.

L'arrivo di Willy. Sul posto, nel frattempo, è arrivato anche il 21enne di origini capoverdiane, che di ritorno dalla sua uscita con gli amici di Paliano dopo il turno di lavoro nel ristorante dove fa apprendistato e si guadagna l’indipendenza economica, vede il suo amico Federico Zurma. Il coetaneo suo compagno di studi è in difficoltà e Willy si mette in mezzo a fare da paciere. Prova a raffreddare gli animi, non partecipa allo scambio di colpi ma ne rimane coinvolto. Cade, colpito forse da una manata di Marco Bianchi. Prova a rialzarsi sulle braccia come quando si fanno le flessioni, ma i due che hanno iniziato la rissa vogliono anche chiuderla prendendosi l’ultima soddisfazione. Pincarelli gli dà un pugno al capo, Belleggia un calcio «da karate», al volto. Un dettaglio, questo, riportato anche in altre testimonianze raccolte dai carabinieri. Belleggia è in effetti un karateca: nel suo interrogatorio ha detto di non aver colpito il ragazzo, accusando implicitamente gli altri del gruppo. In ogni caso Willy ricade e non si alzerà più.

L’arresto. Il suv Q7 dei Bianchi riparte inquadrato dalle telecamere, stavolta con a bordo anche Belleggia e Pincarelli. Vanno ad Artena, nel locale di Alessandro, il fratello maggiore di Gabriele e Marco non ché proprietario del Suv. È lui che racconta di aver sentito i fratelli inveire contro gli amici: «Per colpa di sti’ di due... che hanno combinato...». Neanche mezz’ora dopo arrivano i carabinieri mentre prendono un caffé. Qualche parola, poi l’invito ultimativo a seguirli in caserma.

Valentina Errante per ilmessaggero.it il 9 settembre 2020. Ci sono almeno altre due persone che hanno visto cosa è accaduto nella notte di sabato, quando Willy Monteiro Duarte è stato ucciso a calci e pugni. E sono amici degli indagati, altri ragazzi che sostengono di avere telefonato loro ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, perché tornassero in piazza Santa Caterina, dove il loro gruppo era coinvolto nella rissa che sarebbe costata la vita a Willy. I carabinieri non li hanno trovati al bar di Artena insieme ai fratelli Bianchi, a Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, tutti a Rebibbia, perché, dopo il pestaggio, non sono saliti sull' Audi insieme agli indagati e a un quinto amico, Vittorio Tondinelli, indagato per favoreggiamento.

LA TELEFONATA. Sono stati loro stessi a dire che hanno telefonato per chiamare i fratelli, quelli tutti muscoli e tatuaggi, esperti in arti marziali, ma sostengono che i Bianchi siano estranei ai fatti. Per questo l' avvocato Massimiliano Pica, che difende tre dei quattro imputati, li ha sentiti a verbale ieri e promette di depositare la loro testimonianza in procura a Velletri questa mattina. Agli atti ci sono invece le ricostruzioni degli amici di Willy, che li indicano come i responsabili della morte del ragazzo di 21 anni. E quella di Francesco Belleggia che racconta come siano arrivati a dare manforte agli amici e che la rissa «alla Trainspotting», abbia avuto protagonisti proprio i Bianchi. Botte, calci e pugni.

LA DIFESA. «Non siamo stati noi. Non lo abbiamo toccato». Marco e Giacomo Bianchi, ieri, hanno respinto le accuse e raccontato un' altra storia, contestando le testimonianze in mano alla procura di Velletri, che li indica come gli assassini di Willy. Dicono che sono arrivati quando il ragazzo era già in mezzo alla calca e hanno tentato anche loro di sedare la lite. Qualche accusa sarebbe stata mossa dai fratelli e da Pincarelli, a Belleggia, che si dichiara estraneo ai fatti ma accusa i Bianchi. Secondo l' avvocato Pica però le testimonianze che hanno incastrato i suoi clienti sono contraddittorie, a cominciare da quelle sull' abbigliamento che non corrisponderebbe con quello indossato sabato notte. «Abbiamo sbracciato per fermarli», così uno di loro avrebbe spiegato quello strappo sulla camicia. L' accusa è di omicidio preterintenzionale in concorso e, per la dinamica dei fatti non è mai stata presa in considerazione l' ipotesi dell' aggravante dell' odio razziale, anche se Willy era originario di Capo Verde.

LA RICOSTRUZIONE. La lite comincia prima dentro a un pub e riprende fuori, dopo un apprezzamento a una ragazza da parte di Pincarelli. Un commento poco gradito al fidanzato. I due gruppi di giovani si ritrovavano fuori, sui gradini della piazza. In quel momento i Bianchi non ci sono, hanno lasciato al locale Due di picche Pincarelli, Belleggia e altri del loro gruppo, per andare a bere una birra da un' altra parte, assicurando che sarebbero tornati. Prima volano le parole grosse, poi si passa agli schiaffi. È a questo punto che qualcuno, probabilmente i due nuovi testimoni, chiamano i Bianchi. I due fratelli, esperti in arti marziali scendono dall' auto, l' unico fotogramma restituito dalla telecamera. A bordo il terzo amico, indagato a piede libero. La lite poi si sposta fino all' edicola, in tutto circa 100 metri. Nelle prossime ore il gip scioglierà la riserva sulle richiesta di confermare il carcere formulata dal pm e dei domiciliari presentata dagli avvocati. Oggi verrà eseguita l' autopsia, entro sabato ci saranno i funerali. I pm intanto hanno affidato una perizia sui vestiti indossati dai quattro arrestati. Ieri il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che si dice «scioccato e colpito profondamente» dall' omicidio di Willy, ha chiamato i familiari del giovane. «La magistratura sta svolgendo le indagini e la giustizia farà sicuramente il suo corso. Ma noi nel frattempo come reagiremo?» ha scritto il premier in un post.

Da leggo.it il 9 settembre 2020. Restano in carcere tre dei quattro giovani arrestati, con l'accusa di concorso in omicidio preterintenzionale, per la morte di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni ucciso in seguito a un pestaggio a calci e pugni a Colleferro nella notte tra sabato e domenica. Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli restano in carcere mentre Francesco Belleggia va agli arresti domiciliari. La decisione del gip di Velletri arriva dopo l'interrogatorio di ieri nel carcere di Rebibbia.

Da repubblica.it il 9 settembre 2020. Gabriele Bianchi è uno dei giovani arrestati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso sabato notte a Colleferrodopo un pestaggio. In un'intervista al Tg3 del 4 agosto scorso, Bianchi veniva intervistato come giovane commerciante coraggioso, che aveva deciso di intraprendere una attività di fruttivendolo dopo il lockdown, nonostante tutte le incognite dovute al periodo. "Ho aperto circa un mese fa - diceva - No, non ho avuto paura - Ci credo molto"

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 9 settembre 2020. «Ho un vivido ricordo di un paio di loro, che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso a terra e già inerme»: è un racconto choc quello che emerge dall’ordinanza di convalida degli arresti di Marco e Gabriele Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, accusati di aver picchiato a morte il giovane Willy Monteiro Duarte a Colleferro la notte tra sabato e domenica scorsi. I testimoni raccontano che «Gabriele Bianchi ha aggredito Willy e gli ha sferrato un calcio». Nell’ordinanza il giudice che ha convalidato gli arresti scrive tra le altre cose che: «i Bianchi e Pincarelli hanno cercato di minimizzare il fatto assegnando la responsabilità a terzi» e che «per questo devono stare in carcere». Un testimone racconta: «Stavamo di fronte al bar Movida e abbiamo visto ragazzi discutere. C’erano Mario Piancarelli e Federico Zurma,… discutevano per delle ragazze. A questo punto Willy che conosceva Zurma va verso di lui per capire che stesse avvenendo…». E un altro aggiunge: «Ho visto il ragazzo di colore cadere dopo aver ricevuto un calcio ma una volta caduto sono riuscito a vederlo solo di sfuggita anche perché intorno c’erano parecchi altri ragazzi».

Willy Monteiro, Marco Bianchi respinge le accuse: "Stavo facendo sesso al cimitero con mio fratello, un amico e tre ragazze". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Escono nuove sconcertanti rivelazioni dai verbali dell'inchiesta sull'omicidio di Willy Monteiro a Colleferro. Viene fatto trapelare parte dell'interrogatorio di uno dei due fratelli Bianchi (Marco) accusato di aver ucciso Willy assieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Bianchi respinhe le accuse e racconta che prima di arrivare sulla scena del crimine stava facendo sesso al cimitero col fratello, un amico e tre ragazze. "Marco Bianchi riferiva che allontanatosi dal pub in compagnia del fratello, di un amico e di tre ragazze delle quali non sapeva riferire il nome, mentre stavano consumando un rapporto sessuale vicino al cimitero, ricevevano una telefonata da parte del loro amico Michele Cercuozzi che gli chiedeva di intervenire in loro soccorso a Colleferro", si legge nell'ordinanza di arresto per i fratelli Bianchi, Pincarelli e Belleggia, l’unico ad aver ottenuto i domiciliari perché il gip ne ha riconosciuto la "posizione più sfumata". Anche sulla rissa ha minimizzato: "Ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, poi mi sono allontanato… non ho dato nessun colpo", mentre suo fratello Gabriele ha dichiarato: "Io ho solo spinto l’amico di Willy e poi arrivano Pincarelli e Belleggia, loro c’erano quando Willy è caduto in ginocchio".

"Non siamo stati noi". Omicidio Willy, i fratelli Bianchi si difendono ma Scanzi ne chiede l’ergastolo. Angela Stella su Il Riformista il 9 Settembre 2020. «Non lo abbiamo toccato. Respingiamo ogni accusa. Siamo intervenuti per dividere, abbiamo visto un parapiglia e siamo arrivati». È quanto hanno dichiarato ieri Marco e Gabriele Bianchi durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto per la morte di Willy Monteiro Duarte, avvenuta nel corso di una rissa la notte tra sabato e domenica scorsa a Colleferro. I due fratelli, insieme a Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, sono accusati di omicidio preterintenzionale in concorso. «Siamo dispiaciuti e distrutti perché accusati di un omicidio che non abbiamo commesso» hanno aggiunto i ragazzi davanti al gip di Velletri durante le quattro ore di colloquio nel carcere di Rebibbia. Il loro avvocato, Massimiliano Pica, ha detto al termine: «I miei assistiti hanno raccontato di avere visto delle persone che loro conoscevano e che erano coinvolte in una rissa con altri soggetti a loro sconosciuti. I miei assistiti hanno fornito al giudice i nomi dei loro conoscenti». Inoltre, secondo quanto riferito dal penalista, «gli indagati affermano di avere "sbracciato" per dividere gli autori della rissa, ma di non avere colpito il ragazzo». Sempre il difensore ha spiegato che «le telecamere hanno ripreso solo l’arrivo e la partenza dell’auto dove a bordo erano presenti i fratelli Bianchi, ma non hanno ripreso la scena della rissa». Tutto sarebbe iniziato davanti al locale il ‘’Due di picche’’ tra due persone. È partito uno schiaffo per un apprezzamento ad una ragazza. La lite poi si sarebbe protratta fino all’edicola dove è successo il fatto. I fratelli Bianchi sono arrivati dopo perché erano andati a prendere degli amici che li avevano chiamati per andare a casa. «Domani (oggi, ndr) – hanno detto gli avvocati – depositeremo nuove prove e testimonianze che contraddicono quelle della Procura». «I fratelli Bianchi affermano di non avere visto Willy a terra, vittima del pestaggio», ha concluso Pica che assiste anche Mario Pincarelli, il quale come gli altri si dichiara estraneo ai fatti. Ora il giudice dovrà decidere se convalidare l’arresto e oggi conferirà l’incarico per l’autopsia. Nel frattempo, come da solito copione in questi casi, stanno arrivando pesanti minacce ai familiari dei ragazzi indagati. Non stupisce, considerata la campagna d’odio che è iniziata subito sui social network appena sono trapelate le prime notizie, non verificate, su quella tragica notte. Forse sono colpevoli, o forse no. Non possiamo dirlo ora. Esiste il principio di presunzione di innocenza, ma intanto anche stimati colleghi hanno già emesso la sentenza di condanna e stabilito persino quale debba essere la giusta pena che dovrà essere applicata dai giudici: «I quattro assassini meriterebbero l’ergastolo, ma vedrete che se la caveranno con molto meno e tra qualche anno ce li troveremo intervistati in tivù» , ha sentenziato Andrea Scanzi. Mentre Remo Croci ha preso di mira il diritto di difesa costituzionalmente garantito: «Immagino le arringhe di chi andrà gratuitamente a chiedere di difenderli e non oso immaginare quale opinionista dei talk aprirà un altro fronte di innocentisti. Ne ho veramente piene le scatole di questi personaggi a gettone. Basta!».

Monteiro Duarte. "Stavamo facendo sesso al cimitero", la fragile difesa dei fratelli Bianchi, tra testimoni "amici" e alibi implausibili. La strategia per evitare l'aggravante della premeditazione. Un conoscente dei "gemelli" promise su Facebook: "Farò uscire la verità", poi cancellò il post. Adesso gli avvocati lo vorrebbero come teste chiave. Clemente Pistilli e Fabio Tonacci La Repubblica il 10 settembre 2020.   Sesso, violenza e morte. La notte dei fratelli Bianchi, così come l'hanno ricostruita loro stessi e così come emerge dalle dichiarazioni dei testimoni che erano sulla scena del pestaggio di Willy Monteiro Duarte, pare il trito canovaccio di un b-movie. Di quelli genere pulp. Non manca niente: amplessi furtivi vicini a un cimitero, macchinoni che sgommano, un gruppo di compari che, dopo la morte del 21 enne di origine capoverdiana, sigla il patto del silenzio. Un patto che può essere rotto solo se messi alle strette dai carabinieri, e, comunque, solo per accusare qualcun altro. Negando ogni addebito e persino l'evidenza.

L'arrivo degli artenesi al "Duedipicche". Gabriele Bianchi (26 anni non ancora compiuti) e Marco Bianchi (24 anni) si affacciano al risto-pub "Duedipicche" di Colleferro, baricentro della movida locale, nel dopo cena di sabato 5 settembre. Sono giunti da Artena con la Audi Q7 nera della compagna del loro fratello maggiore Alessandro. Non sono soli. Con loro ci sono Michele Cerquozzi, Omar Shabani e Vittorio Edoardo Tondinelli. I cinque sono più che semplici amici. Basta vedere il loro profili Facebook per intuire la stima, diciamo anche la riverenza, che Shabani e Cerquozzi provano per i due fratelli palestrati ed esperti di Mma (sport da combattimento che mescola diverse arti marziali). È sabato e vogliono tutti fare serata. Dopo poco, i due fratelli e Vittorio Tondinelli si allontanano dal locale in compagnia di tre ragazze. Salgono sull'Audi e spariscono.

Sesso al cimitero. Dove siano stati, e cosa abbiano fatto, lo ha dichiarato Marco Bianchi. Scrive il gip nell'ordinanza di convalida dell'arresto: "Interrogato per primo, riferiva che allontanatosi dal pub in compagnia del fratello, di un amico e di tre ragazze delle quali non sapeva riferire il nome, mentre stavano consumando un rapporto sessuale 'vicino al cimiterò ricevevano una telefonata da parte di Cerquozzi il quale, a suo dire, impegnato in una violenta discussione a Colleferro, chiedeva loro di intervenire in suo soccorso". Per quanto grottesca, la circostanza - che i carabinieri di Velletri stanno verificando attraverso l'analisi di alcuni video - dimostrerebbe, nell'intento difensivo, la totale mancanza di predeterminazione del successivo pestaggio. E fa il paio con la motivazione della telefonata di Cerquozzi. Il giudice ha ragionevoli motivi per ritenere che fosse una "chiamata di soccorso", mentre secondo gli avvocati difensori dei Bianchi, la telefonata aveva un altro contenuto, e si riferiva piuttosto al fatto che la moglie di qualcuno dei tre stava cercando il marito. Potrebbe anche essere, quest'ultima, una versione di comodo, per evitare appunto la contestazione delle aggravanti della premeditazione.

Il pestaggio...Quale che sia l'esatto contenuto della conversazione e qualsiasi cosa stessero facendo i fratelli Bianchi prima di ricevere quella telefonata, è un fatto che, dopo, i due fratelli prendono la macchina e si precipitano davanti al "Duedipicche". Lì davanti quattro testimoni oculari li vedono scendere dall'Audi e pestare brutalmente Willy e il suo amico, Samuele Cenciarelli. Questi se la caverà con dieci giorni di referto medico, Willy non si rialzerà più dal marciapiedi dove lo hanno scaraventato, saltandogli addosso. Nello specifico, pare essere stato Gabriele Bianchi a sferrare i colpi più duri, prima un calcio poi un pugno al volto di Willy. Nella rissa, sempre stando a quanto dichiarato dai presenti, c'è anche Mario Pincarelli, un altro ragazzo di Artena molto legato ai Bianchi. Forse partecipa attivamente anche Francesco Belleggia, il quarto arrestato, ma la sua posizione pare alleggerirsi, seppur relativamente, perché il gip a lui, e solo a lui, ha concesso i domiciliari. Tre testimoni credono di averlo riconosciuto nel nugolo dei picchiatori di Willy dal braccio ingessato, ma Belleggia nega, e giura di non aver toccato il ragazzo.

...e la congiura del silenzio. Dopo la rissa davanti ai giardinetti Santa Caterina, gli artenesi fuggono via. A bordo dell'Audi dei Bianchi salgono Cerquozzi, Shabani, Tondinelli e anche Belleggia. "Era l'unico modo che avevo per tornare a casa", si giustifica lui, a verbale, cercando di prendere le distanze dagli altri. "Mi serviva un passaggio". Belleggia racconta anche di una sorta di congiura del silenzio. Scrive il Gip: "L'indagato riferiva che i due fratelli Bianchi, prima dell'arresto, gli avevano consigliato di mantenere il silenzio sulle loro condotte". C'è dell'altro. Belleggia spiega quanto si sono detti in macchina nel viaggio di ritorno da Colleferro alla rotonda di Artena, dove hanno appuntamento con Pincarelli. "Tutti hanno detto che Pincarelli aveva dato pugni a Willy. Io non ho visto i colpi di Mario...quando ho visto Willy cadere, io mi sono allontanato e anche i Bianchi. Io ho visto correre tutti verso la macchina. Io non sono rimasto col Pincarelli a fronteggiare Willy. Willy non c'entrava nulla". Insomma la versione comune è stabilita: se proprio bisognerà fare qualche nome, che sia quello di Pincarelli.

I post cancellati di Omar. Davanti agli inquirenti, dopo l'arresto, Marco Bianchi dichiara: 1) "ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, poi mi sono allontanato"; 2) di "non aver dato nessun colpo"; 3) "Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi"; 4) "Willy è caduto con la mia spinta ma lui si è alzato e poi io sono andato via". Anche il fratello sostiene di non aver fatto niente e di non aver visto niente: "C'erano tante persone e non ho visto chi ha colpito Willy". Il pm di Velletri, Antonio Paoletti, non gli crede. Né gli ha creduto il gip che ne ha convalidato gli arresti in carcere. I loro avvocati difensori, Mario e Massimiliano Pica, sono però convinti di ribaltare la narrazione dei fatti fin qui ricostruiti dai magistrati grazie alle testimonianze scagionanti di Cerquozzi e Sahbani. Quest'ultimo si è già espresso pubblicamente in loro difesa sul proprio profilo Facebook, con due post che ha cancellato dopo poco. Repubblica è però venuta in possesso degli screenshot. Nel primo post scrive: "Come è giusto che il povero Willy riposi in pace, come è giusto che giustizia sia fatta, è anche giusto che il vero colpevole deve parlare! Fosse l'ultima cosa che faccio ma mi batterò fino alla fine pur di far uscire la verità!". Nel secondo: "Voglio ricordarvi una cosa, le persone arrestate sono 4, e se vi sfugge il nome degli altri 2 si chiamano Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. E se non fossero stati Marco e Gabriele ad uccidere quel povero ragazzo? Vi invito ad iniziare ad informarvi bene prima di dare dell'assassino!".

Fulvio Fiano, Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 10 settembre 2020. Willy Monteiro Duarte «non c’entrava nulla con la rissa», ma «l’hanno massacrato a calci e pugni senza una plausibile ragione». La notte di domenica scorsa «voleva mettere pace tra due ragazzi che litigavano», ma «gli sono saltati sul corpo anche quando era a terra inerme». Aveva il corpo scosso dalle convulsioni, respirava a fatica. Una ragazza ha provato a rianimarlo. Per lui non c’è stato nulla da fare. L’ordinanza del giudice di Velletri che tiene in carcere i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, il loro amico Mario Pincarelli e manda ai domiciliari Francesco Belleggia, ricostruisce nei dettagli l’aggressione selvaggia al giovane di Colleferro. Descrive la furia del gruppo — tutti cultori di arti marziali — «che picchiavano tutti quelli che incontravano» e poi si sono accaniti su Willy. Svela che i «fratelli Bianchi» «stavano facendo sesso nel cimitero con alcune ragazze di cui non conoscevamo il nome, quando siamo stati chiamati». Consegna la descrizione di notti folli trascorse a bere per strada, durante le quali basta un apprezzamento pesante a una ragazza per accendere gli animi e scatenare l’inferno. Sono i testimoni presenti in largo Santa Caterina a Colleferro a raccontare ogni passaggio — dall’inizio della lite al pestaggio mortale — consentendo così ai carabinieri di chiudere l’indagine. I loro verbali si trasformano nel film dell’omicidio.

La prima lite. Il primo a essere rintracciato dagli investigatori dell’Arma è Federico Zurma: «Verso le 23,30 di sabato, insieme ad alcuni amici e amiche siamo recati presso il locale Due di picche. Ci siamo intrattenuti fino all’1,30 quando decidevamo di andare via. Giunti alle scale le mie amiche mi riferivano di essere state apostrofate in modo volgare da alcuni ragazzi lì sul posto. Io il mio amico Alessandro Rosati ci siamo fatti indicare chi fossero i ragazzi che le avevano importunate e siamo andati da loro a chiedere conto. Il mio amico Alessandro li riconosceva per dei ragazzi di Artena. Ci scambiavamo qualche battuta dopodiché uno di loro mi veniva incontro dicendomi perché lo stessi fissando. Avevamo un diverbio quando all’improvviso questo ragazzo mi colpiva con un pugno al volto facendomi rovinare sulle scale». La faccenda sembra finita, ma oltre un’ora dopo è ancora aperta. Zurma ricorda i dettagli: «Finita la lite tra me e il ragazzo notavo che a distanza di pochi metri da noi si era creato un altro parapiglia tra altri ragazzi che stavano litigando esattamente sulla strada vicino l’edicola. Qualcuno mi urlava che il mio amico Willy coinvolto nel parapiglia si trovava steso a terra, facendomi spazio tra la gente in effetti notavo Willy a terra sul marciapiede preso da spasmi tipo convulsioni. Attorno a lui c’era una moltitudine di persone e ricordo che qualcuno ha provato a soccorrerlo e rianimarlo. Venivano chiamati i soccorsi e io e Alessandro andavamo via anche perché lui aveva riconosciuto gli aggressori di Willy e mi suggeriva di allontanarmi il prima possibile per non incorrere in ulteriori violenze. Ricordo che il ragazzo che mi ha sferrato il pugno aveva l’avambraccio sinistro ingessato e i capelli corti e scuri». Rosati conferma questa versione e spiega anche di essersi «avvicinato a uno di quei ragazzi che conoscevo e con calma ho chiesto spiegazioni del perché avesse proferito parole poco carine nei confronti delle ragazze e lui si è subito scusato dicendo che non era stato lui».

L’arrivo di Willy. Il motivo che ha spinto Willy a mettersi in mezzo lo racconta il suo amico Emanuele Cenciarelli: «All’1,30 circa insieme a Willy e altri amici giungevamo a Colleferro e ci intrattenevamo per un paio d’ore fino a circa le 3 quando decidevamo di andarcene per tornare a Paliano. Ci allontanavamo a piedi verso le nostre macchine quando Willy vedeva un ragazzo che mi diceva essere un suo vecchio compagno di scuola il quale stava discutendo animatamente con un altro ragazzo che non conosco. A quel punto Willy si avvicinava al suo vecchio compagno di scuola per capire cosa stesse accadendo e se avesse bisogno di aiuto... cercavo di dissuadere Willy dall’interessarsi alla vicenda aggiungendo che ritenevo opportuno andarcene a casa. Willy mi assecondava e ci incamminavamo verso la sua auto. A quel punto senza che io e Willy potessimo accorgerci di ciò che stava accadendo venivamo entrambi aggrediti da alcuni ragazzi tra i quali riconoscevo subito i due che stavano poco prima discutendo con Federico l’amico di Willy. Ricordo subito l’immagine di Willy steso a terra circondato da 4 o 5 ragazzi che lo colpivano violentemente con calci pugni. Il mio istinto di protezione mi spingeva a gettarmi addosso Willy per cercare di proteggerlo dai colpi che stava ricevendo, urlando agli aggressori che io e Willy non centravamo niente con quanto eventualmente era accaduto prima. Le mie richieste venivano nel vuoto tanto che io stesso venivo colpito da calci e pugni sempre dagli stessi ragazzi che avevano aggredito Willy». E ancora: «Non riesco a quantificare il tempo e l’aggressione, la violenza dei colpi subiti da me Willy era inaudita... I due ragazzi con i quali Federico stava discutendo uno indossava una camicia bianca e aveva una lacrima tatuata in viso sotto l’occhio e diversi tatuaggi su braccia e mani. L’altro aveva un avambraccio ingessato. Al momento dell’aggressione si sono uniti a loro altri tre ragazzi. Per quanto io ricordi tutti sferravano calci e pugni contro me e Willy. Ho un vivido ricordo di un paio di loro, non ricordo però chi di preciso, che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso a terra e già inerme». Anche Faiza Rouissi, che rientrava verso casa alle 3 di notte, ricorda quei momenti: «Ero a piedi ho visto un ragazzo che conosco e mi sono fermata a dividere Pincarelli e Zurma che si stavano picchiando. A questo punto è arrivata un’autovettura a forte velocità di colore nero dalla quale sono scese cinque persone. Tre di loro hanno iniziato a picchiare selvaggiamente qualsiasi persona presente sul posto. Un ragazzo è rimasto a terra e nonostante fosse disteso delle persone lo picchiavano. So riconoscere chi è stato: Gabriele Bianchi, che dapprima gli ha dato un calcio in pancia per il quale Willy si è accasciato. E quando si è rialzato è stato colpito nuovamente da Gabriele. Perdeva sangue dalla bocca, Gabriele l’ha picchiato ancora a terra per qualche istante dopodiché, quando è arrivata la sicurezza dei locali, lui è scappato insieme agli altri. A quel punto abbiamo soccorso Willy e abbiamo chiamato un’ambulanza».

Sesso e minacce. I fratelli Bianchi sono noti nella zona per la loro violenza, hanno precedenti di altre risse. Quando i carabinieri vanno a prelevarli non possono negare di essere stati a Colleferro anche se cercano di minimizzare le proprie responsabilità. Il giudice sottolinea che «Marco Bianchi riferiva di essersi allontanato dal pub in compagnia del fratello, di un amico e di tre ragazze delle quali non sapeva riferire il nome e che mentre stavano consumando un rapporto sessuale vicino al cimitero, ricevevano una telefonata da parte del loro amico Michele Cerquozzi che gli chiedeva di intervenire in loro soccorso a Colleferro». Il giovane che sta con loro al cimitero è Vittorio Tondinelli, il quinto indagato, ma estraneo alla rissa. Quando i tre arrivano a Colleferro trovano Belleggia. Dichiara Marco Bianchi: «Io ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, poi mi sono allontanato. Non ho dato nessun colpo. Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi. Willy è caduto sotto la mia spinta ma poi si è alzato e io sono andato via... C’erano tante persone, non ho visto chi ha colpito Willy». Belleggia fornisce una versione diversa: «Marco Bianchi va verso Willy gli tira un calcio lui cade all’indietro. Gabriele Bianchi picchia l’amico di Willy... Willy era poca distanza, Marco Bianchi gli sferra un calcio sul petto diretto. Willy cade indietro sulla macchina e Gabriele si dirige verso l’amico di Willy picchiandolo». È la conferma che serve a convalidare gli arresti. Ma Belleggia aggiunge anche un dettaglio importante: «Prima di essere presi i fratelli Bianchi mi hanno consigliato di non parlare di quello che avevano fatto».

Quelle bugie dei fratelli Bianchi: "Willy è caduto, ma si è rialzato". Durante l’interrogatorio i Bianchi hanno detto: "Noi eravamo lì per caso, c'è stata solo una spinta". Valentina Dardari, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. I principali indagati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, sono concordi nel dire che si sono trovati là per caso e che non hanno colpito il 21enne. Nel carcere romano di Rebibbia sono finiti i fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, e il loro amico, Mario Pincarelli. Francesco Belleggia è stato l’unico ad aver avuto gli arresti domiciliari dopo che aveva svelato il patto del silenzio avvenuto sul Suv nero. Gli indagati non avrebbero neanche parlato di una vera e propria rissa, quanto piuttosto di una discussione. Come riportato da Repubblica, Gabriele, il maggiore dei due fratelli Bianchi, al primo interrogatorio di garanzia, avvenuto l’8 settembre, avrebbe risposto in modo confuso. Addirittura avrebbe negato inizialmente di avere precedenti penali, tranne poi dire subito dopo “forse sì”. Alla richiesta del giudice di ricostruire quella tragica notte, il 26enne ha affermato: “Io, mio fratello Marco e Vittorio Tondinelli andiamo al locale Duedipicche, poi ci allontaniamo con tre ragazze. A un certo punto Michele Cerquozzi mi telefona e mi chiede di tornare là. Vediamo una rissa e ci dirigiamo verso la folla. Mentre cercavamo di capire, vedo Willy spostarsi come se fosse stato spinto. Accanto a Willy c'era un ragazzo che gesticolava e io l'ho spinto per paura che colpisse mio fratello. Non ho visto chi ha spinto Willy”. Il giovane ha inoltre asserito di non aver avuto nessun contatto con la vittima e di averla solo vista cadere prima in ginocchio e poi per terra. Ma non saprebbe dire chi lo abbia colpito. Anche perché, come da lui stesso sottolineato, la loro auto si trovava a 15 metri di distanza. Il ragazzo è certo che attorno a Willy ci fosse anche Francesco Belleggia. Luigi Paoletti, il pubblico ministero di Velletri, sembra però non credere molto alle parole di Bianchi e chiede uno sforzo di memoria. “Ripeto, ho spinto l'amico di Willy, ma non lui. Tutto è durato pochi secondi. Non avevamo bevuto né assunto alcun tipo di droga. Alla fine siamo tornati al locale di mio fratello ad Artena...” ha ribadito l’indagato. Lo stesso giorno è stato interrogato anche il fratello Marco di 24 anni, esperto di Mma, uno sport da combattimento che unisce arti marziali e pugilato. Il giovane ha raccontato di aver interrotto un rapporto sessuale vicino al cimitero a causa di una improvvisa telefonata da parte di un amico. “Ci chiama Cerquozzi per aiutarlo a Colleferro. Ha chiamato Tondinelli e mio fratello dicendo che alcuni ragazzi discutevano”. I fratelli lasciano quindi le ragazze con cui stavano amoreggiando e tornano velocemente al risto-pub Duedipicche. “Dopo 15 minuti arriviamo là e vediamo una folla. Ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, è caduto ma poi si è alzato e sono andato via. L'ho spinto con le mani, non gli ho dato un calcio al torace. Non ho dato nessun colpo, Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi” questa la versione del 24enne. Quattro testimoni oculari però avrebbero fornito una versione diversa. Questi avrebbero infatti detto di aver visto i fratelli Bianchi colpire Willy. I gemelli, chiamati così perché molto simili nei modi di fare e anche nel fisico, continuano ad asserire di averlo solo spinto, ma che poi si è rialzato. Neanche il terzo ragazzo interrogato, Mario Pincarelli, ha aggiunto molto di più alla versione degli altri due: “Belleggia ha discusso con un ragazzo. Ero con lui e altre persone. I fratelli Bianchi intervengono per un passaggio. Scendono dalla macchina, dicono di andare via. Io non ho nemmeno parlato con Willy. I Bianchi non hanno toccato nessuno. Io stavo cercando di mettere pace tra Belleggia e l'altro ragazzo. Dopo ci siamo visti ad Artena al locale di Alessandro, il fratello di Gabriele e Marco”. Gli inquirenti non credono però alle parole degli indagati. Piuttosto, i tre sembrano ancora seguire il copione deciso quella tragica notte a bordo del Suv, poco dopo la morte del 21enne. Due le foto che hanno permesso ai carabinieri di fermare i fratelli Bianchi. La prima scattata da un amico di Willy che riprende la vettura nera che se ne va dal luogo della tragedia. La seconda è stata fatta alle 3.49, quando il 21enne si trova già sull'ambulanza che lo porterà in ospedale, e si vede il suv parcheggiato con le portiere aperte e due ragazze in minigonna che parlano con gli indagati. Fondamentale la testimonianza di Belleggia che, davanti al giudice, ha raccontato la sua versione: “Willy era a poca distanza da me e Federico Zurma, un ragazzo di Colleferro con cui avevo avuto un diverbio. Arrivano i Bianchi. Marco sferra a Willy un calcio sul petto, Willy cade indietro sulla macchina. Gabriele si dirige verso l'amico di Willy e lo picchia. A quel punto è iniziata la rissa con pugni e calci, io cerco di scappare per paura. Dicono che Pincarelli abbia dato colpi a Willy mentre era a terra, ma io non li ho visti. So solo che Pincarelli era accanto a me, e dopo l'arrivo dei Bianchi è intervenuto nella rissa. Willy? Willy non c'entrava nulla”.

Valentina Dardari per il Giornale il 17 settembre 2020. I principali indagati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, sono concordi nel dire che si sono trovati là per caso e che non hanno colpito il 21enne. Nel carcere romano di Rebibbia sono finiti i fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, e il loro amico, Mario Pincarelli. Francesco Belleggia è stato l’unico ad aver avuto gli arresti domiciliari dopo che aveva svelato il patto del silenzio avvenuto sul Suv nero.

Non una rissa ma una discussione. Gli indagati non avrebbero neanche parlato di una vera e propria rissa, quanto piuttosto di una discussione. Come riportato da Repubblica, Gabriele, il maggiore dei due fratelli Bianchi, al primo interrogatorio di garanzia, avvenuto l’8 settembre, avrebbe risposto in modo confuso. Addirittura avrebbe negato inizialmente di avere precedenti penali, tranne poi dire subito dopo “forse sì”. Alla richiesta del giudice di ricostruire quella tragica notte, il 26enne ha affermato: “Io, mio fratello Marco e Vittorio Tondinelli andiamo al locale Duedipicche, poi ci allontaniamo con tre ragazze. A un certo punto Michele Cerquozzi mi telefona e mi chiede di tornare là. Vediamo una rissa e ci dirigiamo verso la folla. Mentre cercavamo di capire, vedo Willy spostarsi come se fosse stato spinto. Accanto a Willy c'era un ragazzo che gesticolava e io l'ho spinto per paura che colpisse mio fratello. Non ho visto chi ha spinto Willy”. Il giovane ha inoltre asserito di non aver avuto nessun contatto con la vittima e di averla solo vista cadere prima in ginocchio e poi per terra. Ma non saprebbe dire chi lo abbia colpito. Anche perché, come da lui stesso sottolineato, la loro auto si trovava a 15 metri di distanza. Il ragazzo è certo che attorno a Willy ci fosse anche Francesco Belleggia. Luigi Paoletti, il pubblico ministero di Velletri, sembra però non credere molto alle parole di Bianchi e chiede uno sforzo di memoria. “Ripeto, ho spinto l'amico di Willy, ma non lui. Tutto è durato pochi secondi. Non avevamo bevuto né assunto alcun tipo di droga. Alla fine siamo tornati al locale di mio fratello ad Artena...” ha ribadito l’indagato. Lo stesso giorno è stato interrogato anche il fratello Marco di 24 anni, esperto di Mma, uno sport da combattimento che unisce arti marziali e pugilato. Il giovane ha raccontato di aver interrotto un rapporto sessuale vicino al cimitero a causa di una improvvisa telefonata da parte di un amico. “Ci chiama Cerquozzi per aiutarlo a Colleferro. Ha chiamato Tondinelli e mio fratello dicendo che alcuni ragazzi discutevano”. I fratelli lasciano quindi le ragazze con cui stavano amoreggiando e tornano velocemente al risto-pub Duedipicche. “Dopo 15 minuti arriviamo là e vediamo una folla. Ho spinto Willy perché stava discutendo in gruppo, è caduto ma poi si è alzato e sono andato via. L'ho spinto con le mani, non gli ho dato un calcio al torace. Non ho dato nessun colpo, Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi” questa la versione del 24enne. Quattro testimoni oculari però avrebbero fornito una versione diversa. Questi avrebbero infatti detto di aver visto i fratelli Bianchi colpire Willy. I gemelli, chiamati così perché molto simili nei modi di fare e anche nel fisico, continuano ad asserire di averlo solo spinto, ma che poi si è rialzato. Neanche il terzo ragazzo interrogato, Mario Pincarelli, ha aggiunto molto di più alla versione degli altri due: “Belleggia ha discusso con un ragazzo. Ero con lui e altre persone. I fratelli Bianchi intervengono per un passaggio. Scendono dalla macchina, dicono di andare via. Io non ho nemmeno parlato con Willy. I Bianchi non hanno toccato nessuno. Io stavo cercando di mettere pace tra Belleggia e l'altro ragazzo. Dopo ci siamo visti ad Artena al locale di Alessandro, il fratello di Gabriele e Marco”. Gli inquirenti non credono però alle parole degli indagati. Piuttosto, i tre sembrano ancora seguire il copione deciso quella tragica notte a bordo del Suv, poco dopo la morte del 21enne.

Da liberoquotidiano.it il 17 settembre 2020. Due le foto che hanno permesso ai carabinieri di fermare i fratelli Bianchi. La prima scattata da un amico di Willy che riprende la vettura nera che se ne va dal luogo della tragedia. La seconda è stata fatta alle 3.49, quando il 21enne si trova già sull'ambulanza che lo porterà in ospedale, e si vede il suv parcheggiato con le portiere aperte e due ragazze in minigonna che parlano con gli indagati. Fondamentale la testimonianza di Belleggia che, davanti al giudice, ha raccontato la sua versione: “Willy era a poca distanza da me e Federico Zurma, un ragazzo di Colleferro con cui avevo avuto un diverbio. Arrivano i Bianchi. Marco sferra a Willy un calcio sul petto, Willy cade indietro sulla macchina. Gabriele si dirige verso l'amico di Willy e lo picchia. A quel punto è iniziata la rissa con pugni e calci, io cerco di scappare per paura. Dicono che Pincarelli abbia dato colpi a Willy mentre era a terra, ma io non li ho visti. So solo che Pincarelli era accanto a me, e dopo l'arrivo dei Bianchi è intervenuto nella rissa. Willy? Willy non c'entrava nulla”. “Wily è caduto e si è rialzato, nessuno di noi lo ha colpito”. Si apre così il pezzo di Repubblica su quelle che definisce le bugie dei fratelli Bianchi, finiti in carcere assieme a Mario Pincarelli con l’accusa di omicidio volontario. I tre sostengono di essersi trovati lì quasi per caso e di aver visto poco o niente, ma soprattutto di non c’entrare nulla con la morte di Willy Monteiro. Gabriele e Marco Bianchi si limitano a parlare di spintoni: “L’ho spinto perché stava discutendo in gruppo - ha dichiarato il secondo - è caduto ma poi si è alzato e sono andato via. L’ho spinto con le mani, non gli ho dato un calcio al torace. Non ho dato nessun colpo, Pincarelli e Belleggia non hanno dato colpi”. Eppure ci sono almeno quattro testimoni oculari che indicano nei fratelli Bianchi gli assalitori di Willy: loro si difendono, negano tutto e non hanno idea di cosa possa aver ucciso il ragazzo. Gli inquirenti però non credono a quanto dicono, ma anzi ritengono che i tre arrestati stiano recitando un copione stabilito forse quella notte stessa a bordo dell’Audi sulla via del ritorno. Però, fa notare Repubblica, un amico di Willy è riuscito a fotografare il suv nero mentre si dileguava: grazie a quell’immagine i carabinieri di Colleferro li hanno arrestati. Ora si scopre che c’è un’altra foto nel fascicolo dell’inchiesta: è stata scattata alle 3.49 dopo il pestaggio e ritrae una sosta con due ragazze in minigonna prima della fuga. Tra l’altro a smentire la versione dei fratelli Bianchi è Belleggia, che davanti al giudice ha offerto la seguente versione: “Marco sferra a Willy un calcio sul petto, Willi cade indietro sulla macchina. Gabriele si dirige verso l’amico di Willy e lo picchia. A quel punto è iniziata la rissa con pugni e calci, io cerco di scappare per paura. Dicono che Pincarelli abbia dato colpi a Willy mentre era a terra, ma io non li ho visti. Willy? Lui non c’entrava nulla”.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte, con due donne dopo il pestaggio, ecco la foto che ha incastrato i fratelli Bianchi. Pubblicato mercoledì, 16 settembre 2020 da Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it Le immagini hanno permesso ai carabinieri di Colleferro di conoscere subito la targa del veicolo che si è dileguato dalla scena della rissa, risalire al proprietario e individuare i due indagati. Due foto hanno incastrato i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. Due foto che Repubblica pubblica in esclusiva, scattate con il telefonino dopo il pestaggio di Willy Monteiro Duarte, e che ritraggono l'Audi Q7 nera a bordo della quale, la sera del 5 settembre, sono arrivati e tornati da Artena. Sono le immagini che hanno permesso ai carabinieri di Colleferro di conoscere subito la targa del veicolo che si è dileguato dalla scena della rissa, risalire al proprietario (Isa Zitelli, la compagna di Alessandro Bianchi, fratello maggiore di Gabriele e Marco, indagati per omicidio volontario) e individuare i due indagati. Condividi   Da quanto si deduce dal verbale di arresto, sono entrambe scattate a Colleferro da Matteo La Rocca, uno degli amici di Willy, subito dopo il pestaggio. Nella prima il suv è fermo con la portiera di destra aperta e le luci accese. La targa è ben visibile. La seconda, di cui finora non era nota l'esistenza, è anch'essa contenuta nel fascicolo d'indagine aperto dalla procura di Velletri e che vede al momento quattro indagati (i due fratelli, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti e quattro di Artena). L'automobile è ferma a una cinquantina di metri di distanza dal luogo dove Willy Monteiro Duarte è stato picchiato, ha le portiere aperte e ci sono due ragazze in minigonna che chiacchierano con i passeggeri, presumibilmente proprio Marco e Gabriele Bianchi. La loro identità è ignota. Il maresciallo Antonio Carella riceve le immagini da La Rocca sulla chat di Whatsapp alle 3.49. In quel momento Willy si trova sull'ambulanza, arriverà all'ospedale di Colleferro già morto. E' grazie a quei due scatti che Carella, il primo a soccorrere il 21 enne di origini capoverdiane perché allertato dagli schiamazzi (la caserma dell'Arma è vicinissima al luogo dell'omicidio), risale alla proprietà del veicolo. La pattuglia dei carabinieri si precipita dunque ad Artena e alle 3.55 il militare, appostato davanti al pub di Alessandro Bianchi, vede arrivare a piedi i due fratelli. Dopo poco, li arresta entrambi.

Le immagini dei fratelli Bianchi prima del pestaggio di Willy. Le Iene News il 19 settembre 2020. In questo video esclusivo di Iene.it, si vedono i fratelli Bianchi in macchina poche ore prima del brutale pestaggio che ha portato alla morte Willy Duarte. Il video è stato registrato dalle storie Instagram di Gabriele Bianchi: nelle immagini sembra intravedersi Vittorio Tondinelli, che sarebbe indagato per favoreggiamento, e due donne in macchina. Un giro a salutare un amico, un viaggio in auto con due donne: in questo video esclusivo di Iene.it si vedono i fratelli Marco e Gabriele Bianchi poche ore prima del pestaggio che ha portato alla morte di Willy Duarte, il 21enne morto nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro. Il video è composto da due storie Instagram pubblicate sul profilo di Gabriele Bianchi e registrate da un utente che ce le ha poi girate. Le immagini sarebbero state pubblicate intorno alla mezzanotte del giorno della morte di Willy Duarte, quindi circa tre ore prima del pestaggio. Nella prima storia i fratelli Bianchi, a bordo di un’auto, passano davanti a quello che sembra essere un bar e parlano con una persona. Nella storia è taggato Vittorio Tondinelli: secondo varie fonti di stampa Tondinelli, che sarebbe estraneo al pestaggio che ha causato la morte di Willy Duarte, sarebbe però indagato per favoreggiamento. Uno dei fratelli Bianchi rallenta con la macchina, si rivolge a questa persona e gli dice: “Già sai, e se non sai…”. L’altro replica: “Saprai!”. A quel punto il fratello Bianchi risponde: “Piace fratello!”, la macchina riparte e la storia termina. Nella seconda storia, invece, si vede l’interno della macchina dove oltre ai fratelli Bianchi ci sono due donne, a cui abbiamo ovviamente oscurato i volti per ragioni di privacy. Le due, per quanto possibile sapere, sarebbero completamente estranee agli eventi che hanno portato alla morte di Willy, ma la loro presenza nel video potrebbe essere importante: i Bianchi infatti hanno detto ai magistrati di essere stati chiamati per sedare una rissa mentre si trovavano in un cimitero insieme a un amico a fare sesso con tre donne. Non sappiamo ovviamente se le due riprese nella storia siano le stesse donne, ma sicuramente è un elemento in più per inquadrare cosa è successo quella notte. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso la notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro. Per la sua morte sono stati arrestati i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: l’accusa a loro carico è di omicidio volontario, con l’aggravante dei futili motivi. Non è invece, almeno per adesso, contestata l’aggravante razziale. I fratelli Bianchi e Pincarelli si trovano in carcere a Rebibbia, mentre per Belleggia sono stati disposti gli arresti domiciliari.

Fulvio Fiano e Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 17 settembre 2020. La notte dell’omicidio di Willy Monteiro Duartei fratelli Bianchi, ora accusati di omicidio volontario, cercarono di nascondere il loro suv in un parcheggio privato, lontano da sguardi indiscreti. «La macchina era parcheggiata in largo Cristoforo Colombo 2 in un parcheggio privato di altrui proprietà con il chiaro intento di occultare il veicolo» è scritto nel verbale di arresto dei carabinieri. Non c’era infatti motivo, annotano i militari, per lasciare lì l’auto (intestata alla moglie dell’altro fratello dei Bianchi, Alessandro) dato che il parcheggio si trova a 300 metri di distanza dal pub dove si erano fermati a bere un caffè: a pochi passi ci sono due parcheggi pubblici aperti e a quell’ora vuoti, ma evidentemente non offrivano riparo dagli occhi di chi cercasse l’auto. «Sono salito in auto con loro solo per fuggire e mi “consigliarono” di non raccontare niente», ha detto nel suo interrogatorio Francesco Belleggia, il 23enne accusato di concorso nell’omicidio ma mandato ai domiciliari dal gip perché la sua versione è risultata credibile dal confronto con le altre testimonianze e perché la sua partecipazione alla rissa è più defilata. Il fascicolo d’inchiesta completo contiene anche altri elementi, tra cui l’intera deposizione di Federico Zurma, l’amico di Willy che aveva dato il via al battibecco con uno degli arrestati. Zurma dice ai carabinieri come alla fine della rissa, dopo che Willy è stato portato via dall’autoambulanza, lui stesso assieme agli amici decide di andare via il prima possibile per «non incorrere in ulteriori eventuali violenze» da parte dei Bianchi. Al pronto soccorso, come annota il medico di turno, il 21enne arriva già «in assenza di parametri vitali». Secondo i carabinieri di Colleferro che conducono le indagini, i cosiddetti «gemelli di Artena» avrebbero agito come una sorta di commando. Una squadra punitiva contro chiunque gli si opponesse, mossa dall’intento di mostrare la propria forza in una sorta di celebrazione dell’immagine da duri che anche sui social davano di se stessi. Si sta anche indagando sull’eventuale reddito di cittadinanza percepito dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi o dagli altri due accusati di omicidio volontario per la morte di Willy, Mario Pincarelli e Roberto Belleggia. I quattro non hanno un vero e proprio lavoro al momento anche se Gabriele ha aperto una frutteria con l’aiuto del padre della fidanzata il consigliere forzista di Velletri Ladaga. I carabinieri stanno incrociando i dati dei quattro con la banca del reddito di cittadinanza per appurarlo oltre ogni dubbio.

Angela Nicoletti per ''Il Tempo'' il 17 settembre 2020.  Le gite in barca a Palmarola e Positano. Lo shopping ad Amalfi e poi ancora il Rolex doro, scarpe, cinte e pantaloni griffati. Un tenore di vita di altissimo livello, come nemmeno un boss di grosso calibro sarebbe capace di fare. Lusso sfrenato ovunque e con chiunque per dimostrare la loro forza, il loro potere, la loro impunibilità. Bottiglie di champagne e vasche idromassaggio con panorami mozzafiato di sfondo. Alberghi a cinque stelle e selfie di gruppo davanti a ostriche e caviale. I quattro aggressori di Willy Monteiro, il 21enne assassinato di botte a Colleferro, nonostante il lusso sfrenato, le berline dal valore di decine di migliaia di euro, i viaggi all'estero, percepivano il reddito di cittadinanza. Marco e Gabriele Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, ogni mese incassavano il benefit che il Governo stanzia per i meno abbienti, per i disoccupati, per gli ultimi. Il pestaggio mortale di Willy ha fatto emergere l'ulteriore beffa che il gruppetto di Artena avrebbe compiuto a danno dell'intera società. Ai finanzieri della compagnia di Colleferro è bastato poco per scoprire il raggiro: avrebbero omesso di indicare, nelle autocertificazioni compilate, i dati necessari a far emergere il loro reale tenore di vita. In questo modo si sono create le condizioni per accedere al beneficio. La Guardia di Finanza quindi ha segnalato le irregolarità emerse dai controlli alla Procura della Repubblica di Velletri che ha quindi denunciato Marco e Gabriele Bianchi per il reato di truffa con l'aggravante del concorso tra di loro. Dovranno rispondere del reato di truffa ai danni dello Stato e quindi dell'Inps di Colleferro anche Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Non solo. Tutti e quattro dovranno restituire in tempi brevi oltre 30mila euro, a tanto ammonta l'importo che per quasi un anno hanno percepito indebitamente. Una vita ai margini della legalità quella che conducevano senza temere il prossimo con la sfrontatezza di chi crede di poter sempre farla franca. Eppure il loro modo di fare spavaldo e senza regole era da tempo sotto controllo. Le forze dell'ordine avevano raccolto una lunga serie di elementi che avrebbero dovuto sfociare entro breve in una richiesta di «sorveglianza speciale» che avrebbe ridotto drasticamente i loro movimenti, le loro scorribande prepotenti tra Artena, Colleferro, Cori, Giulianello e Roma. Dove seminavano terrore e paura. Dove intimorivano tutti: dai commercianti, ai titolari di bar, dai giova ni in piazza agli adulti che provavano a difendere il prossimo dai loro continui soprusi. E la sera della tragedia in largo Oberdan potrebbero aver messo in atto quello stesso atteggiamento che viene vergato in almeno quattro denunce per rissa che Marco e Gabriele Bianchi hanno collezionato negli ultimi tempi. Erano loro i leader del gruppo. Erano loro l'elemento trainante della combriccola che avrebbe spezzato la vita di un ragazzo pieno di valori: generoso, gentile, altruista. Marco e Gabriele, i «gemelli diversi» per la forte somiglianza nonostante i due anni di differenza, all'arrivo in carcere a Rebibbia hanno avuto come prima preoccupazione l'esser costretti a bere l'acqua del rubinetto. Loro che, senza farne mistero, bevono esclusivamente prodotti di qualità in bottiglie sigillate. Nel reparto speciale, dove in tre stanno trascorrendo il periodo di quarantena previsto dalla Legge, vengono sorvegliati a vista, 24 ore su 24. Perché si teme per la loro incolumità. Le «regole non scritte» all'interno di un penitenziario non lasciano spazio, per chi si macchia di reati così gravi, a comprensione e tolleranza da parte degli altri detenuti nonostante tutti neghino di aver colpito Willy Monteiro e di averne provocato la morte. Per questo Marco e Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli, hanno chiesto, tramite i loro avvocati Massimiliano e Mario Pica, di poter restare in isolamento. Il tribunale per il Riesame ha dato parere negativo alla scarcerazione ed alla concessione dei domiciliari. Intanto le indagini da parte dei Carabinieri della Compagnia di Colleferro, che sono riusciti ad individuare ed arrestare i quattro aggressori a tempo di record, stanno cercando di ricostruire dettagliatamente quanto accaduto davanti al pub «Due di picche» la notte del massacro di Willy. Gli attimi precedenti al pestaggio mortale e quelli successivi quando cioè decine di testimoni raccontano della fuga dei fratelli Bianchi, di Pincarelli e Belleggia dopo l'ultimo colpo, quello fatale, inferto al collo dell'aiuto chef italo-capoverdiano. Su questo si stanno concentrando gli interrogatori che i carabinieri della sezione operativa stanno svolgendo unitamente al magistrato Luigi Paoletti della procura di Velletri. Quattro le persone ascoltate per ore come «informate sui fatti». Si tratta di giovani residenti tra Artena e Colleferro e componenti della comitiva frequentata dagli arrestati.

Omicidio Willy Monteiro Duarte, reddito di cittadinanza per i fratelli Bianchi e gli altri della banda. Pubblicato giovedì, 17 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it. Nelle foto sui social ostentano ricchezza e lusso, Suv da 70mila euro e vacanze in barca a Palmarola, ma per lo Stato sono nullatenenti. Le indagini dei carabinieri sul tenore di vita degli arrestati. Dallo Stato hanno ottenuto oltre 33mila euro. La famiglia dei fratelli Bianchi, così come quelle di Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, percepiva il reddito di cittadinanza. E' questa una delle conclusioni a cui sono giunti, dopo i primi dieci giorni di indagine, gli investigatori che stanno facendo luce sul pestaggio di Colleferro, quello in cui il 6 settembre scorso ha perso la vita Willy Monteiro Duarte. La notizia fa scalpore soprattutto considerando il tenore di vita ostentato da quella che ormai è passata alle cronache come la banda di Artena: Suv, moto potenti, orologi costosi e vacanze da sogno tra Positano, l'Umbria e in barca a Palmarola, nell'arcipelago delle isole pontine. I Bianchi, che vivono tuttora in una villa di tutto rispetto, risultano però  avere ufficialmente pochi mezzi economici a disposizione. Tanto che il papà ha potuto chiedere e ottenere il sostegno statale, così come - stando a quanto gli la Guardia di finanza di Colleferro sta cercando di verificare in queste ore - i due fratelli. Stessa situazione per quanto riguarda le famiglie degli altri due arrestati, Pincarelli e Belleggia. Una contraddizione che ha insospettito non poco gli investigatori che, a questo punto, stanno cercando di capire come potessero quei giovani permettersi una vita tanto dispendiosa. Massimiliano Pica, l'avvocato difensore dei due fratelli ha tenuto a precisare che né Marco né Gabriele abbiano mai avuto accesso al reddito di cittadinanza. Lo hanno detto al gip in sede di interrogatorio, spiega l'avvocato, nella quale hanno detto di "non sapere neanche di cosa si tratta". Uno dei fratelli dei due arrestati, Alessandro, gestisce ad Artena un bistrot e ha più volte precisato che il suv utilizzato per allontanarsi da Colleferro dopo aver massacrato lo studente di Paliano era il suo ma valeva poche migliaia di euro, e Gabriele aveva aperto una frutteria a Cori, a dire del futuro suocero con l'aiuto di quest'ultimo. Resta dunque una domanda: come potevano vivere in quel modo? In attesa di avere gli esiti degli accertamenti patrimoniali disposti, gli investigatori non si sbilanciano, anche se il sospetto è che potessero contare su altre forme di reddito. E le Fiamme gialle di Colleferro, controllando appunto la situazione dei Bianchi, Pincarelli e Belleggia per quanto riguarda il Reddito di cittadinanza, hanno intanto denunciato alla Procura di Velletri quattro persone, due delle quali in concorso, e segnalato all'Inps le stesse per il recupero delle somme percepite indebitamente. In totale, secondo le Fiamme gialle, su 33.075 euro ottenuti dai denunciati ne devono essere recuperati 28.747.

Willy Monteiro, l'avvocato dei fratelli Bianchi sul reddito di cittadinanza: "Non sanno neanche cos'è". Libero Quotidiano il 17 settembre 2020. “Hanno affermato di non sapere neanche di cosa si tratta”. Così Massimiliano Pica, avvocato difensore di Marco e Gabriele Bianchi, si è espresso riguardo all’accusa rivolta ai due fratelli di essere pur percettori del reddito di cittadinanza. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che hanno sempre ostentato un tenore di vita ben al di sopra delle entrate dichiarate: tra suv, barche, vestisti griffati, hotel e vacanze di lusso, è chiaro che siano emersi dei sospetti da parte degli inquirenti. Oltre ai fratelli Bianchi, anche gli altri due arrestati (Mario Pincarelli e Francesco Belleggia) percepivano il sussidio grillino: dall’indagine patrimoniale è emerso che a fare domanda siano stati i rispettivi capifamiglia e che i tre nuclei familiari avrebbero percepito circa 30mila euro. Soldi che potrebbero essere chiamati a restituire allo Stato in caso di dichiarazioni mendaci. “Non abbiamo mai ricevuto o chiesto il reddito di cittadinanza”, è stata la difesa di Gabriele e Marco Bianchi davanti agli inquirenti. “In sede di interrogatorio - ha aggiunto l’avvocato Pica - i miei assistiti hanno affermato di non averlo mai percepito e di non sapere neanche di cosa si tratta”. 

Omicidio di Willy, la Finanza chiede il sequestro dei beni dei fratelli Bianchi. Le Iene News il 18 settembre 2020. La stessa misura è stata chiesta anche per Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: i padri dei quattro arrestati per la morte di Willy Duarte avrebbe percepito oltre 33mila euro di reddito di cittadinanza, omettendo però di dichiarare i loro redditi per avere una cifra più alta. La Guardia di finanza ha chiesto al pm di sequestrare i conti correnti per 27mila euro. Sequestrare i conti correnti dei fratelli Bianchi, e anche quelli di Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: lo ha chiesto la Guardia di finanza al pm titolare dell’indagine sulla morte di Willy Duarte, il 21enne capoverdiano, e per il cui omicidio sono stati arrestati i quattro. Le Fiamme gialle hanno chiesto alla procura di bloccare i conti correnti e altri beni per un valore di 27mila euro, per verificare la provenienza di quei soldi. La richiesta è stata fatta dopo la scoperta che il padre dei fratelli Bianchi aveva chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza per il nucleo familiare. E lo stesso sarebbe accaduto anche per Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Secondo la ricostruzione della Finanza, per ottenere la cifra più alta avrebbero omesso di dichiarare le loro entrate. La cifra percepita sarebbe intorno ai 33mila euro. Sulla vicenda del reddito di cittadinanza i fratelli Bianchi hanno detto al gip: "Non abbiamo mai ricevuto o chiesto il reddito di cittadinanza", in base a quanto riferisce il loro difensore Massimiliano Pica. "In sede di interrogatorio i miei assistiti hanno affermato di non avere mai ricevuto il reddito di cittadinanza. Di non sapere neanche di cosa si tratta”, ha aggiunto Pica. E sul caso è intervenuto anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, primo sostenitore della misura di supporto alle famiglie in difficoltà: “Quello che è successo in queste ore, che queste famiglie, non i 4 presunti assassini, prendono il reddito di cittadinanza, è una cosa inaccettabile. La prima cosa è che i controlli si devono intensificare”. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso due settimane fa a Colleferro. Per la sua morte sono stati arrestati i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: l’accusa a loro carico è di omicidio volontario, con l’aggravante dei futili motivi. I fratelli Bianchi e Pincarelli si trovano in carcere a Rebibbia, mentre per Belleggia sono stati disposti gli arresti domiciliari.

Percepiti circa 30mila euro. Suv, barche, vacanze di lusso e reddito di cittadinanza: gli aggressori di Willy percepivano il sussidio dei 5 Stelle. Redazione su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Suv, barche, attività commerciali, vestiti griffati e vacanze di lusso. Alla bella vita dei fratelli Bianchi, arrestati insieme ad altri due coetanei per l’omicidio del 21enne Willy Monteiro Duarte, morte lo scorso 6 settembre in seguito a un violento pestaggio, contribuiva anche il reddito di cittadinanza. I due fratelli, Marco e Gabriele, insieme al papà Ruggero, percepiscono infatti il sussidio tanto voluto dal Movimento 5 Stelle così come le famiglie degli altri due giovani coinvolti Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. La notizia è riportata oggi da alcuni organi di stampa ed è emersa in seguito alle indagini patrimoniali sulla famiglia Bianchi di cui alcuni componenti risulterebbero nullatenenti e per questo percettori del reddito di cittadinanza. Marco e Gabriele Bianchi, quest’ultimo da poco tempo proprietario di una frutteria, ostentavano da tempo anche sui social un tenore di vita superiore alle entrate dichiarate. Circa 30mila euro (ovvero 28.747 euro) i soldi percepiti dai tre nuclei familiari che ora, dopo la segnalazione all’INPS e la denuncia alla Procura di Velletri da parte degli investigatori, saranno recuperati dallo Stato. Soldi ottenuti “indebitamente in quanto i richiedenti hanno omesso di indicare i dati dovuti creandosi in tal modo le condizioni per accedere al beneficio”.

LA DIFESA – “Non abbiamo mai ricevuto o chiesto il reddito di cittadinanza”. E’ quanto hanno affermato Marco e Gabriele Bianchi agli inquirenti, in base a quanto riferisce il loro difensore Massimiliano Pica. “In sede di interrogatorio i miei assistiti – spiega Pica – hanno affermato di non avere mai ricevuto il reddito di cittadinanza. Di non sapere neanche di cosa si tratta”. “Dovevano abolire la povertà con il Reddito di cittadinanza, l’unica cosa che hanno abolito è la dignità. Il sussidio erogato dall’INPS, ancora una volta senza il minimo controllo o verifica, è andato questa volta ai fratelli Bianchi e ai loro compagni arrestati per l’assassinio del povero Willy che da mesi tra champagne e vita di lusso percepivano soldi pubblici per essere semplicemente dei criminali. Ma questo è il Paese pensato e voluto dai 5stelle: Reddito di cittadinanza ai mafiosi, purche’ senza lavoro dichiarato, e nessun aiuto per commercianti, artigiani, partite Iva, imprese, lavoratori in ginocchio. Non ci sono più parole per descrivere il Movimento 5 stelle e la loro ideologia distruttiva, vanno mandati a casa immediatamente perché non sono in grado di pensare uno Stato nelle sue articolazioni fondamentali, dall’economia al welfare passando per la Costituzione e la giustizia. E’ tutto solo propaganda. Vanno fermati”. Lo afferma, in una nota, Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia e portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato.

Francesco Borgonovo per La Verità il 17 settembre 2020. Aurelio Picca ha da poco pubblicato un romanzo splendido, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), che la ferocia e la violenza non ha paura di affrontarle con il petto scoperto. Anche per questo, forse, Picca era l' intellettuale più adatto per commentare la brutalità di Colleferro che è costata la vita al povero Willy. Lo ha fatto in un articolo per Repubblica che ha toccato temi centrali, per lo più trascurati nello scomposto «dibattito» di questi giorni. Picca, ad esempio, parla tanto di «combattimento», dopo che per giorni se ne è discusso a sproposito, portando sul banco degli imputati addirittura le arti marziali praticate dai fratelli Bianchi. Alla violenza spietata di Colleferro, lo scrittore oppone l' idea di uno scontro con la realtà che significa, certo, lotta, ma anche e soprattutto assunzione di responsabilità. Alla cultura da piccoli gangster del «tutto e subito» - descritta anni fa in un celebre libro dal francese Morgan Sportés, che appunto si occupava di violenza giovanile - Picca contrappone una forma di combattimento che consiste, più che altro, nel diventare adulti. C' è un passaggio commovente nel suo articolo, quello in cui scrive: «Abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia».

È da questa libertà in eccesso che origina la violenza di Colleferro?

«Io vengo da una famiglia repubblicana mazziniana. E per i miei genitori mazziniani, la questione della libertà era indissolubilmente legata al dovere. Non esisteva la libertà nel senso in cui l' intendiamo adesso, come progresso libero, sciolto da ogni limite... La libertà che intendo io è prima di tutto responsabilità individuale. Rispetto a sé stessi, al proprio lavoro, alla società. Ma questa responsabilità, questo senso del dovere, sono ormai perduti da tanto tempo».

Essere liberi, dunque, significava anche combattere.

«Nel mondo in cui sono cresciuto vigeva una legge quasi biblica direi, sicuramente patriarcale, una sorta di ferocia naturale. Io sono stato educato alle cose difficili. Perché uno che, fin da bambino, non sapeva fare le cose difficili, come poteva allenarsi ad affrontare la realtà e a essere libero nel mondo? La difficoltà e la lotta ti rendevano libero, non la semplicità e la facilità. È questo che oggi tutti hanno smarrito».

La lotta che sta descrivendo è una sorta di «buona battaglia», non una espressione di violenza cieca e senza limiti.

«Ho fatto tante cose nella vita, anche l' insegnante. Proprio io, che non amavo tanto la scuola, a un certo punto ho fatto il concorso e chissà come l' ho passato. I primi dieci anni a contatto con i ragazzi sono stati come la seconda giovinezza, anzi forse proprio la prima.

Allora ho scritto L' esame di maturità, che di fatto era un corpo a corpo con i ragazzi. Quando venivano in cattedra e mi mostravano le foto porno, io chiedevo: ma queste donne le puoi toccare, le puoi avvicinare, che te ne fai della carta? Allo stesso tempo, però, pretendevo che mandassero a memoria l' Inferno di Dante. Pretendevo da loro, appunto, il corpo a corpo con la realtà».

Di nuovo, quello che lei descrive è uno scontro fisico buono, che migliora.

«Nel mio articolo ho parlato di ferocia della realtà. Una ferocia che presupponeva il corpo a corpo, quello che i bambini avevano con gli arnesi con cui giocavano. Un tempo non c' era bisogno di essere sciuscià o poveri sfruttati per andare a bottega e imparare un mestiere. È questo il corpo a corpo che intendo io, e che ti insegna a fronteggiare la realtà. Oggi se dici a un ragazzo di andare a fare il calzolaio, ti sputa in faccia. Io invece introdurrei l' artigianato come materia di studio nelle scuole. Mi piacciono il mondo artigiano, la piccola impresa, le famiglie che lavorano. Questa è l' Italia, non il grande capitale che ci ha reso schiavi».

Da questa «ferocia della realtà siamo passati però a un altro tipo di ferocia. Quella appunto che è esplosa a Colleferro.

«Quella la chiamo ferocia della perversione. Perché è una perversione».

In che senso?

«La ferocia in sé non è soltanto cattiveria. È anche indice di vitalità, di forza animale e fisica. Non è farsi gonfiare i muscoli in palestra. Ma correre, lavorare, usare il corpo. Nella ferocia c' è il nostro istinto primordiale, che non cambia».

Non cambia, ma va controllato. Deve avere dei limiti. E la figura a cui spetta mettere limiti è quella del padre, che però sembra scomparso.

«Il padre simbolicamente è la legge, la madre è il latte, il sentimento e il ventre. E in effetti il padre non c' è più, è stato distrutto. Oggi ci sono più donne che uomini, ci sono più madri che padri. Il padre in quanto legge non esiste più, e se non ci sono legge e dovere, il territorio del nichilismo diventa una prateria sconfinata».

Eppure anche adesso sono in tanti a puntare il dito contro la «violenza maschile», la «società patriarcale»...

«Non sono d' accordo con questo genere di cose. Io non ho procreato, ma con i miei studenti sono stato padre. Mi hanno amato come un padre e io li ho amati da padre. Non c' entra niente l' autoritarismo. Con i ragazzi, ad esempio, non ti puoi porre come il maestro che sa e che si impone sull' inferiore. La potenza sta nell' autorevolezza, nell' accettare il corpo a corpo di cui parlavo prima. Devi essere il padre che dice al ragazzo: vediamo se sai fare questo, che non impone ma sfida ad assumersi una responsabilità. Il problema è che oggi anche i padri non hanno responsabilità».

Figuriamoci i figli...

«I padri di questi padri, quelli che oggi sono nonni, hanno a loro volta combattuto con i loro genitori. Li hanno combattuti per ragioni ideologiche, c' erano gli scheletri del dopoguerra nell' armadio e tutto il resto. Ma i padri di adesso non devono combattere più nessuno, non hanno più il problema del dovere, della legge, della responsabilità. Che per me vengono prima di tutto. Oggi non si parla mai di doveri, soltanto di diritti. Il grande problema è che noi siamo organi di padre, della legge e dei doveri».

Lei parla di doveri, di autorità, di ordine. Tutto questo oggi viene combattuto. Finisce nel grande calderone del «fascismo» e demonizzato. Anche su Colleferro è stata chiamata in causa la «cultura fascista».

«Questa cosa di tirare sempre in ballo il fascismo è una perversione culturale, vuol dire che non si conosce, non si sa... Io parlo di simboli, che sono eterni, qui il fascismo non c' entra niente. Il mio mito è San Michele Arcangelo, un combattente, l' unico che poteva avere il privilegio di guardare negli occhi Dio».

Ritorniamo sempre lì: alle battaglie che bisogna combattere, alla lotta buona...

«Sì. Io vorrei che i ragazzi riprendessero il corpo a corpo con la realtà. Ho scritto che dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, dove siamo campioni. Vorrei che i ragazzi riprendessero a giocare con i chiodi e con il martello, perché anche se si fanno male sono contenti lo stesso. Vorrei che li rimettessimo in pista, nel mondo. Che imparassero a combattere per assumersi le loro responsabilità».

I FRATELLI BIANCHI. Alessia Marani per “il Messaggero” l'11 settembre 2020. «Gabriele Bianchi ha sferrato a Willy un calcione all'addome che l'ha fatto cadere a terra e non lo ha fatto più respirare, poi tutti, lui, il fratello più piccolo Marco, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l'hanno colpito ancora. Senza pietà. Willy è morto tra le mie braccia, non ha avuto nemmeno il tempo di rendersene conto. Sono tutti colpevoli». Mentre i ragazzi scappavano di fronte alla violenza cieca del commando, lei, F., che compirà 24 anni la prossima settimana e una sua amica, di 19 appena, hanno provato a fermarli e sono rimaste a soccorrere Willy Monteiro Duarte. La ragazza esce di casa, a Colleferro, seguita a vista dalla mamma che ha in braccio il più piccolo dei suoi figli, F. è la seconda: «Li ho educati alla rettitudine, F. non si è tirata indietro e testimonierà al processo. Io sono polacca, mio marito è tunisino e siamo venuti qui in Italia per lavorare e crescere i nostri ragazzi proprio come i genitori di Willy a cui ora, va resa almeno giustizia». F. saluta la mamma e sale in auto.

Dove sta andando?

«Dai carabinieri. Mi sta aspettando anche la mia amica che è ancora spaventata. Ci hanno chiamato perché vogliono ascoltarci di nuovo».

Lei ha già messo a verbale che ha visto Gabriele Bianchi dare un calcio molto violento a Willy, lo confermerà?

«Sì assolutamente».

Conosceva i fratelli Bianchi?

«Qui li conoscono tutti. E conosco anche Pincarelli e Belleggia. Tutto il gruppo sta spesso tra i localetti di largo Santa Caterina, danno fastidio, stanno sempre su di giri, non si tengono».

Testimoni affermano che Pincarelli, il primo che avrebbe innescato la scintilla importunando una ragazza di Colleferro, fosse anche ubriaco...

«E non era la prima volta e mica solo lui. La settimana scorsa ha molestato anche me. Ero al compleanno di mio fratello che festeggiava in uno dei pub. Mi si è messo addosso, non mi lasciava in pace, pretendeva che andassi in auto con lui ad Artena. Sono dovuta correre via per liberarmene, farmi accompagnare a casa perché non si fermava. Ha rovinato la festa di mio fratello».

Conosceva anche Willy?

«Da tanti anni, era compagno di scuola alle medie di mia sorella. Stavamo spesso tutti insieme, era un pezzo di pane. La sua famiglia è adorabile, sua sorella Milena viene a trovarmi per farmi le treccine afro, è bravissima».

Lei era con Willy e i suo amici quando è stato picchiato e ucciso?

«No, io ero con la mia amica e ci stavamo dirigendo verso i giardinetti per tornare a casa. Prima ho visto Pincarelli che litigava con Federico. Quindi mi sono avvicinata a Federico per capire meglio, con Pincarelli c'era Belleggia, quello col braccio ingessato, stanno sempre insieme».

E non ha visto una terza persona telefonare ai Bianchi per chiedere il loro intervento?

«No, però ho visto che Belleggia si era allontanato un momento e stava telefonando, per me potrebbe essere stato anche lui a chiamarli, ma questo lo debbono verificare i carabinieri». E poi che cosa è successo? «Poco dopo che ho osservato Belleggia telefonare, ho visto piombare in strada a folle velocità quell'auto scura con tre ragazzi a bordo: uno è rimasto dentro, ma sono scesi i fratelli Bianchi che hanno cominciato a sbracciare. Gabriele si è accanito subito su Willy».

Quanti colpi ha ricevuto Willy?

«Tanti, calci e pugni. Quando è caduto a terra lo hanno colpito tutti».

Anche il ragazzo col braccio ingessato?

«Sì anche Belleggia». E secondo lei c'è stato un colpo letale? «Sì, il primo calcio all'addome, dato a freddo da Gabriele. Willy è rimasto senza fiato, l'ho sentito tirare due respiri e poi emettere come un rantolo. È finito a terra e quelli gli sono andati sopra. È durato tutto pochissimo».

Ha provato a soccorrerlo?

«L'ho visto morire praticamente tra le mie braccia, ho fatto largo a una donna che ha provato a fargli il massaggio cardiaco ma ormai era inutile». Ha un ricordo particolare di Willy? «Tanti, troppi, tutti belli che riempiono il cuore».

Pare che in molti già prima dell'omicidio non abbiano avuto il coraggio di denunciare i fratelli Bianchi e gli altri. E ancora oggi alcuni tentennano a testimoniare sul delitto. Lei non ha paura? «Vede, io studio Giurisprudenza all'Università a Roma e anche se, per mantenermi, vivo all'estero e lavoro come cameriera in un ristorante di Briatore, un giorno farò l'avvocato: la giustizia viene prima di tutto».

Omicidio di Willy Monteiro Duarte, l'ultimo mistero e il ruolo del gruppo di Colleferro. Pubblicato giovedì, 10 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it Incrociando quanto emerso sinora dagli atti d'indagine con le risposte date a Repubblica da alcuni ragazzi presenti quella sera troppe cose sfuggono. E nelle dichiarazioni fatte dal gruppetto dell'amico soccorso da Willy non c'è traccia del suo tentativo di difendere l'ex compagno di scuola. Quante ombre ancora sul massacro di Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni nella notte tra il 5 e il 6 settembre in una piazza di Colleferro. Tante da non essere eliminate neppure dalle intense indagini svolte sinora dagli inquirenti e che hanno portato il gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarato, a convalidare gli arresti dei quattro giovani di Artena accusati di omicidio preterintenzionale. Visto un amico in difficoltà il 21enne non si è girato dall'altra parte. Ha cercato di difenderlo, di mettere pace e quel suo altruismo domenica scorsa a Colleferro gli è costato la vita. Il branco che aveva accerchiato il suo compagno di scuola lo ha massacrato. Lo hanno detto subito e chiaramente ai carabinieri gli amici di Paliano che erano con lui. Di quel gesto di generosità non c'è però traccia nelle dichiarazioni fatte proprio dal gruppetto di Colleferro a cui l'apprendista cuoco con il sogno del calcio era andato in soccorso. Il gruppo che sarebbe fuggito spaventato mentre il coetaneo rantolava a terra. Dubbi spuntano inoltre fuori pure sui protagonisti del pestaggio, che a quanto pare non sarebbero stati solo quattro. Incrociando quanto emerso sinora dagli atti d'indagine con le risposte date a Repubblica da alcuni ragazzi presenti quella sera nel locale "Duedipicche" e in largo Santa Caterina troppe cose sfuggono e sul perché manca ancora una risposta. L'ennesimo mistero su una notte di ferocia e follia in cui è stata spezzata la vita di un ragazzo dal cuore buono. Mentre stava andando a prendere l'auto per tornare a casa insieme ai suoi amici, attorno alle 3, vedendo l'ex compagno di scuola Federico Riccardo Zurma in difficoltà Willy Monteiro Duarte è andato subito a chiedergli se avesse bisogno di aiuto e a cercare di evitare che la situazione degenerasse. Un gesto nobile. Notato chiaramente dai ragazzi di Paliano. Proprio quello a cui seguirà il pestaggio che lo ucciderà di lì a poco. Di quel gesto, nelle dichiarazioni di Zurma riportate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Boccarato, non c'è un cenno. Il giovane di Colleferro riferisce ai carabinieri di aver saputo che il gruppo di Artena aveva apostrofato le ragazze che erano con loro, di aver chiesto a quei giovani spiegazioni insieme al suo amico Alessandro Rosati, di essere stato poi dagli stessi picchiato fuori dal locale, ma nulla su Willy intervenuto in sua difesa. "Finita la lite tra me e il ragazzo (uno dei giovani di Artena) - dichiara - notavo che a distanza di pochi metri da noi si era creato un altro parapiglia tra altri ragazzi che stavano litigando". Ancora: "Qualcuno mi urlava che il mio amico Willy, coinvolto nel parapiglia, si trovava steso a terra ed io, facendomi spazio tra la gente, in effetti notavo Willy a terra sul marciapiede, preso da spasmi tipo delle convulsioni". Zurma conclude quindi che con l'amico Rosati si allontana temendo altre violenze da parte del gruppo di Artena. Dell'intervento da paciere del 21enne non c'è nulla neppure nelle dichiarazioni di Rosati, che riferisce però dell'aggressione subita dalla vittima. Rosati inoltre specifica che insieme a Zurma è andato in precedenza a chiedere al gruppo di Artena il perché degli apprezzamenti alle ragazze che erano con loro, tra cui la sua fidanzata, dopo aver saputo di quegli apprezzamenti da un altro amico della sua comitiva, Massimiliano Pierantoni. "Pierantoni Massimiliano richiamava la mia attenzione - specifica - informandomi che qualcuno aveva fatto degli apprezzamenti poco piacevoli verso le ragazze che erano con noi. In particolare il Pierantoni mi diceva che gli apprezzamenti erano stati fatti da un gruppo di ragazzi". Ma a Repubblica Pierantoni nega tale particolare. "Guardi - assicura il giovane - io non so niente, ero lì ma ero molto defilato". E sugli apprezzamenti alle ragazze riferiti all'amico, da cui sarebbero iniziate le prime schermaglie con quella nota ormai come la banda di Artena? "No, tutto falso. Non sono stato io. Ero lì, ma come se non ci fossi stato, ero molto defilato". La fidanzata di Rosati, Azzurra Biasotti, preferisce invece non commentare. "Guardi non è il caso, la ringrazio e buon lavoro", si limita a dire. A parlare di Willy accanto a Zurma, oltre agli amici della vittima, è invece nel corso dell'interrogatorio l'indagato Francesco Belleggia, sostenendo che il giovane è stato colpito dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi appena giunti nel parchetto vicino alla caserma dei carabinieri. E lo stesso, l'unico a ottenere i domiciliari, aggiunge anche che dopo il pestaggio è tornato ad Artena insieme ai Bianchi, al coindagato Mario Pincarelli, anche loro tutti arrestati, a Vittorio Edoardo Tondinelli, 20enne di Velletri indagato a piede libero per favoreggiamento, in quanto non sarebbe sceso neppure dall'auto al momento dell'aggressione, a Omar Sahbani, un giovane di Lariano, e a Michele Cerquozzi, che i fratelli Bianchi sostengono sia l'amico che li ha chiamati spiegando che fuori dal "Duedipicche" erano in difficoltà. Ma cosa stessero facendo Cerquozzi e Omar mentre Willy veniva riempito di calci e pugni non è ancora chiaro. Omar scrive sul suo profilo Facebook, criticando chi continua a insultare i Bianchi sui social, che occorre ricordare che sono stati arrestati anche Belleggia e Pincarelli: "Si ha tanto dolore per l'accaduto, per carità, ma tutti quelli che stanno parlando la sanno la verità? E se non fossero stati Marco e Gabriele a uccidere quel povero ragazzo? Vi invito ad iniziare a informarvi bene prima prima di dare dell'assassino". Ancora Omar: "Come è giusto che Willy riposi in pace, come è giusto che giustizia sia fatta, è anche giusto che il vero colpevole deve parlare. Fosse l'ultima cosa che faccio ma mi batterò fino alla fine pur di far uscire la verità". Qual è la verità? Nell'interrogatorio del resto sempre Belleggia ha sostenuto che mentre tornava con gli altri amici ad Artena gli stessi dicevano che a colpire Willy mentre era a terra era stato Pincarelli, precisando però: "Io non ho visto i colpi di Mario". Samuele Cenciarelli e Matteo Larocca, gli amici del 21enne, riferiscono poi di un'aggressione compiuta da cinque persone e il presunto quinto picchiatore non è stato individuato. Larocca infine sostiene che era presente al momento dell'aggressione Matteo Bucci, anche lui di Artena, un parrucchiere. "Non ero presente lì e non ho altro da dire", stoppa però subito le domande di Repubblica il parrucchiere. Sempre Larocca lo ha invece indicato nel ruolo di paciere. "Posso affermare con certezza che ha cercato di calmare uno dei fratelli Bianchi per riportarli alla calma. Ricordo addirittura che lo ha afferrato da dietro nel tentativo di bloccarlo", ha dichiarato ai carabinieri. Bucci nega. E sul suo profilo Facebook scrive: "Mi sono arrivate tremila chiamate e messaggi da persone che non sentivo e addirittura che non mi salutavano. Volevo soltanto informare a tutte le malelingue e i curiosi che ci sono nel mondo che io non ero assolutamente presente sul posto del vergognoso fatto accaduto la scorsa notte che ha scioccato tutti noi. Le persone che sono state giustamente coinvolte sono persone che conosco e che conosciamo quasi tutti noi. Ci siamo incontrati per caso e ci siamo fatti semplicemente una bevuta insieme un'ora prima. Riposa in pace Willy un abbraccio grande". Numerose le tessere mancanti per completare il puzzle della drammatica notte. Sono le tessere che stanno cercando i carabinieri e il sostituto procuratore Luigi Paoletti.

"Abbella", poi le botte a Willy: "Saltavano sul suo corpo inerme". Le ultime ore di Willy, intervenuto per impedire uno scontro. Tutto è partito da un apprezzamento rivolto ad una ragazza fidanzata, le menti annebbiate dall'alcool hanno fatto il resto. Federico Garau, Mercoledì 09/09/2020 su Il Giornale. Sarebbe partito tutto dalle avances fatte ad una ragazza, da quel momento in poi la situazione è sempre più degenerata, fino ad arrivare alla morte del giovane Willy Duarte Moteiro, massacrato di botte e lasciato privo di sensi a terra. Il quotidiano "Repubblica" tenta di ricostruire passo passo - e attraverso l'ordinanza del gip - la successione di eventi che ha portato al terribile omicidio di Colleferro, per il quale si trovano ora in stato di fermo Mario Pincarelli, Francesco Belleggia e i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele.

Cosa sappiamo del massacro di Willy. Il 5 settembre il gruppo in cui si trovava Willy e quello di cui facevano parte i suoi aguzzini si incontrano nel medesimo locale, il “Duedipicche”, un risto-pub molto frequentato dalla gioventù del posto. Francesco Belleggia, di Artena, raggiunge il pub insieme ad un amico, per poi unirsi a Mario Pincarelli, suo concittadino, il quale si trovava già in compagnia di un'altra persona. I ragazzi decidono di bere qualcosa insieme, ed individuano all'interno della sala anche i fratelli Bianchi, i quali non si uniscono alla tavolata. Marco e Gabriele, infatti, lasciano il locale pochi minuti dopo, salendo sulla loro auto Audi Q7 nera insieme a tre ragazze e un amico. La serata procede senza alcun problema fino a quando, intorno alle 2:30 del mattino, i due gruppi purtroppo si incrociano. Belleggia e Pincarelli, rimasti da soli, stanno scambiando ancora qualche parola all'esterno del "Duedipicche", dinanzi ad una piazzola. Belleggia, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, stava cercando un passaggio per far ritorno in sicurezza a casa, visto che aveva bevuto. Stando all'ordinanza, il suo amico, Pincarelli, si trovava in condizioni peggiori delle sue e aveva la mente completamente offuscata dai fumi dell'alcool: quando vede passargli davanti una ragazza (Azzurra, la fidanzata di Alessandro Rosati), non riesce a trattenersi e fa di tutto per richiamare la sua attenzione. "Abbella", le grida dietro, facendo il gesto di mandarle un bacio.

Le avances, poi la rissa. Rosati, che sente tutto, reagisce immediatamente, ma viene placato da Belleggia, il quale interviene in difesa dell'amico. "Lascialo perdere, è ubriaco, non sa cosa sta dicendo. Mi scuso a nome suo", avrebbe dichiarato il ragazzo, come riportato da "Repubblica". Ormai, però, è tardi, perché anche fra gli amici di Willy in quel momento c'è qualcuno particolarmente su di giri. Federico Zurma si avvicina con fare minaccioso a Belleggia e, stando alla ricostruzione di quest'ultimo, lo fissa in malomodo e pare pronto ad attaccare. Belleggia allora lo precede, colpendolo e spintonandolo fino a farlo rovinare a terra. La situazione degenera, mentre i due litiganti si spostano in prossimità di un'edicola. Willy li vede e non esita a mettersi in mezzo nel disperato tentativo di placare gli animi. I ragazzi parlano, Belleggia e Zurma sembrano vicini ad un chiarimento, ma ad un tratto, intorno alle 3 del mattino, arriva l'Audi dei fratelli Bianchi, pare richiamati indietro da un certo Michele Cerquozzi. Quest'ultimo, preoccupato per tutta la tensione che si era generata, avrebbe infatti deciso di richiedere l'intervento dei due. I Bianchi scendono dall'auto e si lanciano sul gruppo di giovani, fra i quali si trova anche Willy. Secondo quanto raccontato da alcuni testimoni, Belleggia avrebbe partecipato al pestaggio, anche se il ragazzo continua a professare la propria innocenza, giurando di non aver mai colpito il 21enne originario di Capo Verde. Il gruppo di Artena, capeggiato dai fratelli Bianchi esperti in arti marziali, come sappiamo, ha la meglio. Sarebbe poi un calcio diretto allo sterno (sferrato, secondo le ultime informazioni rilasciate, da Gabriele, il maggiore dei fratelli) ad uccidere Willy, che rimane esanime a terra. È ora compito delle autorità competenti stabilire le reali responsabilità di ciascuno dei ragazzi. Al momento, i Bianchi e Pincarelli si trovano reclusi dietro le sbarre, mentre Belleggia ha ottenuto i domiciliari.

"Saltavano sopra il corpo già inerme". Prezioso il racconto di Emanuele Cenciarelli, uno degli amici di Willy. Il ragazzo ha descritto minuziosamente i giovani con il quale si è scontrato il proprio gruppo. "I due ragazzi con i quali Federico, l’amico di Willy, stava inizialmente discutendo ricordo che uno indossava una camicia di colore bianco e aveva in viso tatuata una lacrima sotto l’occhio, nonché diversi tatuaggi su entrambe le braccia e le mani. L’altro ragazzo invece aveva un braccio ingessato (Belleggia)", ha dichiarato, come riportato dal "Corriere della Sera". "Al momento dell’aggressione ricordo che oltre ai predetti ragazzi da me descritti si sono uniti altri tre ragazzi di cui sono in grado di descrivere soltanto due. L’uno indossava una polo di colore verde con capelli molto corti e l’altro con un vistoso tatuaggio sul collo". Tutti, stando al racconto di Cenciarelli, avrebbero preso parte al pestaggio con una violenza inaudita: "Per quanto io ricordi tutti ragazzi sferravano calci e pugni contro me e Willy. Ho un vivido ricordo di un paio di loro che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso in terra e già inerme". "Conosco tre delle persone che si sono rese responsabili della rissa. E sono: Gabriele Bianchi, Mario Bianchi, i cosiddetti "gemelli Bianchi" di Artena e Mario Pincarelli. Chi materialmente ha picchiato Willy è stato Gabriele Bianchi che dapprima gli ha dato un calcio in pancia, quindi Willy si è accasciato a terra, dopodiché si è rialzato ed è stato colpito nuovamente da Gabriele", è invece la ricostruzione di Fayza Rouissi. "Perdeva sangue dalla bocca. Gabriele l’ha picchiato da terra per qualche istante, dopodiché, quando è arrivata la sicurezza dei locali, è scappato insieme agli altri". Silenziosa e lenta, questa sera per le vie di Paliano si è tenuta la fiaccolata in ricordo di Willy Monteiro Duarte. C'era tutto il paese, rigorosamente con le mascherine come imposto dal sindaco, e c'era anche l'ambasciatore di Capoverde, Paese d'origine del ragazzo. Sono stati i rintocchi delle campane a scandire l'inizio della marcia pacifica che ha attraversato il piccolo centro di Paliano. "Sentimenti come rabbia e vendetta non appartengono a questa comunità. Vogliamo solo giustizia", ha detto in chiusura il sindaco del paese.

Omicidio Willy, le carte: "Abbella!", quel commento di troppo che ha scatenato l'inferno. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it Repubblica è in grado di ricostruire minuto per minuto la notte che ha portato al pestaggio di Colleferro. Pincarelli urlò "abbella" a una ragazza, e pochi minuti dopo un amico chiamò i fratelli Bianchi. Una giovane: "E' stato Gabriele a dare il colpo di grazia". La notte più buia di Colleferro è cominciata con un bacio rivolto da un ubriaco alla ragazza di un altro. Ed è finita col corpo dell'incolpevole Willy Moteiro Duarte a terra, privo di vita. Cos'è successo davvero dentro e davanti al locale “Duedipicche”, punto di riferimento della movida per i ragazzi della zona? Chi ha provocato chi? E per cosa? E chi ha sferrato il calcio mortale allo sterno del povero Willy? Attraverso fonti qualificate, testimonianze dirette e riscontri contenuti nell'ordinanza di convalida del fermo dei quattro accusati di omicidio preterintenzionale (Marco Bianchi, Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli rimangono in carcere, a Francesco Belleggia invece, difeso dal legale Vito Perugini, sono stati concessi i domiciliari), Repubblica è in grado di ricostruire cosa è accaduto quella notte prima del brutale pestaggio. Quando due gruppi di ragazzi, uno proveniente da Artena, l'altro da Colleferro e Paliano, si sono trovati faccia a faccia per un motivo futile. Banale come può essere un “abbella”, seguito da un bacio provocatore. E' la prima ricostruzione documentale, ancora imperfetta, ma che fornisce sufficienti dettagli della cornice in cui è avvenuto l'omicidio del 21enne Willy Monteiro Duarte. Andiamo con ordine.

Il gruppo di Artena. La sera del 5 settembre Francesco Belleggia, 23 anni, diploma da geometra e il sogno di entrare nei carabinieri, parte da Artena, dove vive con i genitori (padre operaio, madre casalinga), e raggiunge Colleferro insieme a un amico. E' un viaggio breve, dieci chilometri e mezzo, un quarto d'ora di macchina. I due hanno intenzione di andare a bere un paio di spritz al “Duedipicche”, risto-pub nel centro del paese assai frequentato, teatro della movida locale. Quando sono all'interno del locale, vedono arrivare Mario Pincarelli in compagnia di un'altra persona. Belleggia e Pincarelli si conoscono, sono entrambi di Artena. Non si definiscono amici, ma decidono lo stesso di unirsi al tavolo per una bevuta. Nel ristorante, seduti a un tavolo separato, ci sono i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, ma pur essendo di Artena anche loro (vivono nella contrada Colubro nella casa dei genitori), rimangono in disparte. Anzi, dopo poco se ne vanno, in compagnia di un'altra persona e di tre ragazze. Li vedono salire tutti a bordo dell'Audi Q7 nera dei fratelli Bianchi e sparire.

Le avances alla ragazza. Si sta facendo tardi, sono le 2.30. L'amico con cui Belleggia è arrivato da Artena se n'è già andato, lasciandolo a piedi. Lui è rimasto a bere con Pincarelli e sta cercando un passaggio per andare a casa. Lo trova, ma il gruppetto – sono in tre - decide di trattenersi ancora un po' a chiacchierare sulle scalette che portano nella piazzola davanti al locale. Pincarelli è su di giri, ha bevuto troppo. Sulle scalette in quel momento passano due ragazze, e a Pincarelli esce un “abbella” rivolto a una di loro, a cui fa seguire il gesto di mandarle un bacio con la mano. La ragazza, Azzurra, però non è sola: poco dietro di lei c'è il fidanzato, Alessandro Rosati. E' di Colleferro, ed è insieme a degli amici. Quello che ha appena visto non gli è piaciuto, va a lamentarsi con Pincarelli. Belleggia capisce che la situazione può finire davvero male, anche perché i Colleferresi sono più di loro tre. Quindi si scusa con Rosati. “Lascialo perdere, è ubriaco, non sa cosa sta dicendo. Mi scuso a nome suo”. Sembra finita lì, ma così non è.

L'intervento dell'amico di Willy. Assiste alla scena Federico Zurma, amico sia di Rosati, sia di Willy. E' arrivato al “Duedipicche” intorno alle 23.30. Anche Zurma pare aver bevuto troppo. Si mette in mezzo, si avvicina a Belleggia, lo fissa negli occhi. Belleggia ha l'impressione che lo voglia colpire con una testata. Invece non lo colpisce, è Belleggia che lo allontana con uno spintone, forse anche con uno schiaffo, facendolo cadere a terra. La situazione si scalda, e parecchio. Belleggia capisce di aver fatto un passo falso. Davanti a lui un ragazzo, conosciuto come “il rugbista”, gli dice: “Non ti meno solo perché hai il gesso al braccio”. Zurma si è rialzato, ora discute con una certa foga con Belleggia. I due però si sono allontanati dalle scalette, sono vicino all'edicola al di là della strada. A una distanza di tre metri c'è anche Willy, che cerca di calmare gli animi, di fare da paciere. Belleggia e Zurma non si stanno picchiando, stanno parlando. Si sono spostati ancora, sono nel parchetto buio lì davanti. E Belleggia si sta scusando, per lo spintone. “Non roviniamoci la serata per questa stupidata”, lo sentono dire. Sono le tre di notte.

L'arrivo dei fratelli Bianchi. Sulla strada piomba l'Audi dei fratelli Bianchi, inchioda vicino a loro con una frenata. E' stato Michele Cerquozzi a chiamarli al telefonino, chiedendogli di tornare al più presto al “Duedipicche” perché c'è bisogno di loro. Cerquozzi è un ragazzi che vive alla Contrada Colubro ad Artena, vicino di casa dei Bianchi. Marco e Gabriele scendono dall'Audi e – così raccontano diversi testimoni, tra cui Belleggi – iniziano a picchiare tre ragazzi del gruppo dei Colleferresi. Tra questi c'è anche Willy. Belleggi davanti al pm ha tuttavia negato di aver partecipato al pestaggio e tanto meno di aver colpito la vittima: "Non l'ho toccato! Non l'ho toccato", dice. Secondo quanto riferito, è Gabriele, il maggiore dei due, a sferrare il calcio ferale. Ma alla rissa, ne sono convinti gli inquirenti, ha partecipato anche Pincarelli. Che infatti, come i fratelli Bianchi, rimane in carcere.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte: ecco cosa sappiamo sulla notte del delitto. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it Dall'arrivo del ragazzo a Colleferro, dopo una serata di lavoro, alla rissa che gli è costata la vita: la ricostruzione di cosa è accaduto tra sabato 5 e domenica 6 settembre e i primi sviluppi delle indagini. Da una serata di svago con gli amici al termine del lavoro alla morte senza perché in un parchetto pubblico, massacrato dal branco. Tutto in meno di tre ore. Un tempo terribilmente breve quello che ha visto spezzare brutalmente sogni ed energie del 21enne Willy Monteiro Duarte in un angolo di Colleferrodiventato teatrodi uno dei peggiori e più assurdi omicidi compiuti negli ultimi tempi nella provincia romana.

Chi è Willy Monteiro Duarte. Tra gli impegni con l'Azione Cattolica e quelli nella squadra di calcio di Paliano, in provincia di Frosinone, tra gli studi all'istituto alberghiero "Buonarroti" di Fiuggi e il sogno un giorno di indossare la maglia della Roma, Willy era amato da tutti. "Sembra ancora di vederlo uscire qui, salutare e andare al lavoro", racconta commossa dopo la tragedia la vicina di casa. Nato 21 anni fa in Italia, a Roma, dove nel 1990 sono giunti papà Armando e mamma Lucia, una coppia originaria di Capo Verde e impegnata in un'azienda agricola, il giovane all'età di 3 anni si era trasferito con la famiglia a Paliano, l'ex feudo dei Colonna, dove c'è la fortezza trasformata in carcere per i collaboratori di giustizia e dove vengono coltivate le viti da cui viene ricavato il pregiato vino cesanese. Un territorio tranquillo, al confine tra le province di Frosinone e Roma e a due passi da quella di Latina, dove Willy è cresciuto, perfettamente integrato, e con quel suo sorriso, quella voglia di vivere e amore verso gli altri, si è sempre saputo far amare. Aveva trovato lavoro due anni fa come apprendista cuoco all'Hotel degli Amici di Artena, dove proprio sabato era stato impegnato fino a tarda sera, per poi tornare a casa dopo la mezzanotte, cambiarsi e andare con gli amici a bere e a mangiare qualcosa a Colleferro. Spostamenti effettuati nel raggio di venti chilometri.

La serata a Colleferro dopo il lavoro. Nella città fondata nel 1935 e progettata dall'ingegner Riccardo Morandi, lo stesso del ponte di Genova crollato, il 21enne arriva dunque che è già domenica, circa all'1. Insieme a lui ci sono gli amici di Paliano, Marco, Samuele ed Emanuele. Quella notte però tira una brutta aria. I quattro amici non possono sapere che, dopo tante scorribbande a Velletri, quella notte a Colleferro c'è pure quella che poi diventerà nota come la banda di Artena. Ci sono i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, tutti tra i 22 e i 26 anni, protagonisti di risse e alcuni con precedenti sia per lesioni che per spaccio di droga, insieme ad altri loro amici. E c'è un gruppetto di Colleferro di cui fa parte il 21enne Federico Zurma, compagno di scuola della vittima. Al "Duedipicche", una pizzeria davanti a largo Santa Caterina, il parchetto alle spalle della caserma dei carabinieri e a due passi dal Comune e dalla centrale piazza Italia, i primi screzi tra la comitiva di Artena e quella di Colleferro. Il 23enne Belleggia, geometra, avrebbe tirato un primo schiaffo a un giovane. Qualche commento a una ragazza, qualche like sui social, ma di fondo solo sguardi che si incrociano e il gruppetto dei Bianchi che è solito cercare lo scontro, e la situazione degenera. Sono passate le 2.30. E sulle scale del locale sempre Belleggia inizia a discutere con i ragazzi di Colleferro e in particolare con Zurma. Partono le prime spinte, ma la banda è in minoranza. A dare manforte al geometra c'è pure il 22enne Pincarelli, appassionato di karate e che il 21 agosto scorso ha picchiato il vigile urbano Sandro Latini, ad Artena, solo perché gli aveva detto di mettere la mascherina. I due gruppi si spostano nel parco di fronte e proprio lì Willy ha parcheggiato la sua Fiat Punto grigia.

Sono circa le 2.40. I giovani di Artena hanno già chiamato rinforzi. Hanno chiesto ai leader della banda, i fratelli Bianchi, esperti di arti marziali, in particolare di MMA, di tornare. Come sempre. Come tante volte hanno fatto quando, dopo aver cercato lo scontro, rischiano di essere sopraffatti. Gabriele e Marco, 26 e 24 anni, sanno far male. In quel parchetto ci sono anche due telecamere di sorveglianza fatte piazzare dal sindaco Pierluigi Sanna dopo le proteste dei residenti stanchi degli schiamazzi dei ragazzi che escono dai locali e utilizzano quell'area verde anche per fare i loro bisogni. Occhi elettronici che riprenderanno solo parte del pestaggio e al buio. I lampioni sono stati infatti disattivati. Belleggia incalza Zurma e Willy nota la scena. Vede il compagno di scuola in difficoltà e non si volta dall'altra parte. Si mette in mezzo. Divide i due. "Cosa state facendo? Smettetela", dice. Quel gesto gli costerà la vita.Dopo aver parcheggiato in un vicino angolo buio il loro suv Q7, fanno irruzione i Bianchi e la banda di Artena si scatena. Calci e pugni a chiunque capiti loro a tiro. Zurma scappa e i tre amici di Willy, due dei quali vengono raggiunti da un pugno e riporteranno una prognosi di dieci giorni, cercano riparo dietro le auto in sosta. Il 21enne resta lì in mezzo e viene massacrato. "Basta, smettetela, basta. Non respiro più", urla disperato il giovane, come riferirà poi una donna che si trovava nella zona. Gli amici di Paliano assistono impotenti a tanta violenza. Uno degli aggressori avrebbe infine sferrato un calcio tremendo all'aspirante chef, colpendolo alla pancia e facendolo stramazzare a terra. "Era come un colpo di karate", ripeteranno alcune ore dopo i giovanissimi testimoni ai carabinieri. Willy prova a rialzarsi, si fa forza sulle braccia, ma a quel punto viene atterrato da un pugno alla testa e resta sulla pavimentazione del parchetto, immobile. "Non dimenticherò mai il rumore del suo corpo che cadeva", racconta un testimone.

I fratelli Bianchi, Belleggia e Pincarelli tornano ad Artena. Sono all'incirca le 3. I Bianchi, Belleggia e Pincarelli si allontanano. In auto ad aspettarli c'è il 20enne Vittorio Edoardo Tondinelli, di Velletri, poi indagato a piede libero con l'accusa di favoreggiamento. Balzano sul suv e fanno ritorno ad Artena, dove si fermano al "Nai Bistrot", il locale del fratello dei Bianchi, Alessandro, che poi riferirà aver sentito Gabriele e Marco sbraitare dicendo che gli amici avevano combinato un guaio. A Colleferro si è radunata una piccola folla in largo Santa Barbara. Qualcuno ha anche scattato delle foto. Si parla pure di un video. E la moglie di uno dei carabinieri, sentito il trambusto, ha già chiamato il marito. Nel giro di 3 minuti il maresciallo Antonio Carella è già in strada. Prima delle 3.30 arrivano alcune richieste di soccorso al 118. Ma a stare accanto a Willy è lo stesso sottufficiale dell'Arma, che intanto raccoglie informazioni, vede le immagini scattate dell'accaduto e capisce subito che c'è lo zampino dei Bianchi, un incubo in quelle zone. Il 21enne viene caricato su un'ambulanza e in quel momento arriva anche il sindaco Pierluigi Sanna. Mentre i medici dell'ospedale di Colleferro tentano invano di strappare Willy alla morte, il maresciallo Carella si precipita ad Artena. Dà l'allarme, chiede rinforzi, ma non perde neppure un secondo ed entra al "Nai Bistrot". Il sottufficialeprende un caffè con la banda, parla e li convince a seguirlo in caserma a Colleferro. Intanto lo hanno raggiunto i colleghi e gli investigatori iniziano a stringere il cerchio, recuperando subito le stesse immagini delle telecamere di sorveglianza del Comune.Colleferro, il minuto di silenzio in piazza per Willy.

Prima delle 5 i Bianchi, Belleggia, Pincarelli e Tondinelli sono nella caserma di Colleferro. Per i primi 4 scatterà l'arresto in flagranza, con l'accusa di concorso in omicidio preterintenzionale, e il quinto verrà indagato solo a piede libero per favoreggiamento. La banda è sotto torchio. Ma tale particolare non impedisce a Gabriele Bianchi, fidanzato di Silvia Ladaga, candidata alle ultime regionali con Forza Italia e al lavoro in Regione con l'esponente azzurro Pino Simeone, incinta dell'indagato, di condividere alle 6.39 sul suo profilo Facebook un video ironico. Proprio attorno alle 5 a Colleferro viene però anche decretata dai medici la morte di Willy. Le indagini diventano così subito per omicidio. In città si reca inoltre anche il sostituto procuratore della Repubblica di Velletri, Luigi Paoletti. E in caserma, oltre a interrogare la banda di Artena, gli investigatori ascoltano i testimoni, che confermano il pestaggio e, parlando del calcio e del pugno, i presunti due colpi fatali, puntano il dito contro Marco Bianchi.

"Hanno solo ucciso un extracomunitario". Alle 7 vengono informati i familiari di Willy, che vengono accompagnati in ospedale dove scoprono che quel figlio tanto amato si è spento due ore prima. Sono ore di indagini febbrili. In piazza Italia si radunano i parenti degli indagati, dei testimoni e diversi cittadini sdegnati per l'accaduto. "Deve essere fatta giustizia", dice il padre di uno dei testimoni. Ma per tutto rispetto un familiare degli indagati avrebbe detto: "Cosa hanno fatto? Alla fine non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario". Il tempo passa, monta la rabbia e sui social iniziano a circolare le prime immagini dei Bianchi, tatuati e palestrati, in pose da duri. La gogna è partita e continua a non risparmiare nessuno, con insulti irripetibili anche ai familiari degli indagati. Senza contare chi fa commenti razzisti su Willy, portando la polizia postale di Latina ad aprire un'indagine. Poco prima delle 19 per gli inquirenti il quadro è chiaro e i quattro arrestati vengono caricati sulle gazzelle dell'Arma per essere condotti nel carcere romano di Rebibbia, con i militari che fanno fatica a tenere a freno la folla inferocita pronta a linciare quelli che vengono ormai indicati come gli assassini.

Alle 20.30 nel parchetto dove è stato ucciso Willy si svolge una fiaccolata. Arrivano i familiari della vittima, il vescono e i sindaci di Colleferro, Artena e Paliano. La morte del giovane, che come tutti ripetono ha avuto solo la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, è già un caso. Il 7 settembre i difensori degli indagati, gli avvocati Massimiliano Pica e Vito Perugini, iniziano a cercare di ridimensionare le accuse. "Ci sono diverse incongruenze", ripetono. Il sostituto procuratore Paoletti dispone intanto una consulenza medico-legale, affidandola a Salvatore Potenza dell'Università di Tor Vergata, e poi disporrà anche accertamenti sui vestiti degli indagati, sui tabulati telefonici e sui computer sequestrati alla banda. Nel parchetto di Colleferro c'è un pellegrinaggio silenzioso. In tanti vanno a deporre un fiore e a recitare una preghiera. "Sono sconvolto. Qui voglio fare un monumento per questo ragazzo", si lascia sfuggire commosso il sindaco Sanna. A dodici chilometri di distanza pianti e commozione a casa di Willy. A Paliano c'è anche la famiglia dello zio della vittima. Ma nell'abitazione del ragazzo è una triste processione di amici e di tanti parenti e conoscenti della comunità di Capo Verde, provenienti quest'ultimi da Ciampino e Roma. Arriva anche l'avvocato nominato dalla famiglia, Domenico Marzi. La Regione Lazio ha appena assicurato che provvederà alle spese legali. "Collaboreremo con la Procura affinché venga fatta giustizia", assicura il legale.

L'interrogatorio dei quattro arrestati. I Bianchi negano: "Abbiamo fatto da pacieri". L'8 settembre, a Rebibbia, il gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarato, interroga gli indagati. I Bianchi negano di aver colpito Willy e così Pincarelli. Nega pure Belleggia, che punta però il dito contro i Bianchi. La compattezza della banda è solo un ricordo. E il 22enne fornisce agli inquirenti un particolare: "Il calcio e il pugno li ha sferrati Gabriele". I colpi micidiali sono dunque opera di Marco o di Gabriele? Gli inquirenti avviano subito altri accertamenti. Il parchetto era buio, la concitazione tanta e i due fratelli si somigliano. I testimoni potrebbero aver confuso l'uno con l'altro. A Roma intanto il prefetto Matteo Piantedosi ha voluto incontrare i sindaci della zona e i rappresentanti delle forze dell'ordine. Ha chiesto informazioni precise sull'accaduto e sulla situazione di quell'area. Il gip convalida gli arresti, ma per tutto il pomeriggio e fino a sera non c'è traccia dell'ordinanza di custodia cautelare, mentre a Paliano il sindaco Domenico Alfieri dà l'ok a una fiaccolata in memoria di Willy prevista per questa sera alle 21.

La decisione del gip: in tre restano in carcere, Belleggia ai domiciliari. Alle 10.30 del 9 settembre la notizia della decisione del gip: restano tutti in carcere tranne Belleggia, a cui vengono concessi i domiciliari. Le posizioni degli indagati iniziano a cambiare e c'è chi rischia l'omicidio volontario. Ma su quest'ultimo aspetto determinante sarà l'autopsia che verrà effettuata oggi dal dottor Potenza, che verrà affiancato dai consulenti scelti dagli indagati e dalla famiglia di Willy. L'avvocato Pica assicura intanto che ha consegnato agli inquirenti la documentazione su due testimonianze di altrettanti giovani di Artena da lui raccolte, che scagionerebbero i Bianchi. Una seconda battaglia è iniziata ed è quella difficilissima per cercare di garantire che vera giustizia venga fatta, senza scappatoie e senza scivoloni.

Willy Duarte, il risultato della prima autopsia: "Quadro politraumatico", la conferma sul terrificante pestaggio. Libero Quotidiano il 10 settembre 2020. Lesioni in diverse parti del corpo, non solamente su torace e addome. Un quadro «politraumatico» dovuto al pestaggio subito. È questo il primo risultato dell'autopsia eseguita all'istituto di medicina legale di Tor Vergata sul corpo di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso a calci e pugni nella notte tra sabato e domenica a Colleferro, vicino Roma. Secondo quanto si apprende, il primo esame si è svolto nel pomeriggio di mercoledì 9 settembre ed è durato circa tre ore e mezzo. E da questo emerge il quadro di un pestaggio violentissimo. A eseguire l'esame autoptico è stato il professor Saverio Potenza, medico legale dell'Università di Roma Tor Vergata, nominato consulente tecnico dal pubblico ministero. Per completare il quadro, «che comunque - viene sottolineato - appare già chiaro», e avere una ricostruzione precisa della dinamica dei fatti, ora bisognerà attendere gli esami di laboratorio e istologici. Sul corpo ci sono più lesioni traumatiche ora va stabilito quali siano state inferte attivamente e quali subite passivamente come avviene in una caduta a terra. riproduzione riservata.

Colleferro, l'autopsia: "Traumi ovunque" sul corpo martoriato di Willy. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da La Repubblica.it. Traumi ovunque, al volto, al torace, all'addome, al collo. Una furia cieca e violenta che ha spezzato la vita di Willy, il 21enne morto nel corso di una rissa, a Colleferro nella notte tra sabato e domenica scorsi. Dall'autopsia, svolta oggi all'istituto di medicina legale di Tor Vergata, è emerso un quadro drammatico: sul corpo del giovane traumi ovunque distribuiti tra torace, addome e collo che hanno causato lo shock che ha indotto l'arresto cardiaco ma ulteriori accertamenti serviranno a definire quale colpo è risultato fatale al ragazzo. Accertamenti sugli organi interni, su un corpo martoriato da chi - come raccontano i testimoni- sferrava colpi da professionista, arrivando persino a "saltare sul corpo" del ragazzo ormai inerme. Nel corso dell'esame che è stato molto accurato ed è durato oltre 4 ore sono state rilevate le singole lesioni ma per completare il quadro, "che comunque - sottolineano gli inquirenti - appare già chiaro", e avere una ricostruzione precisa della dinamica dei fatti, ora bisognerà attendere gli esami di laboratorio e istologici. Sul corpo ci sono più lesioni traumatiche ora va stabilito quali siano state inferte attivamente e quali subite passivamente come avviene in una caduta a terra. "L'autopsia consentirà di conclamare la violenza dell'aggressione perpetrata ai danni di Willy. Emergeranno anche dei colpi violenti ed espressione di una tecnica sofisticata per un colpo in particolare, al collo". commenta l'avvocato Domenico Marzi, legale della famiglia Monteiro Duarte. Dati che si incrociano con la ricostruzione fatta dai magistrati di Velletri che restituisce un quadro di violenza "immotivata ed inaudita" ai danni di un ragazzino che "non c'entrava nulla" con la lite nata per un banale apprezzamento. Elementi che potrebbero presto portare per i 4 arrestati, a un capo d'accusa ben più grave dell'omicidio preterintenzionale: l'omicidio volontario. "I genitori di Willy sono affranti, distrutti, nel loro composto dolore ma al momento non intendono rilasciare dichiarazioni. In merito all'interrogatorio dei quattro aggressori e alle giustificazione di due di loro, resto basito". "Willy - aggiunge il penalista - non è caduto e morto mentre faceva jogging e se le cose fossero andate come loro sostengono, allora avrebbero dovuto soccorrerlo e portarlo in ospedale". I funerali del 21enne ucciso potrebbero essere celebrati nella giornata di sabato presso il campo sportivo di Paliano. "I genitori di Willy sono affranti, distrutti, nel loro composto dolore ma al momento non intendono rilasciare dichiarazioni. In merito all'interrogatorio dei quattro aggressori e alle giustificazione di due di loro, resto basito". "Willy - aggiunge il penalista - non è caduto e morto mentre faceva jogging e se le cose fossero andate come loro sostengono, allora avrebbero dovuto soccorrerlo e portarlo in ospedale". I funerali del 21enne ucciso potrebbero essere celebrati nella giornata di sabato presso il campo sportivo di Paliano. Intanto Paliano chiede giustizia per Willy. In centinaia questa sera hanno dato vita a una fiaccolata. Al centro del corteo, accanto all'ambasciatore di Capoverde che sfila con una candela in mano, lo zio di Willy che sorregge una foto del nipote, mentre centinaia di cittadini sfilano con una maglietta bianca con la scritta "Ciao Willy".

Cronaca > Omicidio Willy, l’autopsia: “Bianchi hanno spaccato cuore e fegato”. Notizie.it il 26/09/2020. L'autopsia relativa all'omicidio di Willy Monteiro parla chiaro: i fratelli Bianchi avrebbero causato numerose emorragie interne con il pestaggio. La prima relazione dell’autopsia effettuata sulla salma di Willy Monteiro non ha potuto accertare le vere cause del decesso, ma gli specialisti di Tor Vergata non hanno dubbi che i principali responsabili dell’efferato omicidio siano ancora i fratelli Bianchi. Calci e pugni hanno danneggato soprattutto cuore, polmoni e fegato della vittima, morta per l’aggravarsi delle emorragie interne. Gli specialisti di Tor Vergata hanno pubblicato una prima relazione relativa all’autopsia del giovane Willy Monteiro, il cui omicidio rimane ancora sotto indagine, e i nuovi elementi non fanno che appurare la colpevolezza dei fratelli Bianchi, tuttora in carcere. “Gli hanno spaccato il cuore, il polmoni, la milza e il fegato. Anche le pareti dell’aorta erano lesionate“. Queste sono le prime conclusioni dell’autopsia, ma ancora non è chiara la causa esatta del suo decesso. Gli organi interni avrebbero subito tante emoraggie interne per i copi violentio subiti durante il pestaggio. Nella relazione si parla di sei lesioni al volto, ma le più gravi sarebbero quelle rilevate sulla testa, sul collo sul torace e sull’addome, dai quali sarebbero scaturite le emorragie interne. “In sostanza – conclude il medico di Tor Vergata Saverio Potenza – Willy è stato vittima di un complesso traumatismo che si è realizzato con più azioni lesive”. La violenza usata nel dare calci e pugni al giovane ha sicuramente portato al decesso. Tuttavia, visti i numerosi traumi, lo specialista non esclude che i fratelli Bianchi possano aver usato anche spranghe o bastoni. Al momento si sa solo che i due fratelli avrebbero picchiato Willy a mani nude. Nella giornata di venerdì 25 settembre, i carabinieri hanno trovato tracce di sangue sui vestiti di dei due indagati e e nell’Audi.

Omicidio Willy Monteiro Duarte, l'autopsia: "I gemelli Bianchi gli hanno spaccato il cuore in due". Pubblicato venerdì, 25 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it. Dalla relazione degli specialisti di Tor Vergata emergono dettagli sulla violenza inaudita usata nel pestaggio di Colleferro: "L'organo aveva una lesione di sette centimetri". Gli hanno lesionato tutti gli organi interni, compresi i polmoni, la milza, il pancreas. Compreso il cuore che era praticamente spaccato in due parti da una lesione di circa sette centimetri. Gli esiti degli esami preliminari dell’autopsia sul corpo di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo italiano di origine capoverdiana vittima del brutale pestaggio di Coleferro, la notte dello scorso 6 settembre, confermano una volta di più l’assoluta e insensata ferocia con cui i fratelli Bianchi hanno messo fine alla sua giovane vita. I traumi riportati da Willy erano talmente importanti che i tecnici di Torvergata, nella loro relazione, non escludono nemmeno l’ipotesi – per quanto solamente in teoria – che nel pestaggio possano essere state utilizzate armi contundenti, come un bastone, una spranga o un tirapugni, come del resto gli indagati avevano già fatto in passato. In sostanza – si legge nella relazione – la vittima è stata vittima “di un complesso traumatismo che si è realizzato con più azioni lesive”. La relazione dei medici di Tor Vergata sembra la rilettura, in termini tecnici delle dichiarazioni rilasciate a caldo, la mattina dopo i fatti, dall'amico con cui Willy stava trascorrendo la serata, Emanuele Cenciarelli. "Ricordo che uno indossava una camicia di colore bianco e aveva in viso tatuata una lacrima sotto l'occhio, nonché diversi tatuaggi su entrambe le braccia e le mani. L'altro ragazzo invece aveva un braccio ingessato. Al momento dell'aggressione ricordo che oltre ai predetti ragazzi da me descritti si sono uniti altri tre ragazzi (...)" Continua Cenciarelli: "uno indossava una polo di colore verde con capelli molto corti e l'altro aveva un vistoso tatuaggio sul collo. Ricordo subito l'immagine di Willi steso a terra circondato da 4 e 5 ragazzi che lo colpivano violentemente con calci e pugni. Il mio istinto di protezione mi spingeva a gettarmi addosso a Willy per cercare di proteggerlo dai colpi che stava ricevendo, urlando agli aggressori che io e Willy non c'entravamo niente con quanto eventualmente era accaduto prima. Le mie richieste finivano nel vuoto tanto che io stesso venivo colpito da calci e pugni sempre dagli stessi ragazzi che avevano aggredito Willy. Non riesco a quantificare il tempo dell'aggressione ma posso solo dire che la violenza dei colpi subiti da me e da Willy era inaudita. Per quanto io ricordi tutti ragazzi sferravano calci e pugni contro me e Willy. Ho un vivido ricordo di un paio di loro che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso in terra e già inerme. Terminata l'aggressione ricordo di essermi subito preoccupato delle condizioni di Willy il quale ancora steso a terra era privo di senso". In Procura a Velletri è stato intanto ascoltato il ventenne Vittorio Edoardo Tondinelli. Si tratta di uno degli amici dei fratelli Bianchi, che era con loro la sera del pestaggio e che con loro, insieme a Belleggia e ad altri due giovani di Artena e Lariano, Michele Cerquozzi e Omar Sahbani, sarebbe rientrato ad Artena a bordo del suv Q7. Tondinelli è inoltre l'amico che, durante il litigio fuori dal Duedipicche di Colleferro tra un ex compagno di scuola di Willy e Belleggia e Pincarelli, sarebbe stato insieme a Marco e Gabriele Bianchi. "Ci eravamo allontanati con tre ragazze, non sappiamo come si chiamano", si erano giustificati davanti al giudice i due arrestati tirando in ballo anche il ventenne di Velletri. E con loro, ricevuta una telefonata da Cerquozzi, sarebbe tornato in largo Oberdan dove poi Willy è stato ucciso a calci e pugni. Proseguono infine le indagini dei carabinieri del Ris sul suv Q7 dei fratelli Bianchi, su cui già sono state trovate tracce biologiche, e sugli indumenti degli arrestati. Tutte prove utile per il sostituto procuratore Luigi Paoletti a blindare l'accusa.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 26 settembre 2020. Gli hanno spaccato il cuore, il polmoni, la milza e il fegato. Anche le pareti dell'aorta erano lesionate. I primi risultati dell'autopsia di Willy Monteiro Duarte, nello strazio di quel corpo, non riescono neppure a individuare la causa esatta della morte. Tutti gli organi vitali sono stati interessati da emorragie per i colpi violentissimi subiti dal ragazzo nella notte tra il 5 e il 6 settembre scorso. Calci e pugni che gli avrebbero inferto i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, la cui posizione è però meno pesante e che ha cominciato a collaborare con gli inquirenti. Tutti sono indagati per l'omicidio volontario aggravato dai futili motivi. In realtà un motivo non c'era. Neppure banale. Ieri, intanto, per la prima volta, è stato sentito Vittorio Tondinelli, teste chiave nelle indagini sulla morte del povero Willy.

L'AUTOPSIA. La prima relazione dell'autopsia di Willy non riesce a individuare le cause della morte. I traumi agli organi vitali sono tali che gli specialisti di Tor Vergata non hanno potuto stabilire quale abbia determinato il decesso. Sei lesioni al volto, ma non sono quelle che hanno ucciso il ventunenne. I traumi più gravi sono quelli alla testa, al collo, al torace e all'addome, dai quali sono partite una serie di emorragie interne. Colpi fortissimi alla nuca, forse provocati dalla caduta, e alla fronte. Anche il cuore di Willy è stato interessato, con una lesione di sette centimetri, poi l'aorta toracica, i polmoni, quindi il diaframma, la milza, il pancreas, il fegato. «In sostanza - conclude il medico di Tor Vergata Saverio Potenza - Willy è stato vittima di un complesso traumatismo che si è realizzato con più azioni lesive». Pugni e calci, ma lo specialista riconosce una tale violenza nei colpi che hanno portato alla morte del ragazzo, da non escludere «la possibilità teorica, seppure minoritaria, dell'uso di bastoni, spranghe o altro» durante il pestaggio. Si sa invece che lo hanno picchiato a mani nude. Ieri, intanto, sono cominciati gli accertamenti sulle tracce biologiche trovata nell'Audi e sugli abiti degli indagati. Era sull'Audi dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, con i quattro indagati, quando i carabinieri di Colleferro li hanno trovati in un bar, subito dopo quel pestaggio, e li hanno invitati a presentarsi in caserma per accertamenti. Ma Vittorio Tondinelli, che seguirà il maresciallo e si troverà in camera di sicurezza, è risultato estraneo ai fatti: non ha picchiato Willy. E la mattina del 6 settembre i militari lo hanno lasciato tornare a casa. Ieri, per la prima volta, è stato sentito dai magistrati di Velletri, che si occupano dell'omicidio. La sua testimonianza non era stata neppure raccolta.

L'INTERROGATORIO. Ha parlato per ore in un interrogatorio fiume, durante il quale avrebbe fornito dettagli importanti per chiarire i ruoli nella rissa. Potrebbe così trasformarsi nel teste chiave. Le testimonianze a disposizione degli inquirenti (se ne sono aggiunte altre) non hanno chiarito quale dei fratelli Bianchi abbia picchiato per primo. L'amico di Willy ha raccontato però che quando il ragazzo era già steso per terra i picchiatori gli sono saliti addosso, pestandolo. In realtà Tondinelli, al momento del pestaggio, sarebbe rimasto vicino all'auto, ma ai pm avrebbe raccontato anche dei passaggi nella fase successiva alla rissa, quando in auto gli indagati hanno commentato quanto accaduto. Le indagini di carabinieri e procura riguardano anche altre persone che, quella notte, si trovavano in largo Santa Caterina. Almeno altre due. L'esame dei telefonini e delle celle telefoniche, come quello dei tabulati, avrebbe già fornito nuovi elementi. E non è escluso che, nelle prossime settimane, altri nomi possano essere iscritti sul registro degli indagati.

Quel patto nel suv dopo il massacro "Non una parola sulle botte a Willy". Belleggia ha giurato di non aver mai toccato Willy Monteiro Duarte. Tre testimoni lo avrebbero però riconosciuto. Valentina Dardari, Giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Francesco Belleggia ha fin da subito giurato di non aver mai toccato Willy Monteiro Duarte. Anche all’interno del carcere romano di Rebibbia, al cospetto dei suoi legali, gli avvocati Vito e Lucio Perugini, prima che gli venissero dati i domiciliari, l’uomo ha sempre affermato: “Non l'ho toccato! Giuro che non l'ho toccato!”. Tre testimoni però lo avrebbero riconosciuto. Non vi sarebbe ombra di dubbio, visto che Belleggia sarebbe stato notato proprio a causa del gesso al braccio. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, quella tragica notte il giovane sarebbe arrivato a Colleferro in compagnia di un amico per bere qualcosa, poi sarebbe ritornato ad Artena, dove vive, a bordo dell'Audi Q7 nera dei fratelli Bianchi, Marco e Gabriele.

Il patto del silenzio. Durante il tragitto, durato circa quindici minuti, proprio i due inseparabili fratelli avrebbero stretto un patto con Belleggia e altre tre persone presenti nella vettura. Una specie di patto del silenzio, con l’accordo di non rivelare nulla di quanto avvenuto quella notte e dare agli inquirenti una versione dei fatti per tutti uguale. Solo Mario Pincarelli, come pattuito, sarebbe dovuto risultare responsabile della morte del 21enne. Come scritto nell’ordinanza di convalida dell’arresto dal Gip Giuseppe Boccarrato, “l'indagato Francesco Belleggia riferiva che i due fratelli Bianchi gli avevano consigliato di mantenere il silenzio sulle loro condotte”. Anche se, del consiglio sembra avesse ben poco. I due fratelli, chaiamati gemelli proprio perché inseparabili, sono ben noti per il timore che incutono ad amici e conoscenti. Il patto segreto, o che tale avrebbe dovuto restare, è stato però rotto dal Belleggia. Il ragazzo ha infatti raccontato tutto agli inquirenti, affermando anche di aver visto Marco Bianchi dare un calcio “diretto sul petto di Willy”. Il 21enne sarebbe quindi caduto all’indietro sulla vettura. A quel punto, Gabriele Bianchi sarebbe andato contro l’amico di Willy picchiandolo. Forse le azioni dei due fratelli sono state invertite nella confusione del momento.

Solo Belleggia ha rotto la promessa. Gli altri ragazzi appartenenti al gruppo che ha stretto il patto del silenzio, come da accordi presi hanno invece continuato ad accusare solo Pincarelli. A differenza di Francesco Belleggia, 23enne con in tasca un diploma da geometra e il sogno di entrare nell’Arma. Il giovane vive con il padre, operaio, e la madre casalinga. Sarebbe impegnato in una relazione sentimentale con una ragazza di nome Martina. Quella terribile notte Belleggia si trovava in un ristopub a bere con Pincarelli, un suo ex compagno di scuola, non un amico, come sottolineato dallo stesso Belleggia. Ubriaco, Pincarelli avrebbe fatto commenti pesanti nei confronti di Azzurra, la ragazza di uno del gruppo di Colleferro. Belleggia sarebbe quindi andato a scusarsi per il comportamento del suo pseudo amico. Qualcosa però avrebbe scatenato la rissa portando il 23enne a dare un pugno in faccia all’amico del fidanzato di Azzurra, Federico Zurma. Belleggia avrebbe solo reagito, come lui stesso ha detto. Alcuni testimoni avrebbero però asserito che il 23enne, pur scusandosi, avrebbe continuato a spingere violentemente il ragazzo fino al parco, dove poi Willy è stato aggredito mortalmente. “Le dichiarazioni rese da tre testimoni (due amici di Willy e una ragazza presente per caso sul posto) consentono di apprezzare anche a suo carico gravi e precisi indizi di colpevolezza per il reato cui si procede”. Il reato in questione è l’omicidio del 21enne intervenuto solo per aiutare un amico. Belleggia ha lasciato il carcere e si trova ora ai domiciliari. Secondo il gip infatti, è stato l'unico a dire la verità durante gli interrogatori di garanzia. Per questo motivo il giudice per le indagini preliminari, pur sottolineando il rischio di reiterazione di condotte criminali analoghe, l'ha fatto uscire dal carcere mandandolo ai domiciliari. Gli altri tre accusati restano invece dietro le sbarre.

Willy Monteiro, nessun video e una sola foto: come è possibile? Il dubbio in procura sul muro di omertà. Libero Quotidiano l'11 settembre 2020. Sono passati cinque giorni dall'uccisione di Willy Monteiro Duarte a Colleferro. Gli indagati sono quattro: tre sono in carcere a Rebibbia, i fratelli Bianchi e Mario Pincarelli; il quarto, Francesco Belleggia, è ai domiciliari. Ma il caso non è chiuso, ci sono ancora punti da chiarire e cose che non tornano. Non torna, per esempio, il fatto che nessuno delle decine di ragazzi presenti quella notte abbia fatto foto o video col telefono. Inverosimile di questi tempi. L'unica foto di interesse investigativo consegnata agli inquirenti è quella che riprende l’Audi Q7 nera con cui i fratelli Bianchi sono scappati dopo la rissa, scattata da un amico di Willy, Matteo Larocca. Inoltre le versioni dei fatti riportate dai testimoni sono spesso divergenti e non coincidono. Quello che all'inizio sembrava uno scontro tra due persone è poi diventato una zuffa tra due gruppi di persone, adesso addirittura si parla di una rissa avvenuta tra tre gruppi: quello di Artena, che comprendeva gli attuali indagati; quello di Colleferro di cui faceva parte Federico Zurma, l'amico che Willy ha cercato di salvare; e infine il gruppo di Paliano di cui faceva parte proprio Willy. Secondo alcune indiscrezioni, poi, non è escluso che nei prossimi giorni si allunghi la lista degli indagati. Ma soprattutto il capo di imputazione da omicidio preterintenzionale potrebbe aggravarsi in omicidio volontario. Un altro mistero riguarda Vittorio Tondinelli, fedele amico dei Bianchi, che era a bordo del Suv con cui tutti sono fuggiti dopo la morte del ragazzo capoverdiano. Adesso sarebbe indagato anche lui per favoreggiamento, ma a suo carico gli investigatori non hanno raccolto sufficienti elementi per contestargli di aver fatto parte del gruppo dei violenti.

I principali sospettati al momento sono Marco e Gabriele Bianchi, che hanno detto di non aver picchiato Willy, ma di averlo solo spintonato. Il pm di Velletri non crede alla loro versione. Gli avvocati dei detenuti però pensano di poter ribaltare le accuse con due testimonianze, come riporta Repubblica. Quelle di Michele Cerquozzi e Omar Sahbani, devoti amici dei Bianchi. Ma resta il sospetto di due post Facebook, poi cancellati, in cui Omar prometteva di battersi per far uscire la verità.

Silvia Mancinelli per adnkronos.com il 10 settembre 2020. "Qui di fronte al "Duedipicche" c’è un ragazzo che è stato menato. Per favore, potete venire?". Sono le 3,25 da venti secondi. La notte è quella tra sabato 5 e domenica 6 settembre scorsi. La telefonata che l’Adnkronos pubblica in esclusiva è la prima di 9 arrivate al Numero unico d’emergenza per chiedere soccorsi. Willy Monteiro Duarte è a terra, picchiato dal branco e in preda alle convulsioni mentre un ragazzo chiama in preda a una forte agitazione il 112. L’operatore dall’altro capo della cornetta localizza il luogo della rissa in 47 secondi attivando da quel momento l’intervento di ambulanza e pattuglie delle forze dell’ordine. Per Willy, però, saranno inutili tutti i tentativi di rianimarlo. Ecco il testo della telefonata: "Qui di fronte al ‘Duedipicche’ c’è un ragazzo che è stato menato. Per favore, potete venire?". "Senta, in che comune?" "Colleferro, Colleferro, di fronte al ‘Duedipicche’". "Via?". "Non la so la via, di fronte alla vecchia (...)". "Aspetti, Duedipicche mi ha detto? Ma cos’è un locale?". "Sì esatto, è un locale, è un bar". "Aspetti che sto cercando l’indirizzo. A Colleferro eh?". "Colleferro, Duedipicche, sì". "Largo Santa Caterina 5". "Per favore veloci, è urgente". "Sì, signore non si preoccupi". "Per favore, è urgente". "Senta, le serve anche un’ambulanza?". "Sì, subito, subito, per favore! E (...)" "Come si chiama lei signore?". "...". "Resti in linea, le passo le forze dell’ordine e chiamo anche un’ambulanza. Non riagganci". "C’è la caserma qui dietro". "Ok, resti in linea. Glieli passo".

Willy, ora è polemica sui ritardi: l'ambulanza non era disponibile. L'ospedale di Colleferro ha solo un'ambulanza, e quella notte il mezzo era già uscito per un'altra emergenza. All'arrivo del maresciallo Carella nessuno aveva ancora chiamato i soccorsi. Federico Garau, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. A distanza di giorni dalla morte di Willy Duarte Moteiro si continuano ad esaminare gli istanti che hanno preceduto il decesso del 21enne capoverdiano, ed ora l'attenzione si focalizza sul ritardo delle richieste d'aiuto e dei soccorsi. In molti ora si domandano se il ragazzo potesse essere salvato. Secondo quanto ricostruito da "La Stampa", i giardini di Largo Oberdan, luogo in cui si trovava Willy, distano poco più di 250 metri dall'ospedale. Un mezzo di soccorso avrebbe impiegato pochissimo tempo per raggiugere il ferito, eppure quella tragica notte non era disponibile alcuna ambulanza. Il pronto soccorso dell'ospedale di Colleferro ha purtroppo una sola ambulanza, e al momento della chiamata per soccorrere Willy questa era già impegnata. "Era uscita poco tempo prima per un'altra emergenza", ha infatti spiegato un operatore del 118 alla "Stampa". Trattandosi di un'urgenza, quella notte il servizio regionale dell'Ares aveva quindi provveduto a cercare un altro mezzo di soccorso, trovandone uno a Montelanico, a circa 15km di distanza. Secondo quanto riferito da alcuni presenti, l'ambulanza è arrivata ben 40 minuti dopo la chiamata al 118. I soccorsi, tuttavia, dichiarano altro. "L'ambulanza è giunta sul posto alle ore 3.45: dall'attivazione del mezzo all'arrivo sul posto, dunque, sono trascorsi 12 minuti", affermano infatti oggi dalla centrale del 118, come riportato da "Agi". "La chiamata per il soccorso in questione è stata trasmessa dal Nue 112 alla nostra centrale operativa alle ore 3.31. La Centrale operativa, dopo aver effettuato il triage, ha inviato sul posto l'ambulanza della postazione di Montelanico alle ore 3.33. Tutti i tempi dei soccorsi sono informatizzati e quindi non suscettibili di 'interpretazione'". Gli interrogativi si spostano quindi anche sulle richieste di soccorso al 112. Queste ultime sarebbero infatti state inoltrate in ritardo, secondo quanto ricostruito da "La Stampa". Il primo a dare l'allarme era infatti stato il maresciallo dei carabinieri di Colleferro, Antonio Carella. Svegliato dalla moglie che aveva udito delle urla in strada, Carella era uscito di casa per prestare aiuto al 21enne e chiamare i colleghi. Intorno a Willy, tuttavia, c'erano molti ragazzi, che avrebbero potuto contattare ben prima le forze dell'ordine. Almeno una ventina di individui, presenti al momento del pestaggio o arrivati poco dopo, si trovavano intorno al corpo esanime del ragazzo, ma nessuno era intervenuto per chiedere aiuto. Alcuni, al momento dell'arrivo del maresciallo, facevano addirittura foto o video, altri invece se ne stavano in disparte, spaventati o sotto choc. E intanto Willy giaceva a terra. Le numerose chiamate sono infatti arrivate al 112 solo dopo l'intervento di Carella. In circostanze come questa, il tempo è fondamentale e può salvare una vita. Durante l'attesa dell'ambulanza, qualcuno ha addirittura cercato di raggiugere a piedi l'ospedale di Colleferro per chiedere ai sanitari di correre da Willy, ma secondo le regole vigenti ciò non è possibile. I medici non possono per regolamento muoversi dal pronto soccorso. Il risultato è stato che il 21enne ha raggiunto la struttura ospedaliera di Colleferro ben 50 minuti dopo aver subito il pestaggio, quando per lui non c'era ormai più nulla da fare.

Niccolò Carratelli per ''La Stampa'' l'11 settembre 2020. Trai giardinetti di Largo Oberdan e l' ingresso del Pronto soccorso ci saranno 250 metri. Cinque minuti a piedi, anche meno correndo. Un' ambulanza non farebbe in tempo ad accendere la sirena prima di raggiungere il luogo in cui Willy è stato aggredito e massacrato di botte. Il problema è che sabato notte, qui all' ospedale di Colleferro, l' ambulanza non c' era. L' attesa disperata «Era uscita poco tempo prima per un' altra emergenza», spiega un operatore dell' Ares 118, che sabato non era in servizio, «per fortuna». E di ambulanza, a Colleferro, ce n' è solo una, pure malconcia, a guardarla bene. Così il servizio regionale dell' Ares 118 ne ha cercata in automatico un' altra disponibile e la più vicina era a Montelanico, paese che dista una quindicina di chilometri. Questo spiega (in parte) perché sia arrivata dopo circa mezz' ora dalla chiamata, alcuni testimoni hanno parlato addirittura di 40 minuti. Tutto riportato agli atti dell' inchiesta e nell' ordinanza del gip. Nessuno chiama D' altra parte, le chiamate al 112 sono state più di una, ma hanno un dettaglio in comune: sono arrivate tutte dopo che l' allarme era già scattato. Cioè dopo che il maresciallo dei carabinieri di Colleferro, Antonio Carella, svegliato dalla moglie che aveva sentito le urla dei ragazzi, è sceso in strada a soccorrere Willy. Il militare è il primo a segnalare quello che è successo sotto le sue finestre. Perché la caserma è letteralmente attaccata ai giardinetti, a 100 metri dal municipio, non proprio un luogo isolato. Comunque, quando il maresciallo Carella si avvicina a Willy, verifica le sue condizioni e telefona ai colleghi, non è solo. Intorno a lui ci sono almeno venti persone. Chi è stato coinvolto in qualche modo nella rissa, chi ha assistito al pestaggio da lontano, chi è arrivato subito dopo sentendo le urla. Sono tutti lì, guardano, qualcuno scatta fotografie o gira video, ma ancora nessuno ha chiamato i soccorsi. Come impietriti di fronte a tanta violenza, o forse impauriti all' idea di denunciare gli autori, che più di uno ha riconosciuto. Soccorso non previsto Fatto sta che passano minuti preziosi, in cui Willy resta a terra, a meno di 300 metri dal Pronto soccorso. Dal momento in cui i fratelli Bianchi risalgono in macchina e scappano in direzione Artena all' arrivo del carabiniere. E poi da quando (finalmente) arriva la chiamata al 118 a quando l' ambulanza, partita da Montelanico, si materializza in Largo Oberdan. Secondo alcune testimonianze, nella mezz' ora di attesa disperata qualcuno brucia di corsa questi 250 metri, raggiunge l' ospedale e chiede l' intervento dei medici. Ma un soccorso del genere non è previsto dalla legge e dalle procedure sanitarie. Anche se sono solamente 250 metri, anche se il paziente è in pericolo di vita. E così nessun medico o infermiere si può muovere per andare da Willy. Difficile dire se questa catena di esitazioni e ritardi sia stata determinante per aggravare le condizioni del 21enne e renderle non più recuperabili. L' autopsia ha descritto un quadro drammatico, riscontrando traumi ovunque sul suo corpo martoriato: sul volto, sul collo, poi addome e torace, i colpi risultati fatali. L' altare spontaneo Certo è che, quando finalmente lo portano all' ospedale di Colleferro, circa 50 minuti dopo il pestaggio, Willy è già in fin di vita, praticamente in arresto cardiaco. I medici del Pronto soccorso capiscono subito che salvarlo non sarà possibile. Nel frattempo, però, hanno altri pazienti in attesa di essere visitati: alcuni dei ragazzi coinvolti nella rissa, con traumi e contusioni di entità molto minore. Sono arrivati da soli, con la loro macchina o a piedi. «Incredibile che lui sia rimasto qui agonizzante a due passi dall' ospedale», ammette Franco, napoletano trapiantato a Colleferro per lavoro. È fermo davanti all' altare spontaneo cresciuto in questi giorni nei giardini della tragedia: candele e fiori per Willy, maglie e sciarpe della Roma, preghiere e disegni di bambini. Su un cartello c' è scritto «Sei il nostro eroe», su un biglietto lasciato aperto nell' erba si legge «grazie per il tuo coraggio, per non esserti girato dall' altra parte». Testimonianze del passaggio di centinaia di persone, da tutti i paesi della zona. Sul muretto, lungo la strada, è stato appeso uno striscione che chiede «giustizia per Willy». Risalendo i 250 metri più amari di questa storia, all' entrata dell' ospedale, c' è una statua di Padre Pio e una sua frase incisa: «Ogni ammalato soffre, stiamogli vicino con il cuore».

Willy si poteva salvare? L'aggressione e i soccorsi: ecco cos'è successo. Le Iene News l'11 settembre 2020. La ricostruzione momento per momento dell’aggressione del 21enne Willy Monteiro Duarte. E una domanda: si poteva salvare? È stato pestato a 250 metri dal Pronto Soccorso ma l’ambulanza ci ha messo 40 minuti ad arrivare. Non solo, Willy è stato picchiato a 15 metri dalla caserma dei carabinieri. Abbiamo contattato il comandante di compagnia di Colleferro, Ettore Pagnano, che ci ha raccontato cosa è accaduto. Contestato intanto ai 4 arrestati l'omicidio volontario

Willy Monteiro Duarte poteva essere salvato? Ci sono stati ritardi nei soccorsi? Ce lo chiediamo alla luce di tutta una serie di documenti, immagini, testimonianze e racconti.

«La ricostruzione di quello che è avvenuto sabato notte a Colleferro è ancora frammentaria con i 4 arrestati che continuano a rimpallarsi le responsabilità della morte del 21enne. Qualcosa tuttavia sta emergendo in queste ore, con ampi stralci riportati dagli organi di stampa dell’ordinanza del gip che conferma gli arresti dei 4 giovani (Marco e Grabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia). A tutti è stato contestato ora il reato di omicidio volontario (non più preterintenzionale), aggravato dai futili motivi. Tutto sarebbe iniziato attorno alle 3 di notte all’esterno del locale “Duedipicche” in Largo Santa Caterina, aColleferro, in provincia di Roma. La lite tra un gruppo di giovani di Paliano e uno di Artena, pare per un apprezzamento a tre ragazze del gruppo di Paliano, sarebbe degenerata a poche decine di metri dal locale all’interno di un giardino pubblico. Vi mostriamo, attraverso le mappe di Google Maps, i luoghi in cui sono avvenuti i tragici fatti. Nella prima mappa che vedete abbiamo evidenziato il locale vicino al quale tutto sarebbe iniziato, il “Duedipicche”. Accanto, nel cerchio piccolo, il luogo in cui inizia lo scontro tra i due gruppi. Quello che sarebbe accaduto fuori dal locale dopo alcuni apprezzamenti rivolti alle ragazze del gruppo di Paliano lo racconterebbero, anche se in modo ancora frammentario, le testimonianze riportate nell’ordinanza. Alcuni giovani del gruppo di Paliano avrebbero chiesto spiegazioni di quelle parole a Francesco Belleggia (l’unico dei 4 ora ai domiciliari), che in un primo momento sembra abbia ricomposto la lite. Un secondo amico delle ragazze offese sarebbe poi tornato da lui ricevendo all’improvviso un colpo. Accade sulle scale che dai locali portano sulla strada regionale 609, quelle indicate appunto dal cerchio piccolo. Da lì le cose sarebbero precipitate in modo irreversibile. Un giovane del gruppo di Artena avrebbe chiamato in soccorso per telefono i due fratelli Bianchi, che sarebbero arrivati sul luogo dell’omicidio con il loro Suv a rissa già in corso. I fatti accadono pochi metri più in là rispetto alla scalinata. Guardate questa nuova immagine satellitare: nel cerchio a sinistra c’è il luogo esatto in cui Willy è caduto, dopo che era intervenuto a difesa di un suo ex compagno di classe aggredito dal gruppo di Artena. Siamo all’interno di un giardino pubblico mentre nel cerchio più grande di destra c’è un edificio. Si tratta del retro della caserma dei carabinieri di Colleferro. La distanza tra i due punti è davvero minima, 10-15 metri al massimo. Ve lo mostriamo anche attraverso una fotografia che indica chiaramente l’estrema vicinanza tra i due luoghi. Ci ha contattato un giovane che dice di essere un amico di Willy e che parla anche di questa vicinanza di luoghi: “Vi sto scrivendo con le lacrime agli occhi, tra la notte di sabato e domenica il mio amico Willy ci ha lasciato”, dice il giovane, che parla di 5 aggressori, dando una versione dei fatti che ovviamente non è possibile al momento verificare. “Willy è stato assalito e picchiato a morte da 5 ragazzi di corporatura gigante e palestrati che erano il doppio di lui. Penso che nei suoi ultimi minuti di vita, preso da paura e dolore lancinante abbia urlato e cercato aiuto fino all'ultimo respiro: io non mi meraviglio della gente che non è intervenuta, conosco bene il mondo dove viviamo, ma mi spiegate come è possibile che tutto questo sia successo nemmeno a 10 metri di distanza dalla caserma dei carabinieri? Tutti devono sapere che se nel 2020 ti stanno picchiando a morte con calci e pugni, esattamente sotto la caserma, nessuno interverrà, nemmeno chi è pagato per farlo! C’è una vera e propria anarchia e tutto questo in piazza di fronte alla caserma”. Cercando sui social tra le centinaia di messaggi scritti dai ragazzi del posto sulle pagine che parlano di Willy, si trovano testimonianze simili, ovviamente anch’esse non confermabili. “Lo hanno ammazzato sotto le finestre della caserma”, scrive un utente. Una donna aggiunge: “Sono anni che ci lamentiamo che quella zona è buia e senza videocamera di sorveglianza. Già quando ero adolescente io, là succedeva di tutto! Abbattete quel rudere di bar che sono secoli che è abbandonato, fate luce in quella zona, altrimenti succederà ancora”. Su un altro post si legge: “Non capisco perché nessuno sia andato a chiamare i carabinieri dietro l'angolo”. In un altro messaggio, poi cancellato, una giovane sostiene addirittura che alcuni amici di Willy sarebbero corsi a citofonare in caserma, senza ricevere però risposta. Su chi sia davvero intervenuto per primo in soccorso di Willy, c’è il racconto del maresciallo dei carabinieri Antonio Carella, che al Corriere della Sera qualche giorno fa aveva parlato di una scena “tra le più cruente mai viste dei tanti anni passati in servizio”. Racconta di aver sentito per primo le grida dei ragazzi provenienti dalla strada precipitandosi immediatamente sul posto. Carella poi, una volta chiamati i soccorsi e raccolte le primissime testimonianze da parte di chi era con Willy, sarebbe andato con i colleghi ad Artena a cercare i fratelli Bianchi».

Iene.it ha contattato il comando dei carabinieri di Colleferro per chiedere delle gravissime insinuazioni sul mancato intervento e per farsi spiegare l’esatta dinamica dei soccorsi a Willy. E il comandante di compagnia di Colleferro, Ettore Pagnano, ha confermato il racconto del comandante di stazione, il maresciallo maggiore Carella.

“Smentisco in modo categorico che qualcuno sia venuto a citofonarci e che noi non abbiamo risposto. Anzi nessuna segnalazione ci è proprio giunta”, ci dice. “I soccorsi sono partiti dal nostro comandante di stazione, il maresciallo maggiore Carella. Era nel suo alloggio di servizio che affaccia proprio sui giardini dove è avvenuto il fatto quando ha sentito le urla. È sceso subito in strada e ha trovato la vittima già a terra con attorno una decina di amici, attivando immediatamente i soccorsi. L’aggressione in sé sarà durata un minuto, mentre da quando accade l’alterco tra i gruppi sarà passata al massimo una ventina di minuti. Nel gruppo di amici attorno a Willy c’è chi indica al comandante un’auto, quella di alcuni degli arrestati. Il comandante conosce i soggetti e dopo avere atteso l’arrivo dell’ambulanza si reca ad Artena, intercettando gli aggressori nei pressi di un bar. I militari sono in tre contro cinque e all’inizio si sceglie un approccio morbido in attesa delle pattuglie di rinforzo. Viene detto che sono lì per un controllo su un’auto, poi i giovani vengono portati in caserma”.

Il comandante Pagnano ci parla anche del luogo dell’aggressione: “C’era una telecamera che però girava a 360 gradi, mentre le nostre sono perimetrali, non inquadrano quell’area. I giardini erano bui non solo quella notte. Noi ci siamo attivati col comune in passato segnalando la cosa”. Quanti sono oggi gli indagati? “Cinque, ma il quinto non è stato interrogato, perché non abbiamo avuto elementi univoci che ci portino a collocarlo in un ruolo attivo rispetto ai fatti. Le indagini sono però ancora in corso e sono a 360 gradi”.

Anche sull’intervento dei sanitari resta aperta una fondamentale domanda: Willy è stato soccorso in ritardo? A quanto pare l’ambulanza sarebbe giunta sul luogo dell’aggressione dopo circa quaranta minuti dalla chiamata. Secondo quanto ricostruito da La Stampa, l’unica ambulanza di Colleferro sarebbe stata impiegata in un altro intervento. E così si sarebbe stato necessario chiamarne un’altra, la più vicina disponibile da Montelanico, che da Colleferro dista circa quindici chilometri. Questo dunque spiegherebbe il perché di quella lunga attesa, ma sembra sollevare anche un ulteriore interrogativo: non era possibile trasferire Willy in pronto soccorso con altri mezzi? Anche perché il luogo dove è avvenuta la rissa dista circa 250 metri in linea d’aria dal pronto soccorso di Colleferro. Lo potete vedere voi stessi in quest’ultima mappa, sempre tratta da Google Maps. I due cerchi indicano in alto il giardino in cui Willy ha trovato la morte e in basso il pronto soccorso. Non c’era davvero altro modo di portarlo là, considerati i tempi d’attesa per l’ambulanza e la vicinanza con l’ospedale? Su Iene.it ci siamo già occupati della tragica morte di Willy raccontandovi e mostrandovi il video dei combattimenti di MMA di Marco Bianchi, uno dei 4 giovani arrestati, i post scherzosi che Gabriele Bianchi aveva messo sulla sua pagina Fb poche ore dopo la morte di Willy, il video del campione di MMA Marvin Vettori che difende il suo sport dalle critiche,  il racconto dell’aggressione di Mario Pincarelli a un vigile urbano che gli aveva detto di mettere la mascherina e il post di un ex leghista che se l’è presa con Willy, la vittima, e che poi ha preso le distanze dal suo stesso commento.

Compagna di Gabriele Bianchi: “Io incinta, il mio pensiero va a Willy”. Notizie.it l'08/09/2020. “Aspetto un bambino e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c’è più”. Lo ha dichiarato la compagna di Gabriele Bianchi. Silvia Ladaga, compagna di Gabriele Bianchi, ha raccontato all’agenzia di stampa Adnkronos lo sconvolgimento che sta vivendo in questi giorni. La ragazza sta vivendo dei momenti difficili, non solo perché il compagno Gabriele Bianchi è stato messo in stato di arresto per l’accusa dell’omicidio del giovane Willy Monteiro Duarte di 21 anni, ma anche perché sta aspettando un bambino. “Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c’è più”, ha dichiarato Silvia Ladaga parlando di come il suo pensiero vada comunque a Willy prima vittima di questa vicenda. Silvia Ladaga oltre ad essere compagna di Gabriele Bianchi, è anche la figlia di Salvatore Ladaga che ricopre il ruolo di coordinatore storico di Forza Italia a Velletri. Silvia Ladaga ha raccontato ad Adnkronos come la vita sua e della sua famiglia sia stata sconvolta. La donna compagna di Gabriele Bianchi ed ex candidata alle regionali del Lazio di Forza Italia ha parlato in particolare di come dopo Willy “che non c’è più”, la seconda vittima della vicenda sia proprio la famiglia. “La giustizia farà il suo corso, la verità verrà fuori ma c’è un accanimento fortissimo verso le famiglie dei protagonisti di questa storia. La prima vittima di tutto questo è Willy che non c’è più e la sua famiglia. Poi ci siamo noi che non c’entriamo nulla e stiamo subendo minacce di morte pesantissime”. Parole forti che pesano e che vengono raccontate con la voce distrutta di una futura madre il cui pensiero va comunque ad una vita che è stata prematuramente spezzata.

Omicidio Willy, parla la fidanzata dell’aggressore: “Ricevo minacce”. Notizie.it il 09/09/2020. La fidanzata incinta dell'aggressore di Willy è stata minacciata. La fidanzata dell’aggressore di Willy,, Silvia Ladaga, ha raccontato di essere incinta e di essere stata minacciata. La ragazza di 28 anni è al quinto mese di gravidanza ed è molto conosciuta in paese. Ex candidata alle regionali con Forza Italia, è figlia di Salvatore Ladaga, coordinatore del partito a Velletri. La sua famiglia è molto in vista e molto conosciuta per l’attività politica. Tutti loro, dopo l’omicidio di Willy, stanno ricevendo moltissime minacce di morte. “Aspetto un bambino, sto diventando madre e il mio pensiero va alla famiglia del ragazzo che non c’è più. La giustizia farà il suo corso, la verità verrà fuori ma c’è un accanimento fortissimo verso le famiglie dei protagonisti di questa storia. La prima vittima di tutto questo è Willy che non c’è più e la sua famiglia. Poi ci siamo noi che non c’entriamo nulla e stiamo subendo minacce di morte pesantissime” ha spiegato Silvia Ladaga. La donna sta vivendo un momento davvero delicato e sta soffrendo tantissimo. Accanto a lei la sua famiglia, che la sostiene, e il papà che ha spiegato quello che è accaduto. “Silvia sta male. Fino a ieri era convinta di avere al suo fianco l’uomo della sua vita. Da una parte dico che le valutazioni andranno fatte a fatti accertati, è la mia cultura politica garantista a guidarmi. Dall’altra, il padre di mio nipote non doveva proprio starci a quell’ora di notte, con a casa una donna incinta al quinto mese e mezzo” ha commentato a Il Fatto Quotidiano Salvatore Lagada, aggiungendo che la cosa più importante è la salute della figlia e del nipote, per cui è disposto a prendersi carico di tutti gli insulti e le minacce che stanno arrivando. “Posso solo esprimere la mia vicinanza e il mio rammarico alla famiglia di Willy” ha aggiunto l’uomo. Le minacce che sta ricevendo Silvia, che non c’entra nulla con quanto accaduto, sono molto pesanti e toccano anche il suo bambino. Al dolore si aggiunge la paura in un momento così delicato.

Willy Monteiro, gli amici di Colleferro contro i fratelli Bianchi: "Tutti sapevano cosa facevano". Libero Quotidiano il 07 settembre 2020.  "Eravamo molto amici, frequentavamo da tempo la stessa comitiva. Ero lì davanti, l'ho visto morire. Non potrò mai togliermi la scena dalla testa, non respirava più". Parla Lorenzo, un amico di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso sabato notte a Colleferro nel corso di una rissa. "Tutto è stato molto veloce, sono rimasto vicino a lui per un'ora, forse meno. Quelli erano delle furie. Non ricordo molto bene. Sono ancora sotto choc, sono due giorni che non dormo e rivivo quei momenti. Queste cose non si dimenticano". Un altro amico di Willy, invece, parla anche dei due fratelli Bianchi responsabili della morte del ragazzo: "Li conoscevano tutti qui quei due fratelli. Da due anni litigano e picchiano con le stesse modalità, sono stati autori di altri pestaggi. Si poteva evitare".  Sul caso è intervenuto anche il vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella. "Siamo tutti corresponsabili". L'ennesimo atto di feroce e assurda violenza, cui non possiamo rassegnarci. Ucciso a calci e pugni da quattro coetanei, nostri condiocesani, durante una rissa di cui non conosciamo i motivi e a cui era molto probabilmente estraneo", ha sentenziato Apicella. 

ALESSIA MARANI per il Messaggero il 18 settembre 2020. Risse, pestaggi, armi e, soprattutto, la droga. L'arresto per i fratelli Bianchi era in canna da tempo ma non è mai scattato, rinviato per permettere ulteriori indagini, slittato a data da destinarsi. Se è vero che in molti non hanno denunciato, per paura, le botte e i soprusi subiti dalla cosiddetta banda di Artena, cioè la gang messa su da Gabriele e Marco Bianchi, ora in carcere per l'omicidio del ventunenne Willy Monteiro Duarte insieme con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, nel caso di chi ha avuto il coraggio di farlo o per quegli episodi cruenti per i quali la denuncia è partita d'ufficio, le richieste per assicurarli in carcere non sono andate a buon fine. Bloccate da richieste di ulteriori approfondimenti di inchiesta che hanno finito per prorogarsi oltre la morte di Willy.

IL BRANCO Insomma, il branco poteva essere fermato prima che si scagliasse con calci e pugni contro il giovane cuoco di origine capoverdiana, inerme, fino a ucciderlo. Anche perché altri giovani, massacrati di botte, avevano rischiato la stessa fine riportando lesioni importanti. Un tragico copione che si era ripetuto almeno altre tre o quattro volte davanti ad altri locali della movida e bar dei Castelli Romani. In un caso, il pestaggio di un 25enne di Lanuvio, colpito anche con un tirapugni, finito in ospedale con un mese di prognosi, sono già stati chiamati a risponderne in un'aula di tribunale, ma l'udienza è stata rimandata per Covid. La loro pericolosità e violenza era nota. Invece solamente adesso che Willy non c'è più, quegli stessi fascicoli fermi nella Procura di Velletri potrebbero ricevere un'accelerazione improvvisa e mettere a nudo le scorribande e i presunti giri di affari illeciti dei Bianchi il cui campo d'azione, tra il 2018 e il 2019, si concentrava soprattutto tra Lariano e Velletri. Giri d'affari criminali che motiverebbero l'alto tenore di vita ostentato dai Bianchi a dispetto della difficoltà di sussistenza dichiarata dal loro capo famiglia, Ruggero, il padre, che aveva richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza. Un beneficio percepito «indebitamente» secondo la Guardia di Finanza di Colleferro che, dopo accertamenti, ha inviato all'Inps una segnalazione per la revoca e una denuncia per reati fiscali. Sia la famiglie Bianchi che quelle di Pincarelli e Belleggia, godendone, avrebbero «omesso di indicare nelle autocertificazioni compilate dati dovuti, creandosi in tal modo le condizioni per accedere al beneficio». In totale, dovranno restituire i circa 30mila euro (28.747) ricevuti finora. Gli occhi degli investigatori sono puntati sui Bianchi da almeno due anni. Perché fin da giovanissimi i fratelli, insieme o separatamente, si erano distinti come picchiatori, protagonisti di zuffe più simili a spedizioni punitive che risse. Ci sono episodi che spiccano sugli altri, come quello avvenuto un'estate nel pieno centro di Velletri. È sempre notte, come nel caso di Willy, e i Bianchi si trovano sempre nei paraggi di uno dei locali più frequentati dal popolo della movida. Una parola di troppo, non è chiaro che cosa accenda la miccia, ma nel giro di pochi minuti un giovane romeno viene pestato a sangue, trascinato in un vicoletto tra piazza Garibaldi e Corso della Repubblica e abbandonato. Ha la mandibola fracassata, traumi cranici, più contusioni provocate da colpi ben assestati che solo esperti di boxe e arti marziali sanno dare, la sua prognosi è gravissima, circa sessanta giorni, due mesi. Poteva morire anche lui. Non solo non passa molto tempo che i Bianchi, esperti di Mma, arti marziali miste, vengono individuati tra i partecipanti a una rissa tra italiani e gente dell'Est, romeni e albanesi, davanti a una discoteca sull'Appia Sud, sempre a Velletri. All'inizio fuggono, poi vengono rintracciati. L'elenco dei pestaggi è lungo, nel maggio del 2018 Marco annovera anche una denuncia per stupefacenti. Il sospetto è che anche loro possano essersi trovati un ruolo nel traffico di droga che arriva da Roma, spartito tra pusher locali e bande albanesi. I Bianchi negli ultimi due anni spadroneggiano e conquistano potere e rispetto in pieno stile Casamonica: mesi fa si presentano da un meccanico, gli chiedono di apportare delle modifiche al loro Suv, di renderlo più potente. Lui esegue il lavoro, loro pagano ma poi, dopo qualche giorno, ritornano: «Non siamo soddisfatti» e l'artigiano è costretto a restituire la somma. Nel frattempo la famiglia apre locali e negozi, tira su una villa hollywoodiana con tanto di telecamere, palme e statue di leoni, e incassa pure il reddito di cittadinanza. Ma il carcere non arriva, nessun gip prima della morte di Willy ha messo la firma.

Curriculum horror dei Bianchi. Perché nessuno li ha fermati? Sui fratelli Bianchi, in carcere per l'omicidio di Willy, pendevano già denunce per risse e pestaggi. Ma l'arresto non è mai partito. Martina Piumatti, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Willy non sarebbe stato il primo. Le risse, i pestaggi, le botte e i soprusi commessi dalla cosiddetta banda di Artena erano noti da almeno due anni. La gang dei fratelli Bianchi, ora in carcere per l'omicidio del ventunenne Willy Monteiro Duarte insieme con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, era già nel mirino delle forze dell'ordine. Ma nonostante le denunce partite d'ufficio l'arresto non è mai scattato. Prima a causa pandemia, poi bloccato da iprorogabili necessità di ulteriori approfondimenti d'inchiesta. Finché ripetendo il copione di sempre questa volta ci è scappato il morto. Sì, perché il branco di picchiatori di Artena ci era andato vicino già almeno tre o quattro volte. Sempre davanti a locali della movida dei Castelli Romani. Sempre lì, tra Lariano e Velletri, dove altri giovani, massacrati di botte, avevano rischiato di fare la stessa fine di Willy. In un caso, il pestaggio di un 25enne di Lanuvio, colpito anche con un tirapugni, finito in ospedale con un mese di prognosi, sono stati chiamati a risponderne in un'aula di tribunale. Però, poi, l'udienza viene rimandata per Covid. Non solo. Un'estate nel pieno centro di Velletri. È notte fonda, come nel caso di Willy, e i Bianchi si trovano fuori da un locale molto frequentato dai giovani della zona. Ad un tratto qualcosa va storto. Forse una parola di troppo, un gesto di sfida. Nel giro di pochi minuti un ragazzo romeno viene pestato a sangue, trascinato in un vicoletto tra piazza Garibaldi e Corso della Repubblica e abbandonato con la mandibola sfasciata. Trauma cranico, contusioni, fratture e se la cava con due mesi di prognosi. Ma le forze dell'ordine non intervengono e la giustizia si arena. Ancora una volta. Passano solo pochi mesi. Marco e Gabriele Bianchi continuano le loro scorribande sui Castelli Romani, tra droga, armi, locali, macchinoni, ville con palme, statue di leoni in stile Casamonica e risse. Soprattutto pestaggi simili a vere e proprie spedizioni punitive. Vengono individuati anche tra i partecipanti a una lite violenta tra italiani e gente dell'Est, romeni e albanesi, davanti a una discoteca sull'Appia Sud, sempre a Velletri. Prima fuggono, poi vengono rintracciati. Anche qui il carcere non arriva. L'elenco dei pestaggi è lungo e la loro pericolosità era nota da almeno due anni. Nel maggio 2018 per Marco, il più giovane dei fratelli Bianchi, scatta anche una denuncia per stupefacenti con il sospetto di un ruolo chiave nel traffico di droga proveniente dalla Capitale, spartito tra pusher locali e bande albanesi. Ma, solo ora che c'è scappato il morto, la procura di Velletri finalmente sembrerebbe decisa a fare luce sui reati e i presunti giri d'affari opachi dei Bianchi. Per ora la guardia di Finanza, in seguito agli accertamenti svolti sul reddito di cittadinanza percepito dai familiari dei fratelli Bianchi, di Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, avrebbe chiesto ai magistrati un sequestro di beni per un totale di 28mila euro. La stessa cifra che, secondo gli inquirenti, avrebbero indebitamente percepito omettendo di indicare tutte le informazioni dovute. Da lì sono scattate le denunce per violazione della legge sul reddito di cittadinanza e la segnalazione all’Inps per il recupero delle somme dovute. Mentre per Willy è ormai troppo tardi.

Omicidio di Willy Monteiro Duarte. I fratelli Bianchi, il tirapugni e quegli allarmi ignorati dalle forze dell'ordine. Storia di un delitto che si doveva evitare. Pubblicato giovedì, 17 settembre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it. Gli elementi per ritenere che i "gemelli" potessero rappresentare un problema per la sicurezza e l'ordine pubblico c'erano tutti. E da tempo. Eppure le denunce e i processi non li hanno fermati. Prima di Willy, i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, appassionati di arti marziali, palestrati e tatuati, talmente simili da essere chiamati "i Gemelli",  avevano già massacrato di botte un giovane. Utilizzando, nel pestaggio, anche un tirapugni. Una vicenda denunciata, oggetto di indagini e  - emerge solo ora - da tempo al centro  di un processo davanti al Tribunale di Velletri (l'ultima udienza era stata rinviata per l'emergenza Covid). All'alba di domenica 6 settembre, quando sono stati arrestati con l'accusa di aver ucciso a calci e pugni il 21enne Willy Monteiro Duarte, di Paliano, i fratelli Bianchi erano dei semisconosciuti per i più. Ma non per i carabinieri di Colleferro e Velletri che su di loro avevano un dossier pieno di denunce collezionate nell'arco di due anni, sempre per pestaggi del tutto simili e vicende di droga. Il gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, disponendo per i quattro le misure cautelari, ha specificato che Gabriele aveva tre precedenti, per lesioni e detenzioni di armi, e Marco cinque. Tutti per lesioni. Ora emerge però che nel passato dei due c'è molto, molto di più. Tanto Marco quanto Gabriele erano infatti già stati accusati e imputati per aver massacrato di botte insieme a un terzo soggetto non identificato, utilizzando pure un tirapugni, un 25enne di Lanuvio. Un'arma che proprio Marco avrebbe portato "senza giustificato motivo in luogo pubblico". Era il 14 gennaio 2018 e a Velletri la vittima fu più fortunata di Willy e se la cavò con un mese di prognosi. Trascorsi appena quattro mesi, il 3 maggio dello stesso anno, sempre a Velletri, ecco che Marco, insieme ad altre cinque persone, finisce nei guai per una rissa fuori da un locale. Anche qui è tutto agli atti. Si tratta della vicenda per cui venne arrestato e subito scarcerato. Ad avere la peggio due coimputati, Federico Luciani, ventenne del posto, e un 22enne di nazionalità marocchina, Ibrahim Chadli, anche lui residente a Velletri. Anche in quel caso  venne utilizzato pure un "corpo contundente". In quella rissa  era coinvolto ed è anche lui imputato Fabio Bianchi, il fratello maggiore dei due arrestati. Lo stesso che il quarto fratello, Alessandro, titolare del bistrot dove si era riunita la banda dopo il massacro di Willy, ha dichiarato essere impegnato insieme a lui a cercare di tenere lontani dalla cattiva strada i fratelli minori. A guardare con più attenzione al passato dei "Gemelli" si trova pure una condanna incassata in primo grado da Gabriele Bianchi. Il 24 febbraio scorso il 26enne, che prima della tragedia di Colleferro aveva aperto una frutteria a Cori, era stato infatti condannato dal giudice del Tribunale di Velletri, Ramona Bruognolo, a mille euro di ammenda per essere stato trovato il 31 gennaio 2017 ad Artena, in via della Resistenza, con un taglierino con una lama retrattile di sei centimetri, tenuto dentro il vano porta oggetti di un'Audi station wagon. Insomma, gli elementi per ritenere che i fratelli potessero rappresentare un problema per la sicurezza e l'ordine pubblico c'erano tutti. E da tempo. Eppure le denunce e i processi non li hanno fermati. Per continuare le loro scorribande, ai due è bastato spostarsi da Velletri a Colleferro insieme a tutta la banda.

Alessia Marani e Valentina Errante per "Il Messaggero" il 20 settembre 2020. Dovrà presentarsi in aula giovedì prossimo Marco Bianchi, uno dei due fratelli indagati per l'omicidio volontario di Willy Monteiro Duarte. Imputato per la prima volta. L'accusa lesioni gravi. Il primo maggio del 2018, quando avrebbe pestato un ragazzo bengalese, non era però insieme a Gabriele e non c'erano neppure Francesco Pincarelli e a Mario Belleggia, che la notte tra il 5 e il 6 settembre erano in via Buozzi, a Colleferro, dove Willy è stato massacrato con calci e pugni. Con Bianchi, due anni fa, c'erano altri amici, adesso imputati come lui. Anche in quel caso il branco avrebbe picchiato duro. Tanto da finire a processo con l'accusa di lesioni gravi. Un reato, che è ipotizzabile quando la prognosi dei medici superi i 20 giorni e per il quale si procede d'ufficio, cioè senza denuncia. OMERTÀ Difficile, altrimenti, che qualcuno, tra Colleferro e Artena, dove la prepotenza e l'arroganza dei due fratelli, esperti di arti marziali era nota, denunciasse. Probabilmente Bianchi, detenuto a Rebibbia, rinuncerà a prendere parte al processo. Le indagini sugli altri pestaggi, nei quali invece sono coinvolti entrambi i fratelli sono ancora in corso. Mentre emergono altri dettagli sul contesto violento che fa da sfondo a questa vicenda. Il padre di Pincarelli, finito a giudizio per estorsione, per esempio, era stato condannato prima che il figlio Mario nascesse, per avere appeso un uomo a una catena durante una attività di recupero crediti. I carabinieri, intanto, vanno avanti con le indagini. Nelle ultime settimane si sono aggiunte altre testimonianze per definire le responsabilità dei quattro indagati. Centrali sono le parole messe a verbale da Belleggia, che ha rotto il patto del silenzio e adesso si trova ai domiciliari. Mercoledì cominceranno gli esami irripetibili, affidati al Ris, sugli abiti degli indagati e sul Suv sequestrato ai Bianchi.

LE UDIENZE. La firma dei gip di Velletri a una ordinanza di custodia cautelare in carcere per i fratelli Bianchi non è mai arrivata prima della morte di Willy, eppure i due picchiatori di Artena, con conoscenze e affari concentrati fra Velletri e Lariano, hanno collezionato, una sfilza di procedimenti per cui sono stati o saranno chiamati a processo. La prima convocazione in aula è proprio tra pochi giorni, giovedì a Velletri, e riguarda il più piccolo dei due, Marco. Insieme con altre due persone avrebbe picchiato un uomo del Bangladesh per futili motivi. La prima convocazione era stata fissata al 26 giugno ma rimandata causa Covid. I fratelli Bianchi hanno pendenti, in tutto, altri sette fascicoli giudiziari. Il 13 aprile del 2019, avrebbero pestato di botte un indiano, anche per questa vittima la prognosi è stata superiore ai 20 giorni. In quell'occasione, secondo la ricostruzione, erano in auto con altri due ragazzi e, mentre sfrecciavano per le strade di Velletri, per poco non mettevano sotto un gruppo di indiani che stava attraversando la strada. «Ma siete pazzi?», aveva detto uno di quelli che aveva appena scampato il pericolo e allora i fratelli Bianchi erano scesi dall'auto e avevano iniziato ad accanirsi su l'uomo che aveva osato protestare, causandogli lesioni importanti. L'udienza per il pestaggio dello straniero, per lesioni aggravate dai futili motivi, che vede coinvolto anche Gabriele, è programmata per il 14 maggio 2021. E, sempre per lesioni volontarie (fatti accaduti nel gennaio 2018), i fratelli sono stati convocati in tribunale anche il 19 maggio del 2021. Marco, per un altro episodio di lesioni volontarie avvenuto a Velletri nel 2016, sarà in aula il 15 gennaio. Mentre Gabriele, per una denuncia per detenzione illegale di arma impropria, contestata nel 2017, ha già dovuto pagare un'ammenda di mille euro. IL VIDEO Intanto spunta un video, pubblicato in esclusiva da Le Iene e girato in auto dagli stessi Bianchi poche ore prima dell'omicidio di Willy. Si tratta di due storie Instagram di Gabriele, pubblicate intorno alla mezzanotte di sabato 5 settembre: musica raggae ton ad alto volume, nelle immagini, girate in auto, sembrano intravedersi Vittorio Tondinelli, indagato per favoreggiamento, e due donne. I fratelli passano davanti al bistrot di famiglia ad Artena. La macchina rallenta, uno dei Bianchi urla a un ragazzo: «Già sai, e se non sai». L'altro replica: «Saprai!». Bianchi risponde: «Piace fratello!».

Da radiocusanocampus.it il 21 settembre 2020. Valerio De Gioia, giudice del Tribunale di Roma, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. I fratelli bianchi, accusati dell’omicidio di Willy Monteiro, avrebbero una serie di fascicoli aperti per spaccio, percosse e rissa. “La misura cautelare non viene applicata per qualsiasi tipologia di reato –ha spiegato De Goia-. Per i reati meno importanti il giudice non può dare misure cautelari. Se dovesse essere vero che ci sono dei procedimenti per rissa e anche spaccio, non sono ipotesi che possono portare a misure cautelari, anche perché il giudice deve accertare l’esistenza di esigenze cautelari. Questo spiega il motivo per cui non ci sono state misure cautelari. Forse c’era una strada che poteva essere eseguita: le cosiddette misure di prevenzione, che sono misure meno importanti e non sono legate necessariamente alla commissione di reato. Sono dette misure di polizia, per le quali tu sei in qualche modo sorvegliato. Per alcune ipotesi di reato, per esempio di violenza domestica, c’è una sorta di ammonizione che viene data per cui se vieni poi segnalato per lo stesso reato ci sono dei provvedimenti più severi. Bisognerebbe aumentare le fattispecie per le misure di prevenzione e anche aggiornarle, ad esempio impedire di accedere ai social”.

Colleferro, gli amici di Willy accusano: "Tutti sapevano che erano violenti, erano delle furie". Vescovo: "Siamo corresponsabili".  "Non si può morire così" raccontano sconvolti i ragazzi che erano col 21enne durante il pestaggio. "Tutti conoscevano il branco, da anni litigano con tutti qui in paese". La Regione Lazio sosterrà le spese legali mentre il sindaco si farà carico del funerale. Giovedì l'interrogatorio di garanzia. La Repubblica il 07 settembre 2020. "Eravamo molto amici, frequentavamo da tempo la stessa comitiva. Ero lì davanti, l'ho visto morire. Non potrò mai togliermi la scena dalla testa, non respirava più". E' il racconto di Lorenzo, un amico di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso sabato notte a Colleferro (cittadina a un'ora da Roma) nel corso di una rissa, che è rimasto accanto al giovane durante i suoi ultimi istanti di vita. "E' stato tutto molto veloce - aggiunge - sono rimasto vicino a lui per un'ora, forse meno. Quelli erano delle furie. Non ricordo molto bene. Sono ancora sotto choc, sono due giorni che non dormo e rivivo quei momenti". "Willy qui lo conoscevano tutti. Un ragazzo solare, silenzioso, buono, non avrebbe mai fatto male ad una mosca. Una tragedia incredibile", concluse Lorenzo. Ma conoscevano tutti anche quei due fratelli, sapevano tutti della loro passione per le arti marziali, in particolare per l'MMa, una disciplina particolarmente violenta a base di pugni e calci. Sapevano tutti della loro ostentazione di muscoli e tatuaggi, del culto della forza e la convinzione di essere invincibili. "Da due anni litigano e  picchiano con le stesse modalità, sono stati autori di altri pestaggi". Racconta Alessandro, un altro amico di Willy. "Con uno di loro ho litigato pochi mesi fa perché dava fastidio a un mio amico - aggiunge - La rabbia  è che non è la prima volta che fanno così. Si poteva evitare". Una maglietta della Roma con su scritto "Grazie Willy gli eroi non muoiono mai", una targa "Ciao Angelo mio" e decine di di mazzi di fiori a Colleferro sul luogo in cui è stato picchiato a morte due notti fa il 21enne Willy Monteiro Duarte. Un pellegrinaggio silenzioso di amici e conoscenti. Alle 12 nella vicina piazza Italia, a pochi metri di distanza, c'è stato un minuto di silenzio in memoria del ragazzo con il sindaco di Colleferro Pierluigi Sanna che oggi ha proclamato il lutto cittadino. "Non si è trattato di una semplice rissa, ma di qualcosa di più cruento, cui in nessun modo si può trovare una giustificazione" ha detto il sindaco.

Giovedì l'interrogatorio di garanzia. Si svolgerà giovedì davanti al gip di Vellletri  l'interrogatorio di convalida dell'arresto dei quattro giovani. Mario Pincarelli, Francesco Belleggia, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi devono rispondere il concorso in omicidio preterintenzionale. I quattro si trovano nel carcere di Rebibbia. La Procura ha inoltre affidato l'incarico per l'autopsia sul corpo del giovane che verrà effettuata nelle prossime ore. Al momento si escludono i motivi razziali o politici.

La Regione: "Sosterremo tutte le spese legali". "Abbiamo deciso di proclamare la giornata di lutto cittadino il giorno in cui si svolgerà il funerale del nostro Willy. Comunicherò successivamente le modalità. Come amministrazione sosterremo tutte le spese del funerale". annuncia  su Facebook il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri. "Siamo in continuo contatto con il presidente del Consiglio regionale, Mauro Buschini, e il vicepresidente della Regione, Daniele Leodori, per sostenere le spese legali che dovrà affrontare la famiglia nel lungo processo giudiziario che ci aspetta- continua Alfieri- ringrazio anticipatamente la Regione per la sensibilità mostrata". "Come amministrazione stiamo valutando se è possibile costituirci parte civile al processo. Se sì lo faremo- conclude Alfieri- nessuno sarà lasciato solo". E Zingaretti annuncia: "Intitoleremo un istituto alberghiero al povero Willy".

Il vescovo: "Siamo tutti corresponsabili". "Siamo tutti corresponsabili", "seduti su una polveriera che può esplodere" da un momento all'altro. E' la denuncia del vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella, a proposito della morte di Willy. "L'ennesimo atto di feroce e assurda violenza, cui non possiamo rassegnarci - dice il presule -ucciso a calci e pugni da quattro coetanei, nostri condiocesani, durante una rissa di cui non conosciamo i motivi e a cui era molto probabilmente estraneo. "Da dove provengono i virus della prepotenza, della violenza, della vigliaccheria, del disprezzo della vita, della stupidità che generano queste tragedie e gettano nella disperazione intere famiglie e comunità? Siamo quotidianamente seduti su una polveriera, che può esplodere improvvisamente e di cui non abbiamo consapevolezza". Apicella si rivolge alle famiglie, alla Chiesa, alla scuola, alle istituzioni "perché siano partecipi di quella fondamentale e indispensabile opera di civiltà che si chiama educazione e che va rivolta a tutti, anche agli adulti". E chiede ai parroci di diffondere il messaggio nella prossima messa domenicale.

Colleferro, Conte: Sono rimasto scioccato, ho sentito ieri genitori. (LaPresse l'8 settembre 2020) - "Ieri sono rimasto fortemente colpito, direi scioccato. Ho preferito parlare prima con i genitori del ragazzo, l'ho fatto in punta di piedi perché tenevo in un momento di estremo dolore a non essere invasivo. Ho trovato in particolare un papà affranto, sopraffatto da tutta questa angoscia. Non spetta a me la valutazione giudiziaria. Io non mi sento nemmeno di chiedere una punizione esemplare. Affido ai giudici il compito di accertare e stabilire le giuste condanne". Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in un punto stampa a Beirut. "Quello che voglio dire è fermiamoci un attimo a riflettere, che messaggio trasmettiamo ai nostri ragazzi? Dagli accertamenti Willy si è permesso solo di intervenire per sedare un litigio. Quale violenza si è scatenata? Interroghiamoci".

"L'Arancia meccanica" dei Bianchi: così terrorizzavano Colleferro. I due fratelli hanno diversi precedenti: per rissa, lesioni, porto d’armi e sostanze stupefacenti. Obbligavano gli altri a spostare le auto per parcheggiare il loro Suv. Valentina Dardari, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale. I fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, seminavano terrore ancor prima di arrivare. In soli due anni sono riusciti a collezionare nove denunce. Diversi i precedenti a loro carico, per lesioni, porto d’armi, droga e rissa. E adesso anche l’accusa di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato di botte e ucciso la notte dello scorso 5 settembre. Con loro sono stati arrestati anche Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Quest’ultimo è l’unico del gruppo a cui sono stati concessi i domiciliari, dopo aver svelato il patto del silenzio deciso in auto subito dopo la morte della giovane vittima. “Sono venuti, hanno fatto casino, hanno ruttato e sono ripartiti, sgommando col Suv. Come cani che hanno appena pisciato su un territorio” queste le parole riportate da Repubblica e pronunciate da Stefano Sorci, il gestore del pub “Macellerie Sociali” a Giulianello, riferite ai fratelli Bianchi. Chiare ed esplicative. Da questa descrizione si ha già un’idea dei soggetti. Due anni di violenza e risse, con tanto di disprezzo delle regole, anche quelle del pugilato, delle arti marziali, e persino anti-Covid. Già, perché tutte le denunce a loro carico sono state collezionate negli ultimi due anni. Tutto quello che avevano imparato sul ring lo hanno rifatto in strada, contro tutto e tutti. Mosse da karate usate come offesa e non, come invece la disciplina orientale insegna, come difesa. Mario Bianchi, il minore, si è fatto conoscere alle forze dell’ordine il 5 maggio del 2018 in una rissa degenerata per futili motivi. Tutti i protagonisti arrestati. Ma dopo poche ore già liberi di tornare a seminare terrore e fare danni. Anche l’ultimo tragico litigio era iniziato per un futile motivo ed è poi terminato con la morte di Willy. Poi ecco arrivare altre due denunce, per spaccio di droghe pesanti una, violazione amministrativa l’altra: girava in città in pieno lockdown senza un motivo plausibile. Il fratello maggiore di Marco, Gabriele Bianchi, di anni 26, ha invece al suo attivo 4 denunce. Per lui un episodio di minacce, lesioni, stupefacenti e porto abusivo di oggetto atto ad offendere. Secondo i testimoni che erano presenti la notte del 5 settembre, sarebbe stato proprio Gabriele ad assalire per primo il 21enne. Poi il fratello e Mario Pincarelli. Quest’ultimo, lo scorso 21 agosto aveva aggredito e insultato un vigile urbano solo perché gli aveva chiesto di indossare la mascherina. Il gruppo fa la forza. Erano soliti entrare nei locali e chiedere con fare da sbruffoni spavaldi: “Chi è che comanda qua?”. A volte avrebbero anche obbligato qualcuno a spostare la propria vettura per fare posto al loro Suv. Fatto strano, a loro carico non risultano al momento condanne. Soprannominati “i gemelli di Artena”, perché molto simili anche fisicamente, i fratelli Bianchi sono stati bravissimi a incutere il terrore nelle loro vittime. Tanto da non essere mai stati denunciati. Loro picchiano e impongono il silenzio. “Altrimenti la prossima volta è peggio”. Perfino un giovane giocatore di baseball di Colleferro, che a suo dire è stato picchiato da uno dei due, non ha mai avuto il coraggio di andare dalle forze dell’ordine. Li ha accomunati ai Casamonica e sanno dove abita.

Alberto Dandolo per Dagospia il 14 settembre 2020. Inutile negarlo, i fratelli Bianchi hanno suscitato oltre che sdegno e orrore anche una certa curiosità per la loro fissazione per il fisico e per il look, tra sopracciglia più curate di una diva, addominali scolpiti e costumini sempre arrotolati per mostrare il muscolo levigato e depilato. Non è un caso se nella Milano della notte qualcuno li ricordi distintamente in occasione di certe gite che dalla provincia romana li spingevano fin nella capitale amorale. Pare che si muovessero sempre accompagnati da affascinanti femminone. Che poi fossero femminone anche nel loro certificato di nascita, questo le nostre fonti non lo possono giurare. Di sicuro, la loro fame di denaro non si esauriva con lo spaccio, ma pare venisse placata anche attraverso ad altre attività al limite della legalità e oltre il limite del piacere. Un piacere di coppia ma anche di gruppo, oltre i confini del genere. Non è un caso se la notte dell'omicidio di Willy i due fossero impegnati in amplessi di gruppo al cimitero, come confermato da fonti investigative. La domanda che molti si sono fatti è: se questi maschioni sempre impegnati a ribadire pubblicamente la loro virilità (la violenza espressa spesso nasconde qualcos'altro di represso), come mai si nascondevano in un cimitero per fare sesso? I mezzi per affittare uno scannatoio non gli mancavano: viaggiavano su una Audi Q7, prezzo di partenza 75mila euro. Solo che un pied-a-terre a Colleferro o Artena sarebbe stato esposto a occhi indiscreti, soprattutto per il genere di compagnia che i fratelli avevano scelto nelle loro notti proibite e annaffiate da polverine di vario tipo. Il buio e il silenzio del cimitero sono perfetti per nascondere certi segreti inconfessabili…

Fabio Tonacci per la Repubblica il 14 settembre 2020. «Sono venuti, hanno fatto casino, hanno ruttato e sono ripartiti, sgommando col Suv. Come cani che hanno appena pisciato su un territorio ». La sintesi fulminante di Stefano Sorci, gestore del pub "Macellerie Sociali" a Giulianello, contiene anche la metafora migliore per raccontare i fratelli Bianchi, i loro compari artenesi e una stagione di ultraviolenza che andava avanti da due anni. Con la prepotenza coatta dei fisici scolpiti dall' Mma, le risse, lo spaccio, il disprezzo delle regole della convivenza civile (comprese quelle anti-Covid) hanno marcato il territorio a ridosso dei Castelli Romani, lungo la provinciale 600 che collega Velletri, Lariano, Artena e Colleferro. Un pezzo di agro laziale a sud di Roma dove viveva anche Willy Monteiro Duarte, pestato a morte la notte del 5 settembre. Andando a consultare il certificato dei carichi pendenti e la lista dei precedenti di polizia di Gabriele e Marco Bianchi, arrestati insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia con l' accusa di omicidio volontario, si scopre che le nove denunce a carico dei fratelli sono concentrate negli ultimi due anni. Come se avessero deciso, all' improvviso e contemporaneamente, che era venuto il momento di usare in strada ciò che il loro maestro di Mma gli aveva insegnato in palestra. Che quei pugni e quei calci portati con precisione chirurgica e violenza ferina, insomma, potevano diventare armi di offesa anche fuori dal ring. È con una rissa davanti a un pub di Velletri, il 5 maggio del 2018, che Marco Bianchi, classe 1996, fa il suo esordio nella cronaca giudiziaria. Sono coinvolti in sei, tutti arrestati. «Litigio scoppiato per futili motivi», scrive il gip che li scarcera dopo una manciata di ore, e il pensiero torna ancora a Willy, pure lui vittima della brutalità eccitata da motivi futili. Dopo Velletri, il campione di Mma colleziona tra Lariano e Artena altre due denunce per lesioni, una per spaccio di droghe pesanti e una violazione amministrativa: lo beccano a girare per strada in pieno lockdown senza una motivazione plausibile. Non sta certo andando a lavorare, è disoccupato, nonostante su Facebook ostenti orologi, moto e un tenore di vita superiore al livello che il suo reddito permetterebbe. Appena meno lunga la lista dei precedenti di polizia, quattro, accumulati nello stesso periodo dal 26enne Gabriele Bianchi: un episodio di minacce, lesioni, stupefacenti e anche porto abusivo di "oggetto atto ad offendere". Si tratterebbe di una lama, di piccole dimensioni, comunque pericolosa. I testimoni che sono a Colleferro il 5 settembre scorso lo indicano come il primo assalitore di Willy, seguito dal fratello e da Mario Pincarelli. Già, Pincarelli. Il 21 agosto scorso getta a terra e ricopre di insulti un vigile urbano di Artena, "reo" di avergli ricordato l' uso obbligatorio della mascherina. Per dire. Quando sono in branco, gli artenesi devoti ai fratelli Bianchi sono così: spavaldi, rabbiosi, prevaricatori.«Chi è che comanda qua?», urlano, entrando in un locale nuovo quando c' è da colonizzarlo. «Ci tengo a dirti chi sono e devo capire chi sei tu». Il gergo del boss di provincia, l' insolenza del ras di quartiere. Talvolta li vedono costringere qualcuno a spostare la propria macchina, per far posto al loro Suv. Lo fanno sghignazzando, spintonando e umiliando. A loro carico non risultano condanne. Le nove denunce, i due processi in corso e le istruttorie aperte in procura sono una fotografia comunque incompleta delle scorribande dei fratelli Bianchi, simili nel fisico e nella prepotenza tanto da essere chiamati "i gemelli di Artena": molti degli aggrediti, infatti, sono stati zitti. Perché i "gemelli" - stando ai racconti nei bar del paese - menano e poi ti ordinano di tenere la bocca chiusa. «Altrimenti la prossima volta è peggio». È stato zitto anche un giovane giocatore di baseball di Colleferro, che sostiene di essere stato pestato da uno dei due Bianchi ma di non avere avuto il coraggio di andare dai carabinieri. «Questi sono come i Casamonica», si giustifica. «Sanno dove abito...».

"Willy è stato ucciso in meno di un minuto". Le nuove testimonianze shock. Alcuni testimoni ha raccontato quella tragica notte. I fratelli Bianchi hanno paura di essere aggrediti dagli altri detenuti e chiedono l'isolamento. Valentina Dardari, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso in meno di un minuto. Sono bastati pochi secondi per porre fine alla vita del 21enne che si era messo in mezzo solo per aiutare un amico. Questo quanto emerso dalle ultime testimonianze raccolte dai carabinieri della caserma di Colleferro riguardo il pestaggio avvenuto lo scorso sabato e costato la vita al giovane.

Willy ucciso in pochi secondi. La rissa, finita poi in tragedia, si è svolta davanti al risto-pub “Duedipicche”. Accusati di omicidio volontario sono adesso i due fratelli Bianchi, Gabriele il maggiore, e Marco, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Quest’ultimo è l’unico ad aver avuto i domiciliari dopo che ha riferito del patto del silenzio avvenuto in auto. Secondo quanto emerso, Gabriele sarebbe stato il primo a picchiare Willy con calci e pugni. Poi Bianchi e Pincarelli, quando ormai il 21enne era già a terra. Anche Belleggia era presente alla rissa, alcuni testimoni lo avrebbero riconosciuto dal gesso al braccio, ma il suo ruolo non sarebbe ancora del tutto chiaro. Mancano inoltre dei filmati di interesse investigativo che potrebbero aiutare gli inquirenti nella ricostruzione di quanto avvenuto quella tragica notte. Fino a questo momento si sa che i quattro di Artena avrebbero affrontato Willy e il suo ex compagno di scuola, Samuele Cenciarelli. Il litigio sarebbe iniziato prima, all’interno del risto-pub, tra Belleggia e un ragazzo di Colleferro, Federico Zurma, per poi continuare all’esterno. Alcuni testimoni hanno raccontato che “quando il Suv dei Bianchi è sbucato all'improvviso sulla strada, c'è stato il fuggi fuggi generale. Willy e Samuele, che non li avevano mai visti e non conoscevano la loro fama di bulli, sono rimasti lì”. A bordo della vettura c’erano i fratelli Bianchi che, secondo quanto raccontato da loro stessi, erano stati chiamati poco prima mentre facevano sesso con ragazze sconosciute vicino al cimitero. Entrambi con precedenti penali per lesioni e porto d’armi abusivo. Il minore, Marco, un paio d’anni fa era già stato dietro le sbarre, per una rissa fuori da un locale. Quella volta però non era scappato il morto. Venerdì è stato il primo senza Willy. Sarà difficile per Colleferro e i ragazzi che frequentano la piazzetta riuscire a tornare alla normalità. Dimenticare impossibile, per cercare di andare avanti invece ci vorrà del tempo. Prima di portarlo in ospedale, un soccorritore avrebbe detto che il cuore del 21enne aveva un ritmo di tre battiti al minuto.

Le testimonianze di alcuni ragazzi. Come riportato da Il Fatto Quotidiano, verso le 23 di venerdì 11 settembre in largo Santa Caterina non ci sono molti ragazzi. Nonostante sia ancora estate e la temperatura sia piacevole. Situazione ben diversa rispetto a quella della tragica notte tra il 5 e il 6 settembre, quando vi erano così tanti giovani da non riuscire a camminare. E anche chi ha deciso di bere qualcosa lo fa con lo sguardo assente, ripensando forse a quel giorno di solo una settimana fa. Alcuni sono molto informati perché hanno recuperato notizie su giornali e televisioni. Altri conoscono bene i protagonisti della terribile storia e danno giudizi. Uno dei clienti abituali del bar ha raccontato: “Era una serata da paura, bella gente, belle bottiglie, pieno di belle ragazze e quando ci sono le ragazze, fino a tardi, vuol dire che stanno tranquille e si godono la nottata in serenità e invece quando stavamo ormai in chiusura, è successo quello che è successo". C’è anche chi ricorda di aver visto i fratelli Bianchi verso l’una di notte e che si sono fermati circa mezz’ora. Poi se ne sono andati e dopo le tre sono tornati e hanno inizato a picchiare chiunque, anche il povero Willy. Un ragazzo non crede che fossero realmente andati a fare sesso vicino al cimitero, come hanno raccontato ai pm, secondo lui erano a fare danni altrove. "Quando se ne sono andati da qua, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Invece so' tornati" ha aggiunto il giovane. Una ragazza parla del tempo impiegato dai soccorsi ad arrivare, un altro asserisce: "Il fatto è successo alle 3.23 ne sono sicuro. La prima telefonata è delle 3.25, sono arrivati alle 3.45, oltre 20 minuti". Precisione da orologio svizzero. C’è anche chi conosce Francesco Belleggia, l’unico dei fermati ad aver avuto i domiciliari. Viene descritto come un ragazzo d'oro, bravo, gentile, simpatico, buono, fino a qualche anno fa. Poi il Belleggia si è lasciato con la sua fidanzata storica, Martina, simile a Cameron Diaz, ed è cambiato completamente. Anche se sembra sia stato lui a decidere di rompere la loro storia. Da allora ha iniziato a frequentare soggetti poco raccomandabili. Nessuno però crede che quel ragazzo, il cui sogna era quello di entrare nell’Arma, possa aver toccato Willy. Alle due la zona si svuota. Il giorno dopo sarà pesante per tutti: verrà celebrato il funerale di un amico.

I picchiatori adesso hanno paura. In carcere a Rebibbia da ormai una settimana, i fratelli Bianchi avrebbero chiesto l’isolamento. Proprio loro, i tanto temuti picchiatori, adesso avrebbero paura di ritorsioni. Intanto per 14 giorni, secondo quanto previsto dalle norme anti-coronavirus, devono restare separati dagli altri detenuti per evitare possibili contagi. La direzione starebbe però pensando di prolungare il distanziamento. Altri reclusi potrebbero infatti aggredirli per il pestaggio e l’omicidio di Willy. Ci sono delle "regole" anche in carcere: donne e bambini non vanno toccati. Stefano Anastasia, il garante per i detenuti del Lazio, ha reso noto che “trascorse le due settimane di isolamento precauzionale per il Covid effettivamente si dovrà valutare una adeguata forma di isolamento cautelativo per impedire che i tre possano essere oggetto di attenzioni per così dire sgradite all'interno del carcere. L'uccisione di Willy Monteiro ha avuto una eco mediatica molto forte e ha impressionato gli italiani non solo quelli che sono a casa ma anche coloro che sono detenuti, serve attenzione. Al momento, comunque, ho avuto modo di verificare che questi giorni di detenzione stanno scorrendo senza anomalie”. Gli avvocati dei tre presunti assassini rinchiusi dietro le sbarre hanno infatti chiesto al giudice e ai vertici del Dap, la Penitenziaria, di tenere conto delle circostanze dell'arresto e dei rischi connessi. Al fine di tutelare l'incolumità dei loro assistiti "che hanno diritto a una giusta detenzione”. Il garante ha affermato che la situazione non è semplice perché i carceri sono già zeppi e di posti ce ne sono pochi, soprattutto a causa delle regole anti-Covid. Per questo motivo, su disposizione nazionale, in caso di reati non gravi vengono preferiti gli arresti domiciliari al carcere. I profili social dei presunti assassini sono da giorni pieni di frasi d’odio e minacce. Presi di mira anche i familiari e persone che non c’entrano nulla con i due fratelli. L’unica loro colpa è quella di avere lo stesso cognome degli indagati. Tra l’altro il nome Bianchi è uno dei più diffusi in Italia. E in questa faccenda così tragica, c'è una piccola luce. A poche ore dal funerale, la famiglia di Willy ha asserito di aver già perdonato gli assassini del ragazzo e di non cercare vendetta.

Omicidio di Willy, il racconto di un testimone: “Il primo a colpirlo è stato Gabriele Bianchi con un calcio in pieno petto". Le Iene News il 18 settembre 2020. Iene.it raccoglie il racconto di un giovane, tra i primi a essere sentito dai carabinieri, che dice di aver raccolto le confidenze di altri amici di Willy presenti quella notte: “Il primo a colpire Willy è stato Gabriele Bianchi, con un calcio in pieno petto e un pugno alla tempia. Poi gli altri hanno infierito mentre era a terra”. Sono passati 12 giorni da quella tragica notte a Colleferro, quando il 21enne Willy Monteiro Duarte è morto dopo un brutale pestaggio, per aver voluto difendere un amico. Sulle dinamiche di quanto accaduto. Iene.it ha raccolto la testimonianza di un giovane della zona, che afferma di conoscere tutti i protagonisti di questa vicenda. A partire da Willy: “Lo conoscevo, frequentava una palestra che anche io frequento. Hai visto le cose belle che dicono di lui nei post su Facebook? Di solito queste cose si dicono di una persona solo dopo che è morta, ma Willy era proprio così, e tutti ne parlavano bene già prima che morisse”. Il giovane, che chiameremo Daniele, racconta di conoscere anche i quattro presunti responsabili della sua morte. “Si andava a scuola tutti insieme, alle medie. Il paese poi è come una borgata di Roma, ci si conosce tutti”. Il giovane racconta di aver saputo nel dettaglio cosa sarebbe successo quella notte da più amici comuni, che avrebbero assistito alla scena e alcuni dei quali sarebbero anche stati picchiati durante la rissa. “Io sono stato uno dei primissimi a fare denuncia ai carabinieri, raccontando quello che avevo saputo. È stato un trampolino di lancio per dare coraggio ad altri ragazzi, qui tutti avevano paura…”. Ma cosa sarebbe successo esattamente attorno alle 3.20 della notte del 6 settembre nei pressi del locale Duedipicche di Colleferro? Daniele inizia il suo racconto, che ovviamente non abbiamo modo di verificare: "La rissa l’ha cominciata Mario Pincarelli, perché ha fatto un apprezzamento un po' volgare a una ragazza, ma le solite cose che si possono dire quando si è un po' ubriachi... Lui era con il gesso al braccio, non so se poi abbia toccato Willy. A farlo sono stati sicuramente gli altri tre. Il primo a colpire Willy in realtà è stato Gabriele Bianchi, che sceso di corsa dal Suv ha fatto leva con la mano su un palo e gli ha sferrato un calcio in pieno petto, facendolo sbattere contro una macchina. Willy però si è rialzato ma ha preso un altro cazzotto sulla tempia, sempre da Gabriele. Dopo quel colpo è stramazzato per terra e allora il gruppo ha iniziato a prenderlo a calci. La rissa poi è continuata per un’altra decina di secondi, si picchiavano tutti... oltre ai 4 già arrestati c’erano anche quello che guidava la macchina e quello che ha chiamato i fratelli Bianchi. Loro due non hanno partecipato alla rissa ma erano nel gruppo di Artena, non c’è più nessun altro che non sia stato sentito dai carabinieri. Comunque il ragazzo che ha chiamato in soccorso i fratelli Bianchi se n’è andato via subito, non li ha neanche aspettati: ha acceso la miccia e se n’è andato”. Una circostanza, quella del quinto uomo, di cui ci aveva parlato anche il Comandante di compagnia dei carabinieri di Colleferro, Ettore Pagnano: “Non è stato interrogato, perché non abbiamo avuto elementi univoci che ci portino a collocarlo in un ruolo attivo rispetto ai fatti, ma le indagini sono ancora in corso e sono a 360 gradi”. Del colpo in pieno petto a Willy aveva parlato anche un’altra testimone, Faiza, come emerge dall’ordinanza di convalida dell’arresto, i cui stralci sono stati pubblicati nei giorni scorsi, per primo, dal Corriere della Sera. Francesco Belleggia invece, durante gli interrogatori in Procura, aveva puntato il dito su Marco Bianchi, raccontando che era stato lui a sferrare il calcio al petto di Willy e che Gabriele intanto si stava “occupando” di un suo amico. Daniele ci racconta poi un altro elemento, che se confermato potrebbe davvero dare una svolta alle indagini: “Qui tutti parlano sottovoce di un video girato con il telefonino da una ragazza che era presente, ma che non sarebbe ancora uscita allo scoperto”. E della cosiddetta “banda di Artena”, così come il gruppo di amici dei fratelli Bianchi sarebbe stato definito nella zona, aggiunge: “È vero che la gente del posto, i loro amici, li chiamavano quando c’era da fare a botte, ma solo perché giravano sempre in branco, non è che ti venivano addosso uno contro uno. Arrivavano in 10-15 contro 5, o anche contro uno solo… La loro comitiva, che era abbastanza grossa, dovunque andava cercava di comandare ma a Colleferro non ci sono mai riusciti. Lo hanno fatto solo una volta, un paio di mesi fa, quando hanno beccato un ragazzo da solo, in otto contro uno.  Era in compagnia di un ragazzino che per la paura se l’è filata e così lui ha preso schiaffi da tutti e otto”.

L’origine di tutto questo? Alesandro Bertirotti l'8 settembre su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. La notizia del momento è questa, e il momento dura ormai da molto, dando l’impressione di essere in un’unica sequenza di un film dell’orrore. In realtà, siamo quotidianamente circondati da orrore e nella nostra mente affollano, in sembianze diverse, immagini di morte. Come in questo caso, appunto. Siamo di fronte a persone che praticano, mantengono e desiderano uno stile di vita basato sul sopruso nei riguardi di chiunque incontrino sul loro cammino, indipendentemente dal sesso, dall’età e dall’etnia di chi ha la sfortuna di incontrarli. Nulla, nessun individuo, può essere uguale a loro, se non il clone di loro stessi, con una visione pessima della vita, e di qualsiasi forma di sopravvivenza autonoma. Non si tratta di odiatori seriali, ma di molto peggio: si tratta, secondo la mia prospettiva, di repressi para-maschi frustrati e in branco, drogati, con una struttura cognitiva debolissima, senza i fondamentali strumenti intellettuali con i quali affrontare una società depravata come la nostra. E vi è persino qualche essere umano che attribuisce la colpa di questi misfatti alle palestre, oppure alle arti marziali, o ancora a qualche specifico sport, come se l’eliminazione di un luogo in cui possono essere presenti alcune psico-patologie, anche se contenute nel luogo stesso, ci potesse salvare da questa selvaggia forma di violenza. Eppure, qualcuno, che evidentemente non conosce la saggezza delle arti marziali, la filosofia esistenziale ad esse sottesa, oppure le basi socio-culturali su cui si fonda il vero sport, per semplicismo elettorale, sostiene una simile scemenza. Ebbene, quale potrebbe essere l’origine di tutto questo? I media, la politica, il quartiere, la struttura sociale italiana che non garantisce nessuna mobilità sociale, la deprivazione quotidiana dei propri desideri di futuro (tanto a scuola come in famiglia), se non viaggiando come tossici repressi che abbisognano di farsi forti di fronte a tutto e tutti. Siamo in presenza, con evidente progressione, di individui che nella loro frustrazione rappresentano la crescente insoddisfazione, sempre più presente, nelle relazioni umane, e la consapevolezza che nessuna istituzione sia garante di una essenziale protezione. Tutta la nostra vita è questione di protezione, ricevuta e dunque donata. E, fino a quando non capiremo questo, avremo questa classe politica, queste famiglie disperate, anche nella loro positiva volontà di educare al meglio. Mi sento in lutto universale. Per loro, gli assassini, per le istituzioni e per una nazione che continua a morire giorno dopo giorno, e nemmeno troppo lentamente.

Lucia Portolano per "repubblica.it" l'11 agosto 2020. La tenente di vascello, di 34 anni, istruttrice della Mariscuola di Taranto rischia la chiusura nel suo alloggio da 1 a 7 giorni come punizione per aver fatto ballare i suoi allievi durante il giuramento, un balletto sulle note del tormentone dell'estate Jerusalema. Nel frattempo come provvedimento le hanno modificato l'incarico, ma resterà comunque a Taranto. Qualcuno ha ripreso quel balletto ed ha diffuso il video. (…)  L'ufficiale si difende, attraverso il suo legale Giorgio Carta, che ha presentato una richiesta di atti e la proroga dei termini per presentare la memoria difensiva, richiesta entro 10 giorni. Allegati a tale richiesta ci sono una serie di video finiti in rete dove già in passato i militari della Marina militare avevano improvvisato canzoni e balletti, anche su mezzi navali. (…) "Nella mia istanza - spiega l'avvocato Carta - chiediamo di conoscere quali provvedimenti sono stati assunti nei confronti dei militari protagonisti di questi video in cui si balla e si canta in divisa durante lo svolgimento dei propri ruoli. Sono video che mi sono stati segnalati da tantissimi utenti che pur non conoscendo la tenente hanno apprezzato il suo gesto ed hanno ritenuto che avesse solo fatto pubblicità positiva al corpo". L'avvocato come difesa ha allegato un video in cui si vedono i militari della nave Fenice cantare sulla note di "Come fanno i marinai" mentre svolgono le mansioni quotidiane, e poi un altro in cui i soldati in un sommergibile cantano Gente di mare, ed ancora sulla nave Vesuvio intonano la canzone Dipende. (…)

Quaranten(n)a - Nostro figlio, Willy Monteiro Duarte. Valerio Giacoia il 10 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Lei non ha capito niente, perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio”. Pierpaolo Pasolini profeta, ancora una volta. Nel cortometraggio La Ricotta, all’interno del film a episodi Ro. Go. Pa. G., dà voce a Orson Welles (doppiato tra l’altro da Giorgio Bassani, autore di quel capolavoro sulla tragica vicenda umana e storica delle leggi razziali fasciste che è Il giardino dei Finzi Contini), nel ruolo di regista-marxista, intervistato da un giornalista a cui così risponde. Era ciò che Pasolini pensava della società italiana, e già negli anni ’60: il finto progresso, l’edonismo, la tecnologia, il benessere a tutti i costi, la finta tolleranza, avevano fatto forse più danni del Ventennio. Più tardi, a novembre del 1975, il “Corriere della Sera” pubblicherà, postuma (il poeta era stato ucciso il 2 di quello stesso mese, con un brutale pestaggio), una spietata, illuminante riflessione: “… non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l’Italia… e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani.. che in Italia c’è il coprifuoco… che la televisione, e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie…”. Arriva da lì, questo guasto. Willy Monteiro Duarte si è preso i pugni e i calci in faccia di quattro ragazzi senza consapevolezza. Ubriachi di news dal sottosuolo, come tanti ragazzi delle periferie italiane e mondiali fuori rotta. Tuttavia, non ce ne vogliate, anch’essi vittime. Forse più di Willy: una generazione di ignorati, di non amati, di carnefici-martiri. Martiri di un oblio mortale, replicanti senza sentimenti perché, questi, non inseriti nelle schede del cuore. Mai conosciuti, perciò. Vissuti nella violenza, conoscono soltanto questa: non hanno altri alfabeti, altre parole, non hanno abbracci, se non quelli che puzzano di sudore e ancora tremanti di accanimento sul ring. Uno dei familiari degli assassini ha detto che in fin dei conti era solo un immigrato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che Willy si è preso i pugni e i calci in faccia nostri, di una società indifferente, che abbandona, che non si volta, che non sa educare, che forse non ha mai saputo farlo perché non educata, non amata. Figlia di una pedagogia nera. Quella della correzione e del condizionamento psicologico, sin da piccoli. Schiaffi, urla, pestaggi, a scuola, a casa. Azioni radicate, trasmesse da una generazione all’altra che hanno lasciato, come dicono gli esperti, “catene invisibili di veleno”. Sono i pugni dell’uomo medio di Pasolini. Però Willy è figlio nostro, e sta dalla parte dell’umanità che ancora costruisce, che ancora spera, che ancora non si arrende. E sono figli nostri tutti, perché è necessario sempre sganciare lo sguardo, allungare il collo, osservare lontano. Così anche Jacob Blake è nostro figlio. Jacob che domenica scorsa a Kenosha, nel Wisconsin, si è preso una raffica di colpi di pistola alla schiena senza che ancora si conosca il motivo per cui un agente si sia accanito in quel modo. “Perché mi hanno sparato così tante volte?”, ha chiesto Jacob appena sveglio dopo l’intervento che gli ha salvato la vita ma non le gambe. Perché? Forse perché afroamericano. Forse perché nero. Forse no. Forse perché a quei poliziotti che sparano nessuno ha insegnato nulla quando erano bambini, e innocenti. E oggi poliziotti assassini. Anche Deon Kay è nostro figlio, e aveva soltanto 18 anni: mercoledì scorso protestava con il movimento Black Lives Matter a Whashington D.C. quando i cops gli hanno sparato uccidendolo. Sarà sempre nostro figlio Ahmaud Arbery, ucciso a fucilate in Georgia. Per lui cercheremo fino alla morte giustizia. Era, quel figlio, un ragazzino che amava correre. Aveva lo stesso sorriso di Willy. Forse però ha ragione Emmanuel Edson, poeta, drammaturgo, fine intellettuale del Camerun, in Italia da vent’anni: il razzismo non c’entra con il pestaggio di Colleferro. “Willy si è fermato per difendere un compagno di scuola – dice al telefono, la voce rotta –, è stata la spedizione punitiva di una gang, sarebbe stato ucciso anche se fosse stato bianco. C’è una grande sottocultura, quando giri lo vedi, si sente. Ma c’è una sottocultura anche nei quartieri migliori, tra le famiglie agiate. Nell’insieme, è spaventoso. Ho paura per mia figlia, devo ammetterlo, ma qui a Milano forse è diverso. Roma è una città violenta. E Willy, ammazzato per un gesto altruista, poteva essere figlio di tutti noi”. Pensa lo stesso Antonio Biafora, chef stellato che lavora in Sila, in un resort tra i monti calabresi di Camigliatello, dove per un breve periodo il piccolo Willy aveva collaborato. Uno stage indimenticabile. Faceva divertire tutti, e tutti lì ricordano soltanto il suo sorriso, le sue battute in romanesco: “Uno spasso – racconta Antonio, sotto shock –, ma soprattutto una persona splendida, uno che faceva sempre un passo indietro, gentile, educato. Che grande dolore, sento ancora la sua voce accanto alla nostra, le risa quando mangiavamo tutti insieme, o uscivamo a bere una birra. Come una squadra di calcio eravamo”. In quella squadra “gioca tuo figlio, tuo fratello, un tuo amico, tuo nipote, tuo zio, tuo padre, il figlio di un amico, il tuo panettiere, il tuo meccanico, il tuo compagno di scuola o di fabbrica”, ci ricorda in un post su Facebook la società di calcio del Paliano. A Willy piaceva giocare a pallone, era un giocatore di quelli bravi e coraggiosi, come canta De Gregori. Di quelli che si vedono dall’altruismo e dalla fantasia. Un branco non ne sa nulla, e può uccidere. Occorrere chiedersi chi hanno alle spalle i quattro lupi feriti senza amore, senza nulla. Se a fallire siano stati davvero loro, oppure le famiglie dalle quali provengono. E noi tutti. Questo, diciamocelo in faccia, è un paese che uccide i ragazzini, i bambini. Di essi non si sopportano più le lacrime. Un mondo che ha tempi da vertigine non ha un istante per asciugarle, per chiedersi che cosa vi sia dietro. E dentro. Una umanità che ha dimenticato (o non mai ha saputo) che ci sono Moby Dick e la furia del capitano Achab in quel pianto, e tutte le nostre ossessioni di bambini poco amati e soli; e l’Odissea, il viaggio, Ulisse e la sua Itaca, ci sono I ricordi dal sottosuolo e la Recherche, gli Ossi di seppia, le Variazioni Goldberg, e Rimmel, e Yesterday: quelle lacrime, quelle urla, ci parlano della vita e della nostra storia tutta intera che si rinnovano come in una grande letteratura ogni volta che un bambino viene sulla Terra. Quel pianto è, anzi, la Grande Letteratura del mondo. Un racconto ininterrotto sul mistero, sulla struggente bellezza della vita. Occhi nell’oblio, non vi leggono nulla. Occhi innamorati, un’opera inesauribile. Uno scritto perenne a ogni incontro, una melodia celeste a ogni passo, a ogni mano che prende un biscotto, a ciascun sonno cullato. Evan, esempio tra gli esempi dell’ultima cronaca, il bambino di Modica a cui il compagno della madre, e lei complice, ha fracassato il cranio. Non aveva diritto di piangere, Evan. Doveva essere spento, rotto come un giocattolo, sbattuto in terra come una bambola col meccanismo del canto incagliato. Schiacciava con le spalle al muro quel pianto, pesava insopportabilmente la responsabilità di prendersene cura. Ammazzarlo è stata la via più semplice. La stessa strada che sempre più spesso decide di intraprendere il mondo: secondo l’ultima Report Card 16, lo studio lanciato dal Centro di Ricerca Innocenti dell’Unicef, suicidi, infelicità, obesità e scarse capacità in campo sociale e accademico sono diventate caratteristiche fin troppo comuni fra i bambini nei paesi ad alto reddito. C’è anche, e ben evidenziata in questo studio, l’Italia. Un fallimento generale. Restano le nostre analisi, i nostri pensieri stanchi, tuffati con noi sul divano, avviliti, sulla morte di nostro figlio Willy. Resta, in fin dei conti, quel mucchio di insignificanti e ironiche rovine. Come scriveva Pasolini.

Roberto Saviano: "Dietro la morte di Willy una società in cui manca tutto". Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da La Repubblica.it. "Cosa ci dice la ferocia di Colleferro?". Inizia così la riflessione di Roberto Saviano, affidata a Instagram, sul brutale omicidio di Willy Monteiro Duarte, sulla ferocia di quel pestaggio che l'ha ucciso. "Ci dice qualcosa di estremamente profondo sui cui siamo tutti chiamati a una riflessione. Willy era straniero, no Willy era italiano. I suoi assassini sono di destra - scrive Roberto Saviano, sono palestrati e violenti, sono tatuati. Il clima in Italia è feroce, reso feroce da una Politica che divide". Commenti legittimi, commenta Saviano, eppure, "sono riflessioni superficiali che non possiamo permetterci", dice Saviano mentre prova a indagare le ragioni più profonde che hanno fatto da humus alla violenza che ha portato all'uccisione di Willy. "Quando parliamo dell'orientamento politico degli aggressori e dei loro muscoli, sappiamo che manca qualcosa".

COSA CI DICE LA FEROCIA DI COLLEFERRO Ci dice qualcosa di estremamente profondo su cui siamo tutti chiamati a una riflessione. Willy era straniero, no Willy era italiano. I suoi assassini sono di destra, sono palestrati e violenti, sono tatuati. Il clima in Italia è feroce, reso feroce da una politica che divide. Capisco tutti questi commenti, ma sono riflessioni superficiali che non possiamo permetterci. Quando parliamo di odio razziale sappiamo che non è questa la spiegazione per la morte di Willy. Quando parliamo dell'orientamento politico degli aggressori e dei loro muscoli, sappiamo che manca qualcosa. Sono cresciuto in una provincia violenta, dove ogni sabato sera c'era una rissa. Dove non c'era molto da fare oltre a bere e fumare, e dove se pensavi al futuro cedevi alla depressione. C'era il cinema, la libreria, il negozio di dischi... ma tutto il resto mancava. E tutto il resto ancora manca. Ho letto molto su ciò che è accaduto a Colleferro e sono convinto che sbagliamo ad applicare le categorie dello scontro politico a un episodio di violenza che ci mostra qualcosa di infinitamente più grave. Condivido nel link in bio le parole di Emanuele Macaluso, perché ritengo che la nostra riflessione debba partire da qui, da una analisi seria sulla vita sociale in tanti Comuni, e non solo nel Mezzogiorno, in cui mancano centri di aggregazione e dove la famiglia, da sola, non ce la fa, non basta. Non scegliamo dunque scorciatoie da dare in pasto all'opinione pubblica e apriamo piuttosto un dibattito serio, un dibattito davvero politico. Perché politica è tutto. Politica è vita e non lo scontro basso a cui siamo assuefatti. . . #Willy #Colleferro Un post condiviso da Roberto Saviano (@robertosaviano_official) in data: 9 Set 2020 alle ore 3:50 PDT

"Sono cresciuto in una provincia violenta, dove ogni sabato sera c'era una rissa. Dove non c'era molto da fare oltre a bere e fumare, e dove se pensavi al futuro cedevi alla depressione. C'era il cinema, la libreria, il negozio di dischi... ma tutto il resto mancava. E tutto il resto ancora manca - ha continuato Saviano - Ho letto molto su ciò che è accaduto a Colleferro e sono convinto che sbagliamo ad applicare le categorie dello scontro politico a un episodio di violenza che ci mostra qualcosa di infinitamente più grave. Condivido le parole di Emanuele Macaluso, perché ritengo che la nostra riflessione debba partire da qui, da una analisi seria sulla vita sociale in tanti Comuni, e non solo nel Mezzogiorno, in cui mancano centri di aggregazione e dove la famiglia, da sola, non ce la fa, non basta. Non scegliamo dunque scorciatoie da dare in pasto all'opinione pubblica e apriamo piuttosto un dibattito serio, un dibattito davvero politico. Perché politica è tutto. Politica è vita e non lo scontro basso a cui siamo assuefatti".

Willy Monteiro, padre Zanotelli: "L'omicidio figlio della tv berlusconiana e della predicazione di Salvini e Meloni". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Padre Alex Zanotelli supera ogni limite. Per il missionario italiano, parte della comunità dei Comboniani, la colpa della morte di Willy Monteiro è tutta del centrodestra. "Quello che è successo a Colleferro è un imbarbarimento della società ma è anche il frutto amaro – oltre che di 30 anni di televisione berlusconiana – soprattutto di tutta una ‘predicazione’ fatta da Matteo Salvini e da Giorgia Meloni i quali hanno seminato odio in questo Paese". Insomma, per il religioso sull'uccisione del 21enne di Roma hanno avuto un ruolo i leader politici. "Salvini - prosegue poi in una video-intervista all'Agenzia Dire - lo ha espresso anche politicamente questo odio, come ministro degli Interni”. Padre Zanotelli sembra far riferimento alla politica condotta dalla Lega contro gli sbarchi di clandestini. Gli stessi sbarchi che ad oggi i giallorossi permettono, mietendo innumerevoli vittime in mare. Ed è proprio al governo che va il pensiero del religioso, ancora una volta però per criticare la destra: “Inoltre è giusto anche riconoscere la debolezza del Governo: non è accettabile e va contro la Costituzione l’esistenza di realtà come Forza Nuova e le altre forze di estrema destra che sono vietate per Costituzione. Su questo il Governo dovrebbe essere altrettanto duro perché questi individui si annidano in tutto questo e si arriva a quello che è successo a Colleferro”. 

Willy Monteiro, Fratelli d'Italia querela Alessia Morani: "Gravissime fake-news contro il partito. Conte dica qualcosa". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Fratelli d’Italia ha dato mandato ai propri legali di procedere alla querela del Sottosegretario del Pd Alessia Morani per "i ripetuti atti diffamatori ai danni del movimento politico Fratelli d’Italia e dei suoi iscritti". "Tra le numerose falsità diffuse dal Sottosegretario la presunta candidatura a Fondi (LT) tra le fila di FdI di un estremista candidato in altra lista e la diffusione di falsi profili Facebook di presunti simpatizzanti di FdI inneggianti alla morte del giovane Willy Monteiro Duarte", fanno sapere dal partito di Giorgia Meloni. "Risulta di estrema gravità che un membro del Governo diffonda falsità e menzogne ai danni delle forze di opposizione - riprende la nota diffusa dal partito -, un atteggiamento che in qualsiasi democrazia avanzata porterebbe a un duro richiamo politico da parte del premier, Giuseppe Conte, e dei vertici istituzionali. Purtroppo, constatato l’assenza di qualsivoglia intervento istituzionale di richiamo, il movimento politico Fratelli d’Italia si trova costretto a tutelare la propria immagine in sede giudiziaria", concludono da FdI.

Da liberoquotidiano.it il 9 settembre 2020. Rula Jebreal come padre Zanotelli. Anche per la giornalista dalle ben note tendenze politiche l'uccisione di Willi Monteiro è colpa di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il commento della Jebreal sulla triste vicenda di Colleferro arriva via Twitter: ""In fondo hanno solo ucciso un extracomunitario". Ecco cosa accade quando i due leader di destra seminano odio e incitano alla violenza contro gli emigrati. I criminali che hanno trucidato Willy Monteiro e il terrorista Luca Traini: entrambi frutto dell’indottrinamento Fascista". Per la giornalista la morte del 21enne non è stata colpa delle quattro belve che lo hanno preso a calci e pugni, bensì da due leader del centrodestra. Frase, questa, a cui ha replicato per le rime Guido Crosetto: "È più facile fare politica così. Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno armato la mano degli assassini - ha cinguettato il fondatore di Fratelli d'Italia in un'evidente critica ai sinistri - Odiateli! Disprezzateli! Ghettizzateli! Fategli del male! Appendeteli a testa in giù! Trasformate la violenza delle parole in atti!".

Franco Bechis per iltempo.it il 10 settembre 2020. Secondo Chiara Ferragni l'omicidio di Willy Monteiro Duarte avrebbe le sue radici non nelle palestre di arti marziali, ma nell'humus di cultura fascista da cui sarebbe nato. La nota influencer ha ripostato sposandolo in pieno un post di un sito di politica, e in questo a dire la verità ha detto quel che molti con leggerezza stano cinguettando in questi giorni. Nulla invece nella storia pubblica dei due fratelli Bianchi, Gabriele e Marco, oggi in carcere per quell'omicidio offre una minima traccia di un loro impegno politico, per giunta a destra o addirittura con legami ad ambienti fascisti. Nulla, nemmeno i loro tatuaggi. Che però sono assai simili a quelli di un personaggio di cui sono proprio fan, tanto da citare le frasi da lui scritte e ballare e cantare le sue canzoni: Fedez, il marito di Chiara Ferragni. Ecco Gabriele Bianchi insieme alla fidanzata e ad amici in barca a Palmarola il 26 luglio scorso, mentre appunto cantavano e ballavano "Bimbi per strada" di Fedez per poi postarlo nelle loro stories di Instagram. Il loro riferimento culturale era Fedez, non Benito Mussolini. La prossima volta la signora Ferragni farebbe bene a riflettere prima di esprimersi su quello che non sa. Mica si può essere influencer su tutto, no?

Fenomenologia di Chiara Ferragni: l’influencer da milioni di follower che cercano amore e fratellanza. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 settembre 2020. L’omicidio di Colleferro ha colpito la sensibilità collettiva. Anche quella di una donna che guadagna 58.300 dollari per ogni post su Istagram. È stata Chiara Ferragni ad andarci giù pesante: sono “quattro fascisti” e «il problema lo risolvi cambiando e cancellando la cultura fascista in questo paese di merda». Un linguaggio duro – che non te l’aspetti. Certo, ci sono fatti di sangue che ci colpiscono più di altri – e non si capisce perché ma così vanno le cose. E questo di Colleferro ha colpito la sensibilità collettiva. Perché una signorina che guadagna 58.300 dollari per ogni post su Instagram dovrebbe sentirsi ferita dalla morte di Willy, un ragazzo che studiava all’Alberghiero e faceva l’aiuto-cuoco e tirava quattro calci al pallone nella squadretta di Paliano, alla fine del mondo? Una che vive promuovendo acqua minerale a otto euro a bottiglietta o infradito “slides graffiti” a 175 euro al paio? Eh, perché? Perché la sensibilità collettiva trova assurda, trova anti- storica (“fascista”) la morte di Willy? La sensibilità collettiva è come l’immaginario collettivo e come l’intelligenza generale – sono quelle cose immateriali che “misurano” il sentimento di un popolo in un determinato momento. Parliamo spesso di una “pancia del paese” che è orribile e assatanata, ma forse non è questo il sentimento dominante. Forse, il sentimento dominante vuole pace, amore, fratellanza. E Ferragni esprime proprio questo. Lo dico proprio così, da “buonista”. Semplice, terra terra. Le generazioni che crescono adesso non conoscono le guerre, non conoscono la violenza della Storia – non hanno visto le trincee, non hanno visto le bombe sganciate sulle città. E non ci sono neanche cresciute subito dopo, tra uomini e donne allucinate da quegli orrori e frettolosi di metterseli alle spalle. Le generazioni che crescono adesso pensano che siamo ricchi, che possiamo produrre tante cose, che le malattie sono curabili. Che possiamo abbracciarci come fratelli, senza distinzione di razza, sesso e religione. Poi, niente di questo succede. Però, sarebbe possibile. Questi sono “i buoni sentimenti”. E se incrociano la politica – allora le cose possono cambiare davvero.

Ferragni, Baby K e il marketing dell’antifascismo. Corrado Ocone, 10 settembre 2020 su Nicolaporro.it. Il brutale agguato e l’assassinio del giovane Willy meriterebbero silenzio e rispetto per il dolore dei familiari, da una parte, e poi una riflessione più generale, come scriveva Francesco Giubilei su queste pagine, sui valori e i modelli estetici e comportamentali predominanti nella nostra società, sull’ethos generale dell’uomo e dei giovani occidentali al tempo d’oggi. Quello di cui non ci sarebbe assolutamente bisogno è la speculazione su eventi così nefasti per fini politici oppure per fini commerciali. Purtroppo, come era immaginabile, i due tipi di strumentalizzazione, in particolare quella politica, si sono puntualmente verificati anche questa volta.

L’antifascismo tira. Ma un vero “fenomeno” è stata senza dubbio Chiara Ferragni, che in un sol colpo è riuscita a metterli insieme tutti e due: “due piccioni con una fava”, come suol dirsi. Condividendo un post del profilo Instagram @spaghettipolitics, la nostra più famosa influencer è scesa infatti direttamente, come mai prima aveva fatto, nell’agone politico, scegliendo la via di più facile successo: il problema di quella morte sarebbe la “cultura fascista” e razzista (Willy era di origine capoverdiana) degli aggressori; e la soluzione starebbe nell’istruzione, che a questo punto assumerebbe un vero e proprio carattere di “rieducazione” alle “virtù democratiche” del “buon cittadino”. Con quali esiti, non è difficile da immaginare. Perché Ferragni abbia compiuto questo passo, perché cioè l’abbia buttata in politica proprio lei che sembra avere tutti altri interessi, diciamo prima di tutto industriali e commerciali, è un fatto che non può avere che una spiegazione: oggi l’antifascismo tira, è cioè un brand di successo che, non solo ti accredita fra la gente che piace (la borghesia intellettuale e cittadina), ma ti fa “vendere” il tuo “prodotto” ad un pubblico vasto e maggioritario. Una sorta di alleanza fra la sinistra e il capitalismo, la ribellione e l’omologazione, che ha trovato i suoi albori negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso con il successo delle t-shirt con l’effigie del Che o quello delle spille con impressa la foglia di canapa o il simbolo degli anarchici.

Educare, educare, educare. L’impressione è che da questa convergenza non ne esca vincente solamente – vivaddio! – il libero mercato, ma anche, per quanto addomesticata, una certa cultura mainstream che è parte, seppur diversamente, della decadenza dei valori occidentali di cui dicevo in apertura. Sarà un caso che questa è l’epoca storica ove più si parla di etica, e si mettono su persino istituzioni a sua garanzia, piccoli embrioni di uno “Stato etico” cosmopolitico, e meno etica diffusa ci sia? E non è forse la “medicina” stessa parte del problema che pretenderebbe di “curare”? Così come una pericolosa aggravante del problema è quella che, con una irriflessa reazione, porta ad assegnare alla scuola e persino alle università il compito di promuovere l’etica e di “educare”: all’antifascismo, ai valori democratici, alla “sostenibilità”, e in sostanza alla lotta contro tutti i mali del mondo. Senza accorgersi che è un male pure questa presunta educazione: sia perché sottrae tempo e energie all’istruzione vera (lo studio della letteratura, della matematica, della storia, ecc.); sia perché pretende di trovare e dare soluzioni etiche pret-à-porter dimenticando il fondo tragico o inconciliato che presiede alla nostra esistenza e alla nostra costitutiva imperfezione e fallibilità. Ad esse ci si arriva possedendole in piena autonomia, senza balie, cioè avendole metabolizzate e con il proprio spirito critico: l’ideale della cultura come autonomia, cioè avalutatività, e come Paideia o Bildung, autoeducazione, è il senso stesso della nostra civiltà e solo lo studio dei classici può darcelo. A parte il fatto che non è dato sapere chi sarà mai il certificatore ultimo di ciò che è “antifascista” e “democratico”, tanto più che a volte, come è ben noto, è proprio l’antifascismo, con la sua intolleranza di fondo, ad essere un secondo fascismo per quanto inconsapevole. Come non bastasse, è proprio il caso di dire, Baby K., quella che con la Ferragni ha siglato Non mi basta più, il successo estivo che non si capisce bene se sia uno spot pubblicitario o una canzone, alla scuola vorrebbe assegnare pure il compito di parlare in classe del revenge porn. Forse la Azzolina starà prendendo già appunti, ma ad occhio noi diremmo che a scuola sarebbe meglio studiare Omero e Virgilio, Agostino e Montaigne, e cose del genere: solo il “canone occidentale”, introiettato e metabolizzato, potrà far contrasto nei giovani a quella “decadenza occidentale” che invece gli abbiamo consegnato. Corrado Ocone, 10 settembre 2020

VIOLA GIANNOLI per repubblica.it il 13 settembre 2020. Si chiama Michela Grasso, ha 21 anni, è nata a Gallarate in provincia di Varese ma studia Scienze Politiche all’Università di Amsterdam. È la giovanissima aspirante giornalista che due anni fa ha creato l’account Instagram “SpaghettiPolitics” per spiegare la politica italiana (e poi quella internazionale) ai suoi amici all’estero, in italiano e in inglese. Uno dei suoi ultimi post, sulle radici culturali fasciste della morte di Willy Monteiro Duarte, è stato condiviso dall'influencer Chiara Ferragni. Giusto il tempo di godere del boom di follower che il suo account “di lavoro”, quello privato e quello dell’hotel di famiglia che gestisce sono stati hackerati e cancellati. "Instagram non vigila sulle truffe - denuncia la ragazza - così ho perso il lavoro di due anni".

Michela, cosa è accaduto?

“Dopo il repost di Chiara Ferragni e l'impennata di follower (da 20mila a 70mila in 2 giorni) avevo chiesto a Instagram di ottenere le spunte blu. Poche ore dopo mi è arrivato un messaggio da un account uguale a quello di Instagram che mi chiedeva di confermare la mia identità cliccando su un link. Anche il sito a cui rimandava sembrava affidabile e invece mi hanno rubato i dati e hanno cancellato tutti i miei account. Ho perso tutto il lavoro di due anni, la community creata con i follower e anche i messaggi con mia nonna, la cosa che mi fa più male”.

Hai provato a recuperare i tuoi account tramite Instagram?

“Ho provato a contattare il social network via mail ma non ho ricevuto alcuna risposta. Un mio amico ha contatto Chiara Ferragni su Twitter, lei ha risposto e si è fatta mandare la mia mail per inviare una segnalazione a Instagram, ora incrocio le dita. Ieri sera ho creato una nuova pagina “SpaghettiPoliticsReal” che ora ha 700 seguaci, non mi lamento però non è giusto quel che è successo. Non credo che recupererò nulla del vecchio account, a meno che l’intercessione di Ferragni non faccia il miracolo…”.

Si tratta di censura, di invidia o di una truffa?

“La tempistica non può essere casuale, è accaduto proprio per il clamore suscitato dal post sull’omicidio di Willy sotto al quale c’erano moltissimi commenti offensivi e insulti sessisti. Ma di solito quando rubano un account, lo riutilizzano, lo vendono per guadagnarci soprattutto se ha molti follower, invece il mio è stato eliminato. Questo mi fa pensare che a qualcuno abbia dato fastidio la mia presa di posizione condivisa da vip e non”.

Ci sono molte truffe online di questo tipo?

"Ho trovato moltissimi profili simili a quello che ha fatto lo scam a me. Li ho segnalati a Instagram ma di solito non accade nulla. Le truffe più comuni sono le mail finte di banche o di istituzioni oppure i fake di Facebook e di Twitter che ti chiedono le password delle mail, degli account o il numero della carta di credito”.

E i social network non vigilano abbastanza?

“No, lo fanno in maniera troppo debole. Instagram potrebbe rilasciare linee guide e aggiornare il suo sito con tutte le truffe possibili le cui informazioni si trovano invece su altri portali. E potrebbe guardare con più attenzione le segnalazioni che arrivano perché tutte sembrano rispettare gli standard della community e invece ci sono decine di dannose truffe”.

Giovanni Sallusti per ''Libero Quotidiano'' il 9 settembre 2020. E invece il Male non è politica, ci sentiamo stupidi solo a scriverlo, ma la stupidità è proprio ciò a cui vuole inchiodarci il mainstream. Per cui ogni evento viene letto attraverso i pochi pseudoconcetti chic in voga agli aperitivi di redazione: sessismo, cambiamento climatico, antifascismo. Un gioco delle tre carte permanente, applicato anche alla cronaca nerissima, alle secrezioni più oscure dell'animo umano. Anche alla storiaccia di Willy Montiero, massacrato a calci e pugni da quattro nullità avariate, perché voleva difendere un amico. Testimonianza, se c'è una, della cecità del Male, che probabilmente è il vero mistero di questo strano bipede implume che noi stessi siamo. Ma non si vede questo, nei quattro accusati dell'omicidio di Willy, non si scorge la possibilità originaria del Male, il tarlo che può sempre mangiarsi il piccolo e dannato legno storto dell'uomo. No, si annota che esercitano l'Mma, arte marziale estrema ma non pratica criminale, e se ne invoca la messa al bando, come ha fatto il direttore de La Stampa Massimo Giannini, si imbastisce un romanzone scadente sui biechi istinti machisti e reazionari che albergano in ogni frequentatore di palestre, fino ad arrivare all'obiettivo grosso, quello a cui si mirava da subito. Ma certo, al "fascismo". I picchiatori di Willy sono fascisti. Da cosa è dimostrato? Dal fatto che sono picchiatori. È il sofisma del politicamente corretto, in cui premessa e conclusione si scambiano continuamente di posto, al servizio del vero volto del giornalismo autonominatosi "obiettivo": la propaganda. Lo ha svolto perfettamente lo psicanalista Massimo Recalcati, già organizzatore di scuole politiche per il Partito Democratico, che sempre su La Stampa ha (stra)parlato di «esaltazione paramilitare e fascistoide del corpo forte e vigoroso», allo stesso tempo piegando il dramma di Willy ai propri tic ideologici e attribuendo ai suoi carnefici un retroterra culturale, per quanto perverso, inesistente. Non ci sono idee, nemmeno cattive, c'è solo la naturalità sconcertante del Male, in quell'assassinio casualmente perseguito. Andrebbe ricordato anche a Zingaretti e al gotha democratico, visto che l'account ufficiale dei deputati Pd non si è trattenuto dal twittare su «qualche rigurgito fascista» che «crea dei mostri spaventosi, come quelli che hanno ammazzato #WillyMonteiro», con un'allusione che edulcora il mostro nell'avversario politico, nel fantasma che si aggira alle proprie assemblee di partito. Mentre nel caso di Rula Jebreal, che attribuisce l'omicidio selvaggio di Willy all'«indottrinamento fascista» di cui sarebbero responsabili «i due leader di destra», probabilmente non c'è nulla da fare, siamo nel campo dell'ossessione monomaniacale. Nella competizione del grottesco si piazza assai bene anche Repubblica, che ieri ci dava a tutta pagina la seguente informazione: «Mali, il clima ferito sta armando la jihad africana». Bizzarro, noi sempliciotti credevamo che ad armarla fosse quella versione violenta e terrorista dell'Islam che è una delle facce del Male contemporaneo. No, la Bibbia del progressista ci spiega seriamente che i nordafricani si arruolano nella guerra santa a causa delle «devastanti conseguenze» delle «emissioni dei gas a effetto serra», «prima tra tutte la siccità». Quando asporti forzatamente la variabile esistenziale del Male, il tragicomico è dietro l'angolo. Ha fatto forse ancora peggio la centrale globale del politicamente corretto, l'Onu, quando per bocca del suo segretario Antonio Guterres ha esibito la tesi per cui «la pandemia causata dal Covid-19» avrebbe dimostrato i danni di «millenni di patriarcato». Scemi noi, che legavamo la comparsa del morbo a quel meccanismo indifferente e dannifero che è essenzialmente la Natura. Buttarla in politica, o in sociologia, o addirittura in ecologia, è la scorciatoia del politicamente corretto per rimuovere quello che non è in grado di ammettere e pensare, l'esistenza del Male assoluto, puro, ingiustificato. Un'ipocrisia di norma sgradevole, intollerabile quando di mezzo c'è il cadavere di un ventunenne.

Fulvio Abbate per Dagospia il 12 settembre 2020. Sia detto con chiarezza, nel giorno del funerale del ragazzo Willy, che tutte le suburre del mondo hanno rotto il cazzo. Insieme ai calchi dei Renatini, degli Abbatini, dei Giuseppucci, dei Lalli gli Zoppi, all’intero orribile catasto romanzesco criminale. Ottusi trucidi elevati al rango di eroici cavalleggeri o giubbe rosse in Bmw o Lancia HF, epica da borgata finita rancida, tra Testaccio, Trullo, Magliana e Maglianella, gli stereo 8 del Califfo e di Gabriella Ferri a fare da palizzata sonora. Pasolinismo mediocre d’accatto, merci editoriali, cine-televisive deteriori di ritorno; facce da fototessera gualcita all’autovelox, che nulla hanno di letterario, buone, al massimo, nonostante i rivetti in corrispondenza della fronte, per il casellario giudiziale con rispettive ordinarie pose segnaletiche, miseria somatica da ceffi, piccineria morale su fondali di interiora da mattatoio destinate a marcire nei cassonetti dell’umido mai smaltito nell’Urbe. Perfino in questo momento, mentre il povero Willy è nella sua bara, il “collega” scrittore va immaginato pronto a ragionare sulla prosecuzione di quel repertorio di studiata banalità. Facce, gesti, sguardi, rutti tra una coda e una pajata, tra le sopracciglia e i tatuaggi dei fratelli Bianchi, ai loro occhi veri gagliardi fratelli d’Italia, immaginando che tutte le Artena e i Colleferro del mondo possano presto elevarsi a ulteriori fondali di un’epica come già nelle mille vomitevoli, appunto, suburre. Banalità, pupille assenti alla percezione e alla grazia del mondo, orbite vuote, la negazione, non dico della complessità, ma del semplice naturale esercizio del pensiero, clic mortuari da obitorio davanti all’intero paesaggio cittadino degradato. Decerebrati razzisti che si rivolgono ai ragazzi neri, agli immigrati, chiamandoli “scimmie”, nella miseria linguistica che, per li rami, giunge da genitori, cominciando dalle mamme assenti a ogni alito di denuncia. Madri d’Italia, che mai hanno pensato, nel tempo, vedendo i figli nottetempo rincasare, la refurtiva nascosta nel pacco dei calzoni, di chiedere conto delle moto, dell’oro da ricettazione ai polsi e al collo, da dove insomma giungessero quei beni, da quali guadagni, da quale misero romanzetto criminale con i Casamonica e i Diabolik et similia presenti in filigrana. Non dovremo pazientare molto, per vedere i fratelli Gabriele e Marco Bianchi di Artena e i loro comprimari, innalzati, come già un Liboni, sul trono di lamiera degli sfasciacarrozze o degli smorzi, lì protagonisti di un'Iliade coatta, vitalisticamente, di più, sostanzialmente fascista, modellata al tornio del razzismo tra sopracciglia e muscoli da palestra anabolizzante, li ritroveremo protagonisti di cento romanzi, nuova suburra, anzi, susborra. Nella piccina convinzione ideologica che il Male sia per definizione eroicamente, eroticamente più fico d'ogni suo opposto; li immagino già alle prese con gli appunti. Di sfondo, Salvini e Meloni, loro che sempre hanno speso soprattutto parole di dileggio razzista, corpi politici oscenamente estranei nella tragedia che ha visto la morte del ragazzo Willy. La “fraterna” destra italiana. Perfetta per ogni submondo narrativo la foto, davvero imperiale, da imminente visita all'officina del carburatorista, che vede i fratelli sulle moto, la tuta acetata, i loghi bene in vista, in luogo della stola papale; mondo pop assiro-casalese. Volti ideali anche per le battute acefale in romanese, repertorio da sciorinare in attesa delle tris davanti ai Punti Snai, come nelle “migliori più belle frasi di Osho”, ridere, ridere forte, la mano sul pacco, come farebbe la gente “gajarda”. Susborra, appunto. Povero Willy Duarte, assente alla pietà di un mondo che mai ha smesso di coltivare, meglio, di indossare, come accade ai rapinatori dai collant in volto, il bene rifugio interiore del fascismo, del razzismo e della violenza, del dileggio altrui, tra baretto, bujaccaro e pippata serale; vomito di ritorno. Forse, la corsa alla comprensione antropologica per gli assassini del ragazzo è già iniziata. Non sono forse anche i Bianchi dei veri fratelli d'Italia? Mai mettere in discussione l’idea stessa di Famiglia, bene rifugio, il legame del sangue, la reciprocità dei sentimenti, di più, l’interscambiabilità della banconota da cinquanta arrotolata davanti a una pista di “cocco”? Su tutto, la già mirabile tuta acetata, outfit d’ogni aspirante possibile residente di via Bartolo Longo, Rebibbia. Nella galleria dell'eterno fascismo italiano, così come l’ha indicata mirabilmente Umberto Eco, nonostante le riserve studiate di alcuni, sono appena giunti due e forse più nuovi ritratti, resta da piazzarli bene in alto, nell’ideale galleria nazionale del trucido criminale pronto a farsi pagina scritta, letteratura, film, serie televisiva, tatuaggio da braccio, petto o da pisello, la stessa evidenza stilistica dei mattinali di questura. Lo so, adesso vogliono convincerci che i fratelli Bianchi non sono fascisti, perché il fascismo “qui non c’entra, perché mica facevano politica loro” (sic), così parlò esattamente il fascio, colui che si aspettava ogni bene dai Salvini e dalla Meloni, perché "prima gli italiani", magari come i Bianchi, il fascio pronto a difendere le gioie e gli avanzi di cibo rancido di famiglia, la memoria del nonno già custode in orbace, forte dell’idea che i vicini di casa ebrei dovessero essere consegnati all’Ovra fascista per beccare taglia e magari subentrare nell’appartamento requisito. Il fascismo endemico, endogeno, certo, ma questi nuovi probabili nuovi eroi popolari e pop oltre a essere figli, fratelli, cugini e cognati dell’Italia fascista, sono anche il precipitato subculturale dei Fabrizio Corona e dei Gianluca Vacchi, con corredo di slip griffati, barbe cardate, loghi di t-shirt che alludono a dieci cento mille “pecorine” da consumare in piedi nei bagni dei locali in fondo  alle mille Tiburtine possibili, dell’interpretazione più bestiale di un presunto situazionismo glamour, l’equivoco idiota che il cattivo giusto, la coatteria, l’arroganza tracotante, la guida senza patente, le magliette di 'sto cazzo con su scritto “Narcos”, il blaterare di sesso senza essere mai pervenuti all’idea che “scopare”, perfino “chiavare”, dovrebbe essere un atto di reciprocità e non di dominio, il rifiuto d’ogni principio estraneo al più mediocre dei narcisismi rionali fin nei tatuaggi e i muscoli, tutto questo avesse valore di presunta rivolta. Sia finalmente detto che le suburre, i romanzi criminali, i Libani, i Freddi, i Renatini, i Lalli gli Zoppi, con tutti i loro fasci plaudenti di contorno, hanno definitivamente rotto il cazzo.

Aurelio Picca per ''la Repubblica'' il 16 settembre 2020. Perdonatemi se scrivo da contadino, o da cronista con pochi mezzi. Sono più pronto a raccontare a voce i fatti, i luoghi, che a scriverne. Anche perché patisco e soffro l’ordine della scrittura rispetto alla gravità, al non riassumibile. Non ho letto nulla, se non buttandoci un occhio, circa la morte di Willy che si chiamava come un mio antichissimo amico stroncato dall’eroina. Non ho voluto leggere niente perché so tutto. Quando da ragazzino passavo sotto Artena (ex Montefortino, roccaforte volsca), la zia zoppa rimasta illibata diceva: “Qui piantano i fagioli e nascono i briganti”. Non ci credevo, perché il paese a forma “perfetta”, aveva gli asini che salivano fino in cima; e le case ammonticchiate a presepe. Eppure, il territorio che lascia la repubblicana Velletri e giunge a Lariano e Artena e poi sale su Valmontone, mentre a destra punta Colleferro; con Paliano che aveva Castello e carcere, dove si devia prima di arrivare sugli Altipiani di Arcinazzo: auto esilio del generale Graziani, è stato da sempre confine, macchia di leopardo, territorio segmentato tra i Castelli Romani e l’Anagni di Bonifacio VIII e di Innocenzo III nato sui pendii della Carpinetana, con Segni a destra e Gavignano a Sinistra. Se uno volesse salire sul cucuzzolo di Artena e affacciarsi al balcone della trattoria di Chiocchiò, riconosce bene il castello di Paliano, l’antica e nobile Palestrina e, oltre, viene a sapere che si giunge al santuario della Mentorella, dove papa Wojtyla si recava a pregare la Madonna “scura di pelle”. Anche non distante da Valmontone i nonni dei nonni di questa mappa geografica, andavano a Genazzano in viaggio di nozze inginocchiandosi ai piedi della Madonna del Buon Consiglio. E, cosa curiosa, Willy l’hanno ucciso saltandogli sul corpo come fanno nella pubblicità dei materassi, tra il 5 e il 6 settembre, proprio quando si festeggia la Madonna della Carità. E per restare nel nome della Madre e del Femminile, lo stupro di Pisticci, non lontano da Matera, ricorda il Carro della distruzione che, a sua volta, rimanda a un possibile stupro di contadinella bruna a opera dei saraceni. Non a caso nella festa di Matera, si ricordano Le due Brune (una Madonna e una stuprata). Così quel giorno di processione, in estate, il Carro dell’oltraggio viene assaltato dalla folla e ridotto a brandelli usati come sfregi sacri. Nei primi Sessanta Colleferro viveva il suo boom. Aveva la Snia. E sulla Roma-Napoli era raggiunta dagli stessi pariolini romani che andavano al Penny a Frascati, mentre qui frequentavano il Living. Artena aveva La stalla, e ci si scazzottava. Niente di più. I feroci, eredi del sangue brutale dei volsci, come Laudovino De Sanctis, erano già a Roma. Gente da Ferocia reale, animale, non certo giustificabile, ma non esemplari come i fratelli Bianchi, che non sono gemelli ma che gemelli di ferocia perversa sono. Ecco, la trasformazione lenta e inesorabile di questi luoghi: da ferocia reale; a ferocia perversa. Bandiamo per sempre lo slogan della mutazione antropologica. A vederli, i Bianchi, sono tatuati come il territorio che si sono illusi di dominare. Ho notato pose senza fisicità. Senza sensualità. Del resto chi (e non parlo solo degli indagati) passa il tempo in palestra, a pestare il prossimo, a sbronzarsi, quando fa l’amore? Per farlo serve tempo, abnegazione, vera potenza, non muscoli gonfi. Altrimenti ci si riduce alla virtualità o agli scampoli onanistici e frettolosi. Quindi: non si fa con l’altra o con l’amato; ma da soli. Chiusi nel proprio narcisismo esibizionistico. I loro corpi sono timbrati da tatuaggi come le strade di queste città evocate spaccate che sguarciano pneumatici con mille rotonde che fanno perdere la bussola anche ai marinai genovesi. Io sono stato a scuola con il suocero di uno dei due indagati. Sua figlia è incinta di un “gemello”. Il padre di lei ha pianto e si è scusato in Consiglio Comunale. Pareva il pianto sincero di un padre che ha fallito. Ma in realtà questa fragilità morale non riguarda solo Colleferro, Artena; questa sorta di cuscinetto tra Roma e gli ex borboni. L’inabissarsi morale riguarda l’Italia (non mi avventuro nel mondo). Tutti noi siamo colpevoli, come ha detto un ristoratore di Colleferro. Noi abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia. La scuola è polverizzata da decenni. Accumula carte e banchi. Ma nessun docente chiede il nome e il cognome dello studente. Nessuno ricorda che la prima lezione va fatta sull’importanza del proprio nome, sul luogo da dove si proviene. Tutti noi siamo orfani, nessuno è più padre. Ecco che allora i Bianchi di turno hanno una prateria di tatuaggi dove cavalcare: cioè uno spazio senza confini. In altre parole: senza legge. Accennavo alla “ferocia della realtà”. I nostri padri e nonni, immortalati dal neorealismo dovevano scontrarsi, dovevano combattere. E combattevano per la legge del padre, faccia a faccia. Ora non più. Basta il narcisismo isterico, i muscoli senza lavoro, l’oro come metallo che scintilla e non come oggetto sacro, eredità degli avi, scambio di fedeltà, sacrificio dei muratori dei cinquanta per comprare uno Zenith o un Longines al figliolo il giorno della cresima. Nessuno di questi che ballano sui corpi sanno che l’oro è degli imperatori. Il loro è falso. Dunque basta affibbiare la ferocia perversa al razzismo, eccetera eccetera. Per paradosso il Paese al mondo, l’Italia, dalle mille capitali, dai mille palazzi, da chi sapeva fare scarpe a opera d’arte, tavoli e sedie a opera d’arte, ringhiere e letti di ferro a opera d’arte; questo nostro Paese è ancora l’unico al mondo che può ricondurre alla legge, ristabilendo l’onore del nome, recuperando il sacrificio, la disciplina, la rinuncia. Non sono i film criminali che spingono all’emulazione. E’ l’assenza che lo fa. Tocca tornare come i ragazzini poveri sotto i bombardamenti di Vicenza in Il cielo è rosso di Giuseppe Berto. Tocca che le antologie scolastiche ricordino che tutti i grandi scrittori italiani sono partiti dai paesi, dalla provincia. Ecco, noi dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, da dove siamo campioni. Non voglio usare la ghigliottina, che resta un gioiello perfetto; la Vedova, inventata per liberare gli uomini dalle antiche schiavitù. Eppure, simbolicamente, essa è l’oggetto più attuale. Almeno per tagliare la testa ai fatui diritti e ripristinare i doveri.

Nicola Porro su omicidio Willy Monteiro: "La cugina ha strumentalizzato la morte del ragazzo". Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. La cugina di Willy Monteiro, 21enne ucciso in una rissa a Colleferro, ha strumentalizzato la morte del ragazzo. A pensarla così è il giornalista Nicola Porro in riferimento a una lettera scritta dalla donna sul Corriere della Sera. Il passaggio in questione è quello in cui la cugina di Willy, capoverdiana, parla di una trasmissione sull'integrazione, Nonsolonero, da lei condotta su Rai 2 per sei anni. Poi nel 1994 col governo Belrusconi il programma viene tagliato. Nell'articolo sul Corriere la donna scrive: "Fu la nostra morte mediatica. Tutto il lavoro svolto in quegli anni per contrastare l'immagine negativa dell'immigrazione, venne cancellato con un semplice no. Gli immigrati ritornarono come prima solo nelle pagine di cronaca scandalistica e di cronaca nera.  Oggi mi chiedo, e la domanda la rivolgo al primo ministro Conte: cosa succederà dopo il funerale di Willy? Dopo che le luci dei media si saranno spente sul caso? Ci aspettiamo una pena esemplare affinché un crimine simile non possa mai più accadere. Ci aspettiamo che il governo investa nelle politiche dell'integrazione, coinvolgendo nella programmazione i soggetti interessati e prima di tutti i figli degli immigrati". Secondo Porro, quindi, lei lega la morte del ragazzo alla presenza di un nuovo clima, in cui si è più intolleranti nei confronti delle persone immigrate. "Noi stiamo parlando di delinquenti, ora in galera, che hanno già avuto otto denunce per aver picchiato e spacciato, per aver fatto cose identiche a quelle fatte a Willy anche in passato. Ma perché la signora di Nonsolonero deve strumentalizzare, come Zingaretti, una drammatica vicenda di cronaca. E' uno sfregio a un bravo ragazzo, ora morto. E' una cosa disgustosa", ha concluso Porro.

La furia è cieca. Giulia Carcasi il 13 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Per favore, sforziamoci di non usare terminologie improprie che, involontariamente, nobilitano l’ignobile. La parola “cultura” prevede consapevolezza di sé e del mondo, crescita morale e spirituale, una ricchezza che non si conta in soldi. Un tempo la cultura era l’unico modo di elevarsi socialmente. Chiunque abbia ucciso Willy non è “figlio della cultura razzista”, né della “cultura di Gomorra”, di Suburra, dei trapper, perché non c’è cultura nel razzismo, in Gomorra, in Suburra, nei trapper. Chiunque abbia ucciso Willy è figlio dell’assenza di cultura, è figlio di culturismi e di false ideologie, dell’idolatria del consumo e dello sballo. Se vogliamo togliere potere all’ignobiltà, dobbiamo smettere di abbinarla alla parola “cultura”. Nessuno chiami “arti marziali” i gesti bestiali con cui Willy è stato ucciso. Nessun’arte, nemmeno quella marziale, prevede di assalire in branco un ragazzino e saltare sul suo corpo inerte. Secondo la mitologia, Marte, dio della guerra, nell’essere allevato, era stato prima istruito nella danza e poi nell’uso delle armi: essere fluidi nel movimento era indispensabile nella battaglia. Confucio ammoniva: “Mai dare una spada a un uomo che non sa danzare”. Oggi quella massima non suona più come un suggerimento tecnico, ma come un avvertimento. Aver appreso la gentilezza dei gesti ci permette di conservare tratti umani anche in guerra; ci fa rispettare l’etica del combattimento; ci impedisce di violare la dignità dell’avversario, mantenendo anche la nostra; ci preserva lo sguardo. Non a caso si dice sempre che la furia è cieca: nasce dal buio e lo alimenta. Nelle palestre si praticano sport che trasformano i corpi in vere e proprie armi. Non sarebbe opportuno verificare la professionalità, la personalità e lo stato psichico sia di chi insegna sia di chi impara queste discipline?

Alcuni indagati per l’omicidio di Willy sostengono che, al momento della rissa, si trovavano vicino al cimitero a consumare un rapporto sessuale con ragazze delle quali non ricordano il nome. L’impressione che ne deriva è quella di un mondo in cui fare sesso o palestra è la stessa cosa e si va alla ricerca spasmodica dello sfogo. Ci si svuota al punto che non resta nulla dentro: rivestiti da bicipiti, esistono vuoti viventi.

Willy e gli orrori del branco. Lidia Marassi il 14 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Willy era un ragazzo di 21 anni ed è stato ucciso pochi giorni fa, massacrato di botte, a Colleferro. A seguito dell’accaduto si è detto tanto circa la dinamica e le motivazioni che avrebbero spinto i suoi aggressori a commettere una simile brutalità. Molte figure di spicco dell’opinione pubblica, così come diverse testate giornalistiche, il cui compito ci si aspetterebbe essere quello di indirizzare i cittadini verso una più piena comprensione di un evento così violento, hanno tentato di trovare una spiegazione comprensibile e forse eccessivamente semplicistica dei fatti. E così si è sentita dare la colpa all’MMA (le arti marziali praticate dagli aggressori), al carattere difficile di singole “mele marce”, alla gioventù allo sbaraglio ed altri poco stratificati perbenismi. Alle accuse di chi sosteneva che i ragazzi coinvolti nell’omicidio fossero vicini ad ambienti politici di ultradestra, si è risposto sottolineando come, a conti fatti, non si trattasse di giovani concretamente coinvolti in politica. Allo stesso modo si è negata la matrice razziale dell’omicidio, non essendoci state motivazioni esplicitamente xenofobe. La mancanza di dichiarati intenti ideologici sarebbe pertanto sufficiente ad escludere un’aggressione legata a fanatismo politico, cosicché sui giornali si è letto di un ragazzo morto in seguito ad un pestaggio. Eppure Willy non è morto, è stato ucciso. Le successive dichiarazioni dei familiari dei suoi aguzzini, per i quali la vittima “era solo un immigrato”, non sono considerazioni neutrali, ma di colore politico e che vanno al di là della diretta vicinanza ad un simbolo di partito. La violenza contro i più deboli, la stigmatizzazione e la giustificazione implicita del prevaricare su chi è diverso o in minoranza, sono comportamenti che portano una componente fanatica e più o meno esplicitamente politicizzata, indipendentemente da intenti dichiarati. Eppure si è è scelto di soffermarsi su altro, ad esempio sulla situazione delle periferie, facendo leva sul disagio giovanile che in queste si radica, scaricando le colpe di quanto accaduto su una generazione cresciuta all’interno di un sistema compromesso (e pur tuttavia esonerando il contesto sociale dalla colpa di aver abbandonato socialmente e culturalmente i suoi abitanti). Che determinate realtà siano luoghi di disagio è un fatto noto, ma sostenere che siano sufficienti a generare situazioni come quella che ha portato all’omicidio di Willy è quantomeno irrispettoso, oltre che irragionevole. Non si sarebbe dovuto tanto sottolineare il contesto da cui provenivano i quattro aggressori, ma piuttosto incidere su come la violenza di cui si sono macchiati fosse conseguenza di un ormai introiettato linguaggio e una forma mentis discriminatoria. Parlare dell’accaduto sottostimando o omettendo l’elemento che concerne il colore della pelle della vittima, come se si trattasse di un dettaglio irrilevante ai fini della vicenda, significa voler dissimulare la sovrastruttura sociale che determina il verificarsi di simili atrocità. La dinamica di fondo è invece esplicitamente colpevole di quello che è a tutti gli effetti un crimine razzista, che segue una precisa logica sistemica di cui in Italia ancora oggi si ha paura di parlare apertamente e che si sceglie consapevolmente di mistificare con la retorica del caso isolato. Alcuni cittadini sono percepiti come subalterni (per etnia, orientamento sessuale, genere, disabilità …) e questa alterità, che genera repressione, viene categoricamente negata, cercando di soffermarsi piuttosto su altre componenti, che in questo caso sono state le arti marziali o la realtà periferica in cui l’omicidio si è consumato. Il razzismo viene riconosciuto solo a chi si dichiara apertamente razzista, così come il fascismo – che si relega ad un’epoca storica fortunatamente trascorsa – apparterrebbe unicamente ai nostalgici del regime. Nel nostro Paese non è bene essere razzisti, ma è legittimo affermare  “prima gli italiani”, assumendo l’atteggiamento di chi cerca di definire le proprie priorità, senza chiamare le cose col proprio nome o, ancor peggio, sostenendo la dinamicità del processo storico che ne avrebbe cancellato ogni traccia. Invece in Italia esiste ancora il fascismo, esiste il razzismo e esiste una rappresentanza politica che su questo, in modo non esplicito, fa consenso. Volerlo negare anche quando accadono eventi come questo non è un atteggiamento che mira al superamento di una struttura discriminatoria che si dice – ma solo a parole – di voler abbattere. Si è scelto di non parlare della vittima, ma c’è anche chi ha scelto di farlo, sottolineando come si trattasse effettivamente di un ragazzo di origini capoverdiane, ma con cittadinanza italiana. Ci si domanda allora se la nostra commozione ed il nostro sgomento sarebbero stati i medesimi se si fosse trattato di un giovane appena giunto nel nostro Paese che, forse, non è poi un luogo così accogliente come si illude di essere da qualche giorno a questa parte.

Mirella Serri per La Stampa il 17 settembre 2020. «Verrà il momento della giustizia che ha già cominciato il suo corso. Ma verrà anche il momento della riflessione su quello che succede nella nostra città, nel nostro territorio Abbiamo gli anticorpi per reagire, per pensare un altro modello di società? Pensiamo di sì e lavoriamo e lavoreremo per questo. Dipende da ognuno di noi e dal nostro impegno": così scrive l'Anpi di Colleferro. Hanno perfettamente ragione gli iscritti all'associazione dei partigiani del luogo dove ha perso la vita il generoso e coraggioso Willy Monteiro Duarte. Bisogna sviluppare gli anticorpi politici e culturali. Ma forse è necessario iniettarli in una direzione precisa: bisogna cioè lavorare contro il revival storico della violenza fascista intesa come sistema educativo, l'ultimo escamotage dei gruppi criminali per conquistare i più giovani con la dimostrazione di autorità e di potere. Da qualche anno nella vasta zona alle spalle dei Castelli Romani, Artena, Colleferro, Lariano, fino a Giulianello e Cori, in provincia di Latina è in atto una vera e propria pedagogia della violenza. A giugno è stato eseguito dai carabinieri l'arresto dei componenti di un gruppo criminale attivo a Cisterna di Latina. Ne faceva parte il padre di Desirée Mariottini, Gianluca Zuncheddu. Una storia tragica quella di Desirée, la 16enne trovata senza vita per un mix di farmaci e droga, dopo esser stata ripetutamente stuprata in uno squallido ritrovo per drogati del quartiere San Lorenzo di Roma il 19 novembre 2018. Zuncheddu, fino a poco prima delle manette, sulla sua pagina facebook continuava a dirsi tremendamente addolorato e a evocare il sacrificio della figlia che dichiarava di amare moltissimo. Questa gang, come emerso dalle indagini dei carabinieri, era dedita non solo allo smercio di sostanze stupefacenti, soprattutto di cocaina, ma aveva come specializzazione il recupero crediti a carattere estorsivo. Guarda caso è proprio la stessa attività a cui si sono applicati con la loro eccellenza nelle arti marziali, i fratelli Bianchi. Questi gruppi mettono in atto il loro sporco "lavoro" alzando il tiro della violenza in maniera esemplare, con un'ostentazione di forza e di virilismo fascista e machista: quando sono stati convocati sulla piazza di Colleferro per pestare Willy, i Bianchi sono arrivati in pochi minuti ma stavano "scopando" al cimitero con delle ragazze; Zuncheddu quando era stato informato che Desirèe si drogava, ha cercato di educarla insieme alla mamma con le maniere forti tanto da ricevere un'ingiunzione di polizia che gli vietava di avvicinarsi alla casa. Con l'esibizione muscolare, con la brutale sopraffazione gli esponenti più in vista di questi gruppi hanno acquisito fama, notorietà e rispetto soprattutto presso i ragazzi. Per comandare sul territorio il violento deve essere sempre un passo più avanti del proprio antagonista. Così è capitato con Willy che andava vessato per essersi permesso di infilarsi in una storia che non gli apparteneva. La punizione doveva essere esemplare e lo è stata fino alla morte. Questo modello culturale della violenza come esempio "didattico" non nasce con "Gomorra" di Roberto Saviano. Non è infatti nuovo nella Penisola ma affonda le radici nella nostra storia e venne impiegato in maniera sistematica dal fascismo sin dagli esordi. Così, per esempio, quando Giuseppe Bottai guidò la colonna dei fascisti marsicani a Roma, il 28 ottobre 1922, fu messo in guardia: era meglio non passare per il quartiere comunista di San Lorenzo. Di fronte agli spari provenienti da alcuni stabili di quel covo rosso il futuro gerarca rispose a schioppettate. Questo scontro fu voluto da Bottai come un monito pedagogico: doveva valere sia per i suoi giovani accoliti sia per l'Italia intera. Vennero uccisi 13 comunisti, alcuni dei quali, esemplarmente, furono buttati giù dalle finestre. In territori e cittadine come Latina e il loro vasto hinterland questo insegnamento ha attecchito anche perché per decenni vi hanno avuto ampio spazio Casa Pound e Forza Nuova. Solo nel 2017 il parco comunale della cittadina laziale dedicato ad Arnaldo Mussolini, detto dagli abitanti semplicemente parco Mussolini, ha cambiato nome per diventare Parco Falcone e Borsellino. L'Anpi ha colto nel segno quando sollecita modelli culturali alternativi e l'immissione di anticorpi in questa pedagogia malata che viene da lontano e che coinvolge tutta la Penisola.

Willy Duarte, perché gli assassini non sono di destra: che tristezza usare un crimine per propaganda. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il10 settembre 2020.  E invece il Male non è politica, ci sentiamo stupidi solo a scriverlo, ma la stupidità è proprio ciò a cui vuole inchiodarci il mainstream. Per cui ogni evento viene letto attraverso i pochi pseudoconcetti chic in voga agli aperitivi di redazione: sessismo, cambiamento climatico, antifascismo. Un gioco delle tre carte permanente, applicato anche alla cronaca nerissima, alle secrezioni più oscure dell'animo umano. Anche alla storiaccia di Willy Montiero, massacrato a calci e pugni da quattro nullità avariate, perché voleva difendere un amico. Testimonianza, se c'è una, della cecità del Male, che probabilmente è il vero mistero di questo strano bipede implume che noi stessi siamo. Ma non si vede questo, nei quattro accusati dell'omicidio di Willy, non si scorge la possibilità originaria del Male, il tarlo che può sempre mangiarsi il piccolo e dannato legno storto dell'uomo. No, si annota che esercitano l'Mma, arte marziale estrema ma non pratica criminale, e se ne invoca la messa al bando, come ha fatto il direttore de La Stampa Massimo Giannini, si imbastisce un romanzone scadente sui biechi istinti machisti e reazionari che albergano in ogni frequentatore di palestre, fino ad arrivare all'obiettivo grosso, quello a cui si mirava da subito. Ma certo, al "fascismo". I picchiatori di Willy sono fascisti. 

Da cosa è dimostrato? Dal fatto che sono picchiatori. È il sofisma del politicamente corretto, in cui premessa e conclusione si scambiano continuamente di posto, al servizio del vero volto del giornalismo autonominatosi "obiettivo": la propaganda. Lo ha svolto perfettamente lo psicanalista Massimo Recalcati, già organizzatore di scuole politiche per il Partito Democratico, che sempre su La Stampa ha (stra)parlato di «esaltazione paramilitare e fascistoide del corpo forte e vigoroso», allo stesso tempo piegando il dramma di Willy ai propri tic ideologici e attribuendo ai suoi carnefici un retroterra culturale, per quanto perverso, inesistente. Non ci sono idee, nemmeno cattive, c'è solo la naturalità sconcertante del Male, in quell'assassinio casualmente perseguito. Andrebbe ricordato anche a Zingaretti e al gotha democratico, visto che l'account ufficiale dei deputati Pd non si è trattenuto dal twittare su «qualche rigurgito fascista» che «crea dei mostri spaventosi, come quelli che hanno ammazzato #WillyMonteiro», con un'allusione che edulcora il mostro nell'avversario politico, nel fantasma che si aggira alle proprie assemblee di partito.  Mentre nel caso di Rula Jebreal, che attribuisce l'omicidio selvaggio di Willy all'«indottrinamento fascista» di cui sarebbero responsabili «i due leader di destra», probabilmente non c'è nulla da fare, siamo nel campo dell'ossessione monomaniacale. Nella competizione del grottesco si piazza assai bene anche Repubblica, che ieri ci dava a tutta pagina la seguente informazione: «Mali, il clima ferito sta armando la jihad africana». Bizzarro, noi sempliciotti credevamo che ad armarla fosse quella versione violenta e terrorista dell'Islam che è una delle facce del Male contemporaneo. No, la Bibbia del progressista ci spiega seriamente che i nordafricani si arruolano nella guerra santa a causa delle «devastanti conseguenze» delle «emissioni dei gas a effetto serra», «prima tra tutte la siccità». Quando asporti forzatamente la variabile esistenziale del Male, il tragicomico è dietro l'angolo. Ha fatto forse ancora peggio la centrale globale del politicamente corretto, l'Onu, quando per bocca del suo segretario Antonio Guterres ha esibito la tesi per cui «la pandemia causata dal Covid-19» avrebbe dimostrato i danni di «millenni di patriarcato». Scemi noi, che legavamo la comparsa del morbo a quel meccanismo indifferente e dannifero che è essenzialmente la Natura. Buttarla in politica, o in sociologia, o addirittura in ecologia, è la scorciatoia del politicamente corretto per rimuovere quello che non è in grado di ammettere e pensare, l'esistenza del Male assoluto, puro, ingiustificato. Un'ipocrisia di norma sgradevole, intollerabile quando di mezzo c'è il cadavere di un ventunenne.

Willy Monteiro, l'aggressore Francesco Belleggia simpatizzava per Giuseppe Conte, Matteo Renzi e Luigi Di Maio. Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Francesco Belleggia, uno dei quattro aggressori di Willy Monteiro e indicato dagli inquirenti come autore del calcio che avrebbe ucciso il giovane, non era affatto un estremista di destra. Una brutta notizia per i buonisti come Rula Jebreal che accusavano Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Sul profilo Facebook del ragazzo - come riportato dal Secolo d'Italia - ci sono "mi piace" alle pagine di Matteo Renzi, Giuseppe Conte e Papa Francesco, l’Unicef e alcune associazioni Lgbtq. Ma soprattutto grande entusiasmo per il M5S, Luigi Di Maio e Virginia Raggi. Su Belleggia c'è anche un altro mistero. Se infatti i fratelli Marco e Gabriele Bianchi e di Mario Pincarelli sono in carcere con l'accusa di aver cagionato la morte del 21enne di Colleferro, per lui sono stati disposti invece gli arresti domiciliari. Una decisione che pare parecchio strana, soprattutto dopo aver sentito i due supertestimoni, amici del gruppo dei quattro arrestati, che al Corriere hanno dato una versione ben precisa dei fatti. Versione che vede Belleggia sferrare l'ultimo calcio da karateca.

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 settembre 2020. Caro Dago, fermo restando l’orrore di quel massacro di un italiano di pelle nera ucciso a partire da una rissa determinata dall’apprezzamento volgare rivolto a una ragazza, confesso che trovo assolutamente fuori luogo il riferimento al “fascismo” nel senso che i due bruti di Colleferro - i “gemelli Bianchi” - ne sarebbero l’odierna incarnazione. Appioppare a questi due uomini/fogna la qualifica di “fascisti” non solo è da imbecilli, ma non aiuta minimamente a spiegare l’atroce realtà che i due rappresentano. Credere che l’anima del fascismo consistesse nell’avventarsi in quattro contro un ragazzo inanime a terra è una bestialità grande così. Furono fascisti Giuseppe Bottai, Mario Sironi, il giovane Giuseppe Pagano poi morto in un lager nazi, il giovane Mino Maccari, il giovane Romano Bilenchi, l’architetto Luigi Moretti (uno dei più grandi architetti del Novecento). Trovate dei punti in comune tra questi personaggi e i due bruti di Colleferro? Di certo vennero convogliate nelle prime squadre fasciste la maniera di vita degli Arditi che avevano combattuto valorosamente durante la Prima guerra e non ne volevano sapere di darsi a una vita sedentaria. Era gente che aveva sfidato la morte e voleva continuare a sfidarla nell’affrontare violentemente gli avversari, i quali a loro volta si facevano forti di quello che era accaduto nella Russia bolscevica, dove di maniere gentili ce ne erano state poche. Era il dopoguerra, bellezza, e continuava l’eco delle scariche di mitragliatrici e degli scoppi di bombe a mano. Certo che è stato così e che senza l’Arditismo non te lo spieghi il successo del fascismo. Solo che tra gli Arditi c’era un Giuseppe Bottai che esordì come poeta e un criminale comune come Albino Volpi, futuro assassino di Giacomo Matteotti. Ma che cosa tutto questo ha minimamente a che vedere con i due uomini/fogna di Colleferro? Non che io voglia giudicare da un paio di fotografie, ma mi pare che in loro l’esaltazione della violenza e anzi la religione della violenza fosse l’elemento costitutivo della loro identità. E’ quel che si chiama una sottocultura, i cui indizi sono numerosissimi nella nostra democrazia di massa. Ahimè numerosissimi. Ragazzi che crescono e si avviano e reagiscono nella vita quotidiana come fossero allo stato brado. Succedono dei parapiglia a ogni uscita dalle discoteche, e questo ogni ora che Dio manda in terra. Solo che questo non c’entra nulla con l’assassinio di Giacomo Matteotti, al quale seguirono per rappresaglia otto fascisti assassinati. Il fascismo - ho detto il fascismo e non la sua caricatura - non c’entra niente ma proprio niente con la tragedia di Colleferro.

Il caso Willy Monteiro. Luca Bizzarri linciato per aver osato parlare di “presunzione d’innocenza”. Angela Azzaro su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Offese, insulti, cattiverie, toni minacciosi: sono le reazioni che hanno travolto l’attore Luca Bizzarri per aver scritto un post garantista. «Un assassino – si legge sul suo profilo Facebook – è “presunto” fino a che un tribunale dice che è un assassino. Mi chiedo come un Paese che fatica, o più spesso rinuncia, a comprendere questo concetto, possa crescere e migliorare. Un popolo che vuol farsi giustizia da sé è un popolo senza giustizia. È un popolo, appunto, di picchiatori». Non certo una difesa di chi ha pestato e ucciso il povero Willy, non certo mancanza di rispetto per i famigliari della vittima, non certo una non condivisione del dolore che in tanti stiamo provando davanti agli occhi di quel giovane uomo che non c’è più. No, Luca Bizzarri ha solo ricordato che alla violenza si risponde con il diritto, non con i processi sommari, con i linciaggi, con le minacce di morte. Un popolo di picchiatori non è un Paese che sconfigge la violenza, è un Paese che ama la violenza. Concetti che fino a qualche tempo fa erano considerati scontati, quasi banali. Non era necessario ribadirli. Oggi invece se qualcuno lo dice diventa, «imbecille», «stronzo», «finito». Più di duemila messaggi sono stati scritti sotto il post di Luca, quello di Luca e Paolo, delle Iene e della presidenza, affidatagli nel 2017 dalla Regione Liguria, della Fondazione Palazzo Ducale di Genova. Duemila messaggi in cui è difficile trovare parole ragionate, di buon senso, parole che accettino lo scambio. L’utente di Facebook ama insultare, urlare, ha la verità in tasca. E si crede il giudice supremo che decide sulla verità dei fatti, distribuisce sentenze, chiede la pena di morte. A tal punto che se uno osa rivendicare quelli che sono principi costituzionali viene travolto a sua volta, come se fosse lui l’assassino. Qualcuno ci prova a dire le cose in maniera pacata, a sottolineare concetti più elaborati. Marina, per esempio, scrive: «Ricordiamoci che il carcere ha una funzione rieducativa, come nel ‘700 Beccaria sosteneva. Quindi il famoso “buttiamo la chiave, e lasciamoli marcire lì” la trovo una atroce sintesi di quello che non dovrebbe accadere in un paese normale e civile!!!». Ma è una delle poche, un caso raro. Per la maggior parte di coloro che intervengono parlare di presunzione di non colpevolezza non rappresenta il cuore dello Stato di diritto, è un orpello di cui liberarsi, è un di più che intralcia, non esalta, la giustizia. E andando avanti, viene lo sconforto. Perché emerge l’ignoranza di tutto ciò che sono i principi costituzionali. Ma forse la cosa che fa più male, non sono queste derive, ma chi accosta il diritto alla mancanza di pietà. Chi pensa che Bizzarri volesse giustificare l’accaduto, passare sopra l’uccisione di Willy. Scrive un’altra signora: «Mi sembra il suo un eccessivo garantismo, il caso in cui il carnefice diventa vittima… non si può giustificare il carnefice». Non è così, nessuna giustificazione, ma la consapevolezza che queste reazioni non costruiscono una società migliore, ma una cultura fondata sulla vendetta e sulla violenza. Una miccia che va disinnescata. Ma ci vuole coraggio. E Bizzarri è uno dei pochi che, avendo tanto consenso, lo ha avuto. Ha osato dire quello che molti pensano, ma hanno paura a rendere pubblico. Sì, paura. Ormai chi tenta di mettere un argine alla vendetta e al processo mediatico, viene travolto dagli insulti. Viene in mente il caso tremendo accaduto a Roma: l’uccisione di Luca Varani in un appartamento a Colli Aniene. Manuel Foffo è stato condannato a trent’anni con sentenza definitiva, Marco Prato si è suicidato in carcere. Foffo, poco prima di quel terribile episodio, era uno che sui social non mancava di insultare o augurare la morte a chi sbagliava. Marco Prato non ha retto alla lapidazione mediatica e si è tolto la vita in carcere. Un prima e un dopo l’omicidio che ci dicono una cosa chiara: la violenza non può essere una risposta alla violenza. Un popolo di picchiatori non rende questa società migliore, non aiuta a vincere il sopruso, a creare modelli diversi per gli uomini e le donne che ci vivono. Che c’è di male a fare questo discorso? In che cosa consisterebbe la sottovalutazione dei fatti? Semmai è una loro comprensione al livello più alto, il tentativo di preservare quanto di meglio abbiamo costruito negli ultimi secoli: la nostra civiltà giuridica. Luca ha scritto questo e lo hanno massacrato. Ma davvero pensate che non sia grave?

Piero Sansonetti per ilriformista.it il 9 settembre 2020. Cinquant’anni fa Marco Bellocchio diresse un film fantastico, che aveva tra i suoi attori Gianmaria Volontè, intitolato ”Sbatti il mostro in prima pagina”. Descriveva alcuni meccanismi del giornalismo che in questo mezzo secolo non sono cambiati molto. Il bisogno del male assoluto, più male di ogni male, più assoluto di ogni assoluto. È un meccanismo abbastanza semplice: si tratta di estrarre da un fatto sanguinoso di cronaca tutti gli elementi possibili della malvagità. Attenendosi talvolta ai fatti e molto spesso astraendosi dai fatti, o esagerandoli, o mitizzandoli, o romanzandoli. L’effetto è straordinario sul piano psicologico, garantisce il lettore sulla sua diversità dal malvagio, e per di più ha un risvolto – di tipo commerciale – molto apprezzato dai direttori e dagli elettori. Si vendono molte copie. Tutto si fonda sull’idea che la società è divisa in due categorie: le persone perbene, che sono maggioranza e sono i consumatori – anche di giornali o Tv, ora di social – e un drappello di infami, da perseguire, frustare e indicare al pubblico ludibrio. È successo così anche stavolta. Coi fratelli Bianchi. Sappiamo pochissimo di loro, conosciamo solo le fotografie dei loro corpi perfetti e muscolosi e alcuni loro sguardi truci. Spesso succede così: si ricorre all’immagine per dimostrare la malvagità e la colpa. Andando molto oltre Lombroso e suoi studi reazionari. Sappiamo pochissimo anche di cosa sia successo sabato notte a Colleferro, quando è scoppiata una rissa ed è stato ucciso, a pugni e probabilmente con un calcio in testa, un ragazzo di 21 anni, Willy, originario di Capo Verde, colpevole assolutamente di niente e che, a quanto si è capito, è intervenuto nella lotta tra bulli solo per difendere un amico che era stato messo in mezzo. Sappiamo pochissimo ma non ci interessa sapere. I giornalisti, e i giornali, e le tv, e tanto più i social, sono poco interessati a conoscere i fatti, vogliono solo conoscere e descrivere la profondità del male. Scrivono che il pestaggio è durato venti minuti – circostanza francamente alquanto inverosimile – scrivono che i due Bianchi avrebbero commentato il delitto con frasi razziste – e questo al momento non risulta – si indignano perché uno di loro, recentemente, aveva esaltato in tv il mestiere del fruttivendolo. Dicono che se fosse stato una persona seria non sarebbe stato così ipocrita da difendere i fruttivendoli, perchè solo le persone per bene fanno i fruttivendoli. Al momento noi non sappiamo con sicurezza nemmeno se siano effettivamente i fratelli Bianchi e i loro tre amici i responsabili dell’omicidio. Sappiamo che c’è un omicidio, che un povero ragazzo ha perso la vita giovanissimo, che la sua famiglia è distrutta e che i magistrati stanno cercando di ricostruire i fatti e trovare i colpevoli, e anche di capire qual è la loro colpa – omicidio colposo? preterintenzionale? volontario – e che hanno precauzionalmente arrestato quattro persone sospettate. Punto. Sospettate non vuol dire colpevoli. Loro, al momento, si proclamano innocenti. Vedremo come si svilupperanno le indagini, cosa mostrano i filmati delle telecamere, quali sono le versioni dei testimoni e se sono coincidenti o – come quasi sempre accade nei casi di rissa – in contrasto l’una con l’altra. Poi, se ci sarà, assisteremo al processo. Intanto possiamo dire una sola cosa della quale siamo sicuri: i mostri non esistono. Gli esseri umani sono essere umani, tutti e tutti nello stesso modo. Colpevoli o innocenti, cinici o sentimentali, generosi o avari, compassionevoli o feroci, ladri o onesti, violenti o miti. La ricerca del mostro è la più animalesca delle attività umane. E purtroppo riguarda una parte molto vasta della nostra intellettualità e dell’apparato della comunicazione.

P.S. Vorrei riferirvi una storia un po’ divertente che mi ha raccontato il mio amico Oreste Scalzone. Sapete chi è? Uno dei fondatori, a fine anni sessanta, di Potere Operaio, poi leader dell’Autonomia, condannato dai tribunali italiani per vari reati, soprattutto associativi, fuggito in Francia sotto la protezione di Mitterrand. Mi ha raccontato di un corteo che attraversò le vie di Parigi, mi pare, nell’estate del 2002. Avevano arrestato uno degli esuli italiani in Francia, Paolo Persichetti (ex militante Br) e lo avevano estradato in Italia (Mitterrand non c’era più). Negli stessi giorni era stato liberato dalla prigione un vecchio collaborazionista (coi nazisti) novantenne, un certo Maurice Papon. Doveva scontare una condanna 10 anni e ne aveva passati in carcere solo tre, ma era molto malato. Il corteo ritmava uno slogan facile facile: “Persichetti libero, Papon in galera”. Scalzone era stato incaricato di tenere il comizio, a fine corteo. Prese la parola: «Dirò una cosa che a voi non piace, ma io ne sono convinto e la dico: ho passato la vita a chiedere che le carceri siano rase al suolo, non chiederò mai che qualcuno vada in galera. Neanche Papon. Per me gli esseri umani sono tutti esseri umani». E concluse gridando, col pugno chiuso: «Persichetti libero, Persichetti libero…». Prese un grande applauso. Si stupì. Lo stupore durò pochissimo. Il corteo ripartì e gli stessi che lo avevano applaudito iniziarono a gridare, come prima: «Persichetti libero, Papon in galera». Non era servito a niente il suo discorso. Come, a occhio, non serve a niente questo articolo.

Gli assassini di Willy sono esseri umani, così come chi ha provocato la Shoah. Emanuele Fiano su Il Riformista l'11 Settembre 2020. Caro Piero, caro direttore, non è vero, come tu scrivi in conclusione del tuo articolo, che il tuo contributo del 9 Settembre scorso non serva a niente; Io trovo invece decisivo che tu affermi che chi ha ucciso a pugni e calci Willy, non sia definito mostro, allontanandolo dunque dalla nostra natura umana, esattamente come nella logica dell’esorcismo che vuole farci espellere a forza il diabolico inquilino estraneo che ci possiede. Non c’è nessun inquilino diabolico. Quelli che hanno ucciso a calci Willy non erano diabolici, erano umani. Ragazzi che ogni notte percorrono le nostre strade, frequentano i nostri bar e le nostre birrerie, frequentano i nostri stadi, scrivono sui nostri social. È esattamente quello che penso, mutatis mutandis, quando guardo al più grande crimine del secolo scorso, la Shoah, o anche ai grandi crimini del comunismo o ad altri terrificanti crimini contro l’umanità. Devo dire che è esattamente l’impressione che si ricava ascoltando il banalissimo male che emerge dai tentativi di giustificazione di Eichmann al processo in cui era imputato a Gerusalemme nel 1961, oppure leggendo la terrificante confessione di Franz Stangl, comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, dove organizzò e sovraintendette all’eliminazione di circa 1,5 milioni di persone, per circa il 99% dei casi gasate all’arrivo in quei campi di pura eliminazione. Stangl racconta nello straordinario libro-intervista di Ghitta Sereny che si era occupato molto dei fiori con cui circondare le baracche dove alloggiavano le SS, e dell’amore che sprigionava in quelle poche licenze in cui tornava a casa a visitare le figlie e la moglie. La famiglia Stangl per un periodo alloggiò a poca distanza da Sobibor, in un area dove le testimonianze dicono che l’aria fosse pregna del sapore dolciastro e terribile dei corpi bruciati a centinaia di migliaia. Qualcosa di non umanamente comprensibile, ma pur sempre umano come comportamento. Ho letto che i testimoni dicono che a Colleferro i colpevoli, abbiano infierito con i calci su quel piccolo corpo ormai senza reazione. Qualcosa che definiremmo disumano, ma che dobbiamo con terribile sincerità chiamare umano, se vogliamo capire. Sia chiaro, non sto paragonando cose incomparabili, come Auschwitz e Colleferro, ma uso l’iperbole di un paragone cosi smisurato perché voglio indagare la banalità del male e della violenza a qualsiasi misura esso si verifichi, proprio contro l’ipotesi diabolica dell’origine del male. Certo mi preme articolare una differenziazione tra la violenza esercitata da un singolo individuo e quella organizzata a monte da uno stato, o da un regime, come ancora ai nostri giorni vediamo purtroppo quotidianamente, se appena alziamo lo sguardo, e ci interroghiamo su cosa stia accadendo in Bielorussia, o in Turchia, o a Hong Kong solo per fare alcuni esempi. Ho l’impressione che si imponga a tutti noi una grande riflessione sulla violenza, direttore, e che l’interpretazione diabolica del male, allontani da noi questa riflessione. Sulla violenza dunque, non sulla sua natura diabolica o mostruosa, ma anzi sulla sua costante umana, siamo chiamati a confrontarci. Ovviamente, anche se in quest’ottica, il dibattito non può certo, in alcun modo, sottacere un giudizio sullo stato della violenza nel mondo. Ho l’impressione, come accennato, che un’innegabile recrudescenza di forme di violenza vada di pari passo con i sintomi di un peggioramento grave dello stato delle democrazie liberali o dei regimi, in alcuni luoghi del mondo, e che in altri, dove indubbiamente il sistema democratico, pur con tutti i suoi difetti, tiene, altri innegabili problemi sociali siano il miglior terreno di coltura possibile per la violenza individuale come nel caso di Colleferro. Non c’è dubbio, che la violenza possa essere meglio coltivata dove mancano le strutture sociali, dove mancano strutture di aggregazione, dove cresce la disoccupazione, dove circola troppa droga, quando la formazione scolastica non è buona o non si conclude, dove dilaga la discriminazione o la marginalizzazione sociale e molte altre cose. Queste non sono certo giustificazioni, sono la descrizione di un possibile contesto, non parlo qui nello specifico di Colleferro. La violenza è insita nella natura umana; è lo Stato democratico, la forma sociale alla quale abbiamo affidato l’esercizio possibile della violenza come mezzo per la difesa della libertà di ognuno. Come diceva Max Weber all’inizio del secolo scorso, lo Stato è «un’entità che reclama il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica». Ecco, la demolizione progressiva dell’immagine diffusa che si dà della struttura dello Stato, delle sue istituzioni democratiche, del suo scopo, le relazione di guerra guerreggiata che continuamente si sviluppa tra le forze politiche avversarie in ogni paese, ecco questa denigrazione continua della miglior forma costruita nella storia per la convivenza sociale, questa mi pare la condizione entro cui si stanno sviluppando le nuove forme, o la nuova intensità della violenza. Non c’è nessun mostro, la storia siamo noi.

Gli assassini di Willy devono essere puniti da un giudice e non dal tribunale del popolo. Paolo Delgado su Il Dubbio il 10 Settembre 2020. Gli assassini di Willy devono essere puniti. Ma a farlo deve essere una giustizia capace di pesare con attenzione fatti e responsabilità individuali, non influenzata da un’opinione pubblica furente che trova nei social un potentissimo megafono. Ci sono delitti più orribili di altri. O almeno che suscitano maggior rabbia indignazione per la loro efferatezza, ferocia e stupidità. L’assassinio di Willy Monteiro a Colleferro è uno di quelli. Come l’atroce massacro del Circeo, che dopo 45 anni non è ancora stato dimenticato e segna ancora un spartiacque nella storia sociale e culturale di questo Paese. E’ normale che sia così, ed è anche giusto. Emozioni del genere, per quanto comprensibili e giustificate, non dovrebbero tuttavia assumere il comando e far velo a tutto il resto. Bisogna per esempio pesare le parole e aspettare che siano noti parecchi elementi oggi oscuri prima di azzardare, ad esempio, paragoni con il delitto del Circeo. Gli assassini di Willy devono essere puniti. Ma a farlo deve essere una giustizia capace di pesare con attenzione fatti e responsabilità individuali, non influenzata da un’opinione pubblica furente che trova nei social un potentissimo megafono e neppure da luoghi comuni e demonizzazioni o, peggio, da un paio di fotografie. In questi giorni, sui social, migliaia di persone hanno chiesto di ‘ buttare la chiave’. Come se il rispetto delle garanzie e del dettato costituzionale che finalizza la pena alla risocializzazione fosse una variabile dipendente dall’efferatezza del crimine invece che dal percorso di recupero e da una valutazione non vendicativa e non emotiva del delitto. Questa visione dei diritti e della natura della pena come variabili dipendenti è la regola, non l’eccezione. In questi giorni Cesare Battisti chiede appunto il rispetto dei suoi diritti sanciti per legge, la fine di un isolamento che non potrebbe superare i sei mesi e dura da un anno e mezzo, il potersi cucinare cibi adeguati al suo stato di salute. Nessuno se ne occupa perché, insomma, è pur sempre Cesare Battisti, diventato per una parte sostanziosa dell’opinione pubblica una delle tante personificazioni del male che i media si dilettano a costruire, rispetto alle quali diritti e persino la Carta si possono ignorare. La chiave, bisognerebbe dire forte e chiaro, non si butta mai. Non si butta per nessuno. La tentazione di rispondere alla richiesta di punizione esemplare lavorando sul capo d’accusa rischia di essere forte. Specialmente se uno dei primi quotidiani italiani strilla nel titolo che ‘ il pestaggio è durato 20 minuti’. Dovrebbe andare da sé che un pestaggio di 20 minuti non è plausibile neppure alla lontana e, nell’irrealistico caso, andrebbe incriminato per complicità l’intero paese. La differenza tra come si sono svolti i fatti, una rissa con feroce pestaggio durata una manciata di secondi, e lo strillo di Repubblica si misura in anni di galera: è quella che passa tra l’omicidio volontario e preterintenzionale. Dovrebbe essere una banalità anche affermare che non si sbatte mai il mostro in prima pagina, per ragioni di civiltà che prescindono dalla gravità del crimine. Anche qui, però, il rischio di viziare le indagini è concreto. Per due giorni abbiamo visto campeggiare le foto di due fratelli palestrati, accompagnate da articoli sensazionalistici e passaggi a effetto. In quella rissa qualcuno ha certamente tirato il calcio fatale. I quattro picchiatori coinvolti, almeno tre dei quali tra cui i fratelli Bianchi esperti in arti marziali, si accusano a vicenda. Sarebbe ingenuo pensare che la guerra lampo mediatica contro i due palestrati sbattuti in prima pagina non incida sulla valenza delle diverse deposizioni e non giochi a sfavore dei Bianchi. Inevitabilmente la tragica e tristissima vicenda ha innescato un vortice di sociologismi che non dicono nulla sulla vicenda di Colleferro ma raccontano moltissimo sul mondo in cui viviamo e sullo sguardo miope quando non apertamente fazioso degli opinion makers di turno. Qualcuno e l’è presa con le palestre, anche se le medesime sono frequentate da decine di migliaia di persone che non tirano calci omicidi, qualcun altro, molti altri per la verità, con ‘ il fascismo’, anche se non risulta alcuna appartenenza a formazioni di estrema destra dei quattro arrestati. Non importa. Il fascismo ha smesso da un pezzo di essere un’appartenenza politica. E’ diventato una specie di categoria antropologica che permette sillogismi a manetta: chi picchia è per ciò stesso fascista. Da cui deriva anche il sillogismo inverso. Chi si dichiara fascista è per ciò stesso picchiatore e carogna. Il paragone con la mattanza del Circeo è utile, più per le differenze che per le somiglianze tra i due casi. Nel 1975 tre giovani di estrema destra abituati a esercitare violenze efferate torturarono per una notte due ragazze, le stuprarono e poi cercarono a freddo di ucciderle entrambe, riuscendo a finire per caso solo una delle due, Rosaria Lopez mentre l’altra, Donatella Colasanti ne uscì miracolosamente viva. Il disprezzo per la vita umana era palese. La convinzione di una superiorità quasi razziale su due vittime femmine e ‘ borgatare’ facilmente intuibile. Il sadismo e la ferocia conclamati. Da quel che è per ora emerso, la vicenda di Colleferro ha tratti diversi. C’è la rissa tra ragazzi di due paesi diversi, c’è parecchio odioso bullismo, c’è la tracotanza dettata della superiorità fisica, c’è il culto discutibile per la prestanza ostentata, c’è la superficialità di chi picchia avvalendosi di quell’addestramento, forse senza rendersi conto delle possibili conseguenze. Forse c’è anche di più. Forse c’è davvero un accanimento che denota una ben maggiore efferatezza. Forse c’è una componente razziale che è difficile non sospettare ma che è tutt’altro che certa. Questo saranno le indagini e gli approfondimenti a dirlo. Non possono essere due foto e una raffica di articoli che cercano più l’effetto forte che la verità fredda. Solo che anche il giornalismo italiano è probabilmente, a propria volta, conseguenza di una temperie sociale e culturale che poi, certo, amplifica e porta alle estreme conseguenze ma che non determina.

E’ il bisogno diffuso di trovare il male assoluto, qualcuno di compiutamente perfido, di totalmente cattivo, con cui prendersela. Può essere Johnny lo Zingaro, un disadattato trasformato nell’ ‘ essenza del male’. Può essere Cesare Battisti, uno dei tantissimi che negli anni ‘ 70 fecero scelte sbagliate e omicide, elevato a simbolo del male, dunque privo anche dei diritti garantiti a tutti gli altri. Può essere il nemico politico, visto non come sostenitore di idee o ideologie opposte ma come un’etnia antropologicamente criminale. Tra i tanti problemi che la notte feroce di Colleferro indica questo, pervasivo com’è, tale da condizionare ogni dimensione dalla socialità alla politica, non figura in fondo alla lista.

 Solo un processo ci restituirà la civiltà distrutta a Colleferro. La giustizia non è vendetta e i carnefici sono tali solo quando un altro dramma si è consumato, quello del processo. Giuseppe Belcastro su Il Dubbio il 12 settembre 2020. Esiste una barricata. Willy Montero Duarte sta su un versante; i suoi carnefici su quello opposto. A guardare l’immagine del sorriso che i media hanno diffuso subito dopo il drammatico assassinio, ti manca l’aria; specie se hai figli. E quando ti riprendi dall’apnea arriva, sorda, l’incredulità e con essa una rabbia crescente. La mente non riesce insomma a credere che qualcuno – chiunque egli sia – possa scatenare su quel sorriso una furia così violenta da causarne la morte; a mani nude e senza una ragione. Se mai ne possa esistere una. E così ci ritroviamo, ciascuno a suo modo, a domandarci come tutto ciò sia stato possibile, in che momento della storia abbiamo dimenticato i fondamenti del vivere collettivo, in che famiglia siano cresciuti gli autori di questo atroce misfatto, che scuole e che amici essi abbiano frequentato. Sopraffatti dal cordoglio e dalla indignazione, animati da un’autentica solidarietà per i genitori, i familiari e gli amici di Willy dal magnifico sorriso, tutti noi desideriamo allora giustizia per questo delitto e, alzando sempre più la voce, incominciamo a manifestare un legittimo desiderio di punizione per chi ha ucciso. Arriviamo così sul crinale di quella barricata, quando si palesano sguaiati urlatori che insufflano odio, condendolo sapientemente con immagini di sicura suggestione. Scopriamo allora che alcuni dei ragazzi coinvolti nella vicenda, accusati del delitto, sono esperti di arti marziali, amano fotografarsi in pose truci che farebbero ridere se le circostanze non fossero da tragedia greca, hanno il corpo cosparso di tatuaggi sinistri. Insomma, per dirla così, sono brutti e sporchi. Diventare pure cattivi è un attimo e diventare colpevoli poco di più. Succede allora che i ragazzi che sono accusati del delitto diventino, per la magia del pensiero collettivo, sicuramente assassini perché son troppo sporchi, troppo brutti, troppo cattivi per essere accusati da innocenti. E succede anzi che, alcuni tra coloro che hanno la responsabilità della mediazione e il dovere di fare tutto il possibile per evitare che la stessa violenza e lo stesso odio che ha causato la tragedia non travolga altri dopo Willy, colpevoli o innocenti che siano, alimentino invece, per fini non certo commendevoli, il vento della riprovazione, trasformando automaticamente sulla pubblica piazza l’imputato in colpevole, e pretendendo per lui pene esemplari a seguito di giudizi sommari. Ce n’è ancora, però. Perché se gli accusati sono già colpevoli, a che gli serve un avvocato? A cosa serve spendere inutilmente il danaro pubblico per celebrare un processo? Come si potrà mai addivenire ad una decisione diversa dalla condanna? E sapete cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che il processo penale perde la sua funzione di garanzia dei diritti del singolo contro il potere soverchiante dello Stato; vuol dire che quel giudice che, dio non voglia, osi contravvenire al giudizio del popolo è un eretico e va anch’esso mandato alla gogna; vuol dire persino che l’avvocato, che ha avuto in sorte il fardello di una difesa così difficile, sia addirittura complice delle malefatte del suo assistito e come tale vada minacciato di morte. In questo crepuscolo della civiltà, non solo giuridica, sembra restino in pochi (e tra questi l’Unione delle Camere Penali Italiane) a ricordare che la ragionevolezza è imperativa, che la giustizia non è vendetta e che i carnefici sono tali solo quando un altro dramma si è consumato, quello del processo; che è, a sua volta, la sola via attraverso la quale si esercita legittimamente il più terribile del poteri dell’uomo sull’uomo: quello di privare della libertà i propri simili. È innegabile: la stessa violenza che toglie una vita frantuma al contempo la base d’origine della convivenza civile, rompe un accordo secolare tra gli uomini, infrange in un momento e in maniera brutale la prima regola riconosciuta. Ma fa anche altro: evoca la necessità che quell’ordine venga ripristinato quanto più rapidamente possibile e costruisce un banco di prova. Serve che ciascuno sieda a quel banco e si confronti con se stesso facendo l’unica scelta possibile: rintuzzare nel profondo ogni istinto di vendetta e contribuire a dissipare quegli stessi odio e violenza che hanno generato la tragedia. Esiste una barricata. Vediamo di restare dalla parte di Willy e stringerci con dolce compostezza ai suoi genitori in questo loro momento di indicibile sofferenza.

Willy, odio sugli avvocati. Simona Musco Il Dubbio il 9 Settembre 2020. Minacce di morte per Massimiliano Pica, difensore di tre indagati: «Di’ all’avvocato che l’ammazziamo». Insulti sui social, alla vittima e a chi ne ha causato la morte, alle famiglie degli indagati, al figlio di chi li difende. E, questa mattina, anche la telefonata anonima in studio, con la minaccia di morte: «Di’ all’avvocato che lo ammazziamo». Non bastava il dolore per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di Paliano pestato a morte la notte tra il 5 e il 6 settembre, vicenda per la quale sono indagate quattro persone. Perché allo strazio delle famiglie e di una comunità attonita e confusa si aggiunge l’ulteriore violenza di chi, da un lato, inneggia agli aggressori, presunti “eroi” che hanno eliminato di mezzo un altro invasore, uno straniero, e chi, dall’altro, si affida ad una legge del taglione che non ammette garanzie difensive per i colpevoli. Nessuna via di mezzo, tutti da impiccare, subito, compreso chi li difende. Così nel tritacarne scatenato dal web ci è finito anche Massimiliano Pica, che assiste, assieme al padre Mario, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli. Per i tre il gip ha confermato la custodia cautelare in carcere, mentre passa ai domiciliari l’altro giovane indagato, Francesco Belleggia. Per il gip, che ha validato il racconto dei testimoni, «Gabriele Bianchi ha aggredito Willy e gli ha sferrato un calcio», sottolineando che «i Bianchi e Pincarelli hanno cercato di minimizzare il fatto assegnando la responsabilità a terzi» e che «per questo devono stare in carcere». È il teste chiave, Emanuele Cenciarelli, amico della vittima, a raccontare l’accanimento sul giovane, intervenuto in difesa di un amico: «Ho un vivido ricordo di un paio di loro che addirittura saltavano sopra il corpo di Willy steso in terra e già inerme». Una violenza inaudita, racconta agli inquirenti, spiegando di come in quattro lo circondassero colpendolo con calci e pugni. La discussione tra il gruppetto e Federico, l’amico di Willy, era nata per via di alcuni apprezzamenti volgari ai danni di alcune ragazze della compagnia. Da lì il faccia a faccia, la spinta di Belleggia a Federico e l’inizio della rissa. «Marco Bianchi va verso Willly e gli tira un calcio e lui cade all’indietro – racconta Belleggia al gip -, Bianchi Gabriele picchia l’amico di Willy… Willy era a poca distanza, Marco Bianchi gli tira un calcio sul petto diretto, Willy cade indietro sulla macchina e Bianchi Gabriele si dirige verso l’amico di Willy picchiandolo». Sarebbe stato Pincarelli, una volta che il giovane era a terra, a colpirlo ripetutamente, mentre il colpo di grazia, secondo il racconto di un’amica, sarebbe arrivato da Gabriele, che avrebbe colpito Willy, già a terra e col sangue in bocca, fino all’arrivo del personale di sicurezza dei locali. Una violenza inaudita, che ha generato una corsa all’odio che non ha risparmiato nessuno. «Non ho social, non ho visto tutto – racconta al Dubbio Pica -. Ma tanti amici mi hanno chiamato per avvisarmi che circolano molte minacce di morte per me e la mia famiglia. Mio figlio ha ricevuto pubblicamente minacce di morte su Facebook e poi questa mattina in studio, hanno chiamato dicendo che mi avrebbero ammazzato. Dobbiamo semplicemente pensare a piangere un povero ragazzo che è morto e provare a calmare gli animi. Chi ha sbagliato pagherà, se sono stati i fratelli Bianchi allora saranno loro, se è stato qualcun altro sarà uguale. Ma serve tranquillità, le indagini sono in corso e questo clima d’odio non aiuta». Ma per il popolo del web il diritto alla difesa non vale per tutti. Nonostante Pica provi a ribadirlo, a riportare tutti alla calma, alla dovuta cautela. «Si confonde troppo spesso il reato compiuto dall’assistito con il difensore. C’è chi dice: bisogna impiccare l’avvocato, come loro. Ma l’avvocato fa solo il proprio lavoro. Dobbiamo soltanto arrivare alla verità, capire cos’è successo, per la famiglia e per tutti – spiega -. Chiunque ha diritto alla difesa e si può essere difesi da chiunque. Difendere persone violente non significa, automaticamente, essere violenti». Pica ha chiesto di poter sentire nuovi testimoni, presenti al momento del fatto. E ribadisce che a causare la morte di Willy non siano stati i Bianchi. «Loro hanno sicuramente dato un colpo, ma non alla vittima. Dopo l’autopsia ci renderemo conto, ma allo stato posso dire che i testimoni hanno fatto dichiarazioni per me contrastanti. C’è chi dice di aver visto Gabriele colpire il ragazzo, ma poi la descrizione dei vestiti non corrisponde a quelli indossati da lui». L’autopsia ha evidenziato lesioni in diverse parti del corpo, non solamente su torace e addome. Il primo esame, eseguito all’istituto di medicina legale di Tor Vergata, è durato circa 3 ore e mezzo.

Pica esclude che alla base della tragedia ci siano motivi razziali o che si sia trattato di una spedizione punitiva. «Sono stati richiamati da alcuni amici e una volta arrivati sul posto, di fronte a quanto stava accadendo, hanno pensato che stesse succedendo qualcosa agli amici. Ma non hanno colpito Willy», ha ribadito. In attesa degli esiti dell’autopsia il legale sta ora valutando il Riesame per i suoi assistiti. «Continuerò a difenderli, cercherò di mantenere tutti tranquilli, perché chi minaccia finisce per diventare peggio di chi si accusa. Non deve essere così», aggiunge. Un clima creato dai social, afferma, che ancor prima che venisse reso nota l’imputazione commentava e processava gli indagati. Una barbarie che, di certo, non aiuta la vittima. «Bisogna tentare di non far sfociare questa brutta storia in un’ulteriore violenza», raccomanda infine.

L'intervista al presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Omicidio Willy, gli avvocati degli accusati minacciati di morte. Caiazza: “Opinione pubblica non può essere giudice”. Angela Stella su Il Riformista l'11 Settembre 2020. «Il clima è quello tipico di un Paese che ha smarrito la cultura civile e liberale. L’avvocato, in un contesto imbarbarito dai processi che si svolgono parallelamente sui media, diventa un ostacolo alla giustizia sommaria, quindi da minacciare ed eliminare»: così Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, commenta le minacce di morte ricevute da Massimiliano e Mario Pica, legali di tre indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte.

Avvocato Caiazza com’è possibile che un avvocato venga minacciato nell’esercizio della sua funzione?

«In questo Paese si confonde il diritto sacrosanto all’indignazione e al volere giustizia per fatti così orrendi ed insensati con la giustizia sommaria, che porta ad emettere sentenze sulle responsabilità individuali prima che lo facciano i giudici. Lo si fa poi senza conoscere i fatti o conoscendoli parzialmente, e considerando pregiudizialmente le posizioni difensive come irrilevanti. Il punto di vista dell’indagato diviene sempre non credibile per definizione: non mi riferisco al caso di Colleferro in particolare, si tratta di un atteggiamento costante. In più qui c’è la pretesa di dare giudizi di responsabilità sulla base della tipologia di persone coinvolte. Nel caso di cui stiamo discutendo gli indagati hanno determinate caratteristiche sociali, culturali, comportamentali, fisiche: si pensa che ciò abbia una ricaduta automatica nel giudizio di responsabilità. Bisogna invece lasciare fare il mestiere di giudice a chi lo deve fare ed evitare di pronunciarci prima che lo facciano loro. In questo clima è coerente che il difensore venga minacciato: osa rappresentare una realtà diversa da quella prevalente, e per questo viene rappresentato come complice del proprio assistito».

Le minacce agli avvocati purtroppo sono aumentate negli ultimi anni.

«In Italia è cresciuta enormemente la deriva populista e giustizialista, c’è insofferenza verso le regole del Diritto. È sempre più diffusa l’idea che i temi della giustizia penale debbano essere affrontanti dal punto di vista della pancia della pubblica opinione. Se questa è la regola prevalente, allora cresce anche il pericolo per gli avvocati di fare il loro mestiere. Nel momento in cui scriviamo ancora non ho letto messaggi di solidarietà del Ministro Bonafede verso gli avvocati minacciati. E se non erro non ci sono state neanche in passato per episodi simili. Bonafede esprime un punto di vista politico e culturale, quello che lo ha portato a diventare Ministro, che appartiene a quelle dinamiche populiste di cui stiamo parlando».

Lei su Facebook ha scritto: «Sarà bene che tutti voi leoni da tastiera, ma ancor di più voi cronisti, editorialisti, opinionisti, scatenati in questi giorni – con qualche eroica eccezione – nel pronunciare sentenze definitive di condanna, vi ficchiate in testa una volta per tutte che in dubio pro reo è la regola fondativa della Giustizia penale».

«La qualità della comunicazione giornalistica ancora una volta insegue la pancia, cerca consensi facili e avalla questo desiderio di giustizia sommaria. La responsabilità è quindi principalmente dei mezzi di informazione che dovrebbero saper discernere, ma anche della politica che cavalca qualunque occasione nella quale si possa incontrare il consenso».

Un’altra polemica di cui ci siamo occupati in questi giorni è quella riguardante la magistratura di sorveglianza, dopo l’evasione di Johnny lo Zingaro.

«I magistrati di sorveglianza hanno forse il compito più delicato dell’intero sistema giudiziario, che è quello di lavorare sulla fase di recupero sociale del detenuto. Di provvedimenti come quelli per Giuseppe Mastini ce ne sono migliaia al giorno: però si dà la notizia dell’unico caso in cui qualcuno non rientra dal permesso, celando il fatto che per altri migliaia di casi invece procede tutto regolarmente. Si fornisce così un messaggio squilibrato e falso. È fisiologico che tra le persone che si avvicinano a scontare la pena in forma diversa da quella carceraria ci sia qualcuno che venga meno al suo impegno. Mettere in croce i magistrati di sorveglianza perché una irrisoria percentuale di detenuti sfugge al sistema è sintomatico di quel clima di cui discutevamo».

Il Garante Palma ricordava nell’ultima conferenza stampa che i suicidi in carcere sono in aumento. Se la stessa attenzione riservata ai giudici di sorveglianza venisse indirizzata anche verso questa problematica sarebbe importante.

«Certo, appunto. Vede la grande responsabilità dell’informazione? Tutto dipende da quale notizia scegli di dare: se decidi di raccontare solo di quell’uno su mille che non rientra in carcere sottrai alla riflessione collettiva il problema dei suicidi non solo dei detenuti ma anche degli agenti penitenziari».

Questa polemica segue a quella dei “boss e mezzi boss” ancora in detenzione domiciliare. Abbiamo chiesto al Ministero della Giustizia di conoscere quando sarebbe giunto il loro fine pena, per quali reati sono detenuti e quando e perché si è aperto il fascicolo con la richiesta di detenzione domiciliare. Ci hanno detto che è impossibile perché è un lavoro immane.

«Questo è il problema: non si parla dei fatti ma si procede per allusioni. È bastato che il Dap facesse una indagine approfondita per venire a sapere che il numero degli scarcerati si era dimezzato. Sarebbe anche interesse del Ministro in questo momento avere un quadro preciso e rispondere a queste vostre richieste. Si capirebbe che il concetto di “boss e mezzo boss” è qualcosa di ridicolo. Sappiamo benissimo che in alta sicurezza ci sono anche semplici corrieri alle associazioni criminali: persone che devono sicuramente scontare la loro pena ma che sono a tutto concedere di medio calibro criminale. Qualche anno fa chiedemmo anche di sapere quante sono le misure cautelari richieste dal pubblico ministero rispetto a quelle effettivamente disposte dal gip. Anche questo dato è impossibile da conoscere».

Non glielo diranno mai, forse il Ministero neanche conosce questi dati perché non riesce a raccoglierli.

«O forse non vogliono darceli perché ci permetterebbe di avere un quadro più completo e attendibile dei meccanismi di funzionamento dell’istituto delle misure cautelari. Forse non vogliono raccogliere questi dati o forse non gli vengono trasmessi dalla Procure o dagli uffici del gip. Qui c’è un problema generale di accesso ai dati dell’amministrazione giudiziaria. Si tratta di uno dei temi a cui vogliamo dedicare la nostra iniziativa nei prossimi mesi. Lo dissi già nel mio programma elettorale: crediamo che i dati statistici non siano una proprietà riservata del Ministro di Giustizia ma siano dati che devono essere facilmente e chiaramente accessibili alla pubblica opinione, ai giornalisti, alle associazioni, ai partiti politici. Non riusciamo ad avere informazioni neanche con le interrogazioni parlamentari. Si tratta di un fatto assurdo che non ha nulla a che fare con la riservatezza: non chiediamo nomi e cognomi, o posizioni individuali ma dati statistici. Sapere quante sono le misure cautelari richieste e quelle concesse deve essere un dato alla portata di mano di tutti. Questa deve essere una grande battaglia di civiltà».

Del caso Battisti cosa pensa? La Cassazione ha confermato per lui l’isolamento.

«Non conosco i dettagli del caso ma dico che Battisti deve godere dei diritti di tutti i detenuti, come umanità della pena in quanto essa non è una vendetta. Ieri l’Ucpi ha organizzato una conferenza stampa “Per Ebru, per Aytac, per la difesa dei diritti umani in Turchia”. Forse tutto questo sarebbe stato evitabile se la Turchia fosse nell’Unione Europea. Questa è un’antica battaglia radicale, possiamo dire visionaria, che forse avrebbe modificato questa storia. Purtroppo oggi abbiamo una Turchia dove i diritti fondamentali sono fortemente messi in discussione e dove gli avvocati sono veramente in pericolo. Ricordo che la collega turca che è morta in carcere – perché non si abbia l’idea che siamo sideralmente lontani dalla Turchia – era stata arrestata per concorso esterno, per favoreggiamento di una associazione terroristica della quale non faceva parte. Né più né meno che il concorso esterno nel reato dei propri assistiti con cui abbiamo iniziato questa intervista. Questo è un fatto allarmante verso il quale le nostre cronache giudiziarie sono del tutto estranee».

Omicidio Willy, il medico legale: colpi non casuali. L’ipotesi ora è omicidio volontario. Domani i funerali del giovane ucciso durante una rissa: ci sarà anche il premier Giuseppe Conte. Simona Musco su Il Dubbio il 12 settembre 2020. Si aggrava la posizione dei quattro giovani indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte: gli inquirenti indagano ora per omicidio volontario aggravato dai futili motivi e non più per omicidio preterintenzionale. A determinare il cambio di ipotesi di reato è stata la relazione del medico legale Saverio Potenza, consegnata ieri alla procura di Velletri. Nella consulenza autoptica, della quale i difensori degli indagati non sono ancora in possesso, Potenza ha parlato senza mezzi termini di “colpi assestati e non casuali”. Willy, insomma, sarebbe deceduto per i violentissimi colpi inferti dagli aggressori che hanno agito – secondo l’ipotesi di chi indaga – con la consapevolezza di provocare lesioni mortali.  Ad essere indagati per la morte del 21enne sono  i fratelli Marco e Gabriele Bianchi,  Mario Pincarelli, tutti e tre in custodia cautelare in carcere, e  Francesco Belleggia, per il quale il gip ha disposto invece i domiciliari. Intanto la difesa dei fratelli Bianchi, rappresentati dagli avvocati Massimiliano e Mario Pica, ha presentato alla Procura i nomi di almeno cinque nuovi testimoni, persone presenti, dunque, la notte tra sabato e domenica scorsi a Colleferro e che avrebbero assistito all’aggressione culminata con l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Tra le persone che i pm potrebbero convocare per essere ascoltate anche Omar S., il giovane che nelle ore successive ai fatti ha pubblicato su Facebook, salvo poi cancellarli, due post con i quali si dichiarava pronto a raccontare «la verità», tirando in ballo Belleggia e Pincarelli, i due che avrebbero fatto partire la rissa. Intanto si cercano le tre ragazze che quella sera avrebbero trascorso alcune ore con i fratelli Marco e Gabriele Bianchi e con un loro amico. Le ragazze, secondo la versione fornita dai due indagati, si trovavano nel pub e si sono allontanate con i fratelli Bianchi nella zona «del cimitero», dove si sarebbero appartati per consumare un rapporto sessuale. Gli indagati non hanno saputo riferire il nome delle giovani, che risultano al momento non identificate. Secondo il racconto di una testimone al Messaggero, «Gabriele Bianchi ha sferrato a Willy un calcione all’addome che l’ha fatto cadere a terra e non lo ha fatto più respirare, poi tutti, lui, il fratello più piccolo Marco, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l’hanno colpito ancora. Senza pietà. Willy è morto tra le mie braccia, non ha avuto nemmeno il tempo di rendersene conto. Sono tutti colpevoli. Gabriele si è accanito subito su Willy», prosegue la ragazza secondo cui il colpo letale è stato «il primo calcio all’addome, dato a freddo da Gabriele. Willy è rimasto senza fiato, l’ho sentito tirare due respiri e poi emettere come un rantolo. È finito a terra e quelli gli sono andati sopra. È durato tutto pochissimo». Intanto sono previsti per domani i funerali del 21enne, ai quali, secondo quanto si è appreso, prenderà parte anche il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. E su Facebook, la cugina di Willy, Erika, chiede di rispettare il volere della famiglia: «Sarà vietato l’ingresso alle telecamere e ogni tipo di ripresa: la cerimonia sarà esclusivamente un momento di raccoglimento, riflessione e preghiera comune».

Omicidio Willy Monteiro Duarte, i Ris: "Tracce di sangue sugli abiti dei fratelli Bianchi e dei loro amici". Secondo l'esito degli esami eseguti dai carabinieri, tutta la banda di Artena sarebbe coinvolta nel pestaggio. La procura verso la richiesta di rito immediato. Clemente Pistilli il 29 settembre 2020 su La Repubblica. I carabinieri del Ris hanno trovato tracce di sangue sugli abiti indossati la notte del pestaggio da tutti gli arrestati. E questo particolare, che emerge dalle prime indiscrezioni sugli esami compiuti nei laboratori dell'Arma dei carabinieri, aggrava la posizione di tutti e quattro i ragazzi indagati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21 di Paliano - originario di Capoverde - ucciso la notte dello scorso 6 settembre a Colleferro. Nel corso degli interrogatori davanti al gip del Tribunale di Velletri, Giuseppe Boccarrato, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, noti come "i gemelli di Artena" e il loro amico Mario Pincarelli hanno negato di aver colpito Willy. Incalzati, hanno sostenuto di aver cercato di fare da pacieri e, al massimo, ammesso di aver avuto un contatto minimo con il giovane, il quale  - secondo quanto riportato dall'autopsia eseguita dagli specialisti di Tor Vergata -  sarebbe morto in conseguenza di violenti traumi -  calci e pugni -  assestati in punti vitali. I due Bianchi, numerosi precedenti penali specifici, sono esperti  arti marziali.  Francesco Belleggia, l'unico dei quattro ad aver fornito una ricostruzione diversa di quanto accaduto nella notte tra sabato e domenica e nei luoghi della movida, a Colleferro - una ricostruzione in linea con quella fatta dai molti altri testimoni -  ha invece parlato dei colpi inferti alla vittima dai due Bianchi, assicurando però di non aver preso parte all'aggressione. Esaminando vestiti, scarpe e gioielli indossati quella notte dagli indagati, i carabinieri del Ris sembrano invece confermare l'ipotesi iniziale degli inquirenti e smentire parzialmente Belleggia. Su tutto quel materiale sono infatti state rinvenute numerose tracce ematiche. Ulteriori accertamenti appureranno se si  tratta del sangue di Willy. Dagli stessi esami sono state isolate, inoltre, altre tracce biologiche su cui verrà cercato il Dna. A breve verranno esaminati pure gli abiti della vittima. Gli investigatori hanno intanto quasi finito di raccogliere tutte le testimonianze e, una volta depositate le consulenze, compresa quella sui telefonini degli arrestati, potranno tirare le somme. Si profila una richiesta di processo con rito immediato e gli arrestati appaiono già pronti a una battaglia davanti alla Corte d'Assise.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 7 ottobre 2020. Willy Monteiro Duarte 21 anni muore per i calci, uno sferrato in pieno petto. Tutte le testimonianze convergono. Willy crolla sulle ginocchia e poi, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, a Colleferro, viene letteralmente pestato. L'autore del calcio fatale sarebbe Marco Bianchi. Ed è lo stesso 24enne ad ammettere di averlo sferrato. Anche se cerca di ridimensionare l'aggressione: «tuum, un spinta, prima sono arrivate le mani, il calcio è arrivato dopo, ma il calcio sarà arrivato alle gambe», spiega Bianchi, detenuto in carcere con il fratello Gabriele e l'amico Mario Pincarelli. Mentre l'altro protagonista della rissa, con minori responsabilità, è Francesco Belleggia, ai domiciliari. Ed è il suo racconto il più credibile. Belleggia, difeso dall'avvocato Vito Perugini, al contrario dei due fratelli, fornisce una versione giudicata attendibile dagli inquirenti, confermata anche da altre testimonianze. Probabilmente non si trovava vicino a Willy. Ecco cosa dice Belleggia: «Marco va subito diretto da Willy e gli tira un calcio frontale sul petto, Willy sbatte contro la macchina, gli rivà contro, però Marco comincia a menà e Gabriele mena l'altro amico». Marco Bianchi, invece, ricorda poco e oltre alla spinta a Willy e al fatto che poi lui si è alzato precisa di aver sentito solo «urla e grida, tutte queste cose qui. Ma non è che sono stato lì». La versione di Marco Bianchi prosegue. Una narrazione però che stride con tutte le testimonianze raccolte dal pm Luigi Paoletti. «Lui (Duarte dopo il calcio, ndr) si è alzato ed io ero presente», sostiene il 24enne. Perfino il fratello Gabriele, 26 anni, in questa circostanza lo smentisce. «L'ho visto cadere in ginocchio». Il 26enne, però, sottolinea di non aver individuato chi ha colpito Willy. Di sicuro, vicino alla vittima, secondo il più grande dei fratelli Bianchi, si trovava Francesco Belleggia. Gabriele non dice se l'amico, che adesso collabora con gli investigatori, abbia sferrato un colpo ma lo colloca vicino al luogo dove è morto Willy. Una circostanza non da poco. «Non dico che cade a terra dopo l'intervento di Belleggia, dico che vicino a Willy c'era Belleggia». Il gip Giuseppe Boccarato tuttavia respinge la tesi di Gabriele. Anche perché alcune persone sentite dopo la rissa smentiscono questa versione. E anzi individuano nei due fratelli, soprattutto in Marco il principale protagonista della terribile vicenda. «Dalla narrazione che mi fa Zurma - sottolinea il magistrato - Belleggia non partecipa ai fatti ai danni di Willy». «Purtroppo non è assolutamente vero», ribatte Gabriele. Intanto ieri la sorella di Willy, Milena Monterio ha scritto un post su Facebook dedicato al fratello: «Tutti ti vedono come un eroe, tutti ti ammirano, tutti ti ringraziano per il tuo gesto. Chissà che sarebbe successo se ti fossi girato dall'altra parte adesso saresti ancora qui con me».

In migliaia per l’ultimo saluto a Willy. I funerali nel campo sportivo di Paliano, dove il ragazzo giocava a calcio. Presenti anche Conte, Lamorgese e Zingaretti. Il Dubbio il 12 settembre 2020. Il feretro di Willy entra nel campo sportivo di Paliano, dove il ragazzo giocava a calcio, accompagnato da un lungo applauso. Sono migliaia le persone arrivate a porgere per stringersi attorno alla famiglia del ventunenne ucciso a Colleferro nella notte fra il 5 e il 6 settembre. Presenti anche le istituzioni: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (in camicia bianca, come richiesto dai familiari), il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. «Perché la morte barbara e ingiusta di Willy non cada nell’oblio impegniamoci tutti», dice durante l’omelia Mauro Parmeggiani, vescovo di Tivoli e di Palestrina «istituzioni, forze dell’ordine, uomini e donne della politica, della scuola, dello sport e del tempo libero, Chiesa, famiglie e quanti detengono le chiavi di un potere enorme: quello dei media e in particolare dei media digitali, a comprometterci insieme, al di là di ogni interesse personale e senza volgere lo sguardo fingendo di non vedere, a riallacciare un patto educativo a 360 gradi». Duecento i palloncini bianchi lasciati andare, “liberati” in cielo alla fine della cerimonia, tra lacrime ed applausi. Le offerte in denaro che saranno raccolte saranno devolute alla Caritas, fa sapere la famiglia. «Sono in rappresentanza del governo ma oggi c’è qui tutta l’Italia, l’Italia ama questa famiglia umile e operosa. Abbiamo seguito tutti questa vicenda di efferata violenza. Non possiamo sottovalutarla, non possiamo minimizzarla, assolutamente no. Non possiamo degradarla a singolo episodio isolato», dice il premier Giuseppe Conte uscendo dal campo sportivo di Paliano. «Dobbiamo guardarci in faccia, maturare piena consapevolezza che ci sono alcune sacche sociali, frange della popolazione che coltivano la mitologia della violenza, della sopraffazione. Questa consapevolezza deve mobilitarci tutti, a tutti i livelli: famiglie, genitori, insegnanti, politici, giornalisti». Poi conte aggiunge: «Tutti dobbiamo lavorare per un comune obiettivo, contrastare questa mitologia fino a estinguerla e richiamare costantemente il quadro di valori condiviso di principi su cui si fonda la nostra civiltà. Il principio primario è il rispetto della persona, della sua dignità». Conte chiede giustizia per il ragazzo ucciso a Colleferro: «Sullo specifico episodio ci aspettiamo condanne severe certe ci aspettiamo anche una certa rigorosa esecuzione della pena. Ma non può soltanto questo episodio essere inquadrato in una logica di repressione: stiamo per iniziare con le scuole, questo sarà l’anno scolastico dell’emergenza sanitaria e deve essere anche quello dell’inclusione e del contrasto al bullismo. Anche il linguaggio dell’odio e della violenza pesa: le parole sono pietre, a tutti i livelli». Per Nicola Zingaretti «ora bisogna solo far sentire alla famiglia la vicinanza di tutti e pretendere presto giustizia», dice il governatore, annunciando il sostegno della Regione alla famiglia «per le spese legali e uno degli istituti alberghieri del nostro territorio sarà dedicato a Willy». Matteo Salvini invece chiede «un minuto di silenzio per un ragazzo ammazzato da quattro bestie che spero finiscano i loro giorni in galera» durante una manifestazione elettorale ad Ariano Irpino. «Quando muore un ragazzo nero, bianco, giallo, verde muore un ragazzo, perché ogni vita conta. E se l’assassino è bianco, rosso o verde, sta in galera fino alla fine dei suoi giorni».

Presenti anche il Conte, Zingaretti e Lamorgese. Funerali Willy, in centinaia per l’ultimo saluto. “Chiediamo a Dio la forza di perdonare chi l’ha ucciso”. Redazione su Il Riformista il 12 Settembre 2020. Il premier Giuseppe Conte è arrivato allo stadio di Paliano ai funerali di Willy Monteiro Duarte, ucciso a botte nei giorni scorsi in un episodio che ha scosso Colleferro, il Lazio e l’Italia intera. Assieme a Conte, alle esequie, ci sono anche il governatore Nicola Zingaretti e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Moltissime le persone presenti tra amici del giovane 21enne, ex compagni di classe, e membri della comunità capoverdiana da cui Willy proveniva. Conte, Zingaretti e Lamorgese vestivano un indumento bianco, come richiesto dai famigliari della vittima. Telecamere e fotografi, sempre su richiesta della famiglia, non sono entrati nello stadio dove vengono celebrate le esequie. “Willy ci lascia un grande insegnamento che non vorrei che trascorsi questi giorni pieni di coinvolgimento emotivo, di giusta compassione per lui e la sua famiglia, di sdegno verso coloro che hanno compiuto un gesto inumano, cadesse come troppo spesso accade nell’oblio o nel fermarsi a qualche targa, monumento commemorativo, intitolazione di qualche torneo di calcio o cose del genere”. Inizia così l’omelia di Mauro Parmeggiani, Vescovo di Tivoli e di Palestrina. “Affidiamo al Padre l’anima di Willy che in questi giorni tutti gli italiani e le italiane di buona volontà hanno sentito come uno di famiglia – ha continuato – Chiediamo a Dio anche la forza per saper un giorno perdonare chi ha compiuto l’irreparabile. Perdonare ma anche chiedendo che essi percorrano un cammino di rieducazione secondo quanto la giustizia vorrà disporre e in luoghi, come ad esempio le carceri, che devono essere sempre più ambienti di autentica riabilitazione dell’umano” ha concluso riferendosi ai quattro ragazzi arrestati per l’omicidio del 21enne capoverdiano.

Funerale Willy, lo sfogo del “Brasiliano”: “Conte è l’unico a lucrare qui”. Notizie.it il 13/09/2020. Dopo le polemiche avvenute prima del funerale di Willy, torna a parlare Massimiliano Minnocci detto 'il Brasiliano': “Volevo portare dei fiori”. In seguito alle polemiche del funerale di Willy avvenuto sabato 12 settembre, è tornato a sfogarsi Massimiliano Minnocci detto “il Brasiliano”. Secondo quanto da lui riportato si era recato al funerale del 21enne ucciso a Colleferro perché Willy era un suo follower. “Lo dimostrano alcuni screenshot che mi hanno mandato personalmente alcuni amici, che mi avevano chiesto di dedicargli un pensiero”, aveva precisato. Invece all’arrivo del presidente del consiglio Giuseppe Conte, è stato allontanato dalla Digos, cosa che ha fatto “scaldare” l’animo del “Brasiliano”. “Non sono un lucratore, ero lì per portare un mazzo di fiori al povero Willy, che mi seguiva sui social”, ha esordito Massimiliano Minnocci detto il “Brasiliano”, già noto per essere neofascista cosa che lo aveva poi portato a scontrarsi con Vauro. Aveva precisato che non era venuto lì per farsi pubblicità e che voleva portare solo dei fiori a Willy perché alcuni amici del ragazzo glielo avevano chiesto. Poi la situazione si è complicata con l’arrivo del presidente del consiglio Conte. “Mi hanno allontanato quando è arrivato Conte, l’unico lucratore qui è lui che viene al funerale a pochi giorni dalle elezioni. Io non ho bisogno di lucrare, ho sempre aiutato gli altri, ad esempio durante il lockdown ho dato da mangiare alle persone povere della mia borgata”, ha dichiarato durante la sua diretta video su Facebook. Alcuni uomini della Digos però hanno almeno voluto prendere i fiori ha annunciato. “Ormai mi conoscono, uno di loro mi ha allontanato ma ha preso i fiori per portarli a Willy. Oggi hanno provato a provocarmi perché sanno che basta poco, ma da mesi sto cercando di cambiare”, ha precisato.

Il padre di Willy Monteiro: “Mio figlio non è morto invano”. Notizie.it il 12/09/2020. Il padre di Willy Monteiro: “Mio figlio non è morto invano”. L'ambasciatore di Capo Verde si è recato in visita alla famiglia di Willy Monteiro nel giorno del funerale e ha riferito le parole del padre. Un dolore indescrivibile, una perdita tanto improvvisa quanto ingiusta e insensata. Ma anche la consapevolezza che la tragica scomparsa del figlio ha avuto uno scopo: “Non è morto invano se è vero che ha tentato di salvare un’altra vita“. È la consapevolezza di Armando, padre di Willy Monteiro Duarte, il giovane di origini capoverdiane ucciso a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre. A riferire le sue parole è stato Jorge José de Figueiredo Goncalves, ambasciatore di Capo Verde, che nel giorno dei funerali del 21enne si è recato in visita alla famiglia a Paliano. Il diplomatico ha descritto una famiglia “profondamente addolorata dalla morte del figlio, un giovane che ha lasciato buoni ricordi in tutta Italia, basta vedere la partecipazione al funerale“. Alla funzione era presente anche il premier Giuseppe Conte, che ha portato alla famiglia Monteiro il saluto e l’affetto dell’intero Paese: “L’Italia è con voi e vi vuole bene. Ci aspettiamo condanne severe e una rigorosa esecuzione della pena”. Willy era “un bravo figlio – ha proseguito l’ambasciatore – integrato nella società italiana, anche a livello professionale. Con la famiglia abbiamo parlato del giovane e delle circostanze drammatiche ancora da chiarire: non bisogna avere rabbia ma collaborare perché i giovani si uniscano. Tutta la comunità capoverdiana è vicina a loro, a Capo Verde non si parla d’altro che di Willy”.

Le parole della madre. “Vorrei morire. Potevo salvarlo, ma non ci sono riuscita”. È lo straziante grido di dolore della madre di Willy, ferma accanto alla bara di legno chiaro mentre dà l’ultimo saluto al figlio nella camera ardente allestita a Roma. È sicura che “se fossi stata presente, se Dio mi avesse dato qualche segnale, lo avrei difeso”. Invece “gli hanno fatto male, tanto male. Picchiato in maniera selvaggia. Avrà sofferto chissà quanto, lui che non poteva fare niente, a terra, indifeso. Massacrato senza pietà, povero figlio mio”.

Willy Monteiro, parla la famiglia: “Abbiamo perdonato gli assassini”. Notizie.it il 13/09/2020. A poche ore dalle esequie, la famiglia di Willy Monteiro ha affermato di aver già perdonato gli assassini del 21enne e di non cercare vendetta. Sono decine, giunti a Paliano da tutta Europa i parenti del 21enne Willy Monteiro, ucciso a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre mentre cercava di sedare una lite. Sono arrivati da Francia, Svizzera, Olanda fino alla casa dei genitori del giovane di origine capoverdiana dove era stato organizzato un piccolo rinfresco al ritorno dal funerale, celebratosi nel campo sportivo comunale alla presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Gli stessi genitori del ragazzo non hanno voluto aggiungere molto altro alla pesante atmosfera che ha permeato quella giornata, limitandosi ad affermare di aver già perdonato gli assassini del figlio. “Abbiamo già perdonato gli assassini”, così hanno esordito i genitori del giovane Willy Monteiro che fino a questo momento hanno preferito non concedersi eccessivamente alle telecamere e ai giornalisti. La madre e il padre del ragazzo hanno inoltre affermato di non volere alcun tipo di vendetta, ma di aspettare che la giustizia segua il suo corso: “I figli degli altri non si toccano. Vogliamo giustizia, non vendetta”. In precedenza, il padre del 21enne aveva affermato rivolgendosi all’ambasciatore dei Capo Verde: “Mio figlio non è morto invano se è vero che ha tentato di salvare un’altra vita”. A seguito dell’omicidio di Willy Monteiro sono attualmente in carcere Mario Pincarelli e i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, mentre Francesco Belleggia si trova agli arresti domiciliari. Proprio nelle ultime ore tre indagati reclusi in carcere hanno chiesto tramite i loro legali di prolungare la durata dell’isolamento, nel timore di potenziali ritorsioni da parte degli altri detenuti di Rebibbia.

Da ansa.it il 12 settembre 2020. Si sono svolti nel campo sportivo di Paliano i funerali di Willy Monteiro Duarte, il giovane assassinato a calci e pugni a Colleferro. Ad assistere alla cerimonia anche il premier Giuseppe Conte, arrivato in camicia bianca per rispettare la richiesta della famiglia. A Capoverde, dove è originaria la famiglia di Willy, il bianco è anche simbolo di lutto quando si riferisce a un giovane.  Nel campo sportivo erano presenti moltissimi ragazzi sulle sedie in plastica disposte sul manto erboso con maglie bianche e la scritta "Ciao Willy". Il premier al termine del rito funebre ha confortato la famiglia di Willy. Commosso, si è avvicinato al padre, alla madre e alla sorella di e ha detto: "L'Italia è con voi, vi vuole bene". Poi ha aggiunto:  "Ora ci aspettiamo condanne severe e certe". "Abbiamo seguito tutti questa vicenda di efferata violenza. Non possiamo minimizzarla né sottovalutarla. Non possiamo degradarla a singolo episodio. Dobbiamo guardarci in faccia e capire che ci sono alcune frange, alcune sacche sociali che coltivano la mitologia della violenza". "Mio figlio non è morto invano se è vero che ha tentato di salvare un'altra vita". E' quanto avrebbe detto il padre di Willy, Armando, all'ambasciatore di Capo Verde Jorge José de Figueiredo Goncalves, che ha reso visita alla famiglia nel pomeriggio a Paliano. A riferirlo è il diplomatico lasciando l'abitazione della famiglia. L'omelia - "Perché la morte barbara e ingiusta di Willy non cada nell'oblio impegniamoci tutti, istituzioni, forze dell'ordine, uomini e donne della politica, della scuola, dello sport e del tempo libero, Chiesa, famiglie e quanti detengono le chiavi di un potere enorme, quello dei media e in particolare dei media digitali, a comprometterci insieme, al di là di ogni interesse personale‎ e senza volgere lo sguardo altrove fingendo di non vedere, a riallacciare un patto educativo a 360 gradi". Così il vescovo di Tivoli e Palestrina monsignor Mauro Parmeggiani, nell'omelia. "Chiediamo a Dio anche la forza per saper un giorno perdonare chi ha compiuto l'irreparabile. Perdonare ma anche chiedendo che essi percorrano un cammino di rieducazione secondo quanto la giustizia vorrà disporre e in luoghi, come ad esempio le carceri, che devono essere sempre più ambienti di autentica riabilitazione dell'umano", ha proseguito il vescovo. "Questo giovane ci lascia un grande insegnamento che non vorrei che trascorsi questi giorni pieni di coinvolgimento emotivo, di giusta compassione per Willy e la sua famiglia, di sdegno verso coloro che hanno compiuto un gesto inumano, cadesse come troppo spesso accade nell'oblio o nel fermarsi a qualche targa, monumento commemorativo, intitolazione di qualche torneo di calcio o cose del genere". "Un fatto esecrabile che stamane ci vede riuniti insieme e per il quale il nostro cuore è profondamente scosso e colpito". Così il vescovo di Tivoli e Palestrina monsignor Mauro Parmeggiani, nell'omelia ai funerali di Willy. ‎Il giovane nel ricordo del vescovo aveva "passione per lo sport ma senza fanatismi, nel rispetto per gli altri e nell'impegno per loro che, lungi da quegli atteggiamenti di indifferenza che spesso chi si dice adulto assume, ha portato Willy nella notte tra sabato e domenica scorsa a intervenire a favore di un amico per sedare una lite e perdere la vita in quella forma grande che Gesù ci ha insegnato nel Vangelo: 'non c'è amore più grande di questo, dare la vita per gli amici'". Gesù, ha detto ancora, "non ci ha liberati con la forza dei muscoli ma donando la propria vita sulla croce per amore e assicurando a tutti coloro che come Willy tentano di praticare il suo Vangelo, la vita eterna". Le offerte raccolte nel corso della messa per i funerali di Willy saranno devolute, per volere della famiglia del giovane, alla Caritas. Lo ha detto durante la cerimonia il vescovo di Tivoli e Palestrina monsignor Mauro Parmeggiani.‎ La celebrazione è accompagnata da musica e cori. "Il nostro pensiero è rivolto a Willy. Alla sua famiglia, a tutte le persone che lo hanno amato e che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Non si può morire così, non è giusto. È un dolore troppo grande. Oggi preghiamo ancora per lui. Per quel sorriso giovane e sincero. Ciao ragazzo, sei entrato nel cuore di tutti. Ci hai insegnato il coraggio. Noi ti daremo giustizia. È una promessa". Lo scrive su Facebook il ministro Luigi Di Maio. "Ora bisogna solo far sentire alla famiglia la vicinanza di tutti e pretendere presto giustizia. La Regione pagherà e sosterrà la famiglia per le spese legali e uno degli istituti alberghieri della nostra regione sarà dedicato al nome di Willy". Lo ha detto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti a margine del funerale di Willy Monteiro Duarte, il giovane ucciso a Colleferro. "Da italiano e da papà chiedo giustizia e preghiera per Willy, galera a vita per gli infami assassini". Lo scrive su facebook il leader della Lega Matteo Salvini nel giorno dei funerali di Willy. Intanto, ieri, la procura di Velletri, sulla base degli accertamenti autoptici, ha cambiato capo imputazione per i 4 arrestati per l'omicidio di Willy: da omicidio preterintenzionale in omicidio volontario aggravato dai futili motivi.

Massimo Giannini per la Stampa il 13 settembre 2020. Prigioniera dei fantasmi della Storia, stordita dai miasmi della cronaca. Nel funerale di Willy, nelle lacrime dolenti della sua famiglia, nelle parole magniloquenti della politica che cerca inutilmente un posto dentro quel dolore irreparabile, si specchia un' Italia ammalata e ammalorata. Non c' è solo il Covid, che fiacca e minaccia il corpo e lo spirito della nazione. Sono tanti i virus che corrono nelle vene di un Paese che fa i conti con il Male. E a sconvolgerci non è la sua fin troppo abusata "banalità", su cui scrisse Hanna Arendt. Piuttosto è la sua "normalità". Una normalità vissuta e consumata quasi ogni giorno e ogni sera dai "nostri ragazzi", per le strade e le piazze, i bar e le discoteche, i circoli e le palestre. Dalla torcida negli stadi alla movida nei locali. L' agente patogeno cambia le abitudini, ma il rischio è sempre lo stesso. Anzi, cresce. Basta un niente, un involontario spintone o un provocatorio "ah bella", e tutto diventa possibile. La sfida, la rissa, la morte. Dipende dal fato, o dal caso: fate voi. Comunque, la violenza. La sopraffazione dell' altro. Meglio se più debole. Meglio se diverso. Meglio se donna. Così è normale, a Colleferro, che un bravo figlio di 21 anni venga massacrato, calpestato e infine giustiziato da un branco di killer 25enni a colpi di una strana "arte" ancora inopinatamente definita "marziale". Ed è normale che chi assiste alla scena non chiami i soccorsi arrivati con un ritardo forse fatale, e che i parenti-serpenti degli assassini obiettino "ma in fondo che hanno fatto, hanno solo ammazzato un extracomunitario". È normale, a Bari, che un teppista 26enne blocchi il traffico, scenda dalla sua auto e pesti a sangue il suo rivale di fronte ai passanti, e che la vittima muoia in ospedale tre giorni dopo, senza neanche aver rivelato ai medici le ragioni del suo ricovero. È normale, a Matera, che due ragazzine inglesi vengano abusate in una villa da quindici 18enni. E che una delle invitate dica "però adesso non chiamate la polizia se no rovinate la festa". È normale, a Milano, che una donna di 34 anni venga violentata tra i grattacieli di Porta Nuova, o che la stessa sorte tocchi a una 19enne romana sulla spiaggia del Circeo, in una replica in minore dello stupro mortale di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, perpetrato in un altro brutto settembre di 45 anni fa. "Ora pene esemplari" invoca Conte accorso alle esequie insieme alla Lamorgese e a Zingaretti. Abbracciando i genitori di Willy, il premier dice "l' Italia è con voi". Giusto. Ma quale Italia? Che Italia è, quella che convive con questi orrori e questi errori? Quella che fa i conti ogni giorno con un disagio e un rancore sociale che covano. Quella che ha espropriato il futuro ai suoi giovani, abbandonati con poca istruzione e poca formazione a una precarietà permanente nella vita e nel lavoro. Quella che li lascia andare alla deriva, nei giorni vuoti e nelle notti piene di superalcolici, botte, cocaina. Quella che non sa più educare né proteggere i suoi figli, come scrive Carlo Verdelli sul Corriere della Sera. Non indulgo alle opposte retoriche. Quella progressista e innocentista, che vuole i "ggiovani" sempre vittime della società e del "sistema". O quella reazionaria e colpevolista, che rimpiange "i bravi ragazzi" di una volta. Sono tutte e due sbagliate. Vuoi perché per fortuna ci sono tanti giovani seri e responsabili, che ogni giorno si sbattono per inventarsi il domani: Willy era proprio uno di questi. Vuoi perché con il "si stava meglio quando si stava peggio" non si va da nessuna parte: Marco e Gabriele Bianchi, fratelli-coltelli di Colleferro, non sono un inedito, come dimostra un' altra mattanza senza senso, quella di Emanuele Morganti, ad Alatri nel 2017. Ma la frequenza suggerisce un' escalation che inquieta. E qui c' è un tragico scherzo del destino. Negli stessi giorni in cui la Generazione Zero secerne tanta schiuma della terra, il governo affronta il dramma del ritorno a scuola. Una scadenza cruciale, in agenda da mesi e tuttavia contraddistinta da improvvisazione, disorganizzazione, strumentalizzazione. Sappiamo bene quanto sia complicata questa emergenza per tutte le democrazie europee. Ma dall' inizio della pandemia c' è stato il tempo per organizzare meglio le cose. Per evitare che all' appuntamento mancassero 5 mila aule, 2 milioni e mezzo di banchi, 60 mila cattedre, 77 milioni di mascherine. Questo caos lo conferma: la scuola è da decenni il paradigma del Grande Fallimento italiano. La scuola che non è parcheggio antropologico in cui stazionano pro-tempore i futuri disoccupati, ma il luogo in cui si formano i cittadini di domani. La scuola che è istruzione, ma anche educazione. La scuola che è storia, e dunque memoria. Liliana Segre, in un' intervista al nostro Paolo Colonnello, ha detto che l' assassinio di Willy è "un naufragio della civiltà" e che "questi fatti sono il frutto della mentalità fascista che ancora ci pervade". La stessa cosa, il giorno dopo, l' ha scritta sulla nostra prima pagina un' altra grande italiana, Dacia Maraini: "C' è sempre chi crede nella forza come unica ragione per superare, vincere, dominare gli altri Il fascismo come fenomeno politico non c' è più, ma la cultura fascista c' è ancora". Siamo sommersi da questa onda nera d' odio. Il culto del corpo e il suo uso come arma. L' idea che "l' altro" sia nemico e vada annientato. Il mito dell' invincibilità e del gesto inimitabile che la impone. Il totale spregio delle regole della convivenza civile, della condivisione, della solidarietà. La tensione alla ricchezza facile e all' ostentazione dei suoi simboli. Il rifiuto del dovere, del sacrificio, del confronto. È "fascismo", tutto questo? No, se per fascismo intendiamo un altro Duce alle porte e le camicie nere già in marcia su Roma. Si, se per fascismo intendiamo una sub-cultura della forza e dell' intolleranza, che attinge al pozzo di una politica inqualificabile che usa spesso la violenza verbale, e alla discarica di una Rete incontrollabile che abusa sempre della rabbia esistenziale. Se questo è il virus, la scuola è il vaccino. Quello contro il Covid, prima o poi, arriverà. L' altro, purtroppo, è ancora lontano.

Omicidio Willy, noi tutti sconfitti davanti alla sua bara (e all’assurda sfida tra cocaina e resilienza). Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2020. Artena ha tradizione antica di brigantaggio. Da Paliano partivano vent’anni fa per i sequestri lampo dei direttori di banca e può capitare d’incontrare chi ancora ne parla con un filo di civetteria, un po’ da Robin Hood. «Willy l’hanno ammazzato a Colleferro, perché se salivano qua li buttavamo di sotto, e le nostre mura sono alte». Colleferro è in effetti la terra promessa per queste comunità piene di nulla. Lì sta arrivando Amazon con il miraggio del lavoro (servono 500 magazzinieri, prima del Covid-19 Artena aveva un tasso di disoccupazione al 17%, Paliano al 20%). Lì c’è «persino» il cinema («non tutti i paesi possono averne uno», ammette il sindaco Angelini). I gruppi di ragazzini scendono lì da Lariano, Artena, Paliano a contendersi un po’ di evasione, a guardarsi in cagnesco, a ballare e sballare. «Tutti sapevano ma avevamo paura», hanno raccontato, dopo, in tanti, senza nome. In largo Santa Caterina, dove Willy è stato massacrato, erano decine, e nessuno s’è mosso. La fiducia nello Stato non è altissima. Uno che Willy l’ha visto crescere, zio d’un suo amico d’infanzia, s’è presentato qualche giorno fa nella palestra dei Bianchi a «guardare negli occhi il maestro, che è pure loro zio». Poteva finire malissimo, ma il maestro era distrutto, «se ‘sto posto bruciasse sarei quasi contento», pare gli abbia mormorato. Resta l’idea radicata di farsi giustizia da sé. Resta quest’omertà che, no, non è un fenomeno solo giovanile. Perciò non c’è pace né consolazione. Nemmeno qui al campo sportivo. Nemmeno oggi che Willy esce vincitore sui suoi carnefici. Perché, sì, la sua vita e anche la sua morte raccontano come nel deserto si possa stare diversamente dai fratelli Bianchi e dalla loro banda. Tornando a riempirlo di meraviglie: con il lavoro duro, l’amicizia, un’idea di domani, persino un sorriso. Quel sorriso. Ma la battaglia è appena incominciata. E oggi nulla ci basta. Non consoliamoci, stavolta. Non cerchiamo pace. Sì, c’è il bianco delle magliette, milleduecento «ciao Willy», così immacolate da ferire gli occhi. Quello dei fiori, puri come sorrisi, e dei palloncini lievi nell’aria. E i singhiozzi candidi dei ragazzini, gli amici, tanti, che spezzano il silenzio assolato del campo sportivo di Paliano, sull’erba sintetica, attorno alla bara. Ma non plachiamoci, stavolta, con i buoni sentimenti. «Buon viaggio, fratello, che sia fatta giustizia», non basta. Non basta Giuseppe Conte, venuto con Luciana Lamorgese e Nicola Zingaretti a portare con sincerità a mamma Lucia e papà Armando un’emozione nazionale, cresciuta da sabato scorso per una settimana, giorno dopo giorno, a ogni rivelazione d’orrore, a ogni lacerto di verbale, a ogni foto dei fratelli Bianchi, carnefici per ora presunti ma predestinati, nella loro brutalità caricaturale. Questa storia è una bestemmia. Sicché non basta che monsignor Parmeggiani pronunci parole di conciliazione («perdonare chi ha compiuto l’inimmaginabile»), come chiede la docile famiglia di questo ventunenne che pareva ancora adolescente, era «vicecuoco» ma si sognava campioncino della sua Roma proprio qui, nella patria italiana che i genitori gli avevano conquistato venendo da Capo Verde e sgobbando duro vent’anni filati: qui, su questo campo di calcio dove adesso, alle dieci del mattino, una maglia giallorossa saluta la sua bara dentro l’aria sospesa, rarefatta dal dolore inverosimile, come inverosimile è quello che è successo una notte di sette giorni fa giù a valle, a Colleferro, unica via di evasione per i ragazzi di questi borghi antichi aggrappati ai monti Lepini e spesso stuprati da paesoni gemmati alle loro estremità. Pace, dice il vescovo, «Gesù non ci ha salvato con i muscoli ma dando la sua vita per noi» e mamma Lucia tira un sospiro più profondo, nella compostezza che ha segnato il suo strazio, perché è ciò che in fondo ha fatto Willy, uno scricciolo di 60 chili scarsi che s’è buttato in pasto al male per salvare un amico. Ma non c’è pace e non ci basta: perché c’è un filo teso tra la vita e la morte, oggi. Tra il «campo di battaglia sociale» di Artena, il paesino dei picchiatori, e questo campetto di Paliano, il paese della vittima, quaranta minuti da Roma, l’autostrada e poi la «via del Cesanese», il vino buono, il parco, una promessa di bellezza a lungo tradita da una discarica piantata in zona. Su questo filo corrono destini non di mostri o di santi, ma di ragazzi d’una provincia diventata periferia della periferia, deserto umano, cronaca nera come ad Alatri o ad Ardea, satelliti di Roma, da Roma prosciugati: «dormitori» della capitale dove nessuno vive davvero e infine, sì, «campo di battaglia sociale». E dove pochi parlano, si sa, per quieto vivere. Dopo il delitto, ha trovato il coraggio di farlo con l’agenzia Dire solo un volontario dell’Arci di Artena, uno che combatte ogni giorno per irrigare il deserto e rovesciare destini segnati: il suo sindaco ha reagito male, certo in sofferenza nel vedere quel gioiello che è il borgo, l’antica Montefortino, coi suoi monumenti e la sua storia, appiattiti su una palestra di Mma, sui cazzotti di uno sport estremo, sulle notti della droga. Così ha ragione il primo cittadino artenese Felicetto Angelini nel suo scatto d’orgoglio, ma ha anche torto nella difesa dell’impossibile. Perché si vedono chiaramente due mondi confrontarsi senza pace su queste alture, rimuoverne uno dei due non serve a nessuno. Di qua la cocaina padrona, il nulla riempito di testosterone in palestra, il vuoto imbottito di pasticche e rancore sballando ogni sera, e di là la resistenza, una resilienza umana intessuta di piccoli gesti quotidiani, il lavoro fino a tardi di Willy all’Hotel degli Amici, il sorriso che sfidava la paura, il coraggio che non richiede muscoli perché sta nell’anima. Uno contro cinque... «Dobbiamo parlarne, tra Comuni. Se i cinquantenni tacciono, come possiamo pretendere che i ventenni si facciano avanti?», medita Paola Imperoli, consigliera d’opposizione a Paliano. «Il pericolo», mormora un pensionato saggio come Roberto Adriani, «è che fra qualche tempo, quando le luci si spegneranno, partano da Paliano una decina di ragazzetti e... apriti cielo». È un filo teso dove adesso le parole dell’omelia, «serve un patto educativo», si agganciano a fatica, tanto che con triste realismo anche il vescovo ammette che «siamo sconfitti davanti a questa bara». Sulla collina di Paliano, ultimo paese del frusinate prima della città metropolitana di Roma, giurano che con quelli di Artena è sempre andata così, a odi e rancori. C’è tanto campanile in mezzo a questo disastro e resta un vecchio detto, «vallo a racconta’ a Cuccò», che rievoca i fasti d’un giustiziere locale degli anni Cinquanta, un contadino che chiamavano per regolare i conti da un paese all’altro, un po’ come è accaduto ai fratelli Bianchi. Con la differenza che Cuccò sapeva soprattutto ascoltare la gente mentre, in questi anni da carogne nei quali hanno spadroneggiato, Marco e Gabriele cercavano briga pestando per un nulla («pure un rugbista grande e grosso, l’hanno addobbato proprio qua!»). Un certo tasso di ribalderia, quassù, fa status.

Omicidio Willy: l’onda candida al suo funerale, poi nelle valli torna la paura. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. Alle due del pomeriggio le magliette bianche «Ciao Willy» continuano a punteggiare la strada del vino Cesanese, che dalla valle porta quassù. Sono gli ultimi rivoli dell’onda che quasi tre ore prima ha accompagnato il ragazzino di Paliano dal campo sportivo al cimitero, a due passi da dove viveva, «buon viaggio, fratello, sia fatta giustizia». Un’onda candida, che ha riempito il prato della cerimonia funebre, ha pianto e applaudito per le parole di conciliazione di monsignor Parmeggiani («dobbiamo perdonare chi ha compiuto l’inimmaginabile») sollecitate da una famiglia straordinaria come i Monteiro Duarte; ha applaudito e pianto per quelle di resa che, con onestà, il vescovo ha pronunciato («siamo tutti sconfitti davanti alla bara di Willy»), segnando una cesura nell’idea stessa di speranza; si è stretta attorno al premier Conte, venuto con Luciana Lamorgese e Nicola Zingaretti a portare a mamma Lucia e papà Armando un sentimento nazionale, cresciuto giorno dopo giorno, a ogni rivelazione d’orrore, a ogni lacerto di verbale, a ogni foto truce dei fratelli Bianchi, carnefici per ora presunti ma predestinati, perché vittime della loro stessa brutalità caricaturale.

Apprendista cuoco. In questa settimana di flagellazione a singhiozzo, dal pestaggio mortale a Colleferro fino a ieri, Willy è diventato il figlio di tutti noi, smilzo e generoso, gran tifoso romanista e apprendista cuoco all’Hotel degli Amici, con quel sorriso infantile che ci è entrato in casa dalla tv e ci è rimasto attaccato al cuore. Ma proprio per questo non bastano un’orazione funebre ed esequie quasi di Stato per darci pace. Questa storia è una bestemmia. Sepolto il piccolo italiano di Capo Verde assieme al suo futuro, per il quale i genitori avevano sgobbato duro vent’anni filati qui da noi, restano molte ombre da fugare, un filo teso tra la vita e la morte, tra il paese di Willy, Paliano, e quello della banda di picchiatori, Artena. «Attendiamo condanne severe e certe», ha detto il premier ai genitori. Ma neppure questo risolve tutto perché, quand’anche fossero riconosciuti colpevoli, i fratelli Bianchi e la loro brigata non sarebbero scesi da Marte, come pure molti sembrano voler credere da queste parti per quieto vivere o cautela politica.

Lo spettro dell’omertà. Paola Imperoli, consigliera d’opposizione a Paliano, non la chiama omertà ma lo dice chiaro: «Dobbiamo parlarne: se i cinquantenni tacciono, come possiamo pretendere che i ventenni si facciano avanti?». Che i fratelli Bianchi si potessero fermare prima, gravati come somari da guai giudiziari e da una fama di «volante della paura», invocati da una valle all’altra a «risolvere» questioni, è un segreto di Pulcinella. Qualcuno s’è distratto. Dopo il pestaggio di Willy, molti ragazzini hanno detto «sapevamo ma avevamo paura», quasi tutti in forma anonima, mentre le istituzioni cadevano dalle nuvole. Solo un volontario dell’Arci di Artena, uno che ogni giorno combatte sulla strada, ha trovato all’inizio il coraggio per raccontare all’agenzia Dire i contorni di un «campo di battaglia sociale», dove «regina è la cocaina» e per un ragazzo «è più facile mettersi a spacciare che tentare un tirocinio formativo o un primo contratto di lavoro subordinato, perché tra l’altro si guadagna di più».

Disoccupazione. Alta disoccupazione (prima del Covid-19 ad Artena era il 17%, a Paliano il 20%), alti tassi di abbandono scolastico, soprattutto nelle contrade, e dall’altra parte soldi facili, recupero crediti, estorsione, usura: qui non ci sono mostri, ci sono vittime da entrambe le parti della valle, mentre l’Arci e la parrocchia (molto attiva quella di Santo Stefano) tentano di riacciuffare chi sgarra. Questo quadro, rilanciato nei talk tv, ha provocato la reazione indignata del sindaco di Artena e una polemica con l’Arci nazionale: «Non posso accettare che si parli di situazione degradata, quelli sono singoli», ha detto Felicetto Angelini alle telecamere. «Basta con il fango, la nostra comunità non è il deserto dei tartari» (sic), ha proclamato poi su un quotidiano locale.

Il problema dei borghi. Reazione comprensibile, a nessun sindaco piace vedere la propria comunità appiattita su una narrazione pulp. Artena poi, antica Montefortino, davvero non lo merita per le gemme che racchiude nel suo borgo storico. E tuttavia il problema dei borghi è anche questo: abbandonati e ripopolati solo da bed and breakfast, assediati dai nuovi paesoni senza identità: periferie della periferia senza cinema né teatri che s’aggrappano alle loro pendici. A Paliano si sono persi ventimila posti di lavoro, la vecchia crisi non è mai stata superata e quella del Covid-19 incombe. L’intera area metropolitana di Roma è ormai un dormitorio, e forse non è un caso che luoghi come Alatri o Ardea rivelino in tristi cronache lo stesso retroterra feroce che ha portato al pestaggio della scorsa settimana.

Il «miraggio» di Colleferro. Qui il miraggio è Colleferro, dove Amazon sta per aprire e ha bisogno di 500 magazzinieri. C’è persino un cinema e quel po’ di movida che a Willy è costata così cara. Scendono le comitive da Paliano, Lariano, Artena, la voglia di menare le mani il sabato sera è proporzionale al nulla che avvolge gli altri giorni della settimana. Rancori di campanile, miti di vecchi banditi e vecchissimi briganti compongono un quadro di mazzate date o promesse nel quale, verrebbe da dire, magari c’entrasse la politica: almeno ci sarebbe qualcosa su cui discutere. Si mena per il gusto. «Se, spenti i riflettori, dieci ragazzetti di Paliano salgono ad Artena, buonanotte…», dicono i vecchi saggi. In un tempo diverso, pianto Willy, ci saremmo tormentati per capire come diavolo Marco e Gabriele Bianchi siano diventati così. Oggi è più facile: so’ cattivi. E stiamo a posto fino ai prossimi mostri.

Fulvio Fiano per corriere.it il 13 settembre 2020. L’eco delle minacce di morte e l’ondata di odio riversata sui familiari di Gabriele e Marco Bianchi per l’uccisione di Willy Monteiro Duarte arriva anche in carcere. Su richiesta dell’avvocato Massimiliano Pica e parere favorevole della direzione di Rebibbia, sentito anche il parere favorevole del garante dei Detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, i due fratelli di Artena saranno messi in isolamento (nel cosiddetto “braccio protetto”) a loro tutela per evitare contatti con gli altri detenuti. Una situazione nella quale già si trovano entrambi assieme al presunto complice Mario Picarelli per le norme anti covid, secondo le quali ogni nuovo detenuto “sconta” 15 giorni quarantena al suo ingresso nel peniteziario prima di entrare nel regime ordinario. Una misura che per i due fratelli, accusati in concorso di omicidio volontario aggravato dai futili motivi, verrà ora prolungata. «Ci sono categorie in un certo senso a rischio secondo il codice del carcere — spiega Anastasia — stupratori, rappresentanti delle forze dell’ordine, autori di reati contro i minori o con particolare eco mediatica come in questo caso che non sono accettati dagli altri detenuti, anzi. La misura di isolamento a loro tutela mi sembra ragionevole». Anche Pincarelli è a Rebibbia mentre il quarto accusato del delitto, Francesco Belleggia, ha ottenuto i domiciliari perché a giudizio del gip avrebbe avuto un ruolo più defilato nel pestaggio e soprattutto è stato credibile nel suo interrogatorio di garanzia (anche incrociando le sue parole con quelle di alcuni testimoni). Tra le infinite minacce arrivate ai presunti assassini e ai loro parenti senza distinzione, soprattutto sui social, c’è stato anche chi gli «augurava» di trovare in carcere un trattamento analogo a quello da loro riservato a Willy. Il fratello maggiore dei Bianchi, Alessandro, ha chiuso il suo risto-pub per qualche giorno temendo ritorsioni e anche agli avvocati difensori dei quattro sono arrivate intimidazioni per la loro scelta professionale di assistere i quattro accusati del delitto. Mentre le indagini proseguono con l’ascolto di testimoni e l’analisi dei telefoni, dell’auto e dei vestiti degli indagati per definire meglio le proprie singole responsabilità, in settimana la posizione dei quattro sarà sottoposta al vaglio del tribunale del Riesame.

Willy Monteiro, i fratelli Bianchi: “Ma in carcere si beve solo acqua?” Notizie.it il 14/09/2020. Appena arrivati n carcere, i fratelli Bianchi si sarebbero preoccupati solo di dover bere acqua del rubinetto e non minerale. A poche ore di distanza dal pestaggio di Willy Monteiro, l’unica preoccupazione dei fratelli Bianchi arrivati in carcere con l’accusa di omicidio preterintenziolale (poi cambiata in volontario) era la mancanza di acqua minerale e la costrizione a bere quella del rubinetto. “Ma adesso saremo costretti a bere l’acqua di rubinetto?“. Così avrebbero chiesto Marco e Gabriele, secondo quanto riportato dal Messaggero, una volta giunti a Rebibbia la sera di domenica 6 settembre 2020. Si tratta di uno di quei segnali di minimizzazione del fatto e di sostanziale indifferenza rispetto alle iniziative processuali intentate nei loro confronti che hanno spinto il Gip a modificare il capo d’imputazione in omicidio volontario. Nella mattinata di lunedì 14 settembre i loro due legali cercheranno di confutare le ragioni della trasformazione dell’accusa facendo ricorso al Riesame contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Il Tribunale dovrà quindi decidere se rigettare le loro istanze, rafforzando implicitamente la tesi di accusa, o accoglierle. In questo caso non è escluso che ai tre ragazzi in carcere possano essere concessi gli arresti domiciliari. Intanto questi ultimi hanno chiesto di essere isolati dagli altri detenuti per paura di ritorsioni. Al loro ingresso sono infatti stati accolti con sputi e manifestazioni di odio e disprezzo. La direzione della casa circondariale si sta quindi attrezzando per mantenere i tre ragazzi di Artena in isolamento. Nei giorni precedenti erano anche arrivate minacce di morte ai parenti e ai difensori.

ALESSIA MARANI per il Messaggero il 14 settembre 2020. «Ma adesso saremo costretti a bere l'acqua di rubinetto?». A poche ore dal brutale assassinio del giovane Willy Monteiro Duarte sulla piazza di Colleferro, a Sud di Roma, l'unica preoccupazione dei fratelli Gabriele e Marco Bianchi, accusati dell'omicidio insieme con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, è stata questa. Non altro. Lo hanno domandato mentre la sera di domenica 6 settembre stavano per varcare la soglia del carcere di Rebibbia. Ora chiusi nelle loro celle in isolamento, per i due fratelli di 26 e 24 anni, ossessionati dalla cura del corpo e dalla bella vita, la mancanza dell'acqua minerale non è davvero più l'unico cruccio. Stamani i loro legali, Mario e Massimiliano Pica - che difendono anche Pincarelli - faranno ricorso al Riesame contro l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, puntando a confutare le ragioni della trasformazione del capo di imputazione da omicidio preterintenzionale a volontario. Un altro aspetto che sarà preso in considerazione, probabilmente, è la circostanza dell'arresto avvenuta in quasi flagranza e non esattamente in flagranza sul posto del pestaggio. Il Riesame, dunque, si riserverà di decidere o per il rigetto (il che rappresenterebbe un implicito rafforzamento della tesi dell'accusa) o per l'accoglimento della richiesta il che potrebbe permettere ai tre di lasciare il carcere e andare ai domiciliari. Intanto, comunque, i legali potranno avere accesso agli atti di indagine acquisiti finora dai carabinieri di Colleferro e dalla Procura di Velletri. Già Belleggia nei due giorni di detenzione (è l'unico a cui il gip ha concesso i domiciliari) ha provato sulla sua pelle il clima di disprezzo e di odio da parte degli altri detenuti. Sputi al loro passaggio, «non vi vogliamo», l'eco delle urla nel braccio dei transiti di Rebibbia, un carcere dove si trova chi solitamente ha già ricevuto una condanna e che, per mancanza di posti nei vari istituti dovuta anche all'isolamento obbligatorio di 14 giorni imposto dal rischio Covid per ogni nuovo ingresso, si è trovato a ospitare chi, al contrario, è ancora in attesa di giudizio. Gli avvocati Pica si sono raccomandati con la direzione e il Dap, la Penitenziaria, perché i loro assistiti siano tutelati: «Oltre che doveri hanno dei diritti inviolabili», sostengono. Tanto che la direzione della casa circondariale si sta attrezzando per mantenere i tre ragazzi di Artena in isolamento rispetto agli altri reclusi anche al termine della quarantena per il Coronavirus. Intanto le indagini sull'omicidio dell'apprendista cuoco 21enne di Paliano (Frosinone) proseguono. Nella caserma dei carabinieri di Colleferro si stanno presentando spontaneamente nuovi testimoni del pestaggio avvenuto in largo Oberdan, a pochi passi dai locali della movida di Colleferro. Pierluigi Sanna, sindaco appena trentenne della cittadina, ha fatto appello a tutti coloro che quella sera erano nella zona (decine e decine di ragazzi e non solo) di prendere coraggio e farsi avanti, per non lasciare da soli gli amici di Willy e due ragazze che si sono fermate ad aiutarli, a doversi presentare in aula a testimoniare. E in tanti hanno risposto, finora tra le dieci e le quindici persone, maschi e femmine, non solo giovanissimi ma anche dei cinquantenni. Tra loro anche i buttafuori dei locali, intervenuti non appena hanno sentito il trambusto: «Siamo scesi giù in strada, quel ragazzo era già a terra e abbiamo visto l'auto scappare via». Sostanzialmente le versioni rese coincidono con le prime verbalizzate a poche ore dal delitto. Tutti, però, sembrerebbero concordi nel dire che a picchiare Willy siano stati tutti e quattro gli indagati, nessuno escluso. In particolare, i fratelli Bianchi scesi dall'Audi Q7 avrebbero cominciato a sferrare mosse di arti marziali e pugni all'impazzata «sradicando i cestini dell'immondizia, buttando giù i paletti. Quando si è materializzata quell'auto sembrava calata una seconda notte», ha detto uno dei testimoni. Ieri pomeriggio centinaia di persone appartenenti alla comunità capoverdiana (Willy è figlio di una coppia di lavoratori immigrati), hanno sfilato in corteo fino al luogo dell'uccisione. Davanti il cartellone «Giustizia per Willy» tenuto dalla sorella Milena, stretta nell'abbraccio di uno zio e dei cugini. Una sfilata silenziosa, di dolore e dignità. «La famiglia del ragazzo non cerca vendette, né clamore - spiega l'avvocato Domenico Marzi - solo giustizia. Noi contiamo che il processo inizi entro dicembre».

Botte anche in carcere: i Bianchi in isolamento. Rissa con un detenuto straniero e minacce: i picchiatori di Artena trasferiti nel braccio G9. Stefano Vladovich, Martedì 22/09/2020 su Il Giornale. Le belve di Artena in isolamento. Una lite e Gabriele e Marco Bianchi, assieme a Mario Pincarelli, vengono trasferiti nel braccio G9 primo piano del carcere romano di Rebibbia. Motivi di sicurezza e non solo. Secondo i legali i gemelli «picchiatori» sarebbero in pericolo, minacciati costantemente. Stessa cosa si potrebbe dire degli altri detenuti del braccio G12 piano terra dove i tre accusati dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte sono stati rinchiusi per i 14 giorni di quarantena. Tutti i reclusi li temono e non vogliono averli accanto. Secondo l'associazione «Detenuti Liberi» i fratelli di Artena (una decine di denunce per rissa e lesioni gravi e tre processi in corso) avrebbero attaccato briga anche con un detenuto straniero, colpevole di averli apostrofati mentre si recavano in parlatorio. Una parola di troppo e i Bianchi non se lo fanno ripetere due volte. Così, tanto per tenersi in forma, si azzuffano con l'altro detenuto, Mohamed, un cittadino marocchino. A denunciare il fatto la figlia dell'uomo che avrebbe chiesto protezione dai Bianchi al Garante del Lazio, Stefano Anastasìa, attraverso l'associazione di tutela dei carcerati. Nel G9 primo piano di Rebibbia sono rinchiusi i detenuti più pericolosi e quelli meno «graditi» al resto della popolazione carceraria. Ovvero i pedofili, i collaboratori di giustizia, gli assassini e gli stupratori di donne e bambini. Gli «infami». Il braccio in cui sono reclusi adesso i Bianchi e Pincarelli ha un passeggio palestra esterna, un campo da tennis e un campo di calcio. Celle da uno a sei detenuti, ogni sezione ha una stanzetta per la socialità, un tavolo da ping-pong e un calcio balilla perennemente rotto. I tre, però, non avrebbero altri ospiti con loro, isolati gli uni dagli altri. «Radio Carcere», intanto, parla di grida notturne contro le belve di Artena, di ingiurie indicibili nei loro confronti, persino di sputi nei piatti in cui mangiano. «Le leggi del carcere le conosci, se so' chiamati i divieti di incontro con tutti». Una situazione esplosiva per il penitenziario romano. Marco Bianchi, precedenti anche per spaccio di droga, giovedì prossimo sarebbero dovuto comparire a processo, al Tribunale di Velletri, dopo una serie imbarazzante di rinvii. È accusato di aver pestato a sangue un giovane bengalese più di due anni fa. Marco, assieme a un gruppo di amici che lo spalleggiano, si avventa contro lo straniero per uno sguardo di troppo. E lo massacra di botte. Passa un anno. Aprile 2019: si scaglia contro un cittadino indiano che per poco non viene investito. La sua colpa? Aver protestato contro il gruppo di belve. È troppo per i Bianchi che lo riempiono di botte e lo spediscono in ospedale. Della maxi rissa scatenata all'Outlet di Valmontone nessuno ha voglia di parlare. Ma la scazzottata con gli albanesi se la ricordano in molti. Dalle denunce al processo, fissato per il 2021. Troppo tardi.

Omicidio Willy, i fratelli Bianchi finiscono in isolamento: “Pugno a un detenuto marocchino”. Le Iene News il 22 settembre 2020. I fratelli Bianchi sono stati trasferiti nella sezione di isolamento del carcere di Rebibbia. Iene.it ha parlato con il dottor Macrì, che è stato contattato dalla famiglia di un detenuto che denuncia di esser stato aggredito: “Gli hanno dato un pugno ed è finito in infermeria”. Ecco che cosa ci ha raccontato. “C’è stata una rivolta l’altro ieri a Rebibbia, gli altri detenuti non vogliono i fratelli Bianchi lì. Nella confusione un ragazzo di origine marocchina, Mohamed, è stato colpito dai Bianchi: gli hanno dato un pugno”. A parlare con Iene.it è Claudio Cipollini Macrì, presidente dello studio Legal Consulting e amministratore del gruppo no profit “Detenuti liberi”, che offre assistenza gratuita ai detenuti. “Adesso stanno facendo indagini interne all’istituto penitenziario, i fratelli Bianchi sono stati posti in isolamento nella sezione C9 di Rebibbia”. Marco e Gabriele Bianchi sono stati trasferiti nella sezione d’isolamento del carcere come previsto fin dal loro arrivo nell’istituto. Prima dovevano rispettare la quarantena obbligatoria per prevenire contagi all’interno del carcere: “Erano nella sezione C12 a Rebibbia, quella di transito dove bisogna rispettare l’isolamento preventivo in questo periodo”, ci racconta il dottor Macrì. Ma durante il periodo di isolamento, a quanto pare, avrebbero aggredito il detenuto. “Sono stato contattato dalla famiglia di Mohamed perché ho questo gruppo no profit, e mi hanno raccontato la storia dell’aggressione”, ci spiega il dottor Macrì. “Mi hanno chiesto consigli su cosa fare, e adesso stiamo valutando insieme in attesa dell’esito dell’indagine interna dell’istituto penitenziario. I fratelli Bianchi intanto hanno preso l’articolo 14 bis, cioè la pericolosità interna alla prigione”. “Mohamed è stato medicato nell’infermeria di Rebibbia”, ci racconta ancora Macrì. “Ovviamente essere colpiti da un pugno di un atleta di arti marziali non è come riceverlo da una persona comune. Sono persone atleticamente preparate, Mohamed sta relativamente bene ma se lo risparmiavano era meglio. Nella sezione dov’è accaduto lo scontro ci sono molti detenuti, tanti italiani, e loro hanno colpito uno di origine marocchina”. Adesso la famiglia del detenuto starebbe valutando di sporgere denuncia per quanto successo. E non sarebbe nemmeno la seconda volta che i fratelli Bianchi si trovano coinvolti in uno scontro con stranieri: Marco Bianchi dovrebbe andare a processo per rispondere di un’aggressione a un bengalese avvenuta nel 2018: l’uomo sarebbe stato ricoverato in ospedale con una prognosi di 20 giorni. Sarebbero sette i fascicoli giudiziari a carico dei fratelli, secondo quanto ricostruito da Il Messaggero: in uno di questi casi i Bianchi avrebbero picchiato un uomo di origini indiane, dopo un alterco perché avevano rischiato di investirlo in macchina. Insomma, sembra non esserci pace intorno ai fratelli Bianchi: i due sono reclusi a Rebibbia perché accusati dell’omicidio di Willy Duarte, il 21enne picchiato a morte nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro. Oltre a loro sono stati arrestati Mario Pincarelli e Francesco Belleggia: l’accusa a loro carico è di omicidio volontario, con l’aggravante dei futili motivi. Non è invece contestata l’aggravante razziale. I fratelli Bianchi e Pincarelli si trovano in carcere a Rebibbia, mentre per Belleggia sono stati disposti gli arresti domiciliari.

Alessia Marani per “il Messaggero” il 22 settembre 2020. Alla fine sono stati trasferiti dalle celle anti-Covid a quelle di isolamento precauzionale di Rebibbia. I fratelli Gabriele e Marco Bianchi adesso si trovano nel braccio G9 al primo piano del carcere romano, quello che gli altri reclusi chiamano «degli infami» perché è qui che vengono destinati coloro che si sono macchiati di reati sessuali o le ex guardie, agenti o militari, che hanno oltrepassato la barricata del crimine o abusato dei loro poteri. Ben distanti dagli altri reclusi a cui sono invisi. Troppo pericoloso per loro condividere gli spazi comuni, ma rischioso anche per gli altri. Perché il temperamento irascibile e violento dei due fratelli di Artena, accusati con Mario Pincarelli e Francesco Belleggia (l'unico ai domiciliari) dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte, si sarebbe fatto riconoscere anche in questi primi giorni reclusione. Tanto che la figlia di un detenuto marocchino ha scritto all'associazione Detenuti liberi protestando per il trattamento ricevuto dal padre mentre i Bianchi raggiungevano i parlatori attraverso il corridoio: «Lo hanno aggredito». Scintille, insulti, mani che volano, lo scambio, comunque, viene arginato sul nascere. La direzione carceraria era già stata messa sul chi-va-là dai legali dei due fratelli, preoccupati per possibili ritorsioni nei confronti dei loro assistiti per nulla ben accolti dagli altri inquilini di Rebibbia: rischiano il linciaggio. E anche il garante per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, aveva avuto modo di evidenziare la problematicità. Lui stesso conferma che «i due giovani reclusi sono stati effettivamente trasferiti nel G9, sotto stretta sorveglianza». Willy Monteiro, cuoco ventunenne di origine capoverdiana fu massacrato di calci e pugni senza nemmeno un motivo nella notte tra il 5 e il 6 settembre, nella piazza di Colleferro. I testimoni parlarono di «una ferocia inaudita»: i picchiatori «saltavano sul suo corpo quando Willy era già a terra». Una condotta contro un ragazzo mingherlino, solo e inerme, considerata «indegna» anche da chi è dietro le sbarre. Ora nel G9 Gabriele e Marco Bianchi sono sottoposti a grandissima sorveglianza per evitare qualsiasi contatto con gli altri. Passaggi e momenti d'aria si svolgeranno per loro in orari diversi e alternati rispetto agli altri. Sono monitorati anche dai medici per motivi sanitari e psicologici, come gli stalker o quelli che sono stati condannati per maltrattamenti in famiglia, anche questi reclusi al primo piano. Dalla bella vita all'inferno del carcere. I Bianchi, accompagnati dai carabinieri, varcando la soglia di Rebibbia, si preoccupavano perché avrebbero potuto bere solo acqua, «non c'è la minerale?», chiedevano. Ma le rinunce sono ben altre. Niente più cura maniacale del corpo, niente più scorribande con gli amici, notti nei locali, donne e bolidi a portata di mano. Sul loro tenore di vita ostentato sui social e nella vita reale, spropositato rispetto ai guadagni (il padre prendeva persino il reddito di cittadinanza per i figli a carico), è stata aperta un'inchiesta per reati fiscali. Giovedì per Marco in un'aula del tribunale di Velletri si aprirà il processo per un altro pestaggio, avvenuto il primo maggio del 2018, ai danni di un bengalese. Sono otto i fascicoli già aperti nei confronti dei Bianchi, tutti tranne uno, per lesioni aggravate.

Omicidio Willy, il Garante dei detenuti ci spiega perché è giusto l'isolamento in carcere dei fratelli Bianchi. Le Iene News il 15 settembre 2020. Il legale di Marco e Gabriele Bianchi, in carcere con l’accusa di omicidio volontario di Willy Monteiro Duarte, ha chiesto per i due il regime di isolamento temendo vendette degli altri detenuti. Un’ipotesi appoggiata dal Garante dei detenuti del Lazio, che dopo essersi espresso per il sì ha ricevuto pesanti contestazioni. Iene.it lo ha intervistato. Dopo che il Garante dei detenuti del Lazio ha spiegato perché è giusto che Gabriele e Marco Bianchi e Mario Pincarelli, tre dei 4 giovani accusati di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro Duarte, restino in isolamento in carcere, è stato sommerso dalle critiche. Per questo noi gli abbiamo chiesto di approfondire le sue motivazioni.  “Anch'io sono indignato per come è stato ammazzato il povero Willy. Ma dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che chi viene arrestato ed è sotto la custodia dello Stato debba essere tutelato nei confronti di chiunque”, prosegue Stefano Anastasìa. “Un conto è che una persona sia arrestata e sottoposta a processo, sia condannata e sconti la giusta pena, altra cosa è che si possa essere sottoposti a trattamenti di discriminazione e di violenza da parte di compagni di detenzione o di chi arresta, da parte di chiunque”. Anastasìa ci spiega come è giunto a formulare questo suo parere: “Attualmente i tre sono sottoposti, come tutte le persone che entrano in carcere dall’esterno, a una misura di isolamento di 14 giorni per via del Covid. La misura, che scontano ciascuno in stanza singola all’interno di una sezione speciale, dovrebbe terminare la prossima settimana. Come Garante ho avuto notizia della richiesta dell’avvocato di applicare l’isolamento ai due fratelli Bianchi dopo la quarantena e ne ho parlato con la direttrice dell’istituto di Rebibbia”. E cosa ne è venuto fuori? “Ci siamo detti che potrebbe essere applicata a loro la misura prevista dall’ordinamento penitenziario con la possibilità di essere assegnati a sezioni chiamate dei "protetti", ovvero detenuti che per varie ragioni suscitano riprovazione nella comunità detentiva. Intendiamo riferirci ai "sex offenders", ai collaboratori di giustizia e agli appartenenti alle forze dell’ordine. I fratelli Bianchi non rientrerebbero in una di queste categorie ma, avendo il loro reato condotto a un particolare risentimento sociale, per qualche verso anche comprensibile tanto è stato odioso, questo potrebbe dar luogo a una forma di reazione violenta verso di loro. E così la misura dell’isolamento potrebbe essere utile per un primo periodo fino a che non si rassereni la situazione trovando loro una collocazione che li metta a riparo dalla giustizia sommaria”. La decisione definitiva, spiega infine il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa, potrebbe arrivare dalla direzione del carcere di Rebibbia la prossima settimana. Intanto il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe ha già risposto al Garante, attraverso il suo segretario generale Donato Capece: “La polizia penitenziaria assicura sicurezza a tutti i detenuti in carcere. Vorremmo tranquillizzare il Garante che a Rebibbia, come in tutte le carceri italiane, sono garantiti i diritti dei detenuti e non solo quelli mediaticamente più in vista dei quali ultimamente si parla a discapito di tutti gli altri. A cominciare dalla loro stessa incolumità fisica”.

Radio Cusano Campus il 15 settembre 2020. Il magistrato Alfonso Sabella è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. Sul caso Willy Monteiro e l’attenzione mediatica sugli arrestati. “Non c’è dubbio che ogni soggetto sottoposto ad indagine, qualunque siano le sue colpe, più o meno accertate da sentenze definitive, ha dei diritti che vanno riconosciuti e tutelati, questa è la differenza tra lo Stato e la criminalità –ha affermato Sabella-. Devo anche dire però che quando ti rendi protagonista di una vicenda di questo tipo, il tuo diritto alla privacy viene sostanzialmente limitato, non hai più quel diritto pieno che avevi prima di commettere il reato. E’ chiaro che si crea un’attenzione mediatica molto forte su di te ed è fisiologico che alcuni particolari, non strettamente attinenti alle indagini, possano venire fuori. I giornalisti dovrebbero sicuramente evitare di diffondere notizie non verificate, ma che sono solamente voci di corridoio. Chi riporta certe frasi dovrebbe avere quantomeno il buonsenso di avere delle fonti certe. Anche perché non mi risulta che sia stata riconosciuta l’aggravante dell’odio razziale”. Sulle misure di prevenzione. “Occorre che si metta mano alle misure di prevenzione. Il problema nella criminalità nel nostro Paese non è solo la mafia. Occorre trovare degli altri strumenti di prevenzione più moderni, più adeguati alla nostra società”. Sull’influenza delle serie tv sulla criminalità. “Prima di cedere i diritti del mio libro al produttore che aveva intenzione di fare una serie tv, ho fatto alcuni patti ben precisi: non ci devono essere equivoci tra buoni e cattivi e lo spettatore si deve alzare dalla sedia con la voglia di stare dalla parte dei buoni. In alcuni film invece è avvenuto il contrario. Ne “Il Padrino” ad esempio la mafia viene raffigurata in maniera etica, addirittura epica. Se andiamo a vedere il look di questi ragazzi arrestati per l’omicidio di Willy, ricorda molto i personaggi della serie “Gomorra”. Anche se guardiamo i videogiochi di oggi, ai miei tempi c’era Super Mario, oggi solo giochi pieni di violenza. I neomelodici ai miei tempi cantavano il contadino, oggi cantano i mafiosi al 41-bis, bisogna anche adeguare le norme a questa mutata realtà”.

Omicidio Willy, tutti i paradossi del perbenismo. Guido Barlozzetti su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Quando accadono fatti come il delitto di Colleferro viene subito da seguire la tentazione sociologica. Un ragazzo di colore pestato selvaggiamente da un branco di quattro energumeni fino a morire. Sarebbe facile, si fa per dire, mettere in fila i pezzi e ricondurli a un contesto: quattro bravacci muscolari che hanno smarrito o non hanno avuto mai il senso della civile convivenza, prosciugati nei sentimenti dall’ambiente di un hinterland romano che li riempie solo di un machismo iperindividualista e di rabbia contro tutti e contro tutto ciò che abbia una sembianza di distinzione, razionalità, equilibrio. Roba che loro non possono permettersi, roba buona per spiriti gentili e costumati che si rifugiano ancora nelle buone maniere, nella religione o nella morale. Da qui a farli passare come eroi che resistono sul fronte della Forza e del loro Superuomismo – lo scrivo così per non confonderlo e nobilitarlo con quello di cui predicavano Nietzsche e Zarathustra – contro una società omologante, viziata, smidollata, egualitarista, evangelica nell’accogliere tutti… il passo è breve, come dimostrano le ondate di solidarietà che un reggimento di haters riversa nella e dalla rete. Una bella spiegazione, non c’è dubbio, di quelle che trovano un senso là dove riesce difficile a trovarlo, partorite dall’intellettuale – o quello che ne resta – che osserva da lontano, consulta l’archivio delle conoscenze, si mette una mano sulla coscienza e manifesta sconcerto di fronte a un altro passo a scendere nell’abisso, per poi redigere la sua bella mappa del disagio/degrado e trarne una diagnosi sul presente/futuro del Paese. No, non basta più. Non basta più il compitino che constata l’inferno e piange su un paradiso non solo remoto, ma ormai neanche più immaginabile dalle macerie in cui ci troviamo. Lo dico con il paradosso un poco dolente che ciò comporta, perché se rinunciamo alle analisi e alla rivendicazione dell’etica che cosa ci rimane? Il silenzio sdegnato? La constatazione – a rovescio rispetto al Candide di Voltaire – che viviamo nel peggiore dei mondi possibili? L’ennesimo lamento sulla fine della modernità e delle sue illusioni progressiste? Insomma, trappole psico-culturali, oltretutto segnate dall’impotenza e da una ritualità che ne va a vanificare qualunque riverbero sulla Realtà. Perché di questo dobbiamo prendere atto, della divaricazione che rischia di essere irreversibile tra il Discorso e la Realtà, le parole, le (buone) intenzioni, i concetti che non solo non aderiscono e non dicono, ma restano esercizi autoreferenziali, rinserrati nella specularità di chi scrive con il circuito di chi (forse) lo legge. Perché, sarà bene ricordarlo, i violenti di tutte le Colleferro della penisola – e non solo – i giornali non li leggono, i talk-show televisivi, nella loro dialettica di facciata e nel gioco stantìo e rissoso di posizioni che li sostiene, non li guardano, i libri li toccano solo per alimentare ancora di più il rigurgito virulento e la ferocia brutale e totalitaria che li possiede. Quella Realtà sta oltre il paradigma della mediazione, estranea a qualunque logica di conversione e redenzione e non basterà certo un pistolotto o un appello a debellarla o a introdurre un seme di autocoscienza. E il problema a questo punto è capire se stia rinchiusa in un perimetro a cui diamo anche un’identità territoriale – le periferie – nell’illusione che ci sia ancora un Centro che gli dia solo per questo un luogo anche di senso, oppure stia prendendo potere trasversalmente, stia lavorando ovunque come una marea montante che non bastano le dighe per tenerla sotto controllo, ma sale su, da sotto, dai fondamenti che oscillano e forse non tengono più. In queste occasioni scatta una retorica solidaristica che diventa un riflesso condizionato, all’insegna di «siamo tutti Willy», in una abbraccio solidale e coinvolgente, magari con fiaccolata. Forse, dovremmo aggiungere «siamo anche gli assassini» e non per un malinteso senso di colpa, quanto per dire di una tracimazione del Reale che non può non riguardarci e rischia di relegare in una riserva nostalgica inviti, denunce, accuse…Di questo Reale dovremmo parlare, del Reale che cova dentro di noi, sotto lo strato di sicurezza della buona coscienza e minaccia di farla sprofondare nel cortocircuito insicurezza-rabbia e nell’erosione della distanza che consente di articolare i giudizi, di dare profondità, riconoscere la complessità, aprirsi alle differenze e al loro valore decisivo nella costruzione di una dinamica individuale e sociale aperta e condivisa. I grandi teorici del potere moderno, nel Seicento, parlavano dello stato di natura, del «bellum omnium contra omnes» e auspicavano la nascita di un Leviatano che con il consenso di tutti esercitasse un potere assoluto. Viene da chiedersi se non ci troviamo su una soglia terribile in cui l’alternativa sia tra una regressione che tutti riguarda e un potere che, ormai indifferente alla preistoria di Valori ridotti a puro immaginario e nella deriva del Reale, simulando indignazione esercita solo una funzione di performativa amministrazione e controllo. Nel sordo rumore degli haters che si scambiano con gli assassini.

Il caso di Willy Monteiro Duarte. Quei politici che cercano il consenso "budellare". Sbaglia gravemente il politico che sulla notizia di un fatto di sangue, e quando ancora nessun processo ha fatto nessun accertamento, dichiara che il responsabile «deve essere punito con rigore». Che cosa vuol dire, infatti, “deve”? Forse non c’è una legge posta a punire quei delitti? Forse non c’è un giudice con il compito di applicarla? E allora che cosa significa reclamare che l’esercizio di quel “rigore” è doveroso? Ecco che cosa significa: significa assumere la veste del procuratore del popolo; significa istigare all’adunata intorno ai palazzi di giustizia, con la turba che grida i suoi desideri punitivi intimando al giudice di realizzarli perché altrimenti non è giustizia, altrimenti le vittime non sono protette, altrimenti è la prova che la gente perbene soffre soltanto mentre i criminali la fanno franca. Chiaramente non si tratta solo dei politici, e a quel coro querelante partecipano tanti altri, a cominciare dal giornalismo che non si vergogna di fondare il proprio giudizio colpevolista sul profilo losco dell’indagato. Ma specialmente un politico dovrebbe violentare le proprie propensioni aberranti e rimanere fedele al precetto, meno comodo ma più civile, dello Stato di diritto: questa cosa che non sempre porta consenso e anzi spesso lo pregiudica, ma è l’unica cosa su cui è possibile costruire un consenso diverso rispetto a quello selvaggio e budellare che alle debolezze della giustizia oppone la certezza della forca improvvisata sulla piazza. Perché questo è l’effetto, se non l’intenzione, di quelle ingiunzioni: che il tribunale metta in sentenza quel che reclama la piazza, opportunamente rappresentata dal politico che ne formalizza il verdetto. Ma se all’omicida infliggono un anno in meno di carcere o concedono qualche minuto d’aria in più, perché il processo così dispone, e se dunque la sentenza non si uniforma alla pretesa di “rigore” formulata nelle comminazioni del politico di turno, allora che cosa succede? Identifichiamo in quelle leggi molli e in quei giudici poco rigorosi la causa della giustizia insufficiente? È una buona premessa per l’adozione del rimedio classico: pene aggravate, che non servono a tenere bassa la criminalità ma a tenere alto il tono del comizio; e magari una magistratura di provata fede forcaiola, ben volentieri disposta a farsi terminale di quell’istanza punitiva in nome di una giustizia finalmente efficiente perché rinuncia a se stessa. E ora si accomodi chi ci accusa di volere l’impunità per chi ha ammazzato Willy. È uno sport facile e diffuso: il rigore deve esserci perché lo chiedono gli spalti, l’arbitro non serve.

Quegli aborti sociali che hanno ammazzato una vita vera. Emanuele Ricucci il 7 settembre 2020 su Il Giornale. Due aborti sociali con evidenti disagi mentali, riscontrabili anche dal lombrosiano aspetto che li identifica in foto, hanno ucciso una vita vera. Perché una vita vera si mette in mezzo a difendere, come può, ciò che più gli sta a cuore, gli aborti sociali la aggrediscono in gran numero e la lasciano per terra. Non perché Willy, pace alla sua giovane anima, fosse nero. Non perché chi sta “di qua” deve dimostrare qualcosa, magari una clitoridea sensibilità o un maggiore senso civico forzato o un manifesto senso di inferiorità, a chi sta “di là”. Solo perché esiste la via del coraggio e quella della vigliaccheria. Solo perché il mondo lo puoi ribaltate quante volte vuoi, puoi rendere relativo ogni significato, ogni azione, puoi erigere un monumento all’emozione che sovrasta la ragione, puoi rendere tutto un pessimo film di fantascienza, ma esisterà sempre una vita vera e un aborto. E Willy era una vita vera.  “Una sola cosa vorrei dire ai due fratelli tatuati e palestrati e alle loro gallerie di foto da duri di cartone: il coraggio e la lealtà stanno tutti dalla parte del mingherlino”, ecco il senso della vita vera, colta, perfettamente, da Tony Capuozzo. È sempre difficile rimanere lucidi in questo tempo vorticoso e desideroso di giudizi pilateschi e trancianti, che pare vengano prodotti in serie per soddisfare eroticamente la volontà diffusissima, ormai esondante, di gratificazione istantanea, di qualcosa o qualcuno in grado di dissetarci, nella dittatura dell’istante che annulla e sostituisce il precedente con tutti i suoi fatti e le sue riflessioni, dall’accecante sete di vedere soddisfatte le nostre necessità di sopravvivenza. Psichica, sociale, non solo economica. Un mostro serve e se non ha un volto ce lo inventiamo. A costo di concepire la favola di un runner fascista e immigrato. Il suggerimento, l’unico ormai prezioso, è quello di rimanere lucidi se ci si vuole salvare dalla distorsione mediatica, dalla tifoseria indiavolata, da ogni speculazione “ideologica”, da tutto ciò che per rabbia o per occasione ci fa involvere in uomini folla che occupano spazio, che vivono di percezione, replicano e diventano incapaci di ragionare sopra le cose. Rimanere lucidi, affare complicato che, spesso, non è riuscito neanche al sottoscritto, nel suo vivere passionale. Non sempre sono rimasto lucido e ho finito per sbagliare giudizio. Rimanere lucidi per proteggere la propria capacità di generare un pensiero critico, per ragionare sopra le cose. Pertanto, in questa storia terribile, si intravede una sola, possibile dicotomia: una vita vera che se ne va e aborti sociali ora rinchiusi nella gattabuia della propria coscienza. Per questo, stavolta, non bisogna cadere nella trappola, non bisogna tifare. Non bisogna commettere l’errore di azzannare ogni riflessione, di ammazzare ogni insegnamento nella ricerca del demonio fantastico, spiegando al mondo quanto sarebbe stato “diverso” se l’omicidio fosse stato compiuto da ragazzi di colore, così come si chiede, con fare forzatamente superficiale e indelicato, un giornalista di TPI in un suo pezzo – per inciso: “Un ragazzo nero di 21 anni viene ucciso a botte a calci e pugni da un branco di giovani italiani spacciatori. Immaginate questa storia al contrario. Quanto avrebbero sbraitato certi politici, certa stampa, certi leghisti?” -, o di quanto le MMA, le Mixed Martial Arts, siano lo sport preferito dal demonio, come fa intuire il Corriere della Sera in un suo pezzo, mancando, invece, di riflettere profondamente sulla nobiltà di certa arte sportiva; meditazione che, per fortuna, compie la Federazione pugilistica italiana in un suo post: “Willy, corso in aiuto di un amico preso di mira da una banda di balordi e per questo malmenato a morte, era portatore sano di quei valori che fanno di un uomo un Pugile: Coraggio, altruismo e incoercibile voglia di aiutare chi è in difficoltà. Valori, non i soli, e ideali che sono alla base della nobile arte e che i Maestri insegnano quotidianamente nelle palestre affiliate alla FPI. Chi non ne è in possesso e, soprattutto, non è tesserato (agonista/amatore, ndr) con la FPI non può e non deve essere definito Pugile”. Azzannare ogni riflessione, ammazzare ogni insegnamento, appunto. Da ultimo, nella mia rinomata rigidità, concepisco un pensiero che forse non sarà di molti, ma almeno risulta liberatorio per ogni intelligenza ancora non corrotta: non occorre essere Wittgenstein per maledire la più stupida, non peggiore, forma di trasgressione generazionale. Che qualcuno stramaledica Gomorra e tanta trap, che riempiono di vuoto, rinomati non luoghi per aborti sociali che poi strisciano nelle nostre giornate, magari per infastidire o per ammazzare la vita vera. Una preghiera per Willy.

Gianluigi Paragone contro Bonafede e Lamorgese: "Norme speciali contro la movida, ma sapete cosa voleva Willy quella sera?" Libero Quotidiano il 05 ottobre 2020. "Un'idiozia semantica". Così  Gianluigi Paragone sul quotidiano Il Tempo definisce la "norma Willy" ovvero un inasprimento delle pene per il reato di rissa e il Daspo dai locali pubblici e di intrattenimento per chi sia stato denunciato o condannato per atti di violenza fuori da un locale. Novità che i ministri Alfonso Bonafede e Luciana Lamorgese introdurranno nel decreto sicurezza. Una "norma Willy" che arriva dopo l'uccisione del giovane fuori da una discoteca a Colleferro e aumenta le pene per chi abbia partecipato a una rissa, facendo salire la multa da 309 a 2.000 euro e la reclusione - se qualcuno resta ferito o ucciso nella rissa - da un minimo di sei mesi a un massimo di sei anni (ora va da tre mesi a cinque anni). Per i protagonisti di disordini o di atti di violenza il questore può disporre il Daspo da specifici locali o esercizi pubblici: se violato c'è la reclusione fino a due anni e una multa fino a 20.000 euro. "Un provvedimento buono per strappare un titolo sulla morte violenta di un ragazzo", scrive Paragone, "che voleva fermare la furia di alcuni teppisti criminali. Willy quella sera non cercava una norma speciale, né la cercano coloro che si ritrovano nel mezzo di risse tra bande criminali che vogliono il controllo del territorio attraverso la violenza. Willy avrebbe voluto la presenza delle pattuglie, di pattuglie operative che presidiano il territorio. I suoi familiari vogliono la certezza della pena perché sanno già come può andare a finire".  Il leader di Italexit e senatore ex M5s pone l'accento sul bisogno di nome sicure e non "law and order a intermittenza" ma anche  la necessità di lasciare "militari, carabinieri, polizia e guardia di finanza nella pienezza delle loro funzioni senza il pregiudizio (proprio della sinistra) che le forze dell'ordine siano violente o fasciste". Come fare? Innanzitutto "le forze dell'ordine devono agire coperti da uno Stato che li legittima e li controlla e li punisce in caso di abusi veri. Infine gli agenti devono sapere che sopra di loro ci sono comandanti d'esperienza e non molli burocrati, dirigenti capaci e fermi nelle richieste di aumento del personale, dell'aumento degli stipendio delle dotazioni". Paragone torna sul termine "law and order" che sembra assente nel governo "perché la sinistra non è mai stata dalla parte delle forze dell'ordine".

Mattarella conferisce due medaglie d'oro alla memoria a Willy Monteiro e a don Malgesini. Pubblicato mercoledì, 07 ottobre 2020 da Concetto Vecchio su La Repubblica.it. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito due medaglie d'oro alla memoria a Willy Monteiro, il ragazzo ucciso a Colleferro il 6 settembre mentre difendeva un suo amico aggredito, e a don Roberto Malgesini, il prete degli ultimi, assassinato a Como il 14 settembre da un clochard tunisino di 53 anni. Due delitti che hanno scosso profondamente gli italiani per la loro gratuita brutalità. Quella di Willy è una medaglia al valore civile, quella per don Malgesini al merito civile. 

Ecco le due motivazioni: Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha oggi firmato, su proposta del Ministro dell’Interno Lamorgese, il decreto di conferimento della medaglia d’oro al valor civile alla memoria del signor Willy Monteiro Duarte con la seguente motivazione:  “Con eccezionale slancio altruistico e straordinaria determinazione, dando prova di spiccata sensibilità e di attenzione ai bisogni del prossimo, interveniva in difesa di un amico in difficoltà, cercando di favorire la soluzione pacifica di un’accesa discussione. Mentre si prodigava in questa sua meritoria azione di alto valore civico, veniva colpito da alcuni soggetti sopraggiunti che cominciavano ad infierire ripetutamente nei suoi confronti con inaudita violenza e continuavano a percuoterlo anche quando cadeva a terra privo di sensi, fino a fargli perdere tragicamente la vita. Luminoso esempio, anche per le giovani generazioni, di generosità, altruismo, coraggio e non comune senso civico, spinti fino all’estremo sacrificio”.

Il Presidente Mattarella ha anche conferito la medaglia d’oro al merito civile, alla memoria di Don Roberto Malgesini con la seguente motivazione:  “Con generosa e instancabile abnegazione si è sempre prodigato, quale autentico interprete dei valori di solidarietà umana, nella cura degli ultimi e delle loro fragilità, offrendo amorevole accoglienza e incessante sostegno.  Mentre era intento a portare gli aiuti quotidiani ai bisognosi, veniva brutalmente e proditoriamente colpito con numerosi fendenti, fino a perdere tragicamente la vita, da un uomo al quale aveva sempre dato piena assistenza e pieno sostentamento.  Luminoso esempio di uno straordinario messaggio di fratellanza e di un eccezionale impegno cristiano al servizio della Chiesa e della società civile, spinti fino all’estremo sacrificio”. La medaglia al valore civile viene conferita per premiare "atti di eccezionale coraggio, che manifestano preclara virtù civica e segnalarne gli autori come degni di pubblico onore". Ovvero, cittadini che abbiano esposto la propria vita a manifesto pericolo per salvare persone esposte ad imminente e grave pericolo". La medaglia al merito si dà per premiare le persone, gli enti e i corpi che si siano prodigati, con eccezionale senso di abnegazione, nell'alleviare le altrui sofferenze o, comunque, nel soccorrere chi si trovi in stato di bisogno". Già a Vo' Euganeo, partecipando alla festa per l'avvio dell'anno scolastico, Mattarella aveva dedicato un commosso ricordo a Willy.

(ANSA il 9 dicembre 2020) - Operazione antidroga dei carabinieri ai Castelli romani. Sei gli arrestati. Tra i destinatari del provvedimento ci sono anche i fratelli Bianchi, attualmente in carcere poiché indagati per l'omicidio di Willy Duarte Montero, avvenuto a Colleferro lo scorso 6 settembre. Le indagini dei carabinieri della Compagnia di Velletri avrebbero accertato l'esistenza di un sodalizio dedito allo spaccio di stupefacenti nell'area di Velletri, Lariano, Artena e comuni limitrofi, ricorrendo ad azioni violente e minacce per intimorire gli assuntori 'insolventi' e obbligarli a pagare. I Carabinieri del Comando Provinciale di Roma stanno eseguendo un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip di Velletri su richiesta della locale Procura, nei confronti delle 6 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e tentata estorsione. I carabinieri avrebbero accertato i ruoli ricoperti e ricostruito il modus operandi del gruppo, appurando che gli indagati ricorrevano abitualmente ad azioni violente e minacce per intimorire e obbligare gli assuntori di droga a pagare i compensi pattuiti per l'acquisto dello stupefacente.

Maria Elena Vincenzi per "la Repubblica" il 4 dicembre 2020. Lo hanno massacrato di botte. Alcuni organi erano così malconci che il medico legale ha faticato a identificarli. Nonostante il lessico specialistico, l'autopsia sul corpo di Willy Monteiro Duarte rende l' idea della violenza di quella notte. Quella in cui perse la vita in un giardino a pochi passi dalla caserma dei carabinieri di Colleferro, ammazzato di botte da quattro ragazzi come lui. Così, senza un perchè. Era il 6 settembre scorso, Willy aveva 21 anni e origini capoverdiane, era intervenuto in una rissa per aiutare un suo vecchio amico. Ne è uscito senza vita. Per il suo omicidio sono stati arrestati i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Eccezione fatta per quest' ultimo che ha fatto ammissioni e ha ricostruito cosa successo quella notte, gli altri tre indagati hanno sempre detto di non aver preso parte alla rissa, di non avere alzato un dito su Willy. Eppure il corpo di Willy ha parlato. Ha raccontato di quella notte di follia. Di come gli organi gli sono stati spaccati a suon di calci e pugni tanto che il medico legale li ha definiti «mal riconoscibili» . Ha descritto la furia di un blitz durato pochi minuti ma così violento da non lasciarli speranza. Il professore Saverio Potenza, consulente nominato dalla procura di Velletri, si è trovato davanti a un corpo martoriato. Così martoriato da non riuscire a trovare la causa precisa della morte che, secondo lui, è attribuibile a una tra due lesioni: quella al cuore o quella al collo. O forse anche alla sinergia di entrambe. Pur usando un linguaggio scientifico, il professionista è riuscito a descrivere quella violenza folle. Tra emorragie a cuore, polmoni, pancreas, milza. «Si tratta - scrive di una lesività a prevalente espressione viscerale, caratterizzata da aree di infiltrazione emorragica del diversi organi ed appartati coinvolti che, per le loro caratteristiche quali-quantitative, risulta compatibile con l' azione di uno o più mezzi di natura collusiva che hanno attinto il soggetto in più distretti corporei e patitamente in corrispondenza del capo e del collo, della regione toracica e di quella addominale». Insomma, lo hanno picchiato ovunque: la lista delle lesioni interne ed esterne è lunghissima. Il medico legale non ha dubbi sull' origine di quelle ferite: « Mezzi contusivi caratterizzati da significativa energia lesiva che debbono aver agito attingendo il soggetto in maniera cronologicamente concentrata, seppure in tempi rapidamente subentranti, sui diversi distretti corporei». Una raffica veloce e violentissima. Il professore esclude la versione di una caduta accidentale o di un «unico urto al suolo»: queste ipotesi non sono compatibili con i segni sul corpo del ragazzino. «Si deve, al contrario, ipotizzare - conclude l' azione di uno o più mezzi contusivi caratterizzati da superfici relativamente contenute e prive di particolari asperità e che appaiono pienamente compatibili anche con l' uso di mezzi da offesa naturali, quali l' uso di pugni e/o calci».

Daspo e carcere per rissa. Il decreto per Willy? Non piace all’avvocato di Willy…Federica Graziani Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Con la perentorietà conveniente alle parole dell’Istituzione, l’altro ieri il Ministero della Giustizia twitta la notizia dell’approvazione delle misure “nate per contrastare il fenomeno delle risse”. L’immagine che accompagna il testo è un murales che ritrae il volto di Willy Duarte Monteiro, vittima di un pestaggio avvenuto nella notte del 5 settembre a Colleferro, e il ministro della Giustizia in persona sottolinea l’urgenza delle disposizioni a seguito di quel brutale omicidio. Il testo poi illustra gli inasprimenti previsti: chi è coinvolto in una rissa è punito con una multa fino a duemila euro (non più 309 euro) e, nel caso qualcuno riporti lesioni personali o resti ucciso, le pene passano da un minimo di 6 mesi a un massimo di 6 anni (in luogo delle precedenti da 3 mesi a 5 anni). E si prevede il Daspo come misura di prevenzione dei disordini nei locali per coloro che siano stati denunciati o condannati anche in via non definitiva nel corso degli ultimi tre anni per reati commessi in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi (prima della modifica era necessaria una condanna definitiva o confermata in grado di appello). In caso di violazione della misura di allontanamento si prevede la pena da 6 mesi a 2 anni e la multa da ottomila euro a ventimila euro (precedentemente si prevedeva la pena da 6 mesi ad 1 anno e la multa da cinquemila a ventimila euro). Si pensa da più parti a una norma dilettevole, a una festa del diritto, alla risposta di salda e inflessibile severità dello Stato di fronte alla violenza. Una severità promessa di tolleranza zero “unico atteggiamento possibile di fronte alle risse che spesso sfociano in fatti gravissimi, e persino alla morte”, come sempre Alfonso Bonafede commenta. Non solo i governanti rispondono alla morte di Willy, insomma, ma incastonano al cuore della giustizia una legge che garantirà criteri di punizione così intransigenti da assicurare una sicurezza più piena, che scongiuri il ripetersi di simili efferatezze. Proviamo ora a fare un’ipotesi fantastica. Il 5 settembre scorso la modifica del decreto sicurezza è già vigente e già opera nella sua duplice veste di dissuasione per eventuali invasati del menare le mani e di contrasto al cupo fenomeno delle risse. Cosa sarebbe cambiato? In verità, niente. Quel che è accaduto quella notte, infatti, non è una rissa. Reato dai contorni sfumati quanto il pericolo che segnala per l’incolumità della persona, la rissa suppone che ci siano due gruppi contrapposti, due schiere nemiche, finalmente e come vogliono tanti giornali: due branchi che partecipano alla mischia e attentano gli uni all’incolumità personale degli altri, e viceversa. Insomma, due compagnie che se le danno di santa ragione. Ma nulla di quel che si può leggere sulla stampa suggerisce che il vecchio compagno di scuola impegnato nella discussione i cui toni mossero Willy ad avvicinarsi per offrire aiuto, e poi Willy stesso, facessero parte di una fazione di rissosi coinvolti in un pestaggio reciproco. A suggerirlo è però la norma appena approvata. Che non soltanto si installa al centro dell’illustre tradizione del populismo penale, risolvendo i propri turbamenti davanti all’efferatezza a suon di leggi costruite sulla proliferazione di pene tanto rigide quanto simboliche, acre propaganda che esaspera gli aerei sospiri dell’indignazione pubblica e precipita poi nell’assai concreto condizionamento della macchina processuale. Ma stavolta s’è scoperto un nuovo abuso delle vittime e della loro sofferenza. Come consenso vuole, li si torce a giustificazione di un inferocimento inefficace quando non dannoso delle sanzioni, ma ora gli si inventa intorno una vicenda che non li riguarda affatto e che ne cambia il ruolo anche agli occhi di quella opinione pubblica che tanto rapidamente s’emoziona. Ecco la novità: si legifera su un reato in nome della vittima di un altro reato. C’è qualcuno che s’inquieta per tutto questo? C’è, ed è il legale della famiglia di Willy Monteiro, che parla a loro nome così: «La famiglia di Willy vuole una pena certa e giustizia. Come avvocato non credo che legiferare in emergenza sia la cosa più saggia. Già adesso ci sono norme severe ma bisogna far sì che le pene siano espiate e abbiano funzione educativa. Bisognerebbe valutare perché episodi del genere si verificano e a chi sono ascrivibili». Menomale, a quel che combinano i legislatori le vittime ogni tanto trovano il modo di rispondere.

Foggia, «Donato morto come Willy in una rissa. La giustizia deve arrivare per tutti». Su Fb amici e parenti di Donato Monopoli chiedono giustizia per la morte del 25enne di Cerignola. La Gazzetta del Mezzogiorno. «Donato è morto come Willy, pestato brutalmente, ma su di lui si sono spenti i riflettori e i suoi "assassini sono liberi come niente fosse: non devono esistere morti di serie A e di serie B». Si possono sintetizzare così alcuni post pubblicati sulla pagina Fb 'Giustizia per Donato', dedicata Donato Monopoli, il 26enne di Cerignola morto a maggio dello scorso anno a Foggia dopo essere stato pestato perché intervenuto per sedare una rissa. Un destino che lo accomuna a Willy Monteiro Duarte, ucciso a 21 anni con calci e pugni durante una rissa, a Colleferro. Per la morte di Donato furono arrestati due ventisettenni foggiani che, dopo aver trascorso sei mesi in carcere, sono stati messi in libertà con obbligo di firma. E ora gli amici e i parenti di Donato si domandano perché la morte del giovane cerignolano non abbia avuto lo «stesso clamore mediatico di quella di Willy». E chiedono venga fatta giustizia affinché Donato non sia dimenticato. Nei post si precisa che «ci si spezza il cuore per Willy» ma si chiede «cosa serva per avere giustizia in Italia, diventare un caso mediatico?». «Un mio parente, Donato Monopoli di 26 anni - si legge - è stato BRUTALMENTE ASSASSINATO mentre cercava di sedare una rissa, all’interno di un locale a Foggia e nel maggio 2019 è morto. Gli assassini sono a piede libero e hanno solo l'obbligo di firma». «Donato, ad oggi, non ha avuto nessun tipo di giustizia, nessuno ne parla, nessuno ha telefonato “ai piani alti” - si legge in un altro post - nessuno gli ha dedicato giorni di programmi tv, nessuno ha parlato del suo caso. Certo, all’inizio si, ma oggi? Come funziona?». «Donato e tutti gli altri ragazzi morti come lui, sono passati in secondo piano? No - conclude il post - non è così che dovrebbe funzionare».

Lo sfogo sui social: “Donato morto come Willy. La giustizia deve arrivare per tutti”. Le Iene News il 13 settembre 2020. Sulla pagina Facebook “Giustizia per Donato” aperta all’indomani della morte del 25enne di Cerignola viene pubblicato uno sfogo in cui si accosta questa vicenda a quella di Willy Monteiro, con una differenza: “Donato e tutti gli altri ragazzi morti come lui, sono passati in secondo piano? “La morte è qualcosa di orrendo. L’assenza di una persona amata è qualcosa di ancora più orrendo. Ma c’è una cosa che non capisco: esiste distinzione tra morte e morte? Esistono morti più o meno importanti? Beh, io credo di no”. Sono le parole di sfogo comparse venerdì scorso sulla pagina Facebook “Giustizia per Donato”. “Donato è stato ucciso nello stesso brutale modo di Willy. (…) La giustizia deve arrivare per tutti, bisogna parlare di tutte le vittime, bisogna aiutare tutte le famiglie”. Donato Monopoli è morto in ospedale dopo sette mesi di agonia in seguito a un pestaggio avvenuto il 6 ottobre 2018. Aveva 25 anni e le sue condizioni furono da subito giudicate gravi. Il pestaggio avvenne in una discoteca di Foggia e poco dopo furono individuati i due 26enni presunti responsabili per i quali si profila l’accusa di omicidio preterintenzionale con l’aggravante di futili motivi. L’avviso di chiusura delle indagini è avvenuto solo ad aprile scorso. “Questi 2 individui sono stati accusati di aggressione e costretti agli arresti domiciliari per 6 mesi, al termine  dei quali sono stati  messi in libertà con il solo obbligo di firma presso le forze dell'ordine”, avevano scritto all’indomani dell’avviso di chiusura delle indagini i genitori di Donato in una lettera aperta pubblicata su FoggiaToday. “Donato è stato ucciso nello stesso brutale modo di Willy”, continua il post comparso sulla pagina “Giustizia per Donato”. “Donato, ad oggi, non ha avuto nessun tipo di giustizia, nessuno ne parla, nessuno ha telefonato “ai piani alti”, nessuno gli ha dedicato giorni di programmi tv, nessuno ha parlato del suo caso. Certo, all’inizio sì, ma oggi? Come funziona? Donato e tutti gli altri ragazzi morti come lui, sono passati in secondo piano? No, non è così che dovrebbe funzionare. La giustizia deve arrivare per tutti, bisogna parlare di tutte le vittime, bisogna aiutare tutte le famiglie. Io spero che Willy e la sua famiglia abbiano la giustizia che meritano, anche se Willy non tornerà più. Io spero che Donato e la sua famiglia abbiano la giustizia che meritano, anche se Donato non tornerà più. Io spero che tutte le vittime come loro abbiano la giustizia che meritano. La verità è che se in giro c’è gente così schifosa da compiere atti schifosi è perché in Italia non ci sono regole, non ci sono punizioni e ognuno si sente libero di fare ciò che vuole”. “Il dolore resta a chi lo prova”, conclude il post. “E auguriamoci che non capiti mai a noi, perché l’abbandono da parte delle autorità è come l’ultimo pugno in faccia dato alle vittime prima di morire”. 

Walter Berghella e Antonio Di Muzio per il Messaggero il 20 ottobre 2020. Restano gravi le condizioni di salute di Giuseppe Pio D' Astolfo, il diciottenne di Lanciano (Chieti) aggredito e colpito con un unico e potente pugno alla tempia sinistra l' altra notte da una baby gang all' interno dell' area dei binari dismessi dell' ex ferrovia Sangritana, in pieno centro. Dopo gli interventi per bloccare l' emorragia cerebrale il ragazzo resta in coma farmaceutico alla rianimazione dell' ospedale di Pescara. Sul fronte dell' indagine i cinque aggressori, di cui tre sarebbero minori, hanno il fiato sul collo dei carabinieri che ieri hanno tenuto un summit col procuratore capo Mirvana Di Serio e il pm Serena Rossi, titolari dell' inchiesta. Presenti il colonnello Alceo Greco, comandante provinciale di Chieti, e il maggiore Vincenzo Orlando, a capo della compagnia di Lanciano. Una seconda informativa è stata inoltrata alla procura dei minori dell' Aquila. Sabato notte il ragazzo ferito era nella vecchia stazione con due altri amici, un giovane di 25 anni, ospite nella sua stessa abitazione, e una minore di 16, quando per futili motivi sono stati affrontati dalla baby gang distante pochi metri. Uno sguardo non gradito poi l' invito alla vittima: «Vieni qua, vieni qua». Col ferito che risponde «Ma che vuoi?». Il diciottenne viene colpito sulla tempia, l' amico sfiora il colpo e riesce a divincolarsi unitamente alla sedicenne. Ieri i militari li hanno di nuovo interrogati, poi sentiti nuovi testi e nuovamente visionati i filmati delle telecamere della zona, non chiari e neppure puntati sui binari. Nella movida dei più giovani ad ogni week end scorrono fiumi di vino, birra, alcolici e droga. Pure ieri notte, come nulla fosse accaduto. Un' area di degrado nota da tempo senza che nessuno sia intervenuto a prevenire. Tanti gli adolescenti e un paio di gruppi che cercano di imporsi. «Ragazzi conosciuti, ma nessuno parla per paura»; lo dicono gli esercenti e lo pensano i genitori del ferito.

È disperata la madre Paola Iasci. C' è chi sa e non parla?

«Certo, un orribile incubo. Chiedo che si abbatta il muro di omertà su questa terribile vicenda. Mio figlio si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato».

Quanto ha saputo dell' accaduto?

«Domenica mattina. Con mio figlio avevo parlato al telefono alle 20.30 con la promessa che ci saremmo sentiti più tardi. Aveva un appuntamento con due amici e così non ha richiamato».

Anche oggi l' ha visto in ospedale, come sta?

«È sempre grave anche se i medici dicono che accenna a piccoli miglioramenti. La speranza è che guarisca e torni quello di prima, un ragazzo solare».

Suo figlio vive da solo?

«È un ragazzone di quasi due metri, da un anno lavora in un negozio di surgelati. Per il compleanno, lo scorso 2 giugno, è andato a vivere da solo in centro storico. Per regalo voleva la sua autonomia. Forse non era pronto, è ancora un bambinone. Avrei forse dovuto seguirlo meglio».

Dall' ospedale di Pescara il padre Giuseppe D' Astolfo, stesso nome del figlio, dice: «Si facciano l' esame di coscienza i giovani che hanno aggredito mio figlio mettendolo a rischio di vita».

Una violenza grave e gratuita?

«Certo, riflettano su quanto hanno fatto. Quanto accaduto non è uno scherzo».

Suo figlio è stato in serio pericolo.

«Sì perché la vita è il dono più bello, unitamente alla libertà. Ma quello che è successo all' ex stazione è stato un fatto gravissimo e non ho parole per commentarlo».

Le pesa parlare di questa aggressione?

«Non esiste una cosa del genere, che uno se ne va in giro e viene aggredito da 5 persone e rischia di morire. Mio figlio ha subito un' operazione al cervello e speriamo si riprenda».

Walter Berghella Giovanni Sgardi per “il Messaggero” il 23 ottobre 2020. Colpevole sì, ma dietro c'è dell'altro. Forse. Il baby rom (13 anni) ammette di aver sferrato il pugno che ha mandato in coma Giuseppe Pio D' Astolfo, sabato sera a Lanciano, ma racconta una storia a difesa di se stesso e del branco messi alle corde dai carabinieri: «È vero, ho colpito io Giuseppe, a mani nude. Lui è caduto a terra. Però sono stato provocato. Anzi, minacciato». Al centro di tutto la ragazza di 16 anni che era con Giuseppe e con l' amico dominicano di 25 anni. «Erano visibilmente alterati per l' assunzione di bevande - ha proseguito il 13enne -. La minore, che conosco, ha detto loro che il mio gruppo voleva picchiarli. Non era vero. Io ero con i miei due cugini che non c' entrano nulla e altri ragazzi. Non bevo e non fumo e sono pronto a sottopormi ad esami tossicologici». Il tredicenne rom, indagato per lesioni gravi anche se non sarà imputabile, è stato sentito dai carabinieri di Lanciano. Si è presentato spontaneamente, accompagnato dal difensore Vincenzo Menicucci, dopo aver raccontato tutto alla madre. È stata lei a convincerlo ad andare subito in caserma. Dopo la testimonianza il procuratore capo di Lanciano Mirvana Di Serio ha disposto perquisizioni domiciliari durante le quali sono stati sequestrati i telefonini del bullo e della madre, quindi degli altri quattro indagati in concorso per verificare l' attendibilità del racconto. Sotto accusa due quattordicenni, quindi Giocondino De Rosa, 30 anni, e Pasquale De Rosa, di 18, zio e nipote, difesi dall' avvocato Massimo Biscardi, che sarebbero giunti in un secondo momento sul luogo della movida all' ex stazione Sangritana. I 5 coinvolti appartengono a tre distinte famiglie rom, imparentate ma con cognomi diversi. Tutto nasce, come noto, dal bisticcio a distanza per la musica alta. Poi il baby rom punta il dito contro la sedicenne: «Ha detto ai suoi amici che noi li volevamo picchiare. Giuseppe si è avvicinato e mi ha detto Non fai paura a nessuno. Se parti prima tu (con le botte ndr) poi partiamo anche noi. Sentitomi minacciato ho reagito col pugno. Mentre andavo via ho preso di striscio un colpo che mi ha sferrato il domenicano ed io ho cercato di colpirlo a mia volta, mentre la 16enne mi ha preso per il collo escoriandomi l' orecchio sinistro. Per paura sono scappato. Dopo mezzanotte ho contattato la ragazza con videochiamata su Istagram ma lei ha chiuso il telefono. Poi mi ha mandato un messaggio scrivendo: Ti chiedo scusa. So che quello successo è in parte anche colpa mia».

Giovanni Sgardi per “il Messaggero” il 25 ottobre 2020. Dopo il pugno che ha quasi ammazzato il 18enne di Lanciano, durante l'impazzare della movida dietro una vecchia stazione, un ragazzino moderno non poteva rinunciare a dire la sua chattando sui social. E mentre i carabinieri gli davano la caccia, il baby rom (13 anni) affidava al web le sue considerazioni da brivido. Con il sigillo di un morte tua, vita mia che comunque sembra confermare quanto confessato durante l'interrogatorio: di averlo preso a botte temendo l'aggressione dell'avversario. Ed eccoli i fraseggi dell'adolescente, interpuntati dalle considerazioni dell'amico. La grammatica è quella dell'originale. «Se io non tiravo quel pugno - dice il tredicenne - loro potevano benissimo ammazzarmi. E quindi sai come si dice: morte tua vita mia». L'interlocutore sembra affidarsi alla saggezza: «Ma tutto si può risolvere a parole e non alle maniere forti, non sono nessuno ma il karma gira». E poi l'affondo, spiazzante: «Sinceramente se muori a noi non ce ne frega un ca..., almeno un assassino in meno». E il minore replica: «Ok, allora a sto punto anche a me non importa niente di un italiano in meno. E comunque mi sa che era meglio che ci andavi tu al posto di quel ragazzo». Infine l'amico scrive: «Ma i tuoi lo sanno che hai menato a cussù (quel ragazzo, in dialetto ndr)? Lo so che non sono ca... miei, però». Il tredicenne risponde: «Secondo te. È logico che lo sanno». Infatti è proprio alla madre che il baby rom ha raccontato tutto, con la donna che lo ha convinto ad andare dai carabinieri e ora dice: «Se ha sbagliato deve pagare». Giuseppe Pio D'Astolfo è ancora in coma farmacologico all'ospedale di Pescara. I medici hanno iniziato a diminuire i sedativi, ma la botta è stata grossa. Per un completo risveglio bisognerà aspettare i prossimi giorni e non è detto che il pugno non gli lasci conseguenze permanenti. L'inchiesta grosso modo è definita. La ricostruzione di sabato scorso: il gruppo di Giuseppe Pio e quello dei rom sono poco distanti. Ai rom non va la musica che ascolta il terzetto vicino. Una ragazzina dice a Giuseppe Pio e compagni: «Quelli vi vogliono menare». Giuseppe Pio si fa avanti a muso duro e l'altro colpisce per primo. «Per difendermi, mi sentivo minacciato» dirà ai carabinieri. Con il ragazzo a terra ci sarebbe stata un'altra scazzottata, tra l'amico dominicano di Giuseppe Pio e altri due rom. Questa volta però i pugni vanno parzialmente a vuoto. E comunque è cronaca minore, buona per definire prove e responsabilità davanti a un Tribunale. Ma il tredicenne in Tribunale non ci finirà mai. Per la sua età non è imputabile e affronterà solo forme di giustizia alternativa.

Dopo Willy, Giuseppe: storia di una vita spezzata dalla violenza. Le Iene News il 3 novembre 2020. A inizio settembre la notizia del brutale omicidio di Willy Duarte ha scosso l’Italia. Poche settimane fa a Lanciano è accaduto un fatto apparentemente simile. Nina Palmieri ci racconta la storia di Giuseppe, un ragazzo di 18 anni ridotto in coma: “Da un momento all’altro se ne potrebbe andare, sta proprio ridotto male”. Sono passati due mesi dalla tragica morte di Willy Duarte, il ragazzo di 21 anni ucciso a calci e pugni a Colleferro. Una storia assurda, che abbiamo seguito e approfondito anche su Iene.it. Mentre il dolore per quella morte non si è ancora placato, a 200 chilometri da Colleferro si è consumata una vicenda che per certi aspetti sembra simile a quella di Willy. A Lanciano un ragazzo di appena 18 anni è finito in coma dopo aver subito un pestaggio. “Da un momento all’altro se ne potrebbe andare, sta proprio ridotto male”. Nina Palmieri ci racconta questa nuova e tragica storia, parlando con i fratelli della vittima. “Vedere un fratello ridotto così per motivi futili ti porta tanta rabbia”, ci raccontano. “Ci sentiamo cose se ci avessero strappato il cuore, nessuno dovrebbe vedere un ragazzo così giovane buttato in un letto, senza sapere se si risveglierà”.

AGGIORNAMENTO: Purtroppo, proprio mentre andavamo in onda, la famiglia ci ha informato che le condizioni di Giuseppe si sono aggravate di nuovo e che non è potuto uscire dalla terapia intensiva come previsto. 

Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2020. Uno dei dogmi fondamentali della neoreligione politicamente corretta recita: le vittime non sono tutte uguali. Perché, in realtà, all' origine non lo sono i carnefici. Non è nostra esagerazione titolistica, è doppiopesismo quotidiano, e lo verifichiamo anche in queste ore. Primo tempo, poco più di un mese fa, Colleferro, provincia italiana. Un branco di immondi delinquenti aggredisce Willy Monteiro Duarte, 21 anni, lo massacra di botte, lo lascia per terra. Willy, purtroppo, muore. Sacrosanto sentimento di rivolta nazionale, doverosa onnipresenza della notizia su tutti i media, che però viene piegata istantaneamente in funzione del suo commento unico, prestampato, copia&incollato. In sintesi, ed è stato davvero un secondo scempio del corpo di Willy: il ritorno del fascismo. Perché la vittima è di colore, e i carnefici erano frequentatori delle fascistissime "palestre" (non è una burla, il nesso tra il tapis ruolant e il Ventennio lo teorizzarono in coro i giornaloni, e del resto lo ha ribadito ancora recentemente Paolo Berizzi di Repubblica). Secondo tempo, ieri, Lanciano, provincia italiana. Un branco di immondi delinquenti aggredisce Giuseppe Pio D' Astolfo, 18 anni, lo massacra di botte, lo lascia per terra. Giuseppe è ricoverato in coma, prognosi tuttora riservata, condizioni gravissime. Il branco ha messo in pericolo il suo bene supremo, la vita, se alla fine se la caverà sarà soltanto perché ha avuto più fortuna, materia insondabile, del povero Willy. La scena di violenza selvaggia, elementare e futilissima (Willy voleva difendere un amico, Giuseppe ha chiesto ai suoi picchiatori di abbassare la musica che stavano ascoltando) è analoga. L' indignazione, la copertura mediatica, la corsa a partecipare alla seduta di terapia sociologica di massa no. Il dramma di Giuseppe è un dramma minore, un B-movie nel grande circo giornalistico e televisivo, ha un difetto irreparabile nella sceneggiatura: sono sbagliati i ruoli della storia. Sì, perché i carnefici sono rom. Cinque, appartenenti a una stessa famiglia, tre minorenni (quello che avrebbe sferrato il pugno decisivo addirittura tredicenne), un diciottenne e un trentenne, questi ultimi con precedenti e già noti alle forze dell' ordine, come tocca troppo abitualmente annotare in casi del genere. Li hanno identificati i Carabinieri, al momento sono denunciati, per lesioni personali gravi o per concorso in tale reato, ma a piede libero. Soprattutto, sono assenti dal resoconto, dal dibattito, dagli stessi fatti. Il Corriere della Sera ieri ha riportato in prima pagina la notizia della "baby gang delle botte al 18enne", riuscendo nell' epica impresa di non scrivere la parola "rom" né nel titolo né nell' occhiello. Nel corso della giornata quasi tutti i siti hanno parlato di "cinque ragazzi del luogo", con procedura tipica della censura politically correct: non hanno detto il falso, hanno semplicemente omesso un elemento di notizia sgradito per le tabelle ideologiche dominanti (l' appartenenza del branco alla comunità rom, e non a un gruppo di pesisti di destra) per quanto fondamentale. Senz' altro più saliente dei "muscoli, tatuaggi e bella vita" degli accusati del bestiale omicidio di Willy, su cui per giorni indugiarono cronisti mediocri, politici avvoltoi, psichiatri engagé come Massimo Recalcati, che arrivò a (stra)parlare di "esaltazione paramilitare e fascistoide del corpo forte e vigoroso". Nel caso di Lanciano, quindi, dovremmo tirare in ballo "l' esaltazione criminale e zingara" del corpo forte e vigoroso, o qualcosa del genere. Ma la verità è che sul calvario di Giuseppe Pio D' Astolfo no, non si può fare sociologia. Perché si rischierebbe di evocare l' irrisolto della comunità rom, la diffusione presso di essa di pratiche criminali, l' educazione a cui sono sottoposti i suoi giovani e fin giovanissimi, che spesso coincide con l' educazione alla violenza, l' abitudine a vivere in una zona franca dalla legge. Meglio girare al largo, e applicare il vecchio teorema di Orwell riadattato alla cronaca nera: alcuni pestaggi sono meno pestaggi degli altri.

(ANSA il 2 ottobre 2020) Aggredito e picchiato davanti alla fidanzata da due fratelli pugili per non averli invitati a una festa. Vittima un 28enne di Ladispoli, vicino Roma, che per le botte ricevute quella sera ha perso un occhio. L'episodio è accaduto il 20 luglio scorso. I due fratelli, insieme al cognato, sono stati arrestati stamattina dai carabinieri della compagnia di Civitavecchia per lesioni personali gravissime. A quanto ricostruito, la vittima conosceva gli aggressori poiché iscritti alla stessa palestra. Le indagini sono scattate dalla denuncia presentata dalla vittima a fine luglio ai carabinieri della stazione di Ladispoli. Gli investigatori, anche tramite le dichiarazioni di alcuni testimoni, hanno accertato che la vittima conosceva gli aggressori poiché iscritti alla stessa palestra. Quella sera il ragazzo era in compagnia della fidanzata quando ha incontrato la sorella degli aggressori che li ha avvisati di essere in compagnia del 28enne. Così i due fratelli si sono recati sul posto e l'hanno aggredito improvvisamente mentre la sorella (indagata per violenza privata) impediva alla fidanzata di intervenire in suo aiuto. A quanto ricostruito, uno dei due fratelli nutriva rancore nei confronti del 28enne perché, dopo aver interrotto il rapporto di amicizia con lui per i suoi comportamenti, non li avrebbe invitati a una festa. Dopo tale "affronto" uno dei fratelli avrebbe minacciato con messaggi la vittima, fino alla sera del pestaggio. Uno degli arrestati ha precedenti per reati conto la persona, contro il patrimonio e per uso di stupefacenti. Stamattina i carabinieri della compagnia di Civitavecchia hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip di Civitavecchia su richiesta della locale Procura, nei confronti dei tre fratelli e del cognato, ritenuti responsabili di lesioni personali gravissime.

Alessia Marani Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 5 novembre 2020. Game over. Per Manuel Parrini, 23 anni, Tiziano Barilotti, 31 anni, Alex Refice, in arte Sayanbull, 25 anni e Omar Nguale Ilunga, Ion, 36 anni, trapper e, i primi tre, anche boxeur della Capitale, ieri sono scattati gli arresti domiciliari. Due di loro, Sayanbull e l' amico Parrini, guanto d' oro della Garbatella nel 2018, furono già arrestati nel dicembre 2019 dopo avere picchiato e rovinato per sempre il volto a un barman dell' Eur, ma processati per direttissima furono subito rimessi a piede libero. Pronti a commettere nuovi raid, dimostrando, come scrive nell' ordinanza il gip Chiara Gallo «che nessuna efficacia deterrente ha sortito la precedente esperienza giudiziaria». Spavaldi e impuniti come lo erano i fratelli Marco e Gabriele Bianchi prima di finire in carcere per l' omicidio del giovane chef capoverdiano Willy Monteiro Duarte, massacrato di calci e pugni senza motivo, a Colleferro. A loro, nessuno li aveva fermati prima. Per i quattro di Roma, a vario titolo, adesso, le accuse formulate sulla scorte delle minuziose indagini degli agenti della Digos, vanno dal sequestro di persona e violenza privata, alla propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Due gli episodi contestati, entrambi filmati con i loro telefonini e poi postati sul web in cerca di gloria e consenso. Il primo risale al 7 marzo scorso. I quattro, spalleggiati da altri due amici non identificati che fanno da palo, fanno irruzione negli studi di registrazione al Portonaccio dove stanno provando altri trapper, Gabriele Magi (Gallagher), Vittorio Palazzo (Ski) e Andrea Mazzanti (Wok). Si accaniscono su Gallagher, lo fanno inginocchiare, sguardo basso, calci e botte, gli rovesciano addosso birra e un liquido detergente. Il filmato girato su Youtube dura 2 minuti e 13 secondi. Alcuni pezzi sono stati tagliati, però, come quello in cui Magi viene spinto e fatto cadere per le scale. Risparmiano solo Ski perché è minorenne, ma lo bullizzano. Il sequestro dura un' ora. Il titolare della sala, il dj Luca Cioccia, sotto choc, racconta ai poliziotti di Giampietro Lionetti: «È sembrato un momento infinito, per quanto eccitati e violenti credo fossero sotto l' influsso di droghe». Per il gip è stata «una spedizione punitiva finalizzata a umiliare i rivali davanti ai loro fan e a screditarli negli ambienti musicali sul web», tanto che nel video dal titolo Gallagher picchiato da Sayanbull, la vittima trasformata in una maschera di sangue, viene immortalata in un selfie sul divano con gli aggressori. Immagini che scatenarono l' ira di Fedez che su Instagram denunciò: «Che vogliamo dire? Che se fai un video con le persone picchiate finisci primo in tendenza?». Magi dice agli investigatori: «Lo hanno fatto per invidia perché sono il trapper più Hype, ossia più influencer e più ricercato». Effettivamente, annotano i poliziotti nell' informativa, «sono emersi numerosi dissing, ovvero scontri sul web» tra i due gruppi. Ad aprile viene intercettato un altro video di violenza. Questa volta ad agire sono Parrini e Refice. I due camminano in via Giustiniano Imperatore, incrociano un bengalese e Refice all' improvviso lo tramortisce con un violentissimo calcio al volto, in gergo tecnico calcio circolare, scaraventandolo a terra. Poi diffondono le immagini nel web per incitare all' odio razziale. «Questo è un uomo?» domandano ed ecco la scritta di commento compiaciuta e sarcastica, «Wasted», ossia sprecato. Gli indagati, secondo il gip, hanno un livello di pericolosità sociale «incontrollabile». La scelta di filmare gli atti di violenza e di diffonderli come trofeo e prova di superiorità sulle vittime indica che sono «del tutto sforniti di consapevolezza e autocritica». Il pericolo di reiterazione dei reati, dunque, per i tre giovani che si allenano alla Team Boxe della Montagnola e per Ion, che ha già precedenti per furti, rapina, sequestro di persona e lesioni è «elevatissimo» e la richiesta dei domiciliari da parte del pm «appare presidio minimo necessario a contenerne la pericolosità». A marzo, intanto, si celebrerà il processo per le lesioni gravissime al barman Massimilinao Idolo. Una Volante riuscì a bloccare gli aggressori nell' immediato. «Queste persone vuote, che pensano che il mondo sia andare in giro a mena', andrebbero anche curate. Ben venga questa operazione, per fortuna la Digos si occupa di queste cose».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 13 novembre 2020. «Al bengalese abbiamo dato 30 euro per prendersi un calcio in faccia». I quattro trapper arrestati la scorsa settimana restano ai domiciliari. Le loro giustificazioni non sono servite a convincere il gip a liberarli. Anzi. «Era tutto organizzato - hanno aggiunto - perché volevamo mettere tutto in un video». Questa, invece, la motivazione fornita per l' altro pestaggio filmato e postato, come l' altro, su You Tube: «Gli abbiamo dato solo due schiaffi. Non sappiamo chi abbia girato il video. Dovevamo andare a riprendere dei vestiti che un conoscente aveva dato a Gallagher». Mezze verità per gli inquirenti, che comunque portano alla ribalta un fenomeno in voga tra i giovanissimi, di cui personaggi come Manuel Parrini, 23 anni, Tiziano Barilotti, 31 anni, Alex Refice, in arte Sayanbull, 25 anni e Omar Nguale Ilunga, Ion, 36 anni, rappresentano solo la punta dell' iceberg: riprendere le gesta violente, poi caricarle sui social network con l' obiettivo di aumentare i follower, quindi la popolarità e da qui monetizzare il tutto. Adesso per il quartetto si profila all' orizzonte un processo con accuse che, a vario titolo, vanno dal sequestro di persona e violenza privata, alla propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Gli episodi contestati dal pm Erminio Amelio sono due. Gli autori della violenza hanno ripreso le aggressioni con gli smartphone e poi hanno postato tutto su internet in cerca di popolarità. Il primo filmato porta la date del 7 marzo 2020. Parrini, Barilotti, Refice e Ilunga, supportati da due persone rimaste ignote, fanno un blitz negli studi di registrazione al Portonaccio dove stanno provando altri trapper. Si tratta di musicisti rivali del quartetto. I loro nomi sono Gabriele Magi (Gallagher), Vittorio Palazzo (Ski) e Andrea Mazzanti (Wok). L' obiettivo della spedizione è Gallagher, lo fanno inginocchiare, sguardo basso, calci e botte, gli rovesciano addosso birra e un liquido detergente. Il video dura 2 minuti e 13 secondi e viene subito caricato su YouTube. Il sequestro, hanno poi ricostruito i poliziotti della Digos, dura un' ora. La seconda aggressione segue lo stesso copione. Questa volta la vittima è un bengalese che, secondo i due trapper, sarebbe stato pagato per farsi picchiare. Un' affermazione che per gli inquirenti non trova riscontro. Ad aprile ad agire sono Parrini e Refice. I due camminano in via Giustiniano Imperatore, incrociano un bengalese e Refice all' improvviso lo tramortisce con un violentissimo calcio al volto. L' uomo crolla a terra. Il secondo step è diffondere le immagini nel web per incitare all' odio razziale. «Questo è un uomo?» domandano ed ecco la scritta di commento compiaciuta, «Wasted», ossia sprecato.

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 5 novembre 2020. Il sangue, Alex Refice, lo aveva messo già nel nome del suo primo gruppo, i Shangai Blood, fondato nel 2018 all' ombra del Gazometro insieme agli amici Sonny Suburbio (vero nome Sonny Argano) e Wave Db (all' anagrafe Roberto Masato). Con loro, dopo i primi esperimenti autoprodotti, come Cocaland (titolo che è tutto un programma), ha inciso e pubblicato l' anno scorso quello che ad oggi dentro al Raccordo rimane il suo unico successo, Via Libetta, brano da più di 12 milioni di ascolti tra Spotify e YouTube. Un inno alla violenza di strada ispirato alle serate infinite fuori e dentro i locali tra via del Porto Fluviale e l' Ostiense, da sempre frequentati da Sayanbull questo il nome d' arte di Refice, classe 1995, cresciuto nel difficile quartiere di Tor Marancia e dai suoi amici. «A scuola seguivamo poco le lezioni e possiamo dire di aver imparato molte più cose dalle serate passate in strada che dai professori. Siamo cresciuti a sbornie e in questi vicoletti ci siamo fatti le ossa», raccontava Refice. Nei primi versi del pezzo il trapper offriva agli ascoltatori, gli stessi giovanissimi sotto i 18 anni che seguono la scena romana e i suoi protagonisti, spesso criticati per la crudezza dei temi che trattano (prevalentemente droga, donne, armi e denaro), dalla Dark Polo Gang a Ketama126, un suo ideale bigliettino da visita: Passa a via Libetta che me parte la brocca / bevo n' artra cosa e te passo la scoccia / sembro Rambo senza mitra ma co' na boccia / faccio er pazzo a na cert' ora tajami la faccia, rappava. E ancora: In fissa con sti soldi, le donne, le marche / vedi a 18 anni già te girano le carte / con me pensi de fa' il finto duro, scemo / anni de' allenamento pe' batteve al muro. I numeri di Via Libetta sulle piattaforme di streaming avevano fatto credere a Sayanbull (un nome scelto per omaggiare i guerrieri protagonisti del cartone animato Dragon Ball, trasmesso in tv negli anni Duemila e oggi considerato culto per i ragazzi della sua generazione) che la strada per il successo fosse già segnata e di poter già ambire a firmare un contratto con qualche grande etichetta, cercando la svolta, i soldi e l' affermazione su scala nazionale. Ma i successivi pezzi incisi dal trapper, da Brucia Roma (con la partecipazione di Ion, nome d' arte da trapper di Ilunga Omar Nguale, il pugile 36enne finito ieri in manette insieme a lui) a Sauvage non ne hanno replicato i numeri. Forse non era ancora davvero pronto. Solo Mobster, uscito a giugno, è riuscito a spingersi oltre il milione di ascolti su Spotify (ad oggi ne conta 1,2). Refice lo ha registrato insieme allo stesso Nguale e a Taxi B e Sapobully degli FSK Satellite, gruppo trap lucano esploso in rete negli ultimi anni con pezzi come Ansia no, Melissa P, La prova del cuoco e No spie, manifesti di vita violenta con video in cui non mancano di ostentare sostanze stupefacenti - dai quali hanno preso le distanze anche esponenti di punta della scena hip hop italiana come Salmo e Gemitaiz. Come a dire: A noi big del genere questa roba non ci appartiene. Tutti i poliziotti sono bastardi, Siamo la mafia, Vado da Gucci, spendo 5.000 in un' ora, mi sento un' altra persona, alcuni dei passaggi del testo. L' ultimo singolo, Tarantelle, era uscito appena lo scorso 30 settembre. La musica, almeno per ora, è finita.

Andrea Galli per corriere.it il 30 ottobre 2020. «Mi ha urlato, continuava a urlarmi: “Tu resterai qui per sempre in questa casa!” Voleva uccidermi. Aveva un coltello e credo altre armi nelle tasche. Non ho potuto vedere bene, è successo tutto velocemente, mi ha spruzzato addosso lo spray al peperoncino, ho cercato di allontanarmi, mi ha strattonata, mi sono avvicinata alla finestra, che era aperta, e lui mi ha spinto giù. Sono caduta, sul cemento non mi muovevo, avevo dolori in tutto il corpo, non respiravo. Sono riuscita a vedere un vicino di casa, mi riprendeva con una videocamera, lo pregavo di portarmi dell’acqua, ma quello faceva un’unica cosa: filmava. Più lo pregavo di portare un bicchiere, più quello riprendeva... Indifferente alla mia sofferenza e alle mie richieste di aiuto». Ha compiuto trent’anni. Sul finire del 2019, è arrivata a Milano dalla Russia. In città ha ottenuto il permesso di soggiorno e si è stabilita in un appartamento a Porta Venezia. È la donna aggredita e quasi uccisa, il pomeriggio dello scorso 20 agosto, dal «terrore delle escort», il 27enne di origini pachistane, un seriale di violenze e rapine contro le prostitute, arrestato dopo un’intensa caccia dalla squadra Mobile diretta da Marco Calì (gran merito alla terza sezione di Alessandro Carmeli). Le indagini proseguono: su questo balordo ci sono misteri aperti, scie da seguire, strane reti di contatti da setacciare. La donna ha accettato di parlare con il Corriere.

Come sta adesso?

«Avevo una frattura della colonna vertebrale in tre punti diversi. Il bacino era rotto in due punti, come anche un braccio...».

Quell’uomo aveva regolarmente telefonato prima dell’incontro?

«Mi ha contattata attraverso la chat di Whatsapp, abbiamo stabilito tipologia e costo del servizio, gli ho fornito l’indirizzo e si è presentato».

Nessun sospetto?

«No. Ma come detto, quando è entrato nell’appartamento è stata una questione di pochi secondi. Mi ha puntato addosso lo spray. Dal nulla».

Poi è scappato?

«Mi ha seguita. Quando ero a terra, mi si è messo di fianco. Eravamo nel cortile, è lì che sono precipitata. Ha cercato di alzarmi, diceva: “Dai, muoviti”; mi trascinava, voleva riportarmi al primo piano. Fin quando, forse perché ha visto delle persone che si affacciavano, è scappato. Penso che volesse tornare nell’appartamento per ammazzarmi. E mentre tutto questo avveniva, mentre io strisciavo e provano inutilmente ad alzarmi, mentre mi spostavo al massimo gattonando, tutti quelli che si sporgevano per vedere non hanno fatto e nemmeno detto nulla. Niente, facevano soltanto da spettatori. Questa è davvero una storia terrificante da qualunque punto la si guardi».

Perché ha scelto l’Italia, perché Milano?

«Sono arrivata in questa città e mi piacerebbe restarci. Nei miei piani c’è l’apertura di un salone di bellezza. O meglio dire, c’era. Ora devo risolvere questi problemi fisici. Senza dimenticare i problemi psicologici... Di fatto, appena ho iniziato c’è stata la pandemia. E ovviamente durante la pandemia, ho lavorato poco».

La donna preferisce non rispondere ad alcune domande. Ad esempio quale sia la sua esatta geografia in Russia, quale sia la sua vita prima della partenza per l’Italia, se a Milano l’aspettassero connazionali, o chi altri, e ancora cosa significa e cosa comporta essere un’escort con tutti i rischi ulteriori del virus in circolazione.

Diceva dei problemi psicologici.

«Sto valutando l’ipotesi di un periodo in Russia per provare a risolvere i tremendi fastidi al braccio e alla schiena. Non sto facendo fisioterapia, nessuno me l’ha prescritta; mi sento abbandonata... Oltre al fatto che pensavo che questa nazione fosse sicura... Vorrei anche supporto mentale, sono perseguitata dalla paura, comincio a soffrire di depressione; come se la mia esistenza si fosse interrotta, come se non vivessi. Già da prima, per tantissimo tempo non ho potuto prendermi cura di me stessa, anche se di questo argomento non voglio parlare».

Nel passato dell’aggressore, ci sono attacchi frequenti a escort. Nella maggior parte dei casi, finalizzate a rubare soldi e gioielli.

«Per me, è semplicemente un killer. Un killer di donne. Non ha cercato di prendersi il denaro o altre cose, non l’ha cercato, non mi ha minacciata. Niente di tutto questo. Voleva esclusivamente la mia morte».

Ha ricevuto in precedenza aggressioni, dagli uomini nel suo appartamento?

«Preferisco le cene e i successivi incontri in hotel. Se possibile, incontri con uomini adulti anziché giovani. Forse perché i primi simpatizzano di più — non mi vengono altri verbi — con una donna come me, rispetto ai giovani. Quanto alle violenze, no, mai nessuna. Ma tentativi di rapina ce ne sono stati... Ho sentito da altre ragazze delle storie relative a un gruppo di banditi organizzati. Un uomo si presenta come cliente, una volta all’interno minaccia la ragazza con una pistola, dopodiché apre la porta e si presentano i complici, due o tre, che svaligiano la casa. Prima di andarsene, ti minacciano di morte e ripetono che se chiamerai la polizia, sanno dove abiti e verranno a ucciderti, all’improvviso, in piena notte».

Il racconto shock dell'escort: "Io, spinta dalla finestra E i vicini filmavano solo". L'aggressore è un rapinatore seriale di escort già noto alle forze dell'ordine per reati analoghi. "Voleva uccidermi", racconta la vittima. Rosa Scognamiglio, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Le ha spruzzato sugli occhi dello spray urticante e poi l'ha spinta giù dalla porta-finestra. Ha vissuto attimi di terrore puro un ragazza russa residente a Milano, di professione escort, quando il cliente, un 27enne di origini pakistane avvezzo a violenze e rapine nei confronti di prostitute, l'ha aggredita. Tutto ha inizio lo scorso 20 agosto. La ragazza, trent'anni appena compiuti, prende accordi per un incontro con uno sconosciuto via chat. Una modalità collaudata per lei che, da quando è arrivata in Italia, fa la escort di professione. L'appuntamento è fissato in un appartamento al primo piano di un palazzo a Porta Venezia, dove la donna risiede da qualche anno. Ma non appena spalanca la porta di casa all'avventore, accade qualcosa di terribile. L'uomo le spruzza sugli occhi uno spray urticante senza alcuna ragionevole motivazione. Presa dal panico, e con la vista offuscata, la ragazza indietreggia finendo per scivolare al di là della finestra. "Mi ha urlato, continuava a urlarmi: 'Tu resterai qui per sempre in questa casa!' Voleva uccidermi. - racconta ancora sotto choc -Aveva un coltello e credo altre armi nelle tasche. Non ho potuto vedere bene, è successo tutto velocemente, mi ha spruzzato addosso lo spray al peperoncino, ho cercato di allontanarmi, mi ha strattonata, mi sono avvicinata alla finestra, che era aperta, e lui mi ha spinto giù. Sono caduta, sul cemento non mi muovevo, avevo dolori in tutto il corpo, non respiravo". A quel punto, l'aggressore ha infierito ancora contro la vittima che, intanto, giaceva dolorante nel cortile sottostante l'appartamento. "Mi ha seguita. Quando ero a terra, mi si è messo di fianco. Eravamo nel cortile, è lì che sono precipitata. Ha cercato di alzarmi, diceva: 'Dai, muoviti'; mi trascinava, voleva riportarmi al primo piano. Fin quando, forse perché ha visto delle persone che si affacciavano, è scappato. Penso che volesse tornare nell’appartamento per ammazzarmi. E mentre tutto questo avveniva, mentre io strisciavo e provano inutilmente ad alzarmi, mentre mi spostavo al massimo gattonando, tutti quelli che si sporgevano per vedere non hanno fatto e nemmeno detto nulla. Niente, facevano soltanto da spettatori. Questa è davvero una storia terrificante da qualunque punto la si guardi". Dopo l'aggressione, il 27enne si è dato alla fuga. La ragazza ha riportato una frattura al bacino e diverse costolo incrinate."Avevo una frattura della colonna vertebrale in tre punti diversi. Il bacino era rotto in due punti, come anche un braccio..".

"I vicini filmavano". Mentre la ragazza si trovava sul manto di cemento del cortile, ferita e con l'aggressore alle calcagna, nessuno avrebbe mosso un dito per aiutarla. Un vicino di casa, racconta la vittima, si sarebbe preoccupato di filmare la scena con lo smartphone invece di soccorrerla. "Mentre io strisciavo e provano inutilmente ad alzarmi, mentre mi spostavo al massimo gattonando, tutti quelli che si sporgevano per vedere non hanno fatto e nemmeno detto nulla. - spiega la donna - Niente, facevano soltanto da spettatori. Questa è davvero una storia terrificante da qualunque punto la si guardi".

L'aggressore era uno stupratore seriale di prostitute. Fermato e tratto in arresto dalla polizia di Milano, l'uomo era già noto alle Forze dell'Ordine per una lunga sequenza di reati analoghi. Si tratta di A.A., un 27enne di origini pakistane, sospettato di essere un rapinatore seriale di escort sul quale, adesso, grava anche l'accusa di tentato omicidio. Gli investigatori della Squadra Mobile meneghina, attraverso la visione delle immagini catturate dalle telecamere di sorveglianza sia pubbliche che di esercizi commerciali della zona, sono riusciti a ripercorrere il tragitto di fuga fino alla Stazione Centrale di Milano, da dove l’uomo aveva preso un treno per Roma Termini. Le successive indagini, svolte con la collaborazione del personale della Squadra mobile della capitale e del Commissariato romano di di Torpignattara, hanno consentito di identificare e arrestare il pakistano. L’arrestato ha a suo carico alcuni precedenti per rapine ai danni di prostitute dell’est Europa commesse a Roma dal 2016; in due circostanze è stato arrestato e in un’occasione, dopo essere fuggito dai domiciliari e aver trovato riparo in Francia, è stato fermato a Parigi, in esecuzione di un mandato di arresto europeo, ed estradato in Italia."Per me, è semplicemente un killer. Un killer di donne. Non ha cercato di prendersi il denaro o altre cose, non l’ha cercato, non mi ha minacciata. Niente di tutto questo. Voleva esclusivamente la mia morte", racconta la ragazza.

"Pensavo che questa nazione fosse sicura". Non si è ancora ripresa dallo choc ed oggi, dopo quella esperienza traumatica, convive vive con la paura di essere nuovamente aggredita. "Sto valutando l’ipotesi di un periodo in Russia per provare a risolvere i tremendi fastidi al braccio e alla schiena. Non sto facendo fisioterapia, nessuno me l’ha prescritta; mi sento abbandonata... - conclude - Oltre al fatto che pensavo che questa nazione fosse sicura... Vorrei anche supporto mentale, sono perseguitata dalla paura, comincio a soffrire di depressione; come se la mia esistenza si fosse interrotta, come se non vivessi. Già da prima, per tantissimo tempo non ho potuto prendermi cura di me stessa, anche se di questo argomento non voglio parlare".

Spari al rapinatore 17enne: l'agente ora è indagato. L'accusa è eccesso di legittima difesa. Un atto dovuto prima dell'autopsia del giovane morto. Redazione, Martedì 06/10/2020 su Il Giornale. Eccesso colposo di legittima difesa. È il reato che la procura di Napoli contesta al poliziotto che all'alba di domenica ha ucciso Luigi Caiafa, un ragazzo di 17 anni, nel tentativo di sventare una rapina in via Duomo, all'angolo con via Marina, a Napoli. Si tratta di un atto dovuto, in previsione dell'autopsia sul corpo della vittima, che si terrà forse già questa mattina, nel giorno della convalida del fermo del complice, Ciro De Tommaso, 18 anni, accusato di rapina, di porto d'arma per un coltello rinvenuto in tasca e per ricettazione dello scooter rubato nel corso della rapina mortale. Sarà il gip Gabriella Bonavolontà a decidere su quanto disposto dal pubblico ministero di turno, Valentina Sincero, per quest'ultimo, figlio dell'uomo conosciuto come Genny 'a carogna. All'alba di domenica Caiafa aveva perso la vita, colpito da due proiettili esplosi dalla pistola di un agente della sezione Falchi della squadra mobile. Da un primo esame esterno, secondo quanto si è appreso, i colpi avrebbero raggiunto Caiafa frontalmente nella parte alta del tronco. La rapina è stata commessa in via Duomo, all'angolo con via Marina ai danni di tre ragazzi a bordo di una Mercedes Classe A. In base alla ricostruzione, sarebbe stato De Tommaso a puntare una pistola replica, ma priva del tappo rosso, alla testa del ragazzo che era alla guida dell'auto. Sotto minaccia i tre hanno ceduto in tutto 150 euro e due telefoni cellulari. La pistola è stata anche puntata contro i poliziotti intervenuti, dopo che si erano qualificati. De Tommaso deve rispondere anche di ricettazione, perché era alla guida di uno scooter rubato, sottratto a un ventenne nel corso di una rapina un mese fa e di possesso di armi, perché aveva anche in tasca un coltello a serramanico con una lama di 7 centimetri. Per lui, secondo il pm, sussistono le esigenze cautelari «per la personalità criminale significativa» e ciò si evince «dalle modalità della condotta, che si è rilevata notevolmente allarmante», in quando De Tommaso e Caiafa «si erano preventivamente organizzati per commettere la rapina a bordo di uno scooter rubato». Il padre Genny 'a Carogna è un ex capo ultrà del Napoli diventato famoso il 3 maggio 2014 per le tensioni durante la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina quando morì il tifoso Ciro Esposito. Sta scontando una condanna a 10 anni di carcere per traffico internazionale di stupefacenti e dal 2019 ha deciso di collaborare con la giustizia.

Alessandro Zuin e Roberta Polese per il “Corriere della Sera” il 2 ottobre 2020. Il campanello di casa Longo, nel centro storico di Padova, è squillato a un' ora del tutto insolita, qualche minuto dopo le 23 di mercoledì: «Avvocato, scenda». Piero Longo, 76 anni, eletto due volte in Parlamento per il Pdl-Forza Italia e già legale di fiducia di Silvio Berlusconi in molte vicende giudiziarie, effettivamente è sceso nell' androne del palazzo per incontrare i visitatori notturni - un uomo e una donna, mentre una terza persona faceva da palo all' esterno dell' abitazione -, portando con sé, però, una pistola, regolarmente detenuta. Longo, infatti, raramente si separa dalla sua arma e non ne ha mai fatto mistero. Nonostante questo i due che lo attendevano nel cortile interno dell' edificio lo hanno subito aggredito, spinto a terra e picchiato. Soltanto a questo punto Longo avrebbe estratto il revolver, probabilmente sparando un paio di colpi in aria per intimidire gli aggressori e indurli ad andarsene. Prima di fuggire i due gli avrebbero strappato l' arma di mano durante un corpo a corpo, per poi dileguarsi insieme alla complice che li attendeva in strada. Il tutto sotto l' occhio di una telecamera di sorveglianza. I tre non si sono allontanati di molto: mentre Longo veniva soccorso da un vicino di casa e allertava il 113, gli agenti di una Volante hanno bloccato gli aggressori a poca distanza, arrestandoli con l' accusa di lesioni personali aggravate. Longo, infatti, nella colluttazione ha riportato ferite che i medici hanno giudicato guaribili in 20 giorni. La terza componente del gruppetto è stata denunciata a piede libero. Oscuro, almeno per ora, il movente dell' aggressione, che per la dinamica potrebbe richiamare le caratteristiche di una spedizione punitiva in piena regola, messa in atto dal terzetto nei confronti del notissimo legale padovano. Gli autori materiali del pestaggio sono una coppia di fidanzati incensurati, con una vita apparentemente normalissima: lui, Luca Zanon, 49 anni, è uno sportivo originario della Val di Fiemme, in Trentino, considerato uno dei migliori sciatori italiani nella sua categoria e maestro di sci, trasferitosi da qualche tempo a Padova, dove lavora in proprio con la sua ditta di elettricista, la Elettro Light; lei, Silvia Maran, 47 anni, è una commercialista padovana con studio di famiglia in città. A quanto risulta, l' avvocato Longo non li aveva mai visti prima. Sembra, invece - ma è una circostanza da verificare -, che avesse conosciuto la terza donna, quella rimasta all' esterno del palazzo mentre gli altri due infierivano con botte e spintoni contro il settantaseienne avvocato. Gli inquirenti, al momento, vanno per esclusione: dai riscontri effettuati, è stata subito scartata una matrice politica dell' aggressione e dubbi si nutrono anche sul fatto che il violento pestaggio possa essere ricondotto all' attività professionale del legale padovano. Rimane, perciò, la sfera personale. Un fatto appare assodato: il bersaglio non è stato scelto a caso, i tre aggressori sapevano perfettamente a quale citofono suonare e cosa fare una volta che l' avvocato fosse sceso nell' androne del palazzo. Per altro, Zanon e Maran non hanno alcun precedente di rilievo, erano perfettamente lucidi (non hanno agito sotto l' effetto di alcol o di sostanze stupefacenti) e di sicuro non risultano essere «picchiatori» abituali. Cosa li abbia spinti ad aggredire il legale è il vero mistero da risolvere.

Roberta Polese e Alessandro Zuin per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2020. C'è una donna all'origine della misteriosa aggressione che, mercoledì sera a tarda ora, ha visto come vittima l'avvocato Piero Longo, 76 anni, penalista di fama, già difensore di Silvio Berlusconi in molte vicende giudiziarie e per 10 anni parlamentare del centrodestra. La giovane donna si chiama Rosanna Maria Sole Caudullo e ha 31 anni: è lei che faceva da «palo», fuori dalla casa dell'avvocato nel centro storico di Padova, mentre Luca Zanon e Silvia Maran, 49 e 47 anni, lo picchiavano con pugni e calci. Caudullo in passato avrebbe intrattenuto un rapporto confidenziale con il noto penalista. Lo hanno raccontato i due fidanzati arrestati per il pestaggio, amici della giovane donna, agli agenti della squadra Mobile, che subito dopo l'arresto li hanno sentiti a sommarie informazioni. Gli elementi sono ancora confusi ma sembra che Caudullo si fosse aperta con l'amica Silvia e con il suo fidanzato Luca. I due avevano raccolto le confidenze della ragazza e probabilmente, mercoledì sera intorno alle 23, si sono recati a casa dell'avvocato, in un elegante palazzo del centro storico di Padova, per ottenere un chiarimento della situazione. Longo deve avere intuito che sarebbe stata una discussione piuttosto animata e, quando è sceso nell'androne per affrontare i visitatori notturni, ha portato con sé la pistola, regolarmente detenuta. A Padova è cosa risaputa che il legale non si allontana mai da casa senza il suo revolver: avendo un presentimento sulla piega che avrebbe preso la serata, probabilmente Longo è sceso di casa armato per spaventare Zanon e Maran, che peraltro non conosceva di persona. Tuttavia, dalle parole i due sono passati ai fatti, aggredendo l'avvocato che ha cercato di difendersi prima a mani nude e poi sparando in aria due colpi di pistola. I due fidanzati, spaventati, hanno disarmato l'avvocato e se ne sono andati insieme alla Caudullo, che li aspettava all'esterno. Per questo sono accusati di lesioni aggravate e di rapina della pistola strappata alla vittima. Sono stati i vicini di casa del penalista a chiamare il 113, dopo aver sentito i due colpi rimbombare nell'androne. Ma, fatto insolito, anche gli aggressori in fuga a un certo punto hanno chiamato la polizia. Si tratta di una reazione umanamente comprensibile: i due sono conosciuti come persone perbene, incensurate, con un lavoro regolare (elettricista lui, commercialista lei) e che fino a mercoledì sera avevano condotto una vita irreprensibile. È possibile che loro per primi si siano spaventati per la piega che aveva preso la situazione. In questura, chiamati a una prima ricostruzione dei fatti, hanno parlato di un passato rapporto confidenziale tra Longo e la loro amica, senza però giustificare le ragioni di tanta violenza. Pare che l'avvocato conoscesse da tempo la giovane donna, che ha studiato giurisprudenza a Padova: non è escluso che i due si siano conosciuti nel contesto universitario. Diverse circostanze rimangono ancora poco chiare. Se i due amici di Caudullo volevano soltanto aiutarla, prendendo l'iniziativa di parlare con l'avvocato Longo, non si spiega perché abbiano scelto di andare a casa sua alle 23 passate, quando è ovvio che un orario così inconsueto può far pensare a una possibile intimidazione. Maggiori elementi emergeranno oggi nell'interrogatorio di garanzia che si svolgerà davanti al gip Claudio Marassi. I due si trovano agli arresti domiciliari mentre la Caudullo è indagata a piede libero. Ieri Longo è tornato in ospedale per farsi medicare, dopo che la sera dell'aggressione aveva voluto rientrare a casa, sebbene i medici lo avessero sconsigliato. La prognosi è di 20 giorni.

Padova, accusa shock per l’avvocato Piero Longo: «Violenza su una minorenne». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2020. L’indagine della procura sul legale di Berlusconi. La donna ha oggi 31 anni ed è all’origine dell’aggressione da lui subita il primo ottobre scorso, Il nuovo fascicolo nasce da alcune testimonianze raccolte cercando la causa del pestaggio. Il mese scorso la scena da far west: l’avvocato che esce di casa con la pistola, loro che lo prendono a calci e pugni, lo disarmano e fuggono con l’arma. E poi, spaventati, chiamano la polizia per raccontare quel che successo e vengono arrestati. Mentre il noto legale finisce al Pronto soccorso con il volto tumefatto e 20 giorni di prognosi. Surreale. Un mese di indagini, di interrogatori, di testimonianze, per capirne di più e ora il colpo di scena: l’avvocato, professore ed ex senatore di Forza Italia Piero Longo, famoso per aver difeso Silvio Berlusconi in vari processi, è finito indagato per violenza sessuale nei confronti della figlia della sua ex compagna, che oggi ha 31 anni ma che all’epoca dei fatti al vaglio degli inquirenti ne avrebbe avuti meno di 16. La sera del pestaggio, il primo ottobre, lei c’era: aspettava fuori dell’abitazione di Longo, un palazzo del centro di Padova, mentre all’interno i suoi amici, una commercialista e il suo compagno maestro di sci, avvicinavano il legale e, alla fine, lo picchiavano.

La confidenza. All’origine della brutta vicenda ci sarebbe dunque il racconto di questa violenza che la donna ha detto di aver subito quando era adolescente. Ma la confidenza raccolta dalla coppia sarebbe stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La giovane donna, iscritta alla scuola di notariato, stava infatti attraversando un periodo difficile per il fatto che l’avvocato, 76 anni, con il quale aveva avuto in passato uno stretto legame, da qualche tempo aveva deciso di troncare ogni rapporto con lei impedendole qualsiasi contatto. Una chiusura vissuta male. «Per me è stato come un papà», sono le sole parole che ha pronunciato da quando è esploso il caso. Anche davanti al pm di Padova che sta seguendo l’indagine, Roberto D’Angelo, bocca cucita. Nel frattempo, però, a parlare sono stati altri, ed è partendo da queste dichiarazioni verbalizzate che la Procura ha aperto, quasi come atto dovuto, un nuovo fascicolo con la pesante accusa di violenza sessuale. Sulla quale potrebbe gravare la prescrizione del reato, che però sembra venga esclusa. «Non posso dire nulla», ha tagliato corto D’Angelo. «Per l’aggressione l’avvocato Longo risulta persona offesa», si è limitato a dire il procuratore di Padova Antonino Cappelleri, glissando sulla nuova indagine.

I tre indagati. I fascicoli sono infatti due e il secondo scaturisce dal primo che riguarda esclusivamente l’aggressione al legale. In questo procedimento sono indagati in tre, compresa la trentunenne, con l’accusa di violenza privata aggravata e rapina, per via della pistola sottratta nel corso della colluttazione. La coppia di fidanzati ha nel frattempo ottenuto dal gip la misura meno afflittiva dell’obbligo di dimora a Padova con l’espresso divieto di avvicinamento alla casa di Longo. I due sono poi obbligati a non uscire dalle 22 alle 7 del mattino, un lockdown anticipato. La protagonista della vicenda è invece indagata a piede libero, non avendo partecipato materialmente all’aggressione. Lei si è limitata ad accompagnare gli amici sotto casa dell’avvocato ed è rimasta all’esterno.

Il video. Un video acquisito dagli investigatori ha immortalato quel che è successo nel palazzo alle 23.30 di quella sera. Dopo un paio di squilli al campanello, l’avvocato decide di scendere e lo fa con la pistola, regolarmente detenuta. A Padova è risaputo che non esce mai di casa senza il suo revolver e a maggior ragione quella sera, quando capisce che la visita non è esattamente amichevole. Nelle immagini si vede la commercialista che gli indica l’amica fuori di casa: «La conosci quella?». Gli dà prima un calcio, poi una botta sulla testa, lui indietreggia, impugna la pistola, rientra, loro lo seguono. Si spaventano tutti e partono due colpi, fortunatamente in aria. Poi la lotta e la fuga.

Piero Longo indagato per violenza sessuale, lo accusa il palo del pestaggio: "Quando avevo 16 anni". Libero Quotidiano il 05 novembre 2020. Piero Longo sarebbe indagato per violenza sessuale nei confronti della figlia della sua ex compagna, che oggi ha 31 anni e che all’epoca dei fatti al vaglio degli inquirenti ne avrebbe avuti meno di 16. È quanto scrive il Corriere della Sera, secondo cui questa vicenda è direttamente collegata all’aggressione quasi surreale subita dall’avvocato di Silvio Berlusconi, che un mese fa a Padova era stato pestato in prossimità della sua abitazione. I colpevoli si erano auto denunciati ed erano stati arrestati, rendendo ancora più strana tutta la faccenda: perché Longo, 76 anni, è stato aggredito nell’androne di casa, in pieno centro, dopo aver risposto al citofono? I due fermati sono un uomo (49 anni) e una donna (47), ma c’era anche la succitata 31enne, che faceva da palo. E proprio da lei sarebbe partita l’idea dell’aggressione, che nascerebbe dalla presunta violenza subita da adolescente. Ma comunque gli altri due pare che siano stati facili da convincere, soprattutto l’altra donna che aveva precedenti con Longo: sembra che ci fosse stato un legame stretto tra i due, ma l’avvocato da qualche tempo pare che avesse preso le distanze, troncando ogni rapporto con lei. Intanto però, come scrive il Corsera, la Procura ha aperto un nuovo fascicolo con la pesante accusa di violenza sessuale: un atto quasi dovuto dopo le dichiarazioni messe a verbale. Bocche cucite per ora da parte di chi segue l’indagine, che quindi adesso vede due fascicoli aperti: l’impressione è che ci vorrà tempo per chiarire fino in fondo questa vicenda. 

Dagospia il 5 novembre 2020. COMUNICATO STAMPA. Avv. Niccolò Ghedini: “In relazione alle notizie di stampa apparse quest’oggi l’Avvocato Longo si è immediatamente recato presso la Procura della Repubblica di Padova. Oltre a ribadire la denuncia a suo tempo proposta, anche per diffamazione, ha rappresentato l’assoluta inconsistenza e infondatezza di ogni ipotetico illecito, che per altro non è neppure cristallizzato in un capo di incolpazione. Si tratta in realtà di una iscrizione quale atto dovuto, correlata a dichiarazioni “de relato” rilasciate dai suoi aggressori, non confermate in alcun modo dalla diretta interessata. E’ evidente dunque che ogni ipotesi nei suoi confronti non potrà che essere rapidamente archiviata per insussistenza dei fatti e che, di contro, si procederà per i gravi reati commessi a suo danno. Si provvederà, altresì, a depositare già domani una specifica denuncia per violazione del segreto di indagine ex art. 326 codice penale e relativa indebita pubblicazione ex art. 114 codice di procedura penale”. È quanto dichiara l’Avvocato Niccolò Ghedini.

Andrea Pasqualetto per il ''Corriere della Sera'' il 6 novembre 2020. «Nessuna rapporto sessuale indebito con quella ragazza, questa è una diffamazione». Deciso, sintetico e molto seccato, l'avvocato Piero Longo ha voluto chiarire subito la sua posizione. L'ha fatto ieri davanti al pm di Padova, Roberto D'Angelo, in un interrogatorio serale chiesto dallo stesso magistrato che lo sta indagando con l'accusa di violenza sessuale sulla figlia della sua ex compagna. A difenderlo, il collega di sempre: Niccolò Ghedini, entrambi legali di Berlusconi in varie vicende processuali, entrambi senatori in tempi diversi. «L'avvocato Longo ha spiegato l'assoluta inconsistenza e infondatezza di ogni ipotetico illecito - ha spiegato Ghedini all'uscita -. Si tratta in realtà di un atto dovuto legato a dichiarazioni "de relato" rilasciate dai suoi aggressori». Storia delicata. Nasce tutto dall'indagine sul pestaggio subito dallo stesso Longo lo scorso 30 settembre, del quale la violenza sessuale potrebbe essere il movente. Riavvolgendo il nastro a quel giorno: ore 23.30, centro storico di Padova, si presentano in tre sotto il palazzo dove abita il legale. Con la figlia dell'ex oggi trentunenne, Rosy, c'è anche una coppia di amici più maturi, lei commercialista, lui maestro di sci. Suonano e risuonano il campanello fino a che Longo scende così infastidito da mettersi in tasca la pistola. Volano calci, pugni e pure due pallottole, in aria. Nella confusione, un urlo: «Questo si chiama abuso di minore!». La voce è quella del maestro di sci e a sentirla è un condomino. Ecco, gli inquirenti sono partiti da quell'urlo per cercare il movente di tanta ferocia. Il pm ha interrogato gli aggressori, sentito i vicini di casa, i parenti e altri ancora. Alla fine ha trovato varie testimonianze convergenti: Rosy avrebbe confidato a tutti di aver avuto un primo rapporto con Longo a 14 anni. Quella sera, ai due amici, aveva raccontato anche di essere stata legata affettivamente a lui per molti anni e di sentirsi esasperata dal fatto che da qualche tempo Longo aveva deciso di troncare il rapporto impedendole qualsiasi contatto. Verità? Esagerazioni? Comunque sia, raccolta la confidenza, i fidanzati avrebbero deciso di aiutarla a modo loro. «L'idea era quella di avere un colloquio con lui - spiega Rosy al telefono -. Non mi capacito di come possa essere degenerato il tutto, anche perché io sono rimasta fuori e non ho proprio visto nulla. Non avrei mai voluto dare una lezione a quella persona, alla quale ho sempre voluto bene e mi ha cresciuta». Gli abusi? «Non voglio parlare di questa cosa. Comunque, non ho mai subito violenze e non ho mai denunciato nulla e nessuno». Va detto che il codice penale condanna i rapporti sessuali con una quattordicenne anche quando c'è il consenso. Nell'interrogatorio di ieri, dopo aver negato qualsiasi «indebito rapporto», Longo si è soffermato sulla dinamica dell'aggressione. Per le indagini difensive ha messo in campo il generale Luciano Garofano, ex comandante del Ris di Parma. Ma il punto delicato è un altro: il movente. Ci sono almeno tre verbali considerati importanti dagli inquirenti, oltre ad alcune intercettazioni telefoniche. «Abbiamo già provveduto a denunciare le diffamatorie dichiarazioni - ha avvertito Ghedini, pensando ai due aggressori -. Sono stati lasciati in libertà nonostante l'estrema gravità della condotta». Pronta la replica degli avvocati Cesare Cicorella e Claudia Bagattin, difensori dei due: «Quelle di Ghedini sono esternazioni opinabili rispetto a una vicenda il cui accertamento spetta all'autorità giudiziaria, senza bisogno di improprie interlocuzioni di parte». In questa brutta vicenda, anche le poche parole sospirate dalla madre di Rosy: «Sono distrutta. Spero non sia vero degli abusi ma penso che la Procura farà emergere la verità».

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 17 settembre 2020. Quando ci si domanda quali siano i modelli culturali di certi ragazzi oggi al centro della cronaca più triste e feroce, forse è il caso di osservare bene alcuni “miti” che sembrano di una brutta nicchia o laterali e invece hanno più seguaci di quelli che immaginiamo. Anche tra persone insospettabili. Davide Lacerenza, 55 anni, 200.000 follower su Instagram, ex fidanzato e attuale “socio” di Stefania Nobile, figlia di Wanna Marchi, è uno di questi. Ogni sera, dal suo locale “La Gintoneria” in quella Milano evoluta e europea, racconta attraverso video agghiaccianti le sue serate tra cavalle (così lui chiama le donne), la fidanzata ventenne Alessia che ride divertita, clienti esagitati ripresi mentre “sciabolano” champagne, personaggi su di giri, bestemmie, “Ciao poveri!”, inquadrature di mani sulle tette, macchine di lusso (che poi sono a noleggio) e inni al fancazzismo annegato nell’alcol. Su altre pagine poi, girano altri video di Lacerenza che consuma droga a casa e nel suo locale, e in effetti il locale è stato chiuso per droga e assembramenti un paio di settimane fa, senza che nessuno ne sia rimasto stupito. Quello che stupisce è il tenore di vita di Lacerenza, il quale si vanta spesso di aver delegato ogni mansione fiscale e burocratica del locale a Stefania Nobile (con una precedente condanna a 9 anni di carcere  per truffa e associazione a delinquere) e che in più video afferma di sapere dove sia il tesoretto delle due. Tra parentesi, Lacerenza aveva anche un’altra gintoneria che ha preso fuoco a gennaio. Nel frattempo la Nobile e sua madre Wanna Marchi erano state in Albania dove avevano aperto e chiuso tre locali nel giro di qualche mese. Faccio qualche domanda a Davide Lacerenza al telefono. “Sei proprio obbligata a scrivere di me?” è la sua premessa. In effetti, vista la vita ritirata e la scarsa esposizione del personaggio, è il pudore che ci si aspetta.

È vero che i primi tuoi guai sono iniziati con una società fondata assieme ad una tua ex che faceva la escort poi entrata nel processo Tarantini/Berlusconi?

«Abbiamo iniziato facendo multilevel marketing, con la nostra società».

No, parlo di un’altra società.

«Lei aveva un’altra società ma non credo che ero socio io, non ricordo…vendeva computer, cose così».

Ci sono stati strascichi legali e finanziari, mi risulta.

«Per lei. Per me no, era il 2000 circa.

Ma allora quando nei tuoi video dici di avere denunce di cosa parli?

«Il mio locale va forte, si vede, con Instagram sono forte, faccio bottiglie incredibili e c’è l’invidia di tutti. Mi arriva un controllo ogni 3/4 giorni, prima o poi qualcosa salta fuori».

Una tua ex non ti denunciò?

«Io non ho denunce da nessuno, che ricordi».

È vero che sei spesso in mezzo a risse?

«Ma va, giusto con una volta con un nero… Senti se dai un taglio bello all’intervista mi fa anche piacere, così no».

Io ti chiedo di smentire alcune voci.

«Negli anni ‘80 avrò litigato con sanbabilini, ma le risse ai tempi erano normali».

La Ferrari che esibisci è tua?

«No, a noleggio».

La Gintoneria è tua?

«Mia, con Stefania Nobile sono stato insieme 16 anni fa, poi lei è stata arrestata e io ho conosciuto un’altra. La gente la vede e pensa che il locale sia suo, ma Stefania è mia dipendente, mi segue i fornitori».

Wanna?

«Nulla, mi fa da mangiare».

Quanti dipendenti?

«11 o 12.

Compresi i buttafuori?

«No no. Me li dà un’agenzia».

Sono tanti 11 dipendenti. Quanto è grande il locale?

«70 mq».

E hai tutto questo personale?

«Eh, guarda quanto fatturiamo».

Quanto?

«Due milioni di euro nel 2019».

In due locali però.

«Sì, compreso quello che ha preso fuoco a gennaio. Non ho licenziato i ragazzi e me li sono portati tutti qui. E faccio gli incassi che facevo di là, anche di più. Hanno tutti stipendi alti».

Scusa e tu in 70 mq di locali ora fatturi 2 milioni come con l’altro locale che era molto grande?

«No, il grosso lo facevo di là, in questo non facevo quasi niente».

E quindi?

«Quindi la gente segue me, ora viene qui, vediamo come chiudo quest’anno».

Se dici che in 70 mq fai gli incassi che facevi di là quante bottiglie vendi?

«Sono dati che saprai meglio te come arrivarci, sono mica informazioni che ti do io. Guarda che bottiglie ho stappato stanotte e capisci».

Scusa e con un locale di 70 mq hai 11 dipendenti, buttafuori, Ferrari a noleggio, 70.000 euro di bottiglie bevute da te durante il lockdown, vai in ristoranti stellati e spa di lusso, come fai?

«Boh prima magari fatturavo anche 2 milioni e mezzo, non ricordo. Sono il numero uno in Italia come locale oh».

Quanto paghi di stipendi?

«Parla con Stefania, è lei che segue la contabilità.

Il vecchio ristorante in cui facevi arrivare conti da mille euro a gente che arrivava col groupon da 70?

«Ma quella è gente che mi mandavano per fare i servizi in tv…»

Come hai aperto i primi locali?

«Con cambiali da 4500 euro al mese, ho faticato. Vado bene da 3 anni grazie a Instagram, ho clientela di figli di imprenditori di Lecco, di Monza che sciabolano e fanno tavoli da 2/3.000 euro».

A me dicono che ogni tanto sciaboli da solo per far finta di avere il locale pieno.

«Dicono di tutto. Sboccio le bottiglie che piacciono a me e che mi bevo io».

C’è una pagina anonima su Instagram che ha pubblicato tuoi video mentre ti droghi e altro non molto edificante.

«Non lo so, non vado neanche a vedere.

E dai su, chi ci crede.

«Me l’hanno detto, ma guarda io non ho più nessuno nella vita, mio padre è in una casa di riposo e mia madre è morta, mi diverto, vado in giro col mio Ferrari e ho una ragazza di 20 anni, mi basta questo».

Però molte persone si sono rivolte a me dicendo che il tuo giro di amicizie, Stefania compresa, minacciano chi ritengono possa nascondersi dietro quella pagina. Ci sono degli esposti, anche. Ho visto personalmente cose molto brutte, video, messaggi… Che hai da dire?

«Mah, la verità è che ci sono mie ex che hanno diffuso video privati e sono finiti su quella pagina. Poi sai faccio 70 video al giorno… che ne so, chi ha tempo di seguire tutto».

Le minacce dei tuoi amici?

«Non è vero, nessuno minaccia nessuno».

Beh. Stefania ha scritto ad una tua ex che le spacca le ossa, ha le chiavi di casa.

«Vabbè ma quando uno litiga si può dire di tutto…»

E Michele, tuo amico, che pubblica foto di cani di una persona con cui il tuo gruppo ha avuto contrasti e dice che regala bottiglie a chi gli porta il padrone di quei cani?

«Ma io Michele no lo vedo mai, per contratto mi mette dei tag, io lo pubblicizzo. Non vedo queste minacce, non ho tempo».

E vero che hai picchiato delle tue ex?

«Ma va, F. dice che l’ho picchiata, ma sai quanta gente litiga? Magari lei impazzisce, mi tira i capelli in macchina, poi magari io la strattono per andarmene… una volta avevo una ex che io dovevo chiudermi a chiave in camera perché lei arrivava col coltello e impazziva, quindi sono cose che alle coppie possono succedere. Non sono un violento».

Sarà, però uno dei tuoi buttafuori, Paolo, ha precedenti per aver massacrato di botte un poliziotto. A che serve nel tuo locale?

«No, non è lui. Non è quel Paolo».

Come lo sai?

«Gliel’ho chiesto, mi ha detto che non era lui quel Paolo».

Come fa di cognome il tuo Paolo?

«E che ne so».

E allora come fai a sapere che non era quel Paolo B. ….?

«Lui ha detto che non era lui. Poi boh».

Ma a luglio i tuoi buttafuori non hanno aggredito un passante come dicono i giornali?

«No, sono stati aggrediti loro. Qui c’è sempre gente che lancia bottiglie, ma alla fine non succede mai niente, il mio è uno dei locai più tranquilli del mondo».

Ma se l’hanno chiuso per 10 giorni.

«Vabbè perché i clienti non avevano le mascherine».

No, anche per spaccio di droga.

«Dicono, ma che ne so, sono notizie così, le prove dove sono?»

Se lo hanno chiuso per spaccio, della droga nel locale devono averla trovata.

«Ma che ne so. Non so se hanno perquisito delle persone».

Scusa, ma fai finta di non sapere che il tuo locale è stato chiuso anche per droga?

«Devi chiederlo a quelle persone non a me».

Sei tu il proprietario del locale, se non lo sai tu.

«Non lo so, sono voci che mette in giro la gente».

La gente sono i poliziotti e il questore?

«Chiedi a loro, sei giornalista».

Balletto armato dei marinai di Taranto: sciabola e fucili come bastoni da majorettes piacciono tanto all’ipocrisia benpensante. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 17 Agosto 2020. «Intorno a noi tutto cambia. Bisogna seguire il ritmo… Il nostro mondo ha fatto del movimento un imperativo universale. E se la vita è evoluzione, se l’economia è crescita, se la politica è progresso, allora tutto ciò che non si trasforma deve sparire». Ho pensato molto in questi giorni a queste parole del giovane filosofo ed europarlamentare francese François-Xavier Bellamy, autore, tra gli altri, del libro “Dimora”, nel quale, “per sfuggire al movimento perpetuo” in un mondo in cui tutto cambia, spesso senza chiedersene neppure il perché, sostiene “il bisogno umano di una dimora, di un luogo da abitare dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi”. Me ne ha data l’ispirazione la lettura di molti articoli e commenti social al balletto armato, post giuramento, delle reclute della Scuola Sottufficiali della Marina Militare di Taranto, che gira da giorni sul web, con ampio risalto mediatico. Molti tuttologi dimenticano che i militari devono saper fare la guerra, per difendere, assieme alla pace, i nostri valori e le nostre libertà. «I militariesenti, e gli esperti di tuttologia (i cd. armchair generals secondo la terminologia statunitense) che hanno classificato il balletto come una “ragazzata” estiva per stemperare la serietà della cerimonia del Giuramento non sono i più indicati a comprendere il mestiere delle armi”. Lo ha detto in un dettagliato commento pubblicato su Imola Oggi del 12 agosto il Generale degli Alpini Giorgio Battisti, perché “pur in un’epoca di progressiva demilitarizzazione, spirituale e culturale delle Forze Armate, rimane sempre una professione “atipica” che non può essere valutata con il filtro del buonismo e del politicamente corretto (i rischi sono sempre gli stessi, anzi sono aumentati sia per l’efficacia delle nuove tecnologie sia per avversari sempre più determinati e senza scrupoli!).» Tra questi militariesenti, l’immancabile Roberto Saviano, che su Repubblica dell’8 agosto, da noto esperto di tutto, ha chiesto al Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, Giuseppe Cavo Dragone, «di smentire le voci punitive dando una nota di encomio perché quella danza fatta in caserma ha raccontato l’umanità dei soldati, ha fatto vedere alle migliaia di persone che hanno condiviso il video che si tratta di ragazze e ragazzi con voglia di vivere, sorridere e vivere. Il brano scelto dalla tenente di vascello sapete come si chiama? Jerusalema è una canzone in questo momento ascoltata da milioni di persone perché è partita in milioni di challenge, un testo semplice di invocazione religiosa, “Gerusalemme è la mia casa, Salvami, lui è venuto con me non lasciarmi, Gerusalemme è la mia casa”.» Ma i tuttologi pseudo buonisti e pacifisti (con la pelle ed il sacrificio degli altri), dimenticano forse che si diventa militari per prepararsi a fare la cosa più orribile, ma costante, della storia dell’umanità: la guerra. Che significa, che piaccia o meno: uccidere per non essere uccisi. In paesi come l’Italia repubblicana per la difesa della vita e delle libertà proprie e dei propri concittadini da aggressioni esterne. Da minacce che non provengono mai da popoli e paesi usi a mettere fiori nei propri cannoni. Tutto il resto, compresa la necessità di cambiamento di valori e regole all’interno di strutture create e pagate da sempre per fare la guerra, anche quando ipocritamente chiamate “missioni di pace”, sono chiacchiere. Con ciò non voglio assolutamente dire che le Forze Armate, al pari delle Forze di Polizia italiane, pur restando, soprattutto per l’aspetto umano, uno dei fiori all’occhiello del nostro Paese nel mondo, non siano esenti da critiche e da possibili miglioramenti e innovazioni. Ci mancherebbe. Ma non si deve fare di tutta l’erba un fascio e confondere le pere con le mele. Perché la “mutabilità dei valori” delle Forze Armate, che tanti benpensanti in questi giorni, sull’onda della danza Tarantina di reparto schierato in armi e diretta da una ufficiale con sciabola sguainata, invocano a sproposito, mi fa pensare ad altra provocatoria constatazione sul “progressismo” d’accatto. Sempre di François-Xavier Bellami. Che non è un dinosauro come chi scrive, bensì un brillante filosofo e politico trentenne, abituato ad insegnare filosofia ai giovani liceali francesi: “Sii più veloce. Cambiare. Adattare. Innovare. Sempre di più e sempre più veloce. Lo scopo del cambiamento è meno importante del fatto di trasformare. La destinazione conta meno del fatto stesso di viaggiare. Vivere significa muoversi. La novità è buona in sé…”. E i risultati di questa novità per la novità, di questo cambiare per cambiare ed essere “moderni”, del muoversi senza neppure sapere dove andare, sono sotto gli occhi di tutti nel nostro Paese. Che, pur avendo davvero bisogno di epocali e radicali cambiamenti e riforme ragionate, resta sempre il Paese del Gattopardo. Del cambiamo tutto per non cambiare niente. Non scordiamolo. E il “balletto armato” di Taranto, che non è una tarantella, è lo specchio della deriva di valori fondanti del nostro Paese e della nostra civiltà. Che di questo passo porterà all’inesorabile e strisciante perdita (proprio perché senza valori) delle nostre stesse libertà fondamentali. Che ci verranno sottratte da potenze economiche, demografiche e anche militari straniere (vogliamo parlare della Cina, tanto per fare un esempio?) che beneficeranno di questo ipocrita pseudo-buonismo e progressismo d’accatto nostrano. Ben contente della possibilità di dover affrontare sul campo militare, quando e se sarà necessario, dopo quello economico, soldati, marinai e aviatori che invece di fare la guerra come o meglio di loro, anche se per la difesa di diversi valori e modelli, sanno ballare Jerusalema con fucili e sciabole sguainate. Perché ogni riferimento ai military tattoo e alla goliardia non ha nulla a che vedere col balletto di Taranto. Voglio precisare che la grande confusione negli accostamenti fatti, da molti sicuramente in buona fede, tra la danza tarantina ed altre forme di goliardia militare (compresi i celebri military tattoo, balli e danze in uniforme, e non da ultimo un simpatico spot ufficiale della Marina Militare che riprende marinai danzanti) è assolutamente fuori luogo. Queste, quando non sono danze marziali tutt’altro che pacifiste, sono esercizi umanizzanti delle forze armate, certamente utili a rinsaldare un sano e necessario spirito di corpo. Ma nulla hanno a che fare con l’happening di un reparto di allievi sottufficiali in alta uniforme, schierato e armato, e al termine della più solenne cerimonia per un militare: quella del loro giuramento di fedeltà alla Repubblica. Agli ordini di una ufficiale con sciarpa azzurra e sciabola sguainata. «Il Giuramento è l’atto più solenne per un Soldato, di qualsiasi ordine e grado, con il quale promette dovere di fedeltà e rispetto alle Istituzioni sino all’estremo sacrificio. Esso suggella gli elementi che sono alla base della cultura e delle motivazioni del Soldato: i valori etici, le tradizioni, la storia e il ricordo dei propri Caduti – ricorda a giusto titolo Battisti. Senza queste caratteristiche anche l’Esercito meglio armato e tecnologicamente più avanzato rischia di sfaldarsi alle prime difficoltà, come lo dimostrano anche recenti esempi (vds. Esercito Iracheno nel 2014 a Mosul di fronte all’attacco dell’ISIS)». Sciabola e fucile usati come stick da tip-tap a margine di un giuramento non è progresso. Trattare il fucile, e la sciabola sguainata della Ufficiale che ha aperto le danze, come fosse il bastone di un ballo tribale, lo stick di un tip–tap o di una sfilata di majorettes, secondo Battisti «può ingenerare in questi Marinai, che sono ancora nella fase iniziale della maturazione professionale, uno scarso rispetto per l’arma: quanti sono gli incidenti mortali per un suo maldestro utilizzo?» Ma questo è un problema che i benpensanti neo-moralisti alla Saviano sembrano non porsi. Come c’è da immaginare non si pongano il problema del senso della disciplina e dell’autorevolezza che deve avere e dimostrare un Ufficiale. «In situazioni completamente diverse come reagiranno questi giovani quando dovranno eseguire ordini “non piacevoli”, certamente più impegnativi, e a volte pericolosi? Quale rispetto e riconoscimento immediato e indiscusso dell’autorevolezza del loro Ufficiale? E potrebbe l’Ufficiale pretenderlo questo rispetto da uomini e donne cui ha “ordinato” di ballare in un momento in cui il ballo non rappresenta alcun significato simbolico?», chiede Battisti. «Non possiamo rinunciare al progresso. Ma ci sono dei valori stabili – ricorda Bellamy – ai quali non possiamo rinunciare. E un valore stabile, punto di riferimento di tutto, è la dimora», come luogo di conservazione e protezione di quei valori stabili. E ce lo ricorda, parlando anche dell’unità Europea, come eredità ricevuta e da proteggere, non di progetto da realizzare. Perché eredità di civiltà, tradizioni e cultura, e dimora di valori comuni da proteggere seppure proiettati nella modernità. «Ulisse è un avventuriero. Conduce un’odissea, che ne prende il suo nome. Ma l’odissea di Ulisse è permessa solo perché Ulisse ha un obiettivo: ritornare a casa, ritrovare la sua casa, ritrovare un luogo familiare. E noi siamo oggi tutti, francesi, italiani, cittadini dell’Europa, abitati da questa nostalgia. Noi vogliamo ritrovare il senso della nostra dimora comune, il senso di ciò che ci unisce. Quando sapremo riproporlo nuovamente, non c’è dubbio che sapremo ritrovare la forza necessaria per poter convincere e riunire. Se non ci riusciremo, dovremo ricordarci che, come ammoniva Valery, le civilizzazioni sono mortali. Noi siamo ad un punto di biforcazione. O ritroveremo il senso di ciò che siamo, il senso di ciò che ci costituisce, il senso di ciò cui noi teniamo assieme, oppure, e lo sappiamo bene, l’Europa è oggi minacciata – per non aver saputo ritrovare la sua memoria – forse di uscire dalla storia. È la nostra responsabilità che è in gioco, nei confronti di una civilizzazione, ma anche nei confronti della condizione umana tutta intera il cui avvenire si deciderà nelle prossime generazioni». E le opinioni di chi minimizza il significato della danza armata tarantina mi appaiono prova del grande pericolo che il nostro Paese, più di altri in Europa e nel mondo occidentale, sta correndo. E tanti pseudo buonisti-progressisti alla Saviano, dovrebbero ricordare, non per rinchiudere il Paese nella nostalgia del passato, ma per poterlo proiettare nell’avvenire, che le vie che conducono all’inferno sono spesso lastricate di buone intenzioni. Pensando alla Capitano AstroSamantha. Sembrerebbe che l’avvocato della Tenente di Vascello abbia pubblicamente precisato che «l’episodio si è verificato a conclusione ed a margine di un giuramento collettivo di volontari in ferma prefissata che, a causa dell’emergenza sanitaria in atto, si era dovuto eccezionalmente svolgere “a porte chiuse”, senza la consueta partecipazione di parenti ed amici. Non solo: per precauzione sanitaria, quei giovani militari non avevano fruito della franchigia, cioè della libera uscita, per tutta la durata del corso né era stata consentita loro la consueta giornata da trascorrere assieme ai parenti dopo il giuramento. L’ufficiale in questione, madre di un bambino di tenera età e mossa dalle migliori intenzioni, non ha violato alcuna consegna né ha determinato alcun dispendio economico per lo Stato, avendo protratto per nemmeno tre minuti un’adunata di militari già implotonati per il giuramento ed imbraccianti armi scariche del tutto inidonee allo sparo. L’intento dell’ufficiale è stato solo quello di rinfrancare lo spirito di tante giovani reclute sottoposte ad eccezionali precauzioni e ad isolamento dal resto del mondo». Trovo assolutamente normale che l’avvocato faccia il suo lavoro di avvocato, difendendo come può la propria assistita da una procedura disciplinare. Considero tuttavia alquanto patetico il riferimento alla “madre di un bambino in tenera età “. Perché a mio avviso provoca un torto all’immagine delle donne militari. Ed in modo particolare di quelle, tra loro, che hanno scelto la carriera di ufficiale. Pensando alla compostezza, anche di fronte a situazioni non facili, di altre donne ufficiali, quali la celebre Astronauta Samantha Cristoforetti, mi chiedo quale sia la ragione di questa precisazione. É forse un’esimente essere madre di un bambino in tenera età per chi ha liberamente scelto non di fare la crocerossina, l’insegnante di liceo o l’animatrice di un villaggio turistico, bensì di comandare e preparare uomini e donne a fare la guerra? Uomini e donne che alla Scuola Sottufficiali della Marina di Taranto sono in formazione per prepararsi a sopportare ben più dure privazioni durante lunghi imbarchi, anche su sommergibili, in teatri operativi. Che non possono essere certo paragonate alla mancata libera uscita, seppure di qualche mese. Siamo seri, per favore. E se non bastassero le mie sommarie considerazioni, si leggano integralmente quelle del Generale Battisti, che rispondono in dettaglio a tutti questi piagnistei. Avrei trovato molto più dignitoso ammettere l’errore (errare humanum est) e accettare la sanzione. Che non sarà comunque la fucilazione. Senza dichiararsi neppure sorpresi che l’happening sia stato ripreso e diffuso in rete all’insaputa della Tenente di Vascello, o di qualunque altro responsabile al di sopra di lei. Perché questa sorpresa la giudico un’aggravante, a dimostrazione della mancanza di discernimento che ogni ufficiale dovrebbe possedere. Perché una sanzione disciplinare dei responsabili è inevitabile e doverosa. Il fatto di avere viceministri degli esteri che confondono Libia con Libano (e che poi neppure hanno l’umiltà di scusarsi dell’errore, ma apostrofano invece pubblicamente come “fenomeni” coloro che glielo fanno osservare), aspiranti premier che postano in rete foto delle loro abbuffate quotidiane, e le tante ben più gravi nefandezze tipo Magistratopoli ed i fattacci dei Carabinieri di Piacenza, che non risparmiano nessuna istituzione, di cui si apprende giornalmente notizia in Italia – paese dal quale sono reclutati anche i nostri militari, oltre che i nostri magistrati e politici – non riduce comunque la gravità di tale fatto. Non è certo perché esistono gli assassini che bisogna automaticamente assolvere i ladri di biciclette. I responsabili di questa pagliacciata non meritano senz’altro la fucilazione, e neppure l’espulsione dalla Marina, ma una severa sanzione disciplinare senza alcun dubbio. Non sarei sorpreso, visto il risalto mediatico, che tale sanzione incoraggerà qualche formazione politica in cerca d’autore a fare della giovane ufficiale una candidata elettorale. Mi auguro però che il tentativo (spesso supponente e arrogante, su media e social) dei tanti benpensanti alla Saviano, di influenzare le decisioni dello Stato Maggiore della Marina in nome di una ipotetica “morale nazionale”, non sortisca l’effetto sperato. Perché se così non fosse, e finisse tutto con i soliti tarallucci e vino, sarebbe un altro pericoloso segnale della nostra progressiva decadenza etica e morale nazionale. Che intaccherebbe anche le nostre forze armate. E dovremmo ricordarcelo e chiederne conto ai veri responsabili quando i nostri militari non saranno più in grado di garantire in armi la difesa dei nostri ben più vitali e fondamentali valori di pace e libertà nazionali, da malaugurate minacce esterne. Che potranno provenire da potenze straniere o organizzazioni terroristiche tipo ISIS, dotate di uomini e donne addestrati a fare la guerra. Non a ballare Jerusalema armati di sciabola e fucili o, come piacerebbe a noi tutti, pur restando un sogno, a mettere fiori nei propri cannoni.

Francesco Gastaldi per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2020. Esistono date spartiacque nella vita di una persona. Quella di Arianna Virgolino è il 7 novembre 2019. Quel giorno il questore di Lodi la premiava per aver sventato una rissa da Far West a Casalpusterlengo. «Due ore dopo - racconta l'ex agente - consegnavo pistola, manette e distintivo e uscivo per sempre dalla Polizia: la sospensione mi è stata notificata nello stesso giorno dell'encomio per meriti di servizio». Colpa di un tatuaggio che Arianna aveva cancellato due anni prima ma le è costato la carriera. Un cuore con coroncina sul polso, regalo per i 18 anni. «L'ho eliminato come prescrive la norma». La sentenza del Consiglio di Stato che «condanna» Arianna e altri ex poliziotti nella sua situazione, è stata resa pubblica nei giorni scorsi. Arianna racconta la sua vicenda al Corriere . Quella di una promettente agente di polizia espulsa per «demeriti estetici». «La cosa incredibile - racconta lei, 31 anni, mezza campana e mezza piemontese ora a Peschiera del Garda - è che in servizio non ho mai avuto quel tatuaggio, eliminato a colpi di laser (nove sedute a 200 euro l'una, ndr ) subito dopo aver superato le preselezioni». A condannarla la sua sincerità: «Il tatuaggio era quasi sparito ma ho preferito essere corretta. Pensavo mi avrebbero apprezzato, invece mi hanno messo alla porta». Arianna viene dichiarata inidonea. Il Tar però le dà ragione, sospende il provvedimento, la riammette alla scuola di polizia. Conclude l'addestramento, giura per la patria ed entra alla sottosezione di Guardamiglio della Polstrada di Lodi. Incarico tosto, 60 chilometri di autostrada, a caccia di narcos e incidenti. Una volta salva una ragazza incastrata e con quattro dita mozzate usando un braccialetto come laccio emostatico. Poi la notte di Casalpusterlengo: «Io e i colleghi eravamo fuori servizio a bere: da una lite fra due ecuadoregni scoppiò l'inferno con latinos che si sfidavano a bottigliate. Li contenemmo a mani nude fino all'arrivo dei rinforzi». Un mese dopo il prefetto Marcello Cardona la premia per il gesto coraggioso; nello stesso giorno Roma le dà il benservito. Il Consiglio di stato, IV sezione, rovescia la decisione del Tar: inidonea. «Ho consegnato il distintivo con la morte nel cuore. Amo questa divisa». Ora è nel limbo: sospesa, ma non licenziata, disoccupata. «Per pagare i legali ho venduto l'auto». La sostengono il compagno (ispettore anche lui), il figlio di 8 anni («prega che la Polizia mi richiami»), le attestazioni di stima dai colleghi di tutta Italia: «Mi scrivono in tanti, sogno di tornare in servizio a Lodi». Con Arianna tre compagni di corso - Sara, Claudio, Valeria - combattono la stessa battaglia: «Vado avanti, non cerco nessuna forma di risarcimento, voglio solo poter tornare a servire il mio Paese».

 “Io, cacciata dalla polizia per un tatuaggio cancellato farò ricorso alla Cedu”. Il Dubbio il 14 agosto 2020. Il caso di Arianna Virgolino, 31 anni, che era in forza alla sottosezione di Guardamiglio (Lodi) della polizia Stradale finché non è stata allontanata dalla polizia di Stato per un tatuaggio già rimosso. “Sono pronta a presentarmi anche davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e ho tempo fino a novembre per far ripartire il mio ricorso” dice Arianna Virgolino, 31 anni, che era in forza alla sottosezione di Guardamiglio (Lodi) della polizia Stradale finché non è stata allontanata dalla polizia di Stato per un tatuaggio già rimosso, sulla base di una sentenza del Consiglio di Stato. Dice ora: “Le abbiamo provate tutte”. “Sarei disposta a rinunciare a ogni forma di risarcimento – conclude Virgolino, che nel 2019 fu anche riconosciuta con un encomio per meriti di lavoro fuori servizio – pur di tornare in polizia”.

Castelli e Salvini: reintegratela. “Questa mattina ho letto la storia di Arianna, una giovane poliziotta sospesa per un vecchio tatuaggio, rimosso da tempo. Ho una passione per i tatuaggi, che non ho mai nascosto, motivo per il quale questa notizia ha catturato la mia attenzione. Pur di raggiungere un sogno, quello di entrare a far parte della Polizia di Stato, ha cancellato un tatuaggio, sottoponendosi a dolorose sedute laser. Premesso che non dovrebbero essere aspetti “estetici” a determinare l’appartenenza, o meno, alle nostre forze di polizia, se oggi le regole dicono che per fare il poliziotto non devi avere tatuaggi visibili, lei non ne ha. Tra l’altro, la situazione è radicalmente mutata rispetto a quando si è avviato l’iter giudiziario: il tatuaggio non è visibile e Arianna ha lavorato in Polizia. Sembrerebbero, quindi, venuti meno i presupposti per l’esclusione dal concorso. Ciò nonostante le hanno chiesto di lasciare per sempre pistola e distintivo”. Lo scrive, su Facebook, il Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli, postando un articolo del Corriere della Sera. “Anche per questo – aggiunge – sentirò il Ministro dell’Interno Lamorgese, affinché faccia tutti gli approfondimenti del caso e possa valutare di rinunciare ad eseguire la sentenza. Ad Arianna, ed ai suoi colleghi che si trovano nella stessa condizione, auguro di poter chiarire la situazione e tornare presto a servire il nostro Paese”. ”Un tatuaggio, peraltro cancellato, non trasforma una poliziotta meritevole di encomio in un elemento da allontanare. La vicenda di Arianna Virgolino, raccontata oggi dai media, è incredibile: auspico che la decisione del Consiglio di Stato possa essere rivista. Servono saggezza ed equilibrio: le persone capaci, in buonafede e perbene non vanno cacciate ma valorizzate, soprattutto se amano la divisa come dimostra Arianna”. Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini, intervenendo sulla vicenda della poliziotta sospesa nel novembre 2019, poco dopo aver ricevuto un encomio per aver sedato una rissa, a causa di un piccolo tatuaggio cancellato due anni prima ma che è stato sufficiente a farle toglierle il distintivo.

Chiara Baldi per ''la Stampa'' il 17 agosto 2020. «Io spero che la Polizia torni sui suoi passi perché senza una divisa addosso non mi ci vedo proprio». Arianna Virgolino tra qualche giorno compie 32 anni, ha un figlio di otto e un compagno che è nella Polizia. E fino a novembre dello scorso anno anche lei era un' agente del corpo dello Stato, in servizio alla sottosezione di Guardamiglio della Polstrada di Lodi: coi suoi colleghi, pattugliava l' autostrada e interveniva in caso di incidenti o in operazioni contro lo spaccio di stupefacenti. Ma, racconta Virgolino, «quello era il lavoro che amavo». Tanto che il 7 novembre 2019 era stata persino premiata dal prefetto di Lodi, Marcello Cardona, per aver sventato una rissa a Casalpusterlengo. Qualche ora dopo quel premio, però, come ha anticipato il «Corriere della Sera», Virgolino veniva invitata a lasciare la divisa: una sentenza del Consiglio di Stato l' aveva infatti sospesa dal corpo di Polizia per «demeriti estetici». La colpa? Un vecchio tatuaggio, che la ragazza aveva persino fatto rimuovere pur di vestire la divisa.

Da dieci mesi non lavora più in Polizia: cosa fa?

«Pur non lavorando non sono ancora disoccupata nel senso pieno della parola perché il decreto di licenziamento non è ancora arrivato, credo che arriverà a breve, dal momento che c' è stata la sentenza del Tribunale. Nel frattempo però sto cercando lavoro, anche se mi è impossibile immaginarmi senza una divisa».

Sta facendo colloqui in giro? E' fiduciosa che presto troverà un' occupazione e dimenticherà questa brutta storia?

«Si, sto facendo dei colloqui ma non ho molta fiducia. Purtroppo, ogni volta che mi presento a qualcuno devo rispondere alla domanda "cosa hai fatto finora?" e quando le persone si sentono dire che sono stata una poliziotta cambiano completamente espressione: si immaginano di avere davanti chissà quale criminale che è stata cacciata dalle forze dell' ordine per reati gravissimi. Invece io ho solo pagato per la mia onestà».

In che senso?

«Quando nel 2017 ho passato le selezioni per entrare in Polizia con il punteggio d 9,8 su 10, conscia che mi avrebbero chiamato per fare il concorso, ho subito provveduto a far rimuovere il tatuaggio, un cuore con una coroncina che mi ero fatta sul polso a 18 anni. Fino a aprile 2018 ho fatto nove sedute di laser, che sono anche piuttosto dolorose, tornavo a casa con le bolle di sangue sulla pelle.

Ho speso circa 2 mila euro.

Solo che quando hanno visto che era rimasta una lieve cicatrice, mi hanno chiesto come me la fossi procurata e io ho scelto la sincerità, dicendo che era il residuo di un vecchio tatuaggio».

E poi cosa è successo?

«Che sono risultata inidonea ma ho fatto ricorso al Tar che mi ha dato ragione e così sono stata riammessa alla scuola di Polizia. Ho concluso l' addestramento, ho fatto giuramento e sono entrata. Poi è arrivato il Consiglio di Stato».

Oggi come vive questa situazione?

«Malissimo, nonostante tutta la mia famiglia sia con me e anche moltissimi colleghi mi stiano esprimendo la loro solidarietà, perché questa vicenda riguarda non solo me ma tante persone nell' Arma. Ma è difficile spiegare a mio figlio per quale motivo non possiamo comprare la casa nuova che da anni gli prometto. E per sostenere le spese legali ho dovuto vendere l' auto».

Farebbe un altro concorso in Polizia?

«Se si potesse, si. Ma c' è il limite dei 26 anni: quello a cui ho partecipato era l'ultimo che potevo fare».

Flavia Perina per ''La Stampa'' il 17 agosto 2020. Ancora storditi dalla vicenda dei carabinieri-pusher di Piacenza, stentiamo a credere alla storia della poliziotta di Peschiera del Garda, premiata dal Questore per il suo coraggio nel sedare una rissa e nello stesso giorno cacciata dal Consiglio di Stato per una cicatrice sul polso che rivelava l' esistenza di un tatuaggio (un cuore) fatto a diciotto anni e poi rimosso. Sembrava davvero un fake, invece no, è tutto vero, è successo sul serio nel teatro dell' assurdo imbastito ogni giorno dalla nostra burocrazia. Lei, Arianna Virgolino, 31 anni, sposata con un poliziotto e madre di un bambino, è da novembre fuori dai ranghi e senza stipendio dopo una surreale vicenda giudiziaria che l' ha vista sospesa per «demeriti estetici», reintegrata dal Tar e poi nuovamente estromessa da una sentenza del novembre scorso del Consiglio di Stato. La tenacia con cui l' istituzione e la giustizia amministrativa hanno perseguito questa giovane agente, colpevole di aver detto la verità sull' abrasione visibile sul braccio - il tatuaggio, vietato dalle regole, l' aveva cancellato dopo aver passato le preselezioni del concorso in polizia - ci dice molte cose sulla persistenza del Codice dei furbi e dei fessi raccontato nei lontani anni '20 da Giuseppe Prezzolini. All' elenco riconosciuto dei fessi («chi paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro, non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura o nella pubblica amministrazione, chi mantiene la parola data anche a costo di perderci, etc») andrà aggiunta la voce: chi non mente all' autorità, convinto che la sua sincerità sia un valore anziché una possibile fonte di colossali guai, addirittura di un licenziamento. Adesso che il caso dell' agente Virgolino è diventato pubblico, con la solidarietà dei colleghi e di tanti cittadini da tutta Italia, la speranza è che qualcuno trovi il modo di smentire quell' antico Codice e dimostrarci che, soprattutto nella gestione delle Forze dell' Ordine, dove si lavora per la sicurezza collettiva, dove lo Stato esercita il massimo del suo potere sui cittadini, l' onestà rimane una qualità apprezzata. Ne abbiamo bisogno, dopo troppe vicende che hanno scosso la fiducia nella capacità delle gerarchie di sanzionare i balordi o addirittura i delinquenti in divisa. Arianna, con tatuaggio o senza, con cicatrice o senza, è il tipo di poliziotta che vorremmo incontrare se ne avessimo bisogno.

 Se un tatuaggio fa più paura delle torture in questura. Errico Novi su Il Dubbio il 15 agosto 2020. Va avanti la discriminazione dei tatuati nelle forze dell’ordine. L’ultima frontiera è un’agente della Polizia stradale di un comune lombardo, Guardamiglio, rimossa per un tatuaggio pregresso. Va avanti la discriminazione dei tatuati nelle forze dell’ordine. L’ultima frontiera è un’agente della Polizia stradale di un comune lombardo, Guardamiglio, rimossa per un tatuaggio pregresso. L’aveva abraso col laser, ma non conta. Niente incisioni dermiche, i codici di comportamento lo vietano. E se pure sei un tatuato pentito, la macchia resta. Non si vede più nulla ma c’è la macchia morale. Sei hai ceduto alla tentazione vai punito a vita. Siamo alla nevrosi burocratica, alla minuzia paradossale, alle regole ridotte a pedanteria. Le forze dell’ordine annoverano eroi, alcuni noti, altri invisibili o “quotidiani”, come il prefetto di Lodi aveva definito l’agente dal tatoo fatale, Arianna, capace di sedare una furibonda rissa a mani nude. A furia di concentrarsi sull’irrilevante, di trascinarsi dietro le pignolerie, si rischia di perdere di vista l’essenziale. Non è una questione di moralismo, o di generalizzazioni. Vicende come quella della caserma di Piacenza, o peggio come l’orrore consumato su Stefano Cucchi, sono eccezioni, lo sappiamo. Ma il rischio è che a furia di prestare troppa attenzione ai dettagli insignificanti si rischia di lasciar crescere l’erba gramigna delle devianze vere.

 “Mamma furto” torna libera: deve scontare trent'anni ma è di nuovo incinta. Le Iene News il 20 giugno 2020. La donna, una bosniaca di trentatré anni, deve scontare un cumulo di pena di oltre 30 anni per 12 sentenze di condanna. Ma è di nuovo incinta, per la tredicesima volta! E così è già fuori, a soli 5 giorni dall’ingresso a Rebibbia. Noi de Le Iene l’avevamo conosciuta nel 2018 con Nicolò De Devitiis. “Mamma furto” è di nuovo uscita dal carcere: lunedì era finita a Rebibbia, ora è libera. Il motivo? E’ di nuovo incinta, per la tredicesima volta. La donna, una bosniaca di 33 anni, deve scontare un cumulo di pena superiore ai 30 anni, frutto di 12 sentenze di condanna. Finora però è sempre riuscita a evitare il carcere, proprio perché è sempre incinta. Come riporta La Repubblica, infatti, in caso di gravidanza la legge obbliga il giudice a posticipare l’esecuzione della pena in carcere fino a che il neonato non compie un anno di vita. La nostra “mamma furto” negli anni passati è stata arrestata più di venti volte e sempre rimessa in libertà perché incinta. Una storia che ricorda quella di Sophia Loren nel film “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica, Oscar nel 1965. Noi de Le Iene l’avevamo conosciuta con Nicolò De Devitiis, nel servizio che potete vedere qui sopra. La Iena l’aveva incontrata a Venezia nell’ottobre 2018, mentre era “in servizio” su alcuni vaporetti in cerca dei turisti a cui sottrarre beni e valori. Raggiunta su un treno dove aveva tentato di salire per nascondersi, aveva aggredito il nostro inviato tra calci alla telecamera, schiaffi e sputi a tutta la nostra troupe. E alla fine, spalleggiata da un’altra complice, aveva minacciato di lanciarci contro dei pesanti sassi.

Francesco Salvatore per “la Repubblica – ed. Roma” il 20 giugno 2020. Lunedì era finita in carcere, a Rebibbia, per scontare una serie di condanne che cumulate insieme arrivavano ad oltre 30 anni. Una volta ricevuto l' atto firmato dalla procura di Milano, un ordine di esecuzione nel quale erano elencati la sfilza di borseggi che aveva compiuto negli ultimi anni, la donna, bosniaca di 32 anni di origine rom, si era presentata ai carabinieri di Torvajanica senza colpo ferire. Consapevole, forse, di avere l' ennesimo asso nella manica. E così di fatto è stato. Visto che ieri la donna è stata scarcerata dal tribunale di sorveglianza perché in stato di gravidanza al quinto mese. Non una novità. Finora, infatti, la donna era riuscita sempre a prendere congedo dagli istituti penitenziari in virtù proprio di questo: la donna ha dodici figli. Il prossimo è il tredicesimo. Come scritto sul certificato dell' ospedale Sandro Pertini allegato all' istanza presentata dal suo difensore, l'avvocato Luca Guerra. Gli arresti, invece, sono circa una ventina. Tutti borseggi e furti compiuti tra Roma e Milano. Ogni qual volta la donna è finita in manette, al massimo è stata detenuta per un paio di mesi. Poi è scattata sempre la scarcerazione, perché essendo incinta era incompatibile col carcere. Il giudice, infatti, in questi casi, è obbligato a posticipare tutto a dopo la nascita del figlio. E per di più, da codice penale, la detenzione deve essere rinviata fino a dopo il primo anno di vita. Stando al suo curriculum criminale la donna deve scontare una pena totale di 31 anni e 6 mesi. Al suo attivo ci sono 12 sentenze. E altri procedimenti sono ancora pendenti. La donna, tra l' altro, sebbene la prole sia ampia, non ha una dimora stabile. Motivo per il quale non può neanche trascorrere la pena ai domiciliari. Ora bisognerà aspettare ancora del tempo prima che finisca in carcere. Sicuramente più di un anno. Sempre che nel frattempo non resti incinta di nuovo.

Franco Giubilei per “la Stampa” il 23 giugno 2020. Un normale controllo della polizia stradale in una zona semiperiferica di Fidenza, nel Parmense, tardo pomeriggio di domenica: la paletta che si alza perché il guidatore non ha la cintura di sicurezza, l' auto che si accosta, la scoperta dei due agenti che la stessa infrazione è già stata commessa in passato e che dunque la patente va ritirata. A questo punto la situazione si complica. L' uomo, un 63enne originario di Salerno residente nella città emiliana da parecchio tempo, scende dalla macchina e comincia a discutere sempre più animatamente finché, secondo le prime ricostruzioni, tira uno schiaffo a un poliziotto facendogli volar via gli occhiali. Allora gli agenti lo immobilizzano e lo ammanettano, ma nella colluttazione avviene l' irreparabile: Antonio Marotta, che soffre di varie patologie fra cui una cardiopatia, ha un malore e di lì a poco muore sull' asfalto. Vani i tentativi degli stessi agenti di rianimarlo col massaggio cardiaco, e inutili anche i soccorsi dell' ambulanza che arriva di lì a pochissimo, chiamata sul posto dai poliziotti. Cominciano gli accertamenti, affidati alla sezione giudiziaria della stessa polstrada, e la procura di Parma assume tutte le informazioni sulla vicenda in vista dell' apertura del fascicolo che già ieri era data per certa. L' autopsia sarà il passo successivo necessario per fare chiarezza sulla causa della morte del conducente, visto che oltre tutto, in quel tratto di viale Martiri della Libertà, non ci sono impianti di videosorveglianza che possano aver ripreso la scena. I familiari di Marotta, intanto, lanciano accuse neanche tanto velate e si affidano a un legale: "Penso si sia trattato di un abuso di potere - dice il genero della vittima, Angelo Pinto -. Mio suocero soffriva di cardiopatia, di enfisema polmonare ed era diabetico, credo che se una persona in quelle condizioni viene ammanettata e buttata a terra, con quei problemi, ci sia un abuso vero". Poi riferisce altri dettagli che ha osservato di persona sul luogo del controllo e sul cadavere della vittima, al momento del riconoscimento: "Sul corpo c' era sangue ai polsi, e sangue c' era anche sul suo orologio che ho raccolto, oltre alle macchie sul terreno. Non penso sia stato picchiato, ma posso ipotizzare che sia stato buttato con la faccia a terra. Sicuramente ci sarà stata una discussione, ma da qui a morire durante un controllo delle forze dell'ordine ce ne passa. Per questo motivo l' abuso mi ricorda quello che ha subito Floyd, il povero americano ucciso". Antonio Marotta riceveva una pensione da invalido civile per le malattie di cui si diceva, in passato ha lavorato come agricoltore e aveva anche precedenti per truffa e ricettazione. Il legale nominato dalla figlia della vittima, Carlo Ambrosini, per il momento non fa commenti ma è stato messo al corrente dell' esistenza di un testimone che avrebbe assistito al contatto fra agenti e guidatore e che "potrebbe dire cose interessanti". La figlia di Marotta, da parte sua, ha scritto su un social: "Ho bisogno, insieme a chi è deputato a farlo, di capire tante cose sugli ultimi istanti della sua grande vita". Le indagini saranno presto affidate alla squadra mobile di Parma ed è verosimile che i due agenti, poliziotti di esperienza, nei prossimi giorni siano sentiti dai magistrati. Per ora, in attesa che il testimone evocato dalla famiglia della vittima si faccia vivo e racconti quel che ha visto, negli ambienti investigativi e in procura si continua a indagare in silenzio.

In ginocchio per Riccardo Magherini, morto durante un fermo: il flash mob a Firenze. Le Iene News il 18 giugno 2020. Il gruppo Amici del Maghero ha organizzato assieme ai familiari il flash mob in ricordo di Riccardo Magherini nel giorno in cui avrebbe compiuto 46 anni. Una protesta che ricorda quelle seguite all’uccisione di George Floyd da parte della polizia Usa. Noi de Le Iene seguiamo da tempo questo caso. Un flash mob, simile alle proteste per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia Usa, per ricordare Riccardo Magherini nel giorno di quello che sarebbe stato, il 17 giugno, il suo 46° compleanno. È successo a Firenze in piazza Santo Spirito: decine di persone si sono inginocchiate per commemorare il quarantenne morto nel 2014 per un infarto, subito dopo un fermo dei carabinieri. L’evento è stato organizzato dal gruppo Amici del Maghero e potete vederne alcune immagini nel video qui sopra, realizzato e curato da Matteo Calì. “Siamo qui per ricordare Riccardo nel giorno del suo compleanno”, ha detto il fratello Andrea, “e per dire basta ai fermi violenti e agli abusi delle forze dell'ordine, il nostro impegno ora sarà fare in modo che non accada più”. Noi de Le Iene ci siamo occupati del caso Magherini in due servizi di Mauro Casciari del 3 ottobre 2014 e del 29 gennaio 2015. Siamo partiti appunto dal video girato da un cittadino di Firenze dalla finestra e da una domanda: perché un uomo di 40 anni in preda al panico muore durante il fermo dopo che ha incontrato i carabinieri che dovevano aiutarlo? Secondo la ricostruzione dell’accusa nei primi due procedimenti, Riccardo Magherini, che si trovava in uno stato di delirio e aveva assunto cocaina, sarebbe stato bloccato a terra e picchiato dai tre militari mentre gridava “aiuto” e “sto per morire” in mezzo alla strada in Borgo San Frediano a Firenze il 3 marzo 2014. Poco dopo è morto di infarto. Aveva 40 anni, una moglie e due figli. Filmati e 29 testimonianze raccontano lo stato di costrizione dell’uomo, che chiedeva aiuto, con il peso addosso dei militari. All’ospedale, come testimoniano le foto, arriva ricoperto di ferite ed ematomi sul volto e su tutto il corpo. Il secondo servizio che abbiamo dedicato al caso parte da un video di Riccardo ripreso dalle telecamere interne di un ristorante del centro di Firenze: è tranquillo e gioviale, cinque ore dopo morirà. Resta molto da chiarire sulle modalità della sua morte. Anche perché nessun video delle telecamere di una delle aree più video sorvegliate del mondo è stato consegnato alla procura. Per la Cassazione le modalità di quel fermo che ha portato alla morte di Riccardo Magherini non sono però da condannare “perché i carabinieri non potevano prevederla”. A luglio dello scorso anno la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha ritenuto ammissibile il ricorso della famiglia di Riccardo Magherini: è stato depositato per le modalità con cui è stato arrestato e su alcuni aspetti delle indagini e sulla parte finale del processo. Adesso lo Stato italiano potrebbe essere condannato per non aver rispettato il diritto alla vita e all’equo processo, ed è ancora attesa la sentenza.

La tecnica del ginocchio sul collo non è un problema solo statunitense. La tecnica del ginocchio sul collo non è un problema solo statunitense. La compressione toracica usata a Minneapolis non è un caso isolato, e anche in Italia le cronache hanno registrato esempi simili. A dimostrazione di una grave impreparazione delle forze di polizia. Luigi Manconi il 09 giugno 2020 su L'Espresso. Fermo di un manifestante al G8 di Genova del 2001Il video della morte di George Floyd, quarantaseienne afroamericano, è stato visto da milioni di persone. E, tuttavia, osserviamolo ancora, a ritmo rallentato e sequenza per sequenza. Il ginocchio del poliziotto bianco quarantaquattrenne, Derek Chauvin, preme sul collo di Floyd, disteso per terra, mentre altri due poliziotti gravano con i loro corpi su gambe e torace dell’uomo. Il suo volto è schiacciato sull’asfalto, le braccia dietro la schiena, i polsi ammanettati. Grida, ma la pressione sul suo collo non si allenta, nonostante l’invocazione: «Non posso respirare, lasciatemi per favore». Un passante scandisce il tempo: «Sono trascorsi tre, quattro minuti, non respira». L’agonia dell’afroamericano durerà 8 minuti e 46 secondi, poi chiuderà gli occhi e perderà conoscenza. Morirà in un ospedale lì vicino. La scena appena descritta ha qualcosa di atrocemente familiare: appartiene al repertorio, diciamo così, classico dell’uso della forza da parte di agenti di polizia al fine di bloccare un individuo ritenuto pericoloso. La tecnica prevede che il fermato venga costretto a terra, in posizione prona, le braccia piegate dietro la schiena e i polsi bloccati, e che l’agente prema sulle spalle, sulle scapole e sulla regione lombosacrale per impedire qualsiasi movimento. Si tratta, palesemente, di una modalità d’azione che presenta gravi rischi: e, da tempo, film, video e fotografie hanno ripreso quel modello di controllo in scenari molto diversi, con effetti spesso letali, per mano di uomini di apparati statuali appartenenti sia a regimi dispotici che a sistemi democratici. La morte di George Floyd e le molte avvenute in circostanze simili, risentono profondamente della peculiarità della situazione statunitense, dove la componente razziale negli abusi da parte delle forze di polizia appare determinante. Questo rende improponibile il confronto tra i comportamenti illegali messi in atto dagli agenti di polizia Usa e quelli messi in atto nel nostro Paese: troppo diverse sono le condizioni sociali, etniche, giuridiche e culturali. Ma, se invece ci poniamo dalla parte delle vittime e, in questo caso, proviamo a condividere lo sguardo di chi si trova disteso prono sul selciato, sopraffatto dal peso di un altro corpo, si scopre una tragica affinità. Un numero rilevante di vittime di azioni violente rivela, tra le cause o con-cause di morte, l’asfissia, dovuta alla compressione del torace e a una postura che ne compromette la capacità respiratoria. Talmente elevato è questo rischio che una simile tecnica, e in particolare “il ginocchio sul collo” è ormai vietata da numerosi corpi di polizia statunitensi. In Italia, nel 2014, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, inviava una circolare a tutte le caserme per segnalare i pericoli di quella pratica; e raccomandava di «prevenire la possibilità che l’intervento su strada per fronteggiare soggetti in preda a crisi provocate, tra l’altro, dall’alcool o dagli stupefacenti potessero arrecare danni a sé o agli altri». Oggetto delle preoccupazioni dei vertici dell’Arma era proprio la condizione in cui si realizzava quel tipo di fermo “su strada” e il fatto che quel metodo potesse condurre all’asfissia e alla morte. Nella circolare si leggeva: «Nei casi in cui sia assolutamente impossibile un intervento sanitario sul posto, il trasporto in ospedale dovrà avvenire in posizione seduta o sdraiata su un fianco, evitando in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica». È propriamente la “compressione toracica”, derivante da quella tecnica di controllo, che sta all’origine, presumibilmente, di molte morti avvenute negli ultimi anni nel corso di attività di fermo e arresto. A Minneapolis l’azione del poliziotto è stata incredibilmente brutale. Tuttavia, fatte tutte le doverose differenze, va detto che si ritrova qualcosa del genere in alcune vicende anche italiane, spesso seguite dall’avvocato Fabio Anselmo, ed emerge, in particolare, quell’elemento essenziale del soffocamento indotto dallo schiacciamento dell’apparato respiratorio. Nel 2006 Riccardo Rasman, affetto da patologia psichiatrica, si comporta in maniera tale da determinare l’intervento della polizia nella sua abitazione. Qui si ha una colluttazione fra tre agenti e lo stesso Rasman, che viene immobilizzato a terra, ammanettato e legato alle caviglie con del filo di ferro. Il processo confermerà che «sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia» era stata esercitata «un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie». I tre agenti verranno condannati in via definitiva per omicidio colposo. Meno di un anno prima, a Ferrara, perde la vita Federico Aldrovandi. Quattro poliziotti vengono condannati per eccesso colposo in omicidio colposo e nella sentenza di primo grado si può leggere: «Un trauma a torace chiuso provocato da manovre pressorie esercitate sul soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena». Questo è il punto: «Un soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena». Su quel corpo, per ottenerne l’immobilità, gli autori del fermo graveranno provocando una forte pressione, oltre che 54 ecchimosi e lesioni. Nel caso di Riccardo Magherini, morto a Firenze il 3 marzo 2014, la «compressione toracica» viene esclusa dalle sentenze che assolveranno i tre carabinieri responsabili del suo fermo. Ma, secondo le molte testimonianze rese durante il dibattimento, Magherini sarebbe rimasto ammanettato con le mani dietro la schiena, steso per terra e prono, con i tre carabinieri a gravare con le ginocchia sul suo corpo impedendogli di muoversi e respirare per alcuni minuti. L’associazione A Buon Diritto, diretta da Valentina Calderone, nel corso degli anni ha raccolto testimonianze relative a molti altri episodi che hanno evidenziato il rischio micidiale di quella tecnica di fermo. Persone anonime sulla cui morte nessuno ha voluto o potuto indagare e qualche vicenda che ha interessato l’opinione pubblica, come il decesso di Bohli Kaies, la cui autopsia rivelò «stress cerebrale dovuto a una compressione violenta della cassa toracica» (gli autori del fermo sono stati assolti); e quello di Arafet Arfaoui, per la cui morte, nel febbraio scorso, è stata disposta la prosecuzione delle indagini. E la «compressione toracica» risulta dagli atti dell’indagine relativa alla morte di Vincenzo Sapia, avvenuta il 24 maggio del 2014. Storie tutte diverse e con esito processuale diverso, ma che rivelano come un’azione destinata a garantire la sicurezza dei cittadini (compresi quanti commettano reato), possa tradursi in una minaccia per l’incolumità di chi viene sottoposto a una misura di controllo. Può sembrare singolare voler accostare i comportamenti di corpi di polizia tanto differenti, quali quelli degli Stati Uniti e quelli italiani, e, ancor più, prescindere dai contesti etnico-sociali. Ma qui preme evidenziare altro, ovvero il fatto che c’è un connotato comune a tutte le forze di polizia, persino a prescindere dalla natura (democratica o meno) dei sistemi politici in cui operano. Quel tratto comune è rappresentato da una sorta di cronica impreparazione tecnica. Ma limitiamoci ai Paesi democratici. In questi, può essere anche elevata l’efficienza delle polizie e sofisticato l’arsenale di mezzi, ma resta costante l’incapacità di esercitare, nel corso della quotidiana attività di ordine pubblico, un controllo e un autocontrollo tali da impedire la degenerazione dell’uso legittimo della forza in violenza illegale. L’impreparazione tecnica delle forze di polizia in Italia e nei Paesi occidentali è altrettanto pericolosa quanto la debolezza della loro formazione democratica. In quella miscela di tendenza all’abuso, spirito di corpo e sprezzo per le garanzie dei cittadini, si ritrova una delle contraddizioni irrisolte, e una delle zone in ombra, delle democrazie contemporanee.

Da ansa.it il 16 giugno 2020. Tre agenti di polizia penitenziaria sono accusati a Ferrara del reato di tortura per aver fatto spogliare e picchiato in cella un detenuto oltre che minacciarlo con un coltello alla gola. Per loro la Procura ferrarese ha chiesto il rinvio a giudizio e l'udienza preliminare è fissata per il 9 luglio. La vittima, riportano i quotidiani locali, è in carcere per omicidio. I fatti risalgono al 30 settembre, dopo di che l'uomo è stato trasferito a Reggio Emilia. Secondo il pm Isabella Cavallari, in occasione di una perquisizione, è stato oggetto di "trattamento inumano e degradante per la dignità della persona": è stato fatto denudare e inginocchiare e in quella posizione percosso, anche con un oggetto di metallo, quindi lasciato lì fino a quando non l'ha notato il medico del carcere. Due agenti sono accusati anche di falso e calunnia, per i rapporti sulla vicenda. Il detenuto ha avuto una prognosi di 15 giorni. Imputata anche un'infermiera del carcere, per false attestazioni. I tre agenti avrebbero agito "con crudeltà e violenza grave" approfittando "della condizione di minorata difesa derivante dall'averlo ammanettato". E' quanto contesta la Procura nella richiesta di rinvio a giudizio, firmata dal pm Isabella Cavallari. "Qui non c'è nessuno, comandante e ispettore sono solo io". Le parole sarebbero state di uno dei tre agenti della Penitenziaria a Ferrara. La frase, riportata nella richiesta di rinvio a giudizio, secondo la Procura sarebbe stata pronunciata da uno dei tre, un sovrintendente, dopo che la vittima, da lui colpita ripetutamente anche con un oggetto di ferro, aveva invocato il comandante di reparto del carcere. A quel punto sarebbe entrato nella cella il secondo agente, un assistente capo, dicendo: "Ora tocca a me". Anche lui quindi avrebbe iniziato a picchiare e insultare il detenuto, seguito dal terzo agente, che ha fatto anche da palo. Secondo quanto ricostruito dall'accusa, il sovrintendente e due assistenti capo della Penitenziaria, difesi dagli avvocati Alberto Bova e Giampaolo Remondi, si sarebbero infatti alternati nel fare da palo nel corridoio, in occasione di una perquisizione eseguita arbitrariamente dentro la cella dove si trovava recluso in isolamento il detenuto, 25 anni. Prima il sovrintendente, dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, quindi colpito con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo su stomaco, spalle e volto e poi anche con un ferro di battitura. A quel punto la vittima avrebbe reagito, con una testata, rompendo gli occhiali all'agente, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora, fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora ha chiesto aiuto, ma l'agente lo avrebbe minacciato alla gola con un coltello rudimentale, passatogli da un collega. Finite le percosse dei tre, la vittima è stata lasciata ammanettata fino a quando non è stata notata dal medico del carcere, durante il giro tra le sezioni. Gli indagati rispondono anche di lesioni e a vario titolo di falso e calunnia, per aver scritto nei rapporti, in sostanza, che il detenuto si era opposto alla perquisizione e li aveva aggrediti.

Essere servitori dello Stato, a volte, è una scommessa perdente. Toni Capuozzo il 25/05/2020 su Notizie.it. La storia di Luca Buttarello, agente della Polizia di Stato malato di tumore cerebrale e costretto a un risarcimento di 310mila euro. Luca Buttarello, 54 anni, agente della Polizia di Stato, residente a Padova, ha scritto al Presidente della Repubblica. Una lettera educata e formale, ma il contenuto è quello di un disperato messaggio in bottiglia, rimasto finora senza risposta. Per 35 anni Luca ha servito lo Stato, e ora è malato. Una brutta malattia: un raro tumore cerebrale (‘glioblastoma’; neoplasia maligna astrocitaria di IV grado secondo la classificazione OMS) contro cui sta cercando di combattere, nonostante le poche risorse economiche per farlo. Che cos’è che rende la situazione qualcosa che va al di là di una drammatica vicenda sanitaria? Il fatto che Luca è convinto con che la malattia che lo ha colpito altro non sia che il velenoso “frutto” di 27 anni di preoccupazioni, ansie, sofferenze, notti insonni ed esborsi di denaro per tentare di difendermi con infiniti rispetto e pazienza ‘nel’ sistema processuale (penale, contabile e disciplinare)”. Luca si arruolò nell’estate del 1985, orgoglioso di vestire una divisa. Lo ha fatto serenamente per soli sette anni. Il 31 marzo del 1992, in una stazione della metropolitana di Milano, nel corso di un’identificazione, un poliziotto (L.T.) avrebbe dato una ginocchiata al Signor G.C., colpendogli le parti genitali. A distanza di tempo il signor G.C. prospettò all’Autorità Giudiziaria che gli effetti di quella ginocchiata lo costrinsero a ricorrere all’orchiectomia di una ghiandola genitale. Ma che c’entra Luca? Arrivò dopo, e certo pronto a fornire aiuto ai colleghi, se ve ne fosse stato bisogno. Ma non deve fare nulla, e proprio quel “nulla” gli è fatale, in anni di processi. Viene condannato in via definitiva a otto mesi di reclusione per non avere impedito che L.T. desse la ginocchiata al Signor G.C. E, dopo la condanna, il conto. Il Dipartimento di pubblica sicurezza gli ingiunge di pagare al Ministero dell’Interno più di 310mila euro, cioè quanto il Ministero ha pattuito, in una transazione da cui Buttarello era escluso, di versare alla vittima della ginocchiata. Una somma lievitata molto più degli interessi, dato che inizialmente la Prefettura di Milano aveva pattuito un versamento alla parte lesa di poco più di 40mila euro...Una somma che si sarebbe dovuta dividere tra i quattro poliziotti, giustamente o ingiustamente condannati. Ma dei quattro, compreso l’autore del gesto che è all’origine di tutto il procedimento, l’unico a risultare “solvibile”, e cioè in grado di pagare è proprio e solo lui: un’omissione, costata carissima. Una somma che “un poliziotto come me, che dopo 35 anni di servizio guadagna grossomodo 1.500,00€ al mese, potrebbe pagare solo con 7 liquidazioni di TFS (Trattamenti di Fine Servizio) o, in alternativa, con un gigantesco mutuo della durata di almeno ottant’anni”. La lettera dell’agente Buttarello, inviata i primi di maggio, non ha finora ricevuto risposta. Più sollecito è stato il Ministero dell’Interno, che gli ha pignorato un quinto dello stipendio ed ipotecato la casa di famiglia a lui intestata, un vecchio immobile frutto di una vita di lavoro del padre ultra-novantenne. L’art.40 del C.P. spiega che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” e la Corte ha ritenuto che vi sia stata una mia condotta omissiva”, ammette Luca, ma è davvero difficile dimostrare che in pochi secondi, a distanza, uno possa impedire un’inaspettata ginocchiata sferrata da un collega. Il problema è che sarebbe stato Luca a dover dimostrare il contrario. E Luca, adesso, malato, deve rispondere anche per gli altri colleghi condannati. “Mai nella mia vita ho pensato di porre deliberatamente in essere un atto reato o di diventarne un consapevole complice e credo di non meritare un trattamento come quello inflittomi, di una gravità imponente e di un’entità gigantesca che mi schiaccia impietosamente come in una brutale e crudele morsa. Io non posso trovare dentro di me la forza di combattere per sopravvivere ad un tumore e, contemporaneamente, portarmi un fardello debitorio del genere sulle spalle. In queste condizioni, paradossalmente, sarebbe meno complicata e meno dolorosa una pena di morte”. Essere servitori dello Stato, a volte, è una scommessa perdente.

Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 22 maggio 2020. Grazie alla divisa che indossavano si sentivano impuniti e pensavano di muoversi e trafficare senza essere controllati. E invece due carabinieri che erano in servizio all' ottavo reggimento Lazio, con sede nella caserma di Tor di Quinto, sono stati incastrati proprio in un' indagine condotta dai loro colleghi dell' Arma. Inchiodati ad un' accusa di spaccio, per aver ceduto tre dosi di cocaina a un acquirente al prezzo di 180 euro. Ieri entrambi sono stati condannati a quattro anni di reclusione: si tratta di D. C. e M. N., 43 e 44 anni. Il pubblico ministero Mario Pesci, al termine della sua requisitoria, aveva chiesto due anni di pena mentre il giudice Emilia Conforti, dopo una camera di consiglio di più di un' ora, ha deciso per una condanna più esemplare. La vicenda risale al novembre del 2011. E parte da un' indagine su un giro di droga della procura di Avezzano. Intercettando un gruppo di ragazzi abruzzesi dediti ad un piccolo traffico di stupefacenti nella zona della Marsica gli inquirenti si sono imbattuti anche nei due militari, uno dei quali originario proprio di quelle zone. Gli accertamenti, poi, hanno permesso di individuare l' attività anche nella capitale. E alla fine hanno portato a contestare un episodio specifico di cessione di cocaina ad un cliente da parte dei due imputati. Una quantità di tre dosi, ma comunque sufficiente per incriminarli. Stando alla ricostruzione i due militari si incontravano " all' interno della struttura ove prestavano servizio. Qui in forma del tutto «riparata avevano modo di programmare e compiere i loro piani illeciti » . Entrambi si sentivano forti dello status da loro ricoperto. E pensavano di non essere scoperti. Il profilo di uno dei militari, nell' informativa finale agli atti del processo, è descritto come quello di una persona arrogante, che sapeva sfruttare il suo ruolo a proprio vantaggio: «Tale status gli permette di pianificare e svolgere con spavalderia lo spaccio di sostanze stupefacenti, sicuro che il suo stato di appartenenza lo metta al riparo da eventuali controlli da parte dei colleghi». Le conversazioni tra i due, nello stesso atto, vengono definite « palesi » , e nelle stesse traspare « la presunzione di tranquillità derivante dal loro stato giuridico».

Contrabbando di sigarette e Cialis sulla nave militare: 6 arresti. Le Iene News l'11 maggio 2020. Luigi Pelazza due anni fa aveva denunciato il commercio illecito di sigarette sulla nave Caprera, fiore all’occhiello della marina militare italiana. In questi giorni arrivano le misure cautelari per gli indagati. Avrebbero contrabbandato sigarette e Cialis, un farmaco contro l’impotenza, dalla Libia all’Italia, sfruttando una delle navi più importanti della Marina militare italiana, la Caprera. Il bilancio delle misure cautelari dopo le indagini condotte dal nucleo di Polizia Economico - Finanziaria della Guardia di finanza di Brindisi è di cinque arresti e un obbligo di dimora. In carcere è finito Marco Corbisiero. Domiciliari invece per Roberto Castiglione, Antonio Filogamo e Antonio Mosca. Per Mario Ortelli è stato disposto l’obbligo di dimora. Tutti sono dipendenti della Marina militare. La sesta persona coinvolta è Hamza Mohamed B Aben Abulad, ufficiale della Guardia costiera libica, arrestato ai domiciliari. Nell’estate 2017, la Guardia di Finanza ha sequestrato a Brindisi circa 700 chili di sigarette di contrabbando, trovate a bordo della nave militare italiana Caprera appena tornata da una missione di 108 giorni a Tripoli, dove aveva il compito di segnalare alla Guardia costiera libica le imbarcazioni di migranti dirette verso l’Italia. Le 3600 stecche, chiuse in 72 scatole, sono state fatte trasportare da alcuni marinai prima nei furgoni della Capitaneria di porto di Brindisi e poi messe sotto sequestro dalla Finanza. Ce lo aveva già confermato proprio uno di quei marinai, che la sera del 16 luglio era sceso poi dalla Caprera con un borsone contenente alcune stecche e che era stato a sua volta fermato dalla Finanza. Sono state Le Iene con Luigi Pelazza a diffondere per prime la notizia. Nel servizio che potete rivedere qui sopra era stato intervistato il comandante della Caprera, il tenente di vascello Oscar Altiero, che ha confermato alla Iena il ritrovamento delle sigarette nella sua nave.

Brindisi, sigarette di contrabbando e «Cialis» su nave Marina Militare: 5 arresti. Il trasporto sulla nave Caprera da Tripoli all'Italia. C'è anche una sesta persona coinvolta: ha l'obbligo di dimora. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Maggio 2020. Questa mattina la Guardia di Finanza di Brindisi ha arrestato cinque persone e ne hanno sottoposta una all'obbligo di dimora. Tra le persone coinvolte, 5 appartengono alla Marina Militare Italiana. L’ordinanza è stata emessa dal Gip del Tribunale di Brindisi, a carico di Marco Corbisiero, 44 anni, che si trova in carcere, Hamza Mohamed Ben Abulad, 39 anni, Roberto Castiglione, 47 anni, Antonio Filogamo, 44 anni, Antonio Mosca, 41 anni, tutti ai domiciliari, e Mario Ortelli, 40 anni, che ha l'obbligo di dimora. Tutti sono gravemente indiziati, a diverso titolo, per contrabbando pluriaggravato di tabacchi lavorati esteri, e di farmaco Cialis di provenienza estera, di imbarco arbitrario di merci di contrabbando sulla nave militare Caprera, di peculato d’uso, di istigazione alla corruzione, di corruzione per atti contrari ai doveri dell’ufficio, e di falso ideologico. I fatti sarebbero stati commessi nel contesto della missione internazionale “Operazione Mare Sicuro”, svolta dalla nave Caprera della Marina Militare italiana nel porto di Tripoli, in Libia, dal 31 marzo del 2018 fino al 12 luglio. Nell'ambito di quella missione, Corbisiero aveva rivestito il ruolo di ufficiale tecnico della Marina Militare: la nave Caprera era giunta nel porto di Brindisi il 15 luglio 2018, da Tripoli, senza scali intermedi. Si ritiene che Corbisiero, Ben Abulad, Castiglione, Filogamo e Mosca abbiano organizzato l’imbarco ed il trasporto dal porto di Tripoli a quello di Brindisi di 774 chilogrammi circa di tabacco lavorato estero di contrabbando e di Cialis, sbarcati sulla banchina Garibaldi del porto di Brindisi nella prima mattina del 15 luglio 2018. Si ritiene che i prodotti di contrabbando fossero destinati alla vendita agli appartenenti alla Marina Militare di Taranto ed anche a estranei. Corbisiero è anche indiziato per aver corrotto il personale imbarcato sulla nave: avrebbe offerto tabacco non ancora scaricato per comprarne il silenzio e la mancata denuncia alla locale Autorità giudiziaria dell’introduzione del carico. Corbisiero avrebbe anche organizzato il trasporto del carico agli uffici della Marina Militare di Taranto, con un mezzo con le insegne della Marina, condotto da Ortelli.

MM, PIENO SOSTEGNO A MAGISTRATURA - «La Marina militare segue con la massima attenzione gli sviluppi della vicenda giudiziaria ed esprime il pieno sostegno per il lavoro svolto dalla Magistratura». E’ quanto si legge in una nota dello Stato maggiore della Marina a proposito dell’inchiesta relativa al ritrovamento di scatoloni di tabacchi su nave Caprera, lo scorso 15 luglio 2018, che ha portato a 5 misure cautelari nei confronti di altrettanti militari che all’epoca erano imbarcati sulla nave. Un’inchiesta, sottolinea la Forza armata, «scaturita proprio da una segnalazione del comando di bordo». «Sin dall’inizio di questa vicenda - si legge ancora nella nota - la Marina Militare ha posto in essere una limpida ed accurata opera di controllo, volta alla repressione di eventuali comportamenti illeciti, come dimostrano le azioni poste in essere dallo stesso comandante pro tempore di nave Caprera». 

Francesco Salvatore e Maria Elena Vincenzi per "la Repubblica" il 9 maggio 2020. «Stavo correndo sotto al Lungotevere. A una trentina di metri da Ponte Sisto mi sono fermato per prendere fiato. Dall' altra parte del fiume, dove ci sono una serie di accampamenti di senza fissa dimora, un uomo siede sull' argine. Alle sue spalle arriva una persona vestita di nero, in maglietta e pantaloni, con un grosso cane bianco. Prende la vittima per il collo e lo butta a terra. Gli tira calci in faccia, poi lo prende a pugni. Il suo cane gli dà una mano con il pestaggio e lo morde alla gambe». B.V., 21 anni, ha assistito a tutta la scena dell' omicidio avvenuto giovedì sera a Ponte Sisto. Un crimine per il quale hanno fermato Massimo Galioto, punkabbestia di 45 anni, già accusato di aver ucciso nel 2016 lo studente americano Beau Solomon. La procura aveva chiesto per Galioto l' ergastolo, ma a giugno dello scorso anno la corte d' Assise lo ha assolto. Giovedì sera, però, Galioto era in carcere. Ancora una volta accusato di omicidio. Lui, parlando col suo avvocato, Michele Vincelli, che ieri lo ha visitato a Regina Coeli ha negato tutto: «Ho lasciato degli amici - ha detto - sono sceso sotto al ponte con il cane e ho visto da lontano un gruppo di gente. C' era un uomo a terra e a quel punto mi sono avvicinato, aveva ferite sul volto: ho cercato di sollecitarlo e non rispondeva, era già morto. È a quel punto che mi sono allontanato e sono stato fermato sulle scale. Se cercano vedranno che alcuni testimoni potranno confermare questa versione». Oggi, oltre all' autopsia sulla vittima, Emanuel Stoica di 38 anni, ci sarà il suo interrogatorio di garanzia. Ma gli investigatori sono convinti che sia lui. Ci sono molti testimoni che lo hanno riconosciuto e diversi video girati con i cellulari che lo inchioderebbero. Per di più, giovedì, al momento del fermo Galioto aveva le mani piene di escoriazioni. A guardare quel drammatico spettacolo erano in molti. « C' era qualche ciclista che si è fermato intorno a me - riprende il giovane testimone - dall' altro lato del fiume. Qualcuno ha tirato un paio di strilli per far smettere quell'uomo. Solo allora, allarmato, l' assassino si è mosso verso il ponte. Il cane è rimasto lì, a mutilare quel poveretto steso a terra. È stato allora che il padrone ha deciso di tornare e di sferrare altri calci, altri pugni in faccia. Ogni colpo faceva sobbalzare il corpo steso a terra. Mi ha colpito il fatto la vittima non abbia mai nemmeno provato a proteggersi il viso. A un certo punto, ho avuto la netta sensazione che gli ultimi due pestoni gli stessero togliendo la vita». L'aggressore, a quel punto, ha salito le scale per andarsene. « Io ho detto ai presenti di chiamare soccorsi e ho iniziato a correre. Volevo provare a bloccare l' assassino. Ho cercato di coinvolgere le altre persone, ma nessuno mi ha seguito. Salendo le scale due a due sono riuscito ad arrivare sopra al ponte. L' assassino mi veniva incontro. Ho chiamato il 113. Da lontano ho visto quell' uomo arrivare a piazza Trilussa e lavare il cane nella fontana per pulirlo dal sangue. Poi ha raggiunto un gruppo di amici che stavano lì, sui gradini». Intanto, intorno alla vittima, si era radunato un gruppetto di persone. « I soccorsi ci hanno messo un po' ad arrivare e così due persone hanno cercato di soccorrere l' uomo steso a terra. Dopo poco, l' aggressore è risceso e, da qualche metro di distanza, si è messo a guardare la scena. Ho avuto l' impressione che volesse godersi lo spettacolo che aveva creato, il suo palcoscenico. È rimasto lì, a distanza, fino all' arrivo della polizia. Poi è salito a Ponte Sisto e ha continuato a guardare, dall'alto. Mi è parso di rivivere scene del film Joker. Finalmente, dopo venti minuti, è arrivata un' ambulanza: il personale ha provato a rianimare la vittima. Invano. Poco dopo ho saputo che l' assassino era stato preso. Ma ieri notte non ho chiuso occhio, è stato terribile. Io non sono stato sentito dalla polizia. Ma se me lo chiedessero, sì, saprei riconoscerlo tra mille».

"Ha sempre mentito È stato lui a uccidere nostro figlio". Francesco Salvatore per "la Repubblica" il 9 maggio 2020. «Ha sempre mentito, siamo convinti che sia implicato nella morte di nostro figlio. Di sicuro stava sulla banchina. E soprattutto gli urlato contro due volte " ti ammazzo"». A parlare sono Nick e Jodie Solomon, genitori di Beau, lo studente 19enne americano morto annegato nel Tevere quattro anni fa, dopo essere stato spinto sotto Ponte Garibaldi da qualcuno. Quel qualcuno era stato individuato in Massimo Galioto il 45enne arrestato ieri per l' omicidio di Emanuel Stoica - processato e poi assolto dall' accusa di omicidio perché il fatto non sussiste. Ieri l' avvocato Giuseppe Zanalda, che in Italia assiste i genitori di Solomon nel processo in cui sono parte civile, e che comincerà a ottobre, ha scritto loro una email per metterli al corrente. Per raccontargli che Galioto, la persona imputata della morte del figlio, era di nuovo in manette. «Questo nuovo arresto non fa che confermare le ipotesi che aveva la procura, e che ovviamente noi abbiamo sempre sposato», spiegano Nick e Jodie. Dalla loro casa a Spring Green, nel Wisconsin, al centro degli Stati Uniti, hanno letto gli articoli di giornale sul nuovo arresto del punkabbestia. «Galioto non era stato arrestato per caso. Siamo colpiti e amareggiati dal fatto che sia stato assolto durante il processo di primo grado».

Mista all' amarezza, però, dalle loro parole traspare anche un briciolo di speranza. «Ora speriamo solo di aver giustizia in appello. Non sappiamo che connessione possa avere questa vicenda nel processo sulla morte di Beau. Ma siamo convinti che Galioto sia implicato nella sua morte. Gli atti processuali dimostrano che di sicuro era sul luogo del delitto. La banchina da dove nostro figlio è stato spinto. E soprattutto che gli ha urlato due volte "ti ammazzo"». Il processo in Corte d' assise d' appello è fissato a ottobre. « La famiglia di Solomon chiede che venga fatta giustizia - ha spiegato l' avvocato Zanalda - il nuovo episodio che coinvolge Galioto conferma la sua attitudine pericolosa e ci auguriamo che nel processo di appello venga riconosciuto che lui non era estraneo ai fatti, così come affermato da almeno due testimoni. Resta scandaloso il fatto che nel centro di Roma persista una situazione di degrado e violenza dove continuano ad avvenire episodi di questo genere».

C'è una guerra in corso tra Guardia di Finanza e Carabinieri: tutta colpa di una legge. Una norma, contestata, limita l’accesso alla banca dati con le informazioni sulle operazioni bancarie sospette. E di conseguenza la possibilità di fare indagini proprio in un momento in cui i reati legati al riciclaggio aumentano. Vittorio Malagutti il 23 luglio 2020 su L'Espresso. Guardia di finanza pigliatutto, con polizia e carabinieri che protestano e rincorrono. Ridotta ai minimi termini è questa la cronaca della partita tra poteri dello Stato che si gioca in questi giorni. Una partita della massima importanza perché riguarda i controlli sui flussi di capitali e la gestione delle informazioni sulle operazioni sospette. Lo scontro è nato intorno all’approvazione della direttiva europea sulla lotta alla criminalità finanziaria varata l’anno scorso dalla Commissione di Bruxelles. In sostanza, l’Unione Europea ha dettato una serie di regole per migliorare la collaborazione tra le autorità dei singoli Paesi nella comune lotta al riciclaggio e al terrorismo. Dopo il via libera della Ue, ora tocca ai parlamenti nazionali adottare le nuove norme. Facile a dirsi, perché la versione made in Italy della legge emanata in sede comunitaria è diventata oggetto di un confronto tra diverse autorità e apparati investigativi. Il punto di partenza è l’articolo 3 della direttiva, che delega a ciascuno Stato membro la scelta degli organismi che possono avere accesso, a fini investigativi, all’enorme mole di dati custoditi dall’Archivio centrale dei rapporti finanziari e dall’Ufficio informazioni finanziarie (Uif). Il primo è gestito in Italia dall’Agenzia delle Entrate, mentre l’Uif dipende da Bankitalia. Proprio l’Uif ha il compito di ricevere e analizzare, per poi eventualmente trasmetterle agli investigatori, le cosiddette segnalazioni di operazioni sospette (Sos). Queste ultime provengono da una serie di intermediari individuati per legge, si va dalle banche alle fiduciarie fino ai money transfer e ai gestori di carte di credito.

Caserma degli orrori, il retroscena della guerra per il potere tra finanza e carabinieri. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Anche l’Arma dei carabinieri ha il suo Frank Serpico: il maggiore Rocco Papaleo, comandante della compagnia di Cremona. Sarebbe stato lui, come affermato dagli inquirenti, a dare il via con le sue dichiarazioni all’indagine Odysséus, conclusasi con la maxi retata dei carabinieri della stazione di Piacenza-Levante che, per anni, avrebbero trasformato una tranquilla caserma di provincia nel set emiliano di Narcos di Netflix. Repubblica ieri ha anche pubblicato una foto dell’ufficiale che fino al 2013 aveva prestato servizio presso il nucleo operativo di Piacenza. Chi ha avuto modo di parlare in queste ore con Papaleo ha, però, ascoltato una storia molto diversa. Papaleo, infatti, non avrebbe mai presentato alcuna denuncia sulle condotte illecite dei militari di Piacenza in Procura o presso comandi di polizia. Secondo quanto appreso dal Riformista, nei mesi scorsi, Papaleo avrebbe invece ricevuto l’invito da parte di altri operatori di polizia di svolgere indagini sui suoi ex dipendenti. Papaleo avrebbe declinato la proposta, senza farne poi cenno con i suoi superiori. Ma non solo. Durante le indagini, e qui il condizionale lascia il campo all’indicativo, non è mai stato interrogato come persona informata sui fatti. Questo dettaglio, non proprio insignificante, prelude altre “anomalie” nella conduzione dell’inchiesta. La prima, certamente, è il sequestro di una caserma dell’Arma, fatto mai accaduto dal 1814, anno di fondazione della Benemerita. La seconda è l’irrituale conferenza stampa della guardia di finanza, a cui non ha partecipato alcun ufficiale dell’Arma, celebrata mercoledì in violazione di qualsiasi regola deontologica in materia di comunicazione giudiziaria. Sorprende, poi, che vi abbia partecipato il procuratore di Piacenza. Le linee guida emanate dal Consiglio superiore della magistratura nel 2018 fanno a pugni con il power point colorato con i colori istituzionali, il giallo ed il verde, della guardia di finanza e farcito oltre misura di estratti di intercettazioni telefoniche senza ora e data. Ogni slide di presentazione delle intercettazioni fra i carabinieri era preceduta dalla frase: “Si rendevano responsabili dei reati di..”. Affermazione molto poco aderente al dettato di Palazzo dei Marescialli che prevede, nel fraseggio da utilizzare, “il rispetto della presunzione di non colpevolezza”. La risposta da parte dell’Arma alla retata di mercoledì è stata debolissima, limitandosi al solito refrain del comandante generale Giovanni Nistri che saranno presi “provvedimenti” nei confronti di tutti i militari coinvolti. Nessun accenno, invece, al fallimento dell’azione di comando che ha permesso, eventualmente, la commissione delle condotte contestate. Nistri, pur potendo contare su un numero di dirigenti senza precedenti, 10 generali di corpo d’armata, 168 fra generali di divisione e di brigata, circa 600 colonnelli, pare aver ormai perso il controllo dell’Istituzione. Il governo, il suo mandato scade a fine anno, è invece pronto a confermargli la fiducia, prorogandolo nell’incarico. Tutt’altro scenario, invece, per i “canarini”, come vengono chiamati affettuosamente i finanzieri. La guardia di finanza è la forza di polizia emergente. Da corpo che si occupava delle verifiche degli scontrini, gestisce ora le indagini più importanti. Sono stati i finanzieri del Gico che hanno condotto il Palamara gate. Ed un finanziere, il generale Gennaro Vecchione è la persona più ascoltata, dopo Rocco Casalino, da Giuseppe Conte. La finanza si sta preparando adesso a sferrare il colpo del ko. Oggetto del contendere è la direttiva europea del 2019 sul contrasto della criminalità finanziaria che l’Italia deve recepire entro l’anno. L’articolo 3 della direttiva affida a ciascuno Stato membro il compito di scegliere quale forza di polizia potrà avere accesso ai dati dell’Archivio centrale dei rapporti finanziari, gestito dall’Agenzia delle entrate, e a quelli dell’Ufficio informazioni finanziarie (Uif), gestito dalla Banca d’Italia. L’Uif riceve e analizza tutte le segnalazioni di operazioni sospette (Sos) ricevute da banche, finanziarie, money transfer, gestori di carte di credito. L’Uif ha gestito lo scorso anno 105.789 segnalazioni. Le indagini in materia di criminalità organizzata e sui reati contro la pubblica amministrazione non possono fare a meno di queste informazioni. Indagini che sono destinate ad aumentare nel post Covid, con la mafia pronta a infondere capitali freschi per rilevare attività in difficoltà. I carabinieri hanno capito l’importanza è stanno facendo pressing. La precedente riforma delle norme antiriciclaggio aveva già tarpato le ali all’Arma, attribuendo grande potere alla Dia (Direzione investigativa antimafia) e al nucleo di polizia valutaria della guardia di finanza. Escludendo, ad esempio, il Ros, il fiore all’occhiello dei reparti investigativi dell’Arma. Senza l’accesso agli schedari i padroni della polizia giudiziaria sarebbero dunque finanzieri. Il governo parrebbe intenzionato a delegare tutto alla finanza, concedendo al massimo di fare accertamenti solo ex post, non nella fase delle indagini, alle altre forze di polizia. Le conseguenze sarebbero disastrose: tutte le indagini più importanti, quelle che vanno sulle prime pagine dei giornali, sarebbero esclusiva della finanza. Quale pm, infatti, delegherebbe i carabinieri se questi non possono direttamente accedere agli archivi? Retate come quella della caserma di Piacenza-Levante possono allora scoraggiare chi nel governo abbia idee diverse sul futuro monopolio investigativo della guardia di finanza.

Caserma degli orrori: droga, estorsioni e torture. Altro che Benemerita…Angela Stella su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Per la prima volta una intera caserma è stata messa sotto sequestro: si tratta della stazione dei carabinieri “Levante” di via Caccialupo a Piacenza, resasi, secondo la Procura della Repubblica del capoluogo emiliano-romagnolo, teatro di ‘comportamenti criminali impressionanti’. Dieci i militari sotto custodia, di cui cinque in carcere. I provvedimenti di custodia cautelare nell’operazione sono in totale 22. «Faccio fatica a definire questi soggetti come carabinieri, perché i loro sono stati comportamenti criminali. Non c’è stato nulla in quella caserma di lecito»: queste le durissime parole espresse dal capo della Procura di Piacenza, Grazia Pradella, all’inizio della lunga conferenza stampa di ieri circa l’indagine per droga, estorsione e addirittura tortura. «Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi in piena epoca Covid e del lockdown, con disprezzo delle più elementari regole di cautela imposte dai decreti del Presidente del Consiglio. Mentre la città di Piacenza contava i tanti morti del coronavirus, questi carabinieri – ha affermato Pradella – approvvigionavano di droga gli spacciatori rimasti senza stupefacente a causa delle norme anti Covid». Tutto è partito nel 2017 da un’indagine sul traffico e lo spaccio di stupefacenti, che vedrebbe fra i suoi esponenti di maggior rilievo un graduato dei carabinieri, il quale avrebbe gestito un’attività di spaccio attraverso pusher di sua fiducia. Il carabiniere, inoltre, in cambio di un tornaconto economico avrebbe agevolato i malviventi nella compravendita di grandi quantità di droga garantendo loro protezione. Gli spacciatori che non volevano entrare nel giro clandestino di gestione e spaccio di sostanze stupefacenti sarebbero stati brutalmente pestati. Per supportare questa accusa è stata mostrata la fotografia di una persona a terra ammanettata e coperta di sangue. Gli inquirenti hanno affermato che era stato pestato brutalmente all’interno della caserma per non aver voluto rivelare dove si trovava un ingente quantitativo di droga sul quale i carabinieri avrebbero voluto mettere le mani. Nelle oltre trecento pagine di ordinanza sono descritti anche «arresti completamente falsati e perquisizioni arbitrarie». Vi era non solo «l’obiettivo di procacciarsi la sostanza stupefacente ma anche di sembrare più bravi degli altri» dimostrando un alto numero di persone arrestate. «Peccato – ha precisato il pm – che questi arresti si basavano su circostanze inventate e falsamente riferite al pubblico ministero di turno». Tra le intercettazioni ambientali rese pubbliche dagli investigatori si legge: «Ho fatto un’associazione a delinquere ragazzi (…) in poche parole abbiamo fatto una piramide (…) noi siamo irraggiungibili». E ancora: «Abbiamo trovato un’altra persona che sta sotto di noi. Questa persona qua va tutti da questi gli spacciatori e gli dice: “Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori!” e la roba gliela diamo noi!». Per i militari coinvolti il Comando generale dell’Arma ha disposto l’immediata sospensione dall’impiego. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha parlato di «accuse gravissime rispetto a degli episodi inauditi e inqualificabili. Fatti inaccettabili, che rischiano di infangare l’immagine dell’Arma, che invece è composta da 110.000 uomini e donne che ogni giorno lavorano con altissimo senso delle Istituzioni al fianco dei cittadini. Sono loro il volto della legalità». Per il leader della Lega Matteo Salvini, «chi sbaglia, paga: vale per tutti e ovviamente anche per chi indossa una divisa. Ma l’eventuale errore di pochi non sia la scusa per infangare donne e uomini in divisa che rappresentano una delle parti migliori del Paese. Troppo spesso abbiamo visto indagati con l’accusa di essere torturatori, poi assolti senza nemmeno una scusa». «Presenterò un’interrogazione urgente al Ministro della giustizia Alfonso Bonafede per chiedere l’invio degli ispettori alla Procura della Repubblica di Piacenza – ha detto invece il Questore della Camera dei Deputati Edmondo Cirielli di Fratelli d’Italia – . Il sequestro di una caserma, oltre ad essere un fatto stravagante e senza precedenti, rappresenta una lesione degli interessi dello Stato. Siamo di fronte, infatti, ad una evidente intromissione nelle funzioni del Governo che, inevitabilmente, avrà ripercussioni anche sugli abitanti di Piacenza».

Giuseppe Guastella per corriere.it il 22 luglio 2020. Arresti illegali, torture, lesioni, estorsioni, spaccio di droga: sei carabinieri sono stati arrestati (uno ai domiciliari) a Piacenza e una caserma dell’Arma in città è stata sequestrata per la prima volta in Italia in un’indagine che ha scoperchiato anni di illegalità che hanno visto vittime spacciatori, immigrati ma anche semplici cittadini innocenti finiti per caso nelle mani degli indagati. Guida l’inchiesta il neo procuratore della Repubblica Grazia Pradella. Le indagini riguardano reati commessi a partire dal 2017 in quella che sembra essere una caserma degli orrori. Tra le ipotesi d’accusa, anche certificazioni fornite da un carabiniere in modo da consentire a spacciatori piacentini di raggiungere Milano per rifornirsi di droga durante il lockdown.

Prove false. Oltre ai carabinieri, sono state arrestate altre 12 persone. Al centro di quello che pare più un romanzo noir che una vicenda reale, come dice il gip Milani che ha ordinato gli arresti, c’è la caserma Levante dei carabinieri. Tra i vari episodi ci sono pestaggi, appropriazione di droga, il pestaggio di un cittadino arrestato ingiustamente e accusato di spaccio di droga attraverso prove false, costruite ad arte per poter giustificare l’arresto. L’inchiesta nasce dalla segnalazione di un ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a Piacenza.

«Atteggiamento in stile Gomorra». «Faccio un po’ fatica a definire questi soggetti dei carabinieri. Non c’è stato nulla o quasi nulla di lecito, per quello che abbiamo potuto percepire», ha detto la procuratrice capo di Piacenza,Grazia Pradella, in conferenza stampa, nell’illustrare l’indagine. Secondo gli accertamenti della procura piacentina, «solo un militare» della caserma sotto inchiesta non sarebbe «allo stato» coinvolto. «I fatti sono di estrema gravità ma non intaccano la fiducia che la procura della Repubblica di Piacenza ha nei confronti dell’Arma dei carabinieri», ha aggiunto. «Quello che la procura deve chiedersi e che deve chiedersi anche l’Arma è come sia stato possibile che un appuntato dei carabinieri con un atteggiamento in stile Gomorra abbia acquisito tutto questo potere».

Le intercettazioni: «Siamo irraggiungibili». «Ho fatto un’associazione a delinquere ragazzi (...) abbiamo fatto una piramide: sopra ci stiamo io, tu e lui… ok? (...) siamo irraggiungibili» dice uno degli arrestati in una conversazione in auto spiegando anche il loro modo di agire: «Questa persona qua va tutti da questi gli spacciatori e gli dice (...) “Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba… vendi questa qua, altrimenti non lavori!” e la roba gliela diamo noi! (...) quindi è una catena che a noi arriveranno mai!!». Sono circa 75 mila le conversazioni telefoniche, ambientali e i flussi di comunicazioni telematiche captati e analizzati dagli inquirenti. «Hai presente Gomorra? (...) guarda che è stato uguale (...) Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato», racconta uno dei civili arrestati in una conversazione telefonica con uno dei carabinieri coinvolti nell’operazione, mentre discutono di un’estorsione finalizzata all’ottenimento di un’autovettura del febbraio scorso.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 22 luglio 2020. «Ti devo raccontà quello che ho combinato, ho fatto un'associazione a delinquere ragazzi! Che se va bene... ti butto dentro, al livello di guadagno». Sono 75mila le conversazioni intercettate che raccontano il delirio di onnipotenza dei carabinieri finiti in manette. In «poche parole abbiamo fatto una piramide - diceva l'appuntato Giuseppe Montella parlando con i colleghi - sopra ci siamo io, tu e lui, siamo irraggiungibili». I toni delle conversazioni sono quasi surreali, tanto che il gip definisce quella degli indagati una «realtà quasi onirica». Il 19 marzo, davanti alla caserma, in pieno lockdown, uno dei pusher del gruppo riceve l'autorizzazione a spostarsi con il timbro dei carabinieri. Deve andare a rifornirsi a Milano. «Tu prendi questo, tanto c'ho messo il timbro. Tu lo compili e là sotto scrivete il nome». È uno degli indagati che racconta, in preda a una sorta di esaltazione, come avesse agito per farsi consegnare un'auto all'interno di una concessionaria. Era entrato immobilizzando tutti e aveva picchiato uno dei dipendenti, dopo avere sfasciato il computer. «Hai presente Gomorra? Le scene di Gomorra. È stato uguale e io ci sguazzo in queste cose. Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato!». Ma una delle immagini più incredibili nelle quali gli inquirenti si sono imbattuti è stata la foto postata sui social network da uno dei presunti spacciatori arrestati: con lui ci sono due carabinieri, finiti ieri in manette, e un'altra persona coinvolta nell'inchiesta: mostrano orgogliosamente delle banconote. L'organizzazione degli affari passava attraverso i ricatti ai pusher. In una conversazione intercettata, un militare racconta al collega come gestire lo spaccio «Abbiamo trovato un'altra persona che sta sotto di noi. Questa persona qua va tutti da questi gli spacciatori». E spiega che avvertirà i pusher dicendo: «Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori! La roba gliela diamo noi! Poi loro, a loro volta, avranno i loro spacciatori quindi è una catena che a noi arriveranno mai». I pestaggi avvenivano nella caserma. I pusher che non si adeguavano alle regole e a cedere una parte dei proventi o della droga venivano picchiati. «Ragazzi, prendetegli lo scottex che abbiamo nella palestra così si pulisce». I fatti risalgono al 27 marzo 2020. Un uomo è a terra, come mostrano le immagini agli atti dell'inchiesta. Al suo fianco c'è una pozza di sangue. È uno dei tanti episodi che si sarebbero consumati nella caserma Levante. In un altro caso, l'8 aprile scorso, uno dei militari colpisce un presunto pusher, dicendogli che quello sarebbe stato solo il primo schiaffo: «Allora tu non hai capito che qua non comandi un ca..., questo è il primo della giornata, siediti là e non rompere i co..., se trovo qualcosa a casa sono mazzate per te». Il giorno di Pasqua, mentre l'Italia è blindata, uno dei militari fa un grigliata nella sua villa. Le foto sui social lo immortalano con le bottiglie di champagne in mano. I colleghi della stazione ricevono una segnalazione da una vicina che denuncia l'assembramento. Parte una pattuglia. La conversazione intercettata dopo il controllo è agli atti dell'inchiesta. «La pattuglia te l'ho mandata perché non sapevo che era casa tua», dice il militare che si presenta nella villa di Montella. «Voglio capire un attimo se è la mia vicina, giusto uno sfizio che mi volevo togliere», replica il carabiniere. «Te la faccio sentire abusivamente, non ti preoccupare», la risposta del collega del 112.

Fabio Poletti per “la Stampa” il 22 luglio 2020. Non si può dire che l'appuntato Giuseppe Montella detto Peppe, 37 anni tra 4 giorni, non avesse le idee chiare: «Tu vai sulla grossa quantità, sulla piccola quantità non guadagni un cazzo...». Ci sono 75 mila intercettazioni così, tra gli Scarface dell'Arma dei carabinieri di Piacenza, rasi al suolo dopo 3 anni in un'inchiesta senza precedenti. Si sentivano invincibili, sventolavano banconote e bottiglie di champagne. Il gioco era facile. I pusher avversari venivano illegalmente arrestati, la loro merce «sequestrata» e poi rivenduta dal clan dei Giardino. Peppe il carabiniere spiegava facile il modus operandi della banda: «Se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori! E la roba gliela diamo noi... Quindi è una catena che a noi arriveranno mai!!!». Quanta droga, soprattutto hashish, abbiano smerciato in tre anni, non si sa. In un'altra intercettazione Daniele Giardino, il pusher con cui erano in affari, racconta di una partita sostanziosa: «È micidiale sta roba quando si scalda... minchia però è morbida... Tre chili e quattro...». Il carabiniere Giuseppe Montella è più che soddisfatto: «Una già l'ho venduta e già c'ho pure i soldi...». La merce rubata ai pusher e da rimettere sul mercato un carabiniere la teneva nel garage di casa. La caserma Levante serviva però a tante cose. Anche per un festino con un paio di escort, addirittura nell'ufficio del comandante Marco Orlando finito agli arresti domiciliari. Certo non è un reato ma come scrive il giudice Luca Milani è un altro significativo elemento della condotta totalmente priva di ogni freno dei carabinieri arrestati: «Traspare ancora una volta il totale disprezzo per i valori della divisa indossata dagli indagati». Reati, e tra i più gravi di quelli contestati, ci sono le percosse e le torture a cui venivano sottoposti i pusher ai quali andava rubata la merce da fare poi avere ai propri referenti. Il 27 marzo avviene un pestaggio particolarmente brutale di un egiziano. Le foto mostrano larghe chiazze di sangue sul selciato, mentre l'uomo è a terra ammanettato. Nelle intercettazioni si sente parlare in napoletano stretto: «Ragazzi prendetegli lo Scottex che abbiamo nella palestra così si pulisce!». I pestaggi sono così violenti che ogni tanto hanno pure paura di avere esagerato. Dice un carabiniere dopo aver massacrato di botte un nigeriano: «Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: "Mo' l'abbiamo ucciso"...». Non è vero, ma basta questo per parlarne alla fidanzata, come se fosse un lavoro faticoso: «Mamma mia quante mazzate ha pigliato... Colava il sangue, il sangue gli colava da tutte le parti... Sfasciato da tutte le parti, non parlava... Credimi che ne ha prese, ne ha prese...». L'8 aprile nelle intercettazioni ambientali si sente un pusher albanese pesantemente percosso. I carabinieri lo minacciano di andare avanti a oltranza a colpirlo con ogni mezzo: «Allora tu non hai capito che qua non comandi un cazzo, non hai capito un cazzo allora... Questo è il primo della giornata ok?». A rovinare gli affari ci può essere solo il lockdown dovuto alla pandemia. Lodi è tra le province più colpite. Codogno è a pochi chilometri. Gli spacciatori non sanno come far arrivare la merce a Milano. I carabinieri preparano false certificazioni per consentire ai galoppini di muoversi liberamente: «Vabbò senti a me ascolta me, tu prendi questo tanto ho messo il timbro. Tu te lo compili e lo sottoscrivete...». Soldi, sempre più soldi. Quanti ne siano transitati sui 23 conti correnti ora sotto sequestro bisogna ancora capirlo. In compenso c'è una lista lunga così di Bmw, Porsche e moto Yamaha e di altre marche prestigiose, che il clan dei carabinieri comperava e rivendeva. Siccome i soldi non bastavano mai avevano trovato il modo di fare «pressione» su un concessionario di auto del trevigiano per ottenere un'Audi a prezzo stracciato, un terzo di quello di listino. Si vanta un carabiniere del brutale pestaggio: «Sono entrato attrezzato (con la pistola di ordinanza, ndr)... Uno si è pisciato addosso, nel senso proprio pisciato addosso... L'ho fracassato... Aveva un Mac e gliel'ho distrutto... E sai cosa ha fatto? Ha messo la targa di prova e ci siamo portati l'auto a Piacenza... Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ho dato». -

A Piacenza la "caserma degli orrori" tra torture, estorsioni e spaccio. Ancora pochi i dettagli sulla vicenda: la procura della Repubblica di Piacenza indaga dal 2017 dopo le informazioni ricevute da un militare. Contestati i reati di spaccio di droga, lesioni, estorsione e tortura. Federico Garau, Mercoledì 22/07/2020 su Il Giornale. Un'inchiesta a dir poco sconcertante quella che riguarda una caserma dei carabinieri di Piacenza, finita sotto sequestro a seguito dell'indagine condotta dalla procura della Repubblica, che contesta i reati di spaccio di droga, lesioni, estorsione e tortura. Le attività illecite, come riportato dal "Corriere", andavano avanti dal 2017, ed a finire nel mirino è la caserma Levante di via Caccialupo. Sei militari si trovano già in stato di fermo, come disposto dall'autorità giudiziaria competente. Si tratta della prima volta che in Italia si verifica un fatto simile, con una sede delle forze dell'ordine sottoposta a sequestro. Le indagini degli inquirenti, proseguite sino ad oggi, hanno portato allo scoperto numerose attività illecite condotte all'interno di quella che viene definita come una vera e propria "caserma degli orrori". Un autentico scandalo, che mette in imbarazzo le autorità, e che pare irreale, come riferisce anche il dott. Milani, giudice per le indagini preliminari dal quale sono partite le ordinanze di custodia cautelare. Nell'inchiesta si parla di arresti compiuti nella totale illegalità, oltre ad aggressioni e vere e proprie torture. In un'intercettazione si parla di violenze paragonate alla serie Tv "Gomorra". Vittime non soltanto pusher e stranieri, ma anche nostri connazionali, innocenti ma finiti comunque nel mirino dei soggetti arrestati (emblematico il caso di un cittadino incastrato con prove false, ridotto in manette e pestato a sangue all'interno dei locali della caserma). Fra i reati anche quelli di estorsione, spaccio ed appropriazione di sostanze stupefacenti. Ci sarebbero inoltre delle certificazioni compilate da uno dei militari e poi impiegate dagli spacciatori per andare ad acquistare droga a Milano in piena emergenza sanitaria, quando il Paese si trovava in lockdown. A denunciare quanto avvenuto all'interno della caserma proprio un carabiniere, che avava prestato servizio a Piacenza. Le dichiarazioni del militare hanno permesso di avviare le indagini, condotte dagli uomini della guardia di finanza con la collaborazione con i colleghi di Fiorenzuola d'Ardade e gli agenti della polizia locale.

Le intercettazioni. Sconvolgenti i contenuti delle prime intercettazioni rilasciate dalla procura di Piacenza. In una di queste si sente chiaramente uno dei carabinieri dichiarare: "Minchia adesso ti devo racconta quello che ho combinato...ho fatto un'associazione a delinquere ragazzi! Che se va bene...ti butto dentro, nel senso a livello di guadagno". "In poche parole abbiamo fatto una piramide: sopra ci siamo irraggiungibili, ok? A noi non ci deve cagare nessuno", viene poi candidamente ammesso. "Però Davide i contatti ce li ha tutti lui, quelli grossi!", continua il carabiniere intercettato, come riportato da "AdnKronos"."Lui siccome è stato nella merda, e a Piacenza comunque conosce tutti gli spacciatori, abbiamo trovato un'altra persona che sta sotto di noi. Questa persona qua va tutti da questi gli spacciatori". E ancora: "Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba… vendi questa qua, altrimenti non lavori!", "La roba gliela diamo noi! Poi lui… loro a su… a loro volta avranno i loro spacciatori… quindi è una catena che a noi arriveranno mai". "A me interessa l'erba, a me l'im…io l'importante è che ho l'erba (...) a me mi interessa l'erba di averla sempre", prosegue uno degli arrestati.".. Io dell'erba non posso fare a meno, in settimana così faccio il viaggio... mi faccio un unico perché così se riesco vengo a prendere sia l'erba che la coca…vengo a prendere tutti e due. Una già l'ho venduta e già c'ho pure i soldi". Dei militari fermati, 5 si troverebbero in carcere, uno è ristretto agli arresti domiciliari, 3 hanno l'obbligo di firma, ed uno l'obbligo di dimora.

La reazione dell'Arma. Dolore e sconcerto da parte dell'Arma dei carabiniari. Il primo a commentare è stato il comandante provinciale di Piacenza Massimo Savo, che ha dichiarato al quotidiano Libertà: "Per noi è come un colpo al cuore. Da parte nostra c'è totale disponibilità a collaborare per fare piena luce sui fatti". Piena collaborazione espressa dal Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, che conferma di aver già provveduto alla "sospensione dall'impiego nei confronti dei destinatari del provvedimento giudiziario, nonché la contestuale valutazione amministrativa dei fatti per adottare, con urgenza, rigorosi provvedimenti disciplinari a loro carico". Oltre ai gravi episodi di cui si sono resi protagonisti, gli arrestati sono anche ritenuti responsabili "dell'incommensurabile discredito che gettano sull'impegno quotidianamente assicurato dai carabinieri al servizio dei cittadini e a tutela della legalità". "I reati ipotizzati sono gravissimi e per questo motivo procederemo con il massimo rigore, avendo sospeso tutto il personale coinvolto, proseguiremo sempre con la massima severità per l'accertamento in via autonoma disciplinare della posizione dei singoli", ha dichiarato con grande amarezza il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Giovanni Nistri nel corso di un'intervista rilasciata al "Tg1". "Episodi come questi possono intaccare la fiducia nell'Arma, ma io devo parlare a tutela dei 100mila carabinieri che ogni giorno e ogni notte sul territorio espletano il loro dovere al meglio delle loro possibilità. Solo quest'anno abbiamo avuto oltre mille feriti, durante i momenti peggiori del lockdown non abbiamo chiuso caserme, abbiamo avuto 800 contagiati e dieci vittime, il numero in assoluto più alto di tutte le forze dell'ordine e delle forze armate. Speriamo dunque che quello che viene fatto dai più possa cancellare nella memoria quello che di male è stato fatto, o sarà accertato se sia stato fatto, da chi non è degno di indossare questa divisa". Il senso del dovere dell'Arma non è venuto meno neppure in questa giornata terribile. Per garantire la sicurezza della popolazione, dal momento che la caserma di via Caccialupo è stata sequestrata, sono stati immediatamente inviati 8 carabinieri e 2 stazioni mobili e per continuare a tutelare la comunità.

Le dichiarazioni della procura di Piacenza. In mattinata si è tenuta la conferenza stampa del procuratore capo Grazia Pradella, che ha riportato con chiarezza i fatti, soffermandosi sulle indagini. Sono 22 in totale i soggetti fermati, del quali fanno parte 10 carabinieri ed un militare del Corpo. Le accuse mosse a vario titolo sono quelle di reato di peculato, abuso d'ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. L'indagine, denominata "Odysseus", è durata circa 6 mesi. Oltre alla caserma, sono stati sottoposti a sequestro anche diversi conti correnti, alcune vetture ed una villa con piscina. "Faccio un po' fatica a definire questi soggetti dei carabinieri. Non c'è stato nulla o quasi nulla di lecito, per quello che abbiamo potuto percepire", ha esordito il procuratore Pradella."Gli attuali imputati sono stati monitorati minuto per minuto attraverso intercettazioni telefoniche e soprattutto telematiche. Tutti gli illeciti più gravi contestati sono stati commessi in epoca Covid, in piena epoca lockdown e con disprezzo delle più elementari regole di cautela imposte dalla presidenza del Consiglio attraverso i vari decreti via, via emanati", ha aggiunto, come riportato da "AdnKronos", spiegando come un solo carabiniere facente parte della caserma non sarebbe risultato coinvolto. "I fatti sono di estrema gravità, ma non intaccano la fiducia che la procura della Repubblica di Piacenza ha nei confronti dell'Arma dei carabinieri", ha proseguito Pradella. "Abbiamo poi il rilascio di false attestazioni da parte del pubblico ufficiale finalizzata al trasporto dello stupefacente in periodo covid. Non se lo merita l'Arma ma non se lo merita neanche la città di Piacenza, la città stava contando i suoi morti e questo signore firma e controfirma un'autocertificazione per permettere allo spacciatore di muoversi verso la Lombardia per procacciarsi lo stupefacente dicendo: 'Se ti fermano fai vedere che sei stato già controllato dai carabinieri della caserma' e ci mette il timbro". Non solo le violenze in caserma. Secondo quanto emerso dall'ordinanza firmata dal gip Luca Milani, il clima di terrore instaurato dai soggetti si estendeva anche al di fuori della loro sede. Si parla di intimidazioni ed aggressioni anche all'interno di una concessionaria, datate 4 febbraio. Deciso ad acquistare un'Audi A4 alla cifra da lui stabilita, ossia 10mila euro, uno dei carabinieri si era presentato con la propria arma di ordinanza, usata per minacciare i dipendenti. Con lui un altro degli arrestati, ed altre persone.

Le reazioni politiche. Sul caso è intervenuto il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che ha definito gli episodi come fatti "inauditi ed inqualificabili", che rischiano di infangare l'immagine dell'Arma, composta da 110.000 mila uomini e donne che lavorano con altissimo senso delle Istituzioni. "Da subito sia l'Arma dei carabinieri che il Ministero della Difesa hanno dato la massima disponibilità a collaborare con la magistratura affinchè si faccia completa luce sulla vicenda", ha dichiarato Guerini, come riportato da "Agi"."Il Comandante Generale Nistri mi ha confermato di aver immediatamente assunto tutti i provvedimenti possibili e consentiti dalla normativa vigente nei confronti del personale coinvolto". Duro l'intervento del leader della Lega Matteo Salvini, da sempre schierato dalla parte delle forze dell'ordine. "Chi sbaglia, paga: vale per tutti e ovviamente anche per chi indossa una divisa", ha dichiarato l'ex vicepremier, come riportato da "LaPresse". "L'eventuale errore di pochi non sia la scusa per infangare donne e uomini in divisa che rappresentano una delle parti migliori del Paese. Troppo spesso abbiamo visto indagati con l'accusa di essere torturatori, poi assolti senza nemmeno una scusa", ha proseguito. Massima fiducia nella magistratura e solidarietà agli uomini ed alle donne in divisa che lavorano ogni giorno con grande professionalità sono state espresse da Matteo Rancan e da Luigi Merli, rispettivamente capogruppo regionale della Lega in Emilia-Romagna e responsabile provinciale piacentino della Lega. "Se qualcuno ha sbagliato, giusto che paghi", hanno dichiarato i due rappresentanti del Carroccio."L'impegno e l'abnegazione dell'Arma dei carabinieri e delle forze dell'ordine tutte assumono una valenza ancor più rilevante se valutate nel difficile contesto del periodo storico che stiamo attraversando e nel quale esse stesse si trovano ad operare". Sostegno alla magistratura anche da parte di Fratelli d'Italia, anche se la leader Giorgia Meloni ritiene "incomprensibile" il sequestro della caserma. "È una misura senza precedenti, che ci auguriamo possa essere al più presto revocata. L'Arma è e rimane un punto di riferimento insostituibile degli italiani e non permetteremo che qualcuno utilizzi l'inchiesta di Piacenza per infangare il lavoro quotidiano di oltre 110mila uomini e donne che con abnegazione fanno il proprio dovere", ha dichiarato la Meloni, come riportato da "AdnKronos". Durissimi anche i CinqueStelle: "Se ci sono dei colpevoli è giusto che paghino fino in fondo per quanto hanno fatto", hanno affermato i rappresentanti grillini in Commissione giustizia alla Camera. "La nostra solidarietà va alle vittime dei presunti abusi e all'Arma dei Carabinieri che da sempre è al servizio dei cittadini ed è composta da persone per bene, professionisti sempre al lavoro per la nostra sicurezza". Sconcerto da parte del governatore dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini."Accuse gravissime, che ledono l'Arma dei Carabinieri e colpiscono una città, Piacenza, che più di tutte ha sofferto durante la pandemia", ha commentato il presidente della Regione. "Auspico sia fatta la massima chiarezza su quanto accaduto". Grande amarezza manifestata dal sindaco di Piacenza Patrizia Barbieri: "Non dobbiamo permettere che l'azione illegale di un nucleo ristretto getti discredito sull'onestà, sulla dedizione e sulla generosità con cui i carabinieri si spendono ogni giorno, con coraggio e spirito di sacrificio, in nome del bene comune. Ora più che mai, con piena fiducia nella magistratura, dalle istituzioni deve giungere un appello forte e unitario al rispetto della legge, ma anche un messaggio di riconoscenza nei confronti delle donne e degli uomini che indossano la divisa dell'Arma", ha dichiarato, dopo aver espresso il proprio sgomento per la vicenda.

“Quei carabinieri torturavano e gestivano le piazze di spaccio”. Simona Musco Il Dubbio il 22 luglio 2020. Dieci carabinieri sottoposti a misure cautelari, di cui sei arrestati, e la caserma sequestrata dalla magistratura. E’ il bilancio dell’inchiesta della procura di Piacenza che contesta agli indagati, a vario titolo, diversi reati tra cui spaccio di droga, estorsione e tortura. Arresti illegali, estorsioni, violenze, traffico e spaccio di stupefacenti: sono le pesantissime accuse mosse dalla Procura di Piacenza all’intera stazione dei carabinieri “Levante”, tutti (tranne uno) coinvolti nell’operazione “Odysseus”. Sono 23 le persone indagate, tra le quali 10 militari dell’Arma dei carabinieri e un militare del Corpo, ritenuti responsabili, a vario titolo, delle ipotesi di peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Ipotesi di reato gravissime, che hanno spinto la procuratrice Grazia Pradella ad emettere una dura sentenza già nel corso della conferenza stampa: «Faccio a fatica a definire questi soggetti come carabinieri, perché i loro sono stati comportamenti criminali. Non c’è stato nulla in quella caserma di lecito». L’inchiesta presenta caratteristiche senza precedenti: l’intera caserma dei Carabinieri è stata posta sotto sequestro, cinque militari sono finiti in carcere (assieme ad altre sette civili) e uno, il maresciallo che comanda la stazione, agli arresti domiciliari. «Per noi è come un colpo al cuore», ha dichiarato il comandante provinciale di Piacenza Massimo Savo al quotidiano “Libertà”. Le 300 pagine di ordinanza sono un vero campionario degli orrori, con «arresti completamente falsati e perquisizioni arbitrarie», tanto che uno dei civili arrestati si lascia andare descrivendo le scene degne del film “Gomorra”. «Hai presente Gomorra? Le scene di Gomorra. È stato uguale e io ci sguazzo in queste cose. Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato!», ha affermato raccontando ad un’altra persona i modi con cui uno dei carabinieri arrestati si era fatto consegnare un’auto, facendo scattare l’ipotesi di estorsione. I fatti più gravi sarebbero accaduti durante il lockdown, quando le possibilità di spaccio, sul territorio, si sono necessariamente ridotte. Difficoltà oggettive alle quali i carabinieri avrebbero ovviato mettendo in piedi il proprio personale business. Al vertice della «piramide» messa in piedi per lo spaccio un Appuntato, attraverso una rete di pusher di propria fiducia. La droga veniva reperita sequestrandola ai pusher che non facevano parte della rete di informatori dei militari: dello stupefacente sequestrato solo una parte veniva messa a disposizione dell’autorità giudiziaria, mentre il resto veniva, in parte, concesso in piccole dosi, assieme a somme di denaro, ai confidenti, con lo scopo di ripagarli per le soffiate su altri spacciatori da arrestare, e in parte consegnata a pusher di fiducia per la commercializzazione sul territorio piacentino. «Siamo irraggiungibili», diceva al collega, spiegando che senza la loro roba gli spacciatori non avrebbero potuto lavorare. Gli inquirenti hanno registrato anche attività di staffetta per conto degli spacciatori, custodia e detenzione degli stupefacenti e spaccio per conto proprio. Ma non solo: per agevolare lo spaccio, uno dei militari avrebbe fornito ad uno spacciatore un’autocertificazione in grado di consentirgli di spostarsi in Lombardia per reperire la droga. L’inchiesta ipotizza anche arresti ingiustificati: «Vi era non solo l’obiettivo di procacciare la droga, ma anche quella di sembrare più bravi degli altri, e per questo venivano eseguiti più arresti. Peccato che spesso questi arresti si basassero su circostanze inventate e falsamente riferite, dapprima oralmente e poi per iscritto al pubblico ministero di turno. Non solo, accompagnate da una sorta di autoesaltazione, perché questi carabinieri si consideravano più furbi, più bravi dei colleghi di altre caserme che invece lavorano con correttezza e non solo sul territorio di Piacenza». Ma, soprattutto, i militari si sarebbero resi responsabili anche di pestaggi e torture. Come l’ 8 aprile scorso, quando avrebbero picchiato a sangue uno spacciatore nigeriano, poi persino fotografato. «Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: “Mò l’abbiamo ucciso…”», si sente dire all’appuntato, dal cui cellulare i finanzieri hanno estrapolato la foto dell’uomo seduto sull’asfalto, senza scarpe, ammanettato e con il volto insanguinato, con vistose macchie di sangue sul selciato. Ed è solo uno degli episodi di violenza contestati, tra i quali compare anche la tortura. Un altro giovane egiziano sarebbe stato «minacciato anche con violenze e agendo con crudeltà», come riporta ancora l’ordinanza, «cagionandogli acute sofferenze fisiche»: «Minchia, questo c’ha fatto penare – diceva a proposito l’appuntato parlando con la compagna – mamma mia quante mazzate ha pigliato, colava il sangue, il sangue gli colava da tutte le parti, sfasciato da tutte le parti, non parlava. Credimi che ne ha prese, ne ha prese».

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per il ''Corriere della Sera'' il 24 luglio 2020. Un «modus operandi criminale» diventato «modalità ordinaria di gestione, quanto meno, di parte della quotidianità lavorativa». Con un’unica esigenza: «aumentare la produttività, intesa come numero di arresti, senza correlativamente sostenere il peso di indagini articolate e complesse». Un «atteggiamento criminale», secondo i magistrati, «vieppiù esecrabile se solo si pensa che è riconducibile a soggetti che per dovere istituzionale debbono perseguire fini leciti e garantire l’osservanza delle leggi». Nelle parole dei pm Matteo Centini e Antonio Colonna, c’è la descrizione di un sistema che «per anni» avrebbe caratterizzato la caserma Levante di via Caccialupo. Un luogo dello Stato profanato dalla squadra dell’appuntato Peppe Montella che faceva sparire parte della droga sequestrata per rivenderla con una rete di pusher, teneva i soldi dello spaccio nascosti nella cassaforte comune e, addirittura, organizzava festini hard. «Un’orgia», ricostruiscono i magistrati grazie alle indagini del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, alla quale hanno partecipato «due escort» e che si svolge (mentre lui non è presente) nell’ufficio del comandante Marco Orlando. È l’appuntato Montella a raccontarlo a un collega. La serata è organizzata per festeggiare un collega, l’appuntato lo accompagna nell’ufficio del comandante dove lo aspettano due prostitute: «Urlava come una dannata. Il cappello di Orlando, la giacca, ha buttato tutte le pratiche per terra. Era un bordello». Il sesso è un’ossessione. Nel racconto che dà il via alle indagini, un ex informatore della squadra parla di «una ragazza ucraina o russa tossica che quando è in astinenza si rivolge a Montella che la fa andare in caserma e gli dà la droga dietro prestazioni sessuali». L’informatore racconta ai magistrati di festini con una transessuale brasiliana. In via Caccialupo, secondo gli inquirenti coordinati dal procuratore di Piacenza Grazia Pradella, sono avvenuti ripetuti abusi e pestaggi di pusher che venivano così costretti a rilasciare «false dichiarazioni spontanee», ammissioni di reati di spaccio mai commessi. Per questo nella caserma Levante ancora sotto sequestro nelle prossime ore saranno eseguiti esami con il luminol alla ricerca di tracce ematiche. Una caserma dei carabinieri diventata «scena del crimine». Da ieri davanti all’edificio di via Caccialupo c’è una stazione mobile dell’Arma «per garantire il presidio sul territorio», spiega il comandante provinciale Massimo Savo. Alla guida della compagnia è stato nominato un nuovo capitano ricevuto ieri dal sindaco di Piacenza. I sei militari arrestati e i 4 destinatari di obbligo di firma su ordinanza del gip Luca Milani sono stati sospesi dal Comando generale dell’Arma. «È molto provato, non è uno spaccone», dice l’avvocato di uno di loro. Negli atti della Procura c’è «l’incredulità» degli investigatori davanti a reati che le indagini dei finanzieri, guidati dal colonnello Sergio Vinciguerra, trasmettono in diretta grazie a un trojan (un virus che trasforma il telefono in una cimice) inoculato sul cellulare dell’appuntato Montella. Registrano, ad esempio, il carabiniere mentre «spartisce» otto chili di marijuana con uno dei fratelli pusher Giardino: «Oltre mezzo per me, mezzo per te». Lo intercettano mentre racconta a un collega dei soldi tenuti nella cassaforte della caserma: «Volevo prendere una cassetta in banca, ma costa. Ho paura che a casa me li rubino». Alla moglie Maria Luisa (ai domiciliari), fa ottenere un pass per circolare nelle Ztl di Piacenza riservato a chi svolge «funzione di ordine pubblico». La richiesta è firmata dal comandante Orlando con la dicitura «moglie del signor Montella». La squadra di via Caccialupo va al ristorante in orario di lavoro. Montella fa selfie a tavola con i colleghi. «Abbiamo bevuto 4 bottiglie» e pagato «in nero». L’appuntato ha un tenore di vita ben superiore ai redditi dichiarati. Per questo la sua villetta con piccola piscina di Gragnano Trebbiense è finita sotto sequestro. È la stessa dove a Pasqua organizza una grigliata con amici e parenti nonostante le norme Covid. Agli ospiti dà consigli su come evitare i controlli lungo le strade. Sul telefonino vengono captate le foto in giardino con brindisi a base del costoso champagne Dom Perignon. Quando una vicina chiama il 112 per protestare, i colleghi fanno sparire traccia dell’intervento e forniscono l’audio della chiamata (anonima) per riconoscere la voce. Nei pochi mesi d’indagine - quasi tutta durante il lockdown - emerge anche un traffico di anabolizzanti: «Stanno andando a prendere le punture, le bombe». In caserma Montella è l’appuntato violento da «film poliziesco anni 70», fuori è un trafficante di droga che fa la scorta ai fratelli Giardino per ritirare i carichi a Milano. Quando il «socio» inizia ad avere debiti con i calabresi, lui ne parla con la compagna: «Si fa male con questa gente qua. Amore, ti ammazzano».

Da leggo.it il 23 luglio 2020. Nella caserma "Levante" dei carabinieri di Piacenza, chiusa per effetto delle indagini su alcuni militari, ci sarebbe stata anche un'orgia, consumatasi nell'ufficio del Comandante della stazione, Marco Orlando. È quanto risulta da alcune intercettazioni, rivelate dal gip di Piacenza. Nella caserma dove lavoravano i carabinieri accusati, a vario titolo, di spaccio, estorsione e tortura, ci sarebbe stata anche un'orgia con due donne, probabilmente due escort. A smascherare il fatto è un'intercettazione tra due arrestati, Giuseppe Montella e Salvatore Cappellano, che parlavano di un episodio in particolare, come riferiscono gli inquirenti: «I due carabinieri parlavano di un collega in onore del quale, forse in concomitanza con una ricorrenza, era stata organizzata una serata all’interno della caserma alla presenza di due donne, presumibilmente escort, con le quali erano stati consumati rapporti sessuali». Quanto rivelato dal gip è quasi altrettanto sconcertante di quanto emerso finora dalle indagini: «Nelle intercettazioni Giuseppe Montella parlava di un'orgia nell'ufficio del Comandante, dove si era creato un tale scompiglio che le pratiche erano state sparpagliate a terra. Non sono ravvisabili reati in condotte simili, ma dalla descrizione traspare ancora una volta il totale disprezzo per i valori della divisa indossata dagli indagati, metaforicamente gettata a terra e calpestata, come quella del loro Comandante durante il festino appena rievocato».

Valentina Errante per il Messaggero il 23 luglio 2020. Porta a una pista calabrese il fiume di droga e soldi di cui si parla nelle intercettazioni dell’inchiesta di Piacenza che ha portato all’arresto di sei carabinieri e alla chiusura della caserma Levante. Mentre gli inquirenti e il Comando Generale dell'Arma lavorano per stabilire se ci siano state connivenze, rispetto alle condotte degli indagati, dalle conversazioni emerge che gli spacciatori che rifornivano l’appuntato Giuseppe Montella erano calabresi. È il 25 febbraio quando Daniele Giardino, uno dei pusher arrestati ieri insieme ai militari, cede all’appuntato Montella tre chili di hashish. «Io meno di 45mila euro di droga alla volta non prendo», dice lo spacciatore al carabiniere. Parla della sua preoccupazione per via di un debito di 35mila euro ed è lo stesso militare che, in una conversazione con la sua compagna, spiega che si tratta di «calabresi, pezzi grossi». Del festino in caserma Montella parla con uno dei colleghi arrestati. «Lo scenario rappresentato da Montella – scrive il gip – è quello di un’orgia tenutasi addirittura all’interno dell’ufficio del Comandante Marco Orlando (ai domiciliari) dove si era creato un tale scompiglio che le pratiche erano state sparpagliate a terra». Il giudice sottolinea: «Non sono forse ravvisabili reati in simili condotte, ma dalla descrizione traspare ancora una volta il totale disprezzo per i valori della divisa indossata dagli indagati, metaforicamente gettata a terra e calpestata, come quella del loro Comandante durante il festino appena rievocato». Sapevano di essere intercettati. Sempre dagli atti emerge che il primo maggio l’appuntato porta la sua macchina in officina per uno strano rumore che continua a sentire. E il carrozziere (che tra l’altro è anche uno degli spacciatori arrestati) trova una cimice e subito gli manda le foto. Il militare sospetta di un meccanico che ha l’officina davanti casa sua. «Allora io acchiappo Davide per il collo e Claudio li attacco al muro e gli dico: È entrato qualcuno qui dentro? Adesso me lo dici, se no ti spacco tutti i denti».

La banda dei criminali in divisa e l’ombra di un’alleanza con i clan. Pubblicato giovedì, 23 luglio 2020 su La Repubblica.it da Roberto Saviano. E' una delle vicende più gravi della storia della Repubblica quella che riguarda la caserma “Levante” di via Caccialupo a Piacenza. Guardo le foto di questi carabinieri coinvolti nell’inchiesta, si atteggiano come rapper con cartamoneta in mano, vedo le immagini dei torturati. Leggo le accuse gravissime, le violenze e i pestaggi che hanno perpetrato certi dell’impunità (momentanea) data dalla divisa; leggo dei ricatti, delle estorsioni, dello spaccio di hashish ed erba. Leggendo in fila le carte delle inchieste degli ultimi anni l’Italia ne esce come un Narco-Stato. Vivo tra carabinieri da quasi 14 anni e quindi sento di dover urlare agli arrestati e indagati Giuseppe Montella, Salvatore Cappellano, Angelo Esposito, Giacomo Falanga, Daniele Spagnolo, Marco Orlando, Stefano Bezzeccheri: NON SIETE CARABINIERI. Se le accuse saranno confermate, vorrà dire che questi individui non solo hanno tradito il giuramento fatto alla Repubblica, ma hanno sputato, stuprato, violato ogni donna e uomo (più di centomila militari) che, decidendo d’essere carabiniere, raccoglie su di sé una scelta di vita complicata e di responsabilità. Hanno delegittimato la fiducia dei cittadini nell’Arma. Di tutto questo dovranno rispondere, e non solo dei loro crimini gravissimi. Leggo le carte dell’inchiesta e trovo che nelle telefonate i carabinieri infedeli fanno rifermento a Gomorra. «Hai presente Gomorra? Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato». Secondo le accuse, l’appuntato Montella, che sembra essere il capo di quello che viene in queste ore chiamato “il clan dei carabinieri” va insieme ad un collega in una concessionaria e, per farsi vendere un’auto a un prezzo molto basso, i due militari iniziano a pestare il gestore e gli fanno notare di essere armati: «Figa, sono entrato attrezzato, uno si è pisciato addosso, nel senso proprio pisciato addosso (…) L’altro mi ha risposto e l’ho fracassato». Gomorra diventa lo specchio in cui si riflettono, addirittura il potere che vorrebbero raggiungere. Gomorra è divenuta nel tempo l’altro volto della vita: esistono le cose e poi esistono le cose come si fanno in Gomorra. La serie tv diventa lo spazio dove rivedono non solo le dinamiche in cui operano ma ambiscono a diventare esattamente ciò che dovrebbero contrastare, prova finale che chiunque pensasse che in Gomorra si trattava di una esagerata descrizione della realtà non conosceva la realtà.

La storia di Piacenza apre delle riflessioni: la prima, la legalizzazione delle droghe leggere. Legalizzare è l’unica strada per fermare un traffico infinito su cui si fonda il segmento iniziale di ogni — e ripeto, ogni — gruppo criminale. Fermare il traffico delle droghe leggere è facile, basta legalizzare. Legalizzare significa bloccare sul nascere molti gruppi criminali che non riuscirebbero a fare il salto di qualità verso il traffico di cocaina e su altri tipi di attività criminali senza partire dallo spaccio di hashish e marijuana.

La seconda questione, l’immigrazione. Nella caserma di Piacenza si muovono certi che essere violenti con gli immigrati non porterà nessun danno, anzi. Sanno che un immigrato (ancor più se con precedenti penali) non avrebbe possibilità di essere creduto se dovesse denunciare torture. L’idea che arrestare significhi risolvere, eradicare il problema — errore cavalcato dai populismi — ci porta alla terza questione: i superiori.

Come riuscivano a nascondere quanto facevano questi carabinieri? Le voci delle loro violenze circolavano da tempo in città, le loro auto di lusso erano chiaramente incompatibili con i loro stipendi. Perché la loro condotta veniva tollerata? Semplice, “il clan dei carabinieri” si tutelava con il numero elevato di arresti. Portavano risultati quantificabili, e questo serve a fare carriera e serve alla politica per fare facile comunicazione. Chi totalizza più arresti è il migliore e viene in qualche modo “protetto”. Il maggiore Stefano Bezzeccheri, comandante della compagnia di Piacenza, chiede all’appuntato Montella di fare più arresti, e i magistrati scrivono nell’ordinanza: «In presenza di risultati in termini di arresti, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle irregolarità compiute dai loro sottoposti». Quando arriva in caserma il nuovo maresciallo, rimane sconvolto da quello che vede e confessa al padre: «Se lo possono permettere perché portano i risultati, portano un sacco di arresti l’anno. Ma perché? Perché hanno i ganci…». Ecco uno degli elementi che dovrebbe immediatamente mutare in tutte le forze dell’ordine. Bisogna smetterla di pensare che sbandierare arresti significhi professionalità e capacità. Fare multe non significa che si sta gestendo bene una città, così arrestare a tappeto (immigrati, disperati, nella maggior parte dei casi) non significa che si stia davvero tenendo in sicurezza un territorio. La differenza non la fa il numero di arresti, ma la qualità degli interventi, le modalità, le inchieste che si portano a compimento per mutare la situazione.

La quarta questione: la ‘drangheta. Ciò su cui non si è posta abbastanza attenzione è che è difficile credere che si possa costruire un’organizzazione come hanno fatto questi carabinieri infedeli senza l’alleanza e l’accordo con le ‘drine. Loro stessi cercano (arrestano e pestano a sangue) uno spacciatore che mette sul mercato erba a minor prezzo rischiando di distruggergli la piazza, cosa che farebbero anche le cosche con loro. C’è stato certamente un accordo ma per ora non sono accusati di associazione mafiosa. Piacenza è terra con forte presenza di ‘drangheta: ricorderete nel giugno 2019 l’arresto per ‘drangheta di Giuseppe Caruso, il presidente del Consiglio comunale di Piacenza (in quota Fratelli d’Italia) è pensabile che li abbiano lasciati fare i clan? I carabinieri della “Levante”, quasi tutti di origine campana e calabrese, hanno un legame strettissimo con gli spacciatori Daniele Giardino e i suoi fratelli (Simone e Alex): è lì la pista che ci porta dritti alle organizzazioni criminali calabresi e alla mediazione con loro. Il patto tra crimine organizzato e carabinieri infedeli è la parte più oscura e che merita approfondimento di questa incredibile storia.

Carabinieri arrestati a Piacenza: «Abbiamo venduto 20 chili di droga, adesso in città ci stiamo solo noi».  Cesare Giuzzi, Giuseppe Guastella il 25/7/2020 su Il Corriere della Sera. Le carte dell’indagine che ha portato all’arresto di sei carabinieri. I dialoghi in auto con l’amico trafficante. La telefonata per evitare i controlli su un furgone carico di marijuana. «Noi dobbiamo viaggiare a numero uno, i numeri due li lasciamo agli altri, adesso a Piacenza poi stiamo solo noi... perché a Piacenza non ce n’è più nessuno». L’appuntato Peppe Montella è euforico. È in macchina con il socio Daniele Giardino l’amico Tiziano Gherardi che su Facebook si fa chiamare con un soprannome piuttosto esplicito «Mezzo kg». Gherardi è uno degli spacciatori più attivi della piazza piacentina. Non a caso, ancora prima della confessione del pusher-pentito che farà partire l’inchiesta, è proprio lavorando su di lui che gli investigatori del Nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle iniziano a sospettare delle amicizie dell’appuntato della caserma Levante. I due parlano di droga, di soldi, degli ultimi affari: «Noi ieri abbiamo venduto venti chili». Le amicizie di Giuseppe Montella non sono segrete. Il profilo social del carabiniere lo testimonia. Nessuno però tra i superiori ha mai segnalato quegli strani rapporti tra pusher e carabiniere. «Tali frequentazioni apparivano, fin da subito, in evidente contrasto con lo status rivestito e l’attività svolta all’interno della stazione Carabinieri di Piacenza Levante — ricostruiscono gli investigatori — soprattutto considerato il coinvolgimento di Giardino e Gherardi in attività di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti anche volte all’approvvigionamento della piazza piacentina». Montella è un carabiniere dalla doppia vita, ugualmente «delinquente» come lo definiscono i magistrati che vive in una sorta di «film poliziesco anni ‘70» ma dove «i soprusi e le percosse non sono una finzione scenica». Da un lato abusa della sua divisa per «estorcere confessioni» a presunti spacciatori, picchia selvaggiamente i sospettati, organizza festini nella caserma di via Caccialupo. Dall’altro organizza traffici di droga, ne cura il trasporto insieme alla compagna Maria Luisa Cattaneo (ai domiciliari) e si spinge fino nell’hinterland milanese insieme a Giardino per acquistare partite di marijuana dai calabresi. Il Montella narcos si occupa di attività di «bonifica dei caselli autostradali» e «di scorta a tutela del trasporto di stupefacenti». Per gli inquirenti coordinati dal procuratore Grazia Pradella e dai pm Antonio Colonna e Matteo Centini, il 36enne sfrutta così «la sua posizione all’interno dell’Arma» per verificare l’eventuale presenza di controlli o pattuglie lungo il tragitto» e per reperire «informazioni sulle indagini». Come quando i fratelli Giardino vedono un posto di blocco al casello Piacenza sud. Sul furgone hanno tre chili di marijuana. Montella chiama un amico finanziere (indagato) che lavora nel nucleo cinofili e lo informa che non si tratta di un semplice «pattuglione» ma di un controllo mirato. Montella racconta al figlio undicenne del pestaggio di «un negro che scappava». Alla moglie illustra i risultati del traffico di droga. E insieme a un collega fa «la spesa» durante il turno di servizio. «L’immagine dell’Arma per l’ennesima volta ne esce danneggiata se solo si immagina quale opinione possa farsi nel vedere, in un momento delicato e di controlli nella contingenza dell’epidemia da Covid 19, due carabinieri a bordo di una pattuglia con i colori di istituto che sostanzialmente “cazzeggiano” occupandosi degli affari propri — scrivono i pm di chiedendo gli arresti al gip—, quali ritirare latticini e un libro: una tracotanza fastidiosa». Dopo gli arresti sono iniziate le verifiche sull’attività della squadra di via Caccialupo: «Tutti gli arresti da fine gennaio in poi sono stati eseguiti tacendo che venivano promossi da sedicenti informatori, risultati essere, complici, o meglio, galoppini dell’appuntato Montella» e «rappresentando accertamenti sul territorio in realtà inesistenti». Ma soprattutto «macchiati indelebilmente da violenze e percosse inferte a coloro che erano nelle mani dei rappresenti dello Stato».

Cesare Giuzzi per corriere.it il 24 luglio 2020. Uniti nella vita e negli affari. Peppe e Mary condividono tutto. L’appuntato Giuseppe Montella le racconta gli affari, le sue frequentazioni con i fratelli spacciatori Giardino, i soldi che arrivano dai pusher. Lei lo aiuta, lo consiglia, è complice nell’accompagnarlo a ritirare lo stupefacente con la sua auto e a nasconderlo. Maria Luisa Cattaneo, 38 anni, è la compagna del carabiniere infedele Montella. L’appuntato riesce a far ottenere alla compagna un pass per entrare nella Zona a traffico limitato di Piacenza. Il pass in realtà sarebbe riservato a chi svolge «funzione di ordine pubblico». La richiesta alle autorità comunali è incredibilmente firmata dal comandante della stazione Levante, il maresciallo Marco Orlando, con tanto di timbro e la dicitura «moglie del signor Montella». I due stanno insieme da quattro anni, dopo che l’appuntato s’è separato dalla moglie dalla quale ha avuto un figlio, oggi undicenne. Il bambino viveva con la coppia nella villetta di Gragnano Trebbiense oggi sotto sequestro e dove abita ancora la madre del carabiniere. Dalle carte dei magistrati che indagano sulla caserma degli orrori di via Caccialupo a Piacenza, emergono dettagli che fanno rabbrividire. Come quando il padre Peppe Montella racconta compiaciuto al bambino di essersi «stirato» per aver «pestato» con troppa violenza un arrestato:

Padre: «Ieri mi sono fatto un male».

Figlio: «Cosa ti sei fatto?»

Padre: «Mi sono...quasi...secondo me ho preso un piccolo strappo».

Figlio: «Facendo che roba?»

Padre: «Perché sono corso dietro a un negro per prenderlo che se ne era scappato ...e a freddo min... mi sono fatto un male della Madonna».

Figlio: «L’hai preso poi?»

Padre: «Mmm».

Figlio: «Gliele avete date?»

Padre: «Mmm».

Figlio: «Chi eravate?»

Padre: «Io, Giacomo (n.d.r.: Giacomo Falanga), Salvo (n.d.r.: Salvatore Cappellano) Daniele (n.d.r.: Daniele Spagnolo) Angelo (n.d.r.: Angelo Esposito).

Figlio: «Chi l’ha picchiato?»

Padre: «Eh un po’ tutti che se mi fa male caz...!!! Un male ho sentito ieri mi sono dovuto mettere l’Arnica, cerotti. Ho fatto lo scatto a freddo!!».

L’appuntato Montella si vanta delle violenze e degli abusi che commette indossando la divisa. Ma non solo. Perché nelle intercettazioni con la compagna Mary Cattaneo parla tranquillamente dei soldi da nascondere del traffico di droga, delle «partite» di stupefacente da acquistare e le fornisce anche piccole dosi di marjiuana per uso personale. Lo aiuta, ad esempio, a nascondere la droga in casa:

Montella: «Senti il profumo che fa quel coso».

Compagna: «Eh si...»

Montella: «Amore è resina pura. Fatto veramente bene...porto su lo mettiamo un attimo nel..nel..nella parte di dietro in lavanderia no?»

Compagna: «E se lo metti sul balcone?»

Montella: «No allora lo metto nel garage dai, c’ho le chiavi qua..... un attimo a volo nel garage».

Compagna: «Lo metto sul balcone se vuoi?»

Montella «Ma amore..se mai lo pe... se perdo?».

Compagna: «Te lo metto dentro un barattolo».

I due sono non solo sono consumatori di «erba», frequentano pregiudicati e hanno un tenore di vita sproporzionato rispetto ai redditi, ma condividono anche la contabilità degli affari. Ne è prova una conversazione che gli investigatori del Nucleo di polizia tributaria delle fiamme gialle di Piacenza intercettano in auto. Si parla di una cartellina all’interno della quale sono nascosti contanti. Una grossa cifra: «Amore questa cartellina con i soldi posso metterla nel baule?», chiede Mary Cattaneo. Il compagno però ha necessità di soldi cash e le chiede di lasciarla «davanti»: «No amore mettila davanti perché mi servono i soldi, ho solo 50 euro.......... anzi ti.. sfilami da dentro 100 euro e poi quella la metti nel baule». 

Negli ultimi mesi d’indagine, Montella trova una microspia sulla sua Audi A4. A quel punto decide di «bonificare» le macchine dei complici e quella della compagna. Qui però non riesce a individuare la cimice. Pensando che non sia presente sull’auto e ipotizzando che le indagini riguardino invece i rapporti tra i fratelli Giardino e trafficanti calabresi, si tranquillizza e si vanta della sua astuzia: «Loro amore, loro non vanno mai ad immaginare che abbiamo sgamato le ambientali!», dice l’appuntato alla compagna. Lei risponde: «Ma va!! ...non lo scoprirebbero mai!». Montella: «Non lo immaginerebbero mai!! ...che gliene abbiamo sgamate tre su tre!».

Da huffingtonpost.it il 24 luglio 2020. L’appuntato Giuseppe Montella, uno dei carabinieri indagati nell’inchiesta sugli abusi alla caserma di Piacenza, tra il 2005 e il 2020 ha collezionato un maxi garage personale da fare invidia. Si parla di undici auto e 16 moto, tra cui una Porsche Cayenne, quattro Bmw e due Mercedes. Lo riporta un articolo pubblicato sul quotidiano la Repubblica. Insomma, viene da chiedersi come ci sia riuscito Montella, con uno stipendio di poco più di 30mila euro lordi all’anno. Senza contare poi le rate dei due mutui a lui intestati, in aggiunta alle somme liquide sborsate a saldo per l’acquisto della villa di Gragnano. Tutte spese che lo hanno portato ad avere il conto in rosso. Nel garage del carabiniere ci sono state, tra le auto: una Bmw X5, una Bmw 320D, una Mercedes Classe A, una Smart City Coupé, una Bmw 520D, Un Audi, un’altra Bmw 320D, una Porsche Cayenne, un’altra Mercedes Classe A, una Renault Espace e una Fiat Punto. Per quanto riguarda le moto: 2 Yamaha T-Max 500, una Yamaha BT, Una Yamaha FZS, due Piaggio Beverly, un Polaris Blazer, una Yamaha XVS 600 Dragstar, una Kawasaki Z 1000, una Bmw GS, una Kawasaki ZX, una Ducati 998, un Kymco, una Ducati Hypermotard e un’Aprilia RSV 1000.

F.Pol. per ''La Stampa'' il 24 luglio 2020. Adesso che sono finiti in carcere è tutta un'altra storia. L'avvocato Daniele Mancini che difende uno dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza giura: «Il mio assistito è molto provato, non ha l'atteggiamento baldanzoso e da spaccone che emerge dalle carte del giudice». Anche l'avvocato Mariapaola Marro spiega che il suo cliente non si capacita: «L'arresto per lui è stato come un fulmine a ciel sereno, lui è estraneo ai fatti». Cosa diranno oggi e domani davanti al giudice negli interrogatori di convalida i carabinieri della caserma Levante si vedrà. Due di loro al momento dell'arresto sono scoppiati in lacrime. Gli altri non hanno spiaccicato parola. Tutti sono in isolamento nel carcere di Piacenza, raggio protetto per evitare episodi spiacevoli con altri detenuti. Gli interrogatori sono solo una parte dell'inchiesta che si muove veloce su più fronti. Una parte nemmeno decisiva, molti degli imputati potrebbero decidere di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nell'inchiesta, oltre 75 mila intercettazioni in sei mesi, è stata monitorata solo l'ultima parte del clan dei carabinieri in stile Gomorra in attività da almeno tre anni. In quei sei mesi è venuto fuori di tutto, lo spaccio e i festini in caserma con le escort, le estorsioni e lo champagne millesimato, gli arresti illegali e le auto di grossa cilindrata, le torture e i soldi da sventolare nlle foto. Dall'esame dei 23 conti correnti intestati all'appuntato Giuseppe Montella detto Peppe, il vero motore criminale di tutta la storia secondo i magistrati, potrebbe uscire il quadro degli ingenti guadagni del gruppo che trafficava soprattutto in hashish anche se nelle intercettazioni si parla di cocaina, che potrebbe dimostrare un più alto livello di organizzazione. Seguendo i soldi si potrebbe ricostruire anche la quantità di droga movimentata, in una intercettazione si parla di 3 chili e 2 etti. I magistrati vogliono anche ricostruire gli arresti illegali di pusher, per poter meglio controllare la piazza. Arresti falsamente definiti in flagrante. Quattro, quelli non convalidati negli ultimi mesi dalla magistratura che già sapeva. Teme il peggio un investigatore: «Dobbiamo verificare che non siano finite ingiustamente in carcere altre persone». L'ultimo livello, il più delicato, è quello relativo alle possibili coperture avute dal clan dei carabinieri. Va accertato se davvero nessuno sapeva di quello che avveniva nella caserma Levante, nota soprattutto per le «brillati operazioni» antispaccio.  La Procura militare anche per questo ha già aperto un'inchiesta interna. Dai vertici dell'Arma è arrivata la nomina del nuovo comandante della compagnia di Piacenza, Giancarmine Carusone, catapultato in città da Messina in meno di 24 ore. E come ulteriore segnale che lo Stato c'è ancora, davanti alla caserma Levante c'è una nuova postazione mobile con otto carabinieri, impegnati pure ricostruire l'immagine dell'Arma in una città ancora sotto shock. 

Montella «L'hashish lo mettiamo un attimo in lavanderia, no?»

La fidanzata «Se lo metti sul balcone?»

Montella «No, allora lo metto nel garage. Dai, c 'ho le chiavi qua».

La fidanzata «Lo metto sul balcone, se vuoi. In un barattolo».

Montella «No, fuori si indurisce, amore, non si deve mai indurire».

Montella «Ieri mi sono fatto un male. Ho preso un piccolo strappo, perché ho corso dietro a un negro».

Il figlio di 11 anni «L'hai preso poi? Gliel'avete date? Chi eravate? Chi l'ha picchiato?»

Montella «Eh, un po' tutti».

Da ''la Repubblica'' il 24 luglio 2020. (…) Ismael ha bene in mente la regola del 10 per cento. «Se aiutavi quei carabinieri a sequestrare la roba, una parte era per te. Ma io non faccio l'infame». (…) «Loro venivano, ti prendevano, se ti andava bene ti prendevano la roba», prosegue nel racconto Ismail, «se ti andava male ti menavano». (…) La caserma Levante era diventata un bancomat della droga. Lo sapeva Nikita, il trans di via Torta. Un paio di pippate, in cambio partecipava alle feste di Montella e dei suoi amici. (…) Lyamani, l'informatore, quando ha deciso che non era più il caso di collaborare è stato convocato alla Levante. Ed è stato pestato davanti ad altri due egiziani, anche loro spie di Montella. «Era un messaggio per tutti ». I carabinieri menavano anche senza motivo. Lo sa un ragazzo egiziano fermato l'8 aprile in via Pennazzi. La gente che abita racconta di non aver visto e sentito. Ma le telecamere hanno ripreso tutto. Il ragazzo è stato fermato perché pensavano avesse comprato droga. Sbagliavano. Non aveva nemmeno un grammo di roba. Prima di lasciarlo andare, però, l'hanno picchiato e gli hanno rubato il portafogli. In via Colombo, accanto a un negozio di telefoni, hanno acciuffato un ragazzo nigeriano, Anyanku Ugochukwu, piccolo spacciatore. Era fine marzo. Malmenato selvaggiamente. «Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: "Mo l 'abbiamo ucciso''», racconta Montella a un collega. (…)

Gli incontri con le trans, il barattolo della droga: lo squallore della caserma di Piacenza. Pubblicato venerdì, 24 luglio 2020 da Giuseppe Baldessarro su La Repubblica.it Le rivelazioni di un magrebino svelano nuovi dettagli sul modus operandi dei carabinieri della Levante: agli informatori il 10% dei soldi e della droga sequestrata. Prostitute pagate con la droga, informatori che ricevevano il 10% dello stupefacente e dei soldi sequestrati in cambio delle soffiate e incontri nell'appartamento di "Nikita", trans di origini brasiliane, che gestiva una casa d'appuntamenti nel piacentino. Sono rivelazioni scioccanti quelle fatte da un giovane magrebino ai pm Matteo Centini e Antonio Colonna che indagano sul gruppo di carabinieri infedeli di Piacenza. Hamza Lyamani è il grande accusatore di Giuseppe Montella e degli altri militari della caserma Levante. E' lui ad aver raccontato tutto al maggiore Rocco Papaleo (comandate della compagnia di Cremona) ed è sempre lui che, subito dopo, ha fornito i dettagli ai magistrati. Storie che Lyamani cone bene, perché anche lui era un "collaboratore" dell'appuntato considerato il capo delle divise sporche. Il giovane marocchino spiega tutto fin dall'inizio: "Montella in modo molto esplicito mi ha detto che se avessi avuto qualche operazione cotto e mangiato, ossia senza svolgere indagini lunghe, una parte del denaro e dello stupefacente poteva essermi data quale compenso". In particolare "mi diceva che la mia parte, nel caso di informazione positiva, sarebbe stata pari al 10%". Un accordo iniziato alla fine del 2016-inizio 2017 e durato 3 anni. Da quel momento Lyamani, per dirla con le parole dell'appuntato, è "sotto la sua cappella" (diventa un suo protetto). Ogni volta che lo spacciatore segnalava un altro pusher arrivava il 10% dei soldi e della droga sequestrata: "Posso dire che la droga viene conservata all'interno di un barattolo in caserma". Montella al momento di consegnare quanto spettava allo spione "lo agitava per far capire che era quasi vuoto e che c'era bisogno di altre informazioni per poterlo riempire...". In caserma quel barattolo lo chiamavano "la terapia". Per avere altre soffiate da girare ai carabinieri il magrebino si rivolge "al transessuale Nikita". La notizia viene girata a Montella e un altro spacciatore finisce nella rete degli aguzzini in divisa: "Al momento dell'arresto lo hanno picchiato forte ed è stato 3 giorni in ospedale con la vigilanza dei Carabinieri". Lyamani racconta anche gli aspetti più squallidi del gruppo di carabinieri: alcuni militari della Levante "conoscevano e frequentavano prostitute della città, tra le quali i transessuali che esercitavano in un appartamento gestito da uno di loro. Il nome di "Nikita" è ben noto nell'ambiente. Scrive il Gip, Luca Milani: "Era stato quest'ultimo, una volta, a rivelare a Lyamani che essi avevano molti amici in comune, tra cui il maresciallo Marco Orlando (comandate della stazione, ndr), dicendogli che anch'essa si recava alla caserma di via Caccialupo per ritirare la "terapia"". Aggiunge il giudice: "Il marocchino sapeva che anche tale "Valeria", una ragazza russa o ucraina, era solita ricevere da Montella della droga presso la stazione carabinieri, ricompensandolo con prestazioni sessuali". Lo stesso Montella, infine, "aveva confessato a Lyamani che a volte si serviva della cocaina sequestrata durante le operazioni di polizia per organizzare dei festini a casa sua".

Carabinieri arrestati a Piacenza, Hamza: “Mi avevano minacciato di buttarmi nel Po”. Le Iene News il 24 luglio 2020. Ci ha contattato un uomo che si presenta come Hamza Lyamani, il ragazzo marocchino informatore dei militari di Piacenza che, parlando con l’attuale comandante della compagnia Carabinieri di Cremona Rocco Papaleo, avrebbe dato il via all’inchiesta che ha portato lunedì scorso, 20 luglio, al clamoroso arresto di sei carabinieri a Piacenza. “Sono io il marocchino che ha dato inizio all’indagine, non mi credeva nessuno prima. Ho parlato con Rocco Papaleo, che è il comandante dei carabinieri a Cremona. Conoscendolo, sapendo che è un carabiniere onesto, mi sono rivolto a lui”. Ci ha contattato e abbiamo sentito telefonicamente un uomo che si presenta come Hamza Lyamani, ovvero il ragazzo marocchino informatore dei militari di Piacenza, che parlando appunto con l’attuale comandante della compagnia Carabinieri di Cremona Rocco Papaleo avrebbe dato il via all’inchiesta che ha portato lunedì scorso, 20 luglio, al clamoroso arresto di sei carabinieri (uno è ai domiciliari). Tra le ipotesi di reato della procura di Piacenza figurano arresti illegali, torture, lesioni, estorsioni, spaccio di droga. La caserma dell’Arma in città è stata sequestrata, per la prima volta in Italia, in un’indagine che avrebbe scoperchiato anni di illegalità. Riportiamo la sua versione dei fatti, dopo aver sentito anche il suo avvocato, come possibile contributo a fare chiarezza. “Voglio sputtanarli perché mi hanno fatto passare gli anni più schifosi della mia vita”, ci ha detto. “Tutto è iniziato nel 2016, quando dovevo andare a firmare in caserma per un precedente. Ho incrociato Giuseppe Montella (uno degli arrestati, ndr), che era il mio preparatore atletico di calcio quando ero bambino. La prima volta che sono andato in caserma mi ha detto: "Ah ti hanno infamato, però se tu mi dai un po’ di informazioni possiamo lavorare insieme. C’è una tua percentuale sugli arresti che facciamo". Lui arrestava la gente con un chilo e li portava davanti ai giudici con mezzo chilo, e mezzo chilo se lo smerciava lui, e dava a me un etto. A Piacenza loro fornivano un giro di spaccio e prostituzione. Montella mi obbligava a vendere per lui o dare informazioni”. “Lui ti chiamava per qualsiasi cosa e tu dovevi esserci, eri tipo un suo dipendente o anche di più”, continua. Se si rifiutava? “Botte e minacce di andare dentro. Mi hanno menato non una, non due, non tre volte. Ho lasciato la città perché lì non potevo vivere, loro mi dicevano se tu sei in giro qua, te la mettiamo noi in tasca e ti portiamo dentro. Loro di roba ne avevano, erano degli spacciatori. Ho deciso di lasciare Piacenza dopo le minacce subite. Non riuscivo più a camminare liberamente per strada. Mi diceva: 'Ti do un consiglio fraterno, vedi di sparire da qua', perché sapevo troppo. Poi mi fa: ‘Se tu non sparisci da Piacenza in 48 ore ti metto dentro una valigia e ti butto al Po’. Questa è la minaccia che mi ha fatto andare via. E so che lui è capace di farlo, è uno che se dice una cosa la fa. Queste minacce le faceva Giuseppe Montella, lui era un appuntato in caserma ma era il capo dell’organizzazione”.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2020. Carabinieri che a vari livelli sapevano, ma non hanno denunciato nulla né ai loro superiori né tantomeno alla magistratura, come sarebbe stato loro dovere fare. Gli interrogatori dei principali indagati nell'inchiesta sulla caserma Levante allargano lo scenario delle indagini fino ad ora delineato dalla Procura di Piacenza che presto potrebbe estendersi ad altri militari che hanno assistito o sono venuti a conoscenza dei traffici e delle illegalità diffuse che ruotavano intorno all'appuntato Giuseppe Montella. «Nessuno mi ha fatto mai una segnalazione, ma non posso pensare che nessuno si sia reso conto di quello che succedeva nella caserma», dichiara il maggiore Stefano Bezzeccheri, che ha comandato la compagnia di Piacenza fino a mercoledì scorso, al gip Luca Milani che gli ha notificato il provvedimento di obbligo di dimora, mentre altri sette carabinieri venivano arrestati con ipotesi di reato gravissime che vanno dalla tortura al sequestro di persona, dall'arresto illegale allo spaccio di droga. Per quattro ore l'ufficiale risponde alle domande anche del pm Matteo Centini, titolare dell'inchiesta con il collega Antonio Colonna, ma esclude di aver avallato la mancata segnalazione al Prefetto di uno spacciatore, vicenda che gli è costata l'accusa di abuso d'ufficio. Nell'interrogatorio di garanzia, Bezzeccheri (difeso dall'avvocato Wally Salvagnini) ammette di non aver ostacolato l'abitudine di Montella di arrestare più persone possibili (anche illegalmente secondo l'accusa) in modo da aumentare i numeri a fine anno. Dice anche di non aver mai saputo che Montella e gli altri spesso pestavano gli arrestati, quasi sempre immigrati accusati di spaccio che venivano «convinti» a diventare informatori e ricompensati con la droga sequestrata. Nella caserma Levante, ma anche nella compagnia, negli anni sono transitati parecchi carabinieri, graduati e ufficiali. È a chi è stato zitto che puntano gli sviluppi dell'inchiesta della Procura diretta da Grazia Pradella. Alcuni indagati, infatti, lavorano a Piacenza da una decina di anni, come Montella e Marco Orlando, che ha comandato la Levate prima di finire ai domiciliari. Da prima, cioè, dei reati del capo di imputazione che partano solo dal 2017. Ieri è stato anche il giorno dell'insediamento a Piacenza della nuova linea di comando nei carabinieri. «Il mio obiettivo personale, è di guadagnare la fiducia giorno per giorno», dice il colonnello Paolo Abrate, il nuovo comandante provinciale. Il quale subito mete in chiaro: «Non sono uno che guarda alla statistica».

Michele Sasso per “la Stampa” il 29 luglio 2020. «Più arresti» ordinava l' ufficiale dei carabinieri Stefano Bezzecheri all' appuntato della "Levante", e Peppe Montella eseguiva, sì, ma con i suoi metodi. Ha avuto modo di spiegare ieri, nel lungo interrogatorio davanti al gip, perché l' ex comandante della compagnia di Piacenza aveva un «particolare rapporto di confidenza» con il presunto capo dei carabinieri infedeli. Per il gip Luca Milani nello stesso momento si sono trovati fianco a fianco in una realtà di provincia come Piacenza «un militare incline a sfruttare il proprio ruolo per accrescere i profitti delle attività illecite e un comandante che non solo non operava alcuna attività di vigilanza, ma anzi finiva per assecondarli spronando l' appuntato a rivolgere il suo servizio verso il massimo risultato». Ora al suo posto è arrivato il colonnello Paolo Abrate con il difficile compito di riconquistare i cittadini dopo questo pasticciaccio brutto: «Il mio obiettivo personale, come ho fatto in tutti i luoghi in cui sono andato, è quello di guadagnare la fiducia, che si guadagna giorno per giorno», dice il nuovo comandante. Quanto è accaduto alla "Levante", aggiunge, è «una cosa che ci ha colpito nel nostro cuore, nella nostra intimità». Tornando all' inchiesta, rimangono le intercettazioni in cui Bezzecheri "spinge" ad eseguire arresti ad ogni costo. Un esempio del "metodo Montella " per far salire la statistica dei fermi è raccontato da Gianmario Disingrini, 37 anni e un osservatorio speciale: abita a 100 metri dalla Caserma di via Caccialupo. Nove anni fa l'appuntato l' ha fermato per due volte e per due volte è stato preso a botte. «In città ci conosciamo tutti e Montella in quel periodo mi prese di mira: nel 2011 mi ferma per un alcool test, mi porta in caserma e mi sottopone al palloncino prendendomi a sberle e minacciandomi. Per fortuna il tasso alcolemico è appena superiore a 0,5 grammi per litro e me la cavo con la faccia gonfia e la patente sospesa per 2 mesi». Disingrini non è un pusher, non ha precedenti per droga e non frequenta cattive compagnie. All' epoca aveva 28 anni, un lavoro da autista e pochi grilli per la testa. Una domenica mattina rientra ubriaco dopo la discoteca e rincontra il suo aguzzino. «Erano le 5 e mentre guidavo ho preso un senso vietato a pochi metri da casa ma sotto gli occhi dei carabinieri che vista la scena mi bloccano, mi mettono le manette e portano nella caserma Levante. Dentro Montella e un suo collega si accaniscono su di me: schiaffi, pugni e calci fino a farmi cadere per terra. Si fermano solo quando arriva mia madre attirata dalle urla selvagge che si sentivano fino al nostro appartamento. E' stata lei a salvarmi da quel pestaggio: ha trovato la porta aperta, mi ha visto e si è buttata su di me per proteggermi da quei colpi». Dopo il danno pure la beffa: processo per direttissima, 18 mesi senza patente e 2.500 euro ai due militari che in ospedale hanno pure avuto 30 giorni di prognosi. «Da allora ogni volta che incontravo Montella, mi rideva in faccia». Nuove rivelazioni anche dalla trans che partecipava ai festini in caserma: «Volevano fare sesso non protetto e aggressivo, ma io sono sieropositiva e ho sempre usato il profilattico».

Carabinieri Piacenza, le lacrime dopo l'arresto: "Non immaginavamo di arrivare a questo punto".

Pubblicato venerdì, 24 luglio 2020 da Giuliano Foschini su La Repubblica.it Gli inquirenti si aspettano che almeno alcuni dei militari arrestati possano collaborare con le indagini. Agli atti migliaia di pagine tra intercettazioni telefoniche e ambientali e fotografie. “Vieni con noi”. “Dove?”. “In galera”. “Ma come in galera?”. Hanno pianto i carabinieri della Levante quando all’alba di mercoledì i finanzieri di Piacenza li hanno buttati giù dal letto, con in mano l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Luca Milani, per portarli in prigione a Cremona. Hanno pianto perché “non immaginavamo di arrivare a questo punto”, noi “non abbiamo mai intascato un euro”. Hanno pianto, probabilmente, perché per la prima volta era chiaro come un’altra storia, tremenda, fosse appena cominciata nella loro vita. Per questo oggi gli inquirenti si aspettano che almeno alcuni dei carabinieri arrestati – Angelo Esposito, Salvatore Cappellano, Daniele Spagnolo, Giacomo Falanga – possano negli interrogatori di garanzia decidere di collaborare con le indagini. E raccontare tutto quello che sanno sulla caserma Levante. “Non hanno molte alternative”, fa notare un investigatore. L’inchiesta è solidissima, agli atti ci sono migliaia di pagine tra intercettazioni telefoniche, fotografie e captazioni ambientali. La collaborazione è poi l’unica strada tracciata dal comando generale che ha fatto partire anche un’inchiesta interna, parallela a quella della procura di Piacenza e dei magistrati militari. Tra gli arrestati l’unico che ha continuato ad avere un atteggiamento sereno è stato Giuseppe Montella, l’appuntato attorno al quale gira tutta la storia della Levante. Il suo avvocato, Emanuele Solari, lo ha incontrato. Ma aspetta domani, quando si terrà l’interrogatorio di garanzia, per decidere che passi muovere. Importante sarà capire anche se gli altri arrestati – i tre fratelli Giardino, soprattutto, in affari con Montella per lo spaccio della droga – abbiano voglia di fornire elementi utili alle indagini. Obiettivo del procuratore Grazia Pradella è anche capire se ci sono stati altri episodi, come quelli ricostruiti dalle indagini, in cui i carabinieri abbiano commesso abusi di potere e arrestato ingiustamente uomini e donne. “Dobbiamo sapere se ci sono degli innocenti in carcere”. Gli interrogatori delle prossime 24 ore aiuteranno a scrivere, forse, altri pezzi di questa storia.

Attesi per l'indagine il Ris di Parma. Caserma degli orrori, azzerati i vertici provinciali dei Carabinieri di Piacenza. Redazione su Il Riformista il 25 Luglio 2020. L’inchiesta che ha terremotato la stazione Levante dei carabinieri di Piacenza ha spinto il Comando generale dell’Arma ad azzerare i vertici provinciali, cambiando di fatto tutta la catena di comando. È stato disposto infatti il trasferimento per il comandante provinciale Stefano Savo, quello del reparto operativo Marco Iannucci e la guida del nucleo investigativo, Giuseppe Pischedda. A guidare il comando provinciale sarà il colonnello Paolo Abrate, attualmente alla guida del Gruppo di Milano, mentre il tenente colonnello Alfredo Beveroni, comandante di corso della scuola marescialli di Firenze, è il nuovo comandante del reparto operativo. Pischedda è stato invece sostituito dal maggiore Lorenzo Provenzano, ufficiale addetto della prima sezione del Ros di Milano. Nessuno dei tre è formalmente indagato ma dall’Arma, filtra attraverso l’Agi, viene spiegato che la decisione è stata presa “da un lato per garantire il sereno e regolare svolgimento delle attività di servizio, dall’altro per recuperare il rapporto di fiducia tra la cittadinanza e l’Arma”. Negli ultimi tre anni, in un continuo ‘turn over’, si era avvicendati alla guida del Comando provinciale i colonnelli Corrado Scarretico, Michele Piras e Stefano Savo. Già da ieri in città è arrivato il nuovo comandante della compagnia di Piacenza, il capitano Giancarmine Carusone, in sostituzione del maggiore Stefano Bezzeccheri, indagato e sospeso dall’incarico. Dalla prossima settimana invece è previsto il sopralluogo del Ris di Parma all’interno della caserma Levante, finita sotto sequestro, dove verrà effettuata una perizia tecnica per cercare tracce ematiche e biologiche dei pestaggi contestati dalla Procura a Giuseppe Montella e agli altri carabinieri "infedeli".

Piacenza, quella "gara" tra i carabinieri: "Chi farà più arresti?" La competizione a chi riusciva a eseguire più catture era diventata un'ossessione: "Vediamo di farne il più possibile, almeno di farne altre tre-quattro". Luca Sablone, Venerdì 24/07/2020 su Il Giornale. Ora le indagini si concentrano sulla catena di comando e controllo dell'Arma, ma sulla storia legata alla "caserma degli orrori" continua a dominare una domanda: come mai nessuno è intervenuto tempestivamente per tentare di porre fine ai presunti reati e abusi commessi dal 2017 presso la caserma dei carabinieri nel centro di Piacenza? Stando a quanto sostenuto dalla procuratrice capo di Piacenza Grazia Pradella e confermato dal Gip Luca Milani, tutti gli illeciti più gravi contestati sarebbero stati commessi nel corso dell'emergenza Coronavirus, nel pieno lockdown "e con disprezzo delle più elementari regole di cautela imposte dalla presidenza del Consiglio attraverso i vari decreti via, via emanati". Ma in caserma non si sarebbero limitati solo alle violenze: si parla di intimidazioni e aggressioni anche all'interno di una concessionaria, datate 4 febbraio. La vicenda ha provocato immediatamente le reazioni del mondo politico, con il leghista Matteo Salvini che si è espresso in maniera chiara: "Chi sbaglia, paga: vale per tutti e ovviamente anche per chi indossa una divisa". Appare evidente che però l'eventuale errore di pochi non deve in alcun modo diventare la scusa "per infangare donne e uomini in divisa che rappresentano una delle parti migliori del Paese".

Quella gara degli arresti. Come riportato dal Corriere della Sera, da alcune intercettazioni sarebbe emerso un rapporto diretto "di particolare confidenza" tra l'appuntato Peppe Montella e Stefano Bezzeccheri: il maggiore comandante della Compagnia scavalcava il comandante della Stazione per spingere i suoi sottoposti a compiere più arresti che potevano. "Ti devo parlare urgentemente, a quattr’occhi, in borghese". Queste le parole utilizzate per organizzare uno dei tanti incontri volti a discutere di quella che ormai era diventata una vera e propria ossessione: la competizione a chi riusciva a vantare più catture con le Compagnie limitrofe di Bobbio e Rivergaro.

Nelle intercettazioni urla e minacce. "Lui ti spacca le ossa, poi io ti sfascio". Il 5 marzo scorso Bezzeccheri diceva: "Perché io so’ fatto così Montè, a Rivergaro e a Bobbio gli devo fare un culo così... È una questione di orgoglio, perché mi gira il culo che gente che rispetto a voi non vale un cazzo fanno i figurini col colonnello, col comandante della Legione, eccetera eccetera". E la risposta di Montella sarebbe stata: "Adesso... Vediamo di farne il più possibile, anche prossima settimana, almeno di farne altre tre-quattro". Il tutto concluso con gli elogi da parte del maggiore: "Il massimo risultato col minimo sforzo".

"Al di sopra della legge". L'indagine ha svelato il modus operandi per l'organizzazione degli arresti. Riccardo Beatrice, unico di Piacenza Levante non inquisito, ne parlava col padre (carabiniere in pensione): "Si gestiscono tra di loro... perché portano i risultati... a te colonnello ti faccio fare bella figura e ti porto un sacco di arresti l’anno! ... Lavorano assai, ma perché?... C’hanno i ganci". Ma anche lo stesso Beatrice, che al padre denunciava atti falsi e "cose fatte a umma umma", è rimasto in silenzio con i superiori: "Adesso mi faccio i cazzi miei perché non voglio rimanere qua. Ma se dovessi rimanere qua... quel giorno.. salta tutto, salta!".

Ma chi è Giuseppe Montella? Il leader del gruppetto di carabinieri accusato di pestaggi, estorsioni, spaccio e tortura ha 37 anni, è napoletano e la descrizione che fa il gip di Piacenza parla chiaro: "La personalità dell’indagato rivela come egli abbia la profonda convinzione di poter tenere qualunque tipo di comportamento, vivendo al di sopra della legge e di ogni regola di convivenza civile". Un uomo che "non mostra paura di nulla ed è dotato di un carattere particolarmente incline a prendere parte ad azioni pericolose e violente". Il suo scopo era quello di eseguire arresti a ogni costo: in tal modo gli ufficiali di grado superiore sarebbero stati disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle diverse irregolarità che commetteva insieme agli altri militari. A un altro degli arrestati, Montella ha rivelato: "A me quello che mi interessa è la coca. Se riusciamo… dopo che abbiamo preso due volte, tre volte, quattro volte… se riusciamo ad abbassa’ un po’ il prezzo… sarebbe top".

Piacenza, i carabinieri arrestati furono premiati per la lotta alla droga. La stazione Levante ricevette un encomio solenne per i risultati conseguiti nel contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti. Luca Sablone, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Caserma sotto sequestro e 10 carabinieri indagati: proseguono le indagini della procura piacentina sulla "caserma degli orrori", per cui sono stati arrestati sei militari. Sono accusati a vario titolo di peculato, abuso d'ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Eppure due anni fa la stazione Levante di Piacenza ricevette un encomio solenne.

Piacenza, quella "gara" tra i carabinieri: "Chi farà più arresti?" Infatti nel giugno del 2018 a Bologna, nel corso dell'annuale cerimonia per gli allora 204 anni della Fondazione dell'Arma, il comandante della Legione Emilia-Romagna attribuì una particolare menzione ai componenti della stazione in questione "per essersi distinti per il ragguardevole impegno operativo ed istituzionale e per i risultati conseguiti soprattutto nell'attività di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti". La caserma Levante fu inoltre citata, insieme ad altre stazioni del territorio regionale, per essersi particolarmente distinta "nell'espletamento del servizio istituzionale rappresentando un punto di riferimento costante e certo per le rispettive cittadinanze con particolare riguardo alle fasce deboli".

L'inchiesta prosegue. L'intento dell'inchiesta non è solo quello di verificare omissioni o responsabilità nella catena di comando, ma anche quello di cercare ulteriori elementi probatori sui presunti illeciti. Per rafforzare il quadro accusatorio si ricorrerà allo scandagliamento dei cassetti e dei locali della stazione. L'inchiesta, coordinata dal procuratore capo di Piacenza Grazia Pradella, contesta ai carabinieri - in lacrime al momento dell'arresto - di aver messo in piedi un giro di arresti illegali, spaccio di droga, pestaggi ed estorsioni a fini economici e per aumentare il proprio prestigio. Pare che pure il sesso fosse una vera e propria ossessione, visto che un ex informatore della squadra - nel racconto che dà il via alle indagini - oltre a parlare ai magistrati di festini hard con una transessuale brasiliana, è uscito allo scoperto su "una ragazza ucraina o russa tossica che quando è in astinenza si rivolge a Montella che la fa andare in caserma e gli dà la droga dietro prestazioni sessuali".

Escort, trans e ricatti in caserma: la vita dei carabinieri di Piacenza. Oggi verrà interrogato Giuseppe Montella che, per la procura, era la vera mente criminale: il leader del gruppetto di Piacenza aveva conti con 6 banche, alle Poste e con 3 società (di intermediazione finanziaria, cambiavalute e gestione di risparmi). Per quale motivo l'appuntato nascondeva buona parte del suo tesoretto nella cassaforte della caserma di via Caccialupo? Il gip scrive che la scelta di custodire i contanti in caserma piuttosto che in casa "era dettata dal timore di subire furti, ed era comunque meglio che in banca, dove tutti avrebbero potuto apprendere le sue disponibilità economiche". Ora si vuole capire se si sono verificati ulteriori abusi di potere e arresti ai danni di uomini e donne. "Dobbiamo sapere se ci sono degli innocenti in carcere".

Encomi e richieste di arresti, l’indagine sulla "Caserma degli orrori" punta al ruolo dei superiori. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2020. I carabinieri della caserma Levante di Piacenza arrestati nei giorni scorsi per i pestaggi, le torture e il traffico di droga gestito in accordo con pusher locali, nel 2018 avevano ricevuto un encomio solenne. Il riconoscimento era stato conferito durante la festa per i 204 anni della Fondazione dell’Arma dei Carabinieri dal comandante della Legione Emilia-Romagna ed era destinato “alle stazioni che si erano particolarmente distinte nell’espletamento del servizio istituzionale rappresentando un punto di riferimento costante e certo per la sicurezza delle rispettive cittadinanze, con particolare riguardo alla tutela delle fasce deboli”. Anche su questo "particolare" dovrà fare luce l’inchiesta interna avviata dal comando generale dell‘Arma per verificare chi segnalò il lavoro dei militari di Piacenza, che avevano trasformata la caserma Levante in un centro di violenze e traffico di droga. Ma le inchiesta parallele sono ormai tre: a quella della Procura di Piacenza si è aggiunta quella interna alla stessa Arma e quella della Procura Militare di Verona, competente su Piacenza, che come riferito dal procuratore Stanislao Saeli ha già “ravvisato gli estremi per reati militari”. L’indagine sui fatti di Piacenza è quindi solo agli inizi: sono tante infatti le persone informate sui fatti, soprattutto colleghi degli arrestati, che verranno sentiti nelle prossime settimane. Il giudice che ha ordinato i sei arresti scrive infatti che “le indagini sono ancora in corso e hanno lo specifico obiettivo di chiarire fino in fondo quale sia stato il livello di consapevolezza e di partecipazione degli ufficiali nelle attività illecite commesse dai carabinieri in servizio presso la Stazione Piacenza Levante”. Il riferimento è al maresciallo a capo della Stazione, Marco Orlando, e al maggiore comandante della Compagnia, Stefano Bezzeccheri, entrambi sospesi e indagati. Dalle intercettazioni in particolare emerge una vicinanza particolare tra Giuseppe Montella, l’appuntato a capo del gruppo secondo la Procura, e Bezzeccheri. Quest’ultimo avrebbe spinto i sottoposti, scavalcando anche il comandante della Stazione, a realizzare più arresti per superare nei numeri le vicine Compagnie di Bobbio e Rivergaro. Il 5 marzo scorso, non sapendo di essere intercettato, parla con Montella e spiega: “Perché io so’ fatto così Montè, a Rivergaro e a Bobbio gli devo fare un culo così… È una questione di orgoglio, perché mi gira il culo che gente che rispetto a voi non vale un cazzo fanno i figurini col colonnello, col comandante della Legione, eccetera eccetera”. E “Montè”, come viene chiamato l’appuntato, promette di “farne il più possibile, anche prossima settimana, almeno di farne altre tre-quattro”. Ma gli accertamenti, quelli interni all’Arma e non solo, potrebbero arrivare ancora più in alto, a partire dai colonnelli Corrado Scarretico, Michele Piras e Stefano Savo, i tre comandanti provinciali che si sono avvicendanti negli ultimi tre anni a Piacenza.

Montella in lacrime col gip. Conferma lo spaccio e inguaia il suo superiore. L'appuntato in cella risponde alle domande L'ammissione: il maresciallo Orlando sapeva. Luca Fazzo, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Quando i fermati urlavano sotto le botte, lui e il suo commilitone/complice minacciavano di picchiare più forte. Adesso che è in cella, con accuse da decenni di galera e l'addio alla divisa che ha insozzato per anni, l'appuntato dei carabinieri Peppe Montella ha smesso bruscamente i panni del maschio Alfa. Fino a tre giorni fa era lui a fare il bello e il cattivo tempo nella caserma della Stazione Levante, trascinandosi appresso i colleghi e i superiori in un gorgo di illegalità. Adesso è un agnello che piange e si torce le mani davanti al giudice venuto a interrogarlo. Confessa molto, minimizza un po'. Al giudice Luca Milani poco importa, per ora, del resto: delle connivenze circostanti, financo dell'omertà, che hanno permesso ai carabinieri della Levante di continuare per anni a trafficare droga, a inventare arresti e a picchiare i fermati. Questa è l'agenda della Procura della Repubblica, il terreno su cui si muoverà la fase due di una indagine che non è destinata a chiudersi presto. Al giudice che ha deciso gli arresti ieri serve solo ascoltare le versioni di Montella e dei suoi colleghi, capire se esiste un qualunque motivo per tirarli fuori dal carcere. E di motivi non ne salta fuori neanche mezzo. Tanto che neanche il suo difensore Emanuele Solari, al termine dell'interrogatorio, chiede la scarcerazione di Montella. Il faccia a faccia dura tre ore e mezzo, nel carcere Le Novate. L'uomo che nell'ordinanza di custodia viene indicato come il vertice della cricca, risponde a tutte le domande. L'ordinanza è talmente vasta che il giudice non riesce a contestare uno per uno i reati, in totale sono 58 capi d'accusa e Montella compare in quasi tutti. Così le domande puntano a ricostruire soprattutto i rapporti con il clan di spacciatori italiani cui si era legato a doppio filo, e di cui curava gli affari, spazzando via la concorrenza. Montella ammette la conoscenza con i trafficanti, e non potrebbe fare altro vista la quantità di occasioni in cui è stato intercettato insieme a loro, ma non si limita a questo, ammette anche di avere partecipato alle attività di spaccio della gang. Su un altro versante odioso, quello dei pestaggi in caserma, qualche ammissione è costretto a farla, anche perché ci sono le registrazioni. Ma ne dà una versione minimale. Nessuno, dice, è mai finito in ospedale. «È una persona molto provata», dice il legale uscendo dal carcere. «Si possono fare errori per ingenuità, per vanità, per tante cose», aggiunge. Come si possano ricondurre a «ingenuità» le imprese di Montella, le irruzioni a schiaffoni negli autosaloni per ottenere sconti, le torture inflitte in caserma, la droga rubata ai pusher e girata ai confidenti, è un mistero. Ma a Montella, stando al racconto del suo avvocato, preme anche discolparsi dagli episodi meno gravi ma più coloriti, togliersi di dosso l'etichetta del gangster alla Gomorra. Nega che in caserma si facessero festini con escort e con trans, come racconta uno dei testimoni. Smentisce di avere decine di conti correnti. «E pubblicare le foto del mio assistito con racconti surreali alla Scarface non è un buon servizio alla giustizia e al giornalismo», aggiunge il legale. Che poi invita la stampa a una «maggiore sobrietà» anche perché «ci sono di mezzo dei figli minorenni». Peccato che siano gli stessi bambini, i due figli della compagna di Montella, che la coppia portava con sé quando trasportava droga, e davanti ai quali magnificava apertamente la qualità della droga che aveva a bordo. Per non parlare del rapporto di Montella col figlio, col quale si vantava di avere picchiato un fermato che aveva avuto il torto di fuggire. Il tema scottante è quello dei rapporti con la scala gerarchica, con i superiori che appena due anni fa avevano riconosciuto a lui e agli altri della Levante un encomio per i risultati conseguiti sul fronte della lotta allo spaccio. Su questo fronte Montella fa un ammissione importante: i suoi metodi erano noti almeno al maresciallo Marco Orlando, il comandante della Stazione Levante. Orlando è agli arresti domiciliari, con imputazioni finora più lievi rispetto al resto del branco. Ma ora la sua posizione potrebbe aggravarsi.

Umberto Rapetto per infosec.news il 29 luglio 2020. Chi non è del mestiere si sarà chiesto – magari senza farsi sentire per evitare critiche da parte dei “so-tutto-io” – cosa mai siano questi benedetti encomi. Per introdurre il tema faccio appello all’animo bambino di chi legge queste pagine e domando di fare uno sforzo di memoria per ricordare “Muttley”, il cane che sembra asmatico ogni volta che scoppia a ridere per le disavventure di Dick Dastardly nei celebri cartoni di Hanna & Barbera. Il buffo quadrupede ripete con grande frequenza – ma solo nella versione italiana – la celebre frase “Medaglia, medaglia” e somiglia un pochettino a chi nelle Forze Armate o di Polizia spera con il suo operato di ottenere uno dei previsti “riconoscimenti di ordine morale”. Non parliamo di medaglie al valore, al merito, di benemerenza o commemorative (su queste ultime basti ricordare quella assegnata a migliaia e migliaia di persone che hanno partecipato – garantendo la sicurezza e l’ordine pubblico – alle solenni esequie di Papa Wojtila, all’elezione del Pontefice Benedetto XVI o all’Incontro  nazionale  dell’Azione cattolica italiana nella regione Marche come si legge ai punti 18, 19 e 20 di una curiosa pagina della Gazzetta Ufficiale), ma di diplomi che attestano la stimabile opera dell’interessato in una certa attività di servizio. Ne esistono di tre specie che – in progressione crescente (per importanza e per caratura del Comando abilitato a rilasciarli) – si identificano in “elogio” (“lode” per la Polizia di Stato), “encomio semplice” ed “encomio solenne”. Chi ottiene un buon risultato, che sia effettivamente degno di menzione, spera nella formalizzazione dei propri meriti, vuoi per soddisfazione personale, vuoi per trarre beneficio nelle successive valutazioni per un avanzamento di grado. Gli encomi dovrebbero essere attribuiti solo a chi ha effettivamente contribuito ad una certa operazione, ma per prassi abbastanza diffusa danno luogo ad una contaminazione gerarchica andando a premiare anche “chi stava sopra” a chi davvero ha lavorato. Al “superiore” improvvisamente vengono riconosciute qualità e virtù di “coordinamento” e addirittura di “ispirazione” di certe attività, pregi che si traducono in roboanti celebrazioni che farebbero impallidire i più indomiti eroi di ogni tempo. L’iter per la concessione dell’encomio prevede una serie di passaggi: la pratica parte dal reparto protagonista del servizio meritevole di riconoscimento e arriva all’organo preposto alla valutazione e all’eventuale rilascio. I superiori, nel trasmettere la pratica a chi sopra di loro decide, non di rado chiedono che si consideri il proprio determinante ruolo in mancanza del quale il risultato non sarebbe stato mai conseguito. E’ capitato che soggetti distanti chilometri e spesso assenti vengano premiati grazie ad un effetto alone che si riverbera positivamente su tutta la catena gerarchica, persino quando quegli stessi superiori hanno ostacolato lo svolgimento di una certa attività…Quei pezzi di carta – altro non sono – comportano la “trascrizione a matricola” della motivazione del rilascio dell’encomio, contribuiscono ad addobbare il profilo professionale e il cursus honorum dell’interessato e possono argomentare la scelta di Tizio rispetto a Sempronio in un avanzamento di carriera. Sulle promozioni, però, si apre un ulteriore scenario. Se a collezionare “encomi” è qualcuno che – magari guadagnandoseli con fatica sul campo – non è quello che deve passare di grado, in quella tornata di valutazioni gli encomi conteranno poco oppure se l’involontario avvantaggiato ne ha presi troppi vorrà dire che se ne prenderanno in considerazione un massimo di “tre”. I comuni mortali non sempre riescono ad ottenere l’encomio nemmeno dopo blitz spericolati e investigazioni da sceneggiatura cinematografica. Altri invece portano a casa riconoscimenti di quel tipo per iniziative non così straordinarie, svalutando uno strumento che invece ha una sua valenza psicologica e incentiva l’impegno dei più bravi e volenterosi. Non si pensi alla favola della volpe e l’uva. Nella mia ultradecennale esperienza di comando, il GAT (Gruppo Anticrimine Tecnologico, poi divenuto Nucleo Speciale Frodi Telematiche) ha totalizzato un numero di riconoscimenti “bestiale”. Quella trentina di ragazzi in competizione con gli oltre tremila uomini e donne della Polizia Postale si è conquistata quei premi, come la cronaca di quell’incredibile dozzina d’anni può ampiamente testimoniare. In quel periodo io stesso ho totalizzato 18 encomi solenni e 14 semplici per operazioni che ho vissuto in prima persona non dalla scrivania ma rimbalzando giorno e notte da un angolo all’altro dell’Italia, partecipando direttamente a perquisizioni e sequestri, studiando e approfondendo ogni caso, procedendo ad analisi tecniche e facendo indagini come qualunque altro “gattino”. Uno degli “encomi” è quello per lo scandalo delle “slot machine” su cui abbiamo lavorato – contro tutti e contro tutto – per alcuni anni. Solo dopo i miei ragazzi ed io abbiamo scoperto che bastava organizzare una Santa Messa per ottenere un riconoscimento simile. La lettura delle motivazioni ripaga ogni amarezza di chicchessia e regala un sorriso in un periodo in cui se ne sente particolarmente il bisogno.

Piacenza, Carlo Bonini sull'azzeramento dei vertici dell'Arma: "Un atto che anticipa le conseguenze dell'inchiesta". Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. Sulla vicenda della caserma di Piacenza ne parla anche In Onda, il programma di La7 condotto da Luca Telese e David Parenzo. Tra gli ospiti in collegamento anche Carlo Bonini. La firma di Repubblica spiega l'azzeramento dei vertici avvenuto dopo lo scandalo che ha travolto l'Arma: "Questo dimostra una grave negligenza della catena di comando - spiega in merito ai carabinieri-torturatori indagati dell'inchiesta sugli abusi alla caserma Levante -. Non solo, si tratta di un atto che anticipa le conseguenze dell'inchiesta, decisione che da sola racconta e documenta un fatto, ossia - ribadisce - una grave negligenza della catena di comando". Tra gli indagati spunta infatti anche il comandante di compagnia. Motivo, questo, per cui il nuovo comandante provinciale dell’Arma è ora il colonnello Paolo Abrate e proviene dal gruppo carabinieri di Milano.

Carabinieri di Piacenza, così Peppe Montella scoprì di essere spiato: "Bianco, non respirava più". Poi la scelta sconvolgente. Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. Emergono ulteriori dettagli sull'indagine di Piacenza, la Caserma degli orrori, sui Carabinieri banditi capeggiati dall'appuntato Peppe Montella. E si scopre che aveva capito tutto, aveva paura, aveva insomma scoperto che la Guardia di Finanza lo braccava. Le torture, i pestaggi, gli arresti illegali e soprattutto lo spaccio. E quando si è reso conto di essere circondato dalle microspie, "era bianco pallido e non respirava più". Così Matteo Giardino alla fidanzata di Montella: era stato proprio Giardino a fargli sapere che era indagato. Si tratta del carrozziere, anche lui arrestato, a cui Montella aveva portato la sua auto, una Audi, per delle riparazioni. Mentre lavorava sull'auto, Giardino ha sentito che dai bocchettoni dell'aria condizionata proveniva uno strano rumore: all'interno ci trovò le microspie installate dalle Fiamme Gialle. E quando informò Montella, questo capì tutto: "È un casino", disse. E non sbagliava. E dà fuori di testa: "Lo ammazzo", dice riferendosi proprio a Matteo, convinto che fosse lui col fratello Daniele al centro dell'indagine per i traffici di droga. "Ma cosa fai? Guarda che tu fai il carabiniere. Paghi per due", gli rispondono. Da quel giorno, aggiunge la madre, Montella diventò nervosissimo, intrattabile, fece bonificare le auto e informò i suoi sodali di essere spiato. Ma ormai era troppo tardi. E nonostante questo proseguì nei loschi traffici, brigando per trovare nuove modalità per condurli.

Montella, l'appuntato incastrato dalle microspie. "La pagheremo di più". Pubblicato sabato, 25 luglio 2020 Da Giuliano Foschini su La Repubblica.it.  Oggi gli interrogatori di garanzia dei carabinieri della caserma Levante. L'avvocato dell'appuntato: "Molto provato".  L'appuntato Peppe Montella aveva capito tutto. E, per questo, aveva paura. Sapeva che la Guardia di Finanza gli stava dietro. Sapeva che conoscevano i suoi traffici di sostanze stupefacenti da Milano a Piacenza, in accordo con i fratelli Giardino. Conoscevano i suoi modi di fare con gli spacciatori della città. "Era bianco pallido, non respirava più" dice alla fidanzata Matteo Giardino. A dirgli tutto era stato proprio lui, Giardino. rep Approfondimento Piacenza, quaranta arresti fotocopia. Il ragazzo, anche lui arrestato, è un carrozziere. Al quale Montella aveva portato la sua nuova Audi per alcune riparazioni. Si tratta della macchina acquistata in una concessionaria veneta con modi non esattamente convenzionali: "Gli ho spaccato tutto e si sono pisciati sotto" diceva Montella del raid che lui stesso aveva fatto nel rivenditore d'auto. Il carrozziere Giardino mentre lavora alla macchina sente che dai bocchettoni dell'area condizionata arriva uno strano rumore. Pensa a un problema nei filtri o a qualcosa che magari è finito dentro per caso. E invece trova la microspia installata dalla Guardia di Finanza. Corre così a informare nella sede della caserma dei carabinieri Levante, Montella. Che capisce immediatamente che stava cominciando l'inizio della fine. "È un casino" gli dice. Pensa subito ai suoi traffici di droga. Immagina, sbagliando, che sia finito in un'inchiesta nata proprio dai fratelli Giardino, spacciatori milanesi, senza capire invece che il centro dell'indagine è lui. "Lo ammazzo" dice a Matteo, riferendosi al fratello Daniele, che gestisce il traffico. "Ma cosa fai? Guarda che tu fai il carabiniere. Paghi per due". "Lo ammazzo" insiste Montella. Che, racconterà la madre, da quel giorno in poi diventa nervosissimo, intrattabile. Montella fa bonificare tutte le altre auto che usa, e anche quelle degli amici: ci sono microspie ovunque. Convoca i suoi pusher informatori per avvisarli di quello che potrebbe accadere. Ma, incredibilmente, così come riportano i pm nelle nuove carte dell'inchiesta, la richiesta di custodia cautelare, "tutta la preoccupazione di Montella non era l'essere potenzialmente sottoposto ad indagini ma il blocco dell'approvvigionamento di sostanza stupefacente da Giardino e, di conseguenza, i mancati introiti". "Bisogna trovare un altro sistema - diceva - con il Covid non ti puoi muovere... la pagheremo di più; la pagheremo di più. Serve un altro che viene da Milano e ce la porta fino a qua, capito? I fornitori di Giardino - continua la Procura - erano comunque operativi e l'unico problema era il trasporto dello stupefacente a Piacenza. Montella aveva proposto a Giardino  di ingaggiare un corriere di sua conoscenza che avrebbero potuto inviare a ritirare la droga direttamente dai calabresi". Ipotesi sfumata perché "con i calabresi", dicevano, era ammesso a parlare soltanto Giardino. Anche questo dovrà spiegare oggi l'appuntato Montella davanti al gip che lo ha interrogato in carcere, per la prima volta.

Caserma degli orrori, dagli arresti fotocopia ai rapporti coi pusher: così Montella "guidava" il gruppo. Redazione su Il Riformista il 26 Luglio 2020. Un canovaccio sempre uguale, arresti in serie di spacciatori con circostanze simili che sono finiti tra le carte dell’inchiesta sulla Levante, la "caserma degli orrori" di Piacenza dove i carabinieri arrestati sono accusati di spaccio, pestaggi ed estorsione.

GLI ARRESTI FOTOCOPIA – Basta controllare i verbali firmati dai militari per accorgersi che qualcosa non torna: i pusher si trovano sempre nei pressi della caserma, praticamente colti in flagranza con l’obbligo di arresto immediato e, soprattutto, sono tutti particolarmente violenti e aggressivi. Una circostanza che permette così ai militari di rispondere con forza e giustificare così i segni delle violenze. Un quadro che emerge anche dalle cronache locali, con quasi un arresto a settimana a partire dal 2017. Come scrive Repubblica, a insospettirsi per primo è il colonnello Stefano Piras, comandante provinciale dell’Arma. Per questo dal 2018 al 2019 l’appuntato Montella, il militare considerato dagli inquirenti il leader del gruppo, riduce le operazioni. Poi in fase di lockdown, dal marzo 2020, gli arresti riprendono e così le torture e i pestaggi ai danni degli spacciatori non compiacenti.

MONTELLA SI "VANTAVA" CON UN PUSHER – Dalle carte dell’inchiesta "Odyssesus" emerge ancora una volta il ruolo dell’appuntato Giuseppe Montella. A parlare di lui già lo scorso gennaio davanti agli investigatori è il giovane pusher marocchino che passava le informazioni ai carabinieri infedeli della caserma Levante di Piacenza. Lo spacciatore racconta di averlo conosciuto anni prima, perché faceva il preparatore atletico di una squadra di calcio di cui aveva fatto parte. “Principalmente parlavo con Montella, il quale mi diceva che comunque tutti gli altri carabinieri della stazione erano "sotto la sua cappella", compreso il comandante Orlando… alcune volte ho parlato anche con Falanga”, è il racconto dello spacciatore, citato dall’Ansa.

 Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 25 luglio 2020. Il canovaccio della storia era sempre lo stesso. Uno spacciatore beccato a vendere la roba proprio davanti agli occhi dei carabinieri della caserma Levante, che si trovano, curiosamente, nel posto giusto al momento giusto. Nel pieno della flagranza di un reato. Obbligati, dunque, a procedere all'arresto e al processo per direttissima. Il canovaccio, però, prevedeva un ulteriore scena: la reazione violenta del fermato, quasi sempre straniero, che resiste alle manette a suon di calci, sputi, morsi. Negli ultimi tre anni questa storia si è ripetuta periodicamente, a volte con cadenza settimanale. […]  Quei quaranta arresti adesso sono finiti tutti sotto inchiesta. I magistrati della procura di Piacenza […] vogliono capire quante di quelle catture in flagranza siano il frutto del "metodo Montella". Un metodo che annoverava, tra i suoi "strumenti", il pestaggio, la tortura, il ricatto, il traffico di droga. E che, nei prossimi giorni, potrebbe avere due conseguenze: l'iscrizione sul registro degli indagati di altri carabinieri e la contestazione dell'associazione a delinquere. […]

Estratto dell’articolo di Giuseppe Baldessarro per repubblica.it il 25 luglio 2020. Prostitute pagate con la droga, informatori che ricevevano il 10% dello stupefacente e dei soldi sequestrati in cambio delle soffiate e incontri nell'appartamento di "Nikita", trans di origini brasiliane, che gestiva una casa d'appuntamenti nel piacentino. Sono rivelazioni scioccanti quelle fatte da un giovane magrebino ai pm Matteo Centini e Antonio Colonna che indagano sul gruppo di carabinieri infedeli di Piacenza. Hamza Lyamani è il grande accusatore di Giuseppe Montella e degli altri militari della caserma Levante. […]: "Montella […] mi diceva che la mia parte, nel caso di informazione positiva, sarebbe stata pari al 10 per cento". Un accordo iniziato alla fine del 2016-inizio 2017 e durato 3 anni. Da quel momento Lyamani, per dirla con le parole dell'appuntato, è "sotto la sua cappella" (diventa un suo protetto). Ogni volta che lo spacciatore segnalava un altro pusher arrivava il 10 per cento dei soldi e della droga sequestrata: "Posso dire che la droga viene conservata all'interno di un barattolo in caserma". […]  In caserma quel barattolo lo chiamavano "la terapia". Per avere altre soffiate da girare ai carabinieri il magrebino si rivolge "al transessuale Nikita". La notizia viene girata a Montella e un altro spacciatore finisce nella rete degli aguzzini in divisa: "Al momento dell'arresto lo hanno picchiato forte ed è stato 3 giorni in ospedale con la vigilanza dei Carabinieri". Lyamani racconta anche gli aspetti più squallidi del gruppo di carabinieri: alcuni militari della Levante "conoscevano e frequentavano prostitute della città, tra le quali le transessuali che esercitavano in un appartamento gestito da una di loro. […] Aggiunge il giudice: "Il marocchino sapeva che anche tale "Valeria", una ragazza russa o ucraina, era solita ricevere da Montella della droga presso la stazione carabinieri, ricompensandolo con prestazioni sessuali". […]

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2020. Nuovi episodi di violenze ed altra droga aggravano la posizione dell'appuntato Giuseppe Montella. I primi interrogatori dell'inchiesta sulla caserma Levante dei carabinieri di Piacenza confermano e irrobustiscono le accuse alla base dell'arresto di sei militari e di una decina di spacciatori loro complici, mentre il Comando generale azzera i vertici di quello provinciale. A fare le prime ammissioni sono stati i pusher complici della banda di via Caccialupo che hanno ammesso al Gip Luca Milani, che li ha interrogati nel carcere di Cremona alla presenza dei pm Matteo Centini e Antonio Colonna, di aver spacciato hashish e marijuana per conto di Montella, diventando anche suoi informatori. Hanno rivelato altri arresti illegali in cui il militare avrebbe picchiato i pusher e si sarebbe appropriato della droga, girandola ai «galoppini» che spacciavano per lui nella piazza di Piacenza, che per anni è stata nelle mani di un gruppo di carabinieri senza scrupoli, stando alle accuse della Procura guidata da Grazia Pradella. Interrogati, ma nel carcere di Piacenza, anche i primi due dei carabinieri arrestati per reati gravissimi che vanno dalla tortura ad arresti illegali per guadagnare l'approvazione dei superiori, dal peculato al traffico di droga che hanno portato al sequestro dell'intera caserma. Entrambi scaricano su Montella. L'appuntato Angelo Esposito, difeso dall'avvocato Pierpaolo Rivello, ha rigettato ogni responsabilità. «Ha detto di aver partecipato alle operazioni dirette da Montella, ma di non aver mai saputo delle attività illegali. Non è mai stato presente a violenze». L'avvocato descrive un «uomo distrutto» che è «crollato» psicologicamente piangendo di fronte ai pm. Esposito ha anche detto ai magistrati che, se si fosse arricchito, non vivrebbe in «un alloggio di servizio». Il carabiniere Daniele Spagnolo, invece, ha ammesso la sua presenza in alcuni episodi contestati, sostenendo di non aver mai fatto nulla di illegale. «Facevo quello che mi dicevano senza sapere cosa c'era a monte», ha dichiarato assistito dall'avvocato Francesca Beoni. Oggi sarà la volta di altri tre carabinieri, tra cui lo stesso Montella. Da lunedì il colonnello Paolo Abrate, che da comandante del Gruppo Milano ha coordinato l'intervento per il sequestro del bus di bambini a San Donato, sostituirà il colonnello Stefano Savo alla guida del comando provinciale. Cambiano anche i vertici degli uffici investigativi: il tenente colonnello Alfredo Beveroni e il maggiore Lorenzo Provenzano guideranno Reparto operativo e Nucleo investigativo. Un provvedimento che «ha lo scopo di consentire il sereno e regolare svolgimento del lavoro del comando, come ha convenuto il colonnello Savo - dicono al comando generale, dove è stato convocato ieri da Nistri - condividendo, con senso di responsabilità, la necessità di un avvicendamento per non pregiudicare ulteriormente i rapporti tra la cittadinanza e l'Arma». Nel 2018 la Levante ottenne una menzione particolare dalla Legione «per il ragguardevole impegno operativo».

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2020. «Noi dobbiamo viaggiare a numero uno, i numeri due li lasciamo agli altri, adesso a Piacenza poi stiamo solo noi... perché a Piacenza non ce n'è più nessuno». L'appuntato Peppe Montella è euforico. È in macchina con il socio Daniele Giardino e l'amico Tiziano Gherardi che su Facebook si fa chiamare con un soprannome piuttosto esplicito «Mezzo kg». Gherardi è uno degli spacciatori più attivi della piazza piacentina. Non a caso, ancora prima della confessione del pusher-pentito che farà partire l'inchiesta, è proprio lavorando su di lui che gli investigatori del Nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle iniziano a sospettare delle amicizie dell'appuntato della caserma Levante. I due parlano di droga, di soldi, degli ultimi affari: «Noi ieri abbiamo venduto venti chili». Le amicizie di Giuseppe Montella non sono segrete. Il profilo social del carabiniere lo testimonia. Nessuno però tra i superiori ha mai segnalato quegli strani rapporti tra pusher e carabiniere. «Tali frequentazioni apparivano, fin da subito, in evidente contrasto con lo status rivestito e l'attività svolta all'interno della stazione Carabinieri di Piacenza Levante - ricostruiscono gli investigatori - soprattutto considerato il coinvolgimento di Giardino e Gherardi in attività di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti anche volte all'approvvigionamento della piazza piacentina». Montella è un carabiniere dalla doppia vita, ugualmente «delinquente» come lo definiscono i magistrati che vive in una sorta di «film poliziesco anni '70» ma dove «i soprusi e le percosse non sono una finzione scenica». Da un lato abusa della sua divisa per «estorcere confessioni» a presunti spacciatori, picchia selvaggiamente i sospettati, organizza festini nella caserma di via Caccialupo. Dall'altro organizza traffici di droga, ne cura il trasporto insieme alla compagna Maria Luisa Cattaneo (ai domiciliari) e si spinge fino nell'hinterland milanese insieme a Giardino per acquistare partite di marijuana dai calabresi. Il Montella narcos si occupa di attività di «bonifica dei caselli autostradali» e «di scorta a tutela del trasporto di stupefacenti». Per gli inquirenti coordinati dal procuratore Grazia Pradella e dai pm Antonio Colonna e Matteo Centini, il 36enne sfrutta così «la sua posizione all'interno dell'Arma» per verificare l'eventuale presenza di controlli o pattuglie lungo il tragitto» e per reperire «informazioni sulle indagini». Come quando i fratelli Giardino vedono un posto di blocco al casello Piacenza sud. Sul furgone hanno tre chili di marijuana. Montella chiama un amico finanziere (indagato) che lavora nel nucleo cinofili e lo informa che non si tratta di un semplice «pattuglione» ma di un controllo mirato. Montella racconta al figlio undicenne del pestaggio di «un negro che scappava». Alla moglie illustra i risultati del traffico di droga. E insieme a un collega fa «la spesa» durante il turno di servizio. «L'immagine dell'Arma per l'ennesima volta ne esce danneggiata se solo si immagina quale opinione possa farsi nel vedere, in un momento delicato e di controlli nella contingenza dell'epidemia da Covid 19, due carabinieri a bordo di una pattuglia con i colori di istituto che sostanzialmente "cazzeggiano" occupandosi degli affari propri - scrivono i pm chiedendo gli arresti al gip-, quali ritirare latticini e un libro: una tracotanza fastidiosa». Dopo gli arresti sono iniziate le verifiche sull'attività della squadra di via Caccialupo: «Tutti gli arresti da fine gennaio in poi sono stati eseguiti tacendo che venivano promossi da sedicenti informatori, risultati essere, complici, o meglio, galoppini dell'appuntato Montella» e «rappresentando accertamenti sul territorio in realtà inesistenti». Ma soprattutto «macchiati indelebilmente da violenze e percosse inferte a coloro che erano nelle mani dei rappresenti dello Stato».

"Solo spacconate. Il pusher ferito? Era caduto". La difesa di Falanga: "Estraneo alle violenze". Tutti i colleghi accusano Montella. Lucia Galli, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. I soldi a ventaglio fra le mani e i sorrisi sicuri paiono diventati il logo del branco della Levante: «Sui giornali è finita una foto vecchia presa dai social: ricorda una vincita alla lotteria». Trovano una spiegazione per ogni episodio, ogni orrore, i militari che ieri, nel secondo giorno di interrogatori, nel carcere delle Novate di Piacenza, hanno cominciato a parlare. Oltre a loro anche gli altri pusher intonano la stessa litania: «Rispondevamo solo a lui, se non ci stavamo, erano botte». Un canto all'unisono anche se vagamente stonato che indica in Peppe Montella l'ideatore di questo romanzo scellerato di cui però tutti si sono ritrovati co autori. Un fraseggio talvolta da solisti per provare a dire che no; loro non avevano capito, non avevano visto o non c'erano. Così, gli addebiti più gravi vengono respinti. La sfuriata all'autosalone nel trevigiano per farsi fare uno sconto sull'Audi? Quella concessionaria oggi è sparita o non risulta all'indirizzo scritto nell'ordinanza, ed in ogni caso «Era una spacconata»: i toni della trattativa non sarebbero stati così «accesi». Lo stesso per quel sangue da pulire con lo scottex mentre Israel, il pusher, è a terra, fresco di arresto e trattamento. «È caduto nell'inseguimento». Lo ripetono anche Daniele Mancini e Paolo Molaschi, difensori di Giacomo Falanga, classe 1981, da Pozzuoli a Somaglia per servire, da appuntato scelto, prima lo Stato poi, il delirio del collega. Lui ha chiarito la sua posizione in 2 ore di interrogatorio davanti al gip Luca Milano, professandosi estraneo «a qualsiasi violenza», senza lacrime, senza mani sul volto, come invece avevano fatto i colleghi sentiti venerdì. In questo gioco dove le guardie sembrano diventate ladri e dove tutti, soprattutto, temevano di passare per infami, si delinea un obiettivo: marcare la differenza dal «Peppe» che si era fatto la villa, le auto e la bella vita. Loro, no: alloggi di servizio, compatibili con lo stipendio da militare, nessuna dolce vita. Solo uno dei sei militari ha scelto di non parlare. Salvatore Cappellano, 37 anni catanese, è appuntato scelto e vive a Rottofreno sul Trebbia, non lontano da uno dei locali coinvolti nell'indagine: a La Monella si esibiva Romina Pecorari che, fra un ballo e l'altro faceva passare anche le dosi ed infatti è finita nel giro di via Caccialupo. Secondo l'accusa e quell'ordinanza di 326 pagine che riassume 17mila intercettazioni, molti degli arresti erano gonfiati e condotti con metodi illegali. Le indagini si spingono indietro fino al 2017, per intensificarsi negli ultimi 5 mesi, durante il lockdown. Nel 2013 Piacenza aveva già assistito ad un'inchiesta simile e pesante: ad essere coinvolti allora sei poliziotti della squadra narcotici della Mobile per favoreggiamento della prostituzione, falsificazione d'atti d'ufficio. E la storia sembra ripetersi: ad indagare sette anni fa, prima di passare a Vigevano e poi a Cremona, fu proprio il maggiore dei carabinieri Rocco Papaleo, lo stesso che con le sue dichiarazioni, oggi ha contribuito a scoperchiare il vaso di Pandora sulla caserma di Piacenza. La città erò non ci sta: c'è chi si dice sorpreso, rattristato ed incredulo. Su tutti Guido Martucci barista che anni fa fu salvato proprio da Montella dopo un infarto dietro al bancone e che ai cronisti ricorda: «Beveva il caffé, mi ha salvato la vita». Nelle vie vicino alla caserma tutti ricordano i modi affabili di quegli uomini in divisa. Nessun dubbio invece per i pusher e la varia umanità dei giardini Margherita: quando arrivavano quelli della Levante erano sempre guai. D'altro canto, secondo il tribunale, l'obiettivo era chiaro: produrre numeri, essere sempre i primi della classe, anche se questo significava gonfiare arresti e successi. A far chiarezza penserà anche l'indagine del tribunale militare, mentre il Ris di Parma, la settimana prossima, cercherà tracce di pestaggi nella caserma sigillata. I nuovi carabinieri operano ancora su unità mobili, mentre i vertici dell'Arma provinciale sono stati azzerati e non si esclude che possano esservi nuovi provvedimenti. Lunedì riprenderanno gli interrogatori: al coro mancano ancora alcune voci.

Botte e violenze in caserma, la trans minacciata dal comandante: "Collabora o ti rispedisco in Brasile". Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da Giuseppe Baldessarro su La Repubblica.it La transessuale, costretta a fare sesso e minacciata più volte dal maresciallo Orlando, ha chiesto di essere ascoltata dai magistrati che indagano sui carabinieri arrestati della stazione Levante di Piacenza. "Se non collabori, se non mi dai lavoro, in un modo o nell'altro ti frego e ti rimando in Brasile". Sophie (nome di fantasia) preferisce non usare il suo vero nome "perché ha paura", ma è pronta a parlare con i pm di Piacenza. Vuole raccontare tutto quello che sa dell’appuntato Giuseppe Montella e dei suoi colleghi carabinieri della stazione Levante. A minacciarla di "rispedirla in Brasile" è stato il comandante della stazione, il maresciallo Marco Orlando, che secondo il racconto avrebbe rivolto alla transessuale diverse minacce del genere. I fatti risalgono ad un anno e mezzo fa, quando il "sistema criminale" messo in piedi alla Levante, secondo le accuse della Procura, era ancora sconosciuto. La trans, da tempo a Piacenza, tramite il suo avvocato Elena Concarotti ha presentato ai magistrati una richiesta di essere sentita come persona offesa e costituirsi parte civile. "Sono stata minacciata più volte", racconta, aggiungendo di esser stata obbligata a fare sesso e di esser stata picchiata all’interno della caserma. La sudamericana in passato aveva collaborato con la polizia come informatore. Caduta in disgrazia, secondo il suo racconto, aveva iniziato a informare i carabinieri sempre sul mondo dello spaccio. L’attività di "spia" l’ha porta a subire alcune aggressioni, tanto che in passato è pestata da alcuni pusher, appena usciti dal carcere, che la ritenevano responsabile del loro arresto. Sempre secondo il suo racconto, con i carabinieri della Levante ha avuto un ruolo legato ai movimenti dello spaccio e della prostituzione. Ai pm Matteo Centini e Antonio Colonna, vuole raccontare tutto: "Spero finalmente che ci sia qualcuno disposto ad ascoltarmi".

Michele Sasso per la Stampa il 27 luglio 2020. «Se non collabori, se non mi dai lavoro, in un modo o nell' altro ti frego e ti mando in Brasile. Puoi anche scappare perché qui non ti faccio più mettere piede». Sono le minacce che il comandante della stazione Levante di Piacenza, il maresciallo Marco Orlando, avrebbe rivolto a una transessuale in diverse occasioni già un anno e mezzo fa, quando il «sistema criminale» dei carabinieri infedeli, messo in piedi sotto i suoi occhi, era ancora sconosciuto. Nella caserma della centralissima via Caccialupo sarebbero avvenuti numerosi abusi e i militari l' avrebbero usata come quartier generale per gestire lo spaccio, compiere arresti illegali e persino torture. Orlando è finito agli arresti domiciliari e oggi sarà interrogato dal giudice per le indagini preliminari ma nel frattempo piovono sui tavoli della procura le richieste di persone che vogliono essere ascoltate e che si dicono disposte a raccontare altri episodi legati alla maxi inchiesta che ha coinvolto dieci militari, numerosi spacciatori e scosso l' intera Arma. Francesca (nome di fantasia), è una trans brasiliana, 48 anni, una vita sulla strada e un fisico debilitato soprattutto dall' Aids, tanto da pesare appena 35 chili. Tramite il suo avvocato, Elena Concarotti, ha presentato ai magistrati una richiesta per essere ascoltata come persona offesa. Informatrice delle forze dell' ordine sul mondo dello spaccio da oltre 10 anni, è stata più volte aggredita e pestata con violenza da alcuni pusher, appena usciti dal carcere, che l' avevano ritenuta responsabile del loro arresto. Dal suo racconto emergono altri particolari di feste a luci rosse e violenze nella caserma Levante che devono essere ancora passate al vaglio degli inquirenti. «È iniziato tutto due anni fa e siamo andati avanti fino alla scorsa estate: grazie alla mia amica trans Nikita ho partecipato ad almeno quattro festini hard dentro la stazione di via Caccialupo. Con molta discrezione, insieme ad altre prostitute, entravamo uno alla volta, di notte: entravamo e i carabinieri ci sequestravano i cellulari per evitare di fare foto o video. A fornirci di droga era il maresciallo Orlando: la tirava fuori e la metteva su un piatto e tutti pippavamo cocaina. Mi ricordo che c' era un sacchetto con almeno mezzo chilo di roba». Secondo il racconto di Francesca a organizzare le orge era Nikita che portava transessuali ed escort per soddisfare le richieste dei carabinieri. Quando non era possibile in caserma, si spostavano di poche centinaia di metri a casa di Nikita ma i militari erano sempre in divisa. «Mi trattavano come la regina di Monaco, avevano un debole per me che batto da 20 anni. Il maresciallo e gli altri carabinieri erano dei depravati, facevamo sesso di gruppo a go-go, fantasie erotiche molto spinte e cocaina senza fine. Andavamo avanti tutta la notte fino alle prime luci dell' alba. Per pagarci ci lasciavano prendere tutta la cocaina che volevamo dal sacchetto». Nonostante questi incontri ravvicinati, anche Francesca è stata vittima della banda: «Una volta mi hanno fatto un dispetto e portato in giro tutta la notte per trovare i trafficanti e quando siamo tornati in caserma mi hanno minacciata e spinta fino a cadere per terra». Botte che anche altre prostitute hanno dovuto subire. «C'è un'altra trans, Flavia, anche lei è stata picchiata dai carabinieri. Molte di noi sono state minacciate se non facevano quel che dicevano loro». Quando Francesca ha saputo la notizia degli arresti ha pensato che fosse finalmente arrivato il suo momento. «Ora qualcuno mi ascolterà. Mi hanno massacrata di botte, tante volte mi sono ritrovata in strada con la testa spaccata».

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per il ''Corriere della Sera'' il 28 luglio 2020. Prove certe ancora non ce ne sono. C' è un racconto, quello che l' appuntato Giuseppe Montella fa a un collega mostrando anche un' immagine sul telefonino. E ci sono voci, dicerie, pettegolezzi su quel che di notte accadeva dentro la caserma di via Caccialupo. «Lo scenario di un' orgia», lo definiscono gli investigatori negli atti. «Ma quali feste....» sbotta il comandante della caserma, Marco Orlando uscendo dal palazzo di giustizia di Piacenza dopo che ha deciso di non rispondere alle domande del gip Luca Milani nel primo interrogatorio seguito agli arresti domiciliari nell' inchiesta che, per la prima volta in Italia, ha visto il sequestro di una caserma dei Carabinieri. Le carte delle indagini, invece, raccontano tutta un' altra storia, registrata fedelmente dal captatore informatico con cui i pm Matteo Centini e Antonio Colonna hanno trasformato in una microspia il telefonino dell' appuntato Montella, il perno sul quale ruotavano, dice l' accusa, i reati che venivano commessi in via Caccialupo. Il 3 marzo scorso, i due militari chiacchierano di una serata avvenuta tempo prima. Montella mostra il telefonino al collega. Per gli inquirenti si tratta della foto di una escort. Dopo una serie di riferimenti sessuali, l' appuntato scelto Salvatore Cappellano ricorda: «Ma lo sai che, comunque, questa qua poi non ha parlato...». «No, zero, zero! Questa non ha fiatato. È venuta in caserma. Io ero andato a prendere la Manuela, questa non sapevo chi era, mi sono trovato questa: "Vengo pure io", non ha detto una parola». Poi Montella spiega che quella serata era «dedicata a Giacomo», l' appuntato scelto Falanga, e che il collega e le due ragazze hanno avuto un rapporto sessuale nell' ufficio del comandante Orlando: «Mentre Manuela urlava come una dannata... il cappello di Orlando, la giacca, ha buttato tutte le pratiche per terra, mamma mia che bordello». Nelle carte dell' inchiesta «Odysseus» si fa riferimento anche a «festini» con transessuali e prostitute. Ipotesi ancora tutte da verificare. Ne parla il marocchino che, su invito di un maggiore dei carabinieri, si presenta in procura per raccontare il «sistema» della caserma di via Caccialupo: «In un' occasione ho portato Montella in una casa all' incrocio tra Via Roma e Via Borghetto dove alcune cinesi si prostituiscono. L' ho accompagnato io ma ha pagato il carabiniere». L' ex confidente parla anche di Nikita, trans «che abita in centro e che gestisce altri 5 trans». Anche lei sarebbe stata ripagata con droga per le soffiate date a Montella: «Nikita mi ha detto che abbiamo molti amici in comune tra cui Orlando che è il comandante». Il maresciallo, uscendo dal palazzo di giustizia (occhiali scuri, valigetta e mascherina) insieme al legale, l' avvocato Antonio Nicoli, davanti ai giornalisti ha sussurrato: «Dopo 30 anni di onorata carriera come posso stare? Mai avuto una sanzione disciplinare. Ma quali feste...». Intanto una transessuale brasiliana di 48 anni tramite il suo avvocato Elena Concarotti ha chiesto di essere interrogata denunciando abusi subiti dal comandante Orlando: «Mi hanno massacrata di botte, tante volte mi sono ritrovata in strada con la testa spaccata». Sarà ascoltata nei prossimi giorni dalla Gdf. Allo stesso modo alcuni pusher hanno chiesto di parlare con gli investigatori. I loro racconti verranno vagliati con la massima attenzione per evitare il rischio di speculazioni. Davanti al gip anche Mery Cattaneo, la fidanzata di Montella adesso ai domiciliari per spaccio. Dalla donna parziali ammissioni. Oggi verrà sentito, invece, il maggiore Stefano Bezzeccheri, ex comandante della Compagnia sottoposto all' obbligo di dimora. È accusato di abuso d' ufficio per non aver segnalato due assuntori di stupefacenti (informatori di Montella). La caserma Levante, ricavata in un ex convento del XIV secolo, intanto resta sotto sequestro. Il legale dell' appuntato scelto Angelo Esposito, ha fatto richiesta di incidente probatorio in merito agli esami scientifici da eseguire negli uffici. Il sopralluogo era previsto per oggi con i Ris di Parma. L' Arma sperava di chiudere quanto prima questa pagina dolorosa e di poter riaprire l' attività della Levante. Ma adesso i tempi del dissequestro si allungano.

Giuseppe Baldessarro per ''la Repubblica'' il 27 luglio 2020. «Quando ci portavano per le feste in caserma coprivano le telecamere per evitare che fossimo visti. Poi dentro si faceva sesso e ci pagavano con la droga». Sophia, trans sudamericana, il suo vero nome non lo vuole dire perché ha «paura». Il suo avvocato Elena Concarotti ha chiesto alla procura che indaga sui fatti della Levante che la sua assistita venga sentita come vittima, e vuole costituirsi parte civile contro i carabinieri.

Sophia, lei parla di festini e droga in caserma.

«Ne parlo perché c' ero. C' ero io, c' era Nikita, e altre trans. È successo tre o quattro volte. Ci venivano a prendere con le macchine dei carabinieri, quando entravamo coprivano le telecamere e ci tenevano fino all' alba a fare sesso. Ci pagavano con la droga, quando arrivavamo la trovavamo già pronta in una specie di piattino».

Chi vi aspettava alla Levante?

«C' era il comandante della stazione Marco Orlando, poi c' era un carabiniere rossiccio di capelli. Ho visto altri carabinieri in divisa e altri in abiti civili, non so se erano carabinieri, ma se mi facessero vedere le fotografie sono sicura di poterli riconoscere».

Quando ha iniziato a fare le soffiate per i carabinieri?

«È una storia lunga. Prima ero un' informatrice della polizia. Gli dicevo chi aveva la droga e loro mi aiutavano con le pratiche. Poi con gli anni le cose sono cambiate. Allora mi hanno contattato quelli della Levante e mi hanno costretto a lavorare per loro».

Costretto?

«Sì, due anni fa Orlando mi ha detto "hai fatto fare carriera a mezza polizia, ora aiuta noi a prendere qualche stelletta". Poi mi minacciava dicendo: "Se non collabori, se non mi dai lavoro, ti frego e ti rimando in Brasile"».

Così ha iniziato a fare l' informatrice.

«Si, è andata così. Anche Nikita era un' informatrice. Lei era potente perché era la protetta di Orlando. Teneva in pugno le altre trans. Avevo paura di Nikita».

L' hanno mai picchiata?

«No quello no, solo qualche spinta. Ma c' è un' altra trans, una mia amica che ora è a Roma, si chiama Flavia, che è stata picchiata dai carabinieri».

Ora ha deciso di denunciare?

«In passato avevo denunciato alla polizia. Ho raccontato cosa succedeva alla Levante, ma nessuno ha fatto niente e io ho iniziato a temere per me. Già una volta un gruppo di spacciatori, uscendo dal carcere, mi ha aggredito e malmenato dicendo che avevo fatto io la soffiata che li aveva fatti arrestare. Dopo l' indagine ho visto che i magistrati fanno sul serio e voglio raccontare loro tutto quello che so». 

Le rivelazioni choc sulla caserma: ​"Maniaci, lì fanno sesso animale". Francesca è una trans che frequentava la caserma dei Carabinieri di Piacenza e a Radio Capital ha svelato alcuni nuovi dettagli sulla vicenda. Francesca Galici, Giovedì 30/07/2020 su Il Giornale. Sono emersi nuovi dettagli nel caso della caserma dei Carabinieri di Piacenza, posta sotto sequestro e ormai ribattezzata "caserma degli orrori". L'ultima in ordine di tempo a rilasciare la sua testimonianza pubblica è una trans, Francesca, che in un'intervista a Radio Capital ha raccontato la sua esperienza, con particolari agghiaccianti e nuove rivelazioni che potrebbero dar vita a un nuovo filone investigativo.

Escort, trans e ricatti in caserma: la vita dei carabinieri di Piacenza. Stando alla sua ricostruzione dei fatti, il deus ex machina dei festini sarebbe il maresciallo Orlando, ora agli arresti, che avrebbe preteso la collaborazione della trans mediante ricatto: "Se non lavoravo per lui faceva in modo di incularmi, di mandarmi in Brasile". Ammette che nessuno le abbia mai chiesto di vendere droga ma ha dichiarato di essere stata picchiata nell'ambito di aggressioni sessuali di quelli che lei definisce "Maniaci del sesso, perché loro sono maiali era sesso a go-go, droga a go-go". Francesca a Radio Capital non usa mezze misure per descrivere l'atmosfera da lei percepita all'interno della caserma: "Era un puttanaio, almeno quattro volte abbiamo fatto feste con sesso e droga".

Piacenza, nella caserma degli orrori un giovane carabiniere si oppone. Pare che i carabinieri le chiedessero di fare sesso senza protezione, cosa che lei si sarebbe sempre rifiutata di fare essendo sieropositiva: "Sono tutti gay perché succhiano cazzi. Scopa fica, scopa culo, succhia cazzo, vuol dire che sono gay, però io ho usato sempre il mio guanto con loro, perché lo sapevo che questa bomba esplodeva, io sono andata in caserma 3 o 4 volte". Nella sua lunga intervista radiofonica, Francesca fa una rivelazione inedita sui possibili coinvolgimenti in questa turpe vicenda, che potrebbe allargare il campo delle indagini. Ai microfoni di Radio Capital, infatti, rivela che anche la Polizia di Stato sapeva, perché "Uno di loro veniva a casa mia e una volta sono andata a sporgere denuncia. Sono fatti che sono successi da tanto tempo a Piacenza, non solo con la caserma dei Carabinieri, ma anche la Questura". Francesca ammette che da qualche tempo non si sono più verificati questi scenari con la Polizia ma ha dichiarato che in passato "Anche loro ne hanno combinate di tutti i colori". Francesca non ha mai voluto parlare prima d'ora, ma ora che i fatti di Piacenza sono venuti alla luce ha deciso di raccontare anche la sua esperienza: "Cosa devo fare? Mi devo ammazzare, mi suicido? È ora che mi sfogo e tiro fuori la lingua, è arrivato il momento".

Da “Radio Capital” il 28 luglio 2020.

Francesca, chi è il responsabile dei Festini in Caserma?

Il responsabile è il maresciallo Orlando, della caserma di via Caccialupo. Quella caserma era un puttanaio, almeno quattro volte abbiamo fatto feste con sesso e droga.

Il Comandante Orlando le chiedeva di lavorare per lui?

Di lavorare per lui e se non lavoravo per lui faceva in modo di incularmi, di mandarmi in Brasile.

Ti faceva vendere droga?

No, questo non me lo ha mai proposto.

Ti hanno mai picchiato?

Un po’ di botte le ho prese, ma erano aggressioni sessuali, sono i maniaci del sesso, perchè loro sono maiali era sesso a go-go, droga a go-go.

Lei è sieropositiva?

Io sono sieropositiva, ma uso sempre il preservativo.

Ti hanno mai chiesto di farlo senza protezione?

Certo, loro volevano fare tutto senza protezione ero io che frenavo. Le altre lo facevano senza, ma io no. Loro facevano sesso violento, sesso animale.

Ma le chiedevano anche sesso passivo, senza protezione?

Certo, sono tutti gay perché succhiano cazzi. Scopa fica, scopa culo, succhia cazzo, vuol dire che sono gay, però io ho usato sempre il mio guanto con loro, perché lo sapevo che questa bomba esplodeva, io sono andata in caserma 3 o 4 volte.

La Polizia sapeva di quanto accadeva in caserma?

Sapeva che uno di loro veniva a casa mia e una volta sono andata a sporgere denuncia. Sono fatti che sono successi da tanto tempo a Piacenza, non solo con la caserma dei Carabinieri, ma anche la Questura. Adesso si sono calmati ma anche loro ne hanno combinate di tutti i colori.

Cosa devo fare? Mi devo ammazzare, mi suicido? E’ ora che mi sfogo e tiro fuori la lingua, è arrivato il momento.

Carabinieri di Piacenza, la trans accusa: "Denunciai già un anno fa", ma i verbali sono spariti. Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. C'è un circuito di coperture che emerge mano mano dall'inchiesta sulla Caserma Levante di Piacenza. Omissioni, occhi chiusi e questa volta non riguardano solo i carabinieri ma anche la polizia almeno stando a sentire il racconto di una transessuale riportato sulle pagine del Fatto quotidiano. Oltre un anno fa la trans, informatrice della caserma Levante, entra nella questura a Piacenza e racconta di ricevere visite a casa di un carabiniere.  "Sono andata in questura - dice la donna - per avvertire che c'era un carabiniere che si approfittava della mia situazione di inferiorità e mi chiedeva prestazioni sessuali". Verbali rilasciati più volte ad una poliziotta, racconta. Ora di queste segnalazioni in procura non sanno nulla.  Non ve ne è traccia infatti nel fascicolo che qualche giorno fa ha portato all'arresto di sei carabinieri (tutti in carcere tranne uno ai domiciliari), accusati a vario titolo di abuso d'ufficio, lesioni, spaccio di droga e tortura. I pm, secondo quanto risulta al Fatto, adesso però disporranno accertamenti per capire se e come mai quella denuncia non sia arrivata sulla scrivania dei magistrati. Inoltre bisognerà verificare l'attendibilità della trans e capire a quale dei carabinieri si riferisce il suo racconto.  La trans ha raccontato anche di aver partecipato a presunti festini organizzati in caserma, senza rivelare chi fosse presente. Di "serate" in caserma vi è traccia negli atti dell'inchiesta. Dalle intercettazioni tra due militari infatti si fa riferimento, secondo quanto ricostruito dal gip, a una serata organizzata "all'interno della Caserma alla presenza di due donne, presumibilmente escort, con le quali erano stati consumati rapporti sessuali". Nessun reato, come sottolinea il gip: "Non sono forse ravvisabili reati in simili condotte, ma dalla descrizione delle stesse traspare ancora una volta il totale disprezzo per i valori della divisa indossata dagli indagati". 

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 30 luglio 2020. «Lo vedi il naso? Me l' hanno spaccato due volte. Mi hanno pestato, riempito di botte». Adesso però sono tutti in carcere. «Ma io non vivo più. Bevo e non dormo la notte. Ho fatto bene? Con la paura che mi uccidano». Hamza Lyamani ha 26 anni. È nato in Marocco ma, dice in perfetto dialetto, «sum piaseintein», sono piacentino, «ho fatto le scuole qui». Hamza è il grande accusatore di Peppe Montella e dei carabinieri della caserma Levante. È al tavolino di un bar di Fiorenzuola d' Arda. Pantaloni corti, maglietta grigia sgualcita. Nelle mani un vecchio cellulare che accende infilando un pezzo di stuzzicadenti in una fessura. Accetta che la conversazione venga registrata. Si guarda intorno, le mani e la voce tremano.

Cominciamo dall' inizio.

«Montella l' ho conosciuto da ragazzino, faceva il preparatore atletico a calcio. Non sapevo fosse carabiniere».

E quando lo scopre?

«Nel 2016 mi arrestano con un po' di hashish preso con gli amici. Carabinieri, ma di via Beverora, del provinciale».

Cosa succede dopo?

«Mi affidano in prova con obbligo di firma alla Levante. Entro e trovo Montella: "Se mi dici chi spaccia ti faccio venire a firmare quando vuoi"».

A quel punto lei collabora.

«Non subito. Non toccavo cocaina, lui inizia a pagarmi con fumo e bamba . Chi doveva aiutarmi mi ha fatto precipitare ancora di più...».

Quanti arresti ha fatto fare alla squadra di Montella?

«Almeno trenta. Me ne vergogno. Perché poi venivano pestati a sangue e incastrati».

Come?

«Si spezzava la droga, l' accusa diventava spaccio. Li ho aiutati anche io, in caserma».

Lei frequentava la Levante?

«Praticamente tutti i giorni. Li conosco uno a uno».

Ha assistito a pestaggi?

«Ricordo le urla disumane di un poveretto che era nella "stanza della terapia", dove tenevano la droga sequestrata. Lo stavano picchiando. E in ufficio si sentiva benissimo. C' era anche il comandante».

Poi toccò a lei.

«Avevo una brava ragazza, per questo volevo smettere. Montella ha iniziato a pedinarmi all' associazione dove facevo l' affido, al Sert. Mi impediva di entrare».

Poi cosa è accaduto?

«Hanno iniziato a picchiarmi. Mi chiudevano nello stanzino, due mi colpivano e due fingevano di volermi aiutare».

Perché non ha denunciato con il suo avvocato?

«Era lo stesso che difende Montella, un suo caro amico».

Glielo aveva indicato lui?

«No, era il legale di un mio conoscente. L' ho scelto per quello».

Cosa le hanno fatto?

«Hai presente le torture? Calci, pugni. Mi ha rotto il naso due volte. Ricordo che un giorno ho preso un pezzo dell' accendino e mi sono tagliato le braccia (mostra i segni, ndr) sperando che mi facessero andare in ospedale».

È mai stato al pronto soccorso?

«Sì, ma non dicevo la verità. Chi mi avrebbe creduto?».

Poi decide di confidarsi con il maggiore Papaleo.

«Gli ho raccontato e mi ha detto: "scappa o ti ammazzano, ti buttano nel Po". Era già a Cremona, ma mi fidavo solo di lui. Aveva arrestato i poliziotti anni prima».

Ai magistrati ha parlato anche di festini.

«Sì, in caserma. Un giorno mi chiama Montella e dice. vieni qui, sto sco.... E mi fa vedere una ragazza tossica che faceva sesso con lui in cambio di droga».

Montella le ha anche pagato prostitute?

«Andavamo in un centro massaggi cinese».

Perché secondo lei un carabiniere ha fatto tutto questo?

«Per i soldi. Il potere. Non l' ho mai visto drogarsi. Ma così era considerato un bravo carabiniere, aveva amicizie importanti. Con le ragazze si spacciava per politico».

E di quale partito?

«Nessuno, era per darsi delle arie qui a Piacenza». 

Cosa pensa di lui?

«Che è un porco, gli piaceva dominare gli altri. Mi ha rovinato».

Adesso vuole scappare?

«Sì, i proprietari di casa mi vogliono cacciare perché hanno paura che vengano qui a picchiarmi. Temo che mi uccidano davvero adesso».

Dagospia il 28 luglio 2020. Riceviamo e pubblichiamo da “Striscia la Notizia”. Caro Dago, un anno fa l’inviato di Striscia la notizia Vittorio Brumotti, contattato dai cittadini esasperati, era a Piacenza per documentare lo spaccio di droga in pieno giorno. Durante le riprese venne minacciato da un pusher in un modo che oggi, dopo lo scandalo della caserma Levante, appare molto meno paradossale di allora: “Ti denuncio”, urlò con arroganza lo spacciatore a Brumotti!

Carabinieri di Piacenza, Striscia la Notizia e il servizio di Brumotti: il dettaglio clamoroso, ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. Un anno fa l’inviato di Striscia la notizia Vittorio Brumotti, contattato dai cittadini esasperati, era a Piacenza per documentare lo spaccio di droga in pieno giorno. Durante le riprese venne minacciato da un pusher in un modo che oggi, dopo lo scandalo della caserma Levante, appare molto meno paradossale di allora: “Ti denuncio”, urlò con arroganza lo spacciatore a Brumotti.  Lo stesso programma di Antonio Ricci rilancia il video in questione dove è lo stesso spacciatore a inveire contro l'inviato della trasmissione di Canale 5 in un paradossale capovolgimento della realtà, dove chi denuncia un reato viene a sua volta minacciato. Il messaggio di Striscia è chiaro, probabilmente lo spacciatore si sentiva tutelato.

Da adnkronos.com il 28 luglio 2020. Mentre si attende l’inizio, nel primo pomeriggio di oggi, degli interrogatori di garanzia dei carabinieri arrestati nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Piacenza che ha portato al sequestro della caserma Levante, lo scenario descritto dall’indagine "Odysseus" richiama alla mente un altro episodio avvenuto nel 2013, sempre nel capoluogo di provincia emiliano-romagnolo. All’epoca, infatti, a Piacenza venne smantellato un traffico di droga e prostituzione e sei agenti della Questura vennero arrestati assieme ad altre sette persone. I reati contestati nell’ambito dell’inchiesta, fra gli altri, furono spaccio di sostanze stupefacenti, favoreggiamento della prostituzione e dell'immigrazione clandestina, falsificazione di atti d'ufficio da parte di pubblici ufficiali al fine di garantire l'impunità ai coindagati e contraffazione di documentazione per agevolare il rinnovo del permesso di soggiorno a straniere dedite all'esercizio della prostituzione.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 28 luglio 2020. Vengono da lontano, i veleni che si respirano intorno ai carabinieri di Piacenza, e che fanno un po' da motore e un po' da sfondo all' inchiesta che ha spedito in galera per tortura e traffico di droga quasi l' intero organico della stazione Levante. È da anni che qualcosa non va, nell' Arma. Il repulisti con cui due giorni fa il Comando generale ha cacciato via d' urgenza l' intera linea gerarchica ha un precedente identico, pochi anni fa. Anche allora la Procura indagava sui carabinieri, anche allora Roma azzerò i comandi. La differenza è che allora l' inchiesta rimase segreta, nessuno ne seppe niente, i trasferimenti furono presentati come normali avvicendamenti. Col senno di poi, fu forse un errore. Perché quel segreto ha continuato a circolare sotto traccia, ad ammorbare l' aria, a tenere vivi odi tra colleghi. Fino al big bang di sei giorni fa. Insieme ai veleni, aleggia sull' Arma piacentina un mistero. Che fine hanno fatto i due milioni di dollari falsi sequestrati nel 2013 a una banda di trafficanti italiani ed africani e spariti da un ufficio del comando provinciale? Era questo il tema della prima inchiesta, quella condotta lontano dai riflettori. Tutto comincia il 6 novembre 2013, quando i carabinieri arrestano diciannove persone per «associazione a delinquere finalizzata alla introduzione nello Stato e alla spendita di banconote falsificate». Ci sono anche facce pulite: commercianti, ristoratori, proprietari di locali notturni, che annegavano un fiume di dollari falsi tra il contante dei loro esercizi. Dollari di ottima fattura, realizzati partendo da biglietti veri da un dollaro e ristampati come cento. A condurre l' inchiesta, il maggiore Rocco Papaleo: lo stesso ufficiale che ora è in servizio a Cremona e che all' inizio di gennaio ha dato il via all' inchiesta sulla stazione Levante, consegnando i file con i racconti scioccanti dei confidenti dell' appuntato Peppe Montella e dei suoi colleghi. Quel giorno di novembre, la retata dei trafficanti di dollari (coltamente ribattezzata E unum pluribus) finisce su tutti i giornali e tg, poi non se ne parla più. Ma nei giorni successivi accade qualcosa di cui invece non c' è traccia, e che può essere ricostruito solo grazie al passaparola che in questi sei anni ha continuato ad agitare le caserme della Benemerita. Il passaparola dice che la parte più consistente della massa di soldi falsi sequestrata dal Nucleo investigativo viene portata nella caserma del Comando provinciale, in via Beverora. E qui, a un certo punto, sparisce nel nulla. Qualcuno, dall' interno dell' Arma, fa arrivare la notizia alla Procura della Repubblica, che ovviamente deve aprire una indagine. Che però non arriva da nessuna parte. Il fascicolo viene aperto contro ignoti, e contro ignoti viene archiviato. L'Arma però non può restare ferma, e reagisce come reagirà sei anni dopo: azzera la catena di comando, il rimedio consueto e inevitabile quando ci si rende conto che qualcosa si è rotto nei meccanismi di controllo. La vicenda viene inghiottita dal silenzio. Dei due milioni di dollari falsi non si è più saputo nulla. Chi li aveva presi, si è fatto le sue idee sul Giuda che lo ha denunciato. Chi ha avuto senza colpe la carriera rovinata, difficilmente ha perdonato. E ora la nuova inchiesta sulla Levante butta sale su quella ferita mai davvero ricucita. E così diventa inevitabile tornare a chiedersi: cosa è successo in questi anni a Piacenza? Come è possibile che nel cuore del profondo nord si susseguano storie che vedono gli uomini delle forze dell' ordine, i «buoni» per antonomasia, nel ruolo dei «cattivi»? Ad aprile 2013 la retata dei poliziotti corrotti e spacciatori, sei mesi dopo la storia dei dollari spariti, adesso le botte, i festini, la droga nella caserma di via Caccialupo. E c' è chi ricorda che anche a Palazzo di giustizia non tutto è filato sempre liscio: nel 2009 arrestarono per corruzione una cancelliera della Procura che vendeva i segreti d' ufficio, le trovarono un diario con la storia di dieci anni di magheggi. Che fine ha fatto quel diario?

Estratto dall'articolo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per “la Repubblica'' il 28 luglio 2020. Il muro di omertà e bugie crolla sulla planimetria della caserma Levante. Quella pletora di "non ho visto niente", "non ho sentito niente", "ero nell' altra stanza", propinati dai carabinieri al giudice per le indagini preliminari durante gli interrogatori di garanzia sbatte fragorosamente contro la disposizione interna della stazione posta sotto sequestro dalla procura di Piacenza: uno stanzone unico senza alcun divisorio, quattro scrivanie, i computer degli indagati con i quali venivano compilati tutti gli atti e i verbali degli arresti uno accanto all' altro. Chiunque abbia lavorato in quella caserma, la seconda della città, non poteva dunque non accorgersi dei pestaggi, delle torture e degli abusi che il trojan installato sul cellulare di Montella hanno documentato nella loro ignobile crudezza. Chi era in quella stanza ha visto e sentito. E, non soltanto non è intervenuto. Ma, come impongono il codice penale e il senso civico, non ha nemmeno denunciato. (…) I finanzieri, durante la perquisizione, hanno trovato mazzette di contanti in un cassetto. In tutto, circa duemila euro. «In un mese abbiamo guadagnato quattromila euro, li ho guadagnati con Mary (la sua fidanzata, ndr)», diceva l' appuntato Montella al collega Angelo Minniti. «Non sono soldi buoni questi qua, eh minchia! Glielo vai a dire che hai fatto i soldi così e allora no... li metto in caserma chi cazzo mi becca?». Con l' altro che riconosceva: «In effetti è una bella pensata». (…)

Piacenza, interrogato il maresciallo Orlando: "Dopo 30 anni di carriera come volete che stia?". Pubblicato lunedì, 27 luglio 2020 da Giuseppe Baldessarro su La Repubblica.it Ma davanti ai giudici il comandante della stazione Levante tace. "Dopo trent’anni di onorata carriera secondo voi come posso stare? Non ho mai avuto una sanzione disciplinare in trent’anni, le mie note caratteristiche sono eccellenti, quindi immaginate umanamente come io possa stare”. Sono le uniche parole dette lasciando il tribunale di Piacenza dopo l'interrogatorio di garanzia, dal maresciallo dei carabinieri Marco Orlando. Per il resto il comandate della stazione dei carabinieri Levante si è avvalso della facoltà di non rispondere. Davanti al Gip, Luca Milani, ha preferito il silenzio evitando di dare spiegazioni alle accuse che gli sono mosse dai pm Matteo Centini e Antonio Colonna sul sistema criminale costruito per fare arresti “pilotati”, per sottrarre droga agli spacciatori e poi rivenderla. Il tutto condito da minacce e torture nei confronti degli arrestati. Il maresciallo, che è agli arresti domiciliari, è accusato di falso, arresto e perquisizione illegale e abuso d'ufficio, tutti reati commessi in concorso con gli altri carabinieri. Orlando doveva anche difendersi da quanto affermato da Montella e dagli altri carabinieri durante gli interrogati di garanzia. Secondo la loro versione infatti era a conoscenza delle modalità con cui avvenivano gli arresti ed era sempre informato di quello che avveniva alla Levante. Oggi, dopo il comandante della stazione sarà sentita la compagna di Montella, Maria Luisa Cattaneo, anche lei agli arresti domiciliari. Sempre oggi alla Levante si è svolto un sopralluogo del procuratore Grazia Pradella che all’uscita si è limitata a dire: “E’ un momento investigativo importante, non posso rilasciare dichiarazioni”. La stazione è sotto sequestro e nei giorni scorsi la Guardia di Finanza ha cominciato ad analizzate ordini di servizio, verbali e documenti relativi agli arresti effettuati dai militari per individuare ulteriori episodi illeciti oltre a quelli già indicati nell'ordinanza nonché per ricostruire le eventuali responsabilità nella catena di comando. Nei prossimi giorni, inoltre, sono previsti dei sopralluoghi degli uomini del Ris, per individuare eventuali tracce delle violenze che sarebbero state compiute all’interno della caserma.

Carabineri Piacenza, il racconto di una vittima: «Quel giorno Montella aggredì mia madre, mi dissero "Te devi soffrire"».  Daniele Alberti su Repubblica Tv il 28 luglio 2020. Dopo più di tre mesi, uno dei quattro aggrediti dai carabinieri della 'Levante' registrati nelle carte dell'inchiesta della procura di Piacenza racconta la sua storia risalente ad aprile, quando una pattuglia della caserma, ora sotto indagine per le vicende dell’ultima settimana, lo prelevò dal lavoro per portarlo a casa sua senza mandato di perquisizione. "Ho chiesto di chiamare l’avvocato – racconta – Montella ha spintonato mia madre, anziana e con patologie e gli altri mi hanno rovesciato casa in cerca della droga, umanità zero". Il presunto modus operandi dei militari era la fotocopia degli arresti contestati precedentemente: incastrare la concorrenza alla piazza di spaccio con cui agivano. "Loro mi hanno detto che non mi sarebbe servito il mandato – spiega la vittima - mi sembrava strana la cosa. Un paio di schiaffi li ho presi da Montella, poi mi hanno portato alla Levante dove restai qualche ora, gli ho chiesto un po d’acqua e Cappellano mi disse di no perché "dovevo soffrire". Poi – conclude - mi trasferirono in un’altra caserma dove restai qualche giorno per poi rientrare a casa ai domiciliari".

Piacenza, così la fidanzata di Montella aiutava lo spaccio: «Amore quei soldi li metto nel baule?» Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella il 27 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. La compagna del carabiniere è ai domiciliari, accusata di 5 episodi di spaccio. Diceva: «Abbiamo trovato le cimici nell’auto». Mery e Peppe. Uniti nella vita e negli affari. Coppia divisa tra due case — la villa con piccola piscina di Gragnano Trebbiense dell’appuntato e l’appartamento alla periferia di Piacenza dove vive la compagna —, il lavoro e i figli piccoli (due lei, uno lui) avuti da precedenti matrimoni. Sono insieme da cinque anni, il carabiniere Giuseppe Montella e la compagna Maria Luisa Cattaneo, entrambi di 37 anni. La donna è ai domiciliari, risponde di cinque episodi di spaccio. È accusata di aver trasportato droga con il compagno e di averla nascosta nel garage di casa. Mery Cattaneo conosce l’attività del compagno. Consiglia al carabiniere di interrompere i rapporti con gli informatori dopo l’arresto dei soci-pusher Giardino. È sempre lei a metterlo in guardia dopo il ritrovamento di una microspia. Tanto che la coppia decide di «bonificare» l’auto: «Loro amore, loro non vanno mai ad immaginare che abbiamo sgamato le ambientali!», dice l’appuntato. Lei risponde: «Ma va! Non lo scoprirebbero mai».

Dom Perignon e droga. Gli investigatori di Piacenza, coordinati dal procuratore Grazia Pradella, registrano scene di vita quotidiana (la donna impegnata a far fare i compiti ai figli), serate nei locali e feste. Come quella organizzata a Pasqua in barba alle norme anti Covid nella casa di Gragnano. Nelle foto Montella e la compagna sorseggiano costoso champagne Dom Perignon. Ospite anche un marocchino 38enne, ex marito della Cattaneo, e socio nella droga di Montella finito anche lui agli arresti. Una «vera famiglia allargata». L’auto della Cattaneo ha un pass per entrare nel centro di Piacenza. La richiesta riservata a chi esercita funzione di ordine pubblico» è firmata dal comandante della Levante, il maresciallo Marco Orlando (oggi il suo interrogatorio) con la dicitura «moglie del signor Montella».

La cartellina coi soldi. Il carabiniere racconta alla compagna di telefoni satellitari a noleggio per 1.600 euro: «Daniel (Giardino, ndr) lo usa con i calabresi, coi pezzi grossi». I due nascondono insieme la droga: «Senti il profumo che fa quel coso. Amore è resina pura». «Lo metto sul balcone se vuoi? Dentro un barattolo», suggerisce la donna. Ma si parla anche di soldi. «Questa cartellina con i soldi posso metterla nel baule?». La conferma della conoscenza degli affari criminali del compagno (fumano marijuana insieme) arriva anche da un’intercettazione. Mery chiede di fermarsi a un bancomat: «Scusami, come fai a ritirare i soldi? Ieri t’ho dato 250 euro», la redarguisce Montella. «Io ce li ho. Non posso farmi vedere che non ritiro: ho bisogno di ritirare i miei soldi per far la vita quotidiana, amore».

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 27 luglio 2020. Mery e Peppe. Uniti nella vita e negli affari. Coppia divisa tra due case - la villa con piccola piscina di Gragnano Trebbiense dell' appuntato e l' appartamento alla periferia di Piacenza dove vive la compagna -, il lavoro e i figli piccoli (due lei, uno lui) avuti da precedenti matrimoni. Sono insieme da cinque anni, il carabiniere Giuseppe Montella e la compagna Maria Luisa Cattaneo, entrambi di 37 anni. La donna è ai domiciliari, risponde di cinque episodi di spaccio. È accusata di aver trasportato droga con il compagno e di averla nascosta nel garage di casa. Mery Cattaneo conosce l' attività del compagno. Consiglia al carabiniere di interrompere i rapporti con gli informatori dopo l' arresto dei soci-pusher Giardino. È sempre lei a metterlo in guardia dopo il ritrovamento di una microspia. Tanto che la coppia decide di «bonificare» l' auto: «Loro amore, loro non vanno mai ad immaginare che abbiamo sgamato le ambientali!», dice l' appuntato. Lei risponde: «Ma va! Non lo scoprirebbero mai». Gli investigatori di Piacenza, coordinati dal procuratore Grazia Pradella, registrano scene di vita quotidiana (la donna impegnata a far fare i compiti ai figli), serate nei locali e feste. Come quella organizzata a Pasqua in barba alle norme anti Covid nella casa di Gragnano. Nelle foto Montella e la compagna sorseggiano costoso champagne Dom Perignon . Ospite anche un marocchino 38enne, ex marito della Cattaneo, e socio nella droga di Montella finito anche lui agli arresti. Una «vera famiglia allargata». L' auto della Cattaneo ha un pass per entrare nel centro di Piacenza. La richiesta riservata a chi esercita funzione di ordine pubblico» è firmata dal comandante della Levante, il maresciallo Marco Orlando (oggi il suo interrogatorio) con la dicitura «moglie del signor Montella». Il carabiniere racconta alla compagna di telefoni satellitari a noleggio per 1.600 euro: «Daniel (Giardino, ndr) lo usa con i calabresi, coi pezzi grossi». I due nascondono insieme la droga: «Senti il profumo che fa quel coso. Amore è resina pura». «Lo metto sul balcone se vuoi? Dentro un barattolo», suggerisce la donna. Ma si parla anche di soldi. «Questa cartellina con i soldi posso metterla nel baule?». La conferma della conoscenza degli affari criminali del compagno (fumano marijuana insieme) arriva anche da un' intercettazione. Mery chiede di fermarsi a un bancomat: «Scusami, come fai a ritirare i soldi? Ieri t' ho dato 250 euro», la redarguisce Montella. «Io ce li ho. Non posso farmi vedere che non ritiro: ho bisogno di ritirare i miei soldi per far la vita quotidiana, amore».

Michele Sasso per “la Stampa” il 26 luglio 2020. «Non c'è nessuna regia e non sono a capo di nessuna banda». Lo ha detto durante l'interrogatorio di garanzia in carcere lo "Scarface" di provincia Giuseppe Montella, arrestato mercoledì con altri cinque colleghi. Eppure nelle carte dei pm che raccontano le attività di spaccio, i pestaggi, gli arresti pilotati e le "scorribande" dei carabinieri infedeli della caserma Levante di Piacenza, l'appuntato Montella - conosciuto come Peppe - spicca senza dubbio come la mente del gruppo. «Si può sbagliare, si possono fare errori per ingenuità, vanità, per tante cose», ha spiegato il suo difensore, l'avvocato Emanuele Solari, definendolo «molto provato e abbattuto: il figlio legge i giornali». In tre ore Montella si è difeso ma non ha potuto negare l'innegabile, documentato in centinaia di intercettazioni dove lo spazio per le interpretazioni della sua stessa voce è praticamente nullo. «Sono tutti sotto di me», si vantava l'appuntato di origini napoletane con un pusher-informatore, parlando dei rapporti di forza all'interno della caserma Levante. Peppe di cose da spiegare ne ha molte. A partire da tutti quegli arresti-fotocopia dallo scorso gennaio in poi, tacendo che venivano "imbeccati" dai suoi galoppini, senza accertamenti sul territorio e «macchiati da violenze e percosse». Quanto sia andato a fondo davanti ai magistrati, che lo definiscono «svincolato da qualsiasi regola morale e giuridica», lo si capirà già nei prossimi giorni. Soprattutto per quanto riguarda la catena di comando dell'Arma visto che, dicono gli avvocati, anche questa questione «è stata chiarita». E potrebbe emergere il ruolo di quanti superiori nella scala gerarchica sapevano del modus operandi della caserma al centro della città e non sono intervenuti. Nell'altro interrogatorio di ieri ha parlato anche Giacomo Falanga, dicendosi «estraneo allo spaccio e alle violenze» anche se la sua ricostruzione sembra fare acqua da tutte le parti. La foto in cui sorride con una mazzetta di denaro in mano assieme a Montella e a due spacciatori? «Non ha nulla a che vedere con Gomorra - dice il suo avvocato Daniele Mancini -, è del 2016, era su Facebook con tanto di commenti ed è il frutto della vincita al Gratta e Vinci». E il nigeriano pestato? Quello che si vede nella foto che accompagna l'intercettazione in cui proprio l'appuntato racconta che i suoi due colleghi Montella e Cappellano devono fare «il poliziotto buono e quello cattivo»? «Non si può condannare una persona per una battuta, le cose vanno contestualizzate», ha spiegato l'avvocato Mancini, e poi, fornendo la versione dei fatti del suo assistito: «Il nigeriano non è stato picchiato in sua presenza, è stata una spacconata di Montella, in realtà è caduto durante l'inseguimento». Sarà. Ma le parole dello stesso Montella sembrerebbero inequivocabili: «Quando ho visto tutto quel sangue per terra ho detto boh, lo abbiamo ammazzato». Chi non ha aperto bocca, invece, è Salvatore Cappellano. Quello che secondo gli inquirenti sarebbe l'autore materiale delle botte e delle torture e quello che la procura definisce «l'elemento più violento della banda dei criminali» che per anni ha imperversato nella caserma di via Caccialupo. Senza che nessuno se ne accorgesse.

Maria Corbi per “la Stampa” il 26 luglio 2020. «Accontentati tu, io prendo tutto, tutto quello che posso», dice Tony Montana-Al Pacino, lo Scarface cinematografico di Brian De Palma. «Noi dobbiamo viaggiare a numero uno, i numeri due li lasciamo agli altri», dice Giuseppe Montella, l'appuntato di Brusciano, hinterland napoletano, che voleva essere Al Capone. E oggi che compie 37 anni tutta quella «smargiasseria» è rinchiusa con lui dietro le sbarre, con la mamma che lo difende insieme ai suoi amici: «Bravi ragazzi», assicura. Eh sì «Goodfellas», per restare nell'immaginario di questo appuntato piccolo piccolo che si faceva grande con la violenza, le estorsioni, lo spaccio, le escort, le prepotenze. Che come punto di arrivo aveva la villetta con piscina, le auto di lusso, le moto, le donne, in cui specchiare la propria debolezza. Uno stipendio da 31.500 euro lordi che non bastavano certo per soddisfare i suoi sfizi e quelli della sua compagna, Mary, Maria Luisa Cattaneo, 38 anni, che della vita illecita sapeva e condivideva, convinta della impunità di chi indossa una divisa: «Mi avevi detto che eri carabiniere e non ti avrebbero mai preso». Mai dare retta alle parole di un ex ragazzo di Pomigliano d'Arco salito al Nord per dare una svolta alla sua vita costi quel che costi. Anche 50 capi di imputazione come quelli contenuti nell'ordinanza del Gip di Piacenza Luca Milani. Già al paese, cinque chilometri da Pomigliano d'Arco, stretto tra camorra e povertà, Giuseppe era uno sbruffone, e millantava parentele con il calciatore Vincenzo Montella e anche il suo talento abbandonato per «amore» della divisa. «Criminale pericolosissimo», scrive il magistrato. E certamente lo era, quando ancora poteva fare il bello e il cattivo tempo in città come nella caserma dove «comandava» anche il suo comandante, Marco Orlando che di questa storia appare il personaggio più penoso. Ignavo o complice, questo lo deciderà la magistratura. Certo è che i suoi «uomini» ritenevano fosse uno a cui poter scippare l'ufficio in caserma per farci un festino con le escort. «Qui sono tutti sotto la mia cappella». Per gli amici era «Beppe» ma dagli altri voleva «rispetto», facendosi chiamare «capo», soprattutto quando era davanti a suo figlio, con cui si vantava delle violenze e che «educava» alla prepotenza, come nella migliore tradizione «mafiosa». «Ieri mi sono fatto male... ho preso un piccolo strappo... perché ho corso dietro a un negro» racconta al bambino di 11 anni Giuseppe Montella. E il bambino lo segue in questa «lezione» di razzismo e violenza: «L'hai preso poi? Gliele avete date? Chi eravate? Chi l'ha picchiato?», chiede l'erede nato dal matrimonio con Mara a cui non pagherebbe gli alimenti. Anche se l'avvocato Solari spiega che «si tratta di affidamento paritario del figlio» e quindi «ognuno paga quando ha il bambino con sé». Lui che era nato alle pendici del Vesuvio e della società, nella periferia di Pomigliano d'Arco, adesso si sentiva al vertice della «Piramide» come la chiamava lui. E per questo voleva una vita da «re» con la villa piena di marmi, stucchi e oro, copia perfetta delle dimore camorriste della serie Gomorra. E avere la conferma del proprio potere attraverso status symbol come le auto di lusso e gli orologi ma anche la prepotenza del potere esercitato arbitrariamente, come quando per avere un Audi A4 a prezzo stracciato, poco più di 10 mila euro, ha minacciato i proprietari dell'autosalone: «Figa, sono entrato attrezzato Uno si è pisciato addosso, nel senso proprio pisciato addosso. L'altro mi ha risposto e l'ho fracassato», si vantava al telefono intercettato. Un bravo ragazzo, come dice mammà. Goodfellas.

Salvatore Frequente per corriere.it il 26 luglio 2020. È aprile e in tutta Italia i cittadini trascorrono il periodo pasquale in pieno lockdown. Niente pranzi tra amici e parenti (non conviventi), niente feste: le disposizioni per il contenimento del Coronavirus lo proibiscono. Ma a Gragnano Trebbiense, un paesino a pochi chilometri da Piacenza, nella villa dell’appuntato Giuseppe Montella è in corso una grigliata: una festa conviviale di Pasqua con numerosi invitati.

La segnalazione anonima. Ma quei festeggiamenti in giardino, con tanto di champagne, vengono notati dalla vicina di casa che chiama il 112. Segnala una festa «in corso a Gragnanino». Il carabinieri della Centrale Operativa, dopo aver chiesto via e numero civico, chiede il nome e il cognome alla donna. Ma la vicina vuole che la segnalazione «rimanga anonima». «Devo dirvelo per forza? Perché è un vostro collega», afferma la donna, come si legge nelle trascrizioni della registrazione della chiamata al 112. Ed è qui che scatta la compiacenza del collega.

La soffiata: «Tranquillo non ho scritto nulla». A chiarire cosa accade immediatamente dopo è un’intercettazione telefonica agli atti dell’inchiesta che ha portato all’arresto di sei carabinieri (altri quattro denunciati) e al sequestro della caserma di Piacenza «Levante». Il militare che ha ricevuto la segnalazione chiama immediatamente Giuseppe Montella: «La pattuglia te l’ho mandata io perché non sapevo che era casa tua», dice l’operatore del 112 all’appuntato. Spiega che la signora non ha voluto identificarsi perché sapeva che quella villa era di un carabiniere, «mi sembrava un po’ polemica», sottolinea il militare che ci tiene però a rassicurare Montella: «ho mandato» la segnalazione al militare deputato al controllo ma «gli ho detto: “Guarda, se possiamo fare a meno, io non ho scritto niente da nessuna parte, non ho detto un cazzo a nessuno”».

La richiesta di Montella: «Voglio capire chi è». Montella lo ringrazia per la «copertura». Ma all’appuntato non basta, vuole capire chi è questa donna, chi è la vicina che si è permessa di segnalare la festa nella sua villa. «Voglio sentire la voce, voglio capire un attimo se è la mia vicina, giusto lo sfizio che mi volevo togliere ( …) riesci a girarmi il numero?», è la richiesta di Montella all'operatore del 112 che risponde senza titubanze: «Te la faccio sentire abusivamente non ti preoccupare».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 29 luglio 2020. Gli affari di droga dell'appuntato Peppe Montella e dei suoi amici pusher andavano ben al di là dello smercio su una piazza di provincia. Spuntano ora i contatti e i traffici con la 'ndrangheta che domina a Milano, snodo fondamentale per l'approvvigionamento di stupefacente al Nord. Gli investigatori della Gdf di Piacenza hanno scoperto che il Montella narcos si riforniva dai clan originari della Locride di stanza in Lombardia. Per questo la Procura di Piacenza ha trasmesso gli atti dell'inchiesta alla Dda di Milano. Tutto parte da un viaggio in auto a San Valentino di quest' anno. Montella è sulla sua Audi A4 con Daniele Giardino. I due vanno a Milano per comprare la droga e trasportarla a Piacenza. Seguiranno altre trasferte, anche con l'amico spacciatore Tiziano Gherardi, per rifornirsi dai calabresi di hashish e marijuana a chili. Le indagini hanno poi scoperto diversi episodi tipici dei «furbetti del cartellino». Tra le loro abitudini, i militari della Stazione Levante avevano quella di fingere di essere al lavoro quando in realtà erano a farsi i fatti propri, magari con l'auto di servizio. Un peccato quasi veniale, rispetto alle accuse più gravi che li hanno fatti finire nei guai: ma che la dice lunga sul clima di illegalità che si respirava all'interno della caserma. Il 5 marzo, per esempio, Montella e altri tre della Levante saltano sulla Punto di servizio e escono, in teoria di pattuglia: invece piazzano le gambe sotto il tavolo alla «Taverna del Castello» di Grazzano Visconti, mangiano e bevono per due ore, tornano in caserma alle 16: ma subito dopo ne escono di nuovo, sempre con la Punto, e invece di lavorare si imboscano al bar di piazza Cavalli e ne sbucano solo alle sei di sera. Scena simile il 12 marzo, Montella e altri due prendono la Punto, vanno al Leroy Merlin, ripassano in caserma a prendere un collega e poi via, tutti a bisbocciare nella villa di Montella sul Trebbia. Sempre in orario di servizio. Colpisce la libertà d'azione che a Montella e soci veniva lasciata dai capi. Non c'è traccia di controlli sui loro spostamenti né da parte del comandante della stazione, Marco Orlando, né del maggiore Stefano Bezzeccheri, comandante della compagnia di Piacenza. La Procura ha scelto di non accusare l'ufficiale per tali omissioni, mentre lo chiama a rispondere del suo comportamento in almeno due interventi anomali contro lo spaccio. Bezzeccheri viene interrogato ieri per tre ore dal gip Luca Milani, che lo ha sottoposto all'obbligo di presentazione. Misura più blanda di quella che ha spedito in carcere Montella e altri quattro della Levante, perché Bezzeccheri non è coinvolto nei pestaggi e nei traffici di droga. Ma per due volte, per l'accusa, ha approvato il trucco-chiave della squadra di Montella. La prima il 27 marzo quando autorizza a non denunciare il confidente Ghormi El Mehdy, che ha comprato droga da uno spacciatore: perché El Mehdy viene usato come agente provocatore fuori da ogni regola, è lui a contattare gli spacciatori per poi farli arrestare dagli amici carabinieri. Ma se il suo ruolo di acquirente venisse messo a verbale, El Mehdy si vedrebbe revocare il permesso di soggiorno, così, con la benedizione di Bezzeccheri, Montella e gli altri falsificano il verbale. Stessa operazione, il 2 maggio, con un altro confidente, Jaime Vargas Viafara. All'ufficiale viene contestato l'abuso d'ufficio. «Si evidenzia - scrivono i pm - che allo stato ancora non è compiutamente definito il ruolo del maggiore Stefano Bezzeccheri, il quale pur se consapevole del ricorso a fonti confidenziali» da parte dei sottoposti «non pare abbia mai chiesto contezza delle modalità con cui venivano gestiti i rapporti con le stesse».

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2020. Prima nega, schiva le accuse pesanti come macigni che l' hanno trascinato in carcere per le violenze, le torture, le rapine agli spacciatori e il traffico di droga in caserma a Piacenza. Quando capisce che rischia di rimanere con il cerino acceso in mano, l' appuntato Giuseppe Montella vuota il sacco coinvolgendo i colleghi che hanno scaricato le colpe su di lui: «Alla Levante tutti erano d' accordo». «Ho perso tutto, l' unica cosa che mi porta la coscienza è () dire la verità», esordisce interrogato dai pm Matteo Centini e Antonio Colonna il 5 agosto in carcere, dove sta dal 22 luglio con altri 4 carabinieri. «Ormai ho toccato il fondo», mette a verbale Montella assistito dagli avvocati Giuseppe Dametti ed Emanuele Solari. Nelle mani della Procura guidata da Grazia Pradella ci sono ore di intercettazioni che hanno registrato in diretta le violenze e gli affari illegali dei carabinieri. Il principale indagato dell' inchiesta che ha ferito l' Arma si difende, come è suo sacrosanto diritto, negando che parte della droga sequestra andava agli spacciatori arrestati per convincerli, dopo averli anche picchiati, a diventare confidenti. Succedeva lo stesso con i soldi presi agli arrestati, che finivano anche nelle sue tasche. Quando il pm Centini gli dice che due pusher hanno confermato e lo invita a ripesarci, il carabiniere si sente con le spalle al muro: «Vi chiedo scusa se ha omesso qualcosa». Dichiara di aver negato «per un senso di fratellanza», perché «preferivo prendermi io le colpe per non scaricarle». Centini rincara la dose: «I suoi colleghi hanno detto che faceva tutto lei». A questo punto Montella diventa un fiume in piena: «Sì che abbiamo pagato», ma «quando si dava qualcosa lo sapevano tutti» perché «non ho mai fatto niente di mia iniziativa»; «ammetto tutto, ne ho fatte di cavolate dottore, però se mi devo prendere le colpe degli altri, no!». Confessa di aver sottratto denaro agli arrestati, ma solo poche decine di euro da dare agli informatori, e giura di non essersi «mai messo soldi in tasca». Con gli altri ha sì picchiato i fermati, appena «qualche schiaffo». Per l' accusa, invece, di soldi ne sono spariti tanti, migliaia di euro, e i pestaggi a sangue erano una consuetudine. I superiori non si accorgevano di nulla o forse facevano finta. Volevano «arresti, arresti, arresti», altrimenti «ci massacravano di altri servizi» come «punizione», ci «facevano fare notti, pattuglie». I pm ritengono, invece, che proprio grazie alla reputazione guadagnati con gli arresti a raffica, alla Levante potevano trafficare indisturbati. Ora Montella si sente isolato. In carcere gli altri lo evitano, lo escludono dai messaggi che viaggiano tra le celle: «Li sento parlare, sento quello che dicono e lo so che mi hanno buttato tutta la merda» addosso. Ieri il gip Milano ha dissequestrato la caserma. Era stata sigillata dalla Procura per fare accertamenti. Bloccati, però, dalla richiesta di incidente probatorio della difesa di uno dei carabinieri. Istanza che il giudice ha dichiarato inammissibile perché non ha ricevuto le notifiche alle parti carico della stessa difesa. L' immobile torna all' Arma dopo un mese e mezzo: con le ammissioni degli indagati la Procura non ha bisogno di altri accertamenti.

Caserma di Piacenza, i nomi dei boss della droga su cui indaga la Dda. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Giuseppe Baldessarro su La Repubblica.it.  Ruota intorno ai calabresi dei comuni dell’area sud di Milano lo stralcio dell’inchiesta sui carabinieri della caserma Levante. Il Gip ha respinto le richieste di scarcerazione. Ruota tutto attorno ai calabresi dei comuni dell’area sud di Milano lo stralcio dell’inchiesta sui carabinieri della Levante che la procura di Piacenza ha inviato alla Dda lombarda. E in particolare sui nomi già affiorati nell’indagine “Quadrato 2”, ossia i Barbaro, i Papalia, i Romeo e le “famiglie” satellite che assieme a loro gestiscono il traffico di droga nell’interland di Milano. I pm Matteo Centini e Antonio Colonna hanno scoperto che Giuseppe Montella, l’appuntato ritenuto a capo dei militari infedeli piacentini, si riforniva di stupefacente in Lombardia. Intanto il Gip di Piacenza, Luca Milani, ha respinto le richieste di scarcerazione dei carabinieri arrestati il 22 luglio, con misure di custodia cautelare, quando è stata anche sequestrata la caserma della stazione Levante. La decisione è arrivata all'esito degli interrogatori di garanzia, conclusi nei giorni scorsi. La nuova indagine, dunque. I pm, seguendo Montella mentre era “in missione” con Daniele Giardino, uno spacciatore finito in manette assieme a lui la scorsa settimana, hanno scoperto si riforniva in un capannone in via dell’Informatica a Gaggiano. Un capannone nel quale ha sede la Fr Idroelettrica, intestata a Francesco Romeo, un incensurato originario di Plati, comune nell’entroterra della Locride, lo stesso borgo da cui arrivano, appunto i Barbaro e i Papalia. Non è un caso che lo stralcio dell’indagine piacentina sia finita nelle mani del pm Stefano Ammendola, titolare della “Quadrato 2” che ai primi di luglio ha portato all’arresto di una ventina di personaggi, alcuni dei quali di un certo spessore criminale, accusati appunto di reati di droga. Ora che tra il Romeo della Fr Idroelettrica vi sia un collegamento con la ‘ndrangheta è tutto da dimostrare, ma che in quel capannone ci sia stata la cessione di droga a Montella e Giardino, gli investigatori di Piacenza ne sono certi. L’inchiesta milanese è ancora tutta da definire anche se la strada per fare chiarezza su chi sono “i calabresi pericolosi” e “i pezzi grossi” di cui si parla nelle intercettazioni piacentine, sembra già segnata. All’arco degli investigatori meneghini ci sono già un paio di frecce. La prima è nelle stesse carte di “Quadraro 2” dove Romeo viene definito “soggetto di assoluto rilievo investigativo per via dei legami familiari con importanti consorterie di stampo ‘ndranghetista”. La seconda sta nelle dichiarazioni del pentito Domenico Agresta, che riconosce Romeno in una foto segnaletica: «É il fratello di Pasquale “u pettinaro” (il pettinaio, in dialetto calabrese, ndr), detto Ciccio “u pettinaro”. Ha consegnato cocaina a mio cognato per conto di Domenico Papalia, figlio di Antonio». Il Papalia citato da Agresta nel milanese non ha bisogno di presentazioni, essendo considerato una “prima luce”, ossia uno dei più importante boss della ‘ndrangheta nel nord Italia.

Carabinieri di Piacenza, le donne dell'inchiesta "pronte a tutto per soldi e droga": Mery e Clarissa, i loro ruoli. Libero Quotidiano il 29 luglio 2020. «La mia vita» dice di lei Giuseppe Montella, «legame indissolubile», scrive sotto ai selfie postati su Facebook: loro due abbronzati al mare, immersi nella piscina della villetta alle porte di Piacenza con un drink in mano, oppure seduti a un tavolino del bar sotto i portici del centro o in posa mentre si stampano un bacio sulla bocca. E poi tanti scatti con i bambini. Sembra un'innocua famigliola italiana come tante, invece per la procura piacentina l'appuntato Montella era il capo di una sorta di associazione a delinquere che spadroneggiava tra Emilia e Lombardia abusando della propria posizione di pubblico ufficiale. Lui decideva gli arresti illegali di pusher a cui sequestrava la droga e sempre lui, con alcuni colleghi, aveva studiato il modo, usando dei galoppini, di diventare a sua volta pusher ma con più fortuna degli altri, «tanto noi siamo irraggiungibili». «Nessuno ci sgama». La compagna, Maria Luisa Cattaneo detta Mery, per i magistrati era perfettamente consapevole dei giri del suo uomo, infatti è stata arrestata anche lei mercoledì nell'ambito dell'operazione Odysseus: la donna è finita ai domiciliari con l'accusa di spaccio in concorso con il compagno. 

«ESTRANEA AI FATTI». Ieri non ha risposto alle domande del gip Luca Milani ma, assistita dall'avvocato, Daniele Pezza, ha reso dichiarazioni spontanee. Tipo queste: «Non c'entro niente con la droga. Sono estranea ad attività illecite. Tante volte ho detto a Peppe di stare attento e di ricordarsi della divisa che porta». Il legale la descrive «molto provata», desiderosa di chiarire al più presto la sua posizione e di tornare ad essere una donna libera, mamma di due bimbi avuti da una precedente unione, guarda caso con uno spacciatore marocchino, Jamai Masroure Zin El Abidine, detto Davide, anche lui fermato per concorso in spaccio di cocaina, insieme a Daniele, uno dei tre fratelli Giardino, tutti in carcere come il padre: un'attività di famiglia. Dipendente di una società che fornisce energia elettrica, insospettabile per il datore di lavoro e per i colleghi, la 38enne Maria Luisa nell'ordinanza viene descritta come la perfetta spalla di Montella di cui non ignorava il mestiere parallelo. Nella notte tra il 29 febbraio e il primo marzo scorso lei e Montella avrebbero prelevato mezzo chilo di hashish dall'abitazione dei Giardino e a bordo dell'Audi A4 dell'appuntato l'hanno trasportata nel garage della donna. In dettaglio, la sera del 29, come si evince da alcune conversazioni intercettate, la coppia aveva deciso di cenare in un ristorante di Fidenza insieme alla famiglia Giardino. Il militare carica in auto l'amico Daniele e i due trascorrono la serata insieme con le rispettive compagne: la Cattaneo e Clarissa D'Elia, nata a Magenta nel '93, anche lei coinvolta nell'indagine e utilizzata dal fidanzato soprattutto come autista, visto che Daniele è senza patente. Durante il tragitto i quattro parlano dello stupefacente. «Quelle cose, quindi, le hai già piazzate? Ne hai date via tre? Omissis.. Minchia, a saperlo vedi...». Citano l'altro fratello Giardino, Simone, il quale per il gruppetto non era abbastanza affidabile perché riferiva tutto alla compagna Deborah a cui aveva già raccontato di quando erano andati a Fidenza per acquistare gli anabolizzanti. A mezzanotte e cinque, annotano gli inquirenti, Montella e «signora», discorrono dell'attività di spaccio svolta dal carabiniere: «Amore, se non la prendo, la perdo e... sono mille euro di guadagno, gli ho dato 800 di quelli che avevo, eh!». 

INCIDENTE PROBATORIO. In sintesi, per i pm la Cattaneo è «totalmente consapevole degli illeciti svolti dal compagno Montella e non esita a mettere a disposizione i locali di casa sua (i due non abitano insieme) per occultare lo stupefacente». Tuttavia la donna, ieri, si è avvalsa della facoltà di non rispondere e lo stesso ha fatto Marco Orlando, il maresciallo che comandava la caserma Levante e che Montella ha tirato in ballo nel suo interrogatorio di sabato. Orlando si trova ai domiciliari con le accuse di falso, arresto, perquisizione illegale e abuso d'ufficio, ma davanti al giudice ha fatto scena muta. «Valuteremo se essere sentiti più avanti», ha spiegato l'avvocato, Antonio Nicoli, che prima vuole vedere i verbali dei sottoposti al maresciallo per replicare. A margine, però, Orlando ha sussurrato: «In 30 anni non ho mai avuto una sanzione disciplinare, come pensate si possa stare?». L'inchiesta va avanti e non si escludono nuovi indagati, ma per ora la caserma resterà sotto sequestro. Pierpaolo Rovello, avvocato di Antonio Esposito, ha infatti chiesto che si proceda con l'incidente probatorio «che consentirà a tutti di essere più garantiti». I tempi, dunque, si allungano. E intanto oggi si insedia il nuovo comandante provinciale dell'Arma, Paolo Abrate. 

L’ex fidanzata di Giuseppe Montella: “Con lui ho vissuto un incubo”. Notizie.it il 29/07/2020. Dettagli inquietanti da parte dell'ex fidanzata di Giuseppe Montella: "Mi ha rovinato, con lui ho vissuto un vero incubo". Sono già stati ribattezzati come ‘Quelli della Levante’ sulla scia della "Uno Bianca" degli anni ’80-90. I carabinieri arrestati a Piacenza ne hanno combinate di cotte e di crude. A spiccare è il volto di Giuseppe Montella, un profilo tutt’altro che in linea con i principi dell’Arma. E, come se non bastasse, nell’edizione odierna de La Repubblica arriva un racconto inedito che fa raggelare il sangue: a parlare è un’ex fidanzata proprio di Montella che denuncia episodi alquanto controversi. Una storia nata e finita tra il 2012 e il 2013: “Giusto il tempo di farmi prosciugare tutto quello che avevo in banca – denuncia Sandra (nome di fantasia) -, gli avevo dato il pin del bancomat per fare la spesa. Piano piano Montella mi ha portato via 13mila euro. E alla richiesta di riavere tutto indietro mi ha risposto picche perché era un regalo”.

Il racconto dell’ex fidanzata di Montella. L’ex fidanzata di Giuseppe Montella, già mamma di un bimbo quando stava con il carabiniere, ricostruisce pian piano la sua vita. Sei anni dopo si fidanza con un personal trainer della palestra che frequenta. Contestualmente, però, iniziano ad arrivarle messaggi e foto strane da un profilo fake su Instagram. “Inizialmente ho pensato all’ex moglie del pt – racconta Sandra – ma lei ha sempre negato e per di più a fare la denuncia mi ha accompagnato il suo attuale compagno, militare dell’Aeronautica”. Da lì inizia un vortice senza fine. Da ottobre 2019 a febbraio 2020 vive una situazione surreale. L’ex fidanzata di Montella prosegue nel suo lungo racconto: “Quando sono a fare la denuncia mi arriva un messaggio di Salvo (Salvatore Cappellano, ndr) che mi scrive ‘Che fai dai vigili’? Sandra mostra la chat. “Mi si gela il sangue. Come faceva a saperlo?”. Banalmente, può averla vista entrare al comando. Succede però altro: Cappellano le invia foto di nudo e le chiede di averne una di lei. Ventiquattro ore dopo riceve una telefonata strana. L’uomo si presenta come poliziotto, vuole che vada in questura due giorni dopo. Vado a citofonare ma mi dicono che nessuno mi ha cercato”.

L’ultimo incontro con Montella. Dopo qualche tempo le arriva una nuova chiamata ma da parte del maresciallo Orlando, comandante della Levante, che le dice di portarle lo smartphone per fare accertamenti. “Non capivo cosa c’entrasse lui con la mia denuncia per stalking – spiega Sandra che rivela di essersi anche spaventata -. Chiamo la Municipale e la funzionaria che mi segue mi spiega che nessuno ha mai passato la pratica ai carabinieri. Perché allora quella telefonata di Orlando?” Nei giorni successivi, siamo a febbraio 2020, tornerà alla Polizia municipale e troverà, fuori, proprio Montella. “Quel giorno era stata convocata anche la sua ex compagna. Lui mi ha aggredito verbalmente. Ora spero che venga fuori la verità su quanto accaduto a me”.

L’ex fidanzata di Giuseppe Montella e la denuncia per stalking. Dopo qualche anno la ragazza costruisce un nuovo rapporto con un personal trainer di Piacenza. E qui cominciano ad arrivarle dei messaggi su Instagram da un profilo fake. «Erano mie fotografie con questo ragazzo, prese da telecamere di sorveglianza». NeXt quotidiano il 29luglio 2020. Repubblica racconta oggi una storia che riguarda una ex fidanzata del carabiniere della caserma Levante di Piacenza:  tra il 2012 e il 2013 è stata la fidanzata di Giuseppe Montella. Sullo  smartphone conserva ancora decine di messaggi con lui e con gli altri militari. I numeri di telefono corrispondono a quelli degli indagati: «Peppe, Falanga e Salvo (gli appuntati scelti arrestati una settimana fa, ndr) me li ricordo bene, erano sempre insieme, come fratelli. Si scambiavano anche le donne… si sentivano i padroni della città», racconta Sandra, seduta al tavolo di un bar di Piacenza. «Io sono stata solo con Peppe». È una storia articolata, questa che Sandra ha deciso di consegnare a Repubblica, documentandone i passaggi con i messaggi sul telefonino. Che parte con una denuncia per stalking, e diventa altro. E la cui fondatezza, proprio in queste ore, è sottoposta al vaglio dei finanzieri. Sandra, dopo due anni di amicizia, si fidanza con Montella. Ma la relazione prende subito una piega fastidiosa. «Mi chiedeva in continuazione soldi, erano la sua unica fissazione. Frequentavo quella caserma, sì. Facevamo feste, ma di droga non ne ho vista». Le pretese di Montella si fanno sempre più esose. Un telefonino, un tablet, addirittura una moto Ducati. «Ero appena maggiorenne, dovevo badare a mio figlio, come facevo?». La relazione finisce,  detta di Sandra, quando lui le svuota il conto in banca. «C’erano 13 mila euro. Gli ho dato il pin del bancomat per fare la spesa, e lui a poco a poco ha preso tutto». A questo punto Sandra mostra una chat datata 7 ottobre 2013, alle 7.17 del mattino. «Alle 8.45 sono fuori dalla caserma, o mi porti la mia roba o entro dentro x prendermela». Risposta di Montella: «Non ti do  assolutamente nulla, come hai ben scritto le hai regalate. Sei davvero vergognosa». La relazione si chiude così: malissimo. Dopo qualche anno la ragazza costruisce un nuovo rapporto con un personal trainer di Piacenza. E qui cominciano ad arrivarle dei messaggi su Instagram da un profilo fake. «Erano mie fotografie con questo ragazzo, prese da telecamere di sorveglianza». Ne arrivano una, due, tre. Sandra finisce per presentare la denuncia allo sportello per le vittime di stalking della Polizia municipale. «Ero spaventata ma a quelli della Levante non avevo mai pensato». Fino a quel momento. «Quando sono a fare la denuncia mi arriva un messaggio di Salvo (Salvatore Cappellano, ndr). “Che fai dai vigili?”, mi scrive». Sandra mostra la chat. «Mi si gela il sangue. Come faceva a  saperlo?».  Banalmente, può averla vista entrare al comando. Succede però altro: Cappellano le invia foto di nudo e le chiede di averne una di lei. Ventiquattro ore dopo riceve una telefonata  strana. «L’uomo si presenta come poliziotto, vuole che vada in questura due giorni dopo. Vado a citofonare ma mi dicono che nessuno mi ha cercato». Passa qualche giorno e a telefonare questa volta è il maresciallo Marco Orlando, comandante della compagnia, in persona. «Mi dice di portargli subito il mio smartphone per fare accertamenti. Non capivo cosa c’entrasse lui con la mia denuncia per stalking». La ragazza si spaventa. Chiama la Municipale e la funzionaria che la segue le spiega che nessuno ha mai passato la pratica ai  carabinieri. Perché allora quella telefonata di Orlando? Nei giorni successivi, siamo a febbraio 2020, tornerà alla Polizia municipale e troverà, fuori, proprio Montella. «Quel giorno era stata convocata anche la sua ex compagna. Lui mi ha aggredito verbalmente. Ora spero che venga fuori la verità su quanto accaduto a me».

La madre difende Montella: "Giuseppe un bravo ragazzo, tirano fuori Gomorra perché siamo napoletani". Sulla Stampa la mamma del carabiniere arrestato per lo scandalo della caserma Levante di Piacenza difende il figlio. "I soldi? Mi ha detto di averli vinti al Superenalotto". La Repubblica il 24 luglio 2020. Per il gip di Piacenza, Luca Milani, Giuseppe Montella, detto 'Peppe', 37 anni, napoletano, è il leader del gruppetto di carabinieri accusati di pestaggi, estorsioni, spaccio e anche di tortura nella caserma Levante di Piacenza. Un uomo che "non mostra paura di nulla ed è dotato di un carattere particolarmente incline a prendere parte ad azioni pericolose e violente". Per sua mamma Giuseppina, invece, come racconta La Stampa, il carabiniere è "un bravo ragazzo. E tirano fuori Gomorra perché veniamo da Napoli. Se Peppe era di Piacenza non lo dicevano che era Gomorra". Secondo l'accusa l'appuntato Giuseppe Montella, per arrotondare lo stipendio statale gestiva un traffico di droga con l'aiuto dei colleghi. Un giro talmente redditizio che gli ha permesso di comprare una villa da 270 mila euro alle porte di Piacenza, dove nel periodo della quarantena, in barba ai divieti, riuniva parenti e amici. E di comprare, dal 2008 ad oggi, 16 moto di grossa cilindrata e 11 macchine di lusso, tra cui Bmw, Mercedes, una Porsche Cayenne, e da febbraio scorso anche un'Audi pagata appena 10mila euro. Come? Lo spiegano altri militari arrestati, non sapendo di essere intercettati: a suon di minacce e ceffoni in pieno stile "Gomorra". C'è questo e molto altro nelle carte dell'indagine della Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore di Piacenza Grazia Pradella che ha portato - fatto unico in Italia - al sequestro della caserma. Da giovedì, infatti, a Piacenza i carabinieri si sono trasferiti nell'unità mobile dalla quale proseguono le loro attività. Mamma Giuseppina non ci sta. E dalla villa di Gragnano Trebbiense difende in figlio. "Non ci credo a tutte quelle storie che ho sentito in televisione" ripete alla Stampa. E aggiunge: "Se faceva veramente del male, deve pagare, ma io non ci credo. Un bravo ragazzo, si stava pure laureando in Giurisprudenza...". E sulla disponibilità di tanto denaro e delle foto fatte sventolando banconote, la signora Giuseppina ricorda: "Mi ha detto che li aveva vinti al Superenalotto con gli amici, non erano in caserma...". Montella aveva iniziato a fare il carabiniere a Secondigliano, grosso quartiere di Napoli, poi in Sardegna, infine a Piacenza.

Carabinieri arrestati, la madre difende Montella: “É un bravo ragazzo”. Notizie.it il 24/07/2020. La madre di uno dei carabinieri arrestati, accusato di gestire un traffico di droga, ha definito il figlio un bravo ragazzo. La madre di Giuseppe Montella, uno dei carabinieri arrestati a Piacenza, ha difeso il figlio definendolo un bravo ragazzo e accusando chi paragona a Gomorra quanto accaduto in caserma di attaccarlo solo perché napoletano. L’appuntato in questione sarebbe, secondo il giudice per le indagini preliminari di Piacenza il leader del gruppo di militari arrestati a vario titolo per pestaggi, estorsioni, spaccio di droga e tortura. Anche di fronte a tali accuse la madre Giuseppina non ha mancato di difenderlo, parlando alla Stampa di un bravo ragazzo. Stessa definizione usata per descrivere i colleghi Salvatore, Giacomo e Daniele che spesso erano suoi ospiti. “Tirano fuori Gomorra perché veniamo da Napoli. Se Peppe era di Piacenza non lo dicevano“, ha continuato. La donna ha difeso il figlio anche dall’accusa di gestire un traffico di droga talmente redditizio da avergli consentito l‘acquisto di una villa da 270 mila euro nonché di 16 moto e 11 macchine di lusso tra cui un’Audi pagata soltanto 10 mila euro. Come sia stato possibile lo hanno spiegato i colleghi, non sapendo di essere intercettati: minacciando e pesando. “Non ci credo a tutte quelle storie che ho sentito in televisione. Se faceva veramente del male deve pagare, ma io non ci credo“, ha affermato Giuseppina. Quanto all’ingente denaro posseduto da Montella, ha spiegato che il figlio le aveva detto di averlo vinto al Superenalotto con gli amici. Non sapeva nulla invece dei presunti venti conti in banca dell’uomo. Si è infatti limitata a dichiarare che il conto suo e del marito erano intestati a Giuseppe perché come Carabiniere poteva beneficiare di alcune agevolazioni.

 Carabinieri Piacenza, il post shock del giornalista bergamasco: «Sono tutti meridionali predisposti a delinquere». Antonio Folle il 23 luglio 2020 su Il Mattino. «Sei meridionali su sei. Ora qui nessuno dice che essere meridionale significa essere delinquente, ci mancherebbe. Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al sud». Questo è un passo del post choc lanciato sui social network da Daniele Martinelli, giornalista bergamasco che ha così commentato i fatti di Piacenza e l'arresto di sei carabinieri accusati di aver formato una vera e propria associazione a delinquere. Un post che in pochissime ore ha scatenato un vero e proprio putiferio, con migliaia di commenti negativi da parte di utenti indignati per considerazioni razziste nei confronti dei meridionali, tanto da costringere il giornalista a rimuovere il post. E come in moltissimi casi del genere la "toppa" è peggiore del buco. Se nel primo post Martinelli si è lanciato in considerazioni dai tipici accenti lombrosiani e antimeridionali, infatti, nel secondo post ha ribadito che nelle forze dell'ordine spesso si annidano meridionali a caccia dello stipendio fisso. «Urge una riforma radicale del metodo di selezione - ha scritto - dei candidati a quello che sembra un rifugio soprattutto per Meridionali in cerca di stipendio fisso, più che una vocazione alla legalità e al patriottismo». È del tutto evidente che al giornalista d'inchiesta - come si autodefinisce sul suo sito -, ex inviato speciale del blog di Beppe Grillo ed ex collaboratore dello staff comunicazione dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle, sia sfuggito che nell'Arma dei Carabinieri, nella Polizia di Stato e nella Guardia di Finanza militano migliaia di meridionali che ogni giorno fanno onore alla propria divisa. Gli insulti rivolti a Martinelli non si sono fermati nemmeno dopo che il giornalista ha "corretto" il tiro. Anzi, in molti lo hanno accusato di non avere avuto il coraggio di sostenere le sue idee e di aver cercato facile visibilità attraverso un post sui social. Un atteggiamento che ricorda molto da vicino la vicenda del consigliere comunale di Pavia Niccolò Fraschini che, a fine febbraio scorso, in un post delirante affermava: «Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all'immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi». Salvo poi, ovviamente, ritirare il post e ritrattare le accuse infamanti che avevano suscitato rabbia e sdegno anche tra gli esponenti della sua stessa maggioranza nel consiglio comunale pavese.  Salvo d'Acquisto, solo per citare un nome illustre, era un Carabiniere meridionale e napoletano.

Carabinieri Piacenza, il giornalista Martinelli commenta: “Predisposizione a delinquere propria di chi nasce al Sud”. Da Chiara Di Tommaso il 23 luglio 2020 su vesuviolive.it. Ha scosso il mondo delle forze dell’ordine quanto scoperto in una caserma di carabinieri a Piacenza. Una vera e propria associazione a delinquere era stata messa in piedi da sei carabinieri che gestivano anche lo spaccio di droga della zona. Addirittura durante il lockdown, i carabinieri hanno accompagnato gli spacciatori a Milano per rifornirsi. Peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, alcune delle ipotesi di reato. Al momento sono stati resi noti i nomi dei carabinieri ma non la loro città di provenienza. Qualcuno ha deciso di cavalcare l’onda anti-meridionalista per attaccare il sud. Si tratta di Daniele Martinelli, giornalista professionista facente parte nel 2013 del gruppo comunicazione del Movimento 5 stelle alla Camera dei deputati. L’uomo che ha anche un blog ed è originario di Romano di Lombardia (in provincia di Bergamo), ha infatti scritto sul suo profilo Facebook: “6 carabinieri arrestati a Piacenza accusati di tortura e di aver estorto oltre che favorito lo spaccio di sostanze. L’elenco di militari dell’Arma che finisce nei guai per maltrattamenti e vessazioni si fa troppo lungo. Urge una riforma radicale del metodo di selezione dei candidati a quello che sembra un rifugio soprattutto per Meridionali in cerca di stipendio fisso, più che una vocazione alla legalità e al patriottismo“. 

A chi lo attacca di razzismo e di discriminazione territoriale, Martinelli replica in un commento in cui viene messo in luce ancora di più il suo pensiero antimeridionalista: “Ecco l’elenco dei 6 carabinieri arrestati a Piacenza: 

Giuseppe Montella, napoletano, boss dello spaccio e delle botte. 

Angelo Esposito, napoletano. 

Giacomo Falanga, napoletano. 

Daniele Spagnolo, pugliese. 

Salvatore Cappellano, siciliano. 

Marco Orlando, siciliano, comandante della caserma di Piacenza ai domiciliari.

6 meridionali su 6. Ora qui nessuno dice che essere meridionale significa essere delinquente, ci mancherebbe.

Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male, è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al Sud. Del resto la camorra, la Sacra corona unita, la Ndrangheta o la mafia con i loro metodi di sangue e violenza, non sono propriamente associabili alle mentalità tipiche del Piemonte, della Lombardia o del Veneto. Nessun valtellinese ha mai sciolto un bimbo nell’acido. Il siciliano Spatuzza sì. Ecco, sono questi i rudi metodi di un Sud arretrato dal quale proviene la stragrande maggioranza di delinquenti che sporcano il prestigio delle istituzioni e di quella maggioranza di gente per bene e onesta che indossa la divisa con onore. Ecco, non è tollerabile che dopo i casi Cucchi, Rasman, Uva, Aldrovandi, Ros-Ganzer, G8 di Genova (2001), Marrazzo (2009), violenze sessuali a Firenze (2017), i 27 militari violenti delle caserme della Lunigiana, ci sia ancora chi dica “ne risponderanno personalmente”. Va riformato il metodo di selezione dei candidati e inaspriti i controlli. Perché non è tollerabile che nessuno delle dirigenze intermedie fino ai vertici dell’Arma, non sappia o non abbia saputo. Non è tollerabile che inchieste così escano grazie a qualcuno che spiffera e che vince l’omertà. Guarda caso anche questa brutta bestia tipica del Sud e che è l’humus di tutte le mafie e di tutte le sopraffazioni”. 

Parole incommentabili che vengono smentite dai fatti. Una nuova stazione mobile è ora operativa a Piacenza. A guidarla è il capitano Giancarmine Carusone, 34enne originario di Caserta e che proviene dal comando di una Compagnia in provincia di Messina. Un meridionale. Mentre il comandante generale dell’arma dei carabinieri, Giovanni Nistri, nella sua formazione ha frequentano la Scuola Militare Nunziatella di Napoli nel quadriennio 1970 – 1974. Altra eccellenza del Sud.

Carabinieri Piacenza: il ritratto di Solari, legale di Montella. Nella foto fucile e manganello. Pubblicato martedì, 28 luglio 2020 da Paolo Berizzi su La Repubblica.it.  Su Fb appare accanto a una donna. Indossano tutti e due il basco dei parà della Folgore. Il post è intitolato: "Credere, obbedire, combattere". Dall'estrema destra alla difesa di uno dei protagonisti dell'inchiesta sui carabinieri di Piacenza. Eccolo, l'avvocato Emanuele Solari. Il "camerata Solari", come lo chiamano negli ambienti neofascisti piacentini. Mentre il suo cliente più noto alle cronache, l'appuntato dei carabinieri Giuseppe Montella, esibiva sui social le foto della "bella vita" di provincia, tra champagne, ventagli di banconote, grigliate e cocktail in piscina, lui, il legale di estrema destra con il pallino della politica, mostrava se stesso versione nostalgico mussoliniano. È il 21 novembre 2016. Su Fb Solari appare in una fotografia accanto a una donna. Indossano tutti e due il basco dei parà della Folgore (bordeaux quello di Solari, nero quello della donna). Lei impugna un manganello nero, in bella vista, con le scritte "Credere obbedire combattere" e "onore e fedeltà". Lui tiene in mano un fucile. Sullo sfondo, altri cimeli storici: aquile, gagliardetti e simboli della XMas. Il post è intitolato, appunto, "credere, obbedire, combattere". Sotto, nei commenti, c'è anche quello di Giuseppe Montella. Che fa i complimenti al suo avvocato: "Seoppppasi il numero uno".  Siamo nel 2016. Sette mesi dopo a Piacenza si vota. In corsa per le elezioni amministrative c'è anche l'avvocato Solari. Forza Nuova lo ha candidato. Ma il 13 maggio, a un mese dal voto, c'è un colpo di scena: la lista di estrema destra viene esclusa dalla commissione elettorale di Piacenza. C'è un problema di firme: quelle corrette presentate dal partito di Roberto Fiore, ad una verifica dei commissari, non superano la fatidica quota 350. Forza Nuova e il neofascista Solari sono quindi costretti ad abbandonare la corsa (il simbolo non compare sulla scheda elettorale). Un anno dopo l'avvocato ci riprova. È candidato alle elezioni politiche di marzo 2018. Sempre con Forza Nuova. Che da' vita alla lista "Italia agli italiani" (insieme alla Fiamma tricolore). Nonostante una campagna elettorale aggressiva, a livello nazionale FN si ferma a un irrisorio 0,37%. Flop anche per CasaPound (0,9%). Entrambe le formazioni di estrema destra - i cui voti vengono aspirati dalla nuova Lega sovranista e nazionalista di Matteo Salvini - sono presenti con sedi e associazioni satellite a Piacenza. Dove è attivo anche il Veneto Fronte Skinhead. Abbastanza noto in città, da anni vicino ad ambienti del neofascismo piacentino, Emanuele Solari alle politiche doveva essere il candidato forte di Fiore. Che a Piacenza, in campagna elettorale, febbraio 2018,  era venuto per un incontro politico. "Lo Stato deve avere il controllo sul territorio" , diceva Solari accanto al leader e cofondatore di Terza Posizione. La parabola politica dell avvocato non è stata fortunatissima. Adesso, grazie alla vicenda della caserma Levante e del suo assistito Montella, il legale finisce di nuovo sotto i riflettori dei media.  

Dall'estrema destra alla difesa dell'appuntato Montella. Ecco chi è l'avvocato Emanuele Solari. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020da Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica.it Si è presentato nelle liste di Forza Nuova. E il suo assistito è sulle stesse posizioni. “Sei il numero 1” gli scriveva l’appuntato sotto una foto pubblicata su Facebook: “Obbedire, credere, combattere”. “Lo Stato deve avere il controllo del suo territorio”, diceva a febbraio del 2018, accanto a Roberto Fiore (condannato per eversione negli anni 70 quando guidava Terza posizione) Emanuele Solari, l’avvocato di Giuseppe Montella. Solari in quell’occasione presentava la sua candidatura a parlamentare per Forza Nuova, il partito d’ispirazione fascista, di cui Solari è il massimo rappresentante qui a Piacenza. Chissà se il concetto di Stato e “controllo del territorio” è ritornato nei discorsi che Solari ha fatto in queste ore con il suo assistito Montella, in galera proprio perché ha rappresentato la declinazione peggiore del concetto di Stato: in barba a ogni legge, esercitava il proprio potere tramutandolo in abuso. Con violenza e torture. Montella, questo per lo meno si deduce dalle loro pagine Facebook, era sulle stesse posizioni di Solari. Le interazioni tra i due sono molti. Solari, a proposito di migranti, parlava di “gravissima ingiustizia sociale che mira alla sostituzione delle popolazioni europee con persone di altri paesi, veri e proprio sradicati che in un futuro verranno sfruttati come manodopera a basso costo”. “Sei il numero 1” gli scriveva l’appuntato sotto una foto dell’avvocato con lo slogan: “Obbedire, credere, combattere”. Ieri l’avvocato Solari aveva spiegato la posizione del suo assistito, che ha avuto un atteggiamento molto collaborativo durante l’interrogatorio di garanzia. “Gli essere umani - aveva detto -  possono commettere errori, alcune condotte possono avere rilevanza penale, altre no. C'è chi può sbagliare per ingenuità o anche vanità. Sono fiducioso perché credo nella giustizia. Chiedo alla stampa, perché non fa bene a nessuno, visto che ci sono anche di mezzo figli minorenni, di non dipingerlo alla Scarface perché non è così”. I ragazzi che, secondo la Procura, sono stati torturati da Montella e gli altri carabinieri della Levante non sono così d’accordo.

Carabinieri arrestati a Piacenza, l'avvocato di Montella candidato sindaco con Forza Nuova. Le Iene News il 26 luglio 2020. La candidatura e le simpatie di estrema destra di Emanuele Solari, legale dell’appuntato Giuseppe Montella, considerato il leader dei sei carabinieri arrestati a Piacenza. E quegli slogan neofascisti condivisi e commentati. L’avvocato Emanuele Solari che difende Giuseppe Montella, l’appuntato dei carabinieri considerato dalla procura "il capo" del gruppo di sei carabinieri arrestati (uno è ai domiciliari) lunedì scorso a Piacenza, si era candidato a sindaco nella città nel 2017 per il partito neofascista Forza Nuova. Nella foto sopra lo vedete con il fondatore della formazione di estrema destra Roberto Fiore. Le accuse per i militari sono gravissime: arresti illegali, torture, lesioni, estorsioni, spaccio di droga. Tanto gravi che la caserma Levante, per la prima volta nella storia dell’Arma, è stata messa sotto sequestro. Del caso vi abbiamo parlato anche con la testimonianza di Hamza Lyamani, il ragazzo marocchino informatore di quei militari che, parlando con l’attuale comandante della compagnia dei carabinieri di Cremona Rocco Papaleo, avrebbe dato il via all’inchiesta: “Mi avevano minacciato di buttarmi nel Po” (clicca qui per il suo racconto). Solari sarebbe noto per le sue simpatie per l’estrema destra e per Forza Nuova in particolare. La candidatura a sindaco nel 2017 svanì perché la lista venne esclusa per il mancato raggiungimento delle firme necessarie. Solari è stato candidato nuovamente da Forza Nuova alle ultime elezioni politiche. Le sue posizioni politiche sono state commentate anche dal suo attuale assistito, l’appuntato Giuseppe Montella che nel 2016 gli scrive “Sei il numero uno” per questo post, pubblicato oggi da Il Riformista e che vedete più chiaramente qui sotto, con lo slogan fascista: “Obbedire, credere, combattere”.

Inchiesta caserma Piacenza, l'ufficiale che segnalò i reati: "Ho fatto il mio dovere". Pubblicato giovedì, 06 agosto 2020 da La Repubblica.it. "Io ritengo di aver fatto il mio dovere fino in fondo. Credo nell'Arma dei carabinieri, in cui presto servizio da 26 anni, e nella giustizia". Così il maggiore Rocco Papaleo, comandante della Compagnia carabinieri di Cremona, ai giornalisti, al termine del lungo incontro avvenuto in Procura a Piacenza dove è stato sentito dai pm e dal procuratore Grazia Pradella, sulla vicenda che ha portato all'arresto di sei militari e al sequestro della caserma Levante in cui prestavano servizio. Proprio grazie alla segnalazione dell'ufficiale, che ha comandato per dieci anni il nucleo investigativo a Piacenza, ha preso il via a gennaio l'indagine poi condotta dalla Guardia di Finanza. Il maggiore Papaleo è stato sentito a sommarie informazioni come persona informata sui fatti. All'uscita, dopo più di tre ore di colloquio, ha ribadito di non voler rilasciare dichiarazioni in merito alla vicenda. A chi gli ha chiesto se abbia mai detto di non fidarsi dei vertici dell'Arma, ha risposto di aver visto in questi giorni "tanti virgolettati e articoli in cui qualcuno ha voluto interpretare il silenzio giustamente impostomi dal mio dovere e anche dall'autorità giudiziaria con interpretazioni di cui ognuno si assumerà le proprie responsabilità e laddove riterrò di procedere, anche a querela". "Leggetevi alcuni titoli di giornali - ha aggiunto - alcuni sono stati seri e hanno sottolineato quello che è stato il mio reale ruolo nella vicenda, altri probabilmente spinti o mossi da qualche personaggio o mio detrattore, si sono avventurati in voli pindarici o addirittura progetti machiavellici, gettando ombre sul mio passato, sul mio operato piacentino". Intanto arriva ancora una denuncia nei confronti dell'appuntato dei carabinieri Giuseppe Montella, in carcere nell'ambito dell'inchiesta Odysseus della Procura di Piacenza, che ha portato anche al sequestro della caserma della stazione Levante. A presentare querela, attraverso l'avvocato Stefano Germini, racconta il Tgr Rai Emilia-Romagna, è un artigiano del piacentino, che si è deciso a muoversi solo dopo la notizia degli arresti, dal momento che prima aveva paura di ritorsioni. L'episodio risale all'estate del 2016. L'artigiano aveva fatto dei lavori per la compagna di Montella, Maria Luisa Cattaneo, anche lei finita agli arresti. La donna, ha riferito l'imprenditore, aveva accumulato debiti per circa 20mila euro. Un giorno si sarebbe presentata in ufficio con mille euro, chiedendogli di firmare per chiudere la questione. Lei lo avrebbe minacciato e, di fronte al suo rifiuto, avrebbe chiamato in supporto Montella che, secondo il racconto dell'artigiano, lo avrebbe spintonato e buttato contro le transenne, minacciandolo a propria volta. Il confronto poi è proseguito in un bar vicino, dove ancora una volta Montella gli avrebbe messo le mani addosso. Era in borghese, ma "aveva il tesserino ben in vista", spiega il legale. La denuncia è, tra l'altro, per tentata estorsione e ipotizza anche l'omissione di atti d'ufficio nei confronti dei carabinieri di Pontenure che, intervenuti, non avrebbero fatto nulla.

Caserma degli orrori, giovane carabiniere unica mela sana: “Papà io non voglio fare un falso ideologico”. Redazione su Il Riformista il 23 Luglio 2020. C’era anche chi trai carabinieri della caserma Levante di Piacenza non voleva commettere illeciti come i suoi colleghi finiti al centro dell’inchiesta della Procura di Piacenza. Dall’ordinanza di custodia cautelare del gip Luca Milani, infatti, emerge che un giovane militare, R.B., da poco promosso maresciallo, nutriva un “forte disagio nel constatare le continue violazioni e gli abusi commessi all’interno della Caserma di via Caccialupo”. Dalle carte non emerge né che il maresciallo fosse a conoscenza di tutti gli illeciti commessi, né tantomeno di sue volontà di denunciare quello che accadeva all’interno della caserma. Definito dai colleghi finiti in carcere come una persona “dall’atteggiamento solitario, che non fa gruppo”, il carabiniere descrive al situazione al padre, anche lui carabiniere in pensione, e in una telefonata del 4 maggio, contenuta nell’ordinanza, il militare descrive tutta al sua “delusione” per per “essere finito a lavorare in un ambiente in cui vengono costantemente calpestati i doveri delle Forze dell’Ordine, dove tutto è tollerato a condizione che vengano garantiti i risultati in termini di arresti”. Al padre, il giovane dice: “Io barro e non voglio fare un falso ideologico! … cioè .. cioè, c’è l’attestato che ho fatto in data tot qualcosa che, invece, non è neanche vero!”. E il padre gli risponde: “appunto! … e questo è un falso, si!”. Il carabiniere si sente isolato rispetto ai colleghi, che “si gestiscono molto tra di loro”, anche dichiarando di aver fatto dei servizi di pattuglia che in realtà non venivano eseguiti. “Lo sai perché se lo possono permettere? – chiede il padre – perché portano gli arresti!”. E il figlio gli risponde: “Perché portano i risultati, lo so! Lo so!” E ancora: “Io ti faccio fare bella figura, a te colonnello ti faccio fare bella figura e ti porto uni sacco di arresti l’anno. Lavorano assai! Ma perché? C’hanno i ganci”. Il giovane carabiniere manifesta il suo disagio al padre, dicendogli che non sa mai “come comportarsi”, perchè “non sono né carne e né pesce – si lamenta – e quindi non so come comportarmi”. Il consiglio del padre, carabiniere in pensione, è di “stare in stand-by, sperando che tutto vada bene” e il figlio si convince a lasciare ” un po’ passare così, anche passivamente, cioè -aggiunge – non prendo tanto l’iniziativa”. “Immaginando quali possano essere stati gli ideali che hanno ispirato tanti giovani a intraprendere un percorso di vita all’interno dell’Arma dei Carabinieri – chiosa il gip – fatto di rinunce, sacrifici e rischi personali, desta sconcerto apprendere con quali modalità gli indagati di questo procedimento si servissero anche dei locali della Caserma nei quali è destinata a svolgersi la loro pubblica funzione”.

Carabinieri o bucanieri? Dopo il caso Cucchi la caserma degli orrori di Piacenza. Alberto Cisterna su Il Riformista il 23 Luglio 2020. La Nazione non può fare a meno dell’Arma dei Carabinieri e nessuno ha mai neppure pensato di dover metter mano al più glorioso dei corpi di polizia, eletto finanche a Forza armata due decenni or sono accanto a Esercito, Marina e Aviazione. Un unicum al mondo, ritenuto un modello da imitare e una risorsa insostituibile nelle missioni internazionali. Ciò posto sarebbe ingiusto negare che la retata disposta dalla procura della Repubblica di Piacenza lasci tutti attoniti e sbigottiti. Al di là delle responsabilità dei singoli indagati, il coinvolgimento nell’inchiesta di un’intera struttura dell’Arma è un fatto grave che segnala, a questo punto in modo quasi irreversibile, l’emergere di un problema che deve essere risolto perché attinge alle radici della legittimazione democratica di una forza di polizia, ancor di più se si tratta di una forza armata vocata alla difesa della Nazione. Il ripetersi di episodi che hanno visto appartenenti dell’Arma chiamati a rispondere di gravi reati nell’esercizio delle proprie funzioni (per citare l’affaire Cucchi o la violenza sulle studentesse americane a Firenze o gli sviluppi ancora del tutto imprevedibili dell’omicidio del povero Cerciello Rega) interroga in profondità la coscienza dei cittadini e lascia cicatrici che devono essere rimarginate con rapidità e decisione. La straordinaria lettera di scuse indirizzata dal Comandante generale ai familiari di Stefano Cucchi contiene considerazioni che devono essere richiamate all’attenzione di queste ore in cui una caserma intera è stata messa sotto sequestro come fosse un covo di bucanieri e sopraffattori. Scriveva il generale Nistri: «Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole importanti che, a questo punto, esigono anche rimedi altrettanto decisi e decisivi. Ritenere che l’Arma potesse mantenersi esente da fenomeni degenerativi che, purtroppo, riguardano anche altre primarie istituzioni pubbliche sarebbe stato illusorio e nessuno si deve lamentare di uno sfilacciamento della coesione etica in qualche segmento dell’apparato. Ma mentre la corruzione o il malaffare negli uffici pubblici provocano le sperpero di risorse collettive e distruggono l’efficacia dell’azione amministrativa, le devianze dei corpi di polizia minacciano beni assolutamente primari e inviolabili del cittadino, tra cui in primo luogo la sua libertà personale e la sua incolumità fisica. La sola idea che qualcuno possa sentirsi a rischio o anche solo a disagio nell’entrare in contatto con un carabiniere o un poliziotto segna ovunque il discrimine tra una nazione democratica e un enclave sudamericana senza regole. E non serve richiamare l’ampio dibattito, in corso da decenni negli Usa, o le recenti, pesanti reazioni al caso di George Floyd per comprendere quali siano i parametri secondo cui si misura il rating di legalità dell’azione di polizia in una nazione. Il dovere dell’assoluta intangibilità fisica e morale dell’uomo in vincoli (Habeas corpus), il rispetto della sua indifesa soggezione alla potestà pubblica sono le colonne d’Ercole oltre le quali nessuno può spingersi. La relazione fiduciaria tra cittadini e forze di polizia non si manifesta solo – e com’è giusto – nella richiesta di un aiuto o di un intervento (che non mancano mai), ma soprattutto nella serenità e tranquillità con cui ciascuno affida sé stesso – anche contro la propria volontà se in custodia – alle mani di chi esercita su di lui una potestà limitatrice. Mantenere indenne questa sottile linea rossa che separa la forza legittima e l’arbitrio, impedire che la corruzione o l’abuso possano impadronirsi anche solo a macchia di leopardo delle strutture di polizia, evitare il formarsi di circuiti investigativi opachi in cui pubblici ministeri e operatori di polizia rafforzano legami extralegali al riparo o con la malcelata sopportazione dei vertici, contenere un carrierismo esasperato che induce a privilegiare i contatti con l’establishment gerarchico piuttosto che a dedicarsi all’antica, paziente cura degli uomini al proprio comando, sono obiettivi probabilmente imprescindibili per ogni forza di polizia in questo momento storico. E a maggior ragione per l’Arma dei carabinieri che ha un posto speciale e unico nella considerazione dei cittadini. Per farlo sono necessari, corpo per corpo e apparato per apparato, approcci diversi e soluzioni differenti. Troppo profonde le differenze strutturali e operative tra le tre principali forze di polizia perché possano immaginarsi rimedi omogenei. Certo, genera acuta attenzione il concentrarsi di episodi sul versante della Benemerita e il moltiplicarsi di casi mediaticamente dirompenti. Aveva ragione il generale Nistri quando scriveva alla famiglia Cucchi «…il rispetto assoluto della legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, “chi” ha fatto “ che cosa”». E malgrado ciò si staglia con una certa chiarezza, in queste parole, anche una fragilità e un limite oggettivo che l’attività di prevenzione interna degli abusi e dei reati incontra in una struttura che annovera oltre 4.500 stazioni e un centinaio di altri comandi. Un’articolazione pulviscolare pressoché unica e nella quale, drammaticamente, la lacerazione deontologica e l’aberrazione comportamentale sono più difficili da rilevare e da reprimere con rapidità. La lunga catena di comando che ha storicamente connotato l’organizzazione dell’Arma (che in oltre 3.700 comuni rappresenta l’unica forza di polizia presente) evidenzia cedevolezze e mostra crepe che vanno affrontate da chi di dovere. Con molta approssimazione e in punta di piedi può, forse, dirsi che la formazione dei quadri intermedi sia lo snodo nevralgico di questa sfida, come tutte le vicende recenti hanno mostrato. Sembra che occorra rafforzare la vicinanza dei comandi locali alle più piccole strutture periferiche affinché avvertano, a un tempo, la presenza e anche il controllo dei protocolli in cui sono inseriti. Protocolli in cui è sempre immanente il rischio che la burocrazia si sostituisca alla gerarchia. Probabilmente per nessuna altra articolazione dello Stato-amministrazione si avvertono così forti il coinvolgimento e l’aspettativa dei cittadini che hanno un preciso interesse all’onore e alla disciplina (art.54 Cost.) di tutta l’Arma solo perchè ne vanno orgogliosi.

Da corriere.it il 23 luglio 2020. «Un fatto enorme e gravissimo che ricorda la vicenda di mio fratello Stefano». Così Ilaria Cucchi commenta l’indagine della Procura di Piacenza che coinvolge alcuni carabinieri accusati, tra l’altro, di traffico di droga, estorsioni e tortura. «Bisogna andare fino in fondo - ha aggiunto Cucchi - non si facciano sconti a nessuno come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’indagine sulla morte di Stefano- ricorda la sorella del geometra morto a una settimana dall’arresto per le conseguenze delle percosse subite dai carabinieri in caserma - Basta parlare di singole mele marce, i casi stanno diventando troppi.  Il problema è nel sistema: mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma subito dopo la testimonianza come nel caso del loro collega Casamassima», conclude Ilaria Cucchi, che per anni si è battuta per stabilire la verità sulla morte del fratello. Come si è battuta la mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti: anche lei ha dimostrato che il suo ragazzo, all'epoca diciottenne, è morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Nella condanna dei 4 agenti, del 2012, si legge che fu esercitata un'azione «sproporzionatamente violenta e repressiva». La morte fu causata dalla pressione esercitata dai poliziotti che nel tentativo di immobilizzare Federico, durante un controllo, gli erano montati sulla schiena. Inoltre, i giudici stigmatizzano il tentativo di manipolare le testimonianze e sminuire le colpe degli imputati. Oggi Moretti scrive su Twitter: «Quanti cesti di mele marce abbiamo accumulato?».

Il processo. A novembre scorso, al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, è arrivato invece il verdetto di primo grado contro gli imputati nel caso Cucchi, autori dell’arresto e responsabili delle percosse inflitte al trentunenne spacciatore di marijuana e cocaina, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il calvario del detenuto, picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), poi portato in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto a una settimana dall’arresto, senza che i familiari riuscissero a sapere nulla delle sue condizioni. I carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sono stati condannati a 12 anni di carcere. Poi è stato aperto il cosiddetto «Cucchi ter», per ricostruire le responsabilità di chi cercò di coprire il pestaggio del geometra. Otto i militari sotto accusa. Il ministero di Giustizia si è costituito parte civile.

Carabinieri arrestati, il procuratore: «Nessun "sistema", ma guai a chiamarle mele marce». Fiorenza Sarzanini il 25/7/2020 su Il Corriere della Sera.

A rileggere le ultime inchieste emerge un sistema di impunità.

«Non è un sistema, chi lo dice vuole danneggiare l’istituzione. Ma commette un errore grave chi parla di mele marce».

E allora cos’è?

«Sono gruppi di delinquenti che fuori controllo diventano un vero e proprio focolaio capace di infettare l’intera caserma. Per questo dico che bisogna controllare e isolare. L’Arma è un pilastro dello Stato, deve essere protetta».

Come?

«Dobbiamo ripartire dalla formazione e dall’etica. I principi fondanti sono la lealtà, l’onestà e la fiducia. Basti pensare che per i militari la codardia è un reato. Al momento la segnalazione di illeciti compiuti da altri militari viene ritenuta contraria all’etica, anche perché si danneggia l’immagine del reparto. Dunque bisogna tutelare chi decide di denunciare».

I funzionari dello Stato hanno già l’obbligo di denuncia.

«Però in questi casi temono le ritorsioni. Le procure militari sono piene di anonimi che poi spesso si rivelano fondati. È arrivato il momento di prevedere, almeno per un certo periodo di tempo, il whistleblowing anche per le forze dell’ordine, garantendo loro la protezione se decidono di denunciare casi di corruzione altri reati. Bisogna tutelare le persone che segnalano le disfunzioni altrimenti le perdiamo».

Lei ha gestito l’inchiesta sullo stupro delle due studentesse americane a Firenze e le violenze compiute nella stazione di Massa Carrara. E poi decine di indagini meno eclatanti, ma ugualmente gravi. Non crede che il filo comune sia proprio lo spirito di corpo che si traduce nel senso di impunità?

«Di per sè lo spirito di corpo è un valore. Se lo si abusa può diventare un illecito strumento di impunità, poiché può indurre taluno a non denunciare eventuali illeciti per evitare di danneggiare l’immagine del corpo. E ciò può far nascere la convinzione di non essere “traditi” dai colleghi finendo per costringerli ad un imbarazzante silenzio. E non dimentichiamo che molti carabinieri provengono dalle forze armate. Questo non sempre è positivo perché spesso non ricevono la tradizionale formazione delle forze di polizia, nè dal punto di vista investigativo nè da quello dell’etica di corpo».

Come si possono rendere efficaci i controlli?

«Verificando la vita privata, chiedendo conto a chi conduce una vita al di sopra delle proprie possibilità. Anche a livello apicale deve cambiare la mentalità, ridimensionando il carrierismo fine a sé stesso».

Si riferisce ai procedimenti disciplinari?

«Penso soprattutto alla mentalità. Attualmente un comandante bravo è quello che non ha problemi. In realtà in questo modo può accadere che li nasconda, che non li faccia emergere. Bisognerebbe far passare il messaggio che il vero comandante è quello che risolve il problema non quello che non lo fa apparire ignorandolo o non denunciandolo».

Dopo il clamore delle indagini si torna rapidamente alla normalità. Non crede che questo faccia aumentare il senso di impunità?

«A volte accade, mi sembra che molti non abbiano la percezione di rappresentare lo Stato. Per questo ritengo necessaria una maggior condivisione tra la magistratura ordinaria e quella militare. Una condanna per reati come la violata consegna e l’omesso controllo sui doveri del comandante può demolire una carriera. Da parte dei carabinieri sarebbe necessario una maggiore riflessione su questi profili».

Crede che i gravissimi della caserma Levante possano convincere i vertici dell’Arma a voltare davvero pagina?

«Non farlo sarebbe un errore gravissimo. Un colpo letale per l’istituzione».

Ilaria Cucchi: “Basta parlare di mele marce: a Piacenza un sistema, ora niente sconti a nessuno”. Il Dubbio il 23 luglio 2020. Per la sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo morto dopo il pestaggio da parte di due carabinieri, le violenze di Piacenza mettono in evidenza un “sistema”. “La vicenda di Piacenza e’ un fatto enorme e gravissimo che ricorda il caso di mio fratello”. Lo ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, commentando l’inchiesta della procura di Piacenza che coinvolge alcuni carabinieri accusati di diversi reati dal traffico di droga alla tortura. “Bisogna andare fino in fondo e non fare sconti a nessuno, come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’inchiesta sulla morte di mio fratello e anche in questa indagine. Basta parlare di singole mele marce, i casi – ha proseguito Ilaria Cucchi – stanno diventando davvero troppi. Il problema e’ nel sistema. Mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma come subito dopo la testimonianza del loro collega Casamassima”. “Io barro, non voglio fare un falso ideologico!”. Dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Piacenza, emerge la figura di un neo carabiniere “dall’atteggiamento solitario, che non fa gruppo”, così lo definiscono due degli arrestati, che si oppone, quanto meno non partecipandovi, a quello che per gli inquirenti sarebbe stato un andazzo criminale, caratterizzato da pestaggi, arresti illegali, spaccio di droga, festini con escort dentro la caserma sequestrata. R.B., queste le iniziali del ragazzo che appare la "mela sana" in un contesto buio, confida al telefono i suoi dubbi sull’operato dei colleghi al padre, carabiniere in pensione. – Da questi colloqui, scrive il giudice Luca Milani, si evince “tutta la delusione del giovane militare dell’Arma per essere finito a lavorare in un ambiente in cui vengono costantemente calpestati i doveri delle forze dell’ordine, dove tutto e’ tollerato a condizione che vengano garantiti i risultati in termini di arresti”. Per il magistrato, il ragazzo manifesta “una scarsa propensione a seguire i colleghi dovuta al suo forte disagio nel constatare le continue violazioni e gli abusi commessi all’interno della caserma di via Caccialupi”. “Molte cose le fanno le cose a umma a umma, non mi piacciono”, ripete più volte al genitore, riferendosi ai colleghi poi arrestati, e spiegando al padre di non voler attestare falsamente “di avere fatto in una tot data un qualcosa che poi non e’ neanche vero”, commettendo quindi un falso.

Carabinieri della caserma degli orrori non sono male marce, la tortura di Stato è la norma. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Dopo aver appreso dal Corriere della Sera che nella caserma di Piacenza si infieriva su «spacciatori, immigrati ma anche semplici cittadini innocenti» (l’immigrato è notoriamente colpevole), potremmo adottare la retorica comune a destra e a manca secondo cui quando si discute di giustizia ci si dimentica sempre delle vittime. Sarebbe una retorica buona, per una volta: anche solo perché, guarda caso, non risuona mai quando a subire violenza sono quelli sottoposti alle cure di giustizia e quando a perpetrarla è l’ordinamento che semmai dovrebbe proteggerli. Di queste altre vittime, chissà perché (chissà perché per modo di dire, ovviamente), non si occupa mai nessuno, eppure lo stato di afflizione in cui versano è conclamato. A fronte della sperabilmente episodica vergogna piacentina c’è la tolleratissima normalità di un sistema che sottopone a tortura decine di migliaia di cittadini, perlopiù appartenenti ai ranghi infimi della società: e se ora fa scandalo la sopraffazione di cui sono stati destinatari i poveracci finiti nelle grinfie di quei criminali in divisa, nulla, ma proprio nulla si fa per mettere fine all’ordinaria ignominia di un’organizzazione pubblica che con il sigillo di Stato sequestra la vita delle persone e la consegna alla malattia, alla schiavitù sessuale, alla disperazione dell’isolamento, alla privazione di qualsiasi diritto riconosciuto persino alle bestie. E sono tutti innocenti, tutti: perché potranno anche aver commesso un illecito (molti non ne hanno commesso nessuno), ma non c’è colpa che giustifichi la sottomissione a quel dispositivo di multiforme degradazione. Ordini di carcerazione e condanne irrogate con sentenze emesse in nome del popolo italiano sono lo strumento con cui la società, ogni giorno, infligge a degli esseri umani una somma di sanzioni che non hanno nulla a che fare con la pena già gravissima costituita dalla privazione della libertà: e così quei provvedimenti di giustizia diventano il tramite indifferente di un’illegalità sostanziale, il mezzo formalmente impeccabile con cui si realizza il crimine di Stato, il lasciapassare della pubblica impunità. Non servono indagini e denunce per fare emergere la realtà del nostro sistema carcerario, perché è una realtà conosciuta. E non servono condanne, che dal pulpito della giustizia europea continuano a fioccare senza che cambi mai nulla e senza che lo Stato italiano, questo delinquente abituale, ritenga di adeguarvisi. Serve una classe dirigente per opporsi a questo schifo senza curarsi del consenso a rischio.

Carabinieri di Piacenza, la vergogna della sinistra dopo l'arresto dei banditi: chi alimenta il disprezzo contro l'Arma.  Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. C'è una vignetta orribile su Repubblica. Essa è indice della decadenza di questo Paese, in altro modo, sia pur meno truculento, di quello esibito a Piacenza da un manipolo di carabinieri da film americano sulla corruzione della polizia. Ellekappa offre un dialogo tra due cittadini perbene. Tizio dice: «Dal G8 di Genova, passando per Cucchi, per arrivare a Piacenza». Caio conclude: «Usi coprir tacendo». Il significato è chiaro. L'Arma è una organizzazione criminale, dove la violenza e la tortura non sono episodi circoscritti, ma la stoffa della divisa. Qualche volta l'evidenza di questo stato delle cose tracima, e mostra che la regola suprema, una specie di ordine di servizio non scritto come il codice rosso dei Marines, sia l'omertà. Questa battuta (?) è il vertice della totale delegittimazione di quella che è stata una colonna portante della fiducia dei cittadini non solo verso le istituzioni, bensì verso la possibilità stessa di vivere in pace, dentro una sicurezza niente affatto truce ma fraterna. Non pensiamo affatto che la direzione passata e presente, insieme con il fondatore e l'editore (la famiglia Agnelli), sia su questa linea di linciaggio morale dei Carabinieri. Ma carta e inchiostro cantano. E musica e testo della canzone eccitano il popolo di sinistra - di cui Repubblica intende tuttora essere la guida politica e morale - a demolire l'Arma non più benemerita. C'è una parte della sinistra che è così: vuole sangue (dei carabinieri e della polizia). È il versante italiano della campagna partita dagli Usa e intitolata "Black Lives Matter", che è stata prima una protesta contro i metodi della polizia locale per diventare poi un moto globale per lo sradicamento di ogni simbolo della civiltà occidentale. Questa operazione ha somiglianze singolari con quell'altra campagna condotta prima negli Stati Uniti e poi imitata con grande goduria in Italia contro la Chiesa. Il bersaglio apparente era ed è sacrosanto come nell'attuale scandalo di Piacenza: gli abusi sessuali del clero verso ragazzini che sacerdoti e vescovi avrebbero dovuto custodire. Il tutto coperto dalla gerarchia per non evitare sfregi alla reputazione della Santa Sede e delle diocesi del mondo intero. C'è bisogno di dire che un repulisti era (ed è) necessario. Nulla è più orribile e grave della pedofilia, che distrugge la vita delle vittime. Lo scopo però, reso palese dall'ossessione unidirezionale delle accuse, non ha avuto e non ha la protezione di chi è stato violato o rischia di esserlo, ma la demolizione della Chiesa, la sua riduzione a santuario di preti pervertiti, la trasmissione di una sorta di idea diffusa per cui mandare i figli all'oratorio sarebbe equivalente ad accompagnarli nella casa degli orchi. Ecco. Qui tocca dirlo: oratori e caserme non sono nella stragrande maggioranza dei casi scene potenziali del crimine, ma luoghi dove sono trasmessi e comunque praticati quei valori senza di cui il mondo sarebbe l'arena messicana del combattimento tra cani: irredimibile, disfatto, dove le uniche persone a posto sono i propagandisti della dissoluzione. La Chiesa, accanto a iniziative meritorie e severe di pulizia, ha fin troppo accettato, rinunciando al garantismo, ad accondiscendere a questa immagine catastrofica (vedi la vicenda incredibile delle ingiuste accuse al cardinale Pell, difeso e fatto assolvere dall'inchiesta di un giornalista ateo). Ci auguriamo che i vertici dei Carabinieri non facciano altrettanto per cedere alle pressioni spesso pelose di chi vorrebbe il harakiri dell'Arma e, alla fine, della nazione. Qui mi pare interessante mettere in luce quel che non viene detto. Nell'ordinanza del Gip che ha spedito in carcere sei carabinieri, i cui comportamenti fanno rizzare i capelli per la sistematicità dei crimini commessi e l'incredibile presunzione di impunità, c'è sì il sentimento nobile e amareggiato della giovane recluta che sente il clima pesante e si sfoga con il padre. Di questo è stato dato conto, e giustamente. Conviene però si sappia chi e come abbia mosso l'inchiesta della magistratura e della Guardia di Finanza. È stato il comandante della compagnia dei carabinieri di Cremona, un alto ufficiale cioè, in precedenza di stanza a Piacenza. Nel corso di una deposizione come persona informata su altri fatti, ha fatto ascoltare dei messaggi vocali "asseritamente ricevuti da un soggetto di origine marocchina". C'era già tutto. Insomma: sono stati i carabinieri a sollevare il coperchio del verminaio. Altro che "usi coprir tacendo". Ed ecco però un'ammissione del maggiore: si rivolgeva alla polizia giudiziaria e noi ai colleghi perché non aveva fiducia negli attuali dirigenti dei carabinieri di Piacenza. Nulla di nuovo. Chi si fida di chi? Identiche cose si sentono dire in Vaticano riferite a questo o a quel dicastero o curia. Qualcosa di acido è penetrato in questi ultimi decenni post-68 nelle strutture portanti di tutte le "agenzie educative". Senza eccezione. I giovani delle ultime generazioni che sono stati ammessi in seminario, hanno deciso di arruolarsi tra i carabinieri (o nell'esercito, nella polizia eccetera), sono stati cooptati nella magistratura, si sono aggiudicati cattedre nelle scuole e nelle università, ruoli politici, vorrei aggiungere anche i geometri, gli amministratori di condominio, i gelatai e i giornalisti; tutti sono figli di questa epoca. La sinistra che adesso si scandalizza ha assecondato vivacemente il conformismo liquidatorio di qualsiasi tradizione. Il disprezzo per la disciplina, la rinuncia all'orgoglio dell'abito sono stati i segni esteriori della rinuncia al primato del dovere e della lealtà. È un miracolo che la grande maggioranza delle categorie anzidette cerchi di mantenersi perbene, e persino ci riesca. Ripartiamo da loro. Non si tratta allora di bruciare le caserme e le chiese (ci pensano già gli islamici) ma di rimettere mano, di buona lena, alla malta e alla cazzuola. Per aggiustare e ridare fascino a quelle due o tre cose che ci insegnarono curati e marescialli antichi, con la luce sempre accesa e un bicchiere sul tavolo per noi. 

Carabinieri di Piacenza, Pietro Senaldi si schiera con l'Arma: "Vietato generalizzare. Non si getta il bimbo con l'acqua sporca". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 26 luglio 2020. Non bastano sei pecore nere per fare neri tutti i carabinieri. Il nostro Filippo Facci ritiene che il titolo di apertura di Libero di ieri, «La dolce vita dei carabinieri indigna (troppo) gli italiani - Processo all'Arma», sia assolutorio nei confronti delle malefatte compiute a Piacenza dall'appuntato Giuseppe Montella, cugino del fino a pochi giorni fa più noto calciatore Vincenzo, e della sua banda in divisa. Non è così. I reati di cui sono accusati i militari - spaccio, torture, arresti arbitrari, ricettazione, estorsione, abuso d'ufficio - sono gravissimi, ci fanno orrore e non chiediamo sconti. Lo sconcerto e la delusione dei cittadini nel vedere delinquere come gangster alcuni membri della Benemerita, con questo termine viene normalmente indicata l'Arma, è condivisibile e legittimo. Quando ammoniamo gli italiani a non indignarsi troppo è perché vorremmo evitare che, sulla scorta delle deplorevoli gesta di Montella e dei suoi commilitoni, si inneschi un'isteria di massa simile a quella scoppiata negli Stati Uniti all'indomani della barbara uccisione del nero George Floyd da parte di un poliziotto del Minnesota. Oltre Oceano le proteste sono sfociate nell'abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo e addirittura nella disposizione della Associated Press ai propri giornalisti di scrivere nei loro articoli Neri con la maiuscola e bianchi con la minuscola. Per settimane chi metteva a ferro e fuoco le città è stato dipinto come nel giusto e la polizia che cercava di impedirlo è stata criminalizzata, con conseguenze sociali devastanti. Nel nostro Paese, da sempre, le divise vengono collegate all'ordine e quindi alla destra. Prima della guerra, gli uomini con le bande rosse sui pantaloni si chiamavano Carabinieri del re. E già si vede da parte del mondo progressista un preoccupante processo mediatico per cui si attaccano giustamente i reati commessi dai delinquenti in uniforme di Piacenza per mettere in discussione tutto il corpo, quindi lo Stato che gli conferisce potere e da qui le leggi, l'ordine e la visione tipica del centrodestra di un Paese fondato sul diritto e la sicurezza. Se chi deve garantire il rispetto delle norme è il primo a violarle, allora è valida ogni cosa e chiunque è autorizzato a delinquere. Questa è la conclusione alla quale inevitabilmente approdano i ragionamenti di chi approfitta delle miserie di Montella per mettere alla sbarra un'intera categoria. Ma noi di Libero non ci stiamo. Conosciamo il valore dell'Arma e la sua storia. Sei carabinieri, ma fossero anche sessanta, che si comportano da criminali non bastano per sporcare la divisa agli altri 110mila che onorano il Corpo tutti i giorni con il loro lavoro. Pur nella sua meschinità, la vicenda della banda della caserma Levante di Piacenza ha un aspetto confortante. È stato un carabiniere a denunciare i colleghi e i vertici della Benemerita hanno immediatamente rimosso tre capi dei militari coinvolti nello scandalo, anche se non è affatto detto che gli si possa muovere qualche colpa. Questo significa che l'Arma è sana e ha in sé gli anticorpi per espellere i virus che ogni tanto si sviluppano al suo interno. Nel caso di specie, a Piacenza si sono avvicendati tre capi in tre anni. Le vicende criminali sono iniziate nel 2017 ma il responsabile della caserma ha lasciato nel 2018, senza quindi avere tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo. Chi lo ha sostituito, è rimasto in carica un anno solo, dopo di che la ministra De Micheli lo ha chiamato a Roma per un incarico fiduciario. E anche questo ha dato modo alla banda di espandersi indisturbata. Il capo rimosso ora è arrivato a ottobre e non ha fatto in tempo a orientarsi che è stato travolto dall'allarme Covid-19, che ha colpito particolarmente la città emiliana. Dopo di che, è subito scoppiato lo scandalo per il quale è stato rimosso come capro espiatorio più che come responsabile. C'è qualcosa di disgustoso non solo nel comportamento dell'appuntato Montella e della sua banda ma anche nel compiacimento con il quale chi non ha mai amato le forze dell'ordine intinge il biscotto nello scandalo. Sono spesso le stesse persone che quando delinque un immigrato glissano sulla sua provenienza o, in caso di attentato in una chiesa, preferiscono definirlo opera di uno squilibrato piuttosto che terrorismo islamico. In particolare, è da rimarcare negativamente il comportamento della magistratura, così indulgente e riguardosa verso se stessa quando una toga viene colta con le mani nella marmellata. Se quello di Piacenza sta diventando un processo alla Benemerita anziché a sei persone è anche per come la Procura ha presentato l'inchiesta alla stampa, senza riguardo per le nostre forze dell'ordine. Se Palamara, che in chat con i suoi più potenti colleghi fa scempio della meritocrazia, per i giudici è una mela marcia, perché non può esserlo anche Montella che almeno, a differenza di altri, si rendeva conto di violare la legge? Ecco perché, caro Filippo, diciamo che è giusto indignarsi per i reati di pochi carabinieri, ma con misura. Occorre almeno la stessa flemma che i detrattori dell'Arma ostentano di fronte ai gesti quotidiani di eroismo di tanti carabinieri ignorati solo perché sono brave persone.

Vittorio Feltri in difesa dei veri Carabinieri: "Orrore a Piacenza, ma non azzardatevi a sputtanare l'Arma". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. Indubbiamente la storiaccia della caserma dei carabinieri di Piacenza, trasformata in un centro di torture, fa venire i brividi. Una vicenda simile non avremmo mai pensato potesse accadere. Secondo le ipotesi dell'accusa, i militari avevano creato una vera e propria banda che commetteva reati gravi, addirittura dedita a estorsioni. Prima di giudicare attendiamo come si conviene l'esito delle indagini. Intanto la nostra inquietudine pensiamo sia legittima. Però attenzione a non generalizzare. Se alcuni signori dell'Arma si sono trasformati da tutori dell'ordine in delinquenti abituali, non significa che tutti i carabinieri siano criminali. Se certi abusi saranno confermati alla fine dell'inchiesta, ovvio che debbano esserne puniti gli autori in modo esemplare. Tuttavia aspettiamo il giudizio della magistratura per emettere condanne sulla base del sentito dire. Insomma, serve prudenza allorché c'è di mezzo la violazione della legge, le responsabilità vanno verificate perfino nei dettagli prima di sentenziare. Ciò detto, desideriamo fare una puntualizzazione. Quand'anche si confermasse che la storia di Piacenza è stata una triste e drammatica realtà, sarebbe scorretto e altresì devastante sputtanare l'intera e gloriosa Arma facendo di ogni erba un fascio. Migliaia di carabinieri si sacrificano svolgendo un lavoro massacrante per renderci la vita meno agra, e sarebbe ingiusto infilarli nel mazzo di quelli che hanno peccato. Costoro sono tra i pochi elementi di unità nazionale, insieme con i tabaccai e gli uffici postali, e vanno difesi pure da se stessi nel momento in cui sbagliano. Non è lecito linciare una categoria in quanto alcuni appartenenti ad essa sono mascalzoni. I malviventi si annidano dovunque, tra i geometri, i giornalisti e i salumieri. Andiamo adagio nel considerarli in blocco dei mariuoli. E poi attenzione. I militari non hanno sempre a che fare con persone perbene, il più delle volte affrontano malfattori più attrezzati e ricchi di mezzi di loro, e faticano a sconfiggerli. Talora sono costretti per batterli ad adottarne i metodi violenti. Parliamoci chiaro. Come mai la 'ndrangheta è pressoché invincibile e domina la scena della malavita? Perché è più organizzata ed efficiente dello Stato. In altri termini è più forte, poiché al proprio interno esiste una disciplina ferrea. Se un affiliato sgarra paga un conto salato, spesso con la vita. Se pretendiamo che i carabinieri vincano la battaglia con i grassatori occorre che siano dotati di strumenti idonei, di cui oggi non dispongono giacché i nostri governi pensano al reddito di cittadinanza e roba simile anziché alla sicurezza. 

Carabinieri di Piacenza, la condanna di Filippo Facci: "Vicenda scandalosa: giusto indignarsi". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 26 luglio 2020. Sto per scrivere qualcosa che potrebbe essere scambiato per un gioco delle parti invertito: il classico «dibattito» giornalistico dove io, cosiddetto garantista, per una volta mi ritrovo a fare il forcaiolo contro una linea garantista del giornale in cui lavoro (questo) e che è sovrastato dalla figura di Vittorio Feltri, che per lustri avevo simbolizzato come forcaiolo. Mi accorgo, tuttavia, che è solo una questione di aritmetica. Da quando è scoppiato lo scandalo dei Carabinieri di Piacenza, ho visto che Libero ha dato tutte le notizie del caso, nessuna esclusa, inseguendo la neutralità impossibile della cronaca e dei fatti. Poi però, giorno per giorno, ho anche visto che, accanto alla cronaca, c'erano dei commenti. Il primo giorno, giovedì, la notizia della «gomorra» di Piacenza non era richiamata in prima pagina e compariva a pagina 8, con questo commento scritto da Francesco Specchia: «Adesso nessuno si azzardi a infamare l'Arma». Il secondo giorno, gli sviluppi della faccenda non comparivano in prima pagina (erano a pagina 10) e in prima pagina c'era un editoriale di Feltri, titolato «Non trattiamo tutti i carabinieri da delinquenti». Il terzo giorno, sabato, cioè ieri, l'enorme apertura di prima pagina era titolata «La dolce vita dei carabinieri indigna (troppo) gli italiani» con sottotitolo «La sinistra si compiace dello scandalo che travolge i nostri militari e li paragona agli agenti Usa allo scopo di delegittimare lo Stato, come accade con la Chiesa e i pedofili». La questione aritmetica è presto detta: tre commenti in difesa dell'Arma pur ammettendo l'orrore per le «mele marce» (difesa che in genere condivido) e neanche un commento per dire che lo scandalo è essenzialmente uno scandalo, e fa schifo. È qualcosa di mai visto in duecento anni, ossia che un'intera caserma fosse sequestrata dalla magistratura con ben sei carabinieri arrestati per reati pesantissimi, dallo spaccio di droga alla tortura, dall'estorsione alle lesioni personali. Uno scandalo senza se, senza ma, senza processi alle intenzioni e reazioni altrui, senza dover per forza difendere l'Arma da attacchi che per ora, seriamente - ripeto: seriamente - non ho visto. Quindi ripeto: il senso della gravità di quanto accaduto secondo me non manca nei commenti di Libero: ma è perlopiù in premessa, «nessuno vuole negare», «posto che» eccetera. Ecco perché ho scritto questo articolo, che Libero accoglie onorando lo spirito della testata: per controbilanciare, senza nulla rimproverare alla sostanza espressa da Specchia e Feltri. Chiedo perdono per questo mio tono da maestrino: è colpa del tempo passato al telefono, ieri, con tanti carabinieri che ho conosciuto scrivendo di giudiziaria, usi raccontar tacendo. Erano meno garantisti di Libero, tutto sommato. La logica delle mele marce non gli basta più. nessuno se l'aspettava La quasi totalità mi ha detto che una gomorra come quella piacentina comunque non se l'aspettava. I più anziani mi hanno parlato di rilassamento generale dei costumi - anche dentro l'Arma - e di giovani comandanti che non li stanno a sentire, detto da gente che pure ha messo in gioco famiglia e matrimonio per lavorare 14 ore al giorno; mi hanno detto che stanno tramontando lo spirito di corpo e il senso del dovere: anche se hanno detto che forse dicono queste cose perché sono diventati vecchi. Uno mi ha detto che a certa gente, presunti colleghi, lui sparerebbe e basta. Un altro mi ha fatto notare che i vertici dei Carabinieri, sul caso, non hanno ancora detto una parola. Tutti si sono incazzati con Ilaria Cucchi che ha parlato addirittura di «sistema», coi giornali a lasciarla pontificare. Ma quale sistema. Quanto al titolone di prima pagina di ieri si legge che il caso Piacenza «indigna (troppo) gli italiani» e vorrei sapere dove si compra l'indignometro che certifica il «troppo». Nel sottotitolo leggo che «La sinistra si compiace dello scandalo» e vorrei sapere qual è questa sinistra: ho cercato nell'articolo, ma ho trovato solo generici riferimenti a Repubblica e a una «sinistra che adesso si scandalizza», e che sarebbe il versante italiano della campagna «Black Lives Matter» che mira a diventare «un moto globale per lo sradicamento di ogni simbolo della civiltà occidentale», operazione che nel complesso somiglierebbe a quanto «accade con la Chiesa e i pedofili». Tanta roba. Gli obiettivi della campagna mondialista sarebbero dunque «oratori e caserme», che è un'accoppiata che mette i brividi anche a me, se posso dirlo: poi non so se io appartenga a un qualche movimento globale. Bene: io penso cose diverse. Penso che i fatti di Piacenza siano gravissimi, e vadano enfatizzati proprio perché l'Arma possa prosperare e difendersi da una possibile auto-degenerazione. Penso che il movimento «Black Lives Matter» non c'entri un cazzo. E neanche la pedofilia dei preti, anche perché i carabinieri corrotti sono meno numerosi dei preti pedofili, e comunque i primi faranno una brutta fine, i secondi - eccomi forcaiolo - mediamente la fanno franca.

Saranno pure mele marce ma i controlli dov’erano? Lidia Marassi il 27 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. QUELLO che è avvenuto a Piacenza non era mai successo in Italia. In seguito alle operazioni condotte dalla Guardia di Finanza, lo scorso 22 luglio la caserma dei carabinieri Levante è finita sotto sequestro da parte dell’autorità giudiziaria e ben sei militari sono stati arrestati con l’accusa di reati particolarmente pesanti (benché ancora da dimostrare) tra i quali spaccio di droga, estorsione ed addirittura tortura. Un caso estremamente delicato, soprattutto se si considera che ad essere sotto processo è l’Arma dei Carabinieri, abitualmente ritenuta dell’immaginario collettivo il prototipo di un modello insostituibile di difesa nazionale.  Il coinvolgimento nell’inchiesta di un’intera struttura dell’Arma è dunque un fatto grave che tuttavia appare sintomatico di un problema che va al di là della responsabilità dei singoli indagati. L’indagine sulla caserma Levante è in realtà inedita solo in quanto ad ampiezza dei reati, ma non è affatto la prima volta che la cronaca nazionale riporta episodi di violenza e soprusi che coinvolgono le Forze dell’Ordine. A dover rispondere della gravità delle proprie azioni sono stati in passato gli agenti coinvolti nel caso Cucchi, condannati solo lo scorso novembre con l’accusa di omicidio preterintenzionale. La stessa Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha commentato l’indagine condotta dalla Procura di Piacenza rimproverando aspramente la retorica delle cosiddette “mele marce”, sottolineando piuttosto come l’aumentare di casi simili sia testimonianza di un problema interno al sistema stesso. Negli ultimi mesi, soprattutto in seguito all’emergere sullo scenario internazionale del movimento Black lives matter, si è del resto parlato tanto anche del cosiddetto “defund the police”, slogan utilizzato dagli attivisti americani per chiedere lo smantellamento degli organi di polizia. Con la convinzione che non sia sufficiente una riforma delle stesse, il movimento di protesta ha infatti sottolineato come l’unica alternativa auspicabile ai soprusi delle forze dell’ordine sia il sostituirle definitivamente con un modello alternativo di sicurezza pubblica basato sulla comunità. Nonostante le differenze tra il modello americano ad il nostro, quello che sembra essere un elemento di continuità tra i due scenari è la perdita di fiducia nei confronti delle forze armate. Del resto, in Italia si fa ancora fatica ad affrontare concretamente il problema degli abusi da parte delle FdO. Lo scorso marzo, nel pieno dell’emergenza Coronavirus, durante le rivolte nelle carceri sono sono morti ben tredici detenuti e tuttavia è stata sufficiente un’autodichiarazione delle autorità che ne riportasse la scomparsa per “overdose da metadone” affinché la notizia sparisse dai tabloid. Solo pochi giorni fa, ancora, è stata data la notizia di un’inchiesta della Procura di Torino sulle presunte torture ai danni dei detenuti del carcere “Lorusso-Cutugno”, per le quali vi sono tuttora 25 indagati. L’invito a “restare umani” – che tanto è stato diffuso durante l’emergenza epidemica degli scorsi mesi – non sembra avere lo stesso impatto quando ad essere sotto accusa sono le forze dell’ordine. Di fatto, se queste ultime servono, la loro utilità consiste soprattutto nel tutelare i diritti dei cittadini, gestendo la violenza sociale e non piuttosto facendola nuovamente deflagrare. Per evitare che casi simili possano verificarsi, dovrebbero essere infatti proprio gli stessi organi di polizia, legittimati a poter fare ricorso alla cosiddetta “violenza legittima”, a dover essere sottoposte a controlli rigorosi e stringenti. Ritenere che le forze dell’ordine siano indelebilmente corrotte è errato almeno quanto credere che possano essere totalmente esenti da fenomeni degenerativi, dei quali sono testimonianze i casi sopracitati. Anche in una democrazia non è dunque impossibile che i tutori dell’ordine trascendano l’uso della violenza; è per motivazioni simili che, ad esempio, in Europa quasi tutte le forze dell’ordine sono dotate di un codice identificativo alfanumerico che ha il precipuo scopo di scoraggiare soprusi e identificare i colpevoli in caso di violazione delle norme. Nonostante le diverse campagne, tra le quali anche quella di Amnesty International (lanciata a 17 anni di distanza dagli eventi del G8 di Genova del 2001), in Italia non ci sono mai stati sviluppi sul tema. Le devianze dei corpi di polizia contrastano dunque quella stessa efficacia burocratica che si vorrebbe avessero e che potrebbero avere più facilmente se vi fosse maggiore trasparenza.  Il caso di Piacenza non è un affare isolato, imputabile unicamente alla presunta meschinità dei singoli indagati. C’è pertanto, come diceva Ilaria Cucchi, un problema interno al sistema stesso; per non negare l’importanza delle forze di potere si ignora infatti che, come spesso si sente dire, il potere può corrompersi. 

Carabinieri arrestati a Piacenza: non ha funzionato il controllo dell’Arma. Notizia.it il 25/07/2020. Massimiliano Zetti, Segretario Generale del Nuovo Sindacato di categoria, si è espresso in merito alla vicenda dei carabinieri arrestati a Piacenza. Nel momento in cui mi trovo a scrivere questo editoriale giunge la notizia, comunque nell’aria, che siano stati azzerati i vertici del Comando Provinciale di Piacenza. Trasferito il Comandante Provinciale, il Comandante del Reparto Operativo e il Comandante del Nucleo Investigativo, mentre il Comandante della Compagnia era già stato rimosso e sospeso dal servizio in quanto coinvolto nell’inchiesta. A scanso di equivoci e al fine di mettere subito a tacere il “partito dell’anti polizia”, chiariamo subito che i 10 militari coinvolti a vario titolo e con diverse gradazioni di responsabilità hanno diritto ad essere processati in un’aula giudiziaria, con tutte le garanzie che spettano in uno stato di diritto. Non alimenteremo un giustizialismo e un tritacarne mediatico giudiziario che oramai ci ha abituato, troppe volte, a vedere persone risultate innocenti ed estranee ai fatti. Appare pertanto scontato e banale il “refrain” che si tratti, qualora le accuse venissero dimostrate, di mele marce che non possono offuscare o ledere il corpo sano dell’Arma, composto da 110 mila carabinieri onesti e che ogni giorno svolgono il loro lavoro al servizio della collettività. Detto questo, il fatto è eclatante e impone delle riflessioni oltre che un nuovo tipo di approccio affinché la nostra Amministrazione, inaugurando una nuova stagione di confronto con le Forze Sindacali Militari, decida una volta per tutte di affrontare alcuni problemi in modo democratico e trasparente. Così facendo, darà prova di non essere una Forza di Polizia chiusa e lontana ma in mezzo alla gente, tra la gente, per riguadagnare la fiducia che negli ultimi anni si è appannata. Nella linea di Comando qualcosa è andato storto e ritengo che la richiesta del Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, cioè quella di verificare perché gli strumenti di controllo e i vari campanelli di allarme di cui la nostra Amministrazione è dotata non abbiano funzionato, sia lecita. Non sappiamo cosa, o meglio possiamo immaginarlo, siamo quindi pronti a dare il nostro contributo di idee nel tavolo di confronto che già abbiamo chiesto al Comandante Generale Giovanni Nistri come Organizzazione Sindacale. Un problema diffuso e sentito tra gli operatori che lavorano su strada, in particolare dai Comandanti delle più piccole unità dell’Arma, è la pressione, il fiato sul collo, “l’ansia da prestazione” spesso imposta in maniera sistematica e spasmodica dai Comandanti Intermedi al fine del raggiungimento di freddi numeri e statistiche, che devono a tutti i costi incrementare le tabelle dell’attività operativa. Giova ricordare che nel 2014 e 2015, quindi 6 anni fa, questo problema venne sollevato dalle vecchie Rappresentanze Militari che stanno per essere abolite, a riprova della loro mancanza di incisività e di utilità, di Umbria e Sardegna, delle quali si ritiene utile riportare testualmente gli stralci di due delibere dell’epoca tratti dal sito internet. militariassodipro.org./carabinieriun-buon-comando-si-misura-con-una-statistica. Co.Ba.R Comando Legione Carabinieri Sardegna XI°, mandato Delibera n. 104 allegata al verbale n.310/XI del 02/03/2015 con oggetto tutela economica e giuridica del personale, statistiche operative: “CONSIDERATO CHE non è ancora venuto meno il vezzo, nonostante la delibera n. 172 allegata al verbale n. 131/X del 30/05/2008,di richiedere al personale in servizio di polizia giudiziaria giacché incrementi il numero di arresti ai soli fini che statistico/operativi; VISTO CHE non è costume dei Comandanti, specie a livello intermedio, di condividere la responsabilità degli atti di P.G. apponendovi la propria firma; DELIBERA DI Adire il C.U.B. affinché ponga in essere ogni opportuno intervento teso a riportare i fisiologici input propri dell’azione di comando alla loro giusta matura di stimoli e non di pressante richiesta riconferendo così giusta serenità al personale operante; richiedere la: (1) diramazione della presente fino ai minori livelli ordinativi; (2) pubblicazione della stessa nel portale “Leonardo”. Presenti 14, votanti 14, favorevoli 14, contrari 0. Approvato all’unanimità il 02.03.2015. Il Co.Ba.R della Legione Carabinieri Umbria sullo stesso tema era stato, in una delibera del 22.9.2014, ancor più particolareggiato: “PREMESSO CHE vengono raccolte segnalazioni da parte di tutto il personale del Comando Legione poiché vengono operate sempre più forti pressioni, specie da parte dei comandanti di compagnia, affinché si incrementino le attività di polizia giudiziaria. Pressioni che appaiono sempre più tendenti a soddisfare esigenze statistiche piuttosto che operative. OSSERVATO CHE tali pressioni vengono esercitate indifferentemente in tutti i reparti, anche su quelli che storicamente sono ritenuti a basso profilo, stante la minima presenza di popolazione e la loro scarsa tendenza a delinquere. Tale pressione stimola una negativa competitività tra i comandi, che si sentono costretti a procedere ad arresti ad ogni costo, pur di alleviare la morsa del comandante di compagnia. Che per dare maggiore cogenza a tali richieste spesso si sottintende che la valutazione caratteristica sarà determinata sulla base della soddisfazione conseguente ai risultati di polizia giudiziaria. Che alcuni comandi al fine di dare soddisfazione alla pretesa di cui sopra, operano arresti e sequestri in territori limitrofi, deliberatamente appropriandosi dell’operazione”. Presenti 6, Votanti 6, Favorevoli 6. Le suddette delibere caddero nel vuoto e il Cocer Carabinieri, in qualità di Organo Centrale di Rappresentanza, non ritenne opportuno rappresentare questo sentitissimo problema, che tale è rimasto sino ad incancrenirsi. È ammissibile oggi pensare che un buon Comandante debba misurarsi solo per il numero di arresti e operazioni con statistiche che devono essere migliorate ad ogni costo, come una fabbrica del profitto. È possibile assistere alle gare e competizioni sul numero degli arresti eseguiti, con il rischio di foraggiare il terreno sul quale potrebbe attecchire e crescere la mala pianta degli arresti arbitrari, magari utilizzando come leva lo strumento della valutazione caratteristica, snaturandolo e inficiandone quindi l’attendibilità dei giudizi valutativi? La miscela esplosiva della ricerca continua degli arresti a tutti costi si intreccia talvolta con militari infedeli e disonesti che, approfittando della loro indole “operativa”, si ingraziano il Comandante di turno e possono portare ad episodi come quello di Piacenza. Ulteriore tema da affrontare sotto il profilo della filosofia dell’approccio è che, una volta per tutte, dobbiamo renderci conto che il disdoro e la lesione dell’immagine della mostra amata Istituzione, si tutela intervenendo con efficacia quando vi sono segnali di irregolarità, tenendo presente che ognuno di noi e ad ogni livello di Comando, tacendo o voltando lo sguardo dall’altra parte, certe volte per quieto vivere o per paura di passare come il “non allineato”, non farà altro che aumentare le conseguenze della lesione dell’immagine quando il bubbone poi dovesse scoppiare. Per fare questo, ecco che il Sindacato Militare può essere lo strumento giusto per intervenire, intercettare comportamenti anomali, essere di aiuto, dare assistenza, e non far sentire solo il militare che deve segnalare irregolarità, affiancandolo e tutelandolo, accompagnandolo dai dirigenti che hanno le responsabilità di Comando e il dovere di prendere provvedimenti. Ritengo inoltre che sia assolutamente necessario aprire un’inchiesta interna, oltre a quella già avviata dalla Magistratura, affinché vengano chiarite eventuali mancanze dai vari Comandanti che si sono succeduti nel corso di questi anni, anche per far luce sulle evidenti assenze di controlli e verifiche che, ci consta ammettere, vengono invece effettuate per altri comportamenti da ritenere futili o, comunque, non di tale livello. Basti ricordare, a titolo di esempio, con quale determinazione negli ultimi tempi il Comandante della Legione Emilia Romagna (poco incline alla dialettica sindacale) ha sanzionato ripetutamente i militari “colpevoli” di avere un tatuaggio, in virtù di una norma vetusta ed arcaica, i cui procedimenti sono stati più volte stigmatizzati dal NSC dedicandosi quindi a questioni formali, mentre dei gravi fatti di sostanza che stavano accadendo a Piacenza nessuno ne stava avendo sentore. In conclusione, credo che anche alla luce di questa inaccettabile vicenda, si possa aprire una stagione nuova per l’Arma, attraverso una discussione seria e fattiva tra Amministrazione e Sindacati che, al di là delle proposte di legge di cui si sta occupando il Parlamento proprio in queste ore, sono più che legittimati a trattare materie di ordine e comportamento. Un tavolo di confronto presieduto dal Comandante Generale (che ha già dimostrato coraggio innovativo, ad esempio, sul caso “Cucchi”), sarebbe quanto di più autorevole quale risposta al mondo politico, sociale e militare. Il Nuovo Sindacato Carabinieri è pronto anche a svolgere questa funzione.

Paolo Comi per “il Riformista” il 30 luglio 2020. «Una casta di pochi generali, scollegata dalla realtà, tiene ormai in pugno l’Arma». Il colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, commenta quanto sta accadendo all’interno della Benemerita. Gli ultimi mesi sono stati terribili, tante le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto i carabinieri. La scorsa settimana: la maxi retata della stazione di Piacenza-Levante e il sequestro da parte della Procura, per la prima volta nella storia, di una caserma. A febbraio De Caprio ha lasciato il servizio attivo ed è stato chiamato dalla presidente della Calabria, Iole Santelli, a far parte della giunta regionale con l’incarico di assessore all’Ambiente. Ha svolto alcune delle indagini più importanti degli ultimi decenni, nel 1993 è stato lui a mettere le manette ai polsi di Totò Riina. L’Arma non lo ha promosso generale, preferendogli ufficiali che durante la loro carriera non si erano mai occupati di contrasto alla mafia o al crimine organizzato. Anzi, per essere precisi, De Caprio non è mai stato preso in considerazione per l’ avanzamento da colonnello a generale. Il motivo? Non aveva effettuato il previsto “biennio di comando”. Le regole militari sono fatte così. Arresti il capo dei capi di Cosa nostra, il mandante dell’omicidio di Giovanni Falcone, vivi sotto scorta da 25 anni, ma tutto è inutile se non hai nel curriculum due anni di comando, anche del reparto più sperduto d’Italia.

De Caprio, come devo chiamarla? Colonnello, assessore, dottore?

«Ultimo. Ultimo ero ed Ultimo sono rimasto».

La risposta del Comando generale ai fatti di Piacenza è stata quella di trasferire in appena ventiquattro ore tutti gli ufficiali, anche se non indagati, in servizio nella città emiliana. A viale Romania hanno deciso di rimuovere persino il comandante provinciale che era arrivato in città da poco più di sei mesi. È stata una decisione corretta?

«Il problema non è chiudere la stalla quando i buoi sono fuggiti, una specializzazione che si sta sempre più affinando, nel senso che adesso si misura quanto tempo viene impiegato per chiudere la porta ogni volta che buoi sono scappati».

I carabinieri di Piacenza sono accusati di reati molto gravi. Era inevitabile che qualcosa dovesse accadere.

«C’è un’indagine in corso, si capiranno i motivi, le cause, i mandanti, gli esecutori. La magistratura, come al solito, farà chiarezza. Ma non è questo il problema».

Mettendo per un momento da parte la vicenda penale, da dove si deve iniziare?

«Credo che quello che interessi tutti è che ci sia una organizzazione seria che porti avanti una politica di gestione del personale efficace ed inclusiva. Una politica di gestione che coinvolga le donne e gli uomini che indossano una divisa, che li faccia sentire uniti e parte della bandiera più bella del mondo: il tricolore».

Adesso ciò non accade?

«Mi sembra di tutta evidenza che l’attuale leadership non abbia il controllo della organizzazione. Si tratta di una leadership non in grado di coinvolgere i militari».

Pensa che gli attuali vertici dovrebbero dimettersi?

«Di fronte ad un fallimento simile, il comandante generale, Giovanni Nistri, ed il capo di stato maggiore (il generale Teo Luzi, tra i probabili candidati alla successione di Nistri, ndr) non possono restare al loro posto».

Ma qual è il malessere dell’Arma?

«Al vertice si esercita una disciplina che calpesta i diritti costituzionali».

Sono affermazioni molto forti….

«Cosa le devo dire? Il risultato è sotto gli occhi di tutti».

Può dirmi, allora, un errore che i vertici hanno fatto in questi anni?

«Chiudere ogni strada al sindacato di mutuo soccorso.

Lei è stato anche il presidente del Sim (Sindacato italiano militare) carabinieri, il primo sindacato con le stellette. Poi si è dimesso per contrasti con Nistri, giusto?

«Il sindacato di mutuo soccorso è stato boicottato».

Ad esempio?

«Si puniscono in via disciplinare e penale militare i rapporti amicali ed affettivi attraverso i social, violando la Costituzione. Il risultato è stato alienare il personale».

Che clima si respira fra i carabinieri?

«La base è stata umiliata, divisa, calpestata, tenuta lontano dai valori che gli anziani hanno insegnato».

Lei ha parlato di boicottaggio. Cerchi di fare un esempio.

«Dal sindacato sono stati esclusi i carabinieri in congedo in quanto ritenuti portatori di interessi esterni all’Istituzione. Penso che questo faccia capire con che tipo di gente abbiamo a che fare».

Ha qualche suggerimento?

«Ripeto, la soluzione è semplice: cambiare la leadership velocemente».

Questo si è capito. E poi?

«Il cambio deve essere accompagnato dall’avvio di una inchiesta che faccia luce su come è stata gestita l’Arma.

Azzerare per ripartire?

«L’Arma deve essere rifondata. E merita di essere difesa e non predata come stanno facendo questi personaggi».

Dopo ogni inchiesta penale si annunciano provvedimenti a carico dei responsabili.

«La severità non serve a nulla. Non si deve creare un regime nel 2020. La disciplina è uguaglianza e fratellanza, è legalità, è mutuo soccorso, bisogna guardare oltre le funzioni e il grado. Non deve esserci il dominio e il privilegio di una casta sulle categorie inferiori».

Aver ostracizzato il sindacato ha influito?

«Certo, è la luce che fa capire il vero problema. Il dialogo non è un pericolo. Il pericolo è la morte. Dalla discussione nascono le idee migliori e scelte più importanti. Se uno non accetta questi princìpi, vuol dire che si è sbagliato tutto. E allora avanti così e buona fortuna a tutti. E aggiungerei un’ultima riflessione».

Prego.

«Ha visto quanti suicidi ci sono ultimamente fra i carabinieri? Perché questo argomento non viene mai affrontato?»

Carabinieri nella bufera, ma Mori difende Nistri: “Paga colpe non sue”. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Luglio 2020. “Il generale Nistri è una vittima”. Nella polemica che ha travolto l’Arma dei carabinieri dopo i fatti di Piacenza interviene anche il generale Mario Mori. In un colloquio con il Riformista, l’ex capo del Ros e del Sisde, ha voluto prendere le difese dell’attuale comandante generale dell’Arma. “Nistri paga colpe non sue”, ha puntualizzato Mori, facendo intendere che quanto sta accadendo in questi mesi nell’Arma non è imputabile solo al n. 1 di viale Romania. Un giudizio sull’operato di Giovanni Nistri molto diverso, dunque, da quello di Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo e ai tempi stretto collaboratore di Mori. In una intervista rilasciata martedì scorso al Riformista, De Caprio è stato molto duro con Nistri, chiedendone le dimissioni. Per l’ufficiale che nel 2003 catturò Totò Riina e che da febbraio, terminato il servizio attivo, è stato nominato dal presidente della Calabria Iole Santelli assessore all’Ambiente nella giunta regionale, la leadership dell’Arma non è ritenuta all’altezza. De Caprio si è spinto anche oltre, chiedendo l’istituzione di una “commissione d’inchiesta” che faccia luce sulla gestione Nistri. Una gestione “colpevole” di non aver ascoltato le istanze della base e di aver amplificato le distanze fra i carabinieri ed i vertici. Nistri, già direttore dal 2014 al 2016 del Progetto Pompei su indicazione del ministro per i Beni e le Attività culturali Dario Franceschini, venne nominato comandante generale dell’Arma agli inizi del 2018 durante il governo Gentiloni. Il passaggio di consegne con il predecessore, Tullio Del Sette, in carica dal 2015, avvenne in un momento burrascoso. Del Sette, che avrebbe dovuto lasciare l’incarico un anno prima ed era stato prorogato da Gentiloni, era finito nel ciclone dell’indagine Consip con le accuse di favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. Al momento è ancora sotto processo a Roma. Sulla sua scrivania Nistri trovò fin da subito tanti dossier scottanti. A livello ordinamentale, il più importante era lo scioglimento del corpo forestale dello Stato, voluto dall’ex premier Matteo Renzi, ed il conseguente passaggio di personale e competenze sotto le insegne dell’Arma. La riforma non è stata mai stata accettata dagli ex forestali che hanno anche sollevato la questione di legittimità costituzionale alla Consulta. Altro tema delicato è stato il sindacalismo militare. Per decenni la creazione di un sindacato militare è stata osteggiata in tutti i modi dai vertici della difesa. C’è stato bisogno di un intervento della Corte costituzionale per dichiarare illegittimo il divieto per i militari, e quindi per i carabinieri, di iscriversi ad un sindacato. Da oltre due anni è in corso la discussione in Parlamento sulla legge che dovrebbe regolamentare il sindacato con le stellette. L’attuale testo non piace però a nessuno. Troppi i paletti. È previsto, ad esempio, che ci si debba cancellare dal sindacato una volta andati in pensione. Senza contare, poi, le numerose vicende penali che hanno coinvolto militari dell’Arma. Prima di Piacenza, il caso più clamoroso è quello della morte di Stefano Cucchi. Uno dei punti critici di Nistri è il rapporto con i suoi colleghi generali e con gli ufficiali, sottoposti ad un forte turn over e con carriere di fatto “blindate”: chi è primo è destinato a rimanere sempre primo. Tanto per fare un esempio, due degli ufficiali, il generale Alessandro Casarsa ed il colonnello Lorenzo Sabatino, coinvolti nel processo Cucchi bis, quello sui depistaggi durante le indagini, sono entrambi primi delle rispettive aliquote. Il momentaneo inciampo giudiziario non pare abbia causato conseguenze. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è intervenuto nei giorni scorsi ricordando che il governo «ha condiviso tutte le iniziative di Nistri per verificare se vi siano stati elementi di criticità nei controlli e più complessivamente nell’organizzazione della realtà territoriale». Il mandato di Nistri scadrà fra poco più di cinque mesi. Per una sua proroga è necessario un provvedimento normativo. La legge, voluta sempre da Matteo Renzi, stabilisce in non più di tre anni la durata massima dell’incarico di comandante delle Forze armate. Difficile, allora, una proroga ad personam escludendo i vertici dell’esercito, della marina militare, e dell’aereonautica, tutti in scadenza nel 2021. A febbraio scade il capo di stato maggiore dell’esercito Salvatore Farina, poi è il turno di Alberto Rosso, capo di stato maggiore dell’aeronautica ed infine tocca ad Enzo Vecciarelli, capo di stato maggiore della difesa. La bagarre per la successione di Nistri entrerà nel vivo nei prossimi mesi. Sono sempre più in ascesa le quotazioni di Angelo Agovino, numero due dell’Aise, il servizio segreto civile, e molto stimato da Luigi Di Maio.

Carabinieri, dopo lo scandalo di Piacenza è guerra per la successione a Nistri. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Luglio 2020. La bomba (a tempo) l’ha tirata Dagospia ieri in tarda mattinata, poco prima dell’ora di pranzo, quando con un flash ha lasciato intendere che il pasticciaccio brutto della maxi retata dei carabinieri della stazione di Piacenza-Levante potrebbe far saltare l’attuale comandante generale dell’Arma, il generale Giovanni Nistri. Ecco cosa ha scritto Roberto D’Agostino: «Flash! – I fattacci dei carabinieri di Piacenza peseranno come un macigno sulla riconferma del comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, in scadenza il prossimo gennaio – In discesa le quotazioni dei generali Gaetano Maruccia ed Enzo Bernardini. Di Maio spinge per il compaesano Agovino, mentre il vertice vuole Teo Luzi…». Il gravissimo episodio di Piacenza ha di nuovo portato sotto i riflettori la Benemerita per casi di mancato controllo sul personale. A tal punto che, se fosse confermata l’ipotesi accusatoria della Procura, per ben due anni i militari della stazione emiliana, ad iniziare dal maresciallo comandante, avrebbero trasformato un presidio di legalità in un covo di criminali senza scrupoli dediti alla tortura degli extracomunitari ed allo spaccio di stupefacenti. Arresti in fotocopia per fare statistica e che avevano insospettito il giudice Italo Ghitti, in servizio a Piacenza fino a tre anni fa. Si è parlato di una mancata proroga per Nistri alla sua scadenza naturale il prossimo gennaio. Fonti ben informate lasciano intendere che a Palazzo Chigi si pensa anche di dare subito un segnale “forte”, chiedendo all’attuale numero uno dell’Arma un atto di responsabilità facendo un passo indietro prima del tempo. Lo stesso passo indietro che l’incolpevole, ormai ex, comandante provinciale di Piacenza, il colonnello Stefano Savo, insediato da pochissimo, ha dovuto fare la scorsa settimana, lasciando l’incarico ad un collega. Da viale Romania è stato infatti disposto in meno di ventiquattro ore il trasferimento di Savo ad altro incarico. Un trattamento molto diverso rispetto, ad esempio, a quello nei confronti del colonnello Lorenzo Sabatino che, pur se sotto processo per favoreggiamento nell’inchiesta bis sull’omicidio di Stefano Cucchi, è stato confermato dai vertici dell’Arma nell’incarico di comandante. Il colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, in una intervista ieri al Riformista, aveva affermato la necessità di un rapido cambio di passo, con le dimissioni di Nistri e di Luzi e la nomina di una commissione d’inchiesta che faccia luce su come è stata gestita l’Arma in questi anni.  Dagospia si sbilancia su chi potrebbe sostituire l’attuale comandante generale: Luigi Di Maio spinge per il “compaesano” Angelo Agovino, ora numero due dei servizi segreti, mentre Nistri – sempre secondo Dagospia – da tempo ha accreditato l’attuale capo di stato maggiore Teo Luzi, anche lui in difficoltà in questo periodo sempre per la brutta storia di Piacenza. Circa gli altri due papabili, Gaetano Maruccia è l’attuale vice comandante generale: durante la gestione di Tullio Del Sette, il predecessore di Nistri, ha ricoperto l’incarico di capo di stato maggiore. Enzo Bernardini, invece, è il comandante interregionale del Nord-Est. Ma lo stesso flash di Dagospia dopo poche ore è stato modificato: via il riferimento a Di Maio che sponsorizza Agovino e via quello che parla di Luzi, voluto dall’attuale vertice. Ecco il testo modificato: «Flash! – I fattacci dei carabinieri di Piacenza peseranno come un macigno sulla riconferma del comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, in scadenza il prossimo gennaio – in discesa le quotazioni dei generali Gaetano Maruccia ed Enzo Bernardini. in pista angelo Agovino e Teo Luzi…». Quale manina interessata ha chiesto a Dagospia di autocensurarsi?

La maledizione di Firenze, Del Sette e Saltalamacchia dal comando alla sbarra. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Luglio 2020. Hanno condiviso il comando a Firenze ed ora dovranno condividere, dal prossimo ottobre, il poco piacevole ruolo di imputati in uno dei filoni di indagine del caso Consip, quello della fuga di notizie. Destino beffardo per  i generali dei carabinieri Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia che durante la loro carriera prestarono a lungo servizio nel capoluogo toscano, che non sembra aver portato fortuna agli ultimi vertici dell’Arma. Del Sette arrivò poi anche al comando generale della Benemerita, incarico ricoperto dal 2015 al 2018. E a Firenze ha prestato servizio anche l’allora colonnello Giovanni Nistri, attuale numero 1 dell’Arma, al centro delle polemiche dopo l’arresto dei carabinieri di Piacenza. Ieri il rinvio a giudizio per Del Sette e Saltalamacchia. Secondo l’accusa, Luigi Marroni, ex amministratore delegato di Consip, sarebbe stato informato, verso la fine del 2016, che la Procura di Napoli stava svolgendo delle indagini su alcuni appalti pubblici gestiti dalla centrale acquisti della Pa. L’informazione sarebbe stata data da Saltalamacchia. Del Sette, invece, avrebbe comunicato la notizia direttamente a Luigi Ferrara, allora presidente di Consip. L’indagine era condotta dai pm napoletani Henry John Woodcock e Celestina Carrano, con il supporto dei carabinieri del Nucleo operativo ecologico (Noe).  Marroni, dopo aver saputo di essere finito nel mirino, fece subito bonificare il proprio ufficio, rimuovendo le cimici installate dai carabinieri. L’indagine, sfumata, venne successivamente spacchettata per competenza territoriale. Quella sulla fuga di notizie giunse a Roma. Durante la trasmissione del fascicolo da Napoli a Roma, negli ultimi giorni del 2016,  gli atti finirono sui giornali. «La più grande fuga di notizie della storia», disse l’allora vice presidente del Csm, Giovanni Legnini. La Procura di Roma, ricevuto il fascicolo, riscontrò irregolarità ed errori nella conduzione delle indagini effettuate dai carabinieri che avevano condotto fino a quel momento le operazioni, in particolare da parte di due ufficiali del Noe: il colonnello Alessandro Sessa e il capitano Giampaolo Scafarto. Inizialmente il pm romano Mario Palazzi fece anche riscrivere l’informativa, ma poi, proseguendo le fughe di notizie, decise di togliere il fascicolo al Noe e di assegnarlo ai colleghi del Reparto operativo della Capitale. A carico dei due ufficiali vennero ipotizzate le accuse di rivelazione del segreto, falso e depistaggio. Poi archiviate dal gup di piazzale Clodio Clementina Forleo. Appresa la notizia del procedimento a suo carico, duro era stato il commento di Del Sette: «Forse ho pestato i piedi a  qualcuno». Con loro ci sarà Luca Lotti, anche lui ritenuto responsabile della rivelazione del segreto. Il dibattimento inizierà il prossimo 13 ottobre davanti all’ottava sezione penale. Il pm Mario Palazzi aveva chiesto per loro il non luogo a procedere, decisione però non condivisa dal giudice Nicolò Marino. Già lo scorso anno la Procura aveva chiesto l’archiviazione ma il gip Gaspare Sturzo aveva invece disposto ulteriori indagini. «È una decisione che sorprende, speriamo di avere maggiore fortuna nel dibattimento» è stato il lapidario commento ieri del legale di Lotti, l’avvocato Franco Coppi.

Il colonnello nel mirino della magistratura. Corruzione a Latina, spunta il carabiniere del caso Consip. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Settembre 2020. È una storia dai contorni opachi quella che emerge nell’inchiesta “Dirty Glass” condotta dalla polizia di Latina. Undici persone arrestate, fra cui l’imprenditore Luciano Iannotta, capo della Confartigianato in provincia di Latina. Nel lunghissimo elenco dei reati contestati figurano l’estorsione aggravata dal metodo mafioso, intestazione fittizia di beni, falso, corruzione, riciclaggio, accesso abusivo a sistema informatico, rivelazioni di segreto d’ufficio, favoreggiamento reale, turbativa d’asta, sequestro di persona e detenzione e porto d’armi da fuoco. Secondo l’accusa, l’imprenditore avrebbe gestito le proprie attività commerciali realizzando profitti illeciti derivanti dall’acquisizione di asset distratti da società commerciali in dissesto, dalla turbativa di procedimenti di esecuzione e da attività di riciclaggio di proventi di attività illegali. Ad aiutarlo il colonnello dei carabinieri Alessandro Sessa. Per gli inquirenti l’ufficiale dell’Arma si sarebbe messo a disposizione dell’imprenditore rivelando informazioni “attinenti al proprio ufficio”. In particolare, avrebbe fornito “informazioni tecniche sulle modalità di attivazione delle intercettazioni ambientali da parte della polizia giudiziaria, sulle modalità di disturbo della registrazione delle stesse, nonché adoperandosi nella ricerca di una persona di fiducia per operare la bonifica dell’autovettura di Iannotta dalla presenza di microspie”. Il nome di Sessa era balzato agli onori delle cronache nel 2016 quando, con l’allora capitano Giampaolo Scafarto, aveva condotto l’indagine sulla centrale acquisti Consip. I due erano in servizio al Noe, Nucleo operativo ecologico, ed erano stati delegati dal pm napoletano Henry John Woodcock. Nel mirino Tiziano Renzi, padre del leader di Italia viva Matteo, poi prosciolto. Fra i filoni dell’inchiesta vi era anche quello della fuga di notizie. Come si ricorderà Luigi Marroni, ex amministratore delegato di Consip, era stato informato, verso la fine del 2016, che la Procura di Napoli stava svolgendo delle indagini su alcuni appalti pubblici gestiti dalla centrale acquisti della Pa. L’informazione sarebbe stata data dal generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia. Il comandante generale Tullio Del Sette, invece, avrebbe comunicato la notizia direttamente a Luigi Ferrara, allora presidente di Consip. Marroni, dopo aver saputo di essere finito nel mirino, fece subito bonificare il proprio ufficio, rimuovendo le cimici installate dai carabinieri del Noe. L’indagine, sfumata, venne successivamente spacchettata per competenza territoriale. Quella sulla fuga di notizie giunse a Roma. Durante la trasmissione del fascicolo da Napoli a Roma, negli ultimi giorni del 2016, gli atti finirono interamente sui giornali. «La più grande fuga di notizie della storia», disse l’allora vice presidente del Csm, Giovanni Legnini. La Procura di Roma, ricevuto il fascicolo, riscontrò irregolarità ed errori nella conduzione delle indagini effettuate dai due ufficiali dei carabinieri che avevano condotto fino a quel momento le operazioni. Inizialmente il pm romano Mario Palazzi fece anche riscrivere l’informativa, ma poi, proseguendo le fughe di notizie, decise di togliere il fascicolo al Noe e di assegnarlo ai colleghi del Reparto operativo della Capitale. A carico dei due ufficiali vennero contestate le accuse di rivelazione del segreto, falso e depistaggio. Poi tutte archiviate dal gup di piazzale Clodio Clementina Forleo. Questa indagine fece anche emergere uno spaccato non proprio edificante sulle dinamiche interne al Comando generale dell’Arma.

I due ufficiali, come emerso, volevano intercettare Del Sette, ora in pensione, e l’allora capo di Stato Maggiore Gaetano Maruccia, adesso vice comandante dei carabinieri. L’attività doveva essere effettuata ricorrendo all’utilizzo di sofisticatissime microspie da piazzare nei loro uffici di viale Romania. L’operazione non andata in porto, doveva servire per scoprire le “talpe” che avevano avvisato i vertici Consip dell’indagine a loro carico. Scafarto era poi diventato assessore alla Legalità al comune di Castellammare. Sessa, invece, era stato trasferito alla Legione Lazio. Incarico con un importante benefit: un prestigioso alloggio nella centralissima piazza del Popolo a Roma. Ieri, l’arresto.

Carabinieri Piacenza: è davvero un bene che il comandante generale provenga solo dall’interno dell’Arma? Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 31 Luglio 2020. Ho già ricordato in mio articolo del 30 luglio che il terreno su cui hanno fatto presa le male piante di Piacenza – con similitudini a certi aspetti di Magistratopoli – sembra essere stato l’eccessivo e spregiudicato carrierismo, che spesso pare essere stato un movente non solo dei Carabinieri infedeli, ma anche di altri dirigenti investigativi. Perché la convalida di quella serie di arresti, da quanto appare senza rilievi da parte dell’autorità giudiziaria, potrebbero, anche se solo in parte, attenuare la responsabilità della locale scala gerarchica dell’Arma, che ha limitatissima influenza sull’attività di polizia giudiziaria dei propri sottoposti. Questa situazione, seppure con sfumature e gradazioni diverse, è rischio che corrono anche tutti gli altri organi di polizia giudiziaria. Il carrierismo più spregiudicato è spesso basato sulla pura ricerca del consenso e la spettacolarizzazione mediatica delle indagini preliminari. Senza nessun collegamento, come dovrebbe avvenire anche per le Procure della Repubblica, con le sentenze passate in giudicate. Troppo spesso di assoluzione, dopo aver rovinato la reputazione, se non la vita, di migliaia di “presunti colpevoli”. Ma un’altra considerazione che mi sento di fare a proposito di questo carrierismo spregiudicato (che vale non solo per le forze di polizia ma, come visto da Magistratopoli e dal caso Palamara, anche per la magistratura) é che il Comandante Generale dei Carabinieri proviene dalle fila dell’Arma. Anche se solo da poco più di un decennio. Prima infatti il governo (dopo aver sempre consultato Presidente della Repubblica e opposizioni) nominava Comandante Generale soltanto un generale di corpo d’armata dell’esercito, che non sempre aveva la necessaria competenza tecnica per la guida di una forza di polizia, con compiti e peculiarità ben diversi da quelli della sua forza armata di provenienza. Neppure quando quella dei Carabinieri, prima di divenire la Quarta Forza Armata, era la prima Arma dell’Esercito. Stessa cosa avveniva per la Guardia di Finanza. Il fatto però che ora le autorità di vertice di Carabinieri e Guardia di Finanza provengano sempre dall’interno, pur avendo i suoi pregi, non è neppure esente da criticità. In questo decennio, ad esempio, il Corpo della Guardia di Finanza ha saputo offrire al Governo rose di generali di corpo d’armata di grandissima qualità, dalle quali sono stati scelti Comandanti generali di grande valore, che hanno tutti saputo guidare il Corpo con saggezza ed equilibrio, assieme alla capacità di accrescerne il prestigio, sia a livello nazionale che internazionale. Ma la mancanza di apertura delle nomine all’esterno potrebbe alla lunga cambiare le cose. Potrebbe ad esempio un giorno verificarsi una ridotta possibilità di scelta qualitativa da parte del governo, che possa garantire che strutture tra le più delicate per la libertà e la vita democratica del Paese siano messe in mani realmente affidabili. Senza dimenticare poi l’influenza delle cordate interne ai diversi corpi, che potrebbero anche largamente precondizionare dall’interno, e nel corso del tempo, quelle nomine. Che devono invece appartenere alle sole autorità di governo (che per tali nomine non può mai ignorare i pareri di Presidente della Repubblica e opposizioni), nell’interesse dei cittadini. Non soltanto degli interessi legittimi e di carriera degli alti dirigenti delle forze di polizia. Senza contare poi che quando il Comandante Generale di Carabinieri e Guardia di Finanza proveniva dall’Esercito, era l’unico generale di nomina politica all’interno di Arma e Corpo. Le carriere degli altri ufficiali erano invece molto più indipendenti dalla politica. Da quando il comandante generale proviene dall’interno, invece, i generali che ambiscono alla carica di vertice non possono esimersi dal coltivare rapporti piú stretti con la politica nel corso della loro carriera. Con inconvenienti che, con la presunzione d’innocenza del caso, si sono visti col recente rinvio a giudizio dell’ex Comandante Generale dei Carabinieri Del Sette e del generale Saltalamacchia nell’ambito del caso Consip. C’è pertanto da chiedersi se non si possa immaginare che, anche per avere la possibilità, quando necessario, di portare aria fresca e discontinuità all’interno di un determinato corpo di polizia, che alla carica di Comandante Generale di Carabinieri e Guardia di Finanza (ma potrebbe dirsi lo stesso anche per la Polizia di Stato) possano aspirare anche i più alti dirigenti delle altre forze di polizia, e magari anche delle altre forze armate. Senza escludere a priori la possibilità che la nomina ricada su un interno. E l’idea non è del tutto fantasiosa, anche se sono certo debba essere adeguatamente digerita dagli stati maggiore delle tre forze di polizia. Perché, potenzialmente, aprirebbe ai loro più alti gradi la possibilità di essere nominati non solo a capo del proprio corpo o arma, ma, in uno spirito interforze già ampiamente sperimentato alla DIA ed ai servizi di intelligence (DIS, AISE e AISI), anche a quello di un altro. Non è idea fantasiosa anche perché è ciò che già accade da anni in altri paesi europei. Come in Francia, ad esempio, dove il Direttore Generale della Gendarmerie Nationale è un civile (prefetto o alto magistrato). Oppure in Spagna, dove la Guardia Civil (che, nonostante il nome, è un corpo di polizia a ordinamento militare, come Carabinieri e Guardia di Finanza), da quando il tenente colonnello Antonio Tejero, il 23 febbraio 1981, al comando di 200 militari della Guardia Civil, assaltò con pistola in pugno il parlamento spagnolo e sequestrò tutti i deputati, ha come Direttore Generale un esterno. Spesso un civile, in un caso addirittura un Generale di brigata (quindi di grado inferiore ai generali di Divisione della GC) dell’Aeronautica militare. 

Carabinieri di Piacenza, linciati da giornali e procura senza un processo e possibilità di replica. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Luglio 2020. Non conosco la dottoressa Grazia Pradella, cioè il capo della procura di Piacenza che ha diretto l’inchiesta sui carabinieri accusati di reati gravissimi, persino di tortura. Immagino che sia un’ottima investigatrice, e se ha scoperto e stroncato un nucleo di malfattori che operavano dentro le forze armate e le forze di polizia, ha reso un servizio molto grande al paese. Se le accuse che ha mosso ai dieci carabinieri, e ad altri, saranno provate, sarà giusto dire grazie alla dottoressa Pradella e ai suoi sostituti. La forza di una democrazia sta anche nella civiltà delle forze dell’Ordine. Una polizia prepotente, o addirittura delinquente, è una ferita gravissima. Però le regole vanno sempre rispettate. Anche le regole che impongono la riservatezza degli inquirenti, il rispetto degli imputati e del principio secondo il quale nessuno è colpevole finché non viene condannato in modo definitivo. E’ la sezione aurea dello stato di diritto. Ricopio qui qualche riga dell’articolo meno conosciuto e meno osservato della nostra Costituzione, il 111: “… la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”. leggetela bene quella parola: “RISERVATAMENTE”. E allora perché dobbiamo trovarci di fronte a una clamorosa conferenza stampa del procuratore, che parla senza che la difesa possa dire una parola, e avanza – e dà in sostanza per acclarate – accuse infamanti, e distribuisce intercettazioni, e fotografie, e volti, e pezzi di vita privata di persone, come sono persone anche i carabinieri accusati? Non è logico che avvenga così, non è neppure legittimo. Però è la norma. Da Piacenza fino a Roma e alla Calabria e alla Sicilia. I procuratori che usano la stampa come uno strumento punitivo, che fanno grancassa, che violano e calpestano tutti i diritti degli imputati e della difesa, e medievalizzano il nostro codice di procedura penale “reale”, sono, purtroppo, la maggioranza. L’obiezione che spesso sento in questi casi è sempre la stessa: i reati, talvolta, sono talmente gravi che è giusta un’eccezione. Ecco, questa è una obiezione davvero strampalata. Tantopiù è infame il reato, tantopiù alte devono essere le garanzie e la riservatezza. Se sono accusato – a torto o a ragione- di aver rubato un libro in libreria puoi pure sputtanarmi, la gogna non sarà molto pesante. Ma se dici che sono un mafioso, o uno stupratore, o un assassino, o un carabiniere stupratore, hai il sommo dovere di proteggermi con tutte le tue forze, e di proteggere i miei diritti e la mia reputazione fino all’ultimo momento possibile. Perché, invece, i giornali dispongono delle intercettazioni, delle foto dei carabinieri, delle descrizioni dei festini? Anche foto del tutto inutili, ma che fanno spettacolo. Quelle dello champagne, per esempio. Il fatto che dei carabinieri bevano champagne in piscina, non è un reato. Però fa un bello scandalo in prima pagina, quella foto, e i giornalisti certo non si tirano indietro. Sesso e champagne, è la parte che gli interessa di più, molto più di eventuali soprusi commessi sui pusher o sulle prostitute. Noi, forse ingenuamente, continuiamo a indignarci e a protestare. Per le conferenze stampa di Gratteri e per quelle di Piacenza e per tutte le altre. E chiediamo – sapendo che come risposta avremo la solita arrogante risata in faccia – il rispetto della legge. Poi c’è una seconda questione che emerge dalle polemiche di questi giorni. La questione “mele marce”. Molti esponenti politici hanno dichiarato che bisogna distinguere tra qualche mela marcia ( i carabinieri indiziati e dunque già liquidati come colpevoli) e la stragrande maggioranza dei carabinieri. Figuratevi se non siamo d’accordo. D’accordissimo. Ci piacerebbe però firmare un patto con chi fa queste dichiarazioni: un patto nel quale c’è scritto che da ora in poi userà lo stesso metro per gli immigrati e i profughi. Se un giorno succederà che un immigrato clandestino sarà accusato di stupro, cioè, tutti prenderemo atto che UN immigrato clandestino è accusato di stupro (e forse è mela marcia) non TUTTI gli immigrati clandestini. UN politico è accusato di tangenti, non TUTTI i politici. UN dipendente pubblico ha timbrato il cartellino – forse – senza lavorare, non TUTTI i dipendenti pubblici. Siamo d’accordo su questo? Oppure la prossima volta che arrestano un profugo leggeremo dichiarazioni nelle quali si chiede l’espulsione di tutti i profughi e la chiusura delle frontiere? No, perché allora c’è il rischio che qualcuno si alzi e chieda l’espulsione dei carabinieri…

Carabinieri Piacenza: troppi censori cadono dal pero. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Rifomista il 2 Agosto 2020. Condivido ogni parola dell’editoriale del 25 luglio di Piero Sansonetti: “Carabinieri di Piacenza, linciati da giornali e procura senza un processo e possibilità di replica”. Il Garantismo non può mai essere a senso unico e applicato solo agli “amici”. Conosco e apprezzo la professionalità e la determinazione della Procuratore della Repubblica di Piacenza, con la quale l’unità investigativa di cui ero responsabile all’Ufficio Europeo per la lotta alla Frode (OLAF) in altro capitolo della mia vita professionale, ha collaborato in una delicata indagine internazionale. Ma ciò non mi evita di pormi qualche  interrogativo  su alcuni aspetti della comunicazione pubblica dei risultati di questa ancor più delicata indagine giudiziaria. Ho avuto modo di leggere l’ordinanza del GIP ritrovata sul Web, perché in Italia succede anche questo. I fatti denunciati dalla Guardia di Finanza appaiono di una gravità indiscutibile. E senza precedenti, almeno nel nostro Paese. La lettura mi ha anche permesso di comprendere meglio le ragioni del sequestro probatorio (sinora unico della storia nazionale) di una intera caserma. Che mi appare ora più giustificato di quanto avessi pensato in un primo momento, da irrinunciabili esigenze investigative (quali il rischio di inquinamento delle prove, anche involontario, e la necessità di fare esami scientifici per la ricerca di tracce di altri pestaggi). Senza le quali sarebbe stato un inutile ulteriore schiaffo alle istituzioni, e quindi un danno per tutti. Non ho però timore di confermare,, dopo quasi trent’anni di esperienza internazionale, che le forze di polizia italiane (a cominciare dai Carabinieri) sono e restano tra le migliori al mondo, non solo d’Europa. Per dovizia di personale, mezzi e strumenti che hanno a disposizione (nonostante gli abituali piagnistei italiani), ma anche per la preparazione e la qualità media degli appartenenti.  Cosa che vale anche per i magistrati. Perché, contrariamente a quanto si pensi in Italia, l’erba del vicino non è sempre più verde. Anche se la dovizia di strumenti giuridici e tecnici investigativi (non c’è indagine, di fatto, che non si avvalga di ascolti telefonici, ambientali o persino di trojan), ha anche un triplice impatto negativo, inimmaginabile in altri paesi. Infatti, oltre alla compressione delle libertà fondamentali, l’uso disinvolto di strumenti tecnici altamente invasivi della sfera privata dei cittadini (compresi i non indagati), ha anche un impatto considerevole in termini di costi a carico del contribuente. Perché nessuno in Italia si preoccupa di valutare davvero il costo di ogni indagine. Che raramente è rapportato ai risultati effettivamente conseguiti. Ma un terzo impatto consiste nella pigrizia investigativa generata dall’appoggiarsi troppo sistematicamente ad ascolti e intercettazioni, che stanno ormai soppiantando i tradizionali, e più faticosi, metodi investigativi. Appare tuttavia indubbio che l’Arma dei Carabinieri, sul piano etico, viva da tempo un delicatissimo momento della propria storia bisecolare. Senza farsi mancare, oltre a troppi processi per omicidi, stupri, abusi di potere, violenze e altri reati, compiuti da propri militari, neppure qualche folcloristica sovraesposizione mediatica e social di ufficiali falconieri incappucciati o che, seppure in congedo, non rinunciano a identificarsi pubblicamente come “generale dei Carabinieri” neppure quando indossano sgargianti giacche arancioni, e si recano al Quirinale, accompagnati dalla stampa, con l’intento dichiarato di arrestare il Presidente della Repubblica “in nome del popolo”. Cose inimmaginabili in altri tempi e in democrazie avanzate diverse dalle repubbliche delle banane. Ma che sono purtroppo l’ulteriore conferma della gravissima crisi, etica, culturale, sociale e morale, ancor prima che economica, che affligge da tempo il nostro Paese. E tutte le sue strutture istituzionali. Nessuna esclusa.  Che sono necessariamente lo specchio del paese reale dal quale provengono i loro appartenenti. A cominciare, dopo la politica, dalla magistratura. Il cui coperchio che per decenni ha celato ai cittadini il modo di funzionamento, ed il ruolo autoreferenziale di CSM  e ANM, saltato con il caso Palamara, spero non venga rimesso su Magistratopoli. Magari a causa del clamore mediatico dei fatti di Piacenza. E degli altri che – spero di sbagliarmi, nonostante i concomitanti annunci mediatici del rinvio a giudizio dei generali Del Sette e Saltalamacchia – continueranno ad emergere, con la potenza di fuoco degli strumenti di distrazione di massa. Accompagnati dallo sciacallaggio mediatico di tanti che ora pontificano e denigrano, ma ai quali per le loro funzioni (ad esempio, magistrati e giornalisti), al pari della gerarchia degli indagati, si potrebbe obiettare che anche loro “non potevano non sapere”. A tale proposito, torno all’editoriale di Sansonetti, ed in particolare all’articolo 111 della Costituzione, che il direttore del Riformista giustamente richiama. Perché sancisce che “… la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”. Allora, seppure soddisfatto, come giornalista, dall’aver potuto leggere l’ordinanza del GIP degli arresti di Piacenza, come cittadino mi chiedo se non sia sconcertante che atti giudiziari contenenti anche dati personali sensibili degli indagati (come gli indirizzi di casa) circolino liberamente e pubblicamente, e senza alcuna riservatezza,  in flagrante violazione, oltre che della Costituzione, anche del diritto europeo in materia di privacy (GDPR). Mi chiedo infatti cosa succederebbe (uno scandalo nello scandalo) se qualcuno dei presunti spacciatori, o delle presunte vittime degli indagati, andasse a bussare alla porta dei domicili privati degli inquisiti. Ove in alcuni casi abitano anche i loro familiari. Ci sarà mai qualcuno che vorrà accertare come questa divulgazione di dati personali sia stata possibile, prima che succeda qualche nuovo dramma, e che poi tutti fingano, come sempre, di cadere dal pero? Ma ormai anche questa è l’Italia. Ed è un’Italia che mi piace sempre meno.

Caserma di Piacenza, perché i Pm non hanno vigilato? Alberto Cisterna su Il Riformista il 31 Luglio 2020. Sui fatti di Piacenza si sono spese molte parole in questi giorni. Il caso è grave e suscita per forza allarme e indignazione. Si è molto discusso dei limiti della catena di comando che, dentro l’Arma, avrebbe dovuto vigilare e sorvegliare i comportamenti dei militari della Stazione Levante. Certo, si è detto, in fondo è solo una delle 4.700 caserme dislocate in tutta Italia, ma è anche l’unica a essere posta sotto sequestro dalla magistratura. Il sequestro non è cosa meno grave degli arresti di tanti carabinieri e nell’immaginario almanacco dei brutti ricordi di piazza Ungheria questa misura avrà un posto a parte. Tanto brucia la ferita che l’Arma ha piazzato una stazione mobile davanti l’ingresso della Levante che appare in tutti i filmati, quasi a stizzosa replica della propria presenza in quel quartiere. Le manette non sono, purtroppo, un precedente nei ranghi della Benemerita, ma il sequestro di una caserma, ossia di un plesso di polizia e al contempo di un presidio militare (l’Arma è dal 2000 la quarta forza armata della Difesa), è da annotare con la penna rossa e blu per il vertice dell’Arma. Tra le tante cose che si sono dette in questi giorni c’è anche l’idea che i carabinieri della Levante si siano dati un gran daffare per portare a segno dozzine e dozzine di arresti, sequestrare droga, acquisire informatori, e così conquistare benemerenze ed encomi. Qualche ufficiale, si dice, a dispetto di ogni prudenza e cautela, avrebbe persino incitato i propri uomini alle manette facili per avere anche lui un qualche ritorno nella propria carriera. Su questo, a occhio e croce, tutti sembrano d’accordo, anche quanti hanno gridato al linciaggio sui carabinieri e hanno invitato a moderazione. Se non fosse. Se non fosse per un sottile e insidioso dubbio che traversa la mente e merita una risposta. C’è legittimamente da chiedersi se della cifra anomala di tutti questi arresti e di tutti questi sequestri la Procura della Repubblica di Piacenza si fosse mai accorta. Se, negli anni, la magistratura inquirente si fosse mai insospettita per l’insolita (in una piccola città) frenetica attività investigativa di una minuscola stazione a detrimento dei reparti dell’Arma delegati a questo genere d’indagini. Si badi bene: non si parla del valoroso procuratore, giunto in città da pochissimo tempo e che sta gestendo la vicenda con grande professionalità; e neppure di questa o di quella toga. Sia chiaro. La corporazione è suscettibile ed è bene non irritarla. C’è piuttosto da chiedersi se di questo via vai di manette si fosse reso conto l’anonimo e impersonale ufficio del pubblico ministero; quello cui la polizia giudiziaria presenta ogni giorno la lista degli arrestati e dei fermati per ottenere la convalida del provvedimento di polizia; il pubblico ministero che la polizia giudiziaria chiama anche di notte per avere istruzioni su come procedere nella flagranza di un reato; il pubblico ministero cui compete disporre la liberazione immediata dell’arrestato se ritiene che non sussistano elementi che ne giustifichino la restrizione personale; il pubblico ministero che deve vigilare sull’operato della polizia giudiziaria e verificare che non vengano commessi arresti illegali (che sono un reato grave); il pubblico ministero che (come nel caso Cucchi) dovrebbe accorgersi se una persona in manette è stata malmenata o, peggio ancora, torturata; il pubblico ministero cui avrebbero dovuto rivolgersi fiduciose le vittime di tanti soprusi a Piacenza e non lo hanno fatto. Ecco, in tutto questo mattatoio processuale e non solo, in questa pubblicizzata Gomorra a parti invertite, c’è da chiedersi perché l’indagine sia stata avviata, come pare, praticamente solo per le dichiarazioni rese da un altro carabiniere. Tenere totalmente all’oscuro l’Arma piacentina delle indagini in corso è stata certamente una scelta dolorosa e difficile. La decapitazione dei vertici dei carabinieri in città è, anche, la risposta a questa vistosa mancanza di fiducia e un prezzo duro per un’istituzione che serve la Nazione da oltre due secoli. Però esiste un’altra, non meno potente ed efficiente, catena di comando ed è quella che vede al suo vertice il pubblico ministero che, nel codice di procedura penale, esercita funzioni e compiti di vigilanza ben più cogenti e penetranti di quelli di un ufficiale dell’Arma. Ecco, ed è solo una domanda, che sarebbe indispensabile che si faccia chiarezza anche sull’altra metà della luna, su quella zona rimasta in ombra solo perché è ora intervenuta con la dovuta asprezza e severità dinanzi a una situazione difficile e grave come quella della Levante. Tuttavia, sarà facile per gli indagati sostenere che tutti gli arresti sono stati convalidati, che il pubblico ministero non mai hai eccepito o sollevato dubbi di sorta, che tutto il loro operato – passato al setaccio decisivo e insostituibile dell’autorità giudiziaria – è risultato esente da censure. Uno screening sugli arresti o sui fermi operati da quei carabinieri sarebbe indispensabile anche solo per comprendere (come nel caso Cucchi) dove la catena di controllo s’è spezzata, dove i doveri di vigilanza sono rimasti sopiti, e non solo in caserma. Il pubblico ministero esercita un ruolo decisivo, come noto, a presidio della libertà e dell’incolumità delle persone in vincoli poiché ha tutti gli strumenti per prevenire, contenere e reprimere gli abusi. Non accadrà nulla, ovviamente, ed è probabile che nessuna verifica verrà mai svolta, ma questo non sarebbe altro che l’ennesimo argomento a favore di chi sostiene che il pubblico ministero si stia riducendo da tempo al ruolo di nudo avvocato della polizia e che, per questo, non debba più condividere con i giudici l’appartenenza a un medesimo ordine di giustizia e di terzietà. Un giorno tanti anni or sono un giovane giudice, in sede di convalida dell’arresto, notò un’ecchimosi sull’occhio del detenuto che interrogava e solo con tante insistenze e rassicurazioni riuscì a farsi dire che non era né caduto né inciampato, ma che aveva beccato una raffica di pugni dai poliziotti che lo avevano ammanettato. Quel giudice avvisò l’ancor più giovane pubblico ministero che, incurante dei più o meno bonari consigli del suo procuratore che lo invitava alla prudenza e paventava orribili calunnie, fece processare gli aguzzini. Non ci fu bisogno di alcun pentito in divisa.

Da huffingtonpost.it il 31 luglio 2020. Viaggiava in auto con moglie e un figlio minorenne, ma trasportava anche 7,5 chili di cocaina: un agente di polizia è stato così arrestato dai carabinieri della Compagnia di Locri. I militari, nel corso di controlli alla circolazione, hanno fermato un’auto con alla guida un 40enne, B.C., residente in Sicilia, appartenente alla Polizia di Stato in servizio nel reggino. L’uomo, dopo aver esibito una fotocopia del tesserino di riconoscimento, si è mostrato agitato ed insofferente al controllo, destando così il sospetto che potesse avere qualcosa da nascondere. I carabinieri hanno quindi perquisito l’auto insieme ad operatori della Polizia di Stato opportunamente avvisati, e, nascosti all’interno di un doppio fondo ricavato dietro il vano portaoggetti, hanno trovato 7 confezioni plastificate da circa 1 kg ciascuna, che contenevano complessivamente 7,5 kg di cocaina. Dichiarato in stato di arresto, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria, l’agente è stato portato in carcere in attesa dell’udienza di convalida davanti al giudice di Locri.

Carabiniere adescatore di 13enne: la Procura sequestra chat e video porno. Le Iene News il 16 ottobre 2020. Veronica Ruggeri aveva teso una “trappola” al carabiniere che aveva adescato in chat una ragazzina di 13 anni, con messaggi e inviti a sfondo sessuale, presentandosi all’appuntamento organizzato dalla zia della giovane. Dopo il sequestro di pistola e distintivo, adesso la Procura di Verona ha acquisito tutte le chat e i video porno mandati dall’uomo. La Procura di Verona ha acquisito le chat porno e i video hard che il carabiniere 37enne di cui vi abbiamo raccontato nel servizio di Veronica Ruggeri (che potete rivedere qui sopra) ha mandato ad una ragazzina di 13 anni, dopo aver rubato l’identità a un 15enne morto qualche anno fa. Secondo il procuratore di Verona Angela Barbaglio le chat del carabiniere, a cui ieri i colleghi hanno sequestrato pistola e distintivo, conterrebbero “frasi sconcertanti, ancora più gravi in quanto provenienti da un esponente delle forze dell’ordine”. Contro l’uomo, che Veronica Ruggeri aveva incontrato andando all’appuntamento che la zia della ragazzina aveva organizzato con il carabiniere, si starebbero adesso valutando pesantissime ipotesi di reato: dalla tentata violenza sessuale alla corruzione di minore, fino all’adescamento alla pedo-pornografia. La Iena ci ha raccontato del tentativo di adescamento online da parte del carabiniere, che in chat si era finto un 15enne per avvicinare, con messaggi a sfondo sessale, una ragazzina veneta di 13 anni. L’uomo era stato “incastrato” dalla zia della giovane, che fingendo in chat di essere la nipote aveva organizzato un incontro reale in provincia di Verona, al quale poi si era presentata Veronica Ruggeri. “Lui mi ha detto che avrebbe potuto ospitarmi un suo amico adulto perché sua mamma non voleva", ci racconta la zia Natasha. "E mi ha detto che avrebbe potuto ospitarmi in cambio di un rapporto sessuale”. Quando l’uomo si è presentato all’appuntamento e ha visto le telecamere, ha iniziato a cercare delle scuse: “Ho cercato di capire di cosa avesse bisogno questa ragazza. Era giusto per vedere fino a dove voleva arrivare”. La Iena allora gli legge alcuni dei messaggi molto spinti che lui avrebbe mandato, ma l’uomo risponde che erano solo “provocazioni”. Poi però, incalzato da Veronica Ruggeri, aveva ammesso di avere qualche problema: “Troverò un modo di contattare qualcuno per vedere dove sono le mie debolezze, dov’è che sbaglio. Perché ho capito che ho dei problemi se voi continuate a dire questa cosa”, dice alla fine l’uomo. “Ho bisogno di parlare con qualcuno”. Subito dopo il nostro servizio i carabinieri sono intervenuti perquisendo la sua abitazione e l’armadietto personale e sequestrando pistola e tesserino dell’Arma. Ora interviene la Procura, con il sequestro di quelle chat e dei video a sfondo sessuale mandati alla ragazzina. Per l’uomo, per il quale si valutano ovviamente ipotesi di reato in sede penale, si apre anche un altro fascicolo d’indagine, da parte della giustizia militare e un terzo della Corte dei Conti, essendo un impiegato pubblico.

Carabiniere adescatore di 13enne, ecco come avrebbe commentato la sua compagna. Le Iene News il 17 ottobre 2020. Nella chat di Telegram "Veneto e dintorni" si parla del carabiniere 37enne, incontrato da Veronica Ruggeri, che avrebbe adescano una ragazzina di 13 anni. A un certo punto interviene un utente che dice di essere la compagna: “Sono la compagna da 5 anni, mi sono iscritta qua per capire”. “Pedofilo”, “sei un cazzo di pericolo pubblico”. Siamo dentro la chat di Telegram "Veneto e dintorni" che viene linkata dal profilo Instagram “picchiarello”, profilo che il carabiniere di 37 anni di cui vi abbiamo raccontato nel servizio di Veronica Ruggeri avrebbe usato per adescare una 13enne. Nella chat si parla del nostro servizio, andato in onda martedì 13 ottobre, in cui la Iena si è trovata faccia a faccia con il 37enne, convinto di andare all’incontro con la ragazzina di 13 anni conosciuta online. Dopo il nostro servizio al carabiniere sono stati sequestrati pistola e distintivo. Non solo, la procura di Verona ha anche acquisito le chat porno e i video hard che l’uomo ha mandato alla ragazzina. Nella chat fioccano insulti nei confronti del 37enne: “pedofilo”, “non farti vedere”, “sei un cazzo di pericolo pubblico”, e iniziano a discutere sul fatto che quella stessa chat nella quale stanno parlando l’avrebbe creata proprio lui. Il primo messaggio della chat, risalente al 10 gennaio scorso, l’avrebbe mandato tale “Mattna Zuck” scrivendo “Ciao” e poco dopo compare come amministratore “Mattia  zuck”. Gli utenti cercano di capire se dietro la chat ci sia veramente lui: “E’ impossibile sia un fake”, scrive uno di loro il 14 ottobre. “Dietro c’è veramente lui”. Gli insulti continuano, ma c’è un utente che sembra andare nella direzione opposta. “Con tutte le ragioni di pensare che è uno schifo… insultare di questo modo non riesco a capire cosa risolvete! Tutti noi abbiamo visto solo degli spezzoni mandati dalle Iene, chi di dovere approfondirà questa situazione!”. E ancora: “Chi lo conosce sa che persona è, ci sarà una spiegazione”. Gli altri utenti iniziano a ribattere, dicendo che non ci sono giustificazioni. Ma il profilo, con username femminile, aggiunge: “bisogna anche dire che ci sono tante ragazzine che non sanno stare al loro posto”. E continua: “Non fraintendetemi, i pedofili è giusto che paghino io ho semplicemente detto che ci sono ragazzine che si spingono troppo oltre e poi si ritrovano nella merda! Questo un mio pensiero”. Fino a che a un certo punto l’utente in questione si presenta: “Io sono ***. E sono la compagna”. Insomma, l’utente, che d’ora in poi chiameremo C., sostiene di essere la compagna del carabiniere ora indagato. “Compagna da 5 anni”, scrive. Alcuni utenti non le credono e iniziano ad accusare C. di essere proprio il carabiniere del nostro servizio. “Io mi sono iscritta per capire altrimenti non sarei qua”. C. dice agli utenti che lei non sapeva nulla di tutta questa storia: “sinceramente non mi ha detto nulla e faccio fatica nel crederci per questo motivo”. E dopo che alcuni utenti le consigliano, nel caso sia davvero la compagna, di allontanarsi dall’uomo, C. risponde: “Per una donna che è innamorata di questo tale… non è semplice. Ho scoperto una sua seconda vita dove io nella mia gelosia gli facevo domande e lui ‘ma chi mi vuole’…”. A un certo punto una terribile immagine viene mandata nel gruppo: un utente pubblica una foto pedopornografica, con scritto “attenzione, in caso di indagini da parte delle autorità competenti, tutti i membri di questo gruppo possono essere denunciati e indagati per visualizzazioni e possesso di materiale pedopornografico, se non volete finire in tribunale uscite dal gruppo”. Il profilo inizia a spammare questa immagine e gli utenti si chiedono chi sia. Non possiamo ovviamente sapere chi ci sia dietro questo profilo, ma diffondere (e possedere) immagini pedopornografiche è un reato. Il 15 ottobre la conversazione sulla chat continua e C. scrive: “Io come tutti voi ero all’oscuro di questa situazione”. E continua: “Non difendo nessuno. Siete così bravi a insultare per criticare, la ruota gira per tutti”. “Io ho conosciuto una persona diversa”, scrive sempre C. “Dopo 5 anni è venuta fuori questa storia”. “Io ieri ho scoperto questo gruppo, mi sono iscritta per capire”.  “Ma la ex l’ha lasciato perché stuprava le ragazzine?”, chiede a un certo punto un utente. “Non ho lasciato nessuno. Sono la sua compagna”. Subito dopo il nostro servizio i carabinieri sono intervenuti perquisendo la sua abitazione e l’armadietto personale e sequestrando pistola e tesserino dell’Arma. Per l’uomo, per il quale si valutano ipotesi di reato in sede penale, si apre anche un altro fascicolo d’indagine, da parte della giustizia militare e un terzo della Corte dei Conti, essendo un impiegato pubblico.

A Milano vigili anti droga fanno business con gli spacciatori. “I 10mila euro li prendi sicuro”. Le Iene News il 16 ottobre 2020. Abbiamo documentato una conversazione che sembra un accordo economico intorno alla droga. A parlare tre vigili della polizia locale di Milano con un loro informatore, nostro complice. "Se scappa meglio, così ci prendiamo la nostra roba e ce la dividiamo senza problemi", dicono ripresi dalle nostre microcamere. Luigi Pelazza ha indagato e ora il comando vuole chiarire queste frasi. “La polizia si mette in tasca la droga e i soldi che trovano per strada. Ora non voglio più lavorare con loro, aiutami”. A sostenerlo è un ex trafficante che scrive a Luigi Pelazza. Parole che se confermate sarebbero davvero incredibili. Ci dice di essere arrivato a trafficare fino 40 chili di droga al mese per un giro d’affari di 15mila euro mensili. Dopo aver scontato una pena di sei anni di carcere, in base al suo racconto, sarebbe stato contattato da alcuni agenti del comando di polizia locale di Milano. “Mi hanno proposto di lavorare per loro. Se io segnalo loro qualcuno che spaccia in grandi quantità, loro lo arrestano e tengono una parte di droga e soldi e poi danno la mia parte”, sostiene il nostro testimone. Dal suo racconto sembra che sarebbe arrivato a far sequestrare fino a 90 chili di droga. Ci dà nomi e identikit dei vigili che secondo lui sarebbero coinvolti in questo giro. “Io parlo solo con due di loro perché non mi permettono di parlare con nessuno dei loro colleghi. Di solito li chiamo e poi ci incontriamo nel parcheggio di qualche supermercato”, sostiene. A questo punto non resta che verificare se quello che dice corrisponde al vero. Organizziamo un incontro in zona Bovisa a Milano. “I tuoi 10mila euro li prendi sicuro. Ma dipende da quello che succede, magari riesco a darti anche di più”, dice uno di questi vigili.  Abbiamo documentato questa conversazione che sembra essere un accordo economico intorno alla droga. Quali sono le intenzioni degli agenti della Squadra antidroga della Polizia Locale di Milano sulla droga oggetto dell'operazione? “Il fumo arriva dalla Francia: 50 chili a 5.200 euro al chilo. La consegna è domani in viale Certosa”, dice il nostro complice a tre individui che lavorerebbero nel nucleo antidroga della polizia locale milanese. Ovviamente, la storia è tutta inventata ma la raccontiamo per vedere le loro reazioni e capire come intendono procedere. “Cerchiamo di prendere sicuramente la droga”, risponde uno dei tre. “Entrate nell’appartamento, fate il culo che dovete fare poi quando uscite c’è la possibilità che il tizio vede noi e capisce che può essere pericoloso. Invece che andare verso la macchina lascia (la roba ndr) e scappa”. Insomma da queste parole l’agente dell’antidroga non sembra proprio interessato ad arrestare il trafficante (che anche lui sarà nostro complice), piuttosto pare sperare che scappi abbandonando la droga. Un dettaglio che sembra confermato anche quando il nostro complice parla di soldi: “Ho solo bisogno di 10/12mila euro”, gli dice. E di tutta risposta viene rassicurato: “Li prendi sicuro”. A questo punto scatta la finta consegna all’ora e al giorno stabilito. L’informatore spiffera l’indirizzo dove avverrebbe la messa in scena e si presentano i tre uomini che lavorerebbero per la Locale di Milano. Quando riconoscono un nostro attore con due borsoni pieni di sassi lo bloccano: tre di loro lo ammanettano mentre uno di loro prende le due borse. A questo punto interviene Luigi Pelazza, ma non ripetono le stesse frasi che sono state registrate qualche giorno prima. Ora anche i carabinieri vogliono chiarire questa vicenda. 

"Vigili rubavano droga e poi la spacciavano" Aperta un'inchiesta. Dopo la denuncia delle «Iene» sono stati trasferiti. Forza Italia: «Caso sconcertante». Cristina Bassi, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. La Procura ha aperto un'inchiesta su un servizio mandato in onda giovedì dalle Iene, con il dialogo registrato in cui uno spacciatore di droga e alcuni agenti della polizia locale si mettono d'accordo per spartirsi i guadagni dello smercio. Le indagini sono coordinate dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, che guida il pool reati contro la Pubblica amministrazione, e sono affidate alla stessa polizia locale e alla Squadra mobile della polizia di Stato. Al momento il riserbo in Procura è massimo sia sulle ipotesi di reato sia su eventuali indagati. Sono in corso i primi accertamenti, le Iene hanno informato i pm alcuni giorni prima della messa in onda. I vigili della squadra anti droga sono stati trasferiti. Il testimone, un ex spacciatore marocchino che ha scontato alcuni anni di carcere, ha contattato il programma: «Mi hanno proposto di lavorare per loro. Se io segnalo loro qualcuno che spaccia in grandi quantità, loro lo arrestano e tengono una parte di droga e soldi e poi mi danno la mia parte», dopo aver rivenduto le sostanze stupefacenti. Nel servizio si vede anche uno scambio-trappola in cui i ghisa intervengono su indicazione dell'informatore. «L'Amministrazione - spiega il Comune -, alla luce di quanto accaduto alcuni giorni fa e riportato dal servizio de Le Iene, Milano, accordi economici degli agenti con i complici sulla droga?, sta attuando i primi provvedimenti di trasferimento per gli agenti che sarebbero coinvolti nei fatti raccontati nel servizio. Eventuali ulteriori misure saranno valutate all'esito delle indagini, per le quali l'Amministrazione e il comando della polizia locale sono già a disposizione dell'autorità giudiziaria che sta effettuando gli accertamenti sui fatti e le responsabilità». Dal racconto della Iena Luigi Pelazza emerge quella che sembra una vera organizzazione di ghisa che si fanno pusher e che taglieggiano i pregiudicati, minacciando di riportarli in carcere, per farli infiltrare nel traffico di droga e sfruttare le informazioni su grossi quantitativi su cui mettere le mani. «Abbiamo documentato - spiegano le Iene - una conversazione che sembra un accordo economico intorno alla droga. A parlare tre vigili della polizia locale di Milano con un loro informatore, nostro complice: Se scappa meglio, così ci prendiamo la nostra roba e ce la dividiamo senza problemi». Interviene Gianluca Comazzi, consigliere comunale e capogruppo di Fi in Regione: il servizio «è a dir poco scioccante. Se confermati, i fatti» sarebbero «di una gravità inaudita». Il consigliere comunale di Fi Alessandro De Chirico: «Bisogna lasciare il tempo necessario alla polizia giudiziaria di fare le proprie indagini per verificare le responsabilità dei singoli. Penso che il trasferimento degli agenti, coinvolti nella presunta vicenda di droga, non sia la cosa giusta. Vanno sospesi affinché in attesa degli esiti delle indagini non rischino errori in servizio per la scarsa tranquillità personale». L'assessore regionale alla Sicurezza, Riccardo De Corato, si dice «senza parole» e aggiunge che se arriverà un'incriminazione, «dovranno essere presi provvedimenti anche nei confronti di chi non ha effettuato i dovuti controlli».

I vigili si dividono droga e soldi sequestrati? Nuove testimonianze dagli spacciatori. Le Iene News il 22 ottobre 2020. Nuove testimonianze di spacciatori che, se confermate, alimenterebbero i sospetti su alcuni agenti della polizia locale di Milano. Luigi Pelazza è tornato a indagare dopo il primo servizio in cui uno scambio di informazioni tra alcuni vigili e un loro informatore ha destato alcuni sospetti. “Mi hanno preso la droga, il telefono e le chiavi. Sono andati via dicendomi di non dire niente. Non hanno dichiarato le panette dicendomi solo di non parlare”. A sostenerlo sarebbe uno spacciatore, che non sa di essere ripreso, e parla liberamente con un nostro informatore. Lo stesso che ha documentato una sua conversazione con alcuni agenti della polizia locale di Milano. Come sembra emergere da alcune riprese, i vigili dell’antidroga sarebbero stati pronti a dividersi droga e soldi dopo un sequestro. Dopo il primo servizio di Luigi Pelazza (qui il video) sugli agenti che farebbero business attorno alla droga, si è sollevato un polverone. Loro sono stati trasferiti in altri reparti mentre altri ragazzi, presumibilmente spacciatori, hanno raccontato nuovi dettagli che, se fossero confermati, alimenterebbero i sospetti. “Sono venuti da me, si sono presi due panette e non mi hanno lasciato nulla”, sostiene un secondo pusher incontrato dal nostro gancio. Una versione che sembra emergere anche da una terza testimonianza: “Mi hanno portato via 15mila euro e 4 collane. Mi hanno detto che sono un ladro, quando mi hanno trovato la roba”. Anche questi video registrati dalle nostre microcamere sono a disposizione dell’autorità giudiziaria così come quelli sequestrati pochi giorni fa. In quel caso vi abbiamo mostrato l’incontro tra alcuni vigili del comando di Milano e un loro informatore che ha fatto anche da nostro gancio. “I tuoi 10mila euro li prendi sicuro. Ma dipende da quello che succede, magari riesco a darti anche di più”, dice uno dei tre vigili al loro informatore. Lui gli dice che sarebbe arrivato un carico di droga. Il dialogo prosegue: “Entrate nell’appartamento, fate il cazzo che dovete fare, poi quando uscite c’è la possibilità che il tizio vede noi e capisce che può essere pericoloso. Invece che andare verso la macchina lascia (la roba ndr) e scappa”, dice uno degli agenti. Insomma da queste parole l’agente dell’antidroga non sembra proprio interessato ad arrestare il trafficante (che anche lui sarà nostro complice), piuttosto pare sperare che scappi abbandonando la droga. Un dettaglio che sembra confermato anche quando il nostro complice parla di soldi: “Ho solo bisogno di 10/12mila euro”, gli dice. E di tutta risposta viene rassicurato: “I tuoi 10mila euro li prendi sicuro”. Dopo il primo servizio, Luigi Pelazza torna a parlare con il nostro informatore. Secondo la sua versione, la prima volta in cui lui e alcuni agenti si sarebbero incrociati risalirebbe al 2018. Gli stessi agenti avrebbero perquisito la sua abitazione. “Avevo due o tre grammi di cocaina per una festa. Era uso personale”, sostiene. “Volevano farmi un verbale per spaccio, ma non volevo finire di nuovo in carcere”. A questo punto, sempre in base al suo racconto, uno degli agenti gli avrebbe fatto una proposta. “Ti cambiamo il verbale se tu fai quello ti dico. Da me volevano informazioni”, racconta lo spacciatore che dice di aver accettato. Così lui avrebbe iniziato a passare le informazioni. Tutto questo lo potete vedere nel servizio di Luigi Pelazza in alto.

Vigili anti droga di Milano, ecco una loro perquisizione: i dubbi, i soldi e i verbali. Le Iene News il 30 ottobre 2020. Luigi Pelazza ci mostra le immagini e gli audio di un’operazione da parte dei vigili antidroga di Milano. Si tratta, apparentemente,  degli stessi agenti di cui ci siamo occupati nei precedenti servizi. Abbiamo parlato con chi ha assistito a quella perquisizione. “Hanno citofonato identificandosi come Metropolitane Milanesi. Nel momento in cui apro la porta, mi spingono dentro, senza identificarsi”, sostiene il figlio di uno spacciatore della periferia di Milano. È il primo pomeriggio del 7 ottobre 2020, davanti a lui sembrano esserci i quattro vigili della polizia locale di Milano di cui ci stiamo occupando da qualche settimana. La perquisizione che potete vedere nel servizio di Luigi Pelazza qui sopra è avvenuta una settimana prima rispetto al nostro incontro con l’ex trafficante di droga, quello che dice di aver fornito informazioni ai vigili in cambio di soldi. E al contempo è stato il primo a gettare ombre sul loro operato, tanto che è riuscito a registrare una conversazione con loro (qui il primo servizio). Dalle parole sembra più un accordo economico che uno scambio di informazioni: “I tuoi 10mila euro li prendi sicuro”, aveva detto uno di loro al nostro gancio. Nel nuovo servizio dell’inchiesta di Luigi Pelazza ci sono ancora di mezzo soldi, droga e una perquisizione. A raccontarci quello che sarebbe successo è il figlio di uno spacciatore. “Ci hanno detto di uscire dalla mia stanza perché dovevano fare la perquisizione”, sostiene il ragazzo. “I vigili hanno trovato droga e soldi e hanno messo tutto in un sacchetto”, racconta ancora. Le telecamere intanto registrano le scene di questa perquisizione: potete vedere cosa è accaduto nel servizio in testa a questo articolo.  Davanti a questo nuovo episodio, Luigi Pelazza si appella ai vigili di Milano che lavorano con dedizione: chi sa qualcosa in più rispetto a quanto vi abbiamo mostrato parli, anche in forma anonima. 

I carabinieri derubano lo  spacciatore: spariti 11 mila uro nella perquisizione. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14/10/2020. Agli arresti domiciliari due militari. Per i pm si sono appropriati dei soldi e poi hanno cancellato un’intercettazione quando hanno iniziato a temere di essere sospettati. Prima si sarebbero tenuti 11.000 euro perquisendo casa di uno spacciatore arrestato, e poi, quando hanno iniziato a temere di essere scoperti, sarebbero tornati a casa per rimetterceli, di certo entrando nel sistema informatico delle intercettazioni per cancellare due frasi che potevano comprometterli: un vice brigadiere e un appuntato scelto dei carabinieri in servizio nel 2017 a Rho sono stati posti agli arresti domiciliari con le accuse non solo di appropriazione indebita, falso ideologico e accesso abusivo a sistema informatico, ma anche di frode in processo penale e depistaggio. Storia che sarebbe potuta emergere già nel 2018 da una colorita segnalazione, contro colleghi «tutti sporcaccioni» che avevano voluto «insabbiare», firmata da un altro militare: che però ne aveva ricavato un processo disciplinare, una denuncia alla Procura militare di Verona per insubordinazione (assolto), e un trasferimento. Alla fine di un movimentato inseguimento a Stezzano, in provincia di Bergamo, il 18 settembre 2017 i carabinieri di Rho sequestrano 250 chili di marijuana e arrestano un cittadino marocchino in una grossa inchiesta antidroga del pm milanese Loredana Bartolucci, ma attestano di non aver trovato nulla nella perquisizione a casa, a Dalmine. Quando la moglie dell’arrestato telefona in caserma e dice che non trova più 11.000 euro, i due carabinieri le dicono che si sbaglia di sicuro. Ma restano spiazzati alle 21.10 del 19 settembre quando l’arrestato, chissà come con un cellulare, dal carcere telefona alla moglie intercettata e discute dei soldi spariti nella perquisizione: «Hai visto che ladri che sono?», «Adesso hai visto che hanno portato via 11». I due carabinieri inventano quindi una sopravvenuta esigenza investigativa per chiedere il 20 settembre l’ok a una nuova perquisizione, che la pm Bartolucci (pur senza poter immaginare che vogliano farla per poter rimettere in casa gli 11.000 euro) comunque nega; e allora ripiegano sul tornare lo stesso a casa, attestando d’aver reincontrato per caso la donna, di esserne stati invitati a salire a casa, e lì di averla aiutata a cercare meglio i soldi e (guarda caso) a ritrovarli. Ma siccome resterebbe l’intercettazione, uno dei due carabinieri, che per servizio avevano legittimo accesso al sistema di intercettazione Mcr della società privata Area, alle 12.13 di quel 20 settembre modifica la trascrizione e cancella le due frasi sui soldi portati via. Cancellazioni che i file di log sono in grado di tracciare a ritroso, sempre però che ci sia un motivo di sospetto per andare a verificare. E qui l’indagine della pm milanese Cristiana Roveda con i carabinieri di Monza ha avuto tre inneschi: l’interprete marocchino accortosi della discrepanza tra audio e trascrizione; un esposto anonimo del 12 febbraio 2019; e il ripescaggio appunto della relazione del 2018 del carabiniere tartassato. «Sono accuse fondate solo su deduzioni», ribatte Francesca Lisbona, che difende i due militari avvalsisi della facoltà di non rispondere alla gip Alessandra Clemente, la quale in un primo tempo aveva ravvisato a Bergamo la competenza territoriale, poi radicata di nuovo a Milano dalla Cassazione. «Giuseppe Grande ha 22 anni di impeccabile servizio, Luigi Marcone addirittura 31 anni — rimarca l’avvocato —, sono carabinieri che fanno onore all’Arma e mai hanno avuto contestazioni, anzi le loro note caratteristiche sono eccellenti». Gli arresti risalgono a quasi un mese fa, tanto che nel frattempo la gip li ha sostituiti con l’obbligo di firma dopo che l’Arma ha sospeso i due dal servizio, ma né i vertici dell’Arma né quelli della Procura, entrambi solitamente non avari di comunicati, ne hanno mai dato notizia.

Uno Bianca, lo sfogo di Eva Mikula: "Abbandonata e senza protezione". Pubblicato martedì, 28 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Viviamo giorni dove i criminali stanno finendo di scontare le loro pene, ed io? La mia pena è infinita, è a vita; niente protezione, niente anonimato, niente risarcimento. Vivo nel baratro del mio passato, nascondendomi nell'oblio per affrontare e sconfiggere ogni giorno il pregiudizio dell'opinione pubblica, conquistare il mio quotidiano e dare speranza a quella dei miei figli". Lo scrive Eva Mikula, all'epoca compagna di Fabio Savi, il 'lungo' della banda della Uno Bianca e l'unico non poliziotto del gruppo che dal 1987 al '94 terrorizzò Emilia-Romagna e Marche, uccidendo 24 persone e ferendone 102. La donna romena, che ora vive tra Londra e l'Italia, torna a farsi viva con una lettera aperta, inviata all'ANSA e indirizzata all'allora pm di Rimini Daniele Paci e ai poliziotti Luciano Baglioni e Pietro Costanza. "Vi ricordate di me? Di Eva Mikula? Vi siete mai chiesti in questi 25 anni se è vittima, complice o sopravvissuta? Sicuramente no. Vi siete presi tutto il merito, certo, io sono di troppo dopo avermi spremuta come "un limone" e abbandonata al mio destino. Una povera ragazza romena insignificante per la società italiana". Lo Stato Italiano, prosegue in un altro passaggio, "ha risarcito i parenti delle vittime con miliardi di lire. Voi avete avuto i meriti e gradi. Ed io? Ero un personaggio scomodo sia per i buoni che per i cattivi, nulla è cambiato". "I parenti delle vittime - continua - mi giudicano moralmente complice e colpevole. La giustizia italiana (4 processi in Corte d'assise e 2 in appello ed 1 in Cassazione) ha dimostrato la mia estraneità ai crimini. La mia collaborazione, testimonianza, rischio vissuto e anni di vita dedicati per condannare i criminali, liberando anche degli innocenti... tutto è svanito nel nulla". "Mettetevi una mano sulla coscienza, affinché sono ancora viva. Vi farebbe onore. Basta riprendere i fascicoli e le telefonate fra le varie procure di quella notte... 24 novembre 1994". L'invito è di farlo "a nome delle vittime, a nome dei feriti e a nome dei innocenti come William, Peter Santagata e altri. Anche la mia vita vale qualcosa. Non cerco meriti anche se potrei pretendere molto. Vorrei comprensione, lealtà, considerazione e protezione", aggiunge. "Ma quale Tipo Bianca? Quale bar? Quale licenza di pesca? Era il vicino di casa che non c'entrava nulla ma capisco che la cattura dei Savi va raccontata e giustificata in qualche modo per dare risposte al pubblico interesse", dice ancora Mikula, con riferimento alle modalità di individuazione della banda.

Salvo D’Acquisto è il vero simbolo dell’Arma, non quei delinquenti travestiti da carabinieri. Anna Rita Leonardi, Social media manager, su Il Riformista il 25 Luglio 2020. Salvo aveva 23 anni, quel giorno di Settembre di molti anni fa. Aveva sognato tutta la vita di servire il suo Paese, l’Italia, e di indossare quella divisa che per lui rappresentava orgoglio, coraggio, forza, libertà. Aveva 23 anni, tanti sogni, una vita intera davanti. Ma Salvo sapeva che quella divisa aveva un valore, profondo ed insostituibile. Quello di mettere gli altri prima di se stessi. E così Salvo, fedele a quel valore, decise di rinunciare alla propria vita per salvare quella di tanti innocenti. Salvo è Salvo D’Acquisto, napoletano, vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri, insignito di Medaglia d’oro al valor militare per essersi sacrificato, il 23 settembre 1943, per salvare 22 civili durante un rastrellamento delle truppe naziste, nella seconda guerra mondiale. Ecco, Salvo D’Acquisto è tutto ciò che dovrebbe essere un rappresentante delle forze dell’ordine. Non quei 4 delinquenti miserabili travestiti da carabinieri. L’Italia, la nostra, è quella degli uomini come Salvo. Il resto è immondizia.

Franco Pasqualetti per “Leggo” il 30 luglio 2020. «Sono stato picchiato senza motivo da un poliziotto in borghese. In una delle strade più frequentate di Roma. Guardate come mi ha ridotto». Ha la voce che trema ancora dallo choc e il volto tumefatto Marco. Un ragazzo romano di 23 anni che sabato scorso ha vissuto improvvisamente un incubo. «Erano passate le 3 di notte. Stavo tornando a casa con un mio amico dopo aver passato la serata a Trastevere - racconta - arrivati a viale Marconi si affianca allo scooter su cui viaggiavamo un’auto grigia. Era una 500 XL con a bordo due uomini. Mi fissano e mi urlano “ma che cazzo ti guardi?”. Io rispondo per le rime e continuiamo a battibeccare per qualche secondo. Quando pensavo fosse tutto finito si scatena l’inferno». La voce trema sempre più e il dolore delle ferite diventa più forte: «Ci tagliano la strada, bloccando lo scooter e quello alla guida si avvicina a me. Mi urla in faccia parolacce e minacce di ogni tipo. Poi mi colpisce con due schiaffi fortissimi. In pieno viso. Ero pronto a reagire quando tira fuori il tesserino e mi dice di esser un poliziotto. E urla ancora “e mo che fai?”. A quel punto mi blocco. Non credevo ai miei occhi. Mi urlava “ti arresto”, “ti faccio sparare” e altre frasi rabbiose. Inizio a parlare chiedendo loro perché si stavano comportando così e per tutta risposta mi sferra un pugno in pieno volto». Il ragazzo è una maschera di sangue. Non si regge in piedi ma decide di chiamare il 112 per denunciare il fatto. «Mettiamo il motorino davanti alla loro auto per non farli scappare - continua il ragazzo - e quell’energumeno ha tentato di togliermi il telefonino. Mi spintonava. In pochi minuti è arrivata un’ambulanza e sei o sette volanti a sirene spiegate che hanno raccolto le nostre versioni». Marco a quel punto viene trasportato in ospedale, al Cto della Garbatella: per lui cinque punti sul labbro. La mattina seguente il fatto è stato denunciato ai carabinieri della stazione di Porta Portese. Le accuse se confermate sono pesantissime: lesioni aggravate e tentata rapina.

Pestaggio del 23 enne romano, identificati i due poliziotti coinvolti: sono due agenti del reparto volanti. Da leggo.it il 30 luglio 2020. Sono stati identificati i due poliziotti che nella notte tra sabato e domenica sono stati protagonisti del pestaggio del ragazzo di Roma. Almeno stando alla denuncia che Marco, 23 anni, ha presentato alla stazione dei carabinieri di Porta Portese. L'aggressione violenta è avvenuta poco dopo le 3 di notte. La vittima, insieme ad un amico, è riuscita a chiamare il 112. Sul posto, per competenza territoriale, sono giunte due gazzelle dei carabinieri e, per ragioni inspiegabili e da capire chi le abbia chiamate, anche quattro volanti della polizia. I due poliziotti in borghese, a bordo di una Fiat 500 XL di colore grigio, secondo il racconto della vittima  tra schiaffi e pugni hanno sbandierato il distintivo della polizia. E, infatti, da quanto si è appreso i due sono stati identificati. Si tratta di due agenti del Reparto Volanti della Questura di Roma. Entrambi dell'accaduto erano fuori servizio. Al momento in Questura tutto tace, da Via San Vitale non è arrivata nessuna nota in  merito. Ecco tutta la ricostruzione della storia pubblicata da Leggo questa mattina. «Sono stato picchiato senza motivo da un poliziotto in borghese. In una delle strade più frequentate di Roma. Guardate come mi ha ridotto». Ha la voce che trema ancora dallo choc e il volto tumefatto Marco. Un ragazzo romano di 23 anni che sabato scorso ha vissuto improvvisamente un incubo. «Erano passate le 3 di notte. Stavo tornando a casa con un mio amico dopo aver passato la serata a Trastevere - racconta - arrivati a viale Marconi si affianca allo scooter su cui viaggiavamo un’auto grigia. Era una 500 XL con a bordo due uomini. Mi fissano e mi urlano “ma che cazzo ti guardi?”. Io rispondo per le rime e continuiamo a battibeccare per qualche secondo. Quando pensavo fosse tutto finito si scatena l’inferno». La voce trema sempre più e il dolore delle ferite diventa più forte: «Ci tagliano la strada, bloccando lo scooter e quello alla guida si avvicina a me. Mi urla in faccia parolacce e minacce di ogni tipo. Poi mi colpisce con due schiaffi fortissimi. In pieno viso. Ero pronto a reagire quando tira fuori il tesserino e mi dice di esser un poliziotto. E urla ancora “e mo che fai?”. A quel punto mi blocco. Non credevo ai miei occhi. Mi urlava “ti arresto”, “ti faccio sparare” e altre frasi rabbiose. Inizio a parlare chiedendo loro perché si stavano comportando così e per tutta risposta mi sferra un pugno in pieno volto». Il ragazzo è una maschera di sangue. Non si regge in piedi ma decide di chiamare il 112 per denunciare il fatto. «Mettiamo il motorino davanti alla loro auto per non farli scappare - continua il ragazzo - e quell’energumeno ha tentato di togliermi il telefonino. Mi spintonava. In pochi minuti è arrivata un’ambulanza e sei o sette volanti a sirene spiegate che hanno raccolto le nostre versioni». Marco a quel punto viene trasportato in ospedale, al Cto della Garbatella: per lui cinque punti sul labbro. La mattina seguente il fatto è stato denunciato ai carabinieri della stazione di Porta Portese. Le accuse se confermate sono pesantissime: lesioni aggravate e tentata rapina.

Pestaggio del 23enne, la Questura di Roma apre un'inchiesta interna dopo la denuncia di Leggo. Da leggo.it il 30 luglio 2020. In data odierna, dalla lettura di articoli pubblicati su “Leggo” si è appreso di ulteriori e non conosciuti aspetti relativi a interventi espletati da personale dipendente della Questura di Roma avvenuti in data 25 luglio. Marco, il 23enne romano accusa di essere stato picchiato a sangue da un poliziotto in borghese a Roma. Per gli episodi rappresentati, sono state subito promosse attività ispettive interne volte a ricostruire l'esatta dinamica ed accertare le eventuali responsabilità connesse. Lo precisa l'ufficio stampa della Questura di Roma. Si rappresenta, inoltre, che sono state tempestivamente inoltrate per il necessario prosieguo di legge, le comunicazioni all'autorità giudiziaria con le informative di reato. Nell'ambito della consueta collaborazione con l'autorità giudiziaria sono stati inviati gli articoli di stampa, uno dei quali corredato dal video che riproduce le immagini della perquisizione, attesa che è condivisa la volontà di fare piena luce sulla dinamica di entrambi i fatti.

"Che ci guardi?", poi la rissa Pestaggio inguaia due agenti. La notte brava di due poliziotti finisce in rissa, indagano Procura e carabinieri. Spunta una strana perquisizione. Stefano Vladovich, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. «Che ci hai da guardà?». Sembra un diverbio come tanti, una lite per la viabilità. Ma ad alzare i toni, e soprattutto le mani, sono due agenti di polizia in servizio nel reparto Volanti della capitale. A finire in ospedale Marco, un ragazzo di 23 anni alla guida di uno scooter la notte di sabato 25 luglio su viale Marconi. Ferite lacero contuse al volto ed escoriazioni varie il risultato della «notte brava» dei poliziotti fuori servizio, di ritorno da una serata trascorsa in un locale di Ostia. Secondo il racconto del giovane, riportato dal quotidiano Leggo e messo agli atti, dopo esser stato a Trastevere era sul viale che dal quartiere Ostiense porta all’Eur. Marco è con un amico. Si affianca una Fiat 500 XL grigia. Il passeggero inveisce contro lo scooterista, questo non se lo fa ripetere e inizia a discutere. Si fermano tutti. Uno dei due poliziotti prende a schiaffi il 23enne che prova a reagire. L’agente gli sbatte in faccia il tesserino della Questura. «E mo’ che fai?». Un secondo dopo parte un pugno che colpisce Marco in pieno volto. I due ragazzi cercano aiuto, i poliziotti provano a togliere loro il telefono cellulare. Fatto per il quale gli agenti sono accusati anche di tentata rapina. La chiamata al 112, però, è partita e in pochi minuti arrivano 4 radiomobili dei carabinieri e due volanti di polizia, i colleghi degli agenti coinvolti. I militari riportano la calma e chiedono l’intervento di un’ambulanza per il ragazzo ferito. Marco viene portato al Cto della Garbatella. I poliziotti, dopo esser stati identificati, vanno via. La mattina dopo il 23enne denuncia l’accaduto alla stazione dei carabinieri di Porta Portese. Un episodio grave sul quale la Procura sta cercando di fare chiarezza. Sotto accusa il comportamento degli agenti secondo quanto denunciato dai ragazzi e refertato dai medici. E alla notizia del pestaggio spunta anche il video di una perquisizione «fuori dalle righe» avvenuta durante il lockdown nell’appartamento di un 39enne romano accusato di detenzione di sostanze stupefacenti. Emanuele viene fermato in strada, zona Portuense, mentre va a ritirare un oggetto acquistato in rete. Alla vista della volante l’uomo prova a evitare il controllo. Gli agenti chiedono ausilio a una seconda volante. L’uomo consegna spontaneamente due bustine di droga, metamfetamina. In tasca altre tre bustine. Si decide la perquisizione. In casa, secondo quanto ripreso dalle telecamere installate dal proprietario, succede di tutto. Minacce di morte, insulti, botte: sembra un’azione della Dina, la gendarmeria segreta di Pinochet, piuttosto che un’indagine della polizia italiana. Sul video un agente (non si vede in volto) schiaffeggia l’arrestato che crolla a terra. Arresto avvenuto il 13 aprile scorso e che, inspiegabilmente, non è stato reso noto dalla Questura di Roma. Sui due episodi la polizia di «San Vitale» ha aperto un’indagine interna.

Pestaggio del 23enne romano, la politica chiede chiarimenti: Giachetti, Nobili, Migliore e Smeriglio presentano un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno. Da leggo.it il 30 luglio 2020. Sono molte le reazioni politiche e non, dopo l'articolo di Leggo che ha riportato la denuncia di Marco, 23enne romano che ha denunciato di essere stato picchiato, senza motivo, da due agenti della polizia nella notte tra sabato e domenica a Roma.  Dopo poche ore dalla pubblicazione dell'articolo sono già tre le interrogazioni presentate o in via di presentazione. Massimiliano Smeriglio, deputato Europeo, ha scritto sul suo profilo facebook di aver chiesto alla deputata Monica Cirininà di presentare una interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese per chiedere chiarimenti rispetto alla denuncia del giovane romano. Cosa che è stata puntualmente fatta dall'onorevole Cirinnà. Nel testo si legge che “in data 30 luglio, il quotidiano Leggo riporta la testimonianza di un giovane, che riferisce di essere stato aggredito e malmenato – nella serata del 25 luglio 2020, a Roma nei pressi del quartiere Trastevere – da un soggetto qualificatosi come agente delle forze dell’ordine, esibendone il tesserino; a seguito dell’aggressione, il ragazzo veniva condotto in ambulanza (chiamata tramite il 112) al Cto Garbatella, ove venivano refertate lesioni e tumefazioni diffuse, anche al volto; nella mattina di domenica 26 luglio, veniva sporta denuncia presso la stazione dei Carabinieri di Porta Portese;”. I fatti "per come riportati" vengono definiti di  “inaudita gravità, destano preoccupazione e denotano un comportamento assolutamente non conforme alla dignità delle forze dell’ordine;”. Con queste premesse l'interrogazione chiede di sapere “se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza dei fatti riportati in narrativa e, in caso affermativo, se abbia preso provvedimenti per assicurare che – nelle more del procedimento penale – l’autore delle condotte denunciate venga sanzionato, messo in condizione di non ledere ulteriormente e soprattutto al fine di tutelare l’onore e la rispettabilità – anche di fronte a un’opinione pubblica sempre più scossa da accadimenti di questo genere – dei moltissimi agenti di pubblica sicurezza che quotidianamente svolgono il proprio lavoro con rigore e dignità;”- se “il Ministro in indirizzo abbia avviato o intenda avviare, di concerto con la Polizia di Stato, una riflessione in materia di formazione degli agenti, per favorire lo svolgimento di iniziative formative specificamente dedicate al consolidamento di una diffusa cultura democratica.” Molto sensibile sull'argomento, Italia Viva, con tre parlamentari che hanno presentato altrettante interrogazioni. Il primo è stato Luciano Nobili che ha chiesto nella sua interrogazione al ministro dell'Interno di far luce sui fatti denunciati dal giovane Romano. 

“In data 25 luglio a Roma  - si legge nel documento - nei pressi di Viale Marconi in tarda notte, da quanto si apprende a mezzo stampa, una Fiat 500 XL con a bordo due poliziotti in borghese ha affiancato e tagliato la strada a due giovani ragazzi di ventitre anni che stavano tornando a casa in scooter;

Come ricostruito dalla testimonianza esclusiva per il quotidiano Leggo.it di Marco, uno dei due ragazzi, dai poliziotti sono partite alcune provocazioni e offese che sono degenerate in pochi minuti, secondo la narrazione di Marco, in un'aggressione per mano di uno dei due poliziotti che solo dopo aver colpito sul volto Marco ha mostrato il tesserino del corpo di Polizia;

Considerato che: Dopo i ripetuti colpi subiti e le gravi minacce ricevute, Marco ha raccontato di aver chiamato con il volto pieno di sangue il numero di emergenza dei Carabinieri per denunciare l'accaduto e che in quel momento il poliziotto che lo aveva aggredito ha provato a sottrargli il telefono; Nel giro di pochi minuti è arrivata un'ambulanza e diverse volanti a sirene spiegate hanno raccolto le diverse versioni dei fatti; La sera stessa Marco è stato portato all'Ospedale Cto della Garbatella dove gli sono stati applicati 5 punti sul labbro;

Invero: In data 26 luglio il giovane ha denunciato formalmente l'accaduto ai Carabinieri della stazione di Porta Portese con accuse di lesioni aggravate e tentata rapina; Ai sensi degli art. 581, 582 del codice penale, se quanto ricostruito dal ragazzo fosse confermato dall'indagine, la condotta dell'agente in borghese sarebbe un fatto molto grave e minerebbe la fiducia nelle istituzioni dei cittadini che dovrebbero essere protetti dalle forze dell'ordine e non vessati.

Per tali ragioni: si chiede al ministro interrogato se sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa, e quali iniziative di sua competenza intenda assumere per fare luce quantoprima sulla vicenda, al fine di assicurare alla giustizia gli eventuali rei di condotte illecite ed evitare che si ripetino nuovamente". 

Anche il deputato di Italia Viva, Gennaro Migliore, ha fatto sapere, tramite il suo accounto twitter, di essere pronto a fare altrettanto: “Presenterò un’interrogazione urgente alla ministra Lamorgese per investire il governo di questa vicenda. Dobbiamo essere inflessibili nella difesa dei diritti Roma, denuncia choc di Marco: «Fermato e picchiato a sangue da un poliziotto in borghese». Interrogazione parlamentare, sempre al ministro dell'Interno, già presentata da Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, di cui vi proponiamo il testo:

“Premesso che:

secondo quanto riportato dal quotidiano Leggo, nella notte tra sabato 25 e domenica 26 luglio, in una importante strada di Roma, un giovane di 23 anni, di cui è stato diffuso solo il nome proprio (Marco), è stato prima aggredito verbalmente e poi picchiato ripetutamente da due persone, una delle quali poi qualificatasi come agente della Polizia di Stato;

a quanto racconta il ragazzo, intorno alle 3 di notte, mentre rientrava a casa a bordo di uno scooter con un amico, nei pressi di viale Marconi, viene affiancato da un’auto con a bordo due uomini, i quali, dopo lo scambio reciproco di alcuni insulti, tagliano la strada al motoveicolo, costringendolo a fermarsi; uno dei due uomini, dopo essere sceso dall’auto, prima proferisce all’indirizzo del giovane parolacce e minacce di ogni genere, poi lo colpisce con due schiaffi fortissimi in pieno viso. Al tentativo di reazione del ragazzo, l’uomo esibisce un tesserino di agente di polizia e, dopo altre minacce, gli sferra un ulteriore pugno sul volto e prova a sottrargli il telefono cellulare per impedirgli di chiedere aiuto;

sempre secondo quanto riportato nell’articolo del quotidiano, dopo l’aggressione sarebbero intervenute sul posto un’ambulanza e alcune pattuglie delle forze dell’ordine, che hanno raccolto la testimonianza dei giovani; Marco a quel punto viene trasportato presso il CTO della Garbatella dove gli viene suturato il labbro con cinque punti;

nella mattinata successiva, il fatto è stato denunciato ai carabinieri della stazione di Porta Portese con l’ipotesi di reato di lesioni aggravate e tentata rapina;

qualora i fatti fossero accertati, si tratterebbe di un episodio gravissimo di violenza e di abuso di potere da parte di funzionari delle Stato;

se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti espressi in premessa;

se non ritenga necessario, a fronte della denuncia presentata, aprire un'indagine interna che porti all'accertamento di eventuali responsabilità in particolare da parte dell’agente coinvolto;”

Nel primo pomeriggio è intervenuta anche la deputata romana del PD Patrizia Prestipino “Chiedo alla Questura di Roma e al ministero degli Interni di fornire immediate delucidazioni su quanto avvenuto nella notte in una delle strade più frequentate della Capitale. Perché se risulteranno confermati i fatti denunciati dal giovane ai carabinieri della stazione di Porta Portese, e cioè di essere stato pestato a sangue in maniera immotivata da un poliziotto in borghese, ci troveremmo di fronte a un nuovo episodio inquietante che vede coinvolte le forze dell’ordine. E questo quando ancora non ci siamo ripresi dalle sconcertanti notizie che stanno emergendo dall’inchiesta che vede coinvolti alcuni carabinieri di Piacenza. La mia è una richiesta di chiarimenti e non certo un atto di accusa. Da deputata della Repubblica, per lunghi anni al servizio delle Istituzioni come amministratrice, ho sempre portato rispetto per le donne e gli uomini in divisa. Ma proprio per questo chiediamo che sia fatta al più presto chiarezza”. Anche il Coordinatore di Italia Viva a Roma, Marco Cappa, ha chiesto chiarimenti tramite il suo account twitter: la notizia denunciata da Marco e riportat oggi da Leggo richiede la necessità di fare immediatamente luce.

 (ANSA il 24 luglio 2020) - Il maresciallo Cosimo Maldarizzi, 56 anni, comandante della stazione dei Carabinieri di Cassano delle Murge (Bari), è stato arrestato per peculato, omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e depistaggio. L'ordinanza di arresti domiciliari, eseguita dai colleghi del Comando provinciale di Bari su disposizione della magistratura, riguarda fatti degli anni 2018-2019.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 10 dicembre 2020. Rubava in commissariato, avventandosi, a più riprese lontana dallo sguardo dei colleghi, sui soldi e sui gioielli sottoposti a sequestro giudiziario. Non si è rivelata di certo adatta al compito che le era stato assegnato una agente di polizia in servizio per anni al Commissariato Lido, a Ostia. In poco più di trentasei mesi si è accaparrata di beni per oltre 90mila euro. Da responsabile degli Uffici reperti, invece di vigilare su quanto sequestrato, rubava a più non posso. Senza freni, secondo la ricostruzione del pm Claudia Terracina, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per peculato. Un caso è emblematico. L' agente Daniela R. una cinquantenne, poi sospesa dalla Polizia di Stato - ha rubato per un anno la pensione a una deceduta. Dopo aver sottratto in ufficio il bancomat e i documenti di un' anziana straniera morta all' improvviso, infatti, ha riscosso al suo posto la pensione, mese per mese, finché è stata scoperta. Una travata analoga l' aveva adottata nel caso di un uomo morto all' improvviso in spiaggia, i cui beni sono stati affidati dall' autorità giudiziaria alla polizia in attesa della restituzione ai parenti: con la carta di credito e il pin trovato nel portafoglio ha prelevato allo sportello di una banca 250 euro. Diverse decine le vittime. Tra loro anche un componente della famiglia Spada, a cui durante un controllo antidroga, il 7 dicembre del 2017, erano stati sequestrati 240 euro. La busta con il denaro era stata riposta da altri agenti nell' ufficio reperti ed è stata trovata vuota, come altre, a dozzine. Sono state le ripetute sparizioni ad allertare i colleghi, in particolare gli investigatori della squadra giudiziaria del Commissariato Lido. Più volte era capitato che quando i proprietari dei beni sequestrati si erano presentati per ritirarli erano rimasti a mani vuote. Con grande imbarazzo qualcuno si trovava a riferire che in quel momento non erano stati rinvenuti gli oggetti e che, comunque, sarebbero stati informati al più presto sugli sviluppi. In molte circostanze era stata la stessa agente a rassicurare le vittime: «Le faremo sapere quanto prima. Richiameremo». L' ex agente, ora, spera in uno sconto di pena. Nell' udienza in cui il giudice per l' udienza preliminare avrebbe dovuto decidere il rinvio a giudizio, l' imputata ha infatti presentato la richiesta di abbreviato, il rito che in caso di condanna prevede la riduzione della pena di un terzo. Ma soprattutto l' ex agente si è offerta di risarcire le vittime che si sono costituite parte civile. L' elenco dei beni sottratti è variegato: orecchini, spille, pendenti, gemelli, collier, anelli, orecchini, diamanti, orologi, tra cui un Rolex. Merce che veniva rivenduta direttamente a un compro oro o data in pegno. L' ex poliziotta avrebbe sottratto in contati 31mila euro, accumulati in un' infinità di piccoli sequestri dai 15 euro ai 1.500 effettuati dai colleghi del tutto ignari. L' ultimo, contestato nel marzo 2018, era di 740 euro. In qualità di responsabile dell' Ufficio armi, precedente all' ultimo incarico, avrebbe anche sottratto libretti in bianco per licenze di porto di fucile.

Arrestato carabiniere, nascondeva refurtiva sequestrata e depistava le indagini: nuovo scandalo nell’Arma. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2020. A due giorni dallo scandalo che ha travolto la caserma Levante di Piacenza, con sei carabinieri arrestati con accuse gravissime come spaccio di droga e pestaggi, un nuovo scandalo travolge l’Arma. Il comandate della stazione dei carabinieri di Cassano delle Murge è stato arrestato dai suoi stessi colleghi del Comando Provinciale di Bari nell’ambito di un’indagine del pm Chiara Giordano. Il maresciallo Cosimo Maldarizzi, 56 anni, è accusato di peculato, omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e depistaggio. Il carabiniere si sarebbe appropriato di una cisterna, trovata tra altri mezzi rubati nelle province di Bari e Taranto e poi avrebbe cercato di sviare le indagini. La misura cautelare è stata firmata dal gip di Bari Paola Angela De Santis. In particolare Maldarizzi nel giugno 2018, nel corso di una operazione in cui vennero ritrovati otto mezzi rubati nelle province di Bari e Taranto, si sarebbe impossessato di una cisterna facente parte della refurtiva, poi consegnata a un suo conoscente, gestore di un agriturismo della zona. Scoperto nel dicembre 2019 delle indagini avviate sulla vicenda, Maldarizzi ha spostato la cisterna in un deposito per farla ritrovare, provando così a far passare la mancata riconsegna al legittimo proprietario come una svista.

Firenze, arrestati due carabinieri del Nas: "Hanno chiesto una mazzetta da 15mila euro". Luca Serranò su La Repubblica il 30 aprile 2020. Una mazzetta da 15.000 euro chiesta al titolare di uno studio odontoiatrico, come compenso per evitare una multa o una segnalazione. Con questa accusa sono finiti in manette due carabinieri del Nas -un maresciallo e un appuntato- in servizio a Firenze, oltre a una terza persona che secondo le prime informazioni avrebbe fatto da intermediario. I fatti sono accaduti a Lastra a Signa (Firenze). Sono stati gli stessi uomini dell’Arma, una volta raccolta la denuncia, a seguire le indagini. Concussione il reato ipotizzato. Secondo le poche informazioni che trapelano sul caso, sarebbe stato proprio il titolare dello studio odontoiatrico ad avvisare i carabinieri della compagnia di Signa delle richieste illecite. I militari, coordinati dal pm Fedele Laterza, non hanno perso tempo e hanno verificato la segnalazione, facendo scattare l’arresto in flagranza. I due si trovano ora nel carcere di Sollicciano in attesa della convalida.

Poliziotto ucciso a Napoli per sventare un furto in banca. Redazione de Il Riformista il 27 Aprile 2020. Un agente di polizia di 37 anni, in servizio a Napoli al commissariato di Secondigliano, è morto questa notte nel tentativo di sventare una rapina in banca. Il poliziotto, Pasquale Apicella, agente scelto, era intervenuto poco dopo le 4 insieme ai colleghi dopo la segnalazione di un furto in un istituto di credito in via Abate Minichini, nella zona di piazza Carlo III. L’auto dei ladri  si era già allontanata dalla banca e aveva imboccato contromano via Calata Capodichino per dileguarsi quando ha impattato frontalmente contro la volante della polizia, uno scontro fatale per l’agente Apicella, morto durante il trasporto in ospedale. Un impatto così violento da sbalzare l’agente fuori dall’abitacolo, mentre un secondo poliziotto, Salvatore Colucci, è rimasto ferito, fortunatamente in modo lieve. Due dei ladri, di nazionalità rumena, sono stati fermati, mentre un terzo complice è ancora in fuga. Dolore è stato espresso dal questore di Napoli, Alessandro Giuliano: “Siamo vicini alla famiglia”. Un messaggio di cordoglio è arrivato anche dal capo della Polizia, il Prefetto Franco Gabrielli, che in in una nota ha espresso “sentimenti di commossa vicinanza” ai familiari dell’Agente Scelto della Polizia Pasquale Apicella.  “In giornate che vedono impegnate le Forze dell’ordine nei controlli per il contenimento del coronavirus la Polizia di Stato continua l’attività di controllo a presidio di legalità contro la criminalità, pagando un prezzo altissimo con la perdita di un suo uomo”, si legge  nel messaggio di Gabrielli. Il Capo della Polizia ha augurato quindi una pronta guarigione all’altro componente della volante, l’Assistente Capo della Polizia di Stato Salvatore Colucci, rimasto ferito.

Poliziotto ucciso, gli ultimi istanti di vita di Lino: “Perché soccorrono prima lui”. Redazione de Il Riformista il 28 Aprile 2020. E’ morto seduto al volante dell’auto di servizio, travolto dall’Audi A4 sulla quale viaggiavano quattro uomini di etnia rom, residenti nel campo nomadi di Giugliano, che poco prima avevano tentato il furto del bancomat di una filiale del Credit Agricole in via Abate Minichini, non molto distante da piazza Carlo III. L’impatto è avvenuto in via Calata Capodichino dove la vettura dei malviventi (risultata poi rubata) procedeva contromano dopo aver speronato una prima volante della polizia intervenuto dopo l’allarme lanciato dalla Sala Operativa della Questura. L’agente scelto Pasquale Apicella, 37 anni, aveva perso conoscenza quando è stato soccorso dall’ambulanza del 118 chiamata dai colleghi intervenuti pochi secondi dopo sul posto. A riprendere gli ultimi istanti di vita del poliziotto in servizio presso il Commissariato di Secondigliano è un video girato da una donna che, affacciata al proprio balcone, commenta insieme a un uomo la scena. Sono circa le 4 di notte e i due parlano di uno dei malviventi presenti in auto, che è riuscito momentaneamente a scappare (salvo essere arrestato in giornata), poi arriva l’ambulanza e la donna ha qualcosa da ridire: “Bastardi, li fanno andare prima dal loro collega”. Pasquale Apicella, Lino per gli amici, morirà di lì a poco nonostante i tentativi dei sanitari del 118. Il collega che viaggiava con lui, l’assistente capo coordinatore Salvatore Colucci, viene trasportato al pronto soccorso del Cardarelli con le sue condizioni che, per fortuna, non si rivelano critiche. I due uomini rimasti bloccati nell’auto che ha provocato la tragedia vengono trasferiti in due ospedali diversi e piantonati dalle forze dell’ordine. Pasquale aveva da poche settimane compiuto 37 anni. Era sposato e aveva due figli piccoli, l’ultima di appena sei mesi. Nel giro di poche ore i suoi colleghi hanno identificato e fermato i quattro uomini che viaggiavano a bordo dell’auto rubata. Con l’accusa di omicidio volontario, tentata rapina aggravata, tentato furto aggravato e ricettazione, sono stati arrestati Fabricio Hadzovic, 39enne nato in Bosnia Erzegovina, e Admir Hadzovic 27enne nato a Mugnano di Napoli. I due sono piantonati in ospedale in attesa che le loro condizioni di salute migliorino dopo l’incidente. Gli agenti della Squadra Mobile, in considerazione dei gravi indizi di colpevolezza raccolti, hanno poi eseguito due fermi indiziati di delitto, emessi dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, nei confronti di  Igor Adzovic, 38enne nato a Caserta, e Renato Adzovic, 22enne nato a Mugnano di Napoli.

Chi è Pasquale Apicella, il poliziotto ucciso che solo 3 mesi fa ha avuto il secondo figlio. Redazione de Il Riformista il 27 Aprile 2020. Era un poliziotto, un tutore della legge ma anche un’artista Pasquale Apicella, l’agente di 37 anni morto a Napoli la scorsa notte nel tentativo di bloccare la rapina gli autori di un tentato furto in banca. Agente scelto, in servizio a Napoli al commissariato di Secondigliano, Apicella era intervenuto poco dopo le 4 insieme ai colleghi dopo la segnalazione di un furto in un istituto di credito in via Abate Minichini, nella zona di piazza Carlo III. L’auto dei ladri si era già allontanata dalla banca e aveva imboccato contromano via Calata Capodichino per dileguarsi quando ha impattato frontalmente contro la volante della polizia, uno scontro fatale per l’agente Apicella, morto durante il trasporto in ospedale. Un impatto così violento da sbalzare l’agente fuori dall’abitacolo, mentre un secondo poliziotto, Salvatore Colucci, è rimasto ferito, fortunatamente in modo lieve. Due dei ladri, di nazionalità rumena, sono stati fermati, mentre un terzo complice è ancora in fuga. 

CHI ERA PASQUALE APICELLA – In polizia dal dicembre dal 2014, Pasquale Apicella aveva frequentato il 192esimo corso allievi agenti della Polizia di Stato alla scuola di Trieste. L’agente è stato prima all’ufficio del personale della Questura di Milano, in seguito dal giugno 2016 ha lavorato al commissariato Trastevere e dall’ottobre 2017 era a Napoli, prima al commissariato Scampia e successivamente, dal dicembre 2019, al commissariato di Secondigliano. Aveva fortemente desiderato di entrare nella Squadra mobile ed era un agente scelto di esperienza, sempre in prima linea. Pasquale, che aveva compiuto 37 anni soltanto lo scorso 13 aprile, era sposato con Giuliana, casalinga di 32 anni dalla quale ha avuto un bambino di 6 anni e una bimba di 3 mesi, il più grande da tempo in cura all’ospedale Bambino Gesù. Viveva a Marano in provincia di Napoli con i suoceri. Apicella, oltre ad essere un poliziotto aveva anche la passione per i tatuaggi. Infatti era un tatuatore e da molti considerato un bravo artista.

IL CORDOGLIO – Dolore è stato espresso dal questore di Napoli, Alessandro Giuliano: “Siamo vicini alla famiglia”. Un messaggio di cordoglio è arrivato anche dal capo della Polizia, il Prefetto Franco Gabrielli, che in in una nota ha espresso “sentimenti di commossa vicinanza” ai familiari dell’Agente Scelto della Polizia Pasquale Apicella.  “In giornate che vedono impegnate le Forze dell’ordine nei controlli per il contenimento del coronavirus la Polizia di Stato continua l’attività di controllo a presidio di legalità contro la criminalità, pagando un prezzo altissimo con la perdita di un suo uomo”, si legge  nel messaggio di Gabrielli. Il Capo della Polizia ha augurato quindi una pronta guarigione all’altro componente della volante, l’Assistente Capo della Polizia di Stato Salvatore Colucci, rimasto ferito. Anche il sindaco di Napoli Luigi de Magistris si è unito nell’esprimere il più profondo cordoglio per la tragica morte dell’agente: “Esprimo il più profondo cordoglio, a nome della Città, alla famiglia dell’agente scelto ucciso ed a tutti gli uomini e le donne della Polizia di Stato che ogni giorno sono impegnati con professionalità e sacrificio nella prevenzione e repressione del crimine. Al poliziotto ferito vanno gli auguri di una pronta guarigione”, dice il primo cittadino. A lui si è unito il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, che attraverso la pagina Facebook del suo account ha voluto esprimere il suo dolore e la sua vicinanza alla famiglia dell’agente di polizia e del suo collega rimasto ferito. “Ci addolora profondamente la morte dell’agente scelto di Polizia, il trentasettenne Pasquale Apicella, deceduto questa a notte a Napoli, mentre cercava di sventare una rapina. Siamo vicini al corpo della Polizia e a tutte le forze dell’ordine che lavorano per la nostra sicurezza e, in queste settimane, contribuiscono in maniera determinante a garantire l’applicazione delle misure a tutela della salute pubblica. Il nostro cordoglio alla famiglia, alla moglie e ai due figli di Apicella, un servitore dello Stato. L’augurio di una pronta guarigione per l’altro agente rimasto ferito”, scrive il governatore.

"Quasi lo odio per il lavoro che fa". Poliziotto ucciso, la figlia del collega: “Lo abbraccio prima del turno, tremo quando squilla il telefono”. Redazione de Il Riformista il 28 Aprile 2020. “Io tremo, come ogni volta che squilla il telefono di casa quando papà è a lavoro”. “Non lo sapete cosa significhi aspettare due minuti al telefono perché dall’altra parte nessuno risponde”. E ancora: “Ma i figli delle forze dell’ordine non pensano mai a queste cose. Io sono cresciuta così”. E’ un estratto della lettera da una ragazzina di 16 anni, figlia di un collega di Pasquale Apicella, il poliziotto di 37 anni morto a Napoli dopo essere stato travolto dall’auto sulla quale viaggiavano quattro persone che poco prima avevano tentato il furto di un bancomat. Pasquale, detto Lino, era spostato e aveva due figli piccoli, uno di pochi mesi. “Scusami. Scusatemi tutti, resterei in silenzio se solo l’ansia non mi divorasse e le mani non mi tremassero” inizia così la lettera pubblica dall’AdnKronos. “E’ così da 16 anni ormai, ma oggi tutti i brutti pensieri che mi tormentavano quando ero piccola, sono diventati realtà. Poche persone in questo momento si sentono come mi sento io, c’è chi è mortificato, chi non fa altro che piangere, c’è chi ha già dimenticato tutto e chi non li dimenticherà mai. Io tremo, come ogni volta che squilla il telefono di casa quando papà è a lavoro, tremo quando non torna in orario, quando parte in anticipo. Tremo per notti intere quando ha il turno serale, e per lunghe mattinate date dalle notti insonni. Voi non lo sapete cosa significhi aspettare due minuti al telefono perché dall’altra parte nessuno risponde, magari era in bagno o a prendere un caffè, ma i figli delle forze dell’ordine non pensano mai a queste cose. Io sono cresciuta così”. “Mio padre era presente a tutti i compleanni, è sempre riuscito a dividere lavoro e famiglia, ma io avrei voluto che a lavoro non ci tornasse mai – continua – I miei amici lo guardavano sempre pietrificati quando veniva a prendermi a scuola in divisa, era l’eroe delle fiabe che tutti ammiravano, per me invece era un po’ come la nonna di Cappuccetto Rosso, per quanto cercasse di salvare la nipotina, il lupo ebbe la meglio su di lei. È sempre toccato a me difendere il suo mestiere davanti a quei quattro cretini che mi urlavano: ‘Stai zitta tuo padre fa lo sbirro’, Se quella notte avevano dormito tranquilli nel loro letto, era grazie agli sbirri. Se i loro genitori avevano ritrovato il portafoglio rubato, era grazie agli sbirri. Se non erano morti per droga o alcol, o se la zia spaventata era tornata a casa sana e salva, era solo grazie agli sbirri”. “Scusatemi se ancora parlo ma se smettessi probabilmente non ricorderei nemmeno il mio nome. Stanotte è morto un poliziotto, è morto un uomo che lavorava insieme a mio padre. Io non lo conoscevo, non avevo mai sentito parlare di lui. So che aveva 37 anni, che aveva deciso di tornare a Napoli per la sua famiglia, che fino a poco tempo fa lavorava al centralino. So che sua madre non era molto felice quando ha saputo che voleva fare il poliziotto, e che la moglie stanotte non riusciva a dormire. So che il bambino di tre mesi non ricorderà nulla del padre, e quello di sei anni non riuscirà mai a dimenticare i suoi abbracci”. “So che si chiamava Pasquale, e che ha dato la sua vita al lavoro per un misero stipendio a fine mese. Non voglio parlare di soldi, per noi i soldi sono solo una presa in giro. Nessuno vuole diventare poliziotto, carabiniere, finanziere o vigile del fuoco per denaro o fama, ma tutti da giovani desideravano cambiare il mondo, senza rendersi conto che sarebbe stato il mondo a cambiare loro. Scusami se ancora parlo, ma stanotte Pasquale è morto. I suoi colleghi non trovano le parole adatte e tu nemmeno ti ricordi come si fa a parlare, forse in questa storia sono l’unica che abbia veramente il diritto di dire qualcosa”. “In quella macchina – conclude – poteva esserci mio padre, sarebbe sceso ieri sera alle 20,30 e non sarebbe più tornato, io avrei sentito giornalisti, medici, testimoni parlare di lui, ma nessuno sapeva cosa stessi passando io, non so cosa tu stia passando, ma per tutte le volte che ho immaginato succedesse a me, quasi riesco a sentire il tuo dolore. Non è giusto, perché io ho 16 anni e ho ancora la speranza di credere al lieto fine, perché ho 16 anni ed ho ancora l’ingenuità di credere in questo paese. Sono arrabbiata, ma non so con chi esserlo, quasi odio mio padre. Voglio urlare, ma nessuno capirebbe le mie grida. Non so se riuscirò mai a stare tranquilla quando papà non è a casa, Secondigliano mi mette più paura della Siria, forse perché questa sarà per sempre la mia guerra, stanotte Pasquale l’ha persa. Mi ha ricordato di quanto sia importante abbracciare mio padre prima di scendere, guardarlo per avere sempre i suoi occhi dentro i miei. Sono mortificata, non smetto di piangere, l’ho già dimenticato o non lo dimenticherò mai? Scusami, scusatemi tutti”.

L'omaggio al poliziotto morto nella rapina rom. Il figlio: "Dov'è babbo?". "Dove sta babbo?", chiede il figlioletto dell'agente, mentre i lampeggianti blu delle pantere si avvicinano all'abitazione: le sirene risuonano nel quartiere, l'ultimo straziante omaggio per il collega deceduto. Federico Garau, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. Sono immagini strazianti quelle dell'omaggio reso a Napoli dai colleghi di Pasquale Apicella, l'agente di 37 anni deceduto durante un inseguimento in auto nella notte tra gli scorsi domenica 26 e lunedì 27 aprile. Sono le 4 del mattino quando il poliziotto, insieme al collega assistente capo coordinatore Salvatore Colucci, interviene al volante di una pantera per cercare di sventare un tentativo di furto da parte di 4 rom nell'agenzia della Credit Agricole di via Abate Minichini. I malviventi, a bordo di un'Audi A4, sfondano la vetrina per prendere di mira direttamente il bancomat. È a quel punto che scatta l'allarme e che dalla centrale parte la prima volante. Braccati, i rapinatori cercano di evitare la cattura ed imboccano ad altissima velocità e nel senso opposto di marcia via Calata Capodichino, scontrandosi frontalmente con l'auto della polizia. Un impatto tremendo, in seguito al quale Pasquale Apicella perde la vita mentre il collega, trasportato al Cardarelli, viene assistito e medicato dal personale sanitario. Anche due dei malviventi restano feriti, e finiscono in ospedale. Immediate le investigazioni, partite con l'acquisizione delle immagini delle videocamere di sorveglianza, che hanno documentato la responsabilità dei rom, due dei quali risultano ora indagati per tentata rapina, resistenza a pubblico ufficiale ed omicidio volontario. Tuttora al vaglio la posizione degli altri due, provenienti, così come i primi incriminati, dal campo rom di Giugliano, che risulta sgomberato dallo scorso anno. Pasquale Apicella lascia una moglie di 32 anni e due figli piccoli, un bimbo di 6 anni e la sorellina di pochi mesi. Dal balcone di casa, la famiglia assiste in lacrime alla parata delle auto della polizia di Stato, che giungono in colonna e con i lampeggianti attivati, in un momento toccante e di grande emozione. "Senti, arrivano, ti prende zia che mamma non ce la fa", dice la sorella dell'agente al bambino, mentre le pantere si avvicinano. "Dove sta babbo?", chiede il piccolo con la convinzione che anche il papà possa trovarsi a bordo di una delle auto. "Babbo non c'è, sono venuti a salutare a casa di papà, hai visto? Ora ti fanno il saluto militare", gli risponde uno dei parenti, mentre i poliziotti escono dalle pantere e si mettono sull'attenti. Strazianti le grida e le lacrime della moglie di Pasquale, distrutta dall'inconsolabile dolore dell'improvvisa perdita. Gli agenti azionano le sirene, che risuonano tra le vie del quartiere, e porgono il saluto militare, rivolti verso il balcone dove si trovano i parenti del collega deceduto.

Vedova poliziotto ucciso a Napoli: “Ti sceglievo vestiti, ora l’urna”. Antonino Paviglianiti il 7 maggio 2020 su Notizie.it. Poliziotto ucciso a Napoli, la toccante lettera della vedova Giuliana emoziona i social network. Non si dà pace la vedova di Lino Apicella, il poliziotto ucciso a Napoli nel corso di un inseguimento a dei ladri. Giuliana usa Facebook per dare libero sfogo ai suoi pensieri. Quelli di una moglie rimasta sola ad accudire una le creature frutto dell’amore con Lino. “Prima ti sceglievo i vestiti, ora ti ho scelto l’urna. Ne ho scelta una con sopra l’albero della vita, perché tu eri questo. Eri vita, la mia vita, ed ora è finito tutto”. Giuliana, vedova del 37enne, si sente mancare senza il suo Lino Apicella: “Mi piaceva la nostra quotidianità: cena alle 8 e poi mentre tu tenevi i bimbi io rassettavo, poi tutti sul letto a vedere un film. Eri intransigente, non volevi telefoni in mano la sera nel letto, perché era un momento nostro per stare insieme, quante volte abbiamo battibeccato perché ti dicevo che era l’unico momento di relax della giornata”. E ancora, Giuliana nel suo lungo sfogo su Facebook ricorda come si comportava con Lino Apicella, il poliziotto ucciso a Napoli: “Quando dovevamo andare da qualche parte mi chiedevi di sceglierti i vestiti, e io ti preparavo tutto sul letto. Calzini, mutande, maglia e pantalone, lo facevo con amore. Stasera con la morte nel cuore ho dovuto scegliere una cosa per te, che mai avrei pensato di dover fare e sicuramente non a 32 anni. Ho dovuto scegliere l’urna per le tue ceneri. Ne ho scelta una con sopra l’albero della vita, perché tu eri questo. Eri vita, la mia vita ed ora è tutto finito”. I funerali si terranno venerdì 8 maggio, alle ore 11, nella chiesa cristiana evangelica di Secondigliano, in via Privata Detta Scippa. La cerimonia verrà trasmessa via Facebook sulla pagina Ministero Cristiano Secondigliano e su quella della Polizia di Stato.

I colleghi di Lino hanno organizzato una raccolta fondi da destinare alla vedova. Anche la comunità dei pizzaioli di Napoli ha voluto dimostrare la propria vicinanza alla moglie di Lino Apicella.

Funerali Lino Apicella, il questore alla vedova del poliziotto: “Dì ai tuoi figli che il papà è un eroe”. Redazione su Il Riformista l'8 Maggio 2020. “Quando i tuoi figli saranno grandi racconta loro che Lino era un eroe”. E’ il messaggio del questore di Napoli Alessandro Giuliano pronunciato nel corso dei funerali dell’agente scelto Pasquale Apicella, il 37enne ucciso il 27 aprile scorso dopo essere stato travolto, mentre era al volante dell’auto di servizio, da un Audi A4 sulla quale viaggiavano tre uomini, residenti nel campo nomadi di Giugliano, che poco prima avevano tentato il furto del bancomat di una filiale del Credit Agricole in via Abate Minichini, non molto distante da piazza Carlo III. Nella chiesa evangelica di Secondigliano, la moglie di Lino, Giuliana Ghidotti, ha seguito i funerali abbracciata alla bara avvolta dal Tricolore. Oltre a un numero ristretto di familiari (in rispetto delle norme imposte dall’emergenza coronavirus), erano presenti la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, il capo della polizia Franco Gabrielli, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il prefetto di Napoli Marco Valentini, oltre al questore Giuliano. All’esterno presenti amici e conoscenti dell’agente scelto Apicella che hanno affisso uno striscione (“I ricordi felici che abbiamo trascorso insieme inondano il nostro cuore addolorato e si trasformano in lacrime. La nostra vita non sarà più la stessa. Ci manchi”). La celebrazione è stata seguita in streaming attraverso la pagina social della Polizia di Stato. Durante la cerimonia funebre, ci sono stati due momenti toccanti. Il primo è relativo al messaggio letto dall’agente Marco Carato, collega di Lino: “Alcuni di voi non mi conoscono ma il nostro caro Lino mi conosce molto bene. Sono stato con lui in molti posti e moltissimi momenti della sua vita. Eravamo e saremo sempre più di due fratelli, era una parte del mio cuore, un pezzo grande della mia vita che è stato portato via. Abbiamo condiviso gioie, dolori ma soprattutto una divisa. Facevamo tutto insieme. Lino aveva un cuore grandissimo, era gentile, simpatico, altruista. Amava due cose più della sua vita: la famiglia, soprattutto i due splendidi figli, ed il suo lavoro da poliziotto. Fino all’ultimo ha lavorato con onore e dedizione e da cittadino italiano gli dico grazie. Grazie di esserci sempre stato. Grazie di aver reso le nostre vite più felice, soprattutto con quel tuo sorriso contagioso. Continua a starci vicino pure da lassù, sarai il nostro angelo custode. La vita può allontanarci ma l’amore per te e per la divisa continuerà sempre. Ciao fratello mio”. Poco dopo a parlare è il capo dei poliziotti partenopei Alessandro Giuliano. Il questore si rivolge ai familiari: “Giuliana, Nunzia, Gennaro, Antonella e Luisa”, la polizia di stato si stringe intorno a voi. Nulla vi riconsegnerà quello che avete perso ma non sarete mai soli e speriamo ci considerati come una seconda famiglia. Giro spesso per gli uffici ma non ho avuto modo di conoscere Lino. Dai racconti delle persone che gli hanno voluto bene ho saputo quanto fosse disponibile verso tutti, del suo passato di atleta e di quanto tenesse a fare poliziotto”. Poi Giuliano ricorda una frase di Giovanni Falcone (“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola”) che Lino si era fatto tatuare “tanta era la sua passione per i nostri valori”. Rivolgendosi ai genitori: “Cari Nunzia e Gennaro seppellire un figlio è una cosa contro natura e non c’è alcuna buona ragione per morire a 37 anni. Ma se vostro figlio questa mattina è avvolto nel tricolore è perché voi due avete fatto un buon lavoro. Gennaro lei mi ha raccontato che quando cercava di convincerlo a non rischiare troppo lui le rispondeva tu pensa a fare le ceramiche, che a fare il guardio ci penso io” . Guardando la moglie di Lino abbracciata alla bara dall’inizio del rito funebre, Giuliano le dice: “Carissima Giuliana non esiste una parola che possa consolarti in questo momento. Purtroppo dovrai essere tu a spiegare ai vostri due figli perché hanno subito questa terribile ingiustizia. Ma quando saranno più grandi spiega che il loro papà era felice perché aveva una famiglia che amava, una divisa che adorava, una professione che desiderava. Dì loro che il papà sognava di contribuire a rendere il mondo un po’ migliore. Dì loro che sono figli di un eroe”. Poi la chiusura: “Caro Lino non non faremo questo errore, non ti dimenticheremo e non lasceremo sola la tua famiglia”.

Vedova del poliziotto Apicella: “Sogni spezzati da quei banditi in fuga”. Asia Angaroni il 20/05/2020 su Notizie.it. Si è sfogata la vedova de poliziotto Apicella, ucciso durante un inseguimento. "Non perdono gli assassini, restino in carcere", fa sapere la donna. Il destino è stato ingiusto con Giuliana Ghidotti, vedova del poliziotto Apicella, ucciso da due rapinatori durante un inseguimento in auto. La cattiveria e la vigliaccheria di due criminali hanno portato alla morte il compagno di una vita. Ora si sente sola, con due figli a carico e non avendo al suo fianco quell’affetto senza pari. Un volto trafitto dal dolore durante il funerale del poliziotto, un animo incupito dalla sofferenza arrecata. Nessuna pietà per gli assassini, che si augura “restino in carcere”. Da parte sua “nessun perdono”. In una recente intervista, Giuliana si è sfogata e ha espresso il vuoto che porta con sé: “Il mio Lino era un angelo e in quella macchina sono morta anch’io“. Ha rivissuto quei momenti che per lei peseranno eternamente come un macigno. Nella notte tra il 26 e il 27 aprile, l’agente scelto del commissariato Secondigliano Pasquale Apicella, da tutti chiamato Lino, era alla guida dell’auto in servizio di pattuglia. Stava ricercando un’Audi A6 con a bordo tre bosniaci di etnia Rom che avevano appena tentato di svaligiare un bancomat. Ma in via Abate Minichini la pattuglia della Polizia è stata investita dall’auto dei tre criminali. “In quella macchina sono morta anche io, insieme a mio marito. Nessun perdono, chi ha ucciso Lino deve restare in carcere”. Per lei Lino era “un grande uomo. E per noi era tutto. Non gli mancava mai il sorriso, era disponibile e presente nonostante il lavoro gli portasse via tanto tempo. Mio marito era il punto di riferimento non solo per me, ma anche per gli amici, la famiglia e spesso anche per le persone estranee. Se poteva aiutare qualcuno, non ci pensava due volte“. Quindi ha aggiunto: “Era nato per la divisa. La indossava in modo fiero e io ero fiera che mio marito indossasse una divisa, perché era un’anima buona e poteva fare solo del bene. Era nato per proteggerci e per proteggervi”. Nonostante l’orgoglio, non mancavano le paure per Giuliana: “Come qualsiasi moglie di una persona che veste la divisa, ogni turno era motivo di preoccupazione per me. Quando era in servizio di notte, facevo la nottata insieme a lui. Spesso lo chiamavo per sentirlo e sapere se fosse tutto ok. Lino mi rimproverava, diceva che dovevo dormire e stare tranquilla. Ma era impossibile”. Voltare pagina e pensare al futuro ora è difficile. “Sognavamo quello che avevamo già: una famiglia, una casa comprata con tanti sacrifici, tante e rinunce e un mutuo. Non desideravamo niente. Eravamo completi“, ha ricordato la donna. Come raccontare ai figli la storia del suo papà? “Mio marito era un eroe e tutto quello che in questi giorni è stato detto di lui confermerà solo la grande e buona persona che era”. Dopo la morte di Pasquale Apicella, per la sua famiglia sono arrivati tantissimi messaggi di commozione, vicinanza e solidarietà. “Sono rimasta senza parole, l’onda di affetto che ho sentito non solo da parte delle Istituzioni, del corpo della Polizia di Stato e dei cittadini mi ha travolta e mi ha aiutata a sentirmi meno sola e spaesata. Vorrei poter stringere la mano singolarmente a ogni persona. Grazie”, ha risposto Giuliana. Poi ha ribadito il suo pensiero ed espresso il suo augurio: “Io spero che restino in cella dove è giusto che siano. Mi auguro il carcere a vita. Non devono tornare a casa come non è più tornato mio marito. In questo momento pensano di avere una scelta che purtroppo mio marito non ha più. Quella di tornare a casa dalla sua famiglia”. E ancora: “Cosa penso di queste persone preferisco non esprimerlo. La parola perdono non è contemplata al momento nel mio dizionario. Mi hanno tolto tutto. Il mio compagno, mio marito, l’amore della mia vita e il padre dei miei figli. Una persona piena di amore e buon senso. Hanno tolto un figlio a una madre e un padre, un fratello a due sorelle, l’amico di tutti. Un’anima buona che ha sempre cercato di aiutare tutti. Hanno spento il sole della mia vita e quella dei miei figli”.

La lettera della sorella di Pasquale Apicella, l'agente morto in servizio a Napoli. “Chiediamo giustizia per Lino, che ha dato la sua vita per far rispettare la legge”. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Una lettera straziante. Nella Apicella scrive sui social una sorta di invito a non dimenticare il fratello. Pasquale Apicella, agente della polizia di 37 anni, è rimasto ucciso da un incidente fatale nella morte tra il 26 e il 27 aprile. L’agente scelto, in servizio a Napoli al commissariato di Secondigliano, era intervenuto poco dopo le 4:00 insieme ai colleghi dopo la segnalazione di un furto in un istituto di credito in via Abate Minichini, nella zona di piazza Carlo III. Un incidente contro l’auto dei rapinatori si è rivelata fatale per l’uomo, che ha lasciato un bambino di sei anni e una neonata di tre mesi.  “Ai miei amici di Facebook che stanno condividendo il nostro dolore: vi chiedo un aiuto a condividere queste mie parole affinché arrivino al cuore di chi farà giustizia per l’amore nostro.

Che si possano calare nei panni della moglie che non avrà più una spalla forte e il suo compagno di vita.

Che si possano calare nei panni di un bambino di 6 anni che dice dov’è babbo, quel babbo che purtroppo noi non possiamo più dargli. In una bimba di appena 4 mesi che non conoscerà il suo babbo e il cuore grande che aveva ma gli rimarranno solo delle foto.

Che si calino nei panni dei nostri genitori che l’hanno cresciuto con tanto amore e sacrifici e sono bastati pochi secondi per portarglielo via per sempre.

Che si calino in noi le sue sorelle che non abbiamo più quel fratello MASCHIO che è sempre lì pronto a proteggerti, e questa volta noi non abbiamo potuto far niente per proteggerlo.

Vi prego mettetevi nei miei panni che non avrei mai pensato che a 29 anni ho dovuto dargli l’ultimo bacio in un obitorio, lì disteso, che ha dato la sua vita per la giustizia e per far rispettare la legge.

Vi prego fate in modo che il suo sacrificio non sia dimenticato e non sia stato invano per tutti noi e quelli che come mio fratello hanno creduto nella giustizia.

Per noi nulla tornerà più come prima e questi sorrisi li hanno spenti non fateci morire per la seconda volta.

VI PREGO”

(ANSA il 28 maggio 2020) - Ergastolo confermato in appello a Bologna per Norbert Feher. La sentenza per il serbo conosciuto come “Igor il russo”, detenuto in Spagna, è stata letta dopo un'ora e mezza di camera di consiglio dalla Corte di assise di appello: Igor risponde di due omicidi e un tentato omicidio, commessi l'1 e l'8 aprile 2017. Igor, nel carcere di La Coruna, non ha presenziato neppure in video all'udienza, definendo la sua presenza non fondamentale. E' stato assolto da un'imputazione, una tentata rapina ai danni di un pachistano, tra i due delitti, ma non cambia nulla in termini di pena. La conferma della condanna all'ergastolo, pronunciata dal presidente della Corte, Orazio Pescatore, era stata chiesta dal sostituto pg Valter Giovannini. "Abbiamo visto ghignanti sorrisi sparire al cospetto del tunnel carcerario dal volto di tanti analoghi e feroci assassini. Fatalmente accadrà anche per costui che mai, dico mai, ha speso mezza parola di rimorso per quanto fatto e di rispetto per le persone del tutto incolpevoli verso le quali si è autopromosso feroce carnefice". E' un passaggio della requisitoria del sostituto pg Valter Giovannini, che ha chiesto alla Corte di assise di appello di Bologna la conferma dell'ergastolo per Norbert Feher alias “Igor il russo”, accusato degli omicidi del barista Davide Fabbri e del volontario Valerio Verri e del tentato omicidio dell'agente provinciale Marco Ravaglia, tra l'1 e l'8 aprile 2017. Il processo si tiene nell'aula Bachelet della Corte, con l'imputato in videocollegamento dalla Spagna, dove venne arrestato a dicembre 2017 dopo 8 mesi di latitanza. "Fate spegnere lentamente, applicando la legge, quel ghigno nei prossimi lunghi decenni che Igor passera' in carcere". ha aggiunto il pg. "Tra i criteri di valutazione della personalità e quindi per adeguare la pena - ha detto ancora il pg - rientra obbligatoriamente il comportamento "post delictum". Ebbene, fuggito dalla Spagna costui cosa fa? Rapina e poi ammazza a sangue freddo altre tre persone". Igor, infatti, prima di essere arrestato, assassinò due agenti della Guardia Civil e un allevatore, nella zona di Teruel, in Aragona. In precedenza aveva tentato di uccidere altre due persone. Giovannini ha poi mostrato foto del processo spagnolo, dove il killer serbo sorride e con le dita fa il segno della vittoria "Dalle aule di giustizia spagnole - ha detto - ci sono giunte immagini che lo vedono con una mimica facciale tra il sorriso e il ghigno. Complessivamente compiaciuto di essere al centro di tanto interesse mediatico. Ma poi, i riflettori, già più flebili oggi, si spegneranno definitivamente. E rimarranno solo i decenni e decenni di pena da espiare". Nell'aula di Bologna è presente Ravaglia, che venne ferito nell'agguato di Portomaggiore dell'8 aprile, mentre non ci sono i familiari di Verri, rappresentati dall'avvocato Fabio Anselmo, né del barista di Budrio Fabbri, assistiti dall'avvocato Giorgio Bacchelli. Feher è difeso dall'avvocato Luca Belluomini, che nell'atto di appello ha chiesto la perizia psichiatrica. L'udienza, in programma alle 9.30, è iniziata alle 14 per un problema con il collegamento con La Coruna. La sentenza potrebbe arrivare nel pomeriggio o domani.

Confermato in appello l'ergastolo a "Igor il russo". Il pg: "Feroce carnefice". Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Giuseppe Baldessarro su La Repubblica.it Il magistrato aveva chiesto in aula: "Fate spegnere lentamente, in carcere, quel suo ghigno". Ergastolo anche in secondo grado per Norbert Feher, meglio noto come "Igor il russo". La decisione della Corte di assise di appello di Bologna è arrivata questo pomeriggio dopo circa un'ora e mezza di camera di consiglio. Il killer serbo è stato condannato anche in Appello per gli omicidi del barista di Riccardina di Budrio, Davide Fabbri e della guardia ecologica di Portomaggiore Valerio Verri, avvenuti l'1 e l'8 aprile del 2017 tra le province di Bologna e Ferrara. La corte, presieduta dal giudice Orazio Pescatore, ha accolto la richiesta della Procura generale, rappresentata in aula dal pg Valter Giovannini. In primo grado, Feher era stato condannato al massimo della pena, il 25 marzo dello scorso anno. Attualmente è detenuto nel carcere di La Coruna, in Spagna dove è accusato di altri tre omicidi. Oggi ha rinunciato ad essere presente in video all'udienza, definendosi non fondamentale. Durissime le parole di Giovannini a sostegno della richiesta di condanna: "Dalle aule di giustizia spagnole ci sono giunte delle immagini che lo vedono con una mimica facciale tra il sorriso e il ghigno. Compiaciuto di essere al centro di tanto interesse mediatico. Abbiamo visto ghignanti sorrisi sparire al cospetto del tunnel carcerario scomparire dal volto di tanti analoghi feroci assassini. Fatalmente accadrà anche per costui che mai ha speso mezza parola per quanto fatto e di rispetto per le persone incolpevoli verso le quali si è auto promosso feroce carnefice". Secondo l'accusa, il giudizio del killer non può non tenere conto del comportamento complessivo dell'assassino dopo i delitti italiani: "Ebbene, fuggito dalla Spagna costui cosa fa? Rapina e poi ammazza a sangue freddo altre tre persone". Feher, infatti, solo poche settimane dopo gli agguati di Budrio e Porto Maggiore, in Spagna ha ucciso due agenti della Guardia Civil e un allevatore, nella zona di Teruel, in Aragona e, in precedenza, aveva anche tentato di uccidere altre due persone. Giovannini ha mostrato le foto del processo spagnolo, dove il killer serbo sorride e con le dita fa il segno della vittoria: "Dalle aule di giustizia spagnole ci sono giunte immagini che lo vedono con una mimica facciale tra il sorriso e il ghigno. In aula era presente Marco Ravaglia, l'agente della polizia provinciale che venne ferito gravemente l'8 aprile e che riuscì a salvarsi soltanto fingendosi morto. Non c'erano i familiari di Verri, rappresentati dall'avvocato Fabio Anselmo, e neppure quelli di Fabbri, assistiti dall'avvocato Giorgio Bacchelli. Feher è stato difeso dall'avvocato Luca Belluomini, che nell'atto di appello aveva chiesto per il proprio assistito la perizia psichiatrica.

Andreina Baccaro per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. Tre anni dopo quella lunga di scia di sangue che Norbert Feher, alias Igor il russo, si lasciò dietro dall' Italia fino alla Spagna, la famiglia della sua prima vittima, il barista di Budrio Davide Fabbri, si prepara a citare in giudizio lo Stato italiano. Perché il killer serbo fino al primo aprile 2017 era stato un criminale di mezza tacca, esperto nel far perdere le sue tracce certo, ma in Italia non avrebbe dovuto più starci, visto che sulla sua testa pendevano due decreti di espulsione mai eseguiti. In carcere, infatti, era già entrato e uscito un paio di volte per rapine con asce e coltelli, dal 2007 al 2015, compreso un passaggio in un Cie, ma, visto che si spacciava per russo, la giustizia italiana non era riuscita a rimpatriarlo: la Russia non lo riconosceva come suo cittadino. E così è rimasto a piede libero nelle paludi tra Bologna e Ferrara, fino a quel primo aprile 2017 in cui, armato di pistola e fucile e vestito da ninja, si materializzò nel bar Gallo di Budrio, intimando al barista Fabbri di consegnargli i soldi in cassa, forse attirato da una collezione di orologi e da alcune armi legalmente detenute di cui si sapeva nel sottobosco dei ricettatori. Quando il barista reagì e riuscì a togliergli il fucile, Feher tirò fuori la pistola e lo freddò sotto gli occhi della moglie Maria Sirica. «C'è stata negligenza dell' Italia - dice ora l' avvocato Giorgio Bacchelli che assiste la vedova e il suocero -. Feher è rimasto in Italia per l' inerzia dello Stato, per negligenza e approssimazione. Non basta dire che non si era riusciti a capire da dove fosse arrivato, avrebbero dovuto cercare ancora. Altrimenti vuol dire che qualsiasi criminale straniero può mentire sulla sua identità per non essere rimpatriato». La strada per il risarcimento è in salita, i precedenti giurisprudenziali non sono molti ma, assicura il legale, «presenteremo argomenti giuridici solidi, la citazione si baserà sul danno ingiusto, subito per colpa e negligenza dello Stato». E se si dovesse quantificare «si supera il milione di euro». In primo grado Feher è stato condannato all' ergastolo. «Per me non è cambiato nulla. È come se fosse successo ieri, la mancanza di mio marito è insopportabile» dice con un filo di voce Maria Sirica. La vera identità del killer serbo si scoprì solo dopo quella notte, troppo tardi. Nel frattempo, nella sua fuga tra le paludi durante la quale si fece beffa di centinaia di carabinieri e uomini delle forze speciali che gli diedero la caccia per mesi, si lasciò dietro un' altra vittima, la guardia ecologica Valerio Verri, e ferì la guardia provinciale Marco Ravaglia, che durante i pattugliamenti anti-bracconieri ebbero la cattiva sorte di capitare sulla sua traiettoria. Feher, che fino ad allora aveva coltivato intorno a sé improbabili leggende che lo volevano disertore dell' Armata Rossa, oggi è in un carcere di massima sicurezza a Teixeira, in Galizia, dopo essere stato arrestato il 14 dicembre 2017 a Teruel. Quella notte il ladro camaleonte, diventato uno dei killer più ricercati d' Italia, riappare tra le campagne dell' Aragona, dopo otto mesi di latitanza, ancora una volta spara e uccide: un agricoltore che lo aveva sorpreso nella sua proprietà e due agenti della Guardia civil.

Vittima di una rapina nel 1982, lo Stato risarcisce la famiglia dopo 38 anni. La vedova e i due figli di un camionista di Ferrara ucciso nel 1982, 38 anni dopo sono stati risarciti con 150 mila euro. I killer non avevano i soldi e lo Stato non "aveva capito" una direttiva europea che ha sbloccato la vicenda. Alessandro Ferro, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Lo Stato non ti lascia mai solo, si dice. Semmai "ritarda". Dopo 38 anni, lo Stato italiano ha finalmente risarcito i familiari di Gianfranco Benetti, un camionista ucciso l'8 marzo 1982 in seguito ad una rapina mentre faceva ritorno verso casa. Soltanto oggi, la moglie e i due figli sono riusciti ad ottenere il risarcimento di 50 mila euro a testa che hanno atteso, invano, da chi lo uccise. Oltre al racconto dei fatti, la storia racconta il grave ritardo con il quale la giustizia è arrivata, per la precisione 38 anni dopo i fatti.

I fatti. Come riporta il Corriere della Sera, la vicenda accadde l'8 marzo 1982 ad Acquaviva delle Fonti, vicino Bari. Il 32enne Gianfranco, alla guida di un camion, dalla Puglia stava rientrando verso casa in direzione Ferrara assieme ad un collega dopo una consegna di mobili in vimini per conto di un'azienda ferrarese. A casa, nella sua città, lo aspettavano la moglie Maria e i due figli piccoli. Sulla stessa rotta, direzione nord dell'autostrada Taranto-Bari, era seguito da tre rapinatori disposti a tutto pur di prendergli i soldi appena incassati con la consegna. Lo fecero accostare e fermare ma, a "decidere il suo destino" (così dice la sentenza di primo grado) fu un dettaglio, e cioè il "fatto imprevisto" che Gianfranco, invece di rimanere sul camion, scese dal suo lato sinistro e quindi dalla parte in cui era "visibile ai veicoli in transito". I rapinatori lo considerano "un intralcio non previsto" ed ipotizzarono "reazioni di entrambi gli autisti". Fu così che uno dei banditi fece fuoco uccidendo Gianfranco e, subito dopo, si rivolse all'altro autista con tono minaccioso. "Il tuo amico lo abbiamo ammazzato, se non vuoi fare la stessa fine dacci tutto quello che hai nel portafoglio".

I banditi al verde. I tre banditi furono arrestati poche ore dopo e condannati: Domenico De Matteis, Sergio Galeone e Luigi Merletto (questi i loro nomi) avrebbero dovuto risarcire la famiglia della loro vittima ma le condizioni economiche in cui versavano non hanno mai reso possibile l'esborso della cifra stabilita con la condanna penale. Dal canto suo, la moglie di Gianfranco, con due bimbi piccoli da crescere, non ha mai avviato una causa civile per puntare su possibili espropri o pignoramenti che avrebbero avuto costi molto alti e risultati non meglio precisati.

Una direttiva europea. Sembrava che fosse impossibile rimediare, a livello economico, all'ingiustizia di aver perduto un marito ed il padre dei suoi figli fino a quando, alla fine del 2016, hanno scoperto la possibilità di aprire una nuova causa civile legandola ad una direttiva europea del 2004. I loro avvocati, Ugo e Giorgio Ferroni, hanno avviato il procedimento nel 2017 e soltanto pochi giorni fa il giudice Corrado Cartoni (della Seconda sezione civile del Tribunale di Roma) ha accolto le loro obiezioni. La vedova Benetti ed i due figli hanno ottenuto dallo Stato, formalmente dalla presidenza del Consiglio e dal ministero della Giustizia, un risarcimento pari a 50 mila euro ciascuno. 38 anni dopo.

Il perché del ritardo. Tutto questo perché l'Italia, pur facendo propria la direttiva del 2004 con due passaggi (nel 2007 e nel 2016) non aveva recepito fino in fondo cosa chiedeva l'Europa. In pratica, risarcire le vittime di reati violenti quando chi li ha commessi non ha la possibilità di pagare. Per dirla come l'avvocato Giorgio Ferroni "è una condanna al risarcimento del danno perché lo Stato italiano, essendo stato inadempiente alla direttiva europea, ha leso un diritto soggettivo, cioè quello all' indennizzo".

L’Italia è il paese europeo con meno omicidi. Meglio di noi soltanto il Lussemburgo. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Eravamo (e siamo) il paese di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ma siamo diventati anche il paese con il più basso tasso di omicidi di tutta la Ue. Meglio di noi ha fatto solo il Lussemburgo, dove tuttavia la sicurezza dei cittadini non è mai stata un’emergenza. Il dato è stato diffuso dall’Istat e fa riferimento ai casi registrati nel 2018: viene confermata una tendenza in atto in Italia ormai da circa un trentennio. L’Istat ha calcolato che il tasso di omicidi in Italia è stato di 0,59 ogni 100.000 abitanti, dato migliorato solo dallo 0,34 del Lussemburgo dove in un anno sono state uccise solo due persone. Poco meglio dell’Italia hanno fatto Repubblica Ceca e Spagna, entrambi attorno allo 0,6 mentre la media su tutto il territorio Ue è di 1,03. L’Italia mostra un’incidenza bassa anche per i femminicidi, che sono 0,4 ogni 100.000 abitanti contro un dato continentale dello 0,86. I paesi che invece hanno un indice di omicidi più alti sono quelli della zona baltica con il 3,97 della Lituania e il 2,2 dell’Estonia. Come detto il numero degli omicidi in Italia è in costante calo da almeno tre decenni: nel 1992 si erano contati ben 1.442 casi, nel 2016 erano diventati 397: Quelli riconducibili alla criminalità organizzata sono passati nello stesso periodo da 342 a 55 mentre quelli avvenuti in ambito familiare erano 91 all’inizio della rilevazione sono diventati 46 nel 2016. Ma con un andamento che non mostra, a differenza di altri segmenti, un arretramento costante, anzi. All’inizio degli anni’90 veniva ammazzata in Italia una donna ogni 5 uomini; attualmente il rapporto tra i due sessi è sceso a 1,6.

Furti d’auto: più è tecnologica e più va a ruba. Ecco le nuove frontiere del cyber ladro. Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli. Anche la figura del ladro è cambiata, oramai sono perlopiù organizzazioni criminali che, spesso, provengono da Moldavia, Ucraina, Polonia, Romania e Slovenia. Sono diventati dei «cyber ladri», capaci di «hackerare» le centraline di decine di auto in una giornata, che poi fanno sparire soprattutto in Serbia, Albania e Slovenia oppure verso l’Africa, l’estremo Oriente e il Brasile dove sono a loro volta rivendute come auto usate con telai, targhe e documenti contraffatti. Altre, invece, vengono smontate, nel giro di poche ore, per essere immesse nel redditizio mercato dei ricambi rubati. Secondo la Polizia, l’Italia è pure uno snodo europeo anche per veicoli rubati in Spagna, Francia e Germania. C’è poi la strada della truffa, quella dei proprietari con polizze contro il furto, che si fanno pagare in «nero» l’automobile dai criminali, poi denunciano la scomparsa dell’auto (e incassano il rimborso dalle assicurazioni) quando il mezzo è già stato smontato ed espatriato. Secondo le stime LoJack, elaborate anche sulla base degli strumenti di ritrasmissione recuperati dalla Polizia nelle attività congiunte di recupero, oggi in Italia il 25% dei furti di vetture Suv dotate di chiave che consente l’apertura/chiusura del veicolo a breve distanza, viene compiuto in soli 30 secondi. I metodi hi-tech sono due. La classifica delle auto «nel mirino» vede in testa la Fiat Panda, seguita da Fiat 500, Punto e Lancia Y. Negli ultimi due anni sono entrate anche le Suv dal valore economico più elevato. Nel 2018 si è avuta una crescita nei furti del 7%, concentrata soprattutto in tre Regioni che da sole rappresentano quasi circa il 60% del fenomeno: Lazio, Puglia e Campania (dove c’è stato un boom del +38% nel 2018). L’attenzione della criminalità organizzata verso queste auto si nota anche dalle ridotte percentuali di recupero: meno di una su tre viene ritrovata. Le marche preferite dai ladri vede in testa la Nissan Qashqai, seguita da Range Rover Sport, Land Rover Evoque, Toyota RAV 4 e Kia Sportage.Le soluzioni possono essere due: una pratica per difendere il proprio mezzo e una legislativa. L’automobilista che vuole ridurre i rischi al minimo può proteggersi montando antifurti con localizzatore Gps, collegato alla rete di satelliti, e un modulo Gsm, che provvede a comunicare in tempo reale ogni movimento dell’auto allo smartphone del proprietario e a una centrale operativa, fornendo la posizione esatta del veicolo e la direzione di marcia. È il sistema che ha permesso alla polizia di localizzare Fabrizio Corona in Portogallo. Una tecnologia che consente anche di attivare, a distanza, il blocco totale del motore. Il costo va da 600 a 1.000 euro.

Furti d'auto in aumento, ladri sempre più tecnologici. Alle organizzazioni criminali bastano 30 secondi per rubare un’auto. Sempre più difficile il recupero. Meno di 4 su 10 vengono ritrovate. La Repubblica il 20 febbraio 2020. I topi d'auto? Sempre più hi-tech: ormai bastano appena 30 secondi in media per rubare un'auto. E il fenomeno è in continua crescita: in Italia se ne rubano 287 al giorno e diminuisce la percentuale di ritrovamento (sotto la soglia del 40%). "In totale - spiega il “Dossier annuale sui Furti d’Auto”, elaborato da LoJack Italia, azienda leader del settore sistemi di recupero - mel 2018 di oltre 63mila veicoli si sono perse le tracce, rubati su commissione e instradati su mercati esteri o “cannibalizzati” per il mercato nero dei ricambi. I SUV continuano ad essere nel mirino dei ladri. Sempre più spesso i ladri utilizzano dispositivi hi-tech per sottrarre l’auto: il 25% dei furti dei SUV e delle vetture di ultima generazione viene portato a termine in questo modo, beffando i sistemi di protezione in soli 30 secondi. Il metodo hi-tech più diffuso? Il “relay attack”. Campania, Lazio e Lombardia restano le Regioni più a rischio, Panda, 500 e Lancia Ypsilon i modelli preferiti dal business criminale. Una soluzione per contrastare efficacemente questa piaga arriva dall’abbinamento della tecnologia in radiofrequenza con le soluzioni telematiche". I furti d’auto, secondo la ricerca, dopo 5 anni di costante e graduale calo, sono tornati a crescere: nel 2018 sono stati 105.239 gli autoveicoli sottratti (287 al giorno), +5,2% rispetto ai 99.987 registrati nel 2017. Un’inversione di tendenza tanto più preoccupante in quanto ritrovare le auto rubate si rivela sempre più complicato. Lo scorso anno solo 41.632 sono state restituite ai legittimi proprietari, il 39,5% (era il 44% nel 2016 e addirittura il 53% nel 2007). Le restanti 63.607 vetture rubate sono sparite nel nulla, trasportate all’estero (soprattutto verso Serbia, Albania e Slovenia oppure verso l’Africa, l’estremo Oriente o il Brasile) e rivendute come auto usate o smontate nel giro di poche ore per il redditizio mercato nero nazionale dei ricambi.

Il primato dei furti spetta alla Campania (21.577 sottrazioni e +8% vs il 2017), seguita dal Lazio (19.232 e + 4%), Puglia (17.818 e +14%), Lombardia (13.004 e +1%) e Sicilia (12.920 e +6%).

Nel nostro Paese le zone quasi “Theft free” (sotto la soglia dei 1.000 furti d’auto) sono, come intuibile, le Regioni meno estese e per lo più collocate nel Nord-Italia: Valle D’Aosta (22 casi), Trentino Alto Adige (324), Molise (337), Basilicata (380), Friuli Venezia Giulia (436), Liguria (605), Marche (777). Le Regioni in cui le percentuali di ritrovamento della propria auto dopo il furto si riducono al lumicino restano il Lazio (28% dei recuperi del totale auto sottratto) e la Campania (34%).

Le auto più rubate? Ovviamente i modelli più diffusi sul mercato, ma non solo: in testa la Fiat Panda (circa 11.000 sottrazioni), seguita dalle Cinquecento (7.387), Punto (6.560) e dalla Lancia Y (3.752). Completano la graduatoria la Volkswagen Golf (2.661), la Ford Fiesta (2.138), la Smart Fortwo Coupè (1.824), la Renault Clio (1.655), la FIAT Uno (1.629) e la Opel Corsa (1.277). Anche guardando ai modelli, il business dei furti appare evidentemente concentrato sui primi 10 che complessivamente rappresentano una quota del 43% del totale rubato. Ma anche nel 2018 si è confermato il focus delle bande criminali sui furti degli Sport Utility Vehicle, che conservano mediamente un valore economico più elevato (oltre i 20.000 euro) rispetto alle autovetture e risultano perciò più profittevoli, in particolar modo nei casi di sottrazione su commissione. Dopo l’aumento dei furti dell’8% registrato nel raffronto 2017 vs 2016, anche lo scorso anno questo particolare business ha visto crescere i propri numeri (+7%, da 4.623 a 4.940 unità) e aumentare la propria concentrazione in tre Regioni che da sole rappresentano quasi circa il 60% del fenomeno: Lazio (1.189), Puglia (911) e Campania (909 e un boom del +38% nel 2018). L’attenzione della criminalità organizzata verso questo segmento e la determinazione nell’appropriarsene è confermato anche dalle ridotte percentuali di recupero in caso di furto: meno di 1 su 3 (31%) viene ritrovato. La classifica dei SUV preferiti dai ladri vede nelle prime 5 posizioni: Nissan Qashqai (616 unità rubate), Range Rover Sport (550), Land Rover Evoque (416) e Toyota RAV 4 (359), Kia Sportage (287).

Le Forze dell’Ordine, da parte loro, sono ogni giorno impegnate sul campo con compiti sempre più ampi e si trovano a combattere una guerra a colpi di tecnologia contro sistemi sempre più avanzati, favoriti anche dalla scarsa gravità delle pene che il nostro ordinamento giudiziario prevede per questo tipo di reati. “Oggi la guerra a colpi di tecnologia contro i ladri d’auto è sempre più serrata”, afferma Maurizio Iperti, AD di LoJack Italia, “Di pari passo con l’evoluzione della mobilità, è cambiata anche l’offerta dei sistemi in grado di tutelare l’automobilista da questa piaga: non più semplici antifurti, più o meno facilmente arginabili da mani esperte, ma un pacchetto di servizi a portata di smartphone che, grazie a un mix di avanzate tecnologie, garantiscono la protezione e la sicurezza non solo del veicolo, ma anche delle persone che sono a bordo. In tale ottica stiamo per lanciare sul mercato un sistema che, mettendo insieme i punti di forza delle diverse tecnologie, alzerà ulteriormente l’asticella nella costante lotta per la protezione del veicolo”.

Da ilfattoquotidiano.it il 22 febbraio 2020. Il tribunale di Firenze ha condannato a 5 anni e 6 mesi l’ex carabiniere Pietro Costa, uno dei due militari accusati di violenza sessuale per aver abusato di due studentesse americane nella notte tra il 6 e il 7 settembre 2017 dopo averle riaccompagnate a casa dalla discoteca con l’auto di servizio. Costa era imputato nel processo insieme al collega di servizio, l’ex appuntato Marco Camuffo, che era già stato condannato a 4 anni e 8 mesi di reclusione in rito abbreviato l’11 ottobre 2018. Costa, presente in aula per tutta l’udienza, si è allontanato prima della lettura della sentenza. I giudici lo hanno condannato anche all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al risarcimento dei danni alle parti civili, stabilendo una provvisionale di 30mila euro a favore della vittima che lo accusa della violenza sessuale, di 10mila euro per il Comune di Firenze, 10mila per il ministero della Difesa e 10mila per il comando generale dell’Arma dei carabinieri. Secondo quanto denunciarono le due studentesse – accuse che poi confermarono in un lunghissimo incidente probatorio, in modalità protetta – i due carabinieri, che le avevano incontrate in una discoteca accanto al piazzale Michelangelo, le accompagnarono a casa con l’auto di servizio e, arrivati in borgo Santi Apostoli, entrarono nel palazzo dove, approfittando dello stato di ubriachezza delle due giovani, ebbero un rapporto sessuale con loro. Camuffo e Costa, messi alle strette da elementi di prova quali il dna sulle tracce di sperma rinvenute sugli abiti delle ragazze, ammisero di aver avuto rapporti sessuali, ma hanno sempre affermato che le studentesse fossero consenzienti. Per l’accusa, i due avrebbero agito abusando della qualità di carabiniere in servizio e avrebbero violato gli ordini impartiti dai superiori. Entrambe le ragazze salirono a bordo dell’auto in stato di ebbrezza alcolica: secondo il capo d’imputazione notificato a conclusione delle indagini, i due carabinieri avrebbero violentato le due ragazze agendo in modo “repentino e inaspettato”. Il pubblico ministero Ornella Galeotti nella requisitoria aveva chiesto 5 anni e 6 mesi di reclusione per Costa. Il tribunale di Firenze inoltre aveva rigettato la richiesta di sospensione del processo a Pietro Costa: l’istanza era stata presentata questa mattina dai difensori dell’ex militare in vista del pronunciamento della Cassazione, atteso per l’8 aprile, sulla richiesta di ricusazione del giudice Marco Bouchard, presidente del collegio davanti a cui è in corso il processo. La richiesta di ricusazione riguarda in particolare l’incarico ricoperto in passato dal giudice Bouchard come presidente di Rete Dafne Italia, una onlus per l’assistenza alle vittime di reati, e i rapporti della stessa Rete Dafne col comune di Firenze, che nel processo, che si celebra a porte chiuse, è parte civile. Anche la studentessa americana si è costituita parte civile, insieme al ministero della Difesa e all’Arma dei carabinieri.

Giorgia Baroncini per ilgiornale.it l'1 febbraio 2020. Una suora 32enne di origine indiana è stata ferita alla gola a Sestri Ponente (Genova), nella chiesa di San Francesco d'Assisi. Secondo le prime informazioni raccolte dalle volanti della Polizia, sembra che la giovane sia stata presa a coltellate da un uomo che inneggiava a Satana. La suora è stata colpita all'interno della chiesa di San Francesco, vicino all'altare, durante una funzione. Paralizzati dalla paura i fedeli presenti in chiesa per la preghiera del pomeriggio. L'aggressore sarebbe entrato in chiesa gridando "Io sono il diavolo, sono Satana". Poi, armato di un coltello da 40 centimetri, si sarebbe scagliato contro il sacerdote. A quel punto la giovane suora sarebbe intervenuta, senza pensarci due volte, per difenderlo. E così è stata ferita al collo. Come riporta Il Secolo XIX, il prete avrebbe poi cercato di calmare l'uomo che in più occasioni, dopo la morte dei genitori, aveva trovato aiuto proprio in quella chiesa. Sul posto sono subito arrivati i soccorsi del 118 che hanno trasportato la donna in codice rosso all'ospedale di Villa Scassi. L'aggressore, un uomo di 57 anni che da tempo soffre di disagio mentale, è stato subito bloccato e arrestato. All'arrivo delle forze dell'ordine, l'assalitore, conosciuto nel quartiere, si trovava ancora all'interno della chiesa. Una suora dello stesso ordine della religiosa ferita, le figlie della Divina Provvidenza don D'Aste, ha raccontato a Repubblica che "la nostra consorella è stata ferita da quest'uomo che era entrato in chiesa e minacciava il prete. C'è stata molta confusione e a un certo punto semrbava che ci avesse ripensato e avesse buttato il coltello. Poi però lo ha ripreso e uscendo ha ferito Divya". La 32enne, soccorsa e stabilizzata dai medici, sarebbe in gravi condizioni ma non in pericolo di morte. Le forze dell'ordine sono ora al lavoro per ricostruire nel dettaglio quando accaduto questo pomeriggio in chiesa.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 29 gennaio 2020. Per diversi mesi Carlo Conti, volto noto della televisione, è stato vittima di stalking. Si tratta, molto probabilmente, di un’ammiratrice che nel tempo si è rivelata troppo asfissiante. Una fan che ha, tra le varie cose, bombardato di messaggi la casella postale del conduttore della Rai. Una condizione che ha spinto il presentatore toscano a sporgere una denuncia. L’esposto è finito nelle mani del sostituto procuratore Francesco Gualtieri. Il magistrato ha delegato le forze dell’ordine affinché risalgano al mittente delle numerose email oltraggiose inviate a Carlo Conti. Gli inquirenti hanno già acquisito diversi elementi che gli hanno permesso di poter identificare la stalker. Si tratterebbe di una donna che è stata già iscritta nel registro degli indagati con l’accusa di aver commesso atti persecutori. Carlo Conti non è l’unico personaggio dello spettacolo che vive sulla propria pelle il terrore causato da una persona ossessionata e capace di «cagionare - come recita il codice penale - un fondato timore per l’incolumità». Stessa storia allucinante per Sarah Felberbaum. In questo caso lo stalker sarebbe però un ex fidanzato. Anche Sabrina Ferilli, fino a pochi mesi fa, è stata perseguitata da un “fan”. A perdonare uno stalker era stato il cantante Pupo: «Se chiedi scusa ritiro la querela», disse l’artista toscano ad un uomo che via web lo minacciava di morte. E fu di parola perché alle scuse presentate dall’uomo corrispose il ritiro dell’esposto da parte del cantante. Hanno invece deciso di dar corso alla giustizia Giada de Blanck e Licia Colò. Entrambe vittime di due squilibrati che sostenevano di essere “innamorati”, le tempestavano di chiamate e lettere, senza che le avessero mai conosciute. Per stalking è stato condannato a un anno e mezzo di carcere un uomo, che per due anni aveva reso impossibile la vita alla giornalista e conduttrice tv, Monica Leofreddi. Anche Flavio Insinna è stato vittima nel 2014 di una “ammiratrice” particolarmente accanita. La donna gli spediva lettere, mail, messaggi su facebook. Infine si sarebbe resa protagonista di diversi appostamenti sotto la sua abitazione. La modella Youma Diakite, per due anni, è stata il bersaglio di una serie infinita di messaggi social. Volgarità a cui la donna non ha mai dato seguito fino a quando lo stalker, un salernitano di 49 anni, non le ha inviato una foto del portone di casa. Un campanello d’allarme che ha gettato la donna in uno stato di terrore. Il pm Eleonora Fini è intervenuto stabilendo, ad ottobre, il divieto di avvicinamento dell’uomo. Invece a novembre del 2016 e a luglio del 2019 erano stati arrestati (domiciliari) gli stalker di due importanti politici, le parlamentari Maria Elena Boschi e Giorgia Meloni.

ANSA il 29 gennaio 2020. - "Ho paura per mia figlia che ha appena 3 anni. La notte non dormo per questa vicenda, per le minacce che quest'uomo mi ha rivolto via Facebook. Lui sosteneva che gliel'ho strappata, che la bambina era sua, che prima o poi sarebbe venuto a riprendersela a Roma". E' la drammatica testimonianza che Giorgia Meloni, leader di Fratelli di Italia, ha tenuto oggi davanti ai giudici della prima sezione penale di Roma nel processo che vede imputato per stalking, Raffaele Nugnes, arrestato dalla Digos lo scorso 31 luglio nella provincia di Caserta.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. «La notte non dormo, questa vicenda mi ha segnato. Ho paura per mia figlia, ha 3 anni». Dura appena una manciata di minuti la deposizione in aula, ma è sufficiente per capire lo stato d'animo in cui si trova oggi Giorgia Meloni. La leader di FdI rappresenta così ai magistrati la paura che non ha ancora superato nei confronti del suo stalker. Anche perché l'uomo (che è ai domiciliari da questa estate) non aveva preso di mira solo lei, ma anche sua figlia. Lui si chiama Raffaele Nugnes; è stato ascoltato dal giudice dopo la deputata. E ha ripetuto la sua folle teoria: «sono il padre della bambina». Un'affermazione talmente dissennata da spingere il legale della Meloni, il penalista Urbano Del Balzo, a richiedere una perizia psichiatrica nei confronti dell'imputato. In modo tale - qualora la relazione dovesse fornire esito positivo - da avanzare la domanda per la reclusione di Nugnes in un Rems, l'ospedale psichiatrico giudiziario. «Lui sosteneva - ha spiegato Giorgia Meloni rispondendo alle domande del pm Pantaleo Polifemo - che gliel'ho strappata, che la bambina era sua, che prima o poi sarebbe venuto a riprendersela a Roma». Di fatto l'uomo, a luglio, tentò di incontrare la parlamentare. Non prima, però, di aver bombardato con una serie di messaggi privati il profilo social della Meloni, anticipandole la sua visita nella Capitale. La polizia ferroviaria l'aveva atteso alla stazione Termini. Una volta sceso dal treno gli era stato chiesto il motivo del suo viaggio a Roma. Lo stalker, sulle prime, aveva cercato di negare. Poi gli era stato domandato se era venuto per incontrare la Meloni. L'uomo aveva ammesso il motivo della sua visita ed era stato fatto risalire sul treno in direzione di casa, Trentola Ducenta in provincia di Caserta. Pochi giorni dopo venne colpito dalla misura cautelare, gli arresti domiciliari, cui è attualmente sottoposto. «Io vivo spesso fuori casa e il mio stato d'ansia è enormemente cresciuto - ha sottolineato ieri la leader di FdI durante l'udienza - perché ho dovuto prendere particolari cautele. Non bastava più la baby sitter per controllare mia figlia, non può essere mai lasciata sola». La Meloni ha ribadito di non avere mai «visto o conosciuto» Nugnes. «Il mio modo di vivere è ovviamente cambiato. Ho avuto paura anche dopo un messaggio pubblicato dall'imputato in cui scriveva: Hai tempo tre giorni per venire dove sai, se non vieni sai cosa succede, vengo a Garbatella». Dopo la sua drammatica testimonianza in aula, Giorgia Meloni ha ricevuto messaggi di solidarietà del ministro della Salute, Roberto Speranza, della deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda di Stefano Fassina, Mariastella Gelmini parlamentare di Fi e da parte del sindaco di Roma, Virginia Raggi. 

Mic. All. per il Messaggero il 4 febbraio 2020. Per conquistarla aveva tentato di tutto, diventando però molesto e, soprattutto, inquietante. Per quasi dieci anni, Carlo Neri ha inseguito Sabrina Ferilli dicendole di essere innamorato di lei e arrivando a spaventarla a morte: vestito da principe azzurro, impugnando una spada giocattolo, davanti al portone d'ingresso della casa dell'attrice sosteneva di essere stato mandato dagli alieni per unirsi a lei. E di fronte al suo rifiuto l'ha insultata e strattonata. Ora, è stato condannato a un anno di reclusione - pena sospesa - con l'accusa di stalking. Dopo avere ottenuto la misura del divieto di avvicinamento, la pm Daniela Cento aveva chiesto 3 anni e 3 mesi di reclusione.

L'INCUBO. L'incubo è iniziato addirittura nel 2009 ed è diventato sempre più angosciante con il passare dei mesi. Neri, oggi sessantanovenne, aveva iniziato a seguire l'attrice, le diceva di essere un grandissimo ammiratore e di avere scritto dei copioni cinematografici apposta per lei. Poi, aveva cominciato a presentarsi sotto casa sua. Almeno due volte a settimana si faceva trovare all'ingresso, con un fiore in mano. «Le cantavo canzoni, volevo offrirle dei fiori, non ho minacciato nessuno», ha detto lui ieri in aula, facendo dichiarazioni spontanee.

GLI ALIENI. L'attrice ha raccontato che Neri era diventato ossessivo e lei aveva iniziato ad avere paura. Una volta, tornando a casa, l'aveva trovato vestito con una tuta celeste e con una spada giocattolo in mano: «Mi mandano i marziani aveva detto lui - che in aula ha raccontato di essere esperto di ufologia - mi hanno ordinato di unirmi sessualmente a te, per la sopravvivenza della razza umana». Di fronte al rifiuto della Ferilli e al suo tentativo di fuga, lui aveva gridato: «Sei una distruttrice dell'umanità!». In altre occasioni la aveva strattonata e afferrata per un braccio. Una volta aveva pure cercato di entrare dentro al palazzo. Neri, sottolinea la Procura nel capo di imputazione, non si era limitato agli appostamenti sotto casa. Aveva anche cercato l'attrice in un bar del quartiere dove lei andava spesso a fare colazione e aveva raccontato ai dipendenti di essere un regista e di avere scritto dei copioni da sottoporle. Aveva anche bloccato la macchina della vittima in mezzo alla strada. E altre volte aveva fermato alcuni collaboratori dell'attrice dicendo loro di «salutare Sabrina» e di abbracciarla per lui.

LE LETTERE. Agli atti ci sono anche decine di lettere deliranti che l'imputato ha inviato all'attrice, dichiarandole il suo amore e ribadendo di avere ricevuto ordini direttamente dagli alieni. In un'altra lettera, convinto di dimostrare la profondità dei suoi sentimenti, aveva scritto: «Vorrei sposarti secondo il rito di santa romana chiesa». La Ferilli, che ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo e che non ha chiesto risarcimenti, dopo essere stata tormentata per anni aveva deciso di sporgere denuncia. Per paura, aveva modificato le abitudini di vita, usciva di casa camuffata per non farsi riconoscere, non frequentava più gli stessi locali di sempre. Aveva addirittura cambiato il percorso per andare da casa al lavoro. Fino al febbraio dello scorso anno, quando per Neri, difeso dagli avvocati Enrico Valentini e Samuele De Santis, è scattato il divieto di avvicinamento. E ieri è arrivata la condanna.

Sfondano l'auto della "Bonas" Francesca Brambilla e rubano tutto: "Sono sconvolta". Brutta disavventura per valletta di "Avanti un Altro" che, martedì sera, è stata vittima di un furto in pieno centro a Roma, documentato attraverso i social network. Novella Toloni, Giovedì 06/02/2020 su Il Giornale. "Sempre peggio l'Italia. Ma dove finiremo...dove!", è il duro sfogo della soubrette Francesca Brambilla che, nella serata di martedì, ha subito un furto in pieno centro a Roma. La "Bona Sorte" del programma di Canale Cinque "Avanti un altro" ha raccontato lo spiacevole episodio vissuto in prima persona nelle storie del suo account Instagram, pubblicando anche alcune fotografie dei danni riportati alla sua auto. Francesca Brambilla, 28 anni di origini bergamasche, da due anni affianca il conduttore Paolo Bonolis nella trasmissione preserale di Canale Cinque. Nel suo ruolo di "Bona Sorte" la Brambilla ha conquistato l'affetto del pubblico che la segue numeroso anche sui social network. Nelle scorse ore, però, la showgirl 28enne è stata vittima di un furto mentre si trovava in pieno centro a Roma per degli appuntamenti. A raccontare quanto accaduto è stata lei stessa attraverso il suo profilo Instagram con una serie di immagini di quanto accaduto. "Questa è la sicurezza del centro di Roma - ha polemizzato la Brambilla sul social network, pubblicando le foto del suo suv danneggiato dai ladri e dei vetri infranti - ero in centro e mi hanno rubato tutto quello che avevo in macchina. No comment". Secondo una prima ricostruzione, Francesca Brambilla si trovava nel centro cittadino capitolino intorno alle 20.30 quando, ignoti, hanno sfondato il finestrino posteriore del suo suv, rubando tutto ciò che si trovava al suo interno. Via uno zainetto personale con oggetti di valore e anche alcuni indumenti della bella showgirl che si trovavano all'interno del veicolo. L'episodio ha lasciato un senso di profonda impotenza in Francesca Brambilla, che su Instagram si è sfogata: "Comunque sono sconvolta, ore 20.30 in centro a Roma. E nessuno ha visto nulla? Mah....Questa è la sicurezza del centro di Roma". Dopo aver pubblicato le foto dei danni alla sua auto, la Bonas ha poi fatto un accorato appello ai suoi follower per cercare di ritrovare alcuni preziosi a cui lei era particolarmente legata. La showgirl bergamasca ha pubblicato le foto di alcuni bracciali di valore affettivo - che le erano stati regalati anni fa dai nonni - e dello zaino trafugato, chiedendo aiuto ai fan: "Offro un'enorme ricompensa a chi riesce a recuperarmi i miei effetti personali, che mi sono stati rubati ieri dalla macchina a Roma. Almeno gli oggetti che mi erano stati regalati dai miei nonni".

Valentina Errante e Enrico Lupino per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Saranno in aula questa mattina Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjoirth. A sette mesi dall'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, i due ragazzi americani, accusati di avere ucciso con 17 coltellate il carabiniere, siederanno davanti alla Corte d'Assise. Nessun dubbio sul fatto che ad usare il coltello sia stato Lee Elder. Le impronte sui pannelli che nascondevano l'arma sono invece di Hjoith. Ma durante il dibattimento, di certo, la difesa punterà a dimostrare che i due turisti, finiti sul banco degli imputati, la sera dell'aggressione non immaginavano che Cerciello e il suo collega Andrea Varriale, in borghese e disarmati, fossero due militari. Pesa anche la traduzione sbagliata depositata in procura dai militari, che ha stravolto il senso della conversazione tra Elder, il padre e un amico avvocato. Con una lettera al Guardasigilli Alfonso Bonafede, interviene anche Belgari Tavarkiladze, presidente dell'Unione traduttori e interpreti giudiziari, che, ricordando le polemiche sulle frasi mancanti o stravolte del colloquio, accusa Bonafede: «Siamo sicuri che questi due interpreti siano dei professionisti? Da quale albo professionale sono stati scelti?». Il presidente dell'Utgi ricorda che il lavoro viene pagato 4 euro all'ora e chiede il riconoscimento della categoria professionale e l'istituzione di un albo. Anche per evitare che i pm incorrano in simili errori. Su questo terreno di battaglia, con la procura intenzionata a dimostrare la consapevolezza dei due imputati, lo scontro si annuncia pesante. Gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra, legali di Elder, chiederanno una nuova traduzione del file registrato. Nell'informativa mancano del tutto i dialoghi tra Finnegan e il padre, nei quali il ragazzo sosteneva di avere scambiato Varriale e Cerciello per due malfattori. Per questo l'interprete della difesa che ha corretto le trascrizioni è nella lista dei testi della di Finnegan. Intanto, alla vigilia del processo, Maria Esilio, vedova del vicebrigadiere chiede giustizia. Attraverso il suo legale, Massimo Ferrandino, diffonde una nota: «Con la morte di Mario è finita anche la mia famiglia, perché nella tomba sono finiti anche i nostri figli mai nati e tutti i nostri sogni, di modo che l'esistenza si è ridotta a vivere di ricordi e immaginare come sarebbe stato straordinario vivere insieme». E aggiunge: «A tutti coloro che hanno dimostrato tanta sincera e commovente solidarietà in questa tristissima vicenda, va il mio più vivo ringraziamento, mentre per la Giustizia, non per vendetta, mi rimetto alla competenza di magistratura, investigatori ed avvocati ma anche a voi giornalisti, perché anche dalle vostre parole dipende il rispetto della memoria dell'eroico sacrificio di Mario Cerciello Rega, fiamma ardente della nostra storia, caduto per noi tutti per la difesa del diritto».

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2020. La notte brava di Finnegan Lee Elder e Gabriel Christian Natale Hjorth in diretta chat. E' l' una di notte del 26 luglio 2019 e Elder racconta a Kristina la sua ragazza, rimasta in California, le vacanze romane del terzo millennio. Coca, coltelli e intermediari: «Sono stanco» dice Elder dalla sua camera all' hotel Meridien in Prati, dopo il prologo trasteverino. «Vorrei riposare ma Gabe è infuriato, vado con lui». La seconda audizione del colonnello Lorenzo D' Aloia che coordina i carabinieri del Nucleo Investigativo di via in Selci, autore delle verifiche sull' omicidio di Mario Cerciello Rega, guida chi è in aula lungo il percorso della strana movida di quella notte. Prima il tentativo di acquistare droga a Trastevere, poi il furto dello zaino di «Gabe» (che lo fa infuriare), quindi la mediazione di Sergio Brugiatelli per far incontrare i militari e i ragazzi. D' Aloia ha davanti a sé i tabulati dello smartphone di Elder e Hjorth e, passo dopo passo, ripercorre i movimenti, i gesti e perfino i tic di quel 25 luglio. In videoconferenza con il penitenziario di Regina Coeli, i due detenuti. Il colonnello D'Aloia ripercorre anche la storia delle riprese che fotografano il rientro in hotel di Elder e Hjorth. Il tutto scandito da una tempistica sincopata e convulsa che, secondo la difesa, gioca in loro favore: «I ragazzi - dice il penalista Renato Borzone che assiste Elder - non hanno neppure avuto il tempo di rendersi conto della situazione, figurarsi capire che avevano davanti a sé due carabinieri (Cerciello e Andrea Varriale, ndr)». E' questa la questione primaria del processo. Elder e Hjorth erano consapevoli del ruolo di Cerciello e Varriale in quel momento oppure no? Sapevano che erano due militari? La Procura sostiene di sì, ci sono prove in questo senso dice. La difesa invece ha sempre smentito, affermando che, al momento di colpire, i ragazzi non avevano idea che Cerciello fosse un rappresentante delle forze dell'ordine. Infine l'arma. Il kabar da marine, in aula, diventa un coltello da campeggiatore, più un aggeggio da boyscout che un' arma micidiale. Dice Borzone: «Non vogliamo minimizzare ma quel coltello, descritto come arma fatale, è un comune attrezzo da campeggio. Si può acquistare per poche decine di dollari in qualunque negozio di caccia, pesca e sport all' aria aperta». Ma comunque: perché portarlo in valigia andando in vacanza? Qui, spiega Borzone, bisogna pazientare. Perché la spiegazione può arrivare con la testimonianza della mamma di Elder, prevista dopo l' estate: «Non voglio anticipare nulla ma c' erano buone ragioni per portare con sé il coltello» dice Borzone. Il simbolo della spavalderia di Elder, arma del delitto, nascosta nel controsoffitto dell' hotel e rintracciata dai carabinieri, viene così derubricata ad accessorio sportivo.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. Il coltello usato per undici volte da Finnegan Lee Elder per uccidere il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ieri, è stato portato in aula per essere mostrato alla Corte d'Assise. Un coltello da marines con una lama fissa lunga centimetri. «Un'arma che non lascia scampo», ha precisato l'accusa. Il pugnale, ma non solo. In una sola udienza la procura ha calato le carte cruciali contro Gabriel Christian Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, i due ragazzi americani arrestati per l'assassinio del carabiniere: il filmato in cui si vede cercare un punto ideale per l'agguato lontano dalle telecamere, ma anche i selfie con pistole, coltelli da combattimento, droga, soldi e psicofarmaci ricavati dagli smartphone degli imputati. Testimone chiave dell'udienza fiume svolta nell'aula Occorsio del tribunale di Roma a porte chiuse, il colonnello Lorenzo D'Aloia, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma. L'ufficiale ha ricostruito tutti i fatti avvenuti nella notte tra il 25 e 26 luglio dello scorso anno a Prati, sottolineando la natura violenta di Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder. «Ragazzi - ha detto - che amano maneggiare le armi e le usano con disinvoltura». Anche se Natale Hjort non ha materialmente ucciso il militare si è voluto così di nuovo sottolineare coi rilevi estrapolati dai Ris il suo coinvolgimento nell'occultamento del coltello da marines nella stanza dell'hotel Meridien, dove i due amici alloggiavano. Ma anche il suo sostegno morale nel delitto. Sui pannelli del controsoffitto, infatti, erano state trovate le impronte della mano sinistra del diciannovenne biondino, che ha sempre negato agli inquirenti di sapere che Elder aveva con sé quel pugnale da guerra e che lo avesse nascosto nella camera. Il momento più toccante e incisivo dell'udienza è rimasto, però, la presentazione del grosso coltello col quale è stato compiuto l'omicidio. Non un'arma da guerra, nè da marines, ha provato a smorzare i toni l'avvocato Renato Borzone, che assiste Natale Hjorth, etichettandolo come «un coltello da campeggio e quindi non un'arma militare, semmai una riproduzione». Per la difesa Finnegan Elder Lee lo avrebbe acquistato liberamente negli Stati Uniti per 30 dollari ma sarebbe in libero commercio anche in Italia nelle rivendite per caccia e pesca o per il camping. L'avvocato Massimo Ferrandini, legale di Rosa Maria Esilio vedova Cerciello Rega, ha chiesto espressamente al colonnello D'Aloia se i militari si fossero qualificati, ottenendone la conferma. Già nel primo incontro quello del controllo allo spacciatore Brugiatelli e Natale Hjorth, avvenuto a Trastevere poche ore prima dell'aggressione, Natale Hjorth sapeva che i carabinieri erano sulle loro tracce, è stato ribadito. Si tornerà in aula domani. Sei ore di deposizione intervallate da un paio di pause non sono bastate per ultimare il contro esame del colonnello D'Aloia da parte delle difese.

Delitto Cerciello, i familiari parte civile nel processo ai due americani. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 da Corriere.it. È iniziato in Corte d’assise il processo a Gabriel Christian Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder accusati dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Entrando in aula Hjorth, in maglione grigio e pantaloni beige, ha affrontato le telecamere a viso aperto, dicendo di «non avere alcun problema ad essere ripreso», mentre l’amico Elder, una camicia a quadri e un giubbotto grigio, ha chiesto tramite i suoi avvocati di non essere ripreso. Presente anche la moglie di Cerciello, Rosa Maria Cerciello, vestita di nero con i capelli raccolti dietro la nuca. Tra le parti civili, il padre, il fratello e la sorella del carabiniere...Il presidente dottoressa Finiti si è riservata di decidere in merito alle costituzioni di parte civile sospendendo l’udienza. Al termine della sospensione, alla fine è stata accolta la costituzione di parte civile per i familiari del militare (il padre, il fratello e la sorella) e dei ministeri della Difesa e dell’Interno. Respinta, invece, la richiesta delle associazioni, tranne una.

Cerciello Rega, il giudice vieta la pubblicazione di immagini: “Condiziona il giudizio”. Valentina Stella su Il Dubbio il 26 febbraio 2020. Al via il processo ai due ragazzi accusati di aver ucciso il vicebrigadiere. Ha preso il via a Roma la prima udienza del processo di primo grado a carico di Lee Elder e Gabriel Christian Natale, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. L’inizio era previsto alle 10 ma tutto è slittato alla 11:20, anche per la traduzione dei due imputati dalle carceri romane di Rebibbia e Regina Coeli. L’udienza si è aperta con una dichiarazione della Presidente della Corte di Assise che ha detto: “mi rendo conto che di tratta di un fatto di rilevanza pubblica e pertanto ho concesso alla stampa di entrare ma preciso che i video del dibattimento non potranno essere pubblicati e mandati in onda prima della sentenza di primo grado per non minare la serenità di giudizio si coloro che andranno ad esprimersi”. Una decisione importante per evitare per quanto possibile il processo mediatico parallelo.  Ai numerosi cronisti è stato impedito anche di riprendere Lee Elder su precisa richiesta del ragazzo, tramite il suo avvocato Renato Borzone. Presenti in aula genitori del giovane americano, la vedova, il fratello e la sorella del vicebrigadiere Cerciello Rega. L’aula è sicuramente  troppo piccola per ospitare le decine di testate italiane e straniere accorse per questo caso di levatura internazionale. I colleghi stranieri con cui abbiamo parlato si dicono esterrefatti di come un processo così importante sia stato previsto in una aula che al massimo può ospitare 30 persone. Una giornalista americana ci dice “da noi ci mettono nelle condizioni di poter ascoltare e capire quello  che dicono le parti interessate, qui è molto difficile”. Nel momento in cui scriviamo siamo in pausa in attesa di sapere se la difesa si opporrà alle molteplici richieste di costituzione di parte civile di numerose associazioni. La storia è nota: nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 i due ragazzi si sono resi responsabili della morte del carabiniere nel quartiere Prati. I due erano andati all’appuntamento con il mediatore dei pusher Sergio Brugiadelli al quale avevano sottratto lo zaino, per poi trovarsi davanti due uomini, Andrea Varriale e Mario Cerciello Rega.

VALERIA PACELLI e VINCENZO BISBIGLIA per il Fatto Quotidiano il 28 febbraio 2020. "Ho estratto il coltello e ho iniziato a tre volte" e poi "l' ho accoltellato altre volte fino a che non mi si è tolto di dosso". È il 5 settembre 2019 quando l' americano Finnegan Lee Elder - accusato con l' amico Gabriel Natale Hjorth dell' omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega - ammette davanti alla madre quanto avvenuto la notte del 25 luglio a Roma. Il colloquio tra i due, nel carcere di Regina Coeli, è stato registrato e ora è agli atti del processo appena iniziato contro i due americani. È la prima volta dal giorno dell' omicidio che madre e figlio si guardano negli occhi. Leah Lynn Elder dopo aver esortato il figlio a dire la verità, gli chiede il perché quella notte abbia tentato di comprare droga. "Lui voleva la cocaina quella sera (incomprensibile)", dice Finnegan, riferendosi all' amico Natale. Però poi la mamma chiede: "Torniamo a quella sera, se non ne vuoi parlare va bene". E così comincia il racconto di Finnegan (molte frasi sono state trascritte agli atti come "incomprensibili"). La madre gli chiede se "avesse compreso di esser stato fermato da un carabiniere" e Finnegan risponde: "No, ha fatto tutto Gabe (Natale, ndr), visto che io non parlo italiano (incomprensibile) io ero sdraiato sul letto (incomprensibile) non avevo voglia di riuscire". Alla fine però lasciano l' albergo. "Eravamo a un paio di isolati dal luogo dell' incontro - continua poi il racconto - e stavamo camminando (incomprensibile). Ed è a quel punto che abbiamo visto questi due sconosciuti che venivano nella direzione opposta, parlando tra loro ma guardando noi, allora noi abbiamo cambiato direzione". Poco dopo, la conversazione continua così.

Finn: "Adesso, e un attimo dopo mi sono girato e il tizio grosso mi ha aggredito, mentre quello più piccolo Leah: Ma è stato tipo da dietro o ti stavi girando?

F: No, mi stavo girando quando mi ha aggredito (incomprensibile) detto di mettermi a terra. Ha visto che non ubbidivo e ha iniziato a (incomprensibile). Allora ho estratto il coltello e ho iniziato a L: Quante volte? F: Tre volte; ha allungato la mano, quando si è reso conto che non aveva le manette, ha cercato di afferrare il mio coltello e girarlo contro di me, a quel punto ho cambiato mano e l' ho accoltellato altre volte fino a che non mi si è tolto di dosso. Come con Finnegan, sono stati registrati anche i colloqui in carcere dell' altro arrestato, Gabriel Natale. Il 5 agosto incontra il padre Fabrizio e lo zio Claudio. Annotano i carabinieri: "Natale addossa la responsabilità dell' accaduto a Elder Finnegan Lee, definendolo una persona violenta".

Durante il colloquio, però, Natale parla anche di altro: "Riferisce di aver ricevuto la visita dell' onorevole Ivan Scalfarotto, al quale ha accennato dei maltrattamenti subiti in carcere, ma non dei tagli presenti sul suo corpo, notati pure dal parlamentare, in quanto ha accettato il suggerimento del responsabile delle guardie carcerarie di non raccontare determinate vicende". Sono stati svolti accertamenti, anche dopo che alla direttrice del carcere di Regina Coeli alcuni diplomatici statunitensi avevano riferito di "comportamenti non proprio ortodossi nei confronti di Natale". Accertamenti che, stando a una relazione depositata al pm titolare del fascicolo, hanno escluso qualsiasi tipo di violenza in carcere.

Uccisero Cerciello Rega, alla sbarra gli americani: "Servono nuove perizie". I legali dei killer del vicebrigadiere: "Troppe cose non tornano, dal video alle traduzioni". Stefano Vladovich, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale.  Niente riprese per Lee Elder Finnegan. L'assassino del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega non vuole essere filmato. Prima udienza, ieri, per il processo ai due ragazzi californiani accusati di aver ucciso con 11 coltellate, la notte del 25 luglio, il carabiniere 35enne in servizio a Campo de' Fiori. Un'aula gremita all'inverosimile quella della prima Corte d'Assise del Tribunale di Roma, dai media nazionali come dalla stampa americana: telecamere della Cnn, della Cbs, inviati e fotografi del Los Angeles Times, del Daily Mail e del San Francisco Chronicle. «Sfidiamo il coronavirus», dice il presidente della Prima Corte d'Assise Marina Finiti in apertura d'udienza. Alla sbarra Lee Elder Finnegan e Christian Gabriel Natale Hjorth, 20 anni, arrestati la mattina dopo l'omicidio nella stanza dell'Hotel LeMeridien Visconti, a Prati. Nel controsoffitto, ancora sporca di sangue, l'arma del delitto: un coltello da marines. Felpa e camicia Finnegan, maglione e camicia bianca Hjorth. È lui lo studente con parenti italiani, a Fiumicino, bendato e interrogato in caserma, subito dopo il fermo. Il video viene registrato da Andrea Varriale, il collega di Cerciello, per confrontare la sua voce con quella delle telefonate con Sergio Brugiatelli, l'intermediario della vendita di cocaina. La difesa chiede di acquisirlo. I due statunitensi sono accusati di omicidio volontario aggravato, lesioni, tentata estorsione e resistenza a pubblico ufficiale. Presente Rosa Maria Esilio, la vedova della vittima, con il padre e il fratello di Cerciello, i genitori di Elder e lo zio di Hjorth. Durata ore la discussione sulle parti civili. Ammesse come parti lese la signora Cerciello, la famiglia del militare, Brugiatelli come vittima del furto e della tentata estorsione, il ministero della Difesa e quello dell'Interno. Sarà stato il «circo mediatico» attorno o i 40 gradi di temperatura, fatto sta che Finnegan accusa un malore. Il presidente Finiti ammette come parti civili anche l'Associazione vittime del dovere e il carabiniere Varriale, in servizio con Cerciello la notte maledetta, quando vengono aggrediti dagli americani strafatti di alcol. La difesa, gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra, presenta la richiesta di giudizio immediato nonostante non sia più ammessa per reati gravi, e la traduzione, eseguita da un perito di parte, dei colloqui in cella tra Finnegan, il padre e il legale americano Craig Peters. La Procura chiede una nuova perizia, la terza, sulle intercettazioni del 2 agosto, del 5 e 6 settembre, e sul video, non integrale secondo un perito di parte. Il nodo per gli avvocati? Gli studenti non avrebbero riconosciuto Cerciello e Varriale come «guardie», cops, perché non avrebbero mostrato loro i tesserini. Per il perito del Tribunale Finnegan direbbe il contrario, raccontando che l'auto dei carabinieri era arrivata alle loro spalle. Per la difesa, che lamenta varie omissioni del dialogo sull'informativa inviata al pm, la parola tank sarebbe bank, la filiale Unicredit a pochi passi dall'albergo. Gli americani credono davvero che quei due uomini in t-shirt e bermuda sono due «mafiosi», due criminali mandati dallo spacciatore per riempirli di botte? Cerciello e Varriale si presentano all'appuntamento concordato al posto di Brugiatelli per recuperare lo zaino rubato. Sono completamente disarmati. Varriale, sul quale viene aperto un procedimento interno per mancata consegna, si giustifica dicendo che la pistola d'ordinanza è troppo grande per entrare nel marsupio, indossato quando si fa attività antidroga in borghese. Le calibro 9x21 d'ordinanza le lasciano negli armadietti. Non hanno nemmeno i tesserini come sostiene la difesa? Nel borsello di Cerciello vengono sequestrati effetti personali, pochi spiccioli, un mazzo di carte. Oltre 100 i testimoni chiamati in causa, tra i quali Fabio Manganaro, il carabiniere che avrebbe bendato Hjorth, e il collega Silvio Pellegrini, già indagato dalla Procura militare per aver scattato e messo in chat la foto del fermato. Prossima udienza il 9 marzo.

Omicidio Cerciello, il video esclusivo: Hjorth bendato viene interrogato  in caserma dai Carabinieri. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Ecco il video dell’interrogatorio avvenuto nella caserma dei carabinieri di via in Selci a Roma il 26 luglio scorso di Gabriel Christian Natale Hjorth, americano di 18 anni accusato di aver partecipato all’omicidio del brigadiere Mario Cerciello Rega. Il giovane è stato bendato e ammanettato, viene interrogato senza l’avvocato. La foto venne diffusa via chat e fece il giro del mondo. Questo filmato mostra adesso i carabinieri che gli stanno intorno, lo incalzano. Tra loro c’è anche una donna. In queste prime fasi riprese dopo l’arresto, nella stanza del nucleo investigativo c’è Andrea Varriale, il sottufficiale che era con Cerciello e ha lottato con Gabriele Natale Hjorth mentre l’altro giovane americano Lee Finnegan Elder colpiva Cerciello con undici coltellate. Il 18 dicembre la procura di Roma ha chiuso le indagini nei confronti di carabiniere Fabio Manganaro accusando di aver adottato «misura di rigore non consentita dalla legge» per avere bendato il giovane californiano. Il collega Silvio Pellegrini è accusato invece di abuso d’ufficio e pubblicazione di immagine di persona privata della libertà per avere scattato la foto, poi diffusa «su almeno due chat Whatsapp, delle quali una dal titolo Reduci ex Secondigliano con 18 partecipanti, dalla quale veniva poi ulteriormente diffusa da terzi ad altri soggetti e chat» arrecando al giovane statunitense «un danno ingiusto».

Carabiniere ucciso, cambiate le frasi degli americani intercettati in carcere. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Li hanno intercettati nel carcere di Regina Coeli mentre parlavano in inglese con avvocati e familiari. Ma nella traduzione consegnata ai magistrati molte frasi sono state modificate cambiando il senso di quanto era stato detto. E altre non sono state proprio trascritte. C’è un nuovo colpo di scena nell’inchiesta sull’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con 11 coltellate la notte tra il 25 e il 26 luglio scorso a Roma. Perché l’informativa arrivata in Procura fa emergere contraddizioni su quello che sarà il punto centrale del processo contro i due ragazzi americani di 18 anni Lee Finnegan Elder — che si è accanito contro il sottufficiale — e Gabriel Christian Natale Hjorth — che era con lui e ha lottato con l’altro vicebrigadiere Andrea Varriale — accusato di concorso nel delitto. I due giovani hanno sempre detto di aver reagito in maniera violenta perché pensavano di essere stati aggrediti da due spacciatori. Sulla base di quanto affermato mentre erano «ascoltati» in cella, i pm di Roma li hanno invece accusati di essere consapevoli che si trattava di due carabinieri. Sono stati i difensori di Elder, gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra, a riascoltare tutti i nastri facendo ripetere la traduzione. Mercoledì prossimo, giorno di inizio del processo, depositeranno il testo integrale proprio per mostrare ai giudici della Corte d’assiste gli errori compiuti e le parti di conversazione non rese note. Conversazioni che invece potrebbero rivelarsi decisive nel giudizio. «Le traduzioni sono state effettuate da un perito scelto dai magistrati», chiarisce l’Arma anche se adesso saranno gli investigatori a dover spiegare perché abbiano deciso di omettere alcune parti. È il 2 agosto scorso. Elder parla con il padre e con un legale americano. Racconta quanto accaduto una settimana prima nel quartiere Prati di Roma quando sono andati all’appuntamento con il mediatore dei pusher Sergio Brugiadelli al quale avevano sottratto lo zaino e si sono trovati davanti due uomini. Soltanto in seguito si scoprirà che Cerciello e Varriale — vestiti in maglietta e bermuda — erano disarmati. I controlli sul marsupio di Cerciello hanno dimostrato che non aveva neanche le manette e il tesserino. L’avvocato Peters suggerisce di «provare a sviluppare il racconto», ma nell’informativa è scritto: «L’obiettivo è cercare di ridurre l’importanza di queste prove». Poco dopo afferma: «Making motions to the Court, Presentare istanze alla Corte». Nella traduzione è: «Il nostro scopo è cercare di vincere la simpatia della Corte, giocare sulle emozioni». E ancora: bank (banca) diventa tank (macchina militare). Elder poi dice: «When I called mom and told her... police station and they’re saying I killed a cop. Ho chiamato mia madre e le ho detto di trovarmi alla stazione di polizia e mi stavano dicendo che avevo ucciso un poliziotto».Ma la traduzione si trasforma in una confessione: «Ho chiamato casa dicendo di aver fatto la decisione sbagliata colpendo un poliziotto». Durante il colloquio il legale chiede a Elder se gli sia stato mostrato un tesserino. Lui nega: «They didn’t show anything, didn’t say anything. Non hanno mostrato nulla, non hanno detto nulla». Poi il ragazzo aggiunge: «I didnt’ confess until they told me that it was a cop and that he died. Non ho neanche confessato fino a quando non mi hanno detto che era un poliziotto e che era morto». E infine: «I didn’t know that he was a cop. I thought he was a random criminal guy... mafia guy. Non sapevo fosse un poliziotto. Pensavo fosse un malvivente... un mafioso». Ma di tutto questo nell’informativa dei carabinieri non c’è traccia.

Carabiniere ucciso,  dai video al cellulare  ecco tutte le anomalie. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Sarà un nuovo perito, nominato dalla corte d’Assise, a tradurre le intercettazioni dei colloqui in carcere tra Lee Finnegan Elder - il diciottenne americano accusato di aver ucciso con 11 coltellate il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega - e i suoi familiari. Sono stati gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra a scoprire che i dialoghi - registrati il 2 agosto nel carcere di Regina Coeli - sul racconto di quanto avvenne nella notte tra il 25 e il 26 luglio scorso erano stati modificati rispetto all’originale e che nell’informativa finale consegnata dagli investigatori dell’Arma ai magistrati erano state omesse alcune parti fondamentali per la ricostruzione del delitto. Dunque, tutto da rifare. Anche per verificare altre “anomalie” emerse dall’esame del fascicolo processuale. È fondamentale accertare se Elder e l’amico Gabriel Christian Natale Hjorth fossero consapevoli - come sostiene l’accusa - di trovarsi di fronte a due carabinieri. O se invece - come hanno sempre dichiarato loro nei verbali e nelle intercettazioni - erano convinti che si trattasse di «un malvivente, un tipo mafioso». Anche perché Cerciello Rega e il collega Andrea Varriale erano vestiti in maglietta e bermuda, non avevano la pistola e secondo le verifiche effettuate sul borsello della vittima, neanche il tesserino e le manette. E proprio questo ha avvalorato la possibilità che in realtà fossero fuori servizio e siano intervenuti per aiutare il mediatore dei pusher Sergio Brugiadelli a recuperare lo zaino. A un certo punto del colloquio in carcere con il padre e un legale americano, Elder descrive quanto accaduto a Trastevere quando avevano comprato droga e poi si erano accorti di essere stati truffati. Parla di “tesserini” e “carabinieri”. Nella relazione consegnata ai magistrati si lascia però intendere che si riferisca a quanto accaduto ore dopo nel quartiere Prati e dunque avesse capito che si trattava di militari. E viene omessa una parte lunga e dettagliata della sua ricostruzione, nonostante sia fondamentale per comprendere l’esatta sequenza di quella notte. Un altro punto da chiarire riguarda le verifiche svolte sul ruolo di Varriale. Due giorni dopo l’omicidio il vicebrigadiere che quella notte era con Cerciello Rega consegna ai colleghi - e poi ai magistrati - il video girato con il cellulare dell’interrogatorio in caserma di Gabriel Christian Natale Hjorth. Il ragazzo è bendato, ha le mani strette dietro la schiena con le manette. Varriale sostiene di averlo filmato per confrontare la sua voce con quella delle telefonate fatte a Brugiadelli per chiedere i soldi al momento di restituire lo zaino. Una versione ritenuta non credibile: il suo collega che lo aveva bendato è stato indagato per abuso di autorità e dei mezzi di costrizione e dunque i magistrati ritengono che in quel modo volessero costringerlo a confessare. Varriale non è stato indagato per questo reato pur essendo presente e adesso si scopre che il suo cellulare - che conteneva la prova dell’abuso - non è mai stato sequestrato. Dunque non è stato accertato se tra i video e le foto potessero esserci altri reperti utili all’inchiesta. «I magistrati - spiegano gli avvocati Francesco Petrelli e Fabio Alonzi - non hanno mai voluto interrogare Gabriel su quanto accadde nella caserma. Lo faremo noi davanti alla corte d’Assise». Il processo è fissato per mercoledì prossimo. La battaglia tra accusa e difesa si giocherà sulla colpevolezza dei due americani. Ma anche sul ruolo dei carabinieri intervenuti quella notte.

Omicidio Cerciello, misteri e approssimazione. E l’avvocato: “Vogliamo l’assoluzione”. Il Dubbio il 21 febbraio 2020. L’avvocato del ragazzo accusato della morte del Carabiniere: “A pezzo l’intero sistema giustizia”. «Puntiamo all’assoluzione completa». L’avvocato Francesco Petrelli, difensore di Christian Gabriel Natale Hjorth accusato insieme con Finnegan Lee Elder dell’omicidio del brigadiere Mario Cerciello Rega, è intervenuto ai microfoni de «L’Italia s’è Desta» per parlare degli ultimi sviluppi della vicenda a pochi giorni dall’inizio del processo. È stato diffuso il video di Christian Gabriel Natale Hjorth bendato ed interrogato dopo l’arresto: «Lasciamo da parte le valutazioni processuali. Quello che lascia la visione di questo video è un senso di profonda amarezza, specialmente in uno stato di diritto e in una società che dovrebbe dirsi civile ed ispirata a norme di rispetto di dignità anche nei confronti di persone accusate di crimini efferati questo non dovrebbe accadere. Non si comprende come tutto questo non solo sia accaduto ma che si sia acconsentito accadesse – afferma il legale- Si capisce agevolmente dalla visione di quei frammenti di ripresa fatta da un telefonino, che ha per autore una delle due vittime della cosiddetta aggressione lascia ancora più sgomenti, quale fosse il trattamento al quale veniva sottoposto il Natale Gabriel. Dimostra che non avevano fondamento molte delle giustificazioni che erano state date di quel bendaggio. Tra queste si era detto che non doveva vedere le immagini sui video di quella stanza. I monitor invece tutti spenti. Sarà inevitabilmente un tema del processo».«Quello che fino ad oggi hanno chiarito in maniera clamorosa le indagini svolte è che non c’è nulla di chiaro. I misteri restano fitti. L’unica certezza è che non vi è nulla di certo – aggiunge Petrelli – E fondamentale svelare la realtà dell’antefatto per comprendere quello che avvenne in quella manciata di secondi che portarono alla morte il povero Cerciello. Le indagini non possono essere condotte con questa approssimazione. Chi ne esce danneggiato non sono soli l’indagato e l’indagine ma l’intero sistema giustizia. Non c’è dubbio che chiederemo piena assoluzione per lui. E in custodia cautelare da mezzo anno. Parliamo di un ragazzo che aveva 18 anni quando ha varcato la soglia di Regina Coeli. E stata un’esperienza sotto tutti i profili veramente durissima. Speriamo – conclude il difensore – che il processo sia rapido e giusto e che porti alla sua soluzione, al riconoscimento della sua piena innocenza».

Omicidio Cerciello Rega, scoperte traduzioni alterate per incastrare gli americani. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Non c’è solo il Grande Fratello, quello della controriforma che può trasformare con un clic il tuo telefono in un megafono a cielo aperto che mette l’intera tua vita nelle mani di una divisa o di una toga. C’è anche il Grande Fratello Imbroglione, quello che ti cambia le carte in tavola, quello che trasforma una banale traduzione dall’inglese nella costruzione di un romanzo criminale. Addomesticato per bene, come è successo durante le indagini per l’uccisione del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con undici coltellate il 25 luglio scorso a Roma. Dopo la vergogna delle immagini di uno dei due indagati per l’omicidio, il giovanissimo americano Natale Hjorth, fotografato con una benda sugli occhi e le braccia immobilizzate dietro la schiena (potremmo definirla una forma di tortura), ecco il “pasticcio” delle intercettazioni taroccate. Sono stati gli avvocati italiani Renato Borzone e Roberto Capra, difensori dell’altro imputato, Lee Finnegan Elder, rinviato a giudizio come esecutore materiale del delitto, a spulciare e riascoltare, proprio alla vigilia del processo che inizierà mercoledi prossimo, tutti i nastri delle intercettazioni che costituiscono il pilastro centrale dell’inchiesta. I due ragazzi americani infatti hanno sempre detto di aver scambiato, quella sera a Roma nel quartiere di Prati, i carabinieri in borghese ( in maglietta e bermuda) Cerciello e Varriale per due spacciatori e di non aver mai visto i loro tesserini di riconoscimento come appartenenti all’Arma. Ci sono però intercettazioni che fanno parte del fascicolo processuale a disposizione delle parti e della corte d’assise che dovrà giudicare i due imputati, che paiono quasi delle confessioni. È il 2 agosto dello scorso anno. Elder è a colloquio con il padre e con un avvocato americano. Sono intercettati. Si deduce che il legale non sia stato nominato come difensore di fiducia, diversamente l’ascolto con le microspie sarebbe gravissimo, oltre che illegale. Parlano nella loro lingua, ovviamente. Il ragazzo ricostruisce i fatti dopo il fermo. «Ho chiamato mia madre e le ho detto di trovarmi alla stazione di polizia e mi stavano dicendo che avevo ucciso un poliziotto» è la traduzione letterale di quanto detto al padre e al legale da Elder. Ben diversa è la traduzione depositata dai carabinieri e trasformata in una confessione: «Ho chiamato casa dicendo di aver fatto la decisione sbagliata colpendo un poliziotto». I carabinieri affermano che il traduttore era stato nominato dall’ufficio del pubblico ministero. Ma è così difficile interpretare uno spezzone di frase come «..they’re saying I killed a cop»? È il racconto di quel che gli agenti hanno detto al ragazzo o è la sua confessione di aver ucciso il vicebrigadiere dei carabinieri? Ma ancora più difficile pare il fatto che un traduttore professionale possa tradurre «motion», cioè «mozione, istanza» in un contesto processuale, con «emozione». Tanto che la frase dell’avvocato «presentare istanze alla Corte» ( «macking motions to the Court») diventa «il nostro scopo è cercare di vincere la simpatia della Corte, giocare sulle emozioni». Sembra il compito in classe di un ragazzino delle medie cui l’insegnante di inglese abbia raccomandato di arricchire il testo da tradurre con le belle espressioni della lingua italiana. Così da interpretare una mozione o un’istanza come un qualcosa che fa palpitare il cuore… Ma il taroccamento di quelle intercettazioni non si limita a orientare in senso colpevolistico il linguaggio, ma addirittura, cosa forse ancora più grave, censura ogni frase che possa mettere in discussione l’ipotesi accusatoria. Per esempio, quando il legale americano chiede a Elder se Cerciello e Varriale gli abbiamo mostrato un documento o un tesserino, il ragazzo risponde: «They didn’t show anything, didn’t say anything», cioè non hanno mostrato niente, non hanno detto niente. E poi ha anche aggiunto «non sapevo fosse un poliziotto, pensavo fosse un malvivente, un mafioso». Tutta questa parte nel testo tradotto e depositato non c’è. Gli avvocati hanno dovuto ascoltare con le proprie orecchie direttamente le bobine della registrazione per esserne informati. Cambierà qualcosa quando le intercettazioni e i conseguenti ascolti e stesure di verbali saranno gestite direttamente dai pubblici ministeri invece che dagli organi della polizia giudiziaria? O si faranno ancora sintesi arbitrarie o ampliamenti taroccatori o addirittura vuoti di memoria? Il pm è pur sempre una parte, non è un giudice “terzo”, ricordiamolo sempre.  E finché non ci sarà la separazione delle carriere, all’avvocato difensore non resterà che una particina secondaria nel processo. Pur se interpretata con grande professionalità, come in questo caso.

Flavio Pompetti per il Messaggero il 24 febbraio 2020. I legali di Finnegan Elder nel processo per l'omicidio del brigadiere Rega insisteranno che Rega e il suo collega Varriale hanno attaccato i giovani alle spalle, alimentando nel giovane il sospetto che i carabinieri in borghese fossero malviventi associati ai pusher con i quali si stavano incontrando. Quelli di Gabriel Natale tenteranno di aggrapparsi alla fragile versione che vorrebbe il ragazzo ignaro della presenza della baionetta addosso al suo amico. Tutti insieme punteranno su quella che considerano una lunga lista di errori e di abusi commessi dagli investigatori italiani nel corso della vicenda. Dalla benda sugli occhi di Nathaniel mentre viene interrogato, alla sorpresa di fronte alla video registrazione del colloquio privato in carcere tra Finn, i suoi genitori e l'avvocato. Dalla mancata notificazione dei due rappresentanti dell'ordine al momento del tentato arresto, al rifiuto degli investigatori di includere tra i materiali probatori il video della telecamera di sicurezza della filiale Unicredit, idealmente posizionata per documentare la dinamica della rissa che ha preceduto l'assassinio di Cerciello Rega. Tutto questo è andato in onda in un documentario realizzato dalla stazione Abc di San Francisco, che per la prima volta dà la voce ai genitori dei due giovani. «Ho il cuore spezzato, provo un immenso dolore quando penso alla vedova Rega». «Non passa giorno senza che riflettiamo sulla tragedia che ha colpito lui, la moglie, i genitori, la sorella e tutti quanti lo amavano, così come noi amiamo nostro figlio Finn». Leah e Ethan Elder confessano davanti alla telecamera l'angoscia nella quale vivono dallo scorso luglio, quando il loro primogenito li ha chiamati nel cuore della notte da Roma per dire: «Mamma, è davvero brutta, mi accusano di aver ammazzato un poliziotto», prima che la comunicazione fosse troncata. La ricostruzione dell'identità dei due giovani fatta nel filmato è fatta con molta onestà: non ignora gli episodi di violenza dei quali sono stati responsabili in passato, la frequentazione con la droga e lo spaccio che i due avevano alle spalle, né l'amore per le armi che hanno spesso esibito in pubblico e sui social. I genitori riconoscono di aver ignorato molti dei trascorsi, e cercano di smussare le tante spigolosità che emergono nella ricostruzione della vicenda. Se però l'obiettivo si sposta sui coetanei, l'ottica si fa invece più spietata: «Quando Gabe (Gabriel Hjorth) è fatto di droga viene fuori tutta la sua rabbia dice fuori camera una ragazza anonima che lo conosce perde il controllo, si sente superiore alla legge. E come altri ragazzi di questa ricca contea californiana di Mill Valley, pensa che tutto si possa aggiustare alla fine con i soldi».I genitori di Finnegan sperano: «E' incapace di mentire, anche quando sa che la verità può far male». E intanto si tormentano nel rammarico. Finn era stato invitato nella casa di Fregene del nonno di Nathaniel, ma per buona parte della giornata dopo il suo arrivo a Roma il 24 di luglio non era riuscito a incontrare il suo amico e temeva di restare senza un letto per la sera. E' stata la mamma Leah a prenotare per lui la stanza al Meridian Hotel del quartiere Prati, e poi a confermarla per il giorno dopo, e ora si dispera per la scelta. Un altro triste dettaglio che emerge dal documentario è la lettera di perdono che Finnegan ricevette tre anni fa dal padre del compagno di squadra che aveva sofferto una commozione cerebrale al termine di una scazzottata con lui. «Quella notte hai rischiato di eliminare una vita e di perdere il tuo futuro. scriveva il genitore Dio ti ha dato la possibilità di riprenderlo in mano; la prossima volta scegli una strada diversa da quella della violenza».

Rory Cappelli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 28 Gennaio 2020. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio, alle 3,03 del mattino, il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega venne ucciso all' angolo tra via Pietro Cossa e via Federico Cesi, in Prati. Poche ore dopo furono arrestati due americani 19enni, Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth. Il 26 febbraio si apre il processo ai due ragazzi. Il padre di Finnegan, Ethan Elder, parla per la prima volta della vicenda.

Quando avete saputo quello che era successo?

«Era il 26 luglio, un venerdì mattina. Mia moglie Leah e io stavamo lavorando, in casa, a San Francisco. D' un tratto la sento urlare: "Che cosa è successo, Finnegan?" Nostro figlio era in Europa, in viaggio, e sua madre l' aveva appena aiutato a trovare una stanza d' albergo a Roma dove avrebbe dovuto incontrare un suo amico, che non conoscevamo. La raggiunsi e la trovai a parlare con due poliziotti italiani su FaceTime. Uno di loro diceva: "Non ho un' ora per capire se lei ha un avvocato italiano!". E poi, poco prima che riattaccassero, abbiamo sentito la voce di nostro figlio che urlava: "Mamma, stanno dicendo che ho ucciso un poliziotto!"».

Le accuse vi sono state subito chiare?

«No, solo nelle successive 24 ore abbiamo saputo che, secondo i carabinieri, Finn e il suo amico Gabe erano stati derubati mentre tentavano di acquistare cocaina da un pusher: avevano allora sottratto lo zaino all'uomo che li aveva messi in contatto con lo spacciatore, e poi avevano organizzato la restituzione dello zaino in cambio di 80 euro. Invece, i ragazzi erano stati assaliti da due uomini in borghese che si erano poi rivelati carabinieri. Nella lotta che ne era seguita, Finn aveva accoltellato il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega».

E poi cosa è successo?

«I paparazzi hanno iniziato ad appostarsi sotto casa nostra: i giornalisti chiedevano ai nostri vicini le loro impressioni su Finn mentre le telecamere delle reti televisive stavano tutte lì, in attesa di una nostra apparizione. Abbiamo offerto le nostre condoglianze, quello che era successo era terribile: ma eravamo troppo devastati per parlare con la stampa o con chiunque al di fuori della nostra famiglia».

Sono poi circolate le immagini di Finn e Gabe prese dai social media.

«E anche dai loro telefoni cellulari: Finn e Gabe in posa come gangster, con in mano coltelli, pistole, sacchi di erba e bottiglie di alcolici, molte con didascalie di violenti testi rap. È stato terribile e abbiamo faticato a dare un senso a tutto questo».

Non si è trattato solo delle immagini, ma anche del passato.

«Il nostro ragazzo non è un santo. Ha avuto guai in precedenza per una scazzottata fuori dal campus quando era al liceo, e ha avuto problemi con la marijuana. Le sue immagini su Instagram hanno fatto vergognare noi e anche lui. Ma l' idea che sia uscito quella notte con l' intenzione di uccidere un poliziotto, come afferma l' accusa, è assurda».

Secondo lei cosa è poco chiaro nella ricostruzione degli inquirenti?

«Per esempio: perché i carabinieri erano in borghese, vestiti con magliette e bermuda, quando hanno aggredito i ragazzi alle 3 del mattino? Perché nessuno dei due sottufficiali aveva una pistola, un distintivo o addirittura delle manette? Perché stavano rispondendo alla chiamata di un individuo che aveva aiutato i turisti in un' attività illegale? In che modo, come ha affermato Varriale (l' altro carabiniere, ndr), un ragazzo di 68 chili era riuscito a sopraffare Rega, che ne pesava 115? Gabe, che parla italiano, non ha mai detto che i carabinieri si erano identificati, come riferito dagli investigatori. Varriale inoltre aveva sostenuto che gli "assalitori" erano nordafricani; Finn e Gabe sono decisamente caucasici. La storia ufficiale è piena di buchi. E anche in Italia so che in molti iniziarono a mormorare "Qualcosa non va"».

Quando ha rivisto suo figlio?

«Ad agosto, quando sono volato a Roma con il nostro caro amico di famiglia e avvocato, Craig Peters, per incontrare gli avvocati italiani di Finn, Renato Borzone e Roberto Capra. Ho letto il suo primo interrogatorio con la polizia. Dopo cinque minuti Finn aveva già detto: "Non sapevamo che fossero poliziotti"».

Cosa pensa della confessione?

«Ci siamo subito resi conto di avere a che fare con un sistema giuridico molto diverso. La "confessione" che Finn ha reso alla polizia è infatti arrivata dopo otto ore di schiaffi, calci e sputi; inquirenti diversi, nessuno dei quali era in grado di parlare correttamente in inglese, arrivarono nel corso degli interrogatori ad estrapolare le parole che volevano sentirsi dire con la tecnica del "leapfrogging". Poi abbiamo saputo che i carabinieri ci avevano filmato di nascosto durante la nostra visita a Finn, in prigione. Poco prima del giorno del Ringraziamento un giornale italiano riferiva che l' accusa aveva trascrizioni di questa visita in cui Finn ammetteva di sapere che erano poliziotti. Ma non era vero. Abbiamo visto le registrazioni ed eravamo lì, separatamente: sappiamo bene cosa è stato effettivamente detto».

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2020. Italo Pompei, il pusher del «caso Cerciello», era un confidente dei carabinieri. La rivelazione è contenuta in un verbale rimasto segreto per quasi un anno e depositato soltanto ieri al processo per l' omicidio del vicebrigadiere avvenuto il 26 luglio del 2019 contro i due studenti americani Lee Finnegan Elder e Gabriel Natale Hjorth. Non è l' unica. Nel documento viene svelato che la sera del delitto i militari in servizio a Trastevere erano impegnati in un' operazione organizzata proprio grazie all' aiuto del collaboratore. È la verità finora sempre negata, il tassello che consente di riscrivere che cosa accadde quella notte prima dell' aggressione mortale al vicebrigadiere. Ma apre nuovi interrogativi: perché i magistrati non l' hanno allegato al fascicolo del dibattimento? I carabinieri lo hanno trasmesso subito, chi ha deciso di non renderlo noto? Eppure sarebbe stato importante visto che Sergio Brugiatelli portò i due americani proprio da Pompei. Tutto comincia durante l' udienza del 29 aprile quando viene interrogato il colonnello Lorenzo D' Aloia, comandante del nucleo investigativo di Roma che ha coordinato l'indagine. I difensori di Elder, Renato Borzone e Roberto Capra, gli chiedono conto degli oltre 2.000 contatti telefonici tra Pompei e uno dei militari che avevano contatti con lo stesso Cerciello e con il suo collega Andrea Varriale. E lui conferma, ma spiega anche che si tratta dell' appuntato Fabrizio Pacella, sentito come testimone il 17 settembre 2019. «Il verbale - spiega D' Aloia - è stato trasmesso ai pubblici ministeri». In realtà non risulta tra gli atti. E per questo viene presentata un' istanza - alla quale si associano i legali di Natale Hjorth Francesco Petrelli e Fabio Alonzi. Ieri mattina il documento viene consegnato alle difese. Pacella racconta: «Conosco Pompei da quando sono arrivato alla stazione Trastevere. Ritengo di averlo conosciuto durante l' espletamento del servizio di "carabiniere di quartiere". Con Pompei ho instaurato una sorta di collaborazione che ha permesso al mio comando di effettuare alcuni arresti e denunce per spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti. Ho sempre incontrato Pompei per lo più da solo. I nostri incontri li abbiamo tenuti sempre riservati per evitare che qualche pregiudicato ci notasse insieme. Per darmi notizie mi contattava telefonicamente, per lo più tramite sms. Mi scriveva di incontrarci in luoghi poco frequentati che potevano garantire la riservatezza delle nostre conversazioni». Pacella spiega poi che anche il giorno dell' omicidio di Cerciello ci furono contatti. E chiarisce che l' operazione per effettuare un arresto avvenne in piazza Mastai, cioè il luogo dove i due americani erano andati per comprare droga e dove gli erano state invece consegnate aspirine. Era stato il mediatore Sergio Brugiatelli a portarli da Pompei e loro gli avevano rubato il borsello dopo aver scoperto di essere stati truffati. Nel verbale l' appuntato Pacella racconta cosa accadde il giorno dell' omicidio: «Ero di pattuglia con la vettura. Quella mattina sono stato contattato dall' appuntato Marco Accettura perché aveva necessità, per motivi di servizio, di rintracciare un cittadino maghrebino che conosco con il nome "El Mathi". Per rintracciarlo chiamai Italo Pompei sull' utenza che ho nella rubrica del mio smartphone per chiedergli dove fosse il cittadino di origine maghrebina e se era in grado di rintracciarlo. So che Accettura ha poi individuato "El Mathi" in piazza Mastai probabilmente grazie alle indicazioni di alcune persone che abbiamo contattato insieme in quella piazza». Quanto rivelato avvalora dunque l' ipotesi della prima ora e cioè che Cerciello e Varriale abbiano portato Brugiatelli a recuperare il borsello che gli era stato rubato dai due ragazzi statunitensi, proprio per fare un favore al confidente Pompei. Erano in bermuda e maglietta, disarmati, eppure andarono all' appuntamento con gli americani forse per riprendere anche il telefono temendo che potesse svelare i contatti con il confidente. Un' operazione sciagurata che per Cerciello si è trasformata in una trappola mortale. 

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 22 giugno 2020. «Mi capita ogni tanto di dire qualcosa, confermare dove e chi spaccia: quello c'ha la roba quell'altro no, del resto io sono un consumatore quindi è capitato che parlassi con Fabrizio», il militare della stazione Roma-Trastevere che in un verbale, depositato agli atti del processo per l'omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, ha detto che Italo Pompei era un suo informatore. Ma che c'entra quest'uomo con l'omicidio del vicebrigadiere di cui sono accusati i due ragazzi statunitensi Finnegan Lee Elder e Gabriel Christian Natale-Hjorth? Conosceva Cerciello o il suo compagno Andrea Varriale? Passava informazioni anche a loro? La risposta è netta: «Non c'entro nulla: Cerciello e Varriale non li ho mai visti né conosciuti». Trovare Pompei non è facile anche se per le strade del Rione Trastevere lo conoscono un po' tutti. È pomeriggio e da dietro la porta del suo appartamento, su cui pende minacciosa una videocamera, risponde presumibilmente la madre: «Italo non c'è, non so quando ritorna, non le posso aprire». Pompei allora è in giro, forse con il suo cane, per le strade del Rione ma sembra essersi volatilizzato. Nel tardo pomeriggio però risponde al telefono. A quello stesso numero che il carabiniere della stazione Roma-Trastevere aveva registrato sul proprio cellulare con il nome Italo frutteria, perché Pompei sembra che gestisse un negozietto di verdura proprio sotto il suo appartamento prima di cederlo a dei bengalesi. «Ancora a parlare di questa storia ma io che c'entro?» esordisce alla prima domanda. Poi però non mette giù e inizia a parlare.

Lei ricorre in questa vicenda perché un militare dice che era il suo informatore. Ha mai parlato con il carabiniere della stazione Roma-Trastevere, lo conosce?

«Sì, Fabrizio lo conosco».

La mattina dell'omicidio ha ricevuto una sua chiamata per rintracciare un magrebino?

«Quel giorno non c'è stato nessun tipo di contatto con Fabrizio, io non ho sentito nessuno».

Lei però gli passava delle informazioni sul giro di Trastevere?

«Ma era una cosa così. Lo conosco e quindi se mi diceva ma che sai qualcosa gli rispondevo a Fabrì si so qualcosa però non ho mai firmato nulla».

Il vostro era un rapporto informale.

«La confidenza c'è sempre stata nel senso che mi diceva: Ma tu lo sapevi che quello spacciava e io gli rispondevo magari sì ma se lo sapevi che me lo chiedi a fà?, gli potevo confermare quello che poteva dire lui».

Cosa è successo la sera in cui poi è morto il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega con Sergio Brugiatelli, l'uomo che è stato derubato del borsone dai due statunitensi?

«Io Cerciello e l'altro, Varriale, non li ho mai visti né conosciuti. Non dico che sono uno stinco di santo, ho precedenti per spaccio ma ho sempre patteggiato. È Sergio Brugiatelli che ha portato gli americani a piazza Mastai da piazza Trilussa. Io stavo con Tamel un egiziano e con Medi un marocchino.

Prima di incontrarli stavo sotto casa mia, mi hanno chiamato e mi hanno detto: c'è Sergio. Ci siamo visti, ora quello che gli ha detto Brugiatelli a quei due ragazzi, quello che gli ha promesso io non lo so. Poi io ne ho visto solo uno e non avevo neanche capito che fosse straniero, sarò rimasto 18 secondi al massimo».

Chi gliel'ha data la droga finta agli americani?

«Non lo so, io mica me ne vado in giro di notte con dieci pezzi a cercare lo straniero».

Lei quindi agli americani non gli ha dato nulla?

«Assolutamente no».

Dopo che Brugiatelli è stato rapinato, l'ha sentito nel corso della notte, l'ha chiamato?

«No, che ci dovevamo dire?».

Come ha saputo dell'omicidio?

«La mattina dopo sono arrivati i carabinieri a casa, io sono cascato dalle nuvole volevano sapere cosa fosse successo, quella sera poi dietro casa mia ci hanno fermato alcuni carabinieri in servizio per un controllo per un sospetto spaccio, ma se fai un controllo mi guardi se c'ho droga in tasca, se c'ho i soldi invece ci hanno detto che non cercavano noi e se ne sono andati. Io sono pulito con la coscienza. L'omicidio è stato fatto perché questi americani hanno preso la sola».

E secondo lei chi gliel'ha tirata questa sola?

«Brugiatelli io che ne so?».

Cerciello e Varriale invece non li aveva mai visti?

«Ancora? Io proprio non li conoscevo».

Marco Carta per “il Messaggero” il 23 giugno 2020. «Quando abbiamo bloccato i due americani a Trastevere durante uno scambio di droga mostrammo i distintivi e ci qualificammo dicendo che eravamo carabinieri». Commosso, ma chiaro nei ricordi. Per circa due ore e mezza ieri pomeriggio Pasquale Sansone, maresciallo in servizio presso la stazione Farnese, ha ricostruito la notte del 25 luglio in cui il vicebrigadiere dell'Arma, Mario Cerciello Rega venne ucciso. Nel corso dell'udienza del processo, che si svolge a porte chiuse, a carico di Christian Natale Hjort e Finegan Lee Elder, accusati dell'omicidio, si è lasciato andare ai ricordi: «Mario era il più esperto della stazione, quello che portava più risultati» Il suo racconto parte da piazza Mastai, dove si trova insieme ad altri tre colleghi. Quella sera Sansone è fuori servizio e non indossa la divisa. Ma ritrovandosi di fronte a una compravendita di droga, non può che intervenire. Intima l'alt e mostra la placchetta di riconoscimento: «Ci siamo qualificati come carabinieri». Ma non fa in tempo a capire chi ha davanti. I due americani si danno alla fuga, lasciando nelle mani dei militari un involucro di colore bianco contenente una compressa di tachipirina. Il primo a fuggire è Natale, seguito subito dopo da Elder. L'antefatto è noto. Il mediatore Sergio Brugiatelli aveva appena accompagnato Natale Hjort a comprare cocaina non lontano da piazza Mastai, mentre Finnegan, al quale il mediatore aveva affidato il suo zaino, era rimasto in attesa. Per ricostruire la scena, però, i militari iniziano a prendere informazioni dai presenti. C'è Sergio Brugiatelli. Ma soprattutto c'è il presunto pusher di Trastevere Italo Pompei. Che secondo il racconto di Sansone si presenta come una fonte: «Sono amico dei carabinieri di Trastevere, sono un informatore». Dalle indagini era già emerso che aveva avuto 2mila contatti telefonici con un appuntato. A confermarlo era stato anche un sottufficiale dell'Arma sentito nel settembre scorso a sommarie informazioni dalla Procura. Lo stesso Pompei al Messaggero aveva confermato questo rapporto: «Se mi diceva ma che sai qualcosa gli rispondevo si so qualcosa però non ho mai firmato nulla», l'ammissione del presunto pusher di Trastevere, che, oltre a negare ogni conoscenza con Cerciello, si è sempre dichiarato estraneo al «pacco», l'aspirina al posto della cocaina, rifilato ai due americani. Di questo e di molti altri aspetti oscuri, l'uomo dovrà rendere conto mercoledì 24 giugno nell'aula Occorsio. Di sicuro, come ha confermato sempre nell'udienza di ieri Massari William, il luogotenente dell'Arma che ha svolto una serie di accertamenti sui tabulati telefonici di tutti i protagonisti della vicenda, negli ultimi due anni non sarebbero emersi contatti fra spacciatori, mediatori e i Carabinieri intervenuti quella notte: lo stesso Cerciello, il collega di pattuglia Andrea Varriale, così come i quattro militari di Trastevere. Nessuna chiamata, insomma. Non solo con Italo Pompei, ma nemmeno con Sergio Brugiatelli, anche lui atteso il prossimo 24 giugno. Quella notte è lui a chiamare il 112 denunciando la tentata estorsione dei due americani. Che chiedono 80 euro in cambio della restituzione del borsello. All'appuntamento per il cosiddetto cavallo di ritorno andranno Cerciello Rega e Varriale. L'epilogo è noto: il vicebrigadiere sarà ucciso con 11 coltellate. 

DANIELE AUTIERI per la Repubblica il 26 giugno 2020. Una delle poche certezze sui trenta secondi che hanno anticipato l'omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega si carica di giallo. L'esistenza di un dialogo tra Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder (i due americani accusati della morte di Rega) e i carabinieri sopraggiunti per recuperare la borsa rubata a Sergio Brugiatelli, è appesa alle dichiarazioni di un testimone "fantasma", un senza fissa dimora la cui presenza sul luogo del delitto è stata messa in dubbio nel corso di una delle ultime udienze del processo. L'antefatto della vicenda risale al 14 agosto scorso, diciannove giorni dopo la maledetta notte del 26 luglio. Alle 19,20, presso gli uffici del nucleo investigativo, viene interrogato Costantin Saracila. Insieme a Mustapha Hajraovi, Saracila abita gli androni coperti della banca Unicredit, di fronte alla farmacia dove si è consumato l'omicidio del vicebrigadiere. Hajraovi viene sentito a ridosso del fatto e racconta di aver dormito tutta la notte e di essere stato svegliato dal sopraggiungere delle ambulanze. La sua dichiarazione trova riscontro nelle immagini delle telecamere di sicurezza che riprendono l'uomo sdraiato in terra. Nessuna telecamera inquadra invece Saracila che offre a chi lo interroga una risposta alla più delicata delle domande: i carabinieri hanno avuto il tempo per dichiararsi ai due americani oppure la colluttazione è stata improvvisa? «Nella notte tra il 25 e il 26 luglio - riporta il verbale - ero a dormire nel mio solito posto quando venivo svegliato dalle voci di due giovani (). Dopo pochi minuti, credo circa 5, arrivavano altri due uomini, e si fermavano a parlare con i due giovani. Dopo un breve colloquio uno dei due diventava aggressivo. Io, per non farmi vedere, mi nascondevo e mi mettevo a dormire». Durante il processo questa ricostruzione è stata messa in dubbio dal racconto del luogotenente Francesco Del Prete, comandante della stazione Prati. Interrogato dal pm Maria Sabina Calabretta, l'ufficiale ha spiegato di aver setacciato l'area senza rinvenire traccia del senza fissa dimora. «Quando sono arrivato lì - queste le parole di Del Prete - non c'era nulla, non c'era il suo giagiglio, non c'era niente». A questa verità si aggiunge una seconda anomalia. Saracila dichiara ai carabinieri di essere stato svegliato la mattina dopo dal portiere di uno stabile. Repubblica ha verificato presso i portieri di tutti gli stabili nelle vicinanze e nessuno conferma questa circostanza. La presenza di Costantin Saracila sul luogo del delitto diventa un elemento determinante per pesare l'affidabilità di quel testimone (per il quale la procura non ha mai chiesto l'incidente probatorio), in un processo che si celebra tuttora a porte chiuse nonostante le richieste dei media e degli avvocati che difendono i due imputati. Un processo che proprio oggi promette di scrivere un altro capitolo nella ricostruzione della notte del 26 luglio, dedicato stavolta a Sergio Brugiatelli, il "mediatore" dell'incontro tra gli americani e Italo Pompei per l'acquisto di una dose di cocaina, preludio scellerato di una notte finita nel sangue.

Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 27 giugno 2020. « Se non ci fosse stato Cerciello Rega, sarei morto io » . Una considerazione amara quella di Sergio Brugiatelli durante la testimonianza al processo per l'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, che vede imputati gli americani Elder Finnegan Lee e Gabriel Natale Hjorth. Ieri Brugiatelli, uomo chiave dal quale si è dipanata la vicenda che ha portato all'omicidio del 26 luglio nel quartiere Prati, ha raccontato la sua verità. Non lesinando valutazioni, specie sulla uccisione di Cerciello Rega, legata a doppio filo con la sottrazione del suo zaino e la denuncia: «Ho sentito urla di dolore di Cerciello e una voce che diceva "fermati". Mi sento in colpa, dovevo morire io al posto suo. Se fossi andato io magari avrebbero ucciso me». Brugiatelli è il fulcro della vicenda: la persona che quella notte a Trastevere ha accompagnato i due americani a comprare la cocaina e che, una volta andato in fumo l'acquisto, è stato derubato del suo zaino, preso da Natale Hjorth per ritorsione. Proprio nel tentativo di recuperarlo, Brugiatelli ha prima chiamato il 112. Poi, con accanto i militari, ha concordato con Natale Hjorth la restituzione in cambio di soldi. L'incontro a Prati, nei pressi dell'hotel Le Meridien, dove poi il carabiniere è stato ucciso. «Quella sera - ha esordito Brugiatelli - ho fatto da intermediario per accompagnare i due ragazzi americani a comprare la droga. Stavo a piazza Trilussa e loro mi si sono avvicinati, ho chiamato Italo Pompei e mi sono diretto con loro verso piazza Mastai. Quando sono giunto lì, Pompei gli ha ceduto qualcosa e ha preso i soldi. Io non ho ricevuto nulla. E non sapevo che gli avesse dato tachipirina al posto di cocaina. Non sapevo nulla della "truffa". Era la prima volta che facevo una cosa del genere ». Brugiatelli, dunque, si assume in pieno la responsabilità di aver fatto da intermediario per l'acquisto di droga, ma dice di non sapere nulla del raggiro subito dagli americani. Quanto raccontato, però, stride con ciò che ha detto tre giorni fa proprio Pompei, il quale ha escluso di essere uno spacciatore e di aver ceduto lo stupefacente ai due americani. Tuttavia, la testimonianza è in linea con quanto ricostruito dalla procura, il procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e il pm Maria Sabina Calabretta. «Dopo il furto dello zaino ho chiamato il 112 perché c'erano i documenti con l'indirizzo di casa mia e il mio cellulare. E avevo paura succedesse qualcosa ai miei cari», ha continuato il testimone. « Non conoscevo né Cerciello né Andrea Varriale. Siamo andati a recuperare lo zaino dopo l'accordo preso con gli americani. Durante il tragitto da Trastevere a Prati non mi hanno detto nulla sulle modalità di intervento. Appena giunti, mi hanno detto di aspettare nei pressi dell'auto. Loro sono scesi. È lì che ho sentito le urla di dolore: ero terrorizzato, non mi sono mosso. Non ho visto nulla dell'aggressione: non so se ( i due carabinieri, ndr) avessero i distintivi o se fossero armati». La prossima udienza in Assise è prevista il 10 luglio. Ieri, inoltre, hanno presenziato all'udienza due rappresentanti dell'ambasciata americana in Italia. I giudici hanno dato il via libera alla presenza nonostante il processo sia ancora a porte chiuse per le prescrizioni anti Covid.  

Cerciello Rega, il testimone: "Ero lì, sentivo le urla di dolore". La consapevolezza di Sergio Brugiatelli: “Se non ci fosse stato Rega sarei morto io”. Valentina Dardari, Sabato 27/06/2020 su Il Giornale. “Ho sentito urla di dolore di Cerciello e una voce che diceva fermati. Mi sento in colpa, dovevo morire io al posto suo. Se fossi andato io magari avrebbero ucciso me”. Queste le parole di Sergio Brugiatelli durante la testimonianza al processo per l’uccisione di Mario Cerciello Rega, vicebrigadiere dei carabinieri ucciso lo scorso 26 luglio nel quartiere Prati di Roma. Gli imputati sono gli americani Elder Finnegan Lee e Gabriel Natale Hjorth. Ieri Brugiatelli ha raccontato tutto, ammettendo anche che, se non ci fosse stato il vicebrigadiere, sarebbe morto lui. E di questo si sente in colpa. Era là e ha sentito le urla di dolore di Rega. L’uomo aveva accompagnato i ragazzi a Trastevere e aveva fatto loro da mediatore con il pusher, per l’acquisto di cocaina. Quando però l’accordo è saltato, Natale Hjorth si è vendicato prendendogli lo zaino. Brugiatelli ha allora chiamato i carabinieri e, con il loro aiuto ha cercato di riavere il suo zaino in cambio di soldi. L’appuntamento era stato concordato nel quartiere Prati, vicino all’albergo Le Meridien. Dove Rega è stato poi ucciso.

L'intermediario tra gli americani e il pusher. Brugiatelli ha iniziato a raccontare che quella sera aveva fatto da intermediario tra i due ragazzi americani e il pusher. “Stavo a piazza Trilussa e loro mi si sono avvicinati, ho chiamato Italo Pompei e mi sono diretto con loro verso piazza Mastai. Quando sono giunto lì, Pompei gli ha ceduto qualcosa e ha preso i soldi. Io non ho ricevuto nulla. E non sapevo che gli avesse dato tachipirina al posto di cocaina. Non sapevo nulla della truffa. Era la prima volta che facevo una cosa del genere” ha ammesso. Alla fine, Brugiatelli ha affermato di aver accompagnato i ragazzi a comprare la droga, ma non di essere a conoscenza del raggiro nei loro confronti. Pompei però, tre giorni fa avrebbe dato un’altra versione dei fatti. Innanzitutto ha negato di essere uno spacciatore e di aver dato qualcosa agli americani. Il procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e il pubblico ministero Maria Sabina Calabretta avrebbero ricostruito la vicenda in linea con la testimonianza. Il testimone avrebbe anche ammesso di aver avuto paura che potesse accadere qualcosa ai suoi cari. Nello zainetto rubatogli vi erano infatti sia il telefono che i suoi documenti, con tanto di indirizzo della sua abitazione.

Le urla di dolore di Cerciello Rega. “Non conoscevo né Cerciello né Andrea Varriale. Siamo andati a recuperare lo zaino dopo l'accordo preso con gli americani. Durante il tragitto da Trastevere a Prati non mi hanno detto nulla sulle modalità di intervento. Appena giunti, mi hanno detto di aspettare nei pressi dell'auto. Loro sono scesi. È lì che ho sentito le urla di dolore: ero terrorizzato, non mi sono mosso. Non ho visto nulla dell'aggressione: non so se avessero i distintivi o se fossero armati" ha continuato a raccontare Brugiatelli. Di una cosa però sembra essere certo: se non ci fosse stato Cerciello Rega, sarebbe toccato a lui morire. Le urla di dolore del vicebrigadiere le ricorderà per tutta la vita, consapevole che è morto al suo posto. Il prossimo 10 luglio si dovrebbe tenere la prossima udienza in Assise. Ieri, in aula, erano presenti anche due rappresentanti dell'ambasciata americana in Italia. I giudici hanno dato l’ok alla loro presenza nonostante, a causa delle norme anti coronavirus, il processo si tenga a porte chiuse.

Omicidio Cerciello Rega, Elder intercettato in carcere: "Dopo l'arresto calci e pugni". Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Mi hanno menato di brutto [...] alla stazione e mi hanno detto che mi avrebbero dato quarant'anni se non gli davo la password del mio telefono, e quindi, non so se (in qualche modo hanno trovato/hanno fatto in modo di trovare) foto qualcosa contro di me lì dentro". E' quanto afferma Finnegan Elder Lee parlando con il padre e il suo legale americano il 2 agosto scorso nel carcere di Regina Coeli. "Mi hanno buttato a terra, mi hanno dato calci - si legge nella intercettazione - pugni, mi sono saliti sopra, mi hanno sputato addosso". L'intercettazione è stata oggetto di perizia su disposizione della Corte d'Assise dove si sta svolgendo il processo per l'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello, avvenuto il 26 luglio del 2019 e per il quale lo stesso Elder è imputato con il suo amico Cristian Natale Hjorth. Proprio Hjorth era stato fotografato a capo chino, ammanettato dietro alla schiena, con un foulard stretto intorno agli occhi che gli impediva la vista, venerdì 26 luglio in un ufficio del Reparto investigativo dei carabinieri di via In Selci, a Roma. Dell'interrogatorio di Hjorth è stato anche girato un video da Andrea Varriale, il collega che era con Rega la notte dell'assassinio, in cui il ragazzo americano accusato dell'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri nella notte tra 25 e 26 luglio appare ammanettato, bendato e incalzato di domande.

Carabiniere ucciso con 11 coltellate. Omicidio Cerciello, il racconto di Elder: “Calci, pugni e sputi dopo l’arresto”. Redazione su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Dopo l’arresto “mi hanno menato di brutto alla stazione e mi hanno detto che mi avrebbero dato quarant’anni se non gli davo la password del mio telefono”. E’ il racconto di Finnegan Lee Elder, al padre e all’avvocato che lo andarono a trovare nel carcere a Regina Coeli, il 2 agosto scorso, dopo l’arresto, insieme al connazionale Gabriel Natale Hjort, per l’omicidio a Roma del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, 35 anni, originario di Somma Vesuviana (Napoli). “Mi hanno buttato a terra, mi hanno dato calci, pugni, mi sono saliti sopra, mi hanno sputato addosso”, disse Elder secondo quanto emerso dalla intercettazioni tradotte dall’inglese e oggetto di perizia su disposizione della Corte d’Assise dove si sta svolgendo il processo per l’omicidio del carabiniere, ucciso con undici coltellate lo scorso 26 luglio del 2019.“Non voglio imparare l’italiano, sono così stanco di sentire l’italiano, lo odio, se mai tornerò negli Stati Uniti, e la gente mi fa "ooh la cultura italiana, la lingua italiana, che bellezza" io dirò [quella merda?] è disgustoso fa schifo non voglio mai più sentire l’italiano, mai più”. Finnegan racconta poi la sua versione su quanto accaduto la sera dell’omicidio Cerciello. ”Noi eravamo rivolti verso l’altra direzione e loro stavano, avvicinandosi di soppiatto per arrivare dietro di noi e poi mi sono girato e l’ho visto tipo a un metro da me e poi mi ha placcato”, dice il californiano. ”Siamo andati giù e lui mi è salito sopra e mi ha dato qualche pugno e poi ha iniziato a strangolarmi ed ecco perché ho tirato fuori il mio coltello. L’ho accoltellato tipo, due volte nella pancia e quello – dice ancora – non ha aiutato molto perché sembrava solo restare qui e quindi ho semplicemente continuato a pugnalare e poi una volta che ha smesso una volta che mi ha lasciato il collo me lo sono buttato via di dosso e son scappato”.

MARCO CARTA per il Messaggero il 9 luglio 2020. «Abbiamo visto due poliziotti che si avvicinavano di nascosto da dietro e il tizio grosso mi placca, quello più piccolo raggiunge il mio amico». È il 2 agosto quando Finnegan Elder Lee viene intercettato nel carcere di Regina Coeli. Sono passati pochi giorni dall'arresto dell'americano, accusato insieme a Gabriel Natale Hjort per l'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con undici coltellate. E mentre parla con il padre e il suo legale americano Craig Peters, ammette di aver riconosciuto quella notte drammatica del 26 luglio i due «poliziotti». Per la procura è la prova che i due giovani fossero consapevoli che Cerciello e Varriale, quella notte in borghese, fossero dei militari. Anche se la nuova traduzione del dialogo, oggetto di una perizia disposta dalla Corte d'Assise, conterrebbe anche alcuni passaggi che precedentemente erano stati omessi o tradotti malamente. Frasi trascritte dal nuovo perito incaricato dal tribunale, atteso in aula il prossimo 20 luglio, finora inedite, da cui addirittura emergerebbe un pestaggio in caserma, tutto da dimostrare, subito dopo l'arresto: «Mi hanno menato di brutto alla stazione e mi hanno detto che mi avrebbero dato quarant' anni se non gli davo la password del mio telefono, e quindi, non so se in qualche modo hanno trovato o hanno fatto in modo di trovare foto, qualcosa contro di me lì dentro», dice il giovane. Aggiungendo poi: «Mi hanno buttato a terra, mi hanno dato calci, pugni, mi sono saliti sopra, mi hanno sputato addosso».

IL RACCONTO. Nel corso della conversazione più volte l'americano punta il dito contro l'Italia: «Non voglio imparare l'italiano, sono così stanco di sentire l'italiano. Lo odio». Poi passa al racconto di quella notte e di come ha ucciso il vicebrigadiere Cerciello: «Noi eravamo rivolti verso l'altra direzione e loro stavano avvicinandosi di soppiatto per arrivare dietro di noi, poi mi sono girato e l'ho visto a un metro da me, e poi mi ha placcato». E ancora: «Siamo andati giù e lui mi è salito sopra e mi ha dato qualche pugno, poi ha iniziato a strangolarmi ed ecco perché ho tirato fuori il mio coltello. L'ho accoltellato tipo due volte nella pancia... quindi ho semplicemente continuato a pugnalare e poi una volta che ha smesso, una volta che mi ha lasciato il collo, me lo sono buttato via di dosso e son scappato».

LE GIUSTIFICAZIONI. Dello scontro mortale in piazza Farnese, in uno dei passaggi, finora inediti, Elder, rispondendo a una domanda non udibile del suo legale, dice: «Non hanno mostrato nulla, non hanno detto nulla, non hanno mostrato nulla». L'ipotesi è che l'avvocato facesse riferimento alla placca di riconoscimento in dotazione alle forze dell'ordine. Tanto che, poco dopo, il giovane prova a scagionarsi, sostenendo di aver scoperto che Cerciello fosse un carabiniere solo dopo l'arresto: «Non sapevo che era un poliziotto, pensavo fosse uno qualunque, un mafioso qualunque, perché io sono un americano in Italia... 

MARCO CARTA per il Messaggero il 10 luglio 2020. L'imbeccata è diretta: «Sai di questa Amanda Knox? Ha scritto un libro con un contratto di pubblicazione da quattro milioni di dollari». È il cinque settembre del 2019. E Leah Elder incontra per la prima volta in carcere suo figlio Elder Finnegan Lee, sotto processo con l'amico Gabriel Natale Hjort. per l'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con undici coltellate il 26 luglio precedente. Elder sta male: «Sono così depresso, cazzo, senza speranza». E sua madre cerca di rassicurarlo. Prima gli consiglia di pensare a qualcosa di simbolico: «magari una tartaruga che hai incontrato in Thailandia». Poi inizia a parlargli di Amanda Knox, la ragazza assolta in via definitiva nel 2014 per l'omicidio di Meredith Kercher dopo aver trascorso 4 anniin carcere. Amanda è giovane, americana, di buona famiglia ed era stata accusata dell'omicidio. Proprio come Elder ha vissuto il carcere. Anche l'arma del delitto, un coltello, è la stessa.

L'ESEMPIO. E forse per questo la donna spera che la sua vicenda sia da ispirazione per il figlio. Magari per un nuovo bestseller che sistemi le casse di famiglia: «Ci sono modi per cercare di mantenerti più sereno. Sai di questa Amanda Knox, conosci un po' quella storia? Fu rilasciata dal carcere dopo un paio di processi qui e alla fine ha scritto un libro, ha scritto un libro con un contratto di pubblicazione da quattro milioni di dollari». Il racconto di Leah entra nei dettagli: «I carcerati italiani le strappavano gli appunti, gli altri carcerati, per invidia, e lei li riscriveva. Così quando è uscita aveva materiale per un libro». Elder non sa di chi stia parlando: «Ma è stata accusata di?». E in poche parole Leah riassume il caso: «Aveva vissuto per un po', a Perugia, era una studentessa americana che faceva uno scambio universitario, e aveva una coinquilina che era inglese, una ragazza. E poi - aggiunge Leah - era implicato un ragazzo, credo fosse italiano ma mi sembra fosse anche africano e dicono che erano tutti coinvolti in un una specie di gioco sessuale andato male, con un coltello, e la ragazza inglese era stata accoltellata». Il messaggio è chiaro. Se Elder vuole farcela deve fare come Amanda, esorcizzando e, perché no, monetizzando il suo dolore: «la sua sopravvivenza è stata grazie alla scrittura di quel diario e che lei abbia trovato qualcosa per se stessa quando ha dovuto affrontare tutto. E lei ha fatto così, ed è sopravvissuta. E so che questo è probabilmente uno dei periodi peggiori perché è passato quasi un mese da quando sei qui».

I SOGNI. Nei due incontri in carcere, il 5 e il 6 settembre, c'è spazio per i sogni di infanzia: «Ti ricordi quando volevi fare il poliziotto?». E per le speranze: «Non so quando uscirò, forse intorno ai 25 anni». Più volte i toni del dialogo, la cui traduzione è stata al centro di una nuova perizia disposta dalla Corte d'Assise, si fanno drammatici: «Ho un album di fotografie tue che porto sempre con me e quella luce non era sparita dai tuoi occhi finché non hai iniziato con la droga». Cocaina, Erba e Molly, una varietà di MDMA. La donna contesta al figlio l'abuso di stupefacenti: «Perché? Perché, perché, perché la droga? Perché? Perché? Perché?». Elder la rassicura: «Ho smesso con le droghe pesanti». E accusa Gabriel Natale Hjorth per l'acquisto della cocaina la notte dell'omicidio: «La voleva il mio amico. Io non la volevo. Non mi interessava». Nei suoi confronti, la stima è minima: «È scemo. Lo sanno tutti». L'unica preoccupazione per Elder sembra quella di tornare al più presto negli Stati Uniti, anche a costo di essere arruolato dai suprematisti bianchi in carcere: «Non mi importa della Fratellanza Ariana». Nelle parole del giovane non c'è spazio per il pentimento: «Sono venuto fin qui per cercare di essere una persona migliore. E ora sono il cattivo». L'omicidio del vicebrigadiere Cerciello sarebbe stata solo una fatalità: «quella notte, non è stata colpa mia. La mia vita è stata tutta una sfortuna», afferma Elder, che accusa nuovamente le forze dell'ordine: «A notte fonda, senza mostrare un distintivo, senza fare nulla per qualificarsi come poliziotto». Il giovane confida alla madre di voler cambiare generalità: «Pensavo a Xavier. È l'unica cosa che mi collega a questo caso: il nostro cognome». E immagina già nuove mete da visitare: «Forse in Russia, o in Germania. La Russia è fichissima. Sì, be', di sicuro non viaggerò più con un coltello».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero – Cronaca di Roma” l'11 luglio 2020. Il principale imputato, autore dell'assassinio del carabiniere Mario Cerciello Rega, in passato ha cercato di suicidarsi. «Nel 2018, mentre si trovava a San Francisco, Finnegan Elder tentò di togliersi la vita». L' hanno rivelato, ieri, in aula i difensori del californiano accusato, assieme all' amico Gabriel Hjorth (che ieri ha avuto un malore durante l' udienza), dell' omicidio del vicebrigadiere avvenuto il 26 luglio del 2019 a Roma. Nel frattempo nel corso del processo è stato ascoltato l' audio tra la centrale operativa, che aveva richiesto l' intervento del militare, e lo stesso Rega. La diffusione della conversazione ha commosso i parenti del carabinieri ucciso presenti in aula. Viene nuovamente messo in luce lo stato di salute dell' americano. Teoricamente questo potrebbe portare al riconoscimento dell' infermità mentale. Una condizione che potrebbe incidere sulla pena. Gli atti prodotti dai legali di Elder, 1600 pagine riguardanti le cartelle cliniche, l' assistenza psichiatrica e i ricoveri che il californiano ha avuto in passato negli Usa sono stati consegnati ai giudici della Prima corte d' Assise. Questa documentazione potrebbe essere vagliata dai periti nominati dalla stessa corte, il professore Vittorio Fineschi e lo psichiatra Stefano Ferracuti. «Riteniamo essenziale che dal dibattimento emerga ciò che è accaduto quella notte - sottolineano gli avvocati difensori, Roberto Capra e Renato Borzone - Questo prescinde dalla condizione del nostro assistito». E proprio ieri, nel corso dell' udienza, sono stati ascoltati una serie di testimoni tra cui il carabiniere Vittorio Nobili. Militare che la notte dell' omicidio era in servizio alla Centrale operativa affermando di «non sapersi spiegare perché Cerciello e il collega di pattuglia Andrea Varriale non abbiano comunicato lo spostamento dell' intervento dalla zona di Trastevere a Prati». Nobili ha ricostruito le varie fasi della vicenda partendo dalla prima segnalazione che il 112 gli aveva comunicato rispetto alla denuncia di un furto consumato a Trastevere. «Ho chiamato il denunciante Sergio Brugiatelli (intermediario del pusher ndr) - ha spiegato - e dopo che mi ha riferito che oltre al furto era in atto un tentativo di estorsione da parte di due persone, ho allertato la pattuglia in borghese (formata da Rega e Varriale) che era in turno quella sera nelle piazze della movida. Per certi tipi di reati, come l' estorsione, è più mirato inviare pattuglie in abiti civili». Nobili quindi ha contattato telefonicamente Cerciello dopo che un tentativo via radio non era andato a buon fine. «Gli spiego che due persone avevano chiesto 80 euro e un grammo di cocaina per restituire lo zaino a Brugiatelli. I due di pattuglia mi hanno detto che mi avrebbero aggiornato ma non li ho più sentiti». Non avendo avuto più notizie da Cerciello, intorno alle 3.10 di notte, Nobili prova a localizzarli tramite radio portatile e li individua in via Cicerone nel quartiere Prati. «Non ottengo risposta. Allora chiamo al cellulare Varriale ma non faccio in tempo, un collega della Centrale operativa stava già parlando con lui e gli stava raccontando di una persona accoltellata e che serviva una ambulanza». Al termine dell' udienza il fratello di Rega, Paolo, ha chiesto «giustizia. L' ergastolo? Sicuramente, sì».

Mario Cerciello Rega, udienza rinviata: il suocero si sente male in aula mentre ascolta la registrazione del carabiniere. Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. Dramma nel dramma di Mario Cerciello Rega. Il suocero è stato colto da malore in aula e il presidente di Corte d'Assise di Roma dove si sta celebrando il processo per l'omicidio del vice brigadiere è stato costretto ad aggiornare l'udienza a domani per completare la testimonianza di Andrea Varriale, il carabiniere in servizio insieme a Cerciello Rega, e presente al momento dell'omicidio. "Quello che è successo non ci permette di continuare", ha spiegato il giudice. Il suocero del carabiniere si è sentito male mentre ascoltava la registrazione della telefonata tra il collega di Cerciello Rega e la Centrale operativa. Imputati per l'omicidio sono Finnegan Lee Elder e Christian Gabriel Natale Hjorth, due giovani turisti americani. "Quando ci siamo trovati frontalmente ai due, abbiamo tirato fuori il tesserino dicendo di essere carabinieri", ha spiegato alla prima corte d'Assise Varriale. Cerciello Rega è stato ucciso la notte del 26 luglio 2019 da diverse coltellate sferrate dall'americano Finnegan Elder. "Dopo esserci qualificati - è il ricordo di Varriale - ho riposto in tasca il tesserino. Mario ha fatto la stessa cosa. Abbiamo fatto quello che facciamo sempre. Loro non avevano nulla in mano. Noi andavamo ad identificare due persone. I due ci hanno immediatamente aggrediti. Io fui preso al petto da Natale e rotolammo in terra. Allo stesso tempo sentivo Cerciello che urlava 'fermati, carabinieri', aveva una tono di voce provato". L'aggressione, stando al testimone, è durata poca secondi. Varriale, ad un certo punto, preferisce lasciare andare il suo aggressore: "Ero preoccupato per le urla di Mario. Alzo la testa e vedo lui in piedi che mi dice 'mi hanno accoltellato' e poi crolla a terra. Mi sono tolto la maglietta e ho provato a tamponare la ferita, ma il sangue usciva a fiotti. Ho chiamato subito la centrale per chiedere una ambulanza". E proprio quella chiamata ha provocato il malore al suocero del vicebrigadiere ucciso.

Omicidio Cerciello, in aula il collega del vicebrigadiere ucciso: "Ci avvicinammo ai due mostrando il tesserino e dicendo che eravamo carabinieri". Pubblicato mercoledì, 15 luglio 2020 su La Repubblica.it da Federico Salvatore. "Ci avvicinammo frontalmente ai due e tirammo fuori il tesserino dicendo che eravamo carabinieri". E' quanto riferito da Andrea Varriale, il carabiniere che era di pattuglia in borghese con il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega la notte del 26 luglio quando quest'ultimo è stato ucciso con undici coltellate da Elder Finnegan Lee. Varriale è stato ascoltato oggi come testimone nel processo che vede imputato Elder e il suo amico Gabriel Natale Hjorth per l'omicidio volontario del militare. "Dopo esserci qualificati ho riposto in tasca il tesserino. Mario ha fatto la stessa cosa. Abbiamo fatto quello che facciamo sempre. Loro non avevano nulla in mano. Noi andavamo ad identificare due persone. I due ci hanno immediatamente aggrediti - ha ricostruito Varriale davanti ai giudici della prima Corte d'Assise -. Io fui preso al petto da Natale e rotolammo in terra. Allo stesso tempo sentivo Cerciello che urlava 'Fermati, siamo carabinieri', e aveva una tono di voce provato". Il militare ha proseguito raccontando le fasi dell'aggressione. "Tutto è durato pochi secondi - ha aggiunto - io ho lasciato andare il mio aggressore perché ero preoccupato per le urla di Mario. Ho alzato la testa e ho visto lui in piedi che mi ha detto 'mi hanno accoltellatò per poi crollare per terra. Mi sono quindi tolto la maglietta e ho provato a tamponare la ferita, ma il sangue usciva a fiotti. Ho chiamato subito la centrale per chiedere una ambulanza". E in aula è stata ascoltata la registrazione della drammatica telefonata di richiesta soccorso di Varriale alla centrale operativa. Durante l'ascolto dell'audio, il suocero di Cerciello è stato colto da un malore ed è caduto in terra. I giudici dell'aula Occorsio hanno sospeso l'udienza e ed è dovuto intervenire il medico.

La perizia: "Finnegan Elder capace e imputabile". "Si ritiene che Finnegan Lee Elder fosse capace di intendere o di volere al momento del fatto" ed è per questo "imputabile". Così conclude la perizia psichiatrica disposta dai giudici nei confronti dell'americano accusato, assieme al connazionale Gabriel Natale Hjorth, dell'omicidio.

Ester Palma per roma.corriere.it il 15 luglio 2020. Finnegan Lee Elder, il 19enne americano accusato col connazionale e coetaneo Gabriel Natale Hjorth dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega accoltellato il 26 luglio 2019 in Prati, era «capace di intendere o di volere al momento del fatto» ed è per questo «imputabile». Queste le conclusioni della perizia psichiatrica disposta dalla prima corte d’assise di Roma nei confronti dell’imputato, i cui difensori puntavano a dimostrare la seminfermità mentale del ragazzo al momento dell’omicidio. Ma per i professori Stefano Ferracuti e Vittorio Fineschi, che hanno effettuato l’accertamento peritale, Elder «presenta un disturbo di personalità borderline-antisociale di gravità medio elevata, una storia di abuso di sostanze (in particolare Thc) e un possibile disturbo post-traumatico da stress». Per i due esperti, tuttavia, «non è possibile dimostrare che la condizione mentale accertata nell’Elder abbia compromesso la libera capacità decisionale del soggetto al momento del compimento dell’azione delittuosa: riteniamo perciò che il signore sia da valutarsi come imputabile all’epoca dei fatti», hanno concluso. Nella stessa udienza in prima corte d’assise è stato sentito Andrea Varriale, collega del vicebrigadiere assassinato e in servizio con lui quella notte: «Quando ci siamo trovati frontalmente ai due, abbiamo tirato fuori il tesserino dicendo di essere carabinieri. Dopo esserci qualificati ho rimesso in tasca il tesserino. Mario ha fatto la stessa cosa. Abbiamo fatto quello che facciamo sempre. Loro non avevano nulla in mano. Noi andavamo ad identificare due persone. I due ci hanno immediatamente aggrediti. Io fui preso al petto da Natale e rotolammo in terra. Allo stesso tempo sentivo Cerciello che urlava “Fermati, carabinieri”, aveva una tono di voce provato». L’aggressione, stando al testimone, è durata poca secondi. Varriale, ad un certo punto, racconta di aver preferito lasciare andare il suo aggressore: «Ero preoccupato per le urla di Mario. Alzo la testa e lo vedo in piedi che mi dice “mi hanno accoltellato” e poi crolla a terra. Mi sono tolto la maglietta e ho provato a tamponare la ferita, ma il sangue usciva a fiotti. Ho chiamato subito la centrale per chiedere un‘ambulanza», conclude Varriale. «Dovevamo avere la pistola ma per praticità e perché dobbiamo mimetizzarci l’arma è più un problema, non mi è mai capitato di doverla usare nel servizio nella zona della movida». Così il carabiniere ha spiegato il motivo per cui lui e il collega erano sprovvisti della pistola d’ordinanza. «La Beretta pesa oltre un chilo ed è lunga 25 centimetri. Io ero vestito con una polo - ha aggiunto - dei jeans e le scarpe da ginnastica. Il nostro obiettivo, quando facciamo quel tipo di servizio, è confonderci tra la gente e mimetizzarci. La zona di competenza era quella che va da Ponte Sisto, Campo de Fiori e piazza Trilussa, il turno era dalla mezzanotte alle sei di mattina. Giravamo a piedi perché i controlli sull’attività di spaccio non si possono fare in auto». Cerciello era in servizio nella Capitale, nella stazione di Campo de’ Fiori di piazza Farnese, ma era originario di Somma Vesuviana. Il processo è stato aggiornato a domani per il malore che ha colto, durante l’udienza, il suocero di Cerciello che è stato trasportato in ambulanza in ospedale per accertamenti. L’uomo è svenuto mentre in aula veniva fatto ascoltare l’audio della drammatica chiamata di richiesta di soccorsi da parte di Varriale subito dopo il ferimento di Cerciello. In aula era presente anche la vedova del militare, Rosa Maria Esilio, che aveva sposato il carabiniere ucciso solo 44 giorni prima che fosse ucciso.

Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 17 luglio 2020. Nel giorno in cui Andrea Varriale depone a processo sulla notte del 26 luglio 2019, quella dell’uccisione del collega Mario Cerciello Rega, e mentre sostiene che i carabinieri si qualificarono regolarmente con i due americani (fu mostrato anche il tesserino) spunta l’audio del 30 luglio. Una registrazione nella quale si ascolta il superiore Gaetano Armao chiedere a Varriale di non parlare con nessuno «dell’ordine di servizio di quella notte». Si tratta di un messaggio vocale rintracciato dai periti nominati dalla difesa dei due imputati - Finnegan Lee Elder assistito dagli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra e Christian Natale Hjorth, con i legali Francesco Petrelli e Fabio Alonzi - nel cellulare dello stesso Varriale.

L’accordo tra i militari. Il riferimento è all’operazione di identificazione di Sergio Brugiatelli, l’intermediario fra i ragazzi e gli spacciatori di Trastevere, avvenuta nella stessa notte dell’omicidio. Brugiatelli sarebbe stato identificato con una procedura al di fuori del protocollo ufficiale. E l’audio sembra dimostrare che ci fu un accordo tra carabinieri di cui era a conoscenza il comandante della stazione Farnese Sandro Ottaviani. Giovedì 16 si è svolto in aula il controesame del testimone Varriale, il quale in sostanza ha confermato che i carabinieri intervennero disarmati pensando di trovarsi davanti a due giovani «ladri di polli» e non a veri criminali coinvolti in un tentativo di estorsione.

Processo Cerciello Rega, spunta l’audio tra Varriale e un superiore. Valentina Stella su Il Dubbio il 16 luglio 2020. «Andrea di questa cosa dell’ordine di servizio non ne parlare con nessuno»: recita il messaggio ascoltato oggi in aula in presenza del carabiniere che la notte dell’omicidio era con la vittima. Il processo nei confronti dei due americani Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth accusati della morte di Mario Cerciello Rega si sta svolgendo serenamente? Abbiamo qualche perplessità se ieri l’avvocato Renato Borzone, legale, con Roberto Capra, di Finnegan Elder ha dovuto dire dinanzi ai giudici di Corte d’Assise che «ogni volta che intervengo, scatta il pronto soccorso nei confronti del teste. Mi appello alla convenzione dei diritti umani. È come se aveste già deciso». Immediata era stata la risposta della presidente della prima sezione della Corte d’Assise, Marina Finidi, che aveva replicato duramente: «Non le permetto di fare certe affermazioni», e aveva sospeso momentaneamente l’udienza. A sentire le registrazioni delle udienze, grazie soprattutto a Radio Radicale visto che molte si sono tenute a porte chiuse, si è avuta l’impressione di un atteggiamento protettivo della Corte nei confronti dei carabinieri. Per esempio durante l’esame e il contro esame di un teste molto importante come Andrea Varriale, che quella notte era con la vittima, se a fare le domande erano il pm o le parti civili c’era un silenzio quasi assoluto, quando a contestare qualcosa erano gli avvocati della difesa abbiamo potuto assistere a diverse interruzioni da parte della Corte. «Il contro esame della difesa – ci dice Borzone – non è una parte minore del processo, ma è una azione che contribuisce all’accertamento della verità e non deve essere ostacolato». Entrando nel merito delle dichiarazioni di Varriale, racconta Borzone, «il teste ha modificato o ha tentato di modificare molte dichiarazioni rese nel corso delle indagini. Ha fornito inoltre una versione incredibile dei fatti di Trastevere». Durante l’udienza, grazie alla richiesta di una copia forense del cellulare di Varriale fatta dai legali di Lee Elder, è stato ascoltato un messaggio ricevuto da Varriale, in cui un maresciallo della stazione Farnese gli dice «Andrea di questa cosa dell’ordine di servizio non ne parlare con nessuno. Ottaviani (all’epoca dei fatti capo della stazione dei carabinieri di Farnese, indagato per falso ndr) già sa tutto. Vieni dritto da me e lo compiliamo». «Si tratta di un audio molto importante – prosegue Borzone – perché dimostrerebbe che sull’intervento a Trastevere l’ordine di servizio non era stato compilato, così come sostenuto invece finora dai militari». Si tratta di un verbale falso? Saranno i giudici a deciderlo. Sempre riguardo la serenità del processo, chiediamo all’avvocato Borzone un commento all’articolo di Francesco Storace ieri sul Tempo che scriveva ” Gli assassini di Cerciello Rega non meritano pietà”. «Se devo commentare Storace, – conclude Borzone – posso dire che è perfettamente conforme al suo background che si esprimeva nel codice mussoliniano».

Michela Allegri per il Messaggero il 16 luglio 2020. Un'udienza ad alto tasso emotivo, e quel grido disperato che risuonava nell'aula Occorsio del tribunale di piazzale Clodio: «Mario! Mario!». Andrea Varriale stava cercando di tamponare con la sua polo le ferite del collega Mario Cerciello Rega, e intanto aveva chiamato la centrale chiedendo un'ambulanza al più presto. Mentre lui parlava con l'operatore, Cerciello perdeva lentamente conoscenza. Gli ultimi istanti di vita del vicebrigadiere dei carabinieri, che era appena stato raggiunto da 11 coltellate sferrate da Finnegan Lee Elder, sono stati ripercorsi ieri durante il processo per omicidio a carico di Elder e di Gabriel Natale Hjorth. L'audio della telefonata al 118 è stato ascoltato in aula. E familiari del militare si sono alzati in lacrime, mentre il suocero di Cerciello si è sentito male e si è accasciato in terra. L'udienza è stata sospesa e lui è stato ricoverato in ospedale. Ieri Varriale, il carabiniere che era di pattuglia in borghese con il vicebrigadiere, ha risposto alle domande del pm, mentre oggi dovrà confrontarsi con i difensori dei due americani. LA PERIZIA Intanto è stata depositata la perizia psichiatrica eseguita su Elder e disposta dai giudici: il californiano è imputabile. I professori Stefano Ferracuti e Vittorio Fineschi hanno stabilito che, la notte del 26 luglio del 2019, quando ha ucciso il vicebrigadiere, il giovane era capace di intendere. Nella perizia viene delineata la personalità dell'imputato: «Presenta un disturbo di personalità borderline-antisociale», necessità di trattamento farmacologico, è a rischio suicidio. Il ragazzo ha infatti detto di avere quasi ucciso un coetaneo quando era adolescente, di essersi gettato dal Golden Gate Bridge, di avere una storia di abuso di sostanze e un possibile disturbo da stress per l'amputazione di un dito avvenuta anni fa. Durante l'attività istruttoria, spiegano i periti, il giovane «ha ricostruito l'omicidio con lucidità, rimarcando che non sapeva che la persona con cui aveva ingaggiato la colluttazione fosse un agente delle forze dell'ordine, se lo avesse saputo si sarebbe inibito». Un passaggio che contrasta con quanto riferito da Varriale, che ha detto più volte che lui e Cerciello, quando si sono presentati all'appuntamento con gli americani per recuperare uno zaino rubato, hanno esibito il tesserino. «Loro ci hanno immediatamente aggrediti - ha spiegato - Io vengo preso al petto da Natale e rotoliamo in terra. Sento Cerciello urlare: Fermati carabinieri, aveva una tono provato». Tutto è durato pochi secondi - ha aggiunto - «ero preoccupato per le urla di Mario. Alzo la testa e vedo lui in piedi che mi dice: Mi hanno accoltellato. Poi è crollato. Mi sono tolto la maglietta e ho provato a tamponare la ferita, ma il sangue usciva a fiotti». Sul fatto che i due militari fossero senza l'arma di ordinanza, Varriale ha spiegato: «Dovevamo avere la pistola, ma per praticità e perché dovevamo mimetizzarci l'arma era un problema, non mi è mai capitato di doverla usare nel servizio nella zona della movida». E ancora: «La Beretta pesa oltre un chilo ed è lunga 25 centimetri. Io ero vestito con una polo, dei jeans e scarpe da ginnastica».

Omicidio Cerciello, Varriale in aula: "Mai visti maltrattamenti in caserma". Al processo per la morte del vicebrigadiere, ucciso nella notte del 26 luglio 2019, continua la testimonianza di Andrea Varriale, il carabiniere che quella notte era insieme alla vittima. Il militare ha spiegato di aver portato la pistola nel turno precedente, alla stazione Termini e racconta: "Abbiamo tirato fuori il tesserino e ci siamo qualificati dicendo "carabinieri". Eravamo a circa 3-4 metri dai due giovani americani". Maria Elena Vincenzi il 20 luglio 2020 su La Repubblica. "Non ho visto maltrattamenti in caserma ai danni dei due arrestati". Ha risposto così Andrea Varriale, il carabiniere che era in servizio con Mario Cerciello Rega la notte in cui fu ucciso, a luglio dello scorso anno, agli avvocati della difesa che lo incalzavano. Nel corso della scorsa udienza, il militare aveva detto davanti alla Corte d'Assise di non avere mai visto prima di quel giorno un sospettato "bendato". E lo ha ripetuto ieri, con riferimento alle immagini di Christian Gabriel Natale Hjiorth ammanettato e con gli occhi coperti in caserma il giorno del fermo. Ma alla domanda successiva, se avesse visto qualcosa di strano, Varriale ha risposto senza incertezze: "No. Non ho visto alcun maltrattamento". In aula Occorsio, dove si celebra il processo per omicidio che vede imputati Hjiorth e Finnegan Lee Elder, ieri è stato il giorno del controesame al collega e amico della vittima ("avevamo legato subito, conoscevamo le rispettive famiglie. Certe volte Mario mi prestava anche la casa per andarci con la mia ragazza se lui non c'era"). In un'udienza fatta anche di alcuni "non ricordo", Varriale ha, ancora una volta, ricostruito i tragici fatti di quella notte: "Alla vista dei due ragazzi abbiamo attraversato la strada e siamo andati loro incontro, poi abbiamo tirato fuori il tesserino e ci siamo qualificati dicendo "carabinieri". Eravamo a circa 3-4 metri. Poi abbiamo riposto i tesserini e ci siamo avvicinati per essere a mani libere. Ricordo che anche loro non avevano nulla in mano". Il militare, già in forza alla stazione di piazza Farnese, ha ribadito che la decisione di non portare l'arma quella sera è stata una responsabilità esclusivamente sua. Il carabiniere ha detto anche che nel turno precedente in zona Termini portavano la pistola "perché - ha spiegato - la riteniamo una zona pericolosa".

Omicidio Cerciello, Varriale in aula: "Ci qualificammo, eravamo a 3-4 metri dai due americani". Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Alla vista dei due ragazzi abbiamo attraversato la strada e gli siamo andati incontro, poi abbiamo tirato fuori il tesserino e ci siamo qualificati dicendo "carabinieri". Eravamo a circa 3-4 metri. Poi abbiamo riposto i tesserini e ci siamo avvicinati per essere a mani libere". Al processo per la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso nella notte del 26 luglio 2019 continua la testimonianza di Andrea Varriale, il carabiniere che quella notte era insieme alla vittima. Nel corso dell'udienza del processo che vede imputati i due giovani americani Finnegan Elder e Gabriel Natale Hjorth, rispondendo alle domande delle difese, Varriale ha ricostruito le fasi della colluttazione e ha spiegato che sia lui sia Cerciello avevano la placca nella tasca dove è stata riposta dopo essere stata esibita. "Noi li abbiamo individuati, ci siamo qualificati - ha detto Varriale in aula - ci siamo avvicinati". Il militare, già in forza alla stazione di piazza Farnese, ha ribadito che la decisione di non portare l'arma quella sera è stata una responsabilità esclusivamente sua. Il carabiniere ha detto anche che nel turno precedente in zona Termini portavano la pistola "perchè - ha spiegato - la riteniamo una zona pericolosa". Sulle armi "c'è una circolare interna che prevede che la pistola vada portata addosso e non in borselli".

Marco Carta per ''Il Messaggero'' il 23 luglio 2020. Un tentato suicidio nella zona del Golden Gate a San Francisco. La roulette russa con una calibro 32. E la boxe «per sentirsi più uomo». Senza dimenticare le droghe. A Elder Finnegan serve «un trattamento psicologico e psichiatrico». Ma, al momento dell'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, il giovane americano «si rendeva conto di quello che stava facendo». Quindi è «imputabile». Al processo in Corte d'Assise ieri è stato il turno dei professori Stefano Ferracuti e Vittorio Fineschi, che hanno illustrato la perizia psichiatrica disposta dal tribunale di Roma nei confronti di Finnegan Lee Elder, accusato insieme con Gabriel Natale Hjorth, dell'omicidio del vicebrigadiere, ucciso con 11 coltellate il 26 luglio dello scorso anno a Roma. Un documento di circa 170 pagine dove viene sintetizzata la situazione clinica e psicologica del giovane americano, che secondo i due esperti presenterebbe una «familiarità» con i disturbi psichiatrici. Dall'ossessione per le armi, fino ai diversi tentativi di suicidio. «Il nonno si è suicidato, come anche uno zio» ha confidato ai periti il giovane, venuto in Italia per superare uno dei tanti momenti difficili della sua tormentata vita: «Ha giocato alla roulette russa con una calibro 32 - hanno detto i periti - senza uno specifico motivo, facendo più di un tentativo». Per questo «la madre gli avrebbe suggerito di fare un viaggio in Europa per distrarsi». A determinare i comportamenti antisociali di Elder, i cui genitori «sarebbero alcolisti», sarebbe un «sentimento cronico di rabbia», tanto che quando aveva 16 anni aveva ferito una persona venendo condannato a due settimane di carcere e 2 anni di messa alla prova. Per ricostruire il tentato suicidio del Golden Gate del giugno 2018, invece, la Corte d'Assise ha disposto l'acquisizione di altri documenti clinici, circa 1600 pagine, inviate alla difesa dagli Usa. «Elder dice di avere un piano B qualora le cose si dovessero mettere male in seguito alla sentenza», senza però precisare quale sia. «Si rende conto che si è rovinato la vita e che gli dispiace» per il carabiniere, «ma lo dice adesso che sta assumendo psicofarmaci». Secondo i periti, il giovane sarebbe stato capace di intendere e di volere: «Ha più volte affermato - si legge nella perizia - che se avesse avuto cognizione che coloro che li hanno aggrediti erano operanti delle forze dell'ordine, non avrebbe avuto una simile reazione violenta». Intanto, in attesa della prossima udienza, prevista il 9 settembre, a un anno dall'omicidio, venerdì alle 21 si terrà una fiaccolata in memoria di Cerciello, in via Pietro Cossa, zona Prati. A organizzarla è il Sindacato Italiano Militare Carabinieri «per mantenere vivo il ricordo di Mario, della sua generosità e del suo altruismo».

Omicidio Cerciello Rega, Elder chiede scusa: “Non mi perdonerò mai”. Notizie.it 16/09/2020. Nel corso dell'udienza davanti alla Corte d'Assise il ventenne Finnegan Lee Elder ha chiesto scusa per l'omicidio dell'agente Mario Cerciello Rega. Finnegan Lee Elder, accusato dell’omicidio del vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega, ha chiesto scusa per la morte dell’agente avvenuta lo scorso 26 luglio 2019. Il ventenne statunitense, accusato di omicidio volontario assieme all’amico Gabriel Natale Hjorth, ha infatti spiegato durante l’udienza davanti alla Corte d’Assise di Roma di essere pentito per quanto fatto quella notte, da lui definita la peggiore della sua vita in una lettera che ha letto in aula. Il giovane, imputato per aver sferrato undici coltellate contro il vicebrigadiere Cerciello Rega durante una colluttazione per motivi di droga, ha così dichiarato in aula: “Voglio chiedere scusa a tutti, alla famiglia Cerciello e ai suoi amici. Al mondo intero. Quella notte è stata la peggiore della mia vita e se potessi tornare indietro per cambiare le cose lo farei ora, ma non posso”. Elder ha poi continuato spiegando che non si aspetta un perdono da parte della famiglia dell’agente per quello che ha fatto, ma spera almeno che un giorno ciò potrà accadere: “In carcere ho avuto la possibilità e il tempo di riflettere. Non voglio raccontare come si sono svolti gli eventi quella notte, perché già l’ho fatto nel corso degli interrogatori. Ma voglio dire che quella notte è stata la peggiore della mia vita, non perché sono in prigione, lontano da tutti. I motivi sono altri: ho tolto la vita di una persona, ho tolto un marito a sua moglie, ho rotto un legame tra fratelli. E ho tolto un figlio a sua madre. Non potrò mai perdonarmi tutto questo“. Il ragazzo ha infine concluso dicendo: “Tutto ciò che posso dire è che provo del rimorso. Ho dolore per le sofferenze che ho arrecato. Sono dispiaciuto e molto triste per ciò che è successo a Cerciello”.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 24 settembre 2020. Colpito di sorpresa e cosciente fino alla fine. Non se l' aspettava Mario Cerciello Rega di trovarsi in pericolo. Non ha avuto nemmeno il tempo di accennare una reazione. Undici colpi lo hanno piegato, uno dopo l' altro, e portato alla morte per shock emorragico irreversibile. Non è riuscito nemmeno a pararsi istintivamente con le mani. Due colpi, e in parte un terzo, hanno fatto affondare la lama fino al manico del pugnale. È morto così il carabiniere ucciso a Roma il 26 luglio 2019. Gli ultimi istanti di vita sono descritti nelle pagine dell' autopsia. Sono le 3 e 13 minuti. In via Gioacchino Belli, zona piazza Cavour, si presenta l' auto civetta di Cerciello Rega e del collega Andrea Varriale. A bordo c' è pure Sergio Brugiatelli, l' uomo che ha denunciato un' estorsione dopo aver subìto il furto dello zaino. I due carabinieri scendono e si avvicinano ai presunti estorsori, i diciannovenni californiani Elder Finnegan Lee e Gabriel Christian Natale Hjorth, ora a processo per omicidio volontario. Brugiatelli resta vicino alla macchina. Sente le urla. Tre minuti dopo, le telecamere inquadrano i due fuggire. Pochi interminabili minuti. Abbastanza per sferrare quei fendenti profondi e mortali. Il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega è morto dissanguato per i colpi sferrati da Finnegan. È netto Andrea Grande, il medico legale della Sapienza che ha esaminato il corpo, e che ha raccontato in aula quella morte orribile: «Undici colpi sferrati per lo più sui laterali, da sinistra a destra, compresi due minori alle braccia». Tutte le lesioni sono state profonde. In due casi è penetrata la lama per intero fino all' impugnatura. Sul corpo di Cerciello è stato trovato anche il segno del paramano. In un terzo caso la lama è arrivata alla colonna vertebrale. L' altezza dei colpi permette di ricostruire le posizioni durante la lotta. Cerciello e Finnigan (che poi confesserà) sono vicini: una trentina centimetri, quasi corpo a corpo. I colpi si concentrano sui laterali all' altezza del torace probabilmente perché chi colpisce non ha abbastanza spazio di manovra, spiega infatti il medico legale: «Molto probabilmente l' azione è iniziata in piedi, erano uno di fronte all' altro, le prime tre o quattro coltellate sono state sferrate sul fianco sinistro. Le più violente». Il carabiniere ha sicuramente percepito che stava per morire. La pm Maria Sabina Calabretta chiede se l' aggressore abbia ferito a morte utilizzando due mani. «Non si può escludere», secondo il consulente. Un dato è certo: «Cerciello era ancora vivo fino all' ultima coltellata». È arrivato in ospedale in condizioni disperate, «con una emorragia altissima». «L' azione lesiva parla chiaro - specifica il medico - La violenza è evidente». Sono state due però le coltellate a determinare «l' accelerazione dello shock emorragico»: una che passando dall' ascella ha reciso l' arteria, e l' altra all' emitorace sinistro. Per Cerciello in quel momento si sono chiuse le speranze.

Roma, omicidio Cerciello. La moglie racconta l'ultimo addio: "Gli ho chiuso gli occhi e l'ho baciato". Al processo la donna ripercorre la sua storia d'amore con il carabiniere ucciso dai due americani. "Quella notte ci eravamo sentiti due volte, mi aveva promesso che saremmo andati al mare la domenica". Il giovane accusato dell'assassinio si alza e abbandona l'aula. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 10 ottobre 2020. Dal corteggiamento al momento in cui gli ha chiuso gli occhi su un lettino di ospedale e lo ha salutato per l’ultima volta. Ieri al processo per la morte del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega è stata sentita la moglie, Maria Rosaria Esilio. Una testimonianza commovente in cui la donna ha ripercorso la sua vita accanto alla vittima in una ricostruzione di dolore, dignitoso e sincero. Tanto che uno dei due imputati, Finnegan Lee Elder, il ragazzo che ha inferto al militare le 11 coltellate che lo hanno ucciso, ha lasciato l’aula, visibilmente scosso ( la Corte ha respinto la richiesta di domiciliari avanzata dalla sua difesa). «Ricordo mio marito sul lettino di ospedale, con un lenzuolo addosso, gli ho dovuto chiudere gli occhi perché me lo avevano ucciso. Gli ho dato l’ultimo bacio. Sono rimasta un po’ sul suo letto per l’ultima volta, poggiandomi con la testa sul suo petto, come quando ci addormentavamo. Mi aveva promesso che la domenica saremmo andati al mare». La donna ha raccontato di una storia d’amore iniziata nel 2010. «Mi aveva fatto una corte spudorata e mi disse subito che voleva sposarmi. Un amore vivo e completo, fatto di tanti sacrifici per costruirci un futuro. Ho conosciuto Mario l’anno dopo che aveva perso suo padre. Si è dovuto assumere responsabilità che non sono quelle di un ragazzo di 26 anni. Chiunque ci parlava, anche per poco, sapeva che poteva contare su di lui. Mario era un uomo all’antica, un uomo di valore, riusciva a esserci per tutti. Era un carabiniere, un punto di riferimento per tutti, si dedicava agli ultimi e ai senza tetto. Ci siamo sposati il 13 giugno 2019, abbiamo coronato un sogno. Ci eravamo riusciti, finalmente, eravamo una famiglia. Eravamo complementari. In viaggio di nozze siamo andati in Madagascar». La sera della tragedia, il 26 luglio 2019, «siamo stati a casa fino alle 23. Ho preparato gli abiti, il portafoglio con manette nel suo pantalone jeans e maglietta di cotone. Mario aveva un borsello, come sempre. Le manette e il portafoglio le portava nella tasca anteriore e posteriore». E a quel punto, la donna ha mostrato il portafogli e il distintivo ancora sporchi di sangue, spiegando che li aveva con sé quella sera. «Nel corso della notte ci siamo sentiti due volte, poi alle 4 del mattino mi ha chiamato mio cognato Paolo dicendomi che era successo qualcosa a Mario. Ho preso un taxi e sono andata al Santo Spirito, avevo con me solo un rosario. Mi hanno spiegato che lo stavano operando, poi è uscito un infermiere e mi ha dato i suoi oggetti, la fede, una catenina con crocifisso e un bracciale. Ho atteso sui gradini di una scala. Sul muretto notai le manette di Mario, volevo prenderle ma mi hanno detto che non potevo». 

I Casamonica aggrediscono la Iena Di Sarno e l'autore: distrutti i materiali. Le Iene News il 20 ottobre 2020. Alessandro Di Sarno e Vincenzo Mauro erano andati da Nando Casamonica per capire come mai, come si vede in un video pubblicato sul suo profilo Instagram, avesse fatto guidare a un bambino la macchina pubblicando poi il video. La situazione però è presto degenerata. Non perdetevi il servizio in onda mercoledì sera a Le Iene. “Ci hanno aggredito e immobilizzato”. La Iena Alessandro Di Sarno ci racconta cosa è successo sabato 17 ottobre mentre, assieme all’autore Vincenzo Mauro, stava girando un servizio a proposito di un video pubblicato sul profilo Instagram di Nando Casamonica in cui l’uomo fa guidare la macchina a un bambino appartenente alla famiglia. Iena e autore sono andati quindi nel quartiere Romanina, a sud est della capitale. “Siamo andati da Nando per capire cosa l'avesse spinto non solo a far guidare la macchina a un bambino, ma anche a pubblicare quel video come fosse un trofeo”, spiega la Iena. “Ci hanno aggredito”, continua Di Sarno. “Hanno immobilizzato l’autore e hanno estratto tutte le schede dalle telecamere distruggendole”. “Una signora mi ha strappato la telecamera di mano rompendo i microfoni”, spiega l’autore. Come potete vedere nel video qui sopra, mentre la donna tenta di strappare la telecamera all'autore, un uomo alle sue spalle lo insegue con un manico di scopa. Quest'uomo è Guerino Casamonica, padre di Nando, che noi de Le Iene avevamo conosciuto due anni fa quando Ismaele La Vardera lo aveva intervistato entrando nella lussuosa residenza del clan. Sabato la polizia è intervenuta sul posto e Alessandro Di Sarno e Vincenzo Mauro nella notte hanno rilasciato alla polizia dichiarazioni su quanto accaduto. “Per fortuna inspiegabilmente una scheda è rimasta nella telecamera che ha filmato tutto”, dice la Iena. Qui sopra potete vedere una parte del materiale che siamo riusciti a salvare dall'aggressione e che vi mostreremo per intero mercoledì sera a Le Iene dalle 21:10 su Italia1. 

Dagospia. Anticipazione da “Striscia la Notizia” il 19 ottobre 2020. A Ostia si è consumato l’ennesimo capitolo della battaglia che vede Vittorio Brumotti impegnato per liberare le piazze italiane dallo spaccio di droga. «Qui comandano i clan Spada e Fasciani, interi palazzi sono stati trasformati in piazze di spaccio», commenta Brumotti che, intervenuto in sella alla sua bici per “riappropriarsi” del territorio, è stato minacciato e insultato. Il tempestivo intervento delle Forze dell’Ordine – che hanno perquisito e portato in caserma i pusher per accertamenti – ha evitato che la situazione prendesse una piega ancor più pericolosa. Questa volta, per l’inviato in bicicletta nessuna aggressione, ma dopo la sua incursione sono arrivate pesanti minacce di morte sui profili social e persino sul suo telefono privato. Il servizio andrà in onda stasera su Canale 5 (ore 20.35).

Iena e autore aggrediti dai Casamonica: ecco come è andata. Le Iene News il 21 ottobre 2020. Alessandro di Sarno e il suo autore si erano recati nel quartiere Romanina della capitale per parlare con Nando Casamonica del video da lui pubblicato sui social in cui si vede che fa guidare la macchina in strada a suo nipote di poco più di dieci anni. Ma la famiglia non ha preso benissimo la nostra visita. Parte intanto un nuovo abbattimento delle villette abusive dei Casamonica a Roma. Alessandro di Sarno e il suo autore Vincenzo Mauro sono stati aggrediti dai Casamonica, che hanno rotto i nostri microfoni e preso le schede con le registrazioni. Una però si è salvata e ha ripreso tutto: vi mostriamo cosa è successo. Intanto mercoledì 21 ottobre è scattato all’alba un nuovo abbattimento delle villette abusive dei Casamonica a Roma. La Iena e l’autore si trovavano nel quartiere Romanina, nella periferia est della capitale, fortino dei Casamonica. Siamo andati lì per parlare con Nando Casamonica, che qualche giorno fa ha pubblicato sul suo profilo Instagram un video in cui si vede il nipote, che avrà poco più di dieci anni, guidare per strada una Smart come se fosse la cosa più normale del mondo. Quando però Alessandro Di Sarno è andato a cercare Nando, detto Christian, la famiglia Casamonica non l’ha presa benissimo. Non è la prima volta che incontriamo dei Casamonica. Qualche anno fa Ismaele La Vardera aveva incontrato proprio Christian, quando era uscita la notizia di un maialino bebè che andava indisturbato per le strade della Romanina. Il maialino era proprio suo! E anche il papà di Nando, Guerino, è una nostra vecchia conoscenza. Ci aveva aperto le porte di casa sua quando, non lontano da lì, la sindaca Virginia Raggi stava facendo demolire otto ville abusive dei suoi parenti. E anche stavolta volevamo tranquillamente andare a parlare con loro. Ma non è finita benissimo. Quando la Iena dalla strada intravede Nando in casa e gli chiede perché abbia fatto guidare la macchina al nipote, papà Guerino, che si trova ai domiciliari per estorsione, esce di casa armato di scopa urlandoci di andare via. Esce anche una signora, che strappa la telecamera al nostro autore. “Ti fai i soldi perché ho fatto guidare la macchina a mio nipote?”, urla Nando uscendo di casa. “Cancella quel video e fai finta che non è successo niente. Perché mi devi mandare in tv?”. La donna strappa il microfono della Iena spezzandolo in due. Oltre alla telecamera perdiamo così anche l’audio! Per fortuna una delle schede nelle telecamere si è salvata e possiamo così mostrarvi cosa è successo. E pensare che noi volevamo soltanto mostrare a questa famiglia che un adulto, qualsiasi sia il suo ruolo, dovrebbe essere un modello per i più giovani, e che fargli guidare una macchina per il quartiere non è gran che educativo!

Striscia la Notizia, gli immigrati aggrediscono Brumotti: calci e sputi. Aldo Garcon martedì 13 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Vittorio Brumotti ancora una volta aggredito per i suoi servizi. Il tg satirico di Antonio Ricci ha mandato in onda su Canale 5 il servizio girato da Brumotti a Parco Sempione a Milano. Dopo le tantissime segnalazioni dei cittadini esasperati, Brumotti è andato nello storico parco milanese per girare un filmato. Durante il suo reportage l’inviato si è trovato di fronte a spaccio di droga in pieno giorno e come se ciò non bastasse, davanti a bambini e famiglie. E ancora una volta Brumotti è stato “accolto” dagli immigrati con lancio di pietre e sputi. Tant’è che l’inviato di Striscia è stato costretto a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine che sono poi riuscite ad identificare gli spacciatori. Uno di loro ha addirittura mostrato ai poliziotti il biglietto da visita del suo avvocato. «Non sono persone che tirano a campare, ma ‘soldati’ di un’organizzazione efficiente», ha commentato il biker. L’inviato di Striscia la Notizia era all’opera per documentare in incognito l’attività di pusher e criminali nella periferia est di Roma. «Una vera e propria organizzazione criminale comandata dalla mafia», aveva spiegato l’inviato durante il suo “tour”. La sua visita però, anche se richiesta da moltissimi cittadini che vorrebbero “riappropriarsi” del territorio, non era stata gradita da alcuni. «Ti faccio ingoiare la telecamera, pezzo di m…».  C’era stato anche chi aveva sputato contro il suo furgone e chi aveva colpito il mezzo in movimento con una manata. Immediato l’intervento delle forze dell’ordine che hanno perquisito e portato in caserma alcuni spacciatori.

Da "blitzquotidiano.it" il 6 ottobre 2020. Vittorio Brumotti aggredito a Tor Bella Monaca mentre documenta lo spaccio. L’inviato di “Striscia la Notizia” documenta in incognito l’attività di pusher e criminali nella periferia est di Roma. “Una vera e propria organizzazione criminale comandata dalla mafia”, spiega Brumotti durante uno dei suoi “tour”, quelli che l’hanno reso famoso in tv. Tor Bella Monaca è uno dei quartieri della Capitale considerati “difficili”.  I pusher presenti nel quartiere hanno reagito all’incursione di Brumotti con frasi del tipo “ti faccio ingoiare la telecamera, pezzo di m…”. Tra gli aggressori c’è anche chi sputa contro il suo furgone, gesto molto pericoloso di questi tempi per via del Covid e colpisce il mezzo in movimento con una manata. Vittorio Brumotti aggredito a Roma. Alcuni spacciatori sono stti  portati in caserma dalle forze dell’ordine intervenute tempestivamente in difesa di Brumotti. 

Le aggressioni a Brumotti. Alcune delle aggressioni a Brumotti sono salite alla cronaca. Il 2 dicembre 2017 , l’inviato è stato minacciato con spari di pistola e il lancio di un mattone durante un servizio sullo spaccio di droga che avviene nel quartiere San Basilio di Roma. Brumotti è stato aggredito da alcuni spacciatori nella piazza davanti alla stazione Centrale di Milano. L’aggressione ha coinvolto anche la sua troupe ed è avvenuta il 9 gennaio 2018. Il 25 febbraio 2018, nel quartiere Zen di Palermo, dove alcuni abitanti gli hanno lanciato un pesante blocco di cemento da un balcone.

Calci, pugni e spintoni: aggredita un'altra troupe di Striscia la Notizia. Ennesima aggressione ad una troupe di Striscia la Notizia mentre stava realizzando un servizio sui parcheggiatori abusivi. Roberta Damiata, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Dopo il gravissimo fatto delle coltellate ricevute dall’inviato di "Striscia la Notizia" Vittorio Brumotti rimasto miracolosamente illeso, un’altra troupe di “Striscia” è stata aggredita. Si tratta della giovane inviata Erica senza k, che stava facendo insieme alla sua troupe un servizio a Cosenza. Erica si trovava nei pressi dello stadio per realizzare un servizio sui parcheggiatori abusivi che si affollano nei pressi della struttura durante le partite. Sono bastati pochi secondi e qualche domanda per far degenerare la cosa. Erica infatti si è “permessa” di chiedere spiegazioni ad alcuni di questi posteggiatori che stazionano allo stadio chiedendo soldi in cambio di parcheggi che sarebbero invece gratuiti, quando uno di questi si è avventato sulla troupe per evitare di essere ripreso dalle telecamere. Questo parcheggiatore abusivo ha quindi preso per la gola uno degli operatori sbattendolo poi violentemente contro alcune auto. L'inviata Erica, nonostante lo spavento, è intervenuta nella colluttazione per cercare di fermare la furia di quest’uomo, rischiando di farsi seriamente male. Fortunatamente il tutto è durato solo pochi minuti grazie all’intervento delle forze dell’ordine presenti nei pressi dello stadio che hanno fermato gli aggressori e richiesto le immagini girate. Arrivati in ospedale la prognosi per i due operatori e per Erica è stata di 7 giorni. Dal referto medico all'inviata è stata diagnosticata una cervicale e lombalgia postraumatica, oltre ad una distorsione al ginocchio e alla caviglia sinistra. Uno degli operatori invece, ha un trauma mandibolare, distorsione cervicale, contusione lombare e distorsione al ginocchio destro, mentre all’altro è stata diagnosticata una distorsione cervicale, un trauma cranico e una contusione alla coscia sinistra. Subito dopo il grande spavento, Erica ha raccontato direttamente dall’ospedale di Cosenza, dove si sono recati per il primo soccorso come è andata l’aggressione: “Mentre eravamo in azione è accaduto quello che non volevamo assolutamente che succedesse. Sei sono avventati sulla troupe, ci sono stati calci, pugni, attrezzatura danneggiata, ed ora siamo in ospedale proprio per fare dei controlli, ma per fortuna stiamo bene e abbiamo filmato tutto”. Quello che vi mostriamo sotto è uno dei momenti più concitati dell'aggressione, mentre il video integrale andrà in onda su "Striscia la Notizia", che purtroppo ha visto più di un suo inviato ferito nel compimento del proprio lavoro di informazione.

Paura per l'inviato di Striscia: Brumotti accoltellato a Monza. È fortunatamente uscito illeso Vittorio Brumotti da un'aggressione con un coltello che soltanto per un miracolo non ha avuto gravi conseguenze. Roberta Damiata, Domenica 12/01/2020, su Il Giornale. Non è la prima volta che succede, ma speriamo che questa sia veramente l’ultima perché lo spavento che l’inviato di “Striscia la notizia” Vittorio Brumotti e il suo cameraman hanno preso oggi a Monza è stato veramente grande. Brumotti, come riportato da un quotidiano locale, si trovava da ieri a Monza per documentare la situazione legata allo spaccio di droga in alcune zone della città. Poco prima dell’aggressione si trovava all’altezza dei giardinetti di via Azzone Visconti, zona molto nota per lo spaccio, nonostante la massiccia presenza e i numerosi controlli delle forze dell’ordine. Verso le 14, mentre giravano il filmato i due sono stati aggrediti da alcune persone armate di coltello. Fortunatamente, vista l’estrema delicatezza del servizio, sia Brunotti che il suo cameraman indossavano un giubbotto antiproiettile, avvertenza questa che ha salvato la vita all’inviato di Striscia la notizia. La coltellata infatti, è riuscita a lacerare solo la stoffa del giubbotto senza raggiungere per fortuna in petto. Un colpo che se fosse andato a segno, avrebbe provocato una ferita gravissima se non la morte dell'inviato. Il cameraman invece è stato colpito ad una gamba zona purtroppo non protetta, ma non si hanno notizie gravi del suo stato di salute. Sul posto sono intervenuti immediatamente la Croce Rossa e agenti della Polizia di Stato, ma gli aggressori, di cui al momento non è stata resa nota la nazionalità, erano già in fuga. Da tempo il campione di "Bike Trial", si è specializzato nei servizi sulle zone dello spaccio, e come dicevamo - purtroppo - non è la prima volta che viene aggredito dagli spacciatori disturbati dalla sua presenza e soprattutto dalle telecamere. A settembre fu aggredito a Pescara nel quartiere Rancitelli, noto come “Ferro di Cavallo”, anche questa piazza di spaccio. Solo un mese dopo, ad ottobre, a Campo Marzio (Vicenza), e nel 2015 mentre era in bicicletta insieme al padre l’ennesima aggressione mentre percorrevano insieme il tratto provinciale tra Torino e Bardinetto, in provincia di Savona. Su questa ultima vicenda è intervenuto anche l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini che ha condiviso la notizia su Twitter: “Tutta la mia solidarietà a @brumottistar e alla troupe di @Striscia per la vile aggressione subita. Spacciatori delinquenti maledetti”.

Su WhatsApp posti di blocco su e insulti agli agenti Il Gip: non è reato. Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 da Corriere.it. Avevano formato un gruppo WhatsApp con un centinaio di iscritti che venivano avvertiti sui posti di blocco sulle strade della Valle Scrivia. E in più condivano gli avvisi con insulti contro carabinieri e poliziotti. Denunciati, il giudice per le indagini preliminari di Genova Luisa Avanzino ha archiviato l’inchiesta, decidendo che il gruppo sui social non costituiva reato perché c’è stata alcuna interruzione di servizio pubblico. E anche le invettive contro le forze dell’ordine non costituiscono vilipendio. I 49 ragazzi denunciati (difesi dagli avvocati Matteo Carpi, Nicola Scodnik, Alessandro Costa e Barbara Costantinio) avevano messo in piedi una maxi chat. Lo scopo era quello di segnalare posti di blocco per evitare di incappare in multe e sospensioni della patente se si fosse alzato il gomito durante la serata. Secondo il gip, però, la creazione del gruppo non avrebbe «comportato alcuna alterazione del servizio che è sempre stato svolto regolarmente, considerato il numero di utenti della strada e il numero comunque limitato dei partecipanti alla chat». Per il giudice, inoltre, non vi sarebbe alcun vilipendio «pubblico» visto il carattere «chiuso della chat e quindi della conversazione».

WhatsApp, fare un gruppo per segnalare posti blocco non è reato. Avevano messo in piedi una maxi chat a cui partecipavano oltre un centinaio di persone. Lo scopo era quello di segnalare posti di blocco per evitare di incappare in multe e sospensioni della patente se si fosse alzato il gomito durante la serata. In 49 sotto inchiesta ma il giudice archivia. Ecco perché. La Repubblica il 25 gennaio 2020. Formare un gruppo WhatsApp per avvisare i partecipanti dei posti di blocco delle forze dell'ordine non è reato e non c'è alcuna interruzione di servizio pubblico. Quanto alle invettive e agli insulti che scorrevano in chat contro carabinieri e poliziotti, per la legge non sono vilipendio. E' quanto sostenuto dal giudice per le indagini preliminari Luisa Avanzino che ha archiviato l'inchiesta che vedeva indagati 49 ragazzi della Valle Scrivia. I ragazzi avevano messo in piedi una maxi chat a cui partecipavano oltre un centinaio di persone. Lo scopo era quello di segnalare posti di blocco per evitare di incappare in multe e sospensioni della patente se si fosse alzato il gomito durante la serata. Le segnalazioni, in alcuni casi, erano accompagnati da epiteti e insulti. Secondo il gip, però, la creazione del gruppo non avrebbe "comportato alcuna alterazione del servizio che è sempre stato svolto regolarmente, considerato il numero di utenti della strada e il numero comunque limitato dei partecipanti alla chat". Per il giudice, inoltre, non vi sarebbe alcun vilipendio 'pubblico' visto il carattere "chiuso della chat e quindi della conversazione".

Le forze dell’ordine hanno il taser, tutti i rischi di un’arma pericolosa. Alessio Scandurra il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il 17 gennaio Il Consiglio dei ministri ha approvato in esame preliminare, su proposta del presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno, un regolamento che modifica le norme (dpr 5 ottobre 1991, n.359) sull’armamento e le munizioni in dotazione alle forze dell’ordine. In particolare il decreto prevede l’introduzione dell’arma comune ad impulsi elettrici (il cosiddetto Taser), la cui sperimentazione era stata autorizzata in 12 città italiane a partire dal 2014. Dunque la sperimentazione è conclusa ed il Taser ha avuto il via libera. Ma cosa sappiamo del Taser? Sappiamo ad esempio che, secondo un’indagine della Reuters pubblicata nel 2017, il Taser da quando viene utilizzato ha provocato nei soli Stati Uniti oltre mille morti, ed è stato utilizzato nel 90% dei casi nei confronti di persone disarmate. La stessa azienda americana che lo produce – la Taser International Incorporation, da cui deriva il nome dell’arma – interrogata sulla potenziale pericolosità, ha dichiarato che esisterebbe un rischio di mortalità pari allo 0,25%, una persona su 400. E il rischio sarebbe notevolmente più alto per persone affette da patologie cardiache o neurologiche, o il cui cuore sia in quel momento sottoposto ad un particolare sforzo. Ma stiamo parlando di malattie o condizioni impossibili da riconoscere al primo sguardo. Dunque come dovrebbe fare l’operatore di polizia a sapere su chi non usare il Taser perché troppo pericoloso? Altra cosa che sappiamo è che e alcuni organismi internazionali, tra cui la Corte Europea dei Diritti Dell’uomo ed il Comitato Onu per la prevenzione della tortura, si sono espressi relativamente alle pericolosità di quest’arma e il rischio di abusi che l’utilizzo può comportare. Il modello adottato per la sperimentazione italiana è lo X2 della Axon, un’evoluzione del modello X26 che le Nazioni Unite avevano giudicato equiparabile a uno strumento di tortura. Le preoccupazioni dunque sui rischi legati all’uso di quest’arma sono molte e gravi. Ma, anche rispetto a questo, cosa ha aggiunto la sperimentazione italiana? E più in generale, cosa sappiamo di questa sperimentazione? L’uso del Taser nelle 12 città in cui è stato sperimentato ha messo a rischio l’incolumità o la salute delle persone su cui è stato usato? Si sono verificati incidenti? E, per altro verso, è servito a qualcosa? Ha consentito un minor ricorso alle armi da fuoco? Ci sono evidenze empiriche su questo? E ha di conseguenza ridotto il numero di incidenti legati alle armi da fuoco? O ha consentito una migliore gestione delle operazioni di polizia? La verità è che di questa sperimentazione non sappiamo un bel nulla. Non sappiamo in cosa sia consistita, non sappiamo quali informazioni ci avrebbe dovuto consentire di raccogliere e non sappiamo se lo ha fatto. Sappiamo che è conclusa e tanto ci dovrebbe bastare per darne un giudizio positivo e dotare le forze dell’ordine di questa nuova arma. Come se l’aver sostenuto un esame sia di per se prova che è andato bene, a prescindere dal suo esito. Perché alla fine dei conti, e questa probabilmente è la vera assunzione di fondo dietro questa iniziativa, un arma in più in dotazione delle polizie non può che essere una buona notizia. Come se la sicurezza dei cittadini fosse direttamente proporzione alla quantità degli armamenti delle forze dell’ordine. Seguire l’esempio americano proprio su questo terreno, quello della gestione dell’ordine pubblico e del contrasto al crimine, è in realtà una scelta scellerata. Nessun Paese europeo, meno che mai l’Italia, conosce i tassi di criminalità, e di criminalità violenta, degli Stati uniti. Eppure i cittadini americani spesso dichiarano di non voler venire in Europa per paura del crimine, e spesso gli europei favoleggiano della severità e dell’efficacia della polizia americana. Tutti cullati da una fantasia malsana sul potere rassicurante dell’uso della forza, fantasia che rischia di alimentare, anziché contenere, il ricorso alla violenza. Forse sarebbe bene che, proprio su questi temi, l’Italia avviasse una vera sperimentazione.

"Dovremo aspettare ci sparino in testa". I dubbi dei poliziotti sul taser. Il Cdm ha dato il via libera all'uso del taser per la polizia. Sindacati soddisfatti, ma preoccupati per le linee guida: "Rischia di essere una trappola". Giuseppe De Lorenzo, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. Il Consiglio dei ministri ha appena dato il via libera definitivo all’introduzione del Taser, che già qualcuno storce il naso. E non tanto per la decisione, apprezzata da quasi tutti, di permettere ai poliziotti di usare la pistola elettrica. Quanto per l'incognita sul "come" il potrà essere utilizzata dai tutori dell’ordine. Quello che preoccupa gli operatori è il "regolamento" che determinerà l'ambito di applicazione della nuova arma. Per Valter Mazzetti, segretario dell'Fsp Polizia, su questo fronte "possiamo solo esprimere forti critiche" perché "per come lo conosciamo" oggi "rischia di tradursi nell'ennesima trappola" per i poliziotti. Domenico Pianese, segretario del Coisp, esprime invece "molte perplessità". E anche il Silp Cgil chiede "un protocollo operativo che dica con chiarezza quando e come usare" la pistola. Il fatto è che, al momento, nessuno conosce nei dettagli come sarà strutturato il nuovo regolamento. Il Consiglio dei ministri nel comunicato ha solo citato "l'introduzione, per il personale adeguatamente addestrato, dell'arma comune ad impulsi elettrici". E ci ha tenuto a precisare che il suo impiego "dovrà sempre avvenire nel rispetto delle necessarie cautele per la salute e l'incolumità pubblica". Ma non ha aggiunto ulteriori dettagli. Neppure i sindacati di categoria, per ora, godono di informazioni più dettagliate. "Non siamo stati coinvolti né ascoltati", lamenta Pianese. Non resta dunque che rifarsi alle ultime disposizioni applicate. La sperimentazione del taser, infatti, era stata avviata nel 2018 quando Matteo Salvini risiedeva al Viminale. Per l'occasione vennero redatte delle linee guida "tecnico-operative" per definire le procedure da seguire in casi di impiego della pistola. Su queste basi sono stati redatti il "Manuale tecnico operativo" e il vademecum del "corso Taser X2" di addestramento. Il contenuto delle linee guida sollevò "diverse perplessità". Prima di poter sparare, infatti, il poliziotto deve mostrare l'arma senza impugnarla nella speranza di "far desistere il soggetto dalla condotta in atto". È una sequenza di avvertimenti sia orali che visivi. Se il malvivente non si convince e "la condotta aggressiva persiste", allora "i puntatori laser del tiro possono essere indirizzati sul soggetto come deterrente". Ma attenzione: non si può premere subito il grilletto, per carità. Prima va utilizzato il "pulsante warning arc" per far vedere (e udire) "il crepitio dell’arco voltaico". Solo a quel punto, se il bandito continua ad attaccare, allora l'operatore può sparare il primo "colpo". Sempre che con tutta la trafila il poliziotto non venga abbattuto per primo. Il guai, se così possiamo chiamarli, erano però contenuti al punto 5, quello sulle "precauzioni" da adottare. La decisione di utilizzare il Taser infatti non può essere presa così su due piedi. Il poliziotto, tra le altre cose, deve valutare "il contesto dell’intervento" e soprattutto "i rischi associati con la caduta" di chi viene colpito. "Queste condizioni - attacca Pianese - non sono sostenibili quando di fronte ti trovi una persona in stato di alterazione che tira fendenti con un coltello". L'Fsp, infatti, aveva chiesto alcune modifiche alle linee guida, sostenendo potessero esporre i poliziotti "a facili ripercussioni legali". "In quei particolari contesti ben poco calmi - spiegava Mazzetti - l'operatore dovrebbe avere anche la serenità di verificare se lì vicino ci sia un marciapiede, un gradino o dei vetri che, in caso di caduta, potrebbero causare lesioni o traumi collaterali" al soggetto. Col rischio, se casca e si fa male, di beccarsi una denuncia o di finire indagato. Gli agenti speravano che alla fine della sperimentazione queste clausole venissero riviste. Al momento non è chiaro se le modalità operative rimarranno invariate. Giuseppe Tiani, segretario generale del Siap, sostiene che "saranno rinnovate sul piano formale", ma ad oggi non gli "risultano modifiche sul piano sostanziale". "Se restano quei protocolli operativi è una cosa abominevole - conclude Andrea Cecchini, di Italia Celere - Per usare il taser dovremo aspettare che prima ci sparino in testa".

Massimo Sanvito per ''Libero Quotidiano'' il 20 gennaio 2020. È un po' come avere la bicicletta ma senza i pedali. O un computer senza tastiera. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al taser, la pistola elettrica con cui la Polizia dovrebbe fermare i delinquenti immobilizzandoli con una scossa ma senza ferirli o ucciderli: ora è necessario superare il vaglio del Consiglio di Stato, poi tornare in Cdm per l' approvazione definitiva. E siamo tutti contenti perché la sicurezza merita attenzione. Se però agli agenti si fissano una sfilza di paletti per l' utilizzo dell' arma in questione, tanto che pare quasi si voglia spingerli a non usarla, allora siamo punto e capo. Si vogliono combattere i criminali o si vuole complicare ancor di più la vita alle forze dell' ordine?

LA SPERIMENTAZIONE. Nel decreto, proposto dal premier Conte e dal ministro Lamorgese dopo la sperimentazione andata a buon fine in dodici città d' Italia, si parla di «generale ammodernamento dell' armamento e del munizionamento in dotazione alla Polizia di Stato, in modo da adeguarlo alle attuali esigenze operative». Giusto. Però nei fatti sono destinate a rimanere solo parole. Perché quando gli agenti si troveranno costretti a usare la pistola elettrica, dovranno farsi mille calcoli mentali per evitare di finire nei guai e magari affrontare un processo. Il Dipartimento della Pubblica sicurezza, infatti, ha predisposto una serie di linee guida alquanto curiose. Per esempio, prima di sparare col taser i poliziotti dovranno "considerare i rischi associati alla caduta della persona". Tradotto: se un agente si trova davanti un pazzo che agita un coltello a destra e sinistra, dovrà valutare se la scossa possa provocargli dei danni e se cadendo a terra non possa farsi male. Tutto ciò in una frazione di secondo e nella concitazione di una situazione di pericolo. E se il balordo pesta la testa sul marciapiede e ci rimane secco? Potrebbe pure scattare l' accusa di omicidio preterintenzionale o addirittura colposo. Ma ci rendiamo conto? Visto e considerato che la responsabilità penale è personale, chi è disposto a rischiare un processo, soprattutto alla luce degli stipendi bassissimi che percepiscono le divise? «I limiti troppo stringenti per l' uso del taser rischiano di trasformare questa novità in un boomerang per le forze di polizia. Visto il regolamento che disciplina l' impiego dell' arma, allora meglio che non venga data», dichiara Domenico Pianese, segretario del Coisp, il sindacato indipendente di Polizia che da almeno vent' anni si batte per l' introduzione della pistola elettrica. Ad altre condizioni, però. Un altro problema di non poco conto è il fatto che gli agenti, per non avere guai, dovranno tenere pure conto della "visibile condizione di vulnerabilità" dei soggetti con cui si trovano a che fare. Un' assurdità evidente che tutela di fatto i delinquenti anziché le forze dell' ordine, sempre più con le mani legate. Com' è possibile fare valutazioni del genere in tempi strettissimi? I rischi, ovviamente, sono noti. «I poliziotti verranno esposti a richieste di indennizzo da parte dei soggetti colpiti dagli impulsi elettrici per eventuali lesioni riportate nella caduta e non valutate. E questo è inaccettabile», sottolinea Pianese. Nelle linee guida, inoltre, si specifica che la distanza consigliabile per un tiro efficace va dai tre ai sette metri, e soprattutto che la pistola "va mostrata senza essere impugnata, per far desistere il soggetto dalla condotta in atto".

RESTRIZIONI. Ma non è finita qui. Perché il taser, dal punto di vista normativo, è stato inquadrato come un' arma a tutti gli effetti, e quindi sottoposto a tutta una serie di restrizioni. Di fatto, anche se chiaramente non lo è, la pistola elettrica diventa un doppione della pistola d' ordinanza, già in dotazione agli agenti. «Proprio per questo è necessaria una norma ad hoc che inquadri il taser in modo specifico come strumento di dissuasione e non come arma», spiega il segretario del Coisp. Che nei prossimi giorni chiederà alla coppia Conte-Lamorgese di farsi ricevere perché venga rimessa mano al regolamento in modo efficace. «Il taser deve servire a tutelare sia gli operatori delle Forze di Polizia, per evitare che siano costretti ad utilizzare la pistola, sia chi deve essere bloccato in seguito a condotte criminali che mettono a rischio l' incolumità dei cittadini».

Allarme stalking a Milano: puniti in 26, tutti uomini tranne Sara Del Mastro. Le Iene News il 20 gennaio 2020. Su 170 misure emesse dal Tribunale nel 2019, tra divieti di avvicinamento e sorveglianza speciale, ben 26 riguardano il fenomeno in crescita dello stalking. Tutti a carico di uomini tranne quello per Sara Del Mastro, la donna che nel maggio scorso a Legnano ha gettato l’acido addosso a Giuseppe, il ragazzo che aveva frequentato. E che prima di essere aggredito aveva chiesto aiuto a Veronica Ruggeri. Allarme stalking a Milano: sono 26 le misure di prevenzione personale firmate in un anno, nel 2019, dal Tribunale di Milano. Il dato si riferisce solo ai soggetti, pressoché tutti maschi, accusati di stalking: l’unica donna è Sara Del Mastro, di cui vi abbiamo raccontato in esclusiva nel servizio di Veronica Ruggeri, che potete rivedere qui sopra. Le misure a carico di questi soggetti vanno dal divieto di avvicinamento ad alcune persone, obbligo di dimora e anche vera e propria sorveglianza speciale. Sono numeri che raccontano un fenomeno allarmante, e che provengono dalla Sezione autonoma misure di prevenzione del tribunale: delle oltre 170 misure complessivamente firmate nel 2019, ben 26 appunto riguardano ipotesi di stalking. Sara Del Mastro intanto, che lo scorso 7 maggio a Legnano ha sfregiato con l’acido l’ex fidanzato Giuseppe Morgante, andrà a processo con rito abbreviato subordinato a perizia psichiatrica. Le Iene si sono trovate a seguire il dramma praticamente in diretta con Veronica Ruggeri, che aveva appena intervistato i due per il lungo e allucinante stalking con 800 chiamate e messaggi al giorno a cui era stato sottoposto il 30enne, come potete vedere nel primo servizio qui sopra. Abbiamo pubblicato anche il filmato che ha girato pochi momenti prima dell’aggressione e abbiamo incontrato Giuseppe subito dopo in ospedale e nuovamente a fine ottobre. Era stato lo stesso Giuseppe a contattarci, esausto da quello stalking. I due ragazzi si erano frequentati per poco tempo, poi lei ha iniziato a perseguitarlo. Lo pedinava, gli tagliava le gomme della macchina, nonostante una denuncia. Agli occhi di Sara, lui era il più bello del mondo. Per questo forse ha voluto rovinare quella bellezza. Nonostante il nostro intervento, lei continuava a ossessionarlo. E lui iniziava a pensare al peggio. Tanto che la sera dell’aggressione, quando vede per l’ennesima volta la macchina di Sara che lo segue, ha un presentimento: “Che cazzo ha in testa, non è che mi butta addosso l’acido”, ha detto lui registrando un video 5 minuti prima di finire sfigurato. Subito dopo l'attacco Giuseppe viene portato d’emergenza al pronto soccorso e lei va a costituirsi dai carabinieri. In questi mesi Giuseppe Morgante si è sottoposto a quattro operazioni, come ci ha raccontato nel secondo servizio  Veronica Ruggeri (clicca qui per il video). La prima al viso, poi al petto e all’occhio destro. “Mi dicono che la retina, ma io vedo sfocato”, dice Giuseppe. Sotto al collo invece la pelle ustionata si è rimarginata in maniera sbagliata. E ha creato un grosso cordone nella cicatrice che tira il labbro. In questi mesi gli hanno fatto anche degli innesti di pelle prendendola da gambe e braccia per metterli sul petto, collo e faccia. Un calvario insomma. “Ora sento sul mio corpo come la cera delle candele che tira da ogni parte”, spiega Giuseppe quella sensazione che lo accompagna ormai da quasi sei mesi. La notte il giovane è costretto a mettere una maschera per tenere ferma la faccia e invece durante la giornata ha bisogno di un divaricatore in bocca. E poi c’è anche la fisioterapia, ma quella privata ha un costo. Come tutti gli interventi di chirurgia estetica che potrebbero sistemare i segni lasciati dall’acido. Lui ora non lavora e ad aiutarlo in qualche spesa c’è l’associazione del papà di Stefano Savi(sfigurato con l’acido da Martina Levato e Alexander Boettcher, ndr): “Mi hanno pagato loro, altrimenti erano 2mila euro. Sono tutte spese di cui ti devi far carico tu, non c’è nessuna assicurazione che ti copre”. Il suo auspicio è che questa vicenda si chiuda al più presto, intanto dovrà sottoporsi a un altro intervento. 

Leandro Del Gaudio per "Il Mattino" il 19 gennaio 2020. Fanno marcia indietro di fronte alla sassaiola di ragazzini, di fronte al lancio di pietre e bastoni. Decidono di non caricare il gruppetto di minorenni (alcuni dei quali addirittura under 14), di lasciare la zona con il passo del gambero, nello schiamazzo generale, tra le risate di scherno e le urla di vittoria degli stessi piccoli teppisti. È accaduto due notti fa nel cuore del Borgo di Sant'Antonio, dove ogni anno si ripete la vergognosa scena dei fuocarazzi, con cataste di legno date alle fiamme. A svelare cosa è accaduto tra venerdì e sabato notte, un video postato su facebook, che immortala la scena finale, quando la polizia ha già gettato acqua sul legno, impedendone la combustione e si trova a incassare la sassaiola dei ragazzini. Una fuga di fronte ai teppisti in erba? Prova a fare chiarezza il questore di Napoli Alessandro Giuliano: «Posso solo complimentarmi con i miei uomini per la straordinaria prova di freddezza e sangue freddo dimostrata in quei momenti. Condivido la scelta di non caricare un gruppetto di ragazzini, che nel frattempo sono stati tutti identificati e denunciati. Tirare pietre e bastoni contro la polizia è inaccettabile, chi si è reso responsabile di questi comportamenti ne risponderà di fronte alla giustizia». Ma cosa replica il questore di fronte alla ritirata di agenti in tenuta antisommossa? Non appaiono beffardi i cori di vittoria e le risate generali di un gruppetto di scalmanati contro agenti in divisa? Spiega ancora il questore: «C'è un prequel che non si vede nel video diffuso dai social: la polizia era già intervenuta a impedire le fiamme, bagnando le cataste di legno, come in altre zone della città. A quel punto l'operazione era terminata, non si poteva certo immaginare una carica di decine di agenti contro alcuni ragazzini. Ora le indagini sono in corso, tutti i responsabili saranno perseguiti penalmente». Un video choc, che sembra raccontare la Napoli della «paranza dei bambini» di Roberto Saviano. Un documento decisamente ad effetto, scovato e postato su facebook dal giornalista e consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli, che commenta così: «È questa la Napoli di domani? Fuori dal contesto in cui vivono i protagonisti di questa inaccettabile ribellione quale spazio e quale funzione potranno mai occupare e svolgere? Occorre fermarli, cresciuti in ambienti criminali siano tolti alle famiglie e rieducati nei luoghi giusti». Hanno i capelli rasati, scimmiottano slogan da stadio, si sentono padroni del vicolo. Tra di loro c'è chi fa un video con il cellulare, magari un po' deluso per non aver potuto immortalare l'ennesimo «fuocarazzo», grazie all'intervento preventivo delle forze di polizia. In modo inconsapevole fornisce con quel documento un assist formidabile agli inquirenti. Identificati alcuni teppisti, sono tutti della zona, tra di loro c'è chi appartiene a famiglie in odore di camorra.

Allarme suicidi nelle Forze dell’ordine: “Prendiamo calci da tutti e nessuno ci ascolta”. Elena Ricci sabato 18 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Sul tema dei suicidi nelle Forze dell’ordine  riceviamo e pubblichiamo un intervento di Elena Ricci. Sono stati ben 69 i suicidi tra gli uomini e le donne in divisa durante il 2019. Il 2020 è appena iniziato e già contiamo 4 vittime. Una situazione che potremmo definire un vero e proprio allarme e per la quale le varie amministrazioni, sembra non vogliano assumersi alcuna responsabilità. Perché non si parla dei suicidi tra le divise? Quali sono i veri problemi alla base di gesta così sconsiderate? Come mai a togliersi la vita sono i sottufficiali e la truppa? Dov’è lo Stato e perché i suoi uomini vivono questo malessere? Si è concluso da qualche ora un sondaggio lanciato una settimana fa, dalla community social “Puntato – L’App degli operatori di Polizia”. Il sondaggio, facendo riferimento proprio ai suicidi tra gli operatori di Polizia, chiedeva cosa fosse meglio per militari e poliziotti, tra stipendio più alto e serenità lavorativa. Al sondaggio hanno risposto in 2455: in 1931 (79%) hanno indicato serenità lavorativa, mentre i restanti 524 (21%) hanno indicato lo stipendio. Stando a quanto denunciano gli addetti ai lavori, è la serenità lavorativa a mancare, a poco servirebbero sportelli di ascolto che qualcuno, tra le persone che abbiamo ascoltato, definisce “un pulirsi la coscienza”. Per i militari i problemi di fondo sono altri: «Bisogna puntare davvero sul benessere del personale. Puntare molto sulla famiglia, aspetto economico, trasferimenti e nel caso di mancato trasferimento fornire sostegno di ogni genere. Questo avviene per la categoria Ufficiali che oltre ad uno stipendio interessante godono di ulteriori benefit importanti, tra cui alloggio, indennità di trasferimento, numero considerevole di straordinari», scrive un militare.

Suicidi, quello che nessuno vi dice. «Se ci fosse qualcuno ad ascoltarti e aiutarti, tante morti si potrebbero evitare. Invece no – scrive un altro operatore – ti etichettano come pazzo e ti lasciano solo». «La serenità lavorativa è importante – scrive un agente di polizia penitenziaria -. Io sono della penitenziaria, vi assicuro che è meglio andare in guerra che in sezione. Aggressioni, insulti, minacce, offese sono all’ordine del giorno. Se denunciamo noi finisce tutto a tarallucci e vino; ad una piccola accusa di un utente scattano indagini che neanche al pool antimafia fanno. Per non parlare della processione di politici finti buonisti. Basta vedere i casi successi nel recente passato». Ancora, un poliziotto della stradale scrive: «Da operatore posso dire che non siamo rispettati e tutelati. Io faccio viabilità e ricevo con i miei colleghi tanta maleducazione. Più responsabilità si hanno, più aumentano le grane». In tanti denunciano lunghe attese per i trasferimenti, come una delle cause di stress e malessere. Spesso occorrono circa 20 anni per potersi avvicinare ai propri affetti e per questo motivo, molto frequenti sono le separazioni tra coniugi. Ciliegina sulla torta, per quanto riguarda la mobilità nella Polizia di Stato, è stata la decisione del Capo della Polizia Franco Gabrielli di destinare il 30% di neo agenti appena usciti dalle scuole, in quelle province dove occorrono tantissimi anni in graduatoria per potervi giungere. Questo altro non fa che alimentare quel senso di impotenza e sconfitta che provano quanti, dopo anni e anni di servizio, non vedono realizzarsi i loro obiettivi di vita. Non solo, in tanti denunciano carenza di personale, turni sfiancanti e paura di fare la territoriale a causa del clima venutosi a creare per via di alcuni vicende giudiziarie spettacolarizzate e date in pasto ai media. Infatti qualcuno scrive: «I sottoufficiali e la truppa prendono calci da tutti! Dai superiori, dai Giudici, dallo Stato, dai criminali, dai politici, senza possibilità di tutela». I Servitori dello Stato lamentano l’assenza dello Stato. Si sentono abbandonati e senza tutele. E mentre qualcuno riflette su cosa sia più giusto tra usare la forza o subire la violenza del balordo di turno, qualcun altro l’arma se la punta alla tempia.

 "Io, tra centri sociali, tossici e sardine". Ma l'agente denuncia: "Quel tweet non è mio". La foto di un poliziotto utilizzata sul web a corredo di un messaggio controverso. E lui va dalla Polizia postale: "Hanno usato una mia foto di vent'anni fa". Rosario Di Raimondo il 18 gennaio 2020 su La Repubblica. In serata è andato a fare denuncia alla Polizia postale: "Sono io l'agente della foto - ha raccontato agli investigatori - ma non è mio né l'account né il tweet" contro "sardine e tossici" che da ore gira sul web. Si chiude così, in serata, il giallo di un messaggio postato su twitter dall'account "Claudio8013". Il post mostra un agente con distintivo al collo e la pistola in mano, ed è corredato da queste frasi: "Ragazzi, vi posto questa mia foto in un'operazione svolta proprio in quel di Bologna dove tra sardine centri sociali tossici e popolazione poco collaborativa non è proprio una passeggiata di salute". Digos e polizia Postale avevano avviato subito le indagini per identificare il presunto agente. E proprio dalle divise della Postale il poliziotto si è presentato in queste ore. Ha detto di essersi riconosciuto nella foto che lo ritrae, risalente a circa vent'anni fa, ma ha aggiunto di non avere niente a che fare né con l'account twitter che l'ha diffusa né con il messaggio incriminato, di cui ha disconosciuto la paternità. Il questore di Bologna, Gianfranco Bernabei, nel pomeriggio aveva spiegato a Repubblica: "Stiamo facendo degli accertamenti per stabilire prima di tutto se si tratta di un poliziotto e se, in seconda battuta, il sito è collegabile a lui. Si tratta di dichiarazioni inopportune, ma dobbiamo prima stabilire queste due cose. Come Polizia abbiamo delle disposizioni interne che impongono cautela nell'utilizzo dei social". Cautele che, se non rispettate, possono portare a provvedimenti di "rilievo disciplinare". Sul profilo twitter che ha diffuso il tutto, ci sono numerose foto e messaggi inneggianti alla polizia ed alle forze dell'ordine. Diverse le condivisioni di messaggi di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e di utenti di destra. La foto in bianco e nero postata col messaggio anti-sardine ritrae un uomo inquadrato dalle gambe fino all'altezza degli occhi, sorridente, in jeans e maglione, distintivo al collo e pistola nella mano destra. Nella stanza si vede un computer datato. Nei commenti seguiti al contestato tweet, "Claudio 80" sostiene che le sardine "amano l'illegalità. Aspetta che abbiano dei figli. Aspetta che facciano qualcosa a loro poi piangono con noi disperati". Nel pomeriggio erano stati diversi i politici che avevano chiesto chiarezza sull'episodio, da Emanuele Fiano del Pd a Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. 

Capotreno aggredita da un passeggero senza biglietto, la denuncia: "Nessuno è intervenuto". E' successo su un treno da Como a Rho all'altezza di Seregno venerdì. La donna lo ha invitato a scendere, l'uomo l'ha presa a pugni ed è fuggito. La Repubblica il 18 gennaio 2020. Una capotreno di 25 anni è stata aggredita a pugni su un convoglio, all'altezza di Seregno, in Brianza, e nessuno sarebbe intervenuto per difenderla. Lo riporta oggi La Provincia di Como. E' successo ieri su un treno partito alle 9.48 da Como San Giovanni in direzione di Rho (Milano). La Fit Cisl di Como denuncia che l'episodio è avvenuto tra l'indifferenza dei viaggiatori. Secondo quanto riferito dal sindacato, la capotreno si era accorta di un uomo, un italiano di mezza età che, sdraiato, occupava diversi posti a sedere. Lo ha invitato a sedersi normalmente, e al suo rifiuto, gli ha chiesto il biglietto, che non aveva. L'ha quindi accompagnato alla porta e alla fermata successiva, quella di Seregno, con il treno in frenata, è stata presa a pugni dall'uomo che subito dopo è sceso e si è dileguato in stazione. La donna ha riportato una prognosi di 10 giorni.

Da leggo.it il 18 gennaio 2020. Un professore avrebbe colpito con uno schiaffo un alunno, 15 anni, che si rifiutava di seguire la lezione nonostante i suoi richiami. L'episodio sarebbe avvenuto questa mattina in un istituto professionale di Firenze. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, allertati dal padre del ragazzo. Il docente, identificato dai militari, rischia una denuncia per abuso dei mezzi di correzione. L'alunno, visitato al pronto soccorso, è stato dimesso con una prognosi di tre giorni. Secondo quanto ricostruito, il prof avrebbe invitato più volte l'alunno a stare seduto al banco in maniera composta e poi, non avendo ottenuto risultati, lo avrebbe colpito con uno schiaffo. Il 15enne avrebbe subito avvisato dell'accaduto il padre, che ha chiamato il 112. I militari della stazione di Campo di Marte, intervenuti nella scuola, hanno compilato una segnalazione che adesso sarò inviata alla procura della Repubblica, che potrebbe indagare il docente per abuso dei mezzi di correzione, reato perseguibile d'ufficio. Anche la famiglia del ragazzo avrebbe annunciato l'intenzione di presentare una querela a carico dell'insegnante, attraverso un avvocato. Non è escluso che i carabinieri decidano di raccogliere le testimonianze degli altri studenti presenti nella classe per ricostruire la dinamica dei fatti.

Marco De Risi per “il Messaggero” il 23 gennaio 2020. Una lite condominiale non per i soliti rumori ma per un orologio a cucù in azione anche durante la notte. Un diverbio che, ieri mattina, poteva trasformarsi in tragedia per l'eccesso di un anziano di 77 anni che ha voluto farsi giustizia nei confronti del vicino, un operaio di 40 anni, che ha accoltellato ad una mano usando un serramanico. I fendenti sono volati verso le 7.30, nell'androne di uno stabile di via Paolo II, a Primavalle. Sono intervenuti i carabinieri: hanno bloccato l'anziano che era in compagnia della moglie. I militari hanno arrestato l'aggressore sequestrando, con una perquisizione domiciliare, il coltello con la lama ancora sporca di sangue. L'anziano è sfilato davanti al giudice per la Direttissima. Il togato ha convalidato l'arresto dei carabinieri ma, in attesa del processo collegiale, lo ha rimandato a casa che sebbene abbia dimostrato di essere pericoloso, continuerà a dormire nell'appartamento a fianco del vicino ferito. «Sono mesi - racconta l'operaio con una vistosa benda ad una mano, sette punti di sutura per la coltellata - che prego il mio vicino di abbassare il volume della televisione e anche di silenziare un orologio a cucù che sveglia mia moglie, incinta di cinque mesi, mio figlio piccolo e me nel cuore della notte. Devo andare a lavorare la mattina presto più volte abbiamo pregato marito e moglie di non fare rumore. Avevo fatto fare da un avvocato una lettera proprio sull'orologio a cucù che è attaccato proprio vicino alla nostra parete. Stamattina quell'anziano mi ha aspettato nell'androne vicino all'ascensore e mi ha accoltellato». Secondo una ricostruzione fatta dai carabinieri, l'operaio è uscito dall'ascensore e si è trovato davanti la coppia di anziani ai quali ha detto di non volere parlare con loro e che anche ieri notte la televisione era ad alto volume e poi era entrato in funzione l'orologio a cucù. A questo punto, il 77enne ha estratto un coltello con il quale si è avventato sulla vittima. «A me non è sembrato possibile che il vicino potesse avere una reazione del genere - commenta l'operaio -. Non volevo credere ai miei occhi. Gli ho bloccato la mano per impedirgli di colpirmi ma la lama mi ha portato via mezzo dito». La vittima ha dovuto portare dal medico la moglie che aspetta un bambino e ha avuto un malore. «Ora ho paura a rientrare in casa - aggiunge il 40enne -. Ma che giustizia è mai questa? Sono stato accoltellato sotto casa. Spero che tutto vada bene. Mi auguro che abbia compreso la gravità del gesto e che si sia ripreso». 

Da ilrestodelcarlino.it il 9 gennaio 2020. Si è svegliato ieri mattina con l’idea di dar fuoco al vicino di casa. E’ andato sotto le finestre del dirimpettaio urlandogli che aveva la tanica di benzina pronta all’uso. Voleva pure entrargli in casa ma l’altro si è barricato. E allora, un 77enne di Pesaro, con la casa in zona Celletta, non potendo portare a termine la sua «missione» ha deciso di andare direttamente in caserma dai carabinieri per protestare: «Senta maresciallo, io voglio dar fuoco al mio vicino ma non si fa trovare. Vuol dire che se continua a fuggire dovrò dar fuoco alla sua casa. Gli dica che si faccia trovare da me». A quel punto, il maresciallo si è fatto ripetere il tipo di protesta e dopo aver capito bene con chi aveva a che fare, ha chiamato immediatamente un’ambulanza del 118 per un ricovero in psichiatria del pensionato. Infatti sono arrivati i sanitari e con una certa pazienza hanno convinto il 77enne a salire nell’ambulanza per andare al pronto soccorso. Nel frattempo i carabinieri sono andati a casa del pensionato alla ricerca di taniche di benzina ed apparentemente non ce n’erano. Dal controllo delle denunce, gli inquirenti si sono accorti che il 77enne aveva denunciato per almeno dieci volte il vicino di casa che a sua volta aveva replicato con lo stesso numero di querele. Il pensionato con intenzioni incendiarie accusa il vicino di gettargli olio sulle scale per farlo scivolare mandandolo al Creatore, mentre viceversa l’altro contendente lo accusa di tentare di circuire la moglie. Con questo andirivieni di accuse, i due vicini di casa si stanno facendo la guerra da molti anni ma ieri per poco la contesa non saliva di grado. Ai sanitari del pronto soccorso, il 77enne ha raccontato la stessa storia riferita ai carabinieri, ossia che voleva incendiare vivo il vicino di casa ma non si fa trovare. Di fronte alla pacifica dichiarazione d’intenti, l’uomo è stato sedato e trasferito con urgenza nel reparto di psichiatria dell’ospedale per un ricovero coatto.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 17 gennaio 2020. Una finta perquisizione per rapinare in casa una prostituta. Era questo l'escamotage impiegato dalla banda dei poliziotti rapinatori. All'epoca, era il gennaio del 2014, gli agenti infedeli vennero arrestati dai colleghi ligi al dovere. Ieri, per gli ormai ex uomini in divisa, è arrivata la sentenza in primo grado per rapina: otto anni di carcere ciascuno per Corrado Martello, Roberto Cresci, Prisco Laurenti e Sergio Doria. Assieme a loro sono state condannate altre tre persone. I complici che gli facevano da palo durante il blitz illegale di cui fu vittima una escort. Una donna che nel suo appartamento venne travolta dalla prepotenza del gruppo. Spintonata, offesa e minacciata subì il furto di un migliaio di euro. L'atto di prepotenza va in scena a gennaio del 2014. Martello e Cresci sono poliziotti in servizio. Il primo è assistente capo, il secondo è sovrintendente. Gli altri due, Laurenti e Doria, erano già all'epoca ex agenti. Ad ogni modo la banda si presenta a casa della donna, in zona Tor Sapienza. Il blitz, secondo i quattro, è giustificato dal fatto che in quell'appartamento si spaccia. Quindi c'è droga. Gli uomini sfoderano i tesserini di servizio e li fanno vedere alla vittima. In bella mostra hanno le pistole d'ordinanza. Spintonano la donna. L'intimoriscono. «Facciamo venire i cani antidroga». Mettono sottosopra tutto ma degli stupefacenti nemmeno l'ombra. La donna, però, non ci sta. Li accusa di abusare del loro ruolo. Per tutta risposta la vittima viene chiusa in una stanza assieme al nipote minorenne. Nel frattempo, però, i poliziotti continuano a cercare. Alla fine trovano solo dei soldi. Un migliaio di euro. A questo punto i due poliziotti e i due ex agenti decidono di intascarsi tutto. La vittima, ovviamente, protesta. Non vuole essere derubata del denaro. I poliziotti fanno finta di niente e l'aggrediscono. La spingono tanto da procurarle cinque giorni di prognosi per «trauma, stato di agitazione e crisi ipertensiva». Alla fine vanno via, chiudono la porta dietro di loro. All'interno la vittima incredula piange, il nipote cerca di calmarla. Poco dopo intervengono i colleghi onesti. Arrestano il gruppo dei sette, mettendo fine a un terribile storia di illegalità.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 17 gennaio 2020. Berretti bianchi, dehors, e micromazzette. Un caso di tavolino selvaggio al contrario ha messo nei guai due vigili urbani del gruppo Sapienza, finiti ai domiciliari a novembre e ora a giudizio. I due, a differenza dei colleghi, spesso impegnati a smantellare i dehors abusivi, avevano chiesto appositamente a un ristoratore di San Lorenzo di tirare fuori tavoli e sedie e di apparecchiare per loro. «Metti i tavoli fori e famo la festa lì, no?». I due sono stati intercettati mentre in divisa e in servizio, il 10 giugno 2018, si preparavano a sedersi da “Pesce fritto e baccalà”. Un escamotage che avrebbe non solo assicurato un pranzo all’aperto non dovuto (una manifestazione in corso vietava a tutti i negozianti sedie e banchetti) ma anche fatto affluire altri clienti. Il comportamento dei due vigili è stato inquadrato dal pm Claudia Terracina, che indagava su un giro di corruzione tra i ristoratori di San Lorenzo, come un abuso d’ufficio. E per questo Marco D. e il collega Claudio F. si sono ritrovati con la misura cautelare. Per il secondo vigile, già condannato a 4 anni per aver preteso una mazzetta da “Franco al vicoletto”, un ristoratore della zona, la procura ha contestato di nuovo un caso di concussione. Avrebbe taglieggiato un cingalese gestore di un minimarket in via Lorenzo il Magnifico. «Il vigile - ha detto la vittima - si è presentato come un comandante di zona e mi ha detto: “Dammi dei soldi o comunque una contestazione per farti chiudere comunque la trovo», ha ammesso il commerciante. «Io gli ho detto che avevo pochi soldi e una bimba di sette mesi». La somma sottratta in più riprese: 230 euro.

Cosenza: maresciallo dei carabinieri sequestra e picchia il capitano che lo vuole trasferire. Ha aggredito il superiore, che guarirà in un mese, a calci e pugni dopo aver chiuso a chiave la porta dell'ufficio. Messo agli arresti domiciliari, ha ingerito delle medicine ma è stato soccorso in tempo. La Repubblica l'11 gennaio 2020. Un maresciallo dei carabinieri ha chiuso a chiave la porta dell'ufficio in caserma e ha aggredito il suo superiore a calci e pugni procurandogli ferite guaribili in un mese. Il motivo di tanta violenza? Un trasferimento di sede non gradito. L'episodio è accaduto a Cosenza dove il sottufficiale era stato convocato perché doveva essergli notificato l'ordine di trasferimento in un'altra caserma del cosentino, a Corigliano Rossano. Una decisione che ha scatenato in lui una furia selvaggia. Il sottufficiale prima ha chiuso a chiave la porta dell'ufficio, poi l'ha gettata dalla finestra per impedire che il suo superiore potesse scappare. Quindi è iniziata l'aggressione con calci e pugni mentre le grida del capitano hanno richiamato altri militari in soccorso. Hanno dovuto sfondare la porta per aiutarlo. Una volta dentro, hanno bloccato il maresciallo e hanno prestato le prime cure al capitano, che poi è stato portato in ospedale. Per il maresciallo violento è scattato l'arresto in flagranza con l'accusa di lesioni e sequestro di persona per avere privato della libertà il suo superiore impedendogli di uscire dall'ufficio. Il maresciallo è stato condotto agli arresti nella sua abitazione. Ed è qui che stamani ha ingerito alcune pillole. Soccorso, è finito anche lui in ospedale ma le sue condizioni, comunque, non destano preoccupazioni.

Chi sono e cosa fanno gli uomini del Gis dei Carabinieri. Paolo Mauri il 22 dicembre 2019 su Inside over. Gis è l’acronimo di Gruppo di Intervento Speciale, il reparto di Forze Speciali dei Carabinieri di stanza a Livorno dipendente per l’impiego dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ed inquadrato nella Seconda Brigata Mobile. Nel 2004 il Comando dell’Arma dei Carabinieri, ha promosso il Gruppo d’ Intervento Speciale, da unità controterrorismo a vera e propria forza speciale, che è stata inquadrata nel neonato Cofs (il Comando interforze per le Operazioni delle forze speciali) istituito il primo dicembre dello stesso anno con sede presso l’aeroporto di Roma-Centocelle e comandato oggi dal generale di divisione aerea Nicola Lanza de Cristoforis. L’identità del comandante del Gis non è nota e viene genericamente indicata come “Comandante Alfa”. Il Gis provvede a fornire personale ed equipaggiamenti per le missioni speciali stabilite del Cofs che, a livello istituzionale, è la struttura di comando che regola l’impiego delle forze speciali delle quattro forze armate che sono, oltre agli incursori di Marina del Goi, il Nono reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” e il 185esimo reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore” per l’Esercito, il 17esimo stormo incursori per l’Aeronautica.

La storia del Gis. Il Gruppo di Intervento Speciale è stato istituito il 6 febbraio 1978, in piena emergenza terrorismo, per idea, impulso e direttiva dell’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Come si legge sul sito ufficiale “l’evolversi, in quel periodo, di fenomeni terroristici e di forme di disturbo dell’ordine pubblico richiese la costituzione di un’apposita unità per l’impiego in operazioni speciali antiterrorismo e antiguerriglia, con carabinieri tratti dall’allora Battaglione Carabinieri Paracadutisti “Tuscania” perché particolarmente addestrati ad intervenire nelle situazioni più rischiose anche in presenza d’ostaggi”. Per l’addestramento dei primi operatori, si fece affidamento all’esperienza del Goi del Comsubin, dello Special Air Service (Sas) britannico e del Grenzschutzgruppe 9 (GSG9) dell’allora Germania Occidentale. Numerose le operazioni del gruppo, a partire da quelle antiterrorismo avvenuto durante gli “Anni di piombo” a quelle in ambito internazionale durante le varie missioni a cui ha partecipato l’Italia. Tra di esse si ricordano quella d’esordio, il 29 dicembre 1980, all’interno del supercarcere di Trani (Bari) per domare una rivolta con liberazione di ostaggi, molte catture di esponenti di spicco della criminalità organizzata tra cui Geraldino Messina (numero due di “Cosa Nostra”) nel 2010 e Domenico Cutrì, boss della ‘Ndrangheta, nel 2014. Molte anche le liberazioni di ostaggi, sia in mano a organizzazioni mafiose sia in mano a singoli criminali oltre a svariate operazioni antiterrorismo tra cui si ricorda quella del gennaio 1982, nel viterbese, alla ricerca di terroristi di Prima Linea che avevano ucciso due carabinieri nel corso di una rapina avvenuta il 21 gennaio dello stesso anno. Si ricorda anche l’operazione effettuata in piazza San Marco a Venezia il 9 maggio del 1997 contro uno sparuto gruppetto di sedicenti separatisti della “Serenissima Repubblica Veneta” che avevano occupato il campanile dell’omonima basilica e allestito un mezzo blindato improvvisato. Sempre nel 1997 avviene la prima missione “fuori area” con il dispiegamento in Albania per l’operazione “Alba” per compiti di contrasto a possibili attentati terroristici durante l’intervento italiano per contrastare il fenomeno migratorio nato dalle sommosse sociali avvenute in quel Paese. Dall’aprile del 2002, cinquanta operatori del Gis sono dispiegati nell’area di Kabul al fine di garantire la sicurezza dell’ex re afghano Zahir Sha , di ritorno dall’esilio che lo aveva costretto a soggiornare in Italia per circa un trentennio (operazione “Corona”) e sempre in Afghanistan personale del Gruppo ha fatto parte della “Task Force 45” insieme a “Col Moschin”. Goi e incursori del 17esimo Stormo. Elementi del Gis, inquadrati nel reggimento Msu (Multinational Specialized Unit), sono anche stati impiegati, insieme a quelli di altre Forze Speciali come il Goi, nella missione “Antica Babilonia” (dal 2003 al 2006), in Iraq. Nel 2004, come già anticipato, il Gis entra a far parte ufficialmente dei corpi di Forze Speciali delle Forze Armate, accentuando contestualmente la preparazione per le missioni all’estero.

Gli operatori del Gis. Gli uomini facenti parte del Gis rappresentano l’élite dell’Arma dei Carabinieri e uno dei migliori reparti di Forze Speciali specializzato nell’antiterrorismo al mondo. La componente operativa, reclutata tra gli uomini del Primo Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania”, è forte di un numero compreso tra le 100 e le 200 unità le cui identità sono coperte dal più assoluto riserbo.

L’addestramento. La durissima selezione avviene tra gli appartenenti all’Arma che non hanno ancora compiuto i 33 anni d’età. La prima fase di selezione per il Gis prevede un colloquio con un alto ufficiale del reparto che ne verifica le motivazioni per poi effettuare esami psicologici e medici accurati. Coloro che superano questa prima fase (all’incirca il 40% dei candidati), devono seguire un corso denominato“Operatore Gis – con brevetto militare d’incursore” presso il Primo Reggimento Tuscania. Questo corso è della durata di 9 mesi ed è volto a dare una prima base generale delle tattiche e delle capacità per poter effettuare operazioni speciali. In particolare l’addestramento in questa fase prevede: un corso di paracadutismo militare (lancio con fune di vincolo), addestramento all’impiego operativo di funi, corso di primo soccorso operativo (Cls), tecniche di orientamento e di navigazione terrestre, corso difesa personale, corso Nbcr (Nucleare Batteriologico Chimico Radiologico) sulle operazioni in ambienti contaminati, tecniche di mascheramento/mimetizzazione e movimento tattico con particolare attenzione alla capacità di operare in sicurezza in ambienti montani e climi rigidi, corso per operatore elitrasportato, addestramento di pattuglia e di plotone con tecniche antiguerriglia, tecniche sopravvivenza, evasione, resistenza agli interrogatori e fuga, addestramento all’impiego di armi e materiali speciali, tecniche di combattimento e pattugliamento in ambiente urbano, tecniche di Polizia Militare, Counter-Ied, Humint e all’impiego in unità e comandi multinazionali. Solo il 30% degli aspiranti riesce a superare con successo questa prima fase e accedere alla preparazione vera e propria per entrare nel Gis che prevede due ulteriori fasi: una prima con un corso base di 18 settimane, e una seconda con un corso specialistico di 27 settimane. Durante il corso base i candidati apprendono le arti marziali per disarmare, immobilizzare e, in generale, poter fronteggiare combattimenti corpo a corpo senza l’impiego di armi da fuoco. Inoltre imparano a costruire e disinnescare ordigni esplosivi, ad utilizzare ogni tipo di arma da fuoco, oltre agli apparati elettronici di sorveglianza. Infine vengono insegnate tecniche di irruzione, di arrampicata e discesa, tecniche di arresto e di primo soccorso. Durante il corso di specializzazione vengono impartite svariate tecniche che abbracciano le diverse tipologie di intervento che gli operatori potrebbero trovarsi ad effettuare. Pertanto all’allievo viene insegnata la tecnica di tiro avanzato (contro obiettivi in movimento ed in presenza di ostaggi, tiro da posizioni difficili e con entrambe le mani sia da soli che in squadra), tecniche avanzate per l’utilizzo di esplosivi (in presenza di ostaggi, caratteristiche e scelta degli esplosivi e della quantità e modalità di impiego per minimizzare i danni collaterali, uso di gas e loro impiego), corso di sci ed arrampicata, corso di guida veloce (difensiva ed offensiva), corso di nuoto e assalto anfibio frequentato presso il Centro Sub dei Carabinieri di Genova-Voltri, quindi presso il Comsubin per apprendere tecniche di ricognizione, avvicinamento, assalto e combattimento anfibio, corso sulle infrastrutture, tattiche di guerriglia e contro-guerriglia, corso di assalto ad aeromobili. Tutti gli allievi che hanno superato queste due fasi sono in seguito ammessi ai seguenti ulteriori corsi di specializzazione, i quali durano all’incirca dieci mesi: paracadutista Tcl (Tecnica Caduta Libera), istruttore di tiro, tiratore scelto, istruttore di arrampicata, esperto di esplosivi (Eod e Iedd), sciatore, subacqueo, istruttore di difesa personale, controllore aereo avanzato (Fac).Tutti gli operatori frequentano inoltre corsi di storia dell’ideologia terroristica, archiviando e studiando la risoluzione di crisi da parte delle unità di forze speciali di tutto il mondo.

I Compiti del Gis. Il Gruppo Intervento Speciale (Gis) è un reparto d’élite dell’Arma dei Carabinieri, oltre ad essere qualificato come Forza Speciale predisposta per ogni tipo di azione militare ad alto rischio nei teatri internazionali. A differenza delle altre Forze Speciali italiane, il Gis, oltre a conferire al suo personale la qualifica di incursore, dà anche quella di agente di Pubblica Sicurezza, dato che è inquadrato nella Seconda Brigata Mobile dei Carabinieri. Per quanto riguarda i compiti quello principale è la liberazione di ostaggi, la protezione di obiettivi sensibili da attacchi terroristici o criminali e garantire la sorveglianza e la sicurezza in occasione di eventi ad alto rischio. Inoltre il Gis è adoperato per garantire la sicurezza di personalità minacciate o per coadiuvare le unità territoriali in situazioni di crisi come rapimenti e cattura di criminali, latitanti o evasi pericolosi. Inoltre, essendo un reparto speciale dell’Arma dei Carabinieri, il personale in servizio nel G.I.S. viene chiamato in occasione di interventi internazionali di peace-keeping/peace-enforcing per condurre operazioni di antiterrorismo e per la riacquisizione di obiettivi in mano a terroristi o per la protezione di cittadini o interessi italiani.

L'organizzazione del Gis. Il Gruppo di Intervento Speciale dei Carabinieri è organizzato come segue:

– Un nucleo comando

– Una sezione di esplorazione, ricognizione e acquisizione obiettivi

– Una sezione di combattimento

– Una sezione di tiratori scelti

– Un’unità di negoziazione

– Una sezione tecnica

– Una sezione addestrativa

– Una sezione amministrativa

La sezione di combattimento è la più numerosa ed è a sua volta suddivisa in tre distaccamenti costituiti da squadre di quattro uomini: un comandante, uno specialista in esplosivi, uno specialista in arrampicata e uno specialista di equipaggiamenti, mentre la sezione di esplorazione, ricognizione e quella di tiratori scelti è costituita da squadre di tre uomini: due tiratori armati ed un esploratore equipaggiato.

Le armi e i mezzi del Gis. Un operatore del Gis è addestrato all’utilizzo di svariate tipologie di armi personali, dall’Sc 70/90 sino al russo Ak-47 passando per l’Arx. Nell’inventario non mancano le pistole mitragliatrici Heckler & Koch Mp-5 in configurazione standard (A5) e silenziata (SD) nonché corta (K) che hanno praticamente sostituito le vecchie Beretta Pm-12. A partire dal 2003, il Gis ha inoltre adottato le Hk-51, versione in 5.56×45 millimetri delle Mp-5. Tra i fucili d’ assalto maggiormente in uso troviamo l’H&K G36 e G53 oltre allo Steyr AUG, il Colt M4A1 Sopmod e gli H&K Hk416 e 417. Com’è facile immaginare il reparto pone molta attenzione all’armamento per il tiro di precisione. Vengono utilizzati i fucili: Accuracy International AWP ed AWS, l’Heckler & Koch PSG-1, il Sako TRG-42, il Mauser SP86 e il Barret M-82 A1. Come arma individuale a canna corta il Gis si affida ancora alla Beretta M92 FS ma fa largo uso anche delle Glock 17 e 23. I mezzi che il corpo utilizza sono principalmente quelli dei carabinieri, come l’elicottero Ab-412, oppure, per le operazioni a lungo raggio, quelli dell’Aeronautica Militare ed in particolare quelli della 46esima Aerobrigata (C-130 Hercules). Al Gis è anche presente tutta la tipologia di mezzi marittimi gonfiabili o a scafo semirigido già utilizzati dalle altre forze speciali (gommoni tipo Zodiac o Rhib).

Il fermato dietro le sbarre e gli agenti in posa: polemiche per la foto pubblicata su Facebook dalla polizia locale di Opera. La foto pubblicata sulla pagina Facebook della Polizia Locale di Opera. Il post mostra un uomo (con la faccia coperta) in gabbia, e si spiega che "è in stato di fermo" perchè infastidiva i passanti nell'area del mercato. Dopo le polemiche i vigili si scusano e rimuovono la foto. La Repubblica il 21 dicembre 2019. Un giovane in maglietta e jeans dietro le sbarre, due agenti in divisa - e in posa - che poggiano le mani su quelle sbarre guardando l'obiettivo, mostrando a tutti il fermato. E, per quanto il volto della persona fermata sia cancellato con un tratto bianco, non tutti hanno apprezzato quella foto: "Toglietela, offende la dignità di quest'uomo, se fosse stato bianco l'avreste messo ugualmente alla gogna?". La fotografia fa parte di un post pubblicato sulla pagina Facebook del Corpo della Polizia Locale di Opera, comune alle porte di Milano, ha un commento: "Stamattina a seguito di segnalazioni da parte di cittadini, che lamentavano un soggetto teso ad infastidire le persone nell'area mercato di Opera, personale del Corpo è intervenuto per le attività di rito. La persona è in stato di fermo e sono in corso gli accertamenti". Una versione che diventa ancora più netta nello stesso post, ma condiviso dal sindaco di Opera Antonino Nucera (centrodestra): "Molestatore seriale, pluripregiudicato e con provvedimento di espulsione a carico è stato arrestato questa mattina dagli Agenti della Polizia Locale di Opera presso l'area mercato comunale mentre molestava alcuni passanti che si rifiutavano di consegnargli soldi". La legge (con l'articolo 14, comma 2 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 è stato introdotto un nuovo comma 6 bis all'articolo 114 del codice di Procedura penale) dice espressamente che "è vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta". Il volto è coperto, certo, ma la persona è comunque riconoscibile, tanto che qualcuno, sotto il post, commenta dicendo che più volte l'uomo ha dato fastidio davanti al suo negozio. Tra i commenti ci sono tanti (ma soprattutto sotto il post del sindaco) che ringraziano per l'intervento e non si scandalizzano per la foto. Ma non tutti sono così: sotto il post della Polizia Locale c'è chi riflette: "Chi sbaglia paga e siamo tutti d'accordo. É tuttavia vergognoso che le persone preposte a fare rispettare la legge si facciano beffa di essa mettendosi in posa per farsi fotografare con un detenuto come se fosse il bottino di una caccia qualsiasi. La persona in questione se ha commesso un errore verrà giudicata per esso, esporlo al pubblico ludibrio, seppure con la faccia censurata, viola i diritti fondamentali di qualsiasi essere umano, ed é un reato. Siete persone migliori di questo, non posso credere che abbiate voluto violare la legge solo per fare un post pseudo sensazionale e acchiappare like". Nel tardo pomeriggio i vigili hanno fatto marcia indietro sempre sulla loro pagina Facebook, scusandosi per l'accaduto, rimuovendo la foto e spiegando i fatti. Questo il loro testo: "Scusandoci dell'immagine pubblicata sul post precedente, la stessa viene rimossa immediatamente. Nel merito delle attività compiute la persona veniva fermata, mentre molestava in maniera insistente nell'area mercato alcuni passanti. Alla richiesta degli operatori di esibire i documenti per l'identificazione, la persona ne era sprovvista e poneva resistenza all'accompagnamento presso gli uffici per i dovuti accertamenti. Si è proceduto pertanto al fotosegnalamento per l'identificazione personale. Dall'esito dei controlli, il soggetto aveva a suo carico un ordine di espulsione del Questore già dal 2017, trattenendosi irregolarmente sul territorio italiano. L'indagato successivamente alle attività di P.G.ha aggredito gli operatori di Polizia procurandogli lesioni. Gli stessi sono stati trasportati in ospedale. Pertanto lo stesso su disposizione dell'Autorità Giudiziaria, per resistenza, minacce e lesioni a pubblico ufficiale è in stato di arresto in attesa di convalida".

Lettera di Massimiliano Idolo al Corriere della Sera il 20 dicembre 2019. Svolgo il mestiere di barman da molti anni, grazie a questo lavoro ho girato il mondo, vivendo in altre destinazioni per nove dei miei quarantadue anni. Mi trovo a scrivere questa lettera perché mi domando come possa il nostro Paese funzionare in questo modo così sbagliato, e a cosa i social ci portano oggi.

I fatti. Sabato sera 14 dicembre, ormai 15 dicembre data l' ora, mentre lavoravo come barman in un Cocktail Bar all' Eur, il "Pier" a piazza dell' Obelisco, durante la chiusura del locale e in presenza dei vari colleghi e colleghe sono stato aggredito da due tesserati di boxe che hanno deciso che il rifiuto mio e dei miei colleghi a dar loro da bere data l' ora, non era accettabile. Erano le 3 circa quando siamo stati aggrediti. Tale A.R. mi ha colpito alle spalle mentre camminavo verso l' entrata del locale, tirandomi un gancio sul lato sinistro del viso e causandomi trauma cranico, due spacchi sul viso (6 punti di sutura), frattura del bordo oculare osseo in due punti che richiedono intervento di chirurgia maxillo-facciale, sospetta lesione del bulbo oculare, ematoma sulla parte di cranica che ha battuto a terra Il mio collega Andrea è stato anche lui colpito dalle spalle alla nuca, e preso a calci dai due codardi. I due professionisti certificati nel pugilato sono: M.P. e A.R. di 22 e 24 anni. Uno di loro è addirittura «Guanto d' Oro». Entrambi con precedenti penali per rissa e un avviso verbale da parte di un questore. Al rifiuto del personale del locale di servire alcol a questi due energumeni, prepotenti, insistenti, tatuati fino sulla nuca e nei capelli e sulle mani, con forte accento romano, i due hanno optato per la violenza gratuita: hanno colpito da vigliacchi due di noi e si sono dati alla fuga. Sabato notte, i due sono fuggiti per poi venire arrestati negli immediati minuti successivi dall' altro lato della piazza, davanti al paninaro in mezzo alla folla, mentre si abbracciavano compiaciuti e scherzavano con delle ragazze come nulla fosse. I miei colleghi erano riusciti a richiamare l' attenzione anche della Polizia che a quel punto si era messa in moto a piedi proprio in direzione dei due balordi che sono finiti a Regina Coeli una notte un giorno per venire rilasciati dopo poco più di 24 ore. Ora, mentre questi professionisti della «Nobile Arte» del pugilato ci hanno vigliaccamente colpiti alle spalle creandoci questo forte disagio (io in ospedale non riesco a mangiare normalmente, ho un solo occhio a disposizione, senza poter andare al lavoro e poter proseguire la pratica di personal trainer, un titolo che ho appena conseguito) si fregiano su Facebook e Instagram con tanto di video e numerosi post di come la stampa abbia diffuso informazioni false, cercando di rigirare la frittata a loro comodo, pavoneggiandosi con goliardia. Mi sento beffato, questi sono a piede libero e scrivono balle ai loro seguaci mentre io sono in ospedale per iol danno che mi hanno provocato. Sono basito, inorridito, offeso. Potete aiutarmi a denunciare questa ingiustizia?

Alessia Marani per il Messaggero – Roma il 20 dicembre 2019.  Massimiliano Idolo è il barman e cantautore picchiato sabato notte da due pugili in un locale dell'Eur solo per avere negato loro da bere quando il bar era ormai chiuso. Ieri pomeriggio ha subito un delicato intervento maxillo-facciale con l'inserimento di due placche di titanio. Il suo bollettino medico è un report di guerra che va dal trauma cranico a due spacchi sul volto ricuciti con sei punti di sutura, fino alla sospetta lesione del bulbo oculare e a un dolore incessante alla rachide cervicale. Trenta i giorni di prognosi salvo complicazioni. E tutto solo per avere detto al Guanto d'oro Manuel Parrini, di 22 anni, e al 24enne Alex Refice, boxeur che si allenano alla Montagnola, che ormai non poteva più servire loro alcolici. Massimiliano ha visto le video-story lanciate su Instagram dagli aggressori arrestati dalla polizia e rimessi in libertà dal giudice dopo la direttissima - in cui si professano bravissimi ragazzi, insultano i giornalisti, ammettendo fra i denti, sì di avere sbagliato, ma di essere stati provocati, incassando la solidarietà di una schiera di seguaci.

Massimiliano le fa rabbia?

«Tanta, roba da brividi. Mi domando come possa il nostro Paese funzionare in questo modo così sbagliato, e a cosa i social ci portino oggi, fino ad assumere comportamenti estremamente scorretti e lontani dalla morale, solo per apparire».

Che cosa è successo quella notte?

«Quando il mio collega Andrea e io abbiamo invitato quei due a uscire, dirigendoci verso l'uscita mi hanno colpito alle spalle, a sangue freddo. Erano le 3, stavo lavorando al cocktail bar Pier di piazza Marconi. Invece sui social quei due che hanno precedenti di polizia vanno a raccontare, mentendo, di spintoni ai quali avrebbero reagito per difendersi. Per quello che hanno fatto dovrebbero perdere il Guanto d'Oro e il loro tesserino da professionisti, perché nessun professionista attaccherebbe mai vigliaccamente alle spalle, ferocemente in quel modo, rischiando di uccidere una persona. Andrebbero radiati».

E poi?

«Al nostro rifiuto fermo ma cortese di servire alcol a questi due energumeni, prepotenti, insistenti, tatuati fino sulla nuca e nei capelli e sulle mani, i due hanno optato per la violenza gratuita: ci hanno colpito da vigliacchi e si sono dati alla fuga. Sono stati arrestati dalla polizia dall'altro lato della piazza, davanti al paninaro in mezzo alla folla, mentre si abbracciavano compiaciuti e scherzavano con delle ragazze come nulla fosse. I miei colleghi, fra cui il provvidenziale Giancarlo, sbracciando mentre li inseguivano, erano riusciti infatti a richiamare l'attenzione di una volante. I due sono finiti a Regina Coeli per una notte e un giorno ma lunedì sono stati rilasciati in attesa del processo».

Lei come sta?

«Sto qua in ospedale su una barella di pronto soccorso aspettando che si liberi un posto, sono sconvolto. Un amico mi ha fatto vedere quei video strafottenti, inopportuni. E al dolore fisico si è aggiunta tanta indignazione. Mentre il mio collega Andrea è bloccato alla cervicale e indossa il busto, loro si fregiano su Facebook e Instagram cercando di rigirare la frittata ».

Si ricorda come l'hanno aggredita?

«Uno dei due mi ha colpito mentre camminavo verso l'uscita. Un colpo fortissimo sul lato sinistro del viso, sono andato a terra, potevo morire sbattendo la testa. Ho visto le stelle. Credevo fosse un gancio ben assestato, ma dei testimoni mi hanno riferito proprio poco fa che si è trattato di un colpo sferrato con un bicchiere in pugno e con tutta la forza del braccio. Infatti era stato dato loro cortesemente un bicchiere d'acqua poiché gli alcolici erano stati già riposti. Mentre io ero di spalle, lo ripeto. Mi sento beffato, questi sono a piede libero e scrivono balle ».

E i buttafuori non sono intervenuti?

«Erano già andati via».

Adesso lei ha la faccia rovinata.

«Sono un barman da molti anni, ho girato il mondo, vivendo in altre destinazioni per 9 dei miei 42 anni. Sono anche un assistente chiropratico, un traduttore, un personal trainer e negli ultimi due anni ho gestito una piscina per la balneazione ed eventi. C'è poi la mia passione di sempre: sono un cantautore rock coi miei Oro Nero, band tutta romana come me, dell'Eur. Tutto questo per dire che con il mio viso io ci lavoro e questo attacco vigliacco mi impedirà per un indeterminato periodo di tempo di lavorare e vivere appieno. Ma come possono questi due vigliacchi essere già a piede libero mentre noi versiamo in questa amara immeritata condizione?».

Roma, tassista picchiata dalla cliente che poi scende e non paga. Voleva passare sulla corsia dei tram. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Tassista picchiata da una cliente perché si rifiuta di passare sulla corsia riservata ai tram nella zona di via delle Botteghe Oscure, in pieno centro. Non solo. La donna a bordo dopo aver preteso dell’autista una manovra vietata, è scesa e si è rifiutata di pagare la corsa fino a quel punto, circa sei euro. E alle rimostranze della tassista l’ha colpita in pieno volto provocandole lesioni, dopo averla insultata e averle fatto presente di essere un’importante professoressa impegnata con una fondazione molto nota. Il fatto è successo qualche giorno fa ed è stato denunciato dalle sigle sindacali del comparto taxi Fit Cisl Lazio, Uil Trasporti Lazio, Ugl Taxi, Federtaxi CISAL e Ati Taxi. I sindacati parlano di «atteggiamento di profonda arroganza mantenuto dalla cliente pure in presenza di una pattuglia dei carabinieri che ha verbalizzato quanto accaduto, raccogliendo anche la versione di una testimone diretta dei fatti. La collega dopo essere stata refertata presso una struttura di pronto soccorso, ha già presentato formale denuncia». «Come sempre - dicono ancora - condanniamo fermamente ogni forma di violenza e crediamo sia necessario invitare tutti ad abbassare i toni e a lavorare, ognuno per le proprie responsabilità affinché quanto accaduto negli ultimi tempi non si ripeta, rendendo così più sicuri operatori ed utenti del nostro servizio e più in generale la nostra città».

ANSA il 18 dicembre 2019. - Rischio processo per due carabinieri accusati, a seconda delle posizioni, di avere bendato Chistian Gabriel Natale Hjorth, mentre era in stato di fermo in una caserma di via in Selci per la vicenda di Mario Cerciello Rega, il carabiniere ucciso a Roma nel luglio scorso, e scattato una foto poi diffusa. La Procura di Roma ha chiuso le indagini, atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio, nei confronti di due militari dell'Arma in servizio all'epoca dei fatti in via in Selci. In particolare i pm di piazzale Clodio, coordinati dal procuratore Michele Prestipino e dall'aggiunto Nunzia D'Elia, contestano al carabiniere Fabio Manganaro l'accusa di misura di rigore non consentita dalla legge per avere bendato il giovane californiano, mentre al collega Silvio Pellegrini il reato abuso d'ufficio e pubblicazione di immagine di persona privata della libertà per avere scattato la foto, poi diffusa.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 19 dicembre 2019.  «Mi era già capitato di essere aggredita ma all' epoca si trattava di un uomo, drogato e ubriaco, stavolta invece ad assalirmi è stata una donna, una quarantenne, che prima mi ha chiesto di passare su una corsia preferenziale riservata ai tram, poi non ha voluto pagarmi la corsa. Sa qual è l' aspetto che mi di ogni altro mi ha lasciato basita? L' atteggiamento di questa signora, ben vestita e beneducata, che mentre mi picchiava con il suo cellulare urlava lei non sa chi sono io». Comincia così il racconto di Rosina, 47 anni da venti tassista per una cooperativa della Capitale, che lo scorso 11 dicembre è stata aggredita verbalmente e fisicamente in via delle Botteghe Oscure da una cliente. Donne che picchiano le donne. Eccolo il nuovo canovaccio sulle aggressioni ai conducenti dei taxi di Roma. Tutto è iniziato quando Rosina al parcheggio di piazza Trilussa fa salire una donna, professoressa a quanto pare, diretta a Termini. «Lungo il tragitto quando siamo arrivate a Botteghe Oscure c' era un po' di traffico e la signora racconta Rosina mi ha chiesto di passare sulla preferenziale». Ma quando la tassista le fa presente che in quel tratto possono transitare solo i tram e che lei avrebbe potuto essere multata, la cliente perde la pazienza. «Ha iniziato ad agitarsi, a innervosirsi e a quel punto prosegue la vittima le ho detto che se voleva, poteva scendere e prendere un altro taxi o raggiungere la stazione in un altro modo». E così è andata: la cliente apre lo sportello lasciandolo aperto, si fa scaricare la valigia e ferma un altro taxi dentro cui getta il trolley e sale senza però pagare la corsa fatta da Trastevere con Rosina. «Si trattava di 6 euro prosegue la tassista ma per l' atteggiamento di questa donna, l' improntitudine mostrata quando le ho chiesto il dovuto per la corsa mi ha prima urlato contro: lei non sa chi sono io, cicciona e poi mi ha picchiato con il cellulare che teneva in mano». A sedare la rissa una passante che ha poi confermato ai carabinieri intervenuti la dinamica. In 20 anni di servizio Rosina, che il giorno seguente ha sporto denuncia al commissariato Appio Nuovo, non ha mai avuto problemi sul lavoro. «C' è una quota di colleghi che non si comporta bene e questo è innegabile, ma trovarsi al centro di una vicenda come la mia, lascia basiti alla fine mi ha pagato la corsa avendomi però insultata e picchiata». «Un atteggiamento di profonda arroganza», bollano i sindacati, mentre dal Campidoglio arriva la condanna dell' assessore ai Trasporti Pietro Calabrese: «Episodio gravissimo che va perseguito».

La denuncia di un gruppo di peruviani: “Picchiati dalla polizia”. Le Iene il 18 dicembre 2019. Juan e un gruppo di altri amici peruviani denuncia a Luigi Pelazza di essere stato brutalmente picchiato da alcuni poliziotti nel Milanese. Vi mostriamo i video della colluttazione e dell’arresto dei giovani e vi raccontiamo di un verbale di polizia in cui qualcosa sembra non tornare. Luigi Pelazza raccoglie la denuncia di Juan, un giovane cittadino peruviano che sostiene di essere stato picchiato dalla polizia, assieme ad un gruppo di amici. Lui e un amico erano intenti a fare pipì dietro al chiosco di un fiorista, dopo una serata in compagnia, forse dopo qualche birra di troppo. E lì sarebbero stati aggrediti da uno degli agenti di polizia intervenuti. Spiega Juan: “Dopo essere usciti dalla birreria cercavamo un kebab per mangiare, e siccome era chiuso ce ne stavamo tornando a casa, tranquilli…”. Una scena, quella della presunta aggressione, ripresa dal telefonino di Diego, uno dei cinque amici: “Quando ho visto che la polizia voleva picchiarlo ho reagito tirando fuori il cellulare. Vedendo che stavo registrando hanno provato a prendermi il cellulare e volevano che cancellassi. Ho dovuto metterlo via”. Nel video l’agente ordina ai due amici di non muoversi, ma nessuno dei due parla bene l’italiano. Uno dei ragazzi si avvicina all’agente e lo apostrofa così: “Sei ingiusto, perché picchi lui, picchia me allora”. Il giovane racconta: “A un tratto è arrivato uno dei suoi colleghi e ha iniziato a darmi pugni”. Nel video si vede il poliziotto che dopo avergli detto “mi hai rotto il cazzo” comincia a colpirlo con dei pugni. Juan e il suo amico negano di avere picchiato a loro volta gli agenti, come sostiene il verbale del loro arresto. “Ci siamo limitati alle parole”. Gli agenti avrebbero picchiato anche una delle ragazze del gruppo, con il manganello. “Dopo mi ha buttato a terra e mi ha colpito sul braccio e sulla gamba”. I poliziotti, inizialmente due, sarebbero poi diventati 10 o 15, raccontano ancora i peruviani. “Tutti venivano verso di noi e quando mi sono messo a terra tranquillo loro hanno continuato a picchiarmi”. Luigi Pelazza ci mostra anche un secondo video, quello dell’arresto dei peruviani. In effetti si vede una scena molto particolare e apparentemente anomala. Uno dei due amici, probabilmente già ammanettato, viene scaraventato a terra e colpito con un calcio da un’agente, che però non sappiamo se sia un poliziotto o uno dei carabinieri nel frattempo giunti sul posto. Una delle ragazze racconta addirittura che uno dei poliziotti, durante le fasi della colluttazione, avrebbe preso in mano la sua pistola. Juan e il suo amico vengono arrestati e poco dopo, su loro richiesta, portati al pronto soccorso, per i dolori causati dalle botte che avrebbero subito. “Siamo stati tutta la mattinata perché la cosa era grave”. A non tornare però è il verbale della polizia, in base al quale i ragazzi si sarebbero rifiutati di ricevere copia della comunicazione scritta per l’arresto. Peccato che, stando all’orario del verbale della polizia, i due si sarebbero rifiutati di firmare le carte mentre in realtà erano ancora in ospedale. I due dopo le dimissioni dall’ospedale vengono portati in tribunale, senza che gli venga concesso di chiamare un legale, come sostengono. Per la polizia invece sarebbero stati loro a rifiutarsi di chiamarli. Raccontano che l’avvocato d’ufficio avrebbe prospettato loro due strade: o riconoscersi colpevoli, evitando il processo o continuare, e rischiare. Così Juan e il suo amico accettano di riconoscere la loro colpa. Luigi Pelazza va a chiedere spiegazioni alla polizia, a cui mostriamo i video della colluttazione e dell’arresto. Il vicequestore dà la sua versione: “Durante un controllo di polizia il controllato deve stare a debita distanza e deve essere invitato a farlo . Se poi questo non accade la percezione di sicurezza si abbassa. E quindi tutto quello che succede è anche responsabilità di chi non esegue. Ma non i pugni. Gli operatori di polizia sono a rischio della vita, sempre”. Gli diciamo che anche la ragazza del gruppo avrebbe preso un pugno e il vicequestore spiega: “Un filmato di così pochi secondi ci fa vedere soltanto alcune azioni, non certo la totalità dell’evento”. Chiediamo anche di quel verbale e dell’orario della firma che sembrerebbe essere in contrasto con il foglio delle dimissioni dall’ospedale: “’Mi sta presentando adesso questi fogli, io li acquisirò. Io non devo dare in questo momento…” Sul comportamento di quegli agenti, aggiunge: “Se ci sono stati degli errori verranno valutati. Nessuno deve nascondersi”.

Non date il porto d’armi a chi ha problemi psichici. Sulle detenzioni e sui porto d’arma c’è meno controllo che sulla patente di guida. E nessuna norma permette di mettere in connessione l’uso di farmaci per i disturbi psichiatrici con la possibilità di avere un revolver o un fucile. Luc aDi Bartolomei il 20 dicembre 2019 su L'Espresso. Ma quanto disagio e quante angherie siamo in grado di sopportare prima di metter in pausa la razionalità? In un paese dove il declino del senso civico è costante ed orizzontale queste domande restano in attesa di risposta mentre il carico di frustrazione e aggressività cresce e spaventa. Come la scorsa settimana, quando tornando verso casa mi sono imbattuto in un paio di universitari che molestavano un povero cristo addormentato in una strada d’angolo dietro al Verano, il cimitero monumentale di Roma. Due ragazzi così miseri e violenti da prendersela con un disgraziato “per fare serata”. Due ragazzi che di colpo si sono trovati davanti un gruppo di adulti, normali fino un attimo prima e poi d’istinto rabbiosi per quanto avevano visto. Più che la cattiveria di quei due, a colpirmi è stata la violenza della nostra reazione: noi, in gruppo, per poco non prendevamo a botte due ventenni stupidi. E ripensare a quell’istinto di “farsi giustizia” mi produce vergogna. Galleggiamo in una narrazione tossica dove l’unico paradigma sembra l’affermazione di sé, costi quel che costi. La menzogna di un successo inteso come fama, soldi e potere alla portata di tutti quelli che hanno il “coraggio” di prenderselo a scapito dell’altro sta definitivamente annientando quel minimo senso di comunità che era rimasto. E tutta questa distanza fra una falsa percezione di benessere e la mediocre quotidianità di tanti ci peggiora, ci incattivisce. Un paese disgregato, ogni giorno psicologicamente più fragile; e non è un caso se ci confessiamo come una nazione che torna a desiderare l’uomo forte. La nostra intolleranza alla vista del disagio, sia momentaneo o cronicizzato ad esempio per una malattia mentale, dovrebbe preoccuparci molto. Mostriamo sempre maggiore reticenza alla solidarietà, facendo di tutto per rimuovere ogni rappresentazione di malessere, addirittura accettando la rinascita di lager sull’altra sponda del Mediterraneo. Disagio, solitudine, incertezza, rabbia sono sensazioni diffuse come moneta corrente e forse non bastano più a dare le coordinate di un malessere profondo. Il sintomo più drammatico e radicale personalmente lo ritrovo osservando le statistiche di suicidio. Gli ultimi dati dell’Istat parlano di 12.877 fra il 2014 e il 2017. Otto su dieci sono stati compiuti da uomini. Ma cosa ancora peggiore sono giovani: quella dell’abbassamento dell’età nella quale questi tentativi sono messi in atto è forse la più triste delle novità. Tanto la cattiveria si è diffusa fra gli italiani quanto la sensibilità diventata una colpa. Giovani e anziani, ceti sociali fragili nei quali sono più intensi i sentimenti di solitudine, insicurezza e incertezza. E poi, ovviamente, come agnello sacrificale le donne: in questo caso vittime predestinate di ogni fase storica in cui paura e rabbia rendono i maschi ossessionati. Ma se non inserissimo tutto questo in un contesto politico compiremmo un enorme sbaglio: in una cornice sociale ad alta infiammabilità dove il futuro spaventa e la prima preoccupazione riguarda il lavoro come strumento di sopravvivenza e non più di miglioramento viene da chiedersi se la riforma della legislazione sulla legittima difesa e sulle armi non rappresenti un gigantesco fattore di rischio. Una normativa che se da un lato non ha fondamento nei numeri (in costante riduzione) dell’Italia criminale, dall’altro rappresenta la soddisfazione di questa rabbiosità diffusa: la possibilità di farsi una propria “giustizia”. Senza dimenticare un aspetto essenziale: che la paura è un sentimento classista, perché colpisce maggiormente chi non ha gli strumenti culturali per elaborare fatti e contesti che gli consentirebbero di ridimensionare le proprie preoccupazioni. Sulle detenzioni e sui porto d’arma c’è meno controllo che sulla patente di guida. In pochi ad esempio si preoccupano di revocare un porto d’arma a chi è stato oggetto di un Trattamento sanitario obbligatorio e nessuna norma permette di mettere in connessione l’uso di farmaci per il controllo dell’ansia, della depressione o più in generale di disturbi psichiatrici con la possibilità di avere a casa, dentro un cassetto, un revolver o un fucile. Eppure in una società in cui crescono gli elementi di incertezza, di solitudine e di senso di abbandono, maggiore dovrebbe essere il controllo sulle armi, sulla loro diffusione e sul loro uso. E la cronaca settimanale, da Palermo a Udine passando per Esperia e Nettuno, ce lo ricorda visto che già oggi i legali detentori di armi uccidono più della mafia. Per fronteggiare quella che la sanità statunitense considera «un’emergenza di sanità pubblica» (American Medical Association 2018) e che nel prossimo decennio stima «oltre un milione di americani feriti o uccisi da una pistola», un ruolo speciale (insieme alle forze di polizia) dovrebbero svolgerlo coloro che - come i medici - sono più vicini alle famiglie, alle loro necessità, avendo gli strumenti per cogliere le condizioni di salute della mente, le capacità di comprendere e valutare le situazioni di pericolo e di misurare le proprie reazioni (Bauchner JAMA 2017, Taichman 2017). «Medici dei cittadini», ha detto recentemente Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo), «garanti di quei diritti, di quei principi e di quelle libertà che sono alla base della nostra democrazia». Se il dovere principale del medico è la tutela della vita, tra i tanti fronti aperti per la professione dovrebbe trovare spazio anche questo: in tutti i Paesi dove le armi da fuoco sono più facilmente accessibili, alle persone accade un maggior numero di incidenti, si compiono più omicidi e il tasso di criminalità è più elevato. In un momento in cui la sanità vede anche i propri operatori direttamente colpiti da una escalation di violenza e chiede l’adozione di soluzioni volte a garantire la sicurezza dei medici, riaffermare i valori etici di rispetto e solidarietà domandando una maggiore cautela nell’accesso alle armi da fuoco da parte dei cittadini è un’urgenza non più rinviabile.

·        I Disservizi nella viabilità e nei trasporti.

Reddito di cittadinanza e mance invece di infrastrutture: così stanno rubando il futuro del Sud. Progetti per strade, ferrovie, aeroporti: tutto bloccato dai governi che dal 2015 hanno gettato al vento fondi Ue, negando così l’avvio di opere per oltre 30 miliardi di euro. Ercole Incalza il 16 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Marzo, aprile, maggio e giugno sono i quattro mesi in cui si è bloccato l’intero Paese e questo blocco ha causato il crollo della nostra economia. In modo particolare, l’indicatore più grave è quello relativo al crollo dell’occupazione. I dati, in realtà, fanno paura e penso siano da soli sufficienti a misurare quanto sia diventata grave oggi la “emergenza Mezzogiorno”. Varie testate giornalistiche riportano quanto prodotto, con apposita relazione, dall’Istat: in particolare la conclusione a cui è giunto l’Istituto è che la pandemia ha acuito il preesistente divario tra il Nord e il Sud nella partecipazione al mercato del lavoro. Al Sud pesa in questa fase il maggior peso dei dipendenti a termine (13,9% rispetto al 9,7% registrato nelle regioni del Centro e del Nord) e la minore presenza dell’industria, comparto che ha mostrato una maggiore tenuta occupazionale. In conclusione la flessione dell’occupazione nel secondo trimestre è stata più accentuata nel Mezzogiorno (-5,3%), mentre il calo è stato decisamente più contenuto al Nord (- 3%) e nel Centro (-2,9%).

INIZIATIVE FALLIMENTARI. Tutti sono, quindi, convinti che la colpa, la causa, il motivo di questo crollo sia da addebitare interamente al Covid 19 e nessuno, compiendo un atto di umiltà, ha cercato di leggere i dati, sempre dell’Istat, del 2015, del 2016, del 2017, del 2018, del 2019. È inutile riportarli, perché se riempissi tutte le pagine di tali dati scoprireste che per il Mezzogiorno non è cambiato praticamente quasi nulla: al massimo l’incidenza ha superato del 2% la soglia relativa al crollo occupazionale posseduta dalle realtà meridionali sin dal 2014. E allora dobbiamo avere il coraggio di denunciare le responsabilità di chi, in questi sei anni, ha gestito la cosa pubblica e, soprattutto, di chi ha voluto due specifiche iniziative che nei fatti sono legate al Partito democratico e al Movimento 5 stelle. Mi riferisco agli “80 euro di renziana memoria” e al “reddito di cittadinanza”; due iniziative che si sono rivelate veri e misurabili fallimenti. In realtà con simili iniziative si è preferita una politica che ha fatto una scelta ben precisa: blocco delle risorse in conto capitale e apertura alle risorse in conto esercizio. Si è preferito, cioè, bloccare gli investimenti in infrastrutture (in 5 anni nel Mezzogiorno sono stati spesi appena 2,6 miliardi di euro per infrastrutture strategiche) mentre oltre 12 miliardi di euro l’anno (ripeto: dodici miliardi di euro l’anno) sono stati erogati per finalità puramente assistenzialistiche prive, purtroppo, di risultato.

BOOMERANG. E allora penso che i gratuiti slogan dei parlamentari del Movimento 5 stelle – «Abbiamo annullato la povertà nel Paese» – diventino, a mio avviso, un boomerang ingestibile per lo stesso Movimento. Un boomerang che spero faccia capire all’elettorato, specialmente quello del Sud, l’assoluta incapacità del Movimento 5 Stelle e l’inconcepibile connivenza del Partito democratico nel preferire una strategia dallo stesso Pd sempre combattuta: mi riferisco alla volontà di infrastrutturare in modo organico il Paese. Non possiamo dimenticare che sempre il Partito democratico aveva cercato di dare continuità alle scelte fatte dal Parlamento nel 2001 con la legge Obiettivo e un simile comportamento è stato confermato sia dal governo Prodi che dal governo Monti.

LE DOMANDE SENZA RISPOSTA. E allora, dovendo ricercare le responsabilità, penso sia utile chiedere ai governi che si sono succeduti dal 2015 a oggi, in particolare ai ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti che si sono succeduti sempre nello stesso periodo, perché:

Non è stata avviato a realizzazione l’asse stradale Caianello-Benevento (Telesina) per un valore di circa 480 milioni di euro.

Non si è riusciti ad avviare concretamente alcuni lotti dell’asse ferroviario AV/AC Napoli-Bari per un ulteriore valore di almeno 2 miliardi di euro.

Non si è riusciti ad avviare i lavori dell’asse viario Maglie-Santa Maria di Leuca per un valore di circa 280 milioni di euro.

Non si è riusciti ad avviare concretamente i lavori di un lotto dell’asse stradale 106 Jonica per un valore di circa 1,3 miliardi di euro.

Non si è riusciti ad avviare almeno un altro lotto sempre della strada statale 106 Jonica per un valore di circa 1,4 miliardi di euro.

Non si è riusciti ad avviare i lavori dell’aeroporto di Salerno per circa 280 milioni di euro.

Non si è riusciti ad avviare i lavori dell’asse autostradale Ragusa-Catania del valore di circa 880 milioni di euro.

Non si è riusciti ad avviare i lavori relativi alla rete ferroviaria AV/AC Palermo-Messina-Catania per un valore di 5 miliardi di euro.

Non si è riusciti ad avviare i lavori di un lotto importante della linea ferroviaria Circumetnea dell’importo di circa 440 milioni di euro.

Non si è attivata concretamente la serie di infrastrutture inserite nei Programmi operativi regionali (Por) sempre del Fondo comunitario di Sviluppo e coesione di cui non si sono ancora spesi circa 28 miliardi di euro; la maggior parte non spesa per mancata erogazione del 50% da parte dello Stato, come denunciato dal direttore generale per la politica regionale della, Ue Marc Lemaitre, nel settembre 2019 a Palermo.

LE COLPE DEL GOVERNO. Molti preciseranno che per alcune di queste opere nel 2020 c’è stata la consegna dei lavori o la conclusione delle gare. A tali osservazioni rispondo che tali opere erano pronte già nel 2015. Ma voglio anche precisare che la responsabilità non va addebitata alle stazioni appaltanti, cioè a Rete Ferroviaria Italiana o all’Anas, ma va addebitata al governo, che avrebbe dovuto garantire la copertura del 50% della quota italiana del Fondo di Coesione e sviluppo come già ricordato prima. Infatti le opere da me indicate rientravano tutte nel Programma operativo nazionale (Pon) e nel Programma operativo regionale (Por) del Fondo comunitario di Sviluppo e coesione.

STRATEGIA MIOPE. E allora, purtroppo, si è preferito non garantire l’avvio di infrastrutture per un valore superiore a 30 miliardi di euro (preciso: trenta miliardi di euro) e, in tal modo, si è preferito anche non bloccare il tragico trend negativo occupazionale del Mezzogiorno attraverso l’inserimento, nel comparto delle costruzioni, di risorse capaci di incrementare di circa il 2,8% il Prodotto Interno Lordo del Sud. Purtroppo si è preferito perseguire la strategia dell’immagine, la strategia del facile e gratuito consenso: peccato che lo si sia fatto danneggiando ancora una volta quell’area del Paese che sia il Partito democratico che il Movimento 5 stelle invocano sempre come tema di base per il rilancio e lo sviluppo dell’intero Paese. Operando in tal modo, penso non siano più credibili.

Incidenti stradali, il costo sociale non è di 17 miliardi ma di 34. Secondo l'Asaps i numeri sono doppi rispetto a quelli ufficiali, pari al due per cento del PIL. Vincenzo Borgomeo su La Repubblica l'11 settembre 2020. Colpo di scena, il costo degli incidenti stradali in Italia è sottostimato: i numeri veri sarebbero 34 miliardi l'anno e non 17, pari quindi al 2 per cento del pil e non all'uno per cento. La denuncia arriva da Stefano Guarnieri dell'Associazione Lorenzo Guarnieri Onlus che per conto dell'Asaps - la più grande agenzia di sicurezza stradale italiana - ha realizzato una ricerca partendo dai dati ANIA, MIT, WHO e lo stesso Istat. Tutto parte dal fatto che considerando i feriti veri (dati ANIA) che sono molto di più di quelli rilevati da ACI Istat; e considerando soprattutto la vecchia differenza del 10% fra la mortalità indicata da ACI-ISTAT e quella indicata da ISTAT nella mortalità per causa; con i costi materiali degli scontri senza feriti e altro si arriva quasi al doppio 34 Miliardi di Euro pari al 2% del PIL. Un numero che torna con quello della Gran Bretagna che ha la metà dei nostri incidenti, più o meno la nostra stessa popolazione e PIL e che dichiara al WHO 1% del PIL come costo sociale degli incidenti. Ma andiamo per gradi. "L’organizzazione mondiale della sanità nel 2015, nella tabella relativa all’Italia - spiega Stefano Guarnieri - dava 1,8% del PIL citando come fonte il Ministero dei Trasporti. Dal 2015 al 2019 secondo i dati ISTAT i morti si sono ridotti del 7%, i feriti del 2% per quale motivo il costo totale sarebbe dovuto passare dal 1,8% del PIL a 1% con una riduzione superiore al 40%? Difficile veramente da spiegare. Nel 2018 sempre l’organizzazione mondiale della sanità non dava più il dato italiano (come mai sarebbe da chiedercelo) ma dava per UK (un paese molto simile al nostro per dimensione e ricchezza) un 1% del PIL con una mortalità di 1827 morti pari al 45% in meno della nostra. Qualcosa non torna ancora: un fenomeno che è la metà del nostro produce lo stesso costo alla società? Allora i casi sono due: o noi sbagliamo i numeri oppure i morti e feriti italiani costano meno di quelli inglesi. Come vedremo il problema sta nel primo caso: sbagliamo, come sempre, i numeri". Secondo lo studio realizzato per l'Asaps infatti ACI-Istat nel 2019 dichiara 172.183 incidenti con feriti e nel 2018 172.553. Ma i dati assicurativi dell'ANIA dicono invece che nel 2018 ci sono stati 383.316 incidenti con feriti per i quali era stata aperta una pratica assicurativa. Quindi ACI-Istat nel 2018 si sono persi, nel raccontare il fenomeno, più di 210.000 incidenti con almeno un ferito. Per la stima del 2019 la ricerca prende il dato ANIA del 2018 e lo riduce con la stessa percentuale di riduzione 2019-2018 dei dati ACI-Istat, - 0,21% Quindi stima per il 2019 382.494 incidenti e per semplicità lo arrotondiamo in difetto a 382.000 (per essere ancora più prudenti nella stima). "Ma se il numero di incidenti con feriti è così difforme - ribatte Guarnieri - quanti sono allora i feriti? Secondo ISTAT-ACI il rapporto fra feriti e numero di incidenti con feriti è pari a 1,4 cioè ogni incidente con feriti ha in media 1,4 feriti. Se applichiamo la stessa percentuale ai dati ANIA avremmo 534.800 feriti nel 2019. Dato che vogliamo essere prudenti nella nostra stima consideriamo il minimo: 1 ferito per ogni incidente con feriti. Stimiamo quindi 382.000 feriti circa contro i 241.384 di ISTAT-ACI (e sicuramente è una stima molto prudente: non possono essere di meno, possono essere solo di più)". Per quanto riguarda la mortalità c’è il vecchio problema della sottostima dei dati ACI-Istat che è costantemente del 10% circa più bassa rispetto ai dati Istat della mortalità per causa.  Inoltre ACI-Istat - secondo la ricerca - si dimentica di aggiungere a questo costo anche il costo degli scontri senza feriti. Si tratta anch’esso di un “costo sociale” in quanto impatta sul costo della polizza assicurativa (e quindi sul portafoglio di tutti) e causa perdite di tempo e denaro significative. Questo costo era già stato stimato dal MIT nel 2017 pari a 6,22 Miliardi di € per un totale di 1,98 milioni di sinistri senza feriti. "Riproporzionando tale costo sui sinistri senza feriti del 2019, che stimiamo essere 1,95 milioni - continua Guarnieri - otteniamo una stima di costo pari a 6,1 Miliardi di € per questo tipo di scontri e che vanno aggiunti al nuovo costo sociale appena calcolato. Quindi il nuovo conteggio basato sull’incrocio con i dati ANIA, sulla mortalità per causa sempre di ISTAT, l’attualizzazione dei costi unitari e l’aggiunta del costo degli scontri che non hanno feriti, ci porta ad un costo totale minimo (ricordo minimo perché abbiamo usato stime molto conservative sul numero di feriti) di 33,8 Miliardi di € pari al 1,9% del PIL".

Paola Colaci per quotidianodipuglia.it l'11 luglio 2020. I treni veloci al Sud? La Puglia e il Mezzogiorno possono attendere. Per gli esperti del Ministero dell’Ambiente viene prima la tutela degli uccelli. Poi, semmai, toccherà al raddoppio della linea ferroviaria adriatica Bologna-Bari. In particolare, alla realizzazione del secondo e terzo lotto del tratto Termoli-Lesina, al confine con la Puglia. Un’opera strategica attesa dal 2001, da quando cioè fu prevista dalla Legge Obiettivo del governo di Silvio Berlusconi, e per la cui realizzazione sono già stati destinati 700 milioni di fondi Cipe. Un’infrastruttura che dovrebbe consentire il superamento di quel “collo di bottiglia” del binario unico, lungo 31 chilometri, che di fatto impedisce il raddoppio della linea ferroviaria nel tratto tra Pescara-Bari. Proprio nelle scorse settimane, però, il progetto definitivo presentato dalla Rete Ferroviaria Italia (Rfi) ha incassato una nuova bocciatura: quella degli esperti di tutela faunistica che in sede di commissione ministeriale di Valutazione di Impatto Ambientale, hanno dato parere negativo alla compatibilità ambientale al progetto. Tra le sottolineature, la presenza di rumori di cantiere che potrebbero arrecare danni all’avifauna. In particolare, alla specie protetta dell’uccello fratino. Da qui, dunque, la necessità di prevedere da parte di Rfi opportune opere di rinaturalizzazione di nuove aree e di interventi utili a ridurre il rumore e contenere ogni impatto sull’avifauna. Opere che il “braccio operativo” delle Ferrovie dello Stato ora dovrà provvedere a realizzare se vuole dare il via ai lavori. E seppure nei fatti si tratti di un ostacolo superabile, la nuova riprogrammazione comporterà inevitabilmente costi aggiuntivi e tempi più lunghi di realizzazione. Eppure nelle scorse settimane era stato proprio il premier Giuseppe Conte ad annunciare l’impegno formale del Governo a portare l’Alta Velocità al Sud. E nelle scorse ore il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Paola De Micheli scommetteva sul Piano #Italiaveloce da 200 miliardi di investimenti spalmati nell’arco di 15 anni. Nei fatti, però, su quel binario unico rimasto tale dal 1863 quando a inaugurarlo fu re Vittorio Emanuele II, c’è il rischio che di treni veloci non se ne vedano ancora per molto tempo. E se da Milano al Molise si viaggia a 200 km orari, nel tratto tra Termoli e Ripalta i convogli dovranno ridurre la velocità di marcia a 140 km orari. Di contro, l’unico a “volare” resta l’uccello fratino. Ma la Puglia non ci sta. «Al Sud non siamo bestie ma di certo gli uccelli sono maggiormente tutelati dei cittadini – tuona Rocco Palese di Forza Italia - Con tutto il rispetto per il fratino ci chiediamo se quelli del ministero vivano sulla Terra o sulla Luna. Di questo raddoppio si parla da 30 anni e, mentre aumentavano tempi e costi dell’opera, lo stesso ministero ha più volte espresso svariati pareri positivi. Tra ricorsi, controricorsi, pareri contrastanti, ordinaria e vergognosa burocrazia italiana, ora spunta anche il fratino. Tutto viene tutelato in questo Paese, tranne i cittadini, specie quelli del Sud, a cui di fatto viene negato il diritto alla mobilità che pure è costituzionalmente garantito». Ma a scendere in campo ora è anche la Cgil Puglia che, per voce del segretario generale Pino Gesmundo affonda il colpo: «Il blocco di quell’opera impedisce la valorizzazione dei nostri hub logistici e portuali, alle nostre imprese di essere collegati a uno degli assi della Trans European Network-Transport che lungo la costa Adriatica si ferma ad Ancona, a impedire il raddoppio della programmazione dei treni, che passerebbero da 80 a 150 al giorno. Non vorremmo che si ricominci con le schermaglie amministrative tra Regioni e Comuni, quindi forse è davvero il caso che lo Stato non perda tempo e utilizzi i poteri sostitutivi. Nel frattempo chiediamo ai ministri della nostra regione, ai parlamentari e al presidente Emiliano di intervenire usando tutti gli strumenti politici e istituzionali a loro disposizione».

ALESSANDRO MONDO per la Stampa il 30 giugno 2020. «Ma le pare possibile che un treno che parte a pieno carico da Genova debba dimezzarlo quando arriva ad Alessandria?». La domanda di Alberto Cirio, presidente del Piemonte, contiene la risposta ed è la sintesi della situazione sempre più problematica sul fronte del trasporto ferroviario con la Liguria, interessato dai primi episodi di sovraffollamento. In piazza Castello, sede della Regione, aumenta la preoccupazione. Il malumore, anche. A incidere, sulla prima e sul secondo, la riproposizione della solita Italia a più velocità: Regioni in ordine sparso. Prima ancora, l'assenza di una regia da parte del governo. Il Piemonte l'ha sperimentata a sue spese. «Da settimane abbiamo chiesto al governo di intervenire sull'eliminazione del distanziamento fisico a bordo dei treni in modo da tornare a un'offerta di posti completa ed evitare i sovraffollamenti che si stanno verificando da quando sono stati aperti i confini regionali ma da Roma non abbiamo ricevuto risposta», spiega Marco Gabusi, assessore regionale ai Trasporti. Silenzio. Un silenzio a fronte del quale anche il Piemonte ha deciso di procedere in autonomia per non restare con il proverbiale cerino in mano rispetto alle ordinanze già emanate da altre regioni. Obiettivo: utilizzare tutti i posti a disposizione sui mezzi abolendo il distanziamento fisico e mantenendo il solo obbligo della mascherina. «Ho chiesto al nostro comitato tecnico scientifico un parere formale sulla compatibilità di queste misure, tenendo conto dello status epidemiologico in Piemonte - spiega Cirio -. Se arriverà il via libera, sono pronto a emettere un'ordinanza da sottoporre ai presidenti delle regioni confinanti». «I dati sanitari del Piemonte sono buoni, ci auguriamo di ricevere a breve il parere positivo e di ripristinare in pochi giorni tutti i posti disponibili sui mezzi - rilancia l'assessore Gabusi -. Oltretutto, con riferimento alle misure restrittive del governo, non si sa nemmeno chi dovrebbe farle rispettare». Sia come sia, Emilia, Veneto, Friuli e Liguria sono già partiti con le ordinanze: dopo quella del Piemonte rimarrebbero fuori solo Lombardia e Valle d'Aosta. In realtà il responso degli esperti è già arrivato sul tavolo del governatore già ieri sera. «Il nostro parere è favorevole - conferma il professor Ferruccio Fazio, a capo della task force interpellata da Cirio -. Anche in Piemonte la situazione epidemiologica non è più quella di marzo e aprile, bisogna prenderne atto». In sintesi, il distanziamento fisico può venire meno. Di rigore l'uso della mascherina e il divieto per i passeggeri di viaggiare in piedi: massimo sforzo sulla sorveglianza e sulle sanzioni, eventualmente da rincarare, per chi non rispetta le regole superstiti. Queste le raccomandazioni dei consulenti. In Regione resta la convinzione che serva una linea univoca, almeno per tutto il Nord. «Il ricorso a misure regionali, senza coordinamento nazionale, è la prova concreta di come certe norme debbano avere una loro omogeneità - aggiunge l'assessore -. È anche dimostrazione dell'assenza del governo: le Regioni sono state lasciate sole e si sono dovute arrangiare creando situazioni di disparità come quella dei treni che possono partire pieni dalla Liguria, ma non dal Piemonte o dalla Lombardia». Tra l'altro, precisa Gabusi, «si parla dei treni ma abbiamo problemi anche sulla modalità di carico dei pullman turistici». Anche in questo caso, ciascuno per sé.

Quanto vale il diritto alla mobilità? Antonio Gaudioso il 12 Maggio 2020 su Il Corriere del Giorno. Questo intervento è stato scritto insieme a Marco Rasconi, presidente dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, e Francesco Schlitzer, Managing partner di VERA. Chiedere al Governo di chiarire con una semplice norma che una persona con disabilità non debba pagare la sosta del suo veicolo sulle strisce blu, non è cosa facile nel nostro Paese. Non lo è neppure in un periodo come questo dove l’emergenza CoronaVirus colpisce, ancor di più, le famiglie che hanno persone con disabilità. Dal 2018 con Cittadinanzattiva, UILDM Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare e VERA “giriamo a vuoto per Palazzi” per chiedere al Parlamento e al governo questo chiarimento. Vi sono stati infatti numerosi casi nei quali, cittadini con disabilità, non trovando liberi gli stalli a loro deputati e costretti a parcheggiare l’auto sulle strisce blu, sono stati poi oggetto di contravvenzione stradale pur esibendo il regolare contrassegno; oltre il danno la beffa. Molti Comuni, specie quelli di dimensioni ridotte, hanno infatti emanato delibere nelle quali viene scritto – a chiare lettere – che il veicolo al servizio di un disabile pur se dotato di regolare contrassegno deve comunque pagare la sosta oraria. Alcuni hanno persino installato nei parcheggi il segnale stradale con il disegno della sedia a rotelle e sotto la scritta sosta a pagamento sulle strisce blu. Viva la faccia! Ma vi è di più, perché le persone con disabilità vivono anche una discriminazione territoriale, perché se un disabile vive a Roma e malauguratamente è costretto a parcheggiare sulle strisce blu non è tenuto al pagamento della sosta, mentre se vive a Orbetello paga. Ora, non che la cosa meravigli in sé, visto che siamo uno dei paesi più arretrati e insensibili alle esigenze di chi ha una mobilità ridotta, basti guardare al tema delle barriere architettoniche. Tuttavia ingenuamente ci si aspetta che, posto il problema alle istituzioni competenti, la cosa si possa risolvere non diciamo in una settimana e neppure in un mese, ma in un anno magari sì. Soprattutto ce lo si aspetta dagli ultimi due governi nei cui programmi veniva dichiarata la massima attenzione e impegno per risolvere le tante problematiche delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Nel 2018, oltre 50 deputati di diverse forze politiche (PD, FI, FdI e LeU) prima firmataria l’on. Maria Chiara Gadda (Italia Viva), avevano sottoscritto la richiesta di chiarimento e anche il M5S aveva presentato la sua proposta. Dopodiché non è cambiato nulla. E infatti ne stiamo ancora a parlare. Una differenza però va fatta. Perché mentre la commissione Trasporti della Camera dei Deputati ha almeno provvisoriamente accolto all’unanimità la proposta nel corso dell’iter di riforma del codice della strada, il governo invece latita e in alcuni casi fa ostruzionismo. Le obiezioni tecnico/burocratiche che sono state sollevate sono le più varie. Tralasciamo quelle meno serie del tipo “ma cosi un’auto che ha il contrassegno parcheggia gratis anche se non c’è la persona con disabilità”, dimenticando che l’utilizzo abusivo del contrassegno è già severamente sanzionato. Quelle apparentemente più serie hanno sollevato il tema della copertura per le eventuali e non quantificabili mancate entrate comunali. Questa obiezione è politicamente molto pericolosa perché – al di là della sua fondatezza o meno – comporterebbe di fatto che il riconoscimento del diritto alla mobilità della persona con disabilità verrebbe accolto solo in subordine al reperimento di presunte entrate a favore di un Comune o, peggio ancora, per tutelare società che gestiscono i parcheggi a pagamento in concessione. Seguendo questo ragionamento, se oggi si volesse ridurre l’importo di una contravvenzione stradale, perché la si ritiene eccessiva sotto il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della violazione, dovremmo prima individuare la copertura finanziaria, poiché da quella riduzione scaturirebbero meno entrate comunali. Siamo giunti al paradosso che la “contabilità di Stato” prevale su diritti e principi costituzionali della persona. Detto questo, appare evidente che il tema della copertura su questa proposta neppure c’è, per due evidenti ragioni: la prima è che si tratta di chiarire ciò che è già previsto dal nostro ordinamento (a legislazione vigente) sia pure non in maniera puntuale, prova ne è che tanti Comuni non si sono mai sognati di far pagare alcunché. La seconda è che nel testo approvato e da tempo fermo alla Camera dei Deputati è già prevista una copertura, attraverso l’incremento della contravvenzione per coloro che sostano sugli stalli per disabili senza averne diritto. Ci chiediamo, quindi, perché tanta approssimazione e superficialità. Forse una ragione è che oggi molte questioni vengono lasciate al parere degli uffici tecnici ai quali manca (e d’altronde non è richiesta) una visione sociale e politica dei problemi. Il risultato è che la classe politica non è in grado di decidere, al massimo promette volentieri senza mantenere. Per esempio, l’ultima obiezione di questi giorni è che il tema delle strisce blu sarebbe di competenza dei Comuni e, quindi, il governo non può intervenire. Altra cosa manifestamente errata perché la norma è relativa al Codice della Strada (art.188) ed è di competenza statale. Sul tema Comuni vogliamo concludere ricordando che il vice presidente vicario dell’ANCI on. Roberto Pella (Forza Italia ) ha già pubblicamente dichiarato che questo chiarimento normativo è giusto e necessario tanto da avere già presentato un ordine del giorno per chiedere al governo di agire. Nella stessa direzione si è mossa la Lega con un’iniziativa dell’on. Elena Maccanti. Il governo però non agisce e nel frattempo migliaia di famiglie aspettano di avere un diritto che già gli spetta. Ma è credibile che in questa ridda di decreti legge con tanti articoli, commi, rubriche e con tanti miliardi di euro messi a disposizione, non si trovi il modo di approvare questa piccola norma di civiltà? La risposta è no, non è credibile.

Da ilmessaggero.it il 10 febbraio 2020. Brutta avventura per i due attori Stefano Fresi e Alessandro Benvenuti in Abruzzo. Sono stati colpiti da una pietra lanciata (o caduta) sull'auto con la quale stavano viaggiando in autostrada, all'altezza di Avezzano. La pietra è precipitata da un cavalcavia e ha mandato in frantumi il parabrezza. Gli attori non hanno riportato ferite. Il parabrezza ha attutito l'impatto e la pietra è poi caduta addosso ai due passeggeri che sono stati a quel punto investiti dai vetri senza però rimanere feriti. L'auto era guidata da Fresi e procedeva in direzione Roma sull'A25.  I due attori erano di ritorno da Gessopalena dove erano andati in scena al teatro comunale con lo spettacolo Don Chisci@tte. Secondo una prima ricostruzione, la macchina è stata presa in pieno dalla pietra che ha sfondato il parabrezza anteriore, penetrando all'interno dell'abitacolo. Il conducente è riuscito a raggiungere la vicina stazione di servizio Montevelino Nord, nel Comune di Magliano dei Marsi (L'Aquila) per dare l'allarme.

Crollato il ponte che collega Santo Stefano Magra e Albiano. Lisa Pendezza l'08/04/2020 su Notizie.it. Il ponte che congiunge Santo Stefano Magra e Albiano, tra La Spezia e Massa Carrara, è crollato improvvisamente: sul posto i vigili del fuoco. Paura al confine tra le province di La Spezia e Massa e Carrara, dove è crollato il ponte che congiunge Santo Stefano Magra con Albiano. Sul posto i Vigili del Fuoco per accertare l’eventuale coinvolgimento di mezzi di trasporto e persone. Il crollo è avvenuto improvvisamente, nella mattinata di mercoledì 8 aprile. Il tratto interessato si trova sulla strada provinciale Sp 70: si tratta del ponte della Caprignola, che collega la Liguria e la Toscana, tra i Comuni di Aulla e Bolano, rispettivamente in provincia di Massa e Carrara e di La Spezia. Paura nella regione teatro della tragedia del Ponte Morandi, nell’agosto 2018, mentre l’Italia continua a combattere contro l’epidemia di coronavirus.

DAGONEWS l'8 aprile 2020. Per una volta il Coronavirus ha evitato una strage, invece di provocarla. Se il ponte sul fiume Magra gestito da ANAS fosse crollato in un giorno di ordinaria routine, ci saremmo trovati un’altra volta a piangere decine di vittime innocenti. La maggior parte delle infrastrutture del nostro Paese è stata costruita nel Dopoguerra e, ormai, a 70 anni di distanza e in assenza di cure adeguate, ha bisogno di una massiccia campagna di manutenzione e di controlli efficienti. Si tratta del sogno di Di Maio e Toninelli che, nella loro furia nazionalizzatrice delle autostrade italiane, avevano visto in Anas la soluzione di tutti i mali. Per questo i due leader pentastellati, spalleggiati anche da frange del Pd, hanno fatto approvare a fine anno un articolo nel Milleproroghe (il numero 35), il quale dispone che, qualora ad Autostrade per l’Italia venisse revocata la concessione della rete per comprovate inadempienze, questa potrebbe passare ad Anas, pagando un valore di indennizzo ridotto di due terzi. Con un ulteriore effetto collaterale: l’automatica trasformazione del rating di ASPI in spazzatura, con la conseguente impossibilità di indebitarsi per realizzare gli investimenti di cui la rete ha urgente bisogno. Ed ecco il paradosso della politica infrastrutturale grillina. Con l’intento di punire la più grande concessionaria privata italiana per la tragedia del Morandi e la grave condizione degli altri viadotti della rete ligure, non le si consente di far partire 7,5 miliardi di cantieri di manutenzione e di investimenti. E lo stesso vale per diversi altri concessionari privati. Dall’altro lato invece il principale gestore pubblico, Anas, dimostra tutta la sua inadeguatezza nel gestire e garantire la sicurezza di ponti e infrastrutture. Non a caso oggi nelle chat di alcuni parlamentari di maggioranza circolava la battuta: “E ora che si fa? Passiamo la rete di Anas ad ASPI”?

Crolla il ponte di Albiano Magra, tra le province di La Spezia e Massa Carrara. Ha ceduto il viadotto sulla Sp 70. Coinvolti due furgoni, i due conducenti trasportati in ospedale. A novembre una crepa, ma dai controlli fu dichiarato che non sussistevano "condizioni di pericolosità". Chiara Tenca l'8 aprile 2020 su La Repubblica. E’ crollato questa mattina intorno alle 10.30 il ponte di Albiano Magra, che collega il paese, in provincia di Massa Carrara, e Santo Stefano Magra, in provincia della Spezia. Un boato, avvertito da molti abitanti della zona, ha fatto scattare l’allarme. L’infrastruttura si è spezzata in diversi tronconi. I veicoli in transito coinvolti nel crollo sono stati due furgoni che sarebbero rimasti comunque sopra la carreggiata collassata (traffico praticamente assente per le norme sulla circolazione dovute al coronavirus). I conducenti di due furgoni, soccorsi dal 118 e dai vigili del fuoco, sono stati trasportati in ospedale entrambi in codice giallo, il primo (il corriere di un'azienda di trasporti e consegne) all'ospedale di Pisa e il secondo al Sant'Andrea della Spezia.Nella caduta entrambi i mezzi sarebbero rimasti sopra una delle solette d'asfalto del ponte, crollato su se stesso e abbattutosi sul letto del fiume Magra .Al momento i vigili del fuoco in ricognizione stanno controllando tutta l'area coinvolta per scongiurare la presenza di eventuali ulteriori persone coinvolte.La prima chiamata di soccorso era arrivata al 118 intorno alle 10.20. Sul posto sono stati inviati l'automedica da Aulla, due ambulanze della Croce rossa di Albiano, un'ambulanza di da Aulla, l'elisoccorso da Massa e un altro mezzo del 118 da Vezzano nello spezzino. L'Infrastruttura crollata questa mattina negli ultimi mesi era stata al centro di polemiche dopo che, lo scorso novembre, in seguito a un'ondata di maltempo, si era formata una crepa notata anche da molti automobilisti. Ci fu un sopralluogo dei tecnici Anas, da cui dipende l'infrastruttura, ma dai controlli fu dichiarato che non sussistevano "condizioni di pericolosità". A riferirlo è Gianni Lorenzetti, presidente della Provincia di Massa Carrara che alcuni anni fa ha ceduto la struttura ad Anas. Il sopralluogo, ricorda, fu fatto alla presenza anche dell'assessore comunale di Aulla e della polizia. Lo stesso Comune rassicurò i cittadini con un post sulla pagina istituzionale informando che "il traffico non avrebbe subito limitazioni". "Il ponte - aggiunge Lorenzetti - è importantissimo per la popolazione dell'alta Lunigiana, punto di collegamento sia con i primi territori della Liguria sia con il resto della Toscana".

Incubo in Lunigiana: crolla un ponte a Aulla. "Una scena apocalittica". Le Iene News l'8 aprile 2020. Il ponte sul fiume Magra unisce la statale della Cisa con la provinciale di Albiano sui monti tra la Toscana e la Liguria: è crollato questa mattina alle 10.22. Qualcuno aveva avvisato di una crepa inquietante. Coinvolti due veicoli. Un testimone: "È una scena apocalittica". Paura in Lunigiana vicino ad Aulla con l’incubo del Ponte Morandi di Genova negli occhi. Il ponte tra Albiano Magra (Massa-Carrara) e Santo Stefano Magra (La Spezia) che attraversa il fiume Magra, è crollato questa mattina alle 10.22. Il viadotto, che unisce la statale della Cisa con la provinciale di Albiano, come vedete nel video qui sopra, è letteralmente collassato pezzo per pezzo. "È una scena apocalittica, ora è tutto bloccato: le forze dell'ordine in un primo tempo hanno bloccato tutti per evitare  pericoli di fughe di gas", racconta contattato al telefono da Iene.it Aldo Vivaldi, ex vicesindaco di Aulla. "Sul ponte infatti passavano anche le linee del gas. Non mi trovavo sul posto, mi hanno chiamato subito le mie figlie perché abito a 200 metri di distanza dal viadotto". "L'ho visto crollare davanti a me pezzo do pezzo", ci ha detto un altro testimone. Nel crollo sono stati coinvolti due autisti: uno è illeso e l'altro, ricoverato con un trauma toracico, non sarebbe in pericolo di vita. La tragedia sarebbe stata evitata solo per lo scarso traffico di questi giorni dovuto al blocco degli spostamenti per l’emergenza coronavirus. Sul ponte è rimasto, su un pezzo di carreggiata crollato, un furgone rosso ancora in piedi. “Il viadotto Albiano in questione (già attenzionato e sorvegliato da personale Anas) non presenta al momento criticità tali da compromettere la sua funzionalità statica. Sulla base di ciò non sono giustificati provvedimenti emergenziali per il viadotto stesso” sosteneva l'Anas nell'agosto 2019, come vedete in basso. Alcuni camionisti avevano segnalato in novembre anche sui social un’inquietante crepa sulla carreggiata del ponte (potete vedere anche quella qui sotto). Dopo i controlli dell'Anas era stato deciso che la circolazione poteva riprendere perché non ci sarebbero stati rischi. Anche il sindaco di Aulla, Roberto Valettini ha detto di aver chiesto più volte ad Anas controlli proprio sul viadotto crollato per le numerose segnalazioni ricevute. 

Crolla il ponte sul fiume Magra: precipitano due furgoni. Il Dubbio l'8 Aprile 2020. Un ferito in codice giallo per trauma toracico. I testimoni: «C’è odore di gas». È crollato, accartocciato su se stesso, il ponte di Albiano (provincia di Massa Carrara) che collega Santo Stefano di Magra con il comune toscano. Sul posto i vigili del fuoco. Al momento non si hanno notizie certe di feriti o vittime. Sul viadotto, che collegava la strada provinciale 70 alla Sp62, sono intervenuti i vigili del fuoco, che dalle 10.25 stanno ancora lavorando per mettere in sicurezza l’area. Secondo le prime informazioni, il cedimento avrebbe coinvolto due furgoni, precipitati sul letto del fiume e rimasti sopra la carreggiata collassata. Uno dei due autisti è stato trasportato in codice giallo all’ospedale con un trauma toracico, mentre il secondo sarebbe invece rimasto praticamente illeso a parte lo choc. Due le squadre  che stanno operando sul posto, allertato anche il nucleo Usar. Dopo un boato le campate dell’infrastruttura sono collassate e finite nel fiume Magra. Paura tra la gente. Secondo i testimoni, tra le macerie si sente un forte odore di gas. L’opera in località Albiano era al centro di polemiche dopo la comparsa di crepe.

Il 3 novembre scorso i tecnici dell’Anas avevano effettuato un sopralluogo sul ponte, a seguito del quale fu dichiarato che non sussistevano «condizioni di pericolosità». «Se non ci mettiamo SUBITO a lavorare sui cantieri con il piano Shock – presentato ormai da molti mesi – ogni anno andrà peggio. E se non lo facciamo in questa fase di crisi vuol dire che ci vogliamo del male. Apriamo questi benedetti cantieri, subito», ha scritto su Facebook Matteo Renzi. «È un fatto gravissimo», ha commentato Cosimo Ferri, deputato di Italia Viva e componente della commissione Giustizia della Camera, «si faccia subito chiarezza», ha aggiunto. «Non oso immaginare cosa sarebbe successo a viabilità normale, senza le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria. Si accertino le cause del crollo, le responsabilità, erano state segnalate nel passato la presenza di crepe – ha proseguito -. Siamo stufi di opere pubbliche precarie e che crollano. Aspettiamo le valutazioni della magistratura ma è evidente che si debba aprire anche una riflessione politica sul tema di come si realizzano le opere pubbliche. Vedere crollare un ponte per una comunità è una tragedia grande che fa molta paura».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 9 aprile 2020. Un boato, poi il crollo. Una tragedia sfiorata, evitata solamente dalle limitazioni alla circolazione imposte dall'emergenza coronavirus. Potrebbe essere la storia di un allarme ignorato, quella del ponte Albiano Magra, che collega il paese, in provincia di Massa Carrara, in Toscana, e Santo Stefano Magra, in provincia di La Spezia, in Liguria. L'infrastruttura, che si è letteralmente sgretolata ieri mattina intorno alle 10.30, era da tempo al centro di polemiche e richieste di sopralluoghi. Nell'incidente sono rimasti coinvolti due furgoni, uno della Tim e l'altro del corriere espresso Bartolini: i conducenti sono stati soccorsi dal 118 e dai vigili del fuoco e sono stati portati in ospedale. Uno è rimasto illeso: si è salvato fuggendo dall'abitacolo. L'altro si è rotto una vertebra ed è ricoverato in ospedale a Pisa. Su Facebook ha rassicurato parenti e amici: «Sono vivo, anche se volare da un ponte che sta crollando non è il massimo». Lo scorso novembre, dopo un'ondata di maltempo, lungo il viadotto si era formata una crepa, notata da molti automobilisti e segnalata dal comune. Cinque mesi fa c'era stato un sopralluogo dei tecnici Anas, da cui dipende l'infrastruttura. E l'esito dei controlli sembrava chiaro: «Non sussistono condizioni di pericolosità». A riferirlo è Gianni Lorenzetti, presidente della Provincia di Massa Carrara. Il sopralluogo, ricorda Lorenzetti, era stato fatto alla presenza anche dell'assessore comunale di Aulla e della polizia. Ma il sindaco di Aulla, Roberto Valettini, aveva segnalato molte volte i problemi del ponte, chiedendo verifiche. «Mi sono spolmonato nei solleciti», ha spiegato il primo cittadino, affermando di aver scritto cinque lettere ad Anas. La prima il 16 agosto 2018, due giorni dopo il disastro del ponte Morandi, l'ultima lo scorso novembre. In quell'occasione Valettini aveva manifestato le preoccupazioni di Comune e cittadini per un aumento di traffico dovuto alla chiusura della strada della Ripa. Anas aveva inoltrato al primo cittadino la fotocopia della precedente risposta datata agosto 2019: «Quasi a dire: state esagerando nel chiederci le cose», ha raccontato il sindaco. In quel documento c'era scritto: «Il viadotto (già attenzionato e sorvegliato dal personale Anas) non presenta al momento criticità tali da compromettere la sua funzionalità statica» per cui «non sono giustificati provvedimenti emergenziali». Ieri, dopo l'incidente, Anas ha ribadito che «a partire dal 2019, il ponte è stato oggetto di sopralluoghi e verifiche periodiche, anche rispetto a segnalazioni degli Enti locali, che non hanno evidenziato criticità». Ora ha avviato una commissione di indagine per accertare dinamica e cause del «crollo improvviso» che al momento «non è possibile ipotizzare». Sul caso indaga anche la procura di Massa Carrara, che ha aperto un fascicolo per disastro colposo. Ipotesi che potrebbe presto venire affiancata da altri filoni di indagine. L'inchiesta è coordinata dalla pm Alessandra Conforti che ha già disposto il sequestro dell'area. Nel fascicolo confluiranno le denunce dei cittadini sulle condizioni del ponte e, soprattutto, le segnalazioni sulla mancata manutenzione. Sono i carabinieri del comando provinciale di Massa Carrara a condurre gli accertamenti. Intanto anche il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, ha istituito presso il Mit una Commissione d'inchiesta per fare chiarezza sull'accaduto. Il presidente sarà il direttore dell'Ansfisa, Agenzia nazionale per sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali, Fabio Croccolo. I componenti saranno Walter Salvatore, ordinario di tecnica delle costruzioni dell'Università di Pisa e componente del Consiglio Superiore dei lavori Pubblici, e Sergio Lagomarsino, ordinario di ingegneria civile chimica e ambientale dell'Università di Genova, esperto del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Entro 30 giorni, la commissione dovrà elaborare una relazione.

Alberto Gentili per “il Messaggero” il 9 aprile 2020. Non è tempo per il governo, stretto nella morsa dell'epidemia e della trattativa in Europa per gli Eurobond, di affrontare il dossier-infrastrutture. Tant'è che a Palazzo Chigi e al dicastero dei Trasporti e Infrastrutture nessuno risponde a chi chiede se sia stato un errore prevedere di affidare ad Anas, con il decreto Milleproroghe di gennaio, la rete autostradale in caso di forti criticità del piano di manutenzione e di gestione di Atlantia. Ma il tema c'è. Il crollo del ponte Anas di Albiano innesca l'imbarazzo dei 5Stelle che sono stati e sono ancora in prima linea per strappare alla società del gruppo Benetton tutte le concessioni. Nessuna dichiarazione, nessun sospiro dopo il nuovo crollo in casa grillina, dove si erano battuti coltello tra i denti per inserire la norma anti-Atlantia nel decreto Milleproroghe. Chi invece non fa passare sotto silenzio la tragedia mancata è Italia Viva. Luigi Marattin, mente economica del partito di Matteo Renzi, riapre la riflessione dopo che già nei mesi scorsi si era battuto per togliere dal Milleproroghe la norma contestata: «Questa vicenda dimostra quello che diciamo da un po'. Nella gestione di un servizio pubblico, non servono le guerre di religione. Non servono le ideologie. Non esistono soggetti privati malfattori e soggetti pubblici angelici, né viceversa. Esistono eccellenze e inefficienze nella gestione pubblica e in quella privata (regolamentata). Esistono errori del gestore ed errori del regolatore. Compito della politica è avere la regolamentazione migliore possibile, e scegliere di volta in volta - con lo strumento della gara pubblica - il gestore più efficiente. Non servono le crociate contro i privati, ma occorre una regolamentazione all'altezza». Non serve, insomma, la crociata 5Stelle contro Autostrade, visto che anche Anas, come accusa il sindaco di Aulla Roberto Valentini, non è intervenuta nelle opere di consolidamento del ponte crollato nonostante tre richieste che segnalavano la criticità dell'infrastruttura crollata. Il nuovo crollo, che segue a quello del ponte Morandi e di altri viadotti e gallerie, comunque scuote la politica. Nicola Zingaretti, segretario del Pd, dichiara: «Siamo vicini alla comunità e ai cittadini delle località coinvolte dal crollo del ponte. Ora si accertino le responsabilità. Bene la richiesta immediata del ministro De Micheli di una relazione ad Anas ed il lavoro di inchiesta che dovrà essere rigoroso su quanto è accaduto. Bisogna proseguire con il lavoro avviato e sostenere con maggiore forza una stagione di ammodernamento del Paese a partire dalle infrastrutture». Anche la Lega scende in trincea: «La manutenzione delle infrastrutture non può più aspettare. Il crollo del Ponte di Albiano poteva trasformarsi in tragedia, visto che in tempi normali è trafficatissimo. Il crollo di oggi non può che evidenziare l'assoluta necessità di intervento: abbiamo miliardi di euro bloccati per le manutenzioni in Anas e altri gestori delle infrastrutture», sostiene Edoardo Rixi, responsabile nazionale Infrastrutture del Carroccio. Appelli a una ripresa del piano di manutenzione delle infrastrutture arriva anche da Leu, Fratelli d'Italia e Forza Italia.

Ponte crollato, è già partito lo scaricabarile. L’Arno-Il giornale il 10 aprile 2020. Uno degli sport italiani più in voga negli ultimi decenni, lo scaricabarile, è iniziato anche sulla vicenda del ponte crollato tra Toscana e Liguria. Fortunatamente non ci sono state vittime ma solo due feriti, grazie al fatto che l’emergenza coronavirus ha quasi azzerato la circolazione dei mezzi, altrimenti sarebbe stata una tragedia, visto che su quel ponte passano, ogni giorno, migliaia di macchine. Abbiamo già scritto che l’Anas aveva rassicurato il Comune di Aulla dicendo che “era tutto a posto”, dopo i sopralluoghi effettuati a seguito delle segnalazioni (almeno cinque) fatte dal sindaco Roberto Valettini. Il 12 agosto 2019 l’Anas scrisse questo: “Il viadotto di Albiano non presenta al momento criticità tali da comprometterne la sua funzionalità”. Dopo pochi mesi si è afflosciato come un castello di carte. Possibile che le criticità siano spuntate tutte in 7-8 mesi? Il Comune di Aulla non mollò la presa e il 4 Novembre tornò a scrivere all’Anas dicendosi preoccupato per lo stato del ponte, a causa delle continue segnalazioni degli automobilisti che vi transitavano ogni giorno ed anche ai possibili danni arrecati dal maltempo. L’Anas intervenne per sistemare una “fessura” ma ribadì che non vi erano rischi. Dall’Anas nessuno parla più, lo faranno solo con la procura di Massa Carrara, che ha aperto un fascicolo (per ora contro ignoti) su quanto è accaduto, con le ipotesi di reato di disastro colposo e lesioni. Il ponte fu ultimato nel 1908 dall’impresa “Società per la costruzione del Ponte Caprigliola Albiano”, costituita dal professor Attilio Muggia (ingegnere e architetto) e dal suo assistente, l’ingegner Nino Ferrari. Muggia era stato un pioniere delle costruzioni in cemento armato (progettò il primo ponte sul Po, a Piacenza). Per costruire quel ponte in cinque arcate sul fiume Magra, con i lavori di 300 operai che presero il via nel 1906, furono utilizzati 30mila quintali di cemento e 220 tonnellate di ferro. I quattro piloni furono costruiti utilizzando dei cassoni ad aria compressa sottofondati, tecnica innovativa per quel periodo. In quegli anni ricordiamo che l’uso delle staffe era limtato alla funzione della legatura dei feri longitudinali, e non finalizzate quindi per lo sforzo a taglio. Tirato giù dai tedeschi nel 1944, per impedire l’avanzata verso Nord degli Alleati, il ponte fu ricostruito nel 1949 utilizzando i piloni originali, che resistettero alle mine dei tedeschi. Il ponte è finito sotto la gestione dell’Anas nel dicembre 2018, insieme ad altri 1300 ponti lungo tutto lo Stivale (3 circa 3500 km di strade). Se è scontato puntare il dito contro l’Anas viene però da chiedersi cosa abbia fatto la Provincia di Massa Carrara tra il 2000 e il 2018, quando ha gestito l’infrastruttura. Bisognerà studiare attentamente le carte e verificare quali siano stati i lavori di manutenzione e i controlli effettuati. Lavoro che spetta alla magistratura.

Manutenzione necessaria: ma quanti soldi servono? Il direttore dell’Istituto per le Tecnologie della Costruzione del Cnr, Antonio Occhiuzzi, fa notare che decine di migliaia di ponti in Italia hanno superato la durata di vita per la quale sono stati progettati e costruiti, essendo nati tra gli anni Cinquanta e sessanta del secolo scorso. Serve, dunque, una massiccia opera di manutenzione straordinaria per la loro messa in sicurezza. In alcuni casi i costi sarebbero superiori a quelli per la demolizione e ricostruzione, tenuto conto anche dei carichi sopportabili da strutture concepite diverse decine di anni fa. Stimando in circa 2mila euro al mq il costo per realizzare un ponte, tenuto conto di almeno 10mila ponti per una superficie media di circa 800 mq, sarebbero necessari alcune decine di miliardi di euro. Uno sforzo immane per il Paese. Ma necessario. A meno che, uno dopo l’altro, non vogliamo assistere al lento sbriciolarsi di altri ponti lungo tutto lo stivale.

Daniele Martini per il “Fatto quotidiano” il 17 aprile 2020. L' Anas non fa il suo dovere per la manutenzione di ponti, viadotti e gallerie. Non lo dice un signor nessuno, ma il direttore generale del ministero dei Trasporti, Antonio Parente, in una lettera bruciante come una frustata, indirizzata all' amministratore delegato dell' azienda pubblica delle strade, Massimo Simonini. Parente è il dirigente ministeriale che vigila sull' operato dell' Anas e la sua accusa è tanto più grave se si considera che essa viene sollevata a pochi giorni dalla caduta del ponte Anas ad Aulla, al confine tra la Toscana e la Liguria. Il crollo non si è trasformato in tragedia perché non ci sono stati morti come nell' agosto di due anni fa a Genova, ma solo feriti non gravi. È stato il caso a impedire il peggio perché a causa del traffico quasi assente per il coronavirus in quel momento non transitava quasi nessuno. Il ponte è venuto giù nonostante il sindaco della zona solo alcuni mesi prima avesse più volte sollecitato ispezioni da parte dell' Anas e dall' Anas gli avessero risposto di non preoccuparsi perché era tutto sotto controllo e regolare. Il Fatto ha rivelato in quell' occasione che dopo la tragedia di Genova, il nuovo amministratore delegato dell' Anas invece di moltiplicare le attenzioni per ponti e viadotti, ha di fatto smontato l' ufficio di vigilanza di cui lui stesso faceva parte. La nota del ministero conferma questa paradossale trascuratezza, aggiunge particolari inquietanti e mette in una condizione sempre più insostenibile l' amministratore dell' Anas. Pescato alla fine del 2018 dal governo Lega-5Stelle tra le terze file aziendali, Simonini finora non ha mai brillato. Per la prima volta dopo un quindicennio l' azienda pubblica delle strade fatta confluire nel gruppo Fs ha chiuso il bilancio con una perdita (71 milioni di euro) e Simonini si è pure incaponito a voler pagare a suon di decine di milioni al gruppo dell' imprenditore ed ex politico Vito Bonsignore vecchi progetti per le autostrade Ragusa-Catania e Orte-Mestre nonostante il parere contrario dell' Autorità anticorruzione. Proprio per accelerare l' iter della costruzione di queste e di altri grandi opere stradali, a Simonini è stato affidato l' incarico di commissario dal capo della holding Fs, Gianfranco Battisti. La lettera all' Anas del dirigente ministeriale è insolitamente esplicita e dura nonostante si tratti di un atto formale. In essa si legge che "per quanto riguarda ponti e viadotti risultano, alla data odierna, fortemente disattese le chiare indicazioni impartite dal governo e formalizzate nel cosiddetto decreto Genova dopo il crollo del viadotto del Polcevera". Il decreto imponeva tra l' altro ai gestori di strade privati e pubblici di trasmettere all' Ainop (l' Archivio delle opere pubbliche) i dati necessari. L' Anas ha disatteso l' impegno "nonostante ripetuti incontri e solleciti effettuati" dallo stesso Direttore ministeriale. In pratica l' amministratore Anas si è sottratto a un dovere "di trasparenza verso la collettività, oltre che di rispetto di disposizioni di legge". L' alto dirigente ministeriale rivela inoltre che l'"inadeguatezza delle modalità di verifica delle condizioni di ponti e viadotti Anas è stata più volte oggetto di attenzioni - anche a seguito degli esiti negativi di uno specifico audit - da parte del Collegio sindacale". Infine a proposito delle gallerie della rete Ten (i corridoi stradali europei), il direttore del ministero accusa l' Anas sostenendo che alcune di esse "non solo non sono risultate adeguate, ma non risulta neppure disponibile la progettazione dell' adeguamento da effettuare".

Deraglia treno alta velocità a Lodi, morti i due macchinisti. Ci sono 31 feriti. Ieri sostituito un deviatoio. Morti i macchinisti Giuseppe Cicciù e Mario Dicuonzo. Il Frecciarossa viaggiava a 280 km/h. Alcune vetture si sarebbero ribaltate. Circolazione sospesa sulla Milano-Bologna. Sequestrata l'intera area. Domani sciopero di due ore. Massimo Pisa, Mauro Rancati e Giampaolo Visetti il 06 febbraio 2020 su La Repubblica. Grave incidente sulla linea alta velocità in provincia di Lodi, con due macchinisti morti e 31 persone ferite: il deragliamento del treno ad alta velocità Frecciarossa Av 9595 partito da Milano e diretto a Salerno è avvenuto alle 5.34 nel comune di Ospedaletto Lodigiano, nei pressi del casello A1, in zona cascina Griona. La motrice del Frecciarossa, in corrispondenza di uno scambio, si è staccata dal resto del treno, andando verso la zona dei depositi e, dopo aver urtato un carrello merci sui binari e - dopo aver percorso trecento o quattrocento metri fuori dalle rotaie - si è schiantata contro un cantiere ferroviario e contro un deposito. Il resto del treno ha invece continuato la sua corsa sull'altro binario, la prima carrozza si è ribaltata e le altre carrozze sono più più o meno rimaste intatte: la prima vettura del treno "si è staccata dal resto del convoglio per i sistemi di sicurezza e ha proseguito la corsa", questa "è stata una fortuna nel dramma perché altrimenti c'era il rischio che anche il resto del treno avesse lo stesso impatto tremendo", ha spiegato il governatore Fontana. L'intera area è stata sottoposta a sequestro dalla Polfer al termine delle operazioni di soccorso, la procura di Lodi ha aperto un'inchiesta per disastro ferroviario, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime. Il prefetto di Lodi Marcello Cardona: "Poteva essere una carneficina". Rfi ha avviato una commissione d'inchiesta. "Oggi vogliamo esprimere grande vicinanza alle famiglie dei nostri due colleghi ferrovieri - spiega l'ad di Rfi Maurizio Gentili - ai quali siamo molto vicini e a tutti i feriti, e ringraziare i soccorritori". Al momento le vittime accertate sono i due macchinisti di 51 e 59, Giuseppe Cicciù (nato a Reggio Calabria) e Mario Dicuonzo (nato a Capua). Sul treno c'erano 28 passeggeri in tutto, più 5 impiegati delle ferrovie, tra loro i due macchinisti morti. Ventisette persone in tutto, tra passeggeri e personale, sono rimaste ferite anche se non in modo grave: 25 sono in codice verde e 2 in giallo, portati nei diversi ospedali della zona. Un operaio, un pulitore che era probabilmente a bordo del treno, si è rotto il femore. Sul posto diverse ambulanze, auto mediche, carabinieri e polizia. La zona è stata isolata per permettere i soccorsi. I vigili del fuoco hanno lavorato a lungo per estrarre i passeggeri dalle lamiere. "Il bilancio definitivo del deragliamento del treno Alta Velocità Frecciarossa avvenuto alle 5.35 all'altezza di Ospedaletto Lodigiano, in località Cascina Griona, è di 2 persone decedute, 31 feriti". Lo riferisce l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera. Tra i feriti "4 ricoverati in codice giallo a Lodi (2), Cremona e Pavia, e 27 in codice verde negli ospedali di Lodi (8), Melegnano (4), Crema (3), Humanitas (3), Codogno (2), Piacenza (3) e Castel San Giovanni (4)". Per Gallera è stata "straordinaria la capacità di intervento e di coordinamento dell'Azienda Regionale per l'Emergenza Urgenza (AREU) di Regione Lombardia che ha messo immediatamente in campo l'attività di Consolle Maxiemergenza, 2 elicotteri dotati di dispositivi per il volo notturno, 2 automediche, 12 ambulanze e 1 veicolo da 9 posti. Ringrazio tutti gli operatori e i volontari intervenuti con grande tempestività e professionalità". reno deragliato a Lodi, la dinamica dell'incidente. E' stata ricostruita una prima parziale dinamica del deragliamento del Treno Av 9595, il primo Frecciarossa del mattino partito da Milano alle 5.10, avvenuto stamani. Secondo le forze dell'ordine la motrice del convoglio, dopo essere sviata dai binari per cause ancora da chiarire, sarebbe uscita completamente dalla sede finendo prima contro due carrelli della manutenzione su un binario parallelo, e poi contro una palazzina delle ferrovie, dove ha terminato la sua corsa. Il resto del convoglio avrebbe invece proseguito la corsa ancora un po' con la seconda carrozza che ad un certo punto si sarebbe ribaltata. Potrebbe essere stato un problema a uno scambio una delle cause che hanno portato, stamani alle 5.34, nel Lodigiano, al deragliamento del treno Av 9595 che ha causato la morte di due persone e il ferimento di una trentina di passeggeri. Secondo quanto risulta all'ANSA, infatti, lo 'sviamentò del treno sarebbe avvenuto in corrispondenza di uno scambio, dove proprio la scorsa notte, o nella tarda serata di ieri, sarebbe stato sostituito un 'deviatoio', ovvero un pezzo dello scambio stesso. Dalle prime informazioni sembra che la notte scorsa fossero in corso lavori di manutenzione sulla linea. "La manutenzione viene fatta costantemente, associare una manutenzione all'evento tragico mi pare assolutamente prematuro": è quanto ha risposto il prefetto di Lodi Marcello Cardona a chi gli ha chiesto se ci sono stati lavori di manutenzione nella notte lungo la linea dove è deragliato un treno dell'alta velocità. "C'è il magistrato sul posto e la Procura ha individuato i due tecnici per chiarire le dinamiche del gravissimo incidente. Tutto deve essere valutato, repertato e quindi non sono questioni che si dipanano dopo dieci minuti o dopo un'ora", ha aggiunto Cardona, spiegando che "sarà un lavoro certosino, già in atto come ho riferito al ministro dell'Interno". Appena possibile saranno anche acquisite le telecamere, così come le immagini delle telecamere di sicurezza della palazzina di manutenzione che il convoglio ha toccato nella sua corsa suoi dai binari.

Frecciarossa deragliato, i sindacati annunciano due ore di sciopero. "In considerazione dell'estrema gravità dell'incidente e nel rispetto delle vite umane domani ci sarà uno sciopero di due ore di tutti i ferrovieri dipendenti da tutte le aziende di settore operanti sulla rete nazionale e locale a partire dalle 12 ai sensi della vigente normativa in materia". Lo annunciano Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Fast-Confsal, Ugl Taf e Orsa dopo il deragliamento del treno che ha causato la morte dei due macchinisti.

Treno Frecciarossa deragliato a Lodi, ritardi sulla circolazione. Dalle 5.30 la circolazione è stata sospesa sulla linea AV Milano - Bologna per lo svio (questo il termine tecnico di deragliamento) del treno 9595 Milano-Salerno nei pressi della stazione di Livraga (Lodi). Sul posto i Vigili del Fuoco e i mezzi di soccorso. Tutti i treni, in entrambe le direzioni, sono stati instradati sulla linea convenzionale Milano-Piacenza con ritardi fino a 60 minuti.

Treno deragliato a Lodi, il precedente due anni fa a Pioltello. Il 25 gennaio 2018 a Pioltello (Milano) il treno dei pendolari di Trenord numero 10452 - 350 pendolari a bordo - che collega Cremona a Milano Porta Garibaldi - esce dai binari ad alcuni chilometri dalla stazione di Pioltello, sbatte contro un palo della luce e deraglia. Muoiono tre passeggere, decine i feriti. Le indagini sono state chiuse a ottobre, anche se sono in corso altri accertamenti: disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, in vista della richiesta di processo, a carico di 12 persone, ovvero 2 manager e 7 tra dipendenti e tecnici Rfi (Rete ferroviaria italiana), la stessa società, e 2 ex vertici dell'Agenzia Nazionale per la Sicurezza.

"Uno scambio rimasto aperto". L'impatto del Frecciarossa a 290 km orari. La procura ha aperto un'inchiesto per capire le cause del deragliamento. Tra le ipotesi quella legata a uno scambio rimasto aperto dopo i lavori di manutenzione. Francesca Bernasconi, Giovedì 06/02/2020, su Il Giornale. L'impatto è avvenuto a 290 chilometri orari. Potrebbe essere stato uno scambio a causare il disastro ferroviario che, questa mattina, ha coinvolto il Frecciarossa 9595, diretto a Salerno e deragliato nel Lodigiano, sulla linea Milano-Bologna. Una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti, che stanno indagando per cercare di capire quali possano essere state le cause dell'incidente, sarebbe legata a uno scambio, che si trovava in una posizione errata: avrebbe dovuto essere chiuso, invece sarebbe rimasto aperto sui binari. La tratta, infatti, era stato oggetto, durante la notte, di alcuni lavori di manutenzione e lo scambio in questione potrebbe essere rimasto non allineato. Secondo quanto apprende l'AdnKronos, che ha mostrato una foto del pezzo di binari su cui si sono concentrati i dubbi, la Polfer ha individuato l'anomalia durante i sopralluoghi, il che potrebbe far pensare a un mancato sblocco dopo i lavori della scorsa notte. Potrebbe essere proprio questa la causa dello svio della motrice e del deragliamento del treno: se così fosse, si tratterebbe di un "errore" e in caso l'ipotesi venisse confermata bisognerà accertare se sia stato umano o strutturale. Un'altra ipotesi è invece legata alla sostituzione di un "deviatoio". Da subito era stato puntato il dito contro i lavori di manutenzioni svoltisi la scorsa notte, che avevano interessaro uno scambio oleodinamico, quello che permette ai convogli di cambiare binario. Come ha specificato il Corriere della Sera, il Frecciarossa 9595 era il primo treno a percorrere quel tratto ferroviario dopo i lavori. "L'incidente, avvenuto all'altezza di uno dei posti di manutenzione della linea, fa supporre che la causa del deragliamento sia l'errata posizione dello scambio di ingresso e uscita del posto di manutenzione", ha detto Dario Balotta, presidente dell'Osservatorio nazionale liberalizzazioni infrastrutture e trasporti. "C'è poi da chiedersi- continua Balotta- perché il sistema di controllo della circolazione non abbia letto o il guasto o l'eventuale errata chiusura (morsettamento) dello scambio che doveva dare il corretto tracciato e che invece avrebbe causato il deragliamento".

Sulla possibilità che l'incidente sia dovuto ai lavori di manutenzione, però, il prefetto di Lodi aveva invocato, già all'inizio della mattinata, cautela: "Associare una manutenzione all'evento tragico mi pare assolutamente prematuro", aveva detto.

Lodi, treno deragliato a 280 km/h: indagini su scambio trovato aperto. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 da Corriere.it. Si sta concentrando su uno scambio collocato al chilometro 166,771, a circa 300 metri dal luogo dell’impatto, l’attenzione degli investigatori che indagano sul deragliamento del treno Frecciarossa Milano-Salerno. In questo punto, infatti, sono al lavoro gli uomini della Polizia scientifica e gli esperti della Polfer per cercare di capire cosa abbia provocato lo «sviamento» della prima carrozza del treno. Stando a quanto trapelato da fonti investigative, lo scambio «sospetto» è stato trovato in una posizione «errata» rispetto a quella in cui avrebbe dovuto essere: sembra che fosse aperto, anziché essere chiuso. Così il treno, che viaggiava a 28o chilometri orari, «ha deviato ed è saltato su un’altra rotaia». Ora si tratta di capire perché era in quella posizione: se si è trattato di una dimenticanza o di un errore. Infatti, nella notte tra mercoledì e giovedì, si erano svolti dei lavori di manutenzione ordinaria che avevano interessato uno scambio «oleodinamico», cioè un sistema che permette ai convogli di passare da un binario all’altro. Il treno deragliato è stato il primo a percorrere la tratta dopo i lavori. Il treno avrebbe percorso il tratto tra lo scambio, il cosiddetto «punto zero», e il luogo dell’impatto in meno di cinque secondi. Tuttavia le prime testimonianze dei passeggeri a bordo del treno hanno raccontato di aver sentito «una serie di scossoni, come se fossimo sulle montagne russe», per almeno dieci-venti secondi. Nel tratto precedente però né i tecnici delle Ferrovie né gli investigatori avrebbero finora trovato altri segni del deragliamento. Vicino allo scambio invece la rete di alimentazione aerea è divelta e sono evidenti i segni lasciati sulle traversine di cemento dalle ruote uscite dai binari. Se questa ipotesi fosse confermata, quindi, il tutto sarebbe durato pochissimi secondi. Le indagini sono coordinate dalla procura di Lodi e sul posto stanno arrivando gli esperti del Nucleo investigativo ferroviario della Polfer, gli stessi che hanno lavorato sull’incidente di Pioltello e su quello ancora più tragico di Andria. Il treno Frecciarossa 9595 da Milano era diretto a Salerno. La dinamica dell’incidente: la motrice del convoglio, dopo essere uscita dai binari, è finita prima contro un carrello che si trovava su un binario parallelo, poi, ne ha urtato un altro e terminato la corsa contro una palazzina delle Ferrovie. Il treno, viaggiava di testa: anche la secondo carrozza si è staccata dal convoglio e ha proseguito la corsa per qualche decina di metri fuori dai binari, a un certo punto si sarebbe ribaltata. I binari sono pieni di resti del treno. L’impatto contro la palazzina è stato fortissimo.

Treno deragliato, le cause dell’incidente: «Uno scambio aperto per errore». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi, Franco Portinari. Lo scambio lasciato «aperto» verso un binario morto. Un errato via libera alla circolazione comunicato alla centrale operativa e l’ok al tracciato per il Frecciarossa. È in questa incredibile catena di errori e coincidenze che si nasconde la causa del deragliamento dell’Etr 9595 e del disastro lungo l’Alta velocità, costato la vita a due ferrovieri, Giuseppe Cicciù e Mario Dicuonzo. Per gli investigatori a innescare lo «svio» dai binari è stato l’errato posizionamento del «deviatoio numero 05». Lo scambio, infatti, doveva essere in posizione «chiusa». In pratica rivolto in modo da consentire il passaggio del treno senza deviazioni lungo il suo itinerario. Anche perché si tratta di uno scambio che porta a un binario senza uscita, usato solo per consentire ai mezzi di manutenzione di entrare e uscire dalla linea. Invece, gli investigatori del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polfer lo hanno trovato «aperto», in una posizione attiva per deviare la corsa del convoglio verso sinistra e quindi in direzione del deposito dei mezzi di manutenzione. Una circostanza che non si sarebbe mai potuta verificare in condizioni normali, visto che la rete è protetta da un sistema di sensori e segnalamento indispensabile per avere il via libera al movimento dei treni superveloci. Ma nella notte tra mercoledì e giovedì proprio su quello scambio posizionato al chilometro 166+771, sono stati effettuati lavori di manutenzione. Interventi che secondo Rete ferroviaria italiana sono stati di routine e di semplice «manutenzione ordinaria ciclica». Ma sui quali ora si concentra l’attenzione del procuratore di Lodi, Domenico Chiaro. Alcuni viaggiatori già mercoledì pomeriggio avevano notato uno strano sobbalzo al passaggio in quella tratta. Non c’è dubbio che il «punto zero», l’inizio del deragliamento, sia in corrispondenza dello scambio incriminato. Ma perché il deviatoio è stato lasciato in posizione attiva quando invece doveva essere chiuso? La spiegazione si trova in un fonogramma — pubblicato nel pomeriggio dal sito del Fatto Quotidiano — nel quale il deviatoio viene indicato in posizione corretta al termine dei lavori di manutenzione. Il messaggio, inviato alla centrale alle 4.45 (50 minuti prima dell’incidente) dice testualmente: «Deviatoio 05 disalimentato e in posizione normale...». Indicazione che ha fatto scattare il via libera al transito del Frecciarossa senza alcuna limitazione. Ma perché nessuno si è accorto che lo scambio era nella posizione sbagliata? Tutto si spiegherebbe con la manovra di «disalimentazione» effettuata dagli operai nella notte. Il deviatoio sarebbe stato «isolato» dal resto della rete impedendo agli addetti alla centrale e al software di rilevare l’errato posizionamento. Il sospetto degli investigatori è che il tutto sia avvenuto per un banale errore di chi, in realtà, doveva accorgersi che lo scambio dopo la manutenzione non era tornato in posizione corretta. Per questo gli inquirenti hanno interrogato la squadra di operai Rfi che ha lavorato sul «deviatoio oleodinamico morsettato». C’è l’ipotesi che durante la manutenzione lo scambio o alcune sue parti siano state riposizionate in modo sbagliato. Ma per accertarlo serviranno analisi approfondite anche sulle scatole nere del treno. Per quale motivo lo scambio è stato isolato dal resto della rete? Probabilmente i lavori di manutenzione non erano stati risolutivi e i tecnici avevano così deciso di «togliere alimentazione» e impedire che potesse essere aperto da remoto (a mano è impossibile spostarlo). Manovra frequente, ma che ha impedito un secondo controllo di sicurezza.

Treno deragliato: operai indagati, cinque destinati ad altro incarico. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi, inviato a Ospedaletto Lodigiano. Dopo i rilievi tecnici l’ipotesi dell’errore durante nei lavori di manutenzione su uno scambio nella notte tra mercoledì e giovedì. «La centrale non poteva accorgersene». Ospedaletto Lodigiano (Lodi) - C’è una svolta nell’inchiesta sul disastro del Frecciarossa. La Procura di Lodi ha iscritto i primi cinque nomi nel registro degli indagati per disastro ferroviario, omicidio colposo e lesioni plurime. Si tratta degli operai della squadra che ha lavorato nella notte tra mercoledì e giovedì sul deviatoio dal quale s’è innescato il deragliamento. L’accelerazione alle indagini è arrivata dopo una giornata di rilievi tecnici del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polfer e della Scientifica sui resti dell’Atr 1000. Ma ora è necessario analizzare in maniera approfondita lo scambio che ha innescato il disastro. Esami irripetibili e che per questo devono vedere la partecipazione dei legali e dei consulenti delle persone potenzialmente indagabili. Proprio a garanzia delle difese, quindi, il procuratore di Lodi Domenico Chiaro ha deciso la notifica delle informazioni di garanzia per verificare eventuali responsabilità colpose nell’incidente. Un atto dovuto nel caso degli operai che hanno lavorato quella notte sullo scambio e sui quali già dal primo giorno si è concentrata l’attenzione degli investigatori. Ascoltati come persone informate sui fatti dagli investigatori già nel primo pomeriggio di giovedì, gli operai hanno raccontato di aver lasciato lo scambio nella posizione corretta rispetto alla direzione di marcia del Frecciarossa. Il «deviatoio oleodinamico» è stato però trovato in posizione «rovesciata» dagli inquirenti, ossia aperto verso un binario di servizio. Una circostanza non segnalata dal sistema di monitoraggio della centrale di Bologna visto che lo scambio era stato «isolato» dai tecnici durante e dopo i lavori di manutenzione. E per questo i sensori di sicurezza non potevano trasmettere il segnale di deviazione che avrebbe subito fatto rallentare la corsa del treno. Invece il convoglio lanciato a 290 chilometri orari è uscito dai binari e la vettura di testa s’è staccata dal resto del treno uccidendo i macchinisti Mario Dicuonzo e Giuseppe Cicciù. Alle 4.45, uno dei cinque tecnici indagati aveva inviato un fonogramma a Bologna per avvertire che lo scambio era stato «isolato» dal sistema di segnalazione e soprattutto per comunicare che il deviatoio era posto «in posizione normale» (quindi in linea col tracciato del treno). Per questo motivo gli inquirenti vogliono ricostruire cosa sia effettivamente avvenuto e quali lavori siano stati svolti dagli operai, non sospesi da Rete ferroviaria italiana ma nel frattempo destinati «ad altro incarico». I tecnici di Rfi hanno lavorato sulla linea nel tratto tra Livraga e Ospedaletto da mezzanotte alle 5. Trentacinque minuti dopo, il passaggio del treno e lo schianto. Durante i lavori lo scambio è stato «isolato» dal centro controllo di remoto di Bologna e manovrato dalla consolle del centro manovra Livraga, l’edificio contro il quale s’è schiantata la prima vettura del Frecciarossa, a 350 metri dallo scambio saltato. I tecnici durante il loro intervento (di «manutenzione ordinaria ciclica») hanno lavorato su parti meccaniche ed elettriche del deviatoio. In sostanza hanno aperto i sistemi idraulici e meccanici fondamentali per il funzionamento. Lo scambio sarebbe stato movimentato più volte sia dalla consolle, sia attraverso l’uso di leve speciali che permettono di spostare i binari manualmente senza corrente elettrica. La riparazione però non era stata sufficiente e per questo i tecnici avevano deciso — come da procedura — di mantenere lo scambio «isolato» dal sistema di sicurezza. Senza accorgersi però che il deviatoio era rimasto «aperto» e che avrebbe così deviato mortalmente la corsa del Frecciarossa.

Il Frecciarossa si schianta, morti i due macchinisti, 31 feriti: «Sfiorata una strage». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Andrea Galli. L’inizio del disastro è un tratto di binario sinistro sparito; la sua fine sono i poveri resti dei due macchinisti, adesso confusi tra i loro trolley e i blocchetti dei fogli di viaggio dispersi sul terreno assieme a brandelli di sedili e pianali delle cassettiere. In questa distanza — trecentocinquanta metri —, la scientifica cristallizza la parte decisiva della scena del crimine. Dapprima il chilometro «166+771», dove a causa di uno scambio lasciato aperto, quindi deviato rispetto al suo asse, alle 5.35 il Frecciarossa 9595 Milano-Salerno ha iniziato a deragliare; poi la zona dell’impatto della vettura di testa contro due macchinari per la manutenzione, fermi su un’altra rotaia. Era il primo treno che ieri mattina transitava in questo rettilineo piatto, su binari dove meno di un’ora prima gli operai avevano terminato operazioni ordinarie, già programmate, di conservazione e «pulizia» della rete ferroviaria. I due macchinisti nella carrozza di testa, Mario Dicuonzo e Giuseppe Cicciù, di 59 e 51 anni, sono le uniche vittime. Tra i ventotto passeggeri, nessun ferito grave. Che la tragedia avrebbe potuto trasformarsi in una strage infinita è un dato oggettivo; la ridottissima statistica di incidenti relativi a treni Frecciarossa è un secondo dato; ma entrambi questi dati vengono annullati dalla certezza — e lo stesso procuratore di Lodi l’ha data per acquisita ieri — di un errore umano, proprio in relazione a quello scambio aperto, e dalla conseguente agonia di due uomini che si sono accorti di star per morire sul lavoro senza riuscire a frenare il convoglio. Qui, a Ospedaletto Lodigiano, paese di 1.700 abitanti, i Frecciarossa raggiungono i 290 chilometri all’ora. Così fulminei che i nonni quasi non portano i bimbi a guardare i treni. Schegge in movimento all’interno di un paesaggio cui il viaggiatore in uscita da Milano (il 9595 aveva lasciato la stazione Centrale alle 5.10) spesso non fa caso. Specie quand’è così presto, ci si riposa sui sedili. È una mattina di cielo limpido, privo di nebbia, e tra poco si irradierà la luce del sole. Nessun problema di visibilità. Le prime segnalazioni parlano unicamente di un deragliamento, non delle sue probabili cause. I binari corrono paralleli all’autostrada, non servono navigatori per orientarsi; il Frecciarossa è qui sotto, dopo il casello, più basso rispetto alle corsie dell’A1, il corpo del treno unito, tranne la prima carrozza, che nella composizione del treno è la seconda. La carrozza è rovesciata su un fianco. Ancora non si nota la vettura di testa. Occorre prendere una strada sterrata, ai limiti di distese di campi, di cascine e canali, superare la recinzione di una struttura delle Ferrovie, adibita al ricovero di macchinari e al deposito di attrezzi, e ora quella vettura di testa compare. Deformata. Sopra, quel che dei corpi dei macchinisti la furia della velocità e dello scontro non ha espulso tutt’intorno. Vi saranno parti rintracciate a quattrocento metri. Nessuno dei soccorritori sa a quale scenario sta andando incontro. L’arrivo di mezzi e risorse da mezza Lombardia testimonia la mancanza di elementi orientativi. Impossibile conoscere con esattezza quante persone siano sul treno. Vigili del fuoco e personale del 118 si dividono i vagoni e salgono in perlustrazione. I sopravvissuti si lamentano al buio, a terra. L’elicosoccorso atterra nel vicino prato, sull’erba fredda e umida, in attesa dei casi disperati. Non ce ne sono. Il più grave sarà un codice giallo. Si attenua la mobilitazione di massa negli ospedali dei dintorni. Diventa unicamente una questione di inchiesta. E l’inchiesta torna all’origine, a quel chilometro «166+771». In gergo tecnico, il «punto zero». Ovvero il tratto nel quale il treno ha perso l’aderenza dal binario. Gli investigatori si chinano e a occhi nudi, senza l’ausilio degli strumenti della scientifica, scorgono evidenti anomalie: il tratto del binario sinistro sparito, perché sradicato e trascinato dal Frecciarossa fuori controllo, e soprattutto un tratto di rotaia che si è alzato e curvato. Andando ancora più indietro, i poliziotti non scoprono ulteriori tracce, che possono provare una sbandata, la progressiva perdita di aderenza, così come pezzi del treno che si sono staccati. Tutto è sintetizzato nel «punto zero». L’avvicinamento lungo la direzione opposta, verso i macchinari centrati dalla vettura di testa, mostra, ugualmente con evidenza, il percorso irregolare del Frecciarossa, che ha mangiato terreno, raccolto e scagliato detriti e pietre, fino alla sua divisione: la testa che ha scartato sulla sinistra, e la seconda e le successive carrozze che hanno proseguito insieme. Non ci fossero stati quei maledetti macchinari, osserva un poliziotto, forse saremmo riusciti a evitare anche una sola perdita; una considerazione inutile, ma che dà l’idea dello stato d’animo diffuso: da una parte, mentre trascorre il tempo e si susseguono le visite istituzionali, la crescente consapevolezza di un bilancio «contenuto», questa l’espressione usata, di contro all’invincibile incidenza della malasorte. Fosse stato più indietro, fosse stato oltre la struttura delle Ferrovie...Sicuri di rendere l’immagine, anche perché altre efficaci non ce ne sono, i sopravvissuti hanno parlato di lunghi secondi come se stessero sulle montagne russe, quando il Frecciarossa, che oltre ai macchinisti ospitava altri tre lavoratori (l’addetto alle pulizie e i due al bar), saltava sui binari, scaricava balzi improvvisi e ondeggiava minacciando di piegarsi su un lato. Lo scorrere del treno contro la massicciata ha permesso il mantenimento di un equilibrio, pur se precario. Viaggiatori che la sera di mercoledì sono transitati all’altezza di Ospedaletto Lodigiano sempre su un Frecciarossa, hanno rivelato d’aver percepito forti sommovimenti a bordo, tipici di un convoglio che incontrava ostacoli sul tragitto. Racconti che anticiperebbero la presenza di problemi prima degli interventi di manutenzione nella nottata, ma che devono essere vagliati dagli inquirenti. Già ieri, sono stati ascoltati gli operai addetti alla sistemazione delle rotaie e al momento i principali sospettati dell’errore allo scambio, s’ignora se per stanchezza, negligenza oppure mancata supervisione (è personale interno). Nuovi interrogatori avverranno nelle prossime ore, includendo operai incaricati di vecchi interventi. Lo scambio era aperto verso un binario secondario. Possibile sia stato smontato e poi rimontato al contrario. L’inversione dello stesso scambio potrebbe aver beffato gli elevati sistemi di controllo: la tecnologia ha letto la presenza di quel pezzo, certo, ma non la sua differente posizione, e non ha pertanto segnalato pericoli. Del disastro si occupano investigatori che avevano risolto l’incidente del 2018 a Pioltello, in provincia di Milano, quando un treno dei pendolari era deragliato provocando la morte di tre donne. Anche allora c’erano tracce immediate nella loro nitidezza. Pochi giorni fa, in occasione della commemorazione, i famigliari delle vittime hanno invocato verità e giustizia. L’hanno fatto ancora una volta.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2020. Lo scambio lasciato «aperto» verso un binario morto. Un errato via libera alla circolazione comunicato alla centrale operativa e l' ok al tracciato per il Frecciarossa. È in questa incredibile catena di errori e coincidenze che si nasconde la causa del deragliamento dell' Etr 9595 e del disastro lungo l' Alta velocità. Per gli investigatori a innescare lo «svio» dai binari è stato l' errato posizionamento del «deviatoio numero 05». Lo scambio, infatti, doveva essere in posizione «chiusa». In pratica rivolto in modo da consentire il passaggio del treno senza deviazioni lungo il suo itinerario. Anche perché si tratta di uno scambio che porta a un binario senza uscita, usato solo per consentire ai mezzi di manutenzione di entrare e uscire dalla linea. Invece gli investigatori del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polfer lo hanno trovato «aperto», in una posizione attiva per deviare la corsa del convoglio verso sinistra e quindi in direzione del deposito dei mezzi di manutenzione. Una circostanza che non si sarebbe mai potuta verificare in condizioni normali, visto che la rete è protetta da un sistema di sensori e segnalamento indispensabile per avere il via libera al movimento dei treni superveloci. Ma nella notte tra mercoledì e giovedì proprio su quello scambio posizionato al chilometro 166+771, sono stati effettuati lavori di manutenzione. Interventi che secondo Rete ferroviaria italiana sono stati di routine e di semplice «manutenzione ordinaria ciclica». Ma sui quali ora si concentra l' attenzione del procuratore di Lodi, Domenico Chiaro. Alcuni viaggiatori già mercoledì pomeriggio avevano notato uno strano sobbalzo al passaggio in quella tratta. Non c' è dubbio che il «punto zero», l' inizio del deragliamento, sia in corrispondenza dello scambio incriminato. Ma perché il deviatoio è stato lasciato in posizione attiva quando invece doveva essere chiuso? La spiegazione si trova in un fonogramma - pubblicato nel pomeriggio dal sito del Fatto Quotidiano - nel quale il deviatoio viene indicato in posizione corretta al termine dei lavori di manutenzione. Il messaggio, inviato alla centrale alle 4.45 (50 minuti prima dell' incidente) dice testualmente: «Deviatoio 05 disalimentato e in posizione normale...». Indicazione che ha fatto scattare il via libera al transito del Frecciarossa senza alcuna limitazione. Ma perché nessuno si è accorto che lo scambio era nella posizione sbagliata? Tutto si spiegherebbe con la manovra di «disalimentazione» effettuata dagli operai nella notte. Il deviatoio sarebbe stato «isolato» dal resto della rete impedendo agli addetti alla centrale e al software di rilevare l' errato posizionamento. Il sospetto degli investigatori è che il tutto sia avvenuto per un banale errore di chi, in realtà, doveva accorgersi che lo scambio dopo la manutenzione non era tornato in posizione corretta. Per questo gli inquirenti hanno interrogato la squadra di operai Rfi che ha lavorato sul «deviatoio oleodinamico morsettato». C' è l' ipotesi che durante la manutenzione lo scambio o alcune sue parti siano state riposizionate in modo sbagliato. Ma per accertarlo serviranno analisi approfondite anche sulle scatole nere del treno. Per quale motivo lo scambio è stato isolato dal resto della rete? Probabilmente i lavori di manutenzione non erano stati risolutivi e i tecnici avevano così deciso di «togliere alimentazione» e impedire che potesse essere aperto da remoto (a mano è impossibile spostarlo). Manovra frequente, ma che ha impedito un secondo controllo di sicurezza.

Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2020. Quando è partita la catena di telefonate tra ferrovieri e sindacalisti, negli uffici della Fit Cisl il primo pensiero allarmato è andato a lui: «Oddio, Giuseppe è partito oggi alle 5.10...». Ma l' intervallo di tempo per alimentare le speranze è stato breve. Poco dopo la notizia dell' incidente è arrivata la conferma della morte di due colleghi. E uno dei due è Giuseppe Cicciù, 51 anni, padre, marito, attivista sindacale, volontario nel sociale, uomo ricco di interessi e passioni. A partire dal lavoro. Figlio di un ferroviere, originario di Reggio Calabria, si era trasferito molti anni fa a Milano, dal popoloso quartiere San Giorgio, zona Sud del capoluogo calabrese, a Cologno Monzese, nell' hinterland Nord della metropoli lombarda. Ma alla sua città natale è rimasto molto legato: ogni volta che poteva tornava «giù» a trovare la madre e a tifare per la Reggina, oltre che per l' Inter. In terra ambrosiana si è sposato, si è separato e si è risposato. E quattordici anni fa è nata sua figlia. La militanza giovanile con gli scout gli aveva lasciato la voglia di impegnarsi nel sociale e anche sul lavoro. Gli piaceva guidare quelle macchine capaci di divorare i chilometri e appena fu possibile passò ai convogli ad alta velocità. Ma aveva anche abbracciato l' impegno sindacale. Una delle battaglie sulla quale si è speso molto è quella su ritmi e carichi di lavoro: «Perché sapeva sulla propria pelle quanto possano essere pesanti certi orari di lavoro per un macchinista e quanto sia delicato questo aspetto per la sicurezza di tutti, oltre che per la salute dei lavoratori», ricorda Giovanni Abimelech, segretario regionale lombardo della Fit, il sindacato dei trasporti della Cisl. Era un volto noto tra i colleghi e nell' apparato sindacale. «Alle ultime elezioni per le Rsu non si era ricandidato, anche se a malincuore - racconta Abimelech - perché voleva dedicare più tempo alla sua famiglia. Ma lo vedevamo spesso, qui, o nelle nostre sedi alla stazione Garibaldi e in Centrale». E tutti quelli che lo hanno incrociato lo descrivono come «una persona positiva, un amicone, uno che portava buonumore». Mentre arriva il cordoglio ufficiale dei sindaci e il lutto delle sue due città, Cologno Monzese e Reggio Calabria, e dei governatori di entrambe le Regioni, nella sede della Fit Cisl continua il via vai di colleghi increduli. «Lo conoscevo da 25 anni, era una persona senza ipocrisie, ben voluto da tutti, solare, disponibile - dice Fortunato Foti, ferroviere e a sua volta e componente della segreteria lombarda del sindacato -. Amava questo lavoro, lo svolgeva con serietà ed era molto attento alla sicurezza». Quattro mesi fa sulla sua pagina Facebook aveva scritto: «La prevenzione è da sempre l' arma migliore!».

Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2020. L' ultimo viaggio è durato 35 minuti. E la Milano-Salerno di ieri mattina sarebbe stata un' altra tappa di avvicinamento alla pensione. Perché per Mario Dicuonzo, 59 anni, ferroviere di lungo corso, era ormai questione di mesi: perché lungo i binari della Penisola lui ha macinato migliaia di chilometri per una vita. Sposato, con un figlio, era un veterano delle locomotive e un pioniere dell' Alta velocità. Uno dei primi a prendere il comando dei nuovi treni capaci di accorciare le distanze tra le città. «La sua professionalità era riconosciuta - ricorda Luigi Ciracì, della segreteria regionale della Filt Cgil -, ammirata dai colleghi e apprezzata dall' azienda». Era nato a Capua, in Campania, ma da anni viveva a Pioltello, a Est di Milano, proprio la località dove il 25 gennaio 2018 si era verificato un altro drammatico incidente ferroviario. I colleghi lo descrivono come un «vero professionista» delle locomotive, iscritto al sindacato ma senza mai assumere incarichi di rappresentanza. Un uomo appassionato del proprio mestiere. Fu questo a condurlo a superare le selezioni per arrivare a prendere il comando di quei primi convogli in grado di raggiungere velocità un tempo impensabili. E negli anni successivi è stato tra i più attivi nella formazione delle nuove generazioni di macchinisti: sono stati suoi «allievi» molti tra quelli che oggi fanno viaggiare i Frecciarossa e tanti altri convogli sulla rete italiana. Nelle ore successive alla terribile notizia dell' incidente e della morte di Dicuonzo, nei ritrovi dei ferrovieri nessuno riesce ancora a parlarne come se davvero non ci fosse più: «Un collega molto ben voluto da tutti, sempre disponibile ad ascoltare e a spendere una parola, ma mai banale, uno empatico», mormora Ciracì. Anche suo fratello Maurizio è ferroviere e - fanno notare i colleghi - vive a Piacenza, dove nel 1997 si verificò il primo incidente dell' allora giovane Alta velocità. L' altro fratello lavora nell' amministrazione del Comune di Capua, che ha esposto bandiere a mezz' asta e ha proclamato il lutto cittadino per oggi. E lo stesso ha deciso il sindaco di Pioltello, Ivonne Cosciotti. Negli uffici del sindacato «oltre al dolore c' è la rabbia per una tragedia insopportabile», sintetizza Luca Stanzione, segretario lombardo della Filt Cgil. «Siamo, come tutti i lavoratori, sconvolti per quanto accaduto - aggiunge - e nonostante tutto migliaia di ferrovieri stanno svolgendo il proprio lavoro e il proprio servizio con dedizione e con un vuoto dentro. La nostra Italia, tutta, dovrebbe ringraziarli per quello che fanno tutti i giorni e per quanto stanno facendo». Voci rotte, abbracci e lacrime per un incidente che «non doveva succedere, non doveva». Lo ripetono come automi. Non si rassegnano all' idea che Mario Dicuonzo non abbia potuto condurre il suo treno fino alla stazione d' arrivo.

Giuseppe e Mario, i macchinisti morti nel deragliamento del treno: catapultati per 50 metri. Redazione de Il Rifomista il 6 Febbraio 2020. Giuseppe Cicciù e Mario Di Cuonzo. Sono due le vittime del terribile deragliamento del treno Av 9595. Giuseppe Cicciù aveva compiuto 51 anni ad agosto, era originario di Reggio Calabria. Mario Dicuonzo aveva compiuto 59 anni da poco, il 20 gennaio, era di Capua, nel Casertano. Hanno perso la vita nel disastro ferroviario all’altezza di Casalpusterlengo, nel Lodigiano mentre erano a lavoro. Si trovavano nella motrice del treno che – per cause ancora da accertare – all’altezza di uno scambio è andata sul binario sbagliato, finendo contro un deposito, mentre il resto del treno continuava la sua corsa su un altro binario. “I macchinisti erano già fuori dal treno, li abbiamo trovati per terra, già deceduti. Il primo era vicino al fabbricato e l’altro a una cinquantina di metri. I corpi sono ancora qui”. È questo il racconto di Giuseppe Di Maria, comandante provinciale dei vigili del fuoco di Lodi, tra i soccorsi intervenuti ad Ospedaletto Lodigiano. Cicciù era un delegato sindacale della Fit Cisl. Lascia una bambina di pochi mesi. Anche Dicuonzo aveva un figlio ed era sposato. La sindaca di Pioltello – luogo del precedente disastro ferroviario di due anni fa – Ivonne Cosciotti, saputo che Dicuonzo viveva nella sua città, ha proclamato il lutto cittadino con le bandiere a mezz’asta. “L’incidente ferroviario per il deragliamento del treno dell’Alta Velocità Milano-Salerno, avvenuto all’alba nei pressi della stazione di Livraga in provincia di Lodi, mi addolora profondamente. Penso ai due macchinisti rimasti vittime, ai feriti e alle loro famiglie. A loro la mia solidarietà e massima vicinanza”. È quanto dichiara in una nota Roberto Traversi, sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. “Gli esperti del nucleo specializzato in disastri ferroviari della Polfer sono già sul posto per accertarne le cause. Occorre presto fare chiarezza e adottare costantemente tutte le misure utili per evitare queste tragedie, affinché la sicurezza di coloro che lavorano nel sistema trasporti e di tutti i cittadini che quotidianamente utilizzano il treno come mezzo di collegamento, non venga messa a repentaglio”. Sul suo profilo Facebook Giuseppe, condivideva spesso post riguardo il suo lavoro e anche iniziative benefiche: qualche mese fa un post in occasione di ‘Frecciarosa’, l’iniziativa di Trenitalia per sensibilizzare sulla prevenzione per quanto riguarda le malattie che colpiscono le donne. “La prevenzione è da sempre l’arma migliore”, scriveva.

Treno deragliato, i sopravvissuti: «Le valigie volavano, aggrappata al sedile pensavo di morire». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. A lex che stringe la mano a uno sconosciuto perché «forse sì, hai ragione. È finita». Chiara che ripete quella parola, «miracolata», e dice che «so che dopo arriverà la paura». Alessandro che parla di «un uomo che era una maschera di sangue». Micaela e quei minuti disperati a cercare un collega che non si trovava. E poi il ragazzo musulmano che ha chiuso gli occhi e ha pregato aspettando di morire oppure il capotreno in silenzio con la divisa strappata. I racconti dei sopravvissuti hanno in comune una parola più di ogni altra: fortuna. Perché tutti hanno chiaro che la differenza fra la vita e la morte ieri mattina è stata solo un soffio. E in tanti hanno creduto che la loro vita stesse finendo lì, in mezzo al buio e al freddo della campagna lodigiana. Lo riassume bene Alex Nuvoli, ragazzo di 28 anni intercettato da giornalisti locali di prima mattina, all'ospedale di Vizzolo Predabissi. «Ero nella carrozza con altre due persone. Un grosso rumore e ci siamo trovati sottosopra», racconta. «Pensavamo che fosse finita perché obiettivamente se ti ribalti con un treno a 300 all'ora... Avevo davanti a me un ragazzo di colore che mi ha guardato e mi ha detto: penso sia finita. E io: sì, forse hai ragione. Ci siamo tenuti la mano, ma poi ci siamo guardati: eravamo salvi... Era tutto chiuso, c'era puzza di zolfo, abbiamo trovato un finestrino mezzo rotto, l'abbiamo preso a calci e siamo usciti. Non è stata un'esperienza bella ma possiamo raccontarla quindi va bene» (qui la dinamica dell’incidente). Chiara, 30 anni, psicologa, ha lasciato il Pronto soccorso dell'ospedale di Lodi nel primo pomeriggio. Trolley al seguito e «solo voglia di tornare a casa». Era sul Frecciarossa per andare ad Arezzo per lavoro. Nel suo racconto c'è l'idea di essersi «trovata sulle montagne russe. Abbiamo sentito un botto e poi sballottamenti, valigie cadute, rumori... saranno stati trenta o quaranta secondi ma mi sono sembrati lunghi come dieci minuti. Mi sono aggrappata con tutte le mie forze al sedile... è andata bene, sono fortunata, miracolata. Adesso sono tranquilla ma so bene che poi, a casa, arriverà l'ondata di paura». Micaela ha 24 anni ed è una delle dipendenti del servizio bar del Frecciarossa. Quando il treno è uscito dai binari c'era un suo collega che stava servendo i pochi passeggeri delle prime carrozze mentre lei e un'altra collega erano nella numero tre, dove c'è il bar, appunto. «Si sono spente le luci, i vetri hanno cominciato a tremare e sono scoppiati i finestrini», ricorda. «Mi sono messa sotto il bancone e lì sono rimasta per due o tre minuti, finché il convoglio non si è fermato. È stato traumatico. La collega è stata sbalzata nel nostro bagnetto di servizio e il collega non si trovava. Abbiamo pensato al peggio finché non lo abbiamo visto davanti alle carrozze di testa». Forse era proprio lui l'uomo dalla «maschera di sangue» descritto da Alessandro Rosato, medico, anche lui fra i passeggeri sopravvissuti, e da Federico Vadalà, il ragazzo che stava nel vagone numero sette. O forse era il capotreno, Davide, rimasto fino a tarda sera in osservazione all'Ospedale di Lodi: la divisa strappata appesa a un passo da lui e zero voglia di parlare. L'unico ricoverato a Lodi si chiama Javier Sanchez, peruviano, 39 anni, addetto alle pulizie del Frecciarossa. Al momento dello schianto era in una carrozza di coda, è caduto e ha una frattura scomposta alla gamba sinistra che sarà operata oggi. Non ha ferite gravi, invece, il ragazzo di 21 anni arrivato al Pronto soccorso di Piacenza: «Credevo di essere morto» dice. «Io sono musulmano, ho chiuso gli occhi e ho pregato».

Chi sono le due vittime:  il macchinista e l’addetto Fs. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Gìampiero Rossi. Le vittime: Giuseppe Cicciù, 51 anni, molto noto negli uffici della Fit Cisl, e Mario Di Cuonzo di 59 anni. Ferroviere e delegato sindacale impegnato e appassionato. Giuseppe Cicciù, 51 anni, il macchinista morto insieme a Mario Di Cuonzo, 59 anni, nel tragico incidente ferroviario a Ospedalettto Lodigiano, era molto noto negli uffici della Fit Cisl, dove fanno fatica a parlarne al passato. Il segretario regionale del sindacato di categoria, Giovanni Abimelech, sembra un automa mentre mette insieme qualche immagine. «Alle ultime elezioni per le rappresentanze sindacali non si era ricandidato, anche se a malincuore, perché si era risposato da poco e aveva avuto una bambina. Ma lo vedevamo spesso, qui, o nelle nostre sedi alla stazione Garibaldi e in Centrale». I colleghi e i dirigenti sindacali ricordano il macchinista come «un amicone, uno allegro e che portava buonumore». Una battaglia sulla quale si è sempre speso è quella dei ritmi e dei carichi di lavoro: «Perché sapeva sulla propria pelle quanto possano essere pesanti certi orari di lavoro per un macchinista e quanto sia delicato questo aspetto per la sicurezza di tutti, oltre che per la salute dei lavoratori stessi», sottolinea Abimelech. Giovedì mattina, quando è iniziato il tam tam telefonico tra ferrovieri e sindacalisti che avevano appreso la notizia dell’incidente, negli uffici della Fit Cisl il primo pensiero allarmato, disperato ma con un barlume di speranza era andato a lui: «Oddio, Francesco è partito oggi alle 5.10...». Poi la dolorosa conferma. «Pioltello è stata una tragedia e un incidente imperdonabile — dice ancora Giovanni Abimelech — ma noi conosciamo bene quella rete non può deragliare un Frecciarossa, non può, non può...».

Giuseppe Cicciù e Mario Dicuonzo: chi sono i macchinisti morti nel deragliamento del treno a Lodi. Avevano 51 e 59 anni, erano nella motrice che si è schiantata contro un deposito. La Repubblica il 06 febbraio 2020.  Giuseppe Cicciù aveva compiuto 51 anni ad agosto, era originario di Reggio Calabria. Mario Dicuonzo aveva compiuto 59 anni da poco, il 20 gennaio, era di Capua, nel Casertano. Sono loro i due macchinisti del treno Frecciarossa morti questa mattina nel disastro ferroviario all'altezza di Casalpusterlengo, nel Lodigiano. Si trovavano nella motrice del treno che - per cause ancora da accertare - all'altezza di uno scambio è andata sul binario sbagliato, finendo contro un deposito, mentre il resto del treno continuava la sua corsa su un altro binario. Pioltello e Cologno Monzese, dove abitavano rispettivamente Dicuonzo e Cicciù, hanno proclamato il lutto cittadino. Cicciù era un delegato sindacale della Fit Cisl. Aveva da poco avuto una figlia. Anche Dicuonzo, iscritto alla Filt Cgil, aveva un figlio ed era sposato. La sindaca di Pioltello - luogo del precedente disastro ferroviario di due anni fa - Ivonne Cosciotti, saputo che Dicuonzo viveva nella sua città, ha proclamato il lutto cittadino con le bandiere a mezz'asta. "L'incidente ferroviario per il deragliamento del treno dell'Alta Velocità Milano-Salerno, avvenuto all'alba nei pressi della stazione di Livraga in provincia di Lodi, mi addolora profondamente. Penso ai due macchinisti rimasti vittime, ai feriti e alle loro famiglie. A loro la mia solidarietà e massima vicinanza". E' quanto dichiara in una nota Roberto Traversi, sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. "Gli esperti del nucleo specializzato in disastri ferroviari della Polfer sono già sul posto per accertarne le cause. Occorre presto fare chiarezza e adottare costantemente tutte le misure utili per evitare queste tragedie, affinché la sicurezza di coloro che lavorano nel sistema trasporti e di tutti i cittadini che quotidianamente utilizzano il treno come mezzo di collegamento, non venga messa a repentaglio". "Lavorava da tanti anni come macchinista, è stato uno dei primi sui nuovi treni dell'Alta velocità. Era una persona con grande esperienza, non certo un ragazzino, non era certo uno appena arrivato": così il segretario lombardo della Fit Cisl Giovanni Abimelech descrive all'Ansa Giuseppe Cicciù, uno due macchinisti morti nel deragliamento avvenuto questa mattina nel Lodigiano. "E' stato un nostro attivista - ha proseguito Abimelech - e nostro delegato Rsu, era molto vicino alla nostra organizzazione e noi vicino a lui. Si faceva notare, arrivava sempre con il sorriso e ce lo ricordiamo tutti, anche se negli ultimi anni si era un po' allontanato perché aveva una nuova famiglia". Per Abimelech quanto successo è "senza spiegazioni perché stiamo parlando di una delle infrastrutture più sicure al mondo, e abbiamo sempre avuto testimonianze in questo senso dagli esperti dell'alta velocità". "Lo conoscevo da 25 anni, era una persona senza ipocrisie, ben voluto da tutti, solare, disponibile. Gli piaceva questo mestiere, amava questo lavoro, lo svolgeva con serietà impeccabile ed era molto attento alla sicurezza": così Fortunato Foti, ferroviere e membro della segreteria lombarda della Fit Cisl, ha ricordato all'Ansa Giuseppe Cicciù, uno due macchinisti morti nel deragliamento avvenuto questa mattina nel Lodigiano. Cicciù si era trasferito da molti anni in Lombardia, dove viveva con la moglie e un figlio, ma "era attaccatissimo" alla sua città natale, cioè Reggio Calabria, dove tornava appena poteva per far visita alla madre. "Sono talmente amareggiato e triste che faccio fatica a credere che sia morto", ha detto Foti. "Era una persona disponibile - ha proseguito - si prendeva in carico qualsiasi problema dei colleghi e andava fino in fondo. Abbiamo iniziato insieme nella Rsu e, quando passava in stazione Centrale a Milano, ci vedevamo sempre". Luca Stanzione, segretario regionale della Filt Cgil - oltre a ricordare che le organizzazioni sindacali di categoria hanno proclamato venerdì due ore di sciopero - ha detto: "Mi auguro che l'incontro tra organizzazioni sindacali nazionali e Gruppo FS porti a un primo chiarimento sul tragico incidente e sui provvedimenti da prendere. Siamo, come tutti i lavoratori, sconvolti per quanto accaduto questa mattina e nonostante tutto quello che è successo, con profonda angoscia, migliaia di ferrovieri stanno svolgendo il proprio lavoro e il proprio servizio con dedizione. La nostra Italia, tutta assieme, dovrebbe ringraziarli per quello che fanno tutti i giorni e per quanto stanno facendo in queste ore in cui oltre al dolore c'è la rabbia per una tragedia insopportabile. In queste ore sono in corso gli accertamenti della magistratura e delle aziende coinvolte, non ci pronunciamo sulle cause del disastro ci limitiamo a dire che riteniamo utile un ripensamento del ciclo di produzione e manutenzione per ridurre al minimo il rischio di incidenti, aumentando i controlli e investendo in ricerca affinché sempre di più la tecnologia sia al servizio della sicurezza dei lavoratori, in un'area del paese in cui l'intero sistema della mobilità ha visto raddoppiare in pochi anni l'utilizzo del trasporto ferroviario", conclude Stanzione.

Treno deragliato a Lodi, il macchinista Mario Di Cuonzo: beffa atroce, mancavano solo pochi giorni...Libero Quotidiano il 7 Febbraio 2020. A Mario Di Cuonzo, 59 anni, originario di Capua (in provincia di Caserta), mancava davvero poco alla pensione. Pochi mesi. E già si pregustava quelle giornate più lunghe, nelle quali treni, cabine di pilotaggio e binari sarebbero stati soltanto il piacevole ricordo di una passione che condivideva con il fratello Maurizio. Si immaginava cliente, finalmente, magari per andare a trovare i parenti giù da Pioltello, dove viveva da anni. Anche il suo futuro si è spezzato ieri, all'alba, quando il treno che da Milano sarebbe dovuto arrivare a Salerno è deragliato e lui è stato sbalzato per cinquecento metri lontano dal convoglio che pilotava. Anche il suo corpo giace ora all' ospedale maggiore di Lodi, luogo in cui regnano lo sgomento e l' incredulità per una tragedia assurda. Di Cuonzo, che lascia una moglie e un figlio, faceva parte di un gruppo di ferrovieri considerati altamente qualificati. Quando è arrivata l' alta velocità in Italia, era stato tra i primi ad essere reclutato per la guida dei treni Frecciarossa. Selezione dopo selezione, era riuscito a guidare quei vagoni dalla velocità impressionante. Lo faceva così bene tanto da formare le nuove leve di macchinisti e poco si interessava dell' attività sindacale che pure faceva parte dei suoi impegni. Di Cuonzo, ricorda chi lo ha conosciuto bene, aveva vissuto con grande dolore la tragedia avvenuta a Pioltello nel gennaio del 2018, quando il deragliamento di un treno regionale provocò la morte di tre persone e il ferimento di una cinquantina di pendolari. Per lui il sindaco di Pioltello, Ivonne Cosciotti, ha proclamato il lutto cittadino. (Tiz. Lap.)

Umberto Mancini per “il Messaggero” il 7 febbraio 2020. Troppi treni e poco tempo per fare la manutenzione di binari e scambi. Un traffico ferroviario, quello ad alta velocità in primis, che ha avuto in 10 anni un tasso di incremento a due cifre, ingolfando spesso la rete, sovraccaricando gli snodi delle stazioni, acuendo, tra l'altro, i disagi per i passeggeri. Dietro al disastro di ieri, le cui cause saranno accertate dai magistrati, c'è anche e sopratutto questo.  L'aumento delle frequenze, la guerra ad accaparrarsi gli slot dei due operatori in campo, Fs e Italo, e una rete che seppure controllata - questo è di fatto il primo grave incidente sull'AV - non sembra più adeguata a reggere una domanda boom. I numeri del resto parlano chiaro. I sindacati hanno calcolato che per fare le verifiche e i lavori sui tratti ad alta velocità vengono concessi al massimo 4-5 ore a notte. «Perché poi - spiega Andrea Pelle dell'Orsa Trasporti - dalla mattina il flusso dei convogli riprende incessante, bisognerebbe ridurlo, dare spazio alle verifiche e all'ammodernamento». Del resto è la stessa Ansf, l'Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, a ribadire il concetto. E anche se l'Italia è tra i Paesi con un numero di incidenti ridotto rispetto alla media Ue, proprio l'insufficienza delle infrastrutture a fronte di una richiesta crescente, dovrebbe suggerire maggiore cautela e più verifiche. Anche per questo Rfi, la società che gestisce i binari, oggi finita nel mirino, ha triplicato gli investimenti portandoli a 10 miliardi nei prossimi 5 anni. «Un segnale - dicono sempre i sindacati, Cgil in testa - incoraggiante ma che testimonia che forse prima si era fatto non abbastanza». Spiega l'Ansf: «Sull'incidentalità ferroviaria l'Italia mostra ancora margini di miglioramento sul fronte della manutenzione, della cultura della sicurezza e sull'implementazione tecnologica delle reti regionali». Nel 2018 sulla rete Rfi sono avvenuti 8 deragliamenti per un totale di 37 vittime (3 morti e 34 feriti gravi). Il dato è in crescita rispetto agli anni precedenti con 5 deragliamenti nel 2017 (4 su Rfi e 1 sulle regionali) e 2 nel 2016. E dagli elementi a disposizione dell'Agenzia i deragliamenti 2018 sono «tutti riconducibili a problematiche manutentive e in particolare dell'infrastruttura». Insomma, bisogna cambiare passo. Per questo l'Agenzia aveva emesso una specifica circolare rivolta a tutti gli operatori richiamandoli all'importanza di una corretta manutenzione. E poi impartito disposizioni nei confronti di Rfi «per definire azioni immediate a breve e a lungo termine finalizzate ad un riesame complessivo dei processi interni per garantire un efficace presidio dei processi manutentivi di propria competenza». Un monito forse rimasto inascoltato vista la tragedia di Lodi. Sulla rete Rfi nel 2018 si sono registrati 8 incidenti significativi relativi ad attività legate a cantieri ferroviari con 8 vittime, di cui 2 morti e 6 feriti gravi. Anche qui il dato è in aumento rispetto agli anni precedenti (un evento nel 2016 e 2017) e conferma proprio la necessità di adeguarsi alle direttive che l'Agenzia ha impartito con «particolare riferimento ai processi relativi alla qualificazione dei fornitori esterni, alla formazione del personale e all'adeguatezza dell'organizzazione e delle risorse impiegate». Fs, con il nuovo orario invernale, ha comunque redistribuito il traffico, allungando i tempi di percorrenza per evitare il sovraccarico delle linee soprattutto nelle fasce orarie più critiche, ovvero quelle con maggiore flusso di persone. Ma intanto, nonostante gli sforzi compiuti, troppi treni continuano ad arrivare in pesante ritardo. E' evidente che la rete va adeguata, ammodernata, eliminando tappi e colli di bottiglia. D'altra parte, proprio i ritardi vanno attribuiti anche all'estensione dei lavori di manutenzione proprio tra Bologna e Firenze che, per tutto il 2020, riguarderanno entrambi i binari. Ieri, evidentemente, qualcosa non ha funzionato. A inizio dicembre l'ad di Rfi, Maurizio Gentile, ora in bilico, aveva chiarito che i rallentamenti sarebbero stati compresi nel nuovo orario 2020. E così è stato. I treni fast Roma-Milano sono passati da 3 ore a 3 ore e 10; il Roma-Milano da 3.30 ore a 3.40 ore; il Roma-Venezia da 3.45 a 4 ore; il fast Roma-Venezia a 3 ore e 38; infine, il Roma-Verona da 2.52 a 3 ore e 18. Il problema, fanno filtrare dall'Autorità per i trasporti, è che per ragioni di interesse, i gestori concentrano gli orari di partenza sugli slot più remunerativi ingolfando il sistema. Sarebbe meglio distribuire il traffico in maniera diversa, così come chiedono i sindacati. Per evitare l'effetto saturazione. A Roma e Milano i treni movimentati sono passati rispettivamente dai 734 del 2015 ai 981 nel 2020 (con un aumento di 250 treni) e dai 612 del 2015 ai 750 nel 2020. La rete invece è sostanzialmente quella di 10 anni fa.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 9 febbraio 2020. Cappucci calati sulla testa, i cinque manutentori di Rfi si infilano veloci negli uffici della Polfer alla stazione di Piacenza per gli interrogatori. Gli operai impegnati alle quattro di mattina di giovedì per un intervento «non ordinario» sullo scambio al chilometro 166 della linea dell'alta velocità che ha fatto deragliare il Frecciarossa 1000 sono i primi indagati dell'inchiesta per disastro colposo ferroviario, omicidio colposo e lesioni colpose. Ieri hanno ricevuto l'avviso di garanzia: durante le operazioni di manutenzione del deviatoio, si legge nell'atto, avrebbero svolto «l'attività in modo non adeguato». A carico dei tecnici la procura ipotizza una «colpa consistita in imprudenza, negligenza e violazione delle norme legislative e regolamentari», che non ha impedito il deragliamento. E loro davanti agli inquirenti ribadiscono: «Lo scambio era sul giusto tracciato». Sono i primi anelli di una catena di errori che la pm di Lodi Giulia Aragno sta ricostruendo per identificare le responsabilità. E la lista degli indagati è destinata ad allungarsi: i consulenti della procura di Lodi, che riceveranno il formale incarico domani, dovranno svolgere, «al più presto, le attività irripetibili volte a accertare la funzionalità dello scambio e di tutti i dispositivi a esso collegati». Tali accertamenti devono essere svolti in presenza delle parti, quindi di tutti i destinatari degli avvisi di garanzia, e si valuta l'iscrizione di Rfi - e di conseguenza dell'amministratore delegato - per la legge 231 sulla responsabilità degli enti. L'attività investigativa, ora, è alla prima fase: l'intervento degli operai su quel deviatoio che aveva registrato «un'anomalia». Problemi tali, comunque, che «potevano essere gestiti in fase di manutenzione ordinaria». Dunque nottetempo, approfittando delle poche ore dalle 24 alle 5 del mattino in cui l'alta velocità è ferma. Così ha fatto la squadra, che davanti al pm ha ripercorso le tappe: a mezzanotte è entrata in servizio e oltre allo scambio incriminato ha lavorato su altri due deviatoi. Alle 4.45, quando è partito il fonogramma per la centrale operativa di Bologna con il via libera alla circolazione - «Deviatoio n. 05 disalimentato e confermato in posizione normale» - il gruppetto aveva sulle spalle diverse ore di attività logorante e la fretta di concludere in tempo per riaprire la linea. I manutentori hanno sostituito un pezzo meccanico dello scambio, ma non sono riusciti a risolvere il problema elettrico. Agire sotto pressione potrebbe aver determinato un terribile errore: quello scambio non sarebbe mai stato riposizionato correttamente, provocando il deragliamento. Ma gli investigatori seguono anche la pista del problema tecnico. Lo scambio è un sistema oleodinamico e potrebbe aver subito un calo di pressione, infiltrazioni d'aria o una perdita di olio causa della deviazione a sinistra. Intanto gli agenti della Polfer hanno sequestrato tre hard disk contenenti filmati del disastro del Frecciarossa nel quale sono morti i macchinisti Giuseppe Cicciù e Mario Di Cuonzo. Uno si trovava sulla carrozza 3 del convoglio gli alti due nell'edificio del posto manutenzione Livraga, dove è collegato il posto di sezionamento automatico. Sotto sequestro anche tutte le carrozze del treno, così come la scatola del sistema informativo di condotta Dis recuperato nella carrozza di testa, quella proiettata in aria dall'impatto. Sequestrati inoltre il libretto statistico della manutenzione del Posto movimento con le annotazioni dal 14 giugno 2018, il modello della corrispondenza telefonica dello stesso Posto movimento dal 10 marzo 2014 alle prime ore di giovedì scorso, i binari alta velocità e quelli di servizio adiacenti. Ai sequestri erano presenti il direttore territoriale produzione Emilia Romagna di Rfi e il dirigente responsabile della manutenzione impianti Av Trenitalia di Milano. Nel frattempo sulla massicciata tra i campi di Ospedaletto Lodigiano è arrivato un camion-gru: il primo di una lunga serie di mezzi che serviranno a rimuovere il convoglio dai binari.

Treno deragliato, gli operai si difendono: lo scambio era in posizione corretta. Il Dubbio il 9 febbraio 2020. Dopo 12 ore di interrogatorio, gli operai addetti alla manutenzione della rete ferroviaria hanno respinto le accuse degli inquirenti. Dopo quasi dodici ore di interrogatorio, i cinque operai indagati dalla procura di Lodi per disastro ferroviario colposo, omicidio colposo e lesioni multiple hanno respinto le accuse. Tutti hanno provato a chiarire i dettagli del lavoro svolto la notte prima del disastro lungo i binari dell’alta velocità. Nessuno dei cinque operai – un caposquadra e quattro dipendenti Rfi –  però sa spiegare perché il deviatoio fosse in una posizione sbagliata. Ascoltati dagli inquirenti negli uffici della Polfer di Piacenza, agli indagati, assistiti dagli avvocati Armando D’Apote e Fabio Cagnola, è stato chiesto di ricostruire con precisione tutte le operazioni tecniche fatte la notte dell’incidente e di ricostruire la catena di comando che ha portato a comunicare alla centrale di Bologna lo stato dello scambio, considerato il “punto zero” dell’impatto, su cui hanno smesso di lavorare circa un’ora prima dell’incidente. Le attenzioni degli inquirenti sono concentrate sullo scambio lasciato “dritto” – così come già sostenuto dagli indagati quando sono stati sentiti come testimoni – dopo non essere riusciti a risolvere il guasto. È il dettaglio che potrebbe aver causato il disastro ferroviario in cui hanno perso la vita due macchinisti . Perché è stata proprio l’attività di manutenzione svolta «in modo non adeguato» a far scattare l’iscrizione nel registro degli indagati, considerato dalla procura di Lodi un «atto necessario per lo svolgimento, in forma garantita, degli accertamenti tecnici irripetibili» in primis della funzionalità dello scambio e dei dispositivi collegati. Gli accertamenti tecnici, insieme alla ricostruzione della catena di comando, potrebbero portare a nuovi iscritti nel registro degli indagati. Intanto continuano i lavori per preparare il cantiere e far arrivare i mezzi che serviranno a spostare le carrozze del Frecciarossa deragliato. Saranno necessari ancora diversi giorni, nessuno si sbilancia dando una data precisa, perché la tratta ferroviaria interessata dall’incidente possa essere riaperta.

Interrogati gli operai dello scambio «Era dritto, in posizione corretta». Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. Frecciarossa deragliato, l’accusa: «Lavori di manutenzione eseguiti in modo inadeguato». Hanno parlato. Per ore hanno risposto alle domande degli investigatori, ricostruito passo passo quella notte di lavori sui binari dell’Alta velocità. Sono durati fino a tarda ora gli interrogatori dei cinque tecnici di Rete ferroviaria italiana indagati per il disastro del Frecciarossa nel quale sono morti due macchinisti e venti passeggeri sono rimasti feriti. Gli indagati — un caposquadra e quattro operai — sono stati sentiti negli uffici della Polfer di Piacenza dove sono arrivati poco dopo le 15.30, assistiti dagli avvocati Armando D’Apote e Fabio Cagnola: cappucci a coprire il volto, nessuna parola. Gli inquirenti hanno cercato di ricostruire la sequenza degli interventi svolti sullo scambio che ha provocato il deragliamento del Frecciarossa e soprattutto come sia stato possibile che il deviatoio sia rimasto aperto dopo che il capo squadra aveva indicato una posizione «normale», ossia corretta rispetto al tracciato che avrebbe dovuto seguire il treno. Sentiti nelle prime ore, gli indagati — «tutti di grande esperienza», secondo i legali — avevano raccontato di aver svolto tutto con correttezza e di aver lasciato lo scambio diritto: «Non riusciamo a spiegarci cosa sia potuto succedere». La squadra ha lavorato dalla mezzanotte fino alle 4.45 di giovedì mattina. Nel programma dei lavori erano previsti interventi di manutenzione ordinaria della linea Alta velocità tra Livraga e Ospedaletto Lodigiano. Due in totale le squadre impegnate, ma solo quella dei tecnici indagati ha operato sullo scambio 05 al chilometro 166+771 della Milano-Bologna, dove secondo gli investigatori alle 5.35 s’è innescato il deragliamento. Gli operai hanno effettuato alcune riparazioni in altri punti e solo nella seconda parte del turno si sono concentrati sul deviatoio incriminato. Da capire, quindi, se la fretta e la pressione per la necessità di riaprire la linea abbiano giocato un ruolo nella tragedia. Lo scambio, secondo quanto ricostruito dagli investigatori del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polfer, presentava una anomalia nel sistema elettronico di collegamento con la centrale Alta velocità di Bologna (che controlla il traffico su tutta la rete riservata ai Frecciarossa). E per questo i cinque tecnici avrebbero prima isolato lo scambio dal software di sicurezza e poi sostituito alcune parti meccaniche ed elettroniche. Componenti importanti, dicono fonti investigative, che agiscono direttamente sull’apertura e chiusura del deviatoio. Il guasto però non è stato risolto e per questo — come previsto dalle procedure tecniche di Rfi — gli operai hanno mantenuto lo scambio isolato e alle 4.45 hanno inviato a Bologna il fonogramma con la comunicazione che il deviatoio era stato escluso dal sistema e lasciato in posizione normale (in linea con il tracciato del Frecciarossa). Una manovra che può essere eseguita manualmente, secondo Rfi, ma anche da una console di comando nel vicino centro di movimento di Livraga (a 350 metri dallo scambio). Il deviatoio però al passaggio del treno era «aperto» verso il binario di servizio, circostanza che ha dato il via al deragliamento visto che il convoglio viaggiava a 290 chilometri orari. Mario Dicuonzo e Giuseppe Cicciù, i macchinisti morti, non potevano accorgersi dell’errore perché il sistema computerizzato di guida Ertms non poteva «visualizzare» lo scambio isolato. L’ipotesi del pm di Lodi Giulia Aragno è che «l’intervento di manutenzione non sia stato eseguito in maniera adeguata». Da qui l’avviso di garanzia ai cinque operai. Ieri i poliziotti guidati da Marco Napoli e Angelo Laurino, hanno sequestrato tre hard disk con i filmati del deragliamento. Uno era sulla carrozza numero 3 e gli altri nell’edificio di manutenzione a Livraga. Sequestrati anche il libretto statistico della manutenzione del Posto Movimento e la corrispondenza telefonica. Ieri sono arrivate le gru necessarie per rimuovere i vagoni incidentati dalla linea. Domani il procuratore di Lodi, Domenico Chiaro, conferirà l’incarico ai consulenti della Procura, Roberto Lucani e Fabrizio D’Errico, gli stessi dell’incidente con tre morto di due anni fa a Pioltello (Milano).

Claudia Guasco per “il Messaggero” l'11 febbraio 2020. Anche gli investigatori della Polfer che stanno indagando sul campo, i migliori del settore, ammettono: «Un caso così non ci era mai capitato». Ovvero: uno scambio che, assicurano i cinque operai che hanno lavorato da mezzanotte alle 4.45 di giovedì mattina, è stato bloccato in posizione corretta e invece era spostato a sinistra, una rete di controllo elettronica che non ha letto l'errore e non ha innescato il blocco automatico della linea. Adesso, nel deragliamento del Frecciarossa 1000 che ha provocato la morte dei due macchinisti Giuseppe Cicciù e Mario di Cuonzo, l'attenzione si concentra sulla centrale operativa di Bologna, cui fa capo il software che gestisce gli scambi di quella tratta. Vengono ascoltati gli operatori del centro di controllo Alta velocità, a cominciare dal direttore di movimento, e nel frattempo i magistrati hanno iscritto al registro degli indagati Rfi, controllata di Ferrovie che si occupa della gestione e della manutenzione della rete, per l'ipotesi di illecito amministrativo in base alla legge 231. «È un passaggio quasi automatico. La società - sottolinea il procuratore capo di Lodi Domenico Chiaro - non è indagata in nessun modo per ipotesi penale: allo stato attuale non emerge niente». Anche Rfi potrà dunque partecipare agli accertamenti irripetibili che verranno effettuati domani dai periti nominati dalla procura: sono Roberto Lucani e Fabrizio D'Errico, gli stessi che due anni fa si sono occupati del disastro di Pioltello. «Verranno fatte anche simulazioni e prove tecniche. Si tratta di consulenti di provata esperienza, che pensiamo siano quanto di meglio la piazza possa offrire», afferma Chiaro. Ieri, per tutto il giorno, sulla massicciata all'altezza del chilometro 166 sono proseguite le analisi degli investigatori, propedeutiche alla verifica dei collegamenti tra lo scambio incriminato e la rete. Sabato, nel corso delle tredici ore di interrogatorio davanti alla pm Giulia Aragno, i cinque manutentori hanno ripetuto tutti la stessa cosa: «Abbiamo disalimentato lo scambio ed eseguito il lavoro. Ma non è stato possibile rialimentare il deviatoio, perciò lo abbiamo bloccato dritto, sul giusto tracciato». Quando un scambio è disalimentato, spiegano i tecnici, viene bloccato il meccanismo che permette l'apertura e la chiusura da remoto. Il centro di controllo di Bologna, dunque, non poteva intervenire su quello scambio ma ne leggeva la posizione. Tuttavia non ha segnalato alcun problema e così il Frecciarossa è piombato a 298 chilometri all'ora su un deviatoio che portava a sinistra. Problema tecnico, errore umano, meccanica o software. «Dobbiamo capire cosa è successo. Analizzeremo la connessone tra quello scambio e la centrale di Bologna», spiegano gli investigatori. Con l'ampliarsi delle ipotesi si allunga anche la lista degli indagati e nelle prossime ore la procura di Lodi procederà a nuove iscrizioni. La zona del deragliamento, dal punto zero al convoglio uscito dai binari, resta sotto sequestro, congelata per non alterare le prove. Solo nei prossimi giorni potrà cominciare la rimozione del treno, che si profila lunga e complicata. I vagoni devono essere sollevati da una gru e messi sui tir per essere portati via, ma ancora non si sa come far passare i camion gru: uno è già arrivato sul posto dai due ponti sulla A1 e sulla ferrovia, senza pericoli, mentre il mezzo più pesante ci ha provato nei giorni scorsi. Arrivato sul ponte sopra l'autostrada, l'autista non se l'è sentita di andare avanti, ha ingranato la retromarcia e ha parcheggiato il suo mezzo accanto agli altri in un piazzale davanti al casello di Ospedaletto Lodigiano.

Treno deragliato a Lodi, indagato l’ad di Alstom  per il pezzo difettoso  Scambio «disalimentato». Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. C’è anche l’amministratore delegato di Alstom ferroviaria, Michele Viale, tra i nuovi indagati nell’inchiesta sul deragliamento del Frecciarossa di Lodi. Il nome del manager è finito nel registro degli indagati per consentire gli accertamenti tecnici sulla catena di realizzazione e controllo dell’attuatore prodotto da Alstom nello stabilimento di Firenze e che gli operai avevano installato la notte dell’incidente durante i lavori di manutenzione. Si tratta di un elemento decisivo per regolare il movimento del deviatoio, in sostanza il motore che muove gli «aghi» (rotaie) che fanno spostare il treno dal binario «di giusto tragitto» a quello di servizio. Per gli inquirenti, infatti, il nuovo attuatore aveva un difetto interno di fabbricazione, nel dettaglio «un’inversione dei cablaggi». Un particolare che i 5 operai indagati dalla Procura di Lodi per il disastro e la morte dei due macchinisti non potevano conoscere. Ma che ha fatto scattare un alert alla National Safety authority dell’Unione Europea da parte dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie. È stata una comunicazione urgente inviata mercoledì sera all’Ansf dal procuratore di Lodi Domenico Chiaro a far partire la segnalazione di emergenza. L’alert riguarda tutti gli attuatori prodotti nel lotto del pezzo fallato, ma anche i dispositivi installati nelle ultime settimane. Tanto che Rete ferroviaria italiana (Rfi) ha sospeso cautelativamente la posa di nuovi attuatori Alstom. Per gli investigatori del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polfer, non ci sono dubbi che il deragliamento sia stato innescato proprio dall’errato posizionamento dello scambio che doveva trovarsi «chiuso» e invece era aperto sul binario di servizio. Ieri il direttore Ansf, l’ingegner Marco D’Onofrio, ha riferito alla commissione Trasporti del Senato. Anche l’Agenzia ha avviato un’indagine «parallela» a quella penale per risalire ad eventuali falle nel sistema dei controlli e della sicurezza ferroviaria: «Risulta che il deviatoio 5, la cui posizione non congruente sembra appunto essere stata la causa dello svio, era stato sottoposto, nel corso della notte, a manutenzione da parte di agenti di Rfi — hanno scritto i tecnici di Ansf nella loro relazione —. Tale intervento manutentivo aveva comportato la disalimentazione del deviatoio stesso. Nel caso specifico risulta che gli agenti di manutenzione di Rfi abbiano attivato l’interruzione, chiudendola alle ore 03.45 senza però riuscire a concludere con esito positivo l’intervento manutentivo sul deviatoio. Per tale motivo lo scambio veniva restituito all’esercizio alle ore 04.45disalimentato e quindi in condizioni diverse dalla piena efficienza». Per l’Agenzia sulla sicurezza ferroviaria «vista la non congruenza tra la posizione rovescia e l’autorizzazione al movimento in Full supervision, si desume che il deviatoio è rientrato in esercizio senza il controllo tecnologico effettivo della sua posizione reale. Quindi il treno 9595 è stato autorizzato al movimento in Full supervision alla massima velocità di linea con la mancanza o comunque l’inefficienza dei collegamenti di sicurezza tra il sistema di segnalamento e il deviatoio, collegamenti necessari per la gestione della circolazione». L’esito delle prime perizie sullo scambio ha quindi alleggerito la posizione dei 5 tecnici Rfi indagati, ma non ha del tutto chiarito le cause del disastro. Per il direttore D’Onofrio, infatti, il guasto all’attuatore da solo non basta a spiegare perché lo scambio sia stato fatalmente lasciato in una posizione errata. Il sospetto è che dopo aver comunicato la posizione corretta via fonogramma, qualcuno possa aver mosso lo scambio con i comandi manuali nel Posto movimento di Livraga. Possibile che nessuno si sia accorto che lo scambio fosse aperto sul binario morto?

Fausto Carioti per “Libero Quotidiano” il 7 febbraio 2020. Se il nostro Paese progredisce a fatica è perché ci sono ancora pezzi di esso mummificati negli anni Settanta e rimasti intatti da allora, incapaci di uscire dalle logiche dell' antagonismo sociale. Si è visto ieri, dopo l' incidente sulla linea ferroviaria dell' alta velocità all' altezza di Ospedaletto Lodigiano, nel quale sono morti due macchinisti e rimaste ferite 31 persone. Alla tragedia si sono aggiunti i disagi di migliaia di italiani, penalizzati da pesanti ritardi e cancellazioni dei treni sulla tratta Milano-Bologna, la più importante del Paese. Il riflesso pavloviano dei sindacati e dei comitati di base dei macchinisti è stata la proclamazione di uno sciopero per la giornata di oggi. L'«invito» del garante degli scioperi nei servizi pubblici ad «attutire il forte pregiudizio sui diritti degli utenti», colpiti con un preavviso brevissimo, ha indotto molte sigle a "limitarsi" ad «uno sciopero di due ore di tutti i ferrovieri dipendenti da tutte le aziende di settore operanti sulla rete nazionale e locale a partire dalle 12». Non si sono adeguate, invece, le sigle Usb Trasporti, Cat, Cub e Sgb, i cui macchinisti saranno protagonisti di uno sciopero di otto ore, dalle 9 alle 17. I viaggiatori patiranno così, per il secondo giorno di fila, le conseguenze della sciagura. Ulteriori ritardi, altri calvari per chi si sposta, stavolta in ogni angolo della Penisola. A chi serve? A nessuno. Non occorre uno sciopero per far capire che i colpevoli dell' errore debbono essere individuati e puniti: la procura di Lodi ha aperto subito un' inchiesta per disastro e omicidio colposo. Quanto alla necessità di adottare migliori procedure di sicurezza, i due morti e le immagini del Frecciarossa deragliato sono un avvertimento più che sufficiente. L' astensione dal lavoro avrà un unico risultato: aumentare i danni a carico dei normali cittadini. I quali, per inciso, sono anche i finanziatori dell' intero ambaradan: 13,3 miliardi di euro nel quinquennio 2017-2021 è il costo a carico delle casse pubbliche, cioè dei contribuenti, per gli investimenti in sicurezza previsti dal contratto tra il ministero delle Infrastrutture e la società del gruppo Fs che gestisce i binari, ai quali vanno aggiunti 10,5 miliardi per la manutenzione tra il 2016 e il 2021. Somme enormi, che non ricadono solo su chi viaggia, ma su chiunque paghi la tasse, e che imporrebbero per il povero azionista ignaro e coatto un rispetto che non c' è. La vicinanza ai macchinisti morti da parte dei loro colleghi è doverosa e c' è un modo molto concreto per dimostrarla: lavorare normalmente, magari con la fascia nera al braccio, senza creare altri guai al prossimo, e devolvere alle famiglie delle vittime una quota dello stipendio, che comunque andrà persa a causa dello sciopero. E ovviamente i sindacati avranno la possibilità di costituirsi parte civile nel processo, come previsto dalla legge. appiattimento Il fatto che non concepiscano l' esistenza di un' altra forma di protesta, civile e costruttiva, significa che sono ancora appiattiti sugli schemi di mezzo secolo fa, figli della tradizione ottocentesca, quella della contrapposizione tra "operaio" e "padrone". Logica che non viene scalfita nemmeno dal fatto che "padroni", in questo caso, sono tutti gli italiani. Il resto della colpa va al legislatore. La commissione di garanzia sugli scioperi, composta da otto illustri giuristi ed esperti in relazioni industriali, ieri non ha potuto fare altro che «invitare» i sindacati ad «attutire» l' impatto dell' agitazione. La legge, scritta nel 1990, consente di scioperare senza preavviso in due soli casi: «in difesa dell' ordine costituzionale», cioè qualora si verifichi un colpo di Stato, oppure come «protesta per gravi eventi lesivi dell' incolumità e della sicurezza dei lavoratori». Nella seconda eventualità, però, lo stesso garante ha avvertito da tempo che l' astensione deve essere di durata «simbolica» e non superare comunque le due ore (ma anche dieci minuti sarebbero sufficienti a dare il segnale). Quattro sigle, come visto, se ne sono fregate e hanno deciso di incrociare le braccia per otto ore. Il rispetto di chi viaggia e paga, magari per lavoro, non può essere rimesso a semplici «inviti»: serve una legge sullo sciopero più rigorosa e scritta meglio. Da aggiungere all' elenco delle cose che dovrebbe fare un governo serio, l' anno in cui l' Italia ne avrà uno.

Paolo Stefanato per “il Giornale” il 7 febbraio 2020. Quando si dice il destino. Il Frecciarossa ha normalmente un unico macchinista, salvo nelle ore notturne tra le 24 e le 5 del mattino quando al posto di guida sono in due. Il treno 9595 Milano-Salerno parte dalla Centrale alle 5,10, ma i macchinisti prendono servizio tra i 15 e i 30 minuti prima, per le attività di preparazione del convoglio. Quindi per pochi, pochissimi minuti questa semplice norma contrattuale, ispirata a principi di prudenza, è costata una vita in più. La prima carrozza dell' Etr 400, quella dove è posizionata la cabina di guida, è deragliata, si è staccata dal treno, si è infranta contro un edificio e per i due ferrovieri non c' è stato scampo. Ieri si era sparsa la voce che il distacco «della motrice» facesse parte degli strumenti di sicurezza, per evitare di trascinare nella corsa il treno intero; così non è, quel tipo di treno non ha una motrice, come il più vecchio Etr 500, ma ha potenza distribuita, cioè i motori sono incorporati nei carrelli e non è previsto che il primo modulo si stacchi da solo. Il sistema di sicurezza dell' Alta velocità in Italia è uno dei più avanzati nel mondo, ed è la somma di due distinti sistemi chiamati, con acronimi, Etcs quello di bordo e Ertms, quello di terra. Sono in continuo dialogo tra di loro, il treno comunica con la rotaia e viceversa. Sulle linee ad alta velocità non sono posizionati segnali (per esempio limiti di velocità) o semafori: tutto appare sui monitor, il verde o il rosso e ogni altra indicazione arrivano in cabina. Qualunque rallentamento è immediatamente segnalato. Il macchinista ha pochi secondi per agire sulla velocità e portare il convoglio in sicurezza, obbedendo alle richieste: se non lo fa, il treno semplicemente - si ferma da solo. I rallentamenti più frequenti riguardano gli scambi (deviato, per i ferrovieri), che possono essere avere posizione dritta o deviata; in quest' ultimo caso, la velocità non può essere superiore ai 100 chilometri orari: fosse anche di 101, il treno verrebbe arrestato immediatamente; ma è una cosa che non succede mai, perché le velocità vengono rispettate. Nel caso dell' incidente di Livraga, tutto fa pensare che sia mancato il dialogo rotaia-treno: lo scambio era stato confermato in posizione normale, affrontabile a 300 all' ora, mentre la sua posizione era «deviata», richiedendo i 100. Il treno era entrato nella rete ad alta velocità 20 chilometri prima, tempo sufficiente per una spinta fino ai massimi. È il macchinista che accelera, portando in avanti la manetta posizionata sul suo banco di manovra, l' equivalente del cruscotto per un' automobile. Il macchinista, è bene sottolinearlo, non ha discrezionalità nella guida; posto che il rischio zero non esiste, l' errore umano è pressoché impossibile. Non può forzare la velocità, può eventualmente rallentare o azionare il freno d' emergenza, se necessario, tenendo conto che una frenata a 300 all' ora può impegnare non meno di due chilometri. Può segnalare pericoli alla sala di controllo (persone troppo vicine ai binari, animali...) perché siano avvisati gli altri treni. La principale attività del macchinista è proprio tenere gli occhi incollati alle rotaie e verificare in ogni istante che non ci siano anomalie non rilevabili dai sistemi: deve guardare sempre avanti, senza mai distrarsi. Gli altri suoi compiti sono quelli di far partire il treno, farlo fermare nel punto giusto in stazione, bloccare e sbloccare le porte, accelerare e decelerare, tenere d' occhio i monitor. I sistemi di sicurezza prevedono, ovviamente, che il macchinista possa avere un malore e non sia in grado di svolgere la propria attività. Così egli deve costantemente restare a contatto con quello che si chiama «dispositivo vigilante», che confidenzialmente i ferrovieri, non senza cinismo, chiamano «uomo morto»: deve cioè svolgere continuamente delle azioni non ripetitive (toccare una maniglia, premere un pedale, sfiorare un sensore) per manifestare in ogni istante la sua presenza, appunto, vigile. Se non lo fa il treno si ferma.

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2020. Il primo incidente sulla rete dell' Alta velocità in Italia non può non suscitare apprensione nei 170 mila passeggeri che tutti i giorni la percorrono. Sono 15 anni che i treni superveloci volano su quei binari, dieci che esiste un servizio commerciale. Nel resto d' Europa l' Alta velocità ha già registrato incidenti mortali tra Francia, Spagna e Germania. In Italia fino a ieri nessuno. Se la statistica ha un senso, un incidente per quanto grave, al punto purtroppo di essere costato la vita a due persone, e non è un dettaglio, non dovrebbe far crollare la fiducia che in questi anni 350 milioni di viaggiatori hanno riposto nella sicurezza di questo sistema di trasporto in Italia. Eppure non possiamo nascondere l' inquietudine: come è possibile che anche un mezzo sofisticato come un treno dell' Alta velocità possa fallire? Come accade tutte le volte che a «tradirci» è una tecnologia che pensavamo imbattibile, la paura supera la razionalità. Per non cedere a questo impulso, in attesa che le indagini facciano il loro corso, non resta che cercare di capire come funziona il sistema di sicurezza dell' Alta velocità. Secondo quanto riportato da Ferrovie dello Stato, dal 2002 al 2019 gli investimenti realizzati per la sicurezza ferroviaria dal gestore della rete (Rfi) sono raddoppiati: da 1.146 milioni di euro nel 2002 a 2.240 milioni di euro nel 2019. Quel che è certo è che l' intera rete Alta velocità/Alta capacità è dotata di sistemi avanzati di protezione della circolazione dei treni, in particolare l' European rail traffic management system (Ertms) controlla la velocità massima ammessa e la distanza dei treni, istante per istante, intervenendo automaticamente in caso di superamento di tali limiti. La stessa tecnologia, operativa in Italia da 15 anni, consente lo scambio di informazioni tra i treni e chi controlla il traffico da terra. È lo stesso treno, circolando sulla rete, a rilevare le anomalie che vengono registrate e girate a chi si occupa della manutenzione. Tutte le settimane i treni diagnostici percorrono l' intera rete per ulteriori rilevamenti. Inoltre c'è la diagnostica effettuata periodicamente su punti fissi. Questo per dire che è difficile che un' anomalia sfugga ai controlli. E questo è tanto vero che il binario lungo il quale è avvenuto l' incidente era stato oggetto di manutenzione proprio qualche ora prima dello stesso. Il rilevamento dell' anomalia conta molto a livello preventivo, ma non è tutto. Occorre che l' intervento che segue sia tempestivo ed efficace. Lo è stato quello che è stato effettuato a Lodi? Probabilmente no, questa è la traccia che starebbero seguendo gli inquirenti. Un errore umano, dunque. Il treno deragliato è stato il primo a percorrere la tratta dopo i lavori. Il sistema di segnalamento dell' anomalia qui evidentemente non ha potuto funzionare.

Strage di Viareggio, i giudici: “Nessuna valutazione dei rischi”. Le Iene il 13 gennaio 2020. Per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 sono stati condannati amministratori e dirigenti di Trenitalia, Rfi e delle società coinvolte nella manutenzione dei carri cisterna che trasportavano gpl. Nella sentenza di Appello vengono ricostruite le mancanze di quella notte. Giulio Golia ha invece ascoltato le testimonianze dei parenti delle 32 vittime. Nessuna valutazione dei rischi nel caso di deragliamento, a cui si aggiunge scarsa cura della sicurezza del trasporto merci “come se non potesse essere fonte di pericolo per le persone, anche se non trasportate”. In poche parole: una strage che poteva essere evitata. È quanto si legge nella sentenza della Corte d'appello di Firenze, per l’incidente ferroviario di Viareggio (Lucca), in cui morirono 32 persone. Giulio Golia attraverso le testimonianze dei familiari delle vittime ha ricostruito che cosa è accaduto quella notte, come potete vedere nel video qui sopra. Era il 29 giugno 2009, quando il treno merci 50325 che trasportava 14 cisterne di gpl (gas propano liquido) è improvvisamente deragliato, sbattendo contro la banchina e portandosi dietro una scia di scintille. Una corsa che è finita contro un picchetto, che ha bucato una delle cisterne. Il cielo notturno di Viareggio si è tinto di rosso. Un’esplosione che ha travolto le case a ridosso della stazione, polverizzandole. Nel giugno scorso, la Corte d'Appello di Firenze ha condannato a 7 anni Mauro Moretti, ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato e Reti ferroviarie italiane, a 6 anni Michele Mario Elia (ex ad di Rfi) e Vincenzo Soprano (ex ad di Trenitalia) questa strage. La procura generale aveva chiesto 15 anni e 6 mesi per Mauro Moretti, che in primo grado era stato condannato a 7 anni, e 14 anni e 6 mesi per Michele Mario Elia. Sono accusati a varo titolo di disastro ferroviario, omicidio e lesioni plurime colpose, incendio. Oltre a loro sono stati condannati anche gli amministratori e i dirigenti delle società tedesche e austriache che facevano manutenzione dei carri merci in appalto. Nelle 1.200 pagine della sentenza di Appello vengono ricostruite le omissioni di quella notte. Moretti ed Elia sono responsabili di aver “deliberatamente violato le norme in tema di tracciabilità dei rotabili per una precisa politica aziendale diretta a limitare gli impegni di spesa relativi al trasporto delle merci, settore minoritario anche per Trenitalia nonché fonte di minori guadagni per investire piuttosto, anche in termini di sicurezza, nel trasporto passeggeri”. Secondo i giudici, anche l’alta velocità sarebbe tra le cause della strage: “Rfi, gestore dell’infrastruttura, avrebbe dovuto imporre a quel convoglio di non superare i 60 chilometri orari nell’attraversamento delle stazioni ferroviarie”. Inoltre l’attraversamento di quel treno merci avrebbe dovuto essere valutato come particolarmente rischioso “per il fatto che la merce trasportata era Gpl, che le cisterne non erano a doppio scafo, anche se conformi alle norme, che le zone abitate non erano isolate da barriere, che i carri non erano accompagnati da documentazione che dimostrasse la corretta manutenzione e non avevano i rilevatore di svio”. Con Giulio Golia abbiamo conosciuto i parenti delle vittime: "Questo tribunale ha capito che la tragedia poteva essere evitata e che i dirigenti sono i primi responsabili”, commenta Daniela Rombi, che quel 29 giugno perse nel rogo la figlia Emanuela di 21 anni. “Mia figlia è morta perché è bruciata. Io non ho ancora potuto piangere serenamente mia figlia. Ce li hanno ammazzati in casa”.

Salvo Palazzolo per repubblica.it il 10 gennaio 2020. E’ una delle linee più frequentate durante la stagione estiva: Trapani-Isole Egadi. Affidata dalla Regione alla “Caronte & tourist isole minori spa”, nel 2016. Ora, si scopre che i traghetti utilizzati avrebbero pesanti carenze per il trasporto delle persone “a mobilità ridotta”, disabili, anziani e mamme incinta. Le indagini del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo, coordinate dalla procura di Messina, hanno portato al sequestro delle tre navi che si sono alternate sulla rotta: i traghetti “Pace”, “Caronte” e “Ulisse”. Rampe di accesso, bagni e porte non sarebbero a norma. E agli atti dell'inchiesta c'è anche la pesante denuncia del comandante della Capitaneria di porto di Messina, Nazzareno Laganà, che sentito in procura ha detto: "Preciso che il problema della idoneità delle navi al trasporto delle persone a mobilità ridotta riguarda tutte le navi similiari alla Pace che effettuano trasporto nello stretto di Messina. Ho effettuato in tal senso - ha spiegato l'ufficiale - numerosi controlli e a tutte le navi è stato inibito il trasporto delle persone a mobilità ridotta a bordo". Ma, al momento, l'inchiesta riguarda solo "Pace", "Caronte" e "Ulisse". Pesante la contestazione mossa dal procuratore Maurizio de Lucia e dai sostituti Antonio Carchietti e Roberto Conte: truffa per il conseguimento di pubbliche erogazioni, falsità ideologica e frode nelle pubbliche forniture ai danni della Regione Siciliana. Il provvedimento del gip Salvatore Mastroeni, notificato stamattina dai finanzieri di Palermo e Messina, è stato disposto nei confronti della società “Caronte & tourist isole minori spa” e di Sergio La Cava, amministratore della “Navigazione generale italiana spa” incorporata nel 2017 dalla Caronte. Il sequestro riguarda anche somme di denaro, quote societarie, beni mobili ed immobili fino alla concorrenza di 3,5 milioni di euro, secondo l’accusa è quanto sarebbe stato percepito indebitamente per un servizio irregolare, fra il 2016 e il 2019. Segnalata anche la “Caronte & tourist isole minori spa” per la responsabilità amministrativa derivante dal reato ipotizzato. Nell'inchiesta risultano indagati anche Vincenzo Franza, presidente di Caronte, già consigliere delegato di "N.g.i"; Edoardo Bonanno, amministratore delegato della Caronte; e Luigi Genchi, consigliere e amministratore delegato della "N.g.i. spa". La “Navigazione generale italiana spa” si era aggiudicata il “lotto” Trapani-Isole Egadi nel 2016, nell’ambito del bando di gara indetto dall’assessorato regionale alle Infrastrutture. Un contratto di cinque anni, valore 15,9 milioni di euro, assegnato con un significativo ribasso, a 5,3 milioni. La Regione chiedeva un traghetto ben preciso per la tratta, in modo da consentire a tutti i passeggeri una traversata sicura, anche in caso di mare agitato o di pericolo. Spiega la Guardia di finanza in un comunicato: “Rientra nella nozione di persona a mobilità ridotta chiunque abbia una particolare difficoltà nell’uso dei trasporti pubblici, compresi gli anziani, i disabili, le persone con disturbi sensoriali e quanti impiegano sedie a rotelle, le gestanti e chi accompagna bambini piccoli”. Le indagini hanno invece messo in risalto “gravi carenze tecniche e strutturali in ragione delle quali non è assolutamente possibile trasportare in sicurezza persone a mobilità ridotta”. La Capitaneria di porto di Messina aveva già rilevato le irregolarità nel marzo 2016: "Per ottemperare - ha ribadito il comandante Nazzareno Laganà sentito in procura - ci volevano modifiche strutturali importanti, non risolvibili nell'immediato periodo". A Trapani, erano arrivati gli altri due traghetti, ma si trovavano nelle stesse condizioni della Pace. Nel marzo 2016, era stata comunicata al ministero dei Trasporti "l'impossibilità" per le navi "al trasporto delle persone a mobilità ridotta"; tre mesi dopo da Roma erano state ribadite le considerazioni della Capitaneria. Erano stati anche richiesti dei lavori di modifica, che non sarebbero stati fatti. L'anno scorso, è arrivata una commissione del ministero per verificare lo stato dei traghetti. Al fine di un lungo iter, la Capitaneria ha dato il certificato di sicurezza, ma con "inibizione all'imbarco dei passeggeri a mobilità ridotta". Adesso, i mezzi sequestrati della magistratura sono stati affidati ad un amministratore giudiziario. La Caronte precisa in una nota che i collegamenti proseguiranno regolarmente, parla di "questioni interpretative sulle attuali norme in materia di trasporto delle persone a mobilità ridotta". Ma le valutazioni della magistratura sono diverse, e più pesanti. Il gip parla di "totale assenza delle dotazioni richieste per il trasporto delle persone a mobilità ridotta".

Boeing 737 Max, le denunce insabbiate dei dipendenti: «Aereo progettato da clown». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 da Corriere.it. Nuova grana per Boeing. Alcuni documenti interni della società rivelano critiche e prese in giro alle autorità e non solo sul 737 Max, l’aereo ormai a terra da mesi dopo i due incidenti mortali. Il 737 Max è stato «progettato da clown e controllato da scimmie» si legge in una delle email trapelate, dalle quali emerge come i dipendenti di Boeing hanno convinto, anche ricorrendo ad alcuni trucchi, le compagnie aeree e le autorità che non fosse necessario nessun addestramento con simulatori per i piloti del velivolo. Il quadro, emerso dalle migliaia di conversazioni interne che la Boeing ha scoperto sui propri server il mese scorso, è stato girato alla Federal Aviation Administration (Faa) e alle commissioni di inchiesta del Congresso. I documenti, resi pubblici ieri dal Campidoglio, rivelano come alcuni dipendenti della Boeing fossero a conoscenza dei difetti di progettazione del 737 Max da tempo e si siano presi gioco delle attività di vigilanza della Faa. «Questo aeroplano è stato progettato da clown che a loro volta sono controllati da scimmie» scrive nell’aprile del 2017 un dipendente mentre un altro fa riferimento allo sviluppo dei simulatori di volo sviluppati per il 737 Max e sembra indicare come siano stati nascosti difetti con il funzionamento di questi macchinari. «Non sono ancora stato perdonato da Dio per tutto l’insabbiare che ho dovuto fare l’anno scorso» recita un messaggio del 2018. Due modelli del 737 Max sono caduti nell’arco di cinque mesi a cavallo fra il 2018 e il 2019 uccidendo 346 persone. Da allora i voli di questo modello sono stati sospesi in tutto il mondo. «Il linguaggio utilizzato in queste comunicazioni non sono in linea con i valori della Boeing — spiega un comunicato della compagnia aerea — stiamo adottando le contromisure adeguate. Queste includeranno anche azioni disciplinari e di altro tipo una volta che le necessarie indagini saranno state completate». Da parte sua la Faa in un comunicato ha definito «deludenti» i messaggi ma ha spiegato che questi non rivelano «alcun rischio per la sicurezza che non fosse già stato identificato come parte delle continue attività di verifica delle modifiche proposte per l’aereo». La Faa ha inoltre spiegato che continuerà a concentrarsi «sul seguire un processo accurato per far ritornare in servizio il Boeing 737 Max».

«Gatto in autostrada: se causa un incidente il gestore non paga». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Il giudice di pace condannò Milano Serravalle a risarcire una donna per i danni alla sua auto. Ma il Tribunale civile in appello parla di «imprevedibilità». Chi paga i danni se un gatto randagio provoca un incidente attraversando l’autostrada? La domanda suona strana, ma la risposta sposta rilevanti interessi economici (specie in caso di vittime): tanto che ora una sentenza della X sezione civile del Tribunale di Milano per rispondere sviluppa prima una curiosa casistica sugli ingombri animali senza padrone (altrimenti la responsabilità dei danni è sempre sua anche se l’animale gli era scappato). Un incidente mortale causato da cinghiali (Photomasi) La sentenza verte sul fatto che il 25 febbraio 2016 alle 5 del mattino la conducente di una Fiat 500 lungo l’autostrada Milano-Genova subito dopo l’uscita di Cantalupa fosse «venuta a collisione con un gatto che improvvisamente le attraversava la carreggiata». In primo grado nel 2018 il giudice di pace condanna il gestore «Milano Serravalle tangenziale spa» a risarcire alla donna (assistita dall’avvocato Chiara Bigaroli) 2.095 euro di danni perché ritiene applicabile l’art. 2051 del codice civile, che qualifica responsabile chi abbia in custodia la cosa (in questo caso la strada) che cagiona i danni, a prescindere perfino da profili solo colposi. La società autostradale, con l’avvocato Adriano Alimento, impugna la condanna e invoca l’unica scriminante ammessa da quella norma, «il caso fortuito». Cos’è? Il codice civile non dà una definizione, e negli anni la giurisprudenza di Cassazione l’ha individuata in un evento che, idoneo a interrompere il nesso di causa, non potesse essere in alcun modo previsto; o che, pur prevedibile, non potesse essere in alcun modo evitato «per la natura del fatto in sé e/o per il tempo ontologicamente insufficiente» a rimediare. Se ad esempio l’incidente avviene per una macchia di olio, il gestore della strada è sempre in colpa, salvo possa dimostrare che la macchia era tanto recente rispetto all’incidente da non potersi evitare che lo causasse. Se attraversano la strada un capriolo o un bovino, anche qui il gestore può esonerarsi da responsabilità solo se prova ad esempio che vandali avessero rotto la recinzione ed essa non fosse riparabile in tempo, o che qualcuno avesse inopinatamente abbandonato l’animale. Persino per l’investimento della carcassa di un gatto già in evidente decomposizione sulla carreggiata è responsabile il gestore che avrebbe potuto rimuoverla per tempo, difettando qui i presupposti di inevitabilità e imprevedibilità del «caso fortuito». Ma un gatto randagio in autostrada? Qui invece il giudice Damiano Spera ravvisa che «il comportamento dell’animale di piccola taglia, che in un orario ancora privo della luce del giorno attraversa la carreggiata di un’autostrada, sia comunque qualificabile come evento eccezionale ed imprevedibile», e in particolare inquadrabile nella categoria del caso fortuito «per fatto naturale», talmente eccezionale e straordinario da essere idoneo ad elidere il nesso di causa altrimenti esistente. Per il Tribunale «va infatti considerato che i movimenti di un animale come il gatto sono repentini ed imprevedibili per natura»; e che l’inevitabilità sta nel fatto che, «diversamente da quanto potrebbe valere per animali di grossa taglia, nessun tipo di ordinaria recinzione in un tratto pianeggiante potrebbe impedire il repentino attraversamento di un animale così snello ed agile come il gatto». L’automobilista è perciò condannata a restituire il risarcimento alla società autostradale, ma «la novità della questione trattata giustifica la compensazione delle spese processuali».

Autostrade, la De Micheli annuncia: "A gennaio decideremo sulla revoca". Il ministro delle Infrastrutture detta la linea sulle concessioni: "Non faremo espropri proletari, ma le regole siano uguali per tutti". Luca Sablone, Martedì 24/12/2019, su Il Giornale. Paola De Micheli vuole puntualizzare la posizione del governo in merito ad Autostrade: "Nessun esproprio proletario. Nessuna nazionalizzazione o vendetta. Vogliamo solo che le regole siano uguali per tutti". Al centro del discorso il Milleproroghe, che riscrive le procedure in caso di revoca delle concessioni autostradali: "C'è un intervento su due concessioni, la Ragusa-Catania e la Tirrenica. Passeranno ad Anas e saranno completate, come giusto in un Paese normale". Inoltre vengono modificate le modalità di indennizzo in caso di revoca "per tutti i concessionari che non si trovano ancora in questa condizione". Si tratta di una "previsione di legge generale"; l'intento è quello di "parificare le condizioni di tutti i concessionari davanti alla legge". A suo giudizio al momento non è ancora così: "Ci sono 3 o 4 concessioni con condizioni più vantaggiose. Tra queste anche Aspi". Con le nuove regole ai concessionari eventualmente revocati "spetterà la cifra iscritta a bilancio degli investimenti non ammortizzati, oltre a quanto previsto dal codice degli appalti". Comunque per arrivare alla procedura di revoca "ci deve essere un inadempimento grave, una cosa che va dimostrata e condivisa". La revoca ad Aspi è da intendersi come "una procedura separata" sulla quale l'esecutivo giallorosso sta "ancora acquisendo dati". Dopo aver terminato le analisi "tutto il governo approfondirà il se, il come e il quando". Nello specifico a gennaio la maggioranza dovrebbe essere "in grado di prendere una decisione", ma fino a quando non verranno esaminati tutti gli aspetti preferisce non sbilanciarsi.

Posti a rischio. Nell'intervista rilasciata al Corriere della Sera, il ministro delle Infrastrutture ha risposto ad Autostrade, che vorrebbe l'indennizzo calcolato con le vecchie regole corrispondente a circa 23 miliardi di euro: "Questo è un modo per mettere in difficoltà il governo, per vedere se qualcuno in Parlamento vota contro. Non è una modalità di comportamento lineare". Anche perché dietro vi sarebbe un'idea sbagliata: "Gli investimenti non ancora remunerati verranno riconosciuti, oltre come già detto quanto previsto dal codice degli appalti". Ha fatto notare che nella lettera è presente un aspetto grave: "Il concessionario non riconosce il sacrosanto diritto di un governo alla luce di tutto quello che è accaduto di revisionare il modello concessorio ormai vecchio di oltre 15 anni". Aspi dal suo canto dice che si sarebbero 7mila posti a rischio: "Se dovesse accadere non è che le autostrade verranno abbandonate". Il governo dunque avrà il compito di valutare e affrontare "anche questo aspetto senza mettere a rischio i posti di lavoro". La società annuncia ricorsi miliardari, perciò anche la commissione di esperti nominata da Danilo Toninelli spingeva per la rinegoziazione: "Nessuno vuole fare un salto nel buio. E intanto revisioniamo i contratti". La De Micheli dice che ha voluto prendersi il giusto tempo "per fare gli approfondimenti" ma anche perché il suo obiettivo è di "difendere l'interesse pubblico" e lei intende "difenderlo anche da questi rischi".

DAGONEWS il 23 dicembre 2019. Sono in pochi a ricordare che già nel 2006 l’allora ministro delle Infrastrutture Di Pietro cercò di modificare le concessioni autostradali in modo unilaterale. Risultato: la Commissione Europea aprì una procedura di infrazione con una lettera di messa in mora nei confronti dell’Italia, ribadendo che i contratti non possono essere modificati senza un accordo delle parti. Nemmeno se uno dei due contraenti è lo Stato. Prodi, che era Presidente del Consiglio, intervenne subito cercando di dimostrare alla Commissione che in realtà il Governo voleva cercare un accordo con i concessionari autostradali, senza forzature. Nel maggio 2008, quando ormai l’esecutivo era cambiato e a Palazzo Chigi c’era Berlusconi, l’allora Commissario Ue per il Mercato Interno ed i Servizi, l'irlandese Charlie McCreevy, scrisse una lettera di sollecito al Premier italiano invitandolo a trovare una soluzione per chiudere la procedura di infrazione. “Tale soluzione – scrive il Commissario – consiste nel fare in modo che le convenzioni … entrino rapidamente in vigore, concretizzando il presupposto della non modificabilità, in via unilaterale, da parte dello Stato concedente, del regime tariffario per tutta la durata della concessione. … Tale intangibilità di rapporti – in particolare di rapporti che hanno formato oggetto di privatizzazione – è stata, del resto, più volte espressamente riconosciuta dalle autorità italiane”. Berlusconi diede ascolto alla Commissione Ue e diede seguito all’operatività delle Convenzioni autostradali, facendo chiudere la procedura di infrazione. Oggi, a dieci anni di distanza, il Governo sembra voler ricalcare la strada del ministro Di Pietro. Ma al Premier Conte e al ministro De Micheli questa lettera l’avranno mai fatta vedere?

ANSA il 24 dicembre 2019 "Le dichiarazioni di Conte sono una grande strumentalizzazione dei giornali. Io e Giuseppe siamo stati fino alle cinque stanotte a votare la legge di bilancio in Aula e quindi abbiamo potuto vedere quelle prime pagine con titoli strumentalizzati insieme e confermiamo che abbiamo la stessa linea sulle autostrade". Lo afferma il ministro degli Esteri e leader M5S, Luigi Di Maio, ad Avellino. "Non era scontato arrivare fino a qui, ma ce l'abbiamo fatta. La manovra è approvata. È una buona manovra e oggi siamo felici di potervi guardare negli occhi e dirvi che per gli italiani non aumenterà l'IVA". Lo scrive Luigi Di Maio su facebook, sostenendo che "bisogna avere il coraggio di governare per cambiare le cose e noi, a differenza di altri, ci stiamo mettendo la faccia".  "Sì, è vero: non siamo perfetti, ma ci battiamo con tutte le nostre forze per ottenere degli obiettivi onesti. So bene che dovrebbe essere la normalità, ma il tempo ci ha dimostrato che non è sempre stato così per tutti. Questo governo è nato su due promesse che in poco tempo sono diventate fatti: il taglio del numero dei parlamentari e il blocco dell'aumento dell'IVA. Questo è però solo l'inizio di un percorso che deve proseguire, perché abbiamo ancora tanto da fare. Penso prima di tutto alla revoca delle concessioni autostradali, perché anche su questo siamo determinati", conclude. "Ultimo messaggio politico prima degli auguri su autostrade. Punire i responsabili del crollo del ponte è doveroso! Fare leggi improvvisate che fanno fuggire gli investitori internazionali è invece un autogol: niente è più pericoloso del populismo normativo. Ne parleremo a gennaio". Lo scrive su twitter, facendo riferimento al 'dossier' concessioni autostradali, il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. La concessione ad Aspi va tolta o no? "Chiedetelo a Conte, Renzi, Di Maio e Zingaretti. Perchè Di Maio e Conte fino ad agosto avevano la scusa che è colpa di Salvini". E' la risposta dell'ex ministro Matteo Salvini, in visita all'ospedale Buzzi di Milano in occasione del Natale. "Adesso che non c'è più Salvini al governo sono mesi che vanno avanti a litigare anche su questo - ha detto il leader della Lega. Il risultato è che stanno devastando il Paese perchè le concessionarie autostradali non fanno manutenzione. Ovviamente essendo in sospeso non spendono quattrini. Quindi è un altro episodio di irresponsabilità totale da parte dei signori che stanno abusivamente al governo. Se non lo fanno è perchè non sono capaci di farlo o perchè non vogliono farlo o perchè stanno litigando. Ma stanno pagando gli automobilisti italiani perchè la manutenzione è ferma".

Sandra Riccio per ''La Stampa'' il 24 dicembre 2019. Terremoto in Borsa ieri per Atlantia. La società che controlla Autostrade, in una sola giornata, ha bruciato 883 milioni (-4,8% a 21 euro). A spingere in basso le azioni del colosso delle infrastrutture è stata la novità emersa sui contenuti nel decreto Milleproroghe che rendono più semplice la revoca delle concessioni autostradali. L' incertezza ha spinto gli investitori a vendere i titoli. Al centro dell' attenzione ci sono le tensioni con il governo che potrebbero diventare più aspre. A rischio ci sarebbe la solidità della società con possibili riflessi negativi su tutto il comparto nonché sui mercati obbligazionari e sui titoli bancari dell' Europa. Il rischio è che il conto finale vada a carico dei piccoli risparmiatori. A spaventare gli investitori non è soltanto l' ipotesi della revoca della concessione autostradale ma anche la possibilità che Atlantia debba subire un taglio netto dell' eventuale indennizzo (stimato intorno ai 23-25 miliardi) che incasserebbe in caso di revoca. Secondo fonti finanziarie senza indennizzo mancherebbero ad Autostrade per l' Italia le risorse per ripagare circa 10,8 miliardi di debito (salvo accollo del debito da parte dello Stato a spese dei contribuenti quale conseguenza della «nazionalizzazione» della concessione) con il conseguente fallimento della società. A catena l' impatto si ripercuoterebbe sul ripagamento di 5,3 miliardi di debito di AtlantiaSpa (che controlla l' 88% del capitale di Autostrade ed è garante di parte del debito della controllata). L'ammontare di debito complessivo in default (oltre 16 miliardi) avrebbe conseguenze sui mercati obbligazionari e bancari europei visto che la maggior parte del debito è rappresentato da titoli quotati detenuti da grandi investitori di debito internazionali, oltre che da grandi istituzioni finanziarie europee (ad esempio, Banca Europea per gli Investimenti) e italiane (Cassa Depositi e Prestiti, Banca Intesa, Unicredit), oggetto anche di prestiti Ltro della Banca Centrale Europea. E Autostrade per l' Italia ha anche emesso un prestito obbligazionario retail (per euro750 milioni) detenuto da circa 17.000 piccoli risparmiatori italiani. Le agenzie di rating classificherebbero subito il debito di Autostrade per l' Italia e Atlantia al livello «junk», vale a dire spazzatura, con effetti negativi importanti per altre società del Gruppo Atlantia, come Aeroporti di Roma e il Gruppo Abertis, sui loro piani di investimenti e sull' occupazione. Le conseguenze a catena colpirebbero complessivamente un ammontare di debito sui mercati pari a circa 46 miliardi di euro e oltre 31.000 dipendenti. Le norme sono state definite «incostituzionali» e «contrarie alle leggi europee» da Atlantia che si prepara così alla battaglia. In un comunicato diffuso ieri, Autostrade ha fatto sapere di aver «appreso» che il Consiglio dei Ministri avrebbe approvato il 21 dicembre «con la formula salvo intese - quindi ancora modificabile - delle disposizioni in materia di concessioni autostradali finalizzate, tra l' altro, a modificare ex lege alcune clausole della vigente Convenzione Unica di Autostrade per l' Italia (a suo tempo approvata con legge) in ordine alla revoca, decadenza o risoluzione meglio specificate nella bozza di decreto legge». Anche se il testo del decreto non è ancora definitivo, l' ipotesi è che le Camere lo convertano presto in legge, Autostrade ritiene che presenti «rilevanti profili di incostituzionalità e contrarietà a norme europee». Per questo «sta valutando ogni iniziativa» volta alla tutela dei propri diritti, in termini di «legittimità costituzionale e comunitaria». Dopo quanto emerso, gli analisti di Equita hanno tagliato il target price sul titolo, vale a dire le potenzialità di incremento delle quotazioni di Borsa, del 5%. Gli analisti di Banca Akros commentano: «Questa è una cattiva notizia. Non è chiaro come il decreto influenzerà le trattative tra il governo italiano e Atlantia». I rischi «di una lunga battaglia legale» potrebbero tuttavia portare ancora «a un accordo sul contenzioso, dunque a un patteggiamento».

Genova, la ricostruzione del ponte Morandi corre senza burocrazia. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Anche oggi verrà montata una trave da cinquanta metri, tempo permettendo. Ma cosa vuoi che sia, in fondo si tratta solo dell’impalcato sulle pile 16 e 17, al principio del lato di levante, poco visibile, poco scenografico. Poi è lungo appena la metà di quello che giovedì alle 14 in punto è stato issato a quaranta metri d’altezza, sopra il pilone numero 9, proprio quello che il 14 agosto di due anni fa si sbriciolò come un grissino trascinando sotto alle sue macerie le vite di 43 persone. Quindi, se ne parlerà poco o nulla, così come sta passando sotto silenzio l’imminente completamento delle diciotto arcate di calcestruzzo alte novanta metri dalle fondamenta. Alle cose fatte bene ci si abitua in fretta. Così la costruzione del nuovo ponte di Genova e il costante avanzamento dei lavori stanno diventando una normalità inedita ma non per questo meno piacevole. Alla quale fa da contrappunto la cassa di risonanza che deriva dalle occasioni speciali, come la posa delle tre travi da cento metri che messe una in fila all’altra restituiranno a Genova il filo dell’orizzonte sparito in quella piovosa e tragica mattina di mezza estate. Già ieri faceva una certa impressione passare da via Fillak, la strada che scorreva sotto il ponte Morandi, e rivedere dal basso non più il cielo, ma di nuovo una striscia di asfalto e cemento armato. Non è vero che tutto deve per forza cambiare sempre, a volte è più bello quando le cose tornano come erano prima. La seconda trave sarà decisiva. Perché è quella che attraversa il Polcevera, che ricongiunge il levante al ponente e riempie lo spazio vuoto. L’appuntamento è per l’inizio di marzo. Quasi una soglia psicologica. La metà esatta dell’opera, che segna l’attraversamento del luogo del disastro, del greto del fiume pieno di macerie così enormi che sembravano piramidi. In quel momento, quando l’impalcato verrà fissato in alto, il ponte «sarà di nuovo», come dice Francesco Poma, il direttore dei lavori, dopo una assenza che tutti pensavano sarebbe durata molto di più. Per quanto in corso d’opera, questa impresa forse può già raccontare qualcosa che riguarda tutti noi. Dopo la fase dell’utopia, e degli slogan buoni per i social network, i protagonisti di questa storia hanno intrapreso una strada diversa, che prevede poche parole e molti fatti. Ancora lo scorso ottobre, qui era tutto un annuncio. «Inaugurazione entro marzo 2020!» «Traffico aperto alle auto per fine gennaio» «Posa definitiva dei 1067 metri di impalcato entro Natale 2019!» Per fortuna di tutti, si sono spente le luci dei riflettori, che solleticano le vanità e inducono a lanciare promesse impossibili da mantenere. Anche se quella di Marco Bucci sulla primavera del 2020 come termine ultimo rimane ancora in piedi. Quando la polvere delle celebrazioni e dei troppi tagli di nastro a scopo auto promozionale si è invece posata, non è rimasto altro che sfruttare al meglio una legislazione che più speciale di così non poteva essere. Il celebre decreto-Genova, diventato legge dello Stato il 15 novembre 2018 dopo 77 modifiche, cambi di cifre, riscritture di articoli interi, rappresenta davvero un unicum, una specie di Gronchi rosa dei poteri speciali affidati in ultima istanza a una sola persona, il commissario alla ricostruzione. Nemmeno per i terremoti sono state concesse tante e tali deroghe alle procedure ordinarie. Non è questa la sede per stabilire se davvero si tratta di un caso di ultra-liberismo legislativo entrato nel nostro ordinamento a cavallo dell’onda emotiva generata dalla tragedia del ponte Morandi. Ma il taglio di ogni burocrazia si è rivelato lo strumento più importante per fare in fretta un’opera che doveva essere fatta in fretta, oltre che bene. All’epoca della sua nomina nessuno poteva immaginare che Marco Bucci si rivelasse la persona perfetta per un incarico così gravoso. Il commissario nonché sindaco di Genova è davvero uno dei primi post-politici italiani. Nel senso che di politica, e di diplomazia, non ne sa nulla. In una delle sue prime uscite dopo l’elezione, ebbe un vistoso momento di imbarazzo quando gli venne chiesto cosa pensasse di Paolo Emilio Taviani, che è stato solo il più importante uomo politico genovese dal dopoguerra a oggi. Non lo conosceva. A Bucci sfugge il significato di tutto quello che alimenta il dibattito pubblico e in tal senso è davvero una specie di alieno. Si considera un manager, di scuola americana. La fissità del suo sguardo rivela spesso una determinazione che qualcuno trova ottusa, ma nel caso di specie funziona. In questi mesi ha condotto un pressing esasperante sul Consorzio PerGenova. Le sfuriate del sindaco che grida, come lo chiamano i dipendenti di palazzo Tursi, si sono abbattute anche sulle aziende incaricate della ricostruzione. L’uomo che dietro le spalle veniva etichettato come un vincitore per caso, un mister Magoo della politica, è diventato un Re Mida osannato dall’entourage leghista e da Giovanni Toti il presidente regionale uscente che lo ha «inventato» commissario e ora si gioca la riconferma a colpi di selfie in sua compagnia. Perché conta solo il ponte, niente altro. Il 65 per cento dei liguri lo considera la cosa più importante. E comunque la primavera finisce il 21 giugno.

Giuseppe Filetto per ''la Repubblica'' il 16 febbraio 2020. C' è un viadotto, progettato dall' ingegnere Riccardo Morandi, ancora in piedi e che faceva parte del vecchio ponte crollato il 14 agosto del 2018 e definitivamente demolito il 28 giugno 2019. Si chiama elicoidale, ed è una rampa di collegamento tra la A10, la Savona-Genova, la A7 (Genova-Milano) e la A12 (Genova-Livorno). E quando a giugno prossimo sarà completato il nuovo viadotto sul Polcevera, sarà ancora lo snodo di collegamento tra Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Francia meridionale. E però al ministero delle Infrastrutture temono per la sua stabilità. Anche se, per ovvie ragioni, non lo dicono in chiaro. Si può anche pensare che sia un eccesso di zelo, dopo quanto accaduto, con il crollo e le 43 vittime. Certo è che il ministro Paola De Micheli ha dato un altro mandato (oltre a quelli sulle gallerie e sui viadotti in genere) all' ispettore Placido Migliorino: verificare le condizioni dell' elicoidale, per mettere a tacere soprattutto le preoccupazioni degli abitanti del Campasso, quartiere operaio di Genova con case sotto la struttura. Che temono un altro Morandi. «Il mio ragionamento è semplice - dice l' ispettore - Il nuovo ponte è in fase avanzata di costruzione e verosimilmente sarà in esercizio entro l' estate, non ci vorremmo trovare con la spiacevole sorpresa che la struttura non sia tanto a posto e di dover intervenire con lavori di ripristino che farebbero perdere altro tempo». Qualche preoccupazione rimane. L' elicoidale, che non è stata inserita nel Decreto-Genova, ha la medesima conformazione strutturale degli esili piloni della parte di ponente del vecchio Morandi, demolita come le campate strallate, la 9 (quella della strage), la 10 e la 11 perché "ammalorate". E secondo fonti Spea (società gemella di Autostrade che fino a qualche mese addietro era delegata al monitoraggio) anche l' elicoidale presenterebbe «degrado in prossimità dei cassoni e delle selle gerber», cioè delle sedi dove si appoggiano gli impalcati stradali. La rampa che compie una rotazione completa di 360 gradi è divisa in tre tronconi e nel gergo tecnico di Aspi è individuata come "Viadotto Autostrada Mi-Ge"; "Viadotto di accesso Savona-Genova", "Viadotto di raccordo al viadotto Sv-Mi e viadotto Sv-Ge". A rileggere il report pubblicato a settembre 2019 sul sito della concessionaria, anche le verifiche affidate ad una società esterna dopo l' esautoramento di Spea, hanno dato un punteggio 43 e 50. Di degrado. Su una scala da 10 a 70, già con 40 bisogna intervenire con lavori di manutenzione straordinaria entro 5 anni; con 50 limitare il traffico subito; sopra 60 chiudere completamente. La Direzione di tronco di Genova, che nei giorni scorsi ha incontrato i cittadini e i rappresentanti del Comune, dice che «era già stato attivato il progetto di ripristino dei difetti... L' avvio dei lavori era previsto entro il primo trimestre del 2019... Dalla relazione di ispezione emerge in ogni caso che i difetti non determinano influenze sul comportamento statico complessivo dell' opera stessa ». Nel corso dell' assemblea il direttore del tronco, Mirko Nanni, e il direttore Sviluppo Rete, Alberto Selleri, hanno dato ampia disponibilità a istituire un osservatorio sui lavori, che coinvolga istituzioni e comitati dei cittadini. Migliorino, che gli indagati su crollo del "Morandi" nelle intercettazioni telefoniche chiamavano "il Mastino", ripete di avere un mandato del ministro. «Non so cosa è stato fatto prima - sottolinea - io faccio le mie ispezioni, non mi baso sui report di Autostrade, anche se dopo il crollo del Morandi il monitoraggio è stato affidato ad una società esterna. Voglio vedere con i miei occhi, in che condizioni è quella struttura. Per questo abbiamo concertato l' ispezione con Aspi». E aggiunge: «Non è detto che tutti i viadotti che ha fatto Morandi vengano giù, ma se si dovessero riscontrare difetti o degrado, allora bisognerà intervenire immediatamente. Prima che il nuovo viadotto sia completato».

Ponte Morandi, «i sensori costavano 10mila euro: non vennero aggiustati». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. «Andò così: nel 2015 si erano rotti i cavi delle fibre ottiche che collegavano i sensori al sistema di monitoraggio del ponte Morandi. L’avevamo installato noi, il sistema, e quindi Autostrade ci ha contattato per capire quanto costasse ripristinarli. Abbiamo fatto un prezzo ma tutto è finito lì».

Non avete quindi riparato i cavi rotti?

«No». L’avranno fatto altri.

«Non credo».

Quale era il prezzo?

«Una cosa contenuta, mi pare diecimila euro».

Quando è crollato il ponte, Alessandro Paravicini pensò naturalmente a quei sensori. La sua società, la romana Tecno.el, li aveva prodotti e sistemati per anni sul viadotto genovese proprio per prevenire rischi legati alla stabilità. Paravicini è così diventato un testimone chiave dell’indagine di Genova sul disastro del 14 agosto 2018, nell’ambito della quale è stato sentito.

Alla notizia del crollo quale fu il suo primo pensiero?

«Pensai che sarebbe stato meglio se il sistema di monitoraggio fosse stato attivo».

Avrebbe potuto evitare il disastro?

«È difficile che il ponte si potesse salvare grazie ai sensori. Si tratta di una struttura isostatica, nella quale l’equilibrio delle forze è particolare. Se una di queste viene a diminuire, il processo di accelerazione del crollo diventa molto veloce e quasi inevitabile. In questi casi i sensori che segnalano il movimento strutturale servono a poco perché i tempi di reazione sono troppo lunghi».

Quali sono normalmente i tempi di reazione?

«Dal momento in cui i sensori registrano la variazione a quello in cui si decide di chiudere il ponte possono passare anche quattro giorni».

Ma allora a cosa servono i sensori?

«A rilevare gli spostamenti nel tempo».

Se il cedimento fosse iniziato tempo prima sarebbe stato captato?

«Sì, in questo caso il sistema sarebbe servito. Ma da quel che è emerso finora mi sembra si tratti di un’ipotesi improbabile. In ogni caso, se era attivo avrebbe potuto dare almeno delle informazioni sulle cause del crollo, agevolando il compito degli inquirenti che le stanno ancora cercando. Il sistema ci avrebbe cioè raccontato se un’ora prima del cedimento era successo qualcosa. Così invece non abbiamo dati».

I sensori hanno mai registrato pericoli?

«No, quando erano funzionanti non hanno mai segnalato importanti variazioni».

Possibile che per risparmiare 10 mila euro abbiano rinunciato a riparare il guasto?

«Non penso proprio che il motivo della rinuncia fosse di natura economica. Forse avevano pensato di far rientrare la spesa nell’intervento più complessivo e strutturale di retrofitting che era stato programmato e che purtroppo non hanno realizzato. Come quando c’è una lavatrice che traballa e non si cambia il pezzo ma si attende di sostituirla interamente».

Sul ponte c’era però di mezzo la sicurezza di chi lo attraversava…

«Era per dire dei ragionamenti che si fanno quando si tratta di fare un investimento, per quanto insignificante possa sembrare».

Quando avete iniziato a lavorare sul ponte Morandi?

«La prima installazione è di poco successiva all’intervento di rinforzo degli stralli della pila 11 (anno 1993, ndr). Era un monitoraggio fatto per la verifica della tesatura dei cavi. Dopodiché il sistema è stato smontato e rimontato più volte, evolvendosi nel tempo, fino all’utilizzo delle fibre ottiche. Ma molti dei punti di misura erano rimasti quelli dell’epoca». La pila 9, quella crollata, aveva dei sensori?

«Certo, erano collegati attraverso le fibre a quelli installati nella 10 e nella 11, dove esisteva il sistema di trasmissione dati. Sono quelli che avrebbero potuto raccontarci cos’è successo quando il ponte è crollato».

Davide Lessi per “la Stampa” il 2 agosto 2020. «C' era uno strano miscuglio nell' aria: sapeva di cemento, di pietra sgretolata e ruggine». L' odore di un ponte appena crollato non si dimentica. «Pioveva tantissimo. E c' era quel mix che non ho mai più sentito". Nei primi minuti della tragedia non si percepisce altro. «Una scena da film: le auto sparpagliate qua e là, il fumo che usciva dai cofani, i tergicristalli che continuavano ad andare. Però non si sentivano lamenti, silenzio assoluto. C' era solo la pioggia che batteva forte». Poi, all' improvviso, una speranza. «Ho visto un ragazzo incastrato tra le lamiere: era cosciente e rispondeva mentre l' autista del camion si stava strozzando con la cintura. Ho capito che mi stavano morendo davanti e che dovevo fare qualcosa». Due anni dopo Alejandro Cordova ricorda tutto di quella mattina. Alla 11.36 del 14 agosto 2018 il ponte Morandi si sbriciola. Pochi minuti dopo lui, che lavorava a non più di 200 metri in linea d' aria dal viadotto, è sul greto del Polcevera. Corre tra le macerie e cerca di aiutare chi è rimasto incastrato nelle auto. Solo dopo sarebbero arrivati i vigili del fuoco e le ambulanze. A 23 anni Alejandro si ritrova a essere tra i primi soccorritori. Un soccorritore "per caso", testimone per una vita intera. "Voglio solo raccontare la verità, dire come sono andate davvero le cose". Da Piazza Montano, cuore del quartiere Sampierdarana, risaliamo la strada che passa sotto il nuovo ponte progettato da Piano. Poi giriamo a destra in un dedalo di viuzze strette. «Ecco, io lavoravo qui», dice Alejandro indicando una porta di legno scuro in via Campi. «Davo una mano a un falegname», racconta. Indossa un cappello a visiera che gli protegge la testa da una pioggerellina afosa. «Quella che sta scendendo ora? Ragazzi, è sì e no il 5 per cento della pioggia che c' era quella mattina. Cadevano dei goccioloni che appena ho messo la testa fuori dall' officina ero fradicio». La cronaca di quelle ore è questa: «Sono arrivato alle 9,30 a lavoro. Alle 11,15 ha iniziato a piovere, una bufera con grandine e vento, sembravano gavettoni lanciati dall' alto. Ha continuato per mezz' ora, nel frattempo il ponte era crollato». Della gravità della situazione Alejandro si accorge in un attimo. E, subito, accende la videocamera dello smartphone. «È caduto giù il ponte di Polcevera. Immagini riprese da Certosa, guardate lì: non c' è più il ponte. Non c' è più il ponte, è venuto giù il ponte», sono le frasi che resteranno registrate in un video che ha fatto la storia di quel maledetto 14 agosto. Alejandro non si limita a filmare: mentre registra va verso la zona della tragedia. Ma a un certo punto trova un cancello a sbarrargli la strada. «Eravamo in tre, non potevamo tirarci indietro. Ci siamo dati forza e abbiamo deciso di saltare». Alejandro mette il cellulare in tasca, lo lascerà lì senza però fermare la registrazione. Di quel file rimarrà un' incredibile testimonianza audio: il sonoro dei primi momenti dopo il crollo. «Arrivati tra le macerie abbiamo iniziato a urlare: "Suonate! Suonate!". Volevamo capire se qualcuno era ancora vivo. Ma nessuno lo faceva, così ci siamo diretti verso le macchine. La botta era stata così forte che tutte le portiere erano incastrate e non riuscivamo ad aprirle». I ricordi si fanno via via più lucidi: «Avrò visto otto vetture. Le persone che erano dentro non riuscivano a rispondermi con le parole ma emettevano dei suoni». Alejandro ricorda ancora i loro volti: «C' era una coppia di anziani in un' utilitaria. E poi quattro ragazzi che erano in viaggio insieme verso la Spagna. A un certo punto ho visto Stella (Stella Boccia, una delle vittime, ndr) che era in auto con il fidanzato. Rispondeva anche lei agli stimoli, apriva gli occhi e cercava di guardarmi. Le ho detto: "Tieni duro, stanno arrivando". Ma i soccorsi sono stati ostacolati dagli automobilisti che si sono fermati a guardare. Ci avranno messo una decina di minuti. Noi nel frattempo abbiamo cercato di aiutare come potevamo. A tutti dicevamo: "Cercate di rimanere vivi!". Poi quando le sirene si sono avvicinate abbiamo deciso di lasciare fare ai professionisti e di andare via». «Se ho rimpianti? I primi giorni sì, ne ho avuti», racconta Alejandro di nuovo davanti a quel cancello. «Ero arrabbiato con me stesso perché avevo provato ad aprire le portiere ma non c' ero riuscito. Nei giorni successivi ci ho ripensato e, davvero, non avrei potuto fare di più. Doveva andare così». Ma non c' è solo fatalismo nei suoi pensieri. «No, non può cadere un ponte del genere, di certo qualcuno ha delle responsabilità». Anche Alejandro, come tanti parenti delle 43 vittime, non parteciperà all' inaugurazione di domani: «Non c' è niente da festeggiare - dice -. E' assurdo pensare che le persone a cui vuoi bene non ci siano più perché è crollato il Morandi». Lo chiamavano il Brooklyn di Genova. «Eravamo certi che sarebbe durato per sempre. Sì, ora ce n' è uno nuovo, ma quella ferita non si cancellerà mai».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 2 agosto 2020. A volte la memoria può essere una condanna. «Dopo due anni la vita, apparentemente, torna quella di prima. Si ricomincia a lavorare, a uscire con gli amici, alle abitudini quotidiane. Ma non è facile, il trauma è sempre vivo e diventa parte di te. Io di quel giorno ricordo tutto, quella scena è conficcata nella mia mente. E il pensiero, troppo spesso, torna al 14 agosto 2018». Quella mattina Davide Capello, 36 anni, vigile del fuoco, un passato tra i pali dei campi di calcio in serie A con il Cagliari e ora allenatore dei portieri dei giovani del Genova, è uscito di casa per andare a ritirare la tessera del tifoso. Savona dista da Genova 56 chilometri e in mezzo c'era il ponte Morandi, collassato proprio mentre lui passava all'altezza della pila numero nove.  «Non lo dimenticherò mai, la ferita è profonda. Non so se riuscirò mai a percorrere il nuovo viadotto. Adesso, a dire il vero, non voglio nemmeno vederlo. Figuriamoci attraversarlo».

Cosa è successo quel giorno?

«Era una mattinata terribile, pioveva a dirotto, tant' è che era stata diramata anche un'allerta meteo. Poi le condizioni sono migliorate e ho deciso di andare a Genova a ritirare la tessera, perché la settimana successiva sarebbe ricominciato il campionato. Quando sono uscito dalla galleria che immetteva sul ponte era tutto normale, non c'erano segnali né avvisaglie della tragedia imminente. Niente calcinacci che si staccavano o vibrazioni particolari. Nel momento in cui sono arrivato all'altezza del pilone numero ho sentito un rumore sordo, ho visto dei detriti che cadevano dall'alto e il pezzo di strada davanti a me che precipitava. Le macchine volavano nel vuoto, sembravano dei fogli di carta sparpagliati dal vento».

Lei è riuscito a fermare l'auto a pochi metri dal baratro.

«Il primo istinto è stato quello di frenare, sperando di fermarmi sul ciglio. Ma a un certo punto la strada sotto di me ha ceduto e sono precipitato. È durato pochi secondi, un tempo comunque più che sufficiente per rendermi conto che sarei morto».

Invece, per fortuna, la sua macchina non è stata inghiottita dalle macerie.

«Si è infilata in un'intercapedine tra la strada e i detriti, una specie di bolla di cemento che mi ha protetto. Non riuscivo ad afferrare il cellulare, il bluetooth dell'auto però funzionava ancora, così ho chiamato i soccorsi, poi mio padre e la mia fidanzata. Sono rimasto lì sotto per una ventina di minuti, finché ho sentito le prime voci. Erano due poliziotti che cercavano di tirarmi fuori ma non riuscivano a raggiungermi, così ho cominciato a scavare e sono uscito sulle mie gambe. Il fatto di essere vigile del fuoco probabilmente mi ha aiutato, anche a mantenere un po' di sangue freddo, a non farmi prendere dal panico».

Le ferite del corpo sono guarite in fretta, quelle dell'anima faticano a rimarginarsi.

«Me la sono cavata con problemi alla schiena, nulla se paragonato al disastro. Ma dentro di me i segni sono ben più profondi. Sono trascorsi due anni, ma capitano sere in cui faccio fatica ad addormentarmi o mi sveglio all'improvviso nel cuore della notte. Tra noi sopravvissuti non ci siamo mai incontrati, io almeno non ho mai voluto farlo: per me è un modo per guardare avanti, per voltare pagina».

Il nuovo ponte però non riesce a guardarlo.

«Non l'ho ancora visto e non ho seguito le tappe della ricostruzione perché ogni volta per me è una ferita che si riapre. Quel viadotto è una cicatrice che si fa sempre sentire. Non so nemmeno che emozioni potrei provare nel rivederlo, mi auguro solo che l'inaugurazione non si trasformi in una festa perché c'è ben poco da festeggiare. Il dolore di chi ha perso una persona cara resta immutato. Per me passare di là e ricordare sempre ciò che è successo è una tragedia, non so se lo riattraverserò ancora né se andrò a vederlo. Dicono che il nuovo viadotto sia il simbolo della rinascita, ma il fallimento è stato il crollo del vecchio ponte. E nulla potrà alleviare tanto dolore».

Ponte Genova, Maurizio Morandi: «Papà non ha colpe sul crollo: anche lui è vittima». Marco Imarisio il 31/7/2020 su Il Corriere della Sera. Il figlio del progettista ricorda la tragedia di Genova del 14 agosto 2018: ora difendo la sua memoria. «Anche mio padre è stato una vittima del ponte». A un certo punto lo dice, con tutto il pudore possibile, chiedendo di evitare ogni paragone con le 43 persone che davvero sono morte sotto le macerie. E si vede che quella frase gli costa fatica. Maurizio Morandi, 80 anni, professore universitario in pensione, è un uomo riservato che non ama certo le frasi ad effetto. Anzi, non ama proprio parlare. Ha atteso fino ad oggi, fino all’ultimo. Adesso che sta per essere inaugurato l’altro ponte di Genova, il tempo per rendere omaggio alla figura di Riccardo Morandi sta per scadere. È ancora uno degli ingegneri e accademici più ammirati e studiati all’estero. Lo era anche qui, fino a quel 14 agosto 2018, quando crollò il viadotto sul Polcevera che fin dal 1967 portava il suo nome. Da allora è diventato quasi sinonimo di quella tragedia. «All’inizio ci sono state persone che hanno cercato di demolire anche il progetto di quell’opera, e il suo autore, descrivendolo come un pasticcione, sostenendo che la colpa fosse sua».

A chi conveniva?

«Dire che era stato sbagliato tutto fin dall’inizio era la strada più facile, perché si gettava la responsabilità addosso a un uomo che era morto da trent’anni e non poteva più rispondere».

Un’operazione vera e propria?

«Un misto di malafede e incompetenza. Cinque giorni dopo il crollo, un giornale titolò a tutta pagina che era scomparso il progetto originario di mio padre. Invece era dov’è sempre stato dal 1992, all’Archivio di Stato, consultabile a piacimento».

Quali sentimenti prova sull’inaugurazione del nuovo ponte?

«Rimane il dolore per le vittime. Dopodiché, trovo encomiabile la velocità con la quale è stato ricostruito. Hanno mantenuto i tempi, dando prova di grande capacità organizzativa, cosa rara in Italia. Un ottimo lavoro».

Le piace?

«Non sono la persona più adatta a dare un parere, per via del cognome che porto. Ho una stima enorme di Renzo Piano, non mi permetterei mai di giudicare una sua opera».

Cosa ha fatto in questi due anni?

«Ho lottato per difendere la memoria di mio padre. Un ottuagenario che si batte per l’onore di un uomo scomparso da trent’anni. Proprio vero che nella vita può succedere di tutto. L’ultima mostra del Beaubourg di Parigi prima della grande ristrutturazione di fine anni Novanta fu dedicata proprio a papà. Un grande dell’ingegneria civile mondiale, diceva la brochure. Mi sembrava impossibile che un uomo studiato e ammirato in tutto il mondo, finisse in un cono d’ombra nel suo Paese».

Pensa di aver vinto la sua battaglia?

«Nel mio piccolo mondo di studiosi e ingegneri, forse sì. Non per merito mio. Ci sono state alcune belle iniziative da parte di tecnici, progettisti, architetti. Ma noi viviamo in una bolla, come tutti. Non mi faccio illusioni. Fuori, questo marchio di infamia persiste, malgrado sia stato chiarito che il progettista non aveva alcuna responsabilità».

Si disse anche che il problema erano i ponti strallati.

«Per carità. Nel mondo ce ne sono migliaia, fatti in quel modo. Bastava fare le ispezioni. Bastava non essere sciatti. Mio padre aveva denunciato più volte l’esigenza di fare manutenzione sul “suo” ponte».

Cosa ricorda di quel giorno?

«Mi chiamò mio figlio, dicendomi che era crollato il Polcevera. Sa, noi non lo abbiamo mai chiamato il Morandi. Il senso di incredulità mi rimase addosso per giorni. Oltre a quello per le vittime, c’è stato anche un dolore più privato. La perdita di un gioiello di famiglia. Era il ponte che papà amava di più. Ne eravamo tutti orgogliosi».

Lei c’era mai passato sopra?

«La prima volta fu all’inaugurazione. Ma non quella con il presidente Saragat, un’altra. C’erano un paio di ministri, il ponte non era ancora completato. Sa, le inaugurazioni a getto continuo non sono certo una invenzione recente…»

Chi era Riccardo Morandi?

«Una persona che aveva al primo posto il lavoro e le cose che lo riguardavano. Ma anche un buon padre, nonostante fosse immerso e preso dai suoi progetti».

Lei ha cercato di seguire le sue orme?

«Fino a un certo punto. Mi sono laureato in ingegneria, per ragioni abbastanza intuibili. Fin da piccolo sapevo che avrei dovuto farlo. Ma ben presto ho capito che avrei preferito fare l’architetto, e ci sono riuscito. Ho insegnato per trent’anni storia dell’architettura e progettazione urbanistica. La mela non è caduta troppo lontano dall’albero, come vede».

Perché suo padre riteneva il ponte Morandi il suo capolavoro?

«Era la dimostrazione dell’importanza che lui attribuiva al paesaggio e al ruolo che una struttura doveva avere nell’ambiente. Volle inserire in una zona spoglia come la Valpolcevera un elemento che desse valore a un posto anonimo, tanto da farlo diventare un luogo».

Ci sono analogie con il progetto di Renzo Piano?

«Hanno seguito strade diverse, come è giusto che sia. Con il suo progetto, mio padre voleva caratterizzare l’ambiente. Quello di Piano prevede un ponte che si inserisca nell’ambiente in maniera non invasiva».

Le dispiace che il Morandi sia stato abbattuto?

«Molto. Non lo nascondo. Alcuni elementi potevano rimanere come testimonianza della vita di quella valle. Si è invece voluto cancellarlo completamente con l’esplosivo. Per noi studiosi era comunque un segno culturale ed architettonico importante. Per le 43 vittime era un segno di lutto. Me ne rendo conto».

Quel giorno c’erano tante persone che piangevano.

«Le lacrime della gente quando hanno demolito il ponte sono un bel testamento della bontà del lavoro di mio padre».

Davvero ritiene suo padre un’altra vittima di quella tragedia?

«Solo in senso figurato, si intende. Non voglio essere blasfemo. Ma nonostante gli sforzi miei e di altri amici, molte persone lo ritengono ancora responsabile del crollo. Una ingiustizia spaventosa. Vorrei tanto che la memoria pubblica di mio padre venisse recuperata. Credo che se lo meriti».

Cosa insegna la vicenda del ponte Morandi?

«Non siamo stati capaci di difendere le opere di ingegno fatte nell’Italia della ricostruzione, della quale il ponte Morandi era un simbolo. Se il nuovo ponte segna l’inizio di un’altra epoca, allora ricordiamoci di averne cura anche dopo, quando si saranno spente le luci della ribalta».

I lavori mai fatti al ponte Morandi, “Aspi voleva farli pagare al Ministero". Pubblicato martedì, 08 settembre 2020 da Giuseppe Filetto su La Repubblica.it. Un ingegnere interrogato avrebbe dichiarato al pm che prima del crollo il consolidamento e la messa in sicurezza del viadotto sarebbero stati presentati come manutenzione straordinaria, quindi a carico dello stato e non della concessionaria. Come in una sorta di roulette russa in cui ognuno cerca di evitare il colpo in canna e riservarlo agli altri, avevano “scommesso” sul progetto di retrofitting, presentandolo come un intervento di manutenzione straordinaria, un difetto strutturale e di progettazione, in modo che i costi fossero a carico del Ministero delle Infrastrutture e non della concessionaria. Anche se Autostrade per l’Italia e la capogruppo Atlantia sapevano del “pericolo di crollo”, conoscevano quel documento di “programmazione del rischio”, stilato dall’apposito ufficio, relativo alle condizioni del ponte Morandi prima del disastro. «Era un rischio teorico e nessuno di noi immaginava che crollasse – ha dichiarato il testimone –. Pensavamo di potere dare avvio al progetto di retrofitting in tempo». Questo ha confermato l’ingegnere della holding, interrogato venerdì scorso dal pm Walter Cotugno (titolare insieme al suo collega Massimo Terrile dell’inchiesta madre, quella sul crollo). L’interrogatorio è stato tenuto nascosto, all’interno della caserma Testero della Guardia di Finanza a Sampierdarena. E però dal 1993, dall’anno del primo intervento strutturale di rinforzo sulla pila 11, sulle altre campate (la 9, quella crollata, e la 10, quella demolita con la dinamite il 23 luglio del 2019) non era stato fatto alcun intervento pesante di messa in sicurezza, nonostante una relazione del 1993 segnalasse problemi di corrosione. E una precedente perizia ordinata da Aspi allo stesso progettista. L’ingegnere Riccardo Morandi già nel 1981, appena 14 anni dopo l’inaugurazione, ammette gli errori e scrive: “... La struttura esposta ad agenti atmosferici presenta corrosioni di più sul lato mare rispetto al lato monti... una degradazione del cemento armato molto rapida in alcune parti... molto di più di quanto ci si potesse aspettare...”. «C’era il progetto di retrofitting — ha dichiarato l’ultimo interrogato come persona informata sui fatti — avevamo puntato su quello». Ma è solo dalla fine del 2014 che si inizia a pensare all’intervento da 20 milioni di euro. Non soltanto quindi Giuliano Mari, attuale presidente di Autostrade, ma anche gli altri dirigenti della società sarebbero stati a conoscenza di quel documento. Mari è stato sentito il 6 agosto scorso a Genova, in gran segreto, come testimone. L’ingegnere di 74 anni, tanti dei quali trascorsi tra la capogruppo (Atlantia) e le altre società ad essa collegate, è stato nominato presidente di Aspi lo scorso gennaio: ha sostituito Fabio Cerchiai, e la sua nomina è stata contestuale a quella di Roberto Tomasi (indagato limitatamente e nell’ambito del filone di inchiesta relativo ai pannelli fonoassorbenti difettosi), amministratore delegato che ha preso il posto di Giovanni Castellucci. Quest’ultimo dall’indomani della strage del 14 agosto 2018 è stato indagato, poi “licenziato” da Autostrade con una liquidazione da 13 milioni di euro. Tutti i testimoni sentiti finora sull’argomento avrebbero ammesso che tra il 2014 e il 2016 l’attestato stilato dall’apposito ufficio di Aspi — in cui si parlava di “rischio crollo” per il viadotto sul Polcevera — sarebbe stato trasmesso alle varie società del Gruppo Atlantia. Secondo quanto trapela, gli interrogatori sono serviti a cristallizzare un punto fermo sulla conoscenza del “rischio crollo”: quanto dichiarato durante questi due anni di indagini dai testimoni, oltreché dalle mail e dalla corrispondenza cartacea sequestrate. Negli anni in cui Mari era nel consiglio di amministrazione della holding, faceva anche parte del comitato che gestisce “il rischio”. Come i dirigenti interrogati negli scorsi giorni, fra cui l’ingegnere sentito venerdì. Tutti, in qualche modo, avrebbero confermato di essere a conoscenza del documento. Anche se fino al 20 novembre 2019, quindici mesi dopo del disastro, i dirigenti di Aspi davanti ai magistrati e ai media avevano dichiarato che per il viadotto genovese nessun report di Spea (società gemella delegata al monitoraggio della rete autostradale fino al 2019) aveva mai messo in allarme, scritto nero su bianco, del pericolo di cedimenti. Quel documento del “rischio crollo” svelato in esclusiva da Repubblica il 20 novembre 2019, era stato scovato all’interno del registro digitale di Atlantia nel marzo dello stesso anno dai finanzieri del Nucleo Operativo Metropolitano ( guidati dal tenente colonnello Giampaolo Lo Turco) e del Primo Gruppo di Genova (diretto dal colonnello Ivan Bixio). Ma adesso c’è di più. I vertici di Aspi e di Atlantia, pur a conoscenza del pericolo, avrebbero puntato a far rientrare i costi nel piano finanziario del ministero. E non sulla manutenzione ordinaria pagata con i pedaggi. “Non è un ragionamento folle — spiega un ingegnere del Mit che per 13 anni si è occupato di autostrade, ma che per ovvie ragioni preferisce l’anonimato — non c’è obbligo da parte del concessionario di intervenire qualora si tratti di difetti strutturali. Non si può affermare che l’ammaloramento dei tiranti sia colpa di Autostrade. Certo — precisa l’ingegnere — diventa un ragionamento insano davanti ad una situazione di pericolo”. Il progetto di retrofitting sulla pila 9 è avviato soltanto nell’autunno 2017, a febbraio 2018 vagliato dalla commissione tecnica del Provveditorato alle Opere Pubbliche della Liguria, in aprile approvato da Autostrade e soltanto a giugno arriva al Mit per l’ok definitivo. I lavori sarebbero iniziati in autunno: troppo tardi, il 14 agosto la strage con 43 morti.

Autostrade, Di Maio e Patuanelli pronti a revocare la concessione ad Atlantia: danno per 23 miliardi. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. Dice Luigi Di Maio che la revoca delle concessioni ad Autostrade «è una battaglia di civiltà». In realtà la civiltà di chi governa si misura da come tratta i soldi dei contribuenti, il che fa dei giallorossi una tribù di cannibali. Con quest' ultima mossa Giuseppe Conte e la sua schiera mettono a rischio 23 miliardi di euro appartenenti agli italiani: al confronto, quelli che hanno bruciato sinora in Alitalia e Ilva sono spiccioli. E il conto vero, alla fine, potrebbe essere ancora più caro. È il prezzo da pagare per l' incompetenza al potere. Dopo la tragedia del ponte Morandi i Benetton, primi azionisti di Autostrade tramite la società Atlantia, erano nei guai.

LA MAGISTRATURA. La cosa giusta da fare era lasciar svolgere alla magistratura il proprio lavoro e al termine tirare le somme: qualora fossero state accertate illegalità da parte della concessionaria, la rescissione e la richiesta di risarcimenti sarebbero state giuste e inevitabili. Nel frattempo, la debolezza di Atlantia poteva essere usata per strappare nuovi impegni ai Benetton, i quali, colpiti anche nell' immagine, si erano detti pronti a mettere mano al portafogli. Si è scelta la strada opposta, invece, e la «civiltà» non c' entra. Di Maio e Stefano Patuanelli hanno creduto di poter sfruttare la vulnerabilità dei Benetton per farli intervenire in Alitalia. I ministri grillini, incapaci di mettere in piedi una cordata, ne sarebbero usciti come i salvatori della compagnia. Nel frattempo, al grido di «non possiamo aspettare i tempi della giustizia», Conte e i Cinque Stelle preparavano il meccanismo per ritirare la concessione autostradale, da far scattare nel caso in cui il salvataggio di Alitalia fosse fallito, come puntualmente è accaduto. Così si è giunti alla situazione di queste ore, che vede i legali del gruppo Atlantia pronti a far recedere Autostrade dal contratto, in reazione alla modifica unilaterale imposta dal governo, e chiedere allo Stato un risarcimento tra i 23 e 25 miliardi di euro. Cifra enorme, anche se dovesse essere dimezzata per risarcire i danni del crollo del ponte Morandi. Eppure le probabilità che sia riconosciuta sono concrete. La motivazione con cui il governo vuole togliere la concessione è infatti la stessa alla base del "decreto Genova", mediante il quale Autostrade è stata tagliata fuori dalla ricostruzione del viadotto poiché «non può escludersi» (dice il testo) che il crollo sia dovuto alla sua inadempienza. Tesi che fa a pugni con la certezza del diritto, e infatti il Tar della Liguria ha chiesto l' intervento della Corte costituzionale, ricordando che al momento la responsabilità di Autostrade nel crollo è «meramente potenziale, perché non accertata, nemmeno in via indiziaria». Se la Consulta boccerà quel decreto, è assai probabile che la revoca della concessione abbia la stessa sorte. Con seguente bonifico miliardario da parte dei contribuenti ai Benetton e ai loro soci.

PIAZZA AFFARI. Il resto del danno riguarda la credibilità dell' Italia. Atlantia, che ieri in Borsa ha ceduto il 4,8%, ha 40mila azionisti, tra i quali gli italiani sono una minoranza. Dentro Autostrade ci sono i tedeschi di Allianz (7% del capitale) e i cinesi del gigantesco Silk Road Fund (5%): i loro rappresentanti stanno dipingendo l' Italia come una repubblica delle banane. Il fondo sovrano di Singapore ha inviato una lettera a Conte e ai ministri Gualtieri e De Micheli per lamentare la violazione del principio "pacta sunt servanda" da parte del governo. Investitori simili, che hanno opportunità di guadagno ovunque, se mettono l' Italia nell' elenco dei Paesi inaffidabili la lasciano e non tornano più, oppure pretendono un rendimento molto più alto dai nostri titoli, inclusi quelli che coprono il debito pubblico. Questione di obiettivi, insomma: se il modello è il Venezuela, il caso Autostrade è un successone e Conte, Di Maio e Zingaretti possono battersi le mani. Fausto Carioti

La sfida di Autostrade al governo: «Rescissione e 23 mld di danni». Alla Camera passa la fiducia sulla manovra senza modifiche: «nessun aumento dell’iva, taglio del cuneo fiscale, lotta all’evasione». Fausto Mosca il 24 Dicembre 2019 su Il Dubbio.  Ora Autostrade per l’Italia sfida il governo a viso aperto. Mentre il Consiglio dei ministri si riunisce per discutere di tutti i temi rimasti ancora aperti nel decreto “Milleproroghe”, tra cui spicca proprio l’eventuale revoca delle concessioni autostradali ( da affidare eventualmente ad Anas), Altantia, la società della famiglia Benetton che gestisce Aspi, prende carta e penna e invia una lettera alla Presidenza del Consiglio e ai ministero dei Trasporti e dell’Economia. La missiva, nella sostanza minaccia la maggioranza di chiedere allo Stato un risarcimento di circa 23 miliardi di euro, corrispondente alla parte rimanente della concessione, in scadenza nel 2038. L’indennizzo sarebbe dovuto in ragione dei «molteplici diritti e principi sanciti dalla Costituzione e dal diritto comunitario, incluso il rispetto del principio di affidamento e a tutela del patrimonio della Società e di tutti gli stakeholders», si legge nel testo riportato da “Repubblica”. Dunque, un’eventuale iniziativa del governo «determinerebbe il verificarsi dei presupposti di cui all’art. 9 bis comma 4 della Convenzione Unica e quindi la risoluzione di diritto della stessa», scrive il cda della società concessionaria. Una vera e propria e bomba sul dibattito interno ai partiti di maggioranza, già divisi sul tema, con Italia Viva che ha già espresso la sua opposizione alla revoca delle concessioni. Ma quella di Aspi, secondo la ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, è una minaccia inaccettabile. Ma il più duro con i Benetton è il capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. «Dopo la morte di 40 persone col Ponte Morandi il minimo che possiamo fare è togliere concessioni a Benetton che non ha fatto manutenzione», dice il leader del partito che da tempo vorrebbe estromettere Atlantia dalla gestione della rete autostradale. «Non è la linea del M5s ma quella del governo. È ora di togliere il bancomat che la politica in precedenza gli aveva concesso», aggiunge perentorio il ministro degli Esteri. Parole concilianti, se paragonate a quelle riportate sul Blog delle Stelle, in cui viene definito «incestuoso», il rapporto «con la politica» della famiglia Benetton. «Il fatto è che Autostrade per l’Italia, sotto l’attento presidio dei Benetton, ha saputo coltivare davvero bene il rapporto con la politica e con il poliedrico mondo dei Boiardi di Stato», si legge. «Un rapporto lubrificato in ogni ingranaggio, utilizzando sapientemente e costantemente l’olio delle nomine. Troppo importante, dal loro punto di vista, difendere in ogni modo un tesoro accumulato grazie ai pedaggi pagati dagli italiani». Risultato: Atlantia crolla in Borsa, con un meno 5 per cento. Ma la contromossa del cda di Aspi mette in agitazione Palazzo Chigi. Se la minaccia dei Benetton fosse fondata, toccherebbe rintracciare oltre 23 miliardi di euro di indennizzo. Quasi una manovra finanziaria, proprio nel giorno in cui la maggioranza è riuscita a portare a casa il primo vero successo del Conte 2: la manovra 2020. Approvata nella tarda serata di ieri alla Camera con 334 sì, 232 no e 4 astenuti il provvedimento presenta parecchie novità per l’anno prossimo: dallo stop all’aumento dell’Iva alle tasse su plastica, zucchero e auto aziendali; dal “bonus Befana”, pensato per incentivare i pagamenti elettronici alla web tax; dal pacchetto di misure per la famiglia al taglio del cuneo fiscale; dalla stretta sui giochi ai rimborsi per i truffati delle banche e alle norme contro le bollette pazze.

 Alberto Sisto per huffingtonpost.it il 26 dicembre 2019. La richiesta di 23 miliardi quale indennizzo in caso di rescissione della convenzione fra Anas e Autostrade per l’Italia per la gestione di circa 3.000 chilometri di strade a pagamento non ha basi legali perché prevede indennizzi abnormi rispetto alla normale prassi commerciale. Il giudizio è contenuto in una Relazione sulle concessioni autostradali approvata dalla Corte dei Conti a fine novembre e resa nota ieri. Nell’indagine si passano in rassegna gli aspetti economici, legali di questi particolari contratti con cui lo stato affida a società private la gestione di infrastrutture, come le autostrade, consentendo alle imprese di ripagarsi con i pedaggi. La concessione è come un contratto di affitto che prevede oneri e diritti per i due contraenti, ad esempio l’obbligo di restituzione integro del bene, regola le modalità della locazione, le tempistiche il pagamento del canone, prevede anche la possibilità che il contratto venga interrotto anzitempo in caso di violazione da parte di uno dei due contraenti. Di queste convenzioni il governo italiano ne ha firmate 25 con 22 società. Sono state messe a punto dal ministero dei Trasporti e da quello dell’Economia e dall’Anas, per il governo, e da stuoli di avvocati e manager per le società e quasi sempre sono state oggetto di contenziosi. Per ogni tratta autostradale, grande o piccola che sia, viene firmata una apposita concessione, seguendo uno schema tipo introdotto nel 2007, con cui si definiscono i lavori da fare all’infrastruttura, il sistema dei pedaggi e altri importanti aspetti, economici e non, come il sistema di controllo sull’attività dei concessionari, le sanzioni e il meccanismo per l’eventuale risoluzione del contratto. La relazione della Corte dei conti arriva sul tavolo del governo, proprio mentre il presidente del consiglio Giuseppe Conte e i suoi ministri stanno decidendo se e come risolvere la concessione firmata con Autostrade per l’Italia, la società del gruppo Benetton, imputandole la responsabilità per il crollo del ponte Morandi a Genova. Ma il governo deve fare i conti con quel contratto che stabilisce, anche in presenza di una responsabilità del concessionario, l’obbligo di un indennizzo enorme e superiore ai venti miliardi a carico dello stato. Così la relazione della Corte dei Conti arriva al governo come una sorta di parere legale firmato dai maggiori esperti di responsabilità erariale.  Per capirsi se il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, desse seguito alla richiesta del gruppo veneto sarebbero i magistrati contabili a dovere accertare e sanzionare l’eventuale danno allo stato per un pagamento non dovuto. Analizzando le clausole, previste dalle convenzioni tipo, i magistrati contabili si sono accorti che “i casi di scioglimento anticipato del rapporto concessorio siano stati oggetto di una disciplina per più aspetti speciale ed eccentrica rispetto a quella legale (in particolare rispetto a quella prevista dal Codice civile e dal codice dei contratti pubblici) e all’apparenza molto sbilanciata dal lato e in favore della concessionaria”. Oltre a prevedere molte cautele e ostacoli crescenti alla risoluzione del contratto, “la convenzione condiziona ogni ipotesi risolutoria al pagamento di una somma pecuniaria che può essere, “assolutamente ingente, se non addirittura insostenibile per l’erario”, senza neanche indicare esplicitamente “violazione degli obblighi di per sé da considerare gravi, quali crolli e disfacimenti”, che possano giustificare un’uscita da parte del concedente, ovvero lo stato. Tutto questo, continua la Relazione, se per un verso, “rivela una qualche ‘cedevolezza’ del contraente pubblico in sede di contrattazione di clausole rilevanti della convenzione, comportando un assetto contrattuale asimmetrico che pone la parte pubblica in una posizione di debolezza, per altro verso, solleva il tema della validità di queste clausole contrattuali alla luce della disciplina legale e, in primo luogo, di quella civilistica”. E qui la corte ricorda che il codice civile “dispone la nullità di patti che escludono o limitano preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave”.  L’autoassoluzione preventiva, del proprietario o dell’affittuario, non è prevista né è prevedibile. Clausole speciali e asimmetriche che i concessionari hanno sempre difeso in virtù della specificità di questo tipo di contratto. Le società autostradali, dicono, devono pianificare investimenti pluridecennali durante i quali grazie ai pedaggi ripagano i prestiti e guadagnano. L’interruzione anticipata del contratto metterebbe la società davanti ad un fallimento certo: senza più poter contare sugli introiti dei caselli dovrebbero continuare a fronteggiare le richieste di rientro dei finanziatori, pagare fornitori e personale. Queste le motivazioni dei concessionari, ricordate dalla corte, per giustificare lo squilibrio nelle clausole di risoluzione a sfavore dello stato e a vantaggio dei concessionari. Una deroga rispetto a quanto previsto dal diritto civile e dal codice degli appalti che secondo Aiscat, l’Associazione dei concessionari, troverebbe il fondamento giuridico anche nell’approvazione legislativa dei contratti oggi in essere. Una tesi che la Corte non fa propria sposando il punto di vista del gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture e trasporti: “Si è dell’avviso che non valga a ‘salvare’ dette clausole dalla nullità manifesta il fatto che la convenzione sia stata, a suo tempo, approvata per legge, in quanto l’approvazione ha riguardato la fase integrativa della efficacia e non i suoi contenuti”, cioè per legge è stato solo approvato l’allungamento nel tempo di quei contratti non il loro contenuto.

La Corte dei Conti su autostrade: serve equilibrio tra pubblico e privato. Antonio Selvatici il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. «Occorre cogliere l’opportunità d’individuare il punto di equilibrio fra rimunerazione del capitale e tutela degli interessi pubblici e dei consumatori», così la Corte dei Conti nel suo recente documento Le concessioni autostradali approvato a fine novembre e poi inviato anche ai ministeri competenti e al Presidente della Camera e del Senato. La relazione riassume e fotografa una situazione che, già sfogliando le prime pagine, si capisce come sia complicata. Risulta chiaro ed evidente come col tempo si sia creato un abnorme essere economico misto pubblico e privato avvinghiato da norme non chiare, mancanza di controlli, interessi da soddisfare, il tutto fino a formare un pericoloso intreccio d’interessi difficilmente risolvibili in breve tempo. Il relatore consigliere Antonio Mezzera (Presidente Angelo Buscema) tra le considerazioni conclusive inserisce alcuni capoversi che ben inquadrano la situazione: «la ventennale vicenda della privatizzazione delle autostrade ha dimostrato che vi sono state carenze di gestione, soprattutto nei primi tempi». Tali carenze sono state individuate in quattro categorie: le «tariffe, non regolate sinora da un’Autorità indipendente secondo criteri di rigoroso orientamento al costo», a seguire il «capitale non remunerato con criteri trasparenti di mercato», poi «la verifica periodica dell’allineamento delle tariffe ai costi». Infine, non certo per importanza i «controlli degli investimenti, anche attraverso l’accertamento delle capacità realizzative e manutentive». Tagliente una constatazione che fa riflettere: «Costante è risultata, nel tempo, la diminuzione degli investimenti. Peraltro, anche il loro slittamento può favorire il prolungamento dei rapporti, rendendo difficile l’effettuazione di gare per il crescere degli indennizzi richiesti ai subentranti». È noto come il crollo del ponte Morandi di Genova, nel quale sono morte 43 persone, abbia innescato un acceso dibattito politico che vede protagonisti i Cinque stelle, che puntano a fare revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia (Atlantia, società del gruppo Benetton) dei lunghi tratti che storicamente gestisce. Una diatriba che in questi giorni si è nuovamente accesa ed ha portato a nuovi e ripetuti bisticci tra membri della maggioranza. La parte finale della relazione della Corte dei Conti elenca alcune “raccomandazioni” che potrebbero suggerire soluzioni. Probabilmente, la prima non sarà gradita dalle società private concessionarie: «il nuovo sistema tariffario unico di pedaggio elaborato dall’Autorità si prefigge di ridurre la remunerazione del capitale, introdurre parametri d’efficienza più stringenti, restituire parte dei ricavi generati dal traffico oltre le previsioni e indurre al pagamento di penali per i ritardi negli investimenti». La parte conclusiva del documento comprende una frase tanto sibillina quanto chiara, un concetto già precedentemente evidenziato: «evitare la programmazione d’investimenti poco utili o di difficile realizzazione al solo scopo di ottenere una proroga della concessione», più che un monito assomiglia a una notizia di reato già consumato. Chissà se le parti politiche coinvolte nelle animate discussioni (più prudente con un diplomatico “salvo intese” il premier Giuseppe Conte, con una visione più morbida Italia Viva di Matteo Renzi e una più radicale dei Cinque stelle che, come abbiamo visto, da tempo pretendono la revoca della concessione ad Atlantia) prenderanno spunto dalla relazione della Corte dei Conti. E chissà come interpreteranno l’emancipata raccomandazione dei magistrati contabili: «In definitiva, il lento processo di adeguamento ai principi di derivazione europea, anche per la tendenza del passato a privilegiare contingenti esigenze di politica economica, segna oggi un’occasione per ridefinire sia i profili di cooperazione interistituzionale che di positivo raccordo con i soggetti privati interessati». Ci avviciniamo a una svolta dove, tra l’altro, s’incomincia a guardare a certe privatizzazioni con una visione più critica? Alitalia, ex Ilva, Autostrade, ex Tirrenia: tutte privatizzazioni che oggi, a distanza di alcuni anni, sono diventate tra le protagoniste della vita economica del Paese.

Il prezzo del compromesso su Autostrade. I grillini chiedono la revoca immediata, il Pd e Renzi frenano, anche per le penali miliardarie (sulle quali si tratta, di nascosto). Panorama il 4 gennaio 2020. La vicenda di Autostrade intesa sia dal punto di vista aziendale-politico-statale, che da quello più semplicemente "stradale", è una stranezza tutta italiana. Che Atlantia debba lasciare la gestione delle nostre principali arterie automobilistiche appare chiaro a chiunque dal 14 agosto 2018, giorno del crollo del Ponte Morandi. Ma solo nel nostro paese una 40ina di morti per quello che resta uno dei disastri più gravi della storia d'Italia non bastano per lasciare incarichi e soprattutto miliardi di utili, no. Serve altro. Il destino allora ci ha messo del suo facendo piombare in pochi mesi le autostrade della Liguria nel disastro assoluto; andando in ordine cronologico ricordiamo i controlli su alcuni viadotti non proprio sicurissimi della A26, Genova-Gravellona Toce e della A10, Genova-Ventimiglia. A tutto questo va aggiunto l'ultimo episodio, il crollo di alcuni "detriti" (per un peso complessivo di due tonnellate e mezzo, i detriti) di una delle gallerie della A26, in direzione del capoluogo ligure, a causa delle infiltrazioni d'acqua per le piogge incessanti di due settimane fa. Il risultato è che ormai andare nella regione dei fiori è roba da amanti del rischio, oltre che delle code come accaduto in queste ferie natalizie. Che la manutenzione non sia stata fatta o sia stata approssimativa è evidente a tutti, compresi i più strenui sostenitori dei Benetton. In merito ad esempio al crollo nella galleria della A26 Aspi ha fatto sapere che la zona aveva superato gli ultimi controlli fatti poco tempo prima. La richiesta di revoca della concessione è legittima e sacrosanta. Però ci sono delle regole che, piacciano o meno, vanno rispettate. Atlantia infatti ha fatto sapere che un provvedimento del genere prevede delle penali da oltre 20 miliardi di euro. Una cosa chiara a tutti, soprattutto al Governo ed ai suoi ministri, compresi quelli, come Di Maio, che continuano a chiedere l'immediato stop per la società della famiglia Benetton. Peccato però che sotto banco si stia trattando con il "Diavolo" per una cifra vicina agli 8 miliardi, con lo sconto quindi del 60%. Perché purtroppo ci sono delle regole, e migliaia di posti di lavoro in ballo (altro problema da non sottovalutare). Al resto ci pensa e penserà la giustizia ordinaria. Questo Governo anche su Autostrade stia dimostrando tutta la sua pochezza e debolezza: Ilva, Alitalia (dove guarda caso c'è sempre Atlantia di mezzo), Autostrade, problemi seri che meritano risposte e soluzioni altrettanto serie. Invece si va avanti con slogan da una parte e divisioni interne dall'altra, nella faticosa ricerca di scaricare sugli alleati il costo politico: per i grillini qualunque indennizzo ai Benetton sa di beffa, per il Pd e per Renzi rimangiarsi gli accordi con i gestori presi dai loro ministri anni fa sarebbe beffardo. Il prezzo del compromesso lo pagano tutti.

(ANSA il 17 gennaio 2020) - "Non c'è alcun tipo di volontà espropriativa ma solo l'esigenza di assicurare che l'inadempimento degli obblighi assunti determini conseguenze anche per il patrimonio dell'inadempiente così come previsto per la generalità dei consociati e non già un fatto del tutto neutro". Lo ha detto la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli in audizione alle commissioni affari costituzionali e bilancio della Camera sul Milleproroghe, con riferimento alla norma sulle concessioni autostradali. "La decisione della revoca o meno sulla vicenda Aspi non è stata presa dal Governo. Oggi non c'è una decisione. La sottoscritta sta terminando, insieme agli uffici, di scrivere la relazione finale che presenteremo alla compagine di Governo". Lo ha detto la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli in audizione alle commissioni riunite affari costituzionali e bilancio della Camera sul decreto Milleproroghe.

Alessandro Barbera per ''la Stampa'' il 17 gennaio 2020. Cinque miliardi e quattrocento milioni di investimenti in quattro anni, più del doppio dei due miliardi e cento milioni realizzati dalla gestione Castellucci. Un miliardo e seicento milioni dedicati alle manutenzioni - quattrocento milioni in più del piano precedente - che permetteranno lavori su cinquecento ponti e centotrenta cavalcavia. Altri cinquecento milioni per il monitoraggio e il miglioramento della rete: software, ponti 5G, droni. E infine mille assunzioni tra ingegneri, tecnici, operai, addetti ai caselli. Il piano industriale di Autostrade presentato ieri dal nuovo amministratore delegato Roberto Tomasi non sembra scritto da un' azienda vicina alla revoca della concessione. Nel governo la spaccatura è seria e il tentativo dei Cinque Stelle di dare una spallata alla società controllata dalla famiglia Benetton per il momento non è riuscito. La presentazione del piano, per quanto pianificato da tempo, è l' occasione perfetta per l' ultimo tentativo di salvare la pelle. Il comunicato diffuso dall' azienda a mercati chiusi dal consiglio di Autostrade per l' Italia è un concentrato di messaggi in codice alla politica. Si inizia dal titolo: «Il consiglio approva le linee guida del piano strategico di trasformazione dell' azienda». Per quanto possibile, Tomasi vuole lasciarsi alle spalle Castellucci e il suo stile poco dialogante per un concessionario pubblico, per di più gestore di un ponte crollato e costato la vita a 43 persone. L' aumento delle spese per la manutenzione pari al «quaranta per cento» è stato deciso «in linea con le interlocuzioni con il ministero dei Trasporti». Autostrade conferma ufficialmente quel che nei palazzi si va dicendo da settimane: nonostante i proclami il telefono fra Tomasi e il ministro Paola De Micheli non ha mai smesso di squillare. Il piano promette l' ammodernamento di ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie, pavimentazioni, barriere di sicurezza. Il consiglio indica il potenziamento di «trenta chilometri della rete esistente», sempre entro il 2023. La parte più innovativa del piano sembra l' impegno a realizzare una piattaforma di intelligenza artificiale che consentirà di monitorare 1943 ponti e viadotti. Per verificare le condizioni di viabilità verranno impiegati droni dotati di piani di volo automatico, telecamere ad alta velocità, laser e georadar. Nella nota manca invece qualunque riferimento alla riduzione delle tariffe, che pure è una delle carte decisive della trattativa sottotraccia fra governo e Atlantia. D' altra parte la decisione della maggioranza su cosa fare della concessione di Autostrade è congelata. Verrà affrontato solo dopo il test elettorale del 26 gennaio e poco prima del termine per la conversione in legge del Milleproroghe. Per questo ad Atlantia restano pronti allo scenario peggiore, e mentre si allunga la mano al governo prosegue l' azione di lobbying contro la norma che ha falcidiato il risarcimento in caso di revoca della concessione: dei ventitré miliardi attuali ne resterebbero sette. Ieri, dopo i fondi sovrani cinese e di Singapore - entrambi azionisti del gruppo - anche la tedesca Allianz ha presentato un esposto alla Commissione europea. La De Micheli in Parlamento smentisce volontà espropriative: la situazione «era totalmente sbilanciata» con privilegi «attribuiti per legge ad alcuni concessionari». Il decreto ristabilisce «il giusto equilibrio tra l' interesse pubblico e privato». Se la linea dei Cinque Stelle avrà la meglio, Anas fa sapere di essere pronta a prendere il posto di Autostrade. Riuscirebbe a fare meglio?

Nino Sunseri per ''Libero Quotidiano'' il 17 gennaio 2020. (…)  Nell' azionariato del gruppo ci sono soci di grossa taglia che non si lasceranno espropriare da un' iniziativa del governo italiano forse arbitraria. Infatti dopo il fondo sovrano di Singapore e i cinesi del Silk Road Fund azionisti di Atlantia a muoversi è stata Allianz che ha una quota di Autostrade. Secondo quanto riporta l' Ansa, il colosso tedesco ha presentato alla Commissione Europea un esposto contro la modifica unilaterale dei contratti di concessione autostradale introdotta dal governo con il decreto Milleproroghe. Un cambiamento che apre la strada all' ipotesi di revoca della concessione della società. L'esposto segnala la violazione del principio universale che impone il rispetto dei contratti. Proprio questa rottura fu alla base della procedura di infrazione aperta nel 2006 da Bruxelles nei confronti dell' Italia, quando il ministro Di Pietro modificò i contratti di concessione autostradale per legge.  «Questa misura - recitano la lettera - è ragione di seria preoccupazione per noi e per l' intera comunità degli investitori in quanto compromette del tutto la prevedibilità normativa, scoraggiando gli investimenti e restringendo senza giustificazione la libera circolazione dei capitali». Il ministro De Micheli respinge le accuse sostenendo che il testo del Milleproroghe non contiene «violazioni di sorta». Le iniziative degli azionisti di Atlantia e Aspi evidenziano il profondo malessere degli investitori internazionali che avevano fatto affidamento su regole certe, che adesso rischiano di saltare.

Autostrade, la ministra De Micheli chiese al premier quattro mesi fa di decidere. Una lettera che lo prova. Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2020. Nel documento sono anche elencate le condizioni che verranno poste con tre mesi di ritardo dal Governo Conte ad Autostrade nel famoso ultimatum del 10 luglio, sebbene poi formulate in modo più stringente. A partire “dall’impegno economico complessivo pari a 2.900 milioni”, successivamente rialzato a 3,4, per “una serie di interventi compensativi”; si proseguendo quindi con il “piano straordinario di investimenti pari a 14,5 miliardi, di cui 5,3 nel periodo 2020-2023”; passando per “l’accettazione del modello tariffario Art”, l’Autority dei Trasporti, “con rinuncia al ricorso giurisdizionale sul tema”. Era il 13 marzo quando la ministra dei Trasporti inviò a Conte una lettera “riservata personale” in cui veniva ricostruita la trattativa con Aspi (Autostrade per l’ Italia) e prospettava le due soluzioni che verranno esaminate stasera dal Consiglio dei Ministri: revoca o revisione della concessione. Palazzo Chigi la ignorò totalmente! “Carissimo presidente” iniziava così la lettera della De Micheli, del corposo dossier Autostrade, che il premier Giuseppe Conte difficilmente renderà noto, nel corso del Consiglio dei ministri di stasera chiamato a decidere (se ne sarà capace…) sulla revoca della concessione. Una comunicazione rigorosamente “riservata personale” indirizzata al capo del governo lo scorso 13 marzo, che dimostra inequivocabilmente come la colpa dei ritardi sulla “guerra” ingaggiata con i Benetton, lo veda principalmente responsabile e non “ai due ministri più direttamente competenti” cioè la titolare del Ministero dei Trasporti Paola De Micheli e del Ministero del Tesoro Roberto Gualtieri – sui quali la comunicazione di Palazzo Chigi da giorni tenta di scaricare ogni responsabilità. Una lettera firmata di proprio pugno dal ministro De Micheli , che oggi , dopo quattro mesi di vuoto, e dopo aver ricostruito nei dettagli l’istruttoria condotta dal suo dicastero in seguito al crollo del Ponte Morandi di Genova, e aver illustrato ed analizzato le due opzioni , (revoca o revisione della concessione, accompagnata dalla cessione della quota di controllo di Aspi) verranno poste al vaglio del Cdm dalla ministra Pd con cui chiedeva al premier la convocazione immediata di un vertice di maggioranza per arrivare prima che tutto precipiti ad una decisione rapida e condivisa. Com’è avvenuto. Perché, sollecitava la responsabile dei Trasporti, il problema ha bisogno di essere risolto subito. Togliere le Autostrade ai Benetton potrebbe costare molto caro allo Stato. 23 miliardi cioè più del triplo rispetto ai 7 miliardi che il Governo ha inserito nel Decreto Milleproroghe, abbassando il tetto del risarcimento ad Autostrade, ma unilateralmente. Un vero e proprio avvertimento al premier Giuseppe Conte che cala sul tavolo del Consiglio dei Ministri di questa notte chiamato a capire come chiudere la questione che si è aperta quasi due anni fa a seguito del crollo del Ponte Morandi a Genova. Un avvertimento che arriva dall’Avvocatura dello Stato. A pagina 4 del documento si legge : “Il predetto Organo legale (l’Avvocatura ndr)” evidenzia “come non si possa escludere che, in sede giudiziaria (nazionale o sovranazionale) possa essere riconosciuto il diritto di Aspi all’integrale risarcimento”.  Così la De Micheli scriveva alla fine della lettera: “Rimango in attesa di un tuo urgente riscontro sulle soluzioni prospettate, considerata la necessità di condividere questo, interminabile e complicato lavoro di interlocuzione con le società Aspi ed Atlantia, ma anche con i capi delegazione dei partiti, in seno al governo rappresentativi delle forze parlamentari di maggioranza, anche al fine di avere un quadro chiaro e definitivo in questa fase emergenziale che sta colpendo il nostro Paese sotto il profilo sanitario ed economico, oltre che sul piano delle personali e familiari incertezze e paure che comprensibilmente preoccupano i nostri concittadini”. Giuseppe Conte, ha impiegato quattro mesi, per arrivare ad una decisione che rischia di mettere a serio rischio le sorti del suo governo. 75 giorni dopo, il 27 maggio arriva sulla scrivania del premier la prima lettera ricevuta dalla ministra De Micheli. Il primo riscontro alla lettera arriva quando il presidente del Consiglio convoca il primo vertice di maggioranza sul tema, che però si concluse senza alcuna decisione . Si arriva quindi al 25 giugno, e trascorre invano un altro mese quando i capidelegazione della maggioranza di Governo tornano a riunirsi con Conte, e puntualmente anche questa volta senza alcuna soluzione. Per arrivate all’avviso di sfratto-revoca nel weekend notificato da Palazzo Chigi a mezzo stampa ai Benetton come atto conclusivo. Chi ha potuto avere visione delle carte sostiene che nella prima lettera del 13 marzo c’erano già tutti gli elementi per una decidere immediata, che avrebbe anticipato di ben quattro mesi la decisione finale prevista ed attesa stasera nel Consiglio dei Ministri. La De Micheli ricostruisce tutti i passaggi dell’interlocuzione con il concessionario, affidato a “un Gruppo di lavoro interistituzionale” istituito dal suo predecessore, il senatore grillino Danilo Toninelli, subito dopo il tragico crollo del ponte Morandi.  Gruppo che scrive la ministra “a conclusione delle proprie attività , pur concludendo nel senso delle condizioni per procedere alla risoluzione della Convezione unica del 2007, per grave inadempimento della società concessionaria, aveva tuttavia evidenziato i possibili rischi di contenzioso derivanti dalla risoluzione unilaterale della Convenzione”. Da questo passaggio la relazione della De Micheli rivela date e particolari della trattativa condotta intorno al tavolo attivato “nel mese di luglio 2019” con lo scopo di “acquisire le proposte del concessionario che, in ragione della rilevanza degli interessi pubblico coinvolti, ha visto la partecipazione della Presidenza”. Un passaggio fondamentale, che prova come Conte fin da quando guidava il suo primo governo con la Lega era sempre restato al corrente di tutto. E non solo. Nel documento sono anche elencate le condizioni che verranno poste con tre mesi di ritardo dal Governo Conte ad Autostrade nel famoso ultimatum del 10 luglio, sebbene poi formulate in modo più stringente. A partire “dall’impegno economico complessivo pari a 2.900 milioni”, successivamente rialzato a 3,4, per “una serie di interventi compensativi”; si proseguendo quindi con il “piano straordinario di investimenti pari a 14,5 miliardi, di cui 5,3 nel periodo 2020-2023”; passando per “l’accettazione del modello tariffario Art”, l’Autority dei Trasporti, “con rinuncia al ricorso giurisdizionale sul tema”. Un rapporto preciso e puntuale quello della De Micheli in cui erano contenuti ampi stralci del parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato per evidenziare i rischi di una eventuale revoca, ritenuta comunque giuridicamente sostenibile. Se il problema fosse stato affrontato subito, invece di aspettare quattro mesi, sarebbe stata evitata la corsa contro il tempo e  le incognite di una decisione che a questo punto non si può più rinviare. Il premier spinge per la revoca fortemente voluta dal M5S, ma l’Avvocatura dello Stato è perentoria nel sostenere che bisogna procedere con la massima attenzione. Il rischio sul fatto che lo Stato potrebbe essere chiamato a pagare l’intero risarcimento ai Benetton è legato proprio alla debolezza della scelta fatta con il Milleproroghe dal Governo Italiano. 

Adesso la De Micheli traballa? Il M5s vuole la testa della dem. Clima teso nel governo per la lettera che la titolare del Mit inviò al premier a metà marzo: ora i grillini spingono per le dimissioni della dem, accusata di slealtà. Fabio Franchini, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Non c’è pace in casa giallorossa. La lettera datata 13 marzo che il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Paola De Micheli inviò al premier Giuseppe Conte, invitandolo a decidere una volta per tutte sulle concessioni ad Autostrade, ha fatto (ri)scoppiare i dissidi all’interno della maggioranza. E ora il Movimento 5 Stelle spinge per le dimissioni della dem, accusata di slealtà. Ricapitoliamo. Nella giornata di ieri Repubblica ha dato notizia di una missiva che la titolare del Mit scrisse e recapitò all’attenzione di Palazzo Chigi per sciogliere il nodo della concessione alla famiglia Benetton, scegliendo tra revoca e revisione della stessa. Un invito, quello dell’esponente di governo del Partito Democratico, che non fu raccolto dal presidente del Consiglio. L’indiscrezione, ovviamente, ha sollevato un polverone, agitando ulteriormente le acque in cui naviga l’esecutivo Conte e indispettendo non poco lo stesso premier. Ciò detto, nella notte è arrivata l’intesa in consiglio dei ministri: è stato un Cdm difficile, della durata di sei ore. Alla fine però l’accordo c’è: graduale uscita dei Benetton (estromessi dal consiglio di amministrazione di Autostrade per l’Italia) ed ingresso dello Stato, con Cassa Depositi e Prestiti, che salirà fino al 51% come socio di controllo di Aspi. Nei fatti, dunque, nessuna revoca ma un drastico ridimensionamento dei Benetton, che scenderanno sotto al 10%. Adesso però c’è il nodo politico: il M5s vuole la testa di Paola De Micheli. E anche in casa Pd c’è un certo imbarazzo per il fatto che quella lettera è stata portata alla ribalta. Nella giornata di ieri c’è stata una certa tensione, alle celebrazioni del 14 luglio presso l’Ambasciata francese a Roma, tra Conte, Zingaretti, Di Maio e proprio De Micheli. Come riportato da La Stampa, il presidente del Consiglio era più che indisposto per la notizia della missiva, convinto che l'abbia fatta uscire la ministra del piddì: "Pensa di scaricare la colpa su di me?", si sarebbe sfogato il sedicente avvocato del popolo. Prima del Cdm notturno, sia il M5s sia il Pd si sono riuniti in due vertici separati e in quello pentastellato si è parlato molto della responsabile del Mit, accusata di essere stata sleale e per questo meritevole di essere cacciata. Si apre così una nuova ed ennesima frattura all’interno della compagine di governo: questa volta, sulla graticola, ci è finito un ministro del Pd. Vedremo come andrà a finire.

Paoletta l'arciduchessa ne ha fatte di più dei colori Benetton. Scaltra e sempre accorta a proteggere se stessa, ora con Autostrade rischia di restare con il cerino in mano. Paolo Guzzanti il 17 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ce la farà o non ce la farà, Paoletta nostra l’arciduchessa De Micheli di Piacenza, Parma e Guastalla? Passerà indenne il Ferragosto sulla sua cadrega, o cathedra, o scranno o poltrona di ministra, oppure, fra balli canti e festeggiamenti, la butteranno giù dalla Rupe Tarpea dei ministri che sanno solo creare casini? Difficile dirlo, anzi prevedibile.

LE SUE SCARPINE. Fossimo noi? Se fossimo noi nelle sue scarpine, o anche scarpone sennò sa di vezzeggiativo antifemminista, taglieremmo la corda. Prima che la vengano a prendere col picchetto armato, il prete con l’acquasantiera e i fratoni della Giubilazione che agitano l’incenso. Perché le diamo il consiglio di darsela a gambe finché lo può fare ancora con eleganza? Perché il cerchio, che è piuttosto un cappio, intorno a lei e al suo collo so stringe. Il primo ministro è furibondo e ha alzato la voce a lungo parlando di lei e dello scherzo da prete che gli ha fatto dando alle stampe la famosa lettera riservata con cui lei gli chiedeva di darsi una mossa sul caso Autostrade Benetton, che la sta trascinando nel suo crollo personale.

TOPO GIGIO. Il suo partito, che se non sbagliamo dovrebbe essere il Pd (gran casino identitario, scusate, non è colpa nostra, oggi non riesci a distinguere Topo Gigio da Luigi Di Maio) le dà il bacio della morte attraverso l’irritata difesa della mente lucida del PD Lorenzo Guerini, ministro della Difesa e ventriloquo del povero Zinga che ormai fa il giro delle osterie con la chitarra e il piattino. Guerini ha almeno due teste sulle spalle perché il caso piddino è peggio del cubo di Kubrik, nessuno si ricorda più come si fa a rimetterlo come era prima. Guerini ha difeso la nostra Paola Maria Addolorata Duchessina, più o meno dicendo lasciatela stare, non vedete che è piccola, se avete coraggio scendete in cortile da me che vi faccio vedere io. In politichese ha detto che bisogna piantarla con questa spupazzata pentastellare che divide i buoni dai cattivi, i puri dai peccatori e che insomma Paola De Micheli ha tutto il sostegno del Nazareno: un modo molto scaltro per avvertirla che la messa è finita, è sera ed è l’ora di sloggiare. Scambiamoci un segno di pace, per te è finita, amen. Paola De Micheli ha un difetto e glielo abbiamo ricordato – pazzi come siamo di lei – con sincera simpatia. Il difetto è che passa troppo tempo a pararsi le terga e troppo poco a fare le cose che i tempi convulsi richiedono.

L’AVEVA DETTO. La sua unica preoccupazione è poter dire: ve l’avevo detto, ve l’avevo scritto (a Conte), l’avevo previsto, avevo già avviato i controlli, avevo già imbottigliato l’autostrada per farne conserva di automobilisti, avevo già messo le mani avanti, avevo già sentito i miei legali, mica sono scema, non mi faccio incastrare da questa gabbia di matti. Che le vuoi dire? Nulla. Obiezioni? Zero. Ha ragione lei. Per pararsi, si è parata dalle lombari fino all’attaccatura del ginocchio. Ma l’affare è stato un affaraccio, intendiamo la vicenda Benetton conclusa in un modo astutissimo. Un modo in cui, a chiacchiere sono tutti contenti, ma alla fine qualcuno dovrà restare col cerino acceso e sarà la ministra delle infrastrutture infradito. Perché? Ma perché ha cercato di salvarsi il fondo schiena prima mandando la lettera a Conte e poi dandola alle stampe, provocando un’ondata di marea nel governo. E perché l’ha fatto? Per pararsi. Paraculismo, in linguaggio tecnico. E ha dato prova di anteporre le sue rispettabilissime terga al fronte comune, mandando in bestia il governatore ligure Toti che ha minacciato denunce e l’alleato pentastellare che, per quanto subdolo, non è cretino. I Benetton gridano all’esproprio, ma intanto a nessuno è sfuggito il magico gioco della borsa abbassata a mazzate e poi fatta scattare a molla all’insù, con un discreto acchiappo. I Benetton estromessi, ma non del tutto. Tutto, semmai, è reversibile, Salvo la De Micheli che è irreversibile perché si è ancorata a una soluzione che ha lasciato tutti di malumore, ma fedeli alla consegna di gridare insieme “Banzai!” abbiamo vinto. E Lei non l’ha capito, ha giocato di spariglio, ha gettato il bastone fra le ruote di Conte per eccesso di zelo retroattivo ed è finita nell’angolo. Ha lavorato per far tornare il pubblico al posto del privato, a staccare i ticket dei caselli autostradali ed è felice come una Pasqua. Ma l’intero pasticcio delle autostrade e della mezza cacciata dei Benetton ha messo a nudo la corrosione del rapporto fra PD e M5S che non ha più crema per mitigare le abrasioni. Tutti sanno che si stanno giocando partite di livello altissimo e che questo governo, bene che vada, dovrà subire un rimpasto, ovvero qualche sostituzione e indovinate chi rischia di più in questo momento. La maggioranza ha deciso di nascondersi dietro il tinnire dei calici per un brindisi senza ragione. Tutti gridano evviva e finché dura il frastuono e l’ebbrezza, Paola si salva. Ma poi cadrà la polvere e i duri entreranno in campo. E non sarà un bel momento per chi ha giocato solo d’astuzia.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2020. L'incidente diplomatico detona martedì notte. Ma è solo il manifestarsi di una rabbia che covava da settimane. Forse mesi. Lorenzo Guerini si lamenta della prima pagina del Fatto. Titolo: «United Dem of Benetton». È mezzanotte. E il pdf è appena arrivata sullo smartphone del ministro della Difesa. Questa di far passare il Pd come gli amici dei Benetton è storia vecchia. I grillini, in passato, avevano addirittura accusato il partito di Nicola Zingaretti di essere a libro paga degli imprenditori veneti. E di aver confezionato, con i propri governi, una serie di misure ad hoc per prolungare la concessione di Autostrade e per aumentare i profitti di Atlantia. Ora che la storia viene di nuovo fuori, nonostante siano alleati, i dem sono indotti a sospettare che ci sia una regìa dietro a quegli attacchi. Una persona: Rocco Casalino. È lui, secondo Guerini e gli altri, a ispirare i titoli a Marco Travaglio. Giuseppe Conte, nella ricostruzione fatta dall'Huffington Post, risponde brutto al suo ministro. Se ha qualcosa di cui lamentarsi, gli consiglia di bussare direttamente all'ufficio del suo portavoce. E, sempre in tema di veline, attacca la titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti, «colpevole», secondo il premier, di aver divulgato una lettera riservata, destinata a lui, in cui si metteva al corrente il primo ministro sulle perplessità dell'Avvocatura di Stato circa la revoca della concessione autostradale. Al che è stata proprio la De Micheli che, per discolparsi, ha accusato di nuovo Casalino. È stato lui a far filtrare il pezzo di carta. Sempre lui. E sempre allo scopo di dipingere i dem come amici dei Benetton. Quello dei dem per l'ex concorrente del Grande Fratello, d'altronde, è un odio antico. Che a intervalli regolari affiora. È successo qualche settimana fa, con l'indizione degli Stati Generali dell'Economia. Una passerella messa a punto da Conte con il suo guru della comunicazione che al Pd non è piaciuta affatto. Ma il premier non ha voluto dare retta alle perplessità dell'alleato. Si sente in uno stato di grazia, Conte. Il suo balsamo sono quei sondaggi che lo danno ampiamente in testa, tra i leader, per gradimento personale. E i numeri di una sua ipotetica lista, quotata intorno al 14 per cento. Casalino soffia sul turbo-narcisismo dell'avvocato e ciò fa innervosire i piddini. Che, non è un segreto, stanno brigando per levarsi dai piedi la coppia già in autunno, con l'aiuto di Luigi Di Maio, il quale, ormai si è capito, sta facendo partita a sé. Gli scazzi tra Rocco e i ministri del Partito democratico non sono un fatto nuovo, comunque. Gli attriti si sono manifestati subito, appena poche settimane dopo il giuramento del Conte 2. I dem hanno provato a mettere sotto tutela Casalino, cercando di imporgli due vice capi dell'ufficio stampa che fossero espressione del Pd. Missione fallita. Rocco, per tutta risposta, ha provato a centralizzare la comunicazione del governo, tentando di obbligare i ministri a passare attraverso il suo vaglio prima di uscire sulla stampa. Anche questa operazione è saltata. I dem ce l'hanno mandato (a quel paese) senza tanti complimenti. Sono storie di vecchi rancori. Che nessuno si è dimenticato. E perdonato. Quando due anni fa Casalino, in un messaggio audio, invocò il diritto a farsi due giorni di ferie nonostante il crollo del Ponte Morandi, i piddini lo crocifissero. «A casa, adesso!» (Maurizio Martina). «Che squallore, ma quando se ne va?» (Alessia Morani). «Non è degno di servire le istituzioni» (Anna Ascani). «Un pagliaccio» (Davide Faraone). «Che persona è? Si vergogni» (Teresa Bellanova). «Venga allontanato da Palazzo Chigi» (Andrea Marcucci). È tutta gente che oggi siede al governo o riveste ruoli importanti nella maggioranza. Lo stesso Matteo Renzi è un altro che non ama Casalino. Più volte ne ha chiesto la testa. Specie quando Conte andava in diretta durante il lockdown senza alcun contraddittorio, parlando di provvedimenti che non aveva ancora portato in consiglio dei ministri.  

Autostrade, Conte: "Situazione paradossale, il dossier va chiuso". Autostrade, il "golpe" del Pd nel governo. De Micheli e Gualtieri, il vertice riservato con Conte: M5s fregato di notte. Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. Il "golpetto" del Pd nella maggioranza si certifica all'alba. Su Autostrade per l'Italia vince la linea morbida e "trattativista" incarnata dal ministro dell'Economia Roberto Gualtieri e da quella delle Infrastrutture Paola De Micheli, che convincono il premier Giuseppe Conte a recedere dai bellicosi istinti di revoca della concessione ad Atlantia e ai Benetton. Un bello smacco per il Movimento 5 Stelle, che aveva riscoperto "la pancia" cavalcando la linea dura, salvo venire "traditi" dal presidente del Consiglio. Non a caso, il delicatissimo dossier di transizione dentro Aspi dai Benetton (che scenderanno entro l'anno al 10%) a Cassa Depositi e Prestiti (cioè lo Stato, che salirà al 51% controllando di fatto Autostrade) verrà seguita concretamente, nei prossimi mesi, proprio dai ministri Gualtieri e De Micheli. Del Pd. I retroscena descrivono un Luigi Di Maio furioso. "Accusa nemmeno troppo velatamente Conte di aver usato lo strumento della revoca per arrivare ad un accordo, che forse è anche la verità, ma è maldigerita dal Movimento", scrive il Corriere della Sera. Decisivo, per il colpo di mano (sempre che i 5 Stelle contassero che finisse veramente con la revoca, un potenziale disastro economico, legale e occupazionale), il vertice ristretto nel cuore della notte: CdM sospeso e faccia a faccia tra Conte, Gualtieri e De Micheli per analizzare nel dettaglio la resa quasi incondizionata proposta dai Benetton. E mentre i grillini se la prendono con la De Micheli, sa tanto di foglia di fico il passaggio del comunicato ufficiale del Cdm in cui si sottolinea come "il Consiglio dei ministri ha ritenuto di avviare l'iter previsto dalla legge per la formale definizione della transazione, fermo restando che la rinuncia alla revoca potrà avvenire solo in caso di completamento dell'accordo transattivo". Un modo per tutelarsi da improbabili ripensamenti dei Benetton, certo, ma soprattutto un modo per far guadagnare tempo ai 5 Stelle di fronte ai loro elettori. Del tipo: "Tranquilli, la revoca è ancora possibile". Già, ma chi ci crederà ora?

Grillo contro Benetton, una sfida lunga 15 anni. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 14 luglio 2020. Bisogna fare un salto indietro nel tempo per ritrovare le radici del conflitto tra Grillo e la famiglia simbolo del capitalismo all’italiana. La sfida di Grillo ai Benetton precede, se così si può dire, il grillismo. Sì, perché l’ossessione del “garante” nei confronti della famiglia trevigiana e del suo impero, costruito anche con l’aiuto di generosissime concessioni autostradali, affonda le radici negli spettacoli teatrali dell’allora semplice comico genovese. Bisogna fare un salto indietro nel tempo di almeno 15 anni, quando, ancora in esilio dalla Tv, Grillo macina una tournée sold out dopo l’altra. Certo, c’è già stato l’incontro con Gianroberto Casaleggio (avvenuto nel 2004), ma ancora il padre di Davide è solo un manager che si occupa di amplificare il verbo. Il Blog è stato aperto da poco, come catalizzatore dei meet up riuniti sotto la sigla Amici di Beppe Grillo, e il Movimento 5 Stelle non è ancora probabilmente neanche nella mente dei due cofondatori. Ma l’istrione di Genova è già un personaggio pubblico che inizia a trasformare la teatralità in messaggio politico. E i Benetton diventano subito bersaglio dei suoi strali. Questa famiglia «ha svenduto le autostrade italiane ad una società spagnola», dice il comico già nell’aprile del 2006, a Firenze, dove è approdato il suo spettacolo. Chiuse le quinte, Grillo partecipa alle proteste dei comitati locali contro gli inceneritori e prende la parola per un secondo show: dalla pericolosità delle nanoparticelle disperse nell’ambiente a quella dell’azienda di Treviso è un attimo. Da quel momento i Benetton diventeranno il leit motiv della sua propaganda politica, il simbolo di un capitalismo monopolista all’italiana che prolifera grazie ai rapporti di potere. Tanto che Alessandro Di Battista, al confronto con la retorica aggressiva del comico di allora, sembra un’educanda. Qualche anno più tardi, nell’agosto del 2011 – il M5S ha già due anni ma non si è ancora confrontato con le Politiche – mentre il mondo si lecca le ferite per una pesantissima crisi economica e il governo Berlusconi chiede nuovi sacrifici agli italiani, il comico lancia la sua crociata sul web: «I sacrifici? Partiamo dai concessionari, da coloro che usano beni pubblici in concessione per farci una montagna di soldi», scrive. «Benetton ha la concessione di alcuni rami delle autostrade italiane attraverso Atlantia Spa. La domanda da porsi è semplice: “Perché delle società private devono beneficiare di beni dello Stato?”». Qualche settimana dopo, lo spunto arriva dalla battaglia contro il finanziamento ai partiti. Quello pubblico, come quello privato. Ed è proprio a questa seconda categoria che il “garante” dedica un passaggio sul Blog in cui cita l’ormai famigerata famiglia per l’immaginario pentastellato. «Nella lista dei mecenati vi sono privati cittadini come il presidente del Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari e cooperative rosse per il Pdmenoelle, costruttori privati per il Pdl, Caltagirone per Casini e Benetton per tutti», scrive Grillo, scagliandosi contro le operazioni di lobbing sui partiti. Perché «Se i finanziamenti pubblici vanno aboliti, lo devono essere anche quelli privati per due categorie di soggetti: i concessionari dello Stato e chi partecipa alle aste pubbliche, per motivi evidenti di conflitto di interessi». Ogni riferimento ai proprietari di Atlantia non è affatto casuale. Nel dicembre del 2012, a pochi mesi dal primo trionfo elettorale del M5S, Grillo chiarisce il programma del suo partito alla folla che lo acclama a Trieste in piazza della Borsa. «Vogliamo scuola, sanità e acqua pubbliche, cemento zero, cibo a km0, energie rinnovabili, una banca nazionalizzata che faccia mediocredito», premette l’ormai leader politico, prima di aggiungere: «Lo Stato deve riprendersi le concessioni che ha dato, come è il caso delle Autostrade ai Benetton». Il concetto viene ribadito un mese dopo, nel gennaio 2013, a Pistoia, in piena campagna elettorale: «Vogliamo uno Stato che faccia lo Stato, che si riprenda le sue concessioni autostradali, invece di dare un miliardo e 300 milioni ai Benetton». A febbraio, il M5S arriverà al 25 per cento. Negli anni, gli attacchi ai controllori di Aspi si susseguono regolarmente. Fino al crollo del ponte Morandi a Genova. «Sono imprenditori oppure parassiti del denaro pubblico?», si chiede Grillo il 16 agosto del 2018, prima di indicare al suo partito, nel frattempo arrivato al governo del Paese con la Lega, la linea definitiva da seguire: le autostrade dovranno essere gratuite, perché già finanziate con le tasche dei contribuenti. «Non abbiamo pagato per decenni le tasse per arricchire Benetton e soci», è la consegna. Che Conte sembra intenzionato a seguire fino in fondo. Penali a parte e irritazioni di Pechino permettendo. Perché la Cina, partner fondamentale dell’Italia e interlocutore privilegiato del Movimento, controlla il 5 per cento di Aspi tramite il fondo governativo Silk Road. E a quanto pare non sembra gradire l’estromissione dei Benetton dalla società autostradale, tanto da provare a fare pressioni sul nostro esecutivo. L’ostacolo più Grosso sul cammino di Grillo.

Le balle – Autostrade. “Chavez! Esproprio!” Anzi, “vincono loro!” Bufale post Benetton. Marco Palombi il 17 luglio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Esproprio venezuelano. No, regalo ai Benetton. Statalismo, dirigismo, ma pure favore agli speculatori di Borsa. A leggere le reazioni all’accordo transattivo (andrà finalizzato entro luglio) tra lo Stato e Atlantia, la holding che controlla Autostrade per l’Italia, c’è da entrare in confusione. Prima di inoltrarci in una parziale rassegna, un breve riassunto dei fatti. Circo barnum – Da Renzi a Salvini, passando per i meglio editorialisti. Gara di sparate sull’intesa con Atlantia: “Rischi di statalismo e dirigismo”.

La cosa dovrebbe funzionare così: Cassa depositi e prestiti entra nel capitale di Aspi col 33% con un aumento di capitale, poi Atlantia vende un altro 20% abbondante a investitori istituzionali graditi a Cdp scendendo sotto il 40%, a quel punto le azioni residue vengono distribuite ai soci di Atlantia. I Benetton a quel punto si ritrovano tra il 10 e il 12% di Autostrade, quota che dovrebbero cedere. Nel frattempo viene rivista la concessione – da tutti, Corte dei Conti in giù, giudicata un regalo illegittimo al concessionario – che regola i 3 mila chilometri di corsie in modo da avere più investimenti e meno pedaggi. Chi vince e chi perde? I Benetton devono rinunciare a un bancomat truccato che gli ha garantito profitti assurdi, però salvano Atlantia dal fallimento (certo con la revoca). Per dare un giudizio completo, però, bisognerà capire quanto sarà valutata Aspi, cioè quanto spenderà Cdp. Tutto troppo facile? Ci pensa il circo Barnum dell’opinione a complicarlo.

Quelli che Chavez. “L’esproprio ai Benetton è clamoroso, non siamo il Venezuela” (l’ex ministro Maurizio Lupi); “Statalismo, imprudenza, indecisione, disprezzo per le regole. Il sostanziale esproprio di Aspi è fare giustizia come lo intendono i 5 Stelle, senza attendere una sentenza” (Antonio Tajani) Ora, è evidente a chiunque che una transazione non è un esproprio. Meno evidente, a giudicare da quasi due anni di dibattito, che il concessionario – da codice civile e da codice della strada – non può non aspettarsi danni se lascia crollare un’infrastruttura (calamità naturali a parte), specie se così ammazza 43 persone.

Quelli confusi/1. “Il titolo Atlantia ha guadagnato il 25%. Qualcuno ieri ha fatto i soldi e festeggiato…”. “ Ieri sera hanno festeggiato i Benetton e sicuramente ci metteranno soldi gli italiani” (Matteo Salvini). Tre giorni fa: “Dichiarare e far perdere a un titolo in Borsa il 15% significa non saper fare bene il proprio mestiere” (Matteo Salvini contro Conte che impoveriva i Benetton).

Quelli confusi/2. “Anas è in grado di gestire tremila km di Autostrade? Francamente io ho dei seri dubbi” (Alessandro Morelli, deputato leghista). Anas?

Quelli confusi/3. “Quel che resta da capire adesso è, per esempio, a chi toccherà gestire il nuovo ponte di Genova, in attesa dei nuovi assetti: se alla Autostrade dei Benetton o ai nuovi azionisti, se intanto arriveranno” (Marcello Sorgi, La Stampa). Sarebbe troppo lungo, qui mancano proprio le basi.

Quelli che i Benetton. “Per capire chi abbia vinto o perso nella battaglia di Autostrade basta guardare come ha reagito la Borsa (…) I Benetton sono i veri vincitori” (M. Belpietro, La Verità). La Borsa ieri ci ha un po’ ripensato: Atlantia è calata del 5%. Per una valutazione meno episodica bisogna tenere a mente almeno questo: quelle azioni valevano oltre 25 euro prima del crollo del Morandi, oltre 22 euro a febbraio, quasi 15 euro a inizio luglio, 13,7 ieri. Atlantia ha a bilancio Aspi per 5,3 miliardi: se la quotazione sarà inferiore ci perderà, sennò guadagnerà, ma comunque dovrà fare a meno del suo asset più rilevante e redditizio.

Quelli che se c’ero io… “Cdp acquista Aspi: i privati dunque non vengono ‘cacciati’, ma vengono pagati. È la soluzione giusta?”. “Io avrei preferito intervenire a monte, su Atlantia: avremmo speso meno per controllare meglio business più ampi” (Matteo Renzi). Se c’era lui i privati non sarebbero stati pagati: forse rimanevano al loro posto visto che sempre ieri ha definito i Benetton “capro espiatorio”. Bella l’idea di far entrare lo Stato in Atlantia cioè, tra le altre cose, nelle autostrade spagnole…

Quelli che i mercati/1. “Le responsabilità sono delle società. Gli azionisti si nominano solo se ci sono profili penali. Qui c’è un problema di reputazione italiana per gli investitori internazionali e ne usciremo certamente danneggiati, al di là di quello che accadrà ad Autostrade” (Giovanni Tria). Al di là di tutto, questo era ministro del governo che avviò la “procedura di caducazione” per Aspi nell’agosto 2018.

Quelli che i mercati/2. “È nell’interesse pubblico che la rete autostradale sia gestita dal settore pubblico?” (Carlo Cottarelli, la Repubblica). Forse andrebbe ricordato che, tolte Italia e Grecia, in tutta Europa funziona così: facciamo come la Germania, no?

Quelli che i mercati/3. “La domanda è se questo segni un’altra tappa del domino dirigista che dovrebbe riportare allo Stato le industrie in perdita, nel segno di un assistenzialismo destinato a entrare in rotta di collisione con le norme europee e a riprodurre un’eredità di inefficienza e di sprechi” (Massimo Franco, Corriere della Sera). Ora però non diventi un’abitudine eh: inefficienze e sprechi vanno bene solo se privati.

Quelli che non è vero. Luciano Benetton ha smentito i virgolettati di Repubblica. Noi gli crediamo e aspettiamo l’annuncio della querela, però almeno una di quelle frasi è un ritratto capolavoro di un pezzo del capitalismo italiano e la citiamo come pezzo letterario: “Ci trattano peggio di una cameriera. Chi caccia una domestica è obbligato a darle 15 giorni di preavviso. A noi, che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i beni entro una settimana”. No comment. C’è tutto.

Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2020. L'investimento nelle autostrade si sta rivelando un affare per i Benetton. Come ha spiegato ieri l'ex premier Matteo Renzi, «Cassa Depositi e Prestiti acquista Autostrade per l'Italia: i privati dunque non vengono cacciati, ma vengono pagati». Il piano B - niente revoca della concessione ma acquisizione della quota di controllo della società da parte di soggetti pubblici - comporta una plusvalenza interessante per il gruppo di Ponzano Veneto. Per ora circolano delle ipotesi di valorizzazione tutte da verificare, ma più che plausibili. Intanto entrerebbe Cassa Depositi con un 33% del capitale di Autostrade per l'Italia (Aspi in sigla) mettendo sul piatto circa 3 miliardi di euro. Un ulteriore 22% del capitale sarebbe collocato presso investitori istituzionali per circa 2,5 miliardi. Dunque Atlantia, la holding dei Benetton, per scendere dall'attuale 88 al 33% in Aspi incasserebbe 5,5 miliardi. Puliti. Sgravandosi per di più di ulteriori 5 miliardi di garanzie prestate alla controllata. Ma la partita finanziaria, quasi sicuramente, non finirebbe qui. Da ambienti vicini alle trattative fra gli imprenditori veneti e Palazzo Chigi, sfociate nell'accordo raggiunto nella notte fra martedì e mercoledì, Atlantia dovrebbe cedere un ulteriore 13%, per scendere al 10. In questa seconda fase alla holding andrebbe un altro miliardo e mezzo scarso. La plusvalenza complessiva realizzata nella fase di disimpegno ammonterebbe per la holding a quasi 7 miliardi. Un bel gruzzolo che tuttavia non finirebbe comunque tutto nelle tasche dei Benetton ai quali fa capo il 30,25 di Atlantia. Dunque, supponendo che la plusvalenza realizzata con la cessione di Autostrade per l'Italia sia destinata interamente a dividendo, agli industriali di Ponzano Veneto andrebbero circa 2 miliardi. Per verificarlo toccherà aspettare il bilancio dell'esercizio 2020. Dunque il prossimo anno. Ma il tesoretto finito a casa Benetton da quando la famiglia ha messo le mani su Autostrade è ben più consistente. Secondo uno studio di Mediobanca, solo dal 2009 al 2018 la famiglia ha incassato qualcosa come 6 miliardi di dividendi. Dai 485 milioni di cedole nel 2009 ai 740 del 2017. Nel 2018, anno in cui crollò il ponte Morandi, è stato staccato un assegno di 518 milioni, mentre l'utile dell'esercizio 2019, pari a 136 milioni, è andato tutto a riserva, per coprire parzialmente le azioni risarcitorie intentate dai parenti delle vittime. Ai 6 miliardi di cedole conteggiate dalla banca d'affari milanese bisogna aggiungere la partita contabile realizzata nei primi anni del controllo Benetton su Autostrade. L'acquisizione dall'Iri avvenne nel 1999, quando Schemaventotto, una società veicolo appositamente costituita dal gruppo di Ponzano per condurre l'operazione, acquisì inizialmente il 30% dell'allora Gruppo Autostrade, sborsando 2,5 miliardi di euro, dei quali 1,3 miliardi di mezzi propri e 1,2 miliardi presi a prestito. Il secondo tempo dell'acquisizione data 2003, quando una ulteriore scatola finanziaria creata da Schemaventotto, la NewCo28, rilevò con un'offerta pubblica d'acquisto, il 54% di Autostrade pagandolo 6,5 miliardi. Ma questa seconda acquisizione venne fatta tutta a leva: NewCo28 incorporò Autostrade scaricandole per intero il debito che aveva acceso proprio per sostenere l'Opa. Secondo la minuziosa ricostruzione dell'operazione fatta da Giuseppe Oddo sul proprio blog, l'operazione si concluse praticamente a costo zero per i Benetton, anzi con una ricca plusvalenza. Schemaventotto tra il 2000 e il 2009 incassò infatti da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi, tutti generati da utili, e ne collocò in Borsa il 12% con un incasso di altri 1,2 miliardi. Ripagandosi abbondantemente l'investimento iniziale effettuato con mezzi proprio pari a 1,3 miliardi, a fronte di un introito pulito di 2,6 miliardi di euro. Dunque ai 6 miliardi di dividendi Aspi stimati da Mediobanca andrebbero aggiunti 1,3 miliardi di plusvalenza realizzata nel periodo antecedente il 2009. Cui su potrebbero sommare i 2 miliardi di dividendi pro quota rivenienti dalla cessione parziale della partecipazione di Atlantia in Autostrade per l'Italia. Una cifra che si aggira attorno ai 9 miliardi di euro, sostanzialmente realistica anche considerando che l'ultima tranche da 2 miliardi attiene all'ipotetico dividendo che la famiglia percepirà sull'esercizio 2020 e legato alla discesa della partecipazione Atlantia in Autostrade dall'88 al 10%.  

Eugenio Fatigante per avvenire.it il 17 luglio 2020. Gli entusiasmi dei 5 stelle per questa soluzione della vicenda Autostrade? «Ricordano molto quelli per l'abolizione della povertà», era una delle battute preferite ieri a Montecitorio. Assieme ai tempi, c'è in effetti un enorme punto oscuro che grava sul 'compromesso dell'alba' (com' è stato definito): ma la famiglia Benetton, che ha evitato la revoca della concessione, incasserà soldi - e quanti - con questo accordo? Luigi Di Maio e Stefano Buffagni, esponenti di punta di M5s, ieri hanno voluto ribadirlo in modo secco: «Atlantia non prenderà un soldo pubblico, non è vero che è un grande affare per i Benetton». In realtà, può esser vero il primo punto, ma sul secondo ci sono dubbi. Nel patto manca d'altronde un elemento-chiave per dare un giudizio pieno: a che prezzo avverrà l'entrata di Cdp, con i soldi del risparmio postale degli italiani, nel capitale di Aspi? Per ora si è parlato di almeno 3 miliardi di fondi impiegati, ma potrebbero essere di più, anche per valorizzare la società e i nuovi investimenti che dovrà fare. E, ancora: a che prezzo avverrà la vendita di azioni Aspi ora in mano ad Atlantia (controllata al 30% dai Benetton) ai nuovi investitori graditi a Cdp? Da queste due variabili dipende molto dell'effettiva 'qualità' dell'intesa sancita nel tribolato Cdm di martedì notte. Nell'immediatezza, la famiglia veneta ha manifestato «rammarico» per questo esito della vicenda, entrata in una fase critica dopo il crollo del ponte Morandi a Genova e il suo terribile corollario di 43 vittime. È innegabile che per loro ci sarà un'uscita da un business su cui hanno puntato negli ultimi 20 anni. Eppure malgrado gli entusiasmi grillini - per la famiglia l'uscita da Autostrade/Aspi non sarà una disfatta. Anche senza arrivare all'estremo opposto dei leghisti che, con Massimiliano Fedriga, commentano: «Mi pare una grande vittoria dei Benetton: vendono le azioni, ci guadagnano soldi, penso che abbiano accettato un'operazione per loro assolutamente vantaggiosa. E pagano sempre i cittadini». La verità, come spesso capita, probabilmente sta nel mezzo. Il valore di una futura azione Aspi ora non si può definire. Prima di tutto bisogna attendere la revisione formale della concessione e delle nuove tariffe, elementi in base ai quali si potrà capire il possibile rendimento degli investimenti. Comunque, da azionisti di Atlantia, i Benetton si troveranno in possesso di titoli di una società che, dopo l'innesto di capitali freschi da parte di Cassa depositi e prestiti, sarà più solida e 'appetibile' sui mercati. Quando decideranno di cederli, potrebbero ricavarne un incasso discreto: secondo primissime stime, potrebbe oscillare fra i 3 e i 6 miliardi di euro. Forse anche di più. Somme che, all'interno di Atlantia (oggi la società che controlla Aspi), potranno destinare ad altri investimenti. Giova ricordare che, per rilevare nel 1999 da Iri il 30% delle Autostrade privatizzate, i Benetton tramite la società 'Schema28' versarono allo Stato 2,5 miliardi di euro all'epoca (5mila miliardi di lire). Poi, nel 2003 lanciarono l'Opa totalitaria per 6,4 miliardi, per un esborso totale di quasi 9 miliardi. Certo, per loro rimane il rimpianto per un settore che è stato una gallina dalle uova d'oro: dall'ultima relazione della Corte dei conti emerge che, nel 2017, le gestioni autostradali in genere videro schizzare di un altro 3,3% i ricavi da pedaggi, a 5,9 miliardi, mentre gli investimenti (tutti, non solo Aspi) crollarono del 10%, ad appena 959 milioni.

L’accusa di Cottarelli: “Svendita fuori da regole, Aspi piegata col ricatto”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Mentre il premier Conte e la sarabanda del Movimento annunciava pomposamente di aver chiuso il dossier Autostrade, va agli atti che non ci sarà nessuna revoca ma un accordo tra Governo e famiglia Benetton, siglato telefonicamente dal premier, nella notte. Cassa Depositi e Prestiti acquista Autostrade per l’Italia (Aspi): i privati dunque non vengono “cacciati”, ma vengono pagati. Difficile dire se sia la soluzione giusta senza conoscere i termini del Gentlemen agreement, a cominciare dal prezzo. Chiediamo al Professor Carlo Cottarelli, economista (è visiting professor in Bocconi), influente esperto di macroeconomia (commissario straordinario per la spesa pubblica con il Governo Letta) e presidente del Consiglio incaricato per tre giorni, due anni fa, di aiutarci a capire di più nel pasticciaccio di Autostrade. Ma lui alza le mani in segno di onestà intellettuale: «Qui si deve prima di tutto richiamare Socrate, So di non sapere».

Ma come, lei che ha sempre i volumi e le cifre sotto mano…

«C’è una incertezza da tutti e due i lati. Mi sembra che il governo abbia detto ai Benetton che se non avessero ceduto Autostrade, avrebbe tolto loro la concessione».

E invece non c’è nessuna revoca, o sbaglio?

«Ma alla fine Aspi viene nazionalizzata. Benetton riceve un prezzo inferiore al prezzo di mercato. C’è una compravendita fatta al di fuori delle regole e a prescindere dal chiarimento che era necessario avere in giudizio. Una situazione molto strana».

Come se il Governo, per dirla con Davigo, non avesse voluto perdere tempo ad attendere la sentenza.

«Certamente è una cosa strana dal punto di vista del rapporto pubblico-privato. Le responsabilità vanno accertate nel modo più rapido possibile. Il ponte Morandi è crollato due anni fa, ci sono state vittime. Non è possibile per un verso che si proceda con una giustizia-lumaca come questa, per l’altro che in mancanza di un giudizio di responsabilità ssiproceda per presunzione di colpevolezza».

E che si minacci: “Vi togliamo la concessione”, a meno che non vendiate alle nostre condizioni.

«La revoca è stata agitata come una clava, per far uscire i Benetton. Lo si poteva fare in modo diverso, ripeto: le incognite mentre parliamo sono ancora tante, non si sa quale sarà il prezzo ma certamente senza concessione il valore di Atlantia avrebbe perso tutto. Ma prima di dire che l’interesse pubblico è stato servito, si deve dire a quali condizioni».

Come giudica la gestione di questa vicenda?

«Tutta sbagliata. Prima di tutto bisognava accertare le responsabilità. La questione è stata politicizzata sin dall’inizio, è stato tutto un proclama. E una volta solleticata la pancia, è difficile tornare indietro. Il ponte è stato ricostruito, bene. Ma solo a quel punto si sono posti il problema che qualcuno lo dovrà gestire. E inevitabilmente il gestore doveva essere Autostrade per l’Italia. Ma per salvare la faccia hanno dovuto resettare in fretta e furia una vicenda già ingarbugliata».

La manutenzione, il monitoraggio del ponte Morandi ricadeva su Atlantia? I Benetton sono davvero i cattivi di questa storia?

«È quel che mi chiedo anche io. Puniamo il privato cattivo, ma se ci sono responsabilità accertate. Se avessimo un sistema giudiziario in grado di processare un caso in due anni, come sarebbe opportuno, non staremmo qui a fare questa conversazione dell’assurdo. Bisogna che la politica si ponga il problema della ragionevole durata del processo. In un Paese normale, davanti a un caso così grave, in due anni bisognava aver fatto tutti e tre i gradi di giudizio. E invece…»

Torno sulla domanda; siamo sicuri che Atlantia abbia avuto una responsabilità nelle mancate manutenzioni?

«No, non ne siamo affatto sicuri. E per un motivo preciso: che bisogna andare a vedere il contratto. Bisogna leggere cosa prevedeva per il monitoraggio della stabilità e della manutenzione. Io non ho visto il contratto, che è in gran parte segretato. Si è fatto un contratto di natura privatistica, pur sottoscritto da un ente pubblico, e secondo me non doveva essere segretato».

Perché segretare un contratto così importante come quello che regola la sicurezza delle infrastrutture?

«Ci possono essere dei profili legati alla pubblica sicurezza, ma è ora di fare chiarezza e leggere le carte. La presunzione che la società di gestione delle Autostrade non abbia fatto il proprio dovere ha mosso tutto un dibattito pubblico basato su opinioni in libertà, e non è accettabile muoversi solo sulla base dell’emozione, delle pulsioni».

Serve sempre additare un nemico pubblico.

«Sì ma questa deriva non avrebbe spazio in un Paese in cui la giustizia fa rapidamente il suo corso. Siamo uno stato di diritto con il diritto dimezzato».

Ma i Benetton alla fine rimangono dentro, con il 10%. Si è chiuso un Gentlemen agreement, al telefono?

«Ci sarà stato un agreement di qualche tipo, sotto la minaccia della revoca della concessione, con un onorevole accordo tra le parti».

La trattativa segreta Stato-Atlantia.

«Sì, della quale continuo a non sapere molto: non sappiamo qual è il prezzo di vendita. Non un dettaglio da poco. Non è chiaro per niente che si sia fatto l’interesse pubblico. Non si capisce se Cdp sarà in grado di gestire Aspi. Se il gestore precedente è inadeguato si fa una gara sulla base di una competizione e si valuta».

Troppe opere pubbliche ancora ferme, o incompiute.

«C’è stata prima la mancanza di risorse, poi la mancanza di volontà politica e quindi la mancanza di organizzazione. Le procedure sono complicate, la burocrazia rimane un mostro con troppe teste da tagliare».

Il Dl semplificazione aiuterà?

«Mi sembra possa aiutare, bisogna vederlo però. Perché non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. È un decreto approvato salvo intese. Che va nella direzione giusta, per carità, ma ci si scordi che sia la madre di tutte le riforme. La riduzione della burocrazia in Italia non si fa con un singolo decreto».

Del Dl Semplificazione cosa ha letto?

«Io ho le bozze che circolano. E vorrei parlare delle cose con i documenti davanti. Troppe volte in Italia si fa dibattito pubblico su bozze, su battute, su singole dichiarazioni. La politica per prima parla spesso senza sapere».

Il Governo che va avanti con Dpcm. Le piace?

«L’estensione fino a dicembre dello stato di emergenza sanitaria mi sembra esagerata, soprattutto se l’epidemia è sotto controllo. Si può estendere per un mese, ma la decretazione d’emergenza non si può procrastinare in continuazione».

Dopo aver abolito la povertà Di Maio brucia 20 miliardi per far fuori "gli orribili" Benetton. Claudia Fusani su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Non abbiamo proprio scherzato ma poco ci manca. La famosa “vittoria dello Stato” sugli “orribili” Benetton che per anni hanno “approfittato di un bene dello Stato pensando solo al profitto e non alla sicurezza dei cittadini” si traduce, dopo 48 ore di ubriacature lessicali, in un accordo salvo intese. Cioè ancora tutto da scrivere e definire. I paragoni volano verso Di Maio sul terrazzino di palazzo Chigi quando annunciò al mondo che era stata abolita la povertà. Prima che la propaganda faccia altri danni, la ministra De Micheli (che a dir la verità non ne ha mai fatta) corre ai ripari. Ieri pomeriggio ha chiesto alla Aspi dei Benetton “il piano economico-finanziario”. C’è una data tassativa di consegna: il 23 luglio. Dunque dalla telefonata e dalle mail della lunga notte a palazzo Chigi si passa ad un piano vero e proprio. Nel Piano dovranno «essere riportati puntualmente tutti gli elementi anticipati dal concessionario nella proposta transattiva sottoposta alla valutazione del Consiglio dei ministri del 14 luglio». Tra questi impegni c’è «la volontà di effettuare interventi compensativi senza effetto sulla tariffa per un importo di 3,4 miliardi, un programma di investimenti sulla rete autostradale fino a 14,5 miliardi, una consistente riduzione della tariffa». Nella missiva si legge che «il Mit è in attesa di ricevere il Piano per valutarne la rispondenza alle condizioni definite e accettate da Aspi». Questo è il punto. E mentre ieri il titolo Atlantia, il gruppo di cui i Benetton hanno la maggioranza relativa (30%) e con cui controllano Aspi (con l’88%), tornava a perdere in borsa (-4,80%) dopo il rimbalzo di mercoledì (23%), tecnici e analisti si sono messi a fare un po’ di conti.  Alla fine “la svolta dello Stato” potrebbe costare allo Stato più di venti miliardi. Una statalizzazione molto cara in tempi in cui l’Europa chiede di privatizzare e alleggerire il pubblico. Cassa depositi e prestiti, una volta autorizzata l’operazione, dovrà sborsare 5-6 miliardi. È il valore dell’88% in pancia ad Atlantia e dovrebbe essere lo stesso della transazione, della cessione titoli a Cdp che poi gestirà la quotazione Borsa di Aspi. Cdp terrà per sé il 51% e quindi dovrebbe recuperare nell’arco di una anno circa il trenta per cento dell’investimento. Quello effettivo alla fine sarà intorno ai quattro miliardi. Si tratta dei risparmi dei correntisti di Poste italiane. Sappiamo che Aspi si è impegnata per circa 14,4 miliardi di opere di ristrutturazione (da realizzare entro il 2038, anno in cui scade la concessione) e per altri 3,5 miliardi per abbassare le tariffe e fare opere viarie e strutturali in compensazione. In tutto sono 18 miliardi. Chi dovrà sostenere questi investimenti: la vecchia o la nuova Aspi? «La nuova, è ovvio» tagliano corto dal ministero delle Infrastrutture. «Ma saranno più che compensati dai guadagni sui pedaggi». In attesa del Piano finanziario (il 23 luglio) la lista delle domande aumenta. Con le risposte che mancano. Il capitolo cause, malleva, risarcimenti civili. I Benetton sono stati messi a testa in giù in assenza di uno straccio di prova o condanna. Hanno inanellato una serie di errori di comunicazione (il silenzio durato giorni dopo la tragedia delle 43 vittime) e di scelta del management (hanno impiegato un anno per cacciare l’ex ad di Aspi, il responsabile tecnico delle politiche gestionali, dai mancati controlli alle altre omissioni). «Hanno fatto soldi e non si sono occupati della sicurezza» è l’accusa. Ma quello è compito dei tecnici. Francamente non della dinasty di Treviso. Il punto è questo: il penale è individuale e risponderà chi sarà condannato. Ma chi pagherà il risarcimento civile? La vecchia o la nuova Aspi? Anche questa rischia di essere una cifra importante. Il premier Conte si è molto risentito perché, prima del Consiglio dei ministri, Aspi si era rifiutata di farsi carico della manleva di cause e risarcimenti eventuali a terzi. C’è poi il tanto sbandierato tema della difesa dell’interesse pubblico. Quale investitore straniero o anche italiano vorrà in futuro trattare con uno Stato che costringe un imprenditore a scegliere tra la cessione del controllo della società o la revoca della concessione di cui, nel frattempo, si è cambiato unilateralmente il valore dell’indennizzo (da 23 a 7 miliardi)? Non c’è dubbio che in questo caso l’interesse pubblico non coincide con lo stato di diritto. E però, come dicono i cartelli nel video postato dall’ex ministro Toninelli, è stata “una grande vittoria del Movimento 5 Stelle”.

Da Thyssen ad Autostrade: quando il dolore delle vittime è usato come arma politica. Davide Varì su Il Dubbio il 15 luglio 2020. Dalle pressioni per far marcire in cella i dirigenti della Thyssen alla guerra contro i Benetton in nome delle vittime del ponte Morandi, Ma così la civiltà giuridica naufraga. C’è un libro bello e durissimo – ne abbiamo già scritto sul nostro giornale – che si chiama “Il diritto penale totale” ed è firmato dalla penna lucida e tagliente di Filippo Sgubbi. Al centro del libro c’è quello che l’autore, avvocato e professore di diritto, definisce “abuso del paradigma vittimario”. Una descrizione tanto “spietata” quanto vera che calza a pennello con le vicende dolorosissime del rogo Thyssen e del crollo del ponte Morandi. In entrambe le situazioni, per usare le categorie di Sgubbi, il “paradigma vittimario” sembra agire in modo decisivo, tanto da condizionare scelte politiche ed economiche di vitale importanza per il Paese. Una pressione talmente forte da spingere il capo del governo italiano a consegnare al capo del governo tedesco una lettera scritta dai familiari delle vittime del rogo Thyssen. Una lettera drammatica e rabbiosa – e come può essere altrimenti? – nella quale viene espressa la delusione per la decisione di un giudice tedesco di concedere la semilibertà ai due manager della Thyssen, Harald Espenhanh e Gerald Priegnitz, che avrebbero dovuto scontare cinque anni di carcere. I due manager potranno andare a lavoro ogni giorno e tornare nel penitenziario solo per la notte. Ma ai familiari delle vittime non basta e dunque chiedono implicitamente alla Cancelliera di premere sulla magistratura tedesca affinché i due manager scontino la pena in galera. Una cosa che ovviamente non avverrà mai, ma che pure è stata avallata dal nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Se è infatti comprensibile la rabbia dolorosa di chi ha perso un familiare, è quantomeno misteriosa – forse poco opportuna – la decisione di un premier di farsi portavoce di quella rabbia che, per forza di cose, scavalca i principi della civiltà giuridica. L’altra vicenda, del tutto simile alla prima, riguarda il ponte Morandi. Anche in questo caso la leva del dolore dei familiari, il paradigma vittimario, viene utilizzata come una clava politica: «I Benetton non prendono in giro il presidente del Consiglio, ma i familiari delle vittime del ponte Morandi e tutti gli italiani», ha infatti dichiarato Conte. «Vogliamo la revoca della concessione entro il 14 agosto», hanno fatto eco i familiari che da comitato delle vittime, sembrano essersi trasformati in un vero e proprio soggetto politico. Ma, come direbbe Sgubbi, questa degenerazione del diritto colpisce tutti, anche chi si è ritrovato a urlare “giustizia” chiedendo pene esemplari. Perché «nel diritto penale totale il cittadino si presenta solitamente inerme e con scarso potere difensivo». Immerso in un medioevo che ha contribuito a generare.

Autostrade, trovato l'accordo. I Benetton fuori dal Cda. C'è l'accordo dopo un lungo Consiglio dei ministri. Atlantia è pronta a cedere l'88% a Cassa depositi e prestiti. Valentina Dardari, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Ormai ci siamo, sembra che i Benetton saranno presto fuori. L’accordo per la transazione sarebbe stato trovato e ora mancherebbero solo i dettagli, di cui si occuperanno i ministeri dell’Economia e delle finanze e a quello delle Infrastrutture. Questo quanto pervenuto al termine del Consiglio dei ministri, durato tutta la notte e terminato questa mattina verso le 5.30. Nessuna revoca della concessione ma estromissione graduale dei Benetton, entro un anno fuori del tutto, con ingresso di Cassa Depositi e Prestiti nel capitale di Autostrade per l’Italia. Aspi avrebbe accolto tutte le richieste del governo.

Fuori i Benetton, entro un anno. I due ministeri che dovranno definire i dettagli della transazione si occuperanno dell’uscita graduale dei Benetton dalla società e si adopereranno anche per un nuovo accordo sui vari aspetti della convenzione. Entro il 27 luglio dovrà iniziare anche il dialogo di Cassa depositi e prestiti. Nell’accordo raggiunto, la società Atlantia uscirà quindi in modo graduale da Autostrade e farà il suo ingresso Cassa depositi e prestiti. Al centro della discussione è stata la nuova proposta fatta da Autostrade per l’Italia che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha presentato. Quest'ultima è stata causa di una sospensione di circa un’ora del Cdm. La proposta è quindi stata esposta al premier Giuseppe Conte. La discussione separata non è però piaciuta alla responsabile dell’Agricoltura, Teresa Bellanova che ha mostrato irritazione per quanto avvenuto.

Accettate tutte le condizioni. Il presidente del Consiglio ha chiesto ad Aspi di accettare in toto le condizioni messe sul tavolo. E così è stato. Dopo una lunga trattativa, alla fine si è arrivati all’accordo tanto sospirato. Entro un anno Atlantia, e di conseguenza i Benetton, uscirà da Aspi, mentre entrerà Cdp con quotazione della società in Borsa. Il governo per il momento si sarebbe quindi salvato in corner. Anche perché, con l’esclusione sia della revoca che della decadenza, il governo evita il rischio di dover pagare pesanti sanzioni, fino a 23 miliardi. Nella bozza ci sarebbe l’entrata dello Stato in Autostrade con un pesante capitale, si parla di circa 4 miliardi di euro, e di conseguenza l’uscita piano piano di Atlantia, che oggi ha l’88%. Aspi dovrebbe poi essere quotata in borsa e dare così la possibilità agli attuali azionisti di maggioranza di vendere le proprie azioni. L’obiettivo dei 5Stelle sarebbe quindi raggiunto: eliminare definitivamente i Benetton.

Le reazioni politiche: chi è contento e chi no. Per nulla soddisfatto il Carroccio che, al Consiglio dei Ministri della notte scorsa su Autostrade per l'Italia, ha così commentato l’accordo: "Mesi di chiacchiere per non cambiare nulla: niente revoca ad Autostrade (nonostante le promesse dei grillini) e solo danni miliardari a viaggiatori e imprese, solo in Liguria per oltre 4 miliardi". La Lega ha voluto sottolineare che quello raggiunto è stato un altro cedimento dei 5Stelle nei confronti del Pd. Giusto per non perdere la poltrona. Questa volta non potranno neanche dire che "è colpa di Salvini", ma tanto i genovesi non dimenticano. Della stessa Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia, che non è per nulla soddisfatta e ha spiegato: "Dopo due anni di perdite di tempo e di annunci la concessione resterà in capo ad Autostrade per l'Italia. Usciranno i Benetton, gradualmente e chissà se definitivamente, ed entra Cassa depositi e prestiti. La soluzione finale individuata dal premier Conte è la nazionalizzazione di Aspi. Un'operazione a perdere, che costerà miliardi di euro allo Stato, che farà perdere miliardi di investimenti, che rappresenterà un ennesimo danno per i cittadini e per le imprese. L'intesa che il Cdm ha trovato dopo sei ore di riunione notturna è lose-lose. Perde lo Stato, perdono gli italiani. Gli unici a tirare un sospiro di sollievo sono i 5 Stelle: si chiude una esilarante querelle, i grillini si rimangiano la parola data sulla revoca, ma salvano la poltrona". Di tutt’altro avviso invece il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che su Facebook ha postato un commento che loda e fa i complimenti a Conte e al governo. “Contrariamente a coloro che dicevano che era impossibile e che lo Stato avrebbe dovuto pagare chissà quali cifre, Benetton uscirà da Autostrade dove entrerà lo Stato al 51% con Cassa depositi e prestiti. Autostrade sarà una società pubblica. Agli italiani è stato restituito quello che era loro. Ben fatto. Finisce finalmente l'era del privato è sempre bello. Complimenti a Conte e al governo". Su Twitter il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, no le manda a dire al premier: "Titolo Atlantia in Borsa: ieri -15%, oggi +21%. Mai visto un modo di fare simile, che danneggia i risparmiatori e premia gli speculatori. Gestione Conte spregiudicata e opaca. Bastava chiedere la sospensione del titolo. Consob che fa? Partano gli accertamenti annunciati da Savona". Ha parlato di nazionalizzazione anche Benedetto Della Vedova, segretario di Più Europa. Sottolineando che i contribuenti diventano proprietari invece che controllori. Secondo Della Vedova il governo non ha gestito in modo serio la situazione, in quanto “ci sono stati proclami sudamericani. Si era inizialmente parlato di revoca, poi ci si è accorti che, siccome l'Italia è uno stato di diritto, una revoca ideologica fatta senza alcuna base giuridica avrebbe comportato un costo enorme per i contribuenti. Bisognava da subito accertare le responsabilità, punirle e far pagare fino all'ultimo centesimo i danni provocati". Al momento sembrano più gli scontenti.

Andrea Bassi Rosario Dimito per “il Messaggero” il 16 luglio 2020. Non c'è la revoca. Non c'è una nazionalizzazione in stile Ilva, dove la famiglia Riva è stata estromessa senza contropartite. L'accordo di ieri notte prevede che lo Stato si ricomprerà le autostrade da Atlantia, la società controllata dalla famiglia Benetton. Ieri il titolo di quest'ultima è voltato in Borsa, facendo un più 26%. A cosa ha brindato il mercato? Se quella decisa ieri è una compravendita, l'elemento più importante è il prezzo. Quanto pagheranno la Cassa depositi e prestiti e i soci istituzionali per rilevare la maggioranza di Autostrade? Fino a 48 ore fa, il mercato valutava Aspi poco meno di 5 miliardi. Dunque chi ha comprato azioni a mani basse ieri, si aspetta che il prezzo finale sarà più alto di questa cifra. Di quanto, è presto per dirlo. «Aspettiamo una decina di giorni per fare qualunque commento, auspicando che si formalizzi l'accordo», ha commentato Gianni Mion, presidente di Edizione, la cassaforte in cima alla catena Atlantia e manager di lungo corso del gruppo Benetton. E questo la dice lunga sul fatto che le bocce ancora non si sono fermate in una partita dove la famiglia di Ponzano Veneto è stata costretta a farsi da parte, ma non estromessa del tutto, come aveva minacciato Giuseppe Conte. Il prezzo, si diceva. Verosimilmente sarà oggetto di un braccio di ferro perché nel 2017 Aspi è stata valutata 14,8 miliardi, mentre le trattative partite già da tempo con F2i e Cdp si basavano su una valutazione di 9-10 miliardi. Che la discussione non sarà semplice, lo dimostra anche il fatto che nel comunicato finale di Palazzo Chigi la pistola, anche se ormai appare piuttosto scarica, della revoca, viene tenuta sul tavolo. Per definire il prezzo, Cdp ha bisogno di informazioni che al momento non ha. Quale sarà il prossimo quadro tariffario della nuova convenzione? Detto in altre parole, i pedaggi che incasserà basteranno a pagare i 14,5 miliardi di investimenti e a remunerare i risparmiatori postali che prestano i soldi alla Cdp? La Cassa ha la necessità di avere tutti gli elementi per portare in cda un investimento che sia «profittevole». Autostrade ha ricevuto per anni, sui suoi investimenti, un rendimento dell'11%. Ora che arriva Cdp, questo rendimento sul capitale investito verrebbe ridotto al 7% dalle nuove regole tariffarie dell'Autorità dei trasporti che il governo ha chiesto ad Aspi di adottare. Le trattative, insomma, non saranno semplici. Anche perché, per ora, è stata firmata un'intesa solo di massima. Nelle quattro pagine intestate Definizione della procedura di contestazione della Concessione, frutto di una proposta iniziale di Atlantia e Aspi integrata da un addendum, le parti si impegnano a firmare un memorandum of understanding (mou) entro il 27 luglio cristallizzando le varie fasi del percorso, già abbozzate nelle quattro pagine firmate da Bertazzo e Tomasi. «Auspicabilmente entro il 30 settembre dovrebbe essere definito e concluso sia l'aumento di capitale di Aspi a favore di Cdp per un 33% - si legge nelle carte - sia la vendita di un ulteriore 22% a investitori istituzionali di gradimento di Cdp». Tra questi potrebbe esserci BlackRock ma anche qualche grande fondazione bancaria, magari la stessa Crt che detiene il 4,9% di Atlantia: ha la liquidità e potrebbe voler presidiare l'investimento e le ricadute sul territorio. In questo primo step, l'assetto di Autostrade vedrà la cassa e i fondi al 55%, Atlantia diluita dall'88 al 37% mentre Allianz e Silk Road Fund dal 12 all'8%. Successivamente, in base all'impegno assunto, «è prevista la creazione di un veicolo societario», cioè una nuova Aspi, «e la contestuale quotazione in borsa del veicolo societario nei successivi 6-8 mesi». La nuova Aspi nascerà mediante scissione proporzionale a favore degli azionisti Atlantia: Edizione avrà l'11%, il flottante sarà al 26%, Cdp & alleati al 55%, i due soci minori con l'8%. Tutto ciò che non è specificato, a cominciare dai valori e dalla governance, sarà oggetto di trattative fra le parti. Ieri mattina il cda di Atlantia e nel pomeriggio quello di Aspi hanno preso atto dell'esito della proposta recapitata al governo. Finora dal 13 agosto 2018 a ieri, per le responsabilità del crollo del Ponte, le azioni Atlantia hanno bruciato il 41,7% del valore, pari a 8,5 miliardi di cui 2,55 miliardi a carico di Ponzano Veneto. Come avverrà l'ingresso dello Stato tramite la Cdp? In tre tempi. Dovrebbe essere nazionalizzata Autostrade per l'Italia, passando da Atlantia-Benetton sotto il controllo di una cordata guidata da Cdp. E' l'esito maturato alle 5,30 di mercoledì 15, a Palazzo Chigi, dopo un negoziato no-stop telefonico di sei ore fra i ministri Roberto Gualteri, Paola De Micheli, e i manager Carlo Bertazzo e Roberto Tomasi. Finisce così la vicenda scoppiata con il crollo del ponte e le 43 vittime e proseguita per due anni con la croce messa addosso ai Benetton. Ora si apre una stagione definita sulla carta, ma tutta da scrivere nei contratti con le incognite legate alla politica. Tra gli obiettivi dell'operazione, come descritti nella proposta inviata da Aspi e Atlantia a Palazzo Chigi, «figura la necessità di assicurare la necessaria trasparenza tramite un'operazione di mercato, per dare garanzie agli stakeholders di Atlantia e Autostrade, compresi gli investitori istituzionali e retail, nazionali ed esteri».

(ANSA il 15 luglio 2020) - L'uscita dei Benetton da Autostrade per l'Italia e l'ingresso dello Stato richiede procedure "che si misurano nell'arco di un anno: entro settembre ci sarà un primo passaggio molto rapido di perdita di controllo". Così il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli.

(ANSA il 15 luglio 2020) - Piazza Affari infrange un nuovo diaframma in Piazza Affari, dove guadagna il 25,69% a 14,28 euro, riportandosi ai livelli dello scorso 8 luglio. Recuperati gli 1,7 miliardi di euro persi lunedì scorso (-15,19% a 11,36 euro) dopo la bocciatura del presidente del consiglio Giuseppe Conte alla proposta da 3,4 miliardi di euro di Aspi. Un calo, quello di lunedì, superiore a quello registrato tra il 4 e il 18 marzo scorsi, quando il titolo era precipitato fino a 9,82 euro a seguito dei dati di traffico autostradale e aeroportuale per l'emergenza Covid. Il balzo odierno supera la debacle del 16 agosto 2018 (-22,25%) all'indomani del crollo del Ponte Morandi, ma con un prezzo ben al di sotto dei 18,3 euro di allora.

(AWE/Finanza.comil 15 luglio 2020) - Milano in corsa grazie anche a speranze sul vaccino anti-Covid e ai conti oltre le attese di Goldman Sachs che hanno alimentato gli acquisti anche a Piazza Affari. Il Ftse Mib ha superato di slancio quota 20mila chiudendo a 20.281 punti, in salita del 2,02%. Bene anche lo spread che si mantiene stabile a 165 punti base, con il rendimento del decennale italiano si attesta all'1,2% sul mercato secondario. Altra spinta al mercato italiano è la fumata bianca sul nodo Autostrade con l'accordo nella notte tra governo e Atlantia. Aspi passerà sotto il controllo pubblico con la progressiva uscita di Atlantia attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale riservato da parte di Cdp e l'acquisto di quote partecipative da parte di investitori istituzionali. A Milano il titolo Atlantia ha chiuso a +26,65% a quota 14,49 euro. (...)

Dagoreport il 15 luglio 2020. Chi ha vinto davvero nel duello all’ultimo ponte con i Benetton? Tutti, a partire da Conte, hanno voglia di fingersi trionfatori di una triste sceneggiata durata due anni. Il volpino di Palazzo Chigi ha prima proclamato che quello di Aspi è “un altro dossier ricondotto alla ragione” ma poi si è affrettato a precisare che l’accordo faticosamente raggiunto ieri notte, tra governo e Benetton, "andrà tradotto nei prossimi giorni in un accordo chiaro e trasparente". La verità che “Giuseppi” prima ha alzato la cresta e poi ha dovuto abbassarla, perdendo la faccia. Nell’intervista al “Fatto”, parlando con il suo mentore e grillo parlante Marco Travaglio, aveva baldanzosamente minacciato: “I Benetton ci prendono in giro, così sarà revoca”. E commentando l’irricevibile proposta del gruppo aveva rincarato: “Per me c’è una sola scelta e ce l’hanno imposta loro”. Ma alla fine della pantomina, dopo tanto ciarlare, diurno e notturno, la revoca non c’è stata. Il bau bau di Conte, camuffato come un qualunque scamisados alla Di Battista, è stato apparecchiato non solo per compiacere Travaglio e la linea intransigente del “Fatto”, ma il vero obiettivo era di sorpassare a sinistra il Poltronificio Di Maio per sistemarsi politicamente alla guida del Movimento. Tra l’altro questo scappellamento intransigente e propagandistico di Conte Casalino è arrivato mentre Luigino incontrava Gianni Mion, presidente di “Edizione” e uomo di fiducia della famiglia di magliari veneti, per intavolare una trattativa già apparecchiata da Paola De Micheli. E alla fine la sceneggiata di Conte, come al solito, si è risolta in una ennesima presa per il culo. Intanto, la fatidica parola “revoca” non c’è, sostituita da trattativa. E stamattina la “vittoria” di Conte-Travaglio è stata così accolta in Borsa: il titolo di Atlantia ha guadagnato il 25,69% riportandosi ai livelli dello scorso 8 luglio e recuperando 1,7 miliardi persi lunedì scorso. Perché, accantonando la fatidica revoca, si è evitata la palude di un lungo e incerto strascico legale e giudiziario. E finché c’è trattativa, per i Benetton c’è speranza. Infatti, i giornaloni che sostengono che sarà Cassa depositi a entrare in Autostrade, ma nessuno specifica in quanto tempo. Non basta: non c’è nessun indizio su quanto sarà costretta a sganciare Cdp per rilevare le quote della famiglia Benetton. Ancora: nessun accenno entro quanto tempo verrà sostituito il management di Autostrade per l’Italia (Aspi) e da chi? Infine, nessuno ha un’idea chiara e date precise su come e quando Aspi diventerà una public company. Il ministro dello sviluppo economico, Patuanelli, ha spostato l’orizzonte molto in là: “L'uscita dei Benetton da Autostrade per l'Italia e l'ingresso dello Stato richiede procedure che si misurano nell'arco di un anno: entro settembre ci sarà un primo passaggio molto rapido di perdita di controllo". Segnate in agenda: si parla di un anno, almeno. Qual è la “morale della fava”? Scongiurata la tanto minacciata revoca, ora ci si siede a tavolino e partirà una trattativa lenta, lunga, cavillosa in cui ognuno tirerà l’acqua al suo casello. Ma se Conte ha perso la faccia e il ciuffo per aver fatto il duro, ora può riaccomodarsi in poltrona.

Da corriere.it il 15 luglio 2020. «Ieri è successo qualcosa di assolutamente inedito nella storia politica italiana. Il governo ha affermato un principio, in passato calpestato: le infrastrutture pubbliche sono un bene pubblico prezioso, che deve essere gestito in modo responsabile, garantendo la piena sicurezza dei cittadini e un servizio efficiente». Il premier Giuseppe Conte commenta così l’intesa raggiunta sul dossier Aspi all’alba, al termine di un delicatissimo Consiglio dei ministri. E poi: «È stata scritta una pagina inedita della nostra storia. L’interesse pubblico ha avuto il sopravvento rispetto a un grumo ben consolidato di interessi privati.Ha vinto lo Stato. Hanno vinto i cittadini», aggiunge. Quanto concordato ieri notte nel corso del Consiglio dei ministri tra governo e Benetton «andrà tradotto nei prossimi giorni in un accordo chiaro e trasparente. Questa è l’unica strada che potrà impedire la revoca della concessione». Con l’intesa su Aspi, aggiunge il premier, «avremo tariffe più eque e trasparenti, più efficienza, più controlli, più sicurezza». E infine: «Non spetta al governo accertare le responsabilità penali per il crollo del Ponte Morandi. Questo è compito della magistratura e confidiamo che presto si completino questi accertamenti in modo da rendere giustizia a tutte le vittime di questa tragedia». Perché « ha vinto il rispetto della memoria delle 43 vittime del crollo del Ponte Morandi», aggiunge. «Torna agli italiani ciò che è sempre stato loro, cioè una infrastruttura importante come quella autostradale». Lo ha detto il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli interpellato sull’accordo raggiunto stanotte in consiglio dei ministri tra governo e famiglia Benetton su Autostrade. «È un risultato che solo questo governo poteva portare a casa, soprattutto questo presidente del consiglio. Questa notte — aggiunge il ministro Patuanelli — è stata una notte importante non solo per il governo ma per tutto il Paese, per le vittime del Ponte Morandi, la giustizia la farà la magistratura, ma dal punto di vista etico e politico non potevano lasciare la gestione di autostrade a chi ne ha causato il crollo di una parte importante. Credo che sia un risultato che va affinato nelle prossime ore ma ritengo che sia giusta la presenza dello Stato, il M5S lo dice da sempre: la privatizzazione delle autostrade è stato un suicidio economico oltre che gestionale». E infine: «Siamo soddisfatti, perché abbiamo sempre detto di togliere la gestione autostradale si Benetton, questo è un passaggio importante di quello che è successo stanotte». Trionfante nei toni anche il leader reggente del Movimento: «I Benetton escono da Autostrade per l’Italia ed entra lo Stato: quel che andava fatto è stato fatto — commenta Vito Crimi —. Le istituzioni hanno esercitato fino in fondo il loro ruolo, affinché l’interesse pubblico prevalesse sul privato. Abbiamo ottenuto un risultato straordinario, reso possibile solo grazie alla incrollabile determinazione del Movimento 5 Stelle, che inizialmente qualcuno considerava “follia”». Sulla stessa linea c’è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (M5S): «I Benetton hanno accettato le condizioni del governo — commenta l’ex leader del Movimento —. Lo Stato diventerà il primo azionista di Autostrade, la famiglia Benetton avrà meno del 10% delle quote ed entro qualche mese uscirà definitivamente da Aspi. Questo significa che i Benetton non gestiranno più le nostre autostrade. Era il nostro principale obiettivo. E ce l’abbiamo fatta». E poi: «Dopo molte battaglie, lasciatemi dire che è un ottimo risultato. Impensabile fino a un anno fa, quando nella precedente esperienza di governo c’era chi continuava ogni giorno a mettersi di traverso». Il segretario del Pd Nicola Zingaretti dà totale appoggio alla decisione dell’esecutivo: «Le scelte e i risultati del governo sulla vicenda Aspi sono molto positivi per l’Italia — commenta il leader dem —. La sicurezza e l’interesse pubblico prima di tutto. È stato premiato il lavoro di squadra: la fermezza del premier Conte che ha indicato una strada, il grande impegno di tutti i ministri del Governo, la collaborazione fattiva di tutte le forze di maggioranza anche nei passaggi più difficili». Dura la replica della Lega: «Nessuna revoca (come promesso dai 5Stelle) — tuona il leader del Carroccio, Matteo Salvini —, tanti altri soldi pubblici spesi e, anche oggi, cantieri fermi e le solite code, in Liguria e in mezza Italia. Incapaci o complici?». Molto critica anche la reazione di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia: «Su Autostrade è finita a tarallucci e vino, con un percorso solo immaginato e ancora tutto da fare, da qui a un anno è facile che il governo non sia nemmeno più lo stesso e con il Pd a controllare il ministero dei Trasporti, i Benetton possono dormire su due guanciali. Il contratto capestro stipulato a fine anni ‘90 rimane tale, sulle infrastrutture strategiche continuano a banchettare le oligarchie di casa nostra e gli stranieri. In pratica, hanno evitato la revoca ad Autostrade, «con il favore delle tenebre»».

Autostrade allo Stato, ma l'affare lo fanno i Benetton. Federico Novella il 15 luglio 2020 su Panorama. Nella prima mattina dopo il faticoso accordo in Consiglio dei Ministri, le azioni di Atlantia sono volate alle stelle in Borsa. Segno che secondo il mercato, cioè secondo quelli che muovono i soldi veri, la partita delle Autostrade è stata vinta dai Benetton. A dispetto delle dichiarazioni trionfalistiche di queste ore, "pugno duro di Conte contro la famiglia di Treviso", ci sia perlomeno consentito il beneficio del dubbio su chi ha sferrato il pugno, e chi l'ha incassato. Sicuramente la sberla la prenderanno i contribuenti italiani, visto che quella che doveva essere una cacciata è diventata praticamente un salvataggio. Altro che revoca della concessione: siamo di fronte a null'altro che un ottimo affare per gli azionisti. Anziché pagare per il crollo del ponte Morandi, i Benetton saranno pagati dallo Stato per la cessione delle quote di controllo, eviteranno il default e resteranno comunque nella proprietà. Non sembra esattamente una bastonata, dal momento che stiamo parlando di una tragedia costata la vita a 43 persone a causa di una mancata manutenzione. D'altro canto lo Stato, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, con i nostri soldi, si accinge a comprare una società zeppa di debiti. E almeno in un primo momento dovrà sborsare una montagna di denari per rattoppare le autostrade, curare l'ammodernamento della rete, abbassare i pedaggi e magari risarcire le vittime del crollo del ponte. Se questo è un capolavoro, figuriamoci le fregature. E tutto con buona pace dei cinquestelle, che dopo essersi giocati la faccia sulla Tav, si preparano a trangugiare una dose da cavallo di Tavor sulla pratica Benetton, provocando ulteriori scosse telluriche sulla tenuta dell'esecutivo. Quanto ci costerà l'ingresso di Cdp in Autostrade, nel lungo percorso che dovrebbe sfociare nella public company? Fondamentalmente non lo sappiamo, e non è un particolare da poco. Oggi facciamo finta di nulla – come se sguazzassimo nei soldi – ma è proprio sull'entità del conquibus che si giudicherà il senso dell'operazione: servirà del tempo per calcolare il valore della rete, e potranno esserci brutte sorprese per le tasche dei cittadini quando si tireranno le somme. E poi: quanto tempo occorrerà per portare a compimento il piano partorito in fretta e furia alle prime luci dell'alba, dopo due anni di colpevole immobilismo governativo? Settimane, mesi, anni? E quale compagine dirigenziale sarà chiamata a gestire la società? Sono tutte domande senza risposta: ci raccontano di aver trovato in una notte la formula magica che risolve per sempre la questione autostrade, come il famigerato "Si può fare!" del dottor Frankestein. Ma il percorso è disseminato di buche. Sarebbe stato meglio affrontare la faccenda per tempo, senza ridursi all'ultimo minuto, alla luce del sole: non certo avvolti nelle tenebre d'una notte di mezza estate.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 16 luglio 2020. Per capire chi abbia vinto o perso nella battaglia di Autostrade è sufficiente guardare come ha reagito la Borsa. Dopo la diffusione della notizia dell'accordo trovato in extremis nella notte fra martedì e mercoledì, le azioni di Atlantia, la holding della famiglia Benetton che ha in pancia Aspi, cioè la concessione oggetto della guerra con il governo, sono schizzate all'insù, toccando il record del 26,6 per cento. I titoli nei giorni precedenti erano scesi di molto e a un certo punto, quando Giuseppe Conte aveva minacciato di procedere alla «caducazione», il mercato non era riuscito neppure a fissare un prezzo, come se gli investitori si volessero liberare in fretta di quelle azioni. Dunque, la logica induce a pensare che di fronte alla notizia del passaggio di Autostrade a Cassa depositi e prestiti, la Borsa abbia tirato un respiro di sollievo. Anzi, abbia capito che i Benetton sono i veri vincitori della partita e per questo fondi e speculatori si sono buttati a comprare i titoli di Atlantia. Del resto, non ci vuole molto a capire che dietro al trionfalismo con cui Palazzo Chigi ha presentato l'intesa si nasconde in realtà una vera e propria disfatta del governo. Dopo aver annunciato per mesi intenzioni bellicose, l'esecutivo si è limitato a comunicare che, tempo sei mesi o un anno, si procederà alla riduzione della quota detenuta dai Benetton dentro Autostrade, in modo da trasformare Cassa depositi e prestiti nel principale azionista. Di fatto si tratta di una nazionalizzazione di Autostrade, ma ciò che appare evidente è che il passaggio dal proprietario privato a quello pubblico non sarà senza indennizzo, ma anzi potrebbe costare una cifra esagerata per le casse dello Stato. Il nocciolo della questione, del resto, è sempre stato questo fin dal 14 agosto di due anni fa, cioè quando di fronte all'indignazione dell'Italia intera Giuseppe Conte annunciò che avrebbe tolto ai Benetton la concessione autostradale, senza neppure attendere la pronuncia della magistratura. Cacciare la famiglia di Ponzano avrebbe fatto scattare le pesanti penali previste dal contratto stipulato con lo Stato, consentendo ai magliai veneti di portarsi a casa 23 miliardi, una cifretta mica male per chi era indirettamente accusato di non aver vigilato sulla sicurezza della rete ricevuta in gestione dallo Stato. Per evitare di pagare il risarcimento, tempo fa il governo cambiò la clausola, scendendo da 23 a 7 miliardi, ma il blitz è stato contestato dai Benetton i quali, non senza ragioni, sostengono che non sia possibile cambiare un contratto dopo averlo sottoscritto. Ora però, leggendo ciò che hanno annunciato Conte e compagni, sembrerebbe che i Benetton ci abbiano ripensato e siano pronti a cedere su tutta la linea e cioè a rinunciare al braccio di ferro con il governo, agli aumenti dei pedaggi e anche a pagare pegno e cioè a risarcire lo Stato con 3,4 miliardi. A leggere le condizioni imposte messe in rete da Palazzo Chigi, certo non ci sarebbe alcun motivo per festeggiare e gli investitori non ne avrebbero nessuno per comprare le azioni di una società che rischia di pagare a caro prezzo la partecipazione di Autostrade, cioè privata del suo asset più redditizio e pure costretta a indennizzare lo Stato.Ma in realtà le cose non stanno così, prova ne sia che Enrico Zanetti, ex viceministro dell'Economia ai tempi di Matteo Renzi, ha subito capito dove stesse il trucco. Il governo, annunciando di aver raggiunto l'intesa che costringe i Benetton a scendere all'11% in Autostrade, si è infatti dimenticato di spiegare quanto pagherà alla famiglia dei maglioni a colori Cassa depositi e prestiti. E allo stesso tempo non ha spiegato chi finanzierà gli investimenti previsti per la messa in sicurezza della rete autostradale e chi si farà carico dei debiti pregressi. Da Palazzo Chigi si sono limitati a comunicare che, tempo un anno, e Autostrade sarà scorporata da Atlantia, Cdp diventerà l'azionista di maggioranza con il 51%, mentre i Benetton saranno diluiti all'11 grazie all'ingresso di investitori istituzionali, che molto probabilmente altri non saranno che il fondo F2i, di cui per altro Cassa depositi e prestiti detiene il 14%. In pratica, Cdp si fa carico del problema: ma come? Cioè quanto pagherà ai Benetton? C'è chi dice che la cifra non sarà di quelle da far paura. Possibile. Perché a far paura sarà il debito che Atlantia trasferirà al nuovo ramo d'azienda e gli impegni finanziari per oltre 14 miliardi. Uscendo dall'azionariato è vero che i magliai non saranno più padroni di Autostrade, ma non avranno più né debito né obblighi, perché i guai rimarranno tutti in capo allo Stato. Ciò significa che alla fine i Benetton, che per anni hanno incassato lauti dividendi, escono senza pagare il conto. Chiaro dunque perché la Borsa festeggi? Festeggeremmo anche noi se ci fossimo alleggeriti di una montagna di problemi rimanendo liquidi. Gli unici che però non hanno motivo di festeggiare sono gli italiani, che si ritrovano cornuti e mazziati.  

Toccherà agli italiani pagare i debiti dei Benetton. Nino Sunseri il 16 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Vola Atlantia in Borsa dopo l’accordo raggiunto con il governo per il riassetto di Autostrade che prevede la progressiva uscita della holding della famiglia Benetton dal capitale. Il titolo per tutta la giornata ha marciato a grande velocità ampliando il rialzo minuto dopo minuto. Alla fine ha guadagnato circa il 25% a 14,4 euro annullando le perdite degli ultimi giorni. Un gran sospiro di sollievo perché è stato scongiurato (anche se non del tutto annullato) il rischio della revoca che avrebbe travolto tutto il gruppo. Ma dietro questo rialzo c’è dell’altro. Perché forse, a guardar bene il vero affare lo hanno fatto proprio i Benetton. In un colpo solo si sono liberati di una società che l’avarizia della loro gestione ha ridotto in condizioni non certo ottimali. Perché non ci sono solo le 43 vittime del Ponte Morandi ma anche i 40 ragazzi morti ad Avellino a causa di un pullman con i freni rotti caduto in un burrone. I periti del Tribunale hanno stabilito che una maggiore solidità delle barriere avrebbe sicuramente limitato i danni. Ma non finisce qui. I Benetton restituiscono allo Stato un’azienda fortemente indebitata e con prospettive reddituali decrescenti visto che dovrà tagliare i pedaggi (almeno il 5% in prima battuta) e aumentare considerevolmente gli investimenti e gli indennizzi al territorio. Il forte rialzo di Atlantia nell’aridità di una quotazione di Borsa contiene tutti questi messaggi positivi per i soci di Atlantia. L’intesa raggiunta nella notte a Palazzo Chigi prevede, in estrema sintesi, l’ingresso di Cdp nel capitale di Aspi con una partecipazione del 33% attraverso un aumento di capitale da tre miliardi, la successiva vendita da parte di Atlantia del 22% della concessionaria a investitori istituzionali (graditi a Cassa) per una cifra che deve essere ancora stabilita. Atlantia manterrà una quota dell’11% che potrà monetizzare nella successiva quotazione in Borsa di Autostrade per concentrarsi sulla gestione degli aeroporti (a cominciare da Fiumicino e Ciampino) e sulle attività all’estero. In queste condizioni non è certo un azzardo dire che la furia ideologica impressa dai Cinquestelle a tutta questa vicenda finirà per accollare allo Stato un costo esorbitante. A cominciare dall’enorme debito di Autostrade la cui garanzia miliardi passerà da Atlantia ai nuovi proprietari. A fotografare la situazione è Standard & Poor’ s. Il debito di Aspi, secondo la più nota agenzia di rating mondiale, ammonta a circa 9,8 miliardi di euro, inclusi 7,7 miliardi di obbligazioni di cui 3,9 miliardi garantiti da Atlantia (e domani dalla nuova proprietà). Autostrade ha poi 2,1 miliardi di linee di credito, cui si sommano i 900 milioni messi a disposizione sempre dalla controllante Atlantia, il 24 aprile scorso, a copertura dei fabbisogni finanziari nel piano di cassa per il periodo 2020-2021. E così siamo già abbondantemente sopra i 10 miliardi. E poi ci sono i 7,5 miliardi che il governo ha chiesto fra investimenti e manutenzione sulla rete, destinati a mettere in sicurezza ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie, pavimentazioni, barriere di sicurezza. Aggiungiamo il taglio dei pedaggi che farà evaporare almeno 150 milioni di incassi l’anno. Nel calcolo bisogna aggiungere le risorse con cui F2i, Cassa Depositi e i loro alleati dovranno sottoscrivere l’aumento di capitale destinato a portarli in maggioranza. Quanto dovranno investire? Di cifre si comincerà a parlare solo dopo il 27 luglio. Nel frattempo sappiamo che i soci di minoranza di Autostrade (Allianz, Edf, Silk Road) nonostante il pandemonio dell’ultimo mese hanno mantenuto invariato , nell’ultimo aggiornamento di bilancio, il valore di libro delle loro partecipazioni che attribuisce ad Aspi un valore complessivo di 11,4 miliardi. Alla fine il conto per riportare sotto l’ala dello Stato i 2854,6 chilometri di rete in concessione ai Benetton, rischia di essere molto salato. Non meno di 20 miliardi di euro, fra debiti, investimenti in ammodernamento e manutenzione, tagli ai pedaggi e fiche d’ingresso a carico dei nuovi soci per acquisire la quota di controllo in Autostrade . Visto che alla fine paga lo Stato è naturale la soddisfazione dei protagonisti. I Cinquestelle perché Autostrade non sarà più classificabile come parte gruppo Benetton. L’anima “trattativista” del Pd (Gualtieri e De Micheli) che ha ottenuto quello che voleva. Il premier Conte che avrà il suo successo: il 10 giugno all’inaugurazione del nuovo Ponte di Genova potrà dire che lo sta riconsegnando ad Autostrade ma non più ai Benetton.

Tutte le balle di Di Maio sui Benetton e sul Morandi. Prima prometteva la revoca della concessione, poi ha cambiato linea. E ha tradito le promesse ai familiari delle vittime. Domenico Ferrara, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale.  In politica l'opportunismo è un frutto buono per tutte le stagioni. Ne sa qualcosa il ministro Luigi Di Maio che sul caso Benetton è passato da incendiario a pompiere. Il tutto senza ammetterlo però. Perché è qui che sta l'apice della paraculaggine. Dopo aver urlato, minacciato e promesso la revoca della concessione, oggi che la revoca non è andata in porto rilascia al Corriere della Sera un'intervista che presenta dei tratti quasi parossistici. "Beh i Benetton fuori da Autostrade non mi sembra di certo un favore. Certo, serve realismo perche è una operazione di mercato e non è la revoca", dichiara Di Maio. Ma come mai non ha usato la stessa dose di realismo quando col pugno duro dava per certa la revoca? La farsa poi continua quando sostiene: "Guardi che non è un caso che io nelle ultime settimane non abbia parlato di revoca, quindi posso capire che qualcuno nel Movimento 5 Stelle poteva vantare aspettative diverse, ma il presidente del consiglio ha avviato un negoziato per ottenere un risultato, che come le ho già detto io ritengo soddisfacente". Quindi ora Di Maio si accontenta e scarica le responsabilità sul premier? Infine l'apoteosi del voltagabbanismo. Alla domanda: "Ma lei avrebbe preferito la revoca oppure no?", la risposta è: "Sarò per la revoca se questa operazione non porterà un abbassamento delle tariffe e più sicurezza per gli italiani". Insomma, abbiamo scherzato. La revoca non è più un mantra né un grido di battaglia per mostrare la forza del Movimento 5 Stelle. Sembra quasi che Di Maio si sia democristianizzato. Eppure non serve andare troppo indietro nel tempo per rileggere alcune dichiarazioni non proprio moderate. Qualche esempio? Il 16 agosto 2018 il pentastellato affermava: "La nostra intenzione è revocare la concessione ad Autostrade per l'Italia. La posizione del governo è che chi non vuole revocare le concessioni ad Autostrade deve passare sul mio cadavere. C'è un volontà politica chiara. Noi non solo utilizzeremo tutta la procedura per revocare le concessioni, ma daremo anche la multa fino a 150 milioni di euro. Se ci faranno ricorso andremo in tribunale, ma andremo fino in fondo". In quel mese il grillino fa un annuncio al giorno. E tutti dallo stesso tenore: "L'unica strada che il governo seguirà è quella di andare avanti con la procedura di revoca. Le loro scuse servono a poco e non vi è modo di alleviare le sofferenze di una città distrutta dal dolore. Abbiamo fatto una promessa ai familiari delle vittime e a tutti i cittadini rimasti coinvolti nella tragedia di Genova e la onoreremo andando fino in fondo". A distanza di un anno, siamo nel luglio 2019, la musica non cambia. "Su Atlantia c'è una relazione del Mit che parla chiaro, adesso bisogna avviare la procedura di revoca delle concessioni autostradali. Per me devono avere giustizia i morti del ponte Morandi e le loro famiglie". Nel settembre 2019 la sicumera di Di Maio addirittura aumentava sollevata da una sorta di condivisione di strategia da parte del Pd: "Su autostrade andiamo avanti con la volontà di revocare le concessioni ai Benetton, ad un'azienda che non ha mantenuto il ponte Morandi e addirittura ha nascosto le carenze manutentive: mi fa piacere che pure per il Pd questa parola non sia più un tabù". A una iniziativa di Rousseau, il grillino rassicurava la platea di iscritti e amministratori M5s: "Avete visto quello che si è scoperto ieri su ponte Morandi: perizie, documenti falsati, arresti. Spesso ci dite: ma quella cosa non l'avete fatta piu, non è vero! L'iter per la revoca è partito mesi e mesi fa, ma è un iter che bisogna percorrere con molta attenzione per arrivare all'obiettivo". Il 21 novembre Di Maio ci crede ancora: "È un anno che cerchiamo di togliere le concessioni, c'è una battaglia legale, la vinceremo". Anno nuovo stesse promesse. Siamo a gennaio 2020 e Di Maio insiste: "Nel milleproproghe abbiamo inserito la norma sulle concessioni autostradali. Questo decreto dice finalmente che si avvia un percorso per alcune infrastrutture che ci permette di revocare le concessioni ai Benetton". Poi piano piano l'attenzione verso la vicenda scema. Di Maio ne parla poco o quando lo fa usa termini meno perentori. È il preludio di quello che verrà. Delle promesse non mantenute e della vittoria di Pirro, almeno se si considerano le parole del grillino. Alla fine a pagare saranno solo i familiari delle vittime, illusi ancora una volta dalla politica, soli e abbandonati nella loro tragedia.

(ANSA il 16 luglio 2020) - "Autostrade ha un debito complessivo di circa 10 miliardi e, di questi, circa 2 miliardi sono con la Cassa depositi e prestiti. Ne consegue, configurando in qualche modo un paradosso, che Cdp, entrando nel capitale di Aspi (Autostrade per l'Italia) si ricomprerà un suo debito". Lo ha detto il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, durante la trasmissione Coffee Break su La7. Sileoni ha spiegato che "il prezzo di vendita di Aspi, che è il nodo più importante, è ancora tutto da definire, per capire chi ha vinto e chi ha perso. A oggi non è stato fissato il prezzo delle nuove azioni al quale saranno vendute sul mercato. Il valore, infatti, è un rebus. Secondo alcune valutazioni, si dovrebbe attestare fra i 5 e 10 miliardi, mentre i Benetton potrebbero incassare tra i 3 e i 6 miliardi. Ma per ora rimane tutto una incognita".

Quelle accuse dei grillini contro Conte: "Così ti sei piegato ai Benetton". Accuse contro il premier per il risultato finale su Autostrade: "Altro che vittoria. Prima avevi promesso la revoca, questo è un arretramento". Luca Sablone, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale. I grillini fanno il loro gioco: sanno benissimo che il risultato finale sulla questione Autostrade è del tutto diversa da quella auspicata e promessa subito dopo il crollo del Ponte Morandi, ma nonostante ciò esultano e si spacciano per eroi nazionali. La revoca però non c'è stata: dopo una faticosa e turbolenta trattativa durata tutta la notte, il dossier Autostrade si è concluso con l'uscita graduale dei Benetton e l'ingresso di Cassa Depositi e Prestiti in Autostrade al 51%. Dunque la soluzione prevede la transazione della concessione, con l'uscita della famiglia Benetton dall'azionariato di Aspi. È evidente che i pentastellati non hanno avuto l'onestà intellettuale di ammettere il loro fallimento, ma nel corso del Consiglio dei ministri non sono mancati momenti di forte tensione specialmente ai danni del premier Giuseppe Conte. Come riportato dall'edizione odierna de La Repubblica, a raggelare il presidente del Consiglio sarebbe stato Luigi Di Maio. La situazione si sarebbe scaldata in seguito alle parole pronunciate da Dario Franceschini: "Presidente, ti va dato atto che tenendo una posizione ferma hai portato a casa una vittoria per tutti". Una sorta di provocazione che avrebbe innescato immediatamente la reazione da parte del ministro degli Esteri: "Scusa, ma per noi non è una vittoria. Otteniamo un risultato importante, ma sembrerà un arretramento". L'ex capo politico del Movimento 5 Stelle avrebbe fatto notare che effettivamente nei giorni scorsi l'avvocato aveva pronunciato parole tanto dure quanto chiare, chiudendo di fatto ai Benetton: "Non saremo loro soci". Da qui sarebbe nata l'ira del titolare della Farnesina che, seppur senza nominarlo, avrebbe accusato di incoerenza il capo del governo giallorosso: "Solo due giorni fa il governo ha sostenuto pubblicamente la revoca. Io non ne parlavo da un po’, a dire il vero, ma voci autorevoli si sono espresse a favore. Abbiamo alzato l’asticella, poi la tiriamo giù". Di Maio si sarebbe lasciato poi andare a un ulteriore affondo, preoccupato dal malcontento della base grillina a cui era stata promessa la revoca a tutti i costi: "Molti tra i nostri non capiranno. I Benetton restano soci, mentre ci eravamo impegnati con gli italiani per la revoca. Lo so che tra un anno usciranno, ma intanto noi dovremo sopportare le critiche". Pertanto ha chiesto un favore: "Da domattina cercheremo di spiegare noi al nostro mondo cosa è successo, lasciateci fare". Come a dire: Giuseppe, fatti da parte che a risolvere i problemi in casa nostra ci pensiamo noi.

Danilo Toninelli preso a pesci in faccia anche dal Fatto di Travaglio: "Autostrade vittoria sua e del M5s? Ma da ministro, anche lei..." Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Ormai Danilo Toninelli è diventato un disco rotto su Autostrade per l’Italia. Qualsiasi sia la domanda, lui risponde che l’accordo che estrometterà i Benetton da Aspi è una vittoria del premier Giuseppe Conte e del Movimento 5 Stelle. Per tutti gli altri solo insulti e pernacchie, a partire dalla ministra Paola De Micheli: se la vicenda ha avuto esito positivo, il merito è anche suo. Ma non la pensa così Toninelli: “Ha fatto passare un anno prima di chiudere la trattativa, pur avendo tutti gli elementi e le condizioni per farlo”. Come se da sola potesse decidere su una questione così grande: come al solito il grillino vive sulla luna. E persino il Fatto se ne accorge intervistandolo su Autostrade. Al di là dell’auto esaltazione (“nel mio anno da ministro ho posto le basi per la revoca”), Toninelli inciampa su un dettaglio: il Fatto gli fa notare che lui, proprio come la De Micheli che tanto critica, aveva preparato una lettera per affidare nuovamente il ponte ad Aspi. Ovviamente l’ex ministro grillino ha glissato l’argomento, bollandolo come “stupidaggini”. 

Danilo Toninelli, Alessandro Sallusti: "Tontolone, esulta contro i Benetton come un ubriaco molesto". Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Alessandro Sallusti non è per niente fiducioso su Autostrade per l’Italia. Scongiurata la revoca, pur di estromettere la famiglia Benetton la società finirà nelle mani dello Stato. “Che Dio ce la mandi buona”, è il commento del direttore de Il Giornale, che ricorda i precedenti infelici dell’Ilva e di Alitalia. Giuseppe Conte ha deciso di evitare lo scontro frontale e ha trovato un modo per accontentare il M5s che, revoca o non revoca, ambiva soltanto a far fuori i Benetton: “L’hanno capito tutti che è finita così, tutti meno il tontolone Danilo Toninelli, il ministro per caso che innescò tutto questo casino. Ci è voluto un anno per ricomporre in qualche modo i cocci, ma lui essendo tontolone ieri esultava come neppure un ultrà al gol decisivo nella finale di Champions”. Sallusti si riferisce a quel “abbiamo vinto, pagano i Benetton”, che l’ex ministro grillino ha urlato a gran voce sui social: “Sarebbe un incidente da derubricare a fatto di ubriachezza molesta se Toninelli non incarnasse un’anima ancora ben presente nei 5 Stelle e quindi nel governo. Cioè l’anima della politica dell’odio, della vendetta sociale, della frustrazione e dell’incapacità di risolvere i problemi pensando alle conseguenze dei propri atti”. 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 16 luglio 2020. Toninelli è tornato, disponibile in versione da asporto alla Camera, dove ha dato educatamente del vile all'ex compare di governo Salvini, e in un più pratico formato casalingo grazie a un video che già si candida a reperto di un'epoca. Chiunque abbia conosciuto i tormenti e le fissità metafisiche di questo rivoluzionario incompreso non può che gioirne con noi, riguardando quelle immagini fino allo sfinimento oftalmico. Tony è inquadrato a mezzobusto e tace, affidandosi al linguaggio dei segni. Dapprima sventola entrambi i pollicioni, poi lascia avanzare una singola mano verso la telecamera, come se intimasse: non muovetevi. Mai attesa fu meglio premiata. Toninelli mostra un cartello, «Fuori i Benetton da Autostrade», scritto con un pennarello verde che richiama il colore primario dei loro maglioni. E ne accompagna la visione con quel gesto ondulatorio e sussultorio della mano che si usa per dire «smamma» a qualcuno. Altri ne seguono, di gesti e di cartelli, fino al definitivo «Abbiamo vinto!» corredato dalla tipica esultanza a pugni chiusi dei goleador del passato. La politica a fumetti. Da un momento all'altro ti aspetti che arrivi Braccio di Ferro e sistemi i Benetton una volta per tutte con un cazzottone dei suoi. Toninelli, e qui sta la sua vera grandezza, non lo fa per farsi capire da tutti, ma per capirci finalmente qualcosa lui. E sa benissimo che i Benetton sono ancora dentro Autostrade. Semplicemente aveva finito i cartelli.

DAGOREPORT il 15 luglio 2020.A QUATTRO MESI DAL CROLLO DEL PONTE MORANDI, IL GOVERNO CONTE HA VENDUTO AI BENETTON (TRAMITE UN FONDO DI GESTIONE DI BENI PUBBLICI) UNO STORICO PALAZZONE IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA PER 150 MILIONIMENTRE CONTE E DI MAIO SEPPELLISCONO SOTTO UN PONTE I BENETTON, VIRGINIA RAGGI, INFILATI I GUANTI BIANCHI, APPARECCHIA LA VENDITA DEL GIGANTESCO E STORICO PALAZZO DI PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE FACENDO GUADAGNARE 228 MILIONI ALLA FAMIGLIA VENETA

SAPETE CHI HA VENDUTO LO STORICO PALAZZO DI PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE AI BENETTON, 4 MESI DOPO IL CROLLO DEL PONTE MORANDI? LA INVESTIRE SGR DI ARTURO NATTINO CHE GESTISCE IMMOBILI PUBBLICI. E CHI È SOCIO AL 11,6% DELLA SGR DI NATTINO? LA REGIA SRL, LA CASSAFORTE DEL RAMO FAMILIARE CHE FA CAPO A SABRINA BENETTON, FIGLIA DELLO SCOMPARSO GILBERTO, CHE DETIENE IL 20% DI EDIZIONE, LA HOLDING DEL GRUPPO (ESSÌ, IL MONDO È DAVVERO PICCOLO…)

2. IL CAMBIO DI DESTINAZIONE IN HOTEL, CON L’AMMINISTRAZIONE GRILLINA, È AVVENUTO A TEMPO RECORD, INCOMPARABILE AGLI ANNI CHE NECESSITANO AI COMUNI MORTALI: IN SEI MESI! 

3. MA COME MAI INVESTIRE SGR DI ARTURO NATTINO, CHE HA LA GESTIONE DEI BENI PUBBLICI, PER VENDERE QUESTO PALAZZO, UNICO A ROMA, NON HA FATTO UN’ASTA INTERNAZIONALE PUBBLICA? HYATT, MANDARIN, PENINSULA, ARMANI, FOUR SEASON AVREBBERO OFFERTO CERTO DI PIÙ DEI 150 MILIONI PAGATI DALL’IMMOBILIARE DEI BENETTON. MA VIENE UN DUBBIO: CHE FINE HA FATTO IL RESTO DEL PATRIMONIO PUBBLICO AFFIDATO A INVESTIRE SGR DI NATTINO UNA DECINA DI ANNI FA? A CHI È FINITO? A CHE PREZZI? AI POSTERI L’ARDUA SENTENZA…FORSE

DAGOREPORT il 15 luglio 2020. Emerge sempre più la "complessità" con cui Arturo Nattino, con Investire SGR, ha venduto a Regia Srl di Benetton (suo socio nella SGR) il gigantesco e storico palazzo di piazza Augusto Imperatore, destinato ad ospitare il nuovo Hotel Bulgari. Il cambio di destinazione, con l’amministrazione grillina della Raggi, è avvenuto a tempo record, incomparabile agli anni che necessitano ai comuni mortali: in sei mesi. Ma chi è l’uomo che ha montato e gestito la transazione? Il Castellucci dell’immobiliare di Benetton: si chiama Mauro Montagner, architetto veneziano, dal 2018 a capo del colosso immobiliare del Gruppo Benetton. Con abilità e svicolando tra i meandri della burocrazia romana, come nessun imprenditore romano riesce a fare, ha portato a casa, con la connivenza di Nattino, un tesoro ai suoi datori di lavoro: il palazzo è stato pagato 150 milioni, la nuova proprietà deve fare 50 milioni di lavori, e si arriva a 200 milioni; il canone è 15 milioni e quindi il 7.5%; un palazzo del genere, con un inquilino così prestigioso dovrebbe avere un canone del 3.5% del valore, quindi vale 428 milioni dopo i lavori. Non male come affare. Ma come mai Nattino per vendere questo palazzo pubblico, unico a Roma, non ha fatto un’asta internazionale trasparente pubblica invitando tutti i grandi operatori che anelano ad avere un hotel 5 stelle a Roma? Hyatt, Mandarin, Peninsula, Armani, Four Season avrebbero offerto certo di più dei 150 milioni pagati dall’immobiliare dei Benetton. Ma viene un dubbio: che fine ha fatto il resto del patrimonio pubblico affidato a Investire Sgr di Nattino una decina di anni fa? A chi è finito? A che prezzi? Ai posteri l’ardua sentenza…forse.

DAGOREPORT il 15 luglio 2020. PER GLI AFFARI, IL BUONGIORNO SI VEDE DAL NATTINO – QUANDO IL PATRIMONIO PUBBLICO DIVENTA UN AFFARE PRIVATO: LEGGETE L’ARTICOLO DEL 2012 DI SERGIO RIZZO SU “INVESTIRE IMMOBILIARE”, LA SOCIETÀ DI NATTINO, PARTECIPATA DAI BENETTON, CHE HA VENDUTO LO STORICO PALAZZO DI PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE AGLI STESSI BENETTON: “DAL 2012 AL 2011 HA ACCUMULATO UTILI NETTI GENERATI DALLE COMMISSIONI PER 59 MILIONI. SOLTANTO UNA DOMANDA A CHI HA AVUTO QUESTA PENSATA (PREMIER  ERA BERLUSCONI, MINISTRO TREMONTI): ERA PROPRIO NECESSARIO RIVOLGERSI A UN INTERMEDIARIO PRIVATO PER GESTIRE UN FONDO DEGLI IMMOBILI PUBBLICI?''

Estratto dell’articolo di Sergio Rizzo per “Sette - Corriere della Sera” – 28 giugno 2012. (…) Sedi storiche. È lecito interrogarsi, per esempio, sull’utilità di una operazione come quella del Fondo immobili pubblici. Di che cosa si tratta? È un fondo immobiliare costituito dallo Stato, dentro al quale sono stati infilati moltissimi immobili di pregio, in prevalenza degli enti previdenziali. Per fare un esempio, ci sono le sedi storiche Inps di Venezia e Firenze, e anche quella di Roma, in piazza Augusto Imperatore. Sono palazzi comprati con i denari dei lavoratori, il che non è certamente un dettaglio. Quel fondo pubblico è diventato dunque proprietario degli immobili degli enti previdenziali, i quali si sono trasformati da padroni in affittuari e pagano canoni profumati. Direte: ma è una partita di giro. Verissimo. Però con un particolare. Il Fip, che ha il compito di “valorizzare” e vendere se possibile quelle proprietà immobiliari statali, è gestito da una società privata. Si chiama “Investire immobiliare” ed è controllata dalla famiglia Nattino in società con la famiglia Benetton. E grazie alla gestione del Fip fa una montagna di soldi. Dal 2002 al 2011 ha accumulato utili netti generati dalle commissioni per 59 milioni e 320 mila euro. Soltanto lo scorso anno, particolarmente fiacco per il mercato immobiliare, la società di Nattino-Benetton ha piazzato 34 immobili per un introito di 195 milioni. Circostanza che ha garantito, c’è scritto nel bilancio, “commissioni nette per 3,5 milioni”. Complimenti. Soltanto una domanda a chi dieci anni fa (premier era Silvio Berlusconi e ministro dell’Economia Giulio Tremonti) ha avuto questa bella pensata: era proprio necessario rivolgersi a un intermediario privato per gestire un fondo degli immobili pubblici? Nello sconfinato panorama delle società statali, dove abbondano anche finanziarie e immobiliari, davvero non ce n’era nemmeno una alla quale affidare l’incarico? Del resto, erano gli stessi anni in cui la Consip, la società che ha il compito di limitare gli sprechi delle pubbliche amministrazioni centralizzando gli acquisti dei beni e servizi, stipulava un bel contratto d’affitto. Quello di uno stabile di 3.600 metri quadrati a Roma di proprietà della tedesca Deka: oggi paga d’affitto 2,3 milioni più Iva l’anno. Cioè 638 euro al metro quadrato al netto dell’imposta. Circa cento euro in più rispetto al canone che l’immobiliarista Sergio Scarpellini incassa dalla Camera per i famosi palazzi Marini che ospitano gli uffici dei deputati. Possibile che in tutta Roma non ci fosse un immobile di proprietà pubblica per metterci dentro la società che deve farci risparmiare? Eppure uno Stato che volesse utilizzare meglio il proprio immenso patrimonio non potrebbe che partire da qua. Imponendo che gli uffici e le società pubbliche non paghino affitti ai privati, limitandosi a occupare immobili demaniali. Intanto si risparmierebbero un sacco di soldi, e non è male. Ci credereste? A quanto pare nemmeno il ministro Piero Giarda è riuscito a scoprire quanti miliardi le pubbliche amministrazioni regalano ai privati per gli affitti.

Dagospia il 14 luglio 2020. A QUATTRO MESI DAL CROLLO DEL PONTE MORANDI, IL GOVERNO CONTE HA VENDUTO AI BENETTON (TRAMITE UN FONDO DI GESTIONE DI BENI PUBBLICI) UNO STORICO PALAZZONE IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA PER 150 MILIONI (STRANAMENTE GIÀ CON L’AUTORIZZAZIONE PER IL CAMBIO DI DESTINAZIONE D’USO PER FARCI UN ALBERGO). POCHI MESI DOPO BENETTON LO HA AFFITTATO A BULGARI PER 15 MILIONI ALL’ANNO PER DIECI ANNI, UN AFFARONE! - PECCATO CHE QUELL’IMMOBILE ERA STATO MESSO DAL GOVERNO IN UN FONDO PER LA SUA VALORIZZAZIONE. È UNA STORIA CHE RICORDA I PALAZZI COMPRATI DA SCARPELLINI E AFFITTATI AL PARLAMENTO. E ROMPONO IL CAZZO CON LE CONCESSIONI AUTOSTRADALI...

Alberto Di Majo per “il Tempo” il 15 luglio 2020. Il  primo governo guidato da Giuseppe Conte a quattro mesi dal crollo del ponte Morandi ha concesso alla famiglia Benetton un clamoroso affare immobiliare. Gli ha venduto un pezzo di Roma attraverso un fondo pubblico controllato dal ministero dell' Economia rinunciando alla prelazione dei Beni culturali. La tragedia di Genova è del 14 agosto 2018. L' 11 dicembre dello stesso anno, mentre Palazzo Chigi promette di togliere le concessioni ad Aspi, la società Edizione Property, sempre dei Benetton, acquista in via preliminare un super immobile nel centro storico di Roma per 150 milioni. Si tratta dell' enorme edificio (22 mila metri quadrati) che si trova tra piazza Augusto Imperatore, via della Frezza, via di Ripetta, via del Corea e via Soderini: il palazzo è stato costruito tra il 1936 e il 1938 su progetto dell' architetto Vittorio Ballio Morpurgo e si affaccia sull' Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto. Secondo le valutazioni delle principali agenzie immobi liari di Roma a giugno 2020 quel palazzo avrebbe un prezzo oscillante fra 187 e 210 milioni di euro, ma all' epoca della transazione i valori erano più alti. L' acquisto effettivo è avvenuto il 20 febbraio 2019 dopo la constatazione del «mancato esercizio della prelazione da parte del ministero dei Beni culturali» (guidato all' epoca da Alberto Bonisoli). Diciamo subito che l' allora ministro in quota 5 Stelle non è stato l' unico a non occuparsi della vicenda, visto che a dicembre 2019 la stessa Edizione Property spa ha comprato un altro immobile (sempre nella stessa piazza) per 120 milioni e anche allora il ministero dei Beni culturali (stavolta guidato dall' esponente dei dem Dario Franceschini) non ha ritenuto di esercitare il diritto di prelazione. Torniamo alla compravendita dell' immobile principale, che un tempo era di proprietà dell' Inps e poi, nel 2005, è finito nel Fondo Immobili Pubblici. Non è mai stato venduto, fino alla fine del 2018. Il 20 luglio di quell' anno, infatti, la società dei Benetton presenta una proposta per acquistare l' edificio. L' offerta 150 milioni. L'11 dicembre la vicenda si avvia a conclusione con la firma del preliminare di vendita e pochi mesi dopo l' operazione conclusa. Ma la storia è soltanto a metà perché il 24 luglio del 2019 Edizione Property spa decide di dare in affitto il palazzo a Bulgari. Il canone è di 15 milioni all' anno per dieci anni (rinnovabile per altri dieci): dunque, in tutto, 150 milioni. Un' operazione con i fiocchi. Un investimento immobiliare ripagato in un decennio. Nell' edificio che una volta era di proprietà dello Stato Bulgari costruirà un albergo di lusso che aprirà nel 2022. «Il nuovo Bulgari Hotel Roma occuperà uno splendido palazzo modernista degli anni '30, affac ciato su due dei tesori più emblematici della città: l'Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto, il primo imperatore romano» si legge sul sito della maison di gioielli. Ci saranno oltre 100 camere, in maggioranza suite, un bar di lusso e un ristorante stellato. «Il sapiente connubio di materiali quali il travertino color ocra e i mattoncini in terracotta celebrerà l'estetica dell'Antica Roma augustea, mentre magnifiche collezioni d' arte antica e contemporanea a rotazione impreziosiranno la struttura, evocando il ricco e sfaccettato patrimonio della città eterna, una delle città più belle al mondo, da sempre simbolo di arte e cultura». Il contratto di locazione ad uso alberghiero stipulato tra Edizione Property spa e Bulgari Roma srl è particolare: prevede un «canone minimo garantito» annuale pari, appunto, a 15 milioni più Iva «nel caso in cui il totale dei ricavi realizzato nei dodici mesi di competenza abbia ecceduto l' importo di euro 55 milioni» o un canone di 13.800.000 nel caso i guadagni siano uguali o inferiori a 55 milioni. Il contratto stabilisce, tuttavia, che per i primi trentasei mesi affitto sarà pari al 20% dei ricavi, poi del 23% e per l' anno successivo del 25% «anche in considerazione della necessità per la conduttrice di sviluppare il proprio avviamento e dell' impegno dalla stessa assunto di farsi carico dei lavori della conduttrice». E qui c' è un' altra questione rilevante. Come fa un palazzone di quel genere, nel centro di Roma, pieno di vincoli, a ottenere il cambio di destinazione d' uso per diventare un hotel? Sembrerà un' impresa titanica ad ogni albergatore o aspirante tale. Non in questo caso perché l'immobile stato venduto già con le autorizzazioni necessarie. Un affare, non c'è che dire, soprattutto se si trova in fretta qualcuno che lo affitta a un prezzo che in pochi anni ripaga l'investimento. La domanda per chiedere il permesso di costruire (protocollo QI/2016/197154) per «la trasformazione in struttura turistica» è stata presentata il 14 novembre 2016. Il Campidoglio ha dato il via libera dopo pochi mesi: il permesso n. 193 è del 31/07/2017, previa autorizzazione della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l' Area Archeologica Centrale di Roma per l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione per cambio di destinazione d' uso. Le opere hanno avuto inizio il 28 febbraio 2018 a seguito della comunicazione di inizio lavori, trasmessa via Pec dal direttore del progetto lo stesso giorno. Un' operazione legittima, ci mancherebbe. Resta sullo sfondo un interrogativo. Ma se già nel luglio del 2017 lo Stato possedeva un palazzo straordinario nel cuore di Roma con tanto di permessi per trasformarlo in albergo, perché il Fondo che doveva gestirlo non lo ha messo a reddito dandolo in affitto e mantenendone la proprietà invece che venderlo alla società del gruppo Benetton facendogli, di fatto, un regalo senza pari? Una questione che suona ancora più inquietante dopo i proclami dei due governi guidati da Conte nei confronti dell' Aspi.

Da iltempo.it il 15 luglio 2020. Lo scoop de Il Tempo sull'affare d'oro permesso ai Benetton nel centro di Roma finisce in Parlamento.  Il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, ha presentato un'interrogazione al ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, in cui chiede conto al governo dell'affare immobiliare fatto da una società della famiglia a cui lo stesso governo vuole togliere a ogni costo la concessione delle autostrade dopo la tragedia del Ponte Morandi. Anzaldi nella sua interrogazione ripercorre le tappe della vicenda riportata nell'articolo de Il Tempo a firma di Alberto Di Majo. "Secondo quanto ricostruito dal quotidiano “Il Tempo”, la società immobiliare Edizione Property, di proprietà della famiglia Benetton, avrebbe beneficiato di un redditizio affare per un immobile storico a Roma, in piazza Augusto Imperatore, affare autorizzato dal Governo Conte 1, sostenuto da M5s e Lega, proprio pochi mesi dopo la tragedia del Ponte Morandi. Nel dettaglio, a dicembre 2018 Edizione Property ha acquistato dal Fondo Immobili Pubblici per un valore di 150 milioni l’enorme immobile (22mila metri quadri) costruito tra il 1936 e il 1938 su progetto dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo, che si affaccia sull`Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto. A luglio 2019 Edizione Property ha dato in affitto l’immobile, per 15 milioni all’anno per dieci anni (rinnovabile per altri dieci), ripagando quindi interamente l’investimento. L’affittuario è Bulgari Roma srl, che trasformerà lo stabile in un albergo di lusso, destinazione d’uso il cui cambio era già stato richiesto e autorizzato dal Comune nel 2017, quindi quando l’immobile era ancora dello Stato, prima della vendita ai Benetton". E così Anzaldi chiede al dicastero del governo guidato da Giuseppe Conte: "se il ministero dell’Economia non ritenga doveroso avviare immediate verifiche sull’operazione immobiliare di piazza Augusto Imperatore, dalla quale la famiglia Benetton ha ricevuto un importante beneficio economico ad opera del governo Conte 1 sostenuto da M5s e Lega, a pochi mesi dalla tragedia del Ponte Morandi". Non solo: "Come il governo ritenga di intervenire, qualora siano ravvisate responsabilità di danni per i conti pubblici, visto che, alla luce della ricostruzione effettuata dal quotidiano “Il Tempo”, per lo Stato non sarebbe stato più conveniente mettere a reddito l’immobile e affittarlo direttamente, anche a seguito del cambio di destinazione d’uso già autorizzato, invece di venderlo ai Benetton". Insomma, fanno la voce grossa ma permettono affari d'oro. Si attendono risposte.

Daniele Autieri per la Repubblica- Roma il 19 luglio 2020. Che il brutto anatroccolo sarebbe diventato un cigno era chiaro a tutti. Ma l' ultima prova che la trasformazione di piazza Augusto Imperatore, consegnata per anni all' incuria da una politica incapace di valorizzare anche i beni più preziosi, sarebbe stata inevitabile, arriva dall' interesse della famiglia Benetton che attraverso la controllata Edizione Property ha acquistato l' ex- palazzo dell' Inps proprio di fronte al mausoleo dell' imperatore Augusto. All' apparenza una vendita tra privati anche se in realtà - a leggere il bilancio della Investire Sgr (la società di gestione del risparmio incaricata della vendita dello stabile) - il Fip ( Fondo immobili pubblici), proprietario del palazzo, è stato promosso dal ministero delle Finanze in attuazione della normativa relativa « alla valorizzazione e privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico». Se il patrimonio del Fip è pubblico ( 1,8 miliardi di euro il suo valore secondo il bilancio di Investire Sgr) e deve essere valorizzato, allora è giusto rivedere la prassi di vendita attraverso la quale il bene è stato ceduto alla Edizione Property, la società controllata da Atlantia (capogruppo della famiglia Benetton). Mentre molti si interrogano sull' equità del prezzo di vendita ( 150 milioni di euro), l' anomalia riguarda anche il doppio ruolo degli imprenditori, interessati tanto come venditori quanto come acquirenti. Investire Sgr, alla quale il Demanio ha affidato la gestione dei beni confluiti nel Fondo immobili pubblici, appare infatti come il salotto dei grandi investitori immobiliari. Anche se Banca Finnat ne detiene la maggioranza (il 50,2% delle quote), tra i principali azionisti figurano Convivio7 ( 17,9%), che fa capo al patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio, e Regia srl, controllata invece dai Benetton e che detiene il 20% di Edizione Property. In sostanza, Edizione Property acquista da sé stessa (almeno in parte) il palazzo di piazza Augusto Imperatore. Partner, consapevoli o inconsapevoli dell' operazione, diventano il ministero dei Beni Culturali che rinuncia alla prelazione sull' immobile, e il Comune di Roma che in pochi mesi risponde alla richiesta di cambio di destinazione d' uso dell' immobile. Incredibilmente rispetto ai tempi tradizionali degli uffici capitolini, la domanda di trasformazione in struttura turistica, presentata il 14 novembre del 2016, viene approvata il 31 luglio del 2017. Questo permette al nuovo proprietario, Edizione Property, di chiudere un vantaggioso accordo con Bulgari che proprio su quel palazzo intende aprire uno dei suoi lussuosi hotel, promosso dalla sindaca Virginia Raggi in persona che si è prestata a intervenire in uno spot pubblicitario mentre dialoga con l' amministratore delegato di Bulgari Jean- Christophe Babin e lancia il magnifico hotel che sarà aperto nel 2022. Per Edizione, il contratto prevede un canone di affitto di 15 milioni l' anno per 10 anni ( pari al costo dell' immobile), rinnovabile per altri dieci. Sulla possibilità di un favore fatto alla famiglia Benetton sui beni dello stato, Investire Sgr risponde sottolineando che la vendita dell' immobile ha seguito le prassi previste e che altri potenziali investitori, inizialmente interessati, si sono tirati indietro. Allo stesso modo la società ribadisce che, una volta passati al Fondo immobili pubblici, i beni attendono ad una gestione privatistica. Mentre è ancora da chiarire se anche la Corte dei Conti sarà chiamata a intervenire sulla vicenda, rimane palese l' interesse dei grandi investitori per gli immobili di pregio di piazza Augusto Imperatore. E chiuso l' affare del palazzo Inps, resta adesso da capire quale sarà il prossimo.

Da liberoquotidiano.it il 16 luglio 2020. “Conosco Luciano Benetton e lavoro con lui dal 1980, tra lui e la sua famiglia non ho mai conosciuto persone più oneste”. Oliviero Toscani è il fotografo legato ai Benetton da una lunghissima collaborazione professionale. All’indomani dell’accordo con il governo su Autostrade per l’Italia, Toscani ha parlato con l’Adnkronos e si è schierato ovviamente dalla parte della famiglia: “Nessuno si ricorda, ma nel 1999 le autostrade erano un disastro, nessuno le voleva. L’azienda andava bene, eppure lui e i suoi fratelli si addossarono Autostrade. Purtroppo, sfortunatamente succede, hanno assunto dei manager che hanno la stessa qualità dei nostri politici, sono poco seri. Gli ingegneri e i responsabili non erano all’altezza, anche se naturalmente non tutti, e ci sono andati di mezzo tutti gli altri”. Inoltre Toscani si è detto disgustato dal linciaggio mediatico ai danni dei Benetton: “È un’ingiustizia umana, Luciano ha un’integrità morale e una serietà indiscutibili”. Poi il fotografo se la prende con i detrattori della famiglia: “Adesso la gente gode a dare addosso. Questo è un paese pieno di cattiveria, frustrazione e invidia. Tutto ciò che va bene viene distrutto. Tenetevi i vari Di Battista e Di Maio e andremo lontano”.

I “regali” di Conte e del M5S ai Benetton su Autostrade. Il Corriere del Giorno il 19 Luglio 2020. Il bilancio consolidato 2019 di Autostrade ha chiuso con una perdita di 291, 3 milioni di euro, che si è mangiata un terzo degli utili accantonati negli anni precedenti a riserva. Ne restano ancora 566 milioni, ma non basteranno a coprire la perdita immaginata per il 2020, che potrebbe essere superiore al miliardo di euro. Giuseppe Conte dopo aver annunciato la revoca sulle concessioni ad Autostrade, in un’intervista sul Fatto Quotidiano al “ventriloquo” di Palazzo Chigi e cioè Marco Travaglio, l’indomani il premier non ha dato la revoca della concessione che aveva invece annunciato il giorno prima. Così facendo dodici ore dopo l’annuncio di quell’accordo i Benetton si sono trovati più ricchi di appena…..805 milioni di euro rispetto al giorno precedente. Infatti a seguito della decisione varata dal Consiglio dei Ministri il titolo Atlantia è salito in Borsa in poche ore aumentando del 26,65% , così mettendo in tasca alla sola famiglia Benetton la bellezza di 768,9 milioni di euro. Non a caso tutti i titoli quotati in Borsa delle aziende di cui i Benetton sono soci sono schizzati in alto producendo guadagni non indifferenti. Nella lunga notte di Palazzo Chigi sulla vicenda Autostrade (Aspi), in un primo momento la proposta dei Benetton di vendere l’intera partecipazione in Aspi alla Cassa depositi e prestiti (Cdp) era stata respinta  e poi approvato un piano che prevede la lenta progressiva uscita dal capitale di Aspi della società controllante Atlantia di proprietà Benetton, in favore della stessa Cdp e di nuovi investitori istituzionali. Il Governo Conte così facendo ha trovato un’intesa “facendo perdere però miliardi sul mercato a mezza Italia” come scrive il collega Franco Bechis direttore del quotidiano romano IL TEMPO”. Ora Atlantia non avrà più la partecipazione nella società Autostrade, che verrà inserita in una nuova società che in partenza avrà gli stessi azionisti attuali. Verrà varato dall’assemblea un aumento di capitale riservato a Cdp, che entrerà in parte convertendo in azioni della nuova società il miliardo di euro circa di crediti che vanta nei confronti della società Autostrade. In questa fase la partecipazione di Atlantia e quindi dei Benetton si diluirà, ma resterà ancora di controllo almeno relativo“, conclude Bechis. Il bilancio consolidato 2019 di Autostrade ha chiuso con una perdita di 291, 3 milioni di euro, che si è mangiata un terzo degli utili accantonati negli anni precedenti a riserva. Ne restano ancora 566 milioni, ma non basteranno a coprire la perdita immaginata per il 2020, che potrebbe essere superiore al miliardo di euro. Quindi se come ha deciso il governo Conte , la Cassa depositi e prestiti avrà entro la fine dell’anno la maggioranza di Autostrade per l’Italia (Aspi), spetterà allo Stato ripianare quelle perdite , e considerando che il governo vuole abbassare le tariffe così riducendo il margine operativo della società, lo Stato (cioè i contribuenti) si troverà davanti una nuova voragine di una certa importanza nei conti pubblici , che non è quell’affare della vita immaginato in maniera “ignorante” da Danilo Toninelli e dai vari grillini in festa. Mentre il ministro delle infrastrutture, Paola De Micheli (Pd) indossava i panni della “cattiva” la faccia feroce, in realtà c’era chi faceva gli occhi sdolcinati ai Benetton . La De Micheli con una sua lettera fatta trapelare alla stampa non a caso alla vigilia del consiglio dei ministri, avrà anche sollecitato il 5 marzo una decisione al premier Conte, ma quel giorno che e nelle settimane successive ha tenuto aperto un tavolo con i Benetton facendo richieste anche formali alle quali poi la società si adeguava. Come quella di alzare il livello di risarcimento dovuto dopo il ponte Morandi di Genova per il quale Aspi aveva accantonato nel bilancio 2019 la somma di 2,9 miliardi di euro. A seguito dell’accordo notte tempore con il premier Conte, quella somma verrà adesso integrata di un ulteriore mezzo miliardo arrivando a 3,4 in tutto, compresi i costi di abbattimento e ricostruzione del ponte Morandi. Sono tutti in bilancio di Aspi fra il 2019 e il 2020, quindi praticamente peseranno sulle spalle di chi ne avrà la proprietà entro fine anno, cioè Cdp e quindi lo Stato italiano. I Benetton adesso sono contenti felici di uscire da un vero e proprio inferno che non avrebbe dato loro più utili e metteva a rischio di fare saltare tutto il loro gruppo. Infatti non caso il giorno prima avevano smentito le presunte dichiarazioni contro l’esproprio subito pubblicate da qualche giornale. Perché con questo accordo si sono liberati di un grosso problema scaricandolo ben volentieri sulle spalle dello Stato. E siamo sicuri che passata la sbornia delle prime ore, in seguito Palazzo Chigi festeggerà sempre di meno. Ecco come il M5S (non) risolve i problemi del Paese pur di restare aggrappato alle poltrone del potere raggiunto, dalle quali nessuno sembra volersi distaccare. Tutto ciò sulla pelle ed a spese degli italiani. Siamo passati dall’esigenza di “privatizzare” a quella di “statalizzare”. Invece di andare avanti, mettiamo la retromarcia con grande gioia e soddisfazione dei partiti di sinistra, che sono dei veri “specialisti” nell’incrementare il debito a carico dei cittadini.

Caso Autostrade: una vergogna di Stato. Riccardo Ruggeri, 18 luglio 2020 su Nicolaporro.it. Il 20 agosto 2018, il giorno della cerimonia funebre alla Fiera di Genova, pubblicai un Cameo (sotto, una sintesi). Allora credetti di aver esagerato nell’analisi. Due anni dopo, la realtà è stata molto peggio: una vergogna di Stato. “Il rifiuto ai funerali di Stato di più della metà delle famiglie, è stato un atto culturalmente rivoluzionario. Con quel rifiuto, tutte le persone perbene (la maggioranza assoluta del paese), è come se avessero urlato “Basta!”. Si augurava che non si verificasse il solito balletto delle responsabilità. Atlantia ha “comprato” dallo Stato un business basato su: “pedaggi versus manutenzione”. Il ponte è caduto, la fatalità è tassativamente esclusa (nessun corpo celeste sul Polcevera), resta la mancata manutenzione. Cioè resta Atlantia, in termini di responsabilità civile (il penale riguarda i singoli, teniamolo fuori). Percorrere in auto un’autostrada a pedaggio e cadere in un fiume perché il ponte crolla al tuo passaggio è inammissibile. I ponti possono essere stati mal progettati, aver avuto una cattiva manutenzione, essere invecchiati precocemente, ma il gestore, se del caso li chiude, li ripara, li abbatte. Se non lo fa è colpevole. Punto. Atlantia di questo deve rispondere. Se poi il “controllore” (Ministero) non ha controllato pagherà anche lui. La responsabilità politica è chiara, è a carico dei partiti che hanno governato l’Italia dalla nascita alla morte del Morandi. Soprattutto quelli che hanno concepito quell’ignobile contratto di privatizzazione, una regalia nascosta in un allegato secretato (roba da Venezuela). Dietro al Morandi vedo un pericolo: Mani Pulite. Avendola vissuta non vorrei si ritornasse al balletto di allora, dove l’establishment (coincidente con i Vertici delle grandi aziende corruttrici) prima cercò di farsi passare per concusso, poi trovò i soliti capro espiatori interni, offrendoli in sacrificio a magistrati pigri. Su Repubblica ha parlato il Ceo di Atlantia. Imbarazzante. Gli avrei fatto una sola domanda: “Il vostro core business è la manutenzione. Dateci il documento Politiche di manutenzione per ponti e strade”, i relativi budget divisi per manufatti, i consuntivi, come questi hanno impattato in tutti questi anni su conto economico e su stato patrimoniale di Atlantia. Capiremmo se i lauti dividendi di questi anni non siano altro che manutenzioni mancate. Ripeto parlo del “civile” non del “penale”, dell’azienda non delle persone. Il Governo Conte (era il gialloverde Conte 1, ndr) la smetta di fare dichiarazioni pubbliche roboanti, battute sull’etica, si focalizzi sui quattrini, sul maltolto che deve riportare nelle casse dello Stato. Atlantia deve pagare, e subito, fino all’ultimo euro.” Fine del virgolettato. Questo scrivevo due anni fa, ma  in realtà io sapevo come sarebbe finita. A schifio. Conosco troppo bene come costoro ragionano, come si muovono, i gomitoli di interessi che condividono con il Deep State. Sapevo che la priorità non sarebbe stata “giustizia per i 43 morti” ma “salvare il business e il patrimonio di Atlantia e dei suoi azionisti”. Fra questi c’è la tedesca Allianz, la cinese Belt and Road Initiative! e poi una delle grandi famiglie imprenditoriali italiane. Ovvia la scelta. Sapevo che il modello da applicare sarebbe stato quello classico di Mani Pulite: 1. Silenziare. 2. Buttarla sul penale (con la tiritera della fiducia verso la magistratura che fra qualche lustro condannerà un paio di funzionari). 3. Nel frattempo, Atlantia, Deep State, governo, partiti di maggioranza e di opposizione, Parlamento, confezionano il “pacchetto”. È congegnato in modo che qualsiasi mossa per colpire il colpevole sia preclusa. O perché diventata nel frattempo impraticabile (si affretta a ricordarlo l’Avvocatura di Stato), o perché interverrebbero Strasburgo e la Ue, o perché i Sindacati si oppongono, o perché bisogna proteggere i piccoli azionisti, o perché .. I Media di regime intanto si buttano sul “pacchetto” comunicazionale. Ohibò, è andata proprio così! Sono passati due anni, il “pacchetto” ha dimostrato che ancora una volta il modello Ceo capitalism ha vinto. Questo l’osceno processo: Atlantia ha “comprato” allora nel modo che sappiamo, ha “gestito” nel durante nel modo che sappiamo, “esce” ora nel modo che sappiamo. Una vergogna durata vent’anni, conclusasi con un accordo vergognoso. Ora lo posso dire. Come componente delle élite di questo Paese, io mi vergogno, mi vergogno profondamente di questa ignobile pagliacciata alle spalle di 43 famiglie in attesa di giustizia. Giustizia che mai avranno, anzi se hanno risparmi alla Posta, la pagliacciata sarà finanziata anche con i loro quattrini. Riccardo Ruggeri, 18 luglio 2020

FANNO COME CAZZO GLI PARE. Paolo Baroni per “la Stampa” il 17 luglio 2020. Il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli incalza Autostrade e chiede che la società presenti «entro il 23 luglio» un nuovo piano economico finanziario. Dopo il braccio di ferro di martedì notte che ha prodotto un'intesa di massima con i Benetton il Mit passa subito all'incasso e chiede che la proposta di transazione approvata dal Consiglio dei ministri venga subito tradotta in pratica recependo «puntualmente» tutte le indicazioni del governo a partire dagli impegni economici. Ma non è solo Aspi a scontrarsi con il problema dei piani economico finanziari (Pef) e quindi della revisione delle tariffe: sono in tutto ben 16 (su un totale di 25) le concessionarie inadempienti con piani scaduti da due, tre e addirittura sette anni. Tempo quasi scaduto In base al decreto milleproroghe le società avevano tempo sino al 31 marzo per presentare i nuovi Pef al Ministero delle infrastrutture, mentre entro il 31 luglio dicastero e concessionarie dovevano definire le intese, quindi trasmetterle all'Autorità di regolazione dei trasporti (che dopo l'emanazione del decreto Genova ha riscritto completamente le regole di calcolo degli aumenti) per il visto di conformità e poi al Cipe per il via libera finale. Mancano due settimane alla scadenza, ma tutta la procedura si è arenata. Stando a indiscrezioni, infatti, alla Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali del Mit hanno giudicato «insufficienti» le proposte ricevute. La lista dei ritardatari, oltre ad Aspi, comprende il gruppo Toto per la Strada dei parchi (A24-A25 Roma-L'Aquila-Teramo), su cui poi si è pure innescato il contenzioso sulla messa in sicurezza post-terremoto con tanto di nomina di commissari ad acta, ed il gruppo Gavio (otto concessioni in tutto dalla A4 Torino-Alessandria alla A32 Torino-Bardonecchia, dal Traforo del Frejus all'Asti-Cuneo, all'Autostrada Ligure Toscana all'Autofiori), oltre ad Autovie Venete, Brescia-Padova e Milano Serravalle. Le regole fissate dall'Art Sia chiaro, le nuove regole non garantiscono uno sconto automatico sui pedaggi ma ugualmente possono portare benefici importanti per gli utenti della strada. «Mettono sotto controllo i costi operativi al fine di renderli efficienti, riallineano la remunerazione degli investimenti ai tassi di mercato e solo per le opere effettivamente realizzate, incentivano un reale miglioramento della qualità del servizio e redistribuiscono a beneficio degli utenti i maggiori ricavi da traffico superiore alle previsioni», spiegano dall'Autorità dei trasporti. La novità più importante, che è entrata giocoforza anche nella trattativa all'ultimo sangue tra governo e Aspi, riguarda i costi di costruzione delle opere e fissa al 7,09% (contro l'11% riconosciuto sino a ieri alla società Autostrade) il tasso di remunerazione sul capitale investito, il cosiddetto Wacc, una delle voci che assieme al tetto di inflazione programmata e agli indicatori sulla qualità dei servizi incide sulla tariffa/km. Con i vecchi accordi si era certamente largheggiato un po' troppo. La seconda novità riguarda i costi di gestione e il tasso di efficentamento annuale di ogni singola concessione, il cosiddetto «fattore X»: rispetto al passato, anziché tenere in conto solo dello stato della pavimentazione e del tasso di incidentalità, ora sono 11 i parametri monitorati, compresa la velocità media di percorrenza del flusso veicolare, la fluidità ai caselli, l'adeguatezza strutturale e tecnologica delle infrastrutture e la soddisfazione degli utenti rispetto ai livelli di servizio fissati dal Mit. Infine è previsto un meccanismo di contenimento dei ricavi dei concessionari che trasferisce direttamente agli utenti gli eventuali maggiori ricavi conseguiti dal concessionario per effetto di volumi di traffico superiori alle previsioni. Basta che il livello di ricavi superi del 2% quello previsto che tutta la parte in eccesso va a ridurre i pedaggi. Il nuovo piano di Aspi Uno dei punti critici dello scontro tra governo e società Autostrade riguardava il taglio delle tariffe. Ora sono in tanti a chiedersi quanto scenderanno dunque, di qui a breve, i pedaggi sui 3000 km di rete gestiti da Aspi. «Indicare una percentuale è impossibile - fanno sapere dalla società -. Però si può dire che certamente scenderanno». La ridefinizione del Wacc, infatti, limiterà a un massimo dell'1,75% gli incrementi annuali, ma poi per fare scendere effettivamente i pedaggi, sino eventualmente ad azzerarli in determinati ambiti (come ad esempio è stato ipotizzato per la Liguria) Aspi si è già impegnata a stanziare 1,5 miliardi di euro in cinque anni più altre risorse negli anni a seguire. L'ultimo richiamo Oltre alla conferma dei 3,4 miliardi di interventi compensativi «senza effetto sulla tariffa», ieri il Mit ha chiesto ad Autostrade che nel suo nuovo piano finanziario siano previsti sia «un programma di investimenti sulla rete pari a 14,5 miliardi», sia «una consistente riduzione della tariffa». «Il Mit è in attesa di ricevere il Piano economico finanziario per valutarne la rispondenza alle condizioni definite e accettate da Aspi» è scritto in una nota. In alternativa, come è noto, può ancora scattare la revoca della concessione.

Milena Gabanelli e Fabio Savelli per il ''Corriere della Sera'' il 20 luglio 2020. Alla fine non c'è stata né estromissione, né esproprio. La nuova «Autostrade per l'Italia» che vedrà la luce con la quotazione in borsa non prima di inizio 2021, sarà a controllo pubblico con Cassa depositi e Prestiti che subentra nel capitale rilevando parte delle quote di Atlantia e con soci di suo gradimento. La holding della famiglia Benetton scenderà all'11%, e al momento la loro partecipazione puramente finanziaria vale 1,1 miliardo. Dovranno accontentarsi di contare poco nel nuovo Cda e per due anni non potranno incassare i dividendi (che difficilmente ci saranno visto che il governo intende abbassare le tariffe del 5%). Alla fine di questa complicata trattativa il tema principale però resta sempre lo stesso: come saranno gestiti i 3000 km di autostrade che sono l'oggetto della concessione? Negli accordi firmati martedì notte a Palazzo Chigi c'era la richiesta di manleva pubblica per le eventuali responsabilità di omesso controllo da parte del ministero dei Trasporti per il crollo del viadotto Polcevera. Non è passata. Sono 21 gli indagati al dicastero allora guidato da Danilo Toninelli e ora da Paola De Micheli. Nessuno ha guardato le porcherie che stava facendo il gestore, e lo scalpo simbolico dei Benetton non risolve le tare storiche del sistema delle concessioni. Se un ponte si accartoccia su se stesso e nessuno sa il perché l'esito è uno solo: le autostrade le controlla soltanto chi le ha in concessione. Che siano aziende private - con soci attratti dai dividendi che aumentano più si risparmia sulle manutenzioni - o società pubbliche come l'Anas gestite con scelte clientelari nelle nomine, infarcite di corruzioni e la lunga mano dei partiti ad orientare le strategie. I chilometri di strade italiane date in concessione ai privati e all'Anas sono circa 36.000. In 4 anni sono crollati 5 ponti, ma per i concessionari andava tutto bene fino ad un attimo prima. Lo Stato concede ai gestori l'utilizzo di questi beni pubblici per un determinato periodo di tempo, ma deroga da anni all'attività di verifica. La prova: il Ministero si accorge che una circolare del 1967 impone ai gestori ispezioni trimestrali sulle infiltrazioni d'acqua nelle gallerie. Loro non lo hanno mai fatto, e dopo 50 anni si corre ai ripari ordinando a giugno l'apertura dei cantieri per smontare i rivestimenti interni. La circolazione si paralizza sulla A7, A10, A26, e mette fuori gioco la Liguria. Fino al 2011 l'attività ispettiva era di competenza dell'Anas, poi una legge stabilisce che non poteva essere concessionario insieme allo Stato di alcune tratte, e allo stesso tempo concedente e controllore. Da un giorno all'altro viene quindi trasferito al ministero di Trasporti il personale addetto ai sopralluoghi nei cantieri per la manutenzione ordinaria e straordinaria di ponti, viadotti, gallerie, segnaletica stradale. Nasce così all'interno del Mit una direzione generale incaricata di vigilare su come i privati gestiscono i tratti autostradali. Peccato che in pochi abbiano le competenze per farlo. In un'audizione parlamentare del 7 settembre 2016, l'architetto Mauro Coletta, allora direttore della Vigilanza del ministero delle Infrastrutture sulle concessionarie autostradali confessava: «I dipendenti che si recano in missione per svolgere i sopralluoghi devono anticipare le spese, ma il rimborso arriva dopo quattro-cinque mesi. Ciò crea grossi problemi. Basti pensare che siamo passati da 1.400 ispezioni all'anno nel 2011 a 850 nel 2015». E sempre 800 in media sono rimaste anche negli anni successivi. «Troppo poche» rileva l'Anac a luglio 2019, a fronte dei 7.137 tra ponti, viadotti e gallerie presenti sulle sole autostrade italiane. Per questo l'ex ministro Toninelli decide di trasferire le funzioni di ispezione in un nuovo ente di controllo: l'Ansfisa. Dopo due anni non è ancora operativa. Il ministero dei Trasporti dice a settembre lo sarà. Nel mentre è collassato anche un viadotto su una tratta gestita dai Gavio in Liguria per colpa di una frana. In attesa che decolli l'Agenzia, il Dipartimento di controllo presso il Mit che fa? A fine dicembre 2019 il rapporto della Corte dei Conti è impietoso: «L'attività di controllo è ostacolata, come riconosciuto dallo stesso Ministero, dalla scarsità del personale dedicato e non dotata di qualifiche e competenze in grado di negoziare con la controparte privata». Quando Autostrade fu privatizzata nel '99, controparte per lo Stato era l'Iri, ovvero il suo direttore generale Ciucci, ovvero Anas, di cui diventa dominus poco dopo. Col governo Prodi fu Ciucci a firmare nel 2007, la convenzione che consegna ai Benetton la gallina dalle uova d'oro, e il via libera definitivo arriva l'anno dopo da Berlusconi, con un emendamento che consente di bypassare il parere del nucleo di consulenza per la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Quella convenzione, smontata solo martedì notte, ha consentito ogni anno, fino ad oggi, una crescita delle tariffe pari al 70% dell'inflazione reale anche in presenza di crisi economica, calo del traffico e minori investimenti di quelli programmati. Ciucci si auto-licenzia dalla carica di presidente Anas nel 2015, dopo che sulle strade di Anas, nel giro di tre mesi, era crollato un viadotto sulla statale siciliana e un pilone sulla A19 e c'era stato un cedimento con morto sulla Salerno-Reggio Calabria. Per togliere il disturbo si assegna una buonuscita per mancato preavviso di 1,8 milioni. Con la quotazione in borsa della nuova «Autostrade per l'Italia» lo Stato torna dentro la gestione. Ma non basta il «cappello» pubblico a garantire efficienza. Anas, che fa parte di Ferrovie dello Stato dal 2018, è controllata al 100% dal Tesoro; ebbene nel corso del 2019 aveva l'obbligo di legge di ispezionare 4991 ponti, ne ha controllati 1419. Aveva a disposizione oltre un miliardo per la manutenzione straordinaria, ha speso meno di 200 milioni. Per Anas era tutto regolare e il ministero dei Trasporti non ha obiettato. L'8 aprile, il ponte sul fiume Magra viene giù tutto. Non ci sono stati morti solo perché eravamo in pieno lockdown. Almeno fino a settembre ai controlli deve pensarci il Dipartimento del Mit, e i fondi non gli mancano: 78 milioni ogni anno dagli incassi del canone di concessione. Ma la struttura non è stata attrezzata per spenderli, e così una cinquantina tornano al Mef. Il primo direttore era un architetto, il secondo un filosofo, oggi un economista. Che sia pubblico o privato, il problema si radica nel più alto livello di controllo, che è il Ministero dei Trasporti. E la ministra De Micheli, come tutti i suoi predecessori, non ha competenze ingegneristiche essendo laureata in Scienze politiche, e non ha alle spalle esperienza nell'organizzazione di sistemi complessi come può essere un ministero. Si dirà: si affida alla sua tecnostruttura. Ma in questi 9 anni i tecnici del Mit non hanno certo brillato visti i 21 indagati a Genova. E per questo si rimanda tutto alla nascita dell'Ansfisa, mentre il cittadino che percorre le strade e autostrade non si chiede se il gestore è pubblico o privato, vuole solo arrivare a destinazione sano e salvo.

AUTOSTRADE, gli azionisti di Atlantia replicano con le denunce. CREDIBILITÀ ZERO: Ricorsi a raffica contro la soluzione anti-Benetton del governo. Nino Sunseri il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La soluzione del problema Autostrade non sarà né rapida né indolore. Non a caso è stato comunicato che non verrà rispettata la scadenza di domani per l’accordo che apre la strada all’intervento di Cdp. Facile immaginare che nessuno abbia voglia di firmare un documento che rischia di trascinarlo in tribunale. Gli azionisti di Autostrade e anche quelli di Atlantia sono intenzionati ad aprire il fuoco di carta bollata. E non sono solo gli hedge fund inglesi e americani che hanno annunciato ricorsi a raffica. I nomi sono molto più pesanti considerando che il 12% di Aspi è diviso tra il fondo sovrano cinese Silk Road (dunque il governo di Pechino) e la holding che riunisce interessi di gran blasone in Germania (Allianz) e in Francia (Edf). Per non parlare di quello che succede al piano superiore dove sono presenti, fra gli altri, il governo di Singapore con il suo fondo sovrano e gli americani di Blackrock, il più grande gestore di risparmio del mondo. A tutti il piano voluto dal governo imporrà pesanti perdite e, in qualche caso, come in Autostrade, l’azzeramento del valore della partecipazione. E per che cosa? Per un ricatto che lo Stato italiano ha esercitato sulla famiglia Benetton azionista di riferimento del gruppo. La minaccia è stata esercita agitando la mannaia della revoca della concessione autostradale. Un comportamento più simile ad un avvertimento mafioso che non alle regole di uno stato di diritto. Il problema è molto semplice: nonostante il frastuono della politica, l’indignazione dell’opinione pubblica, il dolore dei familiari delle vittime non c’è ancora nessuna certezza sulle cause del crollo del Ponte Morandi. Il processo, dopo due anni, è ancora in fase istruttoria e dunque lontanissimo dall’accertamento delle responsabilità.. Non a caso il ministro De Micheli, in una lettera che riportava il parere dell’Avvocatura dello Stato, avvertiva Conte dei pericoli di una decisione troppo affrettata. Una revoca intempestiva esponeva lo Stato italiano a penali gigantesche. Da qui la decisione del governo di percorrere la strada alternativa con l’ultimatum ai Benetton di uscire dal casello di Autostrade senza fare tante storie. C’è però un problema: la dinastia trevigiana è azionista solo al 30%. Poi ci sono gli altri che da questo patto verranno gravemente danneggiati e non hanno nessuna intenzione di tacere. I soci di Aspi dopo l’intervento di Cdp vedranno crollare il valore dell’investimento. Senza contare che si troveranno coinvolti in una società i cui guadagni crolleranno per ordine del governo che ha deciso di cambiare in corsa il sistema delle tariffe. Non meno lesivo quello che accadrà ai soci di Atlantia: saranno privati del cespite più importante e per punizione non incasseranno dividendi per due anni. Difficile pensare che forzature tanto gravi passeranno senza reazioni. La credibilità internazionale dell’Italia sarà sicuramente danneggiata. Chi mai vorrà investire in un Paese che cambia le regole per semplici ragioni di opportunità politica. Una tragedia dalle conseguenze impensabili. In questo senso c’è un precedente lontano che vale la pensa ricordare. Risale al 1991 con il fallimento di Federconsorzi. Il Tesoro si rifiutò di onorare i debiti sostenendo che non era una azienda pubblica. Tutti, però, la ritenevano tale. Compresi i dirigenti che nutrivano clientele politiche per conto dei partiti di riferimento (soprattutto Dc e Pci). Le banche e gli altri finanziatori se la legarono al dito. L’anno dopo, nel 1992, la speculazione internazionale avrebbe fatto a pezzi la la lira, spaccato lo Sme e decretato la fine della Prima Repubblica. Fra le cause, oggi purtroppo dimenticate, proprio la perdita di credibilità dell’Italia per via di Federconsorzi.

VIVERE DI RENDITA. Report Rai. PUNTATA DEL 01/10/2004 di Stefania Rimini.

Chi sta incassando i soldi della privatizzazione di Autostrade? AGGIORNAMENTO DEL 25/10/0020.

Chi sta incassando la rendita delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni dei servizi pubblici? Sono i nuovi padroni, che hanno rilevato le spoglie dello Stato imprenditore oppure sono gli utenti, ai quali erano stati prospettati servizi più efficienti e tariffe più basse? Sono i manager degli ex monopoli, con le loro ricche stock options, oppure le casse del Tesoro, ansioso di ridurre il debito pubblico? L'Enel è stato in parte privatizzato e nello stesso tempo il mercato è stato aperto alla concorrenza: quindi tariffe minori e servizi migliori. Invece in Italia continuiamo a pagare la bolletta elettrica più cara d'Europa. Il fatto è che da 15 anni ci stanno prelevando il 7% su ogni singola bolletta per incentivare la produzione di energia rinnovabile e che invece è finito in buona parte nelle tasche dei petrolieri, come per esempio Moratti, il patron dell'Inter. 

Vivere di rendita - Aggiornamento del 15/05/2005: il pedaggio è venduto. IL PEDAGGIO È VENDUTO di Stefania Rimini.

VOCE FUORI DELL'AUTRICE FUORI CAMPO Il compito dell'Anas è quello di controllare che chi gestisce le Autostrade, in questo caso Benetton, faccia gli investimenti che deve fare e che l'utente al casello non paghi più del dovuto. Ma tra Anas e Autostrade di problemi non ce ne sarebbero mai, secondo quanto riferiva un professore che aveva prestato servizio nel Nars, il nucleo di valutazione tecnica delle tariffe, istituito presso il Ministero dell'economia.

MARCO PONTI - ex esperto Nars In tutte le riunioni in cui c'erano Autostrade e Anas presenti, lavorando nel Nars, le loro posizioni, salvo alcuni piccoli dettagli, coincidevano sempre, soprattutto su questa questione chiave di questo meccanismo di difesa degli utenti dagli extraprofitti. Su quello andavano sempre d'accordo contro i poveri utenti che nulla sanno di ciò.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Le tariffe vengono stabilite dall'Anas anche in base al numero di macchine che entrano in autostrada. Meno ne se ne prevedono e più alto sarà il pedaggio. Alcuni parlamentari hanno denunciato il fatto che finora l'Anas ha sbagliato a stimare il traffico, che è risultato molto maggiore del previsto a tutto vantaggio del monopolista privato.

LUIGI ZANDA - senatore Così come è curioso il contributo che l'anno scorso, nel 2003, l'Anas ha concesso alla Società Autostrade di 5 milioni di euro, quindi di 10 miliardi di lire, per una campagna a favore del Telepass.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma è vero che l'Amministrazione pubblica ha concesso 5 milioni di euro per promuovere un servizio che avvantaggia la società Autostrade? Quando abbiamo interpellato l'Anas per verificare questa e le altre questioni sollevate in Parlamento, l'Anas si è rifiutato di rispondere.

AUTRICE L'Anas non è interessato a fare l'intervista? al telefono, ufficio stampa Anas Sì sì, l'Anas non è interessato a fare questa intervista.

AUTRICE L'Anas è un ente pubblico, dovrebbe venire a rispondere, non crede? al telefono, ufficio stampa Anas Sì, ma noi abbiamo fatto addirittura un libro su questa cosa. AUTRICE Mi dica lei che cosa dobbiamo dire, che cosa devo riferire al pubblico quando arriveremo al punto di dire "sentiamo che cosa risponde l'Anas". al telefono, ufficio stampa Anas Che rispondiamo a queste questioni nelle sedi deputate, cioè al Parlamento e con documenti ufficiali.

MILENA GABANELLI IN STUDIO L'unico documento ufficiale che è arrivato dall'Anas è stata una querela. Ma ne è arrivata una anche dall'amministratore delegato di autostrade destinato alla sottoscritta e recentemente ritirata, ma anche una citazione per danni a carico della rai degli autori e di un esperto del nars con richiesta di risarcimento per 20 milioni di euro. Nella puntata si sosteneva che la società autostrade aumenta le tariffe a fronte di investimenti promessi e non ancora realizzati. Autostrade invitata a replicare si rifiutò perché impegnata in un'esclusiva con Rai Educational. A distanza di 8 mesi il presidente di Autostrade Gros-Pietro accetta di spiegare a Stefania Rimini le ragioni della società.

AUTRICE Avete ricevuto un contributo dall'Anas per pubblicizzare il servizio del Telepass?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa No, assolutamente no. Nell'estate del 2003 il Ministero invitò le società autostradali a offrire una esenzione semestrale dal canone fisso del Telepass per coloro che sottoscrivevano un nuovo contratto e comunque a ridurre del 10 per cento i pedaggi pagati col Telepass nei giorni festivi di luglio e agosto.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Queste riduzioni ammontarono a 3,7 milioni che il Ministero promise di rimborsare alle società autostradali, mentre queste ultime si addossarono il costo della campagna promozionale che fu di 1 milione. Stiamo parlando comunque di pochi milioni di euro. Il vero nodo della questione pesa centinaia di milioni di euro e riguarda il meccanismo di aumento dei pedaggi.

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. C'è un meccanismo, io non sono entrato nei particolari della formula, però ogni anno ci sarà un aumento che dipenderà dall'inflazione, dalla produttività che noi dobbiamo fare e dai lavori che avremo effettivamente fatto.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Questo meccanismo di aggiustamento delle tariffe si chiama price cap in inglese, cioè "coperchio sul prezzo", perchè serve a far sì che il monopolista non ci guadagni troppo. E ci stanno guadagnando troppo o no? Su questo avevamo riportato l'opinione dell'ex direttore esecutivo della Banca Mondiale.

GIORGIO RAGAZZI - economista Quindi uno si sarebbe atteso, secondo la logica del price cap, che le tariffe venissero congelate o addirittura ridotte in modo da riportare la redditività entro limiti accettabili. AUTRICE All'estero avrebbero fatto così?

GIORGIO RAGAZZI - economista All'estero avrebbero fatto così.

AUTRICE Cioè il meccanismo dovrebbe funzionare così? GIORGIO RAGAZZI - economista Senz'altro.

AUTRICE Invece da noi, no.

GIORGIO RAGAZZI - economista Da noi, evidentemente, non è stato fatto così.

MARCO PONTI - ex esperto Nars Per quello si fa l'aggiustamento dopo 5 anni, si guarda come è andato - perché può anche essere andato male, mica necessariamente è andato bene - e si dice: si torna al livello di profitto normale. E vuol dire: te li tieni se li fai, in modo che sei incentivato a diventare più efficiente, ma dopo cinque anni ridifendo gli utenti riportando a normalità i tuoi profitti.

AUTRICE Questo loro non l'hanno accettato.

MARCO PONTI - ex esperto Nars Loro non l'hanno accettato, cioè che gli utenti non possono essere tosati come pecore.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Tirare in ballo le pecore è costato all'esperto una querela, perché gli avvocati della società Autostrade hanno interpretato la battuta come un'ironia sul mestiere dei Benetton. Ma maglioni e avvocati a parte, possiamo sapere, oggi che il presidente Gros-Pietro ci risponde, perché le tariffe se sono risultate troppo alte non si ritoccano?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Alla radice della scelta del meccanismo c'è una scelta politica, che è stata fatta nel '97 dal Governo , che è stata rivista, rianalizzata dal Governo e dal Parlamento al momento della privatizzazione nel '99, dopodiché è diventata un contratto e il contratto non si cambia.

AUTRICE Ma se io sono un automobilista, quello che mi interessa capire è se cala il traffico o se aumenta il traffico, io continuerò a pagare la tariffa che è stata decisa prima?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Sì, la tariffa non tiene conto del volume di traffico che fa parte del rischio imprenditoriale.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Il rischio imprenditoriale finora si è rivelato più che altro un vantaggio imprenditoriale, visto che tra il '97 e il 2002 sono passate 11 mila 500 milioni di vetture- km in più rispetto a quelle previste. Ma siccome i contratti non si modificano, gli extraprofitti oltre a non essere abbassati vengono resi permanenti, almeno fino al prossimo aggiustamento delle tariffe. AUTRICE Del meccanismo di riaggiustamento delle tariffe, se ne riparla tra 10 anni?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Sì.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Secondo la relazione dei consulenti del Ministero dell'Economia, la società Autostrade tra il '97 e il 2002 per il maggior traffico ha ricavato 520 milioni di euro in più del previsto.

AUTRICE Nel primo quinquennio di convenzione tra Autostrade e Anas ci sono stati degli extra profitti?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. No, non ci sono stati extra profitti però c'è stato un aumento del traffico superiore alle previsioni, che fa parte appunto del rischio imprenditoriale, ma questo aumento del traffico non è stato sufficiente a farci raggiungere la redditività media delle autostrade europee.

AUTRICE Quindi lei dice che non ci sono stati extraprofitti per la società Autostrade nei primi cinque anni di convenzione?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Esatto.

AUTRICE Non ci sono stati.

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. No.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Non ci sono stati extra profitti, ma questi soldi in più ricavati sulla sottostima del traffico, come li vogliamo chiamare? Incasso non previsto? Secondo il presidente della società Autostrade i nostri pedaggi sono tra i più bassi d'Europa. Ma le nostre autostrade sono anche tra le più vecchie d'Europa, per cui richiedono manutenzione e investimenti costosi.

PAOLO BRUTTI - senatore Dovevano fare 9 mila, 9 mila e 500 miliardi di investimenti, ne hanno fatti il 10 per cento. Si sono impegnati a farne altri 9 mila e 500, è chiaro che tra queste due cose qualche cosa stanno facendo, sia del vecchio che del nuovo, no? Stanno facendo qualche cosa. Però da quello che noi sappiamo, mentre nel vecchio l'unica opera che si sta veramente cominciando a fare è la Variante di valico, per quello che riguarda i nuovi investimenti erano state fissate delle tappe: allo stato dei fatti non si vede nulla. Cioè non è vero che entro il 2007 noi avremo il passante di Mestre, non è vero che avremo interventi sull'autostrada Adriatica, cioè tutte cose che, se si faranno, oramai slitteranno agli anni 2010, 2011, 2012.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Non sarà che la Società Autostrade ritarda gli investimenti perché deve prima ripagare i debiti che ha con le banche? E legittimo chiederselo dato che il gruppo Benetton ha acquisito il controllo della società Autostrade tramite la propria controllata Schemaventotto, si può dire senza spendere un euro di tasca propria. Si sono fatti prestare i soldi dalle banche per rastrellare il 70 per cento delle azioni della società Autostrade con un'opa, un'offerta pubblica di acquisto. Poi hanno girato l'indebitamento di Schemaventotto alla stessa società acquistata, che ora ripaga le banche con il flusso dei pedaggi.

GIORGIO RAGAZZI - economista L'Opa, all'inizio del 2003, è stata finanziata con un debito di circa 7 miliardi di euro, interamente messo a carico della Società Autostrade.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE La società Autostrade ha anche in programma di fare investimenti per 9 miliardi di euro, che devono essere recuperati attraverso i pedaggi.

ANNA DONATI - senatrice Quindi è come se i cittadini che hanno usato la rete di Autostrade spa avessero già pagato quell'investimento - la Variante di valico e anche altri interventi connessi - mentre la realizzazione sta appunto partendo in questi mesi, in queste settimane.

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa C'è un vecchio programma di investimento che era stato stipulato nel '97 quando la società era ancora posseduta dallo Stato, e lì le regole erano diverse perché lo Stato faceva un contratto con se stesso e non si preoccupava tanto delle sofisticazioni di questo contratto quindi prevedeva un programma di investimenti e un programma di aumenti, fisso. Che cosa è successo? Che nel 2000, quando la società è stata privatizzata, gli investimenti previsti nel '97, di quegli investimenti non era stato fatto quasi nulla. Tra il 2000 e il 2002 si è andati avanti pochissimo, perché il principale di questi investimenti, per esempio la Variante di valico, non avevano ancora l'accordo degli enti locali sul percorso, le autorizzazioni eccetera. Noi attualmente siamo al 70 per cento di appalto di questi investimenti e questo programma del '97 valeva 3 miliardi e mezzo di euro e aveva a fronte… AUTRICE Cioè i lavori che dovevate fare…

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa I lavori che si dovevano fare a partire dal '97..

AUTRICE Dal '97 al 2003?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa Dal '97 al 2003. Questo programma attualmente ha già raggiunto un costo di 4 miliardi e 9, cioè è cresciuto del 40 per cento.

AUTRICE A causa dei ritardi?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa A causa dei ritardi perché nel frattempo… naturalmente i ritardi sono connessi anche a modifiche dei lavori che gli enti locali chiedono, le regioni, i comuni eccetera eccetera. Allora noi preferiremmo di gran lunga, siccome questi adattamenti sono dei perfezionamenti che vanno fatti per trovare l'accordo con i territori sarebbe di gran lunga preferibile, come l'esperienza ha insegnato, che gli aumenti scattassero mano a mano che i lavori si riescano a fare però commisurati all'effettivo costo dei lavori, non a un costo teorico previsto nel '97 che non ha più significato. Noi siamo convinti che ci rimettiamo col vecchio sistema.

VOCE DELL'AUTRICE FUORI CAMPO Da un lato hanno guadagnato più del previsto, dall'altro ci dicono che ci rimettono, si dovrebbero consolare gli automobilisti che restano in coda per lavori, perché non sono i soli a rimetterci. La buona notizia è che tutti i nuovi lavori che verranno fatti sulla rete autostradale non incideranno sul pedaggio finché non saranno terminati.

VOCE DELL'AUTRICE FUORI CAMPO Ma quella storia dell'esclusiva che impediva alla società Autostrade di replicare quando a suo tempo era stata invitata a farlo, che fine ha fatto?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa La prima volta noi avevamo un impegno precedente con un altro programma Rai che intendevamo rispettare a meno che non venissimo liberati da quel vincolo, e quindi avevamo chiesto: o di liberarci dal vincolo o posporre la trasmissione sulle autostrade, cosa che non si era potuto fare. Questa volta invece non riteniamo di avere più vincoli e quindi molto volentieri partecipiamo alla trasmissione. AUTRICE Che avevate un'esclusiva, ci avevate scritto, ma questa esclusiva poi è andata in onda?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa No, e infatti è per questo che noi riteniamo di non avere più vincoli. 

Ponte di Genova fuori norma: "Gli addetti ai lavori già lo sapevano". L'errore non sarebbe stato corretto per cercare di ricostruire subito e per evitare di dare vita a ulteriori contenziosi: si va verso il limite di 70 km/h. Luca Sablone, Sabato 18/07/2020 su Il Giornale. Gli automobilisti che percorreranno il nuovo ponte di Genova probabilmente saranno costretti a rispettare il limite di velocità di 70 km/h in direzione Savona: questa la possibile decisione finale, considerando che il tracciato non sarebbe a norma. A rivelarlo è stato Il Sole 24 Ore, secondo cui gli addetti ai lavori erano già al corrente delle criticità, ma la volontà di ricostruire in fretta e il tentativo di evitare di dare vita a ulteriori contenziosi avrebbe portato a non correggere l'errore. Per avere l'ufficialità dei nuovi limiti bisognerà attendere il collaudo di agibilità, in seguito al quale arriveranno le indicazioni di Anas. Il tracciato, trattandosi di una ricostruzione totale, dovrebbe rispettare le norme geometriche di costruzione di nuove strade previste dal Dm Infrastrutture del novembre 2001: il nuovo ponte avrebbe dovuto avere una forma a "S" per garantire curve più "dolci" e una maggiore sicurezza per gli utenti. Invece ricalca quasi perfettamente il vecchio tracciato rettilineo raccordato da curve strette, risalente al 1967, e quindi non rientrava nel campo di applicazione del Dm del 2011. Pertanto, al fine di garantire gli standard di sicurezza richiesti dalle normative, si potrebbe decidere di ridurre la velocità di percorrenza e di stendere un asfalto ad alta aderenza.

Le criticità. Sotto la lente di ingrandimento è finita soprattutto la curva dopo il ponte, verso Savona: si sarebbe dovuto almeno scavare per un centinaio di metri l'attuale galleria Coronata, per raccordarla meglio. Il problema, sfuggito al momento della progettazione di Renzo Piano, era stato già autodenunciato a febbraio 2019 da Italferr al Consiglio superiore dei Lavori pubblici; il mese successivo anche Aspi aveva segnalato in Conferenza dei servizi le non conformità progettuali del nuovo ponte. Tuttavia il Consiglio aveva scelto di non prendere alcuna posizione in merito "per non dare appigli a nuovi contenziosi da parte di Autostrade per l’Italia"; era stato solamente prescritto che l'asfalto fosse ad alta aderenza. Alla luce dell'accordo raggiunto la notte del 14 luglio, Aspi non dovrebbe chiedere una manleva per eventuali incidenti provocati dal tracciato. Aspi dovrà prendere con cautela le indicazioni Anas, visto che l'articolo 14 del Codice della strada attribuisce al gestore della strada la responsabilità di garantirne la sicurezza. Perciò, fa notare il Sole, in caso di futuri incidenti Aspi argomenterebbe di aver fissato i limiti in conformità con le valutazioni dell'Anas. Intanto si attende la conferma ufficiale: i nuovi limiti di velocità potrebbero essere inferiori rispetto a quelli precedentemente previsti.

Federico Capurso per la Stampa il 20 luglio 2020.  Il nuovo ponte di Genova è stato costruito in tempi record, eletto a modello di efficienza e a simbolo del Paese che riparte, tra sfilate ed esaltazioni della politica, ma oltre agli allori si trascinerà dietro anche i vecchi problemi di quel tratto autostradale. Solo due corsie, curve strette in uscita, e sulla velocità massima consentita farà anche peggio rispetto al passato: 80 chilometri orari (forse 70 sulla tratta verso Savona), contro i 90 del ponte Morandi. Ma si doveva far presto. E così, i "ma" sono stati scansati con uno sbuffo. Il progetto regalato da Renzo Piano, infatti, ha mantenuto raggi delle curve e lunghezza dei rettilinei ricalcando quelli del vecchio ponte Morandi. Elementi concepiti negli anni '60, quando venne costruita l'autostrada e non esistevano ancora le norme, più stringenti, previste dal decreto del ministero dei Trasporti del 2001. Tanto da far sorgere il dubbio che il nuovo ponte non sia a norma, proprio mentre ieri mattina iniziavano i collaudi, con 2500 tonnellate distribuite su 56 tir posizionati lungo il tracciato per il primo stress test. Perché tutto si muove su una sottile linea d'ombra: va considerato come il rifacimento di un tracciato già esistente, quindi ancorato alla vecchia legislazione, o come una costruzione totalmente nuova, che deve rispettare le ultime normative ministeriali? Timori «infondati», ribatte la struttura commissariale guidata dal sindaco Marco Bucci. «È a norma. La curva del tracciato era già preesistente», e il nuovo ponte - chiarisce in una nota - «ricalca quell'impostazione, conforme ai vigenti requisiti tecnici». Poi, però, aggiunge: «Non è il commissario, ma il governo e il Parlamento ad aver stabilito di dover operare in estrema urgenza». Insomma, se si dovessero appurare delle colpe, la responsabilità sarebbe di altri. Soprattutto, della fretta. Tale da non far sollevare alcuna obiezione, da parte del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, di fronte al problema sollevato da Italferr a febbraio 2019. E nemmeno il mese dopo, a marzo, quando in Conferenza dei servizi fu Aspi a evidenziare che il progetto non era conforme alla legislazione vigente. Nessuno intervenne. «Assurdo che il nuovo ponte replichi gli stessi problemi di quello vecchio, mal raccordato ai monconi dell'autostrada e con due sole corsie», punge Dario Balotta, presidente dell'Osservatorio nazionale delle liberalizzazioni per infrastrutture e trasporti. «Il Paese ha perso un'occasione drammatica per risolvere problemi già noti, e ha speso più tempo e più soldi per ottenere un risultato peggiore di quello che si avrebbe avuto organizzando una gara pubblica, invece che aggiudicando la ricostruzione per acclamazione al campione nazionale, che oggi ci consegna un'opera storpia». Ammodernare quell'autostrada, però, «avrebbe avuto costi esorbitanti, enormemente più alti rispetto alla soluzione attuale, e i benefici non sarebbero stati tali da giustificarne la spesa», spiega Marco Ponti, professore di economia dei trasporti, più volte consulente del ministero delle Infrastrutture. Questo perché «il traffico si muove di pari passo con il Pil, e se le aspettative sono quelle di una crisi economica». Semmai, puntualizza Ponti, «a Genova si dovrà fare la Gronda». Un progetto già pronto e che, anche sotto la direzione del ministro grillino Danilo Toninelli, ha ricevuto l'ok dei tecnici, ma fermata in attesa della conclusione dello scontro tra lo Stato e Autostrade per l'Italia sulla concessione di quel tratto autostradale. Intanto, sul nuovo ponte poggia ancora un interrogativo pesante circa la sua conformità, mentre corrono verso la fine i lavori.

Inaugurato il nuovo ponte di Genova, Mattarella e Conte: “Ma il dolore non si cancella”. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2020. Con le frecce tricolori in volo, è stato inaugurato oggi, lunedì 3 agosto, il nuovo ponte San Giorgio di Genova a due anni di distanza dal terribile crollo del 14 agosto 2018 che provocò la morte di 43 persone. Il premier Giuseppe Conte, il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione Marco Bucci e il governatore della Liguria Giovanni Toti hanno tagliato il nastro per inaugurare il nuovo Ponte. Il tutto  alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Ho condiviso la vostra scelta di vederci qui in Prefettura a Genova e non sul Ponte. Non perché quello che accadrà sul ponte non sia importante: lo è per Genova naturalmente. Ma poiché è un’occasione raccolta e non di frastuono”. Queste le parole di Mattarella nel corso dell’incontro in Prefettura con le famiglie delle vittime del crollo del Morandi, prima dell’inaugurazione del nuovo ponte. Una inaugurazione “per sottolineare pubblicamente e in modo evidente che la ferita non si rimargina, che il dolore non si dimentica; e la solidarietà non viene meno in nessun modo: una cerimonia seriamente sobria, si limita all’essenziale, aprire il nuovo ponte per la città”. “Questo ponte – ha detto il Presidente della Repubblica – non è una cancellazione di quanto è avvenuto, anzi per alcuni aspetti lo comprende, con la lapide che ricorda le vittime. Questo incontro vuole dire a voi che la vicinanza della Repubblica non viene meno”, ma “il nuovo ponte è anche un modo per ricordare la tragedia” a coloro che lo attraverseranno. Parole apprezzate dagli stessi familiari. “Il presidente della Repubblica ha avuto con noi parole affettuose e ci ha garantito che seguirà la vicenda delle vittime del crollo del ponte di Genova e che lo Stato non le dimentica e non dimentica i familiari” ha dichiarato Egle Possetti, presidente comitato parenti vittime del crollo del Morandi, dopo avere incontrato il capo dello Stato, Sergio Mattarella.

LE PAROLE DI CONTE – “Oggi Genova riparte con la sua operosità. L’Italia che sa rialzarsi. Questo Ponte Genova San Giorgio ha funzione di generare nuova fiducia”. Poi l’accenno alla tragedia e al ridimensionamento dei Benetton che prima gestivano il ponte Morandi: “Non esiste ciò che estingue il dolore della perdita di una vita, tanto più a causa della incuria. Il governo ha ritenuto doveroso condurre un procedimento di contestazione, per riportare a un equilibrio il rapporto concessorio. Il nostro obiettivo è e sarà tutelare l’interesse pubblico non necessariamente garantito da precedente concessione”. Per Conte “la ricostruzione del Ponte di Genova è il frutto della virtuosa collaborazione tra politica, amministrazione, imprese e il lavoro. Questo ponte è il frutto della forza del lavoro e dell’energia creativa che del genio italiano: l’architetto Renzo Piano ce lo ha ricordato, dalla sua idea progettuale alla realizzazione è passato poco più di anno e oltre mille persone, lavoratrici e lavoratori, hanno lavorato indefessamente per realizzare quest’opera mirabile. Il merito va alla squadra italiana che ha lavorato con competenza, tenacia, fiducia, mossa dalla necessità di reagire alla tragedia e di ricostruire un’opera che potesse assumere anche il valore di un riscatto. Il ponte che oggi inauguriamo è figlio di questa forza d’animo, della volontà di ricomporre ciò che è stato spezzato ma anche delle competenze e dei talenti. Genova deve ripartire”.

Da corriere.it il 3 agosto 2020. Alle 19.14 di lunedì 3 agosto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con il taglio del nastro tricolore, ha inaugurato ufficialmente il Ponte San Giorgio a Genova.la cerimonia era iniziata mezz’ora prima con l’inno nazionale e subito dopo la lettura dei nomi delle 43 vittime del crollo del ponte Morandi il 14 agosto 2018 (la diretta qui). A seguire tre minuti di silenzio. La pioggia caduta durante la giornata ha lasciato spazio a un doppio arcobaleno, che ha abbracciato il ponte (la foto sopra è dell’Afp). Il primo a prendere la parola è stato il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione Marco Bucci che ha voluto esprimere un pensiero per le vittime, ricordare chi ha sofferto anche economicamente per il crollo e le centinaia di lavoratori che si sono impegnati per la ricostruzione.

Il progettista Piano. Poi il governatore Giovanni Toti, quindi l’ideatore del progetto, Renzo Piano. Il senatore a vita ha detto «oggi è un giorno di intensa commozione perché questo ponte è figlio di una tragedia e di un lutto. Questo, però, è stato il più bel cantiere che ho mai visto», si è andati avanti «con rapidità ma senza fretta, questo ponte è semplice e forte come Genova». E dunque, anche se «siamo sospesi tra il cordoglio della tragedia e l’orgoglio di aver ricostruito il ponte», la speranza dell’architetto è che questo ponte «sia amato: perché è semplice e forte come questa città».

Il premier. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha esordito dicendo che è «troppo acuto il dolore della tragedia. Ma questo nuovo ponte ci restituisce un’immagine di forza e leggerezza. Questo è il Ponte del frutto creativo del genio italico».

Il sindaco. «Il ponte sarà aperto tra domani 4 agosto sera e dopodomani 5 mattina», prevede Bucci. «Oggi lanciamo un messaggio di fiducia, competenza e speranza. Così si potrebbero fare tutte le infrastrutture d’Italia, a livello di tutti gli altri Paesi europei. Anzi, anche meglio». A chi gli ha chiesto su chi ricadranno i costi del ponte Bucci ha risposto che «la struttura commissariale ha fatto un contratto a corpo. Stiamo facendo l’esame finale dei conti. Se ci sono motivi validi per giustificare extra costi, saranno fatturati ad Aspi, che ha pagato il ponte finora».

Il Presidente e i parenti delle vittime. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha incontrato il Comitato parenti vittime del Ponte Morandi prima della cerimonia in Prefettura: «Vi ringrazio per questo incontro, ci tenevo molto ad incontrarvi — ha detto il capo dello Stato —. La ferita non si rimargina, il dolore non si dimentica e la solidarietà non viene meno in alcun modo. Condivido la vostra scelta di vederci in Prefettura e non sul Ponte, non perché il nuovo Ponte per la città non sia importante ma perché è una occasione di raccolta e non di frastuono. È essenziale aprire il nuovo ponte per la città, ma questo Ponte non cancella quanto avvenuto».

Il governatore. Dal fronte istituzionale, il governatore della liguria Giovanni Toti ha postato su Facebook un «Benvenuto Ponte Genova San Giorgio: unisci la città e portaci verso un futuro migliore!». Per poi aggiungere: «Senza dimenticare mai le 43 vittime. Il loro ricordo ci ha accompagnato in ogni giorno di lavoro e sarà così per sempre. Il primo pensiero in questa giornata è per chi non c’è più, per le loro famiglie che aspettano giustizia, e noi la pretendiamo con loro. Perché quel ponte non doveva cadere e qualcuno dovrà pagare. Ed è per questo che oggi non sarà una festa. Resta però la soddisfazione per l’impresa riuscita grazie al lavoro di donne e uomini che oggi ringrazieremo e che ci hanno fatto rialzare con fierezza e tenacia. Lo avevamo promesso ed è stato così». Toti e Bucci, un tandem che ha accompagnato l’opera nel corso di questi due anni: «Genova non è in ginocchio. Lo avevamo detto con il sindaco Bucci a poche ore dal crollo di Ponte Morandi - ha aggiunto Toti in conferenza stampa - Eravamo stati anche criticati per questo. Invece avevamo ragione e oggi restituiamo a Genova il suo ponte. In quelle parole pronunciate a caldo, con il dolore che esplodeva in noi ma con le maniche già rimboccate per lavorare, c’era tutto l’orgoglio e la tenacia tipica dei genovesi...La collaborazione tra le due strutture è stata importante. Abbiamo lavorato bene insieme. Abbiamo fatto come le coppie di poliziotti, dove c’è quello buono e quello cattivo... - ha ironizzato - Io ho fatto il poliziotto buono, Bucci quello cattivo. Lo si vede anche dal fisico, io sono quello pacioso, lui è il duro».

Zingaretti. «Nel giorno dell’apertura del nuovo Ponte di Genova il mio pensiero va prima di tutto alle vittime e alle loro famiglie. Quella tragedia rimarrà per sempre scolpita nella coscienza collettiva del Paese», ha invece scritto il segretario Pd, Nicola Zingaretti, sempre su Facebook. «Il nuovo Ponte è oggi un simbolo dell’Italia che, nella memoria, ritrova la speranza nel riscatto e nel futuro», ha aggiunto Zingaretti. «Grazie a Renzo Piano, alla sua generosità e a quella di un popolo, gli italiani, che nei momenti difficili, ha sempre saputo ritrovare la concordia e la determinazione per rialzare la testa».

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 3 agosto 2020. «Sì ma è una data simbolica, si va avanti con l'accordo per mandare via i Benetton», è la voce che arriva da un M5s che non ha voglia di parlare dello slittamento della firma di Cassa Depositi e Prestiti come socio di controllo di Autostrade per l'Italia. Ma proprio l'alto valore simbolico dell'inaugurazione del nuovo Ponte San Giorgio spiega l'imbarazzo che c'è tra i Cinque Stelle. Una conclusione del memorandum che non è arrivata in tempo per oggi, giorno del taglio del nastro dell'opera, che sarà riconsegnata dalla gestione commissariale ad Atlantia, società della famiglia di Ponzano Veneto ancora controllante di Aspi. Una serie di ritardi che sanno di beffa. E che macchiano la passerella del premier Giuseppe Conte. Capo di un governo al momento impossibilitato a esibire lo scalpo dei Benetton in pubblica piazza. Un appuntamento a cui si arriva dopo una trattativa serrata, culminata in un Consiglio dei Ministri thriller nella notte tra il 14 e il 15 luglio. Nessuna revoca della concessione, come promesso dal M5s in questi due anni. Ma una diluizione delle quote dei Benetton in Aspi, che sarà controllata quasi totalmente dallo Stato attraverso Cdp. E ora nel Movimento la sensazione è comunque di soddisfazione, seppure sporcata dalla mancata firma in tempo per l'inaugurazione. I grillini cercano di evitare le domande, provano a far passare la notizia in cavalleria, svicolano, non vogliono che gli si rovini la festa. Nelle chat si parla di altro. I soliti problemi interni: Rousseau, gli Stati Generali, il nuovo capo politico, le restituzioni. La cosa è derubricata a «questione formale». Ciò che è importante, dice un senatore, «è che abbiamo trovato il miglior accordo possibile per evitare che i Benetton gestiscano di nuovo Autostrade». E chi fa domande non è né più né meno di qualcuno che, come si suol dire, vuole trovare il pelo nell'uovo. Restano sullo sfondo le perplessità dei grillini su Paola De Micheli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Forse la meno amata dai pentastellati tra i componenti della compagine di governo. Nel M5s ricordano le parole pronunciate dalla De Micheli in un'intervista a Sky Tg24. «Per il 3 agosto saranno definiti gli accordi tra Cdp e Atlantia, la controllante di Aspi - aveva detto l'esponente del Pd - per quella data avremo definito i dettagli di quel pre accordo che è stato approfondito nel Cdm del 14 luglio». Un programma scombinato dai troppi dubbi sulla questione delle tariffe. Intanto Stefano Giordano, un consigliere comunale di Genova del M5s, ha annunciato che non parteciperà all'inaugurazione in polemica con il governatore Giovanni Toti e il sindaco Enrico Bucci, rei di organizzare «troppe passerelle inutili e offensive». Peccato che anche i grillini a Roma siano preoccupati da un dettaglio, il ritardo della firma di Cdp sul memorandum, che rischia di rovinare la passerella a ministri, sottosegretari e al premier Giuseppe Conte.

Benedetta Vitetta per “Libero quotidiano” il 5 agosto 2020. Una buca nell'asfalto. A ventiquattr' ore esatte dalla cerimonia di inaugurazione col primo passaggio del viadotto fatto dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, il nuovo ponte San Giorgio di Genova, l'ex Morandi, è già da rattoppare. C'è da non crederci, ma purtroppo è quanto accaduto ieri pomeriggio. A pochi minuti dalla riapertura al pubblico - molti quelli che si erano messi in coda per prendere parte all'evento - sono cominciati i primi guai per il nuovo ponte, l'infrastruttura "modello" considerata il simbolo dell'Italia che si rimetteva in piedi dopo la tragedia del 14 agosto 2018 in cui - all'improvviso - il viadotto del Polcevera crollò su se stesso portandosi dietro ben 43 persone. Stando alle prime informazioni, l'avvallamento del manto stradale del nuovo ponte progettato dall'archistar genovese Renzo Piano, sarebbe stato causato dal peso di una delle strutture allestite per la cerimonia di inaugurazione. Ci sarebbe da ridere, ma pensare che da qui alle prossime ore - dopo aver riparato la buca e atteso il tempo affinché l'asfalto si asciughi - sul viadotto transiteranno quotidianamente centinaia di Tir che, di certo, pesano qualche tonnellata in più di una struttura provvisoria poggiata sul ponte per qualche ora, mette i brividi e fa pensare a quanto possa essere sicura la nuova infrastruttura. Realizzata sì in tempi da record, ma forse a ben vedere soltanto in fretta e furia. E senza nemmeno troppi controlli. Basta ricordare la polemica di qualche settimana fa quando si è scoperto che il nuovo viadotto si sarebbe dovuto attraversare a una velocità ridotta rispetto a quella in cui si viaggiava sul ponte Morandi. Passando dai 90 ai 70 km l'ora. E questo perchè, per ridurre i tempi di consegna dell'opera, si è scelto e preferito non modificare una curva del precedente viadotto. E nonostante gli addetti ai lavori fossero a conoscenza della situazione fin dall'inizio, la notizia è stata divulgata soltanto a pochi giorni dalle prove di collaudo. Insomma, a lavori più che ultimati. Una figuraccia che si somma a quest' ultima figuraccia e che è, inevitabile, varcherà i confini nazionali. Mettendoci ancora una volta alla berlina di fronte all'Europa e al mondo. Lo sberleffo finale è stata l'ispezione finale a pochi attimi dalla riapertura da cui è appunto emersa la necessità di una rifinitura della pavimentazione. Una buca da rattoppare. Lavori curati dalla struttura commissariale che sono stati ultimati dai tecnici della società PerGenova. Comunque, dopo due anni e qualche ora di ritardo, il ponte San Giorgio e il tratto di autostrada A10 crollato è tornato in funzione, ancora sotto la gestione da Autostrade (Aspi). E più passano i giorni e più pare che a trattativa tra governo e Atlantia si stia arenando del tutto. I Benetton, anche ieri durante il cda della holding di Ponzano Veneto, Atlantia, hanno confermato l'uscita dalla società concessionaria, ma pensano a «soluzioni alternative» - un'asta internazionale o una public company da quotare in Borsa contenente l'intera quota dell'88% detenuta da Atlantia in Autostrade per l'Italia - viste le «concrete difficoltà» in cui versano le trattative con Cassa Depositi e Prestiti.

Repubblica.it il 2 settembre 2020. Mosso il primo passo per creare la società unica della rete a banda ultralarga, con la firma della lettera d'intenti tra Tim e Cdp, un'altra partita intreccia il lavoro del governo, il ruolo della Cassa depositi e prestiti e Piazza Affari: l'ormai annosa vicenda della concessione autostradale in mano ad Atlantia, la holding della famiglia Benetton. Le ultime indicazioni, che danno una possibile via d'uscita sulla base di una valutazione della società infrastrutturale di 11 miliardi, mettono le ali al titolo Atlantia che nelle prime battute degli scambi non fa prezzo in Borsa, poi entra in contrattazione e a fine seduta segna un rally del 16,2%. Siamo dunque vicini allo scatto definitivo, che deve rompere una impasse nella quale si è riprecipitati nonostante gli impegni siglati dalle parti il 14 luglio scorso. Andiamo con ordine. A metà luglio, si era sottoscritta una lettera che aveva fatto deporre al governo l'arma della revoca della concessione, a fronte di impegni precisi che - oltre a investimenti, risarcimenti per il Ponte Morandi e nuovo sistema tariffario meno premiante per la società - prevedevano la discesa nel capitale dei Benetton con la contestuale salita di Cdp, grazie a un aumento di capitale dedicato. Percorso contestuale alla quotazione in Borsa di Autostrade per l'Italia (che avrebbe scambiato a Piazza Affari direttamente, quindi, e non più attraverso la holding) e assegnazione dei titoli pro-quota ai soci di Atlantia. Nel cuore dell'estate, Atlantia ha lavorato ad alternative - che hanno indispettito la Cassa - quali la vendita diretta della sua quota in Aspi (l'88%) direttamente sul mercato, con l'invito implicito a Cdp a partecipare a un'asta competitiva. Come ha spiegato lo stesso amministratore della Cassa, Fabrizio Palermo, intervistato da Repubblica, il lavoro è comunque proseguito "con tenacia" e "in silenzio" perché non si tratta di una partita "semplice". "Ma ci stiamo avvicinando", diceva solo qualche giorno fa. E in effetti le ultime indicazioni danno per tracciata una nuova via che potrebbe portare all'uscita giusta. Sarebbe ancora un percorso in due tappe, quello indicato da Bloomberg, con lo scorporo del 70% di Aspi da Atlantia, la creazione di una nuova società quotata che potrebbe lanciare un aumento di capitale da 6 miliardi per far entrare Cdp e altri investitori. Coi soldi raccolti, la newco potrebbe abbattere il debito e ricomprarsi il 18% Aspi che sarebbe rimasto in mano ad Atlantia. Di questa roadmap dovrebbero parlare il numero uno di Cdp, Fabrizio Palermo, e il numero uno di Atlantia, Carlo Bertazzo, in un incontro in vista del cda di Atlantia, convocato per domani. Sempre domani, il ministro Gualtieri riferirà in Parlamento sul dossier. Potrebbe essere una soluzione meno invisa ai fondi che partecipano Aspi al 12% (Allianz e Silk Road). Alcuni investitori esteri che si ritrovano nella partita (come il fondo Tci, che ha investito su Atlantia) hanno chiesto l'intervento della Commissione europea denunciando l'attivismo del governo sul dossier e la scelta di abbattere il maxi-indennizzo in caso di revoca con un tratto di penna del Milleproroghe, fattore che ha reso la società non più bancabile. Anche il faro europeo, dunque, è da tenere presente nello sviluppo della vicenda.

Teodoro Chiarelli per ''La Stampa'' il 17 settembre 2020. Caso Autostrade: sarà per l'imminente appuntamento elettorale, sarà per la complessità della trattativa, ma la tensione fra governo e Cdp, da un lato, e Atlantia-Aspi, dall'altro, è tornata al calor bianco. Dopo le bordate di Cdp e di alcuni ministri, è partita la controffensiva della holding della famiglia Benetton. L'ultima mossa è la durissima lettera inviata da Atlantia alla Commissione Ue lo scorso 9 settembre firmata dal presidente Fabio Cerchiai e dall'ad Carlo Bertazzo. I punti fondamentali riguardano il paragrafo 3 della missiva, in cui la società evidenzia alla Commissione le "undue conditions" (indebite condizioni) con le quali l'esecutivo a suo parere intende forzare la vendita a Cdp bypassando ogni procedura di mercato. Ma andiamo con ordine. Il 2 settembre il Mit invia ad Aspi la bozza di atto aggiuntivo e la bozza di atto transattivo (per chiudere la procedura di revoca della concessione aperta il 16 agosto 2018). Il Mit riconosce che Aspi ha rispettato gli aspetti economico-regolatori dell'accordo (3,4 miliardi di euro di oneri compensativi per il crollo del Morandi, investimenti per 14,5 miliardi e manutenzioni per 7 miliardi al 2038, tasso di rendimento degli investimenti che passa dall'11% al 7.09%, incremento tariffario massimo dell'1,75% annuo fino a fine convenzione). C'è però un dettaglio: nell'articolo 10 dell'atto transattivo, il Mit scrive che l'efficacia dell'accordo e la chiusura della procedura di revoca saranno efficaci solo quando Aspi passerà a Cdp. Il cda di Aspi, 4 giorni dopo, risponde al Mit osservando che la società non può garantire per un suo azionista, e che a suo parere è giuridicamente e amministrativamente impossibile vincolare l'efficacia di un accordo tra Aspi e Mit alla volontà di due firmatari privati, che nulla hanno a che vedere con il rapporto concessorio. Dal Mit, a quanto risulta, nessuna risposta. Gli azionisti esteri di Atlantia si inquietano. Vedono nella lettera del Mit il tentativo di impedire che Aspi venga scissa tramite una procedura aperta e trasparente di mercato. Il loro ragionamento è che vincolare la vendita a un soggetto unico (Cdp), mentre è in corso una trattativa tra Atlantia e Cdp stessa significa coartare il processo di vendita a senso unico. Così il Cda di Atlantia scrive a Bruxelles. Pesanti le accuse al governo: «Sta agendo in palese conflitto di interessi, esercitando nello stesso tempo il ruolo di legislatore, autorità pubblica e operatore di mercato: un conflitto che contrasta con i principi fondamentali della "rule of law"». Scrive Atlantia: «L'atto transattivo per la chiusura della procedura di revoca della concessione di Aspi è stato condizionato all'esecuzione di un Accordo Quadro (condizione non richiesta fino ad allora). Questo implica che la procedura di revoca riguardante Aspi potrà essere chiusa (e la conseguente revoca della concessione ad Aspi evitata) solo se il suo principale azionista, Atlantia, avrà venduto le sue azioni di Aspi a Cdp. Il procedimento amministrativo e la sua transazione non vengono usate per la loro finalità naturale, ma come leva per imporre condizioni scorrette in una negoziazione diversa, che è in corso tra un azionista privato, Atlantia, e una società controllata dallo Stato, Cdp, al di fuori di corrette operazioni di mercato». E ancora: «Cdp ha richiesto che l'Accordo Quadro sia condizionato a un impegno che dev' essere assunto da una terza parte, Edizione srl - che detiene il 30% del capitale di Atlantia - a uscire definitivamente dalla catena di controllo di Aspi. Va evidenziato che questa indebita condizione non è legata in nessun modo all'obiettivo del sopra citato Accordo; né riguarda l'interesse di Cdp (la presenza di Edizione nella catena di controllo con azioni diluite non intacca gli interessi di Cdp e, anzi, una vendita forzata della quota di Edizione potrebbe incidere in modo negativo sul valore di Aspi e sugli investitori di Atlantia). Tale condizione si configura come un mero diktat politico, introdotto bruscamente e indebitamente in una negoziazione commerciale». Secondo Atlantia questa iniziativa è «parte della campagna demagogica lanciata da politici italiani e da membri del governo contro gli azionisti di riferimento di Atlantia, con la finalità di guadagnare facile consenso politico». Ma un altro tema sta diventando centrale nella trattativa: Cdp chiede di avere manleve sia sulle richieste di risarcimento danni indiretti che potrebbero arrivare ad Aspi per il crollo del Morandi, sia su eventuali problemi infrastrutturali che in futuro potrebbe avere la rete autostradale. Da Atlantia un secco no: l'acquisto di un asset comporta anche un normale rischio di impresa.

Paolo Griseri per “la Stampa” l'1 ottobre 2020. Il 16 agosto del 2018, tra le macerie del Ponte Morandi, il premier Conte aveva annunciato la revoca della concessione ad Atlantia perché «la politica non può attendere i tempi della giustizia». Ieri sera, oltre 600 giorni dopo, lo stesso Conte ha inviato ad Atlantia l'ennesimo penultimatum promettendo fuoco e fiamme, e naturalmente la revoca della concessione entro dieci giorni. È evidente che la credibilità di una minaccia è inversamente proporzionale al numero di volte che viene pronunciata. Perché Atlantia dovrebbe considerare seria la faccia feroce del governo di ieri dopo aver ignorato senza conseguenza alcuna le precedenti? La vicenda è molto istruttiva. Dice che la realtà è più complicata dei proclami della politica, soprattutto del populismo a buon mercato distribuito senza troppi pudori sul luogo di una tragedia. C' è una cosa peggiore delle colpe dei responsabili del crollo di Genova: è l' aver illuso i parenti delle vittime sfruttando il loro dolore per un pugno di voti.

Francesco Spini per “la Stampa” l'1 ottobre 2020. «Confidiamo nell' equilibrio del presidente Conte che ha dimostrato in varie circostanze di essere capace di fare mediazioni anche complicate e che noi consideriamo un riferimento di garanzia per tutti». Sul fare della sera è il presidente di Atlantia, Fabio Cerchiai, a tirare le fila di giornate complicate e a lanciare un ultimo appello a Palazzo Chigi. «Ci auguriamo - dice - che nei prossimi giorni sia possibile pervenire alla sottoscrizione di questo atto transattivo da parte di Autostrade per l' Italia, e si possa proseguire nel processo di dismissione di Aspi da parte di Atlantia, anche con Cdp. E che si voglia evitare un contenzioso che sarebbe lungo, costoso e sicuramente, a parer mio, di non interesse per nessuno, né per il privato né per il pubblico». Accanto a lui l'ad di Atlantia, Carlo Bertazzo, e l' omologo di Aspi, Roberto Tomasi, ripercorrono il film dell' ultimo anno, tra alti e bassi di trattative complicate, a seguito della tragedia del ponte Morandi. Bertazzo ricorda bene la lettera dell' accordo col governo del 14 luglio, il cui contenuto, fa capire, fu praticamente dettato dall' esecutivo: «Di nostre c' erano solo due parole: "Distinti saluti"». Il 1° settembre, a suo dire, si arriva a un passo dalla conclusione positiva, tanto che il titolo Atlantia corre in Borsa. «Poi nella notte del 2 settembre - ricostruisce Bertazzo - riceviamo due sorprese dal ministero delle Infrastrutture e da Cdp, che fa diversi passi indietro». Quest' ultima chiede nuovi vincoli, quattro punti in cui tra le altre cose, dice l' ad, «pone come condizione di efficacia» all' intesa «l' ottenimento dell' impegno da parte di Edizione (la finanziaria dei Benetton, ndr) a vendere la sua partecipazione nella beneficiaria (la società in cui verrebbe scissa Atlantia, col controllo di Aspi, ndr) o il giorno stesso in cui viene quotata o in un arco temporale. Una cosa che nemmeno commento e che non è nella nostra disponibilità come Atlantia». E poi arriva la richiesta della manleva per i danni indiretti. Sollevare questo tema, per l' ad, «è un po' specioso: prima di affrontare questi dettagli di solito si parla di prezzo. Per quantificare tali danni mancano elementi essenziali. Quello che diciamo è: se volete, fate una valutazione. Dopo una dettagliata due diligence con tutte le informazioni, indicate nel prezzo che formulerete la vostra migliore stima dei danni indiretti e di eventuali altre passività». Secondo Bertazzo c' è anche un tema di «parità di trattamento fra soci: chi entra avrebbe garanzie che gli altri azionisti, a valle della scissione, non si ritroverebbero». A colpire Atlantia è poi la clausola che il ministero inserisce, all' articolo 10, con cui vincola l' efficacia dell' accordo al perfezionamento «dell' operazione di riassetto societario» con l' ingresso di Cdp. Un dietrofront, il 2 settembre, che in Atlantia non si spiegano. «La mia convinzione personale - ragiona l' ad - è che qualcuno si sia chiesto: "Ma come, state raggiungendo un accordo con Atlantia e il titolo fa +16%? Vuole dire che è un brutto accordo, non punitivo per Atlantia"». Bertazzo ora spera che il ministero approvi l' accordo transattivo e la revisione della concessione. «Se nonostante il 6 a 0 che ci hanno inflitto tra modifiche normative, tariffarie e regolatorie, per puntiglio politico, si arrivasse al commissariamento o a una revoca, ci sarebbe un effetto sistemico sia su Aspi sia su Atlantia. I creditori avrebbero la facoltà di chiedere il rimborso immediato del debito di Aspi e di gran parte di quello della holding, per complessivi 15-16 miliardi netti». Soldi che in cassa non ci sono. «Dovremmo avviare procedure concorsuali a tutela dei creditori e iniziative di difesa, a livello amministrativo e non solo». Il riferimento è anche all' Ue, che vuole capire gli effetti generali di un default di tali dimensioni.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 15 ottobre 2020. L'unica cosa certa è che l'accordo non c'è. Annunciato in pompa magna il 15 luglio, guarda caso proprio in prossimità dell'inaugurazione del nuovo ponte di Genova e a meno di un mese dall'anniversario della strage in cui persero la vita 43 persone, il verbale che doveva sancire l'uscita dei Benetton da Autostrade è poco più di un'ipotesi di lavoro, un appunto scritto buono per la discussione e nient' altro. Infatti da quel giorno, che ormai risale a tre mesi fa, si discute, ma senza trovare un punto fermo. O meglio: un punto fermo c'è ed è che la famiglia dei maglioni multicolore sta vendendo cara la pelle. Altro che «neppure un euro ai Benetton», come dissero in coro sia Giuseppe Conte che Luigi Di Maio: ai signori di Ponzano Veneto di euro ne andranno molti e sarà lo Stato, tramite Cassa depositi e prestiti, a scucirli. Che l'intesa annunciata con enfasi fosse fumo negli occhi dell'opinione pubblica non ci voleva molto per scoprirlo. E infatti, nel nostro piccolo ci eravamo permessi di segnalare da subito che qualche cosa nella versione di governo non tornava. Difficile del resto costringere un'azienda quotata in Borsa a privarsi di un pezzo importante della propria attività senza avere in cambio alcuna contropartita. Impossibile poi che una società con azionisti internazionali potesse accettare un esproprio senza rimborso. E infatti, la tanto annunciata «caducazione della concessione» non ci sarà e non perché si voglia fare un favore ai magliai di Treviso, ma perché se ne vuole fare uno agli italiani, che correrebbero il rischio di dover ripagare con miliardi le dichiarazioni un po' spaccone del duplex Conte-Di Maio. Già, la revoca sbandierata dai compagni di merende che soggiornano a Palazzo Chigi rischiava di essere un autogol e di regalare miliardi alle future generazioni del clan di Ponzano. Dunque, dopo che all'avvocato del popolo, divenuto grazie all'alleanza col Pd avvocato di sé stesso, è stato spiegato tutto ciò, il governo ha tirato il freno facendo tirare un respiro di sollievo anche a chi ha a cuore il bilancio pubblico. Risultato, a Cassa depositi e prestiti, il braccio operativo e finanziario dell'esecutivo, è stato dato mandato di trattare. La discussione non dev' essere stata facile, visto che si partiva dalla «caducazione» della concessione, cioè da una decisione giuridicamente zoppicante. Diciamo che rapinare una banca (e i Benetton un po' una banca lo sono) con una pistola ad acqua può anche non finire bene e la revoca della concessione era un po' un'arma scarica, che in punta del diritto rischiava di finire con un rovescio delle finanze dello Stato. Dunque in questi mesi Cdp e Autostrade si sono date da fare per trovare un'intesa che non facesse perdere troppi soldi ai Benetton e non facesse perdere la faccia al governo e a sua altezza il re di Volturara Appula. Risultato, come informa l'Huffington Post, si procede per il raggiungimento delle seguenti cose. La trattativa prevede la vendita dell'88 per cento di Autostrade a Cassa depositi e prestiti e ai suoi partner. Quanto Cdp e i partner debbano sganciare per comprarsi la quota non è noto, ma alcune stime avvalorano la cifra di 10 miliardi, che dunque entreranno nelle tasche di Atlantia e, di conseguenza, dei Benetton che della holding sono importanti azionisti. Non è finita. La discussione per giorni è ruotata intorno alla manleva, ovvero alla garanzia che il precedente azionista, vale a dire la sacra famiglia dei maglioni, dovrebbe prestare al nuovo socio, cioè allo Stato per tramite di Cassa depositi e prestiti. Da ciò che si capisce non ci sarà nessuna assicurazione: una volta venduta, Autostrade sarà a carico, con debiti, crediti e cause, del nuovo proprietario e non più dei magliai. Tradotto, significa che dal punto di vista penale i manager dell'azienda risponderanno personalmente se condannati, ma l'azienda, intesa come gruppo veneto, sarà preservata e gli eventuali risarcimenti a cui Autostrade potrebbe essere condannata saranno a carico dello Stato. Non è finita: come ci è stato spiegato, la nostra rete viaria a pedaggio è messa male perché non ha ricevuto manutenzione e dunque è necessario investire per metterla al sicuro. Gli investimenti anche in questo caso saranno a carico di chi compra, cioè sempre di Pantalone. Riassumendo, pagheremo i Benetton per comprare da loro Autostrade. Li libereremo dai debiti e anche dalle cause e in più ci accolleremo le spese per ammodernare la rete autostradale. Per dirla con Alessandro Di Battista, abbiamo preso a schiaffi i magliai di Ponzano. Ho la sensazione che milioni di italiani farebbero la fila per essere presi a schiaffi così.P.s. Dimenticavo: tra le fake news diffuse dal governo c'era pure quella dei dividendi. Ai Benetton sarebbe stato vietato di mettersi in tasca gli utili di Atlantia. Non era vero.

Ponte Morandi, arrestati Castellucci e altri manager di Autostrade per l’Italia. Fiorenza Sarzanini e Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera l'11/11/2020. La Guardia di Finanza ha eseguito nella mattinata di oggi, 11 novembre, sei misure cautelari nei confronti di tre ex top manager e di tre attuali dirigenti della società Autostrade per l’Italia. Agli arresti domiciliari sono l’ex amministratore delegatoGiovanni Castellucci (qui, il ritratto dell’ex manager per 20 anni alla corte dei Benetton) , il direttore delle operazioni Paolo Berti e Michele Donferri Mirella. Stefano Marigliani — direttore del primo tronco Autostrade, ora trasferito a Milano —, Paolo Strazzullo — responsabile delle ristrutturazioni pianificate sul Morandi, per l’accusa mai eseguite — e Massimo Miliani hanno invece subito l’interdizione per 12 mesi. L’inchiesta che ha portato agli arresti è nata dopo il crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto del 2018, che ha causato la morte di 43 persone, e si è mossa in modo parallelo ad essa. In particolare, riguarda la fornitura di barriere fonoassorbenti risultate poi pericolose. Le accuse ipotizzate nei confronti degli arrestati sono attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture.

Le accuse: «Barriere incollate con il Vinavil». La Guardia di Finanza, in una nota, parla di «numerosi e gravi elementi indiziari e fonti di prova», acquisiti con testimonianze e analisi documentali e tecniche: in particolare, sarebbe emersa la «consapevolezza», da parte degli arrestati, «della difettosità delle barriere e del potenziale pericolo per la sicurezza stradale, con rischio cedimento nelle giornate di forte vento (fatti peraltro realmente avvenuti nel corso del 2016 e 2017 sulla rete autostradale genovese)» e «la consapevolezza di difetti progettuali e di sottostima dell’azione del vento, nonché dell’utilizzo di alcuni materiali per l’ancoraggio a terra non conformi alle certificazioni europee e scarsamente performanti». La resina usata per le barriere — come ammette un indagato in una intercettazione — non aveva il marchio CE: «Sono incollate con il Vinavil», mentre altre si sono «sbragate». «Quante sono le ribaltine scese — chiede Donferri — e quanti i Comuni che hanno rotto il c...? Solo Rapallo ha rotto il c...». E poi, ridendo: «Gliele abbiamo ritirate su e ci siamo inventati il criterio della manutenzione...». Agli arrestati viene contestata «la volontà di non procedere a lavori di sostituzione e messa in sicurezza adeguati, eludendo tale obbligo con alcuni accorgimenti temporanei non idonei e non risolutivi. Per questo è scattata la frode nei confronti dello Stato».

«Una personalità spregiudicata, incurante delle regole». Su Castellucci, il gip Paola Faggioni scrive che «era perfettamente al corrente della situazione di problematicità delle barriere e costantemente informato sulle decisione per la gestione delle stesse, che ha pienamente avallato e sostenuto». La necessità di imporre gli arresti domiciliari è motivata dal «pericolo attuale e concreto di inquinamento probatorio e di reiterazioni di reati. Tali esigenze cautelari si desumono principalmente dalle modalità della condotta, sintomatiche di una personalità spregiudicata e incurante del rispetto delle regole, ispirata a una logica strettamente commerciale e personalistica, anche a scapito della sicurezza collettiva».

La difesa: «Vicenda distinta dal crollo del Morandi». «È opportuno precisare, che si tratta di due vicende completamente distinte» dicono i legali di Castellucci che esprimono «stupore e preoccupazione per un provvedimento che non si giustifica in sé e che non si vorrebbe veder finire a condizionare una vicenda, quella del crollo del Ponte Morandi, che con quella odierna non ha nulla a che vedere».

L’ex dirigente di Aspi nel 2018 diceva: «I cavi sono corrosi». Nell’indagine le barriere fonoassorbenti pericolose (nata un anno fa dopo quella sul crollo del Ponte Morandi del 14 agosto 2018) è finita però anche una conversazione whatsapp di Michele Donferri Mitelli. L’ex dirigente Aspi il 25 giugno 2018 (un mese e mezzo prima del crollo del viadotto in cui sono morte 43 persone) diceva: «I cavi del Morandi sono corrosi». La chat viene ripresa nell’ordinanza che ha portato stamane ai domiciliari l’ex ad di Aspi, Giovanni Castellucci, oltre allo stesso Donferri che mandò quel messaggio via WhatsApp a Paolo Berti, ex dirigente anche lui finito ai domiciliari. Berti aveva scritto a Donferri di iniettare aria deumidificata nei cavi del viadotto Polcevera per levare l’umidità. Donferri risponde che i cavi sono già corrosi e di nuovo Berti risponde «sti cazzi io me ne vado».

La risposta della società. Alcune ore dopo le misure contro attuali ed ex manager, Autostrade per l’Italia si è difesa sostenendo che «tutte le procedure di controllo e di sicurezza, nonché le soluzioni progettuali per la sostituzione delle barriere, sono state definite con gli organi tecnici preposti del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti». Le barriere, che sarebbero presenti su «60 chilometri» della rete autostradale, sono «già state verificate e messe in sicurezza» e a inizio anno è partito il piano di sostituzione (che dovrebbe prendere concretezza a partire «dalla seconda metà del 2021»). Aspi sostiene inoltre che due dei manager coinvolti siano stati già sospesi, mentre gli altri fossero già tutti fuori dalla società.

Arresti Autostrade, le carte: il top manager Donferri che cerca di far sparire i documenti e Castellucci che "governa ancora". Giuseppe Filetto,  Marco Lignana su La Repubblica l'11 novembre 2020. Le intercettazioni: l'ex ad tratta con Toti il salvataggio di Banca Carige e nel frattempo fa pressioni sul generale dell'Arma dei Carabinieri per avere "protezione" dall'assalto dei giornalisti. E' finito in manette l'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, ai domiciliari insieme agli ex top manager di Autostrade Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti. E interdizioni sono scattate per l'ex dirigente Stefano Marigliani e per i tecnici di alto livello Paolo Strazzullo e Massimo Meliani, loro ancora dentro l'azienda. Tutti accusati di frode nelle pubbliche forniture e attenato alla sicurezza dei trasporti. Nelle 106 pagine di ordinanza scritte dal gip Paola Faggioni si leggono dichiarazioni e intercettazioni sconvolgenti. Quelle barriere anti-rumore pericolanti installate lungo la strada, ammette un indagato, "sono incollate con il Vinavil" mentre altre si sono "sbragate". E scrive il giudice per le indagini preliminari, non vennero cambiate "per evitare le ingenti spese che avrebbe comportato".

Così il manager Donferri voleva far sparire i documenti. In piena inchiesta sul crollo, ma un anno dopo la strage, Michele Donferri Mitelli non è più il direttore delle Manutenzioni, è stato destinato ad altro incarico. Comunque, chiama un suo collaboratore, Matteo Biello. Siamo al 17 settembre del 2019 e la telefonata viene intercettata dai militari del Primo Gruppo (comandati dal colonnello Ivan Bixio) e da quelli del Nucleo Operativo Metropolitano guidati dal tenente colonnello Giampaolo Lo Turco. I contenuti sono nelle 106 pagine di ordinanza scritta dal gip di Genova Paola Faggioni.

Donferri dice: "Matteo, portati un bekl trolley grosso...cominciamo...devo comincià a prendere l'archivio Polcevera... un cosetto al giorno, tanto sono scatole di legno, ti stampi le foto e la roba che ci sta dentro...".

E l'altro: "...Sì, va bene...". Il manager gli dà appuntamento: "Ci vediamo a Viale Europa...una volta a sera...".

Non basta, due giorni dopo chiama con Whatsapp la segretaria Nadia Spione, che gli dice di non riuscire "a trovare la cartellina verde...". E lui: "...Allora se tu vai sul...ma devi fare tutto da sola...e chiuditi la porta". E ancora le consiglia di cancellare i messaggi: "...Li levi...hai capito?". 

Le pressioni di Castellucci sul generale dell'Arma. Michele Donferri Mitelli "ha la straordinaria capacità di esercitare forti pressioni e di condizionamento anche sulle forze dell'ordine", scrive il gip Paola Faggioni nell'ordinanza di custodia cautelare. Tanto da spingere il generale dei carabinieri Franco Mottola a chiedere l'intervento dei suoi colleghi di Genova per "proteggere" Giovanni Castellucci dai giornalisti durante l'interrogatorio che si dovrà tenere a Palazzo di Giustizia del capoluogo ligure. Donferri lo fa mentre raccomanda al generale il figlio di un suo collega che qualche giorno dopo dovrà sostenere il concorso per l'accesso all'Arma. E' il 26 novembre del 2018, tre mesi dopo del crollo. Donferri sa già di essere indagato, ha ricevuto l'avviso di garanzia e probabilmente immagina di essere intercettato. Comunque, chiama il generale: "Dico se poteva dare qualche indicazione a Genova...". Teme l'assalto dei media. E spiega che Castellucci "poveraccio non se lo merita...non vorrei che lo trattassero male...". Due giorni dopo, il direttore delle Manutenzioni di Autostrade richiama per avere conferma: "Mi raccomando per stamattina...per favore...". Il generale Mottola assicura di "avere fatto chiamare", ma quando Castellucci arriva in Procura non vede i carabinieri, con ogni probabilità informa Donferri, il quale ripete la richiesta. Mottola assicura di "avere fatto pressioni sia sul comandante provinciale Sciuto, sia su quello della Legione Nardone", ed ha cura di precisare che "entrambi gli avrebbero manifestato l'intenzione di andare personalmente a ricevere il Castellucci ma di avere timore per eventuali critiche". Donferri a quel punto, quasi come un rimprovero, dice: "Vorrei farle vedere la diretta tv perchè vedo una marea di gente ma non vedo i militi...".

Castellucci "governa ancora" e quella "trattativa" con Toti per salvare Banca Carige. Del resto il gip Paola Faggioni "racconta" Giovanni Castellucci come una persona che "ha da sempre avuto il pieno controllo di Aspi e per molto tempo anche di Atlantia. Nonostante le sue dimissioni dal gruppo, sussiste il pericolo attuale e concreto di inquinamento probatorio e di reitarazioni di reati della stesse specie di quelli per cui si procede". Del resto sono gli stessi dirigenti vicinissimi a Benetton, come l'amministratore delegato di Edizione Holding Gianni Mion, a dire in una conversazione intercettata che "Castellucci sta ancora il governando il processo". E poi la condotta di Castellucci, scrive sempre il Gip, è figlia di una "personalità spregiudicata e incurante del rispetto delle regole, ispirata a una logica strettamente commerciale e personalistica, anche a scapito della sicurezza collettiva". Quando nel 2017 si staccano alcune parti delle barriere anti-rumore da un tratto di autostrada A12 e gli vengono spedite le foto su WhatsApp, lui commenta così: "Le barriere le ha progettate Renzo Piano? A onda?". Si legge sempre nelle carte, "dagli accertamenti sono emerse la conoscenze da parte di Castellucci in ambienti di altissimo livello e la sua propensione alla strumentalizzazione delle conoscenze e dei rapporti a fini personali". E qui il gip cita una vicenda che coinvolge pure Banca Carige, all'epoca dei fatti in una situazione difficilissima, e l'appena rieletto presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. Una vicenda con, sullo sfondo, il nodo cruciale della revoca o meno della concessione dopo la tragedia di Genova, quando al Governo c'è l'alleanza fra la Lega e il M5S, "partito" quest'ultimo che fin dai primi minuti successivi al crollo del viadotto Polcevera ha parlato apertamente di revoca della concessione. Quel che traspare è una sorta di abbozzo di trattativa, ovviamente poi mai messa in pratica: da una parte Aspi avrebbe potuto aiutare Carige, quindi il territorio genovese duramente colpito dal crollo, dall'altro avrebbe potuto mantenere la concessione o comunque non essere duramente danneggiata dalle manovre di Governo. Scrive il gip che "dall'ascolto di alcune conversazioni intercettate è emerso che all'indomani del disastro del ponte Morandi Castellucci ha cercato con ogni mezzo di ricostruire buoni rapporti con lo Stato, offrendo, condizionatamente, cospicue somme di denaro. In questo contesto rilevano alcune conversazioni dalle quali emerge la disponibilità da parte di Castellucci a fornire un aiuto economico per il salvataggio della Banca Carige al fine di ricucire buoni rapporti con il Governo". Così ecco che il 30 ottobre 2018, due mesi e mezzo dopo il crollo di ponte Morandi, lo stesso Toti chiama Castellucci. Il presidente della Regione parla della "roba che ti ho proposto di Carige... come dire, è ovvio che noi lo, lo saluteremo con grandissimo favore... una volta che tu mi dici che c'è la disponibilità, io ci parlo con Giorgetti e con Salvini eh, per dirgli che è una cosa ovviamente concordata". Castellucci risponde che "io il problema è che per venderlo ai miei azionisti e venderlo, diciamo al mercato, ho bisogno che sia... all'interno di un quadro". Al che Toti risponde: "L'unica cosa che possiamo fare è chiedere alla Lega, è dire ragazzi, noi ci stiamo esponendo per salvarvi una banca e togliervi rotture di coglioni... poi se non ne tenete conto siete dei pazzi!". Toti entra anche nel merito della questione: "Poi la dovete valutare voi quanto, non è una roba gigantesca l'aiuto che chiede Modiano (Pietro, ex commissario di Banca Carige, ndr)... penso su 150 milioni ma di garanzie perché di fatto... loro stanno pensando a un aumento da 400 che metterebbe... in sicurezza la banca... di cui 250 sottoscritti dalla famiglia Malacalza... e 100, 150 sottoscritti a garanzia, come consorzio di garanzia". La risposta di Castellucci, però, è definitiva: "Certo! Il problema è che io per raccontarla ai miei ho bisogno di qualcosa in più... ovviamente!". E Toti conferma: "Eh, sì ma, eh, per quanto possa essere in più, può essere, al massimo come si dice, una dichiarazione informale". Per il Gip, il presidente della Regione "si sforza di non perdere l'occasione guardandosi bene dal fare promesse".

Ponte Morandi, arrestato l'ex ad di Autostrade Giovanni Castellucci. All’alba, la guardia di finanza, coordinata dalla procura della Repubblica di Genova, ha eseguito misure cautelari nei confronti di tre ex top manager e tre attuali dirigenti della società. Ignazio Riccio, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. È giunta a un punto di svolta clamoroso l’indagine partita dopo il crollo del ponte Morandi di Genova. All’alba, la guardia di finanza, coordinata dalla locale Procura della Repubblica, ha eseguito misure cautelari nei confronti di tre ex top manager e tre attuali dirigenti di Società Autostrade per l’Italia (Aspi). Ai domiciliari è finito Giovanni Castellucci, amministratore delegato della società fino al gennaio del 2019, quando è stato liquidato con una cifra che sfiora i 13 milioni di euro e sostituito da Roberto Tomasi. A Castellucci gli inquirenti contestano il reato di inquinamento probatorio. Ai domiciliari anche Michele Donferri, ex capo dell'area manutenzioni, e Paolo Berti, ex capo dell'area operazioni. Tre misure interdittive riguardano invece rispettivamente Stefano Marigliani, già direttore del primo tronco di Genova, e i dirigenti tecnici Paolo Strazzullo e Massimo Miliani. L’ex amministratore delegato, secondo l’accusa, avrebbe tentato di depistare le indagini dei pubblici ministeri sul crollo del ponte Morandi. Dalle verifiche risulterebbe che i manager indagati sarebbero stati consapevoli dei difetti delle barriere e del potenziale pericolo per la sicurezza stradale, con rischio cedimento nelle giornate di forte vento, e, nonostante ciò, non avrebbero messo in sicurezza la struttura. Il gip di Genova nell'ordinanza applicativa delle misure cautelari ha scritto che Castellucci "era perfettamente al corrente della situazione di problematicità delle barriere e costantemente informato sulle sue decisioni per la gestione delle stesse". Non si è fatta attendere la risposta dell’Aspi, la quale sostiene che le barriere anti-rumore oggetto dell'indagine della Procura di Genova, sono state messe in sicurezza tra le fine del 2019 e gennaio 2020. La nota specifica che "la totalità di queste barriere è già stata verificata e messa in sicurezza con opportuni interventi tecnici tra la fine del 2019 e gennaio 2020, nell'ambito del generale assessment delle infrastrutture messo in atto dalla società su tutta la rete autostradale". "L'indagine della Procura di Genova, che ha portato stamane a misure cautelari nei confronti di 4 ex manager di Aspi e di due tecnici (uno del tronco genovese e l'altro trasferito presso il traforo del Monte Bianco) - si legge nella nota - riguarda una specifica tipologia di barriere integrate anti-rumore, denominate 'Integautos', presenti su circa 60 dei 3.000 km di rete di Autostrade per l'Italia. La società era venuta a conoscenza delle attività di indagine lo scorso 10 dicembre 2019, a seguito di un provvedimento di sequestro di documentazione notificatole dalla guardia di finanza di Genova, come reso noto dalla società stessa nella successiva trimestrale". Come riporta Tgcom24, un dirigente intercettato avrebbe rivelato che la resina usata per le barriere fonoassorbenti non aveva il marchio CE ma "sono incollate con il Vinavil" mentre altre si sono "sbragate". Castellucci è stato per diciotto anni ai vertici di Autostrade per l'Italia prima e di Atlantia poi. Dopo la tragedia del ponte Morandi è rimasto alla guida di Atlantia ancora per oltre un anno, fino al 17 settembre 2019. Quella di Genova non è stata tuttavia la prima inchiesta a mettere nel mirino il top manager della holding che controlla Aspi: dopo un incidente sulla Napoli-Bari, il 28 luglio del 2013, costato la vita a 40 persone, Castellucci fu rinviato a giudizio con l'accusa di concorso in omicidio colposo plurimo e disastro colposo. Nell'incidente un autobus, privo di revisione e con problemi ai freni, sfondò il guardrail precipitando da un viadotto. Castellucci, per cui la pubblica accusa aveva chiesto dieci anni, venne assolto ma ad essere condannati furono altri dirigenti di Autostrade. Il viadotto Polcevera (noto anche come ponte Morandi o ponte delle Condotte) cavalcava il torrente sottostante e i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, nella città di Genova. Fu progettato dall'ingegnere Riccardo Morandi e venne costruito fra il 1963 e il 1967, ad opera della Società Italiana per Condotte d'Acqua. Il viadotto, con i relativi svincoli, costituiva il tratto finale dell'autostrada italiana A10 (gestita dalla concessionaria Atlantia), a sua volta ricompresa nella strada europea E80. Tale attraversamento rappresenta un tassello strategico per il collegamento stradale fra l'Italia settentrionale e la Francia meridionale, oltre a essere il principale asse stradale fra il centro-levante di Genova, il porto container di Voltri-Pra', l'aeroporto Cristoforo Colombo e le aree industriali della zona genovese. Il 14 agosto 2018 fu chiuso al traffico, a seguito del crollo dell'intero sistema bilanciato della pila 9 della struttura, che ha provocato 43 morti e 566 sfollati. Nel febbraio 2019 se ne è avviata la demolizione, mediante tecniche di smontaggio meccanico. La demolizione è culminata, idealmente e a livello mediatico, nella demolizione con esplosivi dei due piloni strallati superstiti, avvenuta il 28 giugno 2019 e poi terminata (eccetto che per la rimozione delle macerie) con la demolizione dell'ultima pila il 12 agosto 2019. Il 3 agosto 2020 è stato inaugurato, in sua sostituzione, il nuovo viadotto Genova San Giorgio, su progetto dell'architetto Renzo Piano, aperto al traffico il 4 agosto 2020.

Autostrade, l’intercettazione da brividi: “43 morti a Genova, 40 ad Avellino. Siamo sulla stessa barca”. Le intercettazioni che emergono dagli atti dell’inchiesta della Procura di Genova a carico dei dirigenti di Autostrade per attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture che nelle scorse ore ha portato all’arresto dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, del direttore delle operazioni Paolo Berti e di Michele Donferri Mirella. Antonio Palma l'11 novembre 2020 su Fanpage. "Quarantatre morti de là… quaranta de qua. Stiamo tutti sulla stessa barca" è una delle intercettazioni shock che emerge dagli atti dell‘inchiesta della Procura di Genova a carico dei dirigenti di Autostrade per attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture che nelle scorse ore ha portato all'arresto dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, del direttore delle operazioni Paolo Berti e di Michele Donferri Mirella, ex responsabile manutenzioni del gruppo. L'intercettazione riguarda una conversazione tra gli ultimi due che parlano anche del primo in relazione al procedimento a carico di Aspi al Tribunale di Avellino per la strage del Bus caduto dal viadotto autostradale in cui persero la vita 40 persone nel luglio 2013. "Hai capito Paole’ … questo però, che tu sia stanco non è chi, gli puoi… imputa’, lui che ci sono quarantatre morti de là .. quaranta de qua. Stamo tutti sulla stessa barca” dice Donferri a Berti che è particolarmente adirato per la pesante condanna a 5 anni di reclusione e per l'assoluzione di altri dirigenti di Aspi come appunto Castellucci, nel processo di Avellino. Come scrive il giudice, la loro conversazione è sintomo di una "personalità spregiudicata e incurante del rispetto delle regole" da parte di Castellucci "ispirata a una logica strettamente commerciale anche a discapito della sicurezza collettiva". Dalla conversazione infatti "si comprende che Berti nell'ambito del processo non ha riferito la verità per difendere la linea aziendale, condotta che ha contribuito all'assoluzione di Castellucci e che quest'ultimo, interessato che Berti mantenga tale impostazione anche in futuro, ha incaricato Donferri di tenerlo tranquillo e rassicurarlo del suo futuro aiuto", ha scritto il Gip Daniela Giuffrida per giustificare le misure cautelari nei confronti di Castellucci. "Ha chiesto una mediazione con te ti vuole rasserenare che ti aiuterà per tutta la vita ti vuole dire questo messaggio” spiega Donferri nella telefonata, invitando Berti a fare” tesoro dell’attuale momento. Rivendica quello che devi rivendica”. L'uomo non è coinvolto nei fatti di Avellino, ma con Castellucci e lo stesso Berti è indagato per la strage del Ponte Morandi a cui fa riferimento. "Tu non pensare che se se coinvolgevi pure lui a te non te li davano, è questo il tema. Questo glielo devi far pesare, come l’ho fatto pesare io oggi. Ora, io sto dicendo tu… il tuo obiettivo è salvaguardare il rapporto con lui, è l’unica speranza che hai, da qui al futuro perché ti darà tutto nel senso di condividere la strategia, condividere le cose. Almeno quello poi, state insieme per l’altro processo. State insieme per l’altro processo" sottolinea in un'altra conversazione Donferri riferendosi al crollo del ponte di Genova. Per i giudici è un'altra prova del completo controllo di Castellucci sulla società ma anche del pericolo di inquinamento probatorio e di reiterazione dei reati. Antonio Palma

Da editorialedomani.it l'11 novembre 2020. Il 2 febbraio  del 2020 un professore emerito della Bocconi, Giorgio Brunetti, dialoga al telefono con con Gianni Mion, da sempre il manager di riferimento della famiglia Benetton, quello che amministra Edizione Holding, la cassaforte del gruppo di Ponzano Veneto a cui fa capo tutta la catena societaria che include il controllo di Atlantia e, a cascata, quello di Autostrade per l’Italia (Aspi). I due si conoscono, hanno pubblicato insieme un libro qualche anno fa, Manager oggi, per Egea. Sono abbastanza in confidenza da dirsi cose che in pubblico non si sono mai sentite. Quelli sono giorni difficili, il negoziato infinito con il governo Conte dopo la caduta del ponte Morandi nell’estate del 2018 sta peggiorando. Anche se la revoca della concessione pare esclusa, si studiano altre soluzioni. Molto dipende da come verrà rinegoziato il Piano economico e finanziario che stabilisce la redditività futura di Autostrade e dunque il prezzo al quale i Benetton possono vendere la loro quota di controllo (88 per cento). La telefonata è intercettata e contenuta nell’inchiesta della procura di Genova che ha portato a misure cautelari per vari dirigenti attuali e passati di Autostrade, incluso l’ex ad Giovanni Castellucci. Ecco il testo:

Mion: mentre il management.. che si era impossessato della loro testa...

Brunetti: appunto ...

Mion: pensava dì fare lui... ...

Brunetti: era già nel 2007, ti ricordi sto discorso?

Mion: esatto...

Brunetti: 2007 quindi sono passati 12 anni, 12 anni ...

Mion: ti ricordi poi, poi Castellucci… allora diceva “facciamo noi!” e Gilberto (Benetton, l’esponente della famiglia che si è sempre occupato di Autostrade, ndr) eccitato perché lui guadagnava e suo fratello di più… (il fratello è Luciano, quello che ha da poco ripreso in mano il ramo abbigliamento, ndr)

Brunetti: ma veramente, allora  tu eri consapevole mi ricordo fin dall’inizio…

Mion: (incomprensibile)

Brunetti: quando hanno acquistato quella roba, era una roba che loro non potevano neanche governare…

Mion: esatto...

Brunetti: come concetto, non gestire ma governare, non avevano il fisico del governo giusto?

Mion: chiaro... chiaro ...

Brunetti: pacifico che bisognava arrivare.. dicevi sempre.. un discorso di minoranza e di liquidabilità della quota.. 

Mion: Sì ...

Brunetti: lo so, è ben chiaro sto discorso qua, ben chiaro e non è mai stato recepito...

Mion: No ma perché, non ho trovato Gilberto ...

Brunetti: assolutamente Gilberto ...

Mion:· no no guarda l’ la responsabilità...

Brunetti: si erano innamorati di sta roba senza sapere… 

Mion: glielo dicevano... 

Brunetti: I rischi che c’erano in sta roba...

Mion: esatto.

Brunetti: questo era il problema ...

Mion: si ma però poi il vero grande problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo meno facevamo ...

Brunetti: Sì daiii ....

Mion: cosi distribuiamo più utili ...

Brunetti: Utili ...

Mion: Esatto.. e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti …

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 12 novembre 2020. Era il 7 settembre del 2018, neppure un mese dopo la tragedia del ponte Morandi, che costò la vita a 43 persone. Sul tavolo dell' Auditorium della Regione Liguria erano esposto il modellino del nuovo viadotto. C' era già tutto quel che poi verrà costruito, molto più della semplice idea. Il progetto era di Renzo Piano, che lo illustrava affiancato dai tecnici di Fincantieri e dalle autorità locali, il sindaco Marco Bucci e il presidente della Regione Giovanni Toti. Ma in sala non c' era alcun entusiasmo, si respirava anche tra tecnici e ingegneri una sensazione di posticcio, come se ci fosse qualcosa che non andava. C' era un ospite ingombrante. Era Giovanni Castellucci, l' amministratore delegato di Autostrade per l' Italia, uno dei manager più potenti del nostro Paese, da quasi vent' anni alla guida dell' azienda che gestisce gran parte della nostra rete autostradale e ora sotto accusa per quel disastro, anzi era la principale se non unica imputata. Anche lui sembrava in imbarazzo, quasi fosse consapevole di avere addosso gli occhi di tutti. Alla fine della conferenza stampa, si avvicinò al plastico del nuovo ponte, e lo urtò involontariamente, facendolo cadere. Ci fu un lungo momento di gelo, fino a quando Renzo Piano tentò di sdrammatizzare, allargando le braccia e dicendo che portava fortuna. C' era già tutto, dell' opera che avrebbe ridato respiro a Genova. Sarebbe bastato togliere Castellucci e l' azienda da lui rappresentata, come chiedeva a gran voce il governo di allora. E fu così che andò. All' inizio di agosto ci siamo emozionati con l' inaugurazione, abbiamo raccontato la rinascita di una città, con il sottinteso che il capitolo di quella vergogna italiana fosse chiuso una volta per tutti, bene bravi e che non se ne parli più. «Noi quel giorno non c' eravamo, e il senso della nostra assenza era proprio quello, lo abbiamo detto anche al presidente Mattarella, che ha incontrato una nostra delegazione. Il nuovo ponte non poteva essere una toppa a una storia di sciatteria, di cattiveria umana, di avidità». Egle Possetti ha sempre ripetuto che sua sorella, suo cognato, i suoi due nipotini, «che io non ho avuto figli, e insomma, sarebbe stato bello vederli crescere», e tutti gli altri, sono stati i martiri di un sistema che dovrebbe essere cancellato. Lei è diventata portavoce delle famiglie suo malgrado, perché non credeva di essere la persona giusta, perché reagiva male alle accuse di eccessiva politicizzazione della tragedia. «Credo che la risposta migliore, anzi peggiore, sia il contenuto di quelle intercettazioni. Adesso tutti potranno leggere. E magari qualcuno capirà che la nostra lotta per la revoca della concessione ad Autostrade per l' Italia non è una vendetta. Non è neppure qualcosa che facciamo in quanto parenti delle vittime, ma come cittadini. E dovrebbe riguardare tutti». L' inchiesta che ha portato all' arresto di Castellucci non riguarda in modo diretto la loro vicenda. Ma certo, l' intercettazione dove Michele Donferri Mitelli, ex responsabile delle manutenzioni, parla dei «cavi del Morandi ormai corrosi» e intanto chiede a un suo collega di «portare un trolly grosso» per far sparire le carte sul viadotto crollato, non aiuta a tenere separati i piani. «Sono cose molto gravi, che però non ci stupiscono. Il compito della giustizia è proprio quello di fare luce su ogni singolo aspetto. Però questa giornata conferma la nostra totale mancanza di fiducia in Aspi, che è stata trattata con i guanti bianchi, dalla politica in primo luogo. Adesso io mi chiedo come sia possibile che questa società possa uscire a testa alta e tasche piene dalla trattativa con lo Stato». Oggi a Genova non parla nessuno, ed è un silenzio eloquente. Solo lei, solo loro, spesso trattati come gente che voleva guastare la festa della ricostruzione, rompiscatole che pretendevano di mettersi in mezzo al discorso tra governo e Aspi. «Noi siamo cittadini che si informano, come gli altri. Quello che sta uscendo, e che era già uscito, sarebbe sufficiente per farsi un' idea sulla questione, invece di andare avanti per 27 mesi con sottili distinguo carichi di ipocrisia. Il re è nudo, altro che giustizialismo». E così tutti torniamo indietro, come forse è giusto che sia, non basta un lavoro fatto bene per cancellare una storia che gronda ignavia e superficialità, nel migliore dei casi. «Bisogna avere il coraggio di guardarsi allo specchio» conclude Egle Possetti. Dunque torniamo a quella piovosa vigilia di Ferragosto, a quelle grida incredule, che sostenevano l' impossibile, è venuto giù il Morandi. Ai giorni concitati che seguirono. Quell' immagine così definitiva della riproduzione in scala del nuovo modellino mandato in frantumi da Castellucci non era solo un crudele scherzo del destino, ma un presagio. Perché in realtà la carriera del manager marchigiano, che prima di Autostrade per l' Italia aveva guidato per un anno anche un altro gigante nostrano come la Barilla, era già finita il 14 agosto 2018. Quando all' improvviso crollò il ponte che teneva unita Genova. E si aprì una ferita che molti pensavano di richiudere in fretta, ma invece resta difficile da rimarginare. Per i familiari delle vittime, per la città, e forse per l' Italia intera.

Teodoro Chiarelli per “la Stampa” il 12 novembre 2020. «Una personalità spregiudicata e incurante del rispetto delle regole, ispirata a una logica strettamente commerciale e personalistica, anche a scapito della sicurezza collettiva». Ci va giù pesante il gip di Genova, Paola Faggioni, nel tratteggiare la figura di Giovanni Castellucci, l'ex amministratore delegato di Autostrade e di Atlantia spedito agli arresti domiciliari con l'accusa di attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture. Un ritratto che calza a pennello con la fama di duro che il manager marchigiano si è pervicacemente costruita negli ultimi 15 anni. Tanto per dire: dopo il tragico e vergognoso crollo il 14 agosto del 2018 del ponte Morandi a Genova, con i suoi 43 morti, non sente il bisogno di fare un passo indietro. Né di chiedere in qualche maniera scusa ai parenti delle vittime, alla città, al Paese. No, rimane abbarbicato sulla sua poltrona che gli garantisce ricche prebende (viaggia oltre i 6 milioni di euro l'anno) e prova semmai a scaricare le responsabilità sui sottoposti. Salvo poi farsi beccare nelle intercettazioni mentre pietisce appoggi politici e mendica nuovi incarichi come se niente fosse accaduto.

Uno che non parlava mai. Eppure i cronisti lo ricordano quando, vent' anni fa, sbarcò alla corte dei Benetton che nel frattempo avevano conquistato la Società Autostrade, già gallina dalle uova d'oro del tanto bistrattato Iri: direttore generale. Una quarantenne bocconiano, curriculum impeccabile, con la faccia da secchione e che non parlava mai, se non per corroborare con i numeri le immaginifiche prolusioni dell'allora presidente che se lo portava dietro come un cagnolino. Dicono che lo temesse fisicamente. Del resto, era in buona compagnia, visto che si trattava di un intoccabile: Giancarlo Elia Valori. Persecutore di Romano Prodi quando questi era presidente dell'Iri (lo minacciava con indagini giudiziarie perché il futuro presidente del Consiglio lo voleva cacciare dall'Iri), biografo dell'ex dittatore rumeno Ceausescu, amico personale del dittatore della Corea, Kim Il Sung, ma anche ben introdotto in Israele e intimo di un membro influente del comitato centrale del Partito Comunista Cinese. E ancora: gran massone, espulso dalla P2, stimato ed elogiato da Francesco Cossiga e collezionista di lauree honoris causa.

L'attesa del momento. Castellucci aspetta sornione il suo momento, avvicinandosi sempre più a Gianni Mion, braccio destro di Gilberto Benetton, l'uomo della diversificazione finanziaria della famiglia di Ponzano Veneto. Nel 2002 i Benetton riescono a divincolarsi da Valori che presiedeva Autostrade dal '95 ed era compreso nel pacchetto privatizzazione del 1999. Castellucci, sempre in silenzio, lavora ai fianchi l'amministratore delegato Vito Gamberale, manager vicino al Psi di Gianni De Michelis, cattolico e per questo soprannominato il socialista di Dio. A fine 2005 è fatta: Gamberale lascia e Castellucci prende il potere, in Autostrade e nella holding poi ribattezzata Atlantia. Il dirigente un po' timido e riservato si trasforma in un top manager duro e spietato, in grado di tener testa anche ai suoi azionisti. Mion, a nome loro, chiede margini sempre più alti, rendimenti in grado di attirare l'attenzione di fondi e istituzioni internazionali e di gonfiare i portafogli di una famiglia sempre più numerosa e famelica. Soldi facili, garantiti, non come quei maglioncini che il gruppo Benetton faticava a vendere. Castellucci non si scompone e provvede, anche a costo di imboccare, sostengono le accuse nei suoi confronti, pericolose scorciatoie.

Un'immagine edulcorata. All'esterno il manager tenta di dare un'immagine di sé più edulcorata. Sposato con due figli, classe 1959, maturità classica, laurea in ingegneria meccanica a Firenze e Master in Business Administration alla Bocconi, inizia la sua carriera dalla vela. «La mia storia è abbastanza semplice - racconta nel 2010 ad un forum degli ex allievi Bocconi -. Nasco in provincia, nelle Marche a Senigallia, posto di mare dove non esistevano industrie. Fin da ragazzino sapevo che non avrei fatto il mestiere di mio padre, medico, e non mi piaceva neppure la barca a motore, che a lui piaceva tantissimo. Così mi sono dato alla vela, con un certo successo dato che a 18 anni ho fondato una veleria che ancora prospera. Il giorno in cui ho deciso di lasciare la vela sapevo che stavo lasciando qualcosa di importante, per cogliere una sfida: capire come funzionano il mondo e le aziende». L'ingresso nel mondo del lavoro è in una piccola società di ingegneria, ma dopo pochi anni passa in Boston Consulting Group, dove rimane dal 1988 al 1999, prima a Parigi e poi a Milano, fino a diventarne partner nel 1994, a soli 34 anni. Nel 2000 viene nominato amministratore delegato di Barilla: resta un solo anno, focalizzandosi sul rafforzamento negli Usa. Nel giugno 2001, entra in Autostrade per l'Italia ed inizia la sua scalata: ha capito a modo suo come funziona un certo mondo. Come capoazienda raggiunge anche molti successi, tra cui l'acquisizione di Abertis e la nascita di un leader mondiale. Ma arrivano le prime grane giudiziarie. Nel processo per la strage del bus caduto nel 2013 da un viadotto vicino ad Avellino, Castellucci viene assolto in primo grado. Intanto qualcosa si rompe con il suo mentore Mion che nel 2016 lascia il gruppo di Treviso. E arriviamo al crollo del ponte di Genova del 14 agosto 2018. I Benetton finiscono nel mirino della politica, Cinquestelle in primis. Così si arriva alla presa di distanza da parte della famiglia che richiama Mion. Castellucci si dimette: prima dalla guida di Aspi, che nel gennaio 2019 passa a Roberto Tomasi; poi il 17 settembre 2019 anche da Atlantia. Esce inopinatamente con una maxi-buonuscita da 13 milioni che suona come un insulto alle vittime della tragedia. Tre mesi dopo, però, il cda della holding decide di sospenderne il pagamento, in seguito alle risultanze delle inchieste scaturite dal crollo del Ponte Morandi. Lui non ci sta e fa causa ai Benetton. Ora l'arresto. Ma la sensazione è che la vicenda non finisca qui.

Tommaso Fregatti e Marco Grasso per “la Stampa” il 12 novembre 2020. «I cavi del Morandi sono corrosi». Il 25 giugno 2018- esattamente un mese e mezzo prima del crollo e della morte di 43 persone - gli (ex) top manager di Autostrade per l'Italia ammettevano di essere a conoscenza dei rischi del viadotto. E a fronte dell'acclarata pericolosità di quei tiranti l'allora direttore generale delle operazioni Paolo Berti scriveva a Michele Donferri Militelli, deus ex machina delle manutenzioni: «Sti' ca (come a manifestare un certo disinteresse, secondo gli investigatori ndr) me ne vado». È il particolare choc che emerge dalle intercettazioni telefoniche che hanno portato ieri agli arresti domiciliari deg li ex vertici di Aspi. Dalle carte emerge come sia Berti che Donferri (e dunque i vertici dell'azienda oggi licenziati dal nuovo corso) fossero pienamente a conoscenza della situazione di pericolosità del viadotto Polcevera. E che Berti subito dopo il crollo abbia tentato di cancellare quei messaggi depistando le indagini. Non sapendo, però, che sarebbero stati successivamente trovati dalla Finanza sul telefono cellulare del collega Donferri.

Le ammissioni sul Morandi. Nelle chat Donferri ammette l'ammaloramento dei cavi: «Sono corrosi». Mentre Berti consiglia «di iniettare aria nei cavi del viadotto per togliere l'umidità». Il direttore però rimarca: «Ma no, sono già corrosi». Per il giudice Paola Faggioni quello scambio di messaggi evidenzia «la consapevolezza degli ammaloramenti dei cavi di precompressione degli stralli del viadotto Polcevera». E ancora Donferri secondo il giudice, faceva il lavoro sporco per conto dell'ad Castellucci per cercare di convincere il collega Berti a "tenere" dopo la condanna a 5 anni che si era preso per la strage di Avellino (nel 2013 quaranta persone persero la vita a bordo di un pullman ) e dopo l'avviso di garanzia per il crollo del Morandi. Il manager gli propone un patto per tutta la vita: «Paolo non puoi imputare a lui (Castellucci, ndr) che ci sono stati quarantatré morti. Quaranta morti di là (Avellino), quarantatré di là (Morandi). Stiamo tutti sulla stessa barca». «Castellucci - dice Donferri - mi ha chiesto la mediazione. Ti vuole rasserenare e ti aiuterà per tutta la vita. Attaccati a sto' treno rivendica tutto quello che c'è da rivendicare».

La resina difettosa. Nelle carte emerge quello che per gli investigatori era "il metodo Donferri". A fronte dell'acclarata pericolosità delle barriere antirumore che in Liguria hanno rischiato di colpire due mezzi pesanti ancora cerca un modo per risparmiare. «Pinocchio si può modellare, se non trovi il falegname per farlo te lo modello io». Non sa il supermanager di Aspi che Marco Vezil sta registrando quelle conversazioni. Siamo nel 2017 e il Morandi crollerà un anno e mezzo più tardi. E però quelle registrazioni trovate dalla Finanza nel computer di Vezil, tecnico di Spea (la società di Aspi incaricata dei controlli) hanno svelato molti illeciti. Come la resina utilizzata per gli ancoraggi dei pannelli difettosa e totalmente inefficace: «È incollato col Vinavil», dice un indagato. Inoltre nella stessa conversazione viene sottolineato come «le barriere Intergautos non siano a norma di legge perché utilizzano prodotti non confermi con le normative europee».

«Pericoli imminenti». Donferri sa che la situazione delle barriere è potenzialmente pericolosa e può portare ad un effetto domino su tutta la rete autostradale. «Io sto dicendo - evidenzia al telefono - che ci sono pericoli imminenti. C'è un effetto domino in ragione di un comportamento sufficientemente non esplorato», ribadisce registrato. Particolarmente rilevante secondo le indagini condotte dai militari della Guardia di Finanza diretta dai colonnelli Ivan Bixio (Primo Gruppo) e Giampaolo Lo Turco (nucleo metropolitano) l'elevata redditività di Aspi e la conseguente distribuzioni di ingenti dividendi tra gli azionisti, derivata da «una spregiudicata linea imprenditoriale improntata alla sistematica riduzione delle manutenzioni della rete autostradale». Dice l'attuale amministratore delegato Roberto Tomasi con Alberto Milvio capo del servizio finanziario di Aspi: «La verità - dice Tomasi - sta in mezzo». E si evidenzia come Aspi abbia distribuito dal 1999 al 2019 «nove miliardi e quattro, di cui nove e due sono andati ad Atlantia». Nelle carte dell'inchiesta vengono anche citati i Benetton, azionisti di riferimento di Atlantia, holding di Aspi. Dice Gianni Mion (attuale ad di Edizioni Holding, la società che controlla Atlantia e Aspi) al professore emerito dell'Università Bocconi Giorgio Brunetti: «Ti ricordi poi... Castellucci? Allora diceva facciamo noi! E Gilberto (Benetton, morto nell'ottobre 2018, ndr) eccitato perché lui guadagnava e suo fratello di più». E ancora Mion aggiunge come «le manutenzioni le abbiamo fatte calare, più passava il tempo meno facevamo, così distribuivamo più utili. E Gilberto e famiglia erano contenti». Fonti vicine a Mion hanno voluto rimarcare come la conversazione in questione sia del febbraio 2020 e sia un commento a posteriori su quanto avvenuto negli ultimi anni, con la conclusione di un piano di investimenti alla quale era corrisposto l'aumento dei dividendi per gli azionisti. Un colloquio - è la tesi - da intendersi come un'analisi di quanto avvenuto, non la rivendicazione di una scelta strategica che da parte degli azionisti non ci sarebbe mai stata.

A che servono i domiciliari se l'ad è fuori dal gruppo? Giustizia spettacolo: arrestato l’ex Ad di Autostrade Castellucci con un provvedimento tutto emotivo. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 12 Novembre 2020. La tragedia del Ponte Morandi, nella quale hanno perso la vita 43 persone, è stata il banco di prova di una serie di snodi fondamentali della vita pubblica italiana: la capacità del governo di prendere tempestivamente i provvedimenti più opportuni, la capacità della mano pubblica di esercitare i suoi poteri di controllo, la capacità di ricostruire in tempi brevi il ponte, costituendo esso un elemento fondamentale del sistema viario italiano, etc. Su alcuni versanti la risposta è stata del tutto deludente, su altri migliore. Vi è un versante nel quale la risposta è stata eccellente: esso riguarda gli uffici giudiziari e i parenti delle vittime. Nonostante la dimensione della tragedia, gli uffici giudiziari si sono posti con grande cautela, nel più rigoroso rispetto delle regole di procedura, svolgendo una attività, per quello che ha riferito la stampa, esclusivamente rivolta alla ricostruzione dei fatti, senza alcuna inutile esposizione mediatica. Le dichiarazioni, poche, rilasciate all’epoca dal Procuratore della Repubblica di Genova erano rigorosamente ispirate all’esigenza di difendere la serietà dell’indagine giudiziaria dalle pressioni mediatiche. Anche il Comitato dei Familiari delle Vittime si è sempre distinto per la grande sobrietà delle dichiarazioni e per un autentico atteggiamento di fiducia nel corso della giustizia, in quanto non segnato dal tentativo di condizionarne gli sviluppi. Insomma, nella tragedia, uno sviluppo degli aspetti giudiziari da paese civile. All’improvviso, nei confronti di tre ex top manager di Autostrade, tra cui Giovanni Castellucci, che ne è stato amministratore delegato, sono scattati gli arresti domiciliari. La misura è stata adottata non già nell’ambito della inchiesta che riguarda il crollo del ponte Morandi, bensì nell’ambito di una inchiesta parallela, che riguarderebbe la messa in opera di barriere fonoassorbenti risultate poi pericolose. Secondo una nota diffusa dagli inquirenti, vi sarebbero numerosi e gravi elementi indiziari e fonti di prove, che darebbero conto della consapevolezza da parte degli arrestati della difettosità delle barriere, del potenziale pericolo per la sicurezza pubblica, dell’esistenza di difetti progettuali e dell’utilizzo di materiali inadeguati per l’ancoraggio a terra. Si tratta, evidentemente, di elementi di merito su cui non vi è alcuna possibilità oggi di esprimersi e che dovranno essere oggetto di accertamento nel giudizio. La questione che tuttavia inevitabilmente si pone è se l’adozione di una misura cautelare abbia oggi fondamento, nel momento in cui viene a essere adottata nei confronti di soggetti, che sono ormai al di fuori della gestione della società in cui sarebbero stati commessi gli illeciti. Le prime informazioni dànno conto della circostanza che la misura sarebbe stata adottata per evitare il rischio della commissione di ulteriori reati dello stesso tipo e per evitare l’inquinamento delle prove. L’esistenza di un rischio di ripetizione dei reati appare davvero poco convincente, nel momento in cui i tre manager sono ormai fuori dal Gruppo di cui fa parte Aspi. In assenza di prove specifiche di una loro effettiva perdurante presenza con poteri decisionali nel settore delle autostrade, appare una mera formula di stile, che come tale non può legittimare, ove si voglia rispettare la legge, la misura restrittiva della libertà. Anche per quello che concerne il pericolo di inquinamento delle prove, non può trattarsi di un pericolo meramente astratto, ma sarebbe necessaria la concreta esistenza di tentativi in atto di inquinare i fatti. Circostanza della quale si può dubitare nel momento in cui sembra acquisita una massa di prove, ormai cristallizzate, attraverso il sequestro di documenti, l’esame di testimoni e l’effettuazione di registrazioni telefoniche. Inevitabile, allora, chiedersi se non si sia in presenza di una misura legata, sul piano morale, anche al giudizio di riprovevolezza maturato in relazione alla tragedia del crollo del ponte. La portavoce del Comitato Familiari Vittime del ponte Morandi ha commentato la notizia, affermando, tra l’altro, di essere “molto emozionata”. È una dichiarazione più che comprensibile sul piano umano e nella dimensione emotiva e morale che la tragedia del crollo evoca. Essa, peraltro, conferma la legittimità del dubbio circa l’esistenza di un nesso tra la vicenda del crollo e la misura adottata. Ma se un nesso del genere esistesse, va detto forte e chiaro che sarebbe contro il diritto.

T.Fre e M.Gra. per “la Stampa” il 13 novembre 2020. Giovanni Castellucci si era dimesso da un bel pezzo, ma continuava «ancora a controllare il processo», anche nel nuovo assetto societario. A raccontarlo con un certo fastidio è Gianni Mion, presidente di Edizione Holding, la cassaforte della famiglia degli imprenditori di Treviso: «Sta seminando l' idea che Gilberto (Benetton, morto nel 2018, ndr) non volesse fare la manutenzione. È possibile che questo qua abbia detto due o tre c... e lui chissà cosa ha capito. Quello che ci frega è l' incompetenza di Gilberto, ce lo possiamo dire no?». Lo sfogo di Mion, affidato a un collaboratore, è del 3 gennaio 2020. Ed è una delle testimonianze, secondo il giudice, di come l' influenza del vecchio amministratore abbia continuato a estendersi anche dopo il suo allontanamento. Come quando, scrive il giudice Paola Faggioni, «emerge come Castellucci si stia adoperando con Ermanno Boffa, marito di Sabrina Benetton, per trovare nuovi azionisti». «Devo fare un discorso a Boffa - si lamenta ancora Mion - lo deve mollare questo c... di Castellucci. Addirittura ho sentito che si sta offrendo per creare aggregazioni per vendere Atlantia, per comprarla. Non si rende conto di come sta messo, di quello che succede a Genova. Gli converrebbe andare in Medio Oriente». Castellucci era a conoscenza del problema delle barriere. Lo dimostra, secondo il giudice, una foto mandatagli da Paolo Berti, responsabile del settore a cui fanno capo le manutenzioni. La foto ritrae le ribaltine, cioè le barriere piegate per evitare l' attrito del vento, un sistema che in realtà non elimina il rischio: «Belle, chi le ha progettate, Renzo Piano? Sono a onda?», replica l' amministratore. In un altro passaggio il giudice rimarca come Berti e Donferri parlino della questione barriere, che comporta un rischio per la sicurezza, ridendo, «dell' abbassamento delle ribaltine». Anche quando Lucio Ferretti Torricelli, tecnico Spea, afferma che «sono attaccate con il Vinavil».

I favori chiesti al generale. Non è l' unico rappresentante del vecchio management che ritorna nell' indagine. La Guardia di Finanza segnala anche come Michele Donferri Mitelli, fedelissimo di Castellucci, ex capo delle manutenzioni, sia andato a lavorare per un' azienda di consulenza che ha tra i suoi clienti proprio Autostrade e altre società del gruppo. È la Polis consulting, sede a Lamezia. Donferri secondo gli inquirenti vi lavora in nero e nel frattempo ha ottenuto anche la Naspi, il sussidio di disoccupazione pagato dall' Inps. Sul punto Autostrade spiega che la società è tra le appaltanti dal 2016, è una di migliaia di realtà che lavora per il gruppo. Autostrade, si apprende sempre da fondi societarie, non è a conoscenza di rapporti con ex dipendenti e condurrà accertamenti. Nelle intercettazioni Donferri è in contatto anche con due generali dei carabinieri, Franco Mottola e Carmelo Burgio. Al primo chiede alcuni favori. Prima di avere in anticipo i quiz del concorso dell' Arma, per passarli al figlio di un collega impegnato nella prova, Valerio Carusotti. Poi si affida al generale per fare pressioni sul comando di Genova, in occasione dell' interrogatorio di Castellucci dopo il crollo del Morandi. La richiesta è di «trattarlo bene», sostanzialmente di evitare l' assalto dei giornalisti. Alla fine nel codazzo di forze dell' ordine, quel giorno, nonostante l' inchiesta sia condotta dalla Guardia di Finanza, sono presenti anche l' allora comandante provinciale di Genova e un capitano di compagnia. A Burgio, invece, Donferri chiede di interessarsi di un' inchiesta della Forestale che coinvolge alcuni dipendenti di Aspi. "Migliorino ce l' ha con noi". Dopo l' avvio dell' inchiesta la Procura affida una consulenza a Placido Migliorino, esperto del ministero, che impone al nuovo management di Autostrade interventi urgenti sulle barriere: «Questo Migliorino è ispettore da dieci anni e se ne esce adesso - si sfoga il nuovo ad Roberto Tomasi - ce l' ha a morte con noi».

Claudio Antonelli per “la Verità” il 13 novembre 2020. Il 30 novembre scadranno i termini della seconda offerta per rilevare da parte di Cassa depositi e prestiti la maggioranza della rete autostradale. Una telenovela (al di là del recente ruolo di Cdp) che vede lo Stato e la famiglia Benetton litigare dall' indomani del crollo del ponte Morandi e dei funerali di ben 43 persone. Una telenovela che ha visto il governo incapace di sfilare la concessione e pronto a trattare con i soci di Atlantia che fino a oggi hanno sempre mantenuto una posizione di forza. Basti pensare che la prima offerta inviata da Cdp poco più di un mese fa è stata snobbata dai produttori di lana di Ponzano Veneto. Le intercettazione finite sui giornali e presenti nelle oltre 100 pagine di ordinanza di arresto degli ex manager di Aspi non possono però cadere nel vuoto. L' ammissione da parte dei rappresentanti della famiglia Benetton di aver risparmiato sulle spese destinate alla manutenzione a fronte di un progressivo incremento dei dividendi apre un solco profondo nella politica. In tutta quella parte della sinistra che ha sostenuto sempre e spada tratta il gruppo di Ponzano Veneto. Sebbene la gestione delle tariffe e i ritorni sugli investimenti fosse smaccatamente sotto gli occhi di tutti, adesso c' è la famosa smoking gun che servirebbe per separare il destino dei Benetton da quello di Autostrade per l' Italia. Se questo accadrà e in breve tempo è invece un altro paio di maniche. La sinistra autostradale, quella delle porte girevoli con le società del gruppo, sta andando in testa coda, ma è ancora presto per capire se basterà per avviare un cambio di passo. Il ministro ai Trasporti, Paola De Micheli, si è limitata a dire che la trattativa per il futuro di Aspi afferisce a Cdp. Come se il suo ministero e il resto del governo fossero degli ingenui passanti. La De Micheli ha fatto parte della fondazione Vedrò di Enrico Letta chiusa nel 2013 per evitare «conflitti di interessi» con la presidenza del Consiglio. Non è una notizia ricordare che Autostrade è stata a lungo finanziatrice di Vedrò. Simonetta Giordani nel 2006 lavora per Aspi. Quando l' esponente della Margherita siede a Palazzo Chigi, chiama la Giordani a fare il sottosegretario ai Beni culturali. L' anno dopo passa la mannaia di Matteo Renzi e la manager per un po' ricopre l' incarico di consigliere in Fs, finché torna in Atlantia, dove viene incaricata della gestione degli affari istituzionali. Lo stesso Letta entra nel cda di Abertis e se ne esce poco prima che il gruppo dei Benetton lanci l' Opa sulla società spagnola. Tempismo perfetto. Che però non sposta il tema. Oggi una delle figura che suggerisce nell' orecchio alla De Micheli è Fabrizio Pagani, lettiano di ferro, sherpa nel G20, capo segreteria per il ministro Pier Carlo Padoan. Che cosa stia suggerendo in queste ore per uscirà dal cul de sac in cui si è infilato mezzo Pd non lo sappiamo. Intanto ieri ci sarebbe stata una riunione tra i capi di gabinetto dei ministeri interessati alla partita e l' ad di Atlantia Carlo Bertazzo, il quale se ne sarebbe andato con ben poche rassicurazioni. Di certo, l' altra metà del Pd comincia a vedere con un po' di fastidio persino le storiche relazioni e porte girevoli con Autostrade. Paolo Costa, ad esempio. Tra il 1997 e il 1998 ricopre l' incarico di ministro dei Lavori pubblici, per poi diventare ministro delle Infrastrutture nel 2006, prima che lo stesso incarico vada ad Antonio Di Pietro. Costa è vicino a Romano Prodi. Tra il primo e il secondo incarico romano, fa il sindaco di Venezia. Nei 24 mesi trascorsi al ministero dei Lavori pubblici contribuisce a preparare al fianco del Professore la privatizzazione della rete autostradale e getta le basi dell' intero sistema di concessioni. Che verrà modificato più volte negli anni, senza però venire mai stravolto. A dicembre del 2019 la Corte dei conti se ne esce con una relazione pesantissima. Stronca il sistema di calcolo delle concessioni. «Fin dagli anni Novanta, le autorità indipendenti lamentano la mancata apertura al mercato delle concessioni e l' opacità nella loro gestione, non essendo state le convenzioni di affidamento, fino all' anno passato, rese pubbliche». Tradotto, secondo i magistrati contabili siamo di fronte a pochi investimenti, manutenzione scarsa, modelli tariffari tutti da rivedere e clausole contrattuali vantaggiose per i privati. Eppure si arriva a ieri, giorno in cui la De Micheli va in Aula e promette di prendere in considerazione l' ultima relazione dell' autorità dei trasporti che fa a pezzi il nuovo Pef di Aspi. «Valuteremo», dice senza però prendere impegni. Se il piano investimenti è sovrastimato, il valore della società sale. Inutile dire chi ci guadagna. Non certo Cdp. E così si torna al punto di partenza. Il Pd comincerà a prendere le distanze oppure attenderà la Commissione Ue che prima o poi sul braccio di ferro delle concessioni autostradali dirà la sua? Dopo aver ascoltato le imbarazzanti intercettazioni sicuramente sarà equidistante e forse farà da sponda ai grillini che ieri hanno rialzato la testa. Giancarlo Cancelleri, vice ministro dei 5 stelle, ha di nuovo sollecitato la chiusura dell' operazione Cdp-Aspi entro l' anno o la revoca della concessione. Ma quale sarà il pensiero del suo collega di governo, il ministro alla Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dal quale in molti si aspettano una smentita o una presa di distanza proprio dall' ex capo di Autostrade, Giovanni Castellucci? A pagina 87 dell' ordinanza dei pm di Genova si legge l' intercettazione telefonica tra il manager e l' allora capo di Air Dolomiti, controllata da Lufthansa), Joerg Eberhart. «Il ministro ha chiesto di incontrarmi [...] all' inizio mi aveva chiesto di aiutarlo su Alitalia e se ero disponibile». A proseguire nella lettura si comprende che i pm ritengano quanto Castellucci sia effettivamente attivo per trovare incarichi o soluzioni per la su ex società. L'intercettazione è di ottobre 2019 ed escludono che stia millantano. Il nome di Patuanelli non è mai citato, ma il riferimento a lui è chiaro. Dunque, o rettifica e smentisce Castellucci altrimenti tutto lo storytelling dei 5 stelle viene meno. Come si fa a urlare in piazza e poi fare intelligenza con il nemico? Andrebbe chiarito con una certa urgenza.

Fabio Savelli per il Corriere della Sera il 14 novembre 2020. Una presa di distanza immediata. Che tenta di riannodare i fili della trattativa col governo consapevoli che le nuove intercettazioni alla base dell' ordinanza con cui la procura di Genova ha imposto nuove misure interdittive per alcuni ex manager di Autostrade rischiano di recidere il filo del negoziato con Cassa Depositi e i fondi esteri Blackstone e Macquarie. Ieri il consiglio di amministrazione di Atlantia - convocato per i conti trimestrali - ha deliberato di individuare una società internazionale di audit per verificare se «sussistono comportamenti da parte di dipendenti ed ex di alcune società del gruppo contrari al codice etico dell' azienda». E di valutare provvedimenti disciplinari e di richiesta danni nei confronti dei soggetti coinvolti dall' ordinanza, compreso l' ex amministratore delegato Giovanni Castellucci per il quale viene confermata la sospensione della buonuscita da 13 milioni chiedendo la restituzione della prima tranche già pagata di 3,25 milioni. Il board si riserva di intraprendere possibili azioni di responsabilità nei suoi confronti chiedendo l' approvazione dell' assemblea dei soci. E' l'ennesimo tentativo di cancellare il passato per trovare un accordo col governo che viene definito ancora «ragionevolmente probabile» per sterilizzare le indiscrezioni che filtravano ieri dai ministeri coinvolti, quello dei Trasporti e del Tesoro, di una revoca della concessione che è ancora pendente. Un duro atto d' accusa del board della capogruppo, controllato al 30% dalla famiglia Benetton profondamente divisa sul da farsi ma unanime nel condannare una gestione dissennata, quella di Castellucci, che ha finito per arricchire tutti visti gli importanti dividendi ma ha determinato danni reputazioni incalcolabili e la quasi certa uscita dal capitale di Autostrade per l' Italia. È chiaro che il processo di Genova sul ponte Morandi sarà il redde rationem sull' entità dei risarcimenti che rischiano di essere incalcolabili se dovesse essere dimostrato il «grave inadempimento» del gestore, cioè se dovesse essere dimostrato che il viadotto sia crollato per incuria e poca manutenzione. È il più grande interrogativo della vicenda che condiziona anche i negoziati con i nuovi acquirenti per il nodo della manleva, cioè la copertura dai danni civilistici che Atlantia non vuole concedere del tutto ai nuovi acquirenti se non riconoscendo uno sconto sul prezzo di acquisto. Sono in corso valutazione da parte degli advisor se l' entità della sforbiciata debba essere più alta, ben superiore al miliardo di cui si è parlato. Quel che è certo è che il sistema Castellucci ha continuato a funzionare anche dopo la sua estromissione dal vertice di Atlantia, visto che le intercettazioni - datate ottobre e novembre 2019 (lui si è dimesso a metà settembre) - con il ceo di Air Dolomiti Jörg Eberhart per negoziare l' ingresso della capogruppo Lufthansa per la newco di Alitalia vedevano lui in prima fila. Nelle carte si legge come avrebbe dovuto conferire al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli sulla possibilità che la compagnia tedesca poteva far parte della compagine azionaria che avrebbe determinato poi la sua nomina a presidente del vettore. Un tentativo finale, maldestro, che però mette sotto cattiva luce il dopo-Castellucci in Autostrade. L' obiettivo è ora di dimostrare il contrario. Ieri l' ad Roberto Tomasi ha scritto a tutti i dipendenti per rassicurarli.

GIUSEPPE SALVAGGIULO per la Stampa il 14 novembre 2020. I contatti istituzionali di Giovanni Castellucci «in ambienti di altissimo livello» per «ricucire buoni rapporti con il governo», citati dal gip Paola Faggioni nell' ordinanza di arresto, si arricchiscono di un nuovo capitolo. Se nell' ottobre 2018, mentre il Parlamento discute il decreto Genova che esclude Aspi dalla ricostruzione del ponte accollandole i 220 milioni di costi, Castellucci mette sul piatto 150 milioni per salvare la banca genovese Carige e il governatore ligure Toti gli offre la sua «moral suasion» in veste di «ambasciatore» con Salvini e Giorgetti, nei mesi successivi la merce di scambio diventa Alitalia. Castellucci tratta con il governo un investimento di 350 milioni, in cambio della blindatura tombale e amichevole della concessione autostradale. Ieri, dopo la smentita della collega delle Infrastrutture Paola De Micheli, il titolare dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha ammesso di essere lui «il ministro che mi ha chiesto di vedermi» citato da Castellucci in una telefonata intercettata il 24 ottobre 2019. Castellucci, in quel momento uscito sia da Aspi che dalla controllante Atlantia, parla con Joerg Eberhart, amministratore di Air Dolomiti, compagnia controllata da Lufthansa, e chiede un gradimento preventivo per eventuali ruoli di vertice in Alitalia, in modo da presentarlo nell' imminente incontro al ministro che «all' inizio mi aveva chiesto di aiutarlo su Alitalia e se ero disponibile». Ora Patuanelli conferma di aver incontrato Castellucci e di «aver parlato di Alitalia», negando però «di avergli dato alcun mandato e di avergli mai proposto alcun incarico». Quando? Nel periodo in cui «Atlantia era parte della cordata che doveva rilevare Alitalia». Ma «Castellucci interloquiva anche con Lufthansa per qualche tempo dopo la sua uscita da Atlantia». Mettiamo in ordine date e circostanze. Atlantia apre il dossier Alitalia nella primavera del 2019. Al governo c' è la compagine M5S-Lega, il ministro dello Sviluppo è Luigi Di Maio. Ad aprile Castellucci ne parla esplicitamente nell' assemblea degli azionisti, subordinando l' investimento alla chiusura dei «molti fronti aperti» col governo. A metà luglio Ferrovie sceglie Atlantia come partner. Di Maio, che aveva tacciato i Benetton di essere «predoni» promettendo di «scoperchiare tutto il marcio» di Autostrade, esulta: «Abbiamo posto le basi per il rilancio della compagnia». Ma dopo un mese cade il governo. Il 5 settembre giura il Conte bis, Patuanelli prende il posto di Di Maio. Una settimana dopo, nove manager e tecnici di Autostrade vengono colpiti da misure cautelari. «Sgomento» dei Benetton, Castellucci esce da Atlantia con 13 milioni di buonuscita. I nuovi vertici scrivono a Patuanelli il 3 ottobre, esplicitando l' indisponibilità a entrare in Alitalia in assenza di «certezza» sulla concessione di Aspi. Dunque Patuanelli ministro e Castellucci amministratore di Atlantia si sono potuti incontrare in un arco limitato, tra il 5 e il 13 settembre. Prima, Patuanelli non era ministro. Dopo, Castellucci era fuori da Atlantia. Non è chiaro, quindi, perché il ministro volesse vedere Castellucci il 24 ottobre, più di un mese dopo. Né è nota la collocazione temporale di incontri precedenti. Certo, come emerge dalle intercettazioni. Castellucci non era più «l' uomo nero» per i grillini. Vedeva anche la senatrice del M5S Giulia Lupo, ex hostess Alitalia, che conferma gli incontri a partire dall' estate, nel pieno della trattativa, «perché occupandomi della riforma del trasporto aereo sono un riferimento sul tema Alitalia». Ma nega accenni ad Autostrade, «altrimenti mi sarei alzata e me ne sarei andata». In attesa di sapere che ne pensano grillini come l' ex ministro Toninelli, che parlava di «inciuci» a proposito della telefonata Toti-Castellucci, nuove puntate potrebbero aggiungersi grazie alle indagini della Procura di Genova. Due anni dopo il metodo Castellucci ha ottenuto per Benetton e soci una serie di risultati: la revoca della concessione è scomparsa dalla scena; governo e Atlantia trattano una soluzione concordata; le concessioni aeroportuali sono state prorogate; la nuova agenzia che avrebbe dovuto smascherare decennali magagne di Autostrade, grazie a inerzia tripartisan, dorme ancora sonni tranquilli. Senza mettere un euro. Né in Carige né in Alitalia.

Mario Giordano per La Verità il 14 novembre 2020. E poi all' improvviso accendo la Tv e sento dire che era tutto prevedibile. Che non stupisce. Che era facile da sapere. E da raccontare. L' altra sera a Piazzapulita Gad Lerner aveva il solito tono del maestrino con il rolex rosso che dà lezioni di giornalismo, di etica e di vita al mondo intero. Nella circostanza si stava parlando dei Benetton. Delle intercettazioni scandalose. Dei manager delle Autostrade che si confessavano l' un l' altro «i cavi del Morandi sono corrosi» ma anziché sistemarli si giravano dall' altra parte, dicendo «sticazzi, me ne vado». Del fatto che poi hanno tentato di cancellare le prove delle loro porcherie («portati un bel trolley grosso che cominciamo»). Della sicurezza degli italiani messa rischio per garantire maggiori guadagni ai ricconi di Treviso («Le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, così distribuivamo più utili. I Benetton erano contenti. Gilberto eccitato, suo fratello di più»). Si stava parlando, insomma, di una confessione a microspia aperta, di comportamenti indegni sulla pelle delle vittime («quaranta morti de qua, quarantatre de là siamo tutti sulla stessa barca»), di uno degli scandali che rivela gli intrecci peggiori di un' imprenditoria malata con la parte malsana della nostra politica. Ebbene Lerner sapeva tutto. Peccato soltanto che non l' abbia mai detto. Ora ci spiega che era tutto facile da raccontare, si capisce. Ma, purtroppamente, né lui né i suoi compagni di scorribanda in yacht l' hanno mai raccontato. Il 15 agosto 2018, il giorno dopo il crollo del Ponte Morandi, su questo giornale campeggiava con bella evidenza il nome dei Benetton. Fin da subito abbiamo spiegato che erano loro i gestori (inadeguati, figli di un sistema malato) di quel tratto di autostrada. Fin da subito dicevamo che le spese per le manutenzioni delle autostrade (poco più di 200 milioni di euro l' anno) erano insufficienti e inferiori a quanto previsto nei piani finanziari. E che il ministero che doveva controllare non aveva mai controllato. E sempre su questo giornale si è raccontato, nei giorni successivi, il festino di Ferragosto a Cortina della famiglia di Treviso, alla faccia dei morti. E sempre su questo giornale, nei mesi successivi, si sono raccontati, passo per passo, le meschinità che saltavano fuori dalle inchieste e dalle trattative maldestre del governo. Non ricordo battaglie di Gad Lerner per sbugiardare le malefatte dei Benetton. Non ricordo i suoi scoop. Anzi, nei mesi successivi alla tragedia del Ponte Morandi, lui ha iniziato a collaborare con Repubblica, uno dei giornaloni che si è sempre distinto nella corsa a nascondere il nome dei signorotti di Treviso. O, peggio, a lisciare loro il pelo con interviste da consumarsi la lingua (vero Francesco Merlo?). Il direttore di questo giornale, Maurizio Belpietro, è andato in tv a fare il nome dei Benetton senza paura. Il sottoscritto ci ha dedicato intere parti della sua trasmissione Fuori dal Coro da due anni a questa parte. Gad Lerner dov' era? E dov' erano tutti gli altri? Quelli che adesso ci spiegano che «tutti sapevano»? Se sapevano perché non parlavano? Perché s' inalberavano ogni volta che si citava il sacro nome di Treviso? Tutte le volte è la stessa storia. Se ne stanno acquattati, lisciano il pelo ai potenti, poi dopo vengono a farci la lezioncina di giornalismo, etica, storia, professione, vita. Si capisce. Noi siamo i populisti. Noi siamo i beceri. Io sono pure un guitto, un clown, come mi definisce Gad Lerner nel suo ultimo libro L' Infedele, una «macchietta». Ma si dà il caso che quella macchietta ha cominciato a raccontare lo scandalo delle autostrade ancor prima che il Ponte Morandi crollasse. E ha continuato dopo. Mentre lui, che ora viene a impartire lezioncine, taceva da vile qual è. Troppo abituato a servire i potenti, ormai, per poterli denunciare. È lui stesso a confessare, nel suo libro, la fatale attrazione per l' establishment e la bella vita, gli inviti sulle barche dei potenti alle Seychelles, la villa di De Benedetti in Sardegna e l' elicottero di Gianni Agnelli, il sodalizio con Romano Prodi, i miliardari e i banchieri, tutta roba che gli fa venire ancora l' acquolina in bocca soltanto a raccontarlo, schiaffando tutto questo lusso in faccia a noi poveri mortali, che nella vita non siamo stati in grado nemmeno di fare una vacanza (nemmeno una) negli atolli polinesiani a spese del riccone di turno. Siamo proprio dei pezzenti, si capisce. Ma da pezzenti quali siamo l' altra sera guardavamo esterrefatti Lerner che accusava il governatore della Liguria Giovanni Toti perché, in una telefonata finita nelle intercettazioni, dava del «tu» al potente uomo dei Benetton, Giovanni Castellucci. Non potendo rimproverargli altro (quella era evidentemente una normale telefonata senza risvolti di nessun tipo), Lerner redarguiva Toti con il ditino alzato e il sopracciglio tremante (fateci caso: gli trema sempre il sopracciglio quando sta per dire una scemenza): «Mi ha stupito quella confidenza». Ma davvero? O scherzi? Sei salito sull' elicottero di Gianni Agnelli, ti fai fotografare in mutande con De Benedetti, ti vanti degli inviti dei potenti di tutta Italia, e poi ti stupisci che un governatore dia del tu a colui che amministra un pezzo del suo territorio? Ma ci fai o ci sei? Hanno la faccia come il cucù. Ma ormai sto cominciando a rassegnarmi. Per un certo periodo avevo sperato che questo senso di superiorità morale dei presunti intellettuali di sinistra si potesse frenare. O ridurre. Invece no: vedo che si sta tornando indietro. Temo che passerò il resto dei miei anni a sentirmi dare lezioni di vita, etica e giornalismo da chi sa di avere la coscienza sporca, se ne vergogna, magari cerca di coprirla con formule assurde (come fa Gad tirando in ballo a sproposito l' antisemitismo o la «casualità» dell' ascesa al potere), ma non si trattiene dal salire in cattedra. Che poi se Lerner volesse davvero spiegare qualcosa su Autostrade e Benetton potrebbe chiedere direttamente al suo amico Prodi. In effetti fu lui a volere quella privatizzazione. Fu lui a licenziarla in quelle forme. Fu un uomo di Prodi come il professor Gian Maria Gros Pietro a guidare l' operazione da presidente dell' Iri, salvo poi diventare presidente di Atlantia (con un milione di euro l' anno di stipendio) dopo la privatizzazione. E fu la sinistra, riferimento culturale dei Benetton e di Lerner, a difendere quelle concessioni capestro e a impedire che venissero cambiate. Tutte queste cose, ne siamo sicuri, Gad le conosce da un pezzo. Ma non le dice. Altrimenti come farebbe a continuare a darci lezioni?

Giacomo Amadori Fabio Amendolara per "la Verità" il 2 dicembre 2020. Nel dicembre 2019 il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, mentre lanciava bordate contro Atlantia Spa, società controllata dalla famiglia Benetton, si incontrava zitto zitto con Giovanni Castellucci, ex ad di Autostrade per l' Italia e della stessa Atlantia, dopo che questi era stato messo alla porta a causa del crollo del ponte Morandi. Gli appuntamenti sono stati confermati dallo stesso ministro ai magistrati di Genova lo scorso 12 novembre, in collegamento sulla piattaforma Teams. Castellucci lo scorso 11 novembre è stato messo agli arresti domiciliari con l' accusa di frode in pubbliche forniture, inadempimento di contratti di pubbliche forniture, attentato alla sicurezza dei trasporti e, ieri, il Tribunale del riesame di Genova ha modificato la misura sostituendo la custodia domiciliare con il divieto temporaneo a esercitare l' attività professionale di ingegnere nonché di ricoprire incarichi direttivi per 12 mesi. In realtà le toghe con lui usano parole che pesano come macigni, denunciandone «la persistente totale mancanza di scrupoli per la vita e l' integrità degli utenti delle autostrade». Nell' ordinanza si legge questo preciso passaggio: «Il ministro Patuanelli il 12 novembre confermava di avere reiteratamente incontrato Castellucci da settembre a dicembre 2019, che gli aveva prospettato un coinvolgimento di Atlantia nell' acquisto di Alitalia e si era personalmente proposto come presidente». Che cosa aveva sussurrato Castellucci nel dicembre 2019 a Patuanelli? C' era il suo expertise dietro allo sfogo del ministro che esattamente un anno fa aveva dichiarato in radio: «Il futuro di Alitalia? Se siamo a questo punto è colpa di Atlantia». E aveva accusato la società di non voler davvero investire nella compagnia di bandiera. Un' altra domanda cruciale è: perché Patuanelli aveva scelto come consulente ombra l' ex ad della società che i 5 stelle avevano bombardato per mesi dopo il crollo del ponte Morandi? Sul punto, un mese fa, il ministro aveva minimizzato: «Sì, ho incontrato Castellucci. Abbiamo parlato di Alitalia perché Atlantia era parte della cordata che doveva rilevare la compagnia di bandiera. Castellucci, inoltre, interloquiva anche con Lufthansa dopo la sua uscita da Atlantia. Ovviamente Castellucci non ha mai avuto da me alcun mandato, né io gli ho mai proposto alcun incarico». Le toghe liguri considerano le intercettazioni di Castellucci con i vertici di Air Dolomiti, Lufthansa e Air France e le riunioni con il capo del Mise la prova della possibilità che il manager potesse ancora inquinare le prove. L' ex ad, dopo le dimissioni da Aspi (con una buonuscita di 13 milioni) del 17 settembre 2019, anziché trasferirsi ai Caraibi ha continuato a interloquire con i capi delle principali compagnie aeree europee e con il governo. Per i giudici del Riesame l' obiettivo di Castellucci era quello di coltivare la possibilità di «inserirsi in altre imprese in ottica lobbistica». Prima ci sono le telefonate con Air Dolomiti, poi quelle con Lufthansa. Infine quelle con i vertici di Air France a cui fa riferimento un' informativa della Guardia di finanza del marzo scorso. Particolarmente significative sono almeno tre chiamate. Il 10 gennaio parla in francese con Benjamin Smith, amministratore delegato di Air France-Klm, con cui disquisisce della trattativa con Lufthansa e rimanda a un incontro da fare a Parigi. Il 13 gennaio è al telefono con Bernard Spitz («amministratore indipendente» della compagnia e presidente del Polo Internazionale ed europeo di Medef, l' organizzazione francese degli imprenditori) e il 14 chiacchiera con il direttore commerciale della società, Angus Clark. Questa conversazione è particolarmente lunga e in essa Castellucci rispolvera il suo curriculum e il ruolo della Boston consulting, di cui era stato consulente, nel piano Fenice del 2008 per Alitalia. Cita Letta (probabilmente Gianni), Roberto Colaninno, l' ex ad Gabriele Del Torchio. Fa la lista di quello che non è andato negli ultimi 12 anni. Propone un incontro a Parigi o a Roma e fa sapere che c' è la possibilità di aprire nuove rotte in Oriente, Africa e Sud America. Come se avesse in mano la compagnia italiana. Il Riesame ricostruisce il tentativo di Castellucci, facendo sponda con il governo, di ritornare in pista dopo l' addio ad Aspi. Da quel momento l' obiettivo diventa «assicurarsi un altro lucrosissimo incarico», quello in Alitalia «non certo in rosee condizioni [] e, quindi, ancor più logicamente buona occasione di condotte simili a quelle per le quali si procede, compresa quella della truffaldina imputazione delle spese». Castellucci, «per raggiungere lo scopo di divenire presidente con deleghe di Alitalia [] contattava i potenziali partner di altre compagnie aeree, nonché il ministro personalmente, come da questi confermato». In tali colloqui avrebbe ricevuto, per esempio, il gradimento di Joerg Michael Eberath, amministratore delegato di Air Dolomiti, compagnia aerea controllata da Lufthansa, al quale Castellucci si era proposto come presidente di Alitalia, «facendo riferimento a contatti con un "ministro"». Che, come detto, era Patuanelli. Castellucci, poi, «con incredibile arroganza», sempre secondo le toghe, avrebbe indicato «i possibili soggetti per le più alte cariche, compreso l' interlocutore» e circa colui che avrebbe dovuto rivestire il ruolo di amministratore delegato aveva precisato che avrebbe dovuto «essere di sua personale conoscenza, proponendo una rosa di candidati». Eberarth, sentito a sommarie informazioni, il 20 febbraio 2020, ha confermato i contatti. Secondo la Guardia di finanza, l' ex ad di Autostrade non avrebbe avuto rapporti solo con i vertici delle principali compagnie europee, ma anche, per esempio, «con il presidente di Cassa depositi e prestiti [] interessata a subentrare nel capitale di Aspi, con evidente speranza di Castellucci di ritornare ad avervi un ruolo». Abboccamenti che però a Cdp non risultano. Il procuratore di Genova Francesco Cozzi ci spiega che Castellucci non era un fanfarone: «Sicuramente ha avuto dei colloqui, delle interlocuzioni con il ministero, le sue non erano millanterie, non parlava a sproposito: in effetti al ministro aveva rappresentato quel che era, cioè che poteva parlare con gli operatori stranieri». Quando dialogava con i capi di Air France e Lufthansa e con il Mise lo faceva a carte scoperte. «Aveva una capacità di operare sulla scena ancora molto forte» continua il procuratore. «Si dava da fare per cercare di intervenire su Alitalia, ma non lo faceva perché era un benefattore. Lo faceva perché aveva interesse a ricoprire un ruolo». Ma nei reiterati colloqui con Patuanelli, i due di che cosa hanno parlato? «Non c' è nulla di particolare, se non che rendicontava il ministro su quello che faceva. Patuanelli sul punto è stato molto chiaro, esaustivo». Quindi di candidava come presidente di Alitalia con la benedizione del ministro? «Se avesse ottenuto un risultato che veniva bene alla parte pubblica italiana magari avrebbero potuto porsi il problema se dovessero riconoscergli anche in ambito ufficiale qualche ruolo. Su questo non faccio commenti, ma se li può immaginare». Il magistrato è meno trattenuto sui giudizi altrui: «Qualcheduno ha detto che pensare di mettere a capo di una società che non deve far cadere gli aerei uno che ha cessato i rapporti con la precedente azienda su una questione in cui sono crollati dei ponti beh, non c' è bisogno di dire altro, è una questione di banale buon senso». Cozzi ritiene positivo che l' inchiesta genovese abbia cancellato dall' agenda almeno questa ipotesi. Dalle carte emerge anche come Castellucci, dopo aver lasciato Aspi, abbia cercato di mantenere un ruolo negli affari della vecchia azienda, nonostante sentisse la sfiducia della «parte più giovane della famiglia Benetton». Il manager, quattro mesi dopo aver lasciato la poltronissima di ad di Aspi, non era ancora riuscito a tagliare il cordone con Atlantia. Il 24 gennaio 2020, per esempio, in accordo con Ermanno Boffa (marito di Sabrina Benetton) era ancora a caccia di nuovi azionisti per Atlantia (dai quali spera di ottenere «rinnovata gratitudine»). È quanto emerge da una telefonata tra Gianni Mion, il presidente di Edizione, la holding della famiglia Benetton, e Alessandro Benetton. L' intromissione di Castellucci, però, sembra non essere gradita. E gli interlocutori convengono che «sia pazzo». Poi aggiungono: «Non si rende neanche conto dove sta messo circa le indagini per le vicende genovesi». E concludono che «gli converrebbe andare in Medio Oriente». Ma Castellucci ha preferito l' ufficio del ministro Patuanelli.

Andrea Pasqualetto per il "Corriere della sera" il 2 dicembre 2020. Scrivono di «persistente, totale mancanza di scrupoli per la vita e l' integrità degli utenti delle autostrade...»; scrivono di «azioni e omissioni praticamente relative a tutti i tipi di manutenzione e adeguamento della rete...»; e scrivono del suo obiettivo: «L' arricchimento dell' azienda e i propri personali compensi, a danno dello Stato». I giudici del Tribunale del Riesame di Genova concedono a caro prezzo la libertà a Giovanni Castellucci, l' ex amministratore delegato di Autostrade per l' Italia (Aspi) finito lo scorso 11 novembre agli arresti domiciliari per la vicenda delle barriere fonoassorbenti difettose. Un' indagine «minore» nata come costola di quella sul disastro del ponte Morandi ma diventata una grossa grana per via delle misure cautelari scattate in particolare contro di lui e contro gli ex dirigenti Paolo Berti e Michele Donferri (a quest' ultimo il Riesame ha rigettato l' istanza). Se da una parte i magistrati hanno revocato a Castellucci gli arresti disponendo per lui la sola interdizione dal lavoro per un anno, dall' altra motivano il tutto con una trentina di pagine durissime. Sottolineano che questa sua politica spinta di contenimento della spesa sarebbe stata retribuita con «rilevantissimi compensi economici già nel 2010: 1,250 milioni di euro lordi all' anno per il lavoro svolto in Aspi, 750 mila per quello svolto in Atlantia (che controlla Aspi, ndr ), ai quali si aggiungeva la partecipazione ai piani di incentivi triennali con il gradimento degli azionisti (famiglia Benetton, ndr )». E parlano di «manovre con i massimi vertici politici poco dopo il crollo del ponte Morandi... Castellucci, nonostante fosse consapevole della responsabilità per l' assoluta inadeguatezza delle manutenzioni, temendo la sua decadenza - come emerge dai WhatsApp al direttore dell' ufficio legale di Aspi - cerca accordi di scambio, promette il salvataggio di Carige da parte di Atlantia per evitare la revoca della concessione... tenta di mantenere il ruolo anche dopo la fine del mandato... di assicurarsi un lucrosissimo incarico di presidente in Alitalia... di inserirsi in altre imprese con ottica lobbistica...contatta l' ad di Air Dolomiti...incontra il ministro Pattuanelli... instaura contatti con il management di Airfrance e con il presidente di Cassa depositi e prestiti (quest' ultimo soltanto cercato, ndr )». I giudici lo bollano quindi come «incredibile arrogante» e ricordano poi che non è indagato soltanto per le omissioni sulle «barriere» ma anche per la «tentata truffa» sulle stesse nei confronti dello Stato e per il crollo del ponte Morandi e per i falsi report sui viadotti e per le gallerie malandate. Si scopre cioè che a Genova su Castellucci pendono cinque inchieste. In ogni caso, alla fine i magistrati del Riesame reputano sufficiente la misura dell' interdizione. «Notizia estremamente positiva - commentano i suoi legali -. Precisiamo che Castellucci è completamente fuori dal gruppo da anni, come dimostrano le telefonate. Certo, mantiene con qualcuno un rapporto di amicizia dato che per 20 anni ha guidato la società. Quanto ai compensi sono assolutamente proporzionati all' attività manageriale svolta e non sono superiori a quelli di aziende similari. Dimostreremo la sua assoluta innocenza».

Tommaso Fregatti per “La Stampa” il 2 dicembre 2020. Una promozione all' interno di un' importante società del gruppo Atlantia e un bonus fino a mezzo milione di euro l' anno. Avevano un prezzo le bugie di Paolo Berti, ex direttore operazioni di Autostrade per l' Italia, sulla strage di Avellino per coprire e far assolvere il suo capo Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato imputato in quel procedimento. Lo mette nero su bianco la guardia di Finanza di Genova in un' informativa depositata in Procura che affronta proprio l' omertà dei manager di Aspi sulle quaranta persone morte nel luglio 2013 nella caduta di un pullman dal viadotto Acqualonga per una barriera di protezione difettosa. Un documento in cui si evidenzia come il reddito di Berti - condannato in primo grado dai giudici irpini a cinque anni e sei mesi di reclusione - sia lievitato proprio in concomitanza con l' inchiesta campana. E sia passato «dai 230 mila euro annui che guadagnava in media fino al 2015, ai 380 mila del 2016 e addirittura i 760 mila del 2017», scrivono i militari delle Fiamme Gialle. Ma non solo. Dopo la seconda tragedia che ha coinvolto l' allora management di Aspi, il crollo del Morandi e la morte di altre 43 persone ad agosto 2018, il ruolo di Berti non è stato affatto ridimensionato. Anzi. Da Aspi è stato dirottato alla società Aeroporti di Roma (AdR) - altra società del Gruppo Atlantia della famiglia Benetton - dove è stato formalmente nominato "direttore appalti e acquisti". Una carica di cui Berti andava fiero tanto da pubblicizzarla con orgoglio sul suo profilo Linkedin. Queste nuove indiscrezioni emergono nelle carte allegate dal sostituto procuratore Walter Cotugno al procedimento del Tribunale del Riesame per la frode delle barriere antirumore. E che vedrà in queste ore i giudici presieduti da Massimo Cusatti pronunciarsi sugli arresti domiciliari di Giovanni Castellucci che, oltre ai procedimenti di Genova (è sotto indagine anche per il crollo del ponte Morandi) finirà di nuovo davanti ai giudici di Avellino. La Procura Generale del tribunale di Napoli, infatti, alla luce della documentazione dei colleghi di Genova che nei mesi scorsi hanno trasmesso ai pm di Avellino, ha impugnato l' assoluzione del super manager di Aspi che il 19 gennaio prossimo sarà processato dai giudici di secondo grado del tribunale di Napoli. È molto probabile - se non scontato - che le intercettazioni telefoniche in cui Berti ammette di aver mentito per coprire, appunto, Castellucci, portino all' apertura di un nuovo dibattimento nell' ambito del processo. E aggravino di molto la posizione dell' ex ad di Aspi che, invece, uscito assolto in primo grado. Paolo Berti aveva mentito durante la fase preliminare nell' inchiesta. Lo ammette lui stesso in una telefonata allegata agli atti: «Meritava che mi alzassi una mattina e andassi ad Avellino a dire la verità», dice riferendosi a Castellucci. E voleva monetizzare il più possibile quel comportamento omertoso. Una circostanza evidenziata anche nelle nuove intercettazioni allegate all' inchiesta. E in particolare quella del 14 gennaio 2019 quando Berti e Michele Donferri Mitelli, ex direttore generale delle Manutenzioni (anche lui finito agli arresti domiciliari) parlano proprio dei benefit da ottenere. «Devo mettere le mani avanti e giocarmi le mie pedine - dice Berti - dopo Avellino sono senza armi su Genova (riferito al Morandi) che vita di mi tocca fare». Donferri lo rassicura. «In questo senso - dice il manager - è una garanzia che tu devi ottenere. Cioè, è chiaro che tu non puoi prendere o aspirare ad un altro posto di lavoro. Quindi la prima cosa che devi dire (a Castellucci ndr) è che mi devono conservare il lavoro per minimo dieci anni». Non sanno Berti e Donferri che i militari della guardia di Finanza diretti dai colonnelli Ivan Bixio (Primo Gruppo) e Giampaolo Lo Turco (Nucleo metropolitano) li stanno intercettando perché entrambi sono indagati per il crollo del Morandi. Donferri va giù pesante: «E questi cani non me devono licenziare a meno che non rubo. Questo devi chiedere. Gli devi chiedere prima questo poi anche della famiglia». Una garanzia che Berti voleva per tutti i suoi familiari in vista anche dell' inchiesta di Genova. «Ma metti caso che domani ti licenziano che c. fai?», incalza Donferri. E quindi scatta la minaccia di Berti: «Sì ma gli conviene poco».

Ponte Genova: Riesame, bugie a Mit su reale stato autostrade. (ANSA l'11 dicembre 2020) "Le condotte di dissimulazione e falsità", poste in essere dalla vecchia dirigenza di Aspi, "erano destinate anche a mantenere il ministero delle Infrastrutture nell'ignoranza circa lo stato effettivo del patrimonio autostradale". Lo scrivono i giudici del Riesame nelle motivazioni con cui hanno revocato gli arresti domiciliari all'ex direttore delle Operazioni centrali di Aspi Paolo Berti. "E' eclatante - sottolineano i giudici del Riesame - la connessione qualificata tra tutte le indagini (dal crollo del Morandi, ai falsi report sui viadotti passando per le barriere e la manutenzione delle gallerie oltre alla tentata truffa), tutti riguardanti omessi e lacunosi controlli, con le correlate manutenzioni sulle strutture autostradali, al fine di risparmio sulle spese e di aumento degli utili da distribuire, con ovvio riconoscimento di rilevanti incentivi economici ai dirigenti che li permettevano - concludono -, il tutto in totale spregio della sicurezza degli utenti delle autostrade". Per il ponte Morandi vennero redatti falsi report sulle "ispezioni, sulla valutazione di sicurezza richiesta dall'ordinanza del presidente del Consiglio e sulle verifiche di sicurezza antisismiche". Lo scrivono i giudici del Riesame nelle motivazioni alla revoca dei domiciliari a Paolo Berti, ex direttore Operazioni centrali di Aspi, disponendo l'interdittiva per 12 mesi. In più "è stato artatamente inquadrato come intervento locale il progetto di retrofitting (il rinforzo delle pile 9, quella caduta, e la 10), con elusione dei controlli e avallando affermazioni inveritiere".

Caserta, i pirati dei ponti pericolanti: transitano lo stesso su quelli chiusi al traffico. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea pasqualetto. Un anno fa, mentre il sindaco ingegnere di Orta di Atella ci indicava uno dei ponti che aveva chiuso al traffico «perché pericolante», definendolo «una bomba a orologeria», sopra ci stava passando un trattore. «Eh, quello se ne frega», disse con un mezzo sorriso, come se fosse la norma. Siamo tornati su quel ponte, sotto il quale scorre incessante il fiume di macchine della Statale 7bis della Terra dei fuochi (Caserta). La struttura è rimasta quella, nel senso che non sono stati fatti interventi di manutenzione, stesse buche, stessi calcinacci, stessa struttura malandata. L’accesso è naturalmente sempre vietato e un cartello stradale lo dice chiaro. E non è cambiato neppure il traffico, sia sopra che sotto, anzi, è aumentato. Trattori, macchine, camion, biciclette. «Vedi, questo si stacca e cade giù», dice l’ingegner ed ex sindaco Villano mentre prende in mano un pezzo di cemento del ponte. E giù ci sono automobili e tir che corrono veloci, forse ignari del fatto che ogni tanto un calcinaccio cade giù e talvolta colpisce chi passa. «E’ successo, fortunatamente senza conseguenze per chi guidava”. Già, ci si affida alla dea bendata, in questo angolo d’Italia dove quello dei ponti è forse solo l’ultimo dei pensieri. Ma cosa c’è dietro alle vicende di questo e di un altro ponte che si trovano nello stesso Comune, sulla stessa Statale, entrambi chiusi al traffico un anno fa? Al di là di una certa predisposizione al rischio e alla violazione del codice della strada da parte di chi decide di attraversarli nonostante il divieto, mettendo in pericolo anche gli ignari automobilisti e camionisti che sfrecciano sulla Statale, dietro c’è il mondo dei ponti «fantasma». Parliamo di cavalcavia che hanno una carta d’identità incerta, nel senso che non si sa chi sia il proprietario. Province? Comuni? Consorzi? Anas? In Italia ce ne sono centinaia. Rimanendo a quelli che incrociano le strade gestite dalla società pubblica (circa 30 mila chilometri), l’ultimo aggiornamento parla di 763 strutture. Le ragioni della proprietà indefinita sono da ricercarsi nella lunga storia delle strutture, nel corso della quale spesso subentrano nuovi soggetti, per cui risulta difficile capire chi deve fare cosa. E, nell’incertezza, nessuno fa nulla. Nessuna manutenzione, nessun intervento. Anche perché mettere le mani su un bene immobile che non è di proprietà può creare dei problemi. È quanto successo a Orta. Dove la questione proprietà è finita davanti al Tar della Campania, che proprio di recente ha stabilito che quantomeno non è di Anas. Ma al di là delle beghe giudiziarie, nell’attesa che spunti un gestore, e al di là delle responsabilità sul controllo, delle quali abbiamo ampiamente trattato in un’inchiesta sul Corriere della Sera, i «pirati» dei cavalcavia chiusi ci mettono la loro. Spostano le barriere in cemento che impediscono l’accesso, ignorano i divieti e salgono e scendono dai ponti con grande disinvoltura. Anche perché, in termini di multa, il rischio è minimo. E nessuno, né un vigile, né un poliziotto, né un carabiniere, sembra fare nulla. Ne abbiamo chiesto ragione si vigili urbani. Risponde al telefono Pasquale Pugliese, il comandante di Orto di Atella, 30 mila abitanti: «Io purtroppo non li conosco questi ponti, anche perché mi sono insediato da poco. Aspetti che chiedo...». Un minuto dopo: «Ho chiesto, dobbiamo verificare. Faccio un sopralluogo e domani le dico». Scusi, ma non c’è un vigile che possa saperne qualcosa? «Purtroppo no, qui la situazione non è per niente facile. Ci sono due vigili per 30 mila abitanti e il Comune è stato sciolto per infiltrazioni di camorra. Non c’è personale, capisce? È sparito. Ma adesso vado sul posto e domani le dico tutto». Orta di Atella, Campania, Italia. Un Far West. Nel frattempo pure Villano, l’ex sindaco del Comune sciolto, sale sul ponte con la macchina. E, dal ponte, avverte: «Qui si rischia qualcosa di nefasto».

Anas, 3.500 ponti fuori controllo e 763 senza proprietà. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Andrea Pasqualetto. La società ha un budget di 29 miliardi di euro, eppure nel 2019 le ispezioni obbligatorie per legge si sono fermate al 28%. La lista degli «anonimi» non è mai stata resa nota, ma nel gennaio 2019 Dataroom ne aveva individuato alcuni sulla trafficatissima Statale 7 bis in Campania. A Orta di Atella (Caserta) l’allora sindaco Andrea Villano, professione ingegnere, ne aveva chiusi due al traffico perché nel manto stradale si erano aperte delle grosse fessure e sulla Statale cadevano pezzi di impalcato. Siamo tornati sul posto pochi giorni fa: nessun intervento è stato fatto, i due ponti sono sempre più malandati, i calcinacci continuano a cadere sulla strada, e i buchi sono sempre lì. Eppure per Anas «non sono emerse forti criticità». «Ma se cade il calcestruzzo sulla Statale, com’è possibile che non sia necessario un intervento?», si stupisce l’ingegner Villano, mostrando i pezzi di cemento che si staccano a mano. Mentre sugli stessi cavalcavia, sempre ufficialmente chiusi al traffico, passano auto, camion, trattori. E, sotto, il serpentone delle auto corre incessante. Come va invece sui 14.500 ponti e viadotti che hanno una proprietà certa e Anas deve gestire? Un mese fa sul tavolo della ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, è arrivato un documento. Era accompagnato da una lettera firmata da Gianni Armani, l’ex amministratore delegato di Anas, il quale, venuto in possesso dei dati sorprendenti sull’attività di sorveglianza, ha voluto informare il governo «per ragioni di sicurezza del Paese», dice. Il documento riporta i dati riguardanti le ispezioni registrate fino a dicembre 2019: quelle sui ponti principali e critici si sono fermate a neppure un terzo del dovuto, le verifiche sulla pavimentazione azzerate e i nuovi camion dotati di laser scanner fermi in magazzino per l’intero anno. Veniamo al dettaglio delle ispezioni. Secondo l’ultimo aggiornamento i ponti da sorvegliare nel 2019 erano 4991. Si tratta delle ispezioni obbligatorie per legge da effettuare da parte di ingegneri qualificati sui viadotti principali (quelli con campata di luce superiore ai 30 metri di lunghezza), e critici (segnalati dai cantonieri per lo stato di salute non ottimale). Nell’anno appena concluso ne sono state fatte 1419, il 28%. Nel 2018 erano state il 56%. Un’attività di fatto dimezzata rispetto all’anno precedente. Significa che oggi Anas potrebbe non conoscere le condizioni in cui si trova il 72% delle sue strutture più delicate. In questo quadro generale devono essere fatti dei distinguo. Ci sono regioni, come Piemonte e Friuli Venezia Giulia, in cui la verifica obbligatoria annuale segna «zero», quando ne erano invece previste rispettivamente 205 e 64. Le Marche ne hanno registrata una su 271, Autostrade Siciliane, zero ispezioni su 348 da fare. L’Autostrada del Mediterraneo, cioè la Salerno-Reggio Calabria, che ha dentro il viadotto Stupino e il viadotto Italia, fra i più alti d’Europa: 7 strutture ispezionate su 574. Sul fronte opposto, invece, la Liguria, dove l’Anas ha passato al setaccio 201 ponti quando avrebbe dovuto ispezionarne solo 18, andando così ben oltre il dovuto, caso unico in Italia. Uno zelo dovuto forse ai disastri che hanno colpito la Regione. Nel corso dell’anno i chilometri di carreggiata da tenere sotto controllo, sono aumentati da 26.373 a oltre 29 mila, a causa del passaggio di diverse strade provinciali nell’alveo di Anas. Per le «ispezioni sulla pavimentazione» che registrano le condizioni dell’asfalto, lo scorso dicembre il sistema sfornava uno zero tondo. Allo scopo di programmare e realizzare gli interventi, nei primi mesi del 2018, era entrato inoltre in funzione il sistema Pms, finalizzato a una manutenzione tempestiva e puntuale delle nostre strade. Prevede l’utilizzo di mezzi mobili attrezzati con laser scanner che verificano l’asfalto, tenuta, rugosità, buche... Nel 2018 ne erano stati acquistati 4 (su un totale di 8 previsti a regime) che avrebbero dovuto battere in lungo e in largo la Penisola. Eppure nel 2019 questa attività sembra essersi fermata. Mancano forse i fondi? No. L’Anas dispone infatti di risorse importanti. Il contratto di programma stipulato con il Ministero delle Infrastrutture aveva stanziato per il quinquennio 2016-2020 23,4 miliardi, aumentati lo scorso anno a 29,9, più della metà per la manutenzione programmata, l’adeguamento e la messa in sicurezza di ponti, gallerie e pavimentazione, al punto da far scrivere alla stessa Anas che «questo ci consentirà di disporre di fondi rilevanti per la manutenzione e la messa in sicurezza della rete autostradale esistente». In più, per il biennio 2019-2020, ben 2,7 miliardi sono stati destinati alla manutenzione straordinaria. Sono stati spesi meno di 200 milioni. Cosa non funziona? La mancanza di un controllo sistematico e trasparente delle strade non può che favorire fenomeni corruttivi. Se non carichi a sistema i risultati delle ispezioni, puoi gestire come ti pare i rapporti con le aziende. È il caso dei funzionari Anas di Catania e degli imprenditori recentemente arrestati in Sicilia per tangenti. Dalle indagini della Guardia di Finanza è emerso fatturavano lavori di manutenzione che venivano eseguiti solo parzialmente, in modo da spartirsi il residuo. Oppure registravano in contabilità la sostituzione di barriere di sicurezza mai avvenuta. A Trieste sono in corso indagini su un sistema di spese gonfiate nella manutenzione delle strade e di mazzette a un paio di dipendenti Anas. A Firenze sono state rinviati a giudizio in 18 per corruzione e abuso d’ufficio, fra cui 4 funzionari Anas. Fra le accuse quella di aver affidato lavori in urgenza senza che ci fosse l’urgenza e affidamenti diretti quando invece necessitava una gara d’appalto. Si trattava di asfaltature, manutenzioni straordinarie di ponti e viadotti. E il Ministero delle Infrastrutture, al quale spetta il controllo dell’attività di Anas, cosa dice? Risponde che, in merito ai propri ponti «si è in attesa da Anas della relazione 2019»; quanto ai cavalcavia anonimi «Anas ha assicurato di aver messo in essere processi di sorveglianza e controllo analoghi a quelli per ponti e cavalcavia di proprietà». Come dire, l’oste ha detto che il suo vino è buono. È il caso di precisare che sui ponti non di proprietà che richiedono manutenzioni urgenti (come il caso della Campania), basta chiedere al Ministero l’autorizzazione ad utilizzare le risorse esistenti. Insomma, chi dovrebbe controllare Anas, il Mit, dice che si fida del controllato. E il controllato, Anas, dice che va tutto bene. A guidare Anas è l’amministratore delegato Massimo Simonini, un manager interno senza esperienza di programmazione e controllo, voluto un anno fa dal ministro Danilo Toninelli. A dicembre era stato sfiduciato dal cda, e poi miracolosamente salvato. Anche Toninelli, che aveva scarse competenze di Infrastrutture, è stato sostituto e al suo posto ora c’è Paola De Micheli. Laurea in scienze politiche, De Micheli è una manager del settore agroalimentare, già sottosegretario all’economia e alla Presidenza del Consiglio e non memorabile commissario straordinario alla ricostruzione del terremoto del Centro Italia. Pure lei si cimenta per la prima volta con le Infrastrutture, e magari ritiene Anas adatta a prendersi la concessione dei 3.000 km di Autostrade.

Autostrade: ecco quali sono le gallerie a rischio crollo. Secondo il dossier del Mit anche la galleria Berté era tra quelle segnalate perché insicure e non a norma. Barbara Massaro il 10 gennaio 2020 su Panorama. Sono 200 le gallerie italiane segnalate dal dossier del Mit come insicure, non a norma o a rischio crolli. Dopo la caduta di parte della volta della galleria Berté (200 tonnellate di calcinacci) alla vigilia di Capodanno quando solo per miracolo non ci sono state vittime, è stato aperto un dossier urgente sullo status delle gallerie autostradali italiani. Il documento è stato elaborato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, organo tecnico del Ministero delle Infrastrutture, e inviato alla direzione del Mit, ad Aspi, ai Vigili del Fuoco e a tutti i Provveditorati dell’Opere Pubbliche.

Quali sono le gallerie a rischio crollo. Oggi si scopre che la galleria Berté sulla A26 già due mesi prima del crollo era stata segnalata dal Consiglio Superiore dei Lavori pubblici al Mit, ad Autostrade, al dipartimento dei vigili del fuoco e ai provveditorati alle Opere pubbliche perché non a norma e a rischio crolli. E dopo il disastro del 30 dicembre l'inchiesta si è allargata a macchia d'olio arrivando al drammatico elenco di 200 gallerie non a norma. Centocinque sono di competenza di Autostrade, mentre 90 di altre società. Sempre sulla A26 tra quelle che compaiono nel dossier ci sono la Turchino, vicino Genova, e più a nord la Mottarone. E ancora sulla A10 la Coronata nei pressi del tristemente noto viadotto Polcevera e ancora in Liguria sono segnalate un'altra decina di tunnel sulla A12 Genova-Rosignano (tra cui sono a rischio la Veilino, la Monte Sperone e la Maddalena) e sulla A7 Genova-Milano la galleria Serravalle. Tra le tratte di competenza Aspi, sono segnalate una decina di tunnel sulle dorsali appenniniche fra Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna. Nel nord est, sulla A23 tra Udine e Tarvisio ci sono la Monreale e la Monte Galletto. Sull'Adriatica la Pedasio e la Castello Grottammare, già chiusa nell'agosto 2018 per un incidente e riaperta dopo sei mesi.

Non solo crolli. Il rischio non è solo quello dei crolli come nel caso della galleria Berté, ma le gallerie non sono sicure perché non dotate di sistemi antincendio adeguati, non hanno corsie di fuga o corsie d'emergenza, sono soggette a infiltrazioni d'acqua e, in generale, non rispondono agli standard di sicurezza richiesti dall'Europa per i tunnel di lunghezza superiore ai 500 mt che dovrebbero essere tutti impermeabilizzati, dotati di corsie d'emergenza e via di fuga, di videosorveglianza, di luci guida in caso di evacuazione e di stanze a tenuta stagna. Si tratta di norme che dovrebbero essere l'adeguamento alla direttiva europea 54 del 2004. Bisogna capire, quindi, perché la direttiva europea recepita nel 2006 che doveva essere applicata entro aprile 2019 non è stata rispettata e definire le responsabilità di chi è stato connivente con questa pericolosa mancanza strutturale della rete autostradale italiana che, in primo luogo mette a rischio la vita di chi viaggia ogni giorno, e poi fa sì che l'Italia possa incorrere nell'ennesima procedura d'infrazione europea che comporta multe e sanzioni (che poi ricadono sulle tasche dei cittadini). Aspi rende noto che il 90% delle gallerie citate nel dossier è in fase di adeguamento.

Tommaso Fregatti e Marco Grasso per “la Stampa” il 10 gennaio 2020. Duecento gallerie "fuorilegge" in tutta Italia. Per la precisione 105 sulla rete in concessione ad Autostrade per l' Italia, 90 alle altre società. L' indagine sul crollo della galleria Bertè, avvenuta il 30 dicembre sulla A26, nei pressi del comune ligure di Masone, potrebbe allargarsi a macchia d' olio, un nuovo ciclone giudiziario che potrebbe abbattersi sulla società concessionaria, già sotto inchiesta per il crollo del Ponte Morandi e per lo scandalo dei falsi report sulla sicurezza dei viadotti. Sotto la lente degli investigatori è finito il mancato adeguamento alla direttiva Ue recepita dall' Italia nel 2006, i cui obiettivi dovevano essere raggiunti nell' aprile del 2019. E il primo censimento operato dalla Guardia di Finanza inquadra una situazione drammatica che, di fatto, accomuna tutti i concessionari. Inchiesta "fotocopia" Il cedimento della galleria sembra avere innescato una reazione a catena, simile al canovaccio dei viadotti autostradali. La Procura di Genova, indagando sul Morandi, scopre che i rapporti sulla sicurezza del viadotto erano dei "copia-incolla": i voti erano sistematicamente "ammorbiditi". Rapidamente, lo sguardo dei magistrati si allarga a un intero sistema, improntato al risparmio dei costi di manutenzione: decine di altri viadotti entrano nelle indagini. E nel mirino finisce un sistema che di fatto si controllava da solo: Autostrade affidava le verifiche, e secondo chi indaga le influenzava, a Spea, società di fatto subordinata. Il problema dei tunnel è che il sistema dei controlli e gli attori coinvolti sono gli stessi. La scala di valutazione dei rischi andava da 10 (valore che indica condizioni ottime) a 70 (voto che impone la chiusura del viadotto o della galleria e lavori immediati. La Bertè, da cui si sono distaccate due tonnellate e mezzo di cemento, aveva ricevuto 40, cioè un rischio di cedimento molto contenuto.

Verso nuove accuse di falso. Il rapporto è stato sequestrato ieri dai militari del Primo Gruppo della Finanza, coordinati dal colonnello Ivan Bixio, e dal Nucleo metropolitano, guidato al colonnello Giampaolo Lo Turco. Gli investigatori hanno acquisito anche altro materiale nella sede di Spea. La distanza tra ciò che era stato certificato e quanto accaduto aprirà quasi certamente una nuova ipotesi di reato di falso. L' antipasto di una serie di accertamenti che investe l' intero sistema dei tunnel: su che base venivano compilati i report di sicurezza? Che tipo di ispezioni venivano condotte? E, soprattutto, qual è la reale condizione della rete di gallerie? Il punto di partenza è la direttiva Ue, che avrebbe dovuto imporre standard di sicurezza più elevati e moderni, in materia di antincendio, illuminazione, vie di fuga, reti di protezione, drenaggio, semafori, ventilazione. Autostrade è largamente inadempiente, e questo potrebbe pesare sul piatto di una eventuale revoca della concessione, o su una maxi-multa. Ma in questa condizione, sottolineano fonti interne, la società è in buona compagnia, e tra gli irregolari c'è Anas. Non è escluso che i magistrati possano contestare responsabilità allo Stato sui mancati controlli e per aver consentito questo andazzo. E ieri in una galleria della A10, ad Arenzano, poco fuori Genova, si è staccata parzialmente un' altra "ondulina". Pensati come rimedi provvisori, per incanalare le infiltrazioni nei tunnel, sono diventati un panorama molto frequente in tutte le gallerie della rete. E questo potrebbe essere oggetto di accertamenti, sul fronte della manutenzione.

Non solo ponti, l'allarme del Ministero: “200 gallerie sono a rischio in Italia”. Le Iene il 10 gennaio 2020.  Sarebbero 200 le gallerie autostradali a rischio in tutta Italia. È quanto trapela da un dossier del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici inviato al ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Con Giulio Golia vi abbiamo mostrato le terribili condizioni dei viadotti di Genova dove ci sarebbe anche l’ombra di dossier con dati falsificati. Non solo ponti che tremano e crollano: duecento gallerie autostradali sono a rischio in tutta Italia. È questo il risultato del censimento dopo i controlli partiti in seguito al crollo all’interno della galleria Bertè sulla A26, nei pressi di Masone (Genova). Con Giulio Golia vi abbiamo mostrato lo stato dei viadotti liguri documentando in alcuni casi distacchi di calcinacci e addirittura bulloni. Dopo il crollo della galleria Bertè, il 30 dicembre sulla A26, nei pressi di Masone, le autostrade sono finite nuovamente sotto la lente dopo il dossier del Consiglio superiore dei lavori pubblici acquisito dalla Guardia di Finanza di Genova: 200 gallerie in tutta Italia non sarebbero a norma con i requisiti antincendio tanto che l’Italia rischia una procedura d’infrazione dall’Unione Europea. Ci sono tunnel lunghi oltre 500 metri presentano pericoli di incidenti e crolli. Alcune di queste gallerie sarebbero prive di sistemi di sicurezza, di corsie di emergenza e vie di fuga. In alcuni casi esisterebbero delle prescrizioni per attraversarle come limitare la velocità, aumentare la distanza minima tra i veicoli, vietare il sorpasso, il transito per i mezzi che trasportano merci pericolose, infiammabili e tossici. “Sulla nostra rete è in corso l’adeguamento degli impianti. Nel 90% delle gallerie interessate è stato concluso nel restante i lavori sono in corso di aggiudicazione", replicano da Autostrade per l’Italia. Nella lettera del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici viene fatto riferimento anche alle perquisizioni compiute dalla Guardia di Finanza, a seguito dei 43 morti causati dal crollo del ponte Morandi, sulle barriere antirumore a rischio crollo e sui falsi report dei viadotti ritenuti a rischio. Giulio Golia ha documentato come la società incaricata delle verifiche avrebbe falsificato i dati delle ispezioni in cui emergevano strutture più sicure di quanto in realtà non lo fossero (clicca qui per il servizio). Dalle verifiche sul ponte Morandi sono emersi dettagli che, se fossero veri, sarebbero agghiaccianti: “I report presentavano deficit di informazioni. Si affermavano positivamente i controlli che avevano dato un certo risultato senza che corrispondesse un’ispezione effettiva”, sostiene Francesco Cozzi, procuratore capo di Genova. Nell’elenco dei ponti che sarebbero finiti nell’elenco dei report falsificati ci sarebbe anche il viadotto Bisagno.  “È emerso che i cassoni non sono stati oggetto di ispezione da diversi anni”, racconta il procuratore Cozzi. In procura se ne sono accorti perché negli ultimi anni davano sempre gli stessi risultati. “Io reputo che i tecnici che hanno omesso di fare degli accertamenti si sono uniformati a linee aziendali. Dalle indagini è emerso che in qualche caso gli è stato detto di non fare quei numeri”. Tra i ponti sotto la lente della procura c’è il Pecetti, chiuso qualche settimana fa. Dai documenti emerge una situazione davvero preoccupante: “La relazione risulta falsificata modificando le cifre riportate”, si legge. “Non si può pensare che continui un modo di procedere anche dopo una tragedia di questo tipo. Non c’è nessun elemento che lo giustifichi”, commenta Cozzi. “È accaduta una cosa singolare che per alcuni ponti sottoposti a ispezioni risultano gradi di ammaloramento più intenso rispetto a quello di 3 mesi fa. In alcuni casi si traduce con chiusura immediata”. 

Monopattino elettrico, le regole per la circolazione. Via libera alla circolazione con regole su motore e limiti di velocità, mentre il casco non è obbligatorio. Ecco le città italiane e i servizi di sharing che trainano il settore. Alessio Caprodossi il 2 gennaio 2020 su Panorama. Era solo questione di tempo per il via libera alla circolazione del monopattino elettrico in Italia, dove d’ora in poi il mezzo è equiparato alla biciclette, come previsto dal decreto ministeriale sulla micromobilità dello scorso 4 giugno. Per effettuare l’ormai celebre ultimo miglio - cioè l’ultima tappa del viaggio per recarsi ogni giorno in ufficio, al posto di lavoro o in determinati luoghi della città mediante l’utilizzo congiunto di più mezzi, pubblici o privati - bisogna però rispettare le norme con le quali è stato regolamentato il settore, che oltre ai monopattini elettrici include anche i Segway ma non hoveboard e monowheel, che possono essere utilizzati solo in aree pedonali, piste ciclabili e altre precise zone stabilite dai singoli Comuni.

I fattori principali: potenza e velocità. I punti fermi del nuovo corso riguardano la potenza del motore elettrico e la velocità del monopattino: nel primo caso la soglia massima prevista è pari a 500 watt, mentre il limite di velocità è di 20 km/h, che si riduce a 6 km/h nelle zone pedonali. Ma non solo, perché il veicolo deve essere munito di segnalatore acustico, limitatore di velocità e set di luci, per usarlo in aree definite sempre dai vari municipi cittadini (restano escluse corsie preferenziali, parcheggi, vie pavimentate e gallerie pedonali), con tanto di apposita segnaletica. Non c’è l’obbligo di indossare il casco, che è però consigliato per ogni circostanza e percorso, ma quello di un giubbotto riflettente per salire sul monopattino dopo il tramonto per i soli maggiorenni e coloro che possiedono la patente AM.

Perché potrebbe essere una rivoluzione. Molto utilizzati dagli italiani, sia attraverso le sperimentazioni delle aziende dedite al noleggio temporaneo, sia mediante acquisti diretti (leggi qui per saperne di più), il monopattino elettrico è stato finora causa di numerosi equivoci, parecchie multe e diversi incidenti. Proprio per questo si è reso necessario fare chiarezza e normare il campo d’applicazione di una alternativa al trasporto urbano che assicura vantaggi sui tempi di movimento e sull’ambiente, senza tralasciare la questione culturale, poiché all’atto pratico   aumentano le persone che scelgono ridurre o abbandonare l’uso dell’auto in favore di un mezzo semplice, rapido ed ecologico. In teoria anche sicuro (tenendo a mente che non tutte le città presentano le condizioni ideali), a patto di rispettare le regole e guidare con attenzione e buonsenso, da mantenere anche per parcheggiare il veicolo dopo essere arrivati a destinazione, per non creare problemi a chi passeggia sul marciapiede, magari con una culla, passeggino o sedia a rotelle.

Lo sharing in città. Il via libera premia le aziende di cui sopra, che puntano sull’Italia per ampliare la rispettiva flotta europea. Premesso che il funzionamento è identico per tutti i servizi di sharing - dotati di applicazione per dispositivi mobili con cui sbloccare il veicolo e saldare il conto tramite carta di credito - sono Torino (capofila con la presenza di otto servizi privati), Milano e Rimini a tirare la volta al monopattino, anche se è in crescita il numero di città che aprono le porte al mezzo simbolo della mobilità urbana (come Verona, Pisa, Palermo, Pesaro e Imola). Restando al servizio, le proposte più diffuse nel Bel Paese sono offerte da Helbiz, Lime, Circ, Bird Rides Italia (filiale italiana della statunitense Bird), Dott, Hive, Tier, Wind Mobility e Bit Mobility, che con l’attuale svolta possono accelerare l’espansione lungo lo Stivale e creare le condizioni base per replicare, almeno in teoria, il successo riscosso in altri paesi europei, dove il monopattino elettrico è diventato in breve tempo uno dei mezzi più utilizzati per gli spostamenti cittadini. 

Vincenzo Borgomeo per “la Repubblica” il 3 gennaio 2020.

Dove possono circolare i monopattino elettrici?

Sulle strade e sulle piste ciclabili, ovunque sia consentita la circolazione alle biciclette

Dove non si possono usare?

Sui marciapiedi, sulle tangenziali e non si può passare sulle strisce pedonali

Possono circolare anche sulle strade extraurbane?

Sì, possono circolare su tutte le strade extraurbane che non presentino divieti specifici per le biciclette

Qual è il limite di velocità?

È di 20 km/h al massimo

E il limite di potenza?

È fissato a 500w

Dove si possono parcheggiare?

Solo negli spazi riservati alle due ruote e alle bicilette. Mai sui marciapiedi

L' assicurazione è obbligatoria?

No, non è prevista nessun tipo di assicurazione. Si può fare, ma non è un obbligo

A che età si può guidare per le strade il monopattino elettrico?

Non c'è nessun limite di età. I monopattini elettrici possono essere guidati anche dai minorenni

Serve la patente per guidare il monopattino?

No, nessun tipo di patente o patentino

Il casco è obbligatorio?

No

Sono obbligatorie le luci?

Solo se si viaggia di sera o di notte

Bisogna indossare il giubbino catarifrangente?

Non più

Quale legge regolamenta la circolazione dei monopattini elettrici?

La legge 160 del 27 dicembre 2019

La segnaletica relativa ai monopattini è superata?

Sì, è stata appena installata ma va cambiata

Le nuove regole valgono anche per hoverboard e monoruota?

No, valgono solo per i monopattini elettrici

I monopattini si possono usare su tutto il territorio nazionale?

Sì, quindi non solo nelle città che hanno aderito alla sperimentazione e non solo negli ambiti definiti dalle delibere con le quali i singoli Comuni hanno aderito alla sperimentazione.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 3 gennaio 2020. Fatta la legge, trovato il monopattino. Ci si può schierare sempre a comunque dalla parte di ogni innovazione anche demenziale (tricicli, minibici pieghevoli, bici elettriche, monopattini, segway, hoverboard, monoruota, skateboard, pattini, scarpe con ruote estraibili) oppure, più banalmente, si può farsi un giro per Milano, e valutare. Il giudizio, anzitutto, sarà condizionato dalla luna buona o cattiva che avremo quel giorno (questo sempre) ma nondimeno sarà vincolato alla botta di culo nel tornare a casa incolumi, senza che un monopattino - per esempio - ci abbia spalmato l' alluce sul marciapiede o abbia trasformato la strada in un gioco elettronico dove però non puoi mitragliare gli ostacoli: puoi solo investirli. Ed è lì, in quel momento, che capirai se sei davvero un progressista, aperto alla cricca della «micromobilità organizzata», oppure sei un retrogrado inquinatore che non si rassegna all'ennesima dittatura delle minoranze (su ruote) e vorrebbe levarsi tutti quei trabiccoli dai coglioni. È solo la prova dei fatti che ti dirà chi sei: non la tua immaginazione, non il vagheggiare Amsterdam mentre passi da Quarto Oggiaro, non citare Berlino - ricostruita settant'anni fa - mentre sei fermo a un semaforo su una strada in pietra di fiume, lungo le mura medievali meneghine. Insomma, tutto si può fare, e tutto si può regolarizzare (che significa aggiungere e riaggiungere al casino) a patto di aver fiducia nelle soluzioni dei problemi precedenti: ma c'è, questa fiducia? Giurereste, cioè, che il problema dei ciclisti a Milano, per dire, frattanto è stato risolto? Milano è progressista da sempre, non c'entra il colore politico, Milano è anche asburgica e regge dei traffici e degli equilibri che farebbero collassare qualsiasi altra città anche nordica: ma la Milano veicolare, ormai, è diventata una fomentatrice di odio vero e tangibile, non come quello virtuale degli haters internettiani: i ciclisti odiano le auto, le auto odiano i ciclisti e gli scooter e le moto, tutti insieme odiano gli autobus, mentre ogni pedone odia e basta: più tutti gli incroci possibili tra categorie, anche se il fronte della battaglia vede sempre protagonisti soprattutto i ciclisti (che perderanno sempre, ma venderanno carissima la pelle) contro gli automobilisti (che vinceranno sempre, ma inevitabilmente vessati e perseguitati). Ora però c'è una novità. È questa: i ciclisti, i motociclisti, gli scooteristi, i taxisti, gli automobilisti, i furgonisti (carico e scarico con le quattro frecce) e le mamme col suv (carico e scarico di figli in mezzo alla strada) e tutti questi, insomma, sembrano uniti nel desiderare la deflagrazione atomica di ogni monopattino. Eccola la novità culturale. Poi certo, evviva, ci sono le novità intese come delle regole anche per loro, i moderni sui monopattini: e ci sentiamo tutti meglio. Però dite un po': avete mai visto un vigile urgano che controllasse il wattaggio di una bici elettrica? Avete mai visto multare un ciclista che passa sulle strisce pedonali o sul marciapiede? Vi risulta che i ciclisti che passano col rosso becchino multe? Mai viste biciclette nelle aree pedonali, vero? Mai visti trabiccoli cinesi del bike sharing ammassati in giro o gettati direttamente nel Naviglio, giusto? Mai viste piste ciclabili vuote con ciclisti rigorosamente in strada; e di notte non vi è mai capitato - ne siamo certi - di vedervi tagliare la strada da una bici a tutta velocità, senza luci né casco. Ma per i monopattini cambierà tutto, come no. Milano non è Napoli, dove vedi intere famiglie arrampicate su uno scooter senza targa, o vecchiette in carrozzella caricate sull'Apecar. Sta di fatto che l'unica altra città che sta massicciamente introducendo i monopattini, in Italia, è Bolzano, dove riuscirebbero a regolare anche la circolazione dei mahout sopra gli elefanti indiani. E nel resto del mondo? Negli Stati Uniti non hanno ancora finito di litigare, ci sono città dove i monopattini si usano, altre dove non si usano, e altre dove, se esci da una certa zona, il monopattino si ferma: a New York comunque sono vietati. Dal settembre scorso sono vietati anche a Parigi (salvo aggiornamenti) dopo una caterva di incidenti e lamentele. In Germania, Austria e Belgio ci sono, ma con regole ancor più ferree che da noi - rispettate, precisiamo - e con suoni di allarme se il mezzo esce da una determinata zona. In Svizzera ci sono, ma il principale operatore di sharing ha ritirato la flotta dopo alcuni incidenti. In Gran Bretagna è vietato se non in aree private. In Spagna e Portogallo è tutto in divenire, ma a Madrid non possono circolare nelle aree pedonali o su strade in cui le auto superino i 50 all' ora (quante ne conoscete?). In Israele lo usano soprattutto il sabato, quando i mezzi pubblici non circolano. Poi Milano magari sarà la migliore di tutte, e sarà avanguardia mondiale dei monopattini con regole rispettate come neanche a Singapore. Purché non si tiri in ballo l'ecologia, perché qui la risposta è già nota: i monopattini non sono ecologici. È vero che non emettono anidride carbonica, ma l' impatto va calcolato in termini di emissioni di gas serra («carbon footprint») che tengano conto delle emissioni necessarie alla produzione di un oggetto e al suo funzionamento: nel caso - come calcolato da uno studio serio dell' Università Statale del North Carolina, e pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research Letters - i monopattini elettrici risultano meno ecologici dei mezzi che si userebbero al loro posto se non ci fossero. Lo studio è in rete. A incidere, sono le emissioni necessarie per portare i monopattini dalla Cina (li fanno quasi tutti lì) e soprattutto quelle prodotte nelle operazioni di recupero e ricarica dei mezzi. Il calcolo è complesso, ma sono arrivati a prospettare un impatto di circa 126 grammi di gas serra al chilometro per ogni passeggero, maggiore di un singolo passeggero di autobus e dell' impatto di una bicicletta elettrica, per dire. Ma di queste cose, in realtà, ci interessa relativamente: forse perché Greta Thunberg non ha ancora un monopattino. A noi interessa poter circolare senza che la guida di qualsiasi mezzo si trasformi in un videogioco in cui evitare di stirare un pirla in monopattino. Nel luglio scorso, a Londra, è morta la star britannica Emily Hartridge: stava guidando un monopattino elettrico quando si è scontrata con un tir a una rotatoria. Il clamore è stato enorme. In Inghilterra l' uso del monopattino è completamente vietato sui marciapiedi e in qualsiasi strada: ma indovinate se l' opinione pubblica se l' è presa o no con il tir.

Alto Adige, morto uno dei feriti: salgono a 7 le vittime dell'incidente in Valle Aurina. La giovane deceduta aveva 21 anni. L'investitore: "Vorrei essere io al posto di quei ragazzi". La Repubblica il 06 gennaio 2020. E' deceduta alla clinica universitaria di Innsbruck, J.S.H. di 21 anni, investita sabato notte da un'auto a Lutago, in valle Aurina. Sale così a sette il bilancio delle vittime. Troppo gravi le lesioni riportante alla testa: la ragazza era stata portata ancora di notte in gravissime condizioni con l'elisoccorso Aiut Alpin in Austria, oggi è deceduta per le ferite. Intanto Stefano Lechner, l'automobilista 27enne che ha provocato l'incidente ha detto: "Vorrei essere io al posto di quei ragazzi". Come racconta il suo legale, Alessandro Tonon. Il giovane ha anche raccontato di non essersi allontanato dal luogo dell'incidente. "E' sceso dalla macchina e ha tentato di rianimare uno dei ragazzi e quando sono arrivati i carabinieri e andato da loro dicendo: 'Sono stato io'", afferma Tonon. Lechner vive con i suoi genitori, distrutti per quello chè è successo: "Sono molto dispiaciuti per i ragazzi, non sanno cosa fare. E' un incubo anche per loro", dice l'avvocato del giovane investitore che ha detto di non essersi reso conto di essere ubriaco, quando si è messo in macchina. Rinchiuso nel carcere di Bolzano, attende l'udienza di convalida dell'arresto che sarà fissata al più tardi mercoledì. Oggi la straziante visita dei parenti arrivati dalla Germania che si sono recati sia sul luogo della strage sia in ospedale a Brunico, dove si trovano le salme dei giovani uccisi dall'Audi TT guidata dal 27enne operaio altoatesino. A Lutago, accanto alla staccionata nel tratto di strada dove si è consumata la strage, sei rose rosse, una trentina di lumini, alcuni cuori disegnati dai bambini, dediche e, nei pressi del Bruggerhof dove la comitiva risiedeva, anche due cartelli simbolici, uno in lingua tedesca e l'altro in lingua italiana: "No stampa, chiediamo la vostra comprensione in questo momento di profonda tristezza". Lechner è in stato di arresto con l'accusa di omicidio stradale plurimo e lesioni gravissime. Ha trascorso la notte presso il reparto psichiatrico dell'ospedale di Brunico, in stato di shock e con pensieri suicidi. Tutti i morti nell'incidente sono tedeschi originari della Renania Settentrionale-Vestfalia, Colonia e Remscheid. Le altre vittime, le cui salme si trovano all'ospedale di Brunico, sono Rita Felicitas Vetter (1996), Katarina Majic di Wuppertal, Rita Bennecke di Remscheid, Julius Valentin Uhlig di Colonia, Julian Vlam di Siegen e Philipp Schulte, tutti nati nel 1997. Delle 17 persone coinvolte, sette sono morte (4 donne e 3 uomini), tre ferite in maniera grave (una donna e 2 uomini), cinque (3 donne e 2 uomini) hanno riportato lesioni di media entità e due (un uomo e una donna) hanno riportato ferite lievi.

Marco Angelucci per corriere.it il 6 gennaio 2020. C’era chi sognava di fare il calciatore e chi l’architetto. Felicitas invece voleva diventare dottoressa per salvare vite. Ma non ha fatto in tempo a realizzare il suo sogno. L’Audi TT guidata da Stefan Lechner l’ha centrata in pieno, uccidendola sul colpo. Insieme a Rita Felicitas Vetter sono morti Julius Valentiin Uhlig di Colonia, Katarina Majic, Julian Vlam di Siegen, Rita Bennecke di Remschied e Philipp Schulte che 23 anni li avrebbe compiuti solo tra pochi giorni. Giovani vite spezzate da un loro quasi coetaneo che, nonostante avesse bevuto molto più del consentito, si è messo al volante e ha iniziato a tirare come un pazzo su una strada dove gli incidenti mortali non sono un’eccezione.

La cancelliera Merkel. Quando ha centrato il gruppo di ragazzi tedeschi, Lechner viaggiava a 100 all’ora. E ha compiuto una strage. Il bilancio dell’incidente è quello di un attentato: sei morti e undici feriti. «Piango con tutti quelli che hanno perso i figli. Auguro forza e guarigione ai feriti», ha commentato la cancelliera tedesca Angela Merkel dicendosi scioccata per le notizie in arrivo dall’Alto Adige. Quasi tutte le vittime arrivavano dalla regione della Westfalia. Non è chiaro quanto si conoscessero tra loro perché alloggiavano in alberghi diversi e non tutti avevano i documenti in tasca. Di certo tutti erano da poco scesi dallo shuttlebus che li aveva riportati davanti all’albergo. «Volevano solo trascorrere una serata spensierata ma sono stati uccisi da qualcuno che sfrecciava sotto l’effetto dell’alcol» ha commentato il governatore della Westfalia Armin Laschet.

I loro sogni spezzati. Julian Vlam sognava di fare il calciatore. Roccioso centrocampista in forza al Tsv Siegen, Julian era stimato dai compagni che ne ricordano le doti dentro e fuori dal campo. «Dava sempre il massimo: anche quando entrava dalla panchina. Una presenza preziosa la sua: quest’anno aveva già segnato due gol» ricordano i compagni del Siegen, formazione che milita nel campionato interregionale germanico. «Adesso che Julian non c’è più, ottenere la promozione sarà molto più difficile». Da Colonia arrivava anche Julius Valentin Uhlig e pure lui era appassionato di calcio. Tifoso del Fortuna Köln, era iscritto al gruppo ultras degli squali. Studiava architettura e avrebbe voluto seguire le orme del padre, docente universitario tra i massimi esperti del movimento Bauhaus. Appassionato di montagna, la sua pagina social è piena di foto di vette innevate.

Dalla Germania. Rita Felicitas Vetter invece era una studentessa in medicina. Dopo gli studi all’università di Tübingen, si era trasferita ad Amburgo per la specializzazione. «Sono sportiva e se ti piace fare jogging è un attività che potremo fare insieme» rivela lei stessa sulla pagina della Mitwohnzentrale di Amburgo. Un blog su cui ci si presenta per cercare coinquilini. «Il mio studio richiede molto impegno e a volte scompaio tra i libri. Ma altrimenti mi piace cucinare insieme, uscire la sera per bere una birra o un buon bicchiere di vino» scrive sul suo blog personale in cui annuncia anche di non aver alcun problema a lavare i piatti. Katarina invece era originaria dei Balcani ma la sua casa era lungo il Reno, come la maggior parte delle vittime. Di lei si sa pochissimo se non che fosse di Wuppertal e avesse frequentato una scuola tecnica. E pochissimo si sa anche di Philipp Schulze se non che avrebbe compiuto 23 anni alla fine del mese.

Il vescovo: «Prego anche per l’investitore». Alle loro famiglie vanno le condoglianze del vescovo di Bolzano Ivo Muser. «Prima della doverosa riflessione educativa e sulla sicurezza stradale è il momento del cordoglio e della solidarietà. Prego anche per l’investitore», ha detto Muser sapendo quanto grande è il peso che Stefan Lechner dovrà portare sulla coscienza.

Enrico Ferro per ''la Repubblica'' il 6 gennaio 2020. Kurt Cobain tatuato sulla spalla destra, Jimi Hendrix sul petto ma era la ferita sul cuore che rendeva insopportabile la vita di Stefan Lechner. L' aveva lasciato la fidanzata. Stavano insieme da due anni ma lunedì lei aveva messo la parola fine. E sabato sera lui stava andando da lei. Operaio saldatore alla Weger di Chienes, innamorato delle auto fuoriserie, si era legato sentimentalmente a una ragazza di Lutago. «Le cose tra loro non andavano bene», racconta un amico di Chienes, paesino di 2.800 anime sul lago di Issengo. «Si erano lasciati la prima volta qualche mese fa, poi avevano deciso di riprovarci ma lunedì la storia era finita nuovamente. E sembra non ci fosse più niente da fare». Il folle sabato sera di Stefan parte proprio dal paesino in cui abita con la madre e il padre pensionato. Quattro mesi fa aveva acquistato l' Audi TT, 170 cavalli, duemila di cilindrata. Un'auto di seconda mano ma comunque il coronamento di un sogno. L' auto sportiva completava un quadro della vita che voleva.  Un quadro dove però era venuto a mancare un elemento per lui fondamentale: la fidanzata, appunto. Lunedì sera sul suo profilo Facebook pubblica sei cuori neri come commento alla canzone What you need dei Bring me the Horizon, un particolare che oggi, con le sei vittime sulla strada, suona come un oscuro presagio. Sabato sera esce di casa, prende un caffè al bar del paese e poi inizia a bere. Dopo i primi bicchieri inizia a mandare messaggi su Whatsapp. Non si rassegna alla fine della storia, vuole tentare di ricucire. Ancora una volta. Chiede un appuntamento. Se l' avesse ottenuto o meno, questo lo scopriranno i carabinieri nel momento in cui analizzeranno il telefonino sequestrato con la cronologia dei messaggi e delle chiamate. Quel che è certo, è che Stefan stava andando a Lutago per incontrare lei. Era fuori di sé, aveva trascorso la serata a bere in pieno loop emotivo. «È sempre stato così, appena andava in crisi sentimentale iniziava a bere», racconta ancora l' amico che ieri ha provato a chiamarlo, senza sapere che il telefono era già nelle mani dei carabinieri. Raccontano di Stefan Lachner che, a fatica, esce dall' Audi distrutta. Si guarda intorno a vedere ovunque morte e dolore. Corre da una parte all' altra cercando di soccorrere le persone, attende le prime ambulanze, partecipa ai soccorsi. Quando gli dicono che su quella strada sono morte sei persone perde completamente il controllo: «Voglio uccidermi, voglio farla finita». Verrà affidato a una squadra del 118, che lo accompagna prima in pronto soccorso e poi in Psichiatria a Brunico. «Non appena possibile verrà trasferito presso la Casa circondariale di Bolzano», evidenzia la procura con un comunicato ufficiale.

Valle Aurina, le storie dei ragazzi tedeschi falciati dall’auto. Pubblicato lunedì, 06 gennaio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano inviata a Lutago. Avevano vent’anni e a vent’anni si vivono tante vite in una sola. Quel sognare alla grande, quel vivere al massimo, l’impegno in università, le ore piccole, lo sci, il basket, il calcio, gli amici, le discoteche, i weekend fuori casa... I ragazzi morti e quelli che hanno conosciuto lacrime e sangue nella notte nera di Lutago erano/sono l’espressione della meglio gioventù di questo tempo. Cosmopoliti, figli soprattutto di un’Europa che mai come nei loro vent’anni ha abbattuto frontiere. È diventato normale vivere in Germania, in Austria, in Francia, e andare a sciare o a passare un weekend in Italia (o viceversa). Lo era per i sei morti nello schianto della Valle Aurina, che ieri mattina sono diventati sette perché si è arreso anche il cuore di Julia Sophie Hein, classe 1998. Era la più grave degli undici feriti e non è servito a nulla trasportarla in elicottero, di notte, a Innsbruck. Giocava a basket, Julia, ed era una studentessa universitaria come tutti gli altri, compresi i feriti e il gruppo dei sopravvissuti, quasi tutti tedeschi e quasi sempre attivi nelle associazioni studentesche. Foto di gruppo postate sui social e sorrisi a volontà. Positivi e di corsa verso il futuro che immaginavano splendente anche davanti a muri altissimi che nascondevano i colori. Janine Benecke, per esempio, studentessa di ingegneria a Bochum, Nord Ovest della Germania. Giocatrice della German Eagles, squadra nazionale femminile di football australiano. Il suo motto era: «Comincia la giornata con un sorriso perché non puoi mai sapere quando finirà», e la fine lei l’aveva vista da vicino. «Nel 2015 ho vinto la mia battaglia contro il cancro» ha scritto in un post su Instagram. «Sono diventata più forte e ho cambiato la mia visione della vita». Aveva aperto un blog anticancro, se si può definirlo così: un piccolo spazio nel mare del web per «motivare alla lotta altre persone che condividono il mio destino». Ultimo messaggio: nel 2015, quando ha finito il sesto ciclo di chemioterapia e ha sconfitto la malattia. Ogni tanto ricordava a se stessa che la vita è bella e l’aveva fatto perfino in un lancio con il paracadute: lei in volo che mostrava le mani sulle quali aveva scritto «sto bene, amo la vita». Janine è morta l’altra notte nello schianto della Valle Aurina. Aveva 22 anni. Ventidue, come tutti gli altri a eccezione di Rita Felicitas Vetter che ne aveva uno in più e che veniva da Amburgo, città della sua specializzazione dopo la laurea in medicina a Tubinga. Dai suoi appunti social emerge un piccolo autoritratto: «Sono sportiva, mi piace fare jogging», oppure «il mio studio richiede molto impegno e a volte scompaio fra i libri. Ma altrimenti mi piace cucinare, uscire la sera a bere una birra o un buon bicchiere di vino». Rita Felicitas, Janine, Julia Sophie e gli altri. Ragazzi responsabili, che se bevevano «una birra o buon bicchiere di vino» poi non si mettevano al volante di un’auto. E infatti la notte fra sabato e domenica, dopo la serata passata in discoteca, avevano preso lo shuttle per rientrare in albergo ed erano appena scesi quando l’Audi TT di Stefan Lechner, ubriaco, li ha centrati a velocità folle. Katarina Majic era in mezzo a loro ed è una delle ragazze «volate in aria» come ha raccontato l’autista dello shuttle che ha visto la scena dallo specchietto retrovisore. Era originaria dei Balcani (croata di Dubrovnik, dove tornava spesso) ma era tedesca di adozione e studiava logistica all’università di Colonia. Sulla sua pagina Facebook ci sono molti scambi di like con un’altra delle vittime della Valle Aurina, Philip Schultze, anche lui studente universitario: ingegneria a Bochum. Julius Valentiin Uhlig invece aveva scelto architettura, amava le montagne e il calcio del sua Fortuna Köln, la squadra che seguiva con il gruppo ultras degli squali. E poi Juliam Vlam, centrocampista della Tsv Siegen, del campionato interregionale germanico. I suoi compagni di squadra lo ricordano come uno che non si risparmiava mai, che correva e correva, sembrava non finire mai l’energia dei suoi 22 anni. Lo sport e lo studio sono i fili che uniscono tutti, morti e feriti. Nell’elenco dei ragazzi medicati e dimessi subito c’è Alessia Gschnitzer, altoatesina diciottenne di Vipiteno che adora lo sci e studia alla scuola di economia domestica e agroalimentare di Brunico. Matthias, un altro dei feriti non gravi, è pure lui uno sciatore provetto e studente universitario, ad Aquisgrana, ai confini con l’Olanda. Degli altri — quelli che non hanno avuto conseguenze fisiche — a Lutago non è rimasto quasi più nessuno. Solo una ragazzina, ieri pomeriggio, è arrivata davanti al luogo dello schianto sorretta da due adulti. Ha posato un mazzo di fiori ed è scoppiata a piangere. Bisbigliava i nomi dei suoi amici perduti.

Senigallia, due donne investite e uccise fuori dalla discoteca da un ubriaco. Ancora una tragedia nella notte, guidatore positivo all'alcoltest: arrestato. Le vittime avevano 34 e 43 anni. La Repubblica il 06 gennaio 2020. Un'altra tragedia stradale nella notte tra domenica e lunedì, simile a quella accaduta in Alto Adige dove hanno perso la vita sette giovani. Due donne sono state investite e uccise nella notte sulla strada provinciale 360 "Arceviese", a Senigallia, appena uscite dalla discoteca "Megà". Si chiamavano Sonia Farris, di 34 anni, e Elisa Rondina, di 43. Due amiche, nubili, conosciutissime tra Saltara e Calcinelli, nel Comune diffuso di Colli al Metauro (Pesaro Urbino), che avevano un sorriso per tutti. Con un paese ora ammutolito dalla tragedia. Sonia Farris ed Elisa Rondina di 34 e 43 anni, la prima parrucchiera, la seconda insegnante elementare a Tavernelle di Colli al Metauro, avevano deciso di passare la serata dell'Epifania nella discoteca 'Megà' nell'entroterra di Senigallia, per un party a tema anni 80. All'uscita, la tragedia. Sono stare travolte dalla Fiat Grande Punto condotta da un 47enne del luogo, con un tasso alcolemico quadruplo rispetto al consentito, mentre camminavano sul bordo della Sp 'Arceviese', da qualcuno soprannominata la "strada della morte" per la frequenza degli incidenti, a causa della carreggiata stretta e della scarsa illuminazione. Elisa aveva anche attivato la torcia del cellulare per fare luce e indicare la loro presenza alle auto in transito durante il tragitto per raggiungere la loro vettura parcheggiata a bordo strada. Il conducente dell'auto investitrice, Massimo Renelli, un autotrasportatore, è accusato di duplice omicidio stradale: è stato lui stesso a chiamare i soccorsi, ma non è apparso lucido ed è stato subito sottoposto all'alcoltest a cui è risultato positivo. Poi è stato portato in arresto nelle camere di sicurezza della Questura di Ancona. Non è chiaro se anche lui fosse uscito dalla stessa discoteca. "Già altre volte sono state investite delle persone - racconta un residente -. Il guardrail è stato posizionato troppo vicino alla strada. A mezzanotte mi sono accorto che le auto parcheggiate erano molte, così come erano tantissimi i pedoni che camminavano a bordo strada per raggiungere la discoteca, mai visti così tanti nei circa 40 anni che è aperta. Mi ero detto: speriamo che non succeda niente". In quel punto, due mesi fa erano state ritirate tre patenti per guida in stato di ebbrezza. Sonia, che abitava da sola, lascia i genitori, un fratello e una sorella, mentre Elisa i genitori che abitano a Fano. Le famiglie delle vittime hanno incaricato un legale per la tutela giudiziaria. Il fatto è avvenuto tra le 4 e le 5, tra Bettolelle e Casine di Ostra: le due donne si stavano presumibilmente recando verso la loro auto. Travolte dalla vettura sono state sbalzate a qualche metro di distanza. I corpi sono stati recuperati su un campo ai margini della carreggiata, le operazioni sono state complicate dal buio e dalla vegetazione. I soccorritori hanno tentato di rianimare le due donne per circa un'ora sul posto, senza successo, prima di doverne constatare il decesso.  Probabilmente le autorità giudiziarie disporranno l'autopsia.

Paolo G. Brera per “la Repubblica” il 7 gennaio 2020. È successo di nuovo. Troppo alcol nel bicchiere, altro sangue sulla strada. Come nella notte di corso Francia a Roma, anche in quest' alba terribile nell' entroterra di Senigallia l' autista si è fermato (dopo un po'); e anche stavolta aveva un tasso alcolemico «quadruplo rispetto al limite ». Quasi due grammi di alcol ogni litro di sangue, una bomba innescata al volante di una Fiat Punto. La bomba è esplosa poco prima delle cinque di ieri mattina, buio fitto e nessun lampione a illuminare la strada.  Elisa e Sonia sono uscite dal Megà di Senigallia, sulla statale tra Bettolelle e Casine, a 15 chilometri dalla Lanterna Azzurra di Corinaldo. C' era la "Mega festa latina", sono state a ballare salsa, bachata e kizomba e ora, come Gaia e Camilla dopo la serata a Ponte Milvio, stanno facendo qualcosa di terribilmente imprudente: camminano sul ciglio della provinciale 360 col lumino del cellulare. Stanno andando a recuperare l' auto posteggiata lontano perché il parcheggio della discoteca era colmo; e chissà perché si autorizzano tanti ingressi se non ci sono abbastanza parcheggi, ma vabbè, è notte fonda e si va a dormire un po' che tanto è festa. Trecentocinquanta metri di rettilineo, resta l' ultima curva poi ecco la stradina dove hanno lasciato l' auto. Alle loro spalle arriva la Punto di Massimo Renelli, autotrasportatore 47enne. Forse anche lui è andato al Megà, certo ha bevuto molto. «In quel punto, nella semicurva, la strada provinciale si restringe con i guardrail », spiega il comandate della stradale di Ancona, Francesco Cipriano. Elisa e Sonia sono in trappola. Non hanno scampo, l' auto le centra in pieno e le fa volare oltre il guardrail per decine di metri, lanciandole nei campi. «Viaggiava a velocità sostenuta - dice Cipriano - lo deduciamo dai danni importanti rilevati sull' auto nella parte anteriore destra, dal parabrezza completamente sfondato e dalla distanza in cui ha scagliato le due donne». C' è il limite dei 70 all' ora, saranno perizie complesse a stabilire se lo superasse. Lui va avanti per un paio di chilometri, poi finalmente si ferma e chiede aiuto col telefonino: «Ho investito qualcosa, ma non so bene cosa», dice. Ha investito Elisa Rondina, maestra 43enne alla elementare di Tavernelle, una frazione di Colli al Metauro. Ha investito Sonia Farris, parrucchiera 34enne titolare del negozio di Saltara, nel comune di Calcinelli. Erano amiche e vicine di casa. Era così ubriaco che non se n' è accorto? «Era alterato, aveva alito vinoso e anche quando ha capito la gravità di quello che era successo ha dimostrato scarsa lucidità», spiega il comandante della Polstrada. I soccorritori hanno provato a lungo a salvarle, Elisa e Sonia. Inutilmente. Ora è il momento del dolore, poi resterà l' indagine su un' alba di tragedia che ha distrutto tre famiglie. Massimo, separato e con due figli adolescenti, è stato arrestato e gli verrà contestato l' omicidio stradale. L'indagine tossicologica oggi verificherà se avesse assunto anche altro. La sua posizione è gravissima, ma anche questa volta - come nell' omicidio stradale di corso Francia - l' imprudenza delle due vittime ha avuto una parte: «Percorrere a piedi una strada extraurbana nel buio completo è pericoloso, e contravvenendo al codice della strada camminavano nella stessa direzione di marcia», spiega il comandante Cipriano. Articolo 190: «Fuori dei centri abitati i pedoni hanno l' obbligo di circolare in senso opposto a quello di marcia », per vedere e farsi vedere. Chi contravviene rischia una piccola multa, e la vita.

Gaia, Camilla e Pietro, i nostri figli che non fanno quello che "sanno".  Alberto Pellai il 27 Dicembre 2019 su Famiglia Cristiana. Incidenti come quello che è costato la vita a Camilla e Gaia sgomentano noi genitori, perché sappiamo che anche i nostri figli disattendono le nostre raccomandazioni. Faccio un appello agli amici: aiutateci, dissuadete i vostri amici quando stanno per fare una sciocchezza che può costare la vita. L’incidente di sabato notte che ha travolto Gaia e Camilla, le due sedicenni romane, rimaste uccise su Corso Francia a Roma, fa entrare noi genitori in uno stato di angoscia che non ha confini. Ogni volta che vediamo figli di altri genitori, ai quali il destino riserva una morte così atroce e assurda, non possiamo non sentirci chiamati in causa ed empatizzare immediatamente con il loro dolore infinito. Se non conosci quello strazio che ti uccide il cuore, quando muore un figlio, puoi solo immaginare quanto tremendo possa essere. Chi lo vive, dice che si fa persino fatica a trovare la forza di continuare a respirare. Ci sentiamo sconvolti perché sappiamo che potrebbe capitare ai nostri figli, in ogni istante. E’ questo il primo pensiero che ci viene in mente. E allora leggiamo senza soluzione di continuità, le notizie che i media ci forniscono per capire se davvero è tutta colpa del destino, oppure se c’è qualche elemento cui possiamo aggrapparci per dire ai nostri figli: “Fate attenzione”, per fornire loro competenze che gli evitino (e ci evitino) l’eventualità più tremenda che la vita può far accadere ad una famiglia: perdere un figlio. La vicenda di sabato notte a Roma è piena di elementi prevenibili, su cui però tutti i protagonisti sono andati via “scialli” (come dicono loro). Le ragazze sono state travolte, perché (sembra, in base a quanto riportato dai media) hanno attraversato col semaforo rosso, in una notte buia e piena di pioggia su una strada caratterizzata dall’alta velocità delle auto che la percorrono. Il ragazzo che le ha travolte era un neopatentato che (sembra, sempre in base a quanto riportato dai media) si trovava al volante dopo aver consumato bevande alcoliche e sostanze ad azione psicotropa. La responsabilità del guidatore perciò sembra accertata e gravissima. La leggerezza con cui le due giovani vittime hanno affrontato un attraversamento stradale sembra essere un co-fattore di non trascurabile importanza che ha contribuito a questa immane tragedia. E’ chiaro che se adesso i protagonisti potessero tornare indietro nel tempo, ognuno di loro rivivrebbe gli eventi del proprio sabato sera in modo completamente differente. Ma il destino quasi mai offre una seconda opportunità. Almeno non in questo caso. Sono più che certo che i genitori dei tre giovanissimi coinvolti abbiano provato nel corso della loro crescita a seminare nei figli tutte quelle informazioni preventive che sabato sera loro hanno sistematicamente disatteso. Da quando un bambino ha 3 anni gli insegniamo a non attraversare col rosso, a fare attenzione quando si muove su una strada affollata. Non c’è mamma o papà che non lo faccia. E quando poi i nostri figli diventano maggiorenni, nessun adulto mette nelle loro mani le chiavi di un’auto, senza aver prima fatto un milione di raccomandazioni. Purtroppo i nostri figli non fanno quello che “sanno”. Il fatto che noi adulti gli diciamo le cose giuste, non è garanzia che loro poi le mettano in atto. Penso che la vera rivoluzione possa avvenire solo se, all’interno del loro gruppo dei pari, ci sono altri amici e amiche che sanno rinforzare il messaggio preventivo promosso in famiglia. Che sanno diventare veri e propri “educatori tra pari”, amplificando il ruolo educativo di noi adulti, che senza tregua e, a volte, con ansia e preoccupazione, continuiamo a fargli ascoltare dalle nostra voce tutto quello che vorremmo fossero in grado di mettere in atto, quando si muovono nel mondo. Per essere educatori tra pari, bisogna credere che la prevenzione è un valore, che la vita è un valore, che la leggerezza di un istante non è tollerabile, nemmeno, appunto, per un solo istante. Bisogna rimanere concentrati su se stessi e sugli altri, bisogna saper alzare lo sguardo su tutto ciò che ci circonda, bisogna avere “vagonate” di quelle che Howard Gardner, definisce “intelligenza intrapersonale” (conosci te stesso) e “intelligenza interpersonale” (conosci gli altri), i due ingredienti cruciali per il successo delle nostre vite. Purtroppo i ragazzi sono “fisiologicamente fragili” rispetto a tutte queste dimensioni. Ma sono anche “culturalmente fragili” rispetto a ciò, perché non sposano i principi della prevenzione, non alzano lo sguardo e sono spesso incitati a sposare fin da giovanissimi la cultura del “chissenefrega”. La sentono decantata in ogni dove. Ma quella sorta di menefreghismo e nichilismo in cui vivono immersi è ciò che poi all’improvviso, genera risvegli terribili. Come quello che abbiamo vissuto tutti, domenica mattina, quando i media hanno cominciato a parlarci di Camilla, Gaia e Pietro. Io metto i loro tre nomi, uno a fianco dell’altro. Anche se Pietro è vivo, sono più che certo che i suoi genitori soffrono dello stesso dolore di quelli di Camilla e Gaia.Mi unisco – e penso di interpretare lo spirito di tutte le mamme e i papà che leggono – anzi, ci uniamo al loro fianco. E dentro a quel dolore che sembra non avere confine, piangiamo con loro. Speriamo che i nostri figli, guardando le nostre lacrime, comprendano che, quando gli diciamo cosa è bene fare e perché, non lo facciamo perché siamo spinti dal desiderio di essere rompiscatole. E speriamo che imparino anche loro ad essere un po’ più “rompiscatole” con se stessi e con i loro amici, ogni volta che, nella leggerezza, assumono un rischio – grande o piccolo che sia – che può valere una vita.

Grazia Longo per ''La Stampa'' il 7 gennaio 2020. «Non è vero che ci sono sempre più giovani ubriachi o drogati al volante. Gli incidenti stradali delle ultime settimane, da quello a Roma in cui hanno perso la vita le due sedicenni a questo dell' altra notte a Bolzano con sei vittime, rappresentano solo degli episodi. Ma noi non dobbiamo soffermarci sui picchi, dobbiamo guardare a lungo termine». Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l' Università «La Sapienza» di Roma, punta ad un' analisi «più ampia che non tenga conto delle persone singole e del caso». Eppure, secondo il report annuale di polizia stradale e carabinieri, negli incidenti stradali del 2019 si registrano 11 vittime in meno del 2018 (178 contro 189) ma aumenta dello 0,5% il numero di chi è risultato positivo all' alcol test (11.063 persone, cioè il 5,7% contro il 5,2% dell' anno prima). Non legge questi dati come un trend verso una vita spericolata? «No, perché la crescita delle persone positive al test alcolemico è solo una circostanza casuale che non identifica una realtà assoluta. Compito di noi sociologi è interpretare gli eventi nella loro complessità. L' Italia non è la bolgia infernale che si vuole dipingere. Altrimenti si rischia di fare il gioco di Matteo Salvini che ha esasperato gli animi sul fronte della sicurezza. Non è che se in tre giorni si verificano tre rapine o tre suicidi significa che siamo sommersi da un' ondata di rapinatori o aspiranti suicidi. Lo stesso vale per gli incidenti stradali». Ma, al di là delle dinamiche da verificare, sia nel caso di Roma sia in quello di Bolzano, gli automobilisti avevano un tasso alcolemico quasi tre volte e quasi quattro superiore al consentito. «A parte il fatto che si tratta di due picchi, vorrei sfatare il mito dell' alcol test. Chiunque di noi, uscito dal ristorante dopo aver bevuto due bicchieri di vino, rischia di risultare positivo al controllo. Siamo seri, nel passato gli automobilisti non erano mica più santi di oggi. Anche quarant' anni fa si beveva qualche bicchiere, solo che non esistevano strumenti tecnologici di verifica come quelli di oggi. E anche la storia del consumo di sostanze stupefacenti è un' esagerazione perché riguarda un numero limitato di persone».

Nessun allarme quindi per i morti sulle strade?

«No, anche perché quello che stiamo vivendo è il miglior mondo possibile. Se paragoniamo il primo ventennio del nostro secolo a quello scorso è evidente che 100 anni fa si moriva molto più di oggi. Nella guerra del 1915-1918 persero la vita 670 mila giovani. Inoltre, l' età media era molto più bassa di oggi, e anche le condizioni di vita erano assai peggiori, con il 70% di analfabetismo e l' assenza di diritti per le donne. Attualmente la vita media per gli uomini è 80 anni e per le donne 85. Nel nostro Paese ci sono 850 mila vedovi e 3 milioni e mezzo di vedove».

Come interpreta, quindi, l' attenzione alle giovani vite spezzate negli incidenti stradali?

«C' è la tendenza a soffermarsi sempre sugli aspetti negativi».

Michele Bocci per “la Repubblica” il 7 gennaio 2020. «Basta poco per superare il tasso alcolemico di 0,5 tollerato dalla legge, anche due o tre bicchieri di vino, se si è a stomaco vuoto. Per arrivare a 2, come negli ultimi casi di cronaca bisogna invece bere tanto. E per smaltire servono ore». A spiegare gli effetti dell' assunzione in grandi quantità della più diffusa sostanza tossica legale è Luca Morini, tossicologo forense dell' Università di Pavia e consulente dell' Istituto superiore di sanità proprio per l' analisi dei dosaggi dell' alcol nell' organismo. Ogni settimana fa circa 60 test per il rinnovo delle patenti delle persone trovate alla guida in stato di ebrezza. Significa quasi 3mila all' anno solo nella provincia pavese.

Cosa succede quando si hanno 2 grammi di alcol per litro di sangue?

«Si entra nella fase della cosiddetta "franca ubriachezza". Ci sono confusione mentale e problemi alla vista. La visione laterale diventa molto limitata. Non si hanno più riflessi, la risposta dell' organismo agli stimoli è molto più lenta. A questi livelli si entra nella vera e propria intossicazione da alcol».

Nei vostri controlli trovate spesso questi valori?

«Il 2 lo si vede in una piccolissima percentuale dei guidatori in stato di ebrezza. Pochi reggono questi livelli di intossicazione senza effetti indesiderati, cioè nausea, vomito e tremori».

E il coma etilico quando si raggiunge?

«Anche in questo caso parliamo di persone che bevono magari nel week end, anche tanto, ma non sono alcolisti. Per loro il coma etilico può arrivare con 2,5-3 grammi per litro».

Come si raggiunge quel 2?

«Dipende da tanti fattori. Bisogna distinguere tra chi beve a stomaco vuoto e chi a stomaco pieno. A cena ci sarà bisogno di un quantitativo superiore di alcol per arrivare a quelle concentrazioni. Una bottiglia di vino di 12 gradi ha circa 90 grammi di alcol. Un uomo di peso medio, che mangia e beve può arrivare a 2 grammi per litro con oltre una bottiglia e mezzo. Se è a stomaco vuoto basta bere meno. Poi ovviamente in una serata magari si beve un aperitivo prima di mangiare, poi il vino a tavola e un superalcolico alla fine. Si fanno bevute diverse e il tasso alcolemico sale».

I cocktail quanto possono pesare?

«Soprattutto i giovani spesso si ubriacano con quelli ma è difficile capire quanti ce ne vogliano per superare i limiti: ne esistono di tanti tipi e pesa la mano del barman».

E la velocità?

«Chi beve rapidamente raggiunge prima alte concentrazioni nel sangue».

Se dopo aver bevuto ci si prende una pausa prima di guidare si smaltisce l' alcol?

«Purtroppo quando si smette di bere l' alcol di solito sta ancora salendo, perché il corpo ci mette un po' ad assimilarlo. Si stima che raggiunga il livello massimo nel nostro organismo più o meno tra mezz' ora a un' ora e mezzo dopo l' assunzione. Per questo se bevo una bottiglia in 4 ore quando arrivo alla fine l' alcol assunto con i primi bicchieri è già scomparso».

Ma esistono modi per smaltire?

«Bisogna aspettare, il corpo ha bisogno di tempo per liberarsi delle sostanze. L' intossicazione da alcol scende in modo costante, si perdono circa 0,2 grammi su litro per ora. A chi parte da 2 ci vogliono oltre 7 ore per arrivare sotto il limite di legge».

Sono giuste le soglie di 0,5 e 0,8 previste dalla norma?

«Sì. Riguardo alla prima, la letteratura dice che gli effetti iniziali dell' alcol, limitati, si vedono tra 0,3 e 0,5 grammi su litro. Non ci sono di solito problemi ai riflessi ma più disinibizione. La legge, comunque, per i neopatentati prevede tolleranza 0, perché ai più giovani si vieta l' alcol indipendentemente dagli effetti. A 0,8, invece, lo stato di ebrezza etilica si osserva con relativa certezza e ci sono problemi alla guida».

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 7 gennaio 2020.

Perché alcol e guida sono incompatibili?

«La ragione per la quale i codici stradali di tutti i Paesi pongono limiti è la tossicità dell' alcol, sostanza estranea all' organismo, capace di intossicarlo con qualsiasi quantità. Intossicare significa agire a livello dei neuroni cerebrali e dipendono da questo effetto la sensazione di disorientamento e la per-dita di equilibrio. È il segnale che l' etanolo interagisce con il cervello e altera le nostre normali funzioni». Emanuele Scafato, direttore dell' Osservatorio alcol dell' Istituto superiore di sanità, è uno dei maggiori esperti sulle problematiche correlate all' alcol.

Quindi?

«Chi si mette alla guida non dovrebbe bere. Punto. Vale per tutti, adulti compresi. Se i codici stradali ammettono certi livelli alcolemici è soltanto per arrivare a un compromesso. In Slovenia il tasso alcolemico è zero in quanto si ritiene che l'alcol sia causa di non idoneità fisica e psichica».

Come mai in Europa manca una disciplina comune?

«Noi tecnici proponiamo di abbassare il limite in tutta l' Ue a 0,2 grammi per litro, l' equivalente di un bicchiere. L' Italia è ferma sullo 0,5, 2-3 bicchieri. È un compromesso. L' alcol già con un tasso di 0,2% riduce la visione laterale: significa che a un incrocio stradale destra e sinistra appaiono oscurate. Mano a mano che il livello di alcolemia sale, la visione si riduce fino a un tunnel: vedi solo quello che hai davanti».

Perché i giovani sotto i 25 anni sono più vulnerabili e sotto i 21 il tasso alcolemico deve essere zero?

«I giovani non possiedono l' enzima che distrugge l' alcol. Inoltre il loro sistema nervoso è immaturo e quindi esposto ai danni dell' alcol che circola libero. Aggiungiamo l' inesperienza alla guida e la minore capacità di reagire agli imprevisti. Infine l' alcol abbassa la percezione del rischio. Solo dopo i 25 anni il cervello acquisisce razionalità». Il tasso alcolemico varia in base alle caratteristiche personali? «Dipende da peso corporeo, sesso e se si è a digiuno. Consiglio a chi deve guidare dopo aver bevuto di farlo a stomaco pieno, aspettare almeno due ore dopo averlo fatto e scegliere bevande di minore gradazione».

Vita e morte nella Roma dei non luoghi: Corso Francia, l’Eur, il Gra. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Polito. La cosa più incongrua nella tragedia di Corso Francia a Roma è che le due ragazze corressero tenendosi per mano. Una scena così, due adolescenti mano nella mano che tornano di fretta a casa nella notte, è talmente delicata, letteraria, che uno se la immagina altrove. Se lo immagina in un piccolo borgo, tra i vicoli e le case, in un bel quartiere residenziale, tra i giardini e i condomini. Non su un’autostrada, forse dopo aver scavalcato un guardrail, ai piedi di uno svincolo, nel buio che ormai avvolge la città eterna, di fronte a un semaforo che passa dal verde al rosso, neanche l’attimo di respiro di un giallo, solo tre secondi e mezzo di verde lampeggiante per raggiungere l’altra sponda. Quando Marc Augé, antropologo francese, si inventò alla fine del Novecento la metafora dei «non luoghi» (non-lieux) non poteva immaginare quanto calzante sarebbe stata per posti come Corso Francia. Il non luogo è l’opposto di un luogo «antropologico». Non ha cioè quelle caratteristiche di identità storica, di occasione di relazioni, di affermazione identitaria che hanno i luoghi tradizionali come piazze, monumenti, boulevard, teatri. I non luoghi sono posti destinati al solo transito di esseri umani, sistemi nevralgici di facilitazione e accelerazione della circolazione e del consumo, che non implicano nessuna forma di relazione personale, dove i corpi si sfiorano e basta, quando non si cozzano, si schiacciano, si investono. Un’autostrada è un non luogo, come un centro commerciale, un parcheggio, uno svincolo, un aeroporto, una stazione di servizio, le scale mobili di una metropolitana, un McDonald’s. Eppure proprio questi posti della «surmodernità», di una modernità super-iper, sono diventati i «nuovi» luoghi sociali delle nostre metropoli, i palcoscenici della nostre vite e di quelle dei nostri figli. Di Corso Francia avremmo dovuto capire già tutto negli anni 90, quando Federico Moccia scrisse il suo best-seller, Tre metri sopra il cielo. Perché mai, altrimenti, i giovani di Roma avrebbero cominciato a imitare la fiction e a chiudere i lucchetti dei loro amori su Ponte Milvio, gettando la chiave nel Tevere, se non per trasformare quel non luogo in un luogo, caricandolo di storia e di relazioni? L’amministrazione comunale, diligentemente ma evidentemente ignara delle teorie di Marc Augé, tagliò tutto con le tronchesi. Rimase però la movida dei ragazzi di Roma Nord, che per raggiungere quel ponte dai quartieri bene di Vigna Clara e Collina Fleming, roccaforti delle «finte bionde» dei film dei Vanzina, devono prima oltrepassare quella specie di linea rossa, di confine d’asfalto, che è Corso Francia. Attraversandolo. Della mutazione d’uso di quella strada ci aveva detto qualcosa anche la più clamorosa inchiesta sulla mala romana degli ultimi anni, «Mafia Capitale», quando scoprì che il fascio-boss Carminati teneva udienza, riceveva clientes e dispensava business proprio nel distributore di benzina di Corso Francia, trasformato in «studio professionale». Da tempo ormai la Roma magnifica del passato, imperiale o rinascimentale, barocca o neoclassica, ha smesso di fare da sfondo alle vicende reali dei romani, e ai loro fatti di cronaca. Il punto di svolta lo colse all’inizio del Novecento Pirandello, nel Fu Mattia Pascal, quando ne decretò il triste destino: «I Papi ne avevano fatto — a loro modo, s’intende — un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere». Da allora è il degrado a interpretarne al meglio lo spirito. In un suo saggio — Il secchio di Duchamp — Maria Cristina Storini documenta con efficacia questa discesa agli inferi dei non luoghi anche nella letteratura: i quartieri periferici de I ragazzi di vita e di Una vita violenta di Pasolini nel dopoguerra, fino all’Idroscalo di Ostia, dove la realtà imitò la finzione per dare la morte al poeta; il villaggio residenziale al dodicesimo chilometro della Cassia, dove lo scrittore «cannibale» Niccolò Ammanniti ambienta Fango; una discarica di Saxa Rubra per Benzina di Elena Stancanelli; il Grande Raccordo Anulare, metafora sublime di una città che ha preso a girare su sé stessa, settanta chilometri di moto circolare, immortalato in Sacro GRA, il documentario di Gianfranco Rosi che vinse il Leone d’oro a Venezia. Per il semplice fatto di essere un posto di passaggio, il non luogo attira come nessun altro gli scarti della nostra vita e dei nostri consumi. L’immondizia ne distingue il paesaggio. E infatti il cumulo di cose consumate in fretta e restituite alla metropoli che le ha generate è oggi la vera cartolina di Roma. Questo spiega anche l’apparente mistero dei gabbiani in una città senza mare: «I gabbiani sono parassiti, vivono di spazzatura. Roma accoglie tutti. E non perdona nessuno», ha scritto Melania Mazzucco. Virginia Raggi ci ha messo del suo, ma questa è la storia di una città usata come un portacenere ben prima di lei. «D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà» (ancora Pirandello). È come se la città antica, quella dei luoghi dotati di storia e identità, si fosse un po’ alla volta estraniata dalla vita dei romani, consegnandosi al turismo mordi-e-fuggi che sta facendo la fortuna della piccola borghesia redditiera della movida e dei bed&breakfast, e trasforma così interi rioni in nuovi non luoghi. C’è forse qualcosa nella gloria stessa di capitale a portare la città eterna verso questo esito così incongruo. Prendiamo l’Eur, magnifico esempio di architettura fascista ma oggi terra di nessuno traversata da un’altra autostrada, la famigerata Cristoforo Colombo, dove i motociclisti sbandano e muoiono sull’asfalto sollevato dalle radici dei pini. È un acronimo che sta per «Esposizione Universale Roma». Fu cioè costruito per un avvenimento che non avvenne, previsto per il 1942, soppiantato dalla guerra. Lo stesso Lungotevere, oggi arteria di traffico perennemente infartuata e totalmente assorbita nel centro cittadino, deve essere stata in passato qualcosa di paragonabile a un non luogo, se i killer di Mussolini lo scelsero come posto ideale per l’agguato mortale a Giacomo Matteotti. Roma sembra insomma non essere in grado di digerire la modernità, di crescere insieme con essa, come tante altre metropoli; produce piuttosto, sul suo splendido corpo, brutte escrescenze nelle quali la vita degli abitanti inevitabilmente si incista e si degrada. Lasciamone la spiegazione finale di nuovo al nostro Pirandello, uno dei tanti romani di elezione, italiani di ogni dove che questa città l’hanno scelta per viverci e amarla: «Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca... Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuole più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato a le spalle del Campidoglio». E ogni tanto, per crudeltà, spezza la vita e i sogni di due adolescenti.

Pedoni e ciclisti uccisi? Indignarsi non serve più. Antonio Ruzzo su Il Giornale il 14 dicembre 2019.

Sulle strade si muore e ci si indigna anche se ormai serve poco o nulla. Muoiono soprattutto pedoni e ciclisti e pare che tutti se ne accorgano solo ora, dopo che un paio di giorni fa a Roma un’auto  guidata da un ragazzo positivo all’alcol e alla droga che passava con il verde in una strada dove non si poteva attraversare ha travolto ed ucciso due ragazze di sedici anni.  Pedoni, ciclisti, motociclisti è quasi una strage. Secondo i dati Aci-Istat infatti nel 2018 sono stati 609 i pedoni che hanno perso la vita con un aumento dell’1,5% rispetto all’anno precedente questo a fronte di un calo generale dell’1,6% dei morti, 3.325 nel 2018. È drammatico il dato per fasce di età: quella compresa tra 15 e 19 anni ha subito un incremento di ben il 25,4% con 178 adolescenti uccisi nel 2018. Si tratta del balzo in avanti percentuale più consistente delle 20 fasce di età prese in considerazione dall’istituto di statistica. Considerando invece il tasso di mortalità nelle strade italiane il numero è di 55 vittime ogni milione di abitanti a fronte di una media europea di 49. Che fare? In questi giorni , finanziati dal governo, stanno passando in radio una serie di spot che invitano alla guida responsabile e al rispetto delle regole. Serve ma non basta. Perchè ormai le normative vanno riviste e  soprattutto vanno fatte rispettare. Vanno ridiscusse le regole d’ingaggio sul rispetto dei limiti di velocità, sulle distanze da tenere in strada, sull’uso del telefonino alla guida magari coinvolgendo produttori di smartphone per far sì che nell’abitacolo delle auto funzionino solo col vivavoce. Insomma è il tempo di fare altrimenti è inutile continuare ad indignarsi.

Massimo Finzi per Dagospia il 9 gennaio 2020. Ma le stragi del sabato sera sono legate solo all’abuso di alcool? Certamente l’alcool e, peggio ancora, il consumo di droghe rappresentano un pericolo per coloro che ne fanno uso ma esistono altri due fattori che espongono a rischio tutti coloro che frequentano le discoteche e di cui si parla troppo poco: le luci delle discoteche e i volumi assordanti delle musiche. E’ noto da tempo che le luci stroboscopiche possono provocare epilessia nel 10% dei soggetti portatori di “epilessia fotosensibile”: si tratta della classica sintomatologia epilettica caratterizzata dalle crisi convulsive con caduta a terra. Molto più numerosi possono essere invece i casi di “assenze” (piccolo male epilettico) che si manifestano con fugaci perdite di coscienza della durata di 4 o 20 secondi.  Facile immaginare le conseguenze di una una guida al volante in tali condizioni. Non meno pericolosa la esposizione prolungata a suoni ad elevato numero di decibel. Il limite di 102 decibel di picco massimo con media di 95 decibel è sicuramente eccessivo perché i danni da trauma da rumore non sono legati solo alla intensità del suono ma soprattutto alla sua durata. Al di sopra di 120 decibel il danno è sicuro ma la fascia critica è tra 90 e 110. Una notte intera trascorsa in ambiente chiuso, quale una discoteca, con sorgenti sonore a elevato numero di decibel possono provocare disturbi dell’udito ma soprattutto dell’equilibrio fino a provocare vere e proprie vertigini.  Alcool, luci stroboscopiche e decibel “a palla” costituiscono un cocktail micidiale di cui tener conto quando si vogliono davvero contrastare le cause delle stragi del sabato sera.

Incidente stradale a Pesaro: agente scopre il figlio 30enne morto. Antonella Ferrari il 10/01/2020su Notizie.it. Tragedia a Pesaro: il figlio è morto in un incidente stradale e il padre, agente della Polstrada, è stato tra i primi ad accorrere. Il 30enne Alessio Ronconi è morto a seguito di un drammatico incidente stradale avvenuto a Urbania, in provincia di Pesaro. Tra i primi ad accorrere sul luogo dell’incidente una pattuglia della Polstrada di cui faceva parte il padre della vittima. Il momento è stato straziante: l’uomo, ignaro di quanto fosse accaduto, si è trovato davanti il corpo senza vita del giovane figlio. Ogni tentativo di soccorso si è rivelato inutile e per il ragazzo non c’è stato nulla da fare. Stava rincasando dal lavoro quando la sua auto si è schiantata contro un furgone. L’impatto è stato violento e per il giovane Alessio Ronconi non c’è stato nulla da fare. Il padre, agente della Polstrada, è stato tra i primi ad arrivare sul posto per svolgere i rilievi di rito, ancora ignaro di quanto fosse successo. L’uomo al vedere il corpo senza vita del figlio ha accusato un malore ed è stato sorretto dal collega che ha poi avvertito i carabinieri. Saranno loro a dover ricostruire l’esatta dinamica dei fatti. Stando alle prime informazioni lo schianto è avvenuto attorno alle 17.20: il 30enne avrebbe tentato un sorpasso invadendo la corsia opposta nella quale stava sopraggiungendo un Ducato. L’uomo alla guida del secondo mezzo ha riportato lievi ferite ed è stato trasportato in ospedale per controlli. Soccorso anche il conducente di un terzo veicolo coinvolto solo marginalmente. Gabriele Ronconi, padre di Alessio, è stato tra i primi a vedere il corpo del figlio accusando un mancamento dovuto al forte choc. Sul posto sono quindi giunti tutti i colleghi del comando di Pesaro che gli sono stati accanto. “Il dramma diventa immane – ha detto il sindaco – quando un giovane muore in circostanze drammatiche come questa. Non ho parole. Ho lo sconforto addosso e mi sento di fare un abbraccio sentito e di cuore a quanto gli volevano bene”.

Tasso alcolico alle stelle ma viene assolto per «tenuità del fatto». I pm: ogni anno 2000 casi. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Aveva un tasso di alcol pari a 1,97 grammi per litro, quasi quattro volte il massimo consentito, il 27enne che su un’auto lanciata a folle velocità il 5 gennaio a Lutago (Bolzano) falciò e uccise sette ragazzi. A Milano, lo stesso valore non è bastato per condannare un romeno che, dopo che aveva causato un incidente sulla A4, è stato prosciolto per «tenuità» del fatto con un sentenza che ha sollevato le perplessità allarmate della Polizia stradale e della Procura. Solo per miracolo l’automobilista, e il passeggero che viaggiava con lui, uscirono vivi dall’incidente in cui alle 22.40 del primo aprile 2018 l’auto carambolò sull’autostrada all’altezza di Novate Milanese. La Passat rimase distrutta mentre i due furono portati al Niguarda. Gli agenti della Polizia stradale non trovarono alcuna causa che spiegasse l’incidente: il tempo era buono, l’asfalto era regolare e non c’era alcun segno di frenata. Il test eseguito in ospedale sul guidatore, un 29 enne residente a Milano, fu severo: 1,97 g/l che fecero scattare il procedimento penale previsto quando si superano gli 0,8 g/l. Il processo per guida in stato di ebbrezza (art.186 codice della strada) con varie aggravanti finisce di fronte al giudice monocratico Maria Pia Bianchi del Tribunale la quale, il primo luglio scorso, non lo fa partire perché emette una «sentenza predibattimentale». In essa, come si legge nelle motivazioni depositate a novembre, scrive che «la circostanza che il livello di tasso alcolemico rinvenuto nel sangue non sia di molto superiore al limite relativo alla soglia di rilevanza, consente di qualificare il fatto in termini di tenuità». Eppure l’articolo 186 prevede sanzioni crescenti già a partire da 0,5 g/l che, se si superano gli 1,5 g/l come nel caso in questione, arrivano al massimo con un’ammenda da 1.500 a 6.000 euro, l’arresto da sei mesi ad un anno, oltre alla sospensione o revoca della patente. La pena aumenta se si guida dopo le 22, si provoca un incidente stradale e se ci sono feriti, come è accaduto sulla A4. Il giudice, quindi, decide il «non doversi procedere» nei confronti dell’imputato «per tenuità del fatto» limitandosi a sospendergli la patente per un anno. Nella «motivazione semplificata» critica anche gli agenti intervenuti scrivendo che stima «poco comprensibile la decisione della polizia giudiziaria di sottoporre ad accertamento con etilometro un soggetto trasportando fino alla vettura lo strumentario per procedere al controllo se questi non era nell’auto o nelle immediate vicinanza di tale mezzo, come risulta peraltro della annotazione agli atti». Un passaggio di difficile comprensione dato che negli atti c’è scritto che l’esame è avvenuto al Niguarda proprio su richiesta della polizia perché i due erano stati ricoverati. In riferimento all’incidente, si legge poi che «non si stima adeguatamente provato» visto che «l’imputato perdeva il controllo del mezzo senza cagionare ad altri danno». La Polstrada di Bergamo esprime le sue perplessità in una lettera alla Procura di Milano in cui scrive che «rimane di difficile comprensione l’eccezione di non ritenere adeguatamente provato l’incidente» e si domanda perché venga considerato di lieve entità il valore di 1,97 g/l «accertato clinicamente» con «procedura medico legale, considerato che tale valore supera di quasi 4 volte il limite massimo previsto». In Procura giudicano la sentenza «sconcertante», ma isolata nel Tribunale e nella Corte d’appello. I dati dicono che la quasi totalità di questi procedimenti si chiude con una sanzione penale e che vengono archiviati solo quelli in cui il risultato del test non è sufficientemente attendibile. La tenuità del fatto, dicono a Palazzo di giustizia, potrebbe essere invocata quando viene rilevato un tasso alcolemico solo di poco superiore a quello penalmente rilevante, oppure se per la persona indagata si tratta di un caso isolato, magari di un giovane che è appena uscito dalla sua festa di compleanno.

Morti sulle strade: 8 al giorno nel 2019. Cresce il numero di giovanissimi che muoiono sull'asfalto. Un incidente su tre è causato da alcol o droga. Barbara Massaro il 9 gennaio 2020 su Panorama. Ogni giorno in Italia 8 persone muoiono per incidenti di vario genere su strade e autostrade. Sebbene in leggero calo rispetto al 2018, il dato del 2019 è preoccupante ed evidenzia quante siano le persone che muoiono ancora oggi sull'asfalto vittime di eccesso di velocità, colpo di sonno, guida sotto effetto di alcol e droga o distrazione al volante. I dati incrociati dell'anno appena concluso arrivano d Istat, Aci e Polizia Stradale. 

Diminuiscono gli incidenti, aumentano le vittime giovani. Secondo quanto, in particolare, riferisce la Polizia Stradale il 2019 si chiude con un -1,3% di incidenti stradali in Italia con una riduzione del 2,9% del numero delle vittime, ma con una crescita del numero dei giovanissimi coinvolti in incidenti mortali.In un solo anno, infatti, le vittime tra i 15 e i 19 anni sono aumentate del 25% e un incidente su tre che coinvolge i giovani è causato da alcol e droga. Il giorno più critico non è più il sabato sera, ma il venerdì notte e sono in drammatica crescita gli incidenti sulla rete autostradale (+25% nel primo semestre secondo Istat). I dati Istat relativi al periodo gennaio-giugno rivelano inoltre che gli incidenti sono stati 82.048 (in media, 453 al giorno: 19 ogni ora) e hanno causato 1.505 morti (8 al giorno: 1 ogni 3 ore) e 113.765 feriti (628 al giorno: 26 ogni ora).

Multe e contravvenzioni: i dati. Si riferiscono ai 12 mesi del 2019, invece, i dati che arrivano da Polstrada e Carabinieri circa il numero di contravvenzioni contestate agli automobilisti. Dall'1 gennaio al 15 dicembre 2019 Polizia Stradale e Carabinieri hanno contestato 2.376.484 infrazioni al Codice della strada, il 28,8% delle quali per eccesso di velocità il 35,7% in più rispetto lo scorso.,

Inoltre sono state ritirate 61 mila le patenti di guida, 74 mila carte di circolazione e sono stati decurtati 3 milioni e mezzo di punti patente.

Più controlli e autovelox. I conducenti controllati con etilometri e precursori sono stati 1.264.314, di cui 23.800 sanzionati per guida in stato di ebbrezza alcolica (+2,2% rispetto al 2018), mentre quelli denunciati per guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti sono stati 2.156 (-6,7%). E il 2020 si è aperto sotto i peggiori auspici. In un solo giorno sulle strade siciliane sono morte sei persone in 4 incidenti stradali differenti. Secondo Polstrada serve una maggiore cultura della legalità alla guida visto che soprattutto i più giovani sottovalutano i rischi al volante.

Frank Cimini per giustiziami.it il 10 gennaio 2020. Ha patteggiato 9 mesi di reclusione per omicidio colposo Alice Nobili figlia di Ilda Boccassini e Alberto Nobili che a ottobre del 2018 aveva investito e ucciso il medico Luca Voltolin in viale Montenero. Lo ha deciso il giudice dell’udienza preliminare Alessandra Di Fazio. E’ stato anche risarcito il danno. “Un risarcimento congruo ma non sono autorizzato a dire il quantum” spiega l’avvocato Davide Ferrari di parte civile per conto dei familiari del medico. Insomma c’è una clausola di riservatezza peraltro comprensibile. La sentenza chiude una vicenda in cui c’erano state molte polemiche perché Alice Nobile non era stata sottoposta al test anti alcol e a quello antidroga come accade sempre negli incidenti stradali soprattutto quando c’è di mezzo un morto. Sul luogo del sinistro era intervenuto il capo dei vigili urbani Marco Ciacci ex responsabile della polizia giudiziaria. Della questione si era occupato anche il “comitato per la legalità  la trasparenza e l’efficienza amministrativa” di Palazzo Marino affidato all’ex magistrato  Gherardo Colombo che non aveva ravvisato nulla di irregolare nel comportamento di Ciacci. Insomma un incidente stradale una disgrazia che può capitare a chiunque. Resta il mistero dei mancati test che hanno fatto sospettare un trattamento di favore per la figlia due procuratori aggiunti all’epoca dei fatti (Boccassini nel frattempo è andata in pensione).

L'ex vigile annulla-multe "Autovelox tutti irregolari". Carlo Spaziani oggi si batte per la giustizia: «Le macchine difettose su omologazione e taratura». Alberto Giannoni, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. Si dice che il leggendario Robin Hood rubasse ai ricchi per dare ai poveri, ma in realtà difendeva tutti i cittadini che il potere opprimeva con gabelle e balzelli vari. Carlo Spaziani, romano di 67 anni, fa esattamente la stessa cosa, solo che la foresta di Sherwood in cui si ha deciso di avventurarsi è quella, ben più temibile, della burocrazia e della pubblica amministrazione, che perseguita a colpi di multe. «Mi hanno chiamato anche Masaniello - sorride - ma io non cerco gloria». Spaziani il 1° febbraio 2018 è andato in pensione con 44 anni di servizio, tutti nella Polizia locale di Roma. Ufficiale e - nell'ultimo anno di servizio - decano fra 6mila dei vigili urbani della Capitale. Non ha la vena del giustiziere, piuttosto la passione e la competenza dello specialista, e adesso conduce una battaglia a viso aperto contro le piccole e grandi prepotenze dei Comuni, le irregolarità, le incongruenze. «Come si può chiedere ai cittadini di rispettare le regole lo Stato è il primo a non farlo? Ho provato una volta a parlare quando ero in servizio, ma sono stato redarguito e sospeso. Allora ho continuato andando anche in tv incappucciato. Ma io non dico niente di illegale, non insulto nessuno, non voglio affatto che gli automobilisti corrano, io stesso in autostrada vado a 105. Sono per la prevenzione, per la giustizia, per le regole». E secondo lui gli autovelox non rispettano le regole: «Non sono contrario all'autovelox, ma a questo uso che se ne fa. Posti in discesa sui rettilinei, ma allora vuoi proprio fregarmi i soldi? Posso documentare casi in cui un automobilista, nell'Avellinese, ha preso due multe in due punti diversi a 10 chilometri di distanza, e secondo l'orario indicato avrebbe dovuto andare a 204 di media, in una strada appenninica, di tornanti. Un altro al contrario avrebbe dovuto andare a 20 a giudicare dagli orari». E poi ci sono targhe sbagliate e un gran campionario di errori minuti o grossolani, ma c'è di più. Tutti gli autovelox sono viziati secondo Spaziani. «Non hanno una corretta omologazione - spiega - Dovrebbe farla il ministero dello Sviluppo economico, e nessuno altro ente ha mai avuto deleghe o deroghe. Omologazione e taratura dovrebbe eseguirle un soggetto al quale sia stato riconosciuto questo compito. E il ministero dovrebbe pubblicare sulla Gazzetta ufficiale un elenco, che però non c'è». Non solo: «Tutti i decreti citati nei verbali non sono decreti, perché li ha firmati un dirigente ministeriale, e non può farlo lui». Altra tara: «La foto degli autovelox non è provante. La foto serve come prova, ma la foto che viene scattata non viene scattata nel momento in cui si calcola la velocità, viene fatta un attimo dopo, è postuma. E non ho mai visto un verbale di autovelox, di tutor invece sì, che dica quanto spazio ha percorso l'auto e in quanto tempo». E quindi lo dichiara: «Sì, tutte le multe con autovelox sono illegittime». Nel Ferrarese è riuscito a farne togliere uno dal prefetto. Ed è una miniera di informazioni, anche sugli errori del Codice, Spaziani: «Per esempio sulle auto estere si fa confusione sulla residenza e si confonde il circolare e il condurre». Lo chiamano i politici e anche un pm si è rivolto a lui per un ricorso, vinto come tanti altri. «Ma io non voglio essere famoso e non voglio candidature - dice - Mi interessa solo la giustizia».

Da ilsole24ore.com il 15 gennaio 2020. “Donne al volante pericolo costante” è forse un proverbio antico, sicuramente una discriminazione sessista nei confronti delle donne e in più non risponde a verità.  Come riporta la rivista francese AutoPlus, sulla base dell’ultima indagine effettuata in Belgio dal Vias Institute, le donne sono un migliore affare per le compagnie di assicurazione – non solo perché – scrive l’Ansa – sono percentualmente meno coinvolte un incidenti ma anche per avere meno spesso torto – e quindi meriterebbero tariffe assicurative più vantaggiose. L’analisi di AutoPlus evidenzia che le donne sono meno colpite dagli uomini in caso d’incidente, prova della loro maggiore cautela. Rappresentano infatti il 44% di chi ha conseguenze lievi, il 23% di chi viene ferito gravi e il 34% di chi subisce danni gravi. In altre parole, le donne sono coinvolte in incidenti meno gravi rispetto alle loro controparti maschili. Inoltre, gli incidenti che vedono coinvolto un guidatore di sesso femminile comportano la metà del tasso di mortalità rispetto agli incidenti con un maschio al volante. Per il Vias Institute ci sono 10 decessi per 1.000 lesioni corporali per incidenti che coinvolgono una donna automobilista, rispetto ai 19 degli automobilisti maschi. In generale, che si tratti di conducenti, passeggeri o pedoni, le donne rappresentano il 43% delle vittime di incidenti stradali (uccise o ferite). E la loro percentuale scende addirittura al 37% quando vengono prese in considerazione solo le donne guidatrici. Al contrario, il 62% dei passeggeri uccisi o feriti sono donne, cosa che si spiega con il fatto che è quasi sempre un uomo a mettersi al volante quando ci sono più persone a bordo. La differenza è particolarmente marcata tra i giovani (15-19 anni e 20-24 anni) e trenta (30-34 anni e 35-39 anni), dove ci sono 1,4 volte più vittime di sesso maschile rispetto a donne vittime (per 100.000 abitanti). Quasi 2 su 3 conducenti che ricevono una multa dopo aver commesso una infrazione sono maschi, cosi come 3 su 4 condannati per reati stradali. Uno dei motivi della minore sinistrosità delle donne al volante è il meno frequente abuso di alcol. La probabilità che un uomo guidi dopo aver superato il limite legale è 4 volte superiore rispetto alle donne e ciò è dovuto anche alla maggiore cautela delle guidatrici nel mettersi al volante in condizioni a rischio. Questa propensione più maschile a guidare sotto l’influenza dell’alcool è confermata anche dalle statistiche sugli incidenti. Nelle analisi effettuate dopo un sinistro solo il 5% delle donne che erano al volante avevano superato il limite di legge, mentre per i maschi questa percentuale sale all’11%.

Cinture di sicurezza posteriori, multe raddoppiate. Ecco perché gli italiani non le allacciano. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessio Ribaudo. I dati elaborati in esclusiva dalla Stradale per il «Corriere». La docente di psicologia: «Rapporto difficile con le regole, presunti fastidi e sensazione di onnipotenza». Lo scorso anno, ogni 4,8 minuti, un automobilista è stato multato in Italia dalla polizia stradale perché non indossava le cinture di sicurezza. C’è di più: i verbali sono stati il 9,5 per cento in più rispetto al 2018. Eppure, dal 1988 esiste l’obbligo per quelle anteriori e, dal 2006, per quelle posteriori. Si stima che questi dispositivi, in 60 anni, abbiano salvato la vita del 27 per cento delle persone coinvolte in incidenti gravi. Secondo l’Automobil club d’Italia (Aci) nel nostro Paese «si potrebbero evitare oltre 300 vittime l’anno se tutti utilizzassero le cinture correttamente». Secondo i dati elaborati in esclusiva dalla Stradale per il Corriere della Sera, i «pizzicati» per questa infrazione sono stati 107.825. In buona sostanza è come se tutti i cittadini di Forlì, Vicenza o Terni fossero stati sanzionati: neonati inclusi. In termini assoluti è stata la seconda infrazione più comminata, dietro solo all’eccesso di velocità (717.723, +36,9%) che, a onor del vero, è più semplice da «beccare» grazie ai misuratori elettronici. I dati sulle cinture sono preoccupanti e, negli ultimi tempi, la Stradale sta conducendo, da Bolzano a Catania, operazioni mirate per controllare se tutti gli occupanti delle auto indossano le cinture. In particolare, nel 2019, c’è stata un’impennata d’infrazioni per i passeggeri posteriori rispetto allo scorso anno: sono quasi raddoppiati. Sono stati controllati 166 mila veicoli, in 22.275 posti di blocco disposti in 17 città: da Torino a Milano, passando per Genova, Firenze, Roma, Cagliari, Napoli e Palermo. In testa a questa poco virtuosa classifica c’è Catania, seguita da Padova e Bologna. Se si guarda invece ai verbali per i dispositivi «alterati o ostacolati», sempre secondi i dati della Stradale, al primo posto c’è Trieste, poi Torino e L’Aquila. Una distribuzione geografica che manda in soffitta gli stereotipi su queste odiosa infrazione commessa «solo» nel Sud Italia. «Non esiste area geografica immune da questa infrazione — spiegano dalla Stradale — e queste persone non calcolano che non indossarle comporta un elevato rischio di morte non solo per il possibile violento urto frontale contro il retro del sedile anteriore o laterale contro i finestrini ma non è infrequente che, al momento dell’impatto, si venga sbalzati fuori dall’abitacolo a causa della pressione e del peso che fa aprire le portiere». «Secondo i nostri studi — spiega Anna Maria Giannini, docente di Psicologia forense dell’Università «Sapienza» di Roma e coordinatrice del centro d’eccellenza sulla sicurezza stradale dell’ateneo — i motivi per cui, dopo 14 anni ancora molti non allacciano le cinture posteriori sono alcuni di carattere generale e altri specifico. Fra i primi, certamente, rientra il difficile rapporto di molti italiani con le regole, specialmente quelle che riguardano la circolazione stradale. La controprova è che molti le rispettano quando sanno di rischiare certamente una multa che magari comporta la sottrazione di molti patente-patente. Esempio classico sono gli autovelox fissi: rallentano in prossimità e, poco dopo averlo oltrepassato, poi ripartono a velocità sostenuta. Quindi tornando alle cinture posteriori, siccome vengono rilevate solo durante temporanei posti di blocco, non esiste una matematica certezza di prendere una multa e, così, non sono indossate con frequenza. Il secondo motivo, è che spesso questi dispositivi sono percepiti come “inutili intralci” se non proprio fastidi perché comporterebbero un presunto rallentamento nei movimenti e, quindi, una sensazione di scomodità. Adducono spiegazioni bizzarre come quella di “essere troppo distante dal vetro”. Un altro motivo, è che alcuni viaggiano su due livelli mentali: conoscono la regola, l’accettano come giusta perché sanno di rischiare la vita ma, poi, vanno su un altro binario mentale e pensano “ma tanto a me non può succedere nulla di grave”. Queste persone si credono onnipotenti e immuni perché le tragedie avvengono sempre agli altri, lontano da loro». Eppure i «pretensionatori» salvano la vita in caso di incidente sempre: dalle autostrade alle strade cittadine. Il dispositivo, azionato da una molla o da una piccola carica esplosiva, è congegnato per stringere la cintura verso il corpo al momento dell’urto, assicurando alla persona in auto il massimo contenimento e la migliore dissipazione da parte della cintura dell’energia del corpo che viene inevitabilmente proiettato in avanti o lateralmente. Secondo uno studio dell’Aci «in un urto frontale anche solo a 50 chilometri orari, senza cintura di sicurezza, un corpo impatterebbe contro il volante o il cruscotto con una decelerazione che può arrivare a 100 G: è come se il peso del coro si moltiplicasse per 100 volte! “G” è infatti il valore dell’accelerazione di gravità terrestre , che determina il “peso” dei corpi». Naturalmente, l’utilità della cintura non diminuisce a velocità maggiori, come a esempio in autostrada. Il motivo è semplice. «Gli incidenti in autostrada — continuano da Aci — sono costituiti da tamponamenti e la differenza di velocità tra veicolo tamponante e veicolo tamponato rientra nella situazione in cui la cintura di sicurezza può svolgere al meglio il suo ruolo di protezione». C’è di più. In caso di incidente, è stimato che aumenta del 20 per cento la probabilità di lesioni a chi è seduto davanti, se i passeggeri posteriori non indossano le cinture di sicurezza, perché non sono «trattenuti» dalle cinture e, per inerzia, vanno a colpire chi si trova davanti alla velocità del veicolo (al momento dell’urto dopo l’inizio della frenata, che è ben più alta della velocità di percorrenza). Secondo l’Aci, «la cintura va posizionata comodamente sul torace e sulla zona pelvica in modo che durante l’incidente l’urto venga distribuito sulla struttura ossea. In caso di brusca frenata l’aver allacciato bene le cinture di sicurezza, aiuta a proteggere delicati organi vitali. Un uso corretto della cintura si ha quando quella addominale è tenuta bassa, sopra le ossa pelviche (anche), e quella diagonale sopra la spalla facendole attraversare la cassa toracica». Ci sono errori da evitare. «Non bisogna mai posizionare la cintura diagonale sotto le braccia o dietro la schiena: è questo un modo sbagliato di indossare la cintura che può causare, in caso di incidente, gravi lesioni interne. È di fondamentale importanza assicurarsi che la cintura sia ben tesa, in modo che possa intervenire tempestivamente; il nastro della cintura non deve essere arrotolato su se stesso. L’uso della cintura non è escluso, ma anzi è raccomandato durante la gravidanza: il tratto addominale tenuto bene in basso sulle anche ed il tratto diagonale che passa tra i seni, con una corretta regolazione dell’attacco superiore, sono la migliore garanzia sia per la madre che per il feto. L’uso della cintura potrebbe creare problemi a persone molto basse, per l’eccessiva altezza dell’attacco superiore. Non è consigliabile rinunciare per questo motivo ai suoi benefici; è raccomandabile, in questo caso, il ricorso a “seggiolini” od equivalenti, che, alzando il livello di seduta, consentano un uso confortevole ed adeguato della cintura». In auto esistono già dei sistemi che ricordano di allacciare la cintura e che avvisa il guidatore quando uno dei passeggeri non l’ha indossata. Sono i cosiddetti Seat belt reminder (Sbr) che, a seconda del modello di auto, sono sonori e/o visivi. Quest’ultimi sono di solito posizionati o sul quadro strumenti o sopra lo specchietto retrovisore. Ci sono due sagome umane più grandi con le cinture allacciate per gli occupanti anteriori e tre per quelli posteriori. Se sono colorati di verde significa che stanno utilizzando le cinture, se sono colorati di rossi significa che non stanno rispettando il codice della Strada. Gli avvisatori acustici, invece, sono caratterizzati da un classico cicaleccio che diventa sempre più intenso se si continua a non allacciarle. Non tutte le vetture hanno i sensori acustici per le cinture posteriori e si dibatte se non sia utile introdurle per salvare vite umane. Negli Stati Uniti, l’agenzia governativa per la sicurezza (Nhtsa) ha analizzato varie proposte e il sistema Sbr per i sedili posteriori sarà obbligatorio entro il 2025 sulle auto nuove: potrebbe essere simile al display che sugli aerei segnala ai passeggeri di allacciare le cinture. La questione è allo studio anche delle case automobilistiche perché ci sono alcuni dubbi legati al rischio di falsi allarmi che potrebbero infastidire l’attenzione del guidatore. Il codice della strada parla chiaro: l’articolo 172 stabilisce che chi non indossa correttamente le cinture di sicurezza (o le manomette) è punito con una sanzione che va da euro 81 a 326 euro oltre alla decurtazione di cinque punti dalla patente (10 se l’ha ottenuta da meno di tre anni). Se viene multato nuovamente entro due anni, scatta la sospensione della patente da 15 giorni a due mesi. Se non viene allacciata da un minore, della violazione risponde il conducente ovvero, se presente sul veicolo al momento del fatto, chi ne ha l’obbligo di sorveglianza. Tra l’altro, l’uso delle cinture di sicurezza posteriori è inoltre obbligatorio per i passeggeri che viaggiano sui taxi e sulle auto a noleggio con conducente. Inoltre, una sentenza della Cassazione nel 2019 ha stabilito che se il passeggero, a seguito di un incidente, dovesse subire delle lesioni può citare in giudizio il conducente che, non pretendendo l’utilizzo dei sistemi di sicurezza, concorre alla causazione del danno. La Suprema corte ha anche precisato che questo concorso di colpa può essere quantificato nel 30 per cento del danno subito. Di fatto, così i giudici hanno introdotto un vero e proprio obbligo, a carico del guidatore, di controllare che tutti i passeggeri le allaccino e, addirittura, può intimargli di scendere o di non mettersi in marcia sino a quando non adempiono alle disposizioni del codice della Strada.

Cinture, al Nord le mette l’82%, al Sud il 36%: «Evitabili 327 morti l’anno». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. I seggiolini non piacciono agli italiani. Meno della metà li usa quando trasporta i bimbi in auto, esattamente il 44,1%. Chi affida i piccoli alle braccia del passeggero, spesso accanto al guidatore. Chi li lascia sul sedile posteriore, agganciati alla cintura per adulti. Senza valutare il rischio cui i bambini sono esposti, anche in caso di tragitti brevi. E c’è da domandarsi cosa succederà a marzo con l’applicazione delle multe per la mancata installazione degli allarmi antiabbandono del bebè se già tante infrazioni vengono commesse su norme di vecchia data. Non depongono bene i dati, raccolti dal sistema di sorveglianza dell’Istituto superiore di sanità, sull’impiego dei dispositivi di sicurezza nell’ambito del progetto Ulisse finanziato dal ministero delle Infrastrutture. Lo studio completo sta per essere pubblicato su riviste di settore ed è unico nel suo genere per l’ampiezza del campione (il 17% delle automobili circolanti in Italia, 28 città monitorate) e per il metodo di rilevazione. I ricercatori coordinati dall’epidemiologo Marco Giustini sono scesi in mezzo al traffico, piazzandosi nei paraggi di incroci stradali (urbani ed extraurbani) per osservare il comportamento dei conducenti in fase di rallentamento della velocità e riportare su una app quanto hanno visto. I risultati sono stati sorprendenti. Sui seggiolini l’Italia non è diligente, in compenso ha vinto la sfida del casco, il cui obbligo per gli adulti è in vigore dal 1992 dopo aver interessato solo i minorenni. Negli oltre 37 mila casi rilevati dai ricercatori, lo indossavano la quasi totalità dei motociclisti, 100% al nord, 99,6% al centro e 94% al sud che si è preso la sua bella rivincita rispetto al passato. C’è stata una decisa presa di coscienza. Differenze profonde restano invece nell’impiego delle cinture di sicurezza anteriori. Anche gli automobilisti del nord non sono sufficientemente diligenti, la percentuale di chi le indossa si ferma all’82,6% contro il 67% del centro e il 36,3% del sud. Le cinture di sicurezza posteriori rimangono quasi sconosciute e residuali. Anche in Lombardia e Veneto le sfruttano soltanto due persone su dieci. È una novità il dettaglio sui comportamenti nelle 28 città. Anche qui è profonda la disparità. A Bolzano e Trento i conducenti sono ligi all’obbligo di allacciare le cinture, il centro ha una media del 70%, a Napoli, Bari e Reggio Calabria le trasgressioni sono la normalità. Ogni sito di osservazione è stato monitorato 4 volte in stagioni diverse, sono state scelte diverse tipologie stradali. Giustini ha personalmente seguito quanto succedeva a Roma in zona Tuscolana, tempo di permanenza sul luogo un’ora per tutte le sentinelle. Si calcola che se ci fosse il rispetto delle norme sui dispositivi di sicurezza ogni anno si potrebbero risparmiare 327 morti per incidenti stradali, stabili da alcuni anni su un bilancio di 3.300 vittime. Il numero non accenna a scendere, segno che bisogna ricorrere ad altro. Iniziative su cinture e seggiolini potrebbero fare la differenza. «L’operazione sarebbe oltretutto a costo zero. Basterebbe diffondere meglio le informazioni sui vantaggi di proteggersi. Se tutti diventassimo osservanti come gli svedesi conteremmo tante vittime in meno sulla strada», commenta il ricercatore.

Voli per il Sud Italia troppo cari a Natale? Passando  da Budapest si risparmia. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Leonard Berberi. I voli per il Meridione arrivano anche a 300 euro a tratta. E così un esercito di pendolari prenota i voli facendo scalo in Polonia e Ungheria. La matematica a volte sfida la logica. E la logistica. Per andare da un punto A a un punto B in alcuni periodi dell’anno — il Natale, il Capodanno, la Pasqua, l’estate — conviene transitare in un punto C. E spezzettare le prenotazioni. Per dire: chi il 23 dicembre decide di andare da Milano a Palermo potrebbe sborsare 178 euro (con easyJet) o 190 (con Alitalia) per una sola andata. Oppure pagarne la metà, ma con qualche sacrificio in più. Ad esempio: imbarcarsi su un aereo Wizz Air da Malpensa per Budapest, quindi prendere un Ryanair per il capoluogo siciliano. Costo complessivo delle due tratte: 91 euro. Le festività invernali per i meridionali che lavorano o studiano nel Nord Italia diventano un salasso. I voli che di solito nei periodi normali costano anche 16 euro — ad esempio il Milano-Palermo —, balzano anche a 250-300 euro (a tratta). Per questo contro il «caro voli» il governatore della Sicilia Nello Musumeci propone la creazione di una compagnia aerea regionale in grado di offrire tariffe a prezzi calmierati. Nel frattempo c’è chi paga centinaia di euro oppure decide di restarsene al Settentrione. O, come fanno diversi giovani, sfruttano i motori di ricerca dei voli per trovare i percorsi alternativi più convenienti. E così, come ha raccontato La Stampa, da Torino gli universitari prenotano i voli con le low cost che portano prima nell’Est Europa poi salgono su altri aerei che li trasportano a casa, in Sicilia. Ci si impiega qualche ora in più — a volte un giorno —, ma si paga anche la metà. Prendiamo un altro esempio: un volo diretto da Venezia a Palermo con Ryanair costa 299 euro di meno, stando alle simulazioni effettuate dal Corriere. Al netto dei costi extra come l’imbarco prioritario, il bagaglio in stiva, la scelta del posto. E però ne basterebbero 174 prenotando un biglietto con Alitalia (per il Venezia-Budapest via Fiumicino) e un altro con Ryanair (Budapest-Palermo). Come spiega più d’un esperto l’idea di base è muoversi seguendo la logica dei flussi. Le rotte Nord-Sud Italia in questo periodo sono molto richieste (e prenotate). Altre tratte che portano al Meridione — come il Regno Unito o l’Est Europa — invece sono meno ricercate: del resto chi vive in Polonia o in Ungheria, per esempio, il Natale tende a passarlo a casa. E così i sedili degli aerei che operano quei voli non vengono venduti tutti e subito. E così gli algoritmi delle compagnie — e chi si occupa delle tariffe nei dipartimenti di Revenue management — abbassano i prezzi per poter massimizzare i ricavi. E così capita che chi a Torino è diretto a Catania si ritrova a tornare a casa fermandosi qualche ora a Cracovia o a Budapest.

10 linee ferroviarie peggiori d’Italia: la classifica di Legambiente. Redazione di Il Riformista il 16 Dicembre 2019. Pendolari sui binari della Circumvesuviana, i disagi sulla linea napoletana sono sempre più frequenti. La napoletana Circumvesuviana, che collega la città con la Provincia, sul gradino più alto del podio, seguita dalla Roma Nord-Viterbo e dalla Roma-Ostia Lido. Queste le prime tre linee peggiori d’Italia nella classifica pubblicata da Legambiente. Un rapporto che ogni anno racconta il cambiamento, in termini di quantità e qualità, dei treni in circolazione e di conseguenza degli effetti sulla vita quotidiana dei pendolari di tutta Italia.

DISAGI CONTINUI – Perché –  si legge nel rapporti – i disagi per i cittadini sono ancora rilevanti da Sud a Nord: in troppe aree del Paese i treni, anno dopo anno, si riducono; i tempi di percorrenza si allungano, con la conseguenza che sempre più persone abbandonano questa modalità di trasporto perché trovano convogli sempre più affollati, vecchi e con continue cancellazioni. Il risultato è che molti sono così costretti a spostarsi in auto o pullman con evidenti ripercussioni anche sull’inquinamento delle nostre città. A completare la classifica delle 10 linee peggiori, che nel complesso coinvolgono oltre 3 milioni di pendolari, troviamo tratti ferroviari che coinvolgono tutta la Penisola: la Milano-Chiasso, la Torino-Chivasso-Ivrea-Aosta, la Genova-Ovada-Acqui Terme, la Verona-Rovigo, la Terni-Sansepolcro, la Battipaglia-Potenza-Metaponto, la Agrigento-Palermo.

LE RAGIONI DEI DISSERVIZI – “Il rilancio della mobilità su ferro nelle città e la condizione che vivono i pendolari devono diventare una priorità dell’agenda politica nazionale. Oggi questo purtroppo non avviene – dichiara Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente –. Al nuovo ministro dei Trasporti Paola De Micheli chiediamo di dedicare ai pendolari almeno la stessa attenzione che ha messo in questi mesi per il rilancio dei cantieri delle grandi opere. Servono risorse – e purtroppo in Legge di Bilancio non ci sono né per aumentare i treni pendolari né per compararne di nuovi – ma anche scelte radicali e a costo zero a difesa di centinaia di migliaia di persone che ogni giorno prendono il treno in situazioni di degrado inaccettabili. La situazione che si vive da dieci anni sulle tre linee peggiori d’Italia è inaccettabile, è la conseguenza di drastici tagli e di disattenzione al servizio, e purtroppo si continua ad ascoltare solo promesse mentre il numero di passeggeri è diminuito fino al 30%. Al Ministro chiediamo di esercitare un vero potere di controllo, verifica ed intervento rispetto alle situazioni di più grave disagio, e quando la situazione è come a Roma e a Napoli commissariando le aziende. Sono infatti in larga parte le risorse statali a garantire il servizio su queste linee e i diritti dei cittadini alla mobilità devono essere garantiti”. La classifica di Legambiente evidenzia come su alcune linee ed in alcune città, purtroppo, la situazione sia peggiorata e manca persino la speranza che qualcosa cambi. Eppure, da queste criticità si dovrebbe partire per rilanciare l’offerta di trasporto pubblico su ferro, con beneficio in termini di meno inquinamento e meno congestione nelle nostre città, ma anche di qualità della vita e ridotta spesa per le persone. Il nostro Paese ha, infatti, bisogno di aumentare sensibilmente il numero di passeggeri che viaggiano in metro e in treno, se vuole migliorare la qualità dell’aria e ridurre le emissioni di CO2 come previsto dall’Accordo di Parigi. Non solo, è questo tipo di progetti che saranno al centro dei finanziari del Green New Deal europeo, ma da noi si parla solo di grandi opere.

TRENI PIU’ NUOVI – Un dato positivo indubbiamente c’è: si riduce l’età dei treni in circolazione. Continua infatti la dismissione dei convogli più vecchi in molte regioni, con l’età media arrivata a 15,4 anni rispetto al 2017 (quando il dato era di 16,8), grazie al trend iniziato negli scorsi anni con l’immissione di nuovi convogli da parte di Trenitalia. Il miglioramento è avvenuto soprattutto al Nord e al Centro, dove è diminuita l’età media ed il numero di treni con più di quindici anni di età per l’immissione di nuovi convogli e di dismissione di quelli più vecchi. In Puglia, Campania, Sicilia e Sardegna si vedranno miglioramenti nei prossimi anni grazie agli investimenti programmati nei Contratti di Servizio con Trenitalia. In Campania nonostante gli investimenti in corso, l’età media rimane alta (19,7) soprattutto a causa dell’anzianità del parco rotabile di EAV (ex Circumvesuviana, Sepsa e MetroCampania NordEst); stessa situazione nel Lazio, dove sono sempre più evidenti le differenze tra la penosa condizione dei mezzi ATAC e quelli delle linee FL frequentate dai convogli Trenitalia. La seconda, grande, questione riguarda il numero di treni in circolazione. Purtroppo, malgrado negli ultimi dieci anni i pendolari siano aumentati passando da 2,7 a 2,9 milioni sui treni regionali (+7%), il numero di treni in circolazione nelle regioni è aumentato solo dell’1,1%. “Dobbiamo mettere più treni e rinnovare il parco circolante se vogliamo convincere le persone a scegliere la mobilità sostenibile – aggiunge ancora Zanchini –. Nella legge di Bilancio in corso di approvazione non sono previste risorse aggiuntive per potenziare il servizio o per acquistare treni per i pendolari. Eppure se si vuole puntare davvero a un green new deal come annunciato dal Governo Conte occorre rilanciare una cura del ferro nel nostro Paese. La priorità dovrebbe essere di partire dal recupero dei tagli alle risorse avvenuto rispetto a 10 anni fa. Dal 2009, infatti, le risorse da parte dello Stato per il trasporto pubblico su ferro e su gomma sono diminuite del 21,5%. Una scelta che ha avuto come conseguenze tagli e disagi che i pendolari vivono ogni giorno”. In molte regioni l’unica azione intrapresa come conseguenza di questi tagli è stata, infatti, l’aumento delle tariffe (in ben 16 regioni) o il taglio nei collegamenti (in 13 regioni): dal 2010 al 2019 il costo per i pendolari è aumentato notevolmente senza che a questo corrispondesse un cambio dell’offerta in termini di qualità e quantità. Anzi, si registrano punte del 48% di incremento in Campania (a fronte di un taglio ai servizi del 15%), Liguria e Piemonte (con un taglio però più contenuto, rispettivamente del 4,8% e dello 0,4%). E ci sono anche situazioni al limite come in Molise, dove il capoluogo Campobasso non ha più collegamenti ferroviari con il mare perché è stata messa fuori esercizio la linea per Termoli. Buone notizie arrivano, invece, finalmente dai treni Intercity: il 2018 ha visto segnare un +5,9% in termini di offerta, rispetto all’anno precedente, recuperando i tagli che hanno colpito i convogli a lunga percorrenza a partire dal 2009. Sintesi delle 10 linee pendolari peggiori:

1) Linee ex Circumvesuviane. 142 km. Tagli al servizio, Materiale rotabile vecchio, Guasti frequenti, Rispetto al 2012 i passeggeri sono diminuiti del 22%

2) Roma Nord-Viterbo. 101,9 km. Stazioni degradate, Materiale rotabile vecchio, Infrastruttura, Velocità media di 39 km/h

3) Roma S.Paolo-Lido di Ostia. 28,3 km. Materiale rotabile vecchio, Guasti frequenti, Soppressione corse, Rispetto al 2015 circolano 9 treni in meno (da 24 a 15)

4) Milano-Chiasso. 51 km. Sovraffollamento dei treni, Ritardi e soppressioni, Tra Seregno e Milano circa 80.000 viaggiatori al giorno

5) Terni-Sansepolcro. 150 km. Infrastruttura, Lentezza dei treni, I lavori per l’ammodernamento della linea sono in ritardo di 2 anni e mezzo

6) Agrigento-Palermo. 137 km. Sovraffollamento dei treni, Offerta treni insufficiente, Treno non competitivo rispetto alle autolinee

7) Battipaglia-Potenza-Metaponto. 199 km. Infrastruttura, Lentezza dei treni, 1h e 50m per 120 chilometri tra Potenza e Salerno, 1h e 30m per 107 km tra Potenza e Metaponto

8) Genova-Arquata Scrivia. 63 km. Infrastruttura, Offerta treni insufficiente, 46 km di binario unico sui 63 totali

9) Torino-Ivrea-Aosta. 66 km. Sovraffollamento dei treni, Infrastruttura, Tra Quincinetto e Chivasso ci sono 49 passaggi a livello, uno a chilometro

10) Verona-Rovigo. 96,6 km. Materiale rotabile vecchio, Offerta treni insufficiente, Taglio di 7 corse giornaliere nell’orario estivo.

Da Legambiente 2019

Da ilfattoquotidiano.it il 16 dicembre 2019. “I pendolari… lo so e allora? Dobbiamo continuare a fare quello che stiamo facendo senza rilanciare cose demagogiche. Bisogna spiegare perché siamo in queste condizioni, perché per 35 anni non si è fatto una mazza. È chiaro?”. Replica adirato il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, a una giornalista che gli chiede un commento sull’indagine Pendolaria 2019 redatta da Legambiente che indica anche per quest’anno nella Circumvesuviana la maglia nera delle ferrovie italiane. De Luca ne ha parlato con i giornalisti a margine della presentazione degli interventi di abbellimento della stazione Eav di Scampia. Il governatore ne aveva fatto cenno anche nel corso del suo intervento all’interno della stazione: “Siamo al corrente dei problemi dei pendolari, ma ci vogliono i tempi che ci vogliono. Abbiamo risanato l’Eav che aveva debiti per 600 milioni e tra un anno un anno e mezzo avremo rinnovato tutto il parco macchine, bus e treni, del trasporto pubblico della Regione. Stiamo buttando il sangue, di più non so cosa dobbiamo fare”.

·        Banda “Ladra”: Gli Sfibrati.

Inchiesta fibra ottica, Stefano Piga l’imprenditore di Armungia svela i costi della tratta tra Arbus e Guspini. Redazione Cagliaripad il 14 Marzo 2019. Prosegue l’inchiesta che Cagliaripad sta conducendo in Sardegna per verificare i costi, tratta per tratta, dell’appalto milionario della fibra ottica. Appalto di oltre 126.000.000 di euro che la Comunità Europa ha stanziato alla società in house del ministero dello sviluppo economico, Infratel Spa per i lavori di realizzazione della fibra ottica in alcune regioni italiane, tra cui la Sardegna. L’inchiesta della procura di Cagliari, nasce a seguito di una denuncia, presentata nel 2011 dall’imprenditore Stefano Piga che ha denunciato le irregolarità sui pagamenti dei lavori relativi all’effettuazione degli scavi in Sardegna, che però non vedono Infratel coinvolta. Dopo aver esaminato nei giorni scorsi la tratta Monastir – Ussana, questa volta siamo stati a verificare i lavori sulla SS 126 nel percorso tra Arbus e Guspini.

Da L’Unione Sarda del 2 febbraio 2014 «La banda larga? Troppi imbrogli» «Ho fatto i lavori come dicevano loro, sapevo che non erano regolari, che si risparmiava su tutto rispetto a quanto previsto dal capitolato d'appalto, ma mi adeguavo altrimenti mi avrebbero tagliato fuori e non potevo permettermelo. Poi quando un controllo ha fatto emergere le magagne e si è saputo che c'era un'inchiesta penale, naturalmente hanno scaricato la colpa su di me, cioè sull'ultima ruota del carro». Maurizio Diana ha 46 anni ed è un imprenditore di Villamassargia specializzato nel settore scavi. Da quasi un anno è diventato un testimone d'accusa nell'inchiesta della Procura di Cagliari e del Nucleo Tributario della Finanza sulle presunte irregolarità negli appalti milionari per la posa della banda larga in Sardegna, in cui al momento sono indagati per concussione continuata e truffa aggravata un funzionario di Infratel, la società del ministero delle Infrastrutture affidataria dei lavori, e due tecnici della Imet, una delle ditte appaltatrici. Sino a qualche mese fa Diana ha lavorato nei cantieri (già visitati nei mesi scorsi dalle Fiamme Gialle) relativi all'appalto per le zone rurali di tutta la Sardegna, vinto da Ericsson e Consorzio Stabile e i cui lavori sono stati affidati alla ditta Forgione. Lui è insomma un sub-sub appaltatore, cosa che peraltro sarebbe vietata dalla legge. L'imprenditore Stefano Piga, diventato il principale accusatore nell'inchiesta condotta dal pm Emanuele Secci, ha parlato agli inquirenti di un sistema piramidale creato per gonfiare i costi, che si regge su una serie di sub-appalti a catena e il sistematico pagamento di tangenti. Lei cosa sa? «Piga ha lavorato per un altro appalto, quello del 2008-2010 gestito dalla Imet, ma il sistema funziona come dice lui: a novembre di due anni fa sono stato interrogato dalla Guardia di Finanza e ho detto tutto quello che sapevo. Io non ho pagato mazzette perché essendo la base della piramide incassavo solo le briciole. Però sono testimone diretto del fatto che queste infrastrutture sono solo un enorme spreco di soldi pubblici. Inoltre le ditte sarde non possono partecipare agli appalti per via delle documentazioni complesse richieste. In tutta Italia vengono scelti sempre i soliti soggetti, che per i lavori usano noi imprenditori del posto sottopagandoci e poi superano le verifiche sulla qualità grazie alla compiacenza di chi controlla. In questo modo hanno creato una sorta di cartello sui lavori nelle telecomunicazioni». Meglio che ci parli soltanto di quello che ha visto coi suoi occhi. «I casi sono tanti, ne citerò uno molto significativo. Ai primi di ottobre del 2012, un mese prima che mi convocasse la Finanza, dovevo posare il cavo nel cantiere tra Lotzorai e Triei e notai che i tubi stesi dalla squadra a bordo strada erano corti di un centinaio di metri. Così chiamai il titolare della ditta Forgione per sapere cosa fare, lui mi disse di usare un tubo da 25 millimetri che mi era avanzato dal cantiere di Villaperuccio. Lo richiamai perché in arrivo al pozzetto notai che per circa 4 metri avevano posato dei tubi da 40 millimetri quindi incompatibili con quelli in arrivo dalla canalizzazione, per risposta mi disse di posare il 25 dentro il 40 che lo avrebbe fatto sistemare dopo e che in ogni caso per i controlli avrebbero aperto il pozzetto “giunto”, dove era tutto a posto. Io ho eseguito perché già in precedenza quando mi ero permesso di far notare delle lavorazioni male eseguite avevo rischiato di essere escluso dai lavori». Cosa significa in concreto? «Che una linea del genere non serve a nulla, è inutilizzabile, una presa in giro». Poi cosa è successo? «Il 22 aprile dello scorso anno, quando già si sapeva dell'inchiesta perché erano usciti gli articoli sul vostro giornale, su ordine della Ericsson fu fatto un controllo sulle infrastrutture eseguite a Lotzorai e scoppiò la bomba perché il controllo casualmente andò in quel pozzetto: Forgione mi aveva detto che avrebbe mandato una squadra a sistemare le irregolarità ma non l'aveva fatto». E dunque? «Scoperti i tubi di diversa sezione uno dentro l'altro e i tubi mancanti Forgione accusò me per le mancanze. Sapevano che avevo parlato con la Finanza e magari pensavano che io avessi segnalato l'irregolarità, cosa che non era. Comunque sia, poco dopo Sabatino Forgione mi disse di andare a sistemare il cantiere di Mores poiché erano previsti nuovi controlli, gli risposi che l'infrastruttura lì era eseguita troppo male e che non avevo le energie per sistemarla perché ci voleva troppo lavoro. Lui mi disse di posare una decina di metri su ogni estremità della tubazione dove non si riusciva a posare il cordino e di stuccare al meglio i pozzetti, che se volevo essere pagato dovevo per forza eseguire il lavoro. Una volta fatto, lo chiamai dicendogli che solo su alcune tratte i cordini erano posizionati correttamente, lui mi rispose di non preoccuparmi che avrebbe pilotato dove fare i controlli». E invece? «Fece il contrario. Tanto che le ispezioni rilevarono le anomalie: così hanno potuto dimostrare a Ericsson ed al Consorzio stabile che la mela marcia sono io, che ero io a eseguire male i lavori. A quel punto ho cercato almeno di recuperare i soldi che mi dovevano, circa 60mila euro, ma dopo mesi loro mi hanno offerto un accordo a 25 mila». Si potrebbe obiettare che è lei a cercare scuse e a tentare di scaricare sugli altri colpe tutte sue. «Chi lavora in questo settore mi conosce, sa che non ho mai fatto male un lavoro, che sono un imprenditore serio». Lei è indagato? «No, non mi risulta. Al momento ho solo ricevuto una comunicazione dalla Procura di Cagliari in cui risulto parte offesa». Al di là delle responsabilità penali, per quello che ha visto lei queste infrastrutture sono utili? «Per come sono eseguite, cioè male, non servono a nulla, è solo un gigantesco spreco di soldi pubblici. E i sardi non potranno mai beneficiarne». Massimo Ledda

Banda larga, giro di tangenti. Indagato anche un funzionario ministeriale. Da sardiniapost.it il 28 gennaio 2015. Tangenti al funzionario ministeriale (fatte pagare ai subappaltatori) e risparmi sulla qualità dei lavori per la posa della banda larga. Questo il giro che ha portato al sequestro preventivo di beni per oltre un milione e 100 mila euro alla società umbra che si è aggiudicata alcuni appalti milionari, la Imet spa. La notizia si legge su L’Unione sarda in edicola oggi. L’inchiesta della Procura di Cagliari e del Nucleo della polizia tributaria della Finanza ha iscritto quattro persone nel registro degli indagati tra cui il funzionario Nicola Tenaglia, di Infratel – società in house del ministero delle Infrastrutture che seguiva gli appalti, a sua volta destinatario dei provvedimenti di sequestro. Gli altri indagati sono Luciano Tracucci, Ademaro Cesarini e Michele Ragni rispettivamente project manager, responsabile di cantiere e addetto tecnico della società di Perugia che gestiva gli appalti anche in vari comuni sardi. Per loro le ipotesi di reato, secondo il pm Emanuele Secci, sono: concussione continuata, frode in pubbliche forniture, truffa aggravata e falso ideologico. Tutto è partito del 2012 con alcune ispezioni nei cantieri degli uomini della Finanza accompagnati da un tecnico che ha messo in evidenza le irregolarità rispetto al capitolato d’appalto: scavi meno profondi del dovuto, cavi posizionati senza alcuna protezione speciale obbligatoria. Nonché una confusione tra scavi sullo sterrato (meno costosi) e asfalto per incassare più denaro. Da qui i risparmi notevoli rispetto alla cifra stabilita, per il collaudo si faceva affidamento al funzionario compiacente che intascava, secondo le accuse, mazzette pagate dagli imprenditori locali del subappalto. Così come disposto dalla Imet spa. Fondamentale la testimonianza di alcuni titolari delle ditte sarde, come quella di Stefano Piga, di Armungia (Cagliari). In due anni ha raccontato di aver pagato 80mila euro al funzionario del ministero che veniva due volte al mese in Sardegna.

“Banda ladra”, prosciutto e mazzette nell’inchiesta sulla fibra ottica. Pablo Sole su sardiniapost.it l'1 settembre 2016. A dispetto della rimarchevole stazza, pare che una volta sbarcato in Sardegna Nicola Tenaglia seguisse una dieta francescana: prosciutto, formaggio e pagnuttelle. O più prosaicamente, mazzette. Ben sistemate nel fondo di un cesto regalo, stracolmo d’ogni ben di Dio. Ma chi è Nicola Tenaglia? 68 anni, abruzzese di Vasto, in provincia di Chieti, è ben inserito nel giro dell’alta burocrazia capitolina, con un piede nei ministeri e l’altro nelle munifiche società in house. Come Infratel, entità del ministero della Sviluppo economico che dal 2007 al 2011 spedisce Tenaglia in Sardegna per controllare che i lavori per la realizzazione della rete internet a banda larga vengano eseguiti a regola d’arte. Appalti milionari – il primo passa da un costo preventivato di 5,8 milioni a 7,2 – la cui gestione finisce nel mirino della magistratura dopo che un imprenditore locale, Stefano Piga, il 15 giugno del 2011 anziché andare in cantiere punta dritto verso il quartier generale della Guardia di finanza di Cagliari. Comincia a parlare e, con gli occhi sbarrati, gli agenti delle Fiamme gialle ascoltano e prendono appunti. Per l’inchiesta “Banda ladra” – come oggi la definisce scherzosamente Piga – è l’ora X. Dalla ponderosa informativa di oltre 200 pagine arrivata sulla scrivania del Pm che segue l’indagine, Emanuele Secci, emerge un sistema gelatinoso, una sorta di Tetris dove i pezzi devono combaciare perfettamente e se qualcuno si mette di traverso, è automaticamente fuorigioco. Il canovaccio è vario e il cast eterogeneo: c’è la funzionaria del ministero, il cantoniere dell’Anas, gli imprenditori chiamati ad effettuare i lavori che, intercettati, raccontano tra le altre cose della pagnuttella e di altre regalie per ammansire Tenaglia.

Il capitolo intercettazioni regala agli inquirenti chicche insperate. C’è lo smaltimento dei materiali di risulta che grazie a operatori compiacenti, risultano conferiti solo sulla carta, mentre la maggior parte finisce ad insozzare le campagne circostanti. E ci sono pure i consigli che un uomo di Imet (che si aggiudica il primo appalto da 7,2 milioni) dispensa “aumma aumma“ a un subappaltatore per risparmiare sulle spese di costruzione (“Usa amido stabilizzato, al posto del cemento”). C’è l’imprenditore che si lamenta del fatto che Tenaglia “gli sta costando un occhio della testa” e c’è pure il cantoniere dell’Anas che chiama un addetto tecnico della Imet e, pacato, esordisce: “Io a lei le spezzo le ossicine. Perché state facendo lavori non conformi e questo a noi ci crea molti problemi. Si regoli”. Insomma, molti sapevano, tutti o quasi hanno taciuto. Piga è un fiume in piena e racconta di mazzette, regalie, ville abruzzesi ristrutturate con i proventi delle pagnuttelle e anche di una marea di soldi incassati dalla Imet grazie alle certificazioni “accondiscendenti” quanto “mendaci” di Tenaglia. Sostiene, l’armungese, di aver dato al direttore dei lavori di Infratel almeno 80mila euro in contanti. “Ma forse pure di più”, dice oggi Piga. Documentare il passaggio di denaro però è difficile.

L’assegno di 5mila euro firmato da Stefano Piga. “Non ti permettere di fare queste cose con me”, intima piccato Tenaglia a Piga, quando l’imprenditore di Armungia tenta di rifilargli un assegno. Ribadisce, il capoccia di Infratel, la predilezione per il contante. Che non è tracciabile. Da qui il gustoso episodio della giacca che Tenaglia dimenticava in ufficio e, una volta recuperata, l’indumento risultava misteriosamente prodigo di banconote. Eppure Piga – evidentemente già orientato alla denuncia – riesce a rifilargli per interposta persona due chèque da 5 e 2mila euro che, si scoprirà più tardi grazie al lavoro delle Fiamme gialle, “serviranno a finanziare la ristrutturazione di una casa” piuttosto malconcia che Tenaglia aveva ereditato a Vasto. Oggi è una lussuosa magione. Sotto sequestro.

La casa di Tenaglia prima e dopo la ristrutturazione. “Poi hanno fatto figurare dei lavori che non sono stati fatti, incassando a occhio e croce almeno 3 milioni di euro non dovuti – continua l’imprenditore – ad esempio facendo figurare interventi su asfalto, pagati in totale 58 euro al metro, malgrado la maggior parte degli scavi fosse effettuato su terra, pagati invece 16 euro al metro”. A confermare parzialmente la sua tesi sarà il perito nominato dalla Procura, l’ingegnere Cristina Onnis, che insieme con gli agenti della Guardia di finanza, i carabinieri e lo stesso Piga, esegue sul posto i rilievi nei 17 lotti dell’appalto. “Sono stati contabilizzati e liquidati alla Imet 433mila euro non dovuti”, è il responso finale. Un esempio: per il cantiere di Santadi, Infratel ha liquidato Imet con 150mila euro. “Ma ne doveva pagare 85mila”, certifica l’ingegnere Onnis. Piga però non ci sta e al processo, tra qualche settimana, conta di presentare una seconda perizia. Peraltro, il quadro economico tracciato dagli investigatori è impietoso. A giochi chiusi, il costo a chilometro dell’appalto aggiudicato alla Imet è stato di 66mila euro contro i 13mila liquidati alla Ericsson, la società che si aggiudica il secondo appalto e che tra il 2011 e il 2013 lavora al cablaggio della Sardegna centro-settentrionale. “Imet ha ricevuto da Infratel pagamenti per 7,1 milioni a fronte di fatture dei fornitori pari a 3,5 milioni – si legge nell’informativa -. Ha cioè ricaricato di circa il 50%”. Una bella cifra, considerato che secondo gli investigatori la Imet ha subappaltato la maggior parte dei lavori “attraverso vari artifici, ben conscia del fatto che non potesse delegare a terzi una percentuale di interventi oltre il 30%”, ricordano gli investigatori nell’informativa. E “i lavori in verità non sono stati effettuati oppure sono in difformità rispetto al progetto – proseguono gli agenti delle Fiamme gialle – e i fondi risparmiati sarebbero stati usati per costituire verosimilmente fondi neri per dazioni in denaro allo scopo di ammansire i funzionari addetti ai controlli”. Come il direttore dei lavori, per conto di Infratel, Nicola Tenaglia. Ma a processo andranno anche il project manager della Imet Luciano Tracucci e l’addetto tecnico dei cantieri Imet Michele Ragni. Pochi mesi fa è arrivato il rinvio a giudizio e il 23 settembre prossimo si terrà la prima udienza. Tra le accuse: truffa, falso, frode nelle pubbliche forniture e concussione. Eppure, già in tempi non sospetti, Infratel era a conoscenza delle passioni gastronomiche e pagnottare di Tenaglia. Lo ha ammesso durante un colloquio con la Guardia di Finanza lo stesso direttore generale, Salvatore Lombardo. Che in relazione all’appalto sardo è pure il Responsabile unico del procedimento. Ovvero colui che ha controfirmato le certificazioni di Tenaglia e liquidato i denari alla Imet. Nonostante questo, l’ingegnere abruzzese rimane ben saldo al suo posto. Forse perché “fa il lavoro sporco”, si lascia sfuggire in una conversazione telefonica intercettata Vittorio Canale, direttore dei cantieri per conto di Ericsson. Parlava al cellulare con una funzionaria ministeriale che lavora per Infratel. Pablo Sole

“Banda ladra”, la villa di Tenaglia restaurata con le mazzette. A sua insaputa. Pablo Sole su sardiniapost.it il 7 settembre 2016.

Pubblico ministero: “Allora, questi assegni?”

Tenaglia: “Nel modo più assoluto non so, ma nel modo più…! Ma poi io mi facevo dare assegni per mano indiretta? Cioè io avrei detto a Piga: "Dammi ‘sti soldi", oppure avrei detto a Tracucci, perché ho letto che Tracucci è andato… ‘Dai i soldi a Tracucci per conto mio?’ Non lo so io, io”.

Pubblico ministero: “Sì o no?”

Tenaglia: “No! Assolutamente no! Io in trentasei anni di direzione lavori non ho mai chiesto né ricevuto e mai concusso nessuno. E non ci ho manco pensato!”.

Pubblico ministero: “Gizzi Nicola lei lo conosce?”

Tenaglia: “Assolutamente no. Assolutamente no.

Il 10 giugno 2015, “alle ore 10.35 circa”, Nicola Tenaglia guadagna il “piano terzo” del palazzo di Giustizia di Cagliari e nella stanza 29 incontra il pubblico ministero Emanuele Secci. Ovvero il titolare dell’inchiesta sulle presunte mazzette per la realizzazione della rete internet a banda larga in Sardegna (leggi). Tenaglia è l’ingegnere della Infratel – società del ministero per lo Sviluppo economico che sovrintende al progetto – finito alla sbarra per truffa, falso, frode nelle pubbliche forniture e concussione: per l’accusa, incassate diverse pagnuttelle (tangenti, ndr) avrebbe tra le altre cose chiuso più di un occhio su lavori fatti in totale discrepanza con i progetti originali. E dovrebbe anche spiegare come mai un subappaltatore sardo (che lui doveva controllare) abbia staccato due assegni finiti poi in Abruzzo, patrio suolo di Tenaglia: il primo, da 5mila euro, nelle mani di tale Nicola Gizzi. Il secondo, di 2mila euro, viene incassato da Francesco Vassolo. È il titolare di un’impresa che ha ristrutturato una villa ereditata da Tenaglia a Vasto Marina. A staccare l’assegno è il proprietario della Moviterra, una delle ditte che ha eseguito lavori di scavo per la posa della fibra ottica. Si chiama Stefano Piga e, con le sue rivelazioni, ha fatto scattare l’inchiesta.

L’assegno da 2mila euro staccato da Piga e incassato da Francesco Vassolo. E Tracucci? Presto detto: il project manager e direttore dei lavori per conto della Imet SpA, che nel 2007 si aggiudica dalla Infratel di Tenaglia il primo lotto per la realizzazione della rete a banda larga. Valore totale: 7,2 milioni di euro. Tra le ditte che per conto della Imet di Tracucci lavoreranno in subappalto c’è anche la Moviterra di Stefano Piga. Che lavorava per essere pagata e pagava per lavorare, sostiene l’accusa. Piga dice di aver ‘versato’ a Tenaglia oltre 80mila euro, documentandone 18mila (“Voleva solo contanti, difficilmente tracciabili”, dirà alla GdF e confermerà al Pm). Di certo è riuscito a ‘rifilare’ due assegni a Tracucci che, dopo gli accertamenti della Guardia di Finanza, racconteranno una storia interessante. Questa. Il 2 maggio 2008 Stefano Piga firma due chèque e li consegna a Tracucci “senza indicare data e beneficiario – scrivono in un’informativa gli agenti del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Cagliari, coordinati da Nicola De Benedictis – così come era stato richiesto”.

L’assegno da 5mila euro versato da Nicola Gizzi nel conto della moglie, Nicoletta Palmieri. L’assegno da 5mila euro, scrivono le Fiamme gialle, risulterà poi incassato e versato nella filiale del Credito cooperativo della Valle del Trigno di San Salvo (Chieti) da Nicola Gizzi. Beneficiario: la moglie, Nicoletta Palmieri. Gizzi dirà di non ricordare chi gli avesse dato l’assegno e Tenaglia, durante l’interrogatorio, dirà di non sapere chi sia Gizzi. Quello da 2mila euro invece viene incassato l’8 maggio da Francesco Vassolo. Vale a dire il titolare della ditta che “ha fatto la struttura” della villa di Nicola Tenaglia in via Monevecchio a Vasto Marina, come ha dichiarato Tenaglia al Pm Secci. “È una coincidenza?”, chiede il pubblico ministero. E Tenaglia: “Non lo so se è una coincidenza, però…”. Secci: “È in grado di spiegarla? No?”. E Tenaglia: “Vassolo Francesco è intimo amico, mi è stato presentato come intimo amico da Luciano Tracucci, come persona affidabile ed in effetti, devo essere sincero, con me è stato estremamente cordiale e corretto”. In pratica, Tenaglia sarebbe una sorta di ‘utilizzatore finale’, all’oscuro del fatto che una parte della ristrutturazione fosse stata pagata da un subappaltatore che lavorava per lui in Sardegna.

La villa di Nicola Tenaglia a Vasto Marina prima della ristrutturazione (foto della Guardia di Finanza di Vasto)

La villa di Nicola Tenaglia a Vasto Marina dopo la ristrutturazione (foto da Google maps dopo comparazione con le immagini della Guardia di Finanza di Vasto)

Vassolo racconta però un’altra storia. Dice che lo aveva contattato Tracucci perché si interessasse ai lavori di ristrutturazione – che poi si tradurranno nel ‘buttare giù e ricostruire totalmente – della villa di Vasto Marina. Dichiara alle Fiamme gialle che aveva curato la presentazione del progetto al Genio civile e che tutto era stato fatto a titolo di cortesia, ovvero gratuito. Tenaglia lo smentisce e gli stessi agenti della Guardia di Finanza non credono alle dichiarazioni di Vassolo, tant’è che precisano come “ogni dubbio sulla reticenza e l’artificiosità e mendacità” delle sue dichiarazioni venisse “fugato dagli accertamenti bancari”. Peraltro, nel rapporto viene rimarcato come Vassolo fosse, fino al 2008, assistente tecnico alla Imet, l’azienda di Tracucci, che stava eseguendo lavori in Sardegna sotto la supervisione di Tenaglia. A confermare il fatto che Piga abbia parzialmente pagato i lavori nella villa di Vasto Marina non è solo l’indagine accurata della Guardia di Finanza di Cagliari (che si è avvalsa della collaborazione dei colleghi abruzzesi), ma pure il diretto superiore di Tenaglia, l’amministratore di Infratel Salvatore Lombardo, che durante un colloquio con gli agenti della Tributaria riporta – informalmente, viene precisato nell’informativa – come nell’ambiente si dicesse che “verosimilmente” alcuni appaltatori in contatto con Infratel avessero effettuato dei lavori a casa di Tenaglia.

Certo è, come si vedrà a breve, che anche Tenaglia non risparmia critiche allo stesso Lombardo, il suo capo: “Io ho segnalato delle anomalie – ha in sostanza dichiarato il dirigente della Infratel al Pm – ma non hanno tenuto in considerazione i miei appunti”. E non è, quest’ultima, l’unica recriminazione che il dirigente muove ai suoi diretti superiori. Pablo Sole

Le Iene Show, la diretta del 29 novembre. Irene Natali, Martedì 29 Novembre 2016 su maridacaterini.it. Luigi Pelazza ci parla di Tangenti e ruberie negli appalti pubblici. Gli scavi per far passare la fibra ottica in Sardegna sono stati pagati milioni, ma spesi a vuoto perché la fibra ottica non è comunque mai arrivata. I lavori sono stati subappaltati a vari clienti, come l’azienda Imet, con un innalzamento dei costi spropositato a fronte di un servizio mai fornito. Pelazza intervista alcuni capocantiere, uno dei quali ha anche sollevato la questione con i superiori: in cambio però, ha ottenuto l’invito a tacere.

Le Iene, servizio Pelazza “Tangenti e ruberie negli appalti pubblici”. Da Peoplexpress il 29 novembre 2016. Nella puntata de Le Iene, di martedì 29 novembre 2016, Luigi Pelazza si è occupato di un argomento molto recente dal titolo “Tangenti e ruberie negli appalti pubblici”. In particolare la iena ha puntata la propria attenzione sui lavori sull’immissione dei cavi a banda larga. A Le Iene, di martedì 29 novembre 2016, Luigi Pelazza si è occupato di un argomento molto recente dal titolo “Tangenti e ruberie negli appalti pubblici”. L’inviato ha intervistato chi ha fatto dei lavori per comprendere cosa è avvenuto quando sono stati fatti i lavori. Pare infatti che la ditta appaltatrice si faceva pagare a 21 euro a metro come se fosse tutto asfalto e non 9 euro come richiedeva la ditta per lo sterrato. La iena si è recata in Sardegna ma la gente non utilizza la fibra ottica perchè non ancora attiva. Nonostante i 7 milioni di euro di soldi pubblici spesi la fibra ottica non funziona. Alcuni dei titolari delle ditte che hanno operato per l’immissione dei cavi hanno denunciato tutto. Dopo aver denunciato non hanno lavorato più. Una storia di tangenti e ruberie della nostra nazione, dove non solo vengono sperperati i soldi ma il servizio non funziona neppure.

Gli sfibrati. Report Rai. PUNTATA DEL 09/04/2018 di Giuliano Marrucci. Collaborazione di Lorenzo Di Pietro. Nei prossimi cinque anni il traffico di dati sulla rete triplicherà. Le tecnologie del futuro, dal cloud all'internet delle cose, passando per realtà aumentata e virtuale, hanno tutte una gran fame di banda. L'unica tecnologia in grado di garantirne a sufficienza è la fibra ottica. Ma dopo dieci anni, circa due miliardi di fondi pubblici già spesi e otto miliardi stanziati, la fibra per tutti gli italiani è ancora nel mondo dei sogni. Che fine avranno fatto i nostri soldi? Quando riusciremo a metterci al passo con il resto d’Europa?

GLI SFIBRATI Di Giuliano Marrucci Collaborazione Lorenzo Di Pietro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora andiamo avanti, rimaniamo sulla nostra Giovanna, però cambiamo argomento. Mentre stava realizzando l’inchiesta sulle banche le si è interrotta la connessione internet e ha cercato, da curiosa qual è, di andare a fondo sulla questione.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO Il 15 febbraio la mia connessione Vodafone smette di funzionare. Contatto il centro assistenza per segnalare il guasto e dal giorno seguente comincio a ricevere una serie di telefonate. Ma non dalla Vodafone: dalla Telecom. È l’ufficio commerciale, che mi propone di cambiare gestore.

OPERATORE TIM Noi l’abbiamo chiamata dalla Telecom per proporle un rientro gratuito con noi.

GIOVANNA BOURSIER Cosa vuol dire?

OPERATORE TIM Lei deve diventare una nostra cliente anziché rimanere con Vodafone.

GIOVANNA BOURSIER Ma se io voglio tenermi Vodafone, che cosa succede?

OPERATORE TIM Noi non le sappiamo dare una tempistica di quando questo guasto verrà ripristinato.

GIOVANNA BOURSIER Se invece io cambio fornitore?

OPERATORE TIM Noi le ripristineremo subito la linea.

GIOVANNA BOURSIER Cioè se vengo con Telecom me lo riparate subito?

OPERATORE TIM Sì.

GIOVANNA BOURSIER E perché?

OPERATORE TIM Perché i tecnici sono i nostri, ok? Invece tutti gli altri gestori sono accodati; prima vengono i clienti Tim e poi tutti gli altri.

GIULIANO MARRUCCI Come sarebbe a dire “prima vengono i clienti Tim e poi tutti gli altri”? La Telecom in qualità di operatore che affitta la rete ad altri non dovrebbe essere neutrale?

LAURA CECCHINI – CONSULENTE ADUC Se il soggetto wholesale deve essere terzo non può privilegiare nessuno.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il sospetto è che Telecom abusi del suo doppio ruolo e faccia lo sgambetto ai competitor che noleggiano la sua rete.

GIULIANO MARRUCCI Quindi capita spesso che riceviate segnalazioni di persone che hanno segnalato un guasto a un loro gestore che non era Telecom e dopo poco hanno ricevuto offerte commerciali da Telecom?

LAURA CECCHINI – CONSULENTE ADUC Esatto. Dovrebbe essere una segnalazione che rimane indipendente da quella che è invece l’ulteriore società, chiaramente commerciale, di Telecom.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Nel 2008 l’Antitrust l’aveva messa sotto indagine per gli stessi motivi. Ma poi Telecom aveva approvato una serie di misure che, a suo dire, avrebbero dovuto impedire gli abusi e invece…

GIULIANO MARRUCCI E da allora questi episodi sono diminuiti?

LAURA CECCHINI – CONSULENTE ADUC All’incirca le segnalazioni sono state le stesse.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A fine febbraio l’Antitrust ha perquisito nuovamente gli uffici di Tim; vuole capire se nella gestione della rete “wholesale”, cioè quella a cui hanno accesso gli altri operatori pagando a Tim un canone, gioca sporco. Ecco. A rimetterci sono gli utenti che non sono liberi di scegliere l’operatore più conveniente perché si rischia poi meno efficienza in caso di guasto. Siamo prigionieri di Tim: decide lei nell’ultimo tratto se portarti il doppino di rame o la fibra. E se quando navigate non andate veloci come promesso, come pubblicizzato, come pagato, il motivo c’è e spesso non è quello che vi raccontano gli operatori telefonici. Giuliano Marrucci.

TG1 DEL 07/04/2016 Il futuro si chiama Banda larga.

TG1 DEL 11/07/2017 La copertura del paese in fibra sale al 72%.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Da un paio di anni non senti che parlare di fibra e banda larga.

SPOT TIM Benvenuti nel mondo della fibra di Tim. Grazie alla fibra puoi navigare da casa ad una velocità che ti sorprenderà e accedere in un attimo a tutti i contenuti che vuoi. TG1 DEL 07/04/2016 Stiamo parlando di una velocità di connessione garantita di un gigabit al secondo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Lorenzo è un collega della redazione. L’operatore è Tim e il contratto si chiama Fibra 200 mega.

GIULIANO MARRUCCI E invece a quanto navighi?

LORENZO DI PIETRO Guarda, questo è uno screenshot di luglio, andavo a 49 mega, questo è dicembre, 48 mega, gennaio 49…

GIULIANO MARRUCCI E questa cosa qua è regolare?

LORENZO DI PIETRO È normale che non si vada a 200. Però il contratto dice che il mio minimo garantito è 50, io sono addirittura sotto.

GIULIANO MARRUCCI E Telecom che dice?

LORENZO DI PIETRO Eh, che dice...

OPERATORE TIM – 23/11/2017 In effetti sta navigando al di sotto del minimo garantito, perché ho verificato e c’è un problema di saturazione di un apparato in centrale. Questo problema dovrebbe essere risolto entro sabato 25.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sabato 25 passa, si arriva al 30 e la versione cambia. OPERATORE TIM – 30/11/2017 Non è un problema di intasamento, perché è l’allineamento il problema; per cui chi le ha detto questo o non ne capisce nulla o cercava di prenderla in giro.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E dopo altri 2 giorni.

OPERATORE TIM – 2/12/2017 Mi può spiegare meglio qual è il problema?

LORENZO DI PIETRO No, mi scusi, c’è uno storico delle segnalazioni, come fa a non sapere di cosa si tratta?

OPERATORE TIM – 2/12/2017 Se le mandassi il tecnico per delle verifiche, le verrebbe anche addebitato l’intervento da 100 euro perché non c’è nessuna situazione migliorabile.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E Lorenzo non è certo un’eccezione. Qui siamo a Sesto San Giovanni, in un blocco di quattro condomini industriali dove oggi ci sono una ventina di aziende, tra cui questa che fa componenti per la refrigerazione industriale. Anche in quest’area gli operatori telefonici pubblicizzano la connessione veloce.

GIULIANO MARRUCCI Veloce quanto?

LORENZO D’ALESSANDRO – IMPRENDITORE MAGGETTI SRL 30 mega in download e tre in upload.

GIULIANO MARRUCCI E poi quando sei andato a vedere a quanto andava?

LORENZO D’ALESSANDRO - IMPRENDITORE MAGGETTI SRL Andava a nove in download e 0,9 in upload.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E quelli erano bei tempi. Oggi siamo a 5,7 in download e 0,9 in upload, quando il contratto dice che la velocità minima dovrebbe essere rispettivamente 21 e 1,2.

GIULIANO MARRUCCI E perché allora non lo chiudi questo contratto qua?

LORENZO D’ALESSANDRO - IMPRENDITORE MAGGETTI SRL Perché Telecom Italia è l’unico operatore che porta qui internet.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il problema è che gli operatori telefonici spacciano per fibra, anche quella che non lo è. La rete funziona così: prima ci sono le dorsali. Le dorsali arrivano alle centrali. Dalle centrali si va agli armadi di strada e dagli armadi si arriva alle case. Prima era tutto in rame. Poi s’è cominciato a stendere fibra fino alle centrali ed è nato l’adsl, che dovrebbe andare fino a circa 20 megabit al secondo. Quando dalla centrale la fibra si porta all’armadio, si ha il Vdsl, che dovrebbe andare tra i 30 e i 100 mega e che ci vendono come fibra. In realtà però la vera fibra si ha solo quando anche l’ultimo pezzo di rame viene sostituito e si hanno connessioni nell’ordine del gigabit al secondo, e riguarda soltanto le aree verdi della cartina.

GIULIANO MARRUCCI Cioè fino ad oggi c’hanno venduto un po’ mele per pere?

PAOLO ANASTASIO – KEY4BIZ.IT Sicuramente sì. É pubblicità ingannevole.

GIULIANO MARRUCCI Fuori dall’Italia invece come funziona?

PAOLO ANASTASIO – KEY4BIZ.IT In Francia per esempio 2 anni fa hanno stabilito che la vera fibra potesse essere pubblicizzata come tale soltanto se arriva fin dentro all’appartamento del cliente finale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tim è stata multata per 4,8 milioni perché, rileva l’Authority per la Concorrenza, «sulla fibra ottica ha omesso di informare sulle reali caratteristiche del servizio offerto». Ora, se negli anni ‘80 si scambiavano 15 Gigabyte in un anno sull’intera rete mondiale, oggi si scambiamo in un centesimo di secondo. E il traffico è destinato a triplicare nei prossimi cinque anni. Se non ci adeguiamo rischiamo “l’effetto imbuto”. E pensare che negli anni ‘70 eravamo stati i primi a cablare una città con la fibra ottica: Torino. Abbiamo fatto negli anni il piano nazionale per la banda larga, quello per l’ultra larga, abbiamo istituito una società pubblica, Infratel, occhio e braccio del Governo sui lavori per la cablatura in fibra ottica; abbiamo istituito Open Fiber, metà Enel e metà Cassa Depositi e Prestiti, per dare anche una smossa a Tim. Ma abbiamo fallito tutti gli obiettivi che ci eravamo prefissi. Ora l’Europa alza ulteriormente l’asticella e dice: entro il 2025 tutti gli edifici scolastici, pubblici, i distretti industriali e le grandi città devono viaggiare connessi ad una velocità di un Gigabit al secondo e tutto il resto almeno a 100 Megabit. Insomma, noi invece… ci sono zone dove viaggiamo ancora col doppino di rame.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Siamo nel comune di San Martino di Lupari, a 40 km da Padova. E qua nel 2013 Infratel, la società in-house del ministero dello Sviluppo Economico, che si occupa di telecomunicazioni, decide di prendere la fibra dall’esterno della centrale Telecom e portarla giù, giù lungo questa strada a una frazione a 5 km di distanza.

GIULIANO MARRUCCI Arriviamo in via Barichella, dove, cosa succede?

GERRY BORATTO – SINDACO SAN MARTINO DI LUPARI E qua la fibra si ferma e muore. Nel senso: non è accesa, non è utilizzabile.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qua siamo a cavallo tra Abruzzo e Molise, dove quel poco di banda che c’è, la porta Nicola Menna con il wireless, gratis.

GIULIANO MARRUCCI Da quant’è che fate ‘sto lavoro?

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE Gratuitamente? Dall’anno scorso. I clienti che hanno difficoltà e che non hanno trovato alternative, con un grande sforzo, stanno comunque ottenendo il collegamento, gratis, lo ribadisco.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Eppure anche qua soldi pubblici per portare la fibra ne sono stati spesi in abbondanza. Qua siamo fuori dalla centrale Telecom di Montefalcone nel Sannio.

GIULIANO MARRUCCI Quindi qui, al pozzetto qua, ci s’è portata con soldi pubblici, giusto?

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE Sì, c’è proprio scritto.

GIULIANO MARRUCCI Però qua almeno l’adsl ce l’avranno!

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE No, assolutamente no, non c’è. Sono i misteri di Telecom.

GIULIANO MARRUCCI Quindi c’è la centrale Telecom qua, hanno portato la fibra, però il servizio?

VOXPOP Ancora non è attivo.

GIULIANO MARRUCCI Ma vi hanno detto che l’attiveranno primo o poi?

VOXPOP Mmmm, non ci credo…

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Poco distante di fibra ne sono stati posati ben 27 chilometri, che arrivano in questo pozzetto qua, a Castelguidone.

GIULIANO MARRUCCI Quindi a 50 metri dal pozzetto Infratel ci sono gli armadietti Telecom.

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE E tutto si ferma qua.

GIULIANO MARRUCCI Cioè da qua non c’è Adsl per il paese.

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE C’è solo esclusivamente il doppino Telecom che va in paese, ma solo per il servizio telefonico. Quando funziona; perché spesso e volentieri per settimane si resta anche senza telefono.

GIULIANO MARRUCCI Questa è la manutenzione degli armadietti, fammi vedere un po’ là.

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE Sì, è a disposizione del pubblico; chiunque arriva può venire e staccare tutto.

GIULIANO MARRUCCI Insomma un po’ l’infrastruttura per l’industria 4.0.

NICOLA MENNA - TELECOMUNICAZIONI ABRUZZO E MOLISE Eh sì, è già pronta per il 5G.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO 22 febbraio, tribunale di Cagliari. Si dovrebbe celebrare la prima udienza del primo processo per reati avvenuti durante i lavori per la posa della fibra ottica.

CHIARA D’AMBROS Cos’è successo invece?

MASSIMO COSTANTINO PODDIGHE - PRESIDENTE II SEZIONE PENALE TRIBUNALE DI CAGLIARI Il processo è stato rinviato perché io sono stato trasferito a un altro ufficio e ci sarà un nuovo collega che lo inizierà ex novo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO I reati sono: truffa ai danni dello Stato, frode, estorsione e concussione. A processo due degli impiegati della ditta che aveva vinto l’appalto da 7 milioni per la banda larga in Sardegna, ma anche l’ingegnere di Infratel, che su quella gara avrebbe dovuto vigilare. La truffa ruoterebbe attorno agli scavi. La ditta che ha vinto l’appalto ha dichiarato di aver scavato su strade asfaltate o cementate e invece avrebbe scavato su sterrato. A denunciare è stato Stefano Piga, l’uomo a cui gli scavi erano stati dati in subappalto.

GIULIANO MARRUCCI E qual è la differenza di costo?

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE La differenza del costo è che lo scavo su sterrato costa 16 euro, lo scavo su asfalto costa 38 euro.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qui siamo sulla tratta che da Guspini porta ad Arbus. I primi 1.200 metri sono su asfalto.

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE Ok, qui siamo arrivati sull’asfalto, attraversamento, altro pozzetto qui, poi da qui fino ad Arbus è tutto su sterrato.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO In tutto sono 2,8 chilometri su asfalto. Che però nel rendiconto presentato a Infratel, per magia, diventano 4. Altro giro, stessa storia. Tratta che da Monastir porta a Ussana.

GIULIANO MARRUCCI Quindi sono 900 metri di asfalto e tre chilometri e due di sterrato.

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE Esatto. In tutto erano quattromila e cento metri.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma nel riepilogo sono tutti su asfalto e manco un metro di sterrato.

GIULIANO MARRUCCI Che però si tenevano tutto in tasca loro perché a te pagavano…

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE Sedici euro al metro, meno il 20 per cento, meno i materiali. GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Quando scavi su asfalto poi lo devi anche ripristinare buttandoci nuovo bitume, che ti viene pagato 6 euro al metro quadrato. E l’azienda nel riepilogo ha dichiarato che per ogni metro lineare ha steso 2,5 metri quadrati di bitume, cioè il ripristino dovrebbe essere largo 2 metri e mezzo, e invece…

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE Questo è il ripristino.

GIULIANO MARRUCCI Quindi meno; non è nemmeno un metro, insomma.

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE È un metro, più o meno.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Al danno si somma la beffa, perché nei posti dove è stata portata la fibra spendendo più del dovuto, non è servita a granché.

GIUSEPPE DE FANTI – SINDACO DI GUSPINI Il cuore produttivo di Guspini è la zona Pip, che è circa a due chilometri e mezzo, è un’area estesa per 65 ettari, con 50 aziende che operano, 350 addetti e diciamo che hanno un servizio praticamente assente.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Tra le principali aziende della zona Pip c’è la Essedi, che impiega una quarantina di persone e di mestiere distribuisce materiali edili innovativi prodotti da una rete di piccole aziende sarde e ricavati da ciò che prima finiva in discarica.

OSCAR RUGGERI - ESSEDI Qui vedi abbiamo tavoli di terra. Oppure realizziamo pareti grazie al sughero o grazie alla canapa. Addirittura dalle olive, per ottenere questa finitura qui, riusciamo a fare una lisciva con la sansa che recuperiamo dalla produzione delle olive.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per connettersi al resto della filiera l’unico mezzo è questa antenna che comunica con un ufficio del centro del paese dove arriva una specie di adsl.

GIULIANO MARRUCCI Che però quando arriva qua va un decimo di quanto va là.

OSCAR RUGGERI - ESSEDI Sì e poi è soggetta alle intemperie. Questi ponti sono ovviamente un po’ instabili. Ieri mio figlio tentava di scaricare un documento, 4 gigabyte, ci vuole sì del tempo, ma in quel momento gli dava 115 giorni di attesa. Quindi ho detto “aspetta un pochino”.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Invece che portare la fibra nella zona industriale l’hanno portata verso l’ex area mineraria di Montevecchio e poi ancora oltre verso il nulla.

GIULIANO MARRUCCI Quanti chilometri saranno?

GIUSEPPE DE FANTI – SINDACO DI GUSPINI Mah, sono almeno 25, 30 chilometri di fibra che sono stati stesi. GIULIANO MARRUCCI E chi la sua oggi quella fibra?

GIUSEPPE DE FANTI – SINDACO DI GUSPINI Non la usa nessuno, perché non è collegata poi con le utenze. GIULIANO MARRUCCI E da quant’è che sono lì inutilizzati?

GIUSEPPE DE FANTI – SINDACO DI GUSPINI Mah, sono almeno 8, 9 anni.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il fatto è che fino ad oggi la strategia è sempre stata quella di portare fibra con soldi pubblici e poi sperare che Telecom completasse la copertura investendo di tasca sua. Ma dopo dieci anni, le utenze collegate con vera fibra sono meno del tre per cento; il 50 per cento non ha neanche il vdsl e l’Italia è al ventottesimo posto su 31 per connettività. Nel 2015 il Governo decide di mettere a disposizione di Infratel altri 4 miliardi di euro, per trovare chi è disposto a portare fibra nelle aree dove si continua ancora a viaggiare sotto i 30 megabit al secondo. Le hanno ribattezzate aree bianche, e per individuarle hanno fatto un censimento tra gli operatori. Ma qualcosa non torna. Massimo vive a Rovato, 15 minuti da Brescia, dove secondo Telecom il vdsl c’è già.

GIULIANO MARRUCCI E invece, eccolo, 12 mega in download e 3 in upload. Quindi oggettivamente non siamo in banda ultralarga. MASSIMO VITALE Oggettivamente no.

GIULIANO MARRUCCI Però per il bando Infratel, questa non è area bianca.

MASSIMO VITALE Per il bando che hanno già firmato non era area bianca, era un’area grigia, quindi dove un operatore privato avrebbe investito.

GIULIANO MARRUCCI Perché Telecom aveva detto che portava l’Fttc.

MASSIMO VITALE Con la Telecom hanno effettivamente poi coperto l’area che hanno dichiarato, però non si era tenuto conto della distanza degli utenti dall’armadio collegato in fibra. Oltre i 500 metri la vdsl decade in maniera veramente assurda.

GIULIANO MARRUCCI E invece qua?

MASSIMO VITALE Qua siamo a un chilometro e due…

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E qua almeno l’armadietto di strada c’è. A Sesto San Giovanni invece manco quello.

LORENZO D’ALESSANDRO – IMPRENDITORE MAGGETTI SRL Non siamo serviti da un cabinet in strada, ma con un cavo, che viene chiamato rigido, direttamente dalla centrale Telecom, che dista 1,6 chilometri. E quindi il segnale arriva molto degradato.

GIULIANO MARRUCCI E ciò nonostante la chiamano fibra.

LORENZO D’ALESSANDRO – IMPRENDITORE MAGGETTI SRL Continuano a chiamarla fibra e anzi fanno delle promozioni addirittura per attivare la 100 mega, ma se io già non riesco a raggiungere i…

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per fortuna che nel 2017 è stato fatto un altro censimento e le abitazioni servite da rete rigida o quelle che distano più di 500 metri dall’armadietto di strada, sono state finalmente ricomprese tra le aree bianche.

GIULIANO MARRUCCI E quindi il progetto definitivo di Infratel in quest’area viene modificato?

MASSIMO VITALE Non modificano i bandi già firmati, alt.

GIULIANO MARRUCCI E quindi ti hanno detto che faranno un nuovo bando ad hoc.

MASSIMO VITALE Ci sarà un bando ad hoc, dopo i primi tre, che sono già…

GIULIANO MARRUCCI E quando ti è stato detto questo?

MASSIMO VITALE Mah, sarà stato ottobre.

GIULIANO MARRUCCI Ora è febbraio-marzo, ci sono news? Ci sono novità?

MASSIMO VITALE Al momento nulla.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO A vincere i bandi Infratel è stata Open Fiber, la società voluta dal Governo i cui azionisti sono Enel e Cassa Depositi e Prestiti e che è riuscita a offrire sconti sulla base d’asta fino a oltre il 50 per cento. Il problema però è che nella catena di appalti e subappalti poi questi sconti qualcuno li paga. A Cagliari pochi giorni fa un operaio di 66 anni, che mentre stendeva fibra ha perso una mano. Protetti dall’anonimato per paura di perdere il lavoro, gli operai ci raccontano le condizioni di lavoro a cui sono costretti per posizionare la fibra. OPERAIO 1 A livello di sicurezza non c’è niente. Se devo fare un pozzetto non ho uno che mi sta davanti che mi guarda se c’è il gas. Io devo lavorare da solo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il problema è sempre lo stesso: chi controlla come girano le cose in chi appalta e subappalta?

LAURA SETTE – AVVOCATO DEL LAVORO Open Fiber, dà l’appalto che io sappia a tre società che sono Sirti spa, Sittel spa e Siat installazioni.

GIULIANO MARRUCCI Ok. E queste tre fanno direttamente i lavori?

LAURA SETTE – AVVOCATO DEL LAVORO No, non hanno più le strutture, gli operai, le macchine per poter effettuare queste lavorazioni. I singoli contratti poi vengono spezzati in tanti piccoli contrattini di subappalto. STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE L’appalto che ho fatto io della Imet, la Imet non aveva nessun dipendente in Sardegna, aveva solo un ufficio a Decimo Mannu con nessun dentro.

GIULIANO MARRUCCI Scusa, non c’è un limite ai subappalti, il 30 per cento?

STEFANO PIGA – EX IMPRENDITORE Sì. I subappalti che avevo io erano autorizzati da Infratel solo per il 30 per cento.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Secondo i sindacati, molte delle piccole aziende subappaltatrici barano sui contratti. OPERAIO 1 Forse non ci siamo capiti. Sono riuscito a prendere, forse uno stipendio e una parte di un secondo e poi di nuovo è sparito. OPERAIO 2 E ci siamo ritrovati a lavorare per lui quasi gratis. OPERAIO 1 Adesso ha aperto un’altra ditta. E lui riesce a lavorare così.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Eppure, invece di risparmiare sulla sicurezza e sulla pelle degli operai, si potrebbe applicare un sistema virtuoso.

MAURIZIO MATTEO DÈCINA – ESPERTO TELECOMUNICAZIONI Il 70 per cento dei costi di una rete in fibra ottica sono costituiti dagli scavi.

GIULIANO MARRUCCI Però noi di tubi sottoterra tra acqua, gas e chi più ne ha più ne metta, ne abbiamo già abbastanza, non potremmo usare quelli?

MAURIZIO MATTEO DÈCINA – ESPERTO TELECOMUNICAZIONI Certamente, manca allo stato attuale un catasto delle reti.

GIULIANO MARRUCCI Cioè, noi non sappiamo esattamente sti tubi dove sono, quanto sono larghi.

MAURIZIO MATTEO DÈCINA – ESPERTO TELECOMUNICAZIONI Esatto.

GIULIANO MARRUCCI Ma non era un impegno di legge creare questo catasto?

MAURIZIO MATTEO DÈCINA – ESPERTO TELECOMUNICAZIONI Sì, era stato un impegno di legge, solo che ci sono state tantissime difficoltà.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qui siamo a Mariano Comense, in provincia di Como. E questa è una microtrincea scavata da poco da Telecom per portare fibra ai suoi armadietti. Eppure avrebbe potuto fare a meno di scavare.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER Semplicemente qui c’è un’infrastruttura in microtrincea e qui a fianco c’è un pozzetto che porta dentro i tubi disponibili per evitare gli scavi. Tutto qua. Considerando che gira anche di là e va in alto, saranno, boh… 500 metri, 600.

GIULIANO MARRUCCI Lungo tutti i 5-600 metri passano due tubi accanto. Due scavi, proprio a 50 centimetri l’uno dall’altro.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER Sì, proprio così.

GIULIANO MARRUCCI E quando poi invece voi siete andati a chiedere di usufruire di quelle infrastrutture. Cosa vi hanno detto?

MARCO LISS - ASSOPROVIDER Diniego.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per risparmiare c’è ancora un’altra opzione. Si chiama fixed wireless access e permetterebbe di portare banda senza stendere cavi.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER La stessa comunità europea dice che il wireless non licenziato è una valida alternativa al cabinet dell’Fttc.

GIULIANO MARRUCCI Quindi all’ultimo miglio in rame.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER All’ultimo miglio in rame. Noi con il wireless non licenziato consegniamo anche i 100 megabit, con prestazioni simili, ma molto simili alla fibra ottica.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il problema del wireless semmai sta a monte e cioè: come porti banda a sufficienza ai ripetitori. Le opzioni sono due. La prima è portargliela con dei ponti radio.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER La cosa difficile è data dal fatto che le licenze sono tra le più care d’Europa.

GIULIANO MARRUCCI Quanto più care del resto d’Europa?

MARCO LISS - ASSOPROVIDER Almeno dieci volte di più.

GIULIANO MARRUCCI Almeno dieci volte.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER Ma non solo dieci volte di più del resto d’Europa, ma dieci volte di più anche degli stessi operatori televisivi che usano le stesse frequenze, ma le pagano dieci volte di meno. GIULIANO MARRUCCI Il paradosso è che far pagare così tanto le licenze non è che porti soldi allo Stato, semplicemente la gente le licenze non le compra e le licenze stanno lì morte.

MARCO LISS - ASSOPROVIDER Esatto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO La seconda opzione consiste nel mettersi d’accordo con i piccoli operatori e portargli fibra fino ai ripetitori.

DINO BORTOLOTTO - ASSOPROVIDER Quindi si porta fibra fino dove ha senso portarla e dopodiché si integra questa fibra con un segnale radio. Gli investimenti dello Stato dovrebbero essere realizzati in modo tale da fornire quel pezzo che a questi soggetti manca.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO È il modello emiliano, dove l’azienda pubblica di telecomunicazioni, ha steso 85mila chilometri di fibra per connettere tutte le pubbliche amministrazioni.

GIANLUCA MAZZINI – LEPIDA SPA Ma poi abbiamo messo queste infrastrutture a disposizione degli operatori per fare coperture a cittadini e imprese in zone dove c’era fallimento di mercato. Alcuni di questi non esistevano e sono nati proprio grazie alla presenza della rete Lepida, che gli ha consentito di fare dei business laddove non c’era nessuno che gli trasportava banda.

GIULIANO MARRUCCI Con che soldi si fa questa roba qui?

GIANLUCA MAZZINI – LEPIDA SPA Noi spendiamo circa da un settimo a un decimo del valore che costerebbe andare a comprare sul mercato la stessa connettività.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E anche Infratel e Open Fiber tengono conto dei piccoli operatori?

DINO BORTOLOTTO - ASSOPROVIDER No. Non mi risulta. Il grosso problema è che noi utilizziamo denaro pubblico per infrastrutturare i territori, mettiamo questo denaro pubblico nelle mani di pochi grossi soggetti e non abbiamo nessun meccanismo per garantire che il territorio sia in grado di alzare la manina e dire a me il cavidotto serve qui, ma non qui.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La fibra è vitale per lo sviluppo di un paese. Poi alle porte abbiamo il progetto dei cloud – giganteschi server remoti - con cui si interfacceranno cittadini privati e aziende al posto del vecchio pc. Ecco. E poi se venisse applicata l’agenda digitale europea incrementerebbe il Pil del 5% e si creerebbero 4 milioni di nuovi posti di lavoro. Nel ‘95, la vecchia Telecom statale, aveva progettato di portare la fibra in 10 milioni di appartamenti. Poi nel ’97, una volta diventata privata il progetto è naufragato. Ora Tim è in mano ai francesi di Vivendi e per garantire la gestione trasparente di una rete considerata strategica per lo sviluppo economico e sociale di un paese, il governo italiano, ha applicato il Golden Power, ma il membro delegato ha rinunciato e quindi siamo scoperti. La partita futura è proprio sulla rete che in gran parte è in rame e ha in pancia parte di quei debiti, 25 miliardi di euro, del gruppo Tim. Ovviamente i giocatori sono i francesi di Vivendi, che vorrebbero tenersela magari scorporandola, e gli americani del fondo Elliot e la nostra Cassa Depositi e Prestiti. Vedremo chi vincerà e quale sarà il futuro. 

Marco Sabella per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2020. L'obiettivo è mettere un freno ai tanti sindaci che nei mesi scorsi hanno imposto limitazioni e divieti all'installazione delle antenne necessarie allo sviluppo della nuova rete 5G. In tutto sono oltre 500 i Comuni che hanno adottato ordinanze per impedire agli operatori di tlc di procedere con i lavori e proprio questo lungo elenco di enti locali è quello che da subito dovrà fare i conti con la norma inserita nel decreto Semplificazioni. In sostanza, il governo ha predisposto una modifica alla legge del 2001, che disciplinava le regole per l'insediamento di antenne e reti per le infrastrutture di tlc, sterilizzando i poteri dei sindaci in materia. In base alla nuova norma del decreto i primi cittadini «non potranno introdurre limitazioni alla localizzazione sul proprio territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualunque tipologia e non potranno fissare limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici diversi rispetto a quelli stabiliti dallo Stato». La mossa del governo, insomma, pare fondata sulla necessità di garantire il percorso di realizzazione della rete 5G, evitando veti e stop a livello locale a quella che dovrebbe essere l'infrastruttura indispensabile al processo di modernizzazione e digitalizzazione del Paese. Una priorità segnalata, del resto, anche nella relazione consegnata al governo dalla task force coordinata da Vittorio Colao, rammentando l'esigenza di «escludere l'opponibilità locale» alla realizzazione di nuove infrastrutture. Resta che a livello locale è destinata a montare la protesta dei sindaci. Uno dei primi a farsene interprete è il primo cittadino di Vicenza, Francesco Rucco, che lamenta: «La decisione del governo vieta ai sindaci di intervenire con un'ordinanza a tutela della salute pubblica per quanto riguarda il tema dell'esposizione ai campi elettromagnetici. Viene resa così inefficace l'ordinanza che ho firmato nel maggio scorso, come le tante altre ordinanze emesse dai sindaci di tutta Italia. In questo modo, pertanto - dice Rucco -, il governo esautora i sindaci che rappresentano la massima autorità sanitaria locale e che quindi hanno la responsabilità della salute dei cittadini». A protestare è anche il presidente di Anci Veneto, Mario Conte, che osserva: «Una limitazione all'autonomia dei sindaci su un tema delicato che tocca da vicino le comunità e il paesaggio». Ma il fronte per i sindaci è duplice, poiché molti operatori di tlc hanno fatto ricorso al Tar contro le ordinanze dei Comuni. In alcuni casi, come a Messina, il Tar siciliano si è già espresso, accogliendo la richiesta di Vodafone di sospendere l'ordinanza anti 5G adottata dal Comune. La decisione dei giudici amministrativi evidenzia, tra l'altro, che la valutazione sui rischi sanitari è di esclusiva competenza dell'Arpa, l'Agenzia regionale per la protezione ambientale.

Bruno Ruffilli per “la Stampa” il 13 luglio 2020. Un clic, e sul computer compare Edward Snowden. È in collegamento da Mosca per la quarta edizione di Campus Party, quest' anno interamente online. Affabile e gentile, l'uomo che nel 2013 ha rivelato l'esistenza di sistemi di sorveglianza digitale che spiano mezzo mondo, parla di privacy e social network, di fake news e 5G con quattro giornalisti da diversi Paesi, tra cui La Stampa per l'Italia. Ma - visto che il tema della discussione è «Reboot the world», far ripartire il mondo, iniziamo dall'attualità: «Il lockdown per me è stato duro, ma non così diverso dalla vita di tutti i giorni negli ultimi sette anni», spiega.

Per milioni di persone il lockdown ha significato rimanere in casa e guardare la realtà attraverso uno schermo.

«Questo ha messo una distanza ancora maggiore tra noi e il mondo, siamo testimoni e non prendiamo parte a quello che succede. Ma è il momento di chiedersi se abbiamo mai detto di essere d'accordo con questa visione del futuro. In realtà la nostra risposta non importa a nessuno: i governi hanno le leggi, la polizia le pistole, Facebook dice solo "clicca Ok e continua". E se non lo fai, non puoi andare da nessuna parte, perché controllano le regole, e con queste le piattaforme, e con le piattaforme l'opinione pubblica. Così ci separano da quella che consideriamo una vita normale, e danno per scontato che ci stia bene la situazione attuale. La scelta è forzata, non abbiamo alternative, e i termini d'uso possono essere modificati unilateralmente senza preavviso, sia che si tratti di un social network che di un governo. Ma le persone stanno cominciando a capire che si può fare qualcosa per cambiare».

Cosa?

«Essere consapevoli di avere un peso nelle scelte che ci riguardano. Per personaggi come Trump, Orbán, Bolsonaro, i presidenti a vita di Cina e Russia, nulla è vietato o impossibile, mentre il minimo errore che una persona qualsiasi fa rimane cristallizzato per sempre in archivi che non ci appartengono. Dobbiamo lottare e fare sacrifici, il cambiamento non arriva dalle concessioni del potere, bisogna guadagnarselo, impegnandosi attivamente».

E con il coronavirus la situazione è cambiata?

«Mi pare che molti abbiano compreso il senso delle disposizioni a tutela della salute pubblica nei vari Paesi, in generale c'è stata empatia e attenzione al prossimo. Sono preoccupato però dall'ondata crescente di autoritarismo: più che imporre regole sarebbe stato giusto spiegarle. E poi vedo che spesso i pareri di scienziati ed esperti sono stati messi in discussione o ridicolizzati».

Il che ci porta al 5G, su cui la narrativa è assai variegata: da una parte chi dice che fa male alla salute, dall'altra chi lo considera un pericolo per la sicurezza nazionale. Ma Trump ha ragione a non fidarsi dei cinesi?

«La realtà non è mai bianca o nera: come ho spiegato nel 2013, Usa, Regno Unito, Australia Nuova Zelanda e Canada, hanno raccolto i dati di milioni di persone, con le reti 1G 2G, 3G e 4G. Alla NSA (National Security Agency, l'organismo del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d'America per il quale collaborava Snowden, ndr), non si può portare lo smartphone in ufficio: il timore è che qualcuno possa utilizzarlo per spiare. Noi lo facevamo, quindi anche altri potevano farlo. Il 5G è il nuovo standard mondiale di trasmissione dati, e i cinesi sono leader del mercato, con prodotti migliori e più economici. Come poi ci siano arrivati è un altro discorso. Se qualche agenzia di intelligence avesse le prove che Huawei spia le nostre comunicazioni, Paesi come Canada e Germania non sprecherebbero denaro per studiare la questione. Ma possiamo lasciare che l'infrastruttura digitale di una nazione sia controllata da un'azienda straniera? La risposta per la Cina è no. Ci fidiamo di Germania, Svezia, di altri, ma gli Usa non producono questi apparecchi in casa e quindi sono esposti a una certa vulnerabilità che aumenta con l'aumentare delle aziende e dei Paesi coinvolti. Così la narrativa su Huawei non è onesta, è chiaro che sarebbe più facile controllare la rete se questa fosse realizzata da aziende con cui gli Usa collaborano già da decenni: si tratta di potere più che di sicurezza».

A proposito di sicurezza, le app di tracciamento come l'italiana Immuni sono state presentate come un strumento tecnologico efficace per controllare la pandemia: ma una volta finita, non c'è il rischio che i dati che generano possano essere usati per altri scopi?

«Ho studiato i documenti della piattaforma Apple e Google (su cui è basata anche Immuni, ndr): non c'è una data di scadenza, ma devo dire che è migliore delle alternative nazionali; l'app di contact tracing australiana, ad esempio, è un incubo per la privacy, registra moltissimi dati e li invia ai server. Con Apple e Google le informazioni invece rimangono sullo smartphone, vengono condivise volontariamente e solo in caso di contagio; l'idea è rispettare le persone, dare a ciascuno il controllo dei suoi dati. Il modello è migliore del passato, ma possiamo fidarci? In questo caso, i giganti della tecnologia aiutano i governi, ma agiscono prima che ci siano delle leggi che impongono loro di farlo in un determinato modo, e questo è motivo di preoccupazione. Esistono già registri delle nostre attività ampi e dettagliati, e non credo che questo sia compatibile con una società libera, ma come facciamo a sapere se i dati di riconoscimento facciale di un'app non vengono trasmessi ad esempio alla Cina, che ha una tutela della privacy molto diversa dalla nostra? E infine, tornando al contact tracing, credo sia utile per piccoli focolai, ma se sono migliaia o decine di migliaia potrebbe essere troppo tardi».

Facebook è tra le aziende che più di tutte ha accesso ai nostri dati personali. Ma il dilemma che deve risolvere è un altro: il traffico arriva per la gran parte da fake news, discorsi di odio e opinioni radicali, esattamente quei contenuti che Zuckerberg dice di voler rimuovere. Possiamo credergli?

«Molti dei problemi di Facebook sono problemi dell'umanità, che si riflette nel social network: violenza, terrorismo, ignoranza, bugie. Non dobbiamo aver fiducia di Zuckerberg, ma nel senso che Facebook, YouTube, Google e altre piattaforme non devono decidere quello che noi possiamo dire e fare. I governi hanno le leggi per punire questi reati, quando ci sono, e invece lasciano la responsabilità alle piattaforme, che a loro volta la riversano sui governi. Oggi ognuno ha la possibilità di essere ascoltato, ma ad avere maggiore impatto sono quei messaggi che coinvolgono le emozioni. Internet non è più un bambino, è un adolescente in preda a sentimenti diversi, che fa ancora fatica a comprendere. Sono convinto che la tecnologia maturerà e che maturerà la nostra relazione con essa: un giorno cominceremo a ragionare, non sarà più l'emozione a farci cliccare un link. E ci renderemo finalmente conto del valore della nostra partecipazione».  

Tutta la verità sul 5G. Jaime D'Alessandro il 23 aprile 2020 su La Repubblica. Qualcuno sostiene che sia l'origine dei nuovi problemi del mondo ma non c'è un solo studio scientifico serio che lo dimostri. E spesso ci si concentra sulle onde millimetriche, "fonte di letalità" (tutta da dimostrare) che per ora nessuno adopera. Insomma, una storia infinita, dove la ricerca della verità è scarsa e la voglia di cospirazionismo è tanta. Vediamo perché. Il dottor Thomas Cowan nel 2018 ha pubblicato un saggio intitolato Vaccines, Autoimmunity, and the Changing Nature of Childhood Illness, che potremmo tradurre con “Vaccini, autoimmunità e natura mutevole della malattia infantile”, dove mette in dubbio l’efficacia dell’immunoprofilassi. Lo scorso anno ha dato invece alle stampe Cancer and the New Biology of Water, "Cancro e la nuova biologia dell'acqua", nel quale espone le sue idee in fatto di cure alternative ai tumori. Ma il 12 marzo Cowan, un passato nelle forze di pace ed esponente della antroposofia steineriana applicata alla medicina, ha deciso che era la volta di prendersela con il 5G. In un video pubblicato su YouTube, girato allo Health And Human Rights Summit a Tucson, sostiene l’esistenza di un rapporto di effetto e causa fra il Coronavirus e le nuove reti ultra veloci per le telecomunicazioni.

Il filmato che accusa rimosso da Google. “Storicamente ad ogni pandemia corrisponde un picco nell’elettrificazione del pianeta”, racconta in quel filmato - ora rimosso da Google - l’ex medico di San Francisco, sospeso dall’ordine della California il 10 maggio del 2017. Prima le onde radio, poi i radar, seguiti dai satelliti negli anni Sessanta e ora il Covid-19. E' esploso in una città cinese, Wuhan, dove il 5G è stato introdotto in una prima fase di test a settembre del 2019. Le epidemie sarebbero una risposta ad agenti carcerogeni: “Le cellule si ritrovano avvelenate e cercano di pulirsi eliminando i detriti, che chiamiamo virus” e la contagiosità elevata sarebbe riconducibile ai sistemi per le telecomunicazioni. Il video è stato visto da 660mila persone. Una volta condiviso su Facebook si sono però moltiplicate. I dieci filmati cospirazionisti più popolari sul 5G causa della pandemia, hanno superato sei milioni di visualizzazioni mentre la teoria tocca ormai 30 diversi Paesi, dall’Italia al Giappone.

Fuoco alle antenne. Nel weekend di Pasqua, in Gran Bretagna e poi Francia e Belgio, hanno iniziato a dare fuoco alle antenne 5G, con tecnici delle compagnie telefoniche presi di mira e insultati. “La maggior parte delle teorie cospirazioniste resta online, stavolta invece sta avendo un impatto reale sul mondo”, ha commentato amaro Alexandre Alaphilippe, a capo della DisinfoLab, ong di Bruxelles che si dedica a combattere la disinformazione.

Le stesse onde del 4G. “Io davvero non capisco: il 5G nella sua forma attuale usa le stesse onde del 4G”, spiega Nicola Blefari Melazzi, direttore del Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni (Cnit). “Di bande ne sfruttano diverse, ma quelle millimetriche che i complottisti sostengono essere nocive, non penetrano i muri. Servono a coprire aree aperte e affollate e in ogni caso nessuno le sta sfruttando ancora. Le torri date alle fiamme sono quelle che usano le frequenze 4G, che tutti noi usiamo da almeno sei anni”.

Le onde millimetriche. Già, le onde millimetriche, quelle che da sempre vengono additate come mortali, prima ancora che arrivasse il Covid-19. Il 5G ha una velocità teorica di gran lunga superiore rispetto alle reti del passato. Se con il 4G impieghiamo ad esempio circa 43 secondi per scaricare un film da un gigabyte, che erano ben quattro ore con il 3G, con la rete di quinta generazione il tempo di attesa scende sotto la soglia del secondo. Non solo. La latenza, quanto ci mette un segnale inviato dal nostro smartphone ad andare a destinazione e tornare indietro, si fa infinitesimale. Non significa solo il giocare online senza temere ritardi, ma soprattutto vuol dire poter connettere apparati produttivi che rispondono in tempo reale ai comandi o guidare veicoli anche a chilometri di distanza. Dall’industria all’agricoltura, dall’intrattenimento alle città smart, il 5G promette nel corso della sua evoluzione di cambiare le nostre vite. In prospettiva però.

Gli alberi abbattuti. Nel mondo ci sono appena 13 milioni di sim 5G su otto miliardi totali, 10 milioni delle quali in Cina, che possono sfruttare la rete più veloce solo dove è disponibile, nei Paesi dove è presente significa in genere nei centri delle maggiori città. Ericsson prevede che si arrivi a100 milioni di sim 5G attive entro fine 2020, quando il servizio sarà lanciato dal 20-25 per cento degli operatori nel mondo. Rispetto a quanto visto in passato, ha bisogno di più antenne con una potenza molto minore. In Italia è presente a macchia di leopardo ma anche da noi sospetti dietrologie e polemiche non mancano. C’è perfino chi vede il 5G dietro l’abbattimento di alberi nelle nostre città, abbattimenti a volte decisi da anni perché le piante sono malate o stanno distruggendo il manto stradale, e ormai sono circa 200 i comuni che hanno vietato l’istallazione di antenne sul proprio territorio.

Le invasioni aliene. Mentre sul Web si moltiplicavano le pagine che mettono in relazione la quinta generazione di reti mobili perfino con ipotetiche invasioni aliene, il network televisivo russo in lingua inglese RT America parla di “pericoloso esperimento sull’umanità”. E’ lo stesso canale che, come ricorda il New York Times, venne indicato dall’intelligence statunitense come fonte di continui tentativi di ingerenza nelle presidenziali del 2016. Più di recente, il 17 aprile, Luc Montagnier, premio Nobel per la medicina nel 2008 e già eletto eroe dai No Vax per le sue posizioni eterodosse, ha sostenuto durante un'intervista al canale francese CNews prima che il Coronavirus è il frutto di manipolazione umana, l'ibridazione con l'Hiv nel tentativo di trovare un vaccino per quest'ultimo, poi che il 5G a Wuhan avrebbe indebolito le difese immunitarie della popolazione aiutando la diffusione del virus. 

Radiofrequenze e tumori, legame improbabile. Musica per le orecchie di chi sostiene che le radiofrequenze, specie del 5G, siano cancerogene. Secondo l'Istituto superiore di sanità però, il legame fra queste e i tumori è improbabile. Tutte le indagini che hanno sostenuto un collegamento, senza provarlo, sono state condotte esponendo cavie a una dose massiccia e continuativa per diversi anni alle frequenze usate dal 2G e 3G. Compresa quella tossicologica del 2018 pubblicata dal Dipartimento della salute statunitense che spesso viene citata come esempio a supporto della tesi della pericolosità.

Ventottomila studi. Dagli anni 60 ad oggi sono stati prodotti oltre 28mila studi sul tema, senza dimenticare che se davvero le reti per le telecomunicazioni avessero una certa letalità, dovremmo vedere cadaveri per strada ogni giorno vista la diffusione capillare. “Anche se alcune ricerche suggeriscono una possibilità statistica di un aumento di rischio del cancro in chi usa di continuo il telefono, le evidenze non sono sufficienti per prendere misure precauzionali”, ha spiegato il dottor Frank De Vocht, consulente del Governo inglese in fatto di sicurezza delle reti mobili, all’indomani degli attacchi alle torri inglesi del 5G. Nel 2014 l’Organizzazione mondiale della sanità ha equiparato il pericolo a quello del mangiare verdure in salamoia che, per capirci, è nettamente inferiore al rischio legato al bere alcolici. Ci si concentra spesso sulle famose onde millimetriche, che nessuno ancora adopera, perché sarebbero le stesse dei forni a microonde. Se non fosse che i limiti stabiliti a livello internazionale, da noi sono per altro dieci volte più bassi, portano ad una possibile variazione della temperatura di qualche decimo di grado. “Davvero nulla rispetto a quel che può fare una batteria di uno smartphone durante un uso intenso”, prosegue Blefari Melazzi. “E poi le onde radio non sono ionizzanti: non hanno la forza di rompere in nostro Dna e causare danni a livello cellulare”.

Le verità scomode. Ma viene il dubbio che sia una guerra difficile da vincere malgrado le evidenze. In Italia, stando ai dati del Cnr, circa un quarto della popolazione crede che i canali ufficiali d’informazione nascondano verità scomode che invece sul Web trovano sbocco. E così si passa dal No Vax al No 5G, spesso cavalcati da politici in cerca di notorietà, fino alle teorie che lo vogliono causa della pandemia o a quelle che già accusano il vaccino anti Coronavirus, che non abbiamo ancora, di essere un veicolo per avvelenare l’umanità.

Dal 5G alla Terra piatta. Il riferimento culturale dell’ex dottore Thomas Cowan, come ricostruisce il blog Butac.it (Bufale Un Tanto Al Chilo) è L’arcobaleno invisibile di Arthur Firstenberg. Attivista newyorkese, classe 1950, è stato tra i primi a sostenere l’esistenza dell’elettrosensibilità. Aspirante medico, Firstenberg si è autodiagnosticato una nuova malattia: “ipersensività elettromagnetica”, che poi ha esposto per filo e per segno nel volume Microwaving Our Planet: The Environmental Impact of the Wireless Revolution del 2017. E’ da quel saggio che Cowan ha preso spunto per il suo video dove mette in relazione Wuhan, 5G e pandemia. Ma come Montagnier, omette di dire che le reti di nuova generazione sono state lanciate in contemporanea in altre quindici città cinesi. Così come da noi dove, oltre a Milano, nell’estate del 2019 sono apparse a Bari, Matera, L'Aquila, Prato e Roma. Anche l’origine dei "terrapiattisti", che negano la curvatura terrestre, viene fatta risalire dalla Texas Tech University ad un video di YouTube. Il 25 agosto del 2011 il comico americano canadese Matthew Boylan, in arte Marth Powerland, pubblicò un suo spettacolo del 2007 in francese dove poneva dubbi sulla corsa allo spazio della Nasa e in ultimo sul fatto che il nostro pianeta sia rotondo. Tre anni più tardi il suo canale TheNasaChannel era diventato il primo nucleo del terrapiattismo in chiave social. La fonte è di nuovo un testo misconosciuto ai più: Zetetic Astronomy: Earth Not a Globe che Samuel Birley Rowbotham pubblicò nel 1864. Rowbotham, un autodidatta, ebbe 14 figli, vendeva rimedi per varie malattie per vivere e brevettò diverse invenzioni tra le quali vale la pena ricordare il “vagone cilindrico su rotaia per la conservazione della vita”. Un corrispondente del Leeds Times di lui scrisse: “Una cose che aveva sicuramente dimostrato era che i dilettanti della scienza, non avvezzi a difendere una causa, non sono in grado di replicare a un ciarlatano intelligente e irremovibile nelle sue teorie che sa sfruttare le debolezze dei suoi avversari”.

Nuove linee guida per il 5G, nessun pericolo per la salute ma cautela con le alte frequenze. L'International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection a distanza di più di 20 anni ha aggiornato le linee guida per la protezione degli esseri umani dai campi elettromagnetici a radio frequenza. Nessuna rivoluzione, ma si consiglia cautela con le frequenze superiori ai 6 GHz. Dario D'Elia il 13 marzo 2020 su La Repubblica. "La cosa più importante che le persone devono ricordare è che quando queste nuove linee guida verranno rispettate le tecnologie 5G non saranno in grado di causare danni", ha assicurato il dottor Eric van Rongen, presidente dell'ICNIRP. L'International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection è una delle organizzazioni scientifiche non governative più prestigiose nel campo degli studi sulle radiazioni non-ionizzanti – quindi dalle emissioni solari, alle microoonde, fino ad arrivare alle emissioni radio. Mercoledì ha pubblicato le nuove linee guida per la protezione degli esseri umani dai campi elettromagnetici a radio frequenza; in pratica una serie di prescrizioni che dovrebbero proteggere popolazione e addetti ai lavori dai possibili rischi legati all'esposizione dei segnali 5G, 4G, 3G, radio AM e DAB, Wi-Fi e Bluetooth. 

Linee guida basate sulla letteratura scientifica. La principale novità riguarda indicazioni più dettagliate e rigorose nei confronti delle frequenze al di sopra dei 6 GHz, che verranno impiegate anche per la 5G. Da ricordare che in Italia, come in altri paesi europei, verranno impiegate le bande a 700 Mhz, a 3.700 MHz e 26 GHz. Proprio quest'ultima andrà gestita con maggiore cautela. "Sappiamo che parti della comunità sono preoccupate per la sicurezza del 5G e speriamo che le linee guida aggiornate aiutino le persone a sentirsi a proprio agio", ha aggiunto van Rongen. "Le linee guida sono state sviluppate dopo un'attenta revisione di tutta la letteratura scientifica, seminari e un ampio processo di consultazione pubblica. Le linee guida forniscono protezione  contro tutti gli effetti negativi sulla salute scientificamente provati dovuti all'esposizione a campi elettromagnetici nell'intervallo tra 100 kHz e 300 GHz". 

Poche novità, ma un occhio di riguardo per le alte frequenze. Nello specifico le principali novità riguardano l'inclusione di restrizioni per l'esposizione di tutto il corpo, di parti del corpo per meno di 6 minuti e di quella massima consentita su piccole porzioni del corpo. Si parla insomma di soglie minime da rispettare, che secondo gli esperti sono già soddisfatte dalle grandi antenne radio. Bisognerà invece assicurarsi che gli smartphone 5G – o altri dispositivi - compatibili con le frequenze superiori ai 6 GHz rispettino alcune indicazioni. Massimo rigore per l'esposizione di tutto il corpo e per piccole aree in caso di alta intensità di segnale. Da ricordare che i 26 GHz non hanno un grande raggio d'azione ma si caratterizzano per le alte prestazioni, la bassa latenza e una ridotta capacità di penetrazione delle mura. Uno scenario ideale di impiego potrebbe essere quello di uno stadio oppure una via del centro molto frequentata. GSMA, l'organizzazione mondiale che rappresenta le aziende della telefonia mobile, ha fatto sapere che gli smartphone 5G attualmente in commercio rientrano già nei limiti dei nuovi standard poiché l'industria ha giocato d'anticipo nella progettazione. "Venti anni di ricerca dovrebbero rassicurare le persone che non ci sono rischi per la salute dovuti ai loro dispositivi mobili o antenne 5G", ha confermato alla BBC il direttore generale dell'ICNIRP John Giusti. 

Conferme anche dall'Italia. L'anno scorso in diverse città italiane, fra cui Bologna e Torino, diversi comitati cittadini hanno sollevato perplessità sulla sicurezza della tecnologia 5G. Un legittimo timore che per ora non ha trovato adeguato riscontro scientifico. Lo stesso Istituto superiore della sanità a marzo 2019, in audizione alla Camera, ha assicurato che le antenne 5G e le relative emissioni che rispettano le linee guida internazionali (Iarc e Oms) non generano rischi per la salute.  Anche il discusso studio dell'Istituto Ramazzini (onlus) e quello del National Toxicology Program statunitense, che si sono concentrati sull'esposizione di ratti a frequenze 2G e 3G, sono stati ridimensionati dalla comunità scientifica per le potenze assorbite in gioco, nettamente superiori rispetto a quelle di un cellulare. Un'esposizione massiccia e prolungata a onde elettromagnetiche può essere dannosa, ma è proprio per questo motivo che esistono da decenni linee guida da rispettare. E l'ultima dell'ICNIRP prosegue nel solco di questa cautela.